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Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 12 maggio 2014
Azione 20 ping -86 M shop ne 49-67 / 69 i alle pag
Società e Territorio In Mountain Bike attraverso l’intera regione del San Gottardo: il sogno dell’associazione BlenioBike
Ambiente e Benessere Visita a una casa per anziani: genere di struttura che diverrà sempre più essenziale con il crescente invecchiamento della popolazione
Politica e Economia La crisi ucraina ridisegna la geopolitica russa in Cina
Cultura e Spettacoli A Mendrisio una celebrazione dei Santi che accompagnano la gente nella vita di tutti i giorni
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Lotta all’evasione, treno inarrestabile
Steve Jobs angelo decaduto
di Peter Schiesser
di Federico Rampini
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Keystone
La lista degli Stati che si impegnano a introdurre lo scambio automatico di informazioni finanziarie a scopo fiscale (AIA) si allunga. Nella sua riunione ministeriale del 6 maggio a Parigi, l’OCSE se n’è rallegrata, in particolare per l’adesione di 13 Paesi che non fanno parte dell’organizzazione, quali la Cina (compresa Hong Kong, a quanto scrive la «Neue Zürcher Zeitung»), l’India, il Messico. In una Dichiarazione, i ministri di 47 Stati (più l’UE), Svizzera compresa, hanno ribadito la piena convinzione e la ferma intenzione di creare nel mondo le condizioni per un’equità fiscale attraverso una lotta all’evasione fiscale. Un esempio in più di come si è definitivamente passati dai «decenni di connivenza, alla global war» contro l’evasione fiscale, per prendere in prestito un concetto espresso dal professore di diritto ed ex magistrato Paolo Bernasconi nel libro pubblicato all’inizio del 2013 (Avvocato, dove vado?). E si procede velocemente: nel corso dell’estate saranno maturi per la firma gli accordi formali, in settembre vedrà la luce il manuale per l’implementazione pratica dello «scambio automatico». Come scritto dall’OCSE nel suo comunicato sulla riunione ministeriale «lo scambio automatico delle informazioni fiscali sotterra il segreto bancario» e il consigliere federale Johann Schneider-Ammann ha dovuto giocoforza annuire. Ma sarebbe più corretto dire che si svuota come strumento principe per l’evasione fiscale (di cittadini stranieri), poiché esiste tuttora nel codice penale svizzero e una sua violazione viene perseguita. Fa ancora «notizia» un’affermazione sulla «morte» del segreto bancario dopo tutto quanto è avvenuto dal 2008, ossia da quando negli Stati Uniti sono partiti gli attacchi contro UBS dapprima e poi CS e altre 13 banche in seguito, rispettivamente dal 13 marzo 2009, quando il Consiglio federale annunciò di voler conformare il diritto svizzero agli standard minimi dell’OCSE? In fondo, la stessa piazza bancaria elvetica ha da tempo capito che occorreva mutar rotta e oggi sbandiera l’intenzione di accettare solo capitali puliti (anticipando in questo la «strategia del denaro pulito» del Governo federale, formalmente non ancora concretizzata). Essendo cambiate le autorità fiscali, oggi determinate alla guerra globale contro l’evasione, le banche hanno capito che dovevano cambiare anche loro. La vicenda della Banca Wegelin è stata una lezione di umiltà: l’iniziale spocchia a non volersi piegare alla giustizia americana è sfociata nella morte della banca). Logico quindi che il Consiglio federale, dopo un’iniziale ritrosia, abbia optato per una partecipazione attiva all’elaborazione degli standard dell’OCSE sullo scambio automatico, ottenendo così che venissero introdotti quegli elementi cari a Berna e alla piazza finanziaria svizzera: reciprocità nello scambio d’informazioni, l’applicazione del principio anche per i trust, l’utilizzo dei dati solo per scopi fiscali, la protezione dei dati. E non fa neppure più molto «notizia» la puntuale levata di scudi, condita con accuse di debolezza all’indirizzo del Consiglio federale, che proviene dagli ambienti che difendono ad oltranza un segreto bancario assoluto ogni qual volta la via verso lo scambio automatico si arricchisce di una nuova tappa. Ecco quindi che, infastiditi dal fatto che il Consiglio federale si sta adattando all’accelerazione impressa dall’OCSE al processo che porterà allo scambio di informazioni, si mette in dubbio che gli altri Stati firmatari saranno davvero così diligenti come la Svizzera. Giustamente si ricorda che negli USA vi sono Stati ben poco propensi a rinunciare al proprio segreto bancario, ma è perlomeno prematuro affermare perentoriamente che gli americani non si adatteranno mai agli standard OCSE. Certo, l’implementazione è un processo delicato, poi serviranno i controlli – anni di lavoro. L’OCSE dispone però di un organo di sorveglianza efficace: nella Dichiarazione si riconosce espressamente «l’enorme progresso raggiunto dal Global Forum nell’assicurare che gli standard internazionali di trasparenza e scambio di informazioni su richiesta siano pienamente implementati nel mondo». In realtà, gli ambienti che criticano il Consiglio federale per piegarsi alle pressioni, mostrano a loro volta una grande debolezza: non hanno fin qui avanzato una strategia alternativa praticabile. Una strategia che metta le banche svizzere che hanno aiutato cittadini statunitensi ad eludere il fisco al riparo dalle misure di ritorsione americane ed eviti al contempo che riprenda il commercio di CD con dati bancari trafugati, pagati a peso d’oro negli anni scorsi dalle autorità fiscali tedesche. A dire il vero, visto che le banche hanno mutato strategia, non si capisce più bene chi rappresentino, queste voci critiche.
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Attualità Migros
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omenica 18 maggio si vota anche sull’iniziativa lanciata dall’Unione sindacale svizzera «Per la protezione di salari equi». L’introduzione di un salario minimo di 4000 franchi mensili (22 franchi l’ora) divide gli animi. Pur lodevole nei suoi intenti, di voler combattere la povertà e il dumping salariale, l’iniziativa popolare viene criticata da più parti per l’impatto che avrebbe sull’economia nazionale e su numerosi singoli settori (per maggiori dettagli, rimandiamo ad «Azione» del 5 maggio). Uno di questi è senza dubbio quello agricolo. «Azione» ha interpellato alcuni dei fornitori di Migros Ticino, per capire qual è la posta in gioco per il settore agricolo. 1. Paolo Bassetti, Direttore FOFT
(Federazione orto-frutticola ticinese) Quale importanza ha il settore ortofrutticolo nell’economia cantonale?
Stimiamo che il fatturato risultante dalla produzione orticola ticinese negli ultimi anni superi i 38 milioni di franchi. Quale ulteriore indotto diretto va aggiunto il valore risultante dalle successive rivendite fino al consumatore finale. Le aziende orticole ticinesi danno lavoro (proprietario, famigliari, impiegati) a ca. 500 persone. Per una valutazione globale, a questi posti di lavoro andrebbero aggiunti gli innumerevoli posti di lavoro nella logistica (trasporto e distribuzione) e nel commercio o rivendita che sono direttamente collegati alla valorizzazione del prodotto locale. Per poter stare al passo con i tempi e rimanere concorrenziali sul mercato le aziende orticole sono spesso confrontate con importanti investimenti in strutture e mezzi di produzione. Questo genera ulteriore indotto per artigiani e ditte ticinesi.
Salario di 4000 franchi? L’agricoltura patirebbe Votazione federale Il parere di alcuni fornitori di Migros Ticino e arrivando fino al rivenditore. Si tratta di una catena di valore aggiunto molto legata al territorio: storicamente, proprio per la conformazione del territorio, il Ticino è da sempre dedito alla produzione di foraggio e quindi all’allevamento di capi animali. L’iniziativa popolare tocca tutti gli attori della catena carne: allevatori, macellai, dettaglianti. La posta in gioco non è quindi trascurabile, essendo il settore della produzione animale decisivo per l’economia agricola cantonale. La realtà ticinese è molto diversa da quella della Svizzera tedesca o francese. Da sempre noi ticinesi difendiamo la 1
zione di latte e lavorati è sicuramente relativo rispetto ad altri settori della nostra economia. Il settore cerca in questi ultimi anni di uscire dal concetto tradizionale di piccola azienda familiare per trasformarsi in aziende medie non da ultimo grazie anche all’aiuto dell’ente pubblico. Anche nella lavorazione dei prodotti derivati dal latte i dati sono sicuramente di importanza relativa ed il cantone ha un bilancio commerciale molto negativo. Altro discorso assume al contrario la qualità dei nostri prodotti che vengono anche esportati ma che sono e rimangono prodotti di nicchia. 2
a 22 franchi all’ora. Infine, ritengo che questa iniziativa avrebbe una valenza molto relativa per non dire insignificante nel contesto cantonale. 4. Luigi Fontana
Direttore Mulino Maroggia Quale importanza ha il settore della produzione di cereali e lavorati nell’economia cantonale?
Quale importante produttore di farine panificabili e semolini di grano duro del cantone, il Mulino Maroggia garantisce l’approvvigionamento alle panetterie artigianali e industriali del 3
6. Ulrico Feitknecht
Masseria Ramello Contone, Produzione latte e lavorati, carne Quale importanza ha il settore della produzione di latte e casearia nell’economia cantonale?
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Quali sarebbero secondo lei le conseguenze per il suo settore se l’iniziativa venisse accolta?
Quale responsabile della cooperativa FOFT che si impegna a commercializzare il prodotto orticolo ticinese sottolineerei in particolare la forte destabilizzazione del valore della produzione primaria. L’accresciuta concorrenza ha portato a una generale riduzione dei prezzi dei prodotti orticoli negli ultimi anni. Ciò, malgrado i mezzi di produzione e i costi della manodopera siano per lo più aumentati. Il settore primario si trova in una fase estremamente critica in cui spesso il valore di mercato dei prodotti non copre più i costi di produzione. In parecchi si chiedono fino a quando è possibile sopravvivere in queste condizioni. L’introduzione di un salario minimo al livello proposto farebbe rincarare i costi della manodopera di almeno il 25%. Un intervento così unilaterale sarebbe un colpo mortale per larga parte della realtà agricola del nostro cantone. Per capire bene il contesto va ricordato che a differenza di altri settori economici in agricoltura vige già da anni la regola del salario minimo. Per il 2014 gli enti preposti hanno concordato un salario minimo di 3’200 franchi. Inoltre i prodotti orticoli non beneficiano di pagamenti diretti da parte dello Stato. Tutti vogliamo un salario che permetta ad ognuno uno standard di vita dignitoso. Ciò non lo si raggiunge con imposizioni unilaterali, bensì con un agire corretto e coerente da parte di tutti. Se tutti noi riconosciamo reciprocamente il giusto valore di un prodotto, di un servizio o lavoro, del prodotto svizzero o ticinese, di un prodotto coltivato o elaborato nel rispetto delle leggi e degli standard sociali, creiamo le basi per una sana conduzione e per un sano sviluppo delle nostre aziende, con salari dignitosi per tutti.
Quale importanza ha il settore della lavorazione della carne nell’economia cantonale?
Il settore riveste una importanza considerevole. L’indotto creato parte infatti dall’allevatore, passando dal macello
Il settore latte - latticini e formaggi occupa un notevole rango nell’agroalimentare ticinese, oltre ai tradizionali prodotti apprezzati sia dalla popolazione locale che dai turisti, svolge ruoli meno apparenti ma altrettanto importanti. Infatti un cantone vieppiù urbanizzato, che vuole profilarsi nel terziario avanzato, necessita di vasti «polmoni verdi», proprio in questo ambito l’agricoltura svolge un contributo fondamentale. Quali sarebbero secondo lei le conseguenze per il suo settore se l’iniziativa venisse accolta?
nostra identità e le nostre differenze. Il Ticino è diverso dal resto della Svizzera sui salari, sui costi della vita, sul mercato del lavoro, sul numero di giovani senza lavoro, sul problema dei frontalieri, ecc.
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Quali sarebbero secondo lei le conseguenze per il suo settore se l’iniziativa venisse accolta?
La Rapelli è con orgoglio uno dei fornitori del programma dei Nostrani del Ticino di Migros Ticino. Da sempre la nostra realtà produttiva è fortemente legata al territorio ticinese. Sovente in Svizzera tedesca la Rapelli è presa ad emblema del nostro bel Ticino. Crediamo quindi di capire le particolarità e le differenze di questo angolo di Svizzera. Questo salario minimo, troppo alto per essere minimo, è controproducente per il Ticino e la sua realtà. Eccone in sintesi i motivi: Salario di entrata alto: difficoltà di entrata per personale non qualificato. Salario minimo alto: maggiore pressione da parte dell’azienda sui profili personali più deboli. Maggiore attrazione di manodopera frontaliera (l’Italia non ha un minimo salariale). Maggiore pressione sulle piccole ditte artigianali. Maggiori costi di produzione e quindi minor possibilità di entrare in nuovi mercati. I maggiori costi di produzione si traducono in rincaro delle materie.
2. Glauco Martinetti
CEO Rapelli
aumento dei costi produzione, in quanto nel nostro settore il fabbisogno di manodopera è molto alto. Questo porterebbe ad un aumento dei prezzi di vendita delle nostre verdure che, vista la forte concorrenza alla quale già oggi siamo sottoposti, non si riuscirà a praticare, come non si riuscirà ad evitare che i nostri clienti (consumatori) si rechino sempre di più in Italia a fare la spesa. Le conseguenze sarebbero catastrofiche: una diminuzione delle vendite, rispettivamente meno lavoro per i dettaglianti, una diminuzione dei prezzi alla produzione fino all’abbandono delle nostre attività. Nel migliore degli scenari, se riuscissimo a mantenere i prezzi ed il mercato, automaticamente assisteremmo all’aumento della spesa per ogni consumatore, cosa chiaramente poco gradita da ognuno. Un altro aspetto problematico è che qualsiasi dipendente assunto anche senza formazione riceverebbe una paga minima che, se confrontata con chi ha una formazione, non è equa, e favorirebbe quindi la non formazione. Ciò porterebbe ad una perdita qualitativa del nostro lavoro. Sono dell’avviso che vi siano altri mezzi più efficaci ed equi per migliorare la situazione finanziaria di questa categoria di impiegati.
3. Ari Lombardi
Proprietario Agroval (Produzione latte e lavorati) Quale importanza ha il settore della produzione di latte e lavorati nell’economia cantonale?
L’importanza del settore della produ-
Ticino, così come all’unico mangimificio del cantone, la FELA Ticino. Tutto questo grazie alla volontà di continuare la tradizione ormai centenaria dei mugnai, investendo continuamente in nuovi e più performanti macchinari, e garantendo il ritiro del frumento panificabile coltivato in Ticino, prodotto da una ventina di agricoltori. Quali sarebbero secondo lei le conseguenze per il suo settore se l’iniziativa venisse accolta?
Quali sarebbero secondo lei le conseguenze per il suo settore se l’iniziativa venisse accolta?
Gli intenti perseguiti dagli iniziativisti sono sicuramente meritevoli di attento esame. Molte sono le considerazioni che ci potrebbero portare a votare sì il 18 maggio, anche solo per augurare ad ognuno una vita migliore. Analizzando più a fondo, ritengo però che questa iniziativa per il nostro settore potrebbe essere estremamente negativa, se non fatale. L’aumento del costo-lavoro si avvicinerebbe al 40%, con conseguenze facilmente comprensibili. I prodotti non riuscirebbero più a competere con la concorrenza internazionale ed a medio-lungo termine questo coinciderebbe con la scomparsa delle piccole e medie aziende a conduzione familiare. Come esempio basti ricordare che il salario orario nella vicina Germania è oggi di 8 franchi all’ora mentre da noi risulta essere di 13.40 all’ora. I 4000 franchi di salario minimo garantito porterebbero il costo della manodopera
Da imprenditore ma anche da genitore di due figli che si affacciano al mondo professionale, vedo grossi problemi per i giovani a trovare il primo impiego, dato che, se passasse l’iniziativa, il datore di lavoro avrebbe tutto l’interesse ad assumere personale con una certa esperienza, visto l’elevato salario, lasciando i giovani con grosse difficoltà nella ricerca del lavoro. Già oggi il divario dei salari tra il Ticino e l’Italia è sproporzionato e ci crea tutte le problematiche conosciute, soprattutto per i lavori meno specializzati. Imponendo salari minimi di 4000 franchi si accentuerebbe il problema facendo confluire ancor più personale qualificato dall’estero a scapito di personale non o poco formato domiciliato in Svizzera. 5. Marco Bassi
Orticoltore Presidente FOFT Quali sarebbero secondo lei le conseguenze per il suo settore se l’iniziativa venisse accolta?
La conseguenza maggiore e di riflesso la più grave se dovesse passare l’iniziativa è che vi sarebbe un importante
Una diminuzione della produzione locale in settori con poca possibilità di meccanizzazione, compensato con importazioni da regioni con costi del personale molto più bassi, assolutamente inferiori a quelle vigenti in Svizzera. Invece di formaggi d’alpe e robiole mature mangeremo quelli Gouda olandesi, un poco diversi! 7. Davide Mitolo
Pastificio artigianale L’Oste Cucina Mediterranea Quale importanza ha l’industria alimentare nell’economia cantonale?
Sono convinto che quanto prodotto in Ticino da piccole aziende come la nostra di produzione alimentare e da altri piccoli produttori sia di vitale importanza, non solo in un momento di crisi economica, ma soprattutto perché il mondo volge verso un’alimentazione più sana, con un impatto ambientale ridotto e una notevole attenzione all’ambiente. Quindi una produzione alimentare in loco, che evita sprechi ed inutili danni ambientali, è sicuramente vincente. L’impegno di Migros Ticino in questi anni è stato notevole, dando fiducia a piccoli produttori e coltivatori, nel creare un indotto che vede la sua crescita costante negli anni. Tutto ciò grazie agli sforzi da ambedue le parti ad accontentarsi di margini più ridotti, per immettere sul mercato un prodotto di tutto rispetto per la salute delle persone e del nostro pianeta. Quali sarebbero secondo lei le conseguenze per il suo settore se l’iniziativa venisse accolta?
Portare i salari ad un minimo di 4’000 franchi significherebbe aumentare i prezzi dei prodotti finali, equivarrebbe quindi a chiudere quella valvola di ossigeno che tiene in vita le piccole-medie imprese, creando un notevole scompenso e danno alla micro-imprenditorialità del cantone.
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Società e Territorio Al Centro per richiedenti l’asilo di Chiasso Incontro con il direttore Antonio Simona e con Luca Baranzini responsabile dell’assistenza
La Corea del Sud è una cyber-nazione Il Paese asiatico ha abbracciato lo stile di vita digitale e l’industria del videogame ha un grande peso nell’economia e nell’immaginario nazionale
Un manuale dalla parte degli studenti Matteo Rampin e Farida Monduzzi insegnano trucchi e astuzie per non farsi bocciare pagina 11
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Itinerari alpini su due ruote Mountain Bike Dalla Valle di Blenio
all’intera Regione del San Gottardo: il sogno dell’associazione BlenioBike
Mara Zanetti Maestrani Tutti i progetti, grandi o piccoli che siano, nascono da un sogno, una scintilla, un’idea. O un’intuizione. Un’intuizione che all’inizio può apparire utopica, come quella di collegare i quattro cantoni attorno al massiccio del San Gottardo con itinerari da percorrere in Mountain Bike (MTB). Nel 2008 tre appassionati di Mountain Bike, il bleniese Alcide Barberis e gli amici svizzero tedeschi Adrian Herzog e Ernst Hafen, hanno condiviso su Internet la loro visione, ossia che nel 2020, la Valle di Blenio «che allora sarà integrata nella Regione San Gottardo, diventerà una delle destinazioni per Mountain Bike più richieste da famiglie, gruppi e singoli turisti. Come i bambini e gli adulti frequentano in inverno le Scuole di sci al Nara, a Campra e a Campo Blenio, così in estate frequenteranno la Scuola di Mountain Bike e si divertiranno al Bikepark del Nara scendendo su sentieri di varie difficoltà». Quella visione lanciata su Internet ha raccolto da allora molti consensi. E, nella realtà, questo progetto sta evolvendo nella direzione sognata, sostenuto da una solida certezza: gli appassionati di Mountain Bike in Svizzera e in tutta Europa stanno costantemente aumentando. Basti pensare che, nel 2012, più del 50% delle biciclette vendute in Svizzera erano delle Mountain Bikes. Inoltre, dalle statistiche riguardanti il vasto comprensorio Svizzera-AustriaGermania, risulta che ci sono molti più bikers (13 milioni), che non sciatori (4 milioni). Cifre che bastano per far riflettere i gestori delle stazioni invernali sul potenziale estivo dei loro impianti. I percorsi ideati per MTB in regioni stupende, con panorami mozzafiato, come lo sono ad esempio le Cinque Terre, attirano ogni anno migliaia e migliaia di ciclisti. «E le regioni belle ed affascinanti, intatte e immerse nella natura le abbiamo anche da noi, in Valle di Blenio», ci dice Alcide Barberis che, nel frattempo, grazie ad un gruppo di appassionati ha fondato nel 2012
Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
a Dongio BlenioBike, un’associazione il cui scopo è quello di incentivare lo sviluppo e la pratica di questo sport, anche attraverso corsi specifici. «Ma non solo – precisa Barberis –, attraverso BlenioBike vogliamo portare gli appassionati di questo turismo lento e rispettoso a conoscere angoli e regioni particolari della nostra Valle e in generale, della Regione del San Gottardo». Una forma di turismo ecologico, dunque, che tocca lungo sentieri e itinerari già esistenti o in parte da realizzare, anche capanne alpine, ristoranti ed ostelli, creando quindi degli indotti diretti. «Non dimentichiamo che chi pratica oggi la Mountain Bike è, in media, una persona adulta, tra i 35 e i 40 anni, amante sia della natura che della buona cucina, del benessere e della cultura», aggiunge Barberis. A soli due anni dalla fondazione, BlenioBike e il suo sito www. bleniobike.ch annovera già quasi 500 iscritti, da tutta Europa. Anche i ristoranti, le capanne e gli hotel della Valle devono essere coinvolti nel progetto, fornendo ai bikers dei «pacchetti d’offerte» particolari o mettendo loro a disposizione dei locali e dei servizi tecnici per eventuali piccole riparazioni della bici. Così «recitava» la visione, e così sta diventando a tutti gli effetti nella realtà: sono infatti tre in Valle di Blenio i Bed&Breakfast (a Olivone, a Corzoneso e a Malvaglia) che sono ora convenzionati con BlenioBike, due sono invece, finora, i Bike Shop che aderiscono all’iniziativa, uno a Olivone e uno a Biasca. «Il potenziale di sviluppo è enorme – ci conferma Darco Cazin di Allegra Tourismus, nei Grigioni – la Regione del Gottardo è spettacolare. Sistemando adeguatamente una rete di itinerari, si potrà andare da una vallata all’altra: è un progetto che attira molti interessi anche dalle nazioni vicine». Della validità del progetto è convinto anche l’Ente Regionale per lo sviluppo del Bellinzonese e Valli, che è stato coinvolto da BlenioBike, e che ha avviato uno studio di fattibilità conferendo il mandato proprio all’Allegra Tourismus GmbH. Lo studio, che dovrebbe esse-
re concluso ancora prima dell’estate, avviene in accordo anche con quattro enti turistici: Bellinzona, Blenio, Leventina e Biasca, con Ticino Turismo, con il Cantone e con il Programma San Gottardo 2020. Uno dei primi obiettivi vuole essere quello di creare un modello finanziario sostenibile e di presentare almeno due esempi concreti di possibili tracciati per MTB da proporre a Svizzera Mobile. Tra le collaborazioni e i partners dell’associazione BlenioBike figurano anche le Ferrovie federali svizzere (FFS) e il nuovo Centro Pro Natura di Acquacalda. Intanto il sito www.bleniobike.ch, dove si trovano pure le proposte di alloggio e le informazioni sui trasporti pubblici, offre già delle informazioni aggiornate sui due
Bikepark finora realizzati in Valle di Blenio: la pista freeride e downhill denominata Black Wood Line al Nara e il Percorso Abilità nella Pineta di Campo Blenio. E allo studio ci sono altri tracciati: al Nara Bikepark si sta infatti valutando la possibilità di creare una pista downhill che scende in verticale da Cancorì a Leontica, un flow trail divertente in zona Lagunc, e un enduro trail che scende dalla Cambra a Pianezza. Se il tutto dovesse andare davvero in porto, il Nara diventerebbe il primo vero e proprio Bike Resort in Valle di Blenio. Ma il vero fiore all’occhiello del sito www.bleniobike.ch sono gli itinerari proposti e descritti (attualmente una ventina quelli in rete) con precise indicazioni relative alla lunghezza, ai tempi
di percorrenza, ai dislivelli, alle difficoltà tecniche e quindi all’impegno fisico richiesto. Gli iscritti al sito possono anche scaricare direttamente le cartine dettagliate e i percorsi in formato GPS. Un servizio, questo, molto apprezzato. A conferma del forte sviluppo di questa disciplina, c’è l’organizzazione di un Congresso proprio sulle Mountain Bikes i prossimi 2 e 3 ottobre a Coira. È la seconda volta che ha luogo questo incontro internazionale che presenterà tematiche attuali e progetti in corso in varie località. Lo scopo è quello di rafforzare la presenza di questa disciplina nel settore turistico e di promuoverne lo sviluppo nelle regioni alpine (www. ridekongress.ch). Il sogno sta a tutti gli effetti diventando realtà.
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La pista downhill al Nara, dove si stanno studiando altri tracciati per un futuro Bike Resort. (Ti-Press )
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Società e Territorio
Quel palazzo azzurro in via Motta Chiasso Visita al Centro di Registrazione per richiedenti l’asilo insieme al direttore Antonio Simona
e a Luca Baranzini, responsabile dell’Assistenza Ors: «La fortuna del nostro mestiere è che vediamo il mondo passare da Chiasso»
Antonio Simona, direttore del Centro di Registrazione per richiedenti l’asilo. (Stefano Spinelli)
Sara Rossi Sorpresa. Esco dall’edificio dove si trovano gli alloggi dei rifugiati a Chiasso con un senso di leggerezza. Si può accogliere, si può andare avanti, si può avere fiducia. Questa mattina, prima di andare a parlare con chi vi lavora, avrei descritto il loro mestiere con parole di fatica. Avessi dovuto parlare del Centro di Registrazione, avrei usato termini quali «paura», «prigione», «dolore», pur non essendovi mai entrata. Un edificio di un bel colore blu verde, simile a una scuola o a uno stabile con degli uffici, come li costruivano negli anni Sessanta, ma recintato come un carcere. Sono entrata nel Centro come ci si appresta a guardare un film su una guerra civile, con la smorfia empatica di quando al telegiornale raccontano di una disgrazia. Questa sera ne esco meravigliata. Ho conosciuto il direttore, Antonio Simona e Luca Baranzini, direttore dell’Assistenza Ors, la ditta che ha ricevuto il mandato dalla Confederazione per occuparsi dell’assistenza ai richiedenti; ho chiacchierato con alcuni collaboratori; e ho trovato un ambiente vigoroso, vigile e disteso insieme. Ho visto una casa. Desideravo capire che tipo di mestiere è dirigere un Centro per Rifugiati e prendendo appuntamento con il direttore non avevo pensato di poter guardare io stessa qualche ora della vita che si svolge lì dentro. Antonio Simona saluta tutti con grande cordialità, ha la risata pronta e la sigaretta sempre in bocca. Stringe le mani con calore, quelle dei sorveglianti, dei colleghi, di chiunque si rivolge a lui. Mi mostra lo sportello dove arrivano i richiedenti l’asilo, per la maggior parte che viaggiavano in treno e portati lì dalle guardie di confine per la registrazione. Simona chiede: quanti ne sono arrivati oggi? Tre, gli dicono: uno dall’Egitto, uno dal Marocco, un altro dall’Eritrea. Nelle ultime settimane ne arrivano moltissimi dall’Eritrea, mi spiegano, soli o in famiglia. Bisogna adattare tante cose a seconda dell’utenza. Nell’atrio
c’è via vai: il cancello e la porta non sono sprangati, si aprono per lasciare entrare e uscire gli ospiti che in questo orario possono muoversi liberamente, muniti di apposito documento di riconoscimento. Entriamo nel cuore dell’edificio, dove c’è la cucina e alcune sale per le attività. Attività? Certo, mi spiegano i collaboratori dell’assistenza: per chi non sta facendo il volontariato sono organizzate attività come giochi, merenda, tombola, partite di scacchi, pittura delle pareti, pomeriggi in cui le donne si scambiano servizi di manicure, coiffure, maquillage... Oggi una collaboratrice sta preparando una torta di mele con un ragazzino africano molto giovane, che la aiuta tutto concentrato. Volontariato? Usciamo: all’esterno c’è chi gioca a ping pong, chi chiacchiera; il direttore fuma e mi racconta. Cinquecentoquindici giornate di volontariato nel mese di aprile significa che i richiedenti l’asilo sono andati a fare lavori di pubblica utilità 515 volte. È un fiore all’occhiello per Chiasso, perché, sebbene ora sia inserito nel regolamento dei Centri per Rifugiati, qui si era già cominciato otto anni fa ad organizzare questo tipo di occupazione. «Quel palazzo azzurro in via Motta non è quello
che sembra», scherzano Antonio Simona e un paio di collaboratori, ridendo perché Quel palazzo azzurro in via Motta suona proprio bene, come un incipit di romanzo, come Una notte d’inverno un viaggiatore, a voler tirare in ballo Italo Calvino.
I richiedenti l’asilo svolgono lavori di pubblica utilità come volontari, inoltre all’interno del Centro sono organizzate diverse attività Queste attività hanno cambiato di molto l’aspetto delle giornate al Centro e l’ambiente che vi abita: le persone, quando hanno un’occupazione, si calmano moltissimo, spiega Simona, sottolineando che i compiti sono organizzati in modo che non creino nessuna rivalità con il mercato del lavoro, che siano di pubblica utilità, talvolta in città, talvolta sui sentieri o nelle manifestazioni ricreative dove ci sono palchi
Nelle ultime settimane molti richiedenti arrivano dall’Eritrea. (Stefano Spinelli)
da montare e smontare e così via. Questo è benefico per i rapporti tra le persone che risiedono nel Centro e per la loro reputazione all’esterno. Quando andiamo a parlare in modo più intimo del loro mestiere, Antonio Simona e Luca Baranzini mi portano in cucina; la signora con il suo piccolo aiutante escono per discrezione e la torta deve aspettare. Il direttore spiega che ci sono varie cose importanti, nel loro ruolo, come la prontezza a reagire in situazioni che mutano velocemente (per esempio l’arrivo inaspettato di centinaia di persone), la flessibilità, la capacità di comunicare anche senza una lingua in comune, la responsabilità di scegliere bene i collaboratori che avranno a che fare con gli utenti, la pazienza. E molto, molto altro. Ma assolutamente non può mancare un po’ di cinismo, di ironia, di quel distacco dalle cose che ti fa capire subito quello che è importante e quello che non lo è; e, in fondo, di cose fondamentali ce ne sono solo tre: l’ambulanza, i pompieri e la polizia; tutto il resto può aspettare. Questo mi dicono Simona e Baranzini. «Nel mio mestiere ho imparato che l’essere umano è molto diverso preso singolarmente o nella massa ed è quan-
Ci si scambiano servizi. (Stefano Spinelli)
do è in gruppo che può diventare un problema – spiega il direttore –, ma ho anche capito che dietro ogni problema ci può essere un’opportunità e così abbiamo trasformato la presenza dei richiedenti l’asilo da una percezione di insicurezza in un aiuto per la città». Anche il chiosco all’interno del Centro ha migliorato di molto il problema dell’alcol. La prossima sfida del direttore è quella di portare a termine il problema degli alloggi per i richiedenti l’asilo in Ticino. Chiedo delle malattie: il problema sanitario riguarda solo i singoli, non la collettività; chi arriva è immediatamente sottoposto a un controllo medico approfondito (cosa che invece non avviene per gli svizzeri che vanno e vengono dall’estero), quindi chi è portatore di malattie come la Tbc non potrà andarsene a spasso infettando chi lo incontra. Spesso quando si discute di richiedenti l’asilo si parla solo dei problemi che gli girano intorno. Simona racconta però che ha visto anche storie di successo, come quella di un bambino arrivato dall’Iran molti anni fa e che oggi sta compiendo un apprendistato. «Un alpinista che ammiro molto ha detto che lui scala le montagne perché queste esistono: per noi è lo stesso», aggiunge Baranzini, responsabile del team Ors che si occupa dell’assistenza ai richiedenti (in Via Motta e a Biasca). «Noi lavoriamo con gli asilanti perché ci sono... La fortuna del nostro mestiere è che viaggiamo sul posto, vediamo il mondo passare da Chiasso, pur stando fermi. Lo straniero che arriva qui è un rappresentante del mondo, molto più di quanto non lo siamo noi. Noi che abbiamo l’iPhone e andiamo in vacanza quattro settimane l’anno siamo l’eccezione. Dobbiamo fare un passo indietro, perché ci sono più persone che vivono senza acqua potabile, che si adeguano a situazioni per noi neanche immaginabili, che gente come noi. A volte mi domandano: ma perché vengono qui gli stranieri? Avere 20 anni a Tunisi è già una ragione. Noi giochiamo al lotto e anche loro lo fanno, come possono».
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Società e Territorio
Una scintillante cyber-nazione Corea del Sud Gioiello d’Oriente e polo
mondiale dell’hi-tech, la nazione asiatica ha abbracciato lo stile di vita digitale più di qualsiasi altro Paese al mondo
Filippo Zanoli Il palazzetto dello sport di Seoul è colmo all’inverosimile, la tensione è palpabile. All’improvviso le luci si accendono, esplodono i fuochi d’artificio. La folla è in visibilio mentre al centro dell’arena si avvicendano i campioni. Accompagnati da strepitose vedettes, ricoperti da divise ergonomiche che ricordano quelle della Formula 1 zeppe di sponsor. Sono personalità pubbliche, veri e propri vip, sposati o fidanzati con alcune fra le più famose bellezze dello showbiz. Il match di questa sera verrà trasmesso non solo online, ma anche sulla tv in chiaro con ascolti degni della migliore partita di Champions League. Eppure non si tratta di una gara automobilistica, né una partita di basket o pallavolo ma di uno scontro fra squadre del celebre videogioco per pc League of legends titolo popolarissimo nell’ambiente dell’eSport (sport digitale) che in Corea del Sud è una vera e propria realtà.
I videogame hanno un peso sostanziale nell’economia e nell’immaginario nazionale sudcoreano In molti, guardano alla nazione asiatica come ad uno dei punti di riferimento per il futuro ipertecnologico che ci aspetta. Un’idea, in questo senso, hanno contribuito a darcela anche i fratelli Wachowski con il loro Cloud Atlas, film che ritraeva, fra gli altri, uno scorcio di una Seoul futuristica distopica e dominata dall’industria hi-tech. E, già oggi, non siamo poi così lontani dalla fantascienza: gli onnipresenti marchi come Samsung e Lg affrontano ad armi (quasi) pari forse la più grande azienda occidentale: Apple. Non è quindi un caso che, anche i videogame abbiano un peso sostanziale nell’economia e nell’immaginario nazionale. La Corea del Sud non li consuma solo (e avidamente) ma anche li produce. Si stima che il 60% dell’export culturale della nazione sia videoludico. Un esempio su tutti, quella Nc Soft che, per più di un verso, ha insegnato agli occidentali a fare titoli online di successo. Ed è proprio la dimensione online, quella più competitiva, che ha fatto breccia nel cuore dei coreani. È stato l’oramai ve-
tusto Starcraft di Blizzard (datato 1998 ma ancora molto giocato), a far esplodere il fenomeno eSport che, sospinto dallo sponsoring dell’industria del digitale, è diventato un vero e proprio fenomeno di massa paragonabile allo sport professionistico di alto livello. I migliori cyberatleti possono sperare di entrare a far parte dei team più blasonati, conquistano le prime pagine dei tabloid diventando personalità pubbliche. I giovani giocatori particolarmente bravi, così come i più abili fra gli atleti «tradizionali» hanno maggiori probabilità di essere reclutati da Università di spicco in base ai loro meriti extracurricolari. Ma una tale, e totale, passione può essere veramente vissuta senza strascichi sociali? Il partito di maggioranza crede di no, e proprio il 2014 sarà un anno di riforme sostanziali che, per più di un verso, preoccupano l’industria autoctona. In Corea del Sud non è cosa nuova legiferare riguardo alle pratiche di consumo dei videogame: attualmente è già in vigore una rigida regolamentazione che vieta in maniera tassativa ai minori di 16 anni di giocare fra mezzanotte e le sei di mattina. Alcuni rappresentanti del partito di governo Saenuri si sono espressi nei confronti del videogiocare in maniera lapidaria: «causano dipendenza così come le droghe e l’alcool». Ci si aspetta, inoltre che il Ministero della salute avanzi proposte in questo senso proprio durante l’anno corrente. E nemmeno l’eSport è privo di lati oscuri. È recente il drammatico caso di Cheon Min-Ki, conosciuto con il nickname di Promise. Coinvolto in un oltraggioso scandalo-scommesse, in cui sarebbe stato spinto dal suo allenatore a perdere per una contropartita in denaro, il ragazzo si è gettato dalla finestra del suo appartamento perché «divorato dai sensi di colpa». E Promise, non era nemmeno uno dei pesci grossi, se la giocava ancora a ridosso dei riflettori che contano. Fortunatamente il «morbido» tetto di un centro del riciclaggio gli ha salvato la vita ed è stato ospedalizzato con urgenza, ma non in condizioni critiche. Unanime il sostegno del mondo videoludico e anche di Riot games, l’azienda videoludica ha infatti dichiarato di volersi occupare delle spese mediche del ragazzo. Se il nostro futuro sarà simile a quello della Corea del Sud, a priori non ci è dato saperlo. Possiamo comunque fare tesoro del suo percorso fra le inedite insidie di un mondo altamente digitalizzato.
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Società e Territorio
Sopravvivere alla scuola Pubblicazioni Matteo Rampin e Farida Monduzzi insegnano con ironia e arguzia come non farsi bocciare
in un manuale tutto dalla parte dello studente
Eliana Bernasconi Ormai nessuna famiglia spinge più la prole verso mestieri come il liutaio, il pasticcere o il meccanico, la scuola, si sa, è una condanna biblica cui non si sfugge. A partire da questo assunto il dottor Matteo Rampin, psichiatra e psicoterapeuta, consulente di atleti e manager nonché cultore di ipnotismo ha scritto con l’insegnante di scuole superiori Farida Monduzzi un manuale intitolato Come non farsi bocciare a scuola. Trucchi e astuzie per studenti, genitori e insegnanti (Salani editore). Sette capitoli insegnano allo studente come sopravvivere nell’arduo cammino scolastico irto di trappole, come e quando studiare (o non studiare), come comportarsi in aula, sfruttare le proprietà della mente, affrontare interrogazioni e verifiche, superare ansie da prestazione, sollevarsi da cadute.
45 minuti: è questa la durata ottimale di studio, poi meglio prendersi una pausa perché l’attenzione cala Matteo Rampin ha pubblicato in Italia e all’estero altri libri su questo tema, per esempio Come imparare a studiare. Compiti a casa e metodo di studio (ed. Salani). «Tra i miei pazienti – ci spiega – ho molti insegnanti perplessi, molti studenti disorganizzati e molti genitori preoccupati, alcuni approcci della didattica tradizionale (fare le aste, stare seduti e fermi) abituerebbero le giovani menti alla disciplina, all’attenzione, alla consapevolezza dello scorrere del tempo. Accade che spesso siano proprio i comportamenti messi in atto per uscire da un problema a impedirlo». «Se ad esempio un ragazzo non studia – prosegue Matteo Rampin – e i genitori continuano a organizzargli le giornate, può darsi sia proprio questo loro intervento a impedirgli di prendere in mano la vita e di crescere, magari incontrando qualche sconfitta. Aiuta anche mettersi nei panni degli altri, imparare che spesso quando ci troviamo in difficoltà o dentro un problema noi stessi ne siamo la concausa». Uno dei primi consigli del suo libro per non cacciarsi nei guai è evitare le scuole consigliate da «quella terribile genia di parenti che spingono i pargoli scodellati di fresco dalle scuole medie verso determinati istituti», pure
Capire e lavorare il più possibile in aula fa risparmiare fatica a casa. (Keystone)
sconsigliato iscriversi a una scuola con il nobile scopo di far compagnia a un amico, ne seguirebbero complicazioni. Da visionare il decalogo dello studente strategico, primo: non cercherai scorciatoie, la mente umana le cerca sempre (i neuroscienziati le chiamano mental economy) ma quando si tratta di imparare qualcosa, avverte l’autore, servono solo a danneggiare, quindi in aula e a casa evitare di architettarle per risparmiare energie. È inoltre fondamentale conoscere la regola dei 45, intesi come minuti, sono per chiunque la durata ottimale di un periodo di studio fruttifero, (tali periodi possono essere anche più di uno) ma per il resto del tempo vi obbligherete a... non studiare. Avete capito bene, l’importante è che, quando il tempo è scaduto, non si studia più, funziona! La curva dell’attenzione umana ha leggi ben precise, è impossibile mantenerla alta per più di tre quarti d’ora (anche i prof dovrebbero ricordarlo) insistere rimanendo attorcigliati sui libri fino a formare un blocco unico con la sedia è controproducente, conviene alzare fieramente il capo, come da ci-
tazione dantesca, chiudere di scatto il libro, uscire dalla stanza. È consigliata una connessione al mondo reale evitando perdite di tempo compulsando la tastiera del cellulare, dell’iPod, dell’iPad e di ogni altro marchingegno derivato dalla prima macchina pensante messa a punto da quel nobile genio di Alan Turing. Esercitarsi a scrivere qualsiasi cosa in ogni momento (cosa diversa dal digitare sms), provoca eventi importantissimi quando si è giovani e con un cervello in via di maturazione. Cercare poi di carpire il più possibile in aula per risparmiare fatica a casa: perché perdere l’occasione di diventare gli aguzzini dell’insegnante costringendolo a guadagnarsi fino all’ultimo centesimo del suo stipendio pretendendo che vi insegni finché non avrete capito perfettamente ogni sfumatura della materia? Ai rapporti con gli insegnanti è dedicato un capitolo importantissimo, la biologia molecolare oggi ha dimostrato che appartengono alla specie umana, perciò sappiate che il loro atteggiamento dipenderà in gran parte dal vostro.
Prendiamo ad esempio la logistica, è noto che chi siede nei primi banchi è guardato con meno sospetto di chi siede nei posti laterali, sono sicuri i centrali, anche considerando la necessità di tenere d’occhio il professore durante le verifiche. Si viene giudicati anche da sfumati segnali non verbali, invariabilmente nel cervello del prof. scatta l’equazione: alunno sdraiato = alunno smidollato, si consiglia quindi una postura eretta o semieretta. E fate domande, domandate e domandate ancora, accertatevi prima che la domanda non riguardi la materia dell’ora precedente, astenendovi però da questioni che esulino, del tipo «scusi signora, sa per caso chi ha vinto il derby?»: nella tecnica dell’alzata di mano la tempistica è cruciale, poche cose li fanno uscire dai gangheri quanto un’alzata fuori tempo. Studiare soli o a casa di compagni? Ognuno trovi il suo modo, è pur vero che alcuni hanno sorelle o fratelli interessanti. Il tema oscuro del ripasso è preso in esame, con quello della manutenzione dei libri e della sottolineatura: taluni passano l’evidenziatore sull’in-
re –, altri ancora realizzano vari tipi d’insalate o diverse torte. C’è chi invece si preoccupa di acquistare le bibite necessarie, chi di portare le musiche adatte, chi di addobbare la sala o chi, ancora, di prevedere una serie di giochi per animare la seconda parte della serata. Il tutto, devo dire, è impegnativo ma divertente. Ed ecco, infine, arrivato il gran giorno. I primi di noi sono già nel locale alle 18.00, per i preparativi, mentre l’essenziale della classe arriva alle 19.00, orario d’inizio previsto. Oltre al nostro docente di classe, ci sono anche il maestro di Matematica e quello di Educazione musicale. Ci fa molto piacere. Tutto sembra funzionare per il meglio, anche se ci accorgiamo che abbiamo previsto troppo pochi toast per accompagnare le carni. Allora corriamo in un negozio vicino a colmare la lacuna. Poi ci accorgiamo
che non riusciamo a far funzionare gli altoparlanti. Per fortuna, però, il docente di classe ha con sé le casse che quotidianamente collega al computer e al beamer per farci vedere dei video durante le lezioni. Funzionano anche qui e così il sottofondo musicale, che mi occupo di gestire io durante tutta la serata, è di qualità. Tra battute e scherzi, può finalmente iniziare la cena. Il buffet presenta bene e tutto si rivela buonissimo. Anche i maestri, seduti in un tavolo a parte, sembrano apprezzare, facendoci i complimenti. Merito nostro, certo, ma anche dei genitori, che ci hanno offerto un bell’aiuto per preparare tutto. Finito di cenare, dopo un attimo di pausa, iniziamo a giocare. Guidati da Asia e Sharon, che animano abilmente lo spettacolo, ci dividiamo in quattro squadre, dai nomi speciali,
tero testo con il nobile intento di coprire ogni riga. Segue una lista di cose da evitare per non rendersi antipatici agli insegnanti: fissarli aggressivamente, sghignazzare o parlare mugugnando, minacciare querele per ogni ipotetica ingiustizia subita. E da ultimo arriva sempre il giorno in cui persone pagate dallo Stato per accertarsi che avete imparato qualcosa decidono di farlo, niente paura, ci sono ottimi metodi per uscirne onorevolmente. Anche nel caso succeda davvero di subire ingiustizie, purtroppo esistono nella vita, il libro insegna una delle cose più difficili: staccare l’evento dall’io, agire con intelligenza, passare all’attacco e esporre i problemi con serenità e pacatezza. E se si viene bocciati? In primo luogo la bocciatura concerne la scuola, non certo la vostra vita, e a tutto c’è rimedio. Può succedere che ci renda migliori, che si riveli un’opportunità (il libro ne elenca una decina). Perché si impara sempre, si impara dai rovesci della sorte e da ogni altra cosa, e proprio per questo serve la scuola.
I ragazzi si raccontano di Robin Cattaneo Una cena che spacca
In un freddo venerdì pomeriggio del mese di dicembre, durante l’ora di classe, mentre facciamo l’ordine del giorno, tra un punto dedicato a un litigio tra allievi e un altro riguardante lo studio a casa, il nostro docente ci propone di organizzare una cena di classe invernale, che termini in modo simpatico il primo semestre. Quando affrontiamo la questione, la stragrande maggioranza della classe è visibilmente favorevole. Alla fine della discussione votiamo il principio di realizzarla un venerdì sera di fine gennaio e mettiamo in agenda la delicata questione del posto più adatto a farla. Una settimana dopo, sempre durante l’ora di classe, alcuni nostri compagni presentano dei possibili posti nei quali svolgere la cena. Se in giugno è facile mettersi d’accordo per una bella gri-
gliata in riva al lago, in inverno è più difficile conciliare chi preferisce un ristorante dove mangiare una pizza e poi giocare, magari a minigolf oppure a bowling, con chi invece predilige riservare una sala, dove siamo sicuramente più liberi, ma abbiamo anche l’obbligo di organizzare tutto noi, dalla cena fino ai divertimenti seguenti. Dopo un’intensa discussione, valutando anche i costi risultanti dalle varie possibilità, ci orientiamo verso la proposta formulata da Julia di riservare una sala all’interno di uno stabile della zona industriale a Sementina e organizzarvi un buffet freddo. A questo punto facciamo una lista dei numerosi compiti da svolgere e li suddividiamo tra tutti, o quasi tutti. Qualcuno prepara delle pizzette come antipasto, altri si concentrano sulle carni – proponendo niente di meno che roast-beef, vitello tonnato e tarta-
come i Pinguini o i Red Bull, vincitori al termine di quattro sfide tiratissime. Nella prima bisogna scoprire il più rapidamente possibile il titolo della canzone proposta, nella seconda schiacciare il palloncino legato alla caviglia dell’avversario, nella terza preparare una scenetta che faccia ridere e nella quarta realizzare un balletto sulle note della ritmata canzone Levels di Avicii. Attorno alle 22.00 cominciano ad arrivare i primi genitori, mentre noi, al ritmo della mia musica, riordiniamo la sala, gustandoci le ultime fette di torta rimaste. Mezz’ora dopo, Dalila e Giada, a luci spente, intonano alcune note di una canzoncina in inglese. Poi, tutti a casa. Felici di aver passato una serata veramente speciale. Testi corretti dal professor Gian Franco Pordenone
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Dal mostro all’uomo (e viceversa) Mi capita ancora, anche se di esperienza ne ho ormai accumulata molta: quando incontro per caso un uomo particolarmente strano, dal corpo deforme o dalla fisionomia alterata, la prima reazione è di diffidenza. Da bambino ne avevo paura. L’esperienza mi ha poi ampiamente dimostrato che nella deformità fisica non si nasconde il Male; e le letture che ho fatto mi hanno permesso di apprendere che questa diffidenza spontanea verso la deformità o la diversità accentuata ha origini biologiche e si riconduce ai meccanismi istintuali di sopravvivenza. Per tutta la storia della civiltà occidentale, fino a non molto tempo fa, la deformità fisica veniva in qualche modo associata al Male: nella tradizione greca Edipo – destinato ad uccidere il padre e ad un rapporto incestuoso con la madre – era zoppo; deforme era Tersite, il malvagio e
vile personaggio dell’Iliade. Il feroce Tamerlano, capostipite della dinastia Timur che regnò sull’Iran a partire dal XV secolo, era zoppo; il Riccardo III di Shakespeare, che per assumere il potere compie deliberati assassinî, era «deforme e monco». L’elenco sarebbe interminabile. In quella Grecia che fu la culla della nostra civiltà, un neonato che non fosse in buone condizioni fisiche veniva tranquillamente eliminato. Ad Atene e in altre città si ricorreva al metodo dell’esposizione del neonato, di solito in un vaso di coccio o in altro recipiente, in un luogo lontano dalla casa, fuori città, dove moriva di fame o veniva dilaniato dalle bestie. Il filosofo Aristotele, autore di fondamentali trattati di etica, ribadisce la necessità di una legge che proibisca di allevare figli deformi. Con l’avvento del cristianesimo le cose non migliorano. Già la tradi-
zione ebraica attribuiva la deformità del neonato ad un rapporto con una donna mestruata: il Levitico della Bibbia (XV, 19-30) proibisce esplicitamente l’accoppiamento in occasione dell’«immondezza mestruale». Nel successivo insegnamento della Chiesa le cose si complicano: si sa che la deformità mostruosa è un tipico attributo iconografico del demonio, un’orribile contaminazione di umano e bestiale. Dunque una persona geneticamente deforme porta su di sé il marchio del demonio: il suo concepimento è avvenuto nel peccato. Come spiegava Ambroise Paré (forse il più famoso medico-chirurgo del Cinquecento), Dio «permette che i padri e le madri generino simili obbrobri per il disordine con il quale essi si uniscono carnalmente, come bestie brute, guidate dagli istinti, senza rispetto del tempo o delle leggi prescritte da Dio e dalla natura». Già, anche «i tempi»
andavano rispettati: la normativa ecclesiastica vietava i rapporti carnali tra i coniugi, oltre che nei giorni del ciclo femminile e nei primi quaranta dopo il parto, anche nelle quaresime di Natale, Pasqua e Pentecoste, negli onomastici degli apostoli, nelle feste principali, nonché nei giorni di mercoledì, venerdì, sabato e domenica fino al vespro. La studiosa BeonioBrocchieri ha calcolato che questo calendario ecclesiastico, in vigore dal decimo secolo fino a San Carlo Borromeo, concedeva cinquanta giorni d’amore all’anno a una coppia coniugata. Al di fuori di questo contingente, l’amore illecito o finalizzato al piacere causava l’ira del Signore, resa manifesta dalla nascita di «mostri». Tempi andati, si direbbe; e in effetti quei tempi di ignoranza e di superstizione sembrano finiti, almeno nella nostra cultura. Anche al diverso è stata restituita la dignità di uomo, e il
nostro tempo riserva ai disabili una premura e un rispetto inimmaginabili nei tempi andati. Ma le nostre lontane origini biologiche non sono mai cancellate e la propensione umana a identificare il Male nella difformità non è scomparsa: il Terzo Reich progettava un programma eugenetico che prevedeva non solo lo sterminio degli Ebrei, ma anche l’eliminazione di malati cronici e disabili; e non si era nel Medioevo, ma solo una settantina d’anni fa. Le culture cambiano, le propensioni innate perdurano. Sigmund Freud, scrivendo nel 1914 La delusione della guerra, ammoniva che la società civile non ha affatto prodotto una «estirpazione» del male, ma ha solo represso parzialmente la manifestazione delle pulsioni aggressive congenite: basta un evento traumatico – come la guerra – perché la crosta sottile delle inibizioni si frantumi e riemerga la bestialità delle origini.
spruzzato di nero con grosso becco arancio, si sa, come l’asino, fa subito simpatia. Inoltre, da sempre, la cicogna è considerata simbolo di buona fortuna, nuova vita e prosperità, oltre a ricoprire un ruolo sacro in svariati miti e religioni. In ebraico cicogna si dice chassìd, traducibile con pietà. E secondo una leggenda ebraica le cicogne procuravano il cibo ai loro anziani genitori, oltre a portarli sulle spalle in volo. Peraltro, nell’antica Roma, era chiamata Legge cicogna, la disposizione che obbligava a prendersi cura dei propri genitori. Ma nell’immaginario collettivo, si sa, è soprattutto legata all’iconologia che la rappresenta con un neonato in un fagotto tenuto nel becco: chi non conosce la storiella delle cicogne che portano i bambini nelle case? Ora la signora Rosmarie mi mostra lassù, la cicogna che ha covato poche settimane fa cinque cicognini; «e che è quella del reality». Purtroppo sono morti tutti, per via del freddo. Me lo dice come se fossero figli suoi.
Anche sulla sua casa c’era un nido, ma poi il proprietario diceva che sporcava e l’ha levato: «è stato tragico per me». Incredibile come le cicogne tornino nello stesso nido ogni anno. A volte però, qualche cicogna sbaglia tetto e allora c’è una lotta feroce per il nido. Le cicogne poi, mi dice ancora, formano delle coppie inseparabili: a quanto pare, quando uno dei due muore, l’altra cicogna non si accoppia più. Rosmarie ora mi porta nel posto dove tutta la storia delle cicogne è iniziata e il signor Bloesch le accudiva, imboccandole tutti i giorni con pezzetti di carne di vitello portata dai contadini della zona. Mi mostra alcune belle foto in bianco e nero che lo ritraggono e mostrano tutta la felicità di una missione. Mentre me ne vado, di spalle, per un attimo, ancora effetto cicogna: mi colpisce l’eleganza angelica di una cicogna in volo planare. Una vibrazione utile, forse, per continuare a sognare nel cuore di questa primavera maledetta.
entusiasmo, minuzia e perseveranza. Il caso ha voluto che di quest’esordio fossimo diretti testimoni. Infatti, Matteo Bianchi, sino alla metà degli anni 80, è stato collaboratore di «Azione», curando una godibile rubrica di segnalazioni artistiche: una sorta di guida per farsi strada nel panorama sempre più affollato di mostre, musei, eventi. E, senza montare in cattedra, senza schierarsi. Una caratteristica cui questa casa editrice è rimasta fedele, riuscendo così a occupare un posto al di fuori di mode, consorterie, militanze. Con ciò ampliando, in continuazione, le dimensioni dei suoi interventi. L’elenco delle pubblicazioni apparse, nelle diverse collane, la dice lunga. Dall’attenzione, rivolta agli ottocentisti italiani, ci si è allargati verso i contemporanei, fra i quali i prediletti Valenti, Reiner, Tadini e, in pari tempo, si è diversificata la schiera degli autori dei testi. Nessun tradimento, però. Il principio informatore rimane quello di una possibile alleanza fra pagine scritte e fogli o tele
disegnate o pitturate: al servizio del bello. E belli, esteticamente e tecnicamente accurati, sono questi volumi. In proposito, Bianchi, che a parte qualche chilo in più è rimasto il ragazzo che bazzicava la nostra redazione, si dice ottimista: «Non ci sentiamo minacciati dalla tecnologia. Ci si muove in ambiti diversi. Il fascino dell’oggetto-libro è incontrastabile. Sempre che sia un oggetto di qualità». Anche da questo punto di vista, Matteo ha saputo andare per conto suo, e non per presunzione (e anche grazie a una schiera di collaboratori, che, pure loro imparano il mestiere). Piuttosto per coerenza, lungo un cammino che l’ha portato ad alti riconoscimenti internazionali, riaffermando del resto una tradizione svizzera, e si pensi al prestigio delle edizioni Skira. In una nicchia riservata a pochi? L’obiezione è scontata. Ma è proprio a iniziative come queste che il Paese deve la sua migliore reputazione. Non è da poco, coi tempi che corrono.
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Le cicogne di Altreu Giornata fredda di maggio, rincuorata in parte, ma a perdita d’occhio, dai campi di colza accecanti. Sto andando ad Altreu, frazione di Selzbach, aperta campagna pianeggiante a otto chilometri da Soletta. È il paese delle cicogne. Il sogno volatile di un uomo si è realizzato. È il 1948 quando Max Bloesch (1908-1994), insegnante di ginnastica a Soletta nato a Olten, si mette in testa di riportare la cicogna in Svizzera. A quei tempi era quasi scomparsa: solo sei nidi in tutta la Svizzera. Dopo i primi tentativi falliti con delle cicogne portate dall’Alsazia, Max Bloesch porta tra il 1955 e il 1961, con vari voli dell’Air France, le duecentonovantadue cicogne algerine all’origine della coreografia ciconide attuale. E così Altreu dal 2007 è ufficialmente uno dei dieci paesi europei delle cicogne come ad esempio Tykocin-Pentowo in Polonia, Cicog in Croazia, o Malpartida de Càceres in Spagna. E Max Bloesch, medaglia di bronzo con la squadra elvetica di
pallamano alle olimpiadi di Berlino del 1936, considerato «il papà delle cicogne». Oggi una trentina di coppie passano la primavera e l’estate sui tetti delle case di questo posto – il cui nome mi fa continuamente venire in mente Atreiu: personaggio della Storia infinita – situato in corrispondenza di un’ansa a gomito dell’Aar. Alle dieci di mattina ecco la prima agognata cicogna nel suo nido in cima a una fattoria di legno. Poi altri tre nidi su un’altra casa. L’effetto delle cicogne di Altreu (430 m) è fiabesco, non pensavo fino a questo punto, mi stregano costruendo subito un paesaggio magico, senza tempo. Il grande nido estroso, a volte su un camino, va detto, fa molto, nel computo di questo paesaggismo speciale di cicogne bianche (Ciconia ciconia). Degna di nota, un’insolita scimmia verde appollaiata sull’insegna all’angolo della Wirtschaft zum Grüene Aff. A pochi passi c’è il centro informativo in una specie di capanna, dove si può vedere il reality-cicogna:
una web cam sistemata sul tetto inquadra infatti il nido di una coppia di cicogne. Lì vicino c’è ancorata dal giugno 2003 l’arca verde della biodiversità di Pro Natura. Nel negozietto di fronte, dove ci sono, tra l’altro, cicogne di peluche, binocoli, e un libro sulla storia di una cicogna chiamata Max, conosco la minuta signora Rosmarie che dà una mano in questo centro-cicogne. Mi dice che le prime cicogne arrivano già in febbraio, ma la maggior parte più tardi, verso aprile. A fine agosto partono per svernare in Spagna, alcune fino in Marocco. Al contempo, curiosamente, delle cicogne anziane sui trent’anni, non migrano più, rimangono qui anche in inverno, tenendo compagnia agli abitanti di Altreu che hanno sviluppato una particolare empatia con questi volatili. «Non vogliono più affrontare lo stress del viaggio» mi dice questa simpatica vecchietta che assomiglia per certi versi a una cicogna. Del resto questo grande uccello bianco
Mode e modi di Luciana Caglio Quando la passione diventa un mestiere Non succede spesso: anzi, oggi più che mai, si registra l’opposto. In una società aperta e per certi versi stimolante, si allarga lo spazio per le passioni, cioè gli estri e le sensibilità, rivolti soprattutto alle arti, che poi però si sprecano e non producono nulla. O, peggio ancora, possono alimentare ambizioni sballate, dagli effetti nefasti. Che sono sotto gli occhi di tutti, in mostre e spettacoli dove va in scena il velleitarismo. In altre parole, la voglia di esprimersi non trova il supporto della conoscenza, dell’impegno che trasforma la passione in un mestiere, di cui assimilare la disciplina, le regole, la fatica. Proprio a questa riflessione induce, per contro, la mostra, appena inaugurata alla Biblioteca cantonale di Lugano, che ospita il prezioso materiale raccolto, in oltre tre decenni di attività, dalle Edizioni Pagine d’arte. Sono dipinti, disegni, fotografie, scritti critici, poesie, appartenenti a momenti e movimenti diversi, dalla fine dell’800 agli inizi del 2000, che, al di là di un apparente
disordine, rivelano un filo conduttore: il rapporto fra parole e immagini. Due linguaggi che, insieme, aiutano a penetrare nel mistero dell’arte. Ora, per tornare al nostro tema, dietro al singo-
La locandina della mostra in corso alla Biblioteca cantonale di Lugano.
lare itinerario, percorso da quest’impresa editoriale, che poteva sembrare un’avventura azzardata, c’è appunto, una passione: per Matteo Bianchi, il fondatore, e si può dire l’inventore, delle Pagine d’Arte, doveva diventare un progetto di vita. Nel suo caso, la scelta fu assecondata anche dalle circostanze. Matteo usciva da una famiglia colta, benestante, dove l’arte era già di casa. Sua madre, Adele Bariffi, era nipote di Luigi Rossi (1853-1923), pittore ticinese affermato sul piano europeo, da Milano a Parigi. E la figura di questo bisnonno, artista di talento e cittadino sensibile ai fermenti sociali ed educativi dell’epoca, incuriosì e affascinò Matteo, allora giovanissimo, tanto da dedicargli una ricerca approfondita e poi pubblicata, a fianco di un saggio critico di Rossana Boscaglia, in un volume, finanziato dal padre di Matteo, l’avvocato Angelo Bianchi. Siamo nel 1979, è il punto di partenza di una carriera, frutto, certo, di una passione, ma soprattutto coltivata con
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ll’incirca due anni dopo la prima ricerca empirica sulla qualità dell’udito degli svizzeri, gli specialisti dell’audioprotesistica Amplifon e Phonak lanciano il 2° studio nazionale sull’udito. Le conoscenze verranno così ulteriormente approfondite, per aiutare in modo ancora più diretto ed efficiente i clienti a sentirci meglio.
Invitiamo a partecipare al 2° studio nazionale sull’udito tutte le persone che sospettano di avere una limitazione dell’udito ma che al momento non portano apparecchi acustici. Il vantaggio per voi: potrete provare gratuitamente per 4 settimane la più moderna tecnologia per apparecchi acustici sviluppata da Phonak e riceverete inoltre CHF 50.–* a titolo di ringraziamento per la partecipazione. Gli apparecchi acustici facilitano la comunicazione e aumentano la gioia di vivere. Da settembre 2012 a febbraio 2013 Amplifon e Phonak hanno analizzato, in tutta la Svizzera, come l’uso di apparecchi acustici si ripercuote sulla qualità della vita. I 1137 partecipanti ci hanno fornito utili informazioni. Già dopo un breve periodo di utilizzo degli apparecchi, la maggioranza dei partecipanti allo studio ha confermato di provare più piacere nello stare con gli amici e di avere una migliore qualità della comunicazione e della vita a casa. È davvero sorprendente, soprattutto se consideriamo che la maggior parte dei partecipanti al test aveva dichiarato in preceden-
za di non aver bisogno di apparecchi acustici. Potete trovare ulteriori informazioni sui risultati del 1° studio nazionale sull’udito su www.studio-udito-nazionale.ch. I due leader di mercato Amplifon e Phonak si dedicano alla ricerca anche per il vostro udito. Lo studio congiunto mira a ottenere conoscenze scientifiche che confluiranno in modo determinante nel lavoro di Amplifon e Phonak. Per comprendere ancora meglio le esigenze dei clienti, nell’ambito del 2° studio nazionale sull’udito si osserveranno nel dettaglio gli effetti dei più recenti apparecchi acustici sulle singole situazioni di vita. Le esperienze dei partecipanti serviranno a migliorare ulteriormente l’adattamento degli apparecchi acustici alle esigenze della vita quotidiana e a perfezionare la tecnologia. La vostra opinione è importante per noi. Partecipate e approfittate anche voi di questa ricerca a livello nazionale. Lo studio sarà condotto in conformità agli standard scientifici. Tutti i vostri dati saranno trattati con riservatezza e analizzati in for-
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ma anonima da un rinomato istituto di ricerche di mercato. Al termine dello studio i risultati saranno messi a disposizione dei medici e delle cliniche ORL.
* Solo per i primi 1’000 partecipanti che saranno ammessi allo studio e compileranno entrambi i questionari.
Iscrivetevi direttamente su Amplifon: sul sito www.studioudito-nazionale.ch, per telefono chiamando il numero gratuito 0800 800 881, in uno dei 78 centri specializzati Amplifon o tramite il coupon di registrazione allegato. Le iscrizioni sono aperte fino al 31.7.2014. A titolo di ringraziamento per la partecipazione riceverete CHF 50.–* in contanti.
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Registrazione al 2° studio nazionale sull’udito. Partecipate anche voi! Approfittate di una prova gratuita di quattro settimane nell’ambito dello studio sull’udito. È sufficiente compilare questo coupon, staccarlo e inviarlo. Naturalmente potete iscrivervi anche per telefono chiamando il numero gratuito 0800 800 881, sul sito www.studio-udito-nazionale.ch o direttamente nel centro specializzato Amplifon più vicino a voi.
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Indirizzo Tagliare il coupon e inviarlo a: Nationale Hörstudie, Postfach 306, 8706 Meilen
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Ambiente e Benessere Gli insetti delle nevi I Collemboli sono gli insetti più primitivi attualmente noti pagina 18
Il Santuario Pelagos In questa immensa area protetta sono due le principali nicchie ecologiche colonizzate dai Cetacei dai primi giorni di giugno agli ultimi giorni di settembre
Perdersi con cognizione L’importanza di scegliere vie ignote per esplorare il lato del mondo più in ombra
Mangialonga soleggiata Sosta dopo sosta all’insegna di buonumore, serenità e tanta voglia di scoprire gusti e sapori
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Il direttore della Casa per anziani dell’Alto Vedeggio, Steven Crameri, e la responsabile delle cure Patrizia Magnoli. (Stefano Spinelli)
Per una cura più personalizzata
Sanità Come evolvono in Ticino le case per anziani – L’esempio della struttura per l’Alto Vedeggio, a Mezzovico Maria Grazia Buletti Nell’assistenza sanitaria alla popolazione svizzera, le case di cura svolgono un ruolo centrale che diverrà sempre più essenziale con il progressivo invecchiamento della popolazione. L’Ufficio federale della salute pubblica (Ufsp) stima che nel 2012 in Svizzera si contavano complessivamente 1558 istituzioni che hanno prodigato cure a oltre 140mila persone, per un costo totale di circa nove miliardi di franchi, gran parte dei quali investiti rispettivamente in cure, alloggio e vitto. Per meglio comprendere l’importanza crescente di queste residenze, siamo andati a visitare la Casa per anziani dell’Alto Vedeggio. A farci da guida, il direttore Steven Crameri e la responsabile delle cure Patrizia Magnoli, con i quali abbiamo parlato dei molteplici aspetti di cui bisogna tenere conto in una struttura medicalizzata. «Il nostro ruolo è di favorire la qualità di vita dei residenti, permettendo loro di restare integrati con il mondo esterno con cui essi devono poter mantenere i propri contatti sociali», il direttore Crameri sottolinea da subito la natura di «residenza» come nuova casa dove la persona anziana e bisognosa di cure viene accolta, mentre la responsabile delle cure signora Magnoli puntualizza che «la casa per
anziani è una soluzione che subentra nella vita dell’anziano quando la sua situazione diviene così complessa da non permettergli più di vivere a domicilio, malgrado gli ottimi servizi erogati sul territorio che favoriscono il più a lungo possibile la sua permanenza nell’ambiente casalingo». L’età media dell’entrata nella struttura di Mezzovico si aggira attorno agli 84 anni. «Gli anziani che arrivano da noi – afferma Magnoli – superano gli 80 anni e dal punto di vista sanitario la loro presa a carico esige un maggiore impegno per gestire patologie, problemi legati alla logistica casalinga, bisogno di mezzi ausiliari e quant’altro». Senza dimenticare i residenti che abbisognano di cure particolari perché affetti da malattie cognitivo degenerative come, ad esempio, l’Alzheimer: «Accogliamo due grandi gruppi di residenti: il primo gruppo comprende quelli molto anziani e molto fragili, con polipatologie e bisognosi di polifarmacologia, prevalentemente donne, eventualmente accompagnati da handicap fisico come ictus o un evento ischemico», spiega la nostra interlocutrice includendo in questo gruppo anche coloro che presentano malattie cognitive o problematiche degenerative come una demenza vascolare o un Alzheimer: «Può quindi darsi che ci troviamo a ospitare un anziano fisicamente anco-
ra autosufficiente, ma cognitivamente compromesso, la cui autonomia fisica viene perciò meno». L’altro gruppo di persone residenti comprende una popolazione di anziani che presenta disturbi di tipo motorio, ma che cognitivamente è ancora molto integra: «Sono anziani in grado di autodeterminarsi, vivono le proprie giornate con un senso di pienezza e sanno confrontarsi con gli avvenimenti quotidiani». A questo punto il direttore Crameri ci rende attenti sulla diversificazione delle cure che questi due gruppi di residenti esige e sulla specializzazione del personale impiegato: «Nessuno dei due gruppi di anziani è di complessa gestione perché il nostro personale dispone di grandi competenze e della flessibilità necessaria per le cure personalizzate a ciascun residente». Questa casa per anziani dispone di un reparto cosiddetto «protetto» che ospita anziani con disturbi di memoria o cognitivi: «Non si tratta di un ghetto, di una prigione come si potrebbe pensare, ma di un’ala protetta che ospita persone con problemi cognitivi che avrebbero serie difficoltà a vivere in un ambiente aperto o al proprio domicilio». Al direttore fa eco la responsabile delle cure: «Se i due gruppi di residenti vivessero insieme, il personale non sarebbe in grado di adattarsi al ritmo delle esigenze molto diverse degli uni e de-
gli altri, con il risultato di non riuscire a soddisfare nessuno». Ad esempio: «Chi presenta disturbi di tipo cognitivo richiede una maggiore flessibilità nel cadenzare la propria giornata, gli orari di sonno e di veglia e quelli dei pasti. Gli altri, per contro, traggono grande beneficio dalla regolarità degli eventi quotidiani. I residenti con disturbi cognitivi vengono seguiti con la maggiore flessibilità di cui necessitano per sentirsi a proprio agio». Un giardino anch’esso protetto, con una bella fontana e delle vasche per ortoterapia, una persona che viene periodicamente con il suo cane Labrador ad allietare alcune ore dei residenti, molto personale a disposizione di ciascun anziano per aiutarlo a sentirsi comunque parte del mondo che vive: questo è quanto osserviamo nel reparto protetto e nella sua rassicurante luminosità. È grande l’importanza della formazione, della presenza in numero massiccio e della specializzazione del personale sanitario: «Il direttore sanitario è il dottor Markus Spirig, ma ogni residente può far capo anche al proprio medico curante che, per ovvie ragioni, non è sempre presente qui in casa anziani. Per questo il personale sanitario deve essere assolutamente in grado di effettuare una prima valutazione delle
situazioni di cura e sapere come agire», ci spiega Patrizia Magnoli. Un reparto medicalizzato e protetto come questo, aperto nel 2010 dalla Casa anziani Alto Vedeggio, non deve dunque essere vissuto con disagio, come succede talvolta per alcuni famigliari, ci racconta il direttore Crameri: «Cerchiamo di comunicare che questo reparto è un luogo di protezione dell’anziano che, in un mondo più aperto, con grandi spazi e stimoli eccessivi farebbe oramai tanta fatica a ricollocarsi, cadendo in un’ansia, paura e stress crescenti». Ai famigliari che faticano a vedere queste porte chiuse, egli dice: «Qui possiamo garantire all’anziano una certa autonomia contenendo una sovrastimolazione che non sopporterebbe più, in quanto quando giunge qui, la malattia è già manifesta e conclamata e ciò necessita proprio di un ambiente protetto». I nostri interlocutori ci congedano ribadendo la loro filosofia a favore di residenti e delle loro famiglie: «Noi non vogliamo sostituirci alla famiglia, ma ci consideriamo al pari di suoi collaboratori. Per questo siamo felici che i famigliari partecipino al principio di alleanza terapeutica nelle cure del proprio caro, in una presa a carico personalizzata». E in cantiere ci sono ancora diversi progetti in corso, atti proprio ad avvicinare la popolazione a questa realtà.
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Ambiente e Benessere
Saltano, ma non sono pulci Entomologia Vivono su ghiacciai e nevai: sono infatti ospiti abituali del regno del freddo,
di luoghi deserti e inabitabili per qualsiasi altro essere vivente
Alessandro Focarile Verso il 1700, al culmine della «piccola era glaciale», i primi studiosi che avevano non solo la curiosità, ma anche il coraggio di avventurarsi e percorrere le immense solitudini ghiacciate a quell’epoca presenti sulle Alpi, già allora scrivevano sugli insetti delle nevi. Tuttavia, questi personaggi non potevano immaginare che un ghiacciaio potesse ospitare forme di vita in permanenza, e pensavano che questi minuti esseri, i Collemboli, fossero caduti dal cielo. Ma nel 1839, il geologo svizzero Edouard Desor scopriva sul ghiacciaio del Gorner – al disopra di Zermatt, nel Vallese – che la pulce dei ghiacciai era un ospite abituale di quei luoghi deserti e inabitabili per qualsiasi essere vivente, e regno del freddo. Successivamente, il nostro Collembolo fu ritrovato in molte località delle Alpi nelle stesse situazioni ambientali.
Desoria od Isotoma saltans di Agassiz vive sui ghiacciai alpini in società e fu detta (Calloni 1885) «pulce dei ghiacciai» Con prosa vivace, l’abate Antonio Stoppani (1824-1891), il ben noto autore del fortunato libro Il Bel Paese, faceva conoscere al grande pubblico colto di fine Ottocento l’esistenza di questi singolari insetti e il loro significato nel grandioso teatro della Natura alto-alpina. Durante quegli anni, il gentil sesso cominciava a comparire timidamente nell’ambiente dei rudi frequentatori della montagna. Per queste ragioni, il bravo abate doveva trattare l’argomento «pulci» con particolare riservatezza, per non urtare la pruderie di donzelle in veletta, che si avventuravano tra crepacci – robustamente incordate da guide barbute – e che non gradivano incontri sconvenienti. Successivamente, decenni di studi e ricerche sul terreno e in laboratorio permisero di meglio conoscere e documentare la vita di questi singolari insetti anche in alta montagna, scoprendo le loro insolite e straordinarie prestazioni fisiologiche che permettono loro di vivere, di nutrirsi e di procreare anche in situazioni climatiche estreme. I Collemboli sono gli insetti più primitivi attualmente conosciuti. I primi esemplari furono scoperti in Scozia entro strati di roccia datata oltre 400 milioni di anni or sono, attribuita al periodo Devoniano dell’era Paleozoica. Essi hanno costituito un campo di ricerca molto prolifico di risultati, i quali hanno permesso di mettere in luce le loro inusuali capacità fisiologiche, che consentono loro di vivere in
Il ghiacciaio del Basodino in ritiro. (Alessandro Focarile)
situazioni termicamente estreme e di saltare per spostarsi in quell’ambiente così ostile. Ma quali sono le caratteristiche essenziali dei Collemboli, unici sotto molti aspetti nel vasto mondo degli insetti? Sono lunghi da 1 a 4 millimetri, quasi sempre muniti di occhi formati di pochi elementi (ommatìdi) – salvo le specie che vivono nel terreno – e soprattutto non sono pulci, con le quali non hanno nulla da spartire. Conosciamo attualmente oltre 3000 specie, una ben modesta aliquota di quelle realmente esistenti sulla Terra. Sono stati rinvenuti dalla Groenlandia all’Antartide, pullulano nelle foreste dove sono un anello essenziale della catena composta dai demolitori della materia vegetale, penetrano nelle grotte più profonde, dove sono rappresentati da minute specie bianche e prive di occhi. Sono stati trovati fino a 6300 metri di altitudine nella catena himalayana, spesso in un numero enorme di individui e dove formano la parte più cospicua del popolamento animale permanente vivente a quelle altitudini. Nei terreni forestali, negli ammassi di fogliame e di fieno, nei muschi, nei licheni e nei funghi, i Collemboli vivono dappertutto, anche nelle zone desertiche, costituendo un gruppo animale di successo attraverso milioni di anni. Grazie al forte sviluppo della muscolatura dei femori posteriori, il salto è un meccanismo di difesa che consente a molti insetti – ricordiamo le cavallette – di sottrarsi ai predatori sempre in agguato. Il record mondiale del «salto
in lungo» è detenuto da una cicalina, cugina delle grandi cicale: 70 centimetri che rappresentano 100 volte le dimensioni del loro corpo, che è di 7 millimetri. Anche tra i Collemboli vi è un numero consistente di specie saltanti, capaci di performances altrettanto notevoli, considerate le loro minute dimensioni: 2 millimetri è la statura delle pulci dei ghiacciai, che vivono in superficie. Queste sono munite di un organo particolare: la furca (foto) che facilita il salto. Si tratta di un meccanismo strutturalmente molto semplice, essendo una molla la cui contrazione consente all’insetto di spostarsi velocemente. Per contrasto, un altro numeroso gruppo di specie – evolutivamente primitivo – è privo della furca (foto). Bianchicce e sprovviste di occhi, vivono nel terreno a varie profondità, si spostano
Collemboli onichiuridi privi di furca (1,5 mm). (Alessandro Focarile)
molto lentamente, cibandosi di minuscole alghe e di detriti vegetali. L’attenzione degli studiosi si è concentrata sulla presenza di particolari prodotti chimici creati dai Collemboli, che si possono riferire alla classe dei glicoli: i ben noti antigelo riscoperti dall’uomo (dopo molti milioni di anni...) per i motori dei suoi veicoli. Si tratta di proteine protettrici che impediscono la formazione di cristalli di ghiaccio nei tessuti dell’animaletto. Sostanze che provengono dalla sua alimentazione, costituita essenzialmente di alghe unicellulari resistenti al gelo durante la stagione invernale, e dall’immensa quantità di cibo che si deposita durante la buona stagione: pollini, spore, residui vegetali, insetti morti trasportati tutti dalle correnti ascensionali. L’insieme di queste particolarità consente ai Collemboli di poter vivere anche in situazioni termiche estreme: fino a –15°C /–20°C. La loro vita sessuale è ridotta ai minimi termini: il maschio costruisce un minuscolo supporto sul quale depone il proprio sperma, che la femmina si incaricherà di prelevare alla prima occasione durante i suoi vagabondaggi anche sul ghiaccio! Anni or sono ho avuto l’occasione di riferire in merito all’interessante e istruttivo ritrovamento da parte di Giovanni Kappenberger (il ben noto glaciologo, meteorologo e valente alpinista) sulla vetta del Valserhorn 2670 metri, a nord del Passo di San Bernardino in Mesolcina, in pieno inverno e con 14 gradi sotto zero. Un campione di terriccio era
stato prelevato a quella quota, completamente gelato e della durezza del cemento (prelevato con la piccozza!). La curiosità di Kappenberger era generata dal desiderio di appurare se, in quelle condizioni estreme, vi fosse qualche testimonianza di vita. Infatti, il campione prelevato conteneva una ricca rappresentanza di bianchi e minuscoli (1,4 millimetri) Collemboli, oltre ad altri piccoli invertebrati, tutti completamente inglobati e surgelati nel terriccio, e privi di ogni manifestazione di vita. L’esame successivo in laboratorio, nei giorni seguenti, consentì di verificare che questi minuti esseri erano soltanto «ibernati», grazie all’antigelo contenuto nel loro corpo. Pronti e ansiosi di riprendere la loro vita attiva quando la massa surgelata che li imprigionava sarebbe tornata a temperature meno severe. È stato previsto che, con le tendenze climatiche attuali, i ghiacciai alpini avranno ormai vita breve. Qualche decennio. Che cosa ne sarà della vita animale in alta quota, compresi quindi anche i nostri Collemboli, a seguito dei radicali mutamenti climatici? Questi esseri hanno una vita che affonda le radici in lontane epoche geologiche e hanno conosciuto, nel corso della loro lunga storia evolutiva, ben altri traumi ecologici a causa del ripetersi di più crisi climatiche. Le pulci dei ghiacciai (Gletscherfloh in tedesco) hanno avuto successo perché hanno scelto una nicchia ecologica biologicamente estrema, che ha evitato una loro drastica concorrenza per la sopravvivenza con le specie loro parenti. Probabilmente nel prossimo futuro non si ammireranno più i ghiacciai. Ma, per ragioni di altitudine, saranno sempre presenti dei nevai temporanei, e la sopravvivenza anche dei Collemboli non sarà compromessa. In fin dei conti, si accontenteranno di ben poco per vivere e prosperare, come hanno fatto finora con successo, e la loro perennità sarà assicurata. Bibliografia
Hermann Gisin, Collembolenfauna Europas, Muséum d’Histoire naturelle de la Ville del Genève, 1960, 312 pp. Silvio Calloni, Un naturalista dell’Ottocento, Armando Dadò editore (Locarno), 1993, 363 pp. Un Collembolo isotomide con la furca (3 mm). (Alessandro Focarile)
Diverse specie di Collemboli onichiuridi (1,5-2 mm). (Alessandro Focarile)
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Ambiente e Benessere
Il Santuario dei Cetacei Mondo subacqueo Anche detto Pelagos, è un’area protetta che si estende nel Mediterraneo nord-occidentale
e include tutto il Mar Ligure, parte della Corsica e del Mar Tirreno
Sabrina Belloni, foto di Franco Banfi Il Mediterraneo è una e mille cose insieme: un susseguirsi di mari, di innumerevoli paesaggi, una moltitudine di civiltà accatastate le une sulle altre. Attraversarlo significa ripercorrere millenni di storia, di culture, di civiltà poliedriche, incontrare antiche realtà affiancate a quelle ultramoderne: accanto all’apparente immobilità di Venezia, vive l’imponente agglomerato industriale di Mestre; accanto alla barca del pescatore solitario convivono i pescherecci devastatori dei fondali marini, le petroliere e le enormi navi da crociera. Il Mediterraneo è un crocevia, dove il valore dell’ambiente è stato ignorato a volte anche inconsapevolmente, soprattutto nelle epoche più recenti. L’espansione tecnico-economica ha favorito il degrado ambientale tanto che solo nel secolo scorso si è preso coscienza del problema «ambiente», considerandolo una risorsa scarsa e, con una sfumatura etica, come un valore. La realtà mostra che l’ambiente continua a essere un fattore essenziale di sviluppo economico e sociale. Esso è oggi al centro dell’attenzione della gente comune, sensibilizzata dall’informazione di massa, e di quella degli scienziati ed esperti, per non trascurare quella dei politici che ne fanno un cavallo di battaglia nelle loro campagne elettorali. C’è piena coscienza che l’ambiente è un patrimonio, un bene prezioso che condiziona la vita e la salute nostra e delle generazioni future. Tuttavia, l’ambiente marino per molti è ancora una «terra» ignota. C’è una minor consapevolezza dei rischi che esso corre sia per le minori conoscenze delle dinamiche subacquee, sia per la minor visibilità degli effetti dell’inquinamento e dell’errata gestione delle risorse. Il mare è poco percepito, poco «vissuto». Le coste sono state considerate, per molto tempo, discariche a cielo aperto e soggette alla cementificazione selvaggia per rispondere al turismo balneare. Più recentemente si è cercato di delimitare delle oasi con l’istituzione delle Aree Marine Protet-
te, in porzioni di territorio scarsamente antropizzate e con severe norme di fruizione, spesso purtroppo totalmente avulse dalla interazione con i residenti e dallo sviluppo di attività collaterali a quelle strettamente scientifiche o di tutela e concentrate soltanto nel tutelare la biodiversità e difendere flora e fauna da una ipotizzata estinzione. Il Santuario Pelagos, altrimenti denominato Santuario dei Cetacei, si discosta significativamente dalle logiche sin qui illustrate. Innanzitutto perché tutela un’area molto vasta, di circa 96mila km2 che si estende nel Mediterraneo nord-occidentale e include tutto il Mar Ligure, parte della Corsica e del Mar Tirreno. È un’area protetta che in gran parte si trova in acque internazionali: da Tolone (in Francia) a Capo Falcone (nella Sardegna occidentale) e da Capo Ferro (nella Sardegna Orientale) a Fosso Chiarone (in Toscana). Al suo interno racchiude a sua volta quattro parchi nazionali (le Cinque Terre in Liguria, l’Arcipelago Toscano, l’Arcipelago della Maddalena e dell’Asinara) e un parco regionale (la Maremma Toscana). Si tratta di una superficie immensa, che si sviluppa per il 53 per cento in acque profonde. La piattaforma continentale è ampia solamente in corrispondenza delle aree costiere, ed è generalmente molto profonda e disseminata di vertiginosi canyon. La zona offshore occidentale è costituita da una piana abissale a profondità di 2500-2700 metri, mentre vicino alla Corsica il fondale si innalza a profondità inferiori a 1600-1700 metri. Questi dati rivelano aree marine caratterizzate da fattori oceanografici, climatici e geomorfologici che interagiscono fra loro determinando correnti marine di upwelling (ndr: la risalita in superficie delle acque oceaniche profonde e fredde) e sistemi frontali di spostamento di masse d’acqua fra le zone pelagiche e quelle costali, e che sono rinforzati dalla circolazione ciclonica dei venti e da eventi stagionali (quali il Maestrale) che contribuiscono alla miscelazione stratigrafica delle masse d’acqua. I nutrienti presenti sui fondali
sono trascinati verso l’alto dalle correnti e qui si mescolano con le acque superficiali, ricche di sostanze organiche e fertilizzanti trasportati dai fiumi. Ne consegue una sensibile produzione di fitoplancton, quel primo anello della catena alimentare marina che determina la conseguente abbondanza di nutrimento per tutti gli animali dell’ecosistema: un’ingente biomassa di zooplancton, macro-zooplancton, krill e gamberetti di cui si nutrono i predatori ai vari livelli della catena alimentare, inclusi i mammiferi marini. All’interno del Santuario Pelagos, due sono le principali nicchie ecologiche colonizzate dai Cetacei dai primi giorni di giugno agli ultimi giorni di settembre. Nella zona dove il fondale sprofonda rapidamente dai 200 ai 2000 metri, la zona della scarpata continentale, vivono alcuni tra i più interes-
santi odontoceti del Mediterraneo: il capodoglio (Physiter macrocephalus), il grampo (Grampus griseus) e lo zifio (Ziphius cavirostris). Il primo è il più grande odontocete vivente. Le altre due specie, pur presentando una vastissima distribuzione geografica, sono fra i cetacei meno conosciuti. Altrettanto interessanti sono i tursiopi (Tursiope truncatus) e gli ormai rarissimi delfini comuni (Delphinus delphis). L’area pelagica è invece quel tratto di mare dove la profondità del fondale supera i 2000 metri. Questa è la zona in cui è più facile incontrare la maestosa balenottera comune (Balaenoptera physalus) del Mediterraneo, le acrobatiche stenelle striate (Stenella coeruleoalba) e i misteriosi globicefali (Globicephala melas). Nei nostri mari, infatti, vive una popolazione di balenottera comune, che, sulla base delle
analisi genetiche, è risultata essere «residente» nel Mediterraneo e isolata da quella dell’Oceano Atlantico. Si tratta di uno degli animali più grandi al mondo: può, infatti, raggiungere i 20 metri di lunghezza e un peso di 70 tonnellate. Generalmente questa popolazione attraversa il Santuario nel mese di luglio. Tale notevole diversità faunistica deve coesistere nel Santuario con livelli molto elevati di pressione antropica. La maggior parte delle aree costiere che si affacciano sul Santuario è densamente popolata e sono molte le grandi e medie città costiere, i porti di grande importanza commerciale e militare, e le aree industriali. Inoltre, l’intera zona costiera del Santuario include importanti destinazioni turistiche. Le minacce reali e potenziali per le popolazioni di cetacei nel Santuario sono: il degrado degli habitat, lo sviluppo agricolo, una maggiore produzione e versamento di inquinanti in corrispondenza degli agglomerati urbani più grandi e presso le foci dei fiumi; un maggiore disturbo causato dall’intensità del traffico marittimo (passeggeri, cargo, militari, pesca e diporto), particolarmente intenso in estate, così come da una fiorente industria del whale watching (osservazione dei cetacei), dalle esercitazioni militari, dalle attività di ricerca in mare; un crescente rischio di collisioni con le navi, anche in connessione con l’aumento del trasporto passeggeri ad alta velocità, e la mortalità causate dalla cattura accidentale in reti da posta derivanti, che continuano ad essere utilizzate in zona nonostante il divieto di reti derivanti imposto alle flotte degli Stati membri europei. Ci sono voluti dieci lunghi anni per giungere alla creazione del santuario internazionale dei cetacei del Mediterraneo. Sono stati anni di lavoro e di impegno per molte persone che hanno creduto in un progetto e insieme sono riuscite a realizzarlo, per tutelare un ecosistema prezioso di cui occorre mantenere le condizioni ottimali se non vogliamo correre il rischio di vederlo modificato dalle attività umane che si svolgono sul mare.
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Ambiente e Benessere
L’arte di perdersi
Venti parole chiave per tutti i giorni
Viaggiatori d’Occidente Se troppo rigido, un programma di viaggio rischia di diventare
una lista della spesa
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a letture per viaggiare Claudio Visentin
Una facile soluzione può consistere nel dare al proprio viaggio una forma generale e creare poi al suo interno degli spazi dove coltivare l’arte di perdersi Quando ho attraversato l’Abruzzo con gli asini (In viaggio con l’asino, Guanda) me la cavai soltanto perché gli animali conoscevano la strada tanto meglio di me e a ogni bivio mi fermavo in riverente attesa che l’asino, teoricamente simbolo di ignoranza, prendesse sicuro la via di casa; come è puntual-
«La vita è un viaggio e gli italiani viaggiano soli. Com’è difficile trovare chi ci guidi, chi ci incoraggi, chi ci accompagni. La politica parla di se stessa in maniera compulsiva (i nuovi arrivati saranno diversi dai predecessori?). La classe dirigente, non da oggi, sembra diretta verso destinazioni misteriose...»
Eastenhuh
Qualche anno fa, in occasione di una scuola estiva dell’università a Favignana, nelle Egadi, organizzai una lezione di Beppe Severgnini dal suggestivo titolo: Istruzioni per perdersi. La lezione fu molto efficace in quanto, detto fatto, quello stesso giorno uno degli studenti fece perdere le sue tracce. Passai il resto della giornata con Severgnini che, sempre più tormentato dal senso di colpa , vagava per i locali dell’isola cercando il suo discepolo incline all’interpretazione letterale. Questi ricomparve poi la mattina dopo come se nulla fosse, dopo aver trovato ospitalità per la notte in una casa del luogo, e il noto scrittore, considerato quel che aveva predicato il giorno precedente, non poté neppure dargli una bella lavata di capo. Ho spesso ripensato a quell’episodio anche se, per parte mia, non ho davvero bisogno di lezioni in questo ambito: in tutti i miei viaggi credo di aver fatto poco altro che perdermi con lodevole costanza. Per cominciare ho un pessimo senso d’orientamento e con mio grande dispiacere mi è del tutto estranea la «navigazione naturale», ovvero la capacità di trovare la direzione giusta senza cartine o strumenti, utilizzando il sole, la luna, le stelle, le onde e i venti, le piante e gli animali (ne abbiamo parlato su «Azione» n. 30 del 23 luglio 2012).
mente successo. Durante una transumanza in Basilicata sono stato invece lasciato indietro dalle mucche più in forma di me e mi sono trovato perduto in mezzo al nulla sotto il sole cocente fino a quando un cane da pastore è tornato indietro a cercarmi preoccupato e mi ha ricondotto al branco. La verità è che non faccio nulla per evitare di perdermi. Amo gli smarrimenti, una variante particolarmente interessante e creativa del fallimento. Non a caso uno dei miei eroi è il regista Terry Gilliam che cercò invano di realizzare un film ispirato alla vicenda di Don Chisciotte (cavaliere errante per definizione), sino a quando nel 2002 si rassegnò a ricavare dai pochi spezzoni realizzati il divertente documentario Perduti nella Mancha (appunto). Ogni viaggio in fondo si muove tra due opposti: da un lato se disponiamo di molte informazioni e di un itinerario troppo preciso rischiamo di cercare e trovare solo quello che già sappiamo, senza aggiungervi nulla di nuovo e di nostro. Il viaggio diventa allora poco più di una lista della spesa dalla quale spuntare man mano le singole voci. «Programma di viaggio» è un ossimoro, una contraddizione in termini: è fondamentale che ci si possa fermare più a lungo in un luogo interessante
ma per fare questo il nostro programma deve essere abbastanza aperto da potervi apportare modifiche in corsa. Il momento magico di ogni viaggio, parafrasando un famoso titolo di Bruce Chatwin (Che ci faccio qui?), è quello in cui non sappiamo bene dove siamo, perché è proprio allora che l’inaspettato può rivelarsi. D’altro lato senza qualche riferimento si rischia di passare a poca distanza da luoghi meravigliosi senza vederli, rimpiangendo poi l’occasione perduta. L’equilibrio tra conoscere e riconoscere, tra scoperta e conferma è il segreto di un viaggio riuscito. La soluzione più semplice può consistere nel dare al proprio viaggio una forma generale, seppure non troppo rigida, e creare poi al suo interno degli spazi dove coltivare l’arte di perdersi. Può bastare una mattina senza programmi precisi per andare alla scoperta di una città sconosciuta, imboccando la prima via che incontriamo, salendo su un autobus alla fermata più vicina, affidandoci ai consigli di uno sconosciuto o all’ispirazione del momento. Qualche piccolo «esercizio di viaggio» («Azione» n. 8 del 21 febbraio 2011) può aiutare. Non mi è mai capitato di pentirmi di tale scelta: il mondo è straordinariamente generoso col
viaggiatore che sia capace di scoprirne e apprezzarne la ricchezza, che non si limita certo ai monumenti più famosi. E i rischi? In realtà sono quasi del tutto assenti. Nelle grandi città, a eccezione di qualche quartiere notoriamente pericoloso, basta tenere in tasca il numero della centrale dei taxy e l’indirizzo del proprio albergo: al peggio, quando sarete stanchi di vagare, vi farete riportare indietro. E anche nei boschi, quando ho seguito la mia curiosità, sono sempre riuscito a ritornare senza particolari problemi. Certo qualche volta mi sono perso davvero, come nella foresta intorno a Rieti, dove ho scoperto tra l’altro quale efficace barriera sia un semplice filo spinato ben teso, ma ho anche scoperto bellezze d’arte nascoste, piccoli paesi pieni di carattere e persone con una storia da raccontare. È sufficiente adottare qualche cautela, per esempio portando comunque con sé una guida o uno smartphone da impiegare al bisogno, ed evitando di fare esperimenti quando il tempo è incerto o quando si avvicina il tramonto. Ma siamo ampiamente nei margini del buonsenso. Perdersi è necessario: non si può dire di aver compreso il mondo se non si esplora, anche saltuariamente, il suo lato in ombra.
Dopo aver parlato di Beppe Severgnini qui accanto, è forse inevitabile segnalare il suo ultimo libro. Non è un racconto di viaggio, anche se le sensate osservazioni del capitolo introduttivo sono un utile ripasso per chi coltiva questa passione. È piuttosto un libro che di viaggi si è nutrito, che dall’esperienza del viaggio ha ricavato insegnamenti da riportare poi nella vita di tutti i giorni: a cominciare dall’invito a viaggiare leggeri, con venti parole chiave, come i chilogrammi di bagaglio consentiti in aereo in classe economica. Parole che abbiamo imparato a tenere sempre al nostro fianco (brevità, insegnamento, paternità, precisione, rispetto), anche se qualche volta ce le dimentichiamo, e qualche nuova entrata (resilienza). La vita è un viaggio: non c’è immagine più trita, ripetuta, banale. Eppure quanto vera. Lo dicevano gli antichi, lo confermano i moderni, dall’europeo Montaigne («So bene quel che fuggo, ma non quello che cerco») al cinese Lin Yutang («Il viaggiatore autentico è sempre un vagabondo, con le gioie, le tentazioni e il senso di avventura del vagabondo»). Severgnini non è nuovo al tema, eppure il libro è efficace. Forse perché per capire quanto i viaggi siano importanti e preziosi bisogna attendere dopo il ritorno, quando scopriamo che la nostra capacità di guardare il mondo si è arricchita, ha preso profondità, spessore e distacco ironico. Un occhio ben formato è la ricompensa del viaggiatore. / CV Bibliografia
Beppe Severgnini, La vita è un viaggio, Rizzoli, 2014, pp. 219, € 13,60. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
PUNTI
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Maggio rosa con le Kalmie Mondoverde Originaria del Nord America
Anita Negretti Capricciosi per via della crescita ribelle e un po’ scompigliati, se ben coltivati gli arbusti di Kalmie offrono una fioritura generosa con colori spettacolari. Dalle stesse esigenze di rododendri, azalee e camelie e in particolare al riguardo dell’acidità del terreno, le Kalmie si distinguono per la provenienza: la loro patria natale infatti è il Nord America, al contrario delle altre acidofile che arrivano direttamente dall’Oriente.
Sono poche le specie del genere Kalmia, mentre sono molto più numerosi gli ibridi con i loro fiori sgargianti
Edgeplot
Per garantire una lunga durata a queste piante longeve, sarà necessario cercare una posizione adatta nel giardino: l’ideale sarebbe una zona semi-ombreggiata ma luminosa, e non esposta ai venti gelidi dell’inverno, anche se in realtà sono piante con una buona rusticità. Il terreno, come già detto, deve essere acido, ricco di torba e di terriccio di foglie, con un buon drenaggio. In aprile si interviene con una leggera concimazione per aiutare l’immi-
nente fioritura di maggio. Per ottenere il massimo rendimento da quest’operazione andrebbe utilizzato un composto specifico per acidofile. Successivamente, in ottobre, si interviene con un’altra manciata dello stesso composto per aiutare la formazione dei boccioli durante l’inverno. Poche sono le specie del genere Kalmia, le più comuni e utilizzate sono la K. Angustifolia e la K. Latifolia. La prima si presenta come un piccolo arbusto sempreverde alto al massimo un metro. Originaria della Virginia e della Georgia del sud, ha foglie lanceolate lunghe fino a cinque centimetri e fiori rosa intenso o cremisi. La K. Latifolia ha invece un aspetto ben diverso, visto che riesce a raggiungere anche i tre o quattro metri e ha foglie lunghe una decina di centimetri con fiori rosa pallido, cremisi, porpora e bianchi. Molto più numerosi sono gli ibridi con i loro fiori sgargianti: ad esempio la Kalmia Fresca che è di color bianco immacolato con radi fiori ben si accompagna con la Pink Frost (rosa confetto) che sfoggia alcuni boccioli più intensamente colorati. Tra i più particolari vanno menzionati di certo i fiori della varietà Carol i cui boccioli chiusi sono di un bel rosso vivace, ma al momento della schiusura volgono al bianco. La rossa Olympic Fire e Ostbo Red, color carminio, creano invece un punto di colore veramente notevole anche nei giardini più ampi. Le Kalmie, con il passare del tempo, tendono a sguarnirsi alla base, ed è quindi buona norma piantumare al piede qualche cespuglio annuale o perenne in grado di coprire i primi dieci o venti centimetri. In questo caso una bella pianta di Hosta, Phlox o Lavanda soddisferanno appieno questa esigenza. Per quanto riguarda le malattie, l’unica da cui bisogna difendersi è l’infezione radicale micotica di Phytophora che provoca seccume ai rami; per prevenirla bisogna intervenire in primavera e in autunno con un buon anticrittogamico su foglie e terreno.
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Ambiente e Benessere Cucina di Stagione La ricetta della settimana
Panna cotta ai frutti della passione Dessert
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Ingredienti per 4 persone: 4 fogli di gelatina · 1 baccello di vaniglia · 5 dl di panna · 80 g di zucchero. Per la salsa: 6 frutti della passione · 50 g di zucchero · 2 cucchiai d’acqua.
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1. Per la panna cotta ammorbidite la gelatina in acqua fredda. Incidete il baccello di vaniglia ed estraete i semini raschiandoli. Portate a ebollizione la panna con lo zucchero. Strizzate bene la gelatina e fatela sciogliere nella panna calda. Eliminate il baccello di vaniglia. Versate nei bicchieri e lasciate consolidare in frigorifero per circa 3 ore. 2. Per la salsa, dimezzate i frutti della passione e prelevate la polpa. Fatela sobbollire con lo zucchero e l’acqua per circa 5 minuti. Passate ⅔ della salsa attraverso un colino e unitela al resto della salsa. Fate raffreddare. Versate la salsa sulla panna cotta e servite.
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Mario Curti
Ambiente e Benessere
Una bella e gustosa camminata Mangialonga 2014 Grande successo della manifestazione eno-gastronomica del Mendrisiotto
Mario Curti
ranti, fortunatamente il primo maggio le ha smentite: sin dalle prime ore del mattino l’accogliente piazza di Rancate – sede di partenza e arrivo – era già baciata dal sole come tutta la stupenda regione collinare del San Giorgio. Come da programma, alle ore 8.45 i primi partecipanti si sono incam-
Mario Curti
fortunati partecipanti che sono riusciti a vincere, lo scorso 25 marzo, un vero e proprio sprint per aggiudicarsi i tanto ambiti pass, i quali per ragioni organizzative sono stati messi in vendita in un numero limitato. Se alla vigilia le previsioni meteorologiche non erano del tutto rassicu-
Mario Curti
È andata in scena, il 1° maggio, quella che a tutt’oggi rappresenta la più longeva e importante camminata eno-gastronomica del Ticino che ha contribuito in questi ultimi anni a motivare altri validi e volenterosi organizzatori
a far nascere e sviluppare manifestazioni analoghe nel Sopra e nel Sottoceneri. La Mangialonga anche quest’anno non ha tradito le aspettative. Grazie all’abile e collaudata regia del Gruppo «Vineria dei Mir», questa edizione rimarrà un bel ricordo per gli oltre 1800
Mario Curti
Renato Facchetti
minati in direzione di Ligornetto per poi salire verso Besazio. Con il passare delle ore, il gruppo sgranato avanzava sosta dopo sosta all’insegna del buonumore e della tranquilla voglia di scoprire i gusti e i sapori delle degustazioni in programma. Rispetto all’edizione dello scorso anno, la Mangialonga ha rivisto il percorso offrendo fantastici scorci panoramici, apprezzati soprattutto da coloro che hanno raggiunto questa bellissima regione del Mendrisiotto arrivando dal Sopraceneri oppure da oltre confine. Fra le novità di rilievo, in corrispondenza della sosta numero quattro, l’attraversamento della prestigiosa Azienda Agricola «Castello Luigi» a Besazio; questo piccolo paradiso ha ospitato la Cooperativa Migros Ticino, la quale con il proprio Party Service ha proposto all’insegna dei «Nostrani del Ticino» assaggi di polenta arrostita e luganighetta brasata abbinate ai vini proposti dalle Enoteche Vinarte: il Bianco del Ticino e il rosso Roncaia Riserva entrambi della Vinattieri di Ligornetto. I gusti nostrani sono stati accompagnati dalle note rock della band locarnese «...Piace?» che hanno dato la giusta carica a tutti per affrontare la salita verso il Municipio di Besazio e poi ancora più in su verso Tremona, che ha rappresentato una sorta di GPM (Gran Premio della Montagna dal gergo ciclistico) per poi incamminarsi lungo la discesa verso Rancate percorrendo la bella mulattiera attraverso la zona boschiva del Barozzo. Per raggiungere infine il traguardo di Rancate e l’ultima dolce sosta. Il prossimo appuntamento è già fissato per il 1° maggio 2015 e «Azione» informerà tutti gli interessati riguardo l’apertura delle iscrizioni.
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Ambiente e Benessere
«Sferruzza, sferruzza...» Sportivamente Ancora un parto gemellare, ma stavolta sono due maschietti, Leo e Lenny:
Alcide Bernasconi Per una volta sono stato costretto a dire di no a donna Michelle, la presidentessa del Federer Fans Club di via Collinetta. Quando alzo la cornetta del telefono (uno di quelli «vecchi», cioè attaccato al filo e sempre lì, allo stesso posto, da non doverlo andare a cercare per tutta la casa come accade con gli altri, a cominciare dai telefonini, già vecchi anche quelli, soprattutto il mio che sopravvive grazie ad alcuni giri di scotch che l’avvolgono, ossia il provvidenziale nastro adesivo, da non confondere col whisky a volte pure provvidenziale) mi saluta la bella voce di Michelle, per la verità con un leggero affanno.
Le donne del Fans Club di Via Collinetta appena saputo che il loro campione Federer era diventato di nuovo papà hanno iniziato a fare calzini e pigiamini «Se ghé?», le dico in dialetto, perché so in questo modo di indispettirla, tanto per gioco. Anche se mi accorgo però subito che non è il momento giusto di giocare, stavolta, perché Michelle sospira. Allora cerco di riscattarmi: «Carissima, cos’è successo? Qualcosa non va?». So che da tempo i rapporti coniugali sono un po’ tesi, su in cima a via Collinetta, come mi ha confessato con molta discrezione Victoria, la sollecita governante. Leggermente preoccupato, attendo la risposta. «No, no. Assolutamente. Tutto bene – mi rassicura Michelle –. Volevo soltanto dirti che in casa Federer è fe-
sta grande: sono nati due gemelli. Leo e Lenny!» spara Michelle, aggiungendo che in pratica sono uno dei primi a saperlo. Naturalmente dopo di lei, informata del lieto evento direttamente – come lascia intendere – dal nostro campionissimo della racchetta. Se è vero che la notizia era nell’aria, la sua conferma ha comunque prodotto una certa sorpresa nel sottoscritto. «Come – chiedo – due maschietti?» «Ma certo! Ti ho detto: Leo e Lenny». «Penso che siano due bei nomi», rispondo per non dispiacere Michelle, la quale sembra invece entusiasta. Leo e Lenny, ripeto mentalmente, cercando di capire se piacciono anche a me. Non so. Sempre meglio di «Set» e «Match» comunque, mi dico, ricordando – se è vera la storia che mi raccontarono una volta – di un ufficiale dell’esercito che chiamò una figlia «Fanteria»: un vero cannone, non c’è che dire! No, nel clan dei Federer, dove i gemelli non sono una novità – non solo per via di Charlene e Myla, le primogenite messe al mondo da Mirka nel luglio 2009, ma anche perché la sorella di Roger, Diana, un anno dopo diventò pure mamma di due gemelli, una femminuccia e un maschietto – non sono stati colti impreparati, tanto che i nomi erano stati decisi da tempo. Donna Michelle avrebbe voluto che salissi in villa per scrivere un messaggio augurale (non è stato mai il mio forte mandare auguri e nemmeno scrivere biglietti di condoglianze, regolarmente corretti se non bocciati senza remissione da mia moglie), ma un forte mal di denti mi ha trattenuto a casa. Così ho risposto: «Ti mando un e-mail». Il giorno seguente, però, sono comunque dovuto salire in villa per via dell’emergenza calzini e completini
Mettiamoci Una Pezza
e se un giorno, con Charlene e Myla, giocassero tutti a tennis…
per neonati, per dare una mano alla presidentessa e a Victoria. Molte donne hanno lavorato tutta la notte e altre hanno promesso a Michelle che nel giro di un giorno o due le avrebbero spedito pigiamini e tutto il resto, da mandare quale segno d’affetto a Roger e signora Mirka, come già fu il caso per le gemelline. Le signore, fra cui prevalgono le nonne, che guardano a Roger con affetto materno, si sono però dette preoccupate, perché ormai chissà quante tifose in tutta la Svizzera e all’estero staranno confezionando abitini per i due neona-
ti. «Pensi sia il caso che continui a sferruzzare?», ha chiesto non a caso una signora alla presidentessa del FFCVC (Federer Fans Club Via Collinetta), sede comunque introvabile, per motivi essenzialmente strategici, sulle mappe della grande Lugano. «Sferruzza, sferruzza…», ha risposto Michelle, ben sapendo che i Federer avrebbero poi distribuito a famiglie bisognose d’aiuto quei capi che sarebbero stati di troppo. Intanto la notizia, che ha fatto il giro del mondo in un battibaleno, ha suggerito a uno spiritoso giornalista
ORIZZONTALI 1. Periodi di cinque anni 6. Composto chimico organico 7. È dura in guerra 9. Dodici romani 10. Pronome latino 11. Due vocali 12. Nome femminile 13. Un gioco con le carte 17. Risiedevano nell’Olimpo 18. Termine liturgico 19. Finiscono in buca 20. Un rintocco di campana 21. Città della Toscana 22. Le iniziali dell’attore Scamarcio 23. Servono per suturare 24. Quarantacinque romani 25. Nome femminile 26. Non sempre è legale
Sudoku Livello facile
Giochi Cruciverba Chi è il personaggio della foto e quale famosa frase pronunciò? Risolvi il cruciverba, leggi nelle caselle evidenziate e lo scoprirai.
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VERTICALI 1. Città e tempio egiziano 2. Uccello marino 3. Un numero 4. Posta alla fine 5. Il nome di Stravinskij 8. L’attrice Rossellini 10. Ecco in francese 12. Meritevoli 13. Capostipiti 14. Terzo stomaco dei ruminanti 15. In coppia con Barbie 16. Rendono serena la sera 17. Si segue... a tavola 19. Avvolgere a Londra 21. Il sole londinese 23. Le iniziali del regista Avati 24. Le iniziali del motociclista Rossi
Scopo del gioco
Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contenga tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.
Soluzione della settimana precedente
Risate a denti stretti – Risposta risultante: No, grazie, mi trovo bene con il mio.
americano una divertente possibilità: se i gemelli di casa Federer dovessero pure darsi al tennis, ipotizzando che nel 2035, diciamo, potrebbero ritrovarsi al torneo di Wimbledon, ossia nel «giardino di Roger», i Federer potrebbero scendere in campo nel singolare maschile e in quello femminile, nel doppio maschile e nel doppio femminile e, non bastasse, anche nel doppio misto. Insomma, chi vivrà vedrà, con tanti auguri anche da parte nostra ai giustamente orgogliosi genitori Mirka e Roger.
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Politica e Economia I cattivi delle rete Questa volta è il turno di Steve Jobs, patron della Apple. Su di lui si sta aprendo un revisionismo che lo allontana dal mito
Brasile, fra cronaca nera e storia Il recente assassinio di un vecchio torturatore durante la dittatura militare fra il 1964 e il 1985 riapre un capitolo buio della storia di quel Paese
La Svizzera nel 1914 Come il nostro Paese visse l’arrivo della Grande guerra: intervista a Georg Kreis
Prove di dialogo L’accordo con la Croazia sulla libera circolazione rompe il ghiacco fra Berna e Bruxelles
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Pivot to Pechino
Geopolitica russa La crisi ucraina sta spingendo Mosca a cercarsi un mercato energetico alternativo
che non sia l’Europa: il più grande e promettente in questo momento è quello dell’Impero di Mezzo
Lucio Caracciolo La più importante conseguenza geopolitica della crisi ucraina è, per ora, l’intesa fra Russia e Cina. Non solo legata, come sempre, alla comune avversione alle «rivoluzioni colorate» e alla manipolazione reciproca per contare maggiormente al tavolo del rapporto, comunque difficile, con gli Stati Uniti d’America. Stavolta i due attori hanno giocato la carta energetica, ben più sostanziosa e pesante. Se infatti la destabilizzazione dell’Ucraina mette in questione, almeno nel medio periodo, l’interdipendenza energetica fra il produttore russo e il compratore europeo – finora in buona parte mediata dal vettore ucraino – è inevitabile per Mosca cercarsi un mercato alternativo: il più grande, e il più promettente, è senza dubbio quello cinese, anche come passaggio verso il Giappone e altri Paesi estremo-orientali. Di qui la «mossa del cavallo di Putin», che rischia di rendere vano qual-
siasi piano di sanzioni europee contro la Russia. E che dovrebbe trovare sanzione formale nel corso della prossima visita del presidente russo in Cina, il 20 maggio, quando è prevista la firma di un ventaglio di accordi sino-russi, a cominciare da quelli energetici. Come si è costruita questa variante cinese della geopolitica russa? Molto si deve alla scelta americana di appoggiare la rivolta ucraina di Majdan per mettere in difficoltà Putin e ridimensionarne le ambizioni globali e regionali. Probabilmente Obama, appoggiando i rivoluzionari di Kiev per punire Putin – troppo disinvolto in Siria, Egitto e altri scenari non propriamente afferenti alla sfera d’influenza classica della Russia – e impedire la saldatura di un asse russo-tedesco incompatibile con il mantenimento del primato americano in Europa, non aveva inserito nella sua matrice strategica la contromossa cinese del Cremlino. Perso il primo round ucraino, con la fuga di Yanu-
kovich, Putin ha chiamato Pechino. Marcando una svolta di 180 gradi, il leader russo ha proposto al collega cinese Xi Jinping un accordo «risorse contro investimenti» destinato a neutralizzare qualsiasi sanzione occidentale per la sua ingerenza in Ucraina, a ridisegnare la mappa energetica del mondo e a sviluppare la nuova via centroasiatica della seta volta a connettere la Cina all’Europa – ma in questo quadro non contro, bensì con la partecipazione della Russia. Dopo anni di trattative senza sbocco con la controparte cinese, in un clima di reciproca diffidenza, la crisi ucraina ha convinto Putin a vendere il suo gas a prezzi graditi e a condizioni assai favorevoli all’Impero di Mezzo, storico rivale della Russia sotto ogni forma e veste. Se sviluppato fino in fondo, specie sotto il profilo degli investimenti cinesi nelle infrastrutture russe, questo accordo passerebbe alla storia come il rovesciamento dell’altrettanto clamorosa apertura
di Nixon a Mao, in chiave antisovietica, nei primi anni Settanta del secolo scorso. L’intesa russo-cinese darebbe il colpo di grazia alle illusioni americane di applicare a Pechino lo schema del contenimento inflitto all’Urss, pudicamente ribattezzato pivot to Asia. E forse risveglierebbe Washington dalla rassicurante rappresentazione della Russia come potenza regionale, marchio difficilmente attribuibile a chi confina contemporaneamente con Cina, Stati Uniti ed euro-Nato. È Obama, non Putin e tanto meno Xi Jinping, a leggere la crisi ucraina in chiave regionale, anzi provinciale. Rischiando di trasformare la sua vittoria tattica a Majdan in sconfitta strategica. L’idea particolarmente cara al Pentagono era infatti di fermare la corsa della Repubblica Popolare alla leadership mondiale con una forte e duratura pressione politica, economica e militare (rafforzamento degli alleati americani nella regione), isolando Pechino nel
contesto asiatico. Peccato che il contenimento della Repubblica Popolare – lasciamo stare la follia di una guerra guerreggiata contro di essa – si fondi su almeno tre premesse intenibili: l’espansionismo cinese sui mari (Pechino è molto più interessata all’Asia centrale, porta girevole verso il mercato europeo, i tesori minerari siberiani e i fossili mediorientali); il coinvolgimento del Giappone come punta di lancia dello schieramento anticinese (dimenticando che la memoria delle nefandezze dell’imperialismo nipponico prevale in Asia sulla paura della Cina); l’esclusione della Russia, quasi fosse quantità trascurabile, non la pur declinante terza potenza mondiale, a ridosso di entrambi i contendenti. Vedremo nei prossimi mesi fino a che punto l’intesa russo-cinese si svilupperà. Di sicuro, per Obama si tratta di un imprevisto assai poco gradito, che lo dovrebbe indurre a rivisitare il suo approccio tanto alla Cina quanto alla Russia.
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AFP
Politica e Economia
Jobs, l’occasione mancata I cattivi della rete È in atto un processo di revisionismo che rilegge in chiave molto critica la figura del fondatore
della Apple. Che, se fosse ancora vivo, per il «New York Times» starebbe in carcere – Quarta parte Federico Rampini È il 3 maggio 2014 quando il «New York Times» sentenzia: «Se Steve Jobs fosse ancora vivo, oggi il suo posto probabilmente sarebbe in carcere». Non sono passati neppure tre anni dalla sua morte, all’età di 56 anni, il 5 ottobre 2011 a Palo Alto. Io ero tornato a San Francisco nei giorni della sua battaglia finale contro il tumore al pancreas. Vissi nel cuore della Silicon Valley l’enorme, sincera, struggente emozione per la sua scomparsa. Ricordo il clima di rispetto, perfino di venerazione, nei confronti di un personaggio entrato nella leggenda. Di lì a poco la monumentale biografia «autorizzata» di Walter Isaacson sarebbe diventata un best-seller mondiale. È impressionante la velocità con cui da allora si è consumato, logorato, svalutato un mito. Nel 2011 in un clima di lutto Jobs veniva virtualmente sepolto in un Pantheon di semi-dei della modernità. In seguito è cominciato il lavoro di demolizione del mito, il revisionismo storico ha fatto a pezzi una delle creature più rappresentative dell’economia digitale.
Persino Broadway ha profanato la memoria di Steve Jobs, mandando in scena lo sfruttamento capitalistico dell’azienda in Cina I segnali che per Apple sia scattato l’inizio di un declino, o quantomeno l’esaurimento della fase «rivoluzionaria», si moltiplicano. È nella logica delle cose. La rivoluzione della Rete divora continuamente i suoi figli prediletti. Tutti i giganti dell’economia digitale, per lo più nati sulla West Coast, hanno avuto parabole folgoranti seguite da un declino altrettanto inesorabile. Fu il caso di Microsoft, o più in piccolo quello di Aol e Yahoo. Il successo è effimero anche in altri settori dell’economia, ma nell’universo digitale i ribaltamenti di rapporti di forze avvengono in modo ancora più repentino. Per Apple si pone un problema quasi esistenziale. Il suo modello di business è fondato sulla capacità di impor-
re ai consumatori prodotti molto cari, se paragonati con l’offerta della concorrenza. È il caso dell’iPhone, che occupa il segmento alto nel mercato degli smartphone. È decisamente più costoso rispetto ai telefonini della Samsung e tutti quelli che usano il software Android di Google. Nel frattempo l’immagine subisce un peggioramento costante. Il revisionismo storico è implacabile nei suoi confronti, man mano che affiorano nuove verità su di lui. Un editoriale del «New York Times» lo ha paragonato «ai baroni ladri dell’età dell’Oro»: i monopolisti di fine Ottocento le cui prepotenze spinsero il presidente Ted Roosevelt a varare le prime norme antitrust. Il paragone non è esagerato: è proprio per i suoi comportamenti oligopolistici che Jobs viene giudicato. Lo scandalo che lo colpisce nella sua «base sociale» più fedele, nel nocciolo duro dei suoi ammiratori, tocca i portafogli di migliaia di talenti creativi della Silicon Valley. Jobs fu alla testa di un accordo di cartello tra i big dell’hi tech, per non sottrarsi dipendenti l’uno all’altro. Un accordo segreto, ferreo e ben rispettato, per cui Apple aveva la garanzia che un suo bravo ingegnere non avrebbe ricevuto offerte di lavoro da Google. E viceversa. Lo scopo: tenere sotto controllo gli stipendi. È evidente infatti che in un mercato del lavoro sano, vigoroso e competitivo, la mobilità professionale fa salire i costi per le aziende. Se un bravo programmatore di software riceve un’offerta dall’azienda concorrente, il più delle volte per attirarlo gli viene offerto un aumento di stipendio. E se il suo datore di lavoro attuale vuole trattenerlo, a sua volta deve fargli una controfferta: una sorta di asta competitiva. Questa normale competizione tra datori di lavoro venne bloccata dal 2005 in poi. Jobs minacciò Eric Schmidt, chief executive di Google, fino a convincerlo che era nell’interesse comune fare un’alleanza segreta «contro» i propri dipendenti. Del cartello entrarono a far parte, con le buone o con le cattive, molti big dell’economia digitale: con Apple e Google tra le aziende incriminate nella class action ci sono Intel, Adobe, Intuit, Pixar (ancora Jobs!), Lucasfilm. La loro colpevolezza è dimostrata: i primi a muoversi furono gli inquirenti federali del Dipartimento di Giustizia, che nel
2010 costrinsero Apple e gli altri ad un patteggiamento. La schiera delle vittime è ampia: ben 64’000 tra ingegneri ed esperti di software. La loro class action certo non suscita indignazione nel ceto medio americano. I giovani cervelli della Silicon Valley guadagnano bene, sono considerati dei privilegiati, nessuno pensa che Jobs li abbia ridotti alla miseria. E tuttavia è ingiusto, oltre che un reato contro le norme antitrust, se i datori di lavoro colludono tra loro per tenere gli stipendi artificialmente bassi. Anche perché Jobs, Schmidt e compagnia, non hanno fatto una battaglia da Robin Hood egualitari: si mettevano d’accordo per non rubarsi fra loro gli ingegneri, ma nel frattempo le loro stock-option, opzioni per l’acquisto di azioni, e quelle dei loro dirigenti continuavano a crescere. È un altro mito della Silicon Valley che cade, e non solo l’immagine postuma di Jobs. Anche nella componente più innovativa del capitalismo americano riaffiorano vizi antichi: il mercato è bello finché vale per gli altri, il monopolio è ancora meglio per ingrassare i propri profitti. E per i giovani talenti che nella Silicon Valley trovano ancora una terra dell’opportunità, arriva la scoperta che il padrone è sempre il padrone. «Se Steve Jobs fosse ancora vivo, oggi dovrebbe stare in carcere», quella provocazione del «New York Times» nel maggio 2014 riassume un dibattito in corso tra giuristi esperti di antitrust. L’antitrust in America è una cosa seria, in linea di principio. «Jobs – scrive il «New York Times» – sembra non avere mai letto, oppure ha scelto di ignorare, il primo paragrafo della legge Sherman che recita così: ogni congiura tesa a limitare la concorrenza è illegale, chiunque se ne renda colpevole commette un reato penale punibile fino a tre anni di carcere». Il quotidiano cita il giurista Herbert Hovenkamp, docente all’Iowa College of Law: «Jobs era la personificazione del reato di antitrust. È sconcertante il livello di rischio a cui si espose». Oltre alla congiura segreta che congelava il mercato del lavoro, un altro caso antitrust riguarda il cartello dei prezzi sugli e-book promosso dallo stesso Jobs, per il quale un giudice federale ha sancito che «Apple ebbe un ruolo centrale nella cospirazione». Poi c’è lo scandalo delle stock-option retrodatate.
Che vede Jobs recidivo: usò lo stesso trucco sia quando era chief executive della Pixar sia alla Apple. Questa storia delle stock-option macchia definitivamente l’aureola «zen» di cui il carismatico innovatore amava circondarsi: nei fatti dimostrò anche un notevole attaccamento al denaro. Le stock-option sono una componente essenziale nelle remunerazioni dei top manager americani, spesso più consistente dello stipendio. Hanno dei vincoli, si possono «esercitare» (comprando azioni a un prezzo predefinito, se vantaggioso) solo dopo una certa data. Ebbene, le stockoption di Jobs furono spudoratamente retro-datate in modo che lui incassasse subito un guadagno netto di 20 milioni. Poiché in questo caso il danno viene inflitto alla società stessa e ai suoi azionisti, la vicenda è stata insabbiata da un’indagine interna dell’ufficio legale di Apple che ha assolto Jobs. Non senza avere ammesso falsificazioni nei verbali dei consigli d’amministrazione. Tutto questo getta una luce sinistra sull’arcangelo decaduto. Una corrente apologetica è rappresentata da Brian Lam, esperto di tecnologia e fondatore del sito The Wirecutter, secondo il quale «Jobs non si piegava alle convenzioni, è la cultura delle imprese tecnologiche». Se un genio innovativo è per forza un ribelle nato, allora l’infrazione alla legge diventa un fatto «culturale»? Meno indulgente è proprio Isaacson, l’autore della biografia di Jobs: «Ha sempre pensato che le leggi fatte per le persone normali non dovevano applicarsi a lui». Anche nei piccoli dettagli della vita quotidiana: per esempio, è noto che Jobs usava un permesso irregolare per parcheggiare la sua auto nei posti riservati ai disabili. E poi c’è la nefandezza più grave: la Cina. «Per anni ho creduto che fossero solo dei robot a fabbricare il mio iPod, iPhone, iPad». È questo uno dei passaggi-chiave nell’Agonia ed estasi di Steve Jobs, il capolavoro teatrale di Mike Daisey con cui perfino Broadway ha «profanato» la memoria di Jobs. Dove il geniale autore-attore alterna il suo tributo appassionato e sincero al «culto globale di Apple», e il reportage-verità dal fronte dello sfruttamento capitalistico. No, non sono robot, ma decine di migliaia di operaie e operai cinesi, molti adolescenti di 13 e anche 12 anni,
quelli che Daisey ha visto con i suoi occhi, ai cancelli della fabbrica Foxconn di Shenzhen. Daisey è una sorta di Michael Moore del teatro, capace di regalare a un pubblico stordito e ipnotizzato due ore e mezza di puro spettacolo, one-man show, dove i passaggi sono travolgenti: dall’affabulazione gentile e suadente (quando è Jobs il protagonista) al giornalismo di denuncia che osa affrontare il «lato oscuro» di Apple. Daisey si espone in prima persona: lui è un vero fan di Apple, uno dei fedelissimi della prima ora. Può parlare con cognizione di causa di questa «religione» autentica, che ha cambiato il nostro mondo, regalandoci per qualche centinaio (o migliaio) di euro un delirio di onnipotenza: pochi gesti del polpastrello che sfiorano lo schermo dell’iPad o il display del telefonino ed eccoci convinti di «sapere tutto ciò che sa Google, o Wikipedia». Un amore deluso, che si conclude con una condanna: Jobs è stato una grande occasione mancata. Se c’era uno che aveva tutte le risorse necessarie – potere e coraggio, denaro e visione, egemonia e libertà – era lui: avrebbe potuto usarle per cambiare non solo un paradigma tecnologico, ma un modello di capitalismo. «Se avesse deciso di sposare la trasparenza vera, sulle condizioni di lavoro dei suoi operai in Cina, l’intera industria del pianeta avrebbe dovuto adeguarsi e imitarlo»: proprio come lo ha scimmiottato in tutte le sue rivoluzioni digitali. Daisey è andato davvero a Shenzhen, per costruire la sua sceneggiatura. Non lo hanno lasciato entrare dentro la Foxconn (920’000 dipendenti, il più grande complesso elettronico del mondo, una città-bunker); ma è riuscito a intervistare tanti dipendenti. Ha visto le mani orrendamente deformate degli operai non più giovani, relitti umani cacciati dalla catena produttiva. Ha raccolto le testimonianze sugli orari di lavoro – 14 ore al giorno – e sugli scioperi repressi brutalmente. «Ho visto le ragazze e i ragazzi che potrebbero costruire la democrazia in Cina, ma sono troppo occupati a tenere i ritmi massacranti della produzione». Si commuove alla scena del vecchio operaio cinese che carezza l’iPad, vede funzionare per la prima volta quello schermo che lui lucidava in migliaia di pezzi, e confessa: «È magico».
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Politica e Economia
Morte di un torturatore Brasile L’assassinio del colonnello Paulo Malhães, avvenuto dopo la sua deposizione davanti alla Commissione
istituita dal governo per ricostruire i crimini compiuti dalla dittatura militare, riapre una pagina tragica del Paese
Angela Nocioni Il cadavere riverso nel centro del soggiorno della grande casa piena di luce di Marapicu, nella campagna di Nova Iguaçu, subito fuori Rio de Janeiro, aveva un cuscino bianco infilato in bocca. La moglie dell’ucciso e il giardiniere hanno dato alla polizia locale la stessa versione dei fatti: tre uomini incappucciati hanno aperto la porta della vecchia casa di campagna, hanno imbavagliato i due rinchiudendoli in un ripostiglio e poi si sono diretti in salone. A una prima perquisizione risultano spariti 300 dollari, qualche gioiello di poco valore, una collezione di armi e i due computer dell’assassinato: Paulo Malhães, direttore del Centro di informazioni dell’esercito durante la dittatura brasiliana (1964-1985). L’ex colonnello, sconosciuto fino ad ora, è finito ritratto in grandi foto sulle prime pagine dei giornali locali solo un mese fa, per le dichiarazioni raggelanti con cui, davanti alla Commissione parlamentare istituita dal governo per ricostruire i crimini compiuti durante la dittatura, ha raccontato come negli anni Settanta fece sparire molti oppositori al regime militare dopo averli torturati.
Il 31 marzo del 1964 le Forze Armate realizzarono un golpe destituendo il presidente João Goulart. La dittatura militare resse fino al 1985 Dal registro della Commissione verità, udienza del 25 marzo scorso. Presidente della commissione, il giurista José Carlos Dias: Quante persone uccise? Malhães: Tante quante fu necessario. P: Non si pente di nessuna di queste morti? M.: No. P.: Come faceva per impedire l’identificazione dei corpi? M.: Strappando l’arcata dentaria e i polpastrelli. I denti li strappavamo via, poi tagliavamo l’ultima falange delle dita. Facevamo così. (Segue gesto del tagliar via l’ultima falange delle dita delle mani). Lo sguardo mansueto dell’ex colonnello mentre raccontava durante l’interrogatorio i dettagli del suo vecchio
lavoro di torturatore, è stata l’immagine con cui il Brasile ha ricordato il 31 marzo scorso il cinquantesimo anniversario del golpe militare. Passata la settimana di notorietà, Malhães, il primo militare a rivelare dettagli sull’esistenza di una rete di case della morte in cui si tentavano di trasformare i dissidenti sequestrati in informatori del regime, era tornato con la moglie e il giardiniere nella sua casa di Rio. La polizia locale, fin dal primo momento, ha parlato di «arresto cardiaco avvenuto durante un furto». «È logico che con quello spavento possa avere avuto un infarto» ha detto il portavoce della Delegacia de Homicídios da Baixada Fluminense, William Pena Júnior. Sono passati giorni prima che la polizia federale venisse affiancata a quella di Rio per investigare il caso seguendo l’ipotesi che il vecchio torturatore sia stato ucciso per ragioni diverse dal tentativo di furto. «È stato ucciso perché non potesse tornare qui a deporre e per inibire le deposizioni di altri testimoni che potrebbero ancora collaborare con noi» ha detto il giurista Pedro Dallari. Rua Arthur Barbosa, 668. Una villa bianca con giardino lungo una strada pittoresca di montagna affacciata sulla città di Petropolis, nascosta da ficus enormi e orchidee. Tutto, dal cancello al giardino curato, fa pensare a una ricca casa di campagna. Qui, secondo la deposizione di Malhães, è stato attivo per molti mesi negli anni Settanta un centro di detenzione clandestino. «Casa de conveniência», nel lessico dei militari. Ogni tanto si davano piccole feste organizzate in onore del Dottor Pedro, nome in codice del colonnello assassinato. «Per non insospettire i vicini» ha spiegato Malhães alla Commissione. «Dovevamo spaventare i prigionieri fino a farli collaborare – ha detto – l’alternativa alla collaborazione per loro era la morte. Io organizzavo la vigilanza, decidevo turni e decidevo quando era arrivata l’ora di preparare una festa per dare vita a questa casa». In sette anni sono passate decine di detenuti politici per la casa di tortura di Petropolis, che nei messaggi in codice della forze armate era conosciuta come «Codão». Si stima che almeno 22 persone siano state uccise nella villa e i loro corpi mutilati e fatti sparire. Nessuno dei cadaveri è stato ancora localizzato . È sicuramente stato imprigionato qui dentro il deputato federale Rubens Paiva, sequestrato il 20 gennaio del 1971
A Rio de Janeiro un pannello ricorda la fine delle elezioni democratiche imposto dal golpe militare. (Keystone)
e morto durante una sessione di tortura. Paulo Malhães ha a lungo negato di aver avuto qualsiasi informazione sul caso, poi a marzo ha ammesso di essere stato lui ad aver fatto sparire il corpo. «Ricevetti io l’incarico di risolvere il problema» ha dichiarato senza dare indicazione sul luogo in cui fu fatto sparire il cadavere. «Può essere che sia finito in mare o può essere che sia stato buttato in un fiume» ha detto. Una settimana dopo, testimoniando davanti alla Commissione, ha smentito il suo racconto dicendo che il compito di nascondere il cadavere fu affidato alla fine a un’altra persona. «Ho detto di essere stato io solo perché mi sembrava molto triste per la famiglia dopo 38 anni non avere un’indicazione sul luogo di sepoltura. Non sono un sentimentale, ma ho i miei scrupoli» ha dichiarato. Non ha fornito cifre, ma ha ammesso di aver torturato e ucciso «una quantità ragionevole» di dissidenti alla dittatura, uomini e donne appartenenti ai gruppi armati Vanguarda Popular Revolucionária, Acção Libertadora Nacional, Vanguarda Armada Revolucionária Palmares, Movimento Revolucionário 8 de Outubro. Più «alcuni»
studenti iscritti al partito comunista brasiliano. Una sopravvissuta, rimasta dentro alla villa di Petropolis 96 giorni, ripetutamente violentata e torturata con gli elettrodi, finita poi in una cella del carcere di San Paolo, uscita di prigione nel 1979 denunciò il centro di tortura all’ordine degli avvocati del Brasile spiegando come localizzarlo e fornendo i nomi in codice di 19 torturatori e dei medici che collaboravano con i militari. È stata lei a dare i nomi di una decina di persone, poi sparite nel nulla, intraviste nel centro clandestino. Malhães militava nel Mac, il Movimento anticomunista brasiliano, quando entrò nell’esercito. Aderì al golpe del 31 marzo ’64 contro il presidente João Goulart e fece una carriera rapidissima. Dopo un breve passaggio al Centro di preparazione del personale militare, allora una specie di scuola di tortura, fu promosso al vertice del Centro informazioni dell’esercito con il compito di creare una rete di infiltrati nelle diverse organizzazioni di lotta armata contro la dittatura. «Ero uno studioso di tecniche di interrogatorio» ha detto in un’intervista. «Ho imparato molto dall’analisi dei do-
cumenti dei servizi segreti statunitensi israeliani e britannici. Ho cominciato col fare tortura, ma poi mi sono evoluto» ha dichiarato spiegando di preferire alle sevizie fisiche la tortura psicologica. Alcuni ex prigionieri hanno raccontato di ricordare distintamente la meticolosità, la precisione e la perversione del colonnello durante le sessioni di interrogatorio. «Per far cambiare idea ai prigionieri dovevo distruggere le loro convinzioni sul comunismo in generale, i miei detenuti li ho convinti quasi tutti» si è vantato il colonnello. Nella udienza del 25 marzo durata più di due ore, ha spiegato con dettagli come i corpi venissero sventrati perché non si gonfiassero una volta gettati in mare. Durante la deposizione più volte si era lamentato dei rischi di ritorsioni contro la sua famiglia per aver omesso nomi dei prigionieri che giurava non ricordare come si chiamassero. «Ho cinque figli e otto nipoti e ho paura che le notizie che usciranno procureranno loro delle conseguenze» diceva. Chissà perché nessuno, nemmeno dentro la Commissione verità, si è preoccupato di mantenere in vita un testimone prezioso. Pedro Malhães non aveva scorta. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Intransigenza sui pedofili Votazioni federali Il 18 maggio popolo e cantoni sono chiamati ad esprimersi anche sull’iniziativa di «Marche
blanche» e su un articolo costituzionale sulle cure mediche di base, per rivalutare i medici di famiglia
Alessandro Carli I condannati per pedofilia dovranno definitivamente essere privati del diritto di esercitare attività professionali o di volontariato a contatto con minorenni o persone dipendenti. È quanto chiede l’iniziativa popolare in votazione il 18 maggio che, in sostanza, vuole impedire la recidiva. Per l’occasione saremo chiamati a pronunciarci anche sul nuovo articolo costituzionale, inteso a rafforzare le cure mediche di base nel loro insieme. Ai cittadini sono sottoposti anche altri due temi: la Legge federale sull’istituzione di un fondo per l’acquisto dell’aereo da combattimento svedese Gripen e l’iniziativa popolare «sui salari minimi», su cui abbiamo riferito nel numero precedente. Se per questi ultimi oggetti, stando ai sondaggi, il responso delle urne è incerto o negativo, per i primi due il «Sì» appare invece scontato.
L’iniziaziva sui pedofili chiede che chi ha subito condanne per atti sessuali su minori o persone dipendenti non possa mai più lavorare con fanciulli Complice anche Internet, si sente sempre più frequentemente parlare di casi di pedofilia. Il problema centrale è legato alla recidiva: spesso gli autori di reati del genere ricadono nel loro «vizio», poiché incapaci di controllarsi. Se sono invece considerati ammalati, non riescono a guarire. L’Ufficio federale di statistica (UST) ricorda che nel 2012 sono stati denunciati in Svizzera 1203 reati concernenti atti sessuali su fanciulli e 141 con persone incapaci di discernimento. Secondo l’iniziativa popolare di Marche Blanche, chi ha subito una condanna per un reato sessuale su fanciulli o su persone dipendenti (per es. invalidi) dev’essere privato definitivamente del diritto di esercitare un’attività professionale od onorifica a contatto con queste persone. È il solo modo per proteggerle, sottolineano i fautori dell’iniziativa. Il Parlamento – che lascia comunque libertà di voto – ha licenziato lo scorso dicembre una modifica del Codice penale, proposta dal Consiglio federale ancor prima che l’iniziativa fosse depositata, modifica che entrerà in vigore il primo gennaio prossimo. Numerosi pedofili sono recidivi e la loro presenza nelle scuole, nelle società sportive o tra gli handicappati costituisce dunque un pericolo permanente. Dato che, secondo gli esperti, la pedofilia è praticamente incurabile, per i sostenitori dell’iniziativa un temporaneo divieto di lavorare a contatto con fanciulli – come previsto dalla revisione del diritto penale – non serve a nulla: le inclinazioni di un pedofilo non cambiano nel tempo. I timori per le vittime devono essere preponderanti rispetto ai desideri dei delinquenti. Grazie alla sua formulazione chiara e semplice, l’iniziativa garantirà la sicurezza del diritto. I condannati hanno molte altre opportunità lavorative. Secondo gli oppositori del progetto, ritenuto troppo drastico, è ingiusto fare di tutte le erbe un fascio. Per loro e per il Consiglio federale – che chiede di respingere l’iniziativa – la legge votata dal parlamento è «molto migliore». A nome del comitato contro l’iniziativa popolare, il consigliere nazionale Andrea Caroni (PLR/AR) sostiene così che il testo di Marche Blanche è «inutile, la-
cunoso e sproporzionato». Anche per i contrari occorre fare in modo che i pedofili non lavorino più a contatto con bambini e disabili. Perciò – ribadisce Caroni – sono state votate severe modiche al Codice penale, che rispondono meglio al problema, rispetto alle richieste dell’iniziativa. A suo modo di vedere, quest’ultima si spinge troppo lontano, colpendo numerose persone, non necessariamente pedofili. Per esempio, con l’iniziativa un giovane di 20 anni che ha avuto una relazione sessuale con una ragazza di 15 anni o ha mostrato video pornografici a un giovane di questa età non potrà mai allenare una squadra di calcio giovanile, nonostante non sia pedofilo. Questa situazione è contraria al principio di proporzionalità, garantito dalla Costituzione federale, secondo cui una persona dev’essere condannata a una pena adeguata al fatto commesso. Un punto di vista, questo, non condiviso dai sostenitori dell’iniziativa, tra i quali anche l’avv. Paolo Bernasconi. L’ex procuratore pubblico ticinese sottolinea che da un canto, al pedofilo condannato si limita la possibilità di scegliere fra centinaia di professioni, ossia quella che lo mette a contatto con bambini, dall’altro, alla citata limitazione della libertà di scelta della professione, si contrappone la necessità di impedire che un pedofilo condannato possa nuovamente ripetere i suoi reati. Per il Penalista si tratta di una misura di prevenzione a tutela delle vittime minorenni, ma anche dello stesso pedofilo condannato, riducendo in questo modo i rischi di ricaduta. In questo senso, non si vede dove il principio di proporzionalità possa essere violato. Gli avversari dell’iniziativa ricordano invece che per rispettare questo principio, anziché un’interdizione a vita, la revisione del Codice penale prevede una serie di sanzioni differenziate a seconda della gravità degli atti commessi. I pedofili autori di reati gravi, condannati a una pena superiore ai 6 mesi, non potranno più lavorare a contatto con fanciulli o adulti vulnerabili per un periodo di 10 anni. I giudici potranno comunque pronunciare
Il problema centrale, nel caso dei pedofili, è l’altissimo rischio di recidiva. (Keystone)
un divieto definitivo se sussiste rischio di recidiva. Per pene inferiori ai 6 mesi, il giudice mantiene un margine di manovra. Tutto ciò non è però sufficiente. Per Paolo Bernasconi, la revisione del Codice penale consente ancora molte scappatoie, come nel caso di pedofili condannati a una pena inferiore ai 6 mesi, che non sarebbero colpiti dal divieto professionale o che, solo dopo 10 anni, potrebbero di nuovo lavorare con fanciulli. È facile immaginare quanti accorgimenti procedurali verranno messi in atto per ottenere una condanna non superiore ai 6 mesi. Orbene, la protezione dell’integrità dei bambini non deve permettere scappatoie di alcun genere, sottolinea Bernasconi. Per rilevare il carattere eccessivo dell’iniziativa, gli oppositori citano – come detto – il caso di una relazione tra un ventenne e una giovane di poco meno di 16 anni (limite che indica in
Svizzera la maggiore età sessuale). In caso di denuncia, al giovane verrebbe accollata l’etichetta di pedofilo per il resto della sua vita. Anche su questo aspetto, l’ex procuratore pubblico smentisce timori infondati, ricordando come gli amori giovanili sono quelli fra persone già sessualmente mature, sebbene non abbiano ancora raggiunto la maggiore età. In questo senso, l’iniziativa popolare non riguarda minimamente gli amori giovanili, visto che si riferisce unicamente a coloro che vengono condannati per pedofilia, che soddisfano le loro necessità sessuali con bambini, ossia con persone sessualmente non ancora formate. Secondo gli iniziativisti, il Codice penale prevede che il giudice possa rinunciare alla punizione in caso di amori giovanili. Di conseguenza, «in caso di assenza di azione penale, non vi può essere nemmeno interdizione profes-
Rivalutare il medico di famiglia Il ruolo dei medici di famiglia, dei pediatri e di altri operatori del settore sanitario va rivalutato. Perciò, popolo e cantoni dovranno pronunciarsi il 18 maggio anche sull’introduzione di un articolo costituzionale sulle cure mediche di base. Il testo, che dovrebbe essere approvato, risponde alle rivendicazioni dei medici di famiglia, che, preso atto del controprogetto diretto elaborato dalle Camere, hanno ritirato la loro iniziativa popolare. Il nuovo articolo impone alla Confederazione e ai cantoni di vegliare affinché tutti abbiano accesso a cure mediche di base sufficienti e di qualità, promuovendo la medicina di famiglia, ritenuta una componente essenziale del sistema medico di base. Attualmente, il sistema sanitario elvetico è efficiente e di ottima qualità, ma potrebbe vacillare: molti medici di famiglia con uno studio proprio si avvicinano all’età del pensionamento e non trovano un successore, in particolare nelle regioni periferiche. Si stima che nel 2030 quasi il 60% dei «medici generalisti» avrà più di 55 anni. Occorre quindi invertire la tendenza già sin d’ora. Secondo il ministro della sanità Alain Berset, una penuria di professionisti si delinea pure in altri settori, come la
geriatria. La popolazione invecchia e il numero di pazienti colpiti da malattie croniche aumenta, con conseguente crescita della domanda di prestazioni mediche, cure e assistenza. Oggi, il medico di famiglia compie cure urgenti e interventi semplici. Si tratta anche di garantire le prestazioni di pronto soccorso. La nuova norma impone alla Confederazione di legiferare sulla formazione nel settore delle professioni mediche di base e le condizioni dei «medici generalisti», ma anche di altri operatori come pediatri, levatrici, farmacisti, assistenti Spitex o fisioterapeuti. L’articolo costituzionale esige pure una «rimunerazione appropriata delle prestazioni di medicina di famiglia». I medici che operano in questo settore chiedono anche un miglior riconoscimento pecuniario, in particolare rispetto ai loro colleghi specialisti. Nella fissazione delle tariffe mediche, Berna è recentemente intervenuta per la prima volta, dato che i partner interessati (medici, ospedali, assicuratori) non sono riusciti ad accordarsi sull’adeguamento del tariffario Tarmed Suisse. Il Consiglio federale propone che i «medici generalisti» e i pediatri ricevano in media 9,80 franchi in più per consultazione. A titolo
di compensazione, le prestazioni dei vari specialisti saranno ridotte del 9%. Il governo non ha ancora deciso, ma si prevede un’applicazione delle nuove tariffe dall’autunno prossimo, indipendentemente dal risultato della prossima votazione. Non dipenderà dal voto nemmeno l’attuazione del piano direttore in favore della medicina di base (avviato da Berset nel 2012 quale accompagnamento al controprogetto), che fissa anche una migliore retribuzione delle analisi rapide o la formazione di circa 300 medici supplementari all’anno. Questo piano – secondo Marc Müller, presidente dei Medici di famiglia – «si è rivelato estremamente efficace». I medici ritengono comunque che un «sì» il 18 maggio permetta di garantire che questo piano direttore sia attuato e le promesse in esso contenute vengano realizzate. Unitamente ai medici di famiglia, sostengono dunque il progetto. Per quanto riguarda i partiti, soltanto l’UDC si oppone al nuovo articolo costituzionale sulle cure mediche di base, ma senza fare campagna. I democentristi temono un trasferimento di competenze dei Cantoni alla Confederazione. Sono inoltre restii a fornire una garanzia di reddito a una categoria professionale. /AC
sionale». Inoltre, basterà precisare nella legge d’applicazione che l’esigua differenza d’età tra giovani che hanno avuto atti sessuali consenzienti con persone a loro avviso apparentemente maggiorenni possono permettere di giungere alla conclusione, come per altre fattispecie, che un divieto di lavoro a vita è sproporzionato. Ma gli oppositori non ci credono. In Parlamento, i sostenitori dell’iniziativa non sono scesi a compromessi e hanno fatto di tutto per sbarrare la strada a una soluzione legislativa. La revisione del Codice penale, alla fine adottata senza l’approvazione dell’UDC e del PBD (unici partiti che raccomandano di votare sì), rende superfluo il testo di Marche Blanche, affermano gli avversari. Secondo loro, l’inasprimento della legge applicabile dal primo gennaio sarà efficace e differenziato, a seconda degli atti. Diversamente dall’iniziativa, potrà essere attuato in tempi brevi. Il divieto di esercitare un’attività potrà essere messo in pratica non soltanto in caso di reati sessuali, ma potrà punire tutte le forme di violenza fisica e psichica, compreso il maltrattamento nei confronti di un minorenne o di una persona bisognosa di cure. Se necessario, i tribunali potranno disporre anche altre misure di protezione, per esempio vietare all’autore di un reato di contattare fanciulli via Internet o di trattenersi nei pressi di una scuola. Tuttavia, un divieto di lavorare a contatto con minorenni verrebbe pronunciato solo in ultima ratio. In caso di infrazioni sessuali gravi (stupro) l’interdizione sarà di 10 anni, prorogabile ogni volta di 5 anni. A dar fastidio agli iniziativisti è il fatto di lasciare alla discrezionalità dei giudici la facoltà d’interdizione di una professione o di un’attività di volontariato a contatto con i bambini. Di fronte alla concreta possibilità di recidiva dei pedofili condannati non si transige. Per non nuocere alla propria immagine a poco più di un anno dalle elezioni federali, nessuna formazione politica se l’è sentita di dirigere la battaglia del «no» contro l’iniziativa, sostenuta da UDC e PBD. Il compito è così stato lasciato a un comitato. Anche il Consiglio federale non può scendere in campo, visto che le Camere non hanno deciso una parola d’ordine. Cavalcando emozioni favorevoli, l’iniziativa potrebbe dunque trovare il consenso delle urne.
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Politica e Economia
«Il Ticino poteva servire da merce di scambio» La Grande guerra Intervista allo storico Georg Kreis a 100 anni dall’inizio del primo conflitto mondiale
Luca Beti Quando il 1914 finì, nessuno, né soldato né civile, immaginava che erano trascorsi solamente i primi cinque mesi di una lunga guerra che sarebbe durata quattro interminabili anni. Fu un conflitto armato diverso e radicalmente nuovo rispetto a quelli precedenti, come la Guerra di Crimea del 1855 o quella tra la Germania e la Francia degli anni 1870-1871. Fu la Grande guerra: una guerra mondiale che lasciò sul campo circa nove milioni di soldati e che uccise otto milioni di civili. Accerchiata dalle grandi potenze europee, la Svizzera fu una specie di «isola della sicurezza instabile» come sintetizza lo storico Georg Kreis nella sua ultima pubblicazione Insel der unsicheren Geborgenheit. «La Svizzera si trova in un mare in guerra; così era descritta la situazione del nostro Paese durante il conflitto», illustra l’emerito professore di storia contemporanea presso l’Università di Basilea. «Il titolo del libro evidenzia la condizione paradossale vissuta dalla Svizzera in quel periodo storico: da una parte la volontà di chiudersi su se stessa a difesa della propria sovranità, dall’altra la paura di essere isolata ed esclusa dal resto del mondo. Anche se il conflitto risparmia il nostro Paese, lascia profonde ferite a livello politico, economico e sociale». A cento anni della Grande Guerra, Georg Kreis pubblica un’opera suddivisa in otto capitoli, accompagnati da una ricca collezione di fotografie, grafici, manifesti e caricature. Nelle quasi 290 pagine, lo storico basilese richiama fatti e avvenimenti in parte dimenticati e fornisce un nuovo tassello, soprattutto sull’economia di guerra e sugli armamenti, che va a completare un puzzle ancora incompleto sulla storia della Prima guerra mondiale in Svizzera.
Il 28 giugno 1914 due proiettili di pistola innescano il meccanismo delle alleanze in Europa. Sono due colpi che, cento anni fa, trascinano l’Europa nel primo conflitto mondiale. Una guerra salutata con gioia ed entusiasmo un po’ ovunque. E in Svizzera con quali sentimenti è accolta?
In Svizzera, come negli altri Stati europei, inizialmente prevale un sentimento di generale euforia che perdura per i primi due mesi. L’entusiasmo contagia soprattutto la gente di città e meno quella di campagna perché quest’ultima deve lasciare le fattorie, gli animali, i campi appena prima della mietitura. Da ottobre-novembre si fa invece largo la disillusione di fronte a un conflitto che tiene gli uomini lontani dalle loro attività quotidiane, dai loro cari per un tempo molto più lungo di quanto dapprincipio si credeva o si sperava.
Mi preme tuttavia ricordare che se all’inizio euforia c’è stata, questa è servita alla propaganda per inneggiare alla guerra. Quest’ultima ha naturalmente diffuso solo le immagini dei soldati festanti e non quelle che ritraggono la popolazione che guarda alla guerra con paura. In molti imbracciano il fucile; sono convinti di far ritorno alle proprie case, al più tardi, per Natale. Non sarà proprio così.
Già, sarà una guerra lunga, logorante e che falcerà la gioventù di mezza Europa. Sulla durata del conflitto, gli storici hanno sempre diffuso l’idea che ci fu un generale errore di valutazione e che nessuno avesse previsto una guerra totale. Ci sono invece documenti in cui gli stati maggiori militari riassumono un pensiero abbastanza diffuso all’epoca, ossia che il conflitto non si sarebbe risolto in pochi mesi e che avrebbe assunto dimensioni fino ad allora sconosciute. Nulla a che vedere quindi con una passeggiata goliardica. In Svizzera, il 1° agosto 1914 il Consiglio federale dichiara la mobilitazione generale dell’esercito. Entrano in servizio attivo circa 220’000 uomini: è una chiamata alle armi senza precedenti. All’inizio del conflitto, quali erano le minacce militari che incombevano sul nostro Paese?
Lo stato maggiore elvetico temeva che se la linea Sigfrido, sul fronte tedesco, o quella sul fronte francese, avessero retto, i due eserciti avrebbero tentato di sopraffare l’avversario con una manovra di accerchiamento che sarebbe passata attraverso la Svizzera nordoccidentale. Tale offensiva avrebbe coinvolto buona parte dell’Altopiano svizzero, da Zurigo a Neuchâtel. Un’inquietudine che accompagnò l’esercito elvetico per tutta la durata del conflitto. A cambiare fu solo il grado di pericolo che mutava in corrispondenza degli sviluppi della guerra di trincea sul fronte occidentale, soprattutto quando la battaglia infuriava nei pressi del confine elvetico. Tale situazione si riflette nelle statistiche riguardanti il numero di soldati chiamati al fronte. Dopo il picco di oltre 200’000 uomini dell’agosto 1914, la cifra diminuisce gradualmente, soprattutto nei mesi freddi. Nell’inverno tra il 1916 e il 1917, gli effettivi superano ancora una volta le 100’000 unità poiché si temeva un’avanzata francese attraverso il territorio svizzero. Durante il conflitto, lo stato maggiore elvetico seguì la seguente massima: «Quanto necessario, ma il meno possibile», per evitare costi inutili allo Stato e per non sottrarre gli uomini alle loro mansioni quotidiane. Solo la Svizzera a Nord delle Alpi era minacciata dalle potenze in conflitto. La Svizzera italiana non era in pericolo?
Lo stato maggiore elvetico temeva che l’Italia, dopo la sua entrata in guerra nel 1915, volesse annettersi il Ticino, per riunire nel Regno d’Italia le terre irredente, quei territori popolati da italofoni. Va ricordato che il Ticino era difficilmente difendibile militarmente a causa del massiccio del San Gottardo. Il pericolo incombeva anche altrove. Per esempio, dal 1915 e fino alla fine del conflitto, la triplice frontiera sullo Stelvio rimase presidiata senza interruzione. Nel suo libro scrive che il generale Ulrich Wille era disposto a sacrificare il Ticino per salvaguardare la Svizzera da un male maggiore.
Quale credito dare a questa idea? I militari devono sempre dare forma
Allo scoppio della guerra, a Basilea, come in altre regioni di frontiera, vengono allestite barricate. (Archivio federale svizzero)
a possibili minacce e scenari futuri e la cessione del Ticino era un’ipotesi presa in considerazione dal generale. Secondo quest’ultimo, il Ticino poteva servire da merce di scambio nel caso in cui si doveva scendere a patti con una delle potenze in conflitto. Ulrich Wille non ha approfondito oltre queste prime riflessioni che però ci fanno capire quale fosse l’idea dello Stato federale in quel periodo. La Svizzera è insidiata da tutti i lati. Ma militarmente è pronta ad affrontare un conflitto armato?
La mobilitazione generale si svolse senza problemi e in pochi giorni portò più di 200mila uomini a presidiare le frontiere. Invece, l’equipaggiamento e gli armamenti non erano proprio al passo con i tempi, almeno questa è la valutazione che possiamo dare oggi, con il senno di poi. Allo scoppio della guerra, la divisa era ancora blu e soltanto sul finire del conflitto i soldati poterono indossare un’uniforme meno appariscente di colore grigio. Il cappello tradizionale fu sostituito nel 1918 da un elmo d’acciaio. La flotta area consisteva in soli otto velivoli, tutti di proprietà privata, che formavano due squadriglie di quattro monoplani e di altrettanti biplani. Anche la sostituzione delle decine di migliaia di cavalli con mezzi motorizzati avvenne con un certo ritardo. Questi sono solo alcuni esempi del divario tecnologico tra l’esercito elvetico e quelli degli altri Stati belligeranti; ritardo che si tentò di colmare aumentando notevolmente i mezzi finanziari a disposizione dell’esercito. Con l’inizio della guerra, la Svizzera dichiara subito la sua neutralità. Ma la Svizzera non è mai stata davvero neutrale. Uno storico, Max Mittler, scrisse in maniera sarcastica: «Neutrale per un periodo di 60 giorni». La nomina a generale di Ulrich Wille, apertamente filo-tedesco, è sintomatica di questa dicotomia.
Si parlava di 60 giorni poiché si pensava che a due mesi dallo scoppio della guerra la Svizzera si sarebbe unita alla nazione vincente e che quest’ultima le avrebbe fornito il grano necessario per sfamare la popolazione.
La neutralità era una medaglia a due facce: su un verso era raffigurata l’ideologia, sull’altra la pratica. Da un punto di vista ideologico, la Svizzera si presentava sempre neutrale, sia dentro sia fuori i confini nazionali, anche se non è mai stata davvero neutrale. Poi c’è la neutralità orientata alla pratica, quella volta a difendere la sovranità dello Stato. L’elezione di Wille si colloca proprio in quest’ordine di idee. Allora era considerato l’uomo che più di altri poteva tutelare gli interessi della Svizzera. A distanza di 100 anni, non mi sento tuttavia in diritto di criticare l’atteggiamento assunto dal Consiglio federale anche perché era necessario interrogarsi da che parte stare se non era più possibile salvaguardare la neutralità. La nomina di Ulrich Wille è anche sintomatica della divisione interna della Svizzera. Da una parte, i cantoni romandi si schierarono a favore dell’Intesa, quelli tedeschi erano apertamente per gli Imperi centrali.
Sull’onda dell’entusiasmo per lo scoppio del conflitto, si sperava che questo fossato tra le regioni linguistiche del Paese si colmasse da sé. Nel 1914, la Svizzera non entrò in guerra unita da un comune sentimento nazionale e se questo ci fu, scomparve dopo l’euforia iniziale. Anzi, i contrasti tra le regioni linguistiche crebbero notevolmente durante la Prima guerra mondiale. Inoltre, durante i quattro anni di guerra si accentuò anche il divario tra i ceti sociali, tra chi superò la guerra senza grossi problemi e chi invece dovette soffrire la fame, soprattutto a partire dal 1916. Si sa, per taluni un conflitto armato può essere anche un affare. Ci furono dei settori economici che guadagnarono grazie alla Grande guerra?
La guerra è stata un affare soprattutto per l’industria d’esportazione, per esempio, per quella meccanica, alimentare, chimica o orologiera. Per la fabbrica Sulzer, che produceva motori diesel, o per la fabbrica di cioccolato Suchard, l’utile raddoppiò in poco più di quattro anni. Durante il conflitto, la cioccolata era diventata,
infatti, un prodotto molto richiesto sia dagli eserciti sia dalla popolazione civile, perché era un alimento pratico, corroborante e a buon mercato. Durante gli anni del conflitto, grazie all’aumentata richiesta di coloranti per le uniformi anche le giovani aziende chimiche Ciba e Sandoz aumentarono il loro fatturato annuo: di sette volte, la prima, di quindici, la seconda. Non dobbiamo però dimenticare i contadini che a loro volta trassero dei profitti poiché poterono smerciare senza grandi difficoltà i loro prodotti sia in patria sia all’estero, come testimonia la vendita di bovini alla Germania in cambio di carbone. La Prima guerra mondiale e il lungo periodo di instabilità monetaria e politica che seguì in Europa mise le ali alla piazza finanziaria elvetica che visse un’impressionante crescita. Alla fine del conflitto, la Svizzera non è più la stessa del 1914. Che Svizzera troviamo nel 1918?
Si dice che l’era borghese sia tramontata con la Prima guerra mondiale. Dal 1918 in poi, il consueto ordine sociale viene messo costantemente in discussione, in una forma molto più incisiva, più radicale di quanto fosse avvenuto prima. Per esempio, il blocco borghese non può più rifarsi alla tradizione ed è chiamato a difendere il proprio potere che detiene dalla costituzione dello Stato federale. La destra non può più semplicemente fare spallucce alle richieste della sinistra. Ritroviamo anche uno Stato aperto e non chiuso in se stesso, come avviene in seguito con la grande crisi economica. Così, nel 1920, dopo un acceso dibattito politico, la Svizzera entra nella giovane Società delle nazioni. Biografia
Nato nel 1943 a Basilea, Georg Kreis ha occupato fino al 2009 la cattedra di storia contemporanea presso l’Università di Basilea e fino al 2011 ha diretto l’Istituto europeo dello stesso ateneo. Kreis ha fatto parte della commissione Bergier, che ha analizzato il ruolo della Svizzera nella Seconda guerra mondiale.
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Politica e Economia Didier Burkhalter ha lanciato la proposta di una votazione sui rapporti bilaterali con l’UE, subito criticata dall’UDC. (Keystone)
Cantoni ancora a bocca asciutta? Banca Nazionale Svizzera Probabile anche
per il 2014 nessuna distribuzione di utili a Confederazione e Cantoni, ma le previsioni sono difficili e la BNS resta molto prudente
Ignazio Bonoli
Il ghiaccio si scoglie CH-UE Primi passi di Berna per uscire dalla situazione di stallo
con Bruxelles dopo il voto del 9 febbraio – In vista anche una votazione popolare sui rapporti bilaterali con l’Unione Europea nel 2016
Marzio Rigonalli Negli ultimi dieci giorni, sono stati compiuti alcuni passi nei rapporti tra la Svizzera e l’Unione europea. Passi che hanno l’obiettivo di rompere il ghiaccio e di uscire dalla situazione di stallo che si è creata dopo il sì popolare all’iniziativa contro l’immigrazione di massa, lo scorso 9 febbraio. Un’iniziativa, ricordiamo, che boccia la libera circolazione delle persone, ossia uno dei pilastri della costruzione europea, e che è anche alla base dei principali accordi conclusi tra Berna e Bruxelles. Queste prime mosse, però rappresentano soltanto uno spiraglio, che lascia in sospeso tutti i principali dossier bilaterali e che non cancella il grosso punto interrogativo che grava sulla forma e sui contenuti che potranno avere i futuri rapporti bilaterali.
Berna ha proposto e Bruxelles ha accettato che per la Croazia entri in vigore la libera circolazione, ma senza una firma del protocollo L’iniziativa è stata presa da Berna. Non potendo più firmare il protocollo con la Croazia, diventata il 28. Stato membro dell’Unione europea il 1.luglio 2013, il Consiglio federale ha deciso di mettere in pratica quello che aveva proposto subito dopo la votazione del 9 febbraio scorso, ossia di applicare il protocollo senza firmarlo. Ha così aperto una porta del mercato del lavoro elvetico ai cittadini croati, attribuendo loro dei contingenti: 50 permessi di dimora annuali e 450 permessi per dimoranti temporanei. Inoltre, si è impegnato a sottoporre al parlamento l’approvazione di un contributo all’allargamento dell’UE di 45 milioni di franchi, a favore della Croazia. Contributi simili sono già stati stanziati, in passato, per i Paesi che hanno aderito all’UE nel 2004. La soluzione adottata è temporanea e, apparentemente, è stata ben recepita sia da Zagabria che da Bruxelles. A questa apertura, Bruxelles non ha risposto con qualcosa di concreto. Si è accontentato di mettere sul tavolo la promessa di aprire un negoziato bilaterale in vista di un accordo istituzionale. Si tratta di giungere a misure concordate, concernenti la ripresa del diritto europeo da parte elvetica, la soluzione dei conflitti sull’applicazione dei numerosi accordi settoriali conclusi tra la Svizzera e l’UE, nonché le sanzioni in caso di violazioni. È un passaggio obbligato per miglio-
rare l’accesso dell’economia svizzera al mercato europeo e al quale è legato anche il tanto atteso accordo sull’elettricità. L’UE ha conferito, pochi giorni fa, il mandato negoziale alla sua Commissione. Il Consiglio federale vorrebbe estendere il negoziato anche alla formazione ed alla ricerca, per trovare una soluzione temporanea ai dossier «Horizon 2020», «Erasmus» e «Media». L’UE ha bloccato la partecipazione della Svizzera a questi programmi di ricerca, di scambio degli studenti e di sostegno al cinema, poiché erano legati alla firma del protocollo con la Croazia. Non è ancora chiaro se la soluzione con la Croazia proposta da Berna sarà sufficiente per ridare ai ricercatori ed agli studiosi elvetici, in tempi brevi, le possibilità che avevano a disposizione prima del 9 febbraio. L’iniziativa del Consiglio federale è stata accolta in Svizzera in modo molto diverso, secondo gli schieramenti politici. I fautori della via bilaterale l’hanno definita un passo nella buona direzione, una soluzione temporanea ragionevole. Chi esprime molta comprensione per le posizioni assunte dall’UE dopo il 9 febbraio, parla di una manovra destinata soltanto a limitare i danni. I promotori dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa, invece, dicono che il Consiglio federale si è inginocchiato davanti a Bruxelles. Secondo loro, il governo ha fatto troppe concessioni, non ha rispettato la volontà popolare espressa nel voto del 9 febbraio e, con il suo agire, sta minacciando l’autodeterminazione della Svizzera. Si sono dichiarati subito pronti a continuare la lotta. Si opporranno in parlamento sia al contributo di 45 milioni di franchi deciso per la Croazia, sia ad un eventuale accordo istituzionale che potrebbe scaturire dal previsto negoziato. Una strategia che nasconde a mala pena l’obiettivo finale, ossia quello di eliminare la libera circolazione delle persone e di affossare gli accordi bilaterali, sostituendoli con un accordo di libero scambio. Purtroppo, la partita diplomatica che Berna sta ingaggiando con Bruxelles lascia poco spazio all’ottimismo. Vi sono almeno due premesse negative. La prima riguarda i rapporti di forza. Dopo il 9 febbraio, la Svizzera si è ritrovata in una posizione di debolezza nei confronti dell’UE. È lei che ha rinnegato il principio della libera circolazione delle persone, un principio che tutti i 28 Paesi membri dell’Unione riconoscono, che caratterizza la vita interna all’Unione e che è anche parte integrante di numerosi accordi bilaterali con la Svizzera. Tocca, quindi, a Berna
dire come intende procedere e proporre una via d’uscita che possa essere riconosciuta da tutti i 28 governi europei. È ovvio che l’UE non accetterà una soluzione che possa costituire un precedente e aprire la porta a situazioni che potrebbero frenare il processo d’integrazione. La seconda premessa negativa è legata alla situazione interna dell’UE. Fra meno di due settimane ci saranno le elezioni europee, con il rinnovo del parlamento, e più tardi, con la nomina di una nuova Commissione europea. A Bruxelles, dunque, si respira un’area di fine legislatura. Un vero negoziato con la Svizzera potrà iniziare soltanto verso la fine dell’anno. Per di più, l’attuale presidente della Commissione, José Manuel Barroso, ha studiato a Ginevra e conosce molto bene la Svizzera e le sue particolarità politiche e culturali. Non è sicuro che il nuovo presidente della Commissione e gli altri membri saranno animati dallo stesso spirito di conciliazione e dimostreranno la stessa comprensione nei confronti della Svizzera e delle sue rivendicazioni. Qual è a questo punto lo scenario più verosimile? È quello che porta ad una nuova votazione popolare, premesso che gli iter negoziale e parlamentare si svolgano senza troppi intoppi. In una recente intervista, il presidente della Confederazione e ministro degli esteri, Didier Burkhalter, l’ha annunciata per il 2016, dunque fra due anni. Ha anche precisato che, probabilmente, il popolo sarà chiamato a pronunciarsi sul rapporto bilaterale con l’Unione europea. Un rapporto sul quale ci sono già state sette votazioni popolari e ch’egli spera poter rinnovare e fondare su nuove basi solide. Ciò presuppone che sul tavolo ci siano almeno due risultati concreti: l’accordo istituzionale con l’Unione europea, in una forma che non violi la sovranità nazionale, e l’applicazione dell’iniziativa popolare approvata il 9 febbraio, in termini che non siano lesivi della libera circolazione delle persone. La quadratura del cerchio, insomma, senza se né ma. Il percorso s’annuncia pieno di ostacoli e con poche certezze sul suo esito finale. Il primo momento forte l’avremo già prima dell’estate, quando il Consiglio federale manderà in consultazione il concetto che sta preparando e che ci dirà come conviene applicare l’iniziativa popolare contro l’immigrazione di massa. Non è difficile immaginare il coro di consensi e di critiche che sorgerà e che si prolungherà fino alla fine della consultazione. La proposta legislativa in merito è stata annunciata per la fine dell’anno.
Come indicavamo nell’articolo della scorsa settimana, alcuni cantoni svizzeri hanno risentito pesantemente del mancato versamento della partecipazione agli utili della Banca Nazionale. I cantoni ricevono, infatti, i due terzi del miliardo di franchi previsto dall’accordo in vigore fino al 2015 (un terzo va alla Confederazione), ma a condizione che la riserva costituita con questo scopo sia sufficiente. Nel bilancio 2013, le perdite della Banca Nazionale (vedi «Azione» del 20.1.2014) sono valutate in 9 miliardi di franchi. Aggiunti ai 3 miliardi di accantonamento per riserve valutarie, raggiungono i 12 miliardi di franchi e sono molto superiori ai 5,3 miliardi delle riserve esistenti per consentire la distribuzione a cantoni e Confederazione. I cantoni sono anche i maggiori azionisti della Banca Nazionale, ma il risultato del 2013 non permette nemmeno la distribuzione di utili agli azionisti. Così il canton Ticino, che contava su un versamento di 44 milioni di franchi, stimati prudenzialmente in preventivo a 18 milioni, vede il consuntivo diminuito di una somma cospicua. Anche l’assemblea degli azionisti della Banca Nazionale, svoltasi il 25 aprile, ha dovuto prendere atto che per il 2013 non vi sarà alcuna distribuzione di dividendo. In realtà, l’azione della Banca Nazionale ha piuttosto il carattere di un’obbligazione, poiché i dividendi sono limitati per legge e la politica della Banca tende a mantenerli stabili. Ma questa volta, a seguito anche delle nuove regolamentazioni, a causa delle perdite dovute soprattutto al forte calo delle quotazioni dell’oro, non viene distribuito nessun dividendo. Le regole precisano, infatti, che il dividendo va distribuito dopo l’attribuzione degli accantonamenti alle riserve valutarie (circa 3 miliardi di franchi all’anno) e alla riserva per la distribuzione degli utili a cantoni a Confederazione (quest’anno diminuiti di 6,8 miliardi). Questa situazione lascia presagire che per la Banca Nazionale sarà difficile realizzare un utile di 9/10 miliardi di franchi, che permetterebbe di distribuire contributi e dividendi per il 2014. Infatti, per il momento, le quotazioni dell’oro si sono mosse di poco e, sulle valute estere, si può valutare un utile di circa un miliardo di franchi, per cui siamo ben lontani dai risultati che possano mutare la tendenza. Da notare che lo scorso anno il calo delle quotazioni dell’oro aveva provocato
una perdita di 15 miliardi di franchi e che ormai una cifra di bilancio di circa 500 miliardi di franchi può provocare variazioni importanti sulla consistenza degli utili. Questa cifra di bilancio è composta in gran parte da riserve valutarie, fortemente aumentate a causa della difesa del tasso di cambio sull’euro e sul dollaro. Tra gli azionisti privati c’è perciò chi nutre qualche timore e si chiede perché la Banca nazionale non cominci a vendere piccole parti di queste riserve, almeno finché l’euro rimane abbastanza lontano dalla soglia di intervento di 1,20 franchi. La Banca Nazionale non vuole però dare indicazioni al mercato, se per caso vendesse euro a 1,24 franchi e questa vendita venisse considerata una nuova soglia di intervento. Comunque dalle cifre di bilancio si può vedere che la BNS ha pure venduto divise per 3,1 miliardi di franchi. Il presidente della direzione ha confermato che la tensione nell’area dell’euro si è sensibilmente ridotta, ma la mancanza di riforme strutturali continua a chiedere molta prudenza, il che può voler significare che la BNS continuerà a mantenere la soglia di intervento sull’euro a 1,20 franchi. Un’altra fonte di preoccupazione per la Banca Nazionale continua ad essere il mercato immobiliare svizzero. Secondo le ultime valutazioni, la situazione continua ad essere abbastanza tesa. Il «cuscinetto congiunturale», che invitava le banche a maggior prudenza nella concessione di crediti ipotecari e stabiliva un aumento dell’1% dei mezzi propri, è entrato in vigore il 30 settembre scorso. Come si prevedeva da più parti, non ha prodotto per il momento risultati sensibili. Se non altro ha però permesso di aumentare i mezzi propri delle banche da usare in caso di necessità. L’argomento è però sempre presente presso le autorità. Effetti più incisivi potrebbe avere la proposta della FINMA di introdurre un obbligo d’ammortamento per delle ipoteche a un tasso calcolatorio del 5%. Per esempio, per un tasso ipotecario effettivo del 2% si dovrebbe ammortizzare ogni anno il 3% dell’ipoteca. Si tratterebbe in pratica di un aumento del tasso guida, che da tempo piace alla Banca Nazionale. Piace meno alle banche, dal momento che le autorità hanno già i mezzi per intervenire in caso di eccessi da combattere. Nonostante qualche segno di rallentamento sul mercato immobiliare, non si possono quindi escludere interventi che si basino soprattutto sulle «ipoteche a rischio».
Il calo delle quotazioni dell’oro impedisce la distribuzione di dividendi. (Keystone)
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la piazza di Angelo Rossi Ogni tanto uno zuccherino fa bene Da qualche anno la Svizzera del segreto bancario che cerca, in tutti i modi, di opporsi all’imposizione della comunicazione automatica di informazioni alle autorità fiscali degli altri Stati, è diventata una pecora nera nell’assise delle nazioni sviluppate. Il paradiso fiscale elvetico viene condannato specialmente dai nostri grandi vicini (Germania, Francia e Italia) e dagli Stati Uniti. In novantanove casi su cento, quando un giornale o un’emittente di questi Paesi parla della Svizzera lo fa per dir male delle sue istituzioni economiche, del suo sistema politico e del carattere della sua popolazione. Di solito l’opinione pubblica della Svizzera non prende in considerazione questi giudizi, a meno che non vengano fatti da esponenti di peso della politica. Se a criticare
sono i mezzi di informazione non ci si fa invece caso. Consideriamo invece come una cosa eccezionale quando qualcuno scrive bene della Svizzera. Tanto più apprezzato è il libro di chi non si limita a una difesa d’ufficio, ma cerca con la sua analisi di andare più a fondo per scoprire quali sono le ragioni che fanno del nostro Paese, sotto più aspetti, un esempio da seguire. Qui vogliamo accennare a due pubblicazioni, apparse nel corso degli ultimi mesi, che per l’appunto trattano della Svizzera come di una nazione da additare ad esempio. Il primo è opera di un francese, il professore di storia François Garçon ed è disponibile, da poco, anche in italiano con il titolo Conoscere la Svizzera nella collana «i Cristalli» dell’editore Dadò. L’altro è invece l’opera di un giornalista tede-
sco Wolfgang Koydl che scrive sulla «Süddeutsche Zeitung» e si intitola Quelli che la sanno più lunga e, per il momento, non è stato ancora tradotto. Più che dai loro titoli il contenuto di queste opere viene rivelato dai loro sottotitoli. Nel caso del libro di Garçon si parla del «segreto del suo successo». In quello dell’opera di Koydl di «che cosa rende la Svizzera così speciale». Beh, ora che, per rivelare al lettore di «Azione» il contenuto di queste due interessanti pubblicazioni, mi restano solo una ventina di righe potrei cavarmela dicendo che il sottotitolo dell’una fornisce la spiegazione per la questione sollevata nel sottotitolo dell’altra. Mi spiego: è evidente che per questi due autori il successo della Svizzera è legato alle sue particolarità. Agli svizzeri va bene quasi tutto. Per-
ché? Perché in primo luogo, afferma Koydl non sono fatti come gli altri e, in secondo luogo, perché vivono in una società e in un sistema politico diverso dagli altri. Garçon parla di democrazia esemplare, di sistema di insegnamento fuori dalle norme, di dinamismo economico e di pragmatismo sociale. Koydl aggiunge che gli svizzeri sono ostinati e ribelli, onesti e modesti, che, nonostante la piccola dimensione, la loro è una potenza economica, che possiedono un sistema politico magnifico (wunderbar) e talvolta bizzarro (wunderlich). Il modello svizzero «è quindi quello di tutte le virtù. Ma si può esportare? Sì, pensa Koydl, altrimenti, aggiungo io, forse non avrebbe scritto il suo libro. Tuttavia le persone, svizzere o vicine alla Svizzera, alle quali ha posto la
domanda sulla riproducibilità del sistema svizzero gli hanno dato risposte negative o largamente evasive. Insomma, sarebbe bello che tutto il mondo assomigliasse alla Svizzera, ma per il momento, fuori dai nostri confini le Svizzere che si incontrano o sono fondazioni di nostri emigrati o sono località e zone che, per il rilievo accidentato, assomigliano un po’ al nostro Paese. Koydl ricorda anche che il Libano, un tempo, fu chiamato la Svizzera del vicino Oriente per la tolleranza che esisteva fra i libanesi che praticavano diverse religioni. Purtroppo questo idillio ha lasciato il posto a una guerra civile interminabile. Il modello svizzero quindi, non si esporta. Per quanto esemplare possa sembrare, è difficile da riprodurre altrove.
to Cinque Stelle è forse destinato a refluire alle prossime elezioni politiche, quando verranno. Ma le Europee sono perfette per il partito dell’ex comico. Rappresentano – o, meglio, sono percepite dall’opinione pubblica come – una sorta di grande sondaggio, di sfogatoio. Non si decide un governo, non si
stabiliscono le sorti del proprio Paese. Si lancia uno sberleffo, si grida una protesta contro la crisi economica e contro l’alibi perfetto che gli italiani si sono costruiti: la Germania, l’euroburocrazia di Bruxelles, la Merkel, Barroso e i suoi tediosi commissari. Inoltre Grillo sta giocando le sue carte in modo accorto. La sua violenza verbale resta alta, ma i suoi argomenti sono più prudenti del solito. Alcuni ragionamenti sono pure condivisibili: ha poco senso insistere sul rispetto formale dei parametri di Maastricht, quando l’economia affonda; se il Pil non riprende a crescere, qualsiasi parametro calcolato sul Pil – a cominciare dal famigerato 3% – tenderà sempre a peggiorare. Anche per questo i sondaggi premiano i Cinque Stelle e li proiettano ben oltre il 20 per cento. Gli scenari negli altri Paesi europei non sono così diversi. Ovunque si prefigurano tre blocchi: la sinistra, la destra e i populisti antieuropei. In queste condizioni, sarà molto difficile per chiunque sostenere di aver vinto. Se anche i socialisti che sostengono Martin Schulz avranno qualche seggio
in più del Partito popolare europeo che candida alla presidenza della commissione Jean-Claude Juncker, difficilmente potranno dire di aver prevalso (e viceversa). Più che le appartenenze alle varie famiglie politiche, alla fine conteranno le ambizioni nazionali. Dice Renzi che «l’Italia ha tutte le carte in regola per essere un leader nel mondo e il leader in Europa; ma per farlo deve cambiare. Non basta cambiare il Senato o le Province o i poteri delle Regioni; ma se ci riusciamo, se la politica dimostra che può riformare se stessa, allora abbiamo l’autorevolezza morale per cambiare gli intoccabili». Sono parole in parte dettate dalla propaganda, in parte da un convincimento profondo. Renzi si è costruito «contro»: contro i vecchi partiti, i vecchi leader, le vecchie logiche. Ormai la rottamazione è fatta, e non serve più. Ora il premier ha nuovi nemici: i sindacati, le banche, l’establishment, il sistema e le sue resistenze. Nella confusione dell’Italia attuale è dato anche questo spettacolo: Palazzo Chigi si unisce alla rivolta generale contro le élites; e può persino riuscire a prenderne la testa.
esigenze tecniche come sostengono i responsabili del fisco italiano, ma per arrivare a esercitare un controllo del tenore di vita dei singoli contribuenti e la congruità delle spese con il reddito dichiarato. Un’altra conferma la si trova nella parte più colorita della critica di Ostellino: «Prima di diventare un Paese di socialismo reale, l’Italia annega nel ridicolo. Una signora che, per ritirare poche migliaia di euro dal conto corrente, ha dovuto compilare un modulo, nel quale dire che cosa ne avrebbe fatto, ha scritto: “Servono per le puttane di mio marito e, a me, per mantenere il mio amante”. Una pernacchia alla stupidità di Stato». A questo punto diventa prioritario chiedersi come mai una così intricata e palese condizione orwelliana, collegata oltretutto al vil denaro, continui ad essere supinamente accettata dalla popolazione italiana, da sempre sensibile ad ogni forma di violazione della privacy. Secondo Ostellino la spiegazione va ricercata
nel fatto che l’Italia, ormai da anni, è un Paese in preda alla sindrome del «governo dei migliori» e del «cittadino onesto che paga le tasse» che si agita «tra una folla di disonesti – per definizione, i ricchi – cui farle pagare due volte e/o da tenere in galera finché non confessano ciò che certi pubblici ministeri vogliono sentirsi dire»: sebbene il fascismo sia stato abbandonato da oltre 70 anni, gli italiani ancora «confondono il senso civico – i doveri che, peraltro, non osservano – con la rinuncia alle libertà e ai diritti, che non conoscono. Che piaccia o no, qui siamo ancora sul terreno di un malinteso patriottismo». Un malinteso che oggi forse torna utile anche per capire ciò che sta accadendo nel calcio e negli stadi italiani e perché facinorosi e violenti riescano a dettare ordini, se non legge. (Strana combinazione: volendo correggere il testo il correttore automatico del mio pc mi consigliava di sostituire «all’Agenzia» con un «all’agonia»!).
In&outlet di Aldo Cazzullo Gli incubi di Renzi Le Europee preoccupano Matteo Renzi per due motivi. Non per il risultato del Pd, che sarà come d’abitudine inferiore ai sondaggi ma in ogni caso sarà superiore al 30 per cento. Ma per i risultati dei suoi teorici rivali: Silvio Berlusconi e Beppe Grillo. Berlusconi è per Renzi l’oppositore ideale. Anziano, indebolito, in declino, l’ex Cavaliere è l’ombra del leader che fu. Renzi sostiene che non va sottovalutato. In realtà, il presidente del Consiglio teme il crollo di Forza Italia. Che per lui sarebbe una iattura. E non solo perché l’opposizione di Berlusconi è più teorica che reale (nei fatti, non solo Forza Italia ha votato l’Italicum, la nuova legge elettorale, alla Camera, ma ha unito i suoi voti a quelli della maggioranza anche sull’abolizione del reato di immigrazione clandestina, introdotto proprio dai governi di centrodestra). Ma anche perché nello schema di Renzi c’è Berlusconi. Come partner per le riforme. E come spauracchio. Forte ancora di un impero mediatico (ed è uno scandalo che l’Italia affronti l’ennesima campagna elettorale con un competitor dotato di giornali e televisioni, senza che ormai nessuno ci
faccia più caso). Ma fiaccato dai processi, dagli anni, dai fallimenti politici. La preoccupazione di Renzi non è la rimonta di Berlusconi. È il suo flop. Che rischia di complicare anche la successione annunciata di Marina Berlusconi. Ma il vero incubo del premier è il successo di Beppe Grillo. Il Movimen-
Beppe Grillo, leader del Movimento Cinque Stelle.
Zig-Zag di Ovidio Biffi La sottile linea fra diritti e delitti Due anni fa Piero Ostellino sul «Corriere della Sera» scrisse che da Tremonti in poi coloro che governano in Italia «pretendono di sapere che cosa fa il cittadino dei propri soldi. Ma per saperlo: 1) hanno tolto, di fatto, dalla circolazione la carta-moneta, che pure lo Stato continua a stampare; 2) hanno equiparato i risparmiatori a criminali; 3) hanno violato un principio di civiltà che ha le sue radici nella tradizione dello Stato moderno; 4) attraverso il controllo dell’uso del denaro, hanno imposto agli individui una gerarchia di fini». Sono riandato all’articolo di Ostellino il martedì di Pasqua, quando dalla vicina Repubblica è giunta conferma che l’Italia ha adottato le nuove misure dello «spesometro», strumento dell’Agenzia delle entrate guidata dal famoso scudiero del ministro Tremonti, quell’Attilio Befera che a fine 2011 inaugurò la nuova stagione di interventismo fiscale con questa dichiarazione: «Alcune banche svizzere
hanno cominciato ad affittare le cassette di sicurezza dei grandi alberghi, perché non sono in grado di esaudire l’abnorme quantità di richieste che hanno dai clienti italiani». Lo «spesometro» italiano è un provvedimento fiscale che non trova corrispondenze in nessun altro Paese del mondo. L’unico raffronto possibile è quello con le misure di controllo del contante in auge nei Paesi d’Oltre cortina prima della caduta del muro di Berlino, soprattutto per i cittadini che chiedevano di viaggiare all’estero e così potevano essere controllati e limitati nei movimenti. Ufficialmente lo strumento serve al fisco italiano per tracciare il profilo delle aziende attraverso la dichiarazione di chi liquida la partita Iva ogni tre mesi o a fine mese. Ma vengono monitorati anche gli operatori finanziari, attraverso i quali passano pagamenti per acquisti dai 3600 euro in su effettuati con carta di credito e bancomat, con le loro informazioni consentono all’Agenzia delle
entrate di costituire una banca dati del denaro in circolazione. Secondo le garanzie dell’emerito Befera, questi dati servono solo per costruire un identikit delle aziende con lo scopo dichiarato di far emergere l’evasione. Questa la teoria, o, se si preferisce, la «dichiarazione di intenti». In realtà ad essere monitorati e presi di mira risultano essere commercianti, piccole imprese e tutto il ceto medio. E, dal momento che il fisco italiano continua a sfruttare anche l’effetto psicologico che questo strumento esercita su tutta la popolazione (grazie a un dosato e sistematico uso mediatico, facilmente rilevabile in notizie e informazioni che vengono inviate ad agenzie e redazioni), anche il singolo cittadino è vittima dei controlli. Lo conferma un semplice fatto: lo «spesometro» attuale è una versione modificata di quello che dal 2010 monitorava le spese da 25 mila euro in su; l’importo è stato drasticamente ridotto (acquisti oltre 3600 euro), non per
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Cultura e Spettacoli Il ritorno di Ian Anderson Homus Erraticus, un titolo emblematico per il nuovo album del fondatore dei Jethro Tull
Dietro le quinte del lavoro Nell’iter fotografico (in mostra alla ConsArc di Chiasso) di Simone Mengani un’analisi del mondo del lavoro
Il fascino di Kanye West Un’ascesa incredibile, contraddistinta da un mix di talento e di sconfinata autostima
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Palcoscenico ticinese Traversi e Ballerio: sulla scena teatrale ticinese due produzioni ricche di spunti pagina 51
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Altare a sportelli di Biasca. Fine XV - inizio XVI secolo. Ulm, bottega di Niklaus Weckmann (sculture), maestro leventinese (dipinti). Zurigo, Museo nazionale svizzero.
Viaggio nel Ticino dei Santi Mostre A Mendrisio un ricco patrimonio di devozione e cultura Alessia Brughera Sono uomini e donne come noi, eppure, grazie alle loro doti non comuni e ai loro grandi meriti, diventano figure esemplari da venerare e amare. Sono i Santi, individui virtuosi, riconosciuti come veri e propri intermediari tra l’uomo e Dio, a cui ci si affida nei momenti di difficoltà affinché possano intercedere a nostro favore ed esaudire una particolare richiesta. La devozione nei loro confronti ha contraddistinto quasi duemila anni della nostra storia e li ha fatti divenire presenze efficienti e attive, capaci di testimoniare come sia possibile per tutti accedere al mondo del divino. Ai Santi venerati in Ticino, il Museo d’Arte di Mendrisio dedica una mostra che è il frutto di una scrupolosa perlustrazione sul territorio durata quattro anni (a cui non si sono sottratti nemmeno i più solitari oratori delle vallate) e che ha riunito un centinaio di opere realizzate fra il XII e il XVIII secolo, tutte rappresentative dei culti santorali più diffusi nel cantone. Si tratta di tele, statue lignee, altari a sportelli, libri corali, ostensori, reliquiari e altri arredi liturgici, oltreché di riproduzioni di affreschi, che non solo fanno emergere un interessante spaccato della vita religiosa del Ticino, ma dicono molto anche sulle sue vicende storiche e sociali. Perché sebbene siano prima di tutto oggetti di devozione, e quindi principalmente
patrimonio di fede e arte sacra, queste opere costituiscono altresì gran parte del patrimonio culturale del Paese. Questo aspetto, poi, è particolarmente interessante per una terra come quella ticinese, che, in virtù del suo essere crocevia strategico tra nord e sud e tra est e ovest, ha sempre allacciato contatti in più direzioni, aprendosi verso le regioni circostanti e ricevendo apporti e influssi differenti che lo hanno condizionato non poco. Si scopre così che i Santi nel nostro cantone sono moltissimi. Più o meno noti, più o meno venerati, popolano le chiese ticinesi ognuno con la propria vicenda personale e la propria leggenda, che ci vengono restituite attraverso raffigurazioni codificate che narrano la loro esistenza esemplare con semplicità e immediatezza, rendendo identificabile la loro immagine grazie a precisi attributi stabiliti dalla tradizione e dagli episodi emblematici della loro vita. Da San Cristoforo, burbero omone di cui si narra che aiutò un fanciullo (poi rivelatosi essere il Cristo) a guadare un fiume, ben conosciuto in Ticino perché campeggia in molti affreschi portando Gesù Bambino sulle sue poderose spalle, a San Lucio, pastore medievale che offriva del formaggio a chi varcava il passo tra la Val Colla e la Val Cavargna, figura più locale diventata il protettore dei pastori e dei casari. Il percorso espositivo della mo-
stra di Mendrisio parte dai testimoni diretti di Cristo e dai martiri dei primi secoli per arrivare fino al Cinquecento e alla figura di San Carlo Borromeo, che tanta parte ebbe nel rinnovamento cattolico in risposta alle dottrine calviniste e luterane anche in Ticino, area cruciale perché confinante con i territori protestanti. Percorrendo le sale del museo ne troviamo una dedicata ai cosiddetti «Santi in armi» fra cui spiccano San Michele e San Giorgio, ritratti con la spada o la lancia mentre sconfiggono il drago simbolo del demonio, del male e della violenza. Tra questi, seppur non sia propriamente un santo guerriero, c’è anche San Martino di Tours, veneratissimo in Ticino. Difensore della vera fede contro gli ariani, di lui la leggenda riporta che durante una ronda notturna si imbatté in un mendicante seminudo e decise di condividere con lui il suo mantello. L’episodio ci viene raccontato in mostra da varie opere, tra cui il Gruppo di San Martino e il povero del ciborio ligneo della chiesa di Bironico, che rappresenta il santo nell’atto di tagliare il manto con la spada. Sulle importanti vie di transito che solcavano il Ticino era tutto un andirivieni incessante di mercanti, soldati e viaggiatori. E con essi circolavano anche nuovi modelli culturali e iconografici. È attraverso queste vie che si sono diffuse la devozione a santi quali Got-
tardo, Pellegrino e Bernardo d’Aosta e la conoscenza di nuovi ordini religiosi che lungo questi passaggi stabilivano i propri conventi e chiese, contribuendo così a diffondere il culto per San Francesco d’Assisi, San Bernardino da Siena e Sant’Antonio da Padova, quest’ultimo raffigurato innumerevoli volte in tutto il cantone. Insieme a uomini e merci, anche le epidemie percorrevano spesso questi luoghi di passaggio. In un’altra sala dell’esposizione troviamo i Santi della peste, molto venerati tra Medioevo ed età moderna. Tra i protettori contro i contagi, uno dei più invocati è San Rocco. In mostra, lo ritroviamo in una bella tela proveniente dall’oratorio di San Rocco a Marzano di Olivone che lo ritrae in una Sacra conversazione con la consueta piaga sulla gamba e con il piccolo cane che gli porge una pagnotta, a rimarcare i temi della malattia e dell’abbandono che per tradizione gli sono accostati. È ben noto come i territori dell’attuale canton Ticino dipendevano parte dalla Diocesi di Milano e parte da quella di Como, cosicché, oltre al già citato San Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, presente molto frequentemente e di solito effigiato con la porpora cardinalizia in atto benedicente o in meditazione, molto forte è la devozione verso i Santi Nazario e Celso, Sant’Ambrogio e il comasco San Provino.
Una particolare attenzione è stata riservata in mostra agli altari a sportello di origine tedesca in Ticino. Molti di questi provengono dalle chiese delle regioni a nord delle Alpi che, a seguito dell’iconoclastia protestante che in quelle zone aveva aspramente condannato il culto dei Santi paragonandolo all’idolatria pagana, decisero di rivendere le preziose opere nei territori rimasti fedeli alla dottrina cattolica. Altri invece, come lo splendido altare tardogotico di Biasca, ricostituito per la prima volta per intero in occasione di questa esposizione, sono frutto di una commissione appositamente fatta dalle parrocchie del cantone alle maestranze di quella che allora era l’Alta Svevia. Un’ulteriore dimostrazione, questa, della straordinaria apertura culturale che le terre ticinesi hanno sempre avuto nel corso della loro storia. Dove e quando
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Cultura e Spettacoli
La creatività non teme l’anagrafe Musica Una saga britannica: lungi dall’essere passato di moda, il concept album nella sua accezione più nobile
rivive nel nuovo lavoro del «veterano» Ian Anderson Benedicta Froelich Uno dei grandi piaceri offerti dalla scena rock internazionale degli ultimi anni è indubbiamente quello di scoprire come molte di quelle star che potrebbero ormai a buon diritto ritenersi «pensionati di lusso» siano invece tuttora pervase da un’irresistibile e costante voglia di fare – di incidere nuovi album e, perché no, anche di intraprendere tournée internazionali. Ciò non potrebbe essere più veritiero che nel caso di Ian Anderson, il 66enne frontman degli indimenticati Jethro Tull, destinato a rimanere impresso nella memoria collettiva come l’atletico folletto dai capelli lunghi che, caso unico nel panorama rock, si lanciava in indiavolati assoli di flauto traverso molleggiandosi su una sola gamba nelle coloratissime esibizioni anni ’60-’70 della band. Il ragazzo di allora è divenuto un attempato signore, che non ha però mai abbandonato la propria passione per il rock – tanto da aver pubblicato nel 2012 Thick as a Brick 2, ideale seguito del celeberrimo concept album dei Jethro Tull risalente al 1972: un’esperienza gratificante, che gli è valsa un grande riscontro di pubblico e critica, e alla quale Anderson fa ora seguire un esperimento ancora più ardito e ambizioso. Questo Homo Erraticus viene infatti presentato come il frutto di una nuova collaborazione con il fittizio poeta bambino Gerald Bostock (personaggio in realtà partorito dalla fantasia dello stesso Anderson, che l’aveva indicato come l’autore delle liriche di Thick as a Brick). In questa nuova incarnazione del 2014, Bostock,
ormai 50enne, risulta essere il fortunato scopritore di un manoscritto inedito dal titolo di Homo Britannicus Erraticus, incentrato su un’ampia carrellata di eventi che, attraverso i secoli, hanno fatto la storia della Gran Bretagna come noi la conosciamo: il disco di Anderson si sviluppa così come la trasposizione musicale del volume ritrovato da Bostock, in una travolgente panoramica storica che rappresenta la quintessenza del perfetto concept album.
Il folletto dai capelli lunghi che suonava il flauto su una gamba sola, è tornato con un pezzo di storia Il lavoro si apre infatti con l’elegante suite Doggerland, che ricostruisce l’arrivo dei primi britanni, ovvero quegli individui appartenenti alle popolazioni nordiche che, attraversando l’antico istmo («Doggerland», appunto) in seguito coperto dal Mare del Nord, raggiunsero e colonizzarono l’Inghilterra; da qui si prosegue lungo quello che appare un vero e proprio «viaggio nel tempo» – e non solo nel passato della Gran Bretagna, poiché ogni singolo brano sembra giungere direttamente dai solchi di un vinile degli anni ’70, quasi i decenni, per Ian, non fossero mai trascorsi. Infatti, sia dal punto di vista del songwriting che da quello delle soluzioni musicali (spesso dotate di un gusto quasi sinfonico), l’album potrebbe a tutti gli effetti presentarsi
Un particolare del disco di Ian Anderson.
come un disco dei Jethro Tull, concepito nel più puro stile visionario dei fautori di Aqualung; per rendersene conto basta ascoltare un brano emblematico come l’ironico Enter the Uninvited, che in pochi minuti di recitativo e dinamici assoli di flauto descrive con graffiante ironia il passaggio millenario dall’arrivo dei primi coloni fino all’avvento in terra inglese di piacevolezze quali Burger King e l’iPhone (per non citare Star Trek e Baywatch, ugualmente menzionati nel testo!). Ma soprattutto, fin dal primo ascolto, ci si rende conto di quanto Homo Erraticus sia estremamente sofisticato in ogni particolare, dall’orchestrazione alla produzione, fin nell’esecuzione di ogni traccia. Del resto, la cura dedicata a questo proget-
to è evidente fin dal packaging del cd, che offre all’ascoltatore un libretto di ben trentadue pagine contenente, oltre ai testi dei brani, anche la sinossi e la filosofia narrativa dell’album – a tutti gli effetti un poema epico-musicale, in cui il genere della saga storica è utilizzato per offrire graffianti e acide metafore sul mondo di oggi e sulle sue storture. Si tratta quindi di musica raffinata, che per sua stessa natura troverà un pubblico entusiasta soprattutto tra gli ascoltatori più attenti e meno frettolosi, in grado di apprezzare la rara grazia con cui Anderson ha ammantato di ulteriore dignità il tradizionale prog-rock a cui i Jethro Tull ci hanno abituati – il tutto grazie alla colta e fine contaminazione con vari generi, dalla world music ai ritmi jazz,
fino alla tradizione folk inglese. Questa capacità è particolarmente evidente in brani ricercati quali i suggestivi e visionari Puer Ferox Adventus e After These Wars, o il medievaleggiante The Pax Britannica, che si alternano a pezzi più tipicamente nello stile dei Tull come gli impeccabili The Turnpike Inn e The Engineer, fino ad arrivare alle inquietanti profezie per il futuro che chiudono il disco (Cold Dead Reckoning). Homo Erraticus diviene così una grande avventura rock, senz’altro da annoverarsi tra i capisaldi di un genere che, fortunatamente, gli sforzi di Anderson rivelano come destinato a non passare di moda: dimostrando, una volta di più, come la creatività di alto livello non tema l’età, né il ristagno delle idee.
Violenza musicale che dischiude il sublime
Sono i soliti nomi, ma contano
CD Le nuove produzioni discografiche di Caparezza
Cannes Da dopodomani Festival
e dei Vintage Violence Zeno Gabaglio Musica violenta. È così che spesso viene liquidata – da chi non la conosce e ormai si è disabituato ad accettare manifestazioni umane divergenti dalle proprie aspettative – buona parte della musica popular di tipo urbano. Musica violenta che inevitabilmente induce alla violenza, è l’ulteriore accusa che il benpensante della stereofonia non si fa mai mancare. Come se, al contrario, esistessero musiche buone che fanno diventare tutti buoni o come se non fosse mai stato teorizzato il fenomeno della catarsi, che proprio nell’arte capovolge le emozioni in chi le si avvicina. Tant’è che la domanda rimane: perché esiste musica che ad alcuni appare violenta?
Michele Salvemini, in arte Caparezza.
e principeschi malumori Caparezza – Museica
La messa in guardia è ormai un classico, per i dischi del rapper molfettese, quasi un sottotitolo obbligatorio ad ogni nuova produzione. Che sia il «parental advisory» bianconero appiccicato sul CD oppure la scritta rossa «explicit» accanto al file da scaricare il sottinteso è solo uno: «fate attenzione: materiale pericoloso». Una sorta di cave canem contemporaneo con cui ci si vorrebbe proteggere da contenuti violenti, potenzialmente nocivi. Anche se ormai chi le conosce, queste avvertenze, sa che significano l’esatto contrario: «fate attenzione, qui dentro potreste trovare qualcosa di autentico e di vero». E il recente disco Museica è lì a confermarcelo, con una nuova opera che genialmente torna a mischiare canzo-
ne e hip hop, teatro e danza, poesia ed
elettronica, sfottò ed esortazione civile. Perché la magia di Caparezza è proprio quella di unire gli opposti in produzioni musicali variegate ma coerenti, nel solco della tradizione di quei «concept album» che ormai nessuno ha più il coraggio o la capacità di fare. E la violenza? Nel senso di «veridicità» è nei testi, che senza ipocrisia usano quelle parole che tutti (ma proprio tutti) quotidianamente dicono salvo poi non volersele ritrovare nei libri, nei dischi, alla radio o nei film. Ma sta anche nella musica, graffiante nell’acustico come nell’elettronico: specchio fedele di una realtà che non tutti son disposti a mandar giù. Vintage Violence – Senza paura delle rovine
I lecchesi Vintage Violence la violenza se la portano sia nel nome (citazione di un disco di John Cale) sia nei fatti, con un punk tanto raffinato quanto incisivo. Roba che in italiano non capita spesso di poter ascoltare. La voce è davanti a tutto – raddoppiata, armonizzata – perché i testi di cui si fa latrice pretendono comprensibilità. Che sia per prendersela con la polizia, con la SIAE, con il Vaticano o con la Lombardia la sensazione è quella della disperazione che è però solo una declinazione alternativa rispetto al sentimento d’amore: di sé, delle emozioni, della vita. È un Drang preromantico che oggi si serve delle chitarre elettriche, con la stessa inquietudine e lo stesso vagare. Salvo poi accorgersi che chi ci ha preceduto ci ha lasciato solo le rovine, con le quali – volenti o nolenti – ci tocca convivere.
Fabio Fumagalli Fra gossip da Côte d’Azur inizia dopodomani il gigante fra i festival mondiali di cinema che si concluderà il 25 maggio con il film vincitore della Palma d’Oro. Più che sull’ambita e regolarmente contestata assegnazione sembrano prevalere al momento le sdegnate rimostranze del principe Alberto e delle principesse Carolina e Stéphanie. I contenuti del film d’apertura e fuori concorso, Grace di Monaco, costituirebbero infatti «una pura manipolazione a fini commerciali alla quale la famiglia monegasca rifiuta di essere associata». Tutto ciò alimenta utilmente la curiosità attorno a un film che nessuno ha ancora visto, girato da un regista, Olivier Dahan, noto soprattutto per un biopic su Edith Piaf, ma con una straordinaria carta vincente, Nicole Kidman. Oltre che grande attrice, una bionda di quelle che Alfred Hitchcock avrebbe adorato, dotate del distacco apparente e ambiguo sotto il quale covava il fuoco delle Ingrid Bergman, Kim Novak, Tippi Hedren, Eve Marie Saint e... Grace Kelly. Che, come sappiamo, il regista aveva inutilmente tentato di riportare dalla rocca dei Grimaldi alle atmosfere meno inamidate di Hollywood per farle interpretare il suo Marnie. Dopo le aggiunte dell’ultima ora, fra le centinaia di proposte che compongono Cannes 2014 nelle sue varie sezioni (Selezione Ufficiale, Quinzaine des Réalisateurs, Semaine de la Critique, Marché, ecc) i titoli rimbalzati nella stampa internazionale sono soltanto
la punta dell’iceberg, quelli del più celebre dei tappeti rossi, del sogno di ogni cineasta. Non necessariamente del film più valido in assoluto: e ciò, in assenza del dono d’ubiquità, costituisce una delle ragioni del fascino, magari anche della frustrazione, che condizionano le decine di migliaia di frequentatori della Croisette. A prima vista: tanti Grandi Vecchi, gran parte delle sorprese al Certain Regard, il nuovo che avanza nelle sezioni collaterali, pochissimo Estremo Oriente, troppo pochi Stati Uniti. Un nome su tutti: il turco dallo splendido precedente, Nuri Bilge Ceylan. Un motivo particolare di giubilo, non solo poiché in parte da casa nostra: Alice Rohrwacher. In attesa della prossima Palma andate a rivedere il bellissimo Corpo celeste.
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Cultura e Spettacoli
Dalla somma di molti un «uno»
Fotografia La singolare ricerca di Simone Mengani sul mondo
del lavoro nel nostro Paese Giovanni Medolago «Tutto è cominciato durante la votazione che avrebbe portato alla fusione di parecchi Comuni del Mendrisiotto – ci spiega Daniela Giudici, titolare col marito Guido della Galleria ConsArc di Chiasso – Simone Mengani ha fotografato chi andava a votare all’Ufficio elettorale di Besazio». Da quell’idea è poi nato il progetto Social Portrait, realizzato nel biennio 2012/13 ed ora approdato in esposizione presso la Galleria chiassese. Dal ritratto puro e semplice di persone passate quasi per caso davanti al suo obiettivo, Mengani è passato a una singolare catalogazione di lavoratori appartenenti alla stessa famiglia professionale (i bancari di un istituto di credito, i soccorritori della Croce Verde, una squadra di pompieri, i cuochi di un rinomato ristorante, ecc.), di studenti della Scuola Dimitri di Verscio o, ancora, dei giocatori del Football Club Chiasso. «Il lavoro fotografico – spiega lo stesso Mengani – consiste nel sovrapporre i singoli ritratti di tutte le persone appartenenti alla stessa realtà lavorativa in maniera tale da ottenere un nuovo ritratto di una persona che in realtà non esiste, ma che è la somma di tutti gli individui fotografati. I ritratti che nascono da queste sovrapposizioni diventano un’unione interessante
sia dal punto di vista estetico, sia da quello sociologico in quanto fanno emergere il senso di appartenenza a un gruppo in cui vengono valorizzate le somiglianze (i tratti somatici, il modo di essere e di porsi, di vestirsi e di presentarsi) piuttosto che le differenze che pure evidentemente esistono tra i singoli».
I ritratti esposti rappresentano il risultato della precisa sovrapposizione di numerosi scatti Ecco dunque una serie di immagini «mosse» dove solo gli occhi risultano nitidi e precisi: sguardi resi ancor più incisivi grazie al perentorio camera look. «È un’indagine fotografica e sociale del mondo del lavoro – continua Mengani – ho preso in considerazione gruppi di persone che lavorano insieme e condividono spazi, obiettivi, regole ed ambizioni per indagare attraverso la fotografia il senso di appartenenza a una precisa realtà professionale». Nelle sue immagini non c’è tuttavia una critica o la denuncia del mondo del lavoro e di alcune sue logiche perverse: «al contrario, esse
si situano al di fuori di ogni discorso critico e appaiono come documenti artistici della realtà, lasciando all’osservatore la libera interpretazione del fenomeno e delle sue dinamiche» (Francesco Giudici). Nato a Perugia nel 1978, Simone Mengani arriva a Vacallo con la sua famiglia quando ha appena cinque anni. Dopo gli studi liceali, si iscrive all’Accademia di Architettura di Mendrisio, dove si laurea nel 2004. Due anni dopo parte per un avventuroso viaggio che lo porta dall’estremo sud della Patagonia argentina agli altopiani della Bolivia, dopo aver risalito la Cordigliera Andina. È lì che prende la decisione di trasformare il suo hobby (la fotografia) in una vera e propria professione, sfruttando le capacità acquisite come progettista e dedicandosi prevalentemente alla fotografia di architettura: ha realizzato ad esempio la serie Cinema storici del Ticino e particolarmente significative sono le sue immagini dei ripari fonici del controverso Viale Galli di Chiasso. Dove e quando
Simone Mengani, Social Portrait, (2012-2013), Chiasso, Galleria Cons Arc. Orari: ma-ve 9.00-12.00 e 14.0018.30, sa 9.00-12.00. Fino al 18 maggio 2014. Info: www.consarc.ch 33 docenti donne SM Morbio. (© Simone Mengani Social Portrait – 2012-2013) Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Metamorfosi quasi kafkiane
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Trento Film Festival E Messner rende
omaggio alle Signore delle cime
Carla Baroni Settembre 1957: un’esplosione scuote il tranquillo villaggio di Musljumovo, nel sud degli Urali (ex Unione Sovietica). Una nube nera sale all’orizzonte. La popolazione, all’oscuro del fatto che nel vicino impianto per la lavorazione di materiale radioattivo si è verificato un incidente, teme sia scoppiata una nuova guerra. Nell’atmosfera si diffondono altissime dosi di radioattività, che vanno a contaminare gli abitanti, i terreni, i fiumi e i laghi. Fino ai tempi della perestrojka di Gorbaciov la catastrofe è completamente ignorata. Ma anche in seguito la popolazione ha continuato (e continua) a vivere normalmente nella regione, a coltivarne la terra, a nutrirsi dei suoi animali e dei pesci pescati nel contaminatissimo fiume. E a subirne le terribili conseguenze. Fantascienza? No, fatti reali, che il giovane regista tedesco Sebastian Mez, dopo aver vissuto un mese proprio nel villaggio di Musljumovo a stretto contatto coi suoi abitanti (correndo anche qualche rischio personale, perché la radioattività è tuttora presente), ha documentato con una splendida fotografia in bianco e nero nel suo film Metamorphosen. La giuria del 62esimo Trento Film Festival gli ha attribuito il premio principale, la Genziana d’Oro per il miglior film in assoluto.
A un film tedesco che documenta una catastrofe ambientale quasi sconosciuta il premio principale della 62esima edizione del Festival Da alcuni anni il festival si definisce «di montagna/società/cinema/letteratura», ma in origine era semplicemente il FilmFestival Internazionale di Montagna e Esplorazione. Tutti gli anni si assegna quindi una Genziana d’Oro al miglior film di alpinismo. Quest’anno il premio è però andato a una pellicola che parla di alpinismo solo indirettamente, attraverso le intense riflessioni e soprattutto le emozioni colte dal regista sul dolente viso di Olga, la giovane vedova di Piotr Morawski, famoso scalatore polacco morto in Himalaya. Il film si chiama Sati, il nome della pratica funeraria induista secondo la quale, una volta morto il marito, la vedova si bruciava viva sulla sua stessa pira. Olga, nella sua toccante testimonianza, dice di essere stata combattuta fra la tentazione del suicidio e il senso di responsabilità verso i suoi bimbi (di cui accusa velatamente il pur amatissimo marito di essere stato carente), ma che in fondo avrebbe preferito dover seguire l’obbligo morale del sati.
Nel recente passato si è spesso parlato del Bhutan, il piccolo Paese himalayano che invece del PIL si diceva misurasse l’indice di felicità dei suoi abitanti. In realtà sul Gross national happiness, e sull’assenza dell’elettricità e della televisione, il Bhutan aveva costruito buona parte della sua notorietà internazionale e del suo richiamo turistico. E Happiness è proprio il titolo del film al quale la giuria ha conferito il suo premio speciale. Attraverso gli occhi stupiti di un bambino costretto in un monastero dal quale i monaci fuggono verso la città, il regista coglie il momento decisivo di un’evoluzione epocale: il re Wangchuk ha sdoganato la televisione e tutti vogliono procurarsene una, a costo di vendere il più bel yak di famiglia. Grazie agli straordinari personaggi del film, diretti con grande rispetto da Thomas Balmes, si riesce a vivere dall’interno i cambiamenti che vanno a scuotere una millenaria cultura. Alla fine la televisione arriva. E la felicità? Mah. Un premio anche per la Svizzera, a Trento, quello del pubblico che l’ha attribuito a Berge im Kopf, di Matthias Affolter: il racconto e le considerazioni di quattro generazioni di alpinisti, dal giovane «velocista» Dani Arnold all’ultrasettantenne Werner Munter. Sempre gremitissimo, per le tradizionali «serate evento», l’auditorio del Santa Chiara. Quest’anno Reinhold Messner ha voluto dedicare la sua alle Signore delle cime: al grido di Grimpez, les femmes! ha chiamato sul palco famose alpiniste protagoniste di storiche scalate, di varie generazioni e nazionalità, da Junko Tabei, la giapponese prima donna sull’Everest, alla nostra Marianne Chapuisat, rendendo loro omaggio. Che cosa è emerso da questi incontri, alla fin fine, al di là di certi stereotipi duri a morire? Che in montagna, come dappertutto, più che uomini e donne si trovano persone, con le loro specificità, i pregi e i difetti, le motivazioni, il carattere. Banalità? Certo, ma a volte è opportuno ribadirle. Come ha giustamente fatto anche Simone Moro durante la sua, di serata, ispirata al «valore della rinuncia». Sarà banale dire che «per realizzare un sogno bisogna vivere, non morire», ma come è vero. Stanno invece diventando un po’ ripetitive e quasi stucchevoli le prediche buoniste di Mauro Corona, l’ex ribelle con bandana che rischia di diventare la caricatura di sé stesso. Ha anche portato sul palco la banana antirazzismo: intento lodevole, ma alla fine le troppe banane possono risultare indigeste. Piccola divagazione extrafestivaliera: l’anno scorso a Trento è stato inaugurato il Museo delle Scienze, il MUSE progettato da Renzo Piano. Un gioiello che vale una visita. Magari abbinata a quella del vicino MART di Rovereto, creatura di Mario Botta. Fortunata, la regione del Trentino.
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Gente di Musljumovo: protagonisti del film Metamorphosen.
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Cultura e Spettacoli
Viaggio nell’anatomia umana dal ’500 ai nostri giorni Mostre Il corpo umano al Musée de la Main di Losanna Marco Horat Diciamo subito che quella di Losanna non è una mostra adatta a tutti i palati, anzi gli stomaci; persone sensibili astenersi. Non è da tutti saper guardare dentro di sé nel vero senso della parola. Come sempre gli organizzatori romandi sono riusciti a mettere in scena un tema scientifico estremamente serio come quello trattato da Anatomies, de Vésale au virtuel dandogli nel contempo un taglio didattico che coinvolga tutti i sensi del visitatore e lo chiami a interagire con le varie parti della mostra; senza dimenticare un pizzico di autoironia, di humor e divertimento. E le sorprese non mancano. Una ricetta vincente che ha dato in passato ottimi risultati in fatto di apprezzamento da parte del pubblico. Quest’anno ricorrono i cinquecento anni dalla nascita di André Vésale (1514-1564) insigne medico e professore universitario belga che rivoluzionò le conoscenze anatomiche del tempo operando direttamente sul corpo umano e denunciando così gli errori della medicina greca che si ispirava a Galeno pedissequamente seguita dai cerusici del tempo. Impartì i suoi insegnamenti nelle principali università europee in Francia e Spagna, a Praga e a Padova ma pubblicò la sua opera principale intitolata La fabbrica del corpo umano, con testi e numerose spettacolari tavole, a Basilea, ancora oggi sede di una prestigiosa facoltà di medicina. Da allora sono passati cinque secoli e lo studio del corpo
umano è diventato per molti versi uno studio virtuale: il funzionamento di un organismo e le sue eventuali anomalie si possono conoscere grazie alla raffinata tecnologia dei nostri giorni, senza necessariamente avere a disposizione un cadavere da sezionare. Di qui il titolo della mostra che vuole mettere in scena le differenti visioni dell’interno del corpo umano e dell’anatomia, in senso sincronico e diacronico. Erano, quelli di Vésale, tempi di grandi cambiamenti culturali: Copernico (e più tardi Galileo) rimetteva la terra al suo posto e la faceva girare attorno al sole; erano iniziati i grandi viaggi di scoperta che cambieranno la storia e la visione del mondo; Gutenberg aveva reso possibile la trasmissione del sapere e la sua diffusione grazie all’invenzione della stampa e l’Europa conosceva una grande circolazione del sapere attraverso le università aperte nei principali centri del continente. Vésale partecipò a questo processo di rinnovamento introducendo la conoscenza diretta di quel corpo umano che Leonardo aveva messo quale misura dell’universo. Una rivoluzione non da poco. La mostra si apre e si chiude davanti a due grandi schermi che utilizzano l’immagine del visitatore per farlo guardare oltre la sua pelle: il primo permette di vedere l’interno del proprio corpo che si colora diversamente a seconda degli organi che un ordinatore evidenzia; l’altro è opera di un artista contemporaneo che ha elaborato i rumori prodotti dai
vari organi (fegato, cuore, intestino, laringe, ecc) che amplifica mettendoli in relazione con i movimenti prodotti da chi guarda davanti alla parete scura; opera definita di «Anatomia sonora»! Più difficile da spiegare che da capire. Tra i due momenti una lunga serie di vetrine ricche di oggetti e documenti ma anche di postazioni interattive che sviluppano il tema dell’anatomia nel corso dei secoli e da vari punti di vista, scientifici e artistici: discorso storico e culturale dunque. Il corpo si può guardare a 360 gradi insomma, ci dicono gli organizzatori della mostra, per scoprirne tutte le sue straordinarie caratteristiche: la perfezione del corpo idealizzato, la sua sacralità, c’è il corpo sezionato e quello che può considerarsi una rete sensibile di vene e nervi, le protesi che ci aiutano a vivere, il corpo codificato e quello cartografato da chi ha studiato e tradotto in un grafico il genoma umano: roba da Nobel, assolutamente non decifrabile per il profano. Al centro del discorso il famoso libro di Vésale, con due edizioni del 1643 e del 1655 sotto vetro ma che può essere sfogliato virtualmente. Curioso un video di 6 minuti e 34 secondi che segue il percorso di una pillola munita di telecamera dalla bocca… alla fine del percorso corporale. Come pure viene illustrato un famoso progetto della Columbia University datato anni ’90 che aveva requisito il cadavere di un condannato a morte texano e lo aveva «affettato» millimetro per millimetro
La locandina della mostra sull’anatomia.
fotografando le innumerevoli sezioni a scopo di studio; o di spettacolarizzazione viene da pensare, ricordando ciò che fece anni fa Günther Von Hagen con le sue esposizioni di corpi aperti o scuoiati? Dicevo di qualche momento forte che viene presentato in una sezione chiusa da una tenda rossa: ad esempio un busto di donna tronco che porta in grembo un feto in stato avanzato, usato pare ancora oggi per la formazione professionale di medici e levatrici; non è sempre facile guardarsi dentro in questo modo crudo. Oppure le foto di quegli spettacoli da baraccone nei quali alcuni volontari, ignari di che cosa stessero facendo, si sottoponevano a bombardamenti di raggi X, appena scoperti da Röntgen, per strabiliare il pubblico che vedeva il loro scheletro
ballare. Siamo alla modernità. La parte finale della mostra ci fa prendere contatto – meglio in questo modo che sulla propria pelle – con tutti i metodi contemporanei di analisi, dalla TAC alla scintigrafia, dalla risonanza magnetica all’ecografia. Così, tanto per tornare alla quotidianità dopo il lungo viaggio all’interno del corpo umano, e con la speranza che questi strumenti sofisticati quanto costosi possano in definitiva aiutare l’uomo moderno a trovare una miglior qualità di vita. Dove e quando
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Cultura e Spettacoli
Ispirazione divina Personaggi L’inarrestabile scalata dell’artista statunitense
Kanye West: oltre a lui, solo Dio
Big Bang Family* Kanye West, Yeezy o Ye così si fa chiamare la star di Atlanta, Georgia. Ribelle, geniale, egocentrico, irascibile, estroverso, curato, sofisticato, determinato; Ye può essere tutto questo? Nasce nel 1977 e sin da piccolo dimostra particolare interesse per l’arte e una spiccata attitudine per la poesia. Inizialmente ottiene più successo come produttore che come cantante, arruolato sin da subito tra le fila della Roc-AFella dallo stesso Jay-Z, amico e mentore. Quest’ultimo stupito dalla bravura del ragazzo decide di includerlo tra i produttori del disco The Blueprint²: The Gift & The Curse con la canzone Bonnie & Clyde, primo grande successo di Ye. Nel 2002 Kanye West rischia la vita in un incidente stradale che lo costringe a ritardare l’uscita del suo album d’esordio a causa di una frattura multipla alla mascella. L’artista esorcizza l’accaduto nel brano Through the Wire, con tanto di video, facendo del seguente pensiero la sua filosofia: «quando meno te lo aspetti, succederà qualcosa». Il 2004 è l’anno della rivalsa per Ye, pubblica The College Dropout, album rivelazione che vende 440’000 copie nella prima settimana e gli conferisce due dischi di platino. In seguito fonda, in collaborazione con Sony, GOOD Music (Getting Out Our Dreams) un’etichetta discografica che lo rispecchia per ambizione e superbia. I primi talenti dell’etichetta sono
Common, John Legend, GLC e Consequence ma negli anni a seguire questa si espanderà, passando da Sony a Def Jam, fino ad includere Pusha T, Big Sean, Mos Def, Q-Tip, Mr.Houdson, e molti altri. Yeezy negli anni ha letteralmente indossato vari stili musicali senza mai affezionarsi troppo alle «etichette di genere». Unico, innovativo e superiore, queste sono le etichette che preferisce vestire, musicalmente parlando. Nel 2005 Ye è pronto a superarsi con Late Registration, secondo album solista, che vanta più di 900’000 copie vendute durante la prima settimana. Straordinarie le collaborazioni al suo interno, tra cui The Game, Jay-Z, Adam Levine e Jamie Foxx. È proprio quest’ultimo a formare con Kanye l’accoppiata più esplosiva dell’album, il brano Gold Digger, oltre ai presunti scandali suscitati come un mancato pagamento delle modelle che appaiono nel video, ipnotizza e conquista le classifiche musicali. Famoso anche per la sua «lingua lunga» non si limita a rime e beats: Kanye West infatti instaura un dialogo, tendente al monologo, con i suoi spettatori. Dai palchi esprime il suo disappunto sul classismo americano, sull’AIDS e sull’allora presidente George W. Bush. In futuro anche Obama sarà protagonista di una lite multimediale con Yeezy, definendolo «un asino» un modello diseducativo per la gioventù americana, al quale Ye risponderà: «È solo invidia».
Forse l’apparizione sulla copertina del «Times» dal titolo Hip-Hop’s Class Act nel 2005 e la nomina, sempre secondo il giornale, come una delle persone più influenti del pianeta, gli hanno dato alla testa, sta di fatto che due anni dopo Kanye ricomincia a parlare di musica zittendo anche la critica. Un genio, per definizione, non potrà mai piacere a tutti e così nel 2007 il collega 50 Cent, che aveva già ribadito più volte il suo disappunto riguardo alla musica di West, lancia l’ennesima provocazione all’artista. «Se durante la prima settimana il suo disco Graduation vende più del mio Curtis, mi ritiro dal panorama musicale». Entrambi i dischi videro la luce l’11 settembre 2007, le vendite di Kanye West in America surclassarono il collega, nel resto del mondo lo doppiarono. Fortunatamente per tutti i fan di 50 Cent fu solo una provocazione. Il disco successivo esprime un tono malinconico e amareggiato, complici un’ormai finita love story e la perdita della madre a cui dedica l’esibizione ai Grammy Awards 2008 con il brano Hey Mama. Sperimentazione e innovazione contraddistinguono anche il quinto album solista My Beautiful Dark Twisted Fantasy e Watch the Throne, album realizzato interamente con Jay-Z. Ma le manie di grandezza di Kanye West non si sono certamente fermate. Nel 2012 inizia una relazione con Kim Kardashian, modella, stilista e attrice che lui
L’eclettico artista a tutto tondo Kanye West. (Keystone)
stesso definisce «la donna più bella del mondo». Nel 2013 nasce la loro prima figlia, la piccola North West (Nori) e Ye annuncia di voler sposare Kim in quello che molti hanno già definito un matrimonio multimediale, un misto tra una soap e un evento di gala. Non importa: bene o male, basta che se ne parli. Dopo aver conquistato l’ambitissima copertina della rivista «Vogue» ed aver fomentato non pochi polveroni su svariati social, in cui personaggi molto noti dello spettacolo esprimono le loro critiche ai danni della rivista patinata, Yeezy si definisce un
Dio. «Tutti s’ispirano a qualcuno, beh, io punto più in alto di “tutti”». Yeezus è il titolo del suo ultimo album, lavoro molto innovativo in cui mischia tecnica e maestria sorprendendo continuamente chi lo ascolta. Stilisticamente come un dipinto di Delacroix dopo un pesante intervento di Fontana Yeezus è «l’album perfetto». * La Big Bang Family è un gruppo musicale composto da Michele Larghi, Davide Pallaro, Luca Costanzo e Alberto Sacchi, che si alterneranno nella stesura degli articoli. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Desiderio e solitudine come una sfida all’OK Corral
The blacklist tra incastri e cliffhanger
In scena Debutto di due produzioni nostrane, in cui gli attori sono anche registi:
serie americana con J. Spader si sta rivelando un ottimo acquisto per la RSI
Antonio Ballerio a Bellinzona e Anahì Traversi a Lugano Giorgio Thoeni Sono trascorsi venticinque anni dalla scomparsa di Bernard Marie Koltès. Era il 1989, morto di aids, appena quarantenne. Il pubblico lo conosceva: aveva infatti già pubblicato cinque testi teatrali e un romanzo. Ma fu soprattutto grazie al sodalizio con Patrice Chéreau che la platea aveva visto in lui un talento drammaturgico straordinario, dallo stile impeccabile, dalla lingua perfetta e così profondamente ancorata a un lessico colto, al contempo di rara efficacia espressiva. Accanto a Roberto Zucco, il testo teatrale suo ultimo e più famoso è Dalla solitudine dei campi di cotone. Una linea narrativa che passa attraverso un dialogo a confronto di incredibile densità. A tal punto che lo stesso Chéreau ne fece tre allestimenti consecutivi. Peter Stein si innamorò invece di Roberto Zucco, una storia vera, forte e blasfema, un allestimento che il pubblico italiano ricorda certamente nella traduzione di Franco Brusati e con l’interpretazione di Franco Branciaroli. Recentemente un nuovo allestimento di Dalla solitudine dei campi di cotone è andato in scena a Bellinzona. Lo si deve alla coproduzione fra Labyrinthos e il Teatro Sociale con la regia di Antonio Ballerio, interprete in scena con Claudio Moneta. Koltès non amava accostare la sua densità teatrale alla poesia. Ma nella sua «solitudine dei campi di cotone» c’è una dimensione poetica non dichiarata, una verbalità espressiva che riesce comunque a trascinare lo spettatore verso abissi dove il senso (o il doppio senso) diventa la quarta parete dell’uomo. In un luogo indistinto, a un’ora indistinta fra luce e buio, accade l’incontro fra due uomini. Un Dealer, un venditore, e un Cliente. Entrambi, senza ammetterlo, si cercano per un mercato la cui merce non viene mai rivelata ma che dà adito a una trattativa estenuante, in una crescente vertigine
Antonella Rainoldi
Anahì Traversi in La Extravagancia#0.
di parole distribuite lungo un dialogo astratto, che chiama in causa la vita stessa, la solitudine e il desiderio di possesso. Il desiderio e basta. Non è un testo da sorbire a colazione, intendiamoci. Seguire Koltès richiede attenzione. Ma la regia di Ballerio, ben coadiuvata dall’elegante e sobrio «visual and sound design» (occorre saper le lingue...) di Roberto Mucchiut e i costumi di Erica Ferrazzini, imposta il confronto come un feroce duello all’ultima parola. Come una sfida giocata in un «OK Corral», un recinto circolare tratteggiato dalla luce in una platea del Sociale svuotata dalle poltroncine. Nell’arena anziché cavalli ci suono due attori di razza: Ballerio e Moneta. Si contrappongono con due stili recitativi diversi. Ballerio con parole taglienti, ironiche, composte e misurate. Moneta con una gestualità più marcata, registri caldi, meditati: talvolta suadenti, diversamente rabbiosi. I due si attraggono e si respingono. Come mantidi religiose. Fino al duello finale,
forse fino alla morte, dove non si sa chi sarà la vittima o il carnefice. Un’opera testamentaria per Koltès. Una riuscita avventura nella grande sfida della parola teatrale per noi. Una stravaganza che corre sul filo
«Siamo nate trigemine. Ci hanno amate tutt’e tre allo stesso modo, con un amore che sarebbe bastato a malapena per una sola». Parole come un trailer che ben riassumono La Extravagancia#0, spettacolo teatrale di Anahì Traversi tratto da un testo del drammaturgo contemporaneo argentino Rafael Spregelburd recentemente al suo debutto con successo al Teatro Foce di Lugano. Anahì è un’artista che il pubblico della Svizzera italiana sta imparando a conoscere e ad apprezzare sia sul palco sia grazie alla prosa radiofonica. Con questo suo primo progetto la trentenne attrice di Stabio (mezza argentina) si è messa coraggiosamente in gioco sostenuta dalla regia e video di Fabrizio Rosso, dalle scene
e «light design» di Giovanni Vögeli e dal «sound design» di Zeno Gabaglio per raccontare tra parole e immagini, la storia di tre sorelle (due gemelle, una adottata) in cerca della loro identità dopo la morte della madre. Sola in scena, l’attrice si fa in tre in un caleidoscopio di sensazioni che toccano le corde intime e oniriche. Uno spettacolo che può provocare diverse letture ed evocare immagini pittoriche (da L’origine del mondo di Courbet allo stile metropolitano di Basquiat, dai seni a punta di cono di Madonna agli autoritratti di Frida Kahlo). In tutto ciò emerge la prova di Anahì Traversi: la sua elegante figura teatrale nel gioco di parole dure e nei dialoghi ironici, per raccontare un destino spersonalizzante accanto a tensioni giocate su lunghi silenzi che ben evidenziano la qualità intrigante dello spettacolo, variato, e la bravura dell’attrice alle prese con tre personalità amministrate con una bella presenza fisica e un convincente registro interpretativo.
I vivi e i morti della famiglia Macaluso Teatro Il nuovo spettacolo di Emma Dante in scena a Milano
Giovanni Fattorini Alla ribalta, fiocamente illuminati, cinque scudi da opera dei pupi. Il resto della scena è completamente al buio, fino a che, sul fondo, vediamo affiorare i volti indistinti di un gruppo di persone che avanzano a passi molto lenti: otto donne e due uomini: una piccola schiera in camicia e pantaloni neri che si mette a marciare in varie direzioni e che rapidamente si trasforma (sopra le teste oscilla un crocifisso astile) in un corteo funebre accompagnato da una musica prima grave e poi festosa, dal quale si staccano sette donne che ridendo si allineano alla ribalta. Sono le sorelle Macaluso: Gina, Cetty, Maria, Katia, Lia, Pinuccia, Antonella. In dialetto palermitano – raramente intervallato da frasi in lingua – le sorelle ricordano episodi di vita familiare. Uno di questi, all’improvviso, le spinge a liberarsi simultaneamente degli indumenti luttuosi, sotto i quali compaiono degli abiti dai colori vivaci, finché un nuovo ricordo – una giornata al mare – le induce a un’ulteriore svestizione, che ce le mostra in costume da bagno. Inizialmente giocosa, la rievocazione mimata di una gara di apnea trapassa nel drammatico: per col-
Visti in tivù La
Le sorelle Macaluso.
pa di Katia, che sott’acqua le ha stretto troppo a lungo il naso, Antonella muore annegata. A questo punto, lo spettatore capisce che una delle sette sorelle è deceduta già da tempo. Poco dopo, non meno tangibili di Antonella, appaiono altri defunti: il padre Antonino, sottopagato «spalamerda» fulminato da un infarto sulla strada di casa; la madre,
scomparsa prima del marito; il figlio di Gina, giovane calciatore morto per arresto cardiaco durante una partita. L’immagine finale è quella di Maria, che non ha potuto realizzare il sogno di diventare una ballerina (doveva accudire le sorelle), e che scompare nel buio danzando, dopo essersi resa conto che il funerale dell’inizio era il suo. La famiglia sottoproletaria siciliana e i rapporti che si stabiliscono al suo interno sono motivi ricorrenti, si può dire ossessivi, del teatro lirico e violento di Emma Dante. Li ritroviamo anche in questo spettacolo (coprodotto da Teatro Stabile di Napoli, Théâtre National de Bruxelles, Festival d’Avignon, Folkteatern-Göteborg), dove gli aspetti morbosi e soffocanti dell’ambiente domestico risultano però decisamente attenuati rispetto ai lavori precedenti (si pensi a mPalermu, Carnezzeria, Le pulle), nei quali la famiglia era vista come un microcosmo che produce guasti psichici irreparabili. Ritroviamo anche il tema, non meno ossessivo, della morte, che si lega a quello della mescolanza ambigua e affascinante di religiosità pagana e cristiana. E ritroviamo modalità espressive collaudate: l’allinearsi dei personaggi
alla ribalta (che in questo caso è particolarmente prolungato), l’alternanza di ritmi lenti e veloci, gli scoppi di fisicità convulsa (individuali e di gruppo), i movimenti a volte marionettistici (qui, nella scenetta del duello con spade e scudi da teatro dei pupi), l’uso fortemente espressivo del corpo, e il maggior rilievo dato alla scrittura scenica rispetto a quella drammaturgica (anche se a partire da Mishelle di Sant’Oliva il peso del testo è venuto aumentando). Quanto alle attrici e agli attori, sono così bravi che sarebbe ingiusto non nominarli tutti: Serena Barone, Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna, Italia Carroccio, Davide Celona, Marcella Colaianni, Alessandra Fazzino, Daniela Macaluso, Leonarda Saffi, Stéphanie Taillandier. Ci sono tre scene che si fanno ricordare: la morte di Antonella, l’amplesso danzato di mamma e papà, la danza finale di Maria. Ma nell’insieme il nuovo spettacolo di Emma Dante rafforza l’impressione di manierismo che avverto già da qualche anno – diciamo dal 2009.
Dopo la visione dei primi sedici episodi, due cose sono certe. La prima: con tutti quei tipacci dai modi brutali, e quei pestaggi, e quei colpi di pistola, e quei morti ammazzati, The Blacklist è una serie non adatta alle signorine impressionabili. Per questo la RSI ricorre con correttezza al bollino rosso e all’orario consono (La1, mercoledì, ore 21.05). La seconda: The Blacklist riesce a dare magnificamente un senso narrativo all’intensità bruta e, per traslazione, nuova linfa all’immagine seriale della RSI. Le signorine impressionabili se ne facciano una ragione, e soprattutto seguano altro. Quando abbiamo recensito per la prima volta la serie, accennavamo alla felice congiunzione di recitazione e costruzione narrativa: l’interpretazione superlativa dell’intero cast (su tutti giganteggia James Spader), una caccia ai terroristi infarcita di colpi di scena, un crime dove il racconto si snoda per un’impervia salita fra il tema forte della fiducia e quello ancora più forte del tradimento. Breve riassunto delle puntate trasmesse finora: Raymond «Red» Reddington (James Spader), un pericoloso boss del crimine internazionale consegnatosi all’FBI dopo anni di latitanza, mantiene la promessa di fornire informazioni su terroristi e complotti tratti da una personale lista nera, avendo chiesto e ottenuto la sola collaborazione con Elizabeth Keen (Megan Boone), una specialista in psicologia forense approdata da poco all’FBI. Dal loro incontro nasce un rapporto ambiguo, fatto di reciproci pedinamenti, di strane fughe e altrettanto strane ricongiunzioni, così strane da coinvolgere anche il consorte di Elizabeth, Tom Keen (Ryan Eggold), fin qui una figura di secondo piano. Ora, a poche settimane dall’episodio conclusivo della prima stagione (la seconda è in fase di lavorazione), tutto sembra ruotare intorno a una sola domanda: chi è davvero Tom? Tom è descritto come un marito paziente e amorevole, la cui fedeltà è messa alla prova per istigazione di una donna misteriosa. Ma qualcosa non torna e anche la moglie, incoraggiata da Reddington, comincia a dubitare di lui. Il sospetto è che Tom nasconda segreti troppo pesanti da sopportare, e gli insistiti cliffhanger sono uno straordinario espediente narrativo per tormentare la curiosità dello spettatore. Alla prossima settimana per i numeri.
Dove e quando
Milano, Piccolo Teatro Grassi, fino al 18 maggio. www.piccoloteatro.org
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Cultura e Spettacoli
La reinterpretazione commossa ed esilarante di un classico Festival della Danza Steps Domani al Palazzo dei Congressi andrà in scena un’accattivante
versione sudafricana de Il lago dei cigni di Ciajkovskij Valentina Janner Una parata di cigni neri (non per i costumi, ma per il colore della loro pelle) beffardi e provocatori, scodinzola mostrando al pubblico il lato B sotto un tutù vaporoso e piume svolazzanti. Questo l’inizio di Swan Lake, preludio di uno spettacolo all’insegna dell’ironia, dell’umorismo, ma che non mancherà di commuovere lo spettatore con la tragicità caratteristica de Il Lago dei Cigni. Questa versione teatralizzata del grande classico del balletto prevede che alcuni personaggi si trasformino in veri e propri attori: la madre di Siegfried, alla ricerca di una sposa per suo figlio, si trasforma improvvisamente in una maîtresse de cérémonie, quando in maniera esilarante esamina le pretendenti. Questo processo di selezione rappresenta le estenuanti audizioni che le ballerine devono superare per essere ammesse a un corpo di ballo. Vengono così raccontati alcuni clichés della scena artistica, che non divergono così tanto dalla realtà, come ha spiegato la coreografa sudafricana Dada Masilo al termine della prima svizzera dello spettacolo presso la Gessnerallee di Zurigo, lo scorso 27 aprile: «Il testo potrebbe sembrare artificioso, inventato a scopo scenico, ma in realtà è davvero ciò che accade nell’ambiente della danza». Quest’insolita rappresentazione dal ritmo coinvolgente non smette di stupire: i cigni anticonvenzionali si librano nell’aria eleganti, eseguendo alla perfezione figure e passi della tecnica del balletto classico, un attimo dopo ecco che starnazzano, emettendo veri e propri
I cigni neri di Dada Masilo, in scena domani sera a Lugano. (John Hogg)
rumori e urla. La musica di Ciajkovskij incontra così il ritmo africano dei riti tribali. I danzatori ballano sì, ma parlano anche tre lingue del Sudafrica (inglese, zulu e tswana), si percuotono per produrre suoni con il proprio corpo, nello stesso modo in cui i sudafricani si comportano durante una cerimonia: «Noi Africani siamo davvero sempre così rumorosi, quando siamo tristi, arrabbiati, oppure contenti, quando ci divertiamo», puntualizza Masilo. Al chiasso delle feste si alternano assoli seducenti, non solo quello di Odette, che tenta invano di conquistare un Siegfried disinteressato, ma anche quello di Odile, il famoso cigno nero, qui impersonato da un uomo, riferimento esplicito all’omosessualità. «L’idea di far vestire i panni del cigno nero a un uomo deriva dallo stereotipo del ballerino omosessuale. Quindi, perché non rappresentarlo? Mi piace lavorare con le credenze della gente e proporre temi che sono ritenuti dei problemi» ha precisato Masilo. Questi assoli, che rappresentano l’amore non corrisposto o per lo meno l’amore impossibile, conferiscono intensità poetica e tensione narrativa all’opera. Sono infatti magistralmente intrecciati con momenti comici e chiassosi. Strabiliante il talento della coreografa nel raggiungere il perfetto equilibrio tra tragicità e umorismo e nel coinvolgere lo spettatore, riuscendo ripetutamente a fargli cambiare stato d’animo, divertendolo e commuovendolo. Questa la reinterpretazione di Dada Masilo, una rilettura in chiave africana con l’intento di rendere un classico accessibile a tutti. Per questo motivo ha
deciso di introdurre l’elemento narrativo con funzione esplicativa. «Volevo ammorbidire la rigidità tipica del balletto», ha delucidato la coreografa, «adoro il balletto classico, ma ogni qualvolta siedo tra il pubblico mi chiedo ma perché i personaggi non si parlano? Sarebbe tutto più facile, parlatevi! Questo limite mi ha sempre turbata, ecco perché ho dato voce ai miei protagonisti. Ho sempre adorato i classici, come Romeo e Giulietta, e mi piace la forma narrativa, per contro non mi entusiasma particolarmente la danza astratta. Preferisco raccontare storie, e la sfida è come raccontarle, come rappresentarle». L’artificio adottato dalla coreografa per riuscire a integrare il folclore africano in una fiaba del Romanticismo russo di fine Ottocento è stato quello di ricorrere allo stile contemporaneo: «All’inizio è stata una sfida trovare il giusto equilibrio tra il classico e l’africano, poi, esercitandoci, ci siamo lasciati prendere da Ciajkovskij. Ho accentuato il ritmo del balletto, dando più struttura alla musica, per quanto riguarda la danza ho inserito anche del contemporaneo che fa da collante tra lo stile africano e il classico. Ci voleva questo elemento coesivo, altrimenti sarebbe stato troppo difficile abbinare due generi così lontani tra loro». Informazioni
Swan Lake, che si inserisce nell’ambito del Festival della Danza Steps, ideato e prodotto dal Percento culturale Migros, sarà in scena domani sera a Lugano al Palazzo dei Congressi. www.steps.ch
Audaci visioni a Nyon Festival Visions du réel ha offerto ancora una volta uno sguardo
lucido e intenso sul mondo che ci circonda Muriel Del Don Anche quest’anno la città di Nyon si è riempita di mille colori grazie al Festival Visions du réel, appuntamento imperdibile per cinefili e professionisti avidi di novità nel campo del documentario o meglio della «messa in scena del reale». L’ultima edizione è stata segnata da un doppio anniversario, i quarantacinque anni d’esistenza del festival internazionale del film di Nyon e il ventesimo anno di esistenza di questo sotto la nuova appellazione «Visions du réel». Un traguardo importante raggiunto grazie a una forte determinazione e alla volontà di proporre ogni anno una programmazione audace capace di emozionare, ma anche di far riflettere sulla realtà che ci circonda. Visions du réel può vantarsi di essere uno dei più importanti festival al mondo nel campo della produzione documentaria, che accoglie ogni anno più di trentamila spettatori. L’ultima edizione è stata dominata dal tema dell’amore, sotto tutte le sue forme, un sentimento intimo ma al contempo universale, il motore che spinge tanti artisti ad aprirsi verso l’altro, verso un mondo che desiderano catturare grazie alla cinepresa. Come sottolineato dal suo direttore Luciano Barisone, Visions du réel si definisce come un festival del cinema del reale e non di film documentari nel senso stretto del termine. Le opere selezionate non vogliono essere una rappresentazione obiettiva della realtà ma piuttosto una sua messa in scena cine-
matografica. Il cinema come mezzo che mette in campo la molteplicità e la ricchezza ma anche le contraddizioni e le assurdità del mondo d’oggi, con uno spirito di apertura e scambio che rende il festival di Nyon unico nel suo genere. Il palmarès di quest’anno ha sottolineato la vitalità produttiva ed artistica del cinema dei Paesi del Sud e dell’Est. Questa volontà di proporre e presentare film provenienti da ogni parte del globo sottolinea l’apertura al mondo di Visions du réel e il grande lavoro di ricerca di opere a volte di difficile accesso, spesso soffocate da barriere territoriali quasi invalicabili. L’America latina ha ricevuto ben sei premi tra cui il prestigioso sesterzio d’oro della Posta svizzera per il miglior lungometraggio (competizione internazionale) che è andato a Café (Cantos de humo) del messicano Hatuey Viveros Lavielle, film estremamente intimo e profondo che mostra il legame spesso complesso tra tradizione e cambiamento all’interno di un nucleo famigliare di autoctoni del villaggio messicano di Cuetzalan. Il Medioriente è stato premiato con due riconoscimenti, tra i quali il sesterzio d’oro George Foundation per il miglior mediometraggio andato a Mashti Esmaeil di Mahdi Zamanpoor, un ritratto o meglio un omaggio ad un personaggio pieno di speranza e gioia di vivere malgrado le difficoltà; un uomo che riesce ad affrontare le avversità del quotidiano con un senso dell’umorismo e una saggezza rari. Autofocus di Boris Poljak, vincitore del sesterzio d’oro della Mobiliare per il
miglior cortometraggio (competizione internazionale) ha invece mostrato la forza e la creatività della produzione dell’Est. Boris Poljac ci stupisce con un film sul turismo di massa vicino a Nin, in Croazia. Uno sguardo ironico e pungente sulla bulimia di foto ricordo, sullo sfruttamento di un sito turistico ridotto a un grottesco banchetto dove la cultura viene divorata e consumata alla stregua di un hamburger in un fast food. Nella categoria «Cinema svizzero» i film premiati sono coraggiosi ed esteticamente affascinanti; opere che hanno saputo indagare il reale con uno sguardo lucido e sensibile. ThuleTuvalu di Matthias von Gunten, vincitore del sesterzio d’argento SRG SSR per il miglior film svizzero è un film forte, importante, che presenta le conseguenze disastrose del cambiamento climatico. Il film del regista basilese ci rapisce grazie al suo sguardo intenso che si focalizza (con un magnifico montaggio parallelo) su alcuni personaggi toccanti, estremamente umani. Particolarmente interessante l’utilizzo della musica e dei suoni (il ghiaccio che si sgretola e il canto delle balene) che arricchisce le immagini con uno strato supplementare di mistero quasi ancestrale. Il premio della giuria SSA/Suissimage per il medio o lungometraggio più innovativo è andato invece a Je suis Femen di Alain Margot, un ritratto crudo e deciso di donne coraggiose che hanno saputo seguire la loro convinzione, senza compromessi. Un film sensibile ma pieno di forza che mostra la realtà difficile di donne che
Un momento di ThuleThuvalu dello svizzero Matthias von Gunten.
rischiano la loro vita per seguire i loro ideali. Da citare anche El tiempo nublado (coproduzione Svizzera-Paraguay) della regista Arami Ullòn, un film pieno di delicatezza e rispetto che mette in scena le scelte difficili di una figlia confrontata con la malattia della madre (il morbo di Parkinson). Un labile equilibrio tra devozione e egoismo che mostra la complessità delle emozioni umane. Oltre alla competizione ufficiale e alle varie sezioni parallele, il festival ha scelto quest’anno di rendere omaggio a Peter Liechti, recentemente deceduto, con una proiezione speciale in suo onore. Grazie a film profondi e incisivi il documentarista svizzero ha marcato la storia del festival. Basti citare il suo più grande successo Signers Koffer o più
recentemente Vaters Garten, premiato con il premio della giuria e vincitore del Quartz per il miglior documentario durante l’ultima edizione del premio del cinema svizzero. Le giovani speranze non sono state dimenticate grazie ad una selezione di lavori delle scuole cantonali d’arte di Losanna (ECAL) e di Ginevra (HEAD). Da citare Le petit prince au pays qui défile di Carina Freire. Uno sguardo rinfrescante, duro e a tratti malinconico sul rovescio della medaglia della gloria. Anche quest’anno Visions du réel ha saputo stupirci, emozionarci e farci riflettere grazie ad una programmazione audace e di qualità, un’immersione nella realtà che ci circonda, a volte sorprendente, a tratti crudele ma sempre sincera.
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta A fare quiz in crociera Nelle mie fantasie di turista pigro non ha mai trovato posto la classica crociera su una grande nave. Piuttosto erano i viaggi (mai effettuati) sulla Transiberiana o sul pullman da Londra a Nuova Delhi che mi facevano sognare. Ma quando mi è stata offerta l’occasione imprevista di prendere parte a una lunga crociera, l’ho acchiappata al volo. È successo nell’estate del 1988, 26 anni fa. Un amico attore aveva preso l’impegno di fare l’animatore sulla Eugenio C. della Costa, dalla fine di giugno ai primi di agosto, per più di trenta giorni di navigazione; avendo ricevuto la proposta di un lusinghiero contratto per un programma estivo alla radio, mi propose di sostituirlo. Sarebbe stata una sorta di vacanza-lavoro alla pari; in cambio del mio ingaggio, mia moglie ed io avremmo viaggiato gratis. Avevamo due figli già grandi ma una terza figlia di tredici anni non poteva essere lasciata sola; ci permisero di portare anche lei purché dormisse con noi nella stessa cabina. Così un bel pomeriggio ci siamo imbarcati a Genova, con altri 120 componenti
dello staff, tutti con l’incarico di intrattenere al meglio nei più diversi ruoli i quasi 800 passeggeri paganti. Uno degli attori della compagnia di teatro comico, quando vide che m’imbarcavo con la famiglia, fu sorpreso: «Portarsi la moglie in crociera , mi disse, è come portare un frigorifero al polo Nord». In effetti, vista la nutrita schiera di signore sole e fameliche, non aveva poi tutti i torti... Avevo preso l’impegno di svolgere due attività quotidiane entrambe per fortuna sospese quando la nave sostava in uno dei tanti porti, per cui ho sempre potuto scendere a terra con moglie e figlia. La prima attività consisteva in un quiz, da ideare e condurre per tutti i giorni di navigazione, dalle 16 alle 17. Si trattava di formulare ogni volta una trentina di domande di cultura generale; per ognuna davo quattro risposte, una giusta e tre sbagliate, due concepite per trarre in inganno e una demenziale. Per compilarle mi ero portato in viaggio una valigetta piena di Garzantine. Fin dalla prima volta, presero parte al quiz una quarantina
no azzurro con la scritta Costa Crociere? La replica era sempre: non è per il gadget in sé, per me è una questione di principio. Qualche esempio di domande. Leggevo quattro incipit di poesie di Eugenio Montale, tre veri, (tipo «Esterina i vent’anni ti minacciano») e uno inventato da me: «Stride la vampa a Lerici», allusivo al fatto che Montale era stato baritono. Un crocerista che aveva indicato un altro celebre verso come quello falso, non si arrese davanti alla prova dicendo: «Ho fatto per trent’anni il preside a Mondovì e queste cose le so». Fra questi quattro scrittori, indicate chi non ha vinto il premio Nobel della Letteratura: Giosuè Carducci, Grazia Deledda, Luigi Pirandello, Gabriele d’Annunzio. Molti rispondevano Grazia Deledda, sembrava loro impossibile che il divino Gabriele non l’avesse mai vinto. E si arrabbiavano: chi sarebbe questa Deledda? Proponevo anche domande sui Paesi toccati dalla crociera, come nel caso della Florida. Fra queste quattro località indicare la capitale della Florida: Miami, Orlando,
San Diego, Tallahassee. Per quasi tutti era Miami. Una vera carognata, poiché pochi sanno che lo Stato degli USA ha la capitale in un’ignota cittadina come Tallahassee. L’altro mio impegno consisteva nell’ideare trama e sceneggiatura di una fiction interpretata dai passeggeri. In una ventina, più giovani che anziani, risposero al nostro appello e si sottoposero ai provini; non bisognava scartare nessuno ma utilizzare tutti al meglio dei loro talenti. Dopo aver visionato i provini, scrissi la trama, con tanti personaggi e a lieto fine: una ragazza portata in crociera dai genitori perché dimentichi un innamorato continua a vederlo perché lui s’intrufola a bordo, nascosto e protetto dagli altri passeggeri. Non era ancora uscito il film Titanic e non posso essere accusato di plagio. Una mini troupe, guidata da un regista, riprendeva le scene. Una fatica immensa, i cosiddetti attori non rispettavano gli orari e non imparavano le battute. Ma ce l’abbiamo fatta e a tutti abbiamo consegnato come ricordo la registrazione in VHS delle loro prodezze.
proprio utilizzando questa debolezza umana, il piacere del non sapere come va a finire, rischio e sorpresa assieme, una droga potente. È inutile ricordare che è spaventosamente bassa la percentuale di possibili vittorie alla lotteria, bingo, tombola, e poi roulette, e poi lotto e lottini. Così bassa da essere quasi a zero, dove il «quasi» fa la differenza. Se uno su tanti milioni ha vinto tanto, perché non provare a emularlo? Perché le stelle non dovrebbero concedermi la stessa chance? Ma le stelle, si sa, stanno a guardare, e se devono distribuire fortuna non seguono alcuna regola. I primi a cadere nell’inganno sono i più deboli, coloro che per diversi motivi hanno poco da perdere, in termini di denari e salute, e preferiscono sperare in un colpo di fortuna, piuttosto che tenersi caro ciò che hanno e da questo cercare di risalire la china. I personaggi di Regalo di Natale e La rivincita di Natale, due film di Pupi Avati sul poker, sono davvero squallidi e meschini. Il
giocatore di Dostoevskij è un istitutore innamorato di una fanciulla di famiglia nobile e decaduta. Solo la «nonnina» potrebbe risanare le finanze di famiglia, morendo e liberando quindi l’eredità. Ma la cara vecchina preferisce giocare al Casino fino all’ultimo centesimo. L’istitutore potrebbe alla fine, grazie a un dono inatteso, raggiungere la fanciulla che scopriamo essere di lui innamorata e salvare l’intera famiglia. Ma preferisce giocare anche questa ultima somma, rimandando la sua redenzione a un tempo che il lettore sa essere così lontano da rivelarsi irraggiungibile. Un capolavoro, dettato in un mese dall’autore alla moglie. Per pagare i consistenti debiti di gioco. Autore e protagonista, Fëdor Dostoevskij e Aleksej Ivànovic, soffrono della stessa malattia, per questo le pagine del romanzo sono così vere. In fondo, è la stessa dipendenza dal brivido che porta a praticare sport estremi. Non capiterà una disgrazia, ma «potrebbe» capitare,
brivido. Non vincerò al Lotto, anche se spendo una fortuna, però «potrei» vincere. Torniamo così all’uovo di Pasqua: conterrà di certo un oggetto inutile, trash ma, chissà, anzi quizá, come dicono gli ispanofoni per intendere un «magari» molto aleatorio, appunto. Chissà, magari il cioccolataio si è passato una mano sulla coscienza. O ha trovato a basso prezzo della bigiotteria deliziosa. La sorpresa potrebbe sorprendere. I pacchetti incartati, anche loro potrebbero donare al ricevente un brivido nuovo, infatti alcuni, novelli Stoici, non gradiscono le sorprese, anche se preparate con amore, perché non gradiscono essere turbati da qualcosa non da loro previsto. Peccato, non sanno cosa si perdono, potrebbero addirittura diventare filosofi, se la meraviglia è all’origine di ogni pensiero sull’essere, come vuole Aristotele. Discorso interessante, ma non da approfondire ora, il postino mi ha appena lasciato un pacchetto e ho già le forbici in mano, vado.
malattia: l’egoismo. Ma esiste anche una cura». Dunque, l’invito ai giovani è: viaggiate pure, diventate ricchi e famosi quanto volete, innamoratevi, guadagnate e perdete patrimoni, ma coltivate la gentilezza come virtù preliminare della vostra giornata. Il rischio ovvio è di cadere nello sdolcinato, almeno se la gentilezza viene intesa come semplice cortesia. Invece no, Saunders precisa che cosa intende: comprensione, empatia, compassione, delicatezza, «fare ciò che porta maggiori benefici all’altro». Un buon proposito, che vale una vita. «La gentilezza fortifica l’individuo; richiede una certa dose di forza interiore. Non è affatto una virtù debole». Detto ciò, è pur vero che il mondo si muove esattamente nella direzione opposta. E indubbiamente i social network enfatizzano a dismisura il peggio di noi. Basti ricordare il caso della quattordicenne Nadia che a Cittadella, in provincia di Padova, qualche
settimana fa si è lanciata nel vuoto dopo essere stata insultata via Ask (2), il social network in cui gli adolescenti possono sfogare le loro pulsioni. Ora, si è detto che Nadia era sicuramente una personalità fragile, ma non si è sottolineata abbastanza la ferocia gratuita dei suoi aguzzini anonimi. Il cosiddetto cyberbullismo è diventato una piaga sociale. Con l’anonimato, poi, la viltà del gesto si amplifica. La piaga sociale, ancora prima del cyberbullismo, è l’anonimato che ti assicura l’impunità di ogni azione (verbale) prevaricante. Non sarebbe insensato negare questa possibilità, ma negarla, ahimè, significherebbe ridurre di molto non solo l’orribile ferocia degli smanettanti ma anche probabilmente il numero delle connessioni. Di conseguenza il successo di quel social network e il guadagno che qualcuno, altrettanto anonimo e irresponsabile, ricava da quel gigantesco scambio di frasi, mezze frasi, odi, urli, insulti,
improperi, grugniti. C’è spesso una ragione economica, oggi, nella tolleranza della crudeltà e della violenza. In quella che si scatena online come in quella che si scatena negli stadi. Di fronte al guadagno, le vittime appaiono come poca cosa, come inevitabile danno collaterale. Il secondo saggetto contenuto nel libriccino (gentile) di Saunders, intitolato L’uomo col megafono, affronta un tema analogo partendo dalla campagna statunitense in Iraq: nella politica, come nell’informazione, è la necessità del profitto, la prevalenza del calcolo economico a «spegnerci il cervello». Una sorta di pragmatismo oscuro fatto passare per «male necessario» o peggio per missione umanitaria. Non è un caso se anche dietro tante discussioni sul web si nasconde la retorica di una democrazia finalmente realizzata, magari maldestramente, maleducatamente, brutalmente. Come se la gentilezza fosse una virtù estranea alla democrazia.
di passeggeri e rimasero fedeli fino alla fine. C’era talvolta fra il pubblico anche qualche giovane ma solo in veste di suggeritore al parente anziano. Alle 16 i concorrenti ricevevano un foglio con un elenco di trenta numeri e a fianco di ogni numero la graffa con le lettere dell’alfabeto, a b c d. Leggevo la domanda e le quattro risposte e i concorrenti dovevano segnare sulla lettera corrispondente quella che ritenevano giusta. Al termine, prima raccoglievo i fogli sui quali i partecipanti avevano segnato oltre alle risposte anche il loro nome. Poi rileggevo le domande e davo la risposta giusta. Talvolta c’erano reazioni furibonde da parte di chi non solo aveva sbagliato risposta ma considerato valida quella demenziale. Non si quietavano neanche se mostravo la fonte su una delle tante enciclopedie che mi portavo dietro. Ogni volta il più bravo vinceva qualcosa; ai perdenti facevo notare che si trattava di una sciocchezza. Sottinteso: spendi 30 milioni per questa crociera e ti arrabbi perché non hai vinto un posacenere o un ombrelli-
Postille filosofiche di Maria Bettetini Il brivido della sorpresa E non lo apri? L’amica di passaggio per un saluto guarda con curiosità il pacco appena consegnato. Guardiamo la sorpresa? Anche se il cioccolato in casa non manca, appena arriva un uovo da saldi di Pasqua lo si deve aprire subito. Anche se alla memoria non si affaccia nessuna «sorpresa memorabile», insieme al ricordo di tante delusioni per patacche cinesi, pupazzetti avanzati dagli ovetti Kinder, cornici in similsilver. Nooo, e cosa è mai? Si cinguetta davanti al pacchettino inatteso, pur sapendo che dalla zia possono arrivare solo fazzoletti riciclati o borsellini inutili. Qualunque forma di sorpresa accende il cuore, distrae dalla fatica del quotidiano, regala se pur per brevi istanti un biglietto di ingresso nel Mondo dei Sogni. E non importa, come si evince dagli esempi citati, che il margine di soddisfazione prevista sia statisticamente vicino al nulla. Ciò che smuove i cuori induriti dalle abitudini è il salto nel buio, il rischio accompa-
gnato dalla certezza che comunque al massimo saremo vittime di una delusione, non di un affronto. Un rischio leggero, che segue la legge dell’alea, del gioco ai dadi riletto da Roger Callois. Nell’antica Roma si giocava con i dadi e una sorta di scacchiera, il gioco mescolava fortuna e perizia. Callois intende invece con alea il secondo tipo di giochi, dove questi siano le situazioni della vita: «Contrariamente all’agón (la sfida, il combattimento, n.d.r.), l’alea nega il lavoro, la pazienza, la destrezza, la qualificazione; elimina il valore professionale, la regolarità, l’allenamento. Ne vanifica in un attimo i risultati accumulati. È avversità totale o fortuna assoluta. Reca al giocatore fortunato infinitamente più di quanto gli può procurare una vita di lavoro, di disciplina, di fatica (Les Jeux et les hommes: le masque et le vertige, 1958). Nessuna perizia, solo fortuna, solo la vertigine del risultato imponderabile. Il gioco d’azzardo riempie le casse dello Stato
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Per una rivoluzione gentile «Siate dei pazienti di voi stessi, bravi, propositivi, anche un po’ disperati – cercate le medicine antiegoismo più efficaci, cercatele con energia, finché vivrete. Scoprite cosa vi rende più gentili, cosa vi libera e fa emergere la versione più affettuosa, generosa e impavida di voi stessi – e cercatelo come se non ci fosse niente di più importante. Perché, in effetti, non c’è niente di più importante». È un bel proposito (5½) quello che lo scrittore americano George Saunders (classe 1958), un campione del racconto breve, ha illustrato in un discorso rivolto ai laureandi della Syracuse University e tenuto l’11 maggio 2013. Un proposito del tutto anacronistico. Che cosa significa la gentilezza? Ha ancora senso? Ora quel discorso è raccolto in un volumetto appena pubblicato dall’editore minimum fax (6–), a cura di Christian Raimo. E ne possiamo apprezzare lo svolgersi e le ragioni in una fase della nostra storia in cui a tutto si
ambisce tranne che a essere gentili. Sarebbe utile leggerle nelle scuole, quelle poche paginette, per comunicare ai giovani che nella vita non vincono sempre la rabbia, il risentimento, l’arroganza e l’indignazione, come si sarebbe portati a credere accendendo la televisione e ascoltando politici, comizianti improvvisati e gente comune. La domanda preliminare di Saunders è: «Se guardi indietro, che cosa ti dispiace davvero di ciò che hai fatto?». Il dispiacere maggiore, da vecchi – sostiene lo scrittore – è aver maltrattato qualcuno. Con o senza motivo. I giovani puntano, comprensibilmente, al successo, dice Saunders. Ma solo invecchiando ti accorgi che «il successo è inaffidabile»: riuscire a farcela è un bisogno che non si accontenta di sé, c’è il pericolo assai concreto che non basterà la vita intera per «riuscire a farcela». Il desiderio di denaro e di fama aumenta l’ansia, non la riduce. «C’è un equivoco, in ciascuno di noi, anzi una
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Idee e acquisti per la settimana
shopping Adula, stagionato in grotta per sei mesi almeno Severino Rigozzi, casaro di Aquila. (Giovanni Barberis)
Dopo 38 anni di esperienza e di lavoro, Severino Rigozzi è oggi uno dei nomi noti dell’agricoltura e della produzione casearia ticinese. Ha esercitato la professione di meccanico fino a 20 anni, ma già nel 1976 ha cominciato a comporre lentamente la propria azienda. In principio c’erano le due mucche della madre, poi quattro, e così via, fino al 2004, quando ha deciso di investire nella costruzione della nuova stalla a stabulazione libera. Oggi sono 65 le bovine da latte che vi abitano, a cui si aggiungono una trentina tra manze e manzette. Nel 2012 Severino Rigozzi ha deciso di valorizzare ancora meglio il suo latte di montagna prodotto senza foraggi insilati, e costruisce il nuovo caseificio: «Si trova dove c’era la vecchia stalla costruita nel 1978– racconta – abbiamo quattro celle di maturazione, un moderno caseificio e un locale per la vendita». Per la maturazione dei formaggi Severino Rigozzi fa capo anche a una vecchia grotta-cantina della Cima Norma a Dangio-Torre: «Era la vecchia cantina di una birreria, dove oggi il formaggio Adula viene fatto maturare per almeno sei mesi». Un formaggio di montagna semiduro dunque, ricco di aromi e profumi, tutti derivanti dal fieno e dall’erba con cui si nutrono le mucche dell’azienda. Oltre al formaggio Adula, nel caseificio di Aquila per Migros Ticino si producono anche il caseificio Blenio, il «Raklettello del Sole» (stagionale) e la formaggella «Crenga» (dal suo nome in dialetto locale), elaborata secondo la ricetta tradizionale. Nel periodo estivo la produzione si sposta invece all’Alpe Camadra (sul territorio di Ghirone), una regione sassosa e ricca d’acqua, dove, nel caseificio ubicato a 1’800 metri di altitudine, vengono fabbricate le forme di un gustoso formaggio d’alpe Camadra DOP, «grazie all’erba buona che cresce su quest’alpeggio», come racconta Severino Rigozzi. / Elia Stampanoni
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Lo sapevate che…? Risotto e luganighetta: un bontà della nostra tradizione.
La denominazione Luganighetta non deriva dal nome della città di Lugano, ma sembra certo derivare da quello della Lucania (Basilicata) e si fonda su una citazione del console romano Varrone che recita «Lucania dai Lucani; dai quali i soldati romani impararono a conoscerla». L’espansione
romana fece conoscere tramite le sue legioni la praticità della carne di maiale tritata, salata, aromatizzata e insaccata, ciò spiegherebbe come con questo nome la salsiccia si sia poi affermata ovunque. Il riso è diventato veramente popolare solo nel secolo scorso e per lungo
tempo è stato il piatto della domenica, aromatizzato e dorato con lo zafferano. Oggi, grazie all’inventiva delle massaie ticinesi, questo piatto semplice con il contorno della «luganighetta nostrana» è stato trasformato in una specialità del nostro territorio, diventando un piatto di tutti i giorni.
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Acquisto con Subito perché… Attualità Introdotto lo scorso autunno al supermercato Migros di S. Antonino, il sistema
Subito per gli acquisti self-service ha conquistato la fiducia di molti clienti per la sua semplicità d’uso. Abbiamo chiesto ad alcuni utilizzatori del self-scanning il loro parere su questo metodo di fare la spesa (seconda di quattro puntate)
«È molto comodo e permette di non perdere tempo alle casse. Un altro aspetto positivo è il fatto che sul display si ha subito un colpo d’occhio su quello che si è acquistato e sulle azioni in corso». Renata Mina (46) con i figli Giulia (17) e Michele (15), Arbedo.
«Lo utilizzo per la prima volta, visto che l’ultima volta sono rimasta in coda a lungo alle casse normali. Funziona bene, è semplice da usare ed è davvero pratico visto che si può pagare con le carte». Edith Zimmermann (56 anni), Zurigo.
«Gli articoli si maneggiano una volta sola e si possono già sistemare direttamente nelle borse della spesa, pronti per essere solo caricati in auto. Inoltre si guadagna parecchio tempo». Sandra Schultheiss (49) con il figlio Noah (11), Aranno.
«Mi trovo molto bene con Subito perché è un sistema molto veloce e mi consente di vedere quanto posso spendere. Lo utilizzo fin dalla sua introduzione almeno una volta alla settimana». Katia Vogini (53), Lodrino. (Giovanni Barberis)
L’eccellenza del «Made in Italy» Attualità Micasa ti offre fino a sabato 31 maggio il 20% di riduzione sui gruppi imbottiti artigianali di produzione
italiana! E con la carta fedeltà Cumulus potrai aggiungere un ulteriore 10% di sconto! Inoltre, sabato prossimo, al Micasa S. Antonino uno specialista di divani sarà a tua disposizione per una consulenza personalizzata
La Brianza si distingue da decenni per la sua produzione artigianale di poltrone e divani. Design sempre attuale, materiali d’alta qualità e flessibilità nella personalizzazione del prodotto sono valsi a questa regione una posizione di rilievo nel settore dell’arredamento, non solo in Italia. Prodotti che ben rappresentano l’autenticità del gusto e della tradizione del «Made in Italy». Gran parte di questi salotti posseggono strutture realizzate in legno massello, sedute con cinghie elastiche e
imbottiture in poliuretano espanso indeformabile. Particolare attenzione è dedicata alla scelta dei tessuti e delle pelli, tutte provenienti da rinomate aziende tessili e pellettiere italiane. Insomma, una produzione artigianale puramente «Made in Italy», su misura, studiata, progettata e realizzata perché sia sempre all’avanguardia. Sabato 17 maggio al Micasa S. Antonino puoi approfittare della consulenza personalizzata dell’esperto e scoprire questi prodotti d’eccellenza del manufatto artigianale italiano.
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Idee e acquisti per la settimana
Ortaggi fai da te? Attualità Presto fatto se scegliete le piantine di ortaggi da trapiantare della fioricoltura Martinelli di Sementina.
Ivan Martinelli, contitolare dell’azienda famigliare, ci spiega come ottenere ottimi risultati
Signor Martinelli, quali sono le piantine di ortaggi che fornite ai reparti fiori e Do it + Garden di Migros Ticino?
Forniamo una gamma molto ampia di piantine. Tra le più comuni citerei lattughe a foglia verde e rossa, broccoli, pomodori, melanzane, zucchine, cetrioli, porri, basilico e prezzemolo. Inoltre, non vanno dimenticate le piante innestate di pomodori, melanzane, peperoni, cetrioli e meloni delle stesse varietà che si usano nel settore professionale. Come possiamo ottenere un buon risultato anche a casa?
Per ottenere un risultato ottimale innanzitutto si deve preparate il terreno con una bella vangatura profonda e concimarlo con un fertilizzante di tipo organico. Una volta trapiantate, le piantine dovrebbero essere irrigate al mattino, cercando di non bagnare direttamente la pianta onde evitare
Ivan Martinelli, giardinierefioricoltore a Sementina. (Giovanni Barberis)
il più possibile le malattie. Qualche consiglio: per le piante di pomodori, melanzane e peperoni sarebbe bene evitare le piogge, anche solo con un riparo momentaneo, in quanto ci sono dei periodi in cui la pioggia potrebbe essere acida e quindi causare malattie alle piantine. Inoltre durante la coltivazione sarebbe necessario fare un paio di trattamenti a base di rame. Qual è l’ortaggio più interessante
Solo pangasius da fonti sostenibili Attualità Nei reparti pesce fresco Migros
trovate esclusivamente filetto di pangasius certificato ASC
Il pangasius è un pesce molto apprezzato grazie alla sua versatilità culinaria. Utilizzato sia per preparare semplici stuzzichini sia per piatti più elaborati, questo pesce si caratterizza per la sua carne bianca dal sapore delicato. Una vera bontà che potete consumare con la coscienza tranquilla se acquistata presso i reparti pesce Migros. Qui, infatti, il pangasius offerto proviene esclusivamente da allevamenti responsabili del Vietnam, tutti certificati con il marchio ASC (Aquaculture Stewardship Council). Questa organizzazione in-
dipendente istituita dal WWF, a cui Migros aderisce dal 2011, ha elaborato rigorose direttive per un’acquacoltura responsabile: le aziende devono rispettare la biodiversità regionale – p. es. mantenendo gli habitat naturali dei pesci -, il cibo è costituito solo da farine di origine controllata, gli antibiotici sono utilizzati solo in caso reale di bisogno. Inoltre le aziende ASC devono garantire buone condizioni di lavoro ai propri lavoratori. Per saperne di più visitate: www.migros.ch/pesce
da coltivare secondo lei?
Direi il pomodoro, dal momento che, oltre ad essere bello da vedere, si è anche confrontati alle possibili avversità legate al clima, ai parassiti e alle malattie fungine. La soddisfazione più grande è poi quella di arrivare a raccogliere un bel prodotto avendo superato tutte le difficoltà. Il pomodoro è anche il più gettonato visto il suo ampio utilizzo in gastronomia.
La Fioricoltura Martinelli in breve Fondata negli anni Sessanta dal padre dei fratelli Loredano e Patrizio Martinelli, questa azienda è oggi specializzata nella produzione di giovani piante da orto, fiori da giardino e tappeti verdi precoltivati. La terza generazione è costituita dal ventinovenne Ivan Martinelli, figlio di Loredano,
di formazione giardiniere-fioricoltore. L’azienda ha saputo sviluppare costantemente negli anni la propria struttura con tecnologie e tecniche di coltivazione all’avanguardia, affinché al consumatore possa essere sempre proposto un prodotto di qualità superiore.
Spiedini di pangasius al sesamo su letto di coriandolo Piatto principale per 4 persone Ingredienti 2 limette 6 filetti di pangasius da ca. 120 g l’uno 2½ cucchiaini di salsa di soia 6 cucchiai di semi di sesamo 1 cucchiaio d’olio ad es. olio d’arachidi 2 mazzetti di coriandolo 2 cucchiaini d’olio di sesamo 1-2 cucchiaini di peperoncino secco, frantumato Preparazione Spremete una limetta, tagliate l’altra in 8 spicchi. Dimezzate i filetti di pesce e infilzateli sugli spiedini. Spruzzateli con 1 cucchiaio di limetta e 2 cucchiai di soia. Passate gli spiedini nei semi di sesamo. Scaldate l’olio in un tegame e rosolateli a fuoco medio, da ambo i lati, per ca 3 minuti. Condite le foglie di coriandolo con il succo di limetta rimasto, la salsa di soia, l’olio di sesamo e il peperoncino. Accomodate gli spiedini sul coriandolo e guarnite con la limetta. Suggerimento: accompagnate con riso Basmati. Ricedtta di:
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Come quella fatta dalla nonna Impossibile resistere alla nuova torta della nonna firmata da Dolceria Alba, azienda piemontese specializzata nella produzione di dessert naturali privi di grassi idrogenati e coloranti. La torta della nonna si caratterizza per la sua fragrante base di pasta frolla e la farcitura di crema
A tutto grill!
pasticcera aromatizzata al limone. La superficie è costituita da un soffice strato di pasta margherita e pinoli, il tutto spolverato con zucchero a velo. La torta della nonna la trovate nel reparto pasticceria delle maggiori filiali di Migros Ticino.
di pesce quali il trancio di salmone, tonno o spada, i gamberoni e il lucioperca. Tutti i piatti sono accompagnati da diversi contorni a scelta. Naturalmente non abbiamo dimenticato nemmeno i vegetariani, ai quali offriamo tomino grigliato con verdure, scamorza al grill e spiedino di tofu e verdure miste.
Torta della Nonna 500 g Fr. 11.90
Dal 13 al 31 maggio, i nostri ristoranti propongono numerose squisite specialità preparate alla griglia dai nostri chef. Potrete così soddisfare la voglia dei più classici sapori dell’estate assaggiando per esempio le costine di maiale, il petto di pollo, il rib eye, la costata di manzo, il filetto d’agnello, le costolette di maiale con osso; oppure proposte
Gelatai dal 1958
Sapori croccanti
È dalla fine degli anni Cinquanta che l’azienda bolognese G7 è specializzata nella produzione artigianale di gelato. Fiori all’occhiello di questa realtà imprenditoriale a conduzione famigliare sono i metodi di lavorazione innovativi, l’elevata qualità delle materie prime utilizzate e l’ancora molta manualità a cui fa capo per la creazione delle sue spe-
Sorbetto al lampone G7 500 ml Fr. 3.40 Sorbetto alla mela G7 500 ml Fr. 3.40
cialità. E quando finalmente le temperature cominciano ad alzarsi, non c’è niente di meglio per rigenerarsi di un buon sorbetto fruttato G7. Potete optare per i due freschi aromi lampone e mela, i quali spiccano per l’alta percentuale di succo di frutta contenuta. Entrambi sono in vendita nelle maggiori filiali di Migros Ticino.
Come arricchire con gusto e fantasia i vostri aperitivi in giardino o un appetitoso vassoio di affettati e formaggi assortiti? Naturalmente accompagnandoli con i cetrioli moscatelli sottaceto della linea Manzoni, una prelibatezza che ritorna sugli
scaffali dei supermercati Migros Ticino per la gioia di tutti i buongustai. A base di piccoli cetrioli bianchi della varietà moscatello, questa specialità non dovrebbe mai mancare nella credenza di casa. Cetrioli Moscatelli Manzoni 290 g Fr. 4.90
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Tre è il numero perfetto Yogurt al naturale, tanta frutta e un po’ di zucchero sono i soli ingredienti necessari per creare un delizioso yogurt fresco e fruttato. I nuovi Yogurt Naturel di qualità Bio sono la risposta all’esigenza di sempre più clienti di uno yogurt privo di additivi e aromi Lo yogurt contiene tutte le sostanze nutritive del latte e, grazie all’acidificazione, è per molte persone persino più digeribile del latte puro. Non c’è da stupirsi quindi, che questo alimento originario dei Balcani abbia conquistato un posto d’onore sulle nostre tavole a colazione. Per alcuni, però, i classici yogurt alla frutta sono un po’ troppo dolci e contengono più ingredienti del ne-
Bio è sinonimo di misure severissime nella coltivazione di materie prime. La massima priorità è riservata al minimo impatto ambientale, al rispetto delle materie prime e alla naturalità dei prodotti come pure al benessere degli animali.
cessario. L’alternativa, finora, era preparare la propria variante da sé con yogurt al naturale, tanta buona frutta e un pochino di zucchero. Ma chi ha tanto tempo a disposizione? A tutti coloro che non voglio rinunciare a un tale piacere, la Migros propone uno yogurt, già pronto, di qualità Bio in tre diverse varianti, senza stabilizzanti, aromi artificiali, né coloranti. Insomma, pra-
ticamente come lo si farebbe a casa propria. E per garantire il massimo del gusto, la Migros ricorre solo agli ingredienti migliori, scegliendo frutta e caffè coltivati secondo le sue severe direttive Bio. Il latte utilizzato per lo yogurt, poi, proviene esclusivamente da aziende agricole Bio svizzere. Nasce così un piacere tutto naturale, per iniziare al meglio la giornata. / CS
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Idee e acquisti per la settimana
tto Il contorno perfe e ar gn pa per accom alla e sc pe o os un gust ta na ffi ra a un : griglia oro insalata di pomod si io liz arricchita di de o. ad oc spicchi di av
di cottura sulla stano 20 minuti Ba . ta lia ig gr re per esse La trota è pronta na. ta una squisita ce on pr co ec brace ed
Trota alla griglia: condire con sale e pepe, farcire con fettine di limone ed erbe aromatiche fresche e grigliare delicatamente per circa 10 minuti su ogni lato.
Ogni pescatore è obbligato a rispettare le disposizioni legali relative ai periodi di divieto di pesca e alla lunghezza minima dei pesci.
.90 tiglio o blu, Fr. 24 vole, color verde he eg pi ic cn pi Borsa da igros. maggiori filiali M In vendita nelle
Rosso di sera, ricca pesca si spera! Una trota appena pescata, oltre a far brillare gli occhi del pescatore, fa felice anche chi lo accompagna. Cotta direttamente in riva al lago sulla griglia fai da te, si trasforma in una deliziosa e romantica cena per due baciata dal tramoto
I tempi in cui gli uomini trascorrevano ore e ore a pescare soli, in riva al lago o al fiume, appartengono ormai al passato. Durante la pesca, gli uomini desiderano essere accompagnati dalla loro dolce metà. In due, infatti, ci si diverte decisamente di più costruendo il forno-grill sul quale cuocere in seguito il pesce da gustare insieme. Quel che conta è stare insieme. Lui si gusta la tranquillità con occhio attento sull’acqua, fiducioso in una ricca pesca. E lei? Lei si occupa di preparare il forno-grill e tutti i contorni per una raffinata cena da assaporare insieme al tepore dei tiepidi raggi di sole delle ultime ore del giorno. Una volta pescato il primo pesce, il pescatore si concede una pausa dalla pesca, per dedicarsi all’accensione del fuoco. Un compito, nonostante tutto, sempre maschile. Basta poco, quindi, per godersi il piacere di una suggestiva grigliata in riva al lago o al fiume. Un posto perfetto, poi, dove trovare pietre e legno sufficienti per costruire un forno-grill perfetto. Oltre alla griglia, non dovrete portare altro che erbe aromatiche fresche e limone per condire il pesce, piatti e posate per mangiare, nonché bevande e ingredienti per preparare eventuali contorni. E se i pesci non abboccano, non disperate: il banco del pesce della Migros vi propone una vasta scelta di pesce fresco. E chi alla trota preferisce il pollo alla griglia, nel reparto macelleria troverà carne per i suoi denti. / Resp. progetto: Anna Bürgin e Nicole Ochsenbein; testi: Sonja Leissing; Foto: Marvin Zilm; Styling: Mirjam Käser
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 12 maggio 2014 ¶ N. 20
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 12 maggio 2014 ¶ N. 20
Idee e acquisti per la settimana
Coperta da picnic in fleece, Fr. 18.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros.
Telo da spiaggia Sole, color verde, 100% cotone Fr. 14.95 invece di 29.90
Griglia ribaltabile per cuocere in tutta facilità il pesce, Fr. 14.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros.
«foglie», Tagliere motivo verse misure, di in ile disponib 90 a partire da Fr. 6. da 3 Fr. 7.50 t se i, in ch uc el Sp
Per chi dopo il dessert vuole concludere la serata giocando in riva al lago: volano, set per 2 giocatori, Talbot Torro Fr. 19.90 Disponibile da SportXX
Banana al cioccolato: un delizioso dessert pronto in un batter d’occhio. Infilare le tavolette di cioccolato nella banana, avvolgere il tutto in un foglio d’alluminio e far sciogliere il cioccolato sulla griglia.
Telo da spiaggia Sole, color rosso, 100% cotone Fr. 14.95 invece di 29.90 Gamberetti tail-on Sélection, 100 g Fr. 6.70
Candele alla citronella, set da 4, Fr. 9.80 (fino a esaurimento dello stock)
Roll-on Anti Insect Après Pic, Fr. 4.30
Olio d’oliva Delicato Monini, 1 l, Fr. 13.20
«100 cose da fare quest‘estate», Fr. 7.70 Fino a esaurimento dello stock.
COME …
... costruire un forno-grill fai da te?
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Chi ben inizia è a metà dell’opera, anche per una grigliata all’aperto con i fiocchi. A chi vuole andare sul sicuro, consigliamo di ispezionare in precedenza il posto scelto e cercare i sassi e il materiale combustibile necessari per la grigliata. Molti spazi in riva ai fiumi e ai laghi, offrono sassi ideali per creare una base sicura per il forno-grill. Non dimenticatevi di portare con voi una griglia per il pesce.
Come una casa, anche il forno-grill fai da te richiede una base stabile. Siamo certi che sarete in grado di posizionare in modo corretto le pietre per costruire una torre adatta a contenere la brace. Vi consigliamo di prendervi il tempo necessario per poter lavorare con cura.
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Ovviamente ci vuole un po’ di tempo per ottenere un forno-grill ben stabile, dotato di una parete di fondo ben salda, una piastra superiore in pietra fissa e una griglia rafforzata da sassi. La cosa più bella? In questo modo, il cibo sulla griglia rimane protetto anche in caso di pioggia e di forte vento e può cuocere lentamente finché è pronto da servire. Naturalmente la pietra superiore può essere anche rimossa.
Qualunque specialità vogliate preparare, un pesce appena pescato oppure un tenero arrosto di maiale nel foglio d’alluminio, grazie a questo forno-grill resistente alle intemperie, il successo è garantito. E se alla fine della serata decidete di lasciare intatta la vostra costruzione, il prossimo pescatore o amante dei picnic vi ringrazierà.
Telo da spiaggia Sole, color blu, 100% cotone Fr. 14.95 invece di 29.90
Coca Cola Classic, 0,5 l, 8 per 6, Fr. 7.50 invece di 10.– (fino a esaurimento dello stock) Pollo Optigal, Fr. 9.50 al kg
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Idee e acquisti per la settimana
Deliziosi, come se fossero preparati con latte normale!
Quadrati di polenta con insalata tiepida di asparagi (privo di lattosio)
Con i prodotti senza lattosio si possono creare snack e gelati gustosi come con i latticini tradizionali. Riescono talmente bene, da conquistare persino chi non ha un’intolleranza particolare
Piatto principale per 4 persone Ingredienti
In Svizzera, circa una persona su cinque non digerisce il lattosio contenuto nel latte e nei latticini. Chi soffre di una tale intolleranza, non produce l’enzima lattasi, necessario per la scissione del lattosio durante la digestione. I prodotti privi di questa sostanza della linea aha! contengono perciò lattosio già scisso e quindi facilmente digeribile. Dal punto di vista del gusto, questi alimenti non si distinguono o solo minimamente da quelli tradizionali. Inoltre, possono essere impiegati anche per cucinare deliziosi piatti caldi. Convincetevene di persona provando le nostre gustose ricette. Il marchio di qualità aha! contrassegna prodotti ben tollerati anche da chi soffre di allergie e intolleranze.
Le intolleranze alimentari aumentano sempre più. Per tale motivo, la Migros si impegna ad ampliare costantemente la linea aha!. Anche alle persone intolleranti al glutine, per esempio, proponiamo un assortimento sempre più vasto di alimenti privi proprio di questa sostanza. E chi questa settimana acquista prodotti aha!, approfitta di punti Cumulus moltiplicati per 20. / Anna-Katharina Ris; illustrazioni Claudia Linsi
Polenta: 8 dl di brodo di verdura* 1,5 dl di panna semigrassa* 200 g di farina di mais fine sale, pepe 3 cucchiai d’olio d’oliva
Bastoncini di verdura con salsa al cipollotto (privo di lattosio) Antipasto per 4 persone
Insalata di asparagi: 1 kg di asparagi verdi sale 1 spicchio d’aglio 50 g di pomodori secchi 4 cucchiai d’aceto balsamico bianco 6 cucchiai d’olio d’oliva pepe
Ingredienti 100 g di formaggio per insalata* 100 g di crème fraîche* 3 cucchiai d’acqua 1 cipollotto ½ mazzetto di prezzemolo sale alle erbe 400 g di verdure, ad es. cetriolo, cavolo rapa, carote
Preparazione 1. Portate il brodo con la panna a ebollizione. Versate a pioggia la farina di mais e fatela cuocere per ca. 10 minuti finché otterrete una massa densa. Condite con sale e pepe. Incorporate la metà dell’olio. Distribuite la massa su una teglia e formate uno strato alto ca. 2 cm. Lasciate raffreddare completamente.
Preparazione Grattugiate il formaggio con una grattugia per rösti e mescolatelo con la crème fraîche e l’acqua. Sminuzzate il cipollotto. Tritate il prezzemolo. Mescolate il tutto con il formaggio. Condite la salsa con sale alle erbe. Tagliate le verdure a bastoncini e accompagnateli con la salsa al cipollotto. Tempo di preparazione ca. 20 minuti
2. Nel frattempo pelate il terzo inferiore del gambo degli asparagi e spuntateli. Tagliate gli asparagi in pezzetti di 2-3 cm. Lessateli al dente per ca. 5 minuti. Scolate e fate sgocciolare. Tritate l’aglio. Sminuzzate i pomodori. Mescolate entrambi con l’aceto balsamico e l’olio e distribuite il condimento sugli asparagi. Condite l’insalata con sale e pepe.
Per persona ca. 6 g di proteine, 15 g di grassi, 6 g di carboidrati, 800 kJ/190 kcal *In vendita come prodotto aha!
3. Tagliate la polenta a quadrati. Dorateli nell’olio rimasto a fuoco medio, da entrambi i lati, per ca. 5 minuti. Serviteli con l’insalata di asparagi.
Generazione M è il nome del programma testimone dell’impegno Migros a favore della sostenibilità. aha! offre un prezioso contributo. Parte di
Tempo di preparazione ca. 30 minuti + raffreddamento Per persona ca. 12 g di proteine, 33 g di grassi, 47 g di carboidrati, 2250 kJ/540 kcal * In vendita come prodotto aha!
Ricette di:
Latte pastorizzato aha!, senza lattosio* 500 ml Fr. 1.30 Formaggio per insalata Bio aha!, senza lattosio* 150 g Fr. 3.60 *In vendita nelle maggiori filiali Migros.
Crème fraîche aha!, senza lattosio* 200 g Fr. 3.–
Mozzarella aha!, senza lattosio* 150 g Fr. 2.40
Brodo di verdure aha!, senza lattosio e glutine* 225 g Fr. 4.95
Mezza panna aha!, senza lattosio* 250 ml Fr. 2.55
Burro aha!, senza lattosio* 100 g Fr. 2.65
Prosciutto aha! Rapelli Puccini Maxi, senza lattosio* ca 140 g, al prezzo del giorno
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Idee e acquisti per la settimana
Gelato al cheesecake di fragole (privo di lattosio) Pe ca. 8 stampi da gelato di ca. 0,7 dl Ingredienti 150 g di fragole 300 g di formaggio fresco* 80 g di zucchero a velo 1,5 dl di panna intera* 2 cucchiaini di müesli in fiocchi Preparazione Frullate le fragole. Mescolate il formaggio fresco con lo zucchero a velo e con 2/3 della purea di fragole. Montate la panna ben ferma e incorporatela alla massa. Unite la purea di fragole restante e mescolate delicatamente dal basso verso l’alto. Versate la massa negli stampi. Distribuite i fiocchi di müesli sul fondo del gelato. Infilate uno stecco in ogni gelato e mettete in congelatore per ca. 4 ore. Tempo di preparazione ca. 20 minuti + congelamento ca. 4 ore Suggerimenti - Versate la massa in una tasca da pasticciere senza beccuccio. Con l’ausilio della tasca da pasticciere è molto più facile riempire gli stampi da gelato. - Sostituite la panna intera con panna semigrassa. Un gelato ca. 3 g di proteine, 15 g di grassi, 16 g di carboidrati, 850 kJ/200 kcal * In vendita come prodotto aha!
Formaggio fresco al naturale aha!, senza lattosio* 150 g Fr. 3.55 *In vendita nelle maggiori filiali Migros.
Panna intera aha!, senza lattosio* 250 ml Fr. 2.90
Choco Drink aha!, senza lattosio* 250 ml Fr. 1.20
Yogurt alla fragola aha!, senza lattosio* 150 g Fr. –.75
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Focaccia all’alsaziana Anna’s Best in conf. da 2 20% di riduzione, per es. focaccia all’alsaziana, 2 x 350 g
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Magdalenas M-Classic in conf. da 2 20% di riduzione, per es. marmorizzate, 2 x 225 g
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FRUTTA E VERDURA Tutta la frutta a pezzetti M-Classic e Anna’s Best, per es. macedonia Anna’s Best, 380 g 3.90 invece di 4.90 20% Pomodori a grappolo, Svizzera / Spagna, al kg 2.40 invece di 4.10 40% Peperoni, bio, Spagna, busta da 400 g 2.20 invece di 3.20 30% Pere Abate Fetel, Sudafrica / Cile, al kg 2.80 invece di 4.20 33% Kiwi, bio, Italia, al kg 4.15 invece di 5.20 20% Asparagi verdi, Italia, il mazzo da 500 g 3.50 invece di 5.10 30% Ciliegie, Italia, in conf. da 500 g 5.90 invece di 8.90 33% Fragole, Italia, in conf. da 500 g 1.80 invece di 2.40 25%
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Tutti i tovaglioli, le tovagliette, le tovaglie e le tovaglie in rotolo di carta Cucina & Tavola e Duni per es. tovaglioli, 33 cm
Tutto l’assortimento Topline per es. shaker, 0,5 l, offerta valida fino al 26.5
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Carta per fotocopie Papeteria in conf. da 3 A4, bianca, 80 g/m2, FSC, 3 x 500 fogli
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Carne di manzo macinata, Svizzera, al kg 10.80 invece di 18.– 40% Diversi articoli bio, per es. bratwurst, Svizzera, 2 pezzi, 280 g 4.80 invece di 6.– 20% Prosciutto cotto in conf. da 2, TerraSuisse, per 100 g 2.10 invece di 3.– 30% Prosciutto cotto Puccini Rapelli, aha!, Svizzera, per 100 g 20x 3.70 20x PUNTI Salametti Rapelli in retina, Svizzera, 3 x 70 g 4.90 invece di 8.20 40% Pollo Optigal, 2 pezzi, Svizzera, al kg 6.60 invece di 9.50 30% Salmone affumicato, bio, d’allevamento, Scozia, 260 g 14.50 invece di 20.80 30% Prosciutto crudo di Parma Beretta, Italia, affettato in vaschetta da 100 g 5.30 invece di 7.70 30% Tutta la linea di antipasti Rapelli, per es. roastbeef con salsa Tartare, prodotto in Ticino, affettato in vaschetta da 115 g 5.50 invece di 7.90 30% Carne secca di spalla, Svizzera, affettata in vaschetta da 2 x 96 g, 192 g 11.50 invece di 14.60 20% Spezzatino di manzo, TerraSuisse, Svizzera, imballato, per 100 g 2.– invece di 2.50 20% Costolette di vitello, TerraSuisse, Svizzera, imballate, per 100 g 3.20 invece di 4.60 30% Tutto l’assortimento di Hamburger, TerraSuisse, per es. al naturale, Svizzera, in conf. da 2 x 115 g, 230 g 3.80 invece di 5.50 30% Rostini di pollo con salsiccia, AIA, Italia, in conf. da ca. 530 g, per 100 g 1.25 invece di 1.80 30% Tutto l’assortimento di pesce fresco, bio, per es. filetti di salmone con pelle, d’allevamento della Norvegia, per 100 g 3.65 invece di 4.60 20% *
PANE E LATTICINI Baguette del forno di pietra integrale e bianca, per es. baguette del forno di pietra, 260 g 2.05 invece di 2.60 20% Tutto l’assortimento di panetteria aha!, per es. pane bianco, 20x 300 g 3.40 20x PUNTI Mezza panna Valflora in conf. da 2, UHT, 2 x 500 ml 4.– invece di 5.– 20% Tutto l’assortimento di latticini aha!, per es. latte privo di lattosio UHT, 1 l 1.95 20x 20x PUNTI M-Drink UHT, bio, 4 x 1 l 6.20 invece di 7.40 15% Yogurt Farmer Limited Edition alla mora e alla mela, 225 g 20x 1.95 NOVITÀ ** Tutti gli yogurt in conf. da 6, per es. fragola / ananas / mirtilli, 6 x 180 g 2.30 invece di 3.30 30% Grana Padano, per es. al pezzo, per 100 g 1.60 invece di 2.05 20% Tutto l’assortimento di formaggi aha!, per es. mozzarella, 20x 150 g 2.40 20x PUNTI Gran Mozzarella Galbani, 20x 180 g 3.30 NOVITÀ *,** Tomme à la crème in conf. da 3, 3 x 100 g 4.40 invece di 5.55 20% Philadelphia in conf. da 2, per es. al naturale, 2 x 200 g 4.15 invece di 5.20 20% Veneziane, 4 pezzi, 220 g 2.20 invece di 2.80
FIORI E PIANTE Peonie, il mazzo da 5 11.80 invece di 13.80 Passiflora Piramide, in vaso da 19 cm, la pianta 19.80 invece di 24.80 Tutte le erbe aromatiche bio, in vaso da 13 cm, per es. basilico, la pianta 3.90 invece di 4.90
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Idee e acquisti per la settimana
E la fame resta a casa…
Uno sguardo allo spettacolo montagnoso che fa di questo tragitto uno dei più belli della Svizzera da trascorrere a piedi.
Quando preparate lo zaino con le provviste per la prossima escursione trekking, ricordatevi di impacchettare i cracker Blévita. Imballati in pratiche porzioni singole, soddisfano i gusti di ognuno, ovunque ci si trovi. Impossibile farne a meno Il trekking vi aspetta. Una buona colazione è indispensabile per affrontare i primi chilometri dell’escursione. Ma la gita è lunga e ben presto lo stomaco comincia a reclamare il dovuto rifornimento. Ed è a questo punto che entrano in scena i Blévita. Questi deliziosi cracker a base di gustosi cereali, ricchi di fibre, saziano e sono al contempo facilmente digeribili. L’ideale per placare la piccola fame e fare il pieno di energia. Lo spuntino che ci attende alla fine di una tappa ci incita a dare il massimo per raggiungere l’ambito traguardo. Soprattutto i bambini amano le pause-merenda durante il trekking. E grazie alle pratiche porzioni, ogni famigliare può gustarsi il Blévita che preferisce e il bello è assag-
giare i tanti gusti. Scambiare è permesso. Chi punta sul classico sceglie i cracker ai cinque cereali, mentre gli amanti del formaggio vanno sul sicuro con la variante a base di spelta e gruyère. Ai più golosi Blévita propone, poi, la varietà preparata con avena e miele e i sandwich con yogurt e frutti di bosco. E a proposito di sandwich: le nuove creazioni di casa Blévita, sono disponibili anche nelle accattivanti versioni olive/pomodori ed erbe aromatiche oltre a quella dolce. Il successo di questo croccante snack ai cereali dura da anni. I primi Blévita sono stati, infatti, prodotti oltre quarant’anni fa. E da allora sono sulla bocca di tutte le età e non solo durante le gite. / AnnaKatharina Ris
Gita ad anello Noiraigue Creux du Van Durata: 4,5 ore; dislivello: 920 metri in salita e in discesa. La camminata porta all’imponente anfiteatro montagnoso della Val de Travers. Quest’arena di roccia, che propone picchi alti fino a 160 metri, è senza dubbio una delle più interessanti bellezze naturali del Jura neocastellano. Particolarmente suggestivi sono le sue aurore e i suoi tramonti. Questa riserva naturale propone, inoltre, l’habitat ideale per stambecchi,
Camminare mette appetito: oltre a frutta e verdura, noci e frutta secca, i cracker Blévita sono l’ideale per fare il pieno di energia.
camosci e marmotte. E anche la flora è degna di nota, lungo il sentiero crescono anemoni alpini, astri e astranzie maggiori. Chi, poi, ancora ha tanta energia nelle gambe, può prolungare verso Noiraige e quindi scendere per l’incantevole gola dell’Areuseschlucht.
Lungo il tragitto che da Weesen porta a Quinten si gode costantemente di una splendida vista sul Walensee.
Passeggiata in montagna Weesen-Quinten
Sandwich Blévita Yogurt/frutti di bosco 4 x 54 g Fr. 5.30
Sandwich Blévita Erbe aromatiche 4 x 54 g Fr. 5.30
Sandwich Blévita Olive/pomodori 4 x 54 g Fr. 5.30 In vendita nelle maggiori filiali Migros.
Foto: Daniel Ammann, swiss-Image.ch
Durata: 2,5–3 ore; dislivello: 320 metri in salita e in discesa. La gita inizia lungo il Walensee da Weesen verso Quinten, una regione conosciuta sotto il nome di Riviera della Svizzera orientale per il suo clima mite. D’obbligo una puntatina alle cascate di Serenbach, tra le più alte del mondo, per gustarsi lo spettacolo offerto dalla natura. Arrivati a Quinten ci si può, quindi, gustare la magnifica flora proposta dal paesaggio, tra la quale si possono scoprire anche palme o piante di kiwi, prima di intraprendere il cammino di ritorno in direzione Walenstadt o imbarcarsi sul battello alla volta di Weesen o ancora optare per una capatina a Murg. Punti di ristoro con grill sono disponibili nei pressi di Betlis.
Blévita Gruyère 6 x 38 g Fr. 3.60
Alcune varietà di Blévita sono arricchite con acido folico. Le si riconosce dal logo della Stiftung Folsäure Offensive Schweiz (la fondazione svizzera Offensiva acido folico ndr). L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche i cracker e i sandwich Blévita.
Blévita Timo e sale marino 6 x 38 g Fr. 3.55
Bio Blévita Spelta 6 x 38g Fr. 3.75
Blévita 5-cereali 6 x 38 g Fr. 3.35
Blévita Pomodori e basilico 6 x 38 g Fr. 3.55
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Idee e acquisti per la settimana
I frutti sono croccanti e pieni di aroma, perché vengono essiccati delicatamente subito dopo essere stati raccolti.
Dolci sapori di frutta Croccanti fragole e mele essiccate danno sapore al müesli e sono ideali anche come gustoso spuntino
Sun Queen Crunchy fruits Fragola* 5 porzioni 50 g Fr. 5.40 *nelle maggiori filiali Migros.
Sun Queen Crunchy fruits Mela* 5 porzioni 70 g Fr. 4.80
Nel müesli o nello yogurt oppure così com’è: la frutta secca sviluppa sapori molto intensi. E non c’è da stupirsi, dato che con l’essiccazione le è stata estratta l’acqua, concentrando al massimo tutte sostanze aromatiche. Con i Crunchy alla fragola e alla mela, Sun Queen presenta due novità nel suo assortimento. Essi si integrano perfettamente nel müesli della prima colazione, con il vantaggio che non si devono né lavare né sbucciare prima di finire nella scodella. Anche perché
sono altrettanto buoni da sgranocchiare qua e là, quando si ha voglia di qualcosa di fruttato ovunque ci si trovi. Questi dolci frutti sono disponibili in confezioni contenenti cinque porzioni. I Crunchy fruits sono composti esclusivamente di bacche, frutta e sostanze naturali. Sono prodotti senza l’aggiunta di zucchero e sono privi di conservanti, aromatizzanti e coloranti. Fragole e mele dei Crunchy fruits sono essiccate immediatamente dopo
la raccolta con un metodo innovativo che prevede l’impiego di uno speciale essiccatore sotto vuoto. Ciò le rende croccanti, mantenendo al contempo intatte le sostanze nutritive e le vitamine. L’essiccazione sotto vuoto consente di far scendere la temperatura a 20° C, un procedimento nettamente più delicato della comune liofilizzazione. Inoltre, quest’ultima richiede molta più energia e modifica la struttura degli alimenti, ciò che non accade nell’essiccazione sotto vuoto. / DH
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Idee e acquisti per la settimana
Una delizia per l’occhio e per il palato: una raffinata crostata di mele dal gusto leggermente acidulo cosparsa di dolci mirtilli.
Un’ottima base per un risultato con i fiocchi! Nel reparto frigo, vi aspettano 14 tipi di pasta Anna’s Best, tutte di primissima qualità; una fonte d’ispirazione anche per coloro che non amano preparare dolci. Con l’aiuto di Anna, il successo è assicurato Chi ha tanto tempo a disposizione e adora profilarsi in cucina, la pasta per crostate la prepara in casa. A tutti gli altri consigliamo di affidarsi alle diverse varietà di pasta fresca Anna’s Best. Oltre ad assicurare deliziosi risultati, riducono al minimo i tempi i preparazione, permettendo al cuoco o alla cuoca di dedicarsi ad attività più divertenti. Desiderate sfornare anche voi deliziose crostate alla frutta, tarte flambée, pizze, sfogliatine oppure cannelloni? Qualsiasi sia la vostra scelta, l’assortimento Anna’s Best composto da 14 tipi di pasta diversi, vi propone certamente la varietà più adatta alle vostre ricette.
Che ne dite della pasta sfoglia priva di olio di palma e di margarina, ma ricca di burro svizzero, disponibile anche nella versione “Rustica”? Senza dimenticare ovviamente la pasta frolla, le paste per crostate integrali oppure a base di farina di spelta e, per concludere in bellezza, la pasta per la pizza, anch’essa disponibile a base di spelta. Tutte le varietà di pasta sono già spianate oppure disposte in una teglia monouso, in modo da doverle solo ancora srotolare oppure farcire con gli ingredienti preferiti. Ad eccezione di quelle speciali, tutte le paste Anna’s Best vengono prodotte in Svizzera dalla Jowa. / NO
Pasta per crostate di spelta Anna’s Best* 300 g Fr. 2.60 *In vendita nelle maggiori filiali Migros.
Pasta per pizza di spelta Anna’s Best* 400 g Fr. 3.90
Crostata di mele alle nocciole Scaldate il forno a 180 °C. Accomodate la pasta con la carta da forno nella teglia. Distribuite 30 g di nocciole macinate sul fondo di pasta. Tagliate 4-5 mele dolci a spicchi e accomodateli sulla pasta. Mescolate 1 dl di latte con 1 dl di panna, 25 g di crema alla vaniglia in polvere da cuocere e 1 uovo e versate la miscela sulle mele. Cuocete la crostata nella parte bassa del forno per ca. 40 minuti. Prima di servire, distribuite 60 g di mirtilli freschi sulla crostata. Ricetta di:
Pasta per tarte flambée Anna’s Best* 320 g Fr. 3.20
Sfoglia di pasta fresca Anna’s Best* 250 g Fr. 2.50
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Idee e acquisti per la settimana
Per quel sapore in più La nuova Aproz Plus a base di acqua minerale del Vallese all’aroma di lamponi e more: la sua formula rende questa bibita rinfrescante perfetta per tutta la famiglia Chi vuole coprire il fabbisogno di liquidi del proprio corpo con un’acqua minerale naturale ricca di magnesio e calcio, con Aproz è all’indirizzo giusto. Grazie al suo lungo viaggio di milioni di anni attraverso le rocce del Trias, nelle Alpi vallesane, l’acqua si arricchisce di preziosi minerali. Chi beve volentieri acqua minerale e apprezza altresì le note fruttate, trova ora l’acqua minerale aromatizzata Aproz Plus. Accanto alle già presenti varianti mela e fiori di sambuco arriva adesso Aproz Plus lamponi e more. In tal modo ora la gamma si compone di tre bevande che coniugano i criteri di un’acqua minerale di qualità con l’effetto dissetante fruttato. Queste acque sono inoltre addizionate di anidride carbonica, così l’effetto frizzante e rinfrescante è garantito. Uno spruzzo di succo di frutta, aromi naturali e fruttosio rendono Aproz Plus la bevanda ideale per grandi e piccoli. / HB; foto Claudia Linsi
Aproz Plus lamponi/more 1l Fr. 1.30 20 X punti Cumulus fino al 19.5. Nelle maggiori filiali Migros. Aproz Plus mela 1l Fr. 1.30 Nelle maggiori filiali Migros. Aproz Plus fiori di sambuco 1l Fr. 1.30
Con il suo leggero aroma di lamponi e more la nuova Aproz Plus diventa una bevanda particolarmente gustosa.
L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche le acque aromatizzate di Aproz.
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Idee e acquisti per la settimana
Dalla nota fiorita e delicato come un’orchidea: Exelia Orchid 1,5 l Fr. 6.50
Dalla nota fruttata, con una sfumatura di pesca: Exelia Peach 1,5 l Fr. 6.50
Grazie al nuovo imballaggio, dosare gli ammorbidenti Exelia è semplicissimo.
La praticità è balsamo per i tessuti Profumo e sostanze trattanti sono il segreto degli ammorbidenti Exelia per indumenti sempre perfetti. E per dosarli facilmente, ora, questi balsami sono custoditi in confezioni dalla pratica forma innovativa
Gli ammorbidenti Exelia conferiscono ai vostri capi un fantastico profumo e li rendono irresistibilmente morbidi, tanto che indossarli diventa un vero e proprio piacere. Ma i loro pregi non finiscono qui. Proteggono infatti le fibre dei
tessuti dall’usura, impediscono la formazione di carica elettrostatica e anche quella di pieghe durante il lavaggio, facilitando così la stiratura degli abiti. E ora sono proposti in nuove confezioni innovative dalla forma ondulata. I nuo-
vi sacchetti catturano gli sguardi con le loro curve e conquistano con la loro praticità. Semplici da afferrare, consentono, infatti, di dosare il prodotto con la massima facilità. Invariate restano le composizioni tanto apprezzate per le loro
note profumate, ma anche per l’effetto trattante garantito dalle pregiate sostanze attive contenute. Gli ammorbidenti Exelia sono ben biodegradabili e testati dermatologicamente. / AB; illustrazioni Gerry Nitsch, stilista Eva de Vree
Dalla nota estiva che ricorda un incantevole prato in fiore: Exelia Summer fresh 1,5 l Fr. 6.50
L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche gli ammorbidenti Exelia.
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Idee e acquisti per la settimana
Una sorsata di Caraibi Scelto dai clienti, lo sciroppo Piña Colada risveglia ricordi di vacanza Palme che ondeggiano nella calda brezza, spiagge di sabbia bianca, acque di color turchese e romantici tramonti: il tipico scenario dei Caraibi. A questo quadro idilliaco non può mancare un cocktail. Esotiche noci di cocco, rinfrescanti ananas e un po’ di rum sono gli ingredienti alla base della classica Piña Colada, che in un bicchiere evoca la spensieratezza caraibica. Una miscela di sapori, che risveglia immediatamente il desiderio di vacanze. 30 percento di succo di frutta, niente alcool
Anche i clienti Migros amano il sapore della Piña Colada. Sono loro che durante la ricerca di un nuovo sciroppo, lanciata sul portale Migipedia. ch, hanno chiesto di aggiungere questa variante al già ben noto sciroppo Mojito. E così, puntuale con l’arrivo della stagione estiva, la nuova edizione limitata Piña Colada amplierà l’assortimento di sciroppi Aproz. Naturalmente non contiene alcool, ma ben 30 percento di succo di frutta. Basta diluirlo con acqua in un rapporto di 1 a 6, ed ecco che la freschezza caraibica è pronta ad entrare in casa vostra. Con il suo autentico gusto di noce di cocco e di ananas è ottimo anche per cocktail analcolici o per insaporire yogurt e frappé. / JV; Foto: Getty Images, Oliver Bartenschlager
In palio su Migipedia.ch: 100 bottiglie di sciroppo Piña Colada da testare.
Con lo sciroppo Piña Colada l’atmosfera dei Caraibi vi entrerà in casa: mescolate, sorseggiate, chiudete gli occhi e sognate il sole e il mare.
Sciroppo Piña Colada senza alcool 75 cl Fr. 3.50 20 X Punti Cumulus dal 13 al 26.05. Disponibile nelle maggiori filiali Migros. L’Industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui gli sciroppi Aproz.
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La popolazione svizzera considera la marca di detersivi Total della Migros particolarmente affidabile. Questo è quanto rivela l’attuale studio «European Trusted Brands 2014» eseguito dall’istituto di ricerca dei media e del mercato Reader’s Digest. I motivi di questo grande successo sono evidenti: Total combatte efficacemente lo sporco senza sollecitare i tessuti, la lavatrice e l’ambiente.
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Frizzante gomma da masticare
L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche le gomme da masticare Skai.
«Quale gusto di gomma da masticare potrebbe diventare il numero 1 in Svizzera?», ha chiesto Migros sulla piattaforma online Migipedia.ch. 941 proposte sono giunte dalla clientela. Gli amanti delle cicche alla fine hanno potuto votare per tre varianti. A vincere chiaramente, con più del 50 per cento dei voti, è stata la Sparkling Citrus, una variante frizzante con aroma di limone, limetta e arance amare, arricchita con un tocco di fiori d’arancio. L’edizione limitata è come tutta la linea Skai priva di zuccheri. Sparkling Citrus è prodotta dalla Chocolat Frey, l’unico produttore di gomme da masticare della Svizzera.
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