Azione 18 del 28 aprile 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 28 aprile 2014

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Azione 18

Società e Territorio Il figlio preferito esiste: due studiose francesi infrangono il tabù

Ambiente e Benessere Come riconoscere e come curare i traumi? Intervista con la psicoterapeuta Nadine Maetzler

Politica e Economia La metamorfosi di Internet: da luogo di libertà a mastodontico spazio commerciale

Cultura e Spettacoli A Firenze una grande mostra sul Manierismo e sugli artisti Pontormo e Rosso Fiorentino

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Guerra fantasma Una Radiotelevisione ai confini europei al servizio del federalismo di Antonella Rainoldi

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Non è strana questa guerra fra Russia e Stati Uniti-Unione Europea? Niente parate militari a dimostrazione della potenza del proprio esercito come si vedeva fino alla fine della Guerra fredda, niente campi di battaglia stile Grozny anni Novanta, la capitale della Cecenia rasa al suolo su ordine di Vladimir Putin per soffocare ogni aspirazione all’indipendenza. Si combatte a suon di azioni da commando di forze speciali, russi e filo-russi con colpi di mano fortemente simbolici come l’occupazione di edifici governativi e terribilmente efficaci dal punto di vista geopolitico, la controparte, lo scalcinato esercito ucraino, colpendo anche duro, ma dove c’è poca resistenza. I russi, con premura di mantenere una sorta di invisibilità, sono perfettamente armati e organizzati (e alle frontiere c’è un esercito di 50mila soldati russi che rumoreggia), i soldati ucraini mandati da Kiev (quando non disertano) si muovono in piccoli gruppi, non per raffinata tattica antiterroristica ma perché non ci sono i soldi per far funzionare l’esercito nazionale ucraino. Scriveva un mese fa l’«International Herald Tribune» in un reportage dalla Crimea che i blindati dell’esercito nazionale hanno potuto mettersi in moto solo dopo che un oligarca filo-governativo ha pagato l’equivalente di 6 milioni di dollari per acquistare il carburante. Eppure, sulla linea del Dniepr si gioca una partita a scacchi con un forte impatto geopolitico. La Storia indica che in questi casi l’onda d’urto giunge imprevedibilmente a modificare anche altri equilibri. Per fare un esempio: gli Stati Uniti non si aspettavano che il sostegno fornito negli anni Ottanta ai mujaheddin afghani nella guerra contro l’invasore russo avrebbe favorito la nascita di al Qaeda (Osama bin Laden comprava armi per i ribelli afghani con denaro americano). Se Putin riuscirà a destabilizzare l’Ucraina orientale quanto basta per trasformarla in un satellite della Russia, gli Stati Uniti potrebbero subire contraccolpi in altri scenari geopolitici. Perdere la battaglia per l’Ucraina sarebbe una dimostrazione di debolezza: in Asia, Giappone, Filippine, Taiwan, Corea del Sud si sentirebbero ancora sicuri di venire tutelati da Washington nelle loro contese territoriali e marine con la Cina? In un momento storico in cui mostrare i muscoli conta di nuovo, gli americani non sembrano i più predisposti e gli europei ancora meno (mentre alla NATO ci si rende conto che a parte gli Stati Uniti, che coprono i 3/4 del fabbisogno dell’Alleanza atlantica, sono pochi i Paesi membri che dedicano alle spese militari il 2 per cento del PIL come previsto, ben di più sono quelli che preferiscono risparmiare). Difficile prevedere come possa evolvere militarmente la situazione, l’inizio delle operazioni «anti-terroristiche» dell’esercito nazionale ucraino per riprendere il controllo del territorio hanno scatenato una guerra verbale a Mosca, cui potrebbe seguire un’invasione vera e propria, anche se non ve ne sarebbe bisogno: l’Ucraina, come scrive Lucio Caracciolo a pagina 23, è ormai un Paese diviso in tre e difficilmente riuscirà a sopravvivere come Stato unitario. Il vice-presidente americano Joseph Biden è giunto nei giorni scorsi a Kiev per ribadire che Washington sostiene un’Ucraina indivisa, ma le sue parole hanno il peso degli spiccioli che ha portato con sé, 58 milioni di dollari, di cui 11 per organizzare le elezioni presidenziali di fine maggio, sempre più improbabili (come desidera Putin). Una goccia nel mare delle necessità dell’Ucraina, nemmeno sufficienti per le urgenze immediate. Nasce il sospetto che, come nel caso della Crimea, al di là della retorica e dei proclami, in Occidente si cominci a fare i conti anche con la perdita dell’Ucraina orientale. Tuttavia, esistono altre forme di muscoli che Stati Uniti e Unione europea potrebbero flettere: la vera forza dell’Occidente è quella economica, il sistema commerciale e soprattutto finanziario gli fa capo. Se si decide di «morire per l’Ucraina» (per evitare guai peggiori in Europa e nel resto del mondo), va pagato un prezzo, ossia vanno accettate le conseguenze di serie sanzioni economiche contro la Russia, che andrebbero a colpire anche gli interessi economici dei maggiori Paesi dell’Ue, Germania in testa. Fin qui ci si è limitati a qualche puntura di spillo all’entourage di Vladimir Putin. Andrà verificato se c’è davvero la volontà di andare oltre, ad una guerra economica fra Occidente e Russia. Le armi ci sarebbero e il settimanale «The Economist» ne suggerisce una letale: impedire alle banche russe di accedere a dollari, euro e sterline. La Russia si troverebbe senza valuta estera e non più in grado di pagare le sue importazioni. Stati Uniti e Unione europea sono disposti a giungere a tanto?

Stefano Spinelli

di Peter Schiesser


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 28 aprile 2014 ¶ N. 18

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Attualità Migros

Un ospite dall’India

I controlli migliorano le fabbriche Migros si impegna per la sicurezza nelle aziende dei propri fornitori situati nel Bangladesh e affida a ingegneri edili indipendenti le ispezioni di controllo

Generazione M Migros si impegna da anni

per una produzione sostenibile di tessuti. Il rappresentante del suo più importante fornitore indiano di capi d’abbigliamento è stato recentemente in visita in Svizzera

Christoph Petermann Eastman Exports è la maggiore fornitrice di abiti confezionati di Migros. Nella città di Tirupur, il più importante polo tessile dell’India meridionale, da oltre 20 anni l’azienda produce per Migros capi d’abbigliamento per uomini, donne e bambini. I responsabili delle due aziende si scambiano visite regolarmente. Ai primi di marzo del 2014 il vicepresidente della Eastman, Pattilach Vinod, ha visitato la sede della Federazione delle cooperative Migros a Zurigo: al centro delle discussioni la comune politica in favore della sostenibilità. Nel quadro della campagna «Generazione M» Migros ha formulato una promessa con effetti a lungo termine: al più tardi entro la fine del 2017 tutti i prodotti tessili delle proprie marche dovranno essere prodotti in modo ecologico, socialmente responsabile e tracciabile. Alla fine dello scorso anno Migros ha definito nel

dettaglio quali sono i metodi che le permetteranno di raggiungere l’obiettivo. Alcune sostanze, come ad esempio il PVC o alcuni ammorbidenti, saranno completamente vietati; per altri prodotti chimici saranno definiti precisi valori limite. Questo sarà un problema per il fornitore indiano di tessili? «Sarà una sfida che affronteremo, non un problema» dice Pattilachan Vinod. «Dal punto di vista della sostenibilità Migros ha sempre richiesto parametri più alti rispetto ad altri nostri clienti» afferma. Per Migros è comunque importante non soltanto imporre linee direttive sempre più rigorose ma anche sostenere i propri fornitori nell’introduzione di una produzione rispettosa dell’ambiente: alla fine del 2013 ha organizzato delle giornate di formazione per i propri maggiori fornitori a Delhi. Già oggi il 95 per cento dei prodotti Eastman risponde ai criteri ecologici. Questo codice di comportamento, che sottolinea

I valori dello standard Eco ■ Ecologia: i tessili certificati sono stati fabbricati nel rispetto dell’ambiente. Le sostanze chimiche inquinanti sono bandite. Migros collabora con i suoi fornitori e con esperti indipendenti con lo scopo di migliorare le norme. Le direttive Eco vanno nettamente al di là delle prescrizioni legali. ■ Responsabilità sociale: i fornitori rispettano il Codice di condotta della BSCI (Business Social Compliance Initiative) che protegge la salute e la sicurezza dei collaboratori sul posto

di lavoro e garantisce condizioni di assunzione e una remunerazione corrette, la libertà sindacale e di riunione. ■ Tracciabilità: a ogni tappa di trasformazione (dalla filatura della fibra alla tessitura, passando per la tintura e la stampa dei tessuti, fino al confezionamento finale) si mantiene una registrazione con l’elenco di tutte le sostanze chimiche utilizzate. Tale documentazione permette di assicurare la tracciabilità dall’origine di tutti i tessuti Eco.

Pattilach Vinod, vicepresidente della Eastman Exports. (Tanya Demarmels)

l’impegno per una produzione di tessili rispettosa dell’ambiente, è stato sviluppato da Migros nel 1996 (vedi riquadro). Eastman Exports è un partner della prima ora, si è impegnata fin dal primo momento per una conversione della sua produzione su linee di condotta strettamente ecologiche. «Le ulteriori direttive saranno implementate entro la fine del 2014» assicura Vinod. Ogni fase, ogni momento della lavorazione deve essere documentata, in modo da garantire la tracciabilità. «La documentazione per il programma ecologico produce ogni anno 15’000 pagine» spiega Vinod. Quello che 18 anni fa richiedeva un grande investimento di energie oggi è diventato un procedimento di routine. L’azienda indiana lavora in collaborazione con l’internazionale Modemultis. A che livello di importanza si situa per l’azienda indiana la collaborazione con Migros? «Si tratta di un vero partenariato» dice. Vinod è entrato in azienda subito dopo aver concluso gli studi, «e ciò che ho visto svilupparsi da allora ad oggi è qualcosa di imponente» dice con fierezza. Oltre al suo impegno

per l’ecologia Eastman si premura di introdurre condizioni di lavoro socialmente sostenibili. In concreto, l’azienda tessile deve soddisfare i parametri richiesti dal cosiddetto Codice BSCI (vedi riquadro). Questo standard sociale regola ogni questione relativa ai diritti del lavoro. Ne fanno parte il divieto del lavoro minorile, la retribuzione corretta e la sicurezza sul posto di lavoro. Migros sostiene i propri partner nel passaggio a questi standard e ne sottopone il mantenimento al controllo di agenzie esterne. «I salari dei nostri lavoratori sono aumentati massicciamente negli ultimi 20 anni. E le condizioni di lavoro sono decisamente migliorate» afferma convinto Vinod. «E poi naturalmente c’è la scuola». Migros aveva fondato a Tirupur nel 1999 una scuola elementare che allora contava 44 allievi. Si trattava di una misura per combattere il lavoro minorile. Oggi 1400 bambini ne seguono i corsi fino alla maturità, e in questo modo hanno la possibilità di avere una vita migliore.

Una terribile tragedia si è prodotta nell’aprile del 2013 a Dacca, la capitale del Bangladesh: più di 1100 persone hanno perso la vita in seguito al crollo del grande stabile della manifattura tessile Rana Plaza. I fornitori di Migros (che nel complesso realizza appena il 2 per cento della propria cifra d’affari del tessile con i prodotti del Bangladesh) non sono stati toccati dal dramma: i principali Paesi con cui Migros collabora sono in effetti l’India e la Cina. L’azienda ha comunque sottoposto a controlli gli atelier di produzione dei suoi fornitori in Bangladesh, esami effettuati da ingegneri indipendenti. Se alcune mancanze minori sono state rilevate durante le due prime ispezioni, la situazione per il momento non è allarmante. In accordo con i fornitori, sono state decise alcune misure da intraprendere in vista di un miglioramento della situazione attuale. Migros sostiene i produttori del Bangladesh che adottano interventi in grado di migliorare la sicurezza dei loro stabilimenti. L’azienda si prepara d’altronde a impegnarsi in ulteriori migliorie. I suoi sforzi per rendere sicuri i luoghi di produzione in Bangladesh completano il suo vasto coinvolgimento nell’industria tessile in Asia: l’azienda svizzera si batte da anni per introdurre degli standard sociali e ecologici in questo settore. / Michael West

M Arrivederci via Pretorio 15 Scuola Club Migros Ticino La sede di Lugano cambia numero per rinnovarsi Nell’ambito dei lavori di ristrutturazione dell’intero edificio di via Pretorio 15, che prenderanno avvio a inizio estate, la Scuola Club si trasferirà per circa un anno al numero 13 della stessa via. Il trasloco avverrà a fine giugno, ed è stato programmato in modo da non interrompere i corsi né creare disagi alle attività didattiche. Il programma in corso si concluderà nell’attuale sede, mentre i corsi estivi si svolgeranno già nei nuovi spazi. Il progetto per i lavori di ristrutturazione, predisposto da Migros Ticino, pone la massima attenzione alla funzionalità, all’estetica e agli aspetti energetici. L’involucro dell’intero edificio prevede l’utilizzo di vetrate isolanti che beneficeranno della luce naturale.

I materiali e le installazioni tecniche saranno di nuova tecnologia, con il preciso obiettivo di ridurre il consumo annuo di energia elettrica e di gasolio di quantità significative. La nuova sede della Scuola Club, seppur provvisoria, è molto bella e confortevole e la sua immediata prossimità a quella attuale non cambierà le abitudini della clientela. I corsi di lingue, di management ed economia, di informatica e di attività creative e le formazioni con diploma si svolgeranno al quinto piano di via Pretorio 13, mentre le attività di fitness e benessere verranno suddivise tra il nuovo spazio e le palestre di Pregassona, già attualmente sedi dei corsi. A partire dall’estate la programmazione

di queste palestre verrà ampliata con numerose proposte sull’arco dell’intera giornata, in particolare nella pausa pranzo. Il team di Lugano della Scuola Club è quindi pronto ad affrontare il nuovo anno scolastico con l’impegno e l’entusiasmo di sempre e con le proposte che, anche per il nuovo programma, sono orientate a rispondere e a soddisfare le esigenze di tutti i partecipanti, non solo sul piano didattico, ma cercando anche di porre costantemente l’attenzione all’accoglienza e alla qualità del tempo che le persone passano in aula. A conclusione del prossimo anno scolastico, nel 2015, la Scuola tornerà all’indirizzo attuale, in una sede completamente rinnovata, più funzionale e prestigiosa.

Azione

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La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa: Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Tiratura 98’645 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Società e Territorio Rilanciare il macello cantonale Intervista a Armando Donati, coordinatore del gruppo di lavoro che sta studiando le strategie per ridare slancio alla struttura di Cresciano

Architettura in Ticino Il caso della Scuola media 1 di Lugano senza sede è l’occasione per riflettere su un passato che ha visto l’edilizia scolastica come una sorta di palestra d’esercitazione per una generazione di architetti dalla forte personalità creativa

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Il «cocco di mamma» è davvero più fortunato rispetto ai suoi fratelli? (Keystone)

Il figlio preferito Famiglia Oggi è un tema tabù, ma in epoca passata avere un figlio prediletto era normale: le studiose francesi

Claudine Paque e Catherine Sellenet indagano in un libro i motivi e le conseguenze della preferenza dei genitori Laura Di Corcia «Io faccio preferenze? Ma scherzi?». Reagiscono tutti così i genitori di fronte all’espressione accusatoria di uno o più figli, infastiditi perché si sentono vittime di un’ingiustizia di cui non hanno nessuna colpa: quella di ricevere meno amore rispetto ad un fratello o una sorella. Ma quando il re è nudo, inutile mentire o tergiversare, è sotto gli occhi di tutti, quindi a nulla valgono i tentativi di nascondere una seppur scomoda verità. I cocchi di mamma o di papà esistono eccome, anche se non sta bene dirlo, e le differenze di trattamento verso i figli creano sofferenze e disagi arrivando in taluni casi a minare la serenità familiare. Che cosa c’è all’origine di tutto questo? A tal quesito hanno tentato di rispondere Claudine Paque e Catherine Sellenet, docenti di Letteratura e, rispettivamente, di Psicologia presso l’Università di Nantes, che hanno preso spunto dalle più belle pagine della letteratura per intraprendere questo viaggio. «Un giorno – spiega la professoressa Paque – ho espresso a Catherine il mio disappunto per aver rilevato, nell’Odissea di Omero, parecchi esempi di figli prediletti, presentati e riconosciuti come tali, senza falsi pudori». Se oggi come oggi il tema del figlio preferito è un tabù, in epoca passata non lo era affatto. «An-

che la Genesi presenta parecchi casi di figli preferiti – continua –: Isacco tenta di favorire il suo pupillo, Esaù e Rachele impongono il loro prediletto, Giacobbe. Quest’ultimo, poi, portava nel cuore Giuseppe in un modo così plateale, da suscitare l’odio dei fratelli». In parallelo a questa ricerca sulle rappresentazioni letterarie, le studiose hanno condotto una serie di interviste e incontri con più di cinquanta adulti. Il risultato? Gli intervistati hanno confermato che la preferenza non è il frutto di una mente accecata dalla gelosia, ma qualcosa di reale, con cui fare i conti. Da queste riflessioni è nato il volume intitolato L’enfant préféré, chance ou fardeau? (edizioni Belin), che in Francia sta riscuotendo un discreto successo. Professoressa Paque, essere i figli preferiti di mamma o papà è una fortuna o un fardello?

Durante le nostre riflessioni, abbiamo constatato che, anche se la posizione di figlio preferito è spesso invidiata, essa comporta tutta una serie di doveri non sempre piacevoli. Il prediletto spesso è usato dai fratelli per esercitare il ruolo di mediatore e molto frequentemente riceve in dono un’eredità non proprio leggera: è ovvio che, dopo aver ricevuto tante attenzioni, sarà chiamato a farsi carico più degli altri dei genitori anziani, col rischio, qualora si tirasse indie-

tro, di passare per un ingrato. In generale, poi, essendo debitore dell’affetto speciale dei genitori, si sente obbligato a conformarsi alle aspettative che essi ripongono in lui. Può capitare che egli, per non dar loro una delusione, diventi ciò che vogliono che sia, calpestando le proprie aspirazioni. Per tutta la vita potrà essere perseguitato dal rimorso di non essere stato all’altezza dei sogni della madre o del padre. E chi si trova in una posizione subalterna ha vita facile?

Assolutamente no: le sofferenze del preferito non sono certo paragonabili a quelle del figlio meno amato. Quest’ultimo prova un dolore muto, che tende a nascondere per proteggere la pace familiare. Di questo bambino spesso si dice che è geloso, che fraintende, che è tutto frutto della sua fantasia, ma lui sa bene che non è così. Tanti piccoli segni gli ricordano la verità: il posto assegnato a tavola, il tempo destinato alla buonanotte, i complimenti e le paroline dolci. Non è infrequente che quel dolore si trasformi in aggressività verso il fratello o la sorella privilegiato/a. Questi rancori emergono anche tardivamente, addirittura da adulti, dopo la morte dei genitori, a volte per questioni legate all’eredità. Non è certo motivo di vanto fare queste distinzioni fra i figli, eppure pare un fenomeno diffuso. Quanto?

Basta fare un giro su Internet per rendersi conto che non si tratta di dinamiche marginali: i forum pullulano di testimonianze di rancore nei confronti del «preferito/a». Ma, seppure i quattro quinti delle nostre interviste abbia segnalato la presenza di una preferenza, questa attitudine non è sistematica e molto spesso è contenuta. Ci sono famiglie in cui emerge solo in un particolare periodo, altre in cui è più radicata. Si può concentrare su un solo genitore o su entrambi, ciascuno dei quali preferisce quel bambino o quell’altro. Cosa spinge una madre o un padre ad avere un occhio di riguardo verso uno dei propri figli?

Le cause sono davvero disparate. Una delle più frequenti è legata all’amore verso sé stessi. Il genitore ama nel figlio o nella figlia prediletta il proprio specchio, laddove la somiglianza può essere fisica o psichica. Questo aspetto lo troviamo in tante fiabe, come per esempio nel Pollicino di Charles Perrault. Quando la madre accoglie i sette fratelli che tornano a casa, dice: «Come sono contenta di rivedervi, anime mie! Dovete essere stanchi ed affamati; e tu, Pietruccio, come sei inzaccherato! Vieni qui, che ti lavi». E Perrault aggiunge: «Pietruccio era il maggiore dei figli, il beniamino suo, perché era rosso di capelli come lei».

Tante madri e tanti padri vanno in brodo di giuggiole per il maschietto…

O per la femminuccia, se è stata tanto attesa e se nasce in mezzo a tanti fratelli. Ci sono genitori che accordano la preferenza al più vulnerabile, altri a quello che incarna i loro sogni. Può succedere, come per Eva, che il prediletto sia il primogenito, perché è attraverso di lui che l’avventura genitoriale si è avviata. A volte è l’ultimo a beneficiare di più attenzioni, quello che mette fine a un capitolo della vita. Sono una mamma e mi rendo conto di non distribuire equamente il mio affetto. Che faccio?

Legga il nostro libro. Contiene tutta una serie di testimonianze ed esempi che spingono alla riflessione, regalando una chiave di lettura per decodificare la geografia dei sentimenti. Il nostro obiettivo, tutto sommato, è quello di spingere i genitori all’autoriflessione e alla consapevolezza. Uno o più errori da evitare?

Sentirsi colpevoli e reagire in modo sbagliato, per esempio diventando più duri con il figlio o la figlia preferito/a. L’unica cosa da fare è osservare in modo lucido il proprio comportamento ed evitare di pesare sul prediletto o sulla prediletta, per non far sì che questa preferenza, appunto, diventi pesante come un macigno.


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Società e Territorio

«Chi bej garun» Dialetto Chiacchiere

sulle gambe delle donne

L’esperienza delle scuole «firmate» Edilizia scolastica ticinese Il recente caso delle Scuole medie 1 di Lugano induce a una

riflessione su un passato in cui la creatività di grandi architetti e la lungimiranza dei politici hanno convissuto felicemente

Non ci sono più le vecchie osterie e pure i bar sono sempre più aperti ai giovani e quindi tendenti a escludere gli anziani e le loro chiacchiere. Però qualche volta, tra un caffè e un bitter, si riesce ancora a «contarla su» e a ricordare i tempi andati e quindi a parlare ovviamente di donne. Il signor Massimiliano, che è il più vecchio della compagnia del bar, ha gusti antichi in fatto di bellezza femminile. È ancora fermo alle ballerine dell’avanspettacolo, quelle con le cosce forti e le calze a rete. E talvolta agli affezionati di queste rappresentazioni, in cui l’atmosfera di trasgressione si mescolava a quella della fame, capitava di dover sopportare visioni di calze a rete bucate e più volte rammendate che a stento nascondevano cosce minate dalla cellulite. Ma gli amanti dell’avanspettacolo, che si chiamava anche «la rivista», non facevano molto caso a queste miserie sotto i riflettori e applaudivano quasi sempre con trasporto. Ed è stato così che il vecchio signor Massimiliano, ovvero il «Conte Maxim», come lo chiamano un po’ tutti, anche per la sua innata eleganza e raffinatezza pur poggiata su gusti sorpassati, l’altro pomeriggio ha voluto dire «la sua», mentre sul maxischermo (quello di cui il gestore del locale si è dotato per le partite di calcio) svolazzavano ballerine assai eleganti, graziose e leggere, in una coreografia molto bella, certamente opera di un grande professionista del balletto. Mentre quasi l’intera congrega degli amici ammirava quelle aeree ed esili danzatrici, «Maxim» ha dunque espresso la sua opinione: «Me paren tropp magher, ghen pió chi bej garun d’una volta». Evidentemente il «Conte Maxim», con quei «garun» si riferiva proprio alle ballerine dell’avanspettacolo, ma ancor prima alle donne dei «Cafè chantant», dei varietà, dei trasgressivi locali notturni di Parigi, o Berlino, di cui sicuramente aveva tanto sentito raccontare, o forse aveva addirittura fatto in tempo ad assaggiare qualche retroguardia. «El garun» è infatti la coscia del pollo, ma anche quella dell’uomo e della donna. La testa e i garun è il titolo di un libro scritto anni fa da Giancarlo Pauletto per raccontare la storia del grande campione di ciclismo Alfredo Binda. E già dal titolo si intende che se un corridore ciclista «el g’ha no i garun» non sarà mai un campione. Per vincere occorre intelligenza, ma soprattutto gambe buone. «Garun», dunque: ma da dove viene questo termine così lontano dall’italiano coscia? Francesco Cherubini, nel suo vocabolario del dialetto milanese dice che «garón» (poi diventato «garun») vuol dire appunto, coscia e che viene da «gallone» un vocabolo italiano antico che significava fianco, ovvero la coscia. A sua volta lo Zanichelli etimologico spiega che «gallone» viene dal francese galon. E questa notizia probabilmete piacerà al vecchio «Conte» che ama tanto ricordare la trasgressiva atmosfera che ruota forse ancora intorno al Moulin Rouge.

Ti-Press

Emilio Magni

Luciana Caglio A Lugano, la Scuola media 1, frequentata dagli allievi residenti nel centro città, cerca casa. Ma dove, come, quando? In proposito, si sono incrociate le più svariate ipotesi: una sede provvisoria in un capannone al Parco Ciani, una sistemazione al Palazzo dei congressi o nell’ex-macello di viale Cassarate, debitamente ristrutturato. Fra queste prospettive, doveva poi avere la meglio, e si spera definitivamente, la decisione di costruire una sede propria in via Lambertenghi. Comunque, questa discussione, dai toni spesso polemici e politicizzati, ha giustificato persino l’impressione che il problema avesse colto alla sprovvista gli stessi diretti interessati: cioè, autorità cantonali e comunali. Anche se così non doveva essere. Si trattava, infatti, di una scadenza annunciata. Il Palazzo degli Studi, per usare la solenne denominazione ufficiale imposta all’opera progettata da Otto Maraini e Augusto Guidini, nel 2014 compie 110 anni, e chiede nuovi interventi di restauro. Ciò che comporta un prolungato periodo di lavori, che modificheranno la logistica dell’istituto: da cui la Scuola media 1 sarà esclusa. Evidentemente per motivi di spazio: un Liceo, sempre più per tutti, affolla aule su aule. Ma dietro a questo sfratto c’è pure una scelta di politica pedagogica: la necessità di separare, anche fisicamente, la Scuola media dalla contiguità con il Liceo. Di cui, ai tempi del Ginnasio, costituiva una tappa preliminare quasi obbligata. Oggi, invece, si tende a marcare una separazione: destinata a scardinare il mito della laurea e indirizzare verso altri percorsi formativi. Ora quest’episodio delle Medie luganesi, costrette a sloggiare, non è soltanto un fatto di cronaca locale, ma

si presta a una riflessione allargata. Sta a dimostrare, quasi simbolicamente, come proprio costruire scuole rappresenti uno degli ambiti dell’edilizia più sensibili ai cambiamenti. E sono cambiamenti d’ordine anagrafico, sociale, didattico, educativo che, qui, si manifestano con maggiore evidenza e urgenza. È il nuovo che avanza, e che va accolto. Le aule devono ospitare una folla crescente di allievi, di età e provenienze sempre più diverse, alle prese con materie di studio e strumenti in continua trasformazione: dalla lavagna con il gesso allo schermo interattivo, insomma. E questa moltitudine vuole nuovi spazi: palestre, sale per spettacoli, laboratori per attività artigianali, piscine, biblioteche, servizi accessibili ai disabili, e via enumerando gli attributi richiesti a una realtà in espansione. Qual è la scuola moderna che si regge su strutture più agili, destinate a creare un ambiente aperto e sempre in fieri. In pratica, un tipo di edificio ancora da inventare. Per gli architetti, una sfida professionale da raccogliere. E qualcuno ci ha provato confermando la tradizione di Paese di bravi costruttori, di cui il Ticino va fiero. Nel 1958 in via Lavizzari a Bellinzona, sorse infatti la sede di un ginnasio (in seguito scuola media), di nuova generazione: non più un blocco unico, compatto, definitivo bensì un corpo articolato, arioso e aperto (vedi foto). L’aveva progettato Alberto Camenzind che, con Augusto Jäggli e Rino Tami, figura, a giusto titolo, fra i «padri» della nuova architettura in Ticino, definizione da preferire a quella, per certi versi ambigua, di architettura ticinese. Terminologia a parte, sta di fatto che, a sud delle Alpi, i fermenti di un rinnovamento architettonico, che sul piano mondiale faceva capo a Wright e Le

Corbusier, trovarono un terreno ricettivo. Così, approfittando degli stimoli, certo non tutti positivi, del boom economico, si manifestò il fenomeno di un «made in Ticino» dell’architettura. In altre parole, la concentrazione, su un esiguo territorio, di molti talenti innovativi. Era un caso singolare che, grazie alla mostra Tendenzen al Politecnico di Zurigo, nel 1975, ottenne l’attenzione nazionale e internazionale aprendo agli architetti ticinesi inattese prospettive di carriera. Ora, per molti di loro, proprio la progettazione di edifici scolastici ha rappresentato, a partire dagli anni 60/70, una sorta di palestra d’esercitazione. Non senza ironia, si parlò di un’era delle scuole «firmate». Effettivamente, scorrendo l’elenco delle scuole materne, delle elementari, delle medie, dei licei, costruiti in quei decenni, si ritrovano i nomi di architetti connotati da una forte personalità creativa, che avrebbero poi lasciato il segno anche al di fuori dei nostri confini. Gli esempi si sprecano. Nel 1963, Dolf Schnebli progetta il centro scolastico di via Varesi, a Locarno, nel 1970 Galfetti-Ruchat-Trümpy firmano l’asilo infantile di Viganello, nel 1974 è la volta di Ivano Gianola con la materna di Balerna, mentre a Stabio nasce il centro scolastico di Tita Carloni. Nel 1977, compare il nome di Botta, con la scuola media di Morbio Inferiore. A Locarno, fra il ’74 e il ’79, sorgono le elementari e la palestra ai Saleggi di Livio Vacchini. Nel ’78, a San Nazzaro s’inaugura il centro scolastico di Luigi Snozzi. A Riva San Vitale, nell’82, l’edificio della Media reca la firma di Giancarlo Durisch. A Massagno, nel ’96, l’asilo infantile è opera di Campi e Pessina. E via dicendo. In pratica, i nostri migliori architetti si sono cimen-

tati nell’edilizia scolastica, cioè in un ambito pubblico. Com’è stato possibile? Affrontiamo l’argomento con Pietro Boschetti che, agli inizi della sua carriera, nel 1978, aveva partecipato, con il fratello Alfonso, alla progettazione della scuola elementare di Camorino, ampliata nel 2011. «Senza dubbio, proprio questo settore ha offerto, ai giovani architetti di allora, l’opportunità di mettersi alla prova. Ed è stato possibile grazie alla lungimiranza di un politico come Franco Zorzi, consigliere di Stato, che già aveva affidato la consulenza estetica per le autostrade a Rino Tami. E, tramite Tami, aveva accettato progetti d’avanguardia per le sedi delle nuove scuole medie». Un’apertura da parte dei politici che coincise con un periodo di profonde trasformazioni sia sul piano dell’educazione che della socialità. Lo stato sociale in Ticino nasceva in quegli anni. Una stagione conclusa? Per forza di cose, è andato perso lo spirito pionieristico che aveva animato gli architetti di allora. Mentre, da parte dei politici, la crisi viene usata per giustificare refrattarietà al rinnovamento. In proposito è indicativa l’esperienza di Boschetti, che, nel 2006 ha portato a termine, ad Arosio, una scuola dell’infanzia di nuova concezione: adeguata alle particolari esigenze dei bambini e aperta al contatto con la vita di tutta la comunità. Racconta: «Il progetto ha avuto un iter faticoso. Si è dovuto lottare per far accettare alle autorità una costruzione che, nella forma e nei contenuti, rompeva con i modelli tradizionali». L’intesa fra le due parti in causa rimane indispensabile. E se ai politici chiede agilità mentale, agli architetti la rinuncia a compiacimenti formali. Non tutte le scuole «firmate» si sono poi rivelate efficienti. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Il difficile rilancio del macello cantonale Cresciano Incontro con Armando Donati, coordinatore del gruppo di lavoro che sta studiando

le strategie con le quali si intende riconquistare la fiducia degli allevatori, dei commercianti e della popolazione Elia Stampanoni Il macello cantonale di Cresciano (MaTi) è nato in un contesto difficile, tra polemiche e opposizioni. Sin dalla sua pianificazione, che risale ai primi anni del Duemila, ha dovuto superare diversi ostacoli: come dimenticare la questione su come, ma soprattutto su dove realizzarlo, Cresciano o Rivera? Nell’aprile 2009 la struttura è stata inaugurata, ereditando però gli strascichi di quelle controversie. Oggi il macello c’è, esiste e deve cercare nuove strategie, come ci conferma Armando Donati, coordinatore del Gruppo di lavoro per il rilancio (vedi nota), nato all’inizio del 2013. «Ci siamo prefissati alcuni obiettivi che però richiedono tempo ed energie per essere raggiunti; innanzitutto vogliamo togliere quell’etichetta negativa con la quale è stato bollato il macello sin dalla sua nascita. Intendiamo riconquistare la fiducia degli allevatori, dei commercianti e di tutta la popolazione». Già, perché il macello cantonale, come ci illustra il nostro interlocutore, «è indispensabile e va considerato come un’opera d’interesse pubblico». In passato i mattatoi pubblici in Ticino erano addirittura quattro, distribuiti tra Chiasso, Mendrisio, Locarno e Lugano. Vennero chiusi perché obsoleti e non più conformi alle normative, ma anche perché situati in luoghi difficilmente raggiungibili. Da qui l’idea di un macello cantonale che, ricordiamo, è stato sovvenzionato dal Cantone con un investimento di circa 2,5 milioni di franchi. Il secondo grande obiettivo del Gruppo di lavoro è di trovare finanziatori per ammortizzare il debito ipotecario e pagare gli interessi passivi. «Se entro fine 2014 non troveremo 100mila franchi all’anno per saldare l’ammortamento del debito bancario, nel 2015 si chiuderà definitivamente la MaTi, dato che essa dispone soltanto di un capitale proprio sufficiente per l’ammortamento del 2013 e del 2014», spiega Donati. Per ora la struttura riesce a coprire tutti i costi di gestione, ma per la sopravvivenza e i necessari investimenti è imperativo trovare nuovi aiuti economici. In questi mesi sono pertanto in atto diversi incontri con le autorità: «Esatto, proprio perché il macello è una struttura d’interesse pubblico, stiamo coinvolgendo i Comuni. Salvare il macello significa garantire uno sbocco agli allevatori, con conseguenze dirette su tutto il settore agricolo, quindi anche sul paesaggio e sul turismo». Il gruppo di lavoro sta bussando alle porte dei Comuni ticinesi, iniziando

Una struttura all’avanguardia. (Ti-Press)

con quelli della Riviera, Leventina e Blenio, dove sono allevati il 54% di tutti gli animali del Ticino (calcolati in unità di bestiame). Ma le ricerche non si fermano di certo entro i confini di queste tre valli: Lugano si sta già impegnando in questo senso, dato che copre gli interessi passivi del debito bancario (2,8 milioni) finché il macello rimarrà in funzione (si tratta di oltre 40mila franchi annui). Indubbiamente il macello è una struttura all’avanguardia e la sua classificazione in «grande azienda» lo dimostra. Il mattatoio di Cresciano rispetta degli standard qualitativi di assoluto livello che gli permettono la certificazione per l’esportazione, ma che hanno pure contribuito ai costi elevati della sua costruzione. Basta uno sguardo al suo interno per capire che è stato progettato in un periodo fiorente, quando in Ticino si macellavano ancora 1,5 milioni di chili di carne (dati 2002). Nel giro di dieci anni il quantitativo è sceso vertiginosamente, fino a circa 600mila chili nel 2012. Il potenziale del macello (900mila chili) è oggi sfruttato solo in parte, dato che nel 2013 sono stati 400mila i chili di carne lavorati. Nel 2012 a Cresciano sono state effettuate il 65% delle macellazioni notificate nell’intero Cantone, ma quali sono i margini di sviluppo? «Ci sono ancora diversi chili di carne ticinese macellati

Oltralpe che, offrendosi a dei prezzi più concorrenziali, attirano l’attenzione di alcuni allevatori e commercianti locali. D’altronde in Svizzera vige la libertà di commercio e quindi ognuno si serve del mattatoio che desidera», precisa Armando Donati. Il consumatore è pure coinvolto in questo processo di rilancio, dato che solamente con la presenza di una struttura locale si può garantire una filiera ticinese. Oltre a riacquistare la fiducia, un altro punto importante nelle strategie del gruppo di lavoro è pertanto quello di sviluppare nuovi progetti, in modo da contribuire all’aumento dei volumi lavorati a Cresciano: «essendo una struttura altamente professionale ed efficiente, riesce a smaltire tutto il lavoro nel giro di due giorni. A Cresciano abbiamo quindi un macellaio impiegato al 100% a cui, nei giorni di operatività, si aggiungono altri sette professionisti del ramo (che gli altri giorni della settimana lavorano altrove) e un veterinario». Un team, quello gestito dalla Società mastri macellai salumieri (Smms), che garantisce il funzionamento delle due linee di macellazione di alta prestazione, meccanizzate e dove tutte le fasi sono separate, garantendo i criteri d’igiene e sicurezza. Per assicurare un futuro al macel-

lo di Cresciano si vuole riguadagnare un’immagine positiva, un ideale in cui crede anche Migros Ticino, come ci conferma Fabio Rossinelli, responsabile del Dipartimento marketing della Cooperativa Migros Ticino e membro del gruppo di lavoro: «La presenza di un macello cantonale è essenziale per la sopravvivenza della linea “Nostrani del Ticino” che garantisce un importante volume di lavoro al macello. Un quantitativo che Migros Ticino sottrae alle infrastrutture Migros d’Oltralpe, a dimostrazione di come la cooperativa ticinese sia particolarmente attenta alla realtà locale». Una volta consolidata la situazione finanziaria e riacquistata la fiducia, il macello cantonale intende pure terminare le opere rimaste in sospeso e che oggi limitano alcune operazioni a Cresciano. Pensiamo per esempio agli spazi progettati per la lavorazione della carne, che al momento sono ancora incompleti (gli allevatori oggi ritirano le «mezzene» che devono poi lavorare in altra sede). «Stiamo già studiando la possibilità di sfruttare gli spazi inutilizzati, tra cui anche un locale dove si potrà lavorare la carne (taglio e imballaggio)», spiega Armando Donati. Nel rilancio sono coinvolti anche gli utenti del macello, a cui è stato inviato

le immagini, che illustrassero le idee. Una volta raccolto il materiale, dovevo distribuirlo nelle varie slides. Non avendo esperienza in merito, chiesi a mio padre di aiutarmi, almeno per indicarmi come avrei potuto fare. E così lentamente imparai a costruire il mio primo PowerPoint, che salvai su una chiavetta e diedi al maestro, che lo caricò sul suo mitico computer portatile, collegato a un beamer ad alta definizione, che proiettava le immagini in formato gigante, quasi come se fossimo al cinema. L’attesa fu terribile: ero agitatissima, il cuore mi batteva a mille e quasi non riuscivo a respirare. Dentro di me, però, ero convinta di fare bene, perché in quelle slides proiettate sulla parete c’era una parte di me che stavo per svelare e questo mi dava una carica enorme. Infatti, tutto andò bene, anche la nota, che mi diede un’immensa carica di fiducia.

Grazie a questa esperienza positiva, mi lanciai con maggior vigore nella seconda presentazione, quella da realizzare a coppie. La preparai con la mia migliore amica, gestendo questa volta meglio il tempo di preparazione. Decidemmo di farla sui vampiri, divertendoci un mondo a casa mia a trovare le informazioni più adatte e a scegliere un video che illustrasse questo genere letterario e cinematografico di successo. Anche questa volta la presentazione fu convincente. Riuscimmo ad alternare al meglio il tempo di parola e a coinvolgere la classe in un argomento affascinante. Ormai mi ero costruita un mio stile di presentazione, sia negli argomenti affrontati, sia nel modo di farlo, apprezzato da tutti, anche dal maestro. L’anno seguente, in una nuova classe, ma con lo stesso insegnante d’italiano, non ho aspettato gli ultimi posti

un questionario per capire cosa si possa migliorare nella gestione della struttura. Si sta pure valutando la possibilità di affittare altri spazi inutilizzati oppure di creare la piazza mercato sul terreno antistante il macello (progetto di 150mila franchi), dove organizzare le operazioni commerciali di eliminazione. Immagine, finanziamento, quantitativi e innovazione sono quindi le parole chiave nella strategia del macello cantonale di Cresciano, ma come valutare la nascita dei piccoli macelli regionali, per esempio quello di recente apertura ad Avegno? «Avegno è una struttura destinata al bestiame minuto (agnelli, capretti e forse anche vitelli) e rivolto essenzialmente agli allevatori delle valli del Locarnese che non entra quindi in concorrenza con Cresciano, dove invece si punta sui grossi quantitativi, proprio per sfruttare l’alta efficienza di questa struttura all’avanguardia», ci spiega in conclusione Armando Donati. Il Gruppo di lavoro per il rilancio del macello è composto, in rappresentanza di varie organizzazioni legate con il macello, da Armando Donati (coordinatore), Claudia Ciani (segretaria-animatrice), Sem Genini, Fabio Rossinelli, Fausto Andina, Giorgio Terrani, Loris Ferrari, Paolo Barberis, Raffaele De Rosa, Sandro Volonté e Sarah Barletto.

I ragazzi si raccontano di Chiara Domenighetti Le presentazioni… mi danno sicurezza

Il mio docente d’italiano offre l’opportunità ai suoi allievi di mettere in risalto le loro qualità, presentando durante l’anno scolastico due argomenti a scelta: da soli durante il primo semestre e a coppie durante il secondo. Se proprio devo essere sincera, all’inizio ero abbastanza impaurita da questo genere di attività, essendo una ragazza piuttosto timida. E così non mi feci mai avanti quando il maestro, alla fine di ogni mese, chiedeva chi volesse fare le presentazioni, una ogni settimana, il mese successivo. Poi, però, con il passare del tempo, restavano sempre meno compagni che non avevano ancora svolto questo esercizio. In più la qualità delle presentazioni si era rivelata piuttosto alta, rendendo questo momento apprezzato da tutti, ma aumentando non poco la pressione su di

me. Arrivò così il giorno in cui il maestro annunciò le ultime date e gli allievi rimasti. Io naturalmente ero tra questi. Non avendo via di scampo, mi lanciai, proponendomi con un tono apparentemente deciso, che sorprese positivamente il maestro. Per molti giorni non facevo altro che pensare a un argomento che potesse interessare la classe e, soprattutto, che mi sarebbe piaciuto approfondire. Dopo tanti tentennamenti, mi decisi di proporre lo stile emo, che in fin dei conti costituisce ancora oggi il mio modo di essere, con dei jeans aderenti, una lunga frangia asimmetrica e delle t-shirt dai colori vivaci. Con il fiato sul collo, perché mancava veramente poco tempo, iniziai a preparare la presentazione. Andai sul computer, per informarmi meglio. Le cose importanti le salvavo, mentre le altre mi limitavo a scorrerle velocemente. Cercai anche delle bel-

disponibili per annunciarmi. Non ho neanche avuto tante difficoltà a scegliere l’argomento, i tatuaggi, che costituiscono un’altra mia grande passione. Ho mostrato ai compagni come si realizzano, in quali categorie si suddividono e quali sono i pericoli connessi. La classe ha ascoltato con attenzione, interessata dalla problematica, a tal punto che quasi non sono riuscita a far svolgere l’esercizio finale previsto. Gli assistenti del maestro mi hanno addirittura dato un sei meno. Le mie paure iniziali sono ormai solo un lontano ricordo. Ora ho acquisito sicurezza, rendendomi conto che con la passione, abbinata certo all’impegno, è possibile ottenere dei risultati davvero incredibili. Testi corretti dal professor Gian Franco Pordenone


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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Per tutte le teste un unico casco Immaginiamo un imprenditore stravagante: vuole far passare cavi di diverso spessore – da 3 mm fino a 3 cm di diametro – dentro un unico anello del calibro di mezzo centimetro. Investe dunque cifre considerevoli per escogitare soluzioni: dapprima, una macchina per comprimere i cavi di maggiore spessore e spingerli nell’anello. Non funziona. Allora, caldaie per dilatare l’anello fino a permettere l’introduzione dei cavi: un fallimento. Invece di lasciar perdere e ricorrere ad anelli di varia misura, s’intestardisce a cercare nuovi espedienti. Ci perde anni e anni, soldi a palate e intanto la produzione rallenta e perde mercato. L’ostinazione sui princìpi, al di là del realismo, porta a risultati analoghi. Max Weber ha mostrato le differenze inquietanti tra etica dei princìpi ed etica della responsabilità. In base alla prima, il Principio non si discute e va applicato, costi quel che costi. Il secondo tipo

di ragionamento etico cerca invece di valutare le conseguenze dell’applicazione rigida del principio: e se si rende conto che gli effetti sarebbero nocivi, ridimensiona il principio o almeno cerca un ragionevole compromesso. Applichiamo ora queste premesse a un problema sempre discusso da quarant’anni a questa parte: quello della scuola media unica. Nel 1974 il Gran Consiglio istituì quest’unica via di formazione obbligatoria: si voleva – si legge nel Messaggio relativo – «una formazione unica di base [...] da attuare attraverso una scuola che offra veramente a tutti un’uguale base di partenza, cioè condizioni uguali di vita, di studio e di lavoro». Questo il Principio, senz’altro lodevole. Poi venne l’attuazione. L’«uguale base di partenza» presupponeva che tutti gli allievi acquisissero un’istruzione sufficiente ad aprire a tutti uguali possibilità di scelta nella

nazione e ghettizzazione per chi segue i livelli inferiori, dei quali ora si chiede l’abolizione. Fin qui, dunque, i tentativi di tener fede al Principio. Ora vediamone le conseguenze e proviamo a ragionare in base all’etica della responsabilità. Le conseguenze sono state chiaramente indicate dal consigliere Bertoli: le licenze di tipo A e B risultano di valore diseguale non solo per l’accesso agli studi superiori, ma anche per l’avvio all’apprendistato, dove il datore di lavoro tende a preferire gli studenti con risultati migliori. Di conseguenza, i genitori – quelli che possono permetterselo – spendono per lezioni private che consentano al figlio di conseguire una licenza di tipo A: si reintroduce così indirettamente quella discriminazione in base al censo che si voleva abolire. Inoltre i docenti, temendo di operare una selezione scandalosamente eccessiva, abbassano il livello dei test alterando di fatto la

valutazione: l’ignoranza in uscita è così occultata da note «taroccate» . Lo scopo del Principio – l’uguaglianza delle possibilità – è dunque mancato. Aggiungo io una terza conseguenza: il tentativo di far marciare tutti allo stesso passo comporta inevitabilmente che si imponga a tutti il passo più lento. E non è questa un’altra ingiustizia, ai danni di coloro che hanno maggiori capacità, i quali, costretti a sprecare tempo, perdono via via d’interesse per il sapere, proprio negli anni in cui gli interessi maturano? O forse l’ingiustizia è tale solo quando va a danno degli svantaggiati? E non è un’ingiustizia verso il Paese spegnere talenti che potrebbero essere poi una preziosa spinta dinamica per la cultura e per l’economia? È da sperare che la nuova riforma che verrà non sia solo una riconferma del Principio, ma si basi anche su un’analisi corretta delle conseguenze prevedibili.

periodo dell’Ermitage. Salgo a zig zag per i sentieri accompagnati da spensierate staccionate, ortiche e false ortiche viola e gialle. Ecco una costruzione che mima una catasta di legno, dentro sembra uno di quei capanni da caccia nelle foreste tedesche: la vista si apre su due grandi stagni; tante iscrizioni di nomi e date. Scendendo trovo la panchina con alle spalle l’iscrizione rocciosa O beata solitudo, o sola beatitudo; a fianco, dei ranuncoli. Accanto c’è il Giardino dell’Eremita, che sono cinque aiuole rotonde con dentro erbacce. Dei gradini portano alla casetta di legno dell’eremita, tappezzata di corteccia. Un tempo c’era una marionetta-eremita che muoveva la testa appena aprivi la porticina, ma ora dicono sia fragile ed è al riparo da qualche parte. In origine era collocata in una grotta, la Grotta dell’Eremita, dove sto andando. Ma poi, la grotta, alla morte nel 1788 del poeta-pittore Salomon Gessner, conosciuto per i suoi Idilli (1756) e per aver fondato la

«Zürcher Zeitung» (1780) futura NZZ, è stata dedicata a lui e l’eremita, spostato. Ad ogni modo, un eremita che dà il nome a questo eremo all’inglese, qui non c’è mai stato. Ecco la Gessnergrotte, dentro, una stele. Continuando il percorso labirintico, mimetizzata nella roccia, c’è una panchina naturale chiamata Traumasyl, la cui comodità data dal muschio, oltre al panorama, è qualcosa. Bisogna ritornare sui propri passi, passando dalla grotta iniziale, direzione grotta di Proserpina. Salita ancora a zig zag, giallo brassicacea e lobi blu di veronica. La grotta, su tre piani, voluta a quanto pare dall’esoterista-ciarlatano Cagliostro, è chiusa; mi siedo sulla panchina e mi godo il paesaggio, una valle in miniatura. Risalgo e trovo la grotta di Apollo, forse a ragione, la gloria maggiore di questo parco sempre aperto, innestato nella natura, dal 1999 monumento nazionale. Da qui si intravede in lontananza, la forma aliena del Goetheanum in

ristrutturazione. Giunto in cima alla collina-falesia, c’è l’ex tempio dell’amore, distrutto, come lo storico chalet, dalle truppe francesi nel 1793; ora è un tempio rustico. Aggiro il castello di Birseck e avvisto un ortolano con i baffi. Che meraviglia: un’antica panchina calcarea, intarsiata con crittogrammi. A fianco degli stagni si percepisce la prospettiva riuscita dei vari sentieri tratta dalla Theorie der Gartenkunst (1779) di C.C.L. Hirschfeld, secondo il quale i vari passeggiatori hanno una loro funzione paesaggistica-teatrale vicendevole. Una vecchia signora con basco grigio, narcisi selvatici nei prati, un cartello vieta di cibare i pesci, cinguettii. Ai margini del bosco c’è una scolaresca, altri fanno jogging. A sinistra del terzo stagno, una fontana con un mascherone barbuto genere spirito dei boschi. Un buontempone gli ha messo una foglia come lingua e ha sparso ritualmente denti di leone nell’acqua.

gli altri, l’eloquio facile e scorrevole, adattabile a circostanze diverse, un aspetto gradevole, ma non necessariamente da superbello. E non da ultimo, interviene il fiuto, necessario per avvertire gli umori di una platea, di una piazza, di un pubblico anche lontano, di ascoltatori e telespettatori. Ora, di questa particolare categoria umana, in grado di servirsi dell’arma della parlata per conquistare un seguito popolare, ci sarebbe scarsità oltre Oceano. Insomma, il Talking Boy sembra appartenere a una specie rara e privilegiata alla quale si aprono carriere di successo nell’ambito politico, nella pubblicità, nei media. Fra questi settori si sono stabiliti legami sempre più stretti, persino interscambi. Non di rado, dal teleschermo al parlamento il passo è breve. Possedere la parola aiuta. Anche se battezzato negli Usa, il personaggio non è esclusivamente americano. È un tipico prodotto di quell’alleanza politica-spettacolo che domina, ormai, la scena contempora-

nea a ogni latitudine. Certo, le diversità di lingua, di cultura, d’ambiente ne modificano i connotati e le prestazioni. L’abilità oratoria ha maggiori possibilità di esprimersi in luoghi di grandi dimensioni, al cospetto di grandi folle, più inclini all’entusiasmo collettivo, piuttosto che in luoghi piccoli, davanti a un pubblico esiguo e autocontrollato. Ma, a ben guardare, questi schemi sono saltati. Basta guardare in casa nostra. Proprio noi ticinesi, gente per natura restia a intrupparsi al seguito di capi carismatici, sospettosi nei confronti dei tromboni, abbiamo vissuto un fenomeno di segno opposto: dove un linguaggio ruvido e colorito è riuscito a sviluppare un inatteso potere di seduzione. Un avvenimento insolito, in un Paese dove, tradizionalmente, l’arte del parlare è poco diffusa e, anzi, il parlatore rischia di passare per un imbonitore. Effettivamente, il Talking Boy dispone di uno strumento multiuso: utile in molti ambiti professionali, addirittura indispensabile nell’arena politica, ma

insidioso, esposto al rischio di contare non per quel che si dice ma per come lo si dice. Con effetti inquietanti. Sul piano personale, il bravo parlatore spesso si gonfia con le sue stesse parole, si compiace, si ascolta. Sia sul piano delle conseguenze pubbliche: un linguaggio gridato e sbracato, esibito come simbolo di libertà, spesso, porta alla deriva demagogica. L’Italia, in proposito, ne offre casi esemplari. Un guitto di mestiere, trasformato in tuttologo, è diventato un temibile concorrente per l’attuale premier. All’opposto, chi aveva preceduto Renzi, il signorile Letta fu sconfitto per una questione di linguaggio: poche e prudenti parole. Del resto, persino in una Svizzera, che si pensava refrattaria ai discorsi trascinanti, Blocher, affidandosi alle parole, riesce a smuovere le opinioni. Non sempre, del resto, il bravo oratore coincide con il bravo politico. Il caso di Churchill, autore di battute fulminanti e di definizioni ormai storiche (a cominciare da «cortina di ferro») rimane ineguagliabile.

vita successiva. Ma si vide subito che la marcia degli allievi verso l’uguaglianza avveniva a passo diseguale: s’introdusse dunque una prima riforma, differenziando il secondo biennio nei livelli A e B. Ma la riforma contraddiceva parzialmente il Principio: si passò dunque a una seconda riforma, con corsi A e B per tre materie (non l’italiano: è scontato infatti che tutti parlano e scrivono con sicura competenza). Ma anche questa differenziazione sapeva di discriminazione. Avanti dunque con una terza riforma, introducendo corsi attitudinali e corsi base per due sole materie, matematica e tedesco (l’italiano, si sa, è adeguatamente posseduto). Ma ancora i conti non tornano: se solo una parte degli allievi che terminano la scuola media raggiunge i requisiti per iniziare studi superiori, allora il Principio è disatteso. E infatti, ultimamente, si è tornati a parlare di discrimi-

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf L’Ermitage di Arlesheim Arlesheim è un comune di novemila abitanti a dodici chilometri da Basilea, noto oltre che per la prima clinica antroposofica mondiale (1921), l’azienda di prodotti naturali Weleda (1922) e il Goetheanum attuale (1928) poco lontano – entità intrecciate tra loro e legate a Rudolf Steiner e Ita Wegman – per l’Ermitage. L’Ermitage di Arlesheim è il più grande e famoso giardino all’inglese della Svizzera, creato nel 1785 da Balbina von Andlau-Staal (1736-1798) e suo cugino, il canonico Heinrich von Ligertz (1739-1817). In questo angolo di quaranta ettari del canton Basilea Campagna, la cui formazione geologica carsica legata al Giura tabulare è caratterizzata da alcune grotte, sono state ritrovate tracce di vita neolitica e di riti celtici. Inoltre, secondo le strampalate teorie di Werner Greub, autore di Wolfram von Eschenbach und die Wirklichkeit des Grals (1974), proprio da qui è passato Parzival, protagonista del poema cavalleresco omonimo

scritto attorno al 1200. Sta di fatto che è un luogo di forza misurabile in 75’000 unità Bovis. Alla fine dell’Ermitagestrasse che attraversa e porta fuori dal paese, inizia un sentiero che costeggia un ruscello; lassù un vigneto di Riesling e le rovine del castello di Birseck. Cinque minuti sereni ed eccomi all’entrata principale dell’Ermitage di Arlesheim (353 m), una fine mattina di fine aprile. Un vecchio mulino ora casa dei giardinieri e in faccia, una grotta con degli scalini. Entro e salgo le scale in pietra a spirale – incisa sulla roccia, la scritta Natura amicis suis – sbucando poi in cima. Una porta diroccata e dentro, ancora al buio. Esco più in alto, disorientato, e m’incammino in direzione della Karussellplatz. Niente di speciale, la giostra di legno che le dava il nome non c’è più, rimane la vista sul paese dove risaltano i due campanili del duomo barocco. E un’altra grotta con un ricordo per Achilles Alioth e sua moglie Lucie, proprietari per un

Mode e modi di Luciana Caglio Il Talking Boy: utile e rischioso Chiedo venia: l’uso dilagante degli anglicismi non preoccupa soltanto i linguisti, ma irrita il comune cittadino e deve mettere in guardia il giornalista. È da evitare, dato che si può. La scorsa settimana, infatti, il «Corriere della Sera» pubblicava, nel suo sito – stavo per scrivere «online» – l’elenco di 300 parole inglesi, entrate nel nostro linguaggio corrente e che si potrebbero benissimo sostituire con altrettanti sinonimi italiani. Salvo eccezioni. Quando il termine straniero ci vuole, ci vuole. Alludo al nostro titolo. Proprio mentre partiva questa nuova crociata a tutela della lingua di Dante, arrivava la notizia che, negli Stati Uniti, in vista della prossima campagna elettorale, è iniziata la caccia al cosiddetto Talking Boy, cioè il ragazzo che parla, e ovviamente bene. Eccoci, quindi, alle prese con un altro neologismo di origine anglosassone che, in modo sintetico ed efficace, definisce una figura attuale che svolge un ruolo basato, appunto, sull’utilizzo del linguaggio. Si tratta di un mestiere che

è pure un’arte. Qualcosa che s’impara e si perfeziona, seguendo corsi ad hoc, e qualcosa che fa capo a doti innate e persino indefinibili. Entrano in gioco l’empatia, cioè la capacità di legare con

Winston Churchill, ineguagliabile autore di battute fulminanti. (Wikimedia)


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Ambiente e Benessere I costumi del turismo Ecco come una sirenetta di nome Annette ha cambiato stili di vita, usi e... costumi

L’orso potrebbe tornare Finito il letargo, non è da escludere l’eventualità che si ripresenti l’orso: questa volta siamo pronti ad accoglierlo? pagine 12-13

La pianta dei soldi esiste Si chiama Edgeworthia chrysantha, l’arbusto da cui per anni sono state ricavate banconote e carte pregiate

Fra parchi e industrie Un running festival all’inglese, quale occasione per scoprire una Londra un po’ più nascosta

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La psicologa e psicoterapeuta Nadine Maetzler. (Vincenzo Cammarata)

Come superare un evento traumatico Psicologia Lungo il corso della vita tutti possono doversi confrontare con situazioni critiche per affrontare

le quali è necessario un sostegno Maria Grazia Buletti Ciascuno di noi, nel corso della propria vita, può doversi confrontare con un evento critico la cui sofferenza intima importante potrebbe sfociare in un vero e proprio trauma. Le cronache quotidiane raccontano il susseguirsi, anche in Svizzera e in Ticino, di situazioni che finiscono in eventi drammatici per le persone (e indirettamente per i loro soccorritori): atti di violenza, incidenti ferroviari, aerei e automobilistici ed eventi cosiddetti maggiori. Tutti noi ricordiamo alcuni tristi esempi: l’incidente del 2001 nella galleria del San Gottardo, il recente schianto dell’elicottero di Iragna che costò la vita a tre persone, l’omicidio di Damiano Tamagni, l’attentato a Marrakech in cui persero la vita tre giovani ticinesi. Senza tralasciare i suicidi e il trauma con cui questi segnano chi resta e chi soccorre, e senza dimenticare gli atti di abuso sessuale che minano profondamente la vittima e i suoi cari. A tutto ciò vanno ad aggiungersi le catastrofi naturali come frane, valanghe e inondazioni. «Anche la perdita e la morte di qualcuno particolarmente caro, soprattutto se si tratta di un bambino, di un figlio, rappresenta uno degli eventi di vita fra i più traumatici che potrebbe necessitare di un sostegno psicologico per chi lo subisce»: la psicologa e psico-

terapeuta Nadine Maetzler è specializzata in psicologia dell’emergenza e con lei affrontiamo il tema del sostegno e dell’intervento psicosociale necessario nelle situazioni traumatiche. «L’intervento alle vittime di un trauma, come pure di chi vi assiste indirettamente, vuole fornire un sostegno psicosociale d’urgenza», puntualizza la dottoressa Maetzler. Sensibile ai fattori in continuo mutamento come l’aumento del traffico stradale, il forte sviluppo del traffico aereo e ferroviario, i mutamenti della società con gli spostamenti più frequenti delle persone da un Paese all’altro, e il crescere di comportamenti violenti nelle relazioni interpersonali, il canton Ticino ha annunciato che da gennaio del prossimo anno sarà operativo un Care team che offrirà sostegno psicosociale alle persone vittime di un trauma, esteso anche a chi ha assistito al tragico evento. Con la dottoressa Maetzler ci addentriamo dunque nel delicato tema dell’intervento: «L’essere umano ha un potenziale di resilienza e, di norma, prova a gestire e integrare l’evento traumatico nella propria biografia. Perciò non tutti i traumi vanno a creare un disturbo», esordisce Nadine Maetzler. Bisogna comunque poter assicurare un sostegno immediato, anche perché la profondità delle feri-

te traumatiche differisce da persona a persona e secondo i tipi di traumi con cui ci si trova confrontati: «Parliamo di traumi man made (ndr: perpetrati dall’essere umano) e traumi nature made come valanghe, inondazioni e quant’altro: quelli causati dall’uomo pesano maggiormente sulle vittime, in quanto la violenza di un essere umano verso un altro essere umano comporta la difficoltà di comprensione del motivo dell’accanimento di un consimile sull’altro. Una valanga, in quanto fatto naturale, è più facilmente accettabile e, spesso dunque meno traumatizzante». Dopo un evento traumatico la persona presenta sintomi emotivi come paura, tristezza, rabbia, impotenza, senso di colpa, stordimento e confusione. Si chiede perché sia dovuto succedere proprio a lei, percepisce malessere e ipereccitazione: «Reazioni considerate normali dopo un evento abnorme, se non persistono oltre un mese circa dall’evento traumatico. Qualora i sintomi persistessero nel tempo, parliamo di un disturbo da stress post traumatico le cui tre caratteristiche principali sono riconoscibili con uno stato di allerta e di ipervigilanza, anche di notte con disturbi del sonno, evitamento di luoghi, persone e/o avvenimenti che ricordano l’evento vissuto, e flash back (ricordi intrusivi sotto forma di immagini, incubi, che portano l’individuo a

ripercorrere l’evento traumatico con la sua stessa carica emotiva di quando è successo». Pensando all’esempio dell’incidente del pullman di Sierre, dove persero la vita decine di bambini, non possiamo esimerci dal riflettere sul fatto che anche i piccoli possono vivere questi eventi e portarne le conseguenze: «Il bimbo regredisce, abbandona i suoi rituali rassicuranti, il rendimento scolastico cala e fatica a verbalizzare le sue emozioni. Pensiamo ad esempio al trauma che accompagna la perdita di un genitore: il piccolo si trova confrontato con un dolore più grande di lui, si isola, mostra irrequietezza, incubi, paura d’abbandono…». In ogni caso bisogna agire: «Distinguiamo due tipi di intervento di aiuto: immediato e che non si protrae mai più di qualche giorno, riconducibile, più che a una terapia, a un intervento care dopo il quale si attua una sorta di triage che ci permette di valutare se la persona necessita di un aiuto del medico curante, piuttosto che dello psicologo o se dispone di risorse sufficienti per far fronte al proprio percorso». Naturalmente sarà la persona stessa a decidere se accettare o meno la mano che il care giver le porge: «Si tratta di una persona formata e specializzata, con equilibrio psicofisico, sensibilità ed empatia necessarie all’aiuto di altre persone».

Nell’ambito della presa a carico di un paziente affetto da disturbo da stress post traumatico è molto interessante il metodo terapeutico E.M.D.R. che ne favorisce l’elaborazione: «L’Eye Movement Desensitization and Reprocessing è una desensibilizzazione e rielaborazione dell’evento traumatico attraverso i movimenti oculari», spiega Maetzler. «Nel 1987 la dottoressa Francine Shapiro ha osservato che il movimento oculare saccadico (ndr: ritmico e ripetuto da sinistra a destra) riduceva lo stress causato da un evento traumatico: in tal modo il terapeuta accompagna il paziente nel ricordo del vissuto e ne desensibilizza le emozioni tramite questi movimenti oculari (o tapping, stimolazione tattile, o stimoli bilaterali sonori)». La dottoressa spiega che questo metodo apparentemente semplice va a stimolare la regione limbica cerebrale, sede delle emozioni: «Al termine rimane il ricordo privato del suo lato emotivo e il disturbo di stress post traumatico si stempera». Se i risultati di questa tecnica risultano essere apprezzabili, la vera difficoltà si rivela essere a monte: «La diagnosi di un disturbo da stress post traumatico è difficile da porre: da un lato necessita un’adeguata formazione di chi si prende cura della persona, dall’altro talvolta il paziente fatica a mostrare la sua situazione in toto», conclude la dottoressa Maetzler.


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Ambiente e Benessere

Una donna tutta d’un pezzo Viaggiatori d’Occidente La storia della sirenetta che inventò il costume da bagno

L’Italia di ieri e di domani Bussole Inviti a

letture per viaggiare Claudio Visentin Il turismo ha i suoi eroi sconosciuti. Persone delle quali si ricorda a malapena il nome, ma che hanno dato un contributo decisivo a cambiare stili di vita, usi e costumi. E proprio di costumi (in senso stretto) si può parlare nel caso di Annette Kellerman, la donna che inventò il costume da bagno.

«Stamattina presto la radio ha detto che le nevicate si stanno spostando. Già dalla notte hanno cominciato a scendere lungo la dorsale dell’Appennino. Si spingeranno – dicono le previsioni meteo – sempre più a sud, sino alla Calabria. Sto preparando la sacca perché a mezzogiorno, da Linate, parto anch’io per la Calabria. Chissà chi arriva prima, se io o la neve…»

Molte delle novità del XX secolo si sono incrociate nella vita dell’australiana Annette Kellerman La storia comincia con una bambina australiana nata nel 1886 nei dintorni di Sydney da una famiglia di musicisti. A sei anni, come alternativa a cure dolorose, comincia a nuotare per rafforzare le gambe troppo deboli; e anche dopo essere guarita continua ad allenarsi sino a diventare una campionessa di nuoto. Nel nuovo secolo, la bambina gracile si è trasformata in una donna di intensa bellezza, che mostra grande abilità nell’attirare l’attenzione dei media. Nel 1905, per esempio, prova ad attraversare la Manica a nuoto ma deve rinunciare dopo tre tentativi falliti. La fama le spalanca le porte di Hollywood. Il suo ruolo è spesso quello di sirenetta, la prima di una lunga serie nella storia del cinema: non a caso la sua vita romanzata sarà raccontata in un film del 1952 intitolato La sirenetta da un milione di dollari (Million Dollar Mermaid). Lo sport, il cinema, i media e lo star system: molte delle novità del XX secolo si incrociano nella vita di Annette Kellerman. La giovane australiana ha un rapporto sereno con la propria bellezza. Nel 1916 appare interamente nuda nel film La figlia degli dei e anche se i lunghi capelli coprono la maggior parte del suo corpo, è comunque la prima volta che un’attrice famosa si svela al pubblico. Il film, che purtroppo oggi è perduto, fa discutere anche per il budget imponente (oltre un milione di dollari), ma consacra la fama di Annette Kellerman, che interpreta una misteriosa bellezza la cui vita dovrà essere sacrificata da una strega malvagia per riportare in vita il figlio del sultano. Già da tempo, però, Annette ha destato scandalo anche per i suoi audaci costumi da bagno, che provocano infuocate polemiche. Di audace, in

realtà, avevano molto poco, dato che si trattava di normalissimi costumi interi, che oggi anzi sembrerebbero piuttosto castigati, ma bastavano per colpire l’immaginazione dei suoi contemporanei. Sino a quel momento, infatti, le donne entravano in acqua indossando un abito non troppo diverso da quello di ogni giorno, salvo che poi era quasi impossibile muoversi liberamente e nuotare. Basti pensare che in alcune spiagge erano in uso delle curiose cabine montate su ruote che venivano trainate a qualche distanza dalla riva e permettevano alle donne di calarsi direttamente in acqua, al sicuro dagli sguardi maschili. Nel 1907 Annette è già molto conosciuta: per esempio nel gigantesco Teatro Hippodrome di New York, sulla Sixth Avenue, si esibisce in una danza acquatica dentro una gigantesca vasca, un evento che molti considerano l’origine del nuoto sincronizzato. Ma quello stesso anno Annette viene arrestata su una spiaggia del Massachusetts per offesa al pudore. Sono gli ultimi colpi di coda della morale tradizionale: i suoi costumi, infatti, anche grazie a questa involon-

taria pubblicità, si diffondono sempre più e l’attrice trasforma la sua intuizione in un prodotto commerciale. Il seme gettato dalla Kellerman trova un terreno favorevole nel periodo tra le due guerre, quando cambia anche la vacanza di mare. Sino ad allora si andava sulle rive del Mediterraneo soprattutto d’inverno, in cerca del clima mite, per fare lunghe passeggiate sulla spiaggia: Promenade des Anglais – la passeggiata degli Inglesi – è ancora oggi il nome della più celebre via di Nizza. Ma negli anni Venti una coppia di intraprendenti americani, Gerald e Sara Murphy, introducono un nuovo stile di vita ad Antibes, con l’aiuto di amici artisti come Pablo Picasso e di scrittori come Francis Scott Fitzgerald, che ritrarrà questa stagione in Tenera è la notte (1934). I lunghi e castigati abiti femminili dell’Ottocento – con busti, cappellini e guanti – sono ormai impensabili. La nuova moda impone abiti informali, sandali e pantaloncini, leggeri abiti da sera. Il corpo liberato e il piacere sono protagonisti di giornate spese tra corse in auto sulla ri-

viera, lunghe giornate in spiaggia alla ricerca dell’abbronzatura perfetta, cocktail sul bordo della piscina, jazz e amori estivi. Il costume da bagno comincia a ridurre sempre più le sue dimensioni, secondo una tendenza che si rivelerà inarrestabile: nel secondo dopoguerra si divide dapprima in due pezzi, e negli anni più audaci e più vicini a noi perde di vista il pezzo di sopra… E così lo sport e il turismo disegnano insieme un nuovo rapporto con il corpo, che si mostra ora orgoglioso della propria bellezza. La necessità di muoversi e di esporsi ai benefici raggi del sole ridisegna gli abiti ma anche i rapporti tra i sessi. Di questa rivoluzione Annette Kellerman è una delle protagoniste più importanti anche se presto i riflettori per lei si spengono. Anche allora Annette continua a coltivare la sua visione creativa e indipendente dell’esistenza: per esempio sarà tra i primi a promuovere la causa vegetariana. Questi primi giorni di primavera, di ritrovata vita all’aperto, di pensieri leggeri e divertenti, sono forse il momento migliore per ricordarla.

La domanda cruciale è se l’agricoltura sia il passato o il futuro d’Italia. Di passato certo ne ha tanto: non c’è luogo dove la cura del suolo non abbia lasciato segni, modellato paesaggi, creato stili dell’abitare. Ma forse ha anche molto più futuro di quel che pensiamo, se non vogliamo ridurre il nutrirsi a un puro atto primario, come se mettessimo della benzina in una macchina. Per rispondere a questa domanda lo scrittore Giorgio Boatti ha cominciato un lungo viaggio al passo con le stagioni in diverse regioni italiane: dal fondo della Calabria al triangolo del riso tra Po, Ticino e Sesia; dal distretto della fragola di Policoro alle serre di Albenga. Un’Italia dove ogni giorno cento ettari di terreno agricolo vengono divorati da nuove costruzioni; dove la superficie agricola è scesa in qualche decennio da 18 a 13 milioni di ettari. Un Paese tradizionalmente bucolico, ben coltivato, con un clima perfetto, che tuttavia rischia di dipendere sempre più dagli altri, ma che ha al suo interno anche tante risorse umane delle quali non è consapevole. Per questo Boatti ha voluto incontrare chi si è lasciato alle spalle l’agricoltura industriale estensiva del secondo dopoguerra per risvegliare dal loro sonno cascine e masserie, rivoluzionari con l’aratro invece del fucile. Il passato è la tradizione, un lento, quasi impercettibile stratificarsi di saperi e pratiche nei secoli; il futuro, la società globale connessa in rete con le sue sfide e con l’ossessione postmoderna per il cibo. A cucire questi due mondi, un uomo in cammino, con il gusto delle domande, degli incontri, delle soste. / CV Bibliografia

Giorgio Boatti, Un paese ben coltivato. Viaggio nell’Italia che torna alla terra e, forse, a se stessa, Laterza, 2014, pp. 272, € 18,00. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Ambiente e Benessere

La strategia dell’orso Mondoanimale Nel corso dei secoli l’animale è diventato il bersaglio delle più incredibili proiezioni da parte

Maria Grazia Buletti Gli orsi si adattano alle stagioni; in autunno entrano nel lungo sonno invernale che termina a primavera, con il loro risveglio: «Entrando nel loro riposo invernale risparmiano energie quando il cibo scarseggia. Una strategia, quella di questo sonno, che possiamo anche considerare alla stregua di un fatto evolutivo: l’orso non ha nemici naturali e si seleziona da sé, dato che solo gli orsi forti e con riserve sufficienti sopravvivono alle dure prove dell’inverno».

È un essere solitario con un bisogno limitato di comunicare: la sua totale assenza di mimica facciale può condurci a fraintendere la sua indole

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Torniamo a parlare di orsi con l’esperta di grandi predatori Joanna Schönenberger, ma stavolta lo facciamo attraverso la rappresentazione di questo possente animale nell’immaginario dell’essere umano, per comprendere meglio tutte quelle sensazioni contrastanti che ci assalgono quando c’è di mezzo il plantigrado. Siccome forse ci assomigliamo, possiamo indagare sul perché l’orso ci affascina e

perché lo temiamo, in cosa desideriamo essere uguali a lui e in cosa possiamo considerarci davvero simili. Una serie di riflessioni doverose visto che, con il risveglio dal letargo invernale, ci sono reali probabilità che qualche soggetto si spinga nuovamente verso le nostre latitudini. Dati alla mano, la nostra esperta ce lo conferma: «Esiste una forte possibilità che l’orso ritorni nel nostro cantone e la tesi è giustificata dal recente rapporto sull’orso elaborato dalla provincia di Trento. D’altronde, negli ultimi tre anni esso si è avvicinato parecchio anche al Ticino, arrivando fino alla zona di Chiavenna e questo ci permette di desumere che, prima o poi, potrebbe davvero passare di qui». Il calcolo dei possibili orsi visitatori è presto fatto: «Ci sono tanti giovani nati durante l’ultimo biennio: si stimano circa otto giovani maschi di circa due anni che si metteranno in cammino». Attingendo dagli studi e dal libro dello psicoanalista Daniele Ribola (L’orso e i suoi simboli, Magi edizioni scientifiche), Joanna Schönenberger spiega come gli antichi credevano che l’orso uscisse dal suo letargo dopo aver compiuto un lungo viaggio nel Paese degli spiriti, facendo scorta di tutte le energie cosmiche possedute dalle anime dei morti: «Al suo risveglio pare emettesse un enorme peto liberatore, ridistribuendo in questo modo le energie dell’aldilà nel mondo degli umani. In tal modo, per un istante, i due mondi entravano in contatto fra di loro».

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dell’uomo, generando così un complesso rapporto di amore e odio

Nell’epoca medievale questa interpretazione non fu certo condivisa dalla Chiesa che smorzò l’idea di benevola potenza orsina, contribuendo alla sua trasposizione negativa nell’immaginario umano: «L’orso viene a questo punto reinterpretato come un animale negativo, buffone, voluttuoso e lazzarone: una visione derivante più dal retaggio culturale che dalla vera biologia di que-

sto animale». In effetti, Daniele Ribola conferma che le più incredibili proiezioni umane si agganciano a ogni particolare dell’orso che, per la sua particolare somiglianza con l’uomo e forse anche per un’antichissima competizione sui luoghi dove trovare riparo, subisce un rapporto di amore e odio: «Fondamentalmente un rapporto proiettivo tale da generare una vera e propria persecu-

zione che si è prolungata per millenni». Dal canto suo, Schönenberger riflette sul fatto che forse anche a causa della sua inesistente mimica facciale, l’impressione che l’orso può suscitare nell’uomo è quella del soggetto calmo e lazzarone: «È un animale solitario che ha un bisogno più limitato di comunicare e la sua mimica facciale inesistente può condurci a falsa interpretazione della sua indole». Parecchie sono le proiezioni errate che l’uomo fa sull’orso e questo ci riporta ad alcune riflessioni sul rapporto contraddittorio che abbiamo con lui: «Lo amiamo perché in lui riconosciamo alcune nostre caratteristiche, mentre lo temiamo per il grande carico di simbolismi che gli abbiamo costruito addosso, a causa dei film che ce lo mostrano falsamente aggressivo ed eretto in piedi all’attacco». Cosa che non appartiene assolutamente alla natura dell’orso, affatto tagliato per l’attacco, se non quando si sente in pericolo e assolutamente obbligato o per la difesa dei suoi piccoli». Infine, la nostra interlocutrice afferma che, di orso in orso fino a M13, le autorità cantonali e federali hanno abbassato sempre più la tolleranza verso questo animale: «Questi orsi non sono affatto aggressivi, ma sono certamente scomodi perché il loro opportunismo ad esempio nella ricerca del cibo li spinge ad avvicinarsi all’uomo. Alla fine, la loro eliminazione porta a dedurne la pericolosità, quando invece basterebbe co-

noscere la loro natura per comprendere che le loro caratteristiche sono lontane dall’aggressività». E invece di umanizzare l’orso, con Joanna Schönenberger abbiamo fatto l’esercizio di «orsizzare» l’essere umano: «L’orso è un animale estremamente economo e opportunista, che valuta le proprie energie con grande attenzione all’equilibrio costi-benefici: minimo sforzo, minimo rischio e massimo rendimento è il suo motto». Il messaggio è: «Se avanzassi in modo mirato, senza però perdere di vista le occasioni, potrei raggiungere gli scopi prefissi pur cogliendone le opportunità che non avevo previsto». Inoltre, l’orso è un animale pacifico, che teme l’essere umano e, se dovesse difendersi, avvertirebbe prima di attaccare: «Se ponderassi la mia ag-

gressività prima di sprecare le mie energie vivrei certamente meglio». Presto riassunto in cosa assomigliamo all’orso e in che modo vorremmo assomigliargli: «Vorremmo assomigliargli in tutto il totem della sua potenza, certamente, mentre siamo estremamente simili a lui nell’opportunismo e nella sua strategia di sopravvivenza che è anche la nostra, visto il comun denominatore di animali biologici». Scopriamo che basterebbe guardarci allo specchio, prima di demonizzare un animale impregnato delle nostre proiezioni: «Perché non comprendere meglio la sua natura?» conclude la nostra interlocutrice secondo la quale provare ad «o(r)sare» è un atteggiamento molto più umano di quanto possiamo immaginare.

La forza è nella calma Vivere meglio imparando dagli orsi: con la forza e la calma ogni giorno può essere un giorno felice! Questo il messaggio del libro La strategia dell’orso (ed. TEA) scritto dal professore di economia aziendale ed esperto in tema di gestione delle risorse umane Lothar Siewert. Attraverso una favola metaforica, l’autore permette alle caratteristiche dell’orso di emergere. Nelle pagine del suo racconto, Siewert si adopera in un esercizio di analisi delle analogie che l’uomo potrebbe

riconoscere per rapporto a questo imponente animale che ha sempre suscitato nel genere umano un misto di amore e timore. Una fiaba che offre uno strumento per imparare da questi animali forti e saggi le qualità necessarie per affrontare i piccoli e i grandi problemi quotidiani, elaborando una personale visione della vita e imparando a fare ciò da cui potremmo trarre divertimento e che meglio ci riesce per raggiungere i nostri obiettivi e desideri. Annuncio pubblicitario

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2° studio nazionale sull’udito: partecipate alla ricerca.

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ll’incirca due anni dopo la prima ricerca empirica sulla qualità dell’udito degli svizzeri, gli specialisti dell’audioprotesistica Amplifon e Phonak lanciano il 2° studio nazionale sull’udito. Le conoscenze verranno così ulteriormente approfondite, per aiutare in modo ancora più diretto ed efficiente i clienti a sentirci meglio.

Invitiamo a partecipare al 2° studio nazionale sull’udito tutte le persone che sospettano di avere una limitazione dell’udito ma che al momento non portano apparecchi acustici. Il vantaggio per voi: potrete provare gratuitamente per 4 settimane la più moderna tecnologia per apparecchi acustici sviluppata da Phonak e riceverete inoltre CHF 50.–* a titolo di ringraziamento per la partecipazione. Gli apparecchi acustici facilitano la comunicazione e aumentano la gioia di vivere. Da settembre 2012 a febbraio 2013 Amplifon e Phonak hanno analizzato, in tutta la Svizzera, come l’uso di apparecchi acustici si ripercuote sulla qualità della vita. I 1137 partecipanti ci hanno fornito utili informazioni. Già dopo un breve periodo di utilizzo degli apparecchi, la maggioranza dei partecipanti allo studio ha confermato di provare più piacere nello stare con gli amici e di avere una migliore qualità della comunicazione e della vita a casa. È davvero sorprendente, soprattutto se consideriamo che la maggior parte dei partecipanti al test aveva dichiarato in preceden-

za di non aver bisogno di apparecchi acustici. Potete trovare ulteriori informazioni sui risultati del 1° studio nazionale sull’udito su www.studio-udito-nazionale.ch. I due leader di mercato Amplifon e Phonak si dedicano alla ricerca anche per il vostro udito. Lo studio congiunto mira a ottenere conoscenze scientifiche che confluiranno in modo determinante nel lavoro di Amplifon e Phonak. Per comprendere ancora meglio le esigenze dei clienti, nell’ambito del 2° studio nazionale sull’udito si osserveranno nel dettaglio gli effetti dei più recenti apparecchi acustici sulle singole situazioni di vita. Le esperienze dei partecipanti serviranno a migliorare ulteriormente l’adattamento degli apparecchi acustici alle esigenze della vita quotidiana e a perfezionare la tecnologia. La vostra opinione è importante per noi. Partecipate e approfittate anche voi di questa ricerca a livello nazionale. Lo studio sarà condotto in conformità agli standard scientifici. Tutti i vostri dati saranno trattati con riservatezza e analizzati in for-

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ma anonima da un rinomato istituto di ricerche di mercato. Al termine dello studio i risultati saranno messi a disposizione dei medici e delle cliniche ORL.

* Solo per i primi 1’000 partecipanti che saranno ammessi allo studio e compileranno entrambi i questionari.

Iscrivetevi direttamente su Amplifon: sul sito www.studioudito-nazionale.ch, per telefono chiamando il numero gratuito 0800 800 881, in uno dei 78 centri specializzati Amplifon o tramite il coupon di registrazione allegato. Le iscrizioni sono aperte fino al 31.7.2014. A titolo di ringraziamento per la partecipazione riceverete CHF 50.–* in contanti.

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Ambiente e Benessere

La pianta dei soldi

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Mondoverde L’albero che ha prodotto

molte banconote esiste davvero

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in seguito a carenza di biotina.

Seminare un soldino, innaffiare, zappettare, attendere e infine staccare dai rami non foglie ma belle e ricche banconote. È il sogno di molti? In effetti, senza scomodare il gatto e la volpe di Pinocchio, esiste una pianta che in più parti del mondo viene chiamata proprio pianta dei soldi o dell’argento, grazie alla forma dei frutti tondeggianti e argentati che sembrano delle monete: si tratta della Lunaria. Ma ne esiste un’altra che può fregiarsi a piena ragione di questo titolo. Ebbene, sì, a volte, le leggende hanno un fondo di verità, tanto che possiamo affermare che la pianta dei soldi esiste davvero: è il caso della Edgeworthia chrysantha, chiamata un tempo E. papyrifera, l’arbusto da cui – grazie alla sua corteccia – sono state ricavate banconote e carte pregiate.

La Lunaria è chiamata, in più parti del mondo, la pianta dei soldi o dell’argento, grazie alla forma dei suoi frutti Originaria della Cina meridionale e orientale, venne introdotta in Giappone intorno al sedicesimo secolo e lì, grazie alla lavorazione dei rami flessibili e alla resistenza della corteccia, trovò largo impiego nelle cartiere più pregiate, oltre che nei portafogli e nelle banche. In Europa giunse solo nel 1845 e fu classificata da Michael Pakenham Edgeworth, dal quale prende il nome. Rustica, sopporta temperature anche fino a –10°C e se posta in una posizione a lei gradita, a mezz’ombra o in pieno sole, con terriccio per acidofile e con bagnature costanti, non viene mai attaccata né da parassiti animali né da parassiti vegetali.

Raggiunge con una proverbiale lentezza i due metri e autonomamente è in grado di darsi una forma ordinata della chioma senza alcun intervento di potatura da parte dell’uomo: questo è possibile grazie alla ramificazione degli apici in tre distinti rametti che si riempiranno tra gennaio e marzo di fiori piccoli, giallo intenso, riuniti in mazzetti e molto profumati, i quali regalano un fascino tutto particolare al giardino che li ospita. Se la specie capostipite vi affascina, potete coltivarla accanto a una E. chrysantha Grandiflora, che si differenzia per le dimensioni maggiori sia delle foglie sia dei fiori, o a una E. chrysantha Red Dragon che sfoggia fiori rosso acceso, ma è più sensibile alle innaffiature. Per valorizzare al massimo la loro fioritura vi consiglio di accompagnarle con un tappeto di crochi blu o di viole bianche e gialle, in grado di far risaltare al meglio la sfumatura dei fiori. Difficile da reperire nei vivai, potete moltiplicare facilmente questa bella pianta mediante i polloni radicati. Dalla pianta madre, durante i mesi autunnali e quindi alla caduta delle foglie, staccate delicatamente alcuni polloni, ovvero i giovani rami laterali che partono direttamente dal terreno e che le piante adulte producono verso la parte esterna dal cespo. Fate attenzione a togliere il pollone con quante più radici possibili e interratelo immediatamente in un vaso di 14-15 centimetri di diametro, riempito con terriccio per acidofile e argilla espansa alla base. Per il primo inverno tenete la nuova pianta al riparo o copritela con del tessuto–non tessuto, senza scordarvi di innaffiarla con regolarità. Alla fine della primavera potrete metterla a dimora e un efficace consiglio per avere sempre fioriture ricche consiste nel concimare in autunno il terreno aggiungendo stallatico e coprendo la base con un velo di terra e di foglie.

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Tre tassisti, tre città e i loro consigli su dove andare a mangiare

Buffet di Pasqua Un pasto festivo all’insegna della primavera

O FF E Sa C o R T nto lte A a ku llo PE pr fo g R ez r iap I L zo gia p E sp to one TT ec a s e O R ia ma I le n o

Washoku per tutti La cucina tradizionale giapponese, per nulla complicata, è diventata patrimonio dell’Unesco

1. In una scodella mescolate la farina con il lievito e il sale. Unite l’olio e poco alla volta l’acqua. Quindi impastate fino a ottenere una massa liscia e omogenea. Se necessario, aggiungete ancora un po’ d’acqua. Coprite l’impasto e fatelo riposare per circa 15 minuti. Dividete la massa in 8 palline delle stesse dimensioni e spianatele in dischi spessi circa 3 mm. Scaldate una padella antiaderente. Rosolate brevemente le piadine da entrambi i lati finché si colorano leggermente. Coprite e tenete in caldo. Affettate la fontina. Farcite le piadine con il salame, la fontina, la rucola e gustate subito.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 28 aprile 2014 ¶ N. 18

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Ambiente e Benessere

Ambiente e Benessere

La Londra degli artisti e dei maratoneti Reportage Nell’Inghilterra delle industrie e degli operai, di centrali di carbone e templi indiani, giardini inglesi e boccali di birra Markus Zohner* Siamo in macchina verso un lago chiamato Haliford Mere. È sabato mattina e sono le 7.30. Da due anni, Adel sa tutto ed è un eroe del triathlon e non teme nulla. Nella fresca mattina autunnale si costringe in una tuta di poliuretano e poco dopo nuota per un’ora intera nell’acqua ghiacciata del lago. Io intanto, seduto su un grande sasso sul bordo del lago, mi studio sul «Guardian» le ultime notizie, le ultime rivelazioni di Edward Snowden. Nel pomeriggio, attraversando la città in direzione della Tate Britain, stavo perdendo questa vita meravigliosa: in ogni viaggio ti può succedere qualcosa. A Londra si muore per aver dato un ultimo sguardo a sinistra prima di attraversare la strada mentre il grosso autobus rosso arrivava da destra. All’ultimo momento Adel mi afferra e mi riporta sul marciapiede, mentre la gentile londinese bionda sorride compassionevole: «Bisogna sempre guardare verso destra, prima! È fortunato ad avere un buon amico!» L.S. Lowry è uno dei più grandi artisti britannici del ventesimo secolo. «Non sono un artista, sono un uomo che dipinge». Lowry nacque nel 1887 nel quartiere Old Trafford a Manchester e dipinse per tutta la vita le città industriali del nord dell’Inghilterra: centinaia di dipinti tristi di ciminiere industriali fumanti, cieli plumbei, poveri quartieri operai e persone frettolose, sottili, «uomini fiammifero» come furono chiamati più tardi, che in massa si avviano al lavoro,

In fila per vedere la Battersea Power Station di Londra, con la centrale sullo sfondo. (Markus Zohner)

affrettandosi nel freddo, colmando strade e piazze ampie e scure, se ne stanno immobili, o si trascinano accanto a cani altrettanto tristi e sottili verso casa o per qualche altro luogo desolato. «Durante la sua vita ha creato oltre mille quadri, una documentazione ar-

tistica del mondo dei lavoratori, pedine in mano alle industrie, imponente, che si protrae per decenni. Questa è la prima retrospettiva di Lowry qui alla Tate Britain, a 37 anni dalla sua morte». Dice Adel quando mi trova assorto davanti a «The Park», del 1946, nel quale le persone

si riducono a brevi tratti neri, tra le case rosse degli operai, macchie verde-sporco che sono alberi, davanti allo sfondo sbiadito di ciminiere industriali ormai fredde. «Lowry era figlio di un funzionario e di una madre che soffriva di nevrosi e depressione, che aveva desiderato tre fi-

glie e aveva partorito “solo un figlio imbranato”. Dopo la sua morte cadde anche lui in depressione ed ebbe grosse difficoltà a gestire la sua vita quotidiana. Era un uomo bizzarro. Da quando era diventato molto famoso, succedeva spesso che estranei andassero a trovarlo nel suo ap-

partamento e così teneva sempre una valigia accanto alla porta in modo da poter dire di essere in procinto di partire. Finché un giorno, un giovane visitatore non si lasciò dissuadere dall’accompagnarlo alla stazione e Lowry si vide costretto a salire su un treno e partire alla volta di Londra. All’età di 88 anni confessò di non avere mai avuto una donna». Dopo una breve pausa Adel aggiunge: «Dunque è possibile, ma di certo implica grande sofferenza». Domenica mattina. Dopo una piccola colazione e un breve percorso in macchina: la gara. Dieci chilometri attraverso Kew Gardens, il più grande parco botanico d’Inghilterra. Registrazione, riscaldamento, ed eccoci al via sotto un cielo coperto, insieme ad altri 200 partecipanti fra uomini e donne. Un Running festival rilassato in una scenografia incantevole. Il percorso attraversa giardini inglesi, passa accanto a serre, in mezzo a boschetti, su prati curati e poi risale lungo il Tamigi, sul quale squadre di rematori infilate in snelle imbarcazioni allenano la coordinazione delle remate al richiamo dei loro timonieri. Il polpaccio dolorante non riesce a trattenermi. A un certo punto supero perfino dei concorrenti e dopo un’interminabile sprint finale oltrepasso la linea d’arrivo, appena dopo Adel. Il premio è una lattina di birra offerta dall’organizzazione, inoltre una maglietta e una medaglia che in realtà è un apribottiglie. «È la giornata delle porte aperte, oggi a Londra, andiamo a vedere la Battersea Power Station!» esclama Kemi,

Servizi segreti inglesi MI6, Londra. (Markus Zohner)

Uno scatto tra il traffico londinese. (Markus Zohner)

quando i due atleti esausti tornano a casa per la seconda colazione. «La centrale a carbone nel centro della città è stata costruita tra il 1931 e il 1933 e ha rifornito di corrente Londra fino al 1983. Un monumento unico di storia recente e di estetica industriale il cui interno si può visitare oggi per la prima e ultima volta. Da domani verrà smantellato e trasformato in un complesso di appartamenti, attici, centri commerciali, cinema e locali notturni. Andiamo con la mia macchina!» Quando arriviamo, la coda di visita-

tori fa un giro intero attorno all’immenso areale e i responsabili dell’ordine annunciano un’attesa di oltre quattro ore. Scuotiamo la testa d’accordo. «Allora un paio di birre per sciogliere i muscoli affaticati!» propone Adel e poco dopo il trio si ritrova a The Pavillon, uno scalcagnato pub sotto il ponte di Battersea Park Road, un locale degli anni ’70, nel quale da allora non sembra essere stato cambiato neanche il più piccolo dettaglio. Anche l’oste scontroso con i suoi pochi capelli incollati all’indietro sul

cranio pelato sembra guardare da un’altra epoca i due sportivi dei giorni nostri, esausti, al banco del suo bar, con la piacente signora nera nel mezzo. «Andiamo al tempio!» esclama Kemi. Dopo un viaggio di quaranta minuti attraverso quartieri infiniti e mai visti, non credo ai miei occhi: davanti a noi, nel bel mezzo di un quartiere residenziale a Neasden, Norwest-London, si erge un enorme complesso di templi indiani. Adel, che sa tutto: «Per la costruzione dello Sri Swãminãrãb Mandir, quasi 5mila tonnellate di pietra calcarea bulgara e marmo di Carrara sono stati imbarcati per l’India, lavorati da 1500 artigiani locali e poi portati a Londra. Qui sono stati riuniti, come in un gigantesco puzzle, oltre 23’300 pezzi di pietra, tra i quali pregiati lavori di scultura eseguiti in marmo indiano di Ambãji». Ad occhi sgranati incespico attraverso la grande mostra sull’induismo, la più vecchia religione vivente dell’umanità, sulla sua diffusione, i suoi valori, le sue tradizioni, la sua scienza, le sue scoperte e la sua cultura. Poco dopo mi ritrovo nel sancta sanctorum del Mandir, faccia a faccia con visi cerulei dei Murti,

statue di marmo e metallo, colmo della presenza divina di Parabrahman. Persone in preghiera, visi accoglienti, giovani indiani che accompagnano i visitatori interessati attraverso le sale raccontando dei loro studi. Ancora rapiti, ci ritroviamo poi a mangiare roasted lamb con yorkshire pudding a lume di candela del Paradise a Notting Hill. Un viaggio intorno al mondo, mi sembra questo soggiorno di quattro giorni nella capitale inglese. Di più, forse: un viaggio in altre dimensioni, in altri stati dell’essere, un inciampare, uno stumbling, un incespicare, un cadere, un riprendersi prima della caduta. Uno stato in cui ogni domanda ne genera altre cento, e le cento altre mille, e a rispondere alle centomila domande c’è un unico quadro al museo, o una parola, o un omicidio, o una birra. *Traduzione di Daniela Mannu Informazioni

La prima puntata è uscita sul no. 17 di «Azione». Con il presente articolo si conclude il resoconto del viaggio.

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Ambiente e Benessere

Peccato svestire i panni del tifoso Sportivamente Assistere a uno spettacolo sportivo senza un minimo di coinvolgimento forse non è possibile,

Alcide Bernasconi Irrimediabilmente scontento. Il motivo è semplice: non sono un tifoso, almeno credo di non esserlo più. Non nel senso classico. Forse, però, è soltanto una parte dell’immaginario agonistico che non riesce a scattare, a mettere in moto il cuore tumultuoso del tifoso tutto d’un pezzo, quello vero, insomma. Senza una squadra o un atleta per cui appassionarsi durante una gara, senza soffrire e dare quindi libero sfogo alla gioia per la vittoria, come succedeva ai tempi del Fc Lugano che ho amato di più, lo sport, credo, rimane uno spettacolo che riesce, sì, a strappare qualche applauso, ma che alla fine ti lascia, generalmente, con un senso d’insoddisfazione. Riuscire ad apprezzare il gesto tecnico e non tanto di più, toglie molto del piacere allo spettatore che si reputa buon conoscitore di una determinata disciplina di gioco, ma che da anni ha ormai svestito i panni del tifoso. Il vecchio cronista, allora, guarda con una punta d’invidia il collega che non nasconde la propria soddisfazione per il successo di una squadra e riesce a trasmettere questo suo sentimento a chi leggerà i suoi pezzi sul giornale o a chi lo ascolterà alla radio o alla tv. Si può, infatti, raccontare una finale di Coppa di calcio o dei playoff di hockey mantenendo il fairplay che si pretende comunque da parte di un cronista sportivo, pur se egli si è sentito in dovere, a ragion veduta, di confessare per chi batte più forte il suo cuore. Il weekend pasquale, per venire al punto, ha impegnato a fondo i giornalisti sportivi nell’esercizio di imparzialità che deve prevalere di fronte alla passionaccia, tenuta per così dire a freno a causa di interessi superiori. Per cominciare, il campionato di hockey ha messo di fronte due squadre zurighesi, quella blasonata dello ZSC e quella approdata parecchi anni dopo (1962) nella massi-

ma categoria, unica però a non averla mai abbandonata, ossia il Kloten. La prima, in seguito alla fusione con il Grasshopper, ha trasformato i pattinatori zurighesi (Zürcher Schlittschuh Club) in giocatori feroci all’occorrenza, ossia in leoni (Lions). La seconda, quasi in ossequio allo sponsor d’un tempo (la Swissair) e al fatto che a Kloten atterrano e decollano gli aerei di tutto il mondo, non poteva non definire i suoi giocatori Flyers, ossia aviatori. Ebbene stavolta, nel primo derby finale tra le due squadre le cui piste del ghiaccio non distano l’una dall’altra più di sei chilometri, i leoni hanno letteralmente sbranato gli aviatori, senza concedere neppure una vittoria nella serie finale, conclusa trionfalmente proprio sul ghiaccio degli avversari in quattro gare (al meglio di sette). Lo spettatore emotivamente non coinvolto ha giudicato la finale un po’ insipida, senza storia, con poco o nulla da ricordare. Tuttavia gara-4 è stata giocata con grande intensità e si è decisa ai rigori dopo un supplementare di venti minuti in cui non sono mancati momenti molto emozionanti e spettacolari. In una finale dei playoff la decisione ai rigori appare secondo noi inappropriata: vince chi può avvalersi di un rigorista sicuro del fatto suo, abile tecnicamente e col sangue freddo. Così è stato beffato un portiere da Robert Nilsson, svedese e figlio d’arte. Ovvero Martin Gerber, che aveva disputato l’ultima partita alla grande. Il titolo, è giusto sottolinearlo, è andato comunque alla squadra più meritevole su tutto l’arco del campionato. I giornali zurighesi hanno rilevato in giusta misura i meriti di entrambe le formazioni augurandosi altre soddisfazioni nelle prossime stagioni per le squadre a loro più vicine, pur concedendo alle altre aspiranti al titolo lo spazio per affermare le loro ambizioni. L’hockey ora ci propone l’appendice dei mondiali, a Minsk, per vo-

Keystone

anche se in campo non c’è la squadra o l’atleta del cuore

lontà delle varie federazioni che non disdegnano di mettere in cassa un po’ di soldi. Un tempo, nell’anno delle Olimpiadi, si rinunciava alla disputa dei campionati del mondo visto che – si diceva – tutte le compagini erano dilettanti. Tale situazione durò fino al 1972, anno dei Giochi Invernali a Sapporo, in Giappone, dove a imporsi fu l’Unione Sovietica; alcune settimane dopo, ai Campionati del mondo in Cecoslovacchia, furono invece i padroni di casa a imporsi. Quel torneo mise in luce fra gli altri anche il portiere rossocrociato Alfio Molina, riserva dell’infortunato Rigolet. La Svizzera riuscì nell’impresa di battere la Finlandia, grazie a una strepitosa prestazione del portiere del Lugano. Oggi i rossocrociati, dopo anni bui, hanno riconquistato la considerazione delle nazioni che vanno per la maggiore nell’hockey soprattutto in

seguito alla medaglia d’argento conquistata un anno fa in Svezia. È stato quello un mondiale che ha visto il cuore del vecchio tifoso tornare a battere forte, dando un senso di completezza alle aspettative dello spettatore che si riteneva ormai al riparo da certe emozioni. Questo weekend ha regalato anche altre grandi soddisfazioni alla città di Zurigo: dopo il titolo nell’hockey, ecco la vittoria nella finale di Coppa Svizzera di calcio, contro il rivale di sempre, il Basilea. Un successo ottenuto con merito e due gol firmati dall’ex talento bianconero Gavranovic, il quale punta alla maglia rossocrociata per i prossimi Mondiali in Brasile. Vittoria su cui grava però l’ombra di un madornale errore dell’arbitro Graf, il quale, invece di assegnare un sacrosanto rigore ai renani per una netta trattenuta in area di rigore a danno di Giovanni Sio, non

ORIZZONTALI 1. È peggio che tardi 3. Ne era il re Mike Bongiorno 6. Il cancelliere tedesco Merkel (iniz.) 8. Le iniziali del presentatore Greggio 9. Brezza poetica 10. Ghiaccio inglese 11. Vendono stampe... con l’indice 13. Un singolare giardino 14. Articolo francese 15. Luoghi di apprendimento 17. Il filosofo e scrittore francese Diderot 19. Frutto brasiliano 21. Elogio 23. Le iniziali della giornalista Parodi 25. Cibele lo risuscitò 26. Al femminile galleggia al maschile striscia 27. La precedono a tavola 28. Percosso da un batacchio 29. Antica nave da guerra

Sudoku Livello medio

Giochi Cruciverba Questo frutto è un vero concentrato di antiossidanti! Per sapere come si chiama e dove si trova, rispondi alle definizioni e poi leggi le lettere evidenziate.

VERTICALI 1. L’attore Gibson 2. Lo è l’atleta 3. Avverbio di luogo 4. Davide ordinò di ucciderlo 5. Come comincia... finisce 6. Servizio vincente a tennis 7. Segno matematico 9. Bruciati 10. Nasce in un attimo 12. Il «Big» di Londra 13. Leccio 16. Corsi d’acqua nei deserti africani 18.Lo sono i russi 20. Immagini sacre 22. Un figlio di Poseidone 24. Un compenso 26. Scodella a Parigi 28. Le iniziali dello stilista Armani

Scopo del gioco

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contenga tutti in numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

Soluzione della settimana precedente

L’amabile delfino – Frase risultante: Circa trentacinque.

ha concesso la massima punizione e ha invece espulso quest’ultimo per simulazione (seconda ammonizione)! Un erroraccio proprio al termine di novanta minuti arbitrati bene. Eppure il direttore di gara, rivista l’azione alla Tv, ha commentato d’aver sì commesso un errore, ma che comunque, se avesse potuto giudicare nuovamente il fattaccio non avrebbe concesso il tiro dal dischetto degli 11 metri. Il che non depone comunque a suo favore. La svista era umanamente possibile, ma il suo giudizio finale lascia interdetti. Il Basilea se n’è uscito dal campo dopo aver applaudito i vincitori, ma senza salire sul palco per ritirare il premio di consolazione. La Coppa di calcio, al contrario del derby di hockey, ha registrato le solite, intollerabili manifestazioni violente di pseudo-tifosi, cui non sta a cuore né la maglia della squadra che dicono di sostenere, né il gioco del calcio. È chiaro che occorre stringere ulteriormente le viti della prevenzione. Infine, il cuore del vecchio tifoso ha sopportato bene lo stress tennistico della finale tutta svizzera del torneo ATP di Montecarlo. Ha vinto meritatamente Stan Wawrinka di fronte a un Roger Federer in ulteriore ripresa rispetto alla scorsa stagione. Il pubblico ha applaudito il bel gioco di entrambi, fino al finale scoppiettante del vodese. Le cronache dicono che Roger e Stan hanno concluso la giornata in allegria, cenando e, forse, brindando con un bicchiere di quello buono, magari pensando alla Coppa Davis. Se mi è concesso ancora un piccolo spazio, invito gli appassionati di ciclismo a non perdersi la tre giorni di Ascona per la partenza del Tour de Romandie. Oggi sul lungolago verranno presentate le squadre partecipanti. Domani è in programma il prologo a cronometro nelle vie del centro e mercoledì verrà dato il via della prima tappa, con destinazione Sion.


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Politica e Economia La mutazione di Internet Nato come luogo gratuito e libero, si sta trasformando in un enorme spazio commerciale

Una pagina buia di storia svizzera Si parla sempre più del triste fenomeno degli affidamenti coatti subiti dai bambini di famiglie disastrate in auge fino agli anni Settanta – Prima parte di un’inchiesta

Il calvario delle donne In Ecuador il 70 per cento delle donne subisce violenze e maltrattamenti – un reportage

Il gigante del cemento Dalla fusione di Holcim e Lafarge nasce il produttore numero uno al mondo pagina 28

pagina 25

pagina 24

pagine 26-27

Un attivista filo-russo su una barricata davanti a un edificio governativo occupato, a Donetsk. (AFP)

Ucraina, una e trina

Geopolitica Il Paese cerniera fra l’Europa occidentale e la Russia è ormai insanabilmente diviso e Putin mostra

di essere più preparato di Obama nell’approfittare dell’instabilità che regna nell’ex repubblica sovietica

Lucio Caracciolo L’Ucraina è divisa in tre parti. Quella centro-occidentale, attorno a Kiev e a Leopoli; quella meridionale e orientale, contesa fra partigiani di Kiev e separatisti nostalgici di Mosca; la Crimea, tornata russa, insieme alla «città federale» di Sebastopoli. Ciascuna di queste tre regioni contiene al proprio interno gruppi di popolazione che non si riconoscono nelle forze dominanti e tentano di percorrere strade alternative o semplicemente vivono ai margini, in attesa che i sostenitori dell’uno o dell’altro assetto geopolitico dirimano le proprie vertenze, in pace o con le armi. Ci sono filorussi a Kiev, ucraini ipernazionalisti a Lugansk o a Donetsk, come pure in Crimea, dove ai refrattari si aggiunge la corposa minoranza tatara (12% circa degli abitanti della penisola). Vista dall’alto, dunque, l’Ucraina non è più uno Stato, quantomeno non più entro i confini internazionalmente riconosciuti. È un vasto e variegato territorio conteso di oltre 600 mila chilometri quadrati, con circa 45 milioni di anime.

A oltre due mesi dal crollo del regime di Viktor Yanukovich, il presidente eletto in elezioni più o meno democratiche e poi rovesciato dalla piazza e dalle milizie armate dei nazionalisti ucraini, le Ucraine sembrano alla soglia della guerra civile. I morti non si contano, ma dall’inverno scorso gli scontri armati hanno prodotto almeno duecento vittime, forse più. Ma l’ex repubblica sovietica non è uno spazio geopolitico qualsiasi. È la cerniera fra l’insieme euro-occidentale – usiamo questo eufemismo – e l’impero russo, oggi noto come Federazione Russa. Si capisce allora perché in questa contesa siano impegnate sia Washington, con i suoi tutt’altro che unanimi alleati europei, che soprattutto Mosca, per la quale il destino di Kiev è questione vitale. E, insieme, domestica: nella narrazione prevalente non solo al Cremlino, l’Ucraina è «Piccola Russia», Kiev la culla dell’impero. Grado e modi dell’impegno americano e russo sono diversi, anche per il diverso rilievo che la disputa occupa nelle rispettive priorità geopolitiche.

Gli Stati Uniti hanno aiutato politicamente e finanziariamente le opposizioni a Yanukovich, prima e dopo Majdan, anche attraverso i servizi di intelligence e le fondazioni para-pubbliche che si sono impegnate a formare i quadri del futuro Stato ucraino finalmente emancipato da Mosca e, forse, inserito nello spazio euro-atlantico. Alcuni hanno visto la mano dei servizi occidentali – americani, inglesi e di alcuni Paesi dell’Europa nord-orientale – anche dietro i gruppi armati, molto bene addestrati, che hanno dato il colpo di grazia a Yanukovich, spingendolo a una fuga ingloriosa che ha fatto infuriare Putin, accortosi troppo tardi di aver puntato sul cavallo sbagliato. Per Washington, si trattava soprattutto di dare a Mosca un segnale chiaro: la Russia si era troppo esposta e con troppo successo sulla scena mondiale – il caso della Siria valga per tutti – dimenticando di essere, nelle parole di Obama, «solo una potenza regionale». Ben più massiccio e strutturato l’impegno di Putin in Ucraina. Le forze speciali che quasi senza colpo ferire

hanno assicurato la presa della Crimea erano senza mostrine e con il volto coperto. Non ci voleva molto a indovinare quello che poi ammetterà lo stesso Putin: quegli uomini super-efficienti non erano volontari locali, ma soldati russi, parte del contingente stanziato nelle basi della Flotta del Mar Nero. Così come non occorre grande fantasia per intuire che alcuni degli uomini armati che hanno occupato edifici pubblici in tutto il Donbas – il bacino industriale dell’Ucraina «russa» – non sono volontari locali ma militari agli ordini del Cremlino. Alcuni dei quali infiltrati in ciò che rimane – molto poco – delle Forze armate di Kiev. L’impressione è che dopo la fine dell’Unione Sovietica alcune unità dell’Armata Rossa abbiano mantenuto qualche forma di esistenza clandestina. Soldati e soprattutto ufficiali formalmente appartenenti agli eserciti dei nuovi Paesi post-sovietici hanno segretamente coltivato i loro antichi legami e sono rimasti fedeli alla causa comune. Interessanti e rivelatrici, in questo senso, le dichiarazioni di Viace-

slav Ponomariov, sindaco e capo dei separatisti della città ribelle di Slavjansk, all’agenzia russa Ria-Novosti: «I miei commilitoni della milizia territoriale non sono soldati russi, ma vecchi camerati venuti in mio aiuto». Truppe speciali, con le quali Ponomariov ha compiuto diverse imprese prima dello scioglimento dell’Urss, ma che sono rimaste solidali e ora combattono di nuovo insieme per recuperare l’Ucraina alla madre Russia: «Questi camerati provengono non solo dalla Russia, ma anche dalla Moldova, dal Kazakistan, dall’Ucraina». A questo riguardo, giova ricordare che la repubblica separatista della Transnistria, che si è staccata dalla Moldova subito dopo il crollo dell’Urss, si è stabilizzata nel 1992 come entità autonoma grazie alla 14a armata del generale Lebed. Ancora oggi, alcuni reduci di questa unità collaborano a garantire la sicurezza della Transnistria, trasformata in una fiorente piattaforma di ogni genere di traffici. Ci sono tante Transnistrie nel futuro delle Ucraine?


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Politica e Economia

Il pascolo recintato I cattivi della rete Nato come uno luogo libero a disposizione di tutti, Internet è oggi un grande spazio commerciale,

mentre le tecnologie digitali creano nuove forme di controllo degli individui, o li sostituiscono – Terza parte Federico Rampini La «common land», terra di pascolo comune, era un bene pubblico a disposizione di tutti i contadini nell’Inghilterra del Medioevo. A partire dal XVI secolo, e con un crescendo che culminò tra il 1760 e il 1820, il movimento di «enclosure» sequestrò gran parte di quelle terre a beneficio di proprietari privati. Con due conseguenze rilevanti. Da una parte consentì un aumento di produttività dell’agricoltura, un’accumulazione primitiva di capitale a vantaggio di grandi proprietà terriere. D’altra parte si accelerò un impoverimento di masse contadine. Non potendo più accedere alle terre comuni per il pascolo delle loro piccole greggi, molti contadini furono costretti a lasciare i campi e a cercare lavoro in città: Londra, Manchester, Liverpool, Glasgow, Cardiff, York. Nacque così il primo proletariato industriale. Il fenomeno della «enclosure», l’appropriazione privata di un bene pubblico all’origine dell’accumulazione capitalistica, è stato ampiamente studiato dagli storici e dagli economisti come uno dei momenti chiave nella Rivoluzione industriale inglese. «Enclosure» letteralmente designava la chiusura: cioè la costruzione di siepi e muri divisori che creavano delle frontiere, delimitavano la proprietà privata, al posto di quelli che erano stati degli spazi aperti a tutti. Internet nacque come una «common land». Se risaliamo alle origini, era radicata l’idea di un bene pubblico, uno spazio aperto, un moltiplicatore di libertà, un livellatore delle opportunità. Tre protagonisti simbolici ce lo ricordano. Tim Berners-Lee, lo scienziato britannico che fu il principale ideatore del World Wide Web, la rete, rifiutò caparbiamente di brevettare la sua invenzione a fini di profitto privato (rifiutò anche di diventare una star, di stare al gioco del celebrity-system). Il movimento Open Source, ha favorito la creazione di software e codici informatici aperti all’accesso universale, gratuiti, non imprigionati dentro copyright privati a beneficio di questa o quella azienda. Wikipedia, l’enciclopedia online, è stata il risultato di uno sforzo collettivo, prevalentemente volontario e gratuito, per diffondere la conoscenza a vantaggio di tutti.

Hannah Kuchler: «Abbiamo gioiosamente consegnato delle risorse comuni ad aziende private, sottovalutando l’invasione commerciale delle nostre vite» Tim Berners-Lee è vivo e vegeto (ha solo… un anno più di me), l’Open Source e Wikipedia esistono ancora. Ma sono ancora questi tre i soggetti che «definiscono» l’epoca in cui viviamo? Si può dire che la Rete del XXI secolo riflette i loro valori? Oggi si stima che un quarto di tutto il traffico di Internet nel Nordamerica è «catturato» da Google. Un abitante ogni sette del pianeta è su Facebook. Ogni sera il 40% della banda larga disponibile negli Stati Uniti viene occupato da Netflix, leader nel videostreaming, che fornisce ai telespettatori film e serie televisive a domicilio, ovviamente a pagamento. Le praterie sterminate di Internet sono state oggetto di un’appropriazione, di una «enclosure». La mia collega Hannah Kuchler, corrispondente del «Financial Times» a San Francisco, la descrive in questi termini che rievocano inconsapevolmen-

Un magazzino-deposito di Amazon in Germania: la società non esclude di sostituire il personale di queste strutture con dei robot-commessi. (Keystone)

te proprio la fine della «common land»: «Abbiamo gioiosamente consegnato quelle che erano delle risorse comuni ad aziende private, sottovalutando l’invasione commerciale delle nostre vite. Invece della piazza cittadina abbiamo Twitter. Invece della biblioteca comunale abbiamo Google. Invece dell’album fotografico di famiglia abbiamo Facebook». Diversi autori sono d’accordo su questo punto. Jaron Lanier sostiene che le tendenze monopolistiche dell’economia digitale rafforzano le strutture del potere capitalistico anziché rimetterle in questione. Astra Taylor denuncia il fatto che viviamo in un mondo «dove tutto ci è diventato accessibile, individualmente, a patto però che accettiamo di passare attraverso i grandi gruppi che controllano la Rete». Evgeny Morozov ammonisce che le tecnologie digitali non sono di per sé progressiste o reazionarie, libertarie o autoritarie: tutti possono usarle, coloro che combattono le dittature o quelli che sorvegliano i cittadini nei regimi dittatoriali. Un vezzo delle élite intellettuali, che s’innamorano delle innovazioni tanto più quando non le capiscono, è il feticismo delle tecnologie. Tanti commentatori occidentali si sono innamorati della «rivoluzione fatta da Twitter e Facebook», inneggiando alla primavera del Cairo come se fosse stata una felice creatura generata in laboratorio dalla Silicon Valley, con tanti social network e una spruzzatina di valori universali della Rivoluzione francese. Salvo poi accorgersi che gli stessi social network possono essere indifferentemente usati a scopi di spionaggio, sorveglianza, repressione. Le tecnologie sono sempre state così. L’invenzione del telegrafo potè aiutare Lenin a diffondere il Verbo della rivoluzione bolscevica, ma sapevano usarlo anche i servizi segreti dello Zar. La radio la usò molto abilmente Franklin Roosevelt per propagandare il suo «New Deal» progressista, ma la padroneggiavano anche Mussolini e Hitler. Noi non viviamo al Cairo né a Teheran, né a Mosca né a Pechino, per

noi gli aspetti più immediatamente pericolosi e alienanti della Rete sono altri. Uno di cui non si parla abbastanza è il modo in cui cambia il controllo del nostro lavoro quotidiano. Troppo spesso delle tecnologie digitali si discute l’aspetto che riguarda il nostro tempo libero, la nostra socialità, il modo di comunicare e gestire relazioni con gli amici. Ma prima di andare a casa e tuffarci in Facebook molti di noi passano una giornata lavorativa in un ambiente che è stato completamente ridisegnato dalle tecnologie informatiche. Con quali conseguenze? Il potenziale liberatorio delle tecnologie digitali è stato rovesciato nel suo esatto contrario in molte applicazioni «rivoluzionarie» di queste tecnologie. Pensiamo a come sta cambiando l’organizzazione delle aziende, il controllo manageriale. Uno degli studiosi più lucidi in questo campo è l’americano Simon Head. Già autore di The New Ruthless Economy nel 2003, più di recente ha pubblicato Mindless il cui sotto-titolo vale la pena di essere tradotto in italiano: «Come le macchine sempre più intelligenti generano esseri umani più stupidi». Nello studio del 2003 era partito dai call-center, analizzandoli come un esperimento su vasta scala per organizzare i dipendenti alla stregua di robot, imponendo agli operatori telefonici di seguire in modo disciplinato, senza modifiche e senza iniziative personali, il copione dettatogli dai computer. Nel suo studio più recente Head osserva che dopo l’industria manifatturiera e dopo i call-center i Computer Business Systems hanno invaso quasi tutti i servizi. I network di computer e il loro software fanno il «micro-management» cioè dettano e poi controllano le operazioni più minute dei dipendenti. È la nuova fase del «management digitale», che esautora da ogni iniziativa anche dei manager di medio livello. Negli uffici del personale e delle risorse umane, per esempio, gli stessi dirigenti sono sottoposti a un monitoraggio «quantificato» del loro lavoro e della performance che riescono a «estrarre» dai propri subordinati. Perfino un mon-

do ad alto contenuto culturale, cioè la scuola, in molti Paesi sta seguendo la stessa evoluzione: qui in America per esempio gli esami sono tutti test a risposta multipla, programmati per essere letti e valutati da software informatici; i professori vengono anch’essi valutati a fine anno ed eventualmente premiati in base a metodi quantitativi gestiti da software informatici. Un tempo era la condizione tipica dell’operaio metalmeccanico alla catena di montaggio, quella di essere «misurato» costantemente sulle sue prestazioni: il povero Charlot che finisce nell’ingranaggio in Tempi moderni, o a cottimo interpretato da Gian Maria Volonté nel film La classe operaia va in paradiso di Elio Petri. Oggi il caso di Amazon ci dimostra che vasti settori dei servizi sono soggetti alla dittatura di metodi quantitativi. Amazon misura con una precisione ossessiva la velocità dei suoi dipendenti nello smaltire gli ordini dei clienti sul sito online. (La stessa Amazon non esclude peraltro di poter fare a meno, in futuro, del fattore umano: nel 2012 ha comprato la società Siva che produce robot-commessi per sostituire i dipendenti umani nei magazzinideposito da dove parte la merce; inoltre sperimenta i droni come sostituti dei fattorini FedEx per le consegne a domicilio). La dittatura del software sugli esseri umani si estende a professioni molto qualificate compresa quella dei medici, anch’essi sempre più spesso soggetti a «controllo digitale» sulle loro prestazioni (gli ospedali misurano la loro produttività, le assicurazioni misurano i loro costi, le case farmaceutiche misurano le loro ricette). «Sistemi informatici di controllo digitale penetrano nelle funzioni cognitive, in servizi che non hanno per oggetto dei beni di consumo: il trattamento dei malati, il rapporto professore-allievo, la decisione di assumere o licenziare un dipendente». La deriva che porta la Rete sempre più lontana dagli ideali libertari, egualitari e anti-mercenari dei suoi fondatori, si accompagna a un’ideologia privatistica che è un’impostura. La Silicon Valley oggi vive un’orgia di autocom-

piacimento per il suo dinamismo imprenditoriale, gli «spiriti animali» del suo capitalismo innovativo. Dimenticandosi quanto lo Stato abbia avuto un ruolo decisivo, trainante, insostituibile. E non solo nella genesi di Internet, che non esisterebbe nella sua forma attuale senza l’iniziativa originaria che fece capo al ministero della Difesa americano. Ma il ruolo dello Stato è andato ben oltre. Una ricercatrice americana, Mariana Mazzucato, ha dimostrato che Steve Jobs ha potuto sviluppare gli iPod, iPhone e iPad grazie a ricerche finanziate dal settore pubblico. Tutta la tecnologia «touch-screen» – quella per cui diamo i comandi agli smartphone e ai tablet sfiorando lo schermo con le dita – è nata in laboratori pubblici. È una storia che si ripete dalle origini della Silicon Valley: che esiste perché nella seconda guerra mondiale l’America spostò in California una parte delle sue risorse di ricerca scientifica a scopi bellici (il primo avversario da sconfiggere era il Giappone, nel Pacifico). Quel che è vero per l’elettronica, l’informatica e Internet, è altrettanto valido nel campo delle biotecnologie, altra industria portante della Silicon Valley. Nell’èra più recente, dal 1993 al 2004, il 75% delle scoperte più innovative è stato generato nei laboratori del National Institutes of Health sotto gestione federale, non nelle aziende biotech private. Eppure le risorse per la ricerca di base si riducono anche in America, perché il privato prevale sul pubblico. Quanta ricerca «pura» sta finanziando Facebook, al servizio dell’innovazione? Con una valutazione superiore ai 100 miliardi, Facebook può permettersi di staccare un assegno da 19 miliardi per una singola acquisizione di una piccola startup come WhatsApp. Quanta ricerca si sarebbe potuto finanziare con quei 19 miliardi? La retorica dei giganti della Rete, come Google e Apple, Facebook e Amazon, esalta la loro funzione innovativa. Nella realtà questi gruppi capitalistici si sono appropriati a fini di profitto anche dei «terreni di pascolo comune» che sono gli investimenti statali per la ricerca.


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Politica e Economia

Un’innocenza mai concessa Società In tutta la Svizzera si parla sempre più del triste fenomeno degli affidamenti coatti: i cosiddetti Verdingkinder

chiedono di potere elaborare pubblicamente quanto accaduto durante la loro infanzia – Prima parte

Il tema che alle nostre latitudini sembra una bomba esplosa da poco, in realtà dall’altra parte del Gottardo è oggetto di accese discussioni ormai da anni. I cosiddetti Verdingkinder (traducibile in «bambini affidati in modo coatto»), ossia i bambini che lo Stato sottraeva a famiglie considerate inabili all’educazione dei propri figli e metteva in istituti o in fattoria a lavorare, sono usciti allo scoperto circa un decennio fa, rivelando il proprio oscuro passato in libri, associazioni e non da ultimo grazie al film di Markus Imboden Der Verdingbub (2011). La tavola rotonda (runder Tisch) istituita nel 2013 da Simonetta Sommaruga intorno alla quale vittime e attuali esponenti politici si incontrano regolarmente, trova sempre più spesso le prime pagine di quotidiani e trasmissioni televisive, ed è recentissima la notizia della costituzione di un fondo – come si evince dal sito del Delegato per le vittime di misure coercitive a scopo assistenziale (www.fuersorgerischezwangsmassnahmen.ch/it) – da parte della Catena della Solidarietà: «La tavola rotonda conta di poter disporre di 7 o 8 milioni di franchi. La Conferenza delle direttrici e dei direttori cantonali delle opere sociali, d’intesa con la Conferenza dei direttori cantonali competenti in materia di lotterie, ha sollecitato i Cantoni a versare un importo complessivo pari a 5 milioni di franchi». Ad aumentare il grado di sensibilizzazione e di conoscenza di questo fenomeno da parte della cittadinanza ha probabilmente contribuito anche la mostra itinerante Verdingkinder reden, realizzata nel 2009 e ora approdata al Museo Ballenberg, che si avvale di supporti sonori, visivi e fotografici (in gran parte provenienti dal ricchissimo e impressionante archivio del fotografo Paul Senn, vita natural durante sulle tracce dei più deboli). Da noi contattati, gli organizzatori della mostra ci hanno illustrato i motivi per cui manchi una versione in lingua italiana: purtroppo non si è ancora in possesso delle testimonianze delle vittime ticinesi, probabilmente restie a farsi avanti. Una delle caratteristiche di chi in gioventù ha subito abusi di potere e sessuali è un senso di profonda vergogna accompagnato a un ingiustificato quanto radicato senso di colpa. Ma cosa è successo esattamente nel nostro Paese perché si arrivasse infine a una situazione a tratti penalmente rilevante a scapito delle fasce più deboli della società, ossia i bambini? Quanto accaduto non fa rabbrividire tanto per il fenomeno in sé, rintracciabile nelle società passate (e purtroppo spesso anche presenti) di gran parte dei Paesi del mondo, quanto più la durata: solo negli anni Settanta in Svizzera si cominciò infatti a puntare il dito su una modalità di affidamento che usurpava i diritti più elementari dei cittadini. Per trovare delle conferme della portata di un fenomeno che ha caratterizzato i rapporti all’interno della società nel passato, non è necessario attraversare la Manica per scomodare Charles Dickens, narratore che a più riprese ha illustrato le misere condizioni dei bambini. Sarebbe sufficiente recuperare un significativo passaggio dello scrittore svizzero Jeremias Gotthelf, apparso nella sua autobiografia Bauernspiegel del 1837: «Era quasi come un giorno di mercato. Si andava in giro guardando dalla testa ai piedi i bambini, i quali, dal canto loro, se ne stavano in piedi piangenti o stupiti, si guardavano i loro fagotti, li si apriva e si tastavano i vestitini a uno a uno, informandosi sul prezzo, proprio come al mercato. Un padre che si portava appresso quattro bambini, attirava l’attenzione su di loro, chiamando chiun-

Ragazzini nell’istituto maschile di Oberbipp, Canton Berna, 1944 (Foto: Paul Senn, FFV, Kunstmuseum Bern, Dep GKS. © GKS)

que passasse, per imporgli l’uno e l’altro dei bambini; era peggio della donna del mercato attaccata alla sua cesta piena di roba. La maggior parte della gente era raccolta attorno a un uomo che gridava e bestemmiava e a un bambino, che spezzava il cuore, per come urlava. Erano un padre e suo figlio. Il comune l’aveva dato in affidamento, il padre lo voleva tenere, e il bambino continuava a gridare: Per l’amore di Dio, tutto, ma non da mio padre; mi picchia tutti i giorni e non mi dà da mangiare!». Con l’arrivo del nuovo secolo lo status del bambino subì un importante cambiamento: non fu più considerato un piccolo adulto, ma un essere umano a sé stante con bisogni particolari (pensiamo solo che nel canton Berna l’«Armengesetz» – legge dei poveri – era in vigore dal 1857). Lo stato di diritto cominciò dunque ad occuparsi maggiormente dell’affidamento extrafamigliare, con modalità però spesso assai discutibili: il cosiddetto «ispettore dei poveri» godeva di ampia libertà nel valutare la situazione delle famiglie e disponeva di una base legale che gli permetteva di sottrarre i minori per collocarli in istituto o in fattoria come forza lavoro. Spesso però l’interesse di questi ispettori alla sorte effettiva del bambino era estremamente ridotto, fatto che ha portato in molti casi proprio a quegli abusi di potere e sessuali che oggi vengono denunciati. Cosa abbia contribuito a creare una condizione protrattasi per decenni e che ha colpito duramente le fasce più deboli della popolazione, è imputabile a diversi fattori. Da una parte vi fu l’inclusione dei bambini all’interno del processo produttivo, una necessità determinata dall’immensa povertà che caratterizzò la prima metà del ’900, acuitasi con la Seconda guerra mondiale. Lo Stato si assunse dunque la responsabilità di collocare in istituto e poi in fattoria i bambini che provenivano da famiglie già di partenza deboli, ad esempio quelle monoparentali o in cui il padre era alcolista. Va ricordato, come ben illustra Roland M. Begert, autore di Lange Jahre fremd (di cui torneremo a occuparci nel prossimo numero), cresciuto in istituto e in affidamento, poi diventato insegnante di liceo, che la povertà era spesso considerata una «piaga» sociale di cui le vittime erano i diretti responsabili. Non si deve inoltre dimenticare che la collaborazione fra chi si occupava degli affidamenti e la politica agraria era molto stretta: da una parte si mandavano spesso i ragazzi a lavorare in fattoria, dunque in un ambiente consi-

derato sano e salutare, dall’altra parte i contadini erano più che felici di potere contare su forza lavoro gratuita guadagnando al contempo qualcosa dallo Stato (negli anni Cinquanta si parla di una somma di 30 franchi al mese). Quello che avveniva in realtà è un’altra storia,

e alla fine a fare la differenza per i bambini intrappolati in questo meccanismo burocratico erano solo e unicamente il buon cuore e l’intelligenza delle famiglie affidatarie. Come ha poi dimostrato la realtà e continuano a ricordarci i racconti di coloro che, ora anziani, hanno

incontrato questo destino, spesso a farla da padrone era una grande ignoranza di fondo e il desiderio di mantenere in vita delle piccole aziende agricole che altrimenti avrebbero chiuso i battenti, generando altra povertà e finendo per gravare sulla società tutta.

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Simona Sala


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Politica e Economia

Politica e Economia

Storie di donne e di uomini violenti Fotoreportage Viaggio attraverso l’Ecuador do ve il 70 per cento delle donne subisce abusi e maltrattamenti

Ettore Mo, foto Luigi Baldelli In Ecuador circa il 70 per cento delle donne è vittima di violenze e abusi sessuali domestici. Dato allarmante di cui ho trovato parziale conferma durante il mio «pellegrinaggio» nel Paese, rastrellando penose e sofferte testimonianze. Sono loro stesse a raccontare succintamente la loro storia, a cominciare da Maria Juana Morales, 48 anni, da 27 presidente dell’Unorcac, Movimento al vertice della lotta per l’emancipazione femminile. Primo obiettivo il diritto alle donne di frequentare le scuole, dalle elementari all’università, fino a vent’anni fa riservato ai maschi. «Da bambina – ricorda – pascolavo le capre. Eravamo poverissimi. Ma il mio papà è riuscito lo stesso a mandarmi a scuola. Pensate all’orrore dei maschi quando, a 18 anni, cominciai ad occuparmi di problemi quali la malnutrizione e la gravidanza precoce. Corsi poi il rischio di una totale emarginazione intraprendendo i corsi di educazione sessuale. Insomma, una strega da bruciare sul rogo». Un senso di profonda solitudine bussa anche all’uscio di Elba Josefine Tobango, sposata ma che si sente «perennemen-

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te vedova» col marito che lavora in città e rientra tardi la sera, solo per «dormire e russare». Dal lavoro nei campi racimola un mensile di circa 200 dollari e dispone inoltre di un piccolo, rudimentale forno dove cuoce il pane, destinato in gran parte alle scuole e alla sparuta comunità di Quicocha. Elba è pure orgogliosa del suo giardino, che, al momento giusto, si popola anche di rose: «purtroppo – lamenta – è da mesi che non piove…». E con lo sguardo rivolto al cielo e un rapido segno della croce propiziatorio della mano implora qualche secchiata d’acqua piovana. «Pero de prisa, por favor», ma di fretta per cortesia, per non lasciare morire i semi. Ora è il momento di Ines Flores, altra malmaritata, angelo non rassegnato del focolare. Il marito fa il muratore alle dipendenze del comune di Cotacachi, ma quello – sottolinea la signora - «no es un trabajo», «non è un lavoro», dal momento che «tutti sappiamo come funzionano gli enti pubblici». Tuttavia non si lagna oltre il necessario: «La nostra vita – esordisce – non è allegra: si mangia poco e male e niente extra per lo svago. Da queste parti è sempre l’uomo che comanda. Ma a casa nostra

non è così. Ce l’ho io la frusta in mano. Sono io a dirgli ciò che deve e non deve fare. A pranzo è quasi sempre fuori. Ma la sera, dopo cena, tocca a lui lavare i piatti». Nella visita a Cotacachi, non si può ignorare la fabbrica dei cappelli: un locale angusto come la cella di un chiostro dove sette companeras trascorrono le giornate in preghiera e lavoro, confezionando a mano sombreros di tipica foggia andina che vengono a costare dai 12 ai 15 dollari. Ma ce ne vogliono almeno 70 per assicurarsene uno di lusso. E comunque, fa notare amabilmente Celia Maria Orbes, una delle donne della cooperativa, non ce n’è uno sugli scaffali in grado di adattarsi alla mia cabeza troppo piccola. In via d’estinzione, forse, l’arcana nozione dell’uomo-marito-padre-padrone, mentre, negli anni, è stato gradualmente indebolito il fronte coriaceo della discriminazione antifemminista. «Ho 50 anni, un marito e 8 figli – dice la signora Maria Eloisa – sono sposata da 29 anni e non sono mai rimasta vedova: nel senso almeno che lui non si è mai messo con un’altra, come spesso avviene da queste parti. Gli uomini adulti sono in gran parte favorevoli all’emancipazione femminile, mentre i giovani diventano sempre

più “machisti” e bellicosi, specie la notte, quando sono sbronzi». Per Laura Bonilla, donna «moderna», non è più tempo di «barricate fra i due sessi». È venuto il momento di lanciare un ponte fra le due sponde. Ha avuto il coraggio di «invadere il terreno maschile», andando a vendere i suoi prodotti al Mercato del Venerdì, fino a ieri riservato ai maschi. «Oggi il clima è diverso – afferma tranquillamente, senza ricorso alla retorica barricadera. Un tempo l’uomo stava all’aratro (la forza fisica) e la donna seminava (fragilità femminile). Ora noi facciamo l’una e l’altra cosa. Ma proprio per questo ci viene attribuita la responsabilità di aver abbandonato i valori tradizionali, la nostra dignità». Con tanta buona volontà e pazienza Laura è pure riuscita a redimere e restituire alla società il marito, che, ubriaco fradicio, trascorreva spesso la notte sdraiato nell’immondizia. Il problema è più grave nelle zone agricole, dove il «machismo» è particolarmente aggressivo. Due anni or sono una donna si separò dal marito violento andando a convivere con un altro uomo, nella stessa Comunità: lui pochi giorni dopo venne brutalmente ammazzato dall’ex consorte. Tre bambini sono

rimasti orfani. «Chi paga le spese sono sempre i figli», titolò un giornale la breve cronaca dell’evento. Altro personaggio di rilievo nell’attualità politico-sociale dell’Ecuador è Digma Taya, che esercita un ruolo importante nella Comunità di Alambuela, essendo responsabile dell’intera produzione di amaranto e quinoa del territorio. Al suo fianco una donna molto energica – Maria Carmen Soledad – che si professa cattolica e non diserta mai la chiesa di domenica. Ma non ha in gran simpatia il clero: «Al giorno d’oggi – attacca subito sfoderando antichi risentimenti – i preti si fanno pagare per tutto, battesimi, funerali, cresime e funzioni varie e poiché non lavorano dobbiamo pensarci noi a mantenerli». Anche sui Sacramenti ha le sue riserve: «Non sono di quelle che vanno a confessarsi in chiesa – ammette senza esitazione. Insieme a mio marito, saliamo talvolta verso la cima del vulcano che adesso vedi davanti a te, incappucciato di nuvole, e lì, nel silenzio, chiedo perdono a Dio dei miei peccati». Il Ministero della Donna, inaugurato recentemente a Quito, ha avuto vita breve, mentre il Codice penale entrato

in vigore per bloccare l’ondata delle violenze domestiche ha fornito finora scarsi risultati. Pare non vi sia dubbio che la ragione principale di tanta lentezza sia dovuta alla paura delle donne nel denunciare i misfatti subìti. Alla fine, in un conflitto come questo, dove il crimine è sempre in agguato, il timore di ulteriori vendette e massacri prevale su tutto. Trascorro mezz’ora sotto il portico di una casa, dove quattro donne anziane stanno pelando un sacco di patate: allegre quanto basta per rituffarsi con la memoria nel passato remoto, quando, la domenica, andavano a ballare di nascosto nel cortile dell’osteria. Adesso piove che Dio la manda e la sola musica è quella della pioggia sui tetti. Luigi cattura con l’obiettivo il sorriso delle donne, lentamente, una dopo l’altra. Ma è ormai ora di smobilitare. E c’è subito chi s’affretta a ricordarci che, oltre all’amaranto e alla quinoa, i grani andini, l’Ecuador produce anche un’enorme quantità di fiori, al punto da aggiudicarsi il primato mondiale nell’esportazione delle rose. Per cui, il solo rischio che corre chi vi metta piede, è di naufragare in un mare di profumo.


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Holcim-Lafarge, gigante del cemento Fusioni Con i 427 milioni di tonnellate prodotti all’anno dal nuovo colosso europeo verrà superato per la prima volta

il maggior produttore mondiale cinese, Anhui Conch

Ignazio Bonoli Non ha destato – per il momento – grandi reazioni l’annuncio fatto lo scorso 7 aprile della fusione fra i due grandi colossi europei del cemento, la francese Lafarge e la svizzera Holcim. Anche la borsa di Zurigo ha reagito in modo contenuto, provocando soltanto un avvicinamento delle quotazioni delle azioni delle due società. La Lafarge era infatti quotata un po’ meglio della Holcim, e ha così perso l’1,4% del valore. Alla chiusura della borsa i due titoli erano circa alla pari, giustificando così l’annuncio di uno scambio delle azioni 1 a 1. La conclusione dell’affare è prevista a fine mese in occasione dell’assemblea generale di Holcim. Nasce così un gruppo capace di produrre 427 milioni di tonnellate di cemento all’anno, superando per la prima volta il maggiore produttore mondiale: il cinese Anhui Conch (231 milioni). Il mercato mondiale del cemento consta di 4500 milioni di tonnellate vendute all’anno, di cui 3000 milioni in Cina e 300 milioni in India. Tutti gli altri Paesi non raggiungono i 100 milioni di tonnellate. Tra gli altri produttori, i maggiori sono il messicano Cemex (94 milioni) e il tedesco Heidelberg – Cement (91 milioni). Questo mercato è molto frammentato e, nonostante le cifre enormi, il nuovo gruppo Lafarge – Holcim copre soltanto il 9% del mercato. Ciò dipende dal fatto che il cemen-

to è un prodotto soprattutto locale e difficilmente trasportabile. Si valuta una distanza massima di 300 chilometri tra produzione e consumo. Dipende inoltre molto dalla congiuntura nel settore delle costruzioni. L’indebolimento subito in Europa ha provocato sovracapacità produttive nei cementifici, costringendoli a cercare sbocchi nei Paesi emergenti, soprattutto in Asia, dove si registra attualmente il maggior consumo. Anche questa particolare situazione ha spinto i due maggiori gruppi europei a cercare una stretta collaborazione per affrontare la concorrenza su questi nuovi mercati. Va anche detto che Lafarge è attiva soprattutto in Africa, mentre Holcim occupa buone posizioni in Sudamerica, Stati Uniti e Nordeuropa. Ovviamente una delle prime decisioni della nuova direzione (l’inizio dell’attività del Gruppo come tale è prevista nel primo semestre 2015) sarà quello di eliminare i doppioni e le sovrapposizioni. Operazione che non mancherà di sollevare qualche malumore in alcuni Paesi. Ma questo è un aspetto minore della faccenda. Ben più importante appaiono i problemi di fronte alle varie autorità nazionali della concorrenza. In proposito, i rappresentanti del nuovo gruppo hanno già precisato che si tratta di una quindicina di Paesi nei quali le autorità di sorveglianza della concorrenza vorranno muoversi. Per non rimanere passivi di fronte a queste

eventualità, i dirigenti hanno già preparato un piano che prevede la cessione di attivi o rispettivamente di intere filiali del gruppo. Secondo i loro calcoli, si tratterà di un potenziale di cifra d’affari di circa 6 miliardi di franchi con un potenziale utile operativo di 1 miliardo. Si tratta comunque di cifre di una certa importanza se rapportate alla cifra d’affari annua del gruppo stimata in quasi quaranta miliardi di franchi con 7,8 miliardi di utile lordo. Circa i due terzi di queste misure verranno attuate in Europa. Le due società sono attualmente molto attive in Francia, Romania e Serbia. Le relative operazioni avranno quindi lo scopo di rinforzare le posizioni in Europa, tuttora considerata uno dei mercati principali. Le autorità di sorveglianza della concorrenza nell’Unione Europea hanno già fatto sapere di voler seguire da vicino questa importante operazione. Il procedimento per le necessarie autorizzazioni potrebbe durare fine a un anno. Il nuovo gruppo conserverà la sua sede giuridica in Svizzera. La Commissione elvetica della concorrenza ha però comunicato di non voler esaminare a fondo la questione. Il gruppo Lafarge realizza infatti in Svizzera una cifra d’affari molto contenuta, per cui le eventuali ripercussioni sul mercato interno elvetico sono molto ridotte. La Holcim, in oltre 100 anni, ha scritto parte della storia industriale svizzera. Nata nel 1912 come Holder-

Da sinistra, Rolf Soiron e Bruno Lafont, CEO di Holcim e Lafarge. (Keystone)

bank, produttrice del celebre Portland, già nel 1914 si fondeva con la Cementfabrik Rüthi, segnando l’inizio della dinastia Schmidheiny, ed acquisiva presto partecipazioni in Francia e Belgio, ma poi anche in Libano, Egitto e Sudafrica. Dopo la seconda guerra mondiale penetrò nel mercato sudamericano. Dal 1978 venne gestita dalla terza generazione Schmidheiny e, nel 2001, cambiò la ragione sociale in Holcim. Thomas Schmidheiny lasciò la presidenza, pur conservando il 20% del capitale. Anche la Lafarge ha una lunga storia. Nata nel 1833 come impresa di

estrazione, partecipò alla costruzione del canale di Suez con 200’000 tonnellate di calcare e da qui iniziò la sua espansione in Africa. Dopo la seconda guerra mondiale, ampliò le sue attività nel Nord e Sudamerica. Nel 1999, acquistò il settore cemento del gruppo indiano Tata e nel 2008 quello della Orascom, di proprietà del fratello del Sawiris che sta costruendo la stazione turistica di Andermatt. Sawiris possiede il 14% del capitale e il Gruppo Bruxelles Lambert il 21%. Tutte queste partecipazioni verranno dimezzate nel nuovo gruppo. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la piazza di Angelo Rossi La classe media che frana Dal profilo dei dibattiti ideologici, il secolo Ventesimo è stato quello nel quale si è sviluppata ed esaurita la teoria della «lotta di classe» di ispirazione marxista. Legata alle caratteristiche di un’economia industrializzata, nella quale avrebbe dovuto affermarsi la legge della concentrazione del capitale, questa teoria anticipava l’arricchimento estremo di una piccola minoranza di proprietari di mezzi di produzione e l’impoverimento della classe operaia e dei proletari dell’armata dei lavoratori di riserva. La questione sociale che ne derivava fu al centro delle discussioni politiche. C’era chi era convinto che solo una rivoluzione avrebbe potuto risolvere questa questione. Altri invece, in particolare i partiti socialdemocratici dell’Europa Occidentale, pensavano che le istituzioni dello stato sociale avrebbero potuto, se non eliminare, almeno attenuare alquanto la tendenza

all’impoverimento. Poi, nel secondo dopoguerra mondiale, guidato dagli investimenti nelle infrastrutture che gli Stati europei dovettero fare per la ricostruzione, si aprì un lungo periodo di espansione economica che sembrò mettere la parola fine alla questione sociale. La struttura di produzione cambiò sostanzialmente, terziarizzandosi. Come avvertiva il titolo del film di Petri, uscito nel 1971, la classe operaia se ne andò in paradiso, la quota dei poveri si ridusse e, nelle società dell’Europa occidentale, si registrò un’estensione senza precedenti delle classi medie. Vennero però in seguito le trasformazioni degli anni Settanta e Ottanta, dal ritorno ai cambi flessibili alla globalizzazione, dall’aumento dei prezzi dell’energia e dalla deindustrializzazione alla rivolta dei contribuenti e allo Stato snello, a cambiare sostanzialmente le

tendenze di sviluppo dell’economia e della società dell’Europa occidentale, nonché l’importanza della funzione ridistributrice dello Stato. I tassi di crescita del Pil si ridussero della metà, mentre, in seguito alla perdita di importanza del settore industriale, l’ineguaglianza nelle distribuzioni del reddito e del patrimonio ricominciò ad aumentare. Anche all’interno dei singoli Paesi le disparità di reddito tra i ceti e tra le regioni mostrarono di nuovo una tendenza ad aumentare. La Svizzera sembrerebbe, per il momento, essere stata preservata da questa tendenza al riacutizzarsi dell’ingiustizia sociale. Anno dopo anno, i dati che ci fornisce l’Ufficio federale di statistica ci dicono che le differenze di reddito tra i più ricchi, le classi medie e i più poveri sono restate quelle che erano. Il dibattito politico che, molte volte, si muove anche da

fenomeni che non esistono o, per essere più generosi, dimostra di avere maggiore sensibilità per le condizioni sociali di quanto non abbiano purtroppo le cifre delle statistiche, ci dice che c’è qualcosa che non va, nell’evoluzione della distribuzione del reddito e del patrimonio, anche in Svizzera. Se non fosse così non avremmo avuto la serie di iniziative popolari della destra e di altri movimenti con le quali si intende mettere un freno all’immigrazione e comunque proteggere la produzione nazionale e l’occupazione degli svizzeri. Se non fosse così non avremmo avuto la serie di iniziative della sinistra e di altri movimenti con le quali si cerca di attribuire allo Stato nuovi poteri regolatori in materia di distribuzione del reddito e della sostanza. Supponendo che le cifre sull’evoluzione della distribuzione nel medio termine, proposte ogni anno dall’Ufficio federa-

le di statistica, siano attendibili, come si può riconciliare con il fatto statistico il sentimento che si diffonde sempre di più nella popolazione secondo cui l’ingiustizia sociale aumenta, con la conseguenza di portare alle iniziative protezionistiche della destra e a quelle della sinistra che vogliono l’intervento statale sui salari? La questione che poniamo è un po’ simile alla quadratura del cerchio. Ci sono però studi, fatti sul caso tedesco, che suggeriscono che la risposta potrebbe venire da un franamento delle classi medie. Mentre la distanza tra i più ricchi e i più poveri non aumenta, all’interno delle classi medie si è aperto un baratro, tra le classi medie superiori e quelle inferiori, che tende ad allargarsi sempre di più e che sarebbe all’origine e del protezionismo, e della richiesta che sia lo Stato a fissare il massimo e il minimo dei salari. Affaire à suivre!

palude. Il pantano, le sabbie mobili. I miei avversari non mi guardano con l’atteggiamento di chi dice: adesso ti affrontiamo e ti sconfiggiamo. Hanno piuttosto l’aria di dire: sì, sì, voglio vedere dove arrivi. È fondamentale avere il passo del maratoneta. La sfida non si chiude sul traguardo dei 100 metri;

si vince al chilometro 42. Di maratone ho una qualche esperienza. Non serve lo scatto bruciante. Se ti alimenti bene, se mantieni lo stesso passo, se eviti di innervosirti, arrivi. E io voglio arrivare». La percezione di Renzi è la stessa di molti cittadini italiani. Anche loro pensano la burocrazia e più in generale il sistema come una palude. L’Italia è un Paese fermo. L’ascensore sociale non funziona: si ereditano dai padri non soltanto il nome e i beni ma pure lo status e il mestiere. Le occasioni di crescita professionale e di espansione economica sono poche. La distanza tra la gente e le istituzioni, compresa ogni forma di rappresentanza dai sindacati ai media, non fa che crescere. Renzi si fa interprete di questo sentimento. La battaglia contro la burocrazia, contro gli stipendi pubblici, contro le auto blu, contro i privilegi di casta incrocia la sensibilità delle persone comuni. E i tagli alla difesa, a cominciare dai contestati aerei F35, tolgono un argomento polemico a Beppe Grillo. Confindustria non è entusiasta. Si aspettava molto di più di un taglio del

10% all’Irap, imposta che gli industriali detestano anche perché grava su tutte le imprese, pure su quelle che vanno male. L’ideale sarebbe che Renzi desse retta alla proposta di Riccardo Illy, l’imprenditore del caffè, già in politica con il centrosinistra: tagliare l’Ires, l’imposta sui redditi delle società, visto che a volte le imprese sono povere ma gli imprenditori sono ricchi. Tutto questo, ovviamente, non basta. L’Italia pagherà ancora un prezzo alto alla crisi, in particolare la manifattura a basso tasso tecnologico, che continuerà a essere trasferita all’estero o a chiudere. Il ritorno di alcune produzioni rappresenta un segnale in controtendenza, ma si tratta di produzioni ad alto contenuto tecnologico, che non creano molti posti di lavoro. La traversata del deserto insomma sarà lunga. Renzi può abbreviarla se riesce a restituire all’Italia un po’ di fiducia in se stessa e nell’avvenire. Il risultato delle prossime elezioni europee sarà un indicatore interessante: il distacco tra il Pd e Grillo farà capire se davvero i giovani, le donne, i ceti medi credono nel nuovo presidente del Consiglio.

in rima (un po’ sul tipo dei cantori di stornelli toscani), un tempo era anche uno dei più forbiti parlatori in gergo «larpa iudre», cioè del dialetto con l’ordine delle sillabe invertito. Come spiega bene Franco Lurà nel suo libro «Il dialetto del Mendrisiotto», già la denominazione «larpa iudre» riflette la sua caratteristica: è l’anagramma di «parlà» (parlare), mentre «iudre» è il dialetto «indrè» (indietro) con la sostituzione di «n» con «u» come spesso avviene in una rapida grafia in corsivo. Si ha così «parlà indré», cioè parlare all’incontrario o all’indietro. Sempre secondo il prof. Lurà l’origine di questo gergo di Mendrisio è incerta. Alcuni ritengono che sia stato adottato, se non inventato, dai sensali per rendere meno comprensibili a gente «di fuori» le loro contrattazioni. Una versione che si riallaccia ad altri gerghi in uso presso macellai, sellai ecc, in Francia e in Italia, senza dimenticare il dialetto

«rugin» dei magnani della Valcolla. Di sicuro c’è soltanto che il «larpa iudre» nel periodo fra le due guerre era molto in voga e che sino agli anni Sessanta non era difficile udire nelle osterie o nei grotti crocchi di persone che si cimentavano con il non facile impiego di questo dialetto, spesso anche per scambiare qualche galanteria o critica che non doveva essere afferrata o interpretata da estranei. Oggi invece, quel gergo sopravvive aggrappato a qualche bottiglia (la «tegliabu») di merlot con l’etichetta di «novi dal drumpa» (vino del padrone). Volete esercitarvi un po? Allora provate a cantare la versione «larpa iudre» de «La barchetta in mezzo al mare»: «La rchetaba in zome al rema / va retadi a ntassa éf / vedo av per ricareca / zome lochi di fecaa». L’ultima volta che l’ho fatto ero con il compianto Giampaolo Dossena, maestro di giochi di parole, felicissimo di scoprire il «larpa iudre» di Mendrisio.

In&outlet di Aldo Cazzullo Il maratoneta La politica economica di Matteo Renzi è diretta a trasmettere una scossa di energia al Paese. È evidente che la crisi italiana ha cause strutturali molto profonde, che non si risolvono mettendo ottanta euro nelle tasche delle famiglie impoverite dalla crisi. L’Italia cresce poco e male da oltre vent’anni. La crisi italiana non comincia con il crollo della Lehman Brothers, ma molto prima, nel 1992, con il trattato di Maastricht: quando il Paese si priva di una moneta debole, che sosteneva l’export e dava ossigeno al turismo, e della possibilità di una spesa pubblica fuori controllo; e si dota della moneta dei tedeschi. I mali dell’Italia sono legati al deficit di competitività delle sue imprese, a un mercato finanziario asfittico, ai costi eccessivi dell’energia, all’eccessiva dipendenza delle società dal credito bancario. Ma la crisi italiana è anche una crisi di fiducia. Per questo la scossa di Renzi non può che fare bene. Il presidente del Consiglio ha costruito la sua immagine politica tutto contro il vecchio sistema. Ora sta alzando il tiro. Non soltanto contro i partiti tradizionali, ma contro l’establishment:

a cominciare dalle banche, cui ha aumentato le tasse, e dai burocrati, cui ha diminuito gli stipendi. Dice Renzi che «in questo momento i miei avversari non stanno organizzando la linea Maginot. Non immagino un muro, una trincea dove loro stanno in difesa. Immagino di più una

Matteo Renzi tenta di restituire all’Italia la fiducia in se stessa. (Keystone)

Zig-Zag di Ovidio Biffi Parole adeguate e parole all’incontrario «È stato un piacere conversare con te». Sono immerso nella lettura di un giornale, in un minuscolo locale pubblico di via Peri a Lugano. Un signore anziano che sta uscendo, mi sfiora e non posso evitare di alzare lo sguardo. Lui saluta la barista ed è a questo punto che lei, quasi rincorrendolo con la voce mentre l’uomo già gli gira le spalle, gli dona il gratificante saluto riportato all’inizio. Lui si gira e la ringrazia con un «Anche per me». Ne desumo che il cliente conosca la donna e che quindi sia già abituato alla sua gentilezza. Forse anche al suo garbo o alla ricercatezza del suo eloquio, per me «eccezionale» in quel posto. Prima di ritornare alla lettura del giornale, dopo aver guardato un attimo la barista preparare le bibite di altri clienti seduti all’esterno, non posso fare a meno di riflettere su quel momento, su quello scambio di saluti. Penso che dovrei condividerlo, così mi

sforzo di fissarne il ricordo e di immaginare come riferirne. A frenarmi un po’ c’è la consapevolezza che in fondo si tratti di un solo vocabolo, notevole, ricercato, ma pur sempre uno solo. Insomma quasi mi convinco che sarà difficile andare oltre le poche righe per descrivere quello è stato solo un attimo di vita. Proprio questa parola, attimo, mi regala il ricordo di un piccolo brano, anch’esso meritevole di essere riproposto perché sempre di attualità, scritto da Romano Amerio: «Quando le nostre telefoniste alla nostra chiamata ci pregano di attendere un momento dicono: ˝Un attimino˝. Non sanno che così parlano greco e professano la dottrina del filosofo Democrito. Attimo è come atomo. In Democrito atomo è la particella della materia, mentre l’attimo è la più piccola e indivisibile particella del tempo». La citazione forse ha poco a che vedere con quel «è stato un piacere», ma forse

c’è una certa affinità fra l’«attimino» delle telefoniste e il «conversare» della barista! A pochi anni dal secolo di vita a Mendrisio si è spento Angelo Emilio Camponovo, meglio noto come «Pepet»: nel Magnifico Borgo, e più precisamente in una delle ultime case prima di arrivare a Campagna Adorna e Genestrerio, per tantissimi anni aveva avuto un’osteria e la gestione dell’alambicco più noto di tutto il Mendrisiotto. «Na’ a fa’ la grapa dal Pepet» era uno dei riti autunnali di contadini e vignaioli, a cui si aggiungevano anche tantissimi privati che dall’uva americana riuscivano a distillare grappa e fierezza. Del «Pepet» conservo un ricordo lontano ma dolce, un po’ com’era sempre la sua grappa. Per spiegarmi provo a dire «larpa iudre»: capite qualcosa? Niente, eh? E allora devo aggiungere che «ul Pepet», oltre che abile improvvisatore di versi



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Cultura e Spettacoli Il sacro a Padova Tutto ruota intorno al viaggio in una grande mostra di illustrazioni

Steps entra nel vivo Il più importante Festival della Danza del nostro Paese prende il via anche in Ticino, protagonisti saranno ballerini provenienti da tutto il mondo

Nell’imminenza di Cannes La kermesse francese non delude: presentati ottimi nomi a poche settimane dall’inizio

Ritorna Chiassoletteraria A colloquio con Benedicta Froelich, autrice di un libro su Lawrence d’Arabia pagina 34

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Pontormo e Rosso Mostre A Firenze e dintorni si celebra

l’arte di due grandi esponenti del 1500 Gianluigi Bellei C’era una volta il Manierismo. Un periodo storico dai connotati dispregiativi costruito intorno all’antinaturalismo, all’eccentricità e all’accademizzazione del primo Rinascimento. Storicamente ne facevano parte artisti diversissimi che solo recentemente hanno visto una rilettura del loro percorso in forma autonoma. Il primo che ha parlato di maniera moderna è stato Vasari, intendendo lo stile personale di Raffaello, Leonardo e Michelangelo. Gli ha associato categorie come la bellezza e la grazia. La pittura manierista, al contrario, era sino a qualche decennio fa sinonimo di spregiudicatezza formale, eclettismo, comportamenti deviati o ribelli. Già nel 1950 Paola Barocchi ha sostenuto però che il termine manierista, riferito al Rosso e al Pontormo, non ha alcuna validità teorica. Da queste premesse parte l’esposizione in corso a Palazzo Strozzi di Firenze curata da Carlo Falciani, docente di storia dell’arte, e Antonio Natali, direttore della Galleria degli Uffizi, dedicata appunto a Jacopo Carucci detto il Pontormo, nome derivato dal paese dove è nato vicino a Empoli, e a Giovan Battista di Jacopo detto il Rosso, probabilmente per via del colore dei capelli. Una mostra che mette in parallelo cronologico le opere dei due artisti per saggiarne appunto le divergenze. Ambedue nascono nello stesso anno, il 1493. Seguono una formazione simile sotto la guida di Andrea del Sarto di pochi anni più vecchio di loro. Ma poi le strade si dividono. Pontormo lavora prevalentemente per i Medici mentre Rosso Fiorentino per le famiglie di fede savonaroliana e repubblicana. Il primo non si sposta quasi mai da Firenze, mentre il secondo viaggia a lungo fra Piombino, Napoli, Volterra, Roma, Sansepolcro, Arezzo, Parigi e Fontainebleau. Maniacale e introverso l’uno; terribile e stravagante l’altro, anche per via dell’interesse verso la magia e la Cabala. Il primo disegna parecchio, Luigi Grassi lo pone fra i più straordinari disegnatori di tutto il Cinquecento, il secondo rarissimamente. Contrariamente a quello che si può pensare il Pontormo vive parcamente e in un’umile casa lontano dai fasti della corte medicea, mentre il Rosso, soprattutto nei suoi ultimi anni vissuti alla corte di Fontainebleau, si dà ai bagordi fra feste e banchetti, alla faccia di Savonarola. Le divergenze appaiono in ogni caso subito già dalla seconda sala dell’esposizione. Siamo verso il 1517 e il maestro Andrea del Sarto dipinge per il savonaroliano Antonio di Ludovico Sassoli la Madonna delle Arpie:

splendido olio classico, rarefatto, pieno di pathos. Pontormo nella Sacra conversazione della Pala Pucci recupera la tradizione leonardesca e nel contempo usa il colore come una scultura michelangiolesca. Al contrario Rosso Fiorentino nella Madonna col Bambino e 4 santi annulla l’ordine gerarchico della composizione creando un’opera straziante nella quale San Girolamo, dipinto con la tecnica tipicamente fiorentina della «notomia secca», appare come un fantasma deforme. Il Pontormo diventerà così il pittore preferito dei Medici e il Rosso, più tradizionalista, quello dei loro oppositori. Nelle due sale dedicate ai ritratti tutto questo appare più chiaro. Quelli del Rosso sono quasi sempre senza nome, mentre quelli del Pontormo rimandano all’ambiente mediceo. Carlo Falciani in catalogo suggerisce che il Rosso ritraeva «quel ceto di nobili repubblicani, né principi né sudditi, che avevano contribuito alla cacciata dei Medici nel 1527». Dopo l’assedio a Firenze e il ritorno dei Medici la vendetta cala inesorabile e di quegli uomini si sono perse le tracce. Nel Ritratto di Cosimo il Vecchio del Pontormo, vero e proprio modello per la famiglia, Cosimo, anziano e con le mani giunte, osserva una pianta d’alloro sulla sua destra dalla quale riceve la luce. Fra i ritratti virili del Rosso spicca quello di un uomo severo, di profilo come quello famoso di Gerolamo Savonarola di Fra’ Bartolomeo, con il naso arcigno e lo sguardo pensoso. Tra il 1527 e il 1530, cioè nel periodo fra il Sacco di Roma e l’assedio di Firenze, le divergenze si fanno maggiormente sostenute. Il Rosso dipinge nel 1527 la Deposizione dalla croce per la chiesa di san Lorenzo a Sansepolcro. Un olio tenebroso e inquietante, con il corpo di Cristo livido e ignudo contornato da una folla dolente e dolorosa: presagio dell’apocalisse e dei drammi sociali che squassano il Paese. Il Pontormo dipinge una Visitazione angelica e raffaellesca, quasi danzante, dove i colori nitidi mostrano la dolcezza dell’incontro fra la soddisfatta senilità di Elisabetta e la morbida rigogliosa giovinezza di Maria. Un dipinto rarefatto e gioioso; quasi da non credere che l’abbia dipinto un artista così scontroso e asociale come il Pontormo del quale il Vasari racconta la mancanza «di fermezza nel cervello», la sua incontentabilità e solitudine. La storia finisce con il Rosso esule a Fontainebleau al servizio della corte di Francesco I di Francia e il Pontormo dedito a disegnare gli arazzi per Cosimo I a Firenze. Da non perdere, fra gli innume-

Visitazione di Pontormo (Jacopo Carucci) 1528-1529 circa, olio su tavola, Carmignano, Pieve di San Michele Arcangelo.

revoli capolavori presenti in mostra, una piccola sanguigna di Pontormo, forse un autoritratto, che rappresenta un uomo seminudo mentre si gira di scatto con il dito indice puntato verso lo spettatore. «Pontormo e Rosso Fiorentino, divergenti vie della maniera», propone uno spettacolare percorso diviso in 10 sezioni in sequenza cronologica con più di ottanta opere – provenienti per la maggior parte dai dintorni ma pure dalle National Gallery di Londra e Washington, dal Louvre e dal Kunsthistorisches Museum di Vienna – in rappresentanza del settanta per cento della produzione dei due artisti. Difficilmente sarà possibile riunire in un confronto diretto e serrato tanta

meraviglia se non in quest’occasione. In un’apposita sala viene proiettata la videoinstallazione di Bill Viola The Greeting, ispirata alla Visitazione di Pontormo e presentata per la prima volta alla Biennale di Venezia del 1995. Accanto, visite guidate, sale interattive, attività per le famiglie, conferenze, attività dedicate alle persone con Alzheimer. Ottime le luci e l’allestimento come per altro il catalogo. Una piantina è poi disponibile per visitare le altre opere dei due artisti dislocate a Firenze e in Toscana; da non perdere la Deposizione del Pontormo nella chiesa di Santa Felicita a Firenze, con il suo groviglio di corpi, lo straniante effetto polifonico della composizione

e soprattutto quella mano che sorregge quella del Cristo che non appartiene a nessuno dei personaggi raffigurati. Dove e quando

Pontormo e Rosso Fiorentino, a cura di Antonio Natali e Carlo Falciani. Palazzo Strozzi, Firenze, fino al 20 luglio. Orario 9.00-20.00, giovedì 9.00-23.00. Catalogo della mostra Mandragora edizioni, euro 39,90. A complemento: Pontormo e Rosso Fiorentino a Firenze e in Toscana a cura di Ludovica Sebregondi, Maschietto editore, euro 15,00. Per bambini: Lo scimmione misterioso, euro 10,00. www.palazzostrozzi.org


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Cultura e Spettacoli

Tra hip-hop e Odissi

Festival della Danza Steps Le prime degli spettacoli Koukansuru e SAMA – I can try del Festival

della Danza del Percento culturale Migros avranno luogo questa settimana in Ticino

la Spirig ha pensato a Arushi Mugdal che, pur rappresentando una forma di danza dai canoni fissi, ha accettato la sfida. Lo scorso mese di ottobre i due artisti si sono incontrati e subito intesi, e hanno pertanto deciso di avviare una collaborazione. L’elemento coesivo delle loro discipline è il ritmo: l’armonia dello spettacolo nasce dalla combinazione delle percussioni di Auzet con la forte base ritmica della danza Odissi. Entrambi gli artisti superano così la loro personale dimensione artistica, per avvicinarsi l’uno all’altra e trovare un linguaggio comune: Arushi si stacca dalla forma tradizionale della danza Odissi per immergersi in una realtà musicale moderna, mentre Auzet sperimenta nuovi strumenti che possano accompagnare i movimenti di Arushi.

Valentina Janner Stasera al Palazzo dei Congressi debutterà la tournée ticinese del Festival della Danza del Percento culturale Migros Steps con lo spettacolo frizzante e vivace di hip-hop Koukansuru. Questo stile di danza, imparato prevalentemente per strada nei quartieri periferici delle grandi città, sta appassionando migliaia di giovani in tutto il mondo. Dagli Stati Uniti, dove i diversi generi di hiphop si sono sviluppati, passando dalla Francia, nei quartieri multietnici parigini, questa disciplina si è diffusa anche in Asia, in particolare in Paesi come Singapore e il Giappone. Ed è proprio da una collaborazione franco-nipponica che nasce la produzione Koukansuru («scambio» in giapponese), interpretata dalla crew Juste Debout (Francia) e dalle due formazioni Former Action e Mortal Combat (Giappone).

Rappresentazioni di Steps in Ticino

Gli spettacoli in programma a Verscio e a Lugano sono il frutto di interessanti e insolite commistioni Il nome della compagnia Juste Debout deriva dall’omonima gara di street dance, che si svolge a Parigi da oltre dieci anni. Ideata dal ballerino e coreografo franco-camerunese Bruce Ykanji Soné, questa manifestazione coinvolge ogni anno più di 3000 ballerini selezionati in tutto il mondo, che si sfidano esibendosi nei diversi stili di hip-hop. Vi hanno partecipato anche Former Action e Mortal Combat, che sono stati invitati da Bruce Ykanji Soné a esibirsi con la sua crew Juste Debout in questo spettacolo da lui prodotto e avviato sotto la direzione artistica di Steps. Le coreografie di Juste Debout si basano su un mix di stili hip-hop che

28 aprile Palazzo dei Congressi, Lugano Koukansuru, Juste Debout, Mortal Combat e Former Aktion 2 maggio Teatro Dimitri, Verscio SAMA - I can try, Arushi Mudgal e Roland Auzet

si danzano «solo in piedi» (da qui il loro nome), quali il locking, il popping, l’house e l’hip-hop new style. La performance di Mortal Combat sarà invece prevalentemente di break dance, genere caratterizzato da movimenti acrobatici al suolo, come le sempre sbalorditive rotazioni sulla testa. I Former Action si concentreranno sul popping, alternando le famose waves a movimenti robotici. Interessante sarà scoprire l’in-

consueto accostamento della vivacità multiculturale del gruppo francese e la precisione tecnica e il sincronismo delle due crew nipponiche. Di tutt’altro genere, ma altrettanto attesa, la prima mondiale dello spettacolo SAMA – I can try, che si terrà a Verscio il prossimo 2 maggio, un connubio insolito tra danza classica indiana e percussioni. Questa produzione rappresenta il punto d’incontro fra due forme d’arte molto diverse: la tradizio-

ne della danza indiana Odissi, di cui Arushi Mudgal è una delle massime esponenti, e l’innovazione degli strumenti a percussione sviluppati e costruiti appositamente per questa produzione dal francese Roland Auzet. Grazie a Steps, questi due artisti geograficamente e stilisticamente molto lontani si sono trovati. Siccome Auzet aveva espresso la volontà di lavorare con una danzatrice indiana, la direttrice artistica del festival Isabel-

6 maggio Palazzo dei Congressi, Lugano Identidad-1, Demo-N/Crazy e Mambo 3XXI, Danza Contemporánea de Cuba 13 maggio Palazzo dei Congressi, Lugano Swan Lake, Dada Masilo Company 10 maggio Cinema Teatro, Chiasso Goldfish, Inbal Pinto & Avshalom Pollak Dance Company

Con un’aura di mistero Mostre A Padova la settima edizione di una rassegna dedicata ai colori nel sacro Piero Zanotto C’era giustificata curiosità di sapere cosa il Museo Diocesano di Padova avrebbe proposto come continuazione del ciclo di incontri «figurali» che sotto al titolo I Colori del Sacro, nelle sei precedenti edizioni aveva affrontato di volta in volta la rappresentazione del ciclo degli elementi naturali. Il trascorso conclusivo appuntamento aveva per tema e titolo Aria. Sembrava arduo si potesse affrontare attraverso l’apporto creativo di artisti appartenenti non solo a culture assai distanti tra loro, ma anche a credi religiosi supportati all’esterno da diversi cerimoniali sacramentali, nuovi percorsi centrati ancora sul Sacro. E invece ecco la sorpresa, racchiusa in una sola parola: il Viaggio. Andrea Nante, direttore del citato Museo diocesano, curatore di questa settima edizione, lo definisce «un’altra grande avventura», cui hanno partecipato e risposto con loro opere trecento illustratori provenienti da tutto il mondo: alla fine rimasti 68 con 140 disegni selezionati per la mostra che resterà aperta fino al prossimo 2 giugno. «Gli spunti sono stati davvero moltissimi – scrive lo stesso Nante nel consueto prezioso bellissimo catalogo. – Racchiudono in sé ricordi, memorie, immagini, odori, emozioni, incontri, cambiamenti, ma anche paure e gioie, fughe e ritorni, mete e approdi. Il viaggio: partenza e arrivo. È desiderio di

Maria Luisa Gasparri, Nel ventre della balena, opera in mostra a Padova.

andare, sogno di qualcosa che ancora non si conosce ma è anche esperienza, conoscenza e cambiamento». E ancora: «L’uomo fin dall’inizio dei tempi ha nascosto nel cuore un profondo anelito a uscire da sé, raggiungere un oltre, inseguire un sogno, un desiderio, viaggiare verso l’altro, il diverso; si è messo in cammino verso orizzonti lontani o mete più vicine per cercare

pascoli, per fuggire, per commerciare, per recarsi in pellegrinaggio… Metafora dell’esistenza, il viaggio ritorna in molte pagine della Bibbia». E cita il viaggio come radice di molti miti, a cominciare dal più «popolare»: quello di Ulisse. Raccolta di idee e indagine sfaccettata in senso figurativo di sorprendente esito la mostra che riesce a

condurre il visitatore possiamo dire di ogni età verso più conoscenze che investono il cammino dell’umanità tutta. Il viaggio, un tema prezioso, scrive il vescovo di Padova Antonio Mattiazzo, per tutta la Sacra Scrittura. Così come l’Esodo, il cammino del popolo israelitico, «peregrinare» per antonomasia, che trova illustrazione nelle tavole di Giovanni Manna e Giuliano Ferri. Intensamente belle quelle in tema (Passaggio del mar Rosso, ad esempio) di quest’ultimo artista. Da citare come oggetto per antonomasia del viaggio nell’immaginario di tutti, la valigia. Un simbolo di immediata percezione. Come il treno e qualsiasi altro mezzo di trasporto. E davvero emblematica è una delle illustrazioni firmate dal tedesco Torben Kuhlmann che mostra un treno girare sul piano di un disco in movimento su un vecchio grammofono a tromba recante sull’etichetta situata al centro la parola world. Per una volta non sono le scarpe a diventare metafora del camminare, cioè dell’andare. «Ci si reca in un luogo per ricordare – dice ancora Nante. Per rendere omaggio, da soli o insieme: un atto di memoria che ci fa sentire parte di una storia più grande». Per questo un settore della mostra è riservato anche alla narrativa letteraria, con le sue irrinunciabili, coloratissime, spesso sognanti «figure», rivolto ai più giovani. Iniziando però con la citazione dell’opera

più nota nel mondo: La Divina Commedia di Dante Alighieri. E attraversando pagine e pagine scritte dal Settecento al Novecento da Defoe, Swift, Carroll, Verne, Stevenson, Salgari, Baum e tanti altri, senza dimenticare il Collodi delle Avventure di Pinocchio simbolo di un viaggio metaforico che porta un ragazzetto di legno a superare tante prove prima di giungere a conoscere sé stesso e a maturare la propria coscienza. In testa a tutti il viaggio in Oriente raccontato sulla propria straordinaria esperienza da Marco Polo nel suo Il Milione. La raccolta di un ecumenismo artistico (oltre che, nel fondo, spirituale) che vede insieme illustratori di Israele (e si cita Ofra Amit) e Iran (Sana Habibi Rad), con figurinai (i più numerosi sono italiani) attivi in Sud Africa, Mongolia, Uruguay, Thailandia, Spagna, Giappone, Francia, Croazia, Germania, Svezia, Finlandia, Uzbekistan, Ungheria, Danimarca e in numerosi altri Paesi. Infine aggiungiamo un ultimo viaggio, quello più semplice e di significato universale, ossia l’agile percorso di visita della mostra. Dove e quando

I Colori del Sacro, Padova, Museo Diocesano (piazza Duomo 12). Orari: ma-ve 9.00-18.00; sa-do 10.00-19.00; lu chiuso. Fino al 2 giugno 2014. www.icoloridelsacro.org


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Cultura e Spettacoli

Niente crisi per Cannes Cinema La kermesse è la padrona indiscussa dei Festival di tutto il mondo

Fabio Fumagalli Per tutti appare problematico il periodo che attraversiamo, incerte le soluzioni destinate al presente, irripetibili quelle passate, impossibili da prevedere le future. Per tutti, tranne che Cannes e il suo Festival. Che coltiva imperterrito la propria supremazia assoluta, il proprio potere d’imprescindibile incontro cinematografico dell’anno. Ignorando presagi da cifre rosse e, figuriamoci, se ci si preoccupa per qualche timida rimostranza sul fatto di evitare ogni azzardo legato all’innovazione. Ma è poi vero? A ogni nuova edizione, la prima reazione nei confronti dei 49 lungometraggi e 28 Paesi selezionati dai 1800 film visionati è motivo di relativo sconforto: i nomi sarebbero sempre quelli, gli ormai leggendari abonnés. Poi, l’assurdità dell’osservazione si evidenzia in un banale dettaglio: è infinitamente più semplice stilare l’elenco degli assenti, piuttosto che quello dei presenti... Presto detto: mancherà Abel Ferrara, che farà uscire direttamente sulla Rete il suo verosimilmente poco angelico Welcome to New York, con Gérard Depardieu sullo scandalo Strauss – Kahn; Terrence Malick (Knight of Cups), che dopo essersi fatto desiderare per anni vuole ora evitare qualche (relativo) passo falso recente; Kusturica, Frears e Inarritu, forse non ancora terminati. E scarna risalta la selezione dagli Stati Uniti, una conferma di come Cannes continui ad avere problemi sia con le major hollywoodiane sia con gli Indipendenti; mentre l’assenza di Hou Hsiao-hsien sottolinea la presenza non eccezionale del cinema orientale.

Presenti (quasi) tutti i migliori nomi del cinema del mondo, assenti gli orientali e gli americani Pagliuzze negli occhi. Il dilagare delle produzioni dovute all’uso generalizzato delle tecniche digitali se da un lato ha alleggerito il compito di chi vuol

Una scena da Le meraviglie, di Alice Rohrwacher, in concorso a Cannes.

girare un lungometraggio, dall’altro ha complicato il compito dei direttori di festival. Non solo presi d’assalto da valanghe di semplici dvd (chi scrive ricorda ancora le laboriose sedute di selezione davanti a montagne di bobine, relative però a un numero infinitamente minore di opere) ma costretti dagli improvvisi arrivi dell’ultima ora a inventarsi nuove strategie e giustificazioni. Quello proposto è forse un panorama ancora leggermente perfettibile ma già impressionante. A cominciare dagli Autori, i veterani gloriosi e spesso pluripalmati come gli inglesi Ken Loach e Mike Leigh. Il primo, con una sua tipica denuncia, la difficoltà di accedere alla cultura nell’Irlanda degli anni Trenta; il secondo con Mr. Turner, autoritratto del cineasta nelle vesti di pittore del paesaggio britannico. Attesissimo, il turco Nuri Bilge Ceylan, con un Sommeil d’hiver della durata di tre ore e un quarto: ma non tale da intimidire chi si ricorda dell’affascinante contemplazione del capolavoro

Incastrare Blocher Filmselezione Compito arduo anche

per il nostro documentarista più ingegnoso

C’era una volta in Anatolia. Ci saranno, come dubitarne, i fratelli Dardenne, così bravi e regolarmente premiati da passare quasi inosservati; e un grande del cinema moderno come David Cronenberg (Maps to the Stars) che rappresenta un Canada presente con ben tre opere, Mommy di Xavier Dolan e The Captive di Atom Egoyan. E identità fortemente affermate, la giapponese Noemi Kawase, un emblema del cinema africano, Abderrahmane Sissako, il russo Andrey Zvyagintsev, rivelazione nel 2003 a Venezia con Il ritorno, il grande attore americano Tommy Lee Jones, del quale nessuno ha dimenticato lo splendido esordio come regista nel western Le tre sepolture. Fuori concorso, Zhang Yimou assieme a Gong Li: coppia mitica, che vorrà sfatare con questa riflessione sulla Rivoluzione Culturale (un po’ sospetta, visto il nonostracismo da parte delle autorità cinesi?) chi parla d’involuzione del maestro di Lanterne rosse. E poi, autore fra gli autori, Jean-Luc Godard: addirittura

Stéphane Bron, docum. (Svizzera 2013) Non era facile neanche per il nostro documentarista più moderno. Non in questo modo: girando faccia a faccia con una vecchia volpe come Christoph Blocher, sperando nella sua collaborazione. Un po’ come aveva fatto dietro le quinte del magistrale Mais im Bundesrat quando fu confrontato con il veto di seguire i dibattiti in aula dal vivo. Blocher è ripreso a lungo all’interno della sua autovettura mentre gira la Svizzera impegnato nella campagna del 2011: la cinepresa fissa sul protagonista (accompagnato dalla moglie) accomodato sul sedile posteriore della Mercedes: egli è una figura quasi muta e a dir poco sfuggente, che si guarda bene dal cadere in contraddizione. Infatti i delusi dall’attesissima pellicola affermano che si è finito per rendere un involontario servizio al controverso personaggio politico svizzero. Equivoco accettabile, ma ingiusto. Poiché significa ignorare quanto JeanStéphane Bron, fra i nostri cineasti di statura mondiale, ci mette del suo. Non

Eventi sostenuti dalla Cooperativa Migros Ticino Steps2014 Koukansuru Lunedì 28 aprile, 20.30 Palazzo Congressi, Lugano

Tra jazz e nuove musiche Ches Smith & These Arches Lunedì 28 aprile, 21.00 Jazz in Bess, Lugano

Chiassoletteria Festival di letteratura Dal 1 al 4 maggio Vari luoghi, Chiasso

Steps2014 I Can Try Venerdì 2 maggio, 20.30 Teatro Dimitri, Verscio

Per saperne di più su programmi, attività e concorsi del Percento Culturale Migros consultate anche Facebook percento-culturale.ch e

Top10 Libri

Top10 CD

1. Lo Hobbit 2

1. Sveva Casati Modignani

1. Gotthard

2. Frozen

tanto gli spezzoni d’epoca, comunque godibili e illuminanti; quanto l’uso degli ambienti, da sempre grande arma del cineasta. I significati che si sprigionano dal sottofondo della villa con piscina e immensa collezione di Anker, in cui soffermarsi e meditare, in perfetta solitudine. E lo sfondo dall’imperiosa tensione drammatica delle cascate del Reno, dove da giovane Blocher trascorreva le vacanze e in cui è facile ritrovare gli echi psicanalitici della sua formazione. Più impressionante ancora, il castello a strapiombo sul Reno di Rhäzuns nel quale egli riceve i grandi del mondo, in atmosfere che gli assicurano una grandeur da Ludwig viscontiano. O, ancora, le riprese dall’alto sulla limousine che s’insinua nelle foreste, premessa d’inquietudini che ricordano quelle interiorizzate della celebre introduzione dello Shining di Kubrick. Forse ci si aspettava un Michael Moore di casa nostra: ma il regista romando usa un cinema che si esprime nei dettagli, nei riferimenti espliciti ai metodi dell’Orson Welles di Quarto potere. Ovviamente, significa porre l’asticella un po’ troppo in alto. / FF

dal 28 aprile al 4 maggio 2014

Top10 DVD & Blu Ray M. Freeman, I. McKellen

**(*) L’expérience Blocher, di Jean-

in Competizione, con i suoi 84 anni (e in assenza di un habitué come Manoel De Oliveira che di anni ne ha 106…) il più anziano fra i presenti, che con la sua sola presenza rimanda al ruolo del cinema nella Storia e nel modo di rappresentarla. Adieu au langage, settanta minuti imprevedibili e probabilmente irraccontabili, non faranno l’unanimità ma faranno discutere. In epoca di twitter è già qualcosa. Padroni di casa meno invadenti del solito: Olivier Assayas ha girato in un luogo che sappiamo magico Sils Maria, con Juliette Binoche, Kristen Stewart e Bruno Ganz nel mitico Hotel Waldhaus. Bertrand Bonello presenterà, malgrado il feroce ostracismo di Pierre Bergé, la sua versione «non autorizzata» delle vicissitudini del celebre stilista in Saint Laurent. Nicole Kidman avrà con Grace de Monaco di Olivier Dahan onori e rischi del film d’apertura. E non da ultimo, un po’ di Svizzera. Con Godard, naturalmente; e l’Engadina probabilmente affascinante di Assayas. Ma addirittura con il Ticino, a riprova di come una sorpresa possa trasformarsi in fervida attesa anche nell’arena gigantesca della Croisette. È anche grazie alle intuizioni non nuove legate alle coproduzioni della Amka Film di Tiziana Soudani che al suo secondo film Alice Rohrwacher approda al più celebre concorso del mondo. Avevamo detto tutto il bene possibile dell’incantevole naturalezza del suo primo Corpo celeste: se quelle promesse saranno mantenute siamo pronti a scommettere che Le meraviglie costituirà una delle rivelazioni di Cannes 2014. I soliti noti, vogliamo scherzare? La fretta e la mole di Cannes rimandano al Concorso, ma quante sorprese girato l’angolo, al Certain Regard, alla Semaine de la Critique, alla Quinzaine des Réalisateurs: Amalric, Lisandro Alonso, Wenders, Jessica Hausner, Pascale Ferran, Asia Argento, De Heer, Loznitsa, John Boorman, Sciamma, Tobe Hooper, Wiseman, Du Welz, Takahata, Bruno Dumont, Diego Lerman, Nadav Lapid… Tre soli di questi nomi basterebbero a fare felice qualsiasi fabbricante di festival.

Agenda

Animazione 3. Piovono Polpette 2

Animazione

La moglie magica, Sperling / novità 2. Markus Zusak

Storia di una ladra di libri, Frassinelli 3. Massimo Gramellini

La magia di un buongiorno Longanesi / novità

4. Hunger Games 2

J. Lawrence, J. Hutcherson

Bang! 2. I Nomadi

Nomadi 50 + 1 3. Abba

Gold - 40th Anniversary 4. Moreno

4. Veronica Roth

Incredibile

Allegiant, De Agostini 5. Monster High - Ciak si grida!

Animazione

5. Artisti Vari 5. Andrea Camilleri

Sanremo 2014

Inseguendo un’ombra, Sellerio 6. Battle of the year

J. Holloway, C. Brown

6. Roby Facchinetti 6. Albert Espinosa

Ma che vita la mia

Braccialetti rossi, Salani 7. I sogni segreti di Walter Mitty

B. Stiller, S. Penn

7. George Michael 7. Camilla Läckberg

Symphonica

La sirena, Marsilio 8. Barbie - La principessa delle perle

Animazione

8. Artisti Vari 8. Andrea Vitali

Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti Rizzoli 9. Jo Nesbo

Il pipistrello, Einaudi

10. Pegasus

Love & Gunfire

10. Hungover Games

R. Nathan, S. Pancake

9. Mondo Marcio

Nella bocca della tigre

9. Escape Plan

S. Stallone, A. Schawarzenegger

Bravo Hits Vol. 84

10. Paolo Cammilli

Maledetta primavera, Newton novità


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Cultura e Spettacoli

Il cottage di Lawrence d’Arabia Chiassoletteraria Benedicta Froelich, autrice di Nella sua quiete, ci racconta un normale eroe

Simona Sala Mancano pochi giorni all’avvio della nona edizione del Festival più a sud della Svizzera, Chiassoletteraria. Dopo mare, amore e destino, quest’anno tocca all’elemento fondamentale di ogni vita e ogni libro che si rispetti: la storia o le storie. In altre parole, le molte storie che compongono la storia. Fra i numerosi ospiti che animeranno la cittadina di confine dal 1. al 4 maggio, vi sarà anche la scrittrice (nonché collaboratrice di «Azione») Benedicta Froelich, che nel 2013, grazie alla particolare storia degli ultimi mesi di vita di Lawrence d’Arabia, raccontati nel romanzo Nella sua quiete (Nuova Editrice Magenta) ha vinto il prestigioso premio Morselli. Benedicta Froelich, lei ha scritto un romanzo su Lawrence d’Arabia, un personaggio che nell’immaginario di tutti viene riconosciuto e ricordato soprattutto per l’appellativo «d’Arabia». Nel suo romanzo si china sull’ultima fase della sua vita, perché?

La fama di Lawrence è dovuta soprattutto a quanto da lui compiuto durante la Prima guerra mondiale nel teatro di guerra mediorientale, quindi in Arabia, da qui anche il suo appellativo. Poi nel 1962 vi fu il grande film con Peter O’Toole. A me interessava illustrare una parte meno conosciuta della sua vita, vale a dire quella finale, che egli trascorse nel suo piccolo cottage nel Dorset. Ero attratta dall’aspetto psicologico del personaggio e volevo mostrare l’evoluzione della sua esperienza personale. Lawrence infatti esce dall’avventura araba in profonda crisi: pur avendo guidato gli arabi alla vittoria, le promesse imperialiste inglesi non erano state mantenute. Il problema era dunque il tradimento degli arabi da parte dell’Occidente. Lawrence si è sentito parte di questo tradimento, in quanto costretto a servire due padroni simultaneamente. Il suo alto profilo etico aveva fatto sì che sviluppasse un legame con gli arabi e intendesse veramente offrire loro l’indipendenza. Quando ciò non si rivelò possibile, per ragioni che non dipendevano da lui, egli provò un forte senso di colpa. Di conseguenza dopo l’Arabia, egli decise di distaccarsi completamente dalla sua fama e dal suo personaggio, lanciandosi in una sorta di espiazione: per alcuni anni fece il soldato semplice. Alla fine riuscì a scendere a patti con sé stesso riappropriandosi della propria vita. A Clouds Hill nel Dorset ha luogo una specie di guarigione dell’anima, anche grazie ai vicini di casa – Pat e Joyce Knowles – due personaggi quasi completamente ignorati dalla storiografia che io ho voluto riportare in vita.

Lawrence proveniva da una famiglia già attiva nel mondo militare e diplomatico, o vi si è trovato quasi per caso?

Come sono stati recuperati questi due personaggi?

Li ho riportati alla luce grazie a due libri usciti negli anni ’90 e scritti dallo storico del Dorset Bob Hunt: egli aveva raccolto le memorie di Pat e Joyce. Dopo l’improvvisa morte di Lawrence (ebbe un incidente in moto, da molti considerato piuttosto sospetto, solo tre mesi dopo essersi trasferito nel Dorset) i due diventano i custodi di Clouds Hill (che diventerà un museo), dedicando la vita intera a Lawrence. Ai miei occhi si tratta di un grande atto d’amore che meritava di essere esplorato e raccontato; anche perché secondo me hanno assistito alla guarigione dell’anima di Lawrence.

Egli era un uomo molto particolare, cresciuto in una famiglia anticonvenzionale. Lui e i suoi quattro fratelli erano figli illegittimi dell’irlandese Lord Chapman e della sua governante. Per tutta l’infanzia vissero da nomadi, spostandosi da una città all’altra, affinché non si capisse che i genitori non erano sposati. La famiglia prese dunque il nome fittizio di Lawrence. La madre era una donna molto severa e prepotente, nonché estremamente religiosa. Questa educazione pare abbia contribuito a inculcargli una sorta di attitudine eroica. Già da bambino Lawrence nutriva una grande passione per la cavalleria medievale e i romanzi cavallereschi francesi e anglosassoni. Proiettava su queste figure un ideale personale di eroismo, con tutta probabilità volto a riscattare la sua nascita illegittima. Diventò archeologo, e fu mandato in Siria, a Carchemish dove assorbì tutto quello che era il mondo arabo, imparandone lingua e mentalità. Quando poi scoppiò la guerra fu mandato al Cairo a fare l’ufficiale d’Intelligence. Da lì lui stesso, senza rendersene conto, cominciò a preparare il terreno per una grande impresa cui ambiva, ossia donare la libertà a un popolo.

Ha avuto modo di incontrarli?

Purtroppo sono deceduti entrambi, seppur in tarda età. Li ho però sentiti molto vicini tramite i due libri di Hunt, che credo nessun appassionato di Lawrence abbia letto. Si tratta di due libri ai miei occhi fantastici poiché offrono una finestra privilegiata sul piccolo mondo che Lawrence si era creato. Vedo la scelta di Lawrence come un atto molto eroico che non ha nulla da invidiare a quanto lui aveva fatto durante la guerra. Dei tre mesi che Lawrence trascorse a Clouds Hill esistono testimonianze scritte o si è affidata soprattutto a quanto riportato dagli altri?

Ci sono principalmente le lettere che Lawrence scriveva da Clouds Hill. Sono poi usciti due o tre libri riguardanti proprio l’ultimo periodo di vita, di cui ho fatto uso; sono poi stata a Clouds Hill e a Wareham, dove c’è un museo con una sezione a lui dedicata. Lawrence aveva ristrutturato Clouds Hill con le proprie mani nel corso di parecchi anni. Si trasferì definitivamente a Clouds Hill appena ottenuto il congedo militare, nel marzo del ’35, l’incidente in moto avvenne nel maggio dello stesso anno. Dalle lettere cui fa riferimento, trapela il senso di ritrovata serenità e di ritrovato equilibrio, o si tratta di una cosa dedotta durante le ricerche?

Ci sono pareri abbastanza controversi al riguardo, mi sono infatti dovuta confrontare con altri studiosi dell’epopea di Lawrence. Alcuni non credono al ritrovato senso di sé che io gli attribuisco. Leggendo tra le righe di queste lettere infatti, nonostante l’altalenare degli umori, si percepisce che lui cominciava a ritagliarsi uno spazio suo, prendendosi cura di sé, cosa che per molti anni non si era mai permesso di fare. Il luogo scelto, piccolo e spartano com’era, per lui era ideale, poiché ricamato sulle sue necessità. Ho avuto a più riprese la netta sensazione che egli stesse finalmente sospendendo il giudizio su di sé, e ne ho

Com’è il suo sentimento ora, a pochi giorni dalla pubblicazione del libro?

L’autrice Benedicta Froelich.

avuto conferma leggendo le testimonianze di Pat e Joyce.

molto colto, e un genio militare, egli non si percepiva come tale.

Torniamo al più volte citato senso di espiazione: è un aspetto dichiarato o è vi è giunta per deduzione?

Lawrence comunque, sia nei momenti di massimo splendore, sia in quelli – chiamiamoli così – dell’espiazione, è sempre stato in mezzo all’azione... come trascorse gli ultimi tre mesi della sua vita una volta trasferitosi al cottage?

È molto dichiarato, nel senso che è Lawrence stesso a dirlo, quando scrive alla sua più grande confidente epistolare, Charlotte Shaw – moglie di George Bernard Shaw. Lawrence le dice «io devo espiare... mi piacerebbe starmene tranquillo, comodo nel mio cottage però devo espiare». In realtà egli avrebbe potuto avere tutto ciò che desiderava, poiché dopo la guerra era diventato un uomo famoso e celebrato. Avrebbe ad esempio potuto aspirare a un tranquillo incarico diplomatico. Churchill lo voleva con sé per occuparsi delle questioni mediorientali: lui per qualche anno diede la propria disponibilità, ma poi lasciò perché sentiva la necessità di prendere una strada diversa. Egli era traumatizzato da quello che era successo. Sentiva dunque il bisogno di affidarsi a un ordine prestabilito, come poteva esserlo una caserma militare o un campo reclute, «dove – come diceva – posso uccidere il pensiero, posso diventare una persona normale». Nonostante fosse un uomo

In realtà al cottage non succede niente di eccezionale. Egli si occupa degli ultimi lavori sulla casa, va in giro sulla sua motocicletta, cosa che gli dà grande gioia, va a cercare piccoli reperti archeologici in giro per la campagna, frequenta molto Pat e Joyce con i quali ha stabilito una specie di fratellanza. Si gode la bellissima vasca da bagno nuova, per lui un lusso sfrenato. Si dedica insomma a cose che gli fanno piacere. Non sente più la necessità di essere un eroe. Pat e Joyce sono importanti perché lui è solo, non ha nessuno accanto. Pat e Joyce sapevano però chi avevano di fronte...

Devo dire che sono felice poiché, pur scrivendo romanzi biografici già da qualche anno, non mi era mai capitato un simile riscontro. Mi sono perdutamente innamorata della vicenda di Lawrence vedendo uno spezzone brevissimo di un cinegiornale, e ho capito che c’era una grande storia da raccontare. Per me è stato molto importante lavorare su di lui come farebbe uno psicanalista: senza giudicare, ma cercando di capire. Questo lavoro ha fatto bene anche a me perché in un certo modo mi sono specchiata in lui. Dove e quando

Chiassoletteraria avrà luogo dal 1. al 4 maggio 2014. Per il programma completo, consultare www.chiassoletteraria.ch Benedicta Froelich incontrerà il pubblico sabato 3 maggio alle 16.30 nel Foyer del Cinema Teatro di Chiasso In collaborazione con

Certo, ma Lawrence d’Arabia passa in secondo piano, a loro interessa la persona. Lui aveva un nuovo nome: Thomas Edward Shaw. Shaw come Bernard Shaw.

Io mi sono salvato Meridiani e paralleli Memorie di un internato italiano in Svizzera, 1943-1945 Giovanni Orelli Mi auguro di sbagliarmi, ma penso sia poco probabile che la drammatica storia raccontata da Aldo Toscano nel suo diario 1943-1945, gli anni dell’internamento in Svizzera, entri in uno dei libri di storia adottati nelle nostre scuole. Il titolo dato al diario dalla curatrice Laura, figlia di Aldo, è Io mi sono salvato, interlinea edizioni, Novara 2013. Laura Toscano, nella sua diligentissima ricostruzione dei fatti è stata validamente aiutata da Sara Lorenzetti. La presentazione, da non trascurare, è di Alberto Toscano, fratello di Laura, mentre il saggio introduttivo è dello storico Mauro Begozzi. Le pagine del diario (le prime cento pagine del libro che ne ha poco meno di 300: tutta la seconda parte è dedicata a La strage del lago Maggiore, con

al centro l’eccidio di Meana fatto dai nazisti e il processo che si fece, dall’8 gennaio al 5 luglio del 1968) sono quasi sempre commoventi, e con frequenti attestazioni di gratitudine per la Svizzera. Ecco un frammento del 2 ottobre 1943, data della notturna entrata in Svizzera. È ottobre, è freddo, i fuggitivi italiani sono costretti a «bivaccare à la belle étoile»: «Ci addossiamo gli uni agli altri, al riparo di un masso, ma nonostante la stanchezza, per il gran freddo, stentiamo ad addormentarci. E così guardo il panorama che offre un singolare contrasto: dalla parte italiana è tutto buio per il coprifuoco e l’oscuramento, mentre dalla parte svizzera risplendono le luci di Ascona, Locarno e Bellinzona. È una notte veramente incantevole, stellata e illuminata dalla luna, avvolta in una silenziosa pace alpina» (e qui nel non letterato Tosca-

no emerge il ricordo dell’Ueber allen Gipfeln ist Ruh di Goethe). «D’un tratto però si rompe l’incanto: passano gli aerei alleati, col caratteristico “ron-ron”, a cui fa seguito l’ululato delle sirene d’allarme sul versante italiano, e ci richiama alla cruda realtà» (p. 48). E nella pagina seguente, la riproduzione di una Dichiarazione dell’avvocato Carlo Torelli, senatore della Repubblica, residente in Arona (Novara), dove si dice: «Il nominato Aldo Toscano ha subito la devastazione della sua abitazione e la dispersione dei suoi beni, nonché delle abitazioni e dei beni dei suoi familiari per opera di reparti tedeschi SS. Di stanza a Novara e di elementi di stanza a Baveno (…) per cui, di conseguenza, sfuggendo ad ogni ricerca, ha fatto parte dei primi reparti partigiani della zona dell’alto novarese subito dopo l’8 settembre. Ai primi di ottobre 1943 il

nominato Toscano riparò in Isvizzera quale rifugiato razziale e lo ebbi mio compagno d’internamento nei campi svizzeri di Balerna e Loverciano, dove io mi trovavo quale rifugiato politico» (p. 49). Alla p. 52, la nota 13 avverte che «Vigeva all’epoca, in Svizzera, una disposizione del Bundesrat (Consiglio Federale), datata agosto 1942, per la quale erano considerati “perseguitati” (ed accolti) i soli politici e non già gli ebrei. A favore di questi ultimi la disposizione è cambiata solo nel dicembre 1943». Ci sarebbero molte altre cose curiose di cui dare notizia. Tra le tante ne ho scelta una per una somiglianza tra un importantissimo gerarca nazista e un maestro di scuola elementare. Eccola: in una nota sull’organizzazione nazista, le SS «furono all’inizio poco più di una guardia del corpo di Hitler. Solo nel 1929, Hitler riuscì a trovare l’uomo

Un particolare del libro di Toscano.

ideale che cercava, nella persona di un allevatore di polli (…) dall’apparenza timida, facilmente scambiabile per un maestro di scuola di provincia. Si chiamava Heinrich Himmler. Quando ne assunse il comando, le SS contavano duecento uomini. Ma quando portò a termine il suo incarico le SS avevano in mano tutta la Germania e bastava il loro nome a terrorizzare l’Europa intera» (p. 109).


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Cultura e Spettacoli

«Le serie americane? Con più soldi in tasca faremmo più serie svizzere» Personaggi televisivi Intervista al direttore generale della SSR Roger de Weck su strategie, canone, RSI, tv e Internet Antonella Rainoldi A taccuino chiuso, dopo un’ora di intervista, un’ora di rose sparse a mazzi sulla SSR, gli chiediamo: «Niente spine?». La replica: «Se fossi contento, soddisfatto, dovrei lasciare immediatamente il mio posto. Sono qui per essere scontento e stimolante». Roger de Weck è il direttore generale della SSR. Ha un passato da giornalista dell’informazione, è stato direttore del «Tages Anzeiger», direttore di «Die Zeit», conduttore del programma Sternstunde Philosophie sul primo canale SRF. Padre banchiere, madre intellettuale, de Weck è la rappresentazione delle élites, degli ottimi studi, dell’educazione perfetta. Ha sessant’anni, è un europeista convinto. Lo incontriamo in un ufficio della RSI a Lugano. De Weck ha confidenza con l’italiano, ma preferisce conversare in francese. Parla lentamente, a voce bassa. La complessità di pensiero lo tenta, e ogni tanto si sente autorizzato a scandire le parole per non essere frainteso. Quando gli chiediamo un commento sull’avanzata del Fronte Nazionale guidato da Marine Le Pen al primo turno delle municipali francesi, giusto per divagare dagli argomenti di cui si sta trattando, risponde con un inimitabile distacco diversamente partecipe: «Non dimentichiamo che il Fronte Nazionale ha ottenuto solo il 5 percento dei voti in totale. Bisogna dunque fare le debite proporzioni». Bang. Meglio riportarlo sui temi che gli sono più cari. Il canone, per esempio. Partiamo da qui.

nali italiani, francesi e tedeschi abbiano non due terzi del mercato, ma l’80 o il 90 percento del mercato.

10’000 franchi al minuto. Le più belle serie americane possono essere acquistate per 100 franchi al minuto.

giano con un notevole anticipo.

Si spieghi meglio.

Il rischio però è che nello scenario attuale di trasformazione e convergenza tecnologica il cosiddetto «miglior mercato» finisca per diventare un’arma spuntata di fronte alla concorrenza.

No. Noi amiamo il vecchio al punto da dedicargli molta attenzione, ma con la stessa attenzione ci volgiamo verso il nuovo. La nostra forza risiede nella capacità di far giocare insieme i canali televisivi e Internet, nelle due direzioni. E cioè, non solo fare televisione e pen-

In un piccolo Paese come il nostro produrre radio e televisione non è un affare redditizio. Più c’è finanziamento pubblico, meglio va. Meno ce n’è, più la concorrenza estera ha le sue chances. Le faccio un paio di esempi.

Non c’è dubbio che le produzioni

Questo significa recitare il de profundis per la tv?

È la realtà. Definisca questa realtà.

Un po’ anacronistica. Che cosa pensa del Consiglio del pubblico della CORSI?

Trovo che tutti i Consigli del pubblico della SSR facciano un buon lavoro. Portano uno sguardo critico sulle nostre trasmissioni, e questo per noi è un aiuto importante. Le assicuro che non ho mai avvertito la minima dimensione politica nella critica delle trasmissioni RSI. Va bene, ma nella Svizzera italiana i membri del Consiglio del pubblico vengono scelti per la loro appartenenza politica più che per le competenze specifiche. E le competenze specifiche sono condizione necessaria per chi si occupa di programmi.

La seguo solo in parte. Penso che sia utile avere nei Consigli del pubblico sia degli specialisti sia delle persone che non hanno alcuna competenza specifica, per rappresentare più semplicemente il pubblico così com’è. La questione però non va posta a me, ma alla CORSI, ovvero a chi decide come vuole fare le cose. Mi permetta di aggiungere che ogni regione linguistica ha la sua storia, le sue priorità, le sue logiche. Dopodiché non esprimo alcun giudizio.

Il canone SSR è il più alto d’Europa.

A proposito di giudizi, ha letto quello di Paolo Sanvido, membro del Comitato del Consiglio regionale della CORSI, sul «Mattino della domenica»?

Lei mi ha chiesto quali trasmissioni della RSI seguo. Le ho detto: non rispondo a questa domanda. In compenso le dico in modo netto che non leggo il «Mattino della domenica.

Questo è un esempio di federalismo. Di cosa ci si lamenta, in Svizzera?

E che cosa risponde?

Che la stabilità della Svizzera risiede nel fatto che le minoranze latine non sono sfavorite e la maggioranza svizzero tedesca non è privilegiata. Io con il Ticino sono molto chiaro.

Roger de Weck: «È nell’interesse elementare della Svizzera italiana difendere la RSI da chi vuole tagliarle i mezzi. Tagliare il canone significa indebolire la RSI, e indebolire la RSI significa rafforzare i canali italiani». (Stefano Spinelli) Prego.

Per produrre i suoi canali televisivi in una lingua, France Télévisions dispone di un budget due volte superiore a quello della SSR, che fa radio e televisione in quattro lingue. Per fare televisione in una lingua, ZDF ha il 40 percento di mezzi in più della SSR, dopodiché…

Cioè?

Che cosa?

Parlare male della RSI è semplicemente poco ragionevole. La RSI è l’unità aziendale della SSR che ha meno mezzi e la performance migliore. Questo dovrebbe suscitare un sentimento di rispetto e gratitudine.

ZDF ha una produzione propria dell’80 percento, e una presenza di serie americane nel palinsesto pari a poco più dello zero. Mentre la produzione propria della SSR è inferiore al 20 percento.

Sì, ma un conto è la denigrazione, un altro è la difesa critica. Chi ama la RSI si ritiene in dovere di criticarla. Chi la racconta per mestiere ha il dovere di criticarla. Per migliorarla. Anche criticare è poco ragionevole?

È evidente che ogni critica ai programmi è benvenuta. È però altrettanto evidente che è nell’interesse elementare della Svizzera italiana difendere la RSI da chi vuole tagliarle i mezzi. Tagliare il canone significa indebolire la RSI, e indebolire la RSI significa rafforzare i canali italiani.

Distinguiamo tra azienda e CORSI. Nell’azienda, nelle redazioni, le considerazioni di politica partigiana non giocano alcun ruolo. Quanto alla società regionale, è certo che nella Svizzera italiana la dimensione della politica partigiana è importante. Nelle tre altre regioni invece è solo marginale. E quindi?

Costa 462.40 franchi. Ma se la Svizzera fosse un Paese monolingue, anziché quadrilingue, 260 franchi sarebbero sufficienti. Il 70 percento del canone viene dalla Svizzera tedesca, che ne usufruisce nella misura del 45 percento. La differenza va nella Svizzera italiana, nella Svizzera romanda e nella Svizzera romancia.

Siamo un’istituzione della solidarietà federale, e chi in Ticino attacca questa istituzione attacca la solidarietà federale all’indirizzo della Svizzera italiana. Sento sempre più spesso nella Svizzera tedesca delle voci che dicono: perché così tanti soldi finiscono nella piccola Svizzera italiana?

Difesa critica. Sorvoliamo sul nepotismo. Sorvoliamo sul familismo. Le sembra che la RSI sia apolitica?

Sta dicendo che le serie americane alla SSR vanno considerate come riempitivi?

No. Dico che se avessimo più mezzi finanziari faremmo più serie svizzere e ci sarebbero meno serie americane. Lei detesta le serie americane.

È una domanda o un’affermazione? Un’affermazione.

Detta così sembra quasi una minaccia.

Al contrario. Io sono esattamente come lei: detesto solo quello che mi annoia. Le serie sono oggi quello che il cinema era nella mia infanzia. Le più belle serie americane, come House of Cards, sono di una qualità altissima, molto migliore di gran parte della produzione di Hollywood. E sono 100 volte meno care.

Ma no. È un appello alla ragionevolezza. Chi vuole che la SSR abbia meno mezzi finanziari vuole che i grandi ca-

Una serie svizzera capace di competere con quelle internazionali costa

Come, scusi?

proprie sono un elemento di differenziazione, in questo oceano in cui ci troviamo. Ma costano molto. La SSR investe ogni anno 30 milioni di franchi nel cinema e nella fiction di produzione svizzera. In questo secolo audiovisivo, la domanda politica è: quanto intende investire la Svizzera nella SSR e nella produzione audiovisiva propria? Secondo lei le nuove serie realizzate dalla SSR per essere fruite attraverso il web conservano la missione di servizio pubblico?

La ragion d’essere, la competenza, il mandato della SSR è di fare della produzione audiovisiva. C’è chi ci segue sui canali televisivi, e chi invece preferisce seguirci su Internet. E visto che spendiamo molti soldi per fare una buona produzione audiovisiva, è normale che siamo lì dov’è il nostro pubblico, dove sono gli spettatori e gli ascoltatori. Così la SSR si è espansa molto al di fuori del proprio guscio, un po’ troppo sul web. È un’accusa infondata?

Il web rientra nel nostro mandato. La nostra strategia è l’interazione fra i media. Se noi puntassimo solo su radio e tv, saremmo condannati a morte. Se puntassimo solo su Internet, sarebbe un errore, perché le aziende che sono state fondate per fare solo Internet viag-

sare a Internet, ma anche fare Internet e pensare alla televisione. I suoi gusti televisivi?

L’informazione da una parte, e dall’altra la fiction, per comprendere il nostro tempo, la nostra epoca. Le belle storie sono importanti quanto l’informazione. Non pensavo a questo aspetto quando sono approdato, poco più di tre anni fa, alla guida della SSR, dopo un lungo percorso come giornalista dell’informazione. Posso dire che la fiction è stata la mia grande scoperta. Così come lo sport, per esempio quando abbiamo una finale di tennis Wawrinka-Federer, o quando la squadra di calcio svizzera gioca particolarmente bene. Informazione e fiction: 60 minuti, Falò…

… Affari di famiglia. Conosce i programmi della RSI?

Certamente. Ma non mi occupo direttamente di programmi. Questo è un compito che ha sempre svolto molto bene, con ottimi risultati, il collega Dino Balestra insieme ai suoi collaboratori. Quali programmi della RSI segue?

Sono spiacente di dirle che non commento questo o quel programma. Se cominciassi a farlo in pubblico non finirei più. Svicola?

La domanda successiva?

Sanvido sostiene che la presenza femminile ai vertici dell’azienda è alta alla RSI ma non nelle altre unità aziendali della SSR. Lei, poi, avrebbe perso di recente un’ottima occasione per nominare una donna direttore finanziario.

Non è vero. Intanto non c’erano e non ci sono candidate donne a direttore finanziario. E poi la situazione, per esempio nella Svizzera tedesca, non è diversa da quella della Svizzera italiana. Le donne nella Svizzera tedesca?

La responsabile della cultura e delle fiction è donna. Una donna è caporedattore della radio. Una donna dirige SRF 2 Kultur. Una donna è responsabile della musica. Potrei fare una lunga lista. Ladina Heimgartner è stata recentemente nominata direttrice di RTR, diventando così membro del Comitato direttivo della SSR. Siccome ho il piacere di incontrare regolarmente Paolo Sanvido, lo invito a consultarsi con me prima di esprimersi in pubblico. Dopo lo scambio tra Tagesschau e Téléjournal, seguito da quello tra TG e Tagesschau, a che punto è il lavoro di coesione di questo Paese complesso?

Va avanti ovunque. È più importante che mai. Il 25 novembre ci sarà un nuovo scambio tra TG e Téléjournal. Le dirò che ho incontrato una sola volta nella mia vita il signor Giuliano Bignasca, e per riassumere la conversazione che ho avuto con lui le cito questa sua frase: «Il Ticino ha due problemi: prima di tutto gli svizzeri, e poi gli italiani». Ecco perché questo lavoro di coesione è più importante che mai.


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Cultura e Spettacoli

2135: che ne sarà della nostra musica?

Pozzi e Merini, i versi filmati

CD Rocky Wood e Icydawn lasciano con i loro nuovi dischi ulteriori

a due indimenticate poetesse italiane

segni nella musica della Svizzera italiana Zeno Gabaglio Al di là delle chiacchiere globaliste e dei superlativi passatisti, la vitalità musicale di un luogo e di un’epoca si misura rispetto a quello che di nuovo vi vien fatto. Soprattutto se ci si ostina – malgrado tutto – a voler leggere la musica come un fenomeno culturale, come qualcosa che parlerà di noi e della nostra epoca quando né noi né la nostra epoca esisteremo più. Nel 2135, per esempio, della Svizzera italiana del 2014 non si potrà certo ritenere come specifico e significativo il fatto che continuava a dilettarsi con musica viennese di duecento anni prima, e tantomeno che fungeva da assorbente senza filtri per le autoproclamate meraviglie dello show business di altri continenti. Quello che di originale nasce qui ed ora, però, a molti sembra spesso provinciale, privo di qualità sufficienti, senza le benché minime prospettive di eternità. Forse è proprio così, anche se stabilire oggi e asetticamente la qualità oggettiva o il successo futuro di qualcosa – e ancor più di un’opera d’arte – è operazione assai improba. E inoltre: se ciò che musicalmente attorno a noi si crea ci appare povero e piccolo, questo nient’altro significa se non che noi stessi – come collettività e come singoli – siamo poveri e piccoli.

Oppure ci si potrebbe guardare un po’ meglio allo specchio, per scoprire quelle realtà – tutte nostre e tutte originali – che ci porterebbero far cambiare idea. Potremmo abbandonare i pessimismi cosmici. Potremmo immergerci in un ascolto carico di soddisfazioni. Potremmo assaporare i suoni che di noi rimarranno nel futuro.

folk-rock con aperture psycho ma anche pop. Un salto nell’anima, che ora necessita di determinazione e dedizione (forse anche umiltà) per tentare di uscire dai troppo stretti confini cantonali. Icydawn – War Rumbles

Concorsi

Nicola Falcinella Il cinema italiano scopre le sue poetesse, in particolare le milanesi Alda Merini e Antonia Pozzi. Entrambe erano già state portate sullo schermo, ma in questi mesi si assiste a una vera esplosione di film su di loro. Antonietta De Lillo, che già aveva dedicato alla Merini il ritratto Ogni sedia ha il suo rumore nel ’95, è tornata a utilizzare quelle conversazioni ne La pazza della porta accanto. Un film molto bello presentato al Torino Film Festival e non ancora uscito nelle sale, incluso nella recentissima personale che il Bergamo Film Meeting ha dedicato alla cineasta napoletana, nota per Non è giusto, Il resto di niente e l’episodio del film collettivo I vesuviani. Le parole della poetessa, filmata nel 1995 e scomparsa nel 2009, sull’amore, la poesia, la morte e la malattia mentale sono punteggiate da immagini dei navigli, dei muri e delle strade di Milano. Sono due i film nuovi dedicati ad Antonia Pozzi, allieva del filosofo Antonio Banfi, nata a Milano il 13 febbraio 1912 e morta suicida il 3 dicembre 1938 vicino all’abbazia di Chiaravalle. Le sue poesie, che Banfi aveva bollato come «disordine», furono censurate e nascoste dal padre e riscoperte solo anni più tardi, tra gli altri da Eugenio Montale. La figura della poetessa era stata già tratteggiata in Poesia che mi guardi di Marina Spada del 2009 e ora è ripresa nel docu-fiction Il cielo in me – Vita irrimediabile di una poetessa dei lecchesi Sabrina Bonaiti e Marco Ongania, proiettato in prima assoluta a Lecco il 21 marzo in occasione della Giornata della poesia. È invece ancora in lavorazione Antonia, esordio nel lungometraggio di finzione di Ferdinando Cito Filomarino, noto per il corto Diarchia con Louis Garrel, Riccardo Scamarcio e Alba Rohrwacher, presentato al Festival di Locarno 2010. Il film, girato tra Milano e le province di Lecco e Varese, è prodotto da Luca Guadagnino (Io sono l’amore) e vede l’esordiente Linda Caridi nel ruolo principale. Bonaiti e Ongania hanno unito interviste e testimonianze di studiosi a momenti di ricostruzione storica, con Erika Redaelli e Isabella Di Giuda che interpretano rispettivamente la Pozzi ventenne e la Pozzi ragazzina. Tra gli in-

terventi quelli di Graziella Bernabò, che ha pubblicato la biografia Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia (Ancora), Fulvio Papi, professore di Filosofia Teoretica all’Università di Pavia e autore di L’infinita speranza di un ritorno. Sentieri di Antonia Pozzi (Viennepierre), e suor Onorina Dino, che ha curato la pubblicazione di tutte le opere di Antonia Pozzi, contribuendo alla divulgazione della sua poesia e alla valorizzazione della sua memoria. Un film coinvolgente che sviluppa molto il rapporto con la natura e con Pasturo, la località della Valsassina dove la Pozzi trascorse le estati dal 1918 al ’38, che era fonte di ispirazione, dove situava le sue radici («rifugio dell’anima» lo definì) e dove sono ambientate gran parte delle scene di finzione. Finzione e documentario coesistono, ma in modo diverso, anche nel film della Spada: qui c’è una giovane cineasta, Maria (Elena Ghiaurov), affascinata dalla figura della Pozzi. La donna va alla ricerca del suo passaggio a Milano e si imbatte in tre giovani poeti con i quali prosegue il percorso di avvicinamento alla poetessa e di ritorno ai luoghi più importanti della sua vita. In questo caso l’attenzione è più incentrata sugli aspetti della poesia e della femminilità della Pozzi. La giovane studentessa Manuela (Enrica Chiurazzi) si immedesima nel «bisogno di dirsi», in una «scrittura al femminile», e arriva a Pasturo nella vecchia casa, dove sulla stanza di Antonia c’è il suo nome e tutto sembra rimasto uguale. A differenza del lavoro più recente, la Spada ha cercato di collegare in modo diretto il passato al presente.

È nell’antro buio e fumoso del Salotto Gwen di Chiasso – autentica antitesi alla comodità istituzionale, e per questo luogo verace oltre ogni immaginazione – che circa un anno fa ho sentito per la prima volta Rocky Wood. Non di assoluta novità si trattava, però, perché la componente strumentale della band è formata da due primattori della creatività musicale ticinese, Roberto Pianca e Fabio Besomi. Era invece nuova la voce, e che novità! Un calore e una timida suadenza che lasciano interdetti. E sì che fino a qualche giorno prima Romina Kalsi appariva essere «solo» un’eccellente truccatrice cinematografica formatasi all’ombra di Hollywood, non la concessionaria di un viatico per il sublime. Uno squarcio nella notte, è perciò stato quel concerto, per un gruppo nuovissimo che in poco tempo ha riportato su disco la propria sintesi di

Gianluca Grossi è probabilmente il più celebre reporter della Svizzera italiana. Voce instancabile che dalla nostra radio offre notizie di prima mano su quelle regioni geopoliticamente più calde del pianeta, e in particolare sul Medio Oriente. Qualche anno fa raccolse le proprie esperienze in un’installazione, che si avvaleva di una colonna sonora ad hoc. Ora quella musica rivive autonomamente, nel disco War Rumbles che Icydawn (alias Sacha Rovelli) ha pubblicato per Blackleo. Noiseindustrial può esser definito il genere, ostico – al di là della nutrita nicchia che fedelmente lo segue su scala globale – ma solo per chi dagli scenari di guerra siriani o egiziani vorrebbe aspettarsi soavi melodie. Una profonda unione spirituale ed estetica tra il tema e la sua sublimazione sonora, quindi, che accompagna l’ascoltatore in un vero e proprio viaggio: difficile da percorrere, ma che solamente nella sua compiutezza può portare alla purificazione e alla catarsi.

Steps2014 Festival della danza Palazzo dei Congressi, Lugano Martedì 6 maggio, ore 20.30

Steps2014 Festival della danza Cinema Teatro, Chiasso Sabato 10 maggio, ore 20.30

Tra jazz e nuove musiche Rassegna di Rete Due Studio Foce, Lugano Giovedì 8 maggio, ore 21.00

Swiss Chamber Music Rassegna di concerti Conservatorio, Lugano Sabato 10 maggio, ore 19.00

Demo-N/Crazy, Mambo 3xx1

Goldfish

Michael Formanek Quartet

Riflesso Bach

Danza Contemporánea de Cuba. Coreografia: Identidad-1: George Céspedes; Demo-N/Crazy: Rafael Bonachela; Mambo 3XXI: George Céspedes - Musica Identidad-1: Alexis de la O Joya, Edwin Casanova Gonzalez; Demo-N/Crazy: Nina Simone, Estrella Morente, Bebe, Julia Wolfe; Mambo 3XXI: Beny Moré, Nacional Electrónica

Inbal Pinto & Avshalom Pollak Dance Company. Coreografia Inbal Pinto, Avshalom Pollak. Musica Vera Lynn, Kurt Weill, Yma Sumac, John Zorn, The Dukes Of Dixieland, Moten’s Kansas City Orchestra

Una collaborazione RSI Rete Due – Dicastero Giovani & Eventi Lugano

Musiche di: J. S. Bach, David Philip Hefti, Ludwig Van Beethoven

Michael Formanek, contrabbasso Tim Berne, sax alto Craig Taborn, piano Gerald Cleaver, batteria

Swiss Chamber Soloists: Esther Hoppe, violino Jürg Dähler, viola Thomas Grossenbacher, cello

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Rocky Wood – Shimmer

La formazione ticinese Rocky Wood.

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Cinema Un omaggio tardivo

Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate.

Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.

Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino

Alda Merini. (wikimedia)

Per aggiudicarsi i biglietti basta telefonare mercoledì 30 aprile al numero sulla sinistra tra le 10.30 e le 12.00. Buona fortuna!


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 28 aprile 2014 ¶ N. 18

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Imparerò a fare le uova Per me mangiare e bere è l’ultimo pensiero al mondo. Vivrei d’aria. Sono anche disposto a saltare un pasto, una o due volte nella vita, ma devo essere io a deciderlo, non l’Alitalia. Mi spiego: facciamo il caso che io organizzi il mio rientro da Roma a Torino in modo da cenare alle 21. Arrivo a Fiumicino con un po’ d’anticipo; all’imbarco manca mezz’ora, non è sufficiente per cenare all’aeroporto. Ed ecco comparire gli annunci del ritardo, dati con il contagocce, a dieci minuti per volta. Al momento di salire sull’aereo constato che avrei avuto tutto il tempo di sedermi a un pranzo di nozze e di sigillare il pasto con il limoncello fatto in casa (tutti i limoncelli feriscono, quello fatto in casa uccide). Questo fatto che se mi avessero comunicato subito l’entità del ritardo avrei fatto in tempo a cenare, non so a voi, ma e me mette addosso una fame apocalittica. Va a finire che, sbarcato all’aeroporto di Torino e rientrato in città, mi trovo nei paraggi di casa mia quando è trascorsa da poco la mezzanotte. I miei familiari dormono, di mettermi a spadellare

in cucina non se ne parla. Pazienza, rassegniamoci, siamo persone adulte, ragionevoli, in fondo un po’ di digiuno non può che far bene; agli organi preposti alla digestione non parrà vero di potersi concedere qualche ora di svago. Sulla rivista che ho trovato in aereo nella tasca del sedile davanti al mio, vicino al sacchetto per il vomito, ho letto un articolo su uno scienziato russo che fa digiunare delle vecchie galline e quelle riprendono a fare le uova. Io però, anche se digiunassi per un anno intero, non riuscirei a fare le uova. Forse Gandhi c’è riuscito, chissà. Per fortuna mi torna in mente un altro articolo, scritto da uno scienziato che o aveva vinto il Nobel o stavano per assegnarglielo. Questo benefattore dell’umanità dimostrava che per l’uomo (non per le vecchie galline) è letale digiunare dopo avere a lungo fantasticato su cosa avrebbe mangiato per cena, perché gli organi dell’apparato digerente nel frattempo hanno secreto potenti succhi gastrici che lavorano come martelli pneumatici e perforano tutto quello che

schiumare della birra spillata dal fusto, lo sfrigolio del bacon nella padella, il gorgoglio dell’acqua bollente nella pentola. Il ragazzo con le scarpe da ginnastica bianche torna verso di me reggendo un vassoio con un bicchiere ripieno di un liquido lattiginoso. Lo posa sul tavolo: «L’aperitivo della casa», spiega in risposta al mio sguardo interrogativo. «Omaggio della ditta. È molto buono. Deve berlo». Tutti mi guardano fisso, compreso il titolare. Sollevo il bicchiere, abbozzo un gesto circolare verso il mio pubblico e ne trangugio il contenuto. È gradevole, niente da dire, piuttosto alcolico, con un leggero sentore di anice. Ed ecco che, mentre il liquido scende nello stomaco, percepisco nitidamente la cameriera dall’altra parte del locale, in piedi, le braccia conserte, appoggiata allo stipite della porta, dire con asprezza: «Se non arrivavi tu adesso chiudevamo». Sto per chiederle: «Come ha detto scusi?» quando mi rendo conto che lei non ha aperto bocca. Ho percepito il suo pensiero. È l’effetto dell’aperitivo della casa,

siamo tutti sottotitolati. Mi portano gli spaghetti, sono una montagna. Il ragazzo spiega: «Bisognava finirli, domani non sono più buoni». E poi pensa: «Voglio proprio vedere come farai a mangiarli tutti». Domando: «Si può almeno fermare la bistecca?». «No!», mi risponde mentendo. «È già in cottura». E pensa: «L’hai ordinata? Adesso la mangi o almeno la paghi». Mi verrebbe da augurargli qualcosa di brutto, mi ferma il pensiero che anche loro hanno bevuto l’aperitivo della casa, leggono i pensieri che mi limito a formulare in mente. Per confonderli, mentre mangio, calcolo mentalmente la radice quadrata di numeri di sei cifre e risolvo sistemi di equazioni a due incognite. Dopo un po’ hanno la fronte corrugata, l’occhio perso e la bocca spalancata nel vano tentativo di starmi dietro. Per la cronaca, ho poi finito per spazzolare tutto. Appartengo al partito di quelli che «non bisogna mai lasciare qualcosa nel piatto». La prossima volta che faccio tardi digiuno. Promesso. A costo di mettermi a fare le uova.

happy. Mentre la crisi avvolgeva con le sue ombre l’orbe terraqueo, quando anche uscire per una pizza è motivo di valutazione economica, quando davvero le famiglie (italiane) contano su quegli ottanta euro in più a fine mese, perché possono fare la differenza, allora basta niente per scoppiare dal ridere e buttarsi tutto alle spalle. È vero, basterebbe un simile niente anche per fare esplodere la rabbia e funestare le piazze di grida e di violenza. Anzi, la seconda ipotesi è la più probabile, storicamente è accertata. Ma stavolta, oltre alla violenza, insieme anche a giuste recriminazioni, si è fatta accettare anche la ribellione alla tristezza e alla solitudine. La rete ha fatto il miracolo. Per le stesse strade che attraversiamo al mattino presto, per andare a lavorare o a scuola, per le stesse vie che portano

agli uffici, alle aule, ai mercati, per un giorno è festa. Non si può ballare tristi, tristi infatti non sono i ballerini non professionisti dei video We are happy from. Si aggiungano poi i ballerini professionisti che per primi hanno danzato questa canzone, i deliziosi Minions che accompagnano l’ex cattivo Gru nei due film Despicable me. Sembrano i contenitori delle sorprese degli ovetti Kinder, gialli, a forma di cilindro smussato agli estremi. Si vestono in tuta da lavoro, hanno uno o due occhi, alcuni gli occhialini da saldatore. Parlano un linguaggio simile al gramelot di Dario Fo, ma in falsetto: si capisce che cosa vogliono dire anche se non usano parole, ma versi, versacci, gorgoglii. E poi ridono, non sanno stare seri, non capiscono mai la gravità della situazione, per fortuna. Sembra

così facile, essere felice. Ognuno di noi ha collezionato nella vita momenti di felicità pura, una notizia, una nascita, una sorpresa. O l’improvvisa consapevolezza di amare ed essere riamati, di godere del privilegio di un talento o di un paesaggio o di un gusto. Di un’amicizia. Istanti per i quali, scriveva Montale, «si cammina su filo di lama»: «Felicità raggiunta, si cammina / per te sul fil di lama. / Agli occhi sei barlume che vacilla, / al piede, teso ghiaccio che s’incrina; / e dunque non ti tocchi chi più t’ama». Guai a inseguirla, guai a esibirla, guai a goderne come chi crede di averla meritata, in spregio ad altri meno fortunati o meno abili. Perché non sopporta di essere presa o pretesa, la felicità raggiunta. E poi, dopo, «nulla paga il pianto del bambino / a cui fugge il pallone tra le case».

razione. Probabilmente sbagliava: e forse aveva di sé un’opinione eccessiva. L’ammirazione (se non è venerazione cieca o prostrazione) richiede una disponibilità allo stupore e una buona dose di umiltà. Meglio, una buona dose di quella virtù che i teologi medievali chiamavano magnanimità, un giusto mezzo tra pusillanimità e superbia: cioè la consapevolezza dei propri pregi e dei propri limiti. Tutto ciò per dire che la fortuna delle vite bisogna misurarla anche dagli incontri. Scrivo nel (presunto) giorno della nascita di Shakespeare (23 aprile 1564). Il quale fece dire a Prospero una delle frasi più belle mai pronunciate in letteratura: «Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni». Si potrebbe farne una parafrasi (meno bella) in chiave di ammirazione: «Siamo fatti della stessa materia degli incontri che abbiamo fatto». Per esempio. Qualcuno della mia generazione ha incontrato, con varia intensità di frequentazione: Giorgio Orelli, Cesare Segre, Maria Corti, Dante Isella…

Cene, pranzi, incontri, scambi di battute, scambi epistolari, chiacchierate, risate, rimproveri, scivolate, figuracce, errori, disaccordi, irritazioni. Vengono quasi le vertigini pensando al privilegio della loro amicizia: Giorgio era lo scintillio vulcanico, Cesare la pazienza sottotono, la timidezza attenta, Maria Corti era la generosità inquieta e allegra insieme… Dante Isella era altero, severo. Abito a Milano da oltre vent’anni: ho avuto una lunga amicizia con lo scrittore e artista Emilio Tadini. Le serate a casa sua erano allegria garantita, e discussioni anche feroci sulla letteratura in corso. Con Lalla Romano si andava a mangiare al Rigolo, il ristorante più vicino al «Corriere della Sera»: le chiacchierate sottovoce con lei erano un rimescolamento borbottante di vita e di letteratura. Giuseppe Pontiggia non mancava mai di mandare i suoi bigliettini per commentare un articolo o un libro. Roberto Cerati è stato il braccio destro di Giulio Einaudi per decenni, se n’è andato a 90 anni nel no-

vembre scorso: aveva un rispetto sacro dell’amicizia, con il suo sorriso dolce e l’austerità del frate francescano, amava il libro e la libreria di un amore totale. Vincenzo Consolo telefonava per invitarti a mangiare il sorbetto di limone, era dolceamaro sul presente, sulla politica, e si accendeva spesso di ironie sferzanti sul mondo. L’altra sera al Teatro Pier Lombardo una bravissima cantante catanese, Etta Scollo (6 tondo), ha portato in scena Lunaria, una favola teatrale di Consolo: i musicisti che la accompagnavano (violoncello, liuto, percussioni) erano di assoluta qualità, così come l’attore Roberto Herlitzka, che recitava alternando la sua voce con quella fuoricampo di Vincenzo. Probabilmente, tutte le persone che ho citato sarebbero venute a sentirla: non c’erano perché erano impegnate altrove, nell’altrove. Ci siamo guardati con il mio amico Corrado Stajano, grande giornalista-scrittore. E avevamo le lacrime agli occhi. C’era un sacco di gente ma ci sembrava di essere rimasti soli, in un altro mondo.

trovano sul loro cammino. Ragion per cui, se decido di sostare davanti a una birreria ancora aperta, non vengo meno ai miei principi, faccio solo un po’ di sana prevenzione. Non sono mai stato in questo locale prima d’ora, non conosco le persone al suo interno, l’addetto al bancone, una giovane cameriera, un ragazzo che apre la porta e accompagna al tavolo gli avventori, due coppie di fidanzati. Ignoro se un attimo fa stessero parlando, di fatto al mio ingresso tutti tacciono, bloccati nell’ultimo gesto, immobili come statue di cera. Tranne il ragazzo che mi accompagna al tavolo, vestito di nero e con le scarpe da ginnastica bianche. «Faccio in tempo a mangiare qualcosa?», gli domando. «Certamente, – risponde – sono rimasti spaghetti alla carbonara e sotto filetto di manzo con patate fritte». «Vada per spaghetti e bistecca, con patate abbondanti, mi raccomando». Tutti gli altri continuano a tacere, anche se hanno smesso di fissarmi, accontentandosi di sguardi fuggevoli. Un silenzio totale, si percepisce lo

Postille filosofiche di Maria Bettetini Because I’m happy Batti le mani con me se ti senti come una stanza senza tetto. D’accordo, in italiano non è così poetica né divertente questa espressione, suonava meglio «quando sei qui con me questa stanza non ha più pareti» eccetera, secondo le corde romantiche di Gino Paoli. Ma Clap along if you feel like a room without a roof è uno dei versi della colonna sonora di molte vite, di Happy, la canzone di Pharrell Williams ballata dagli abitanti di paesini e metropoli nei video di You Tube. Ce ne sono di professionali, come Happy from Siena, curato dal Comitato per Siena Città della Cultura 2019, o Happy from Paris, con immagini da copertina e luci da set. Ce ne sono anche di amatoriali, Happy from Acquaviva delle Fonti, o Happy from Palagianello. Imperdibile Happy from Abu Dhabi. Tutto è cominciato il

21 novembre dell’anno scorso, quando la colonna sonora, poi candidata agli Oscar, di Cattivissimo me 2 è stata lanciata con un video di 24 ore: We are from L.A., sul sito 24hoursofhappy. Il contagio è esploso, ora il sito wearehappyfrom.com raccoglie tantissimi video in cui i normali cittadini ballano al ritmo della canzone. I balli si ispirano al soul pop di Pharrell Williams, ma diventano molto molto divertenti quando ad ancheggiare ci sono vecchietti, bambini, verdurai, vigili urbani, spazzini , naturalmente alternati a giovanotti e giovanotte. Ride chi balla, certamente ride chi gira le riprese o ne conduce la regia, sorride chi guarda i video in cui intere città o quartieri o zone o piazze sono scosse al ritmo di «prova a tirarmi giù, non ce la farai, sono troppo in alto», perché I’m

Voti d’aria di Paolo Di Stefano La forza dell’ammirazione Alberto Arbasino è uno scrittore che ha fatto epoca, interprete originale della neoavanguardia, giornalista di altissimo livello, che sperimenta e contamina satira di costume, reportage, diario culturale, racconto di viaggio, zibaldone, mémoire. Autore di romanzi di formazione e deformazione, rimestatore di calderoni linguistici. Uno dei grandi del secondo Novecento, anche se a volte trasmette una sensazione di eccesso, debordante e instancabile com’è, si compiace del suo virtuosismo funambolico. Bulimico. Uno scrittore-millefoglie, se vogliamo ricorrere a una metafora da pasticceria che forse gli piacerebbe: stile in movimento, magmatico, fagocitante, inclusivo, proteiforme, che sfida l’attimo presente sapendo di non poterlo fermare. È stato Arbasino, in anni lontani, a inventare una felice tripartizione (5½) del mondo letterario: ci sono le Brillanti Promesse (gli autori esordienti), i Soliti Stronzi (dal secondo libro in poi), i Venerati Maestri (in età avanzata).

Lui stesso, Arbasino, superati gli ottanta è ormai diventato, volente o nolente, un Venerato Maestro. Tutti, da destra a sinistra, si scappellano a onorarlo, si inchinano di fronte alla sua raffinata, graffiante, contundente ironia. Rispondendo alla domanda più abusata della storia del giornalismo culturale (Perché scrive?), Arbasino ha detto: «Scrivo perché mi è sempre piaciuto suonare la lingua italiana, come c’è chi ama suonare il pianoforte, o comporre per voci e strumenti solisti e orchestra». È una frase che gli appartiene molto, ma che somiglia molto anche al suo Veneratissimo Maestro, ovvero a Carlo Emilio Gadda. Arbasino è stato un giovane ammiratore disinteressato ed entusiasta dell’Ingegnere in blu. L’ammirazione è un esercizio virtuoso che viene spesso risarcito. Certo, da un lato bisogna avere la fortuna di incrociare sulla tua strada persone degne di ammirazione, dall’altro bisogna saperle individuare. Montaigne affermava di non conoscere nulla che fosse degno di ammi-


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Idee e acquisti per la settimana

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shopping

È tempo di fragole, sì ma ticinesi

In ambito botanico quella che conosciamo come «fragola» va sotto la definizione di «falso frutto», poiché ciò che mangiamo non è che l’ingrossamento dell’infiorescenza. Dopo la fecondazione, il ricettacolo, ossia il turgore posto all’apice del peduncolo, si gonfia dando forma alla parte commestibile della fragola. l frutti veri sono invece tutti quei semini gialli che troviamo sulla superficie rossa. La moltiplicazione del vegetale a scopo produttivo avviene però in modo vegetativo, dato che ogni piantina è in grado di sviluppare diverse ramificazioni, gli stoloni, radicanti nel corso dell’estate. La fragola è ricca di acqua (oltre il 90%) e povera di calorie (circa 43 Kcal ogni 100 grammi) e giunge ora a maturazio-

ne anche alle nostre latitudini. Ne sono un esempio le duemila piantine dell’Azienda agraria cantonale di Mezzana, il centro di formazione e produzione agricola del Cantone Ticino. L’azienda è stata inaugurata nel 1915 grazie alla donazione della proprietà da parte di Pietro Chiesa, un cittadino chiassese rientrato dall’Argentina dopo un fortunato periodo di emigrazione. La piantagione ticinese di fragole trova spazio in un tunnel di 400 m2 e permette di ottenere un prodotto genuino e a chilometro zero. «Dal momento della raccolta alla vendita non trascorrono più di 24 ore e il consumatore è quindi sicuro di acquistare delle fragole fresche e locali», ci racconta Giovanni D’Adda, responsabile per l’orticoltura,

la campicoltura, la foraggicoltura e la frutticoltura a Mezzana. La coltura non è particolarmente esi-

Giovanni D’Adda dell’Azienda agraria cantonale di Mezzana. (Flavia Leuenberger)

gente, ma è necessaria una cura meticolosa, soprattutto per quanto riguarda le malattie crittogamiche (causate da funghi), come ci conferma il nostro esperto interlocutore: «Sono ormai dieci anni che coltiviamo fragole a Mezzana e il clima gioca un ruolo fondamentale nella riuscita dell’annata. In una stagione ottimale raccogliamo fino a 10 quintali, ma la produzione media si aggira sui 3-4 etti per ogni piantina, che corrispondono a 6-8 quintali per tunnel». Un grosso quantitativo, pronto al consumo, che il cliente può trovare anche sugli scaffali di Migros Ticino durante circa tre settimane. Le due varietà Darselect e Clery, avendo due periodi leggermente differenti di maturazione, garantiscono infatti una ripartizione

del raccolto, il quale, lo ricordiamo, avviene rigorosamente in modo manuale. Per garantire lo sviluppo ottimale delle piante, un sistema di fertirrigazione goccia a goccia permette sia di risparmiare acqua sia di nutrire le piante in modo corretto. La coltura sotto tunnel ha l’indubbio vantaggio di proteggere le fragole: «Acqua e freddo, come avvenuto nella primavera del 2013, mettono in serio pericolo l’intero raccolto. L’annata corrente è invece cominciata in modo decisamente migliore», racconta fiducioso Giovanni D’Adda. Le prime fragole ticinesi di Mezzana saranno sugli scaffali delle maggiori filiali Migros da domani, rosse e gustose come sempre. / Elia Stampanoni


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Idee e acquisti per la settimana

Asparagi nostrani: una delizia di stagione Attualità I prelibati asparagi nostrani sono ora disponibili a Migros Ticino. Abbiamo chiesto a Domenico Caputo,

chef del Ristorante Giardino di Bellinzona, di proporci una fresca ricetta che li valorizzi al meglio

Lo chef Domenico Caputo del Ristorante Giardino di Bellinzona. (Flavia Leuenberger)

L’asparago è una di quelle prelibatezze culinarie di cui non si può fare a meno: morbido e croccante nello stesso tempo, con un equilibrio perfetto tra il dolce e l’amaro. Elegante nel presentarsi e delicato nel sapore (verde, violetto o bianco che sia), è uno dei prodotti più pregiati che si possono trovare sul mercato. In cucina la sua principale caratteristica amarognola, evoca il sapore del carciofo. Conosciuto sin dalla notte dei tempi, l’asparago non appare solo nei ricettari, nei trattati di agronomia, nelle opere letterarie, ma anche in alcuni testi medici, in cui riceve elogi per le virtù medicamentose che gli sono attribuite. Anche i gastronomi riconoscono le qualità terapeutiche dell’asparago: e il celebre scrittore romagnolo Pellegrino Artusi, autore de La scienza in cucina e l’arte di mangia-

re bene, loda gli «sparagi» per le qualità digestive e diuretiche. Da Bartolomeo Sacchi, detto il «Platina», erudito del 400, annotiamo i suggerimenti per una cottura ottimale in modo da meglio percepirne le qualità organolettiche. Ma dove l’asparago è il protagonista assoluto è alla corte di Gonzaga a Mantova, grazie alle ricette tramandateci dal cuoco Bartolomeo Stefani. Per la sua bassa percentuale di zuccheri e grassi l’asparago è particolarmente indicato nelle diete dimagranti: sono però da evitare in casi di diabete. L’asparago ha un’azione cardiosedativa e un effetto remineralizzante, e può stimolare l’intestino pigro; ma la sua proprietà più significativa è però quella diuretica, che facilita l’eliminazione dei liquidi in eccesso dal nostro organismo. / Davide Comoli

Gli asparagi verdi nostrani sono coltivati da Salvatore Romeo sul Piano di Magadino e sono ora disponibili al reparto verdura dei maggiori supermercati Migros Ticino. Essendo di una varietà a calibro più piccolo rispetto a quelli importati, sono ottimi anche consumati crudi. Inoltre di questi asparagi si può mangiare tutto.

La ricetta Lasagnetta aperta agli asparagi nostrani e formaggella ticinese fresca

Ingredienti per 4 persone 150 g di sfoglia per lasagna 300 g di asparagi verdi nostrani 300 ml di besciamella 100 g di formaggella ticinese (p. es. Crenga della Valle di Blenio) 200 g ca. di pomodorini ciliegina nostrani sale e pepe q.b. Procedimento Mondare gli asparagi e cuocerli interi in acqua per circa 5 minuti. Tagliare la sfoglia a forma di dischi (o quadrati) nell’ordine di tre a persona, quindi sbollentarli e raffreddare in acqua fredda. Toglierli dall’acqua e riporli su un vassoio.

Per la farcia Riporre in un tegame la besciamella facendola scaldare a fuoco lento ed unire gli asparagi sminuzzati tranne le punte (che useremo come guarnizione), la formaggella nostrana precedentemente tagliata a dadini finché il composto non risulti piuttosto duro. Aggiustare di sale e pepe e riporla in frigorifero per un’oretta. A questo punto stendere i dischi di sfoglia su una placca da forno imburrata e farcirli con la massa tolta dal frigo, nell’ordine di due strati. Cuocere nel forno preriscaldato per circa 7 minuti a 190 C°, giusto il tempo di scaldare il tutto. Per la guarnizione del piatto Servire accompagnandola con una salsa ai pomodorini nostrani padellati brevemente in olio extra vergine d’oliva insieme alle punte di asparagi.


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Idee e acquisti per la settimana

Trote dal Malcantone Attualità Le trote iridee nostrane disponibili a Migros Ticino provengono dalla Piscicoltura

di Pura. Abbiamo incontrato Rodolfo Jäger, responsabile dell’allevamento

Un paradiso! È l’impressione ispirata dalla Piscicoltura di Pura al visitatore che vede per la prima volta i suoi limpidi laghetti immersi nella natura. Vi nuotano le trote della varietà iridea, conosciute anche sotto il nome di trote arcobaleno. Questi pesci si contraddistinguono per il corpo allungato e una livrea dai colori vivaci con puntini neri su dorso e pinne, mentre il ventre è di color bianco. «La trota iridea è un pesce carnivoro di buona crescita, particolarmente idoneo all’allevamento», spiega Rodolfo Jäger, responsabile dell’azienda malcantonese. «I pesci vivono in acqua sorgiva a temperature stabili tra gli 8 e i 12 °C, disponendo di molto spazio per nuotare. La loro alimentazione è costituita da mangime biologico a base di farina di pesce proveniente da pesca sostenibile». Al raggiungimento dei 18 mesi e di un peso di 200-350 grammi, le trote iridee vengono catturate e immediatamente lavorate secondo severe norme igieniche. «Dalla pesca alla fornitura ai negozi Migros non trascorrono neanche due giorni: solo così i consumatori potranno apprezzare tutta la qualità e la freschezza di un prodotto sano, nutriente e leggero come il nostro», conclude Rodolfo Jäger. Dal punto di vista gastronomico la trota è da sempre apprezzata per la sua versatilità. La si può preparare in tanti modi, sia intera o come filetto, ma non va mai cotta troppo a lungo. Rosolata, brasata, al forno, la sua carne compatta dal sapore squisito conquisterà qualsiasi buongustaio. Rodolfo Jäger, piscicoltore. (Giovanni Barberis)

Trota alle verdure Ricetta per 4 persone

Ingredienti Per il brodo servono: 6 gambi di sedano; 8 carote medie; 4 porri; 4 cipolle; 4 foglie d’alloro; 2 spicchi d’aglio; 2 mazzetti di prezzemolo; estratto di verdura istantaneo; pepe; sale e spezie ; 4 trote nostrane intere pulite Procedimento In una casseruola alta riempita con 3 litri d’acqua aggiungere tutti le verdure tagliuzzate e le spezie. Portare il tutto ad ebollizione e lasciar cuocere lentamente fino alla cottura delle verdure (mezzoretta ca.). Interrompere la bollitura e aggiungere le trote: saranno pronte quando le pupille si staccano dalla testa. Servire insieme trote e ortaggi, versando sulla carne, a piacimento, un po’ di burro fuso salato o un filo d’olio d’oliva.

Squisito Purscéll

Perché non trovarsi con i migliori amici davanti ad una tavola imbandita, parlando del più e del meno, concedendosi un buon pranzetto, magari all’aperto, con un menu rigorosamente a base di prodotti del nostro territorio? All’appuntamento non possono ovviamente mancare i prodotti di carne di maiale nostrano, grazie ai quali farete sempre bella figura. Alcune fette di pancetta arrotolata, salàm al Merlot o coppa per cominciare, seguite da una lumaca di luganighetta e un involtino grigliati a puntino: il pasto diventa così una vera

Salám al Merlot 100 g Fr. 5.35 Pancetta arrotolata 100 g Fr. 4.65 Luganighetta 100 g Fr. 2.60 Coppa 100 g Fr. 5.70 Involtini 100 g al prezzo del giorno

festa gastronomica. E questo grazie all’ottima qualità di questa carne, che viene da maiali nati e allevati con cura sul Piano di Magadino, dapprima nella Masseria Ramello di Contone e successivamente nella Fattoria del Faggio di Giubiasco, allevamenti dove il benessere degli animali è garantito dagli ampi spazi in cui possono muoversi, da luce naturale e da un’alimentazione al 100% vegetale. Oltre alle specialità citate, tra salumi e carne fresca, a Migros Ticino sono disponibili una ventina di prodotti a base di carne di maiale nostrano.


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Idee e acquisti per la settimana

Pani Nostrani, gusto genuino a km zero Freschezza Sole e convivialità sulla vostra tavola

Flavia Leuenberger

Pan Nostran 300 g Fr. 1.85 invece di 2.20 Pan Nostran Integral 400 g Fr. 2.25 invece di 2.70 Azione valida dal 29.4 al 5.5.

Innovazione che sposa la tradizione a servizio di qualità e genuinità, con un particolare occhio di riguardo all’efficienza ecologica della produzione. Tenendo fermi questi principi Migros ha immaginato i suoi pani Nostrani. Ė solo da tempi recenti che in Ticino si sono avviate colture di frumento panificabile con l’obiettivo di ottenere farine dalla

qualità elevata, di fatto permettendo la creazione di filiere a km zero e riducendo notevolmente l’impatto ambientale della produzione. Il grano, coltivato sul Piano di Magadino e nel Mendrisiotto, è macinato con cura presso il Mulino di Maroggia in modo da mantenere intatte tutte le qualità nutrizionali contenute nei chicchi di frumento. Solo così, cu-

rando la selezione del frumento coltivato e macinandone i chicchi seguendo dei criteri ben precisi si può ottenere una farina di qualità superiore, ottima per la produzione di pane. La farina viene poi impastata con altri semplici ingredienti – acqua, lievito e sale – e lavorata dalle mani esperte dei panettieri della Jowa di S. Antonino, che danno forma

Lo sapevate che…?

Negli anni Settanta durante uno scavo archeologico a Twann (canton Berna), fu ritrovata una pagnotta di pasta lievitata fatta con farina greggia. Dopo accurate analisi, la pagnotta non solo si rivelò il più antico pane trovato sul territorio elvetico, ma addirittura il più antico di tutta l’Europa. Questo ci fa riflettere sul modo di nutrirsi dei nostri antenati e ci fa capire quanto il pane sia un bene prezioso. Un bene che le donne ticinesi hanno fatto diventare una squisitezza, usando pane raffermo imbevuto nel latte con l’aggiunta di ingredienti

semplici quali uvette, cacao, pinoli e spezie e cuocendo poi l’impasto in forno lentamente. Ecco nato un capolavoro dell’«arte bianca»: la torta di pane. Il profumo intenso di cioccolato, ma non dolce, è apprezzato anche dai buongustai più raffinati. La ricetta varia a seconda della regione o valle in cui si prepara. Noi vi consigliamo di assaggiare quella nostrana preparata dai pasticceri della Jowa di S. Antonino, seguendo una ricetta del noto chef Lorenzo Albrici. La trovate al reparto refrigerati delle maggiori filiali di Migros Ticino.

ai due pani Nostrani. Il pane nostrano semplice viene formato a micche, forma tradizionale del pane ticinese che facilmente evoca immagini di convivialità e condivisione attorno ad una tavola imbandita. Morbidissimo, dal gusto genuino – conferito dalla farina di frumento scura – che ricorda i pani di una volta, ben si sposa con del culatello nostrano o

dei formaggi saporiti dei nostri alpeggi. Una forma tonda, classica della pagnotta rustica, viene data al pane nostrano integrale che è abbellito da dei tagli a raggio di sole. Dalla consistenza e gusto più rustici si accompagna molto bene a dei formaggi a pasta morbida con un sapore più delicato, oppure ancora del prosciutto cotto. / Luisa Jane Rusconi

Gazose Nostrane ora in offerta speciale

Renzo Nespoli, direttore della Sicas. (Flavia Leuenberger)

Tórta da pan 520 g Fr. 9.25 invece di 11.60 Azione valida dal 29.4 al 5.5.

Ecco un rinfrescante prodotto che non passa mai di moda: le gazose nostrane. Tra le bevande più gettonate durante la stagione calda – ma non solo - sono prodotte a Chiasso dalla Sicas SA seguendo antiche ricette della tradizione mendrisiense, utilizzando ingredienti naturali ed escludendo ogni tipo di conservante.

La gamma proposta dalla Sicas è oggi molto ampia e diversificata: è praticamente impossibile che qualcuno resti a mani vuote. Nelle pratiche bottigliette con tappo a corona dalla grafica accattivante troverete così i gusti limone, mandarino, sambuco, lampone, mirtilli, uva americana e castagne.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 28 aprile 2014 ¶ N. 18

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Idee e acquisti per la settimana

La versatilità dei Raviöö In cucina vi piace essere versatili, creando ricette sempre diverse? Abbiamo chiesto all’estroso Davide Mitolo, titolare del Pastificio l’Oste di Quartino, produttore degli amati «Raviöö» dei Nostrani del Ticino Migros, di proporci una fresca ricetta stagionale a base di una delle sue molte specialità. Per 4 persone servono 2 confezioni di ravioli alle erbette, 100 g di caprino e pepe nero macinato di fresco. Far sobbollire i ravioli per 3-4 minuti. Prelevare 2 mestoli di acqua di cottura e con questa far sciogliere il caprino fino a renderlo una crema abbastanza liquida. Scolare i ravioli, condirli subito con la salsa al formaggio e spolverare a piacimento con del pepe macinato sul momento.

i Raviöö 250 g Fr. 6.80

Latte fresco dal Ticino

Giovanni Barberis

Latte Drink pastorizzato 1l Fr. 1.50 Latte Intero pastorizzato 1l Fr. 1.50 Latte Intero pastorizzato 50 cl Fr. –.95

È genuino, perché elaborato accuratamente in Ticino con latte autoctono ed è pratico da conservare, grazie all’elegante packaging con tappo a vite richiudibile. Il latte nostrano – Lacc Frésch Ticinés – arriva esclusivamente da decine di allevatori appartenenti alla Federazione Ticinese Produttori di Latte, contadini che alimentano le loro mucche in modo naturale. Tutte le fasi delle filiera sono rigorosamente controllate per assicurare al consumatore un prodotto di prima qualità, ricco dal profilo organolettico e igienicamente sicuro. I brevissimi tempi di lavorazione da parte della LATI garantiscono un prodotto sempre freschissimo. Il latte fresco ticinese è disponibili in tre formati. Va mantenuto in frigorifero a meno di 5 gradi e, una volta aperto, va consumato rapidamente.

Sfiziosità da portar via Con l’arrivo delle temperature miti cosa ne direste di una pausa pranzo all’aperto, gustando qualcosa che sia al contempo sfizioso e nutriente? Grazie alle nuove proposte fredde dei De Gustibus Migros sicuramente non resterete delusi. La gamma, in grado di accontentare sia onnivori che vegetariani, è disponibile in una pratica vaschetta richiudibile, e include piatti freddi quali salmone affumicato, roastbeef, vitello tonnato, insalata caprese, verdure ai ferri, insalata russa, insalata di riso e cous-cous. Gli amanti delle croccanti insalate troveranno invece le nostre proposte sotto forma di insalata con asparagi, insalata primavera (lattuga, pomodoro, formaggio, mele e olive) e insalata di pollo con cetrioli. Altre info su www.migrosticino.ch/ristorazione/ attivita.

Salmone affumicato 205 g Fr. 8.50

Roastbeef 175 g Fr. 9.50

Insalata caprese 330 g Fr. 7.50


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CONSIGLIAMO Grande gusto all’insegna del latte magro, naturalmente con Leerdammer. L’abbinamento perfetto: panini alla pancetta,al rosmarino e alle olive. Trovi la ricetta su www.saison.ch/it/consigliamo e tutti gli ingredienti freschi alla tua Migros.

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Prosciutto speziato M-Classic Svizzera, per 100 g

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Fettine fesa di vitello, TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g

Salame Strolghino di culatello Italia, pezzo da ca. 250 g, per 100 g

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Mirtilli, bio Spagna, in vaschetta da 250 g

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Öv nostrán (uova nostrane allevamento all’aperto) Ticino, 9 pezzi, 53 g+

Roastbeef cotto Svizzera / Germania, affettato in vaschetta, per 100 g

Carne secca Svizzera, 125 g, 20% di riduzione

Cosce di pollo Optigal 4 pezzi, Svizzera, per es. cosce di pollo Optigal speziate, al kg

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Mele Gala dolci Svizzera, al kg

Pesche gialle Spagna, sciolte, al kg

Gnòcch da patati (gnocchi di patate) prodotti in Ticino, in conf. da 500 g, 20% di riduzione

Tortelloni M-Classic in conf. da 3 per es. ricotta e spinaci, 3 x 250 g

Diversi tipi di pesce per il grill* 20% di riduzione, per es. spiedini di merluzzo e gamberetti per il grill, pesca, Pacifico / allevamento, Vietnam, 330 g

Salmone affumicato Scozia, in conf. da 3 x 100 g

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Cornatur in conf. da 2 25% di riduzione, per es. fettine di quorn con mozzarella e pesto, 2 x 240 g

Tutte le torte non refrigerate incluse Sélection, 20% di riduzione, per es. torta di Linz, 400 g

Tutti i Pain Création –.40 di riduzione, per es. pane rustico, 400 g

Noci miste o cranberries Sun Queen in conf. da 2 Diversi pesci surgelati Pelican 20% di riduzione, per es. cranberries, 2 x 150 g surgelati, 20% di riduzione, per es. filetti dorsali di merluzzo dell’Atlantico, MSC, 400 g

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Bouquet di gigli e rose Linda il mazzo

Diverse orchidee in vaso da 12 cm, la pianta

Tutti i tipi di caffè, in chicchi o macinato, da 500 g, UTZ per es. Boncampo in chicchi, 500 g

Tutti i brodi Knorr a partire dall’acquisto di 2 prodotti, 1.– di riduzione l’uno, per es. brodo di verdure, 109 g

Tutta la pasta M-Classic a partire dall’acquisto di 2 confezioni, –.30 di riduzione l’una, per es. pipe, 500 g

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PANE E LATTICINI

Insalata del mese Anna’s Best, con il 20% di contenuto in più, 200 g + 40 g gratis 3.75

Tutti i Pain Création, –.40 di riduzione, per es. pane rustico, 400 g 3.40 invece di 3.80

Mele Gala dolci, Svizzera, al kg 2.30 invece di 3.50 33%

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Fragole, Spagna / Italia, in vaschetta da 500 g 1.80

Milkiss, 4 x 75 g 3.45 NOVITÀ **

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Pomodori Cherry ramati, Ticino, imballati, 500 g 2.50 invece di 3.60 30%

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FIORI E PIANTE

Pesche gialle, Spagna, sciolte, al kg 5.50 invece di 7.90 30%

Bouquet di gigli e rose Linda, il mazzo 14.90

Meloni Charentais, Marocco / Senegal, al pezzo 2.95 invece di 4.50 33%

Diverse orchidee, in vaso da 12 cm, la pianta 17.80 invece di 25.80 30%

PESCE, CARNE E POLLAME Bistecca di lonza di maiale, marinata, TerraSuisse, Svizzera, per 100 g 2.10 invece di 4.20 50% Diversi tipi di pesce per il grill, per es. spiedini di merluzzo e gamberetti per il grill, pesca, Pacifico / allevamento, Vietnam, 330 g 10.80 invece di 13.50 20% * Prosciutto speziato M-Classic, Svizzera, per 100 g 2.80 invece di 4.– 30% Carne secca, Svizzera, 125 g 6.80 invece di 8.50 20% Cosce di pollo Optigal, 4 pezzi, Svizzera, per es. cosce di pollo Optigal, speziate, al kg 9.– invece di 14.– 35% Luganighetta, Svizzera, imballata, per 100 g 1.20 invece di 2.– 40% Roastbeef cotto, Svizzera / Germania, affettato in vaschetta, per 100 g 4.80 invece di 6.90 30% Salame Strolghino di culatello, Italia, pezzo da ca. 250 g, per 100 g 3.50 invece di 5.10 30% Tutto l’assortimento di manzo Charolais, Ticino, per es. bistecche di manzo, imballate, per 100 g 3.90 invece di 4.90 20%

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Tutti i brodi Knorr, a partire dall’acquisto di 2 prodotti, 1.– di riduzione l’uno, per es. brodo di verdure, 109 g 3.10 invece di 4.10

Dipladenia, in vaso da 10 cm, la pianta 5.90 invece di 7.90

ALTRI ALIMENTI Tutti i praliné Frey in scatole e i cioccolatini Adoro, UTZ, per es. Pralinés Prestige, 250 g 11.65 invece di 14.60 20%

Tutte le torte non refrigerate, incluse Sélection, per es. torta di Linz, 400 g 2.55 invece di 3.20 20% Tutti i millefoglie, per es. 2 pezzi, 157 g 1.75 invece di 2.20 20% Vinaigrette al lampone Anna’s Best Limited Edition, fantastico gusto di lampone, da marzo a settembre 5.30 Scelto dai clienti Salse per insalata Anna’s Best, ricette nuove e migliorate, senza conservanti, per es. French, 20x 700 ml 5.80 NOVITÀ *,** Tortelloni M-Classic in conf. da 3, per es. ricotta e spinaci, 3 x 250 g 7.70 invece di 11.10 30% Cornatur in conf. da 2, per es. fettine di quorn con mozzarella e pesto, 2 x 240 g 9.70 invece di 13.– 25% Olio extra vergine d’oliva, Olearia del Chianti, 3 l 25.– Torta di pane Nostrana, 520 g 9.25 invece di 11.60 20%

Mentos Fruit in conf. da 5 con astuccio gratuito o Mentos World Flavours in conf. da 8, per es. Mentos Fruit, 5 x 38 g 4.65

Gnòcch da patati (gnocchi di patate), prodotti in Ticino, in conf. da 500 g 2.80 invece di 3.50 20%

ChocMidor Rondo o Carré in conf. da 3, per es. Carré, 3 x 100 g 6.20 invece di 9.30 33%

Öv nostrán (uova nostrane allevamento all’aperto), Ticino, 9 pezzi, 53 g+ 3.90 invece di 4.90 20%

Tutti i tipi di caffè in chicchi o macinato da 500 g, UTZ, per es. Boncampo in chicchi, 500 g 3.50 invece di 4.40 20% Noci miste o cranberries Sun Queen in conf. da 2, per es. cranberries, 2 x 150 g 3.40 invece di 4.30 20% Diversi pesci surgelati Pelican, surgelati, per es. filetti dorsali di merluzzo dell’Atlantico, MSC, 400 g 8.30 invece di 10.40 20%

Fettine fesa di vitello, TerraSuisse, Svizzera, imballate, per 100 g 4.55 invece di 6.60 30% Mini filetti di pollo Optigal, Svizzera, imballati, per 100 g 2.90 invece di 3.65 20%

Tutti i gelati M-Classic in vaschetta da 2000 ml, per es. alla vaniglia 4.70 invece di 5.90 20%

Salmone affumicato, Scozia, in conf. da 3 x 100 g 14.40 invece di 21.60 33%

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Prosciutto cotto alle erbe di Olivone, prodotto in Ticino, al banco a servizio, per 100 g 3.10 invece di 4.50 30%

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Tavolette di cioccolato Frey da 100 g in conf. da 10, UTZ, per es. al latte finissimo, 10 x 100 g 12.90 invece di 18.50 30%

Megastar in conf. da 12, UTZ, alla vaniglia, alla mandorla o al cappuccino, per es. alla mandorla, 12 pezzi, 1440 ml 8.90 invece di 17.80 50%

Filetto di passera, MSC, Atlantico nord-orientale, per 100 g 2.20 invece di 2.80 20% fino al 3.5

Tonno M-Classic in olio o in acqua in conf. da 6, per es. tonno rosa in olio, 6 x 155 g 9.10 invece di 11.40 20%

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Schorle mela-rabarbaro, bio, per es. 50 cl 1.60 20x NOVITÀ ** **Offerta valida fino al 12.5

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 28 aprile 2014 ¶ N. 18

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Idee e acquisti per la settimana

Cento lacrime mille sorrisi

Migros Tenero premia

presenta il suo nuovo libro edito da Sperling & Kupfer

legato all’inaugurazione della rinnovata filiale Migros a Tenero

Attualità La nota autrice ticinese Chiara Pelossi-Angelucci ci

«Scrivere questo libro ha rappresentato per me un’importante sfida. I primi due libri erano di pura fantasia in stile comico e nascevano da un’iniziativa personale. Come succede spesso spesso ai libri comici, anche il mio ha suscitato reazioni contrastanti tra i lettori: c’é chi ne è rimasto entusiasta e chi no. Questo volume invece mi è stato commissionato da una grande casa editrice che mi ha chiesto di scrivere la storia vera e commovente di mia figlia mantenendo qua e là lo stesso stile fresco e allegro dei precedenti volumi. È nato così «Cento lacrime mille sorrisi», un racconto delizioso che porterà il lettore sull’ottovolante delle emozioni, facendolo commuovere e divertire allo stesso tempo. Potendo contare sul supporto di una editor professionista nella redazione di questo mio nuovo libro, ritengo di aver potuto imparare tanto e di aver fatto un salto di qualità importante nella mia scrittura. Sono quindi fiduciosa del fatto che potrà piacere a un pubblico ampio. La casa editrice ha inoltre accolto la mia richiesta e anche in questo caso parte del ricavato sarà devoluto in beneficenza».

Inaugurazione La premiazione del concorso

Si è svolta negli scorsi giorni, presso il supermercato Migros di Tenero, la premiazione del concorso organizzato dal 27 al 29 marzo per festeggiare la riapertura di questo negozio. Un punto vendita che rappresenta un’importante presenza di Migros Ticino in una zona residenziale del Locarnese che negli ultimi 20 anni ha registrato un notevole incremento di abitanti. Le 10 carte regalo Migros del

valore di 100 franchi ognuna sono state aggiudicate a: Manuela Ghidoni, Gordola – Antonietta Frey Marinoni, Tenero – Aldo Bacciarini, Riazzino – Bianca Calzascia, Cugnasco – Raffaella Imperatori, Gordola – Verena Vaerini-Kipfer, Gordola – Barbara Vosti, Cugnasco – Marino Brughelli, Contra – Gertrud Grundner, Mergoscia e Silvia Ritsch di Tenero. Congratulazioni ai fortunati vincitori!

Cento lacrime mille sorrisi di Chiara Pelossi-Angelucci Ed. Sperling & Kupfer In vendita nei reparti libri di Migros Ticino L’autrice presenterà il libro martedì 29 aprile 2014 alle ore 18.30 presso il Palazzo Sopracenerina di Locarno.

6 dei 10 vincitori con Renato Facchetti, Responsabile dei Servizi Marketing di Migros Ticino. (Giovanni Barberis) Annuncio pubblicitario

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Torta di pane

2.90

1.65

2.50

Cacao in polvere 200 g

Uva sultanina secca 300 g

Flûte alla francese 500 g

2.10 19.80

1.50

Tortiera con bordo staccabile 26 cm

Lacc frésch ticinés (latte fresco ticinese) drink, prodotto in Ticino, 1 litro

In vendita nei maggiori supermercati di Migros Ticino.

Scorza di cedro a cubetti condita 100 g


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Idee e acquisti per la settimana

Spiedini che passione Lo spiedino gigante soddisfa tutta la vostra voglia di carne grigliata. Già pronto con tanti bei pezzettoni di carne e salsiccette, vi offre inoltre uno spiedo di metallo riutilizzabile in seguito per le vostre creazioni personali Quando le temperature salgono, aumenta anche la voglia di una bella grigliata all’aperto, per rallegrare le proprie serate. Deliziose pietanze preparate ai ferri sono, infatti, proprio quel che ci vuole per godersi le ultime ore del giorno in compagnia, con la famiglia o con gli amici. Alla vostra fantasia non ci sono praticamente limiti: la brace cucina tutto ciò che piace. E,

meno tempo richiede la preparazione, più felice è il cuoco addetto al grill, che da buon intenditore conosce tutti i trucchetti e sa bene che la Migros gli offre tutto il necessario per facilitarsi il compito. Lo spiedino gigante con carne di manzo e maiale, pancetta e salsiccette, ne è un ottimo esempio. Appena tolto dall’imballaggio, è già pronto da mettere sul

grill. E una volta deliziato il palato, resta lo spiedo di metallo per la vostra prossima creazione personale. Che ne dite, per esempio di provare con dell’ottimo pesce; tenendo naturalmente conto delle proprietà di ognuno, poiché non tutti i tipi sono adatti per la cottura sottoforma di spiedino. Perfetti a tale scopo sono il salmone, la trota, l’orata e il merluzzo, ma anche frutti di

mare come le capesante e i gamberetti, questi ultimi da usare rigorosamente crudi. I gamberi già cotti, passandoli alla griglia, infatti, diventerebbero spiacevolmente duri. Qualcuno è forse tentato da una composizione mista? Non esiti a chiedere consiglio ai banchi Migros; i nostri specialisti sono infatti sempre pronti a dare una mano. / HB

Spiedino gigante con carne di manzo e di maiale, pancetta e salsiccette di maiale Fr. 3.35 per 100 g In vendita nelle maggiori filiali Migros.

Cosa mettere sullo spiedo è una questione di gusto personale. L’importante è utilizzare pezzi di grandezza uguale.

Polpettine di manzo M-Classic 200 g Fr. 4.50 In vendita nelle maggiori filiali Migros.

Cipollata TerraSuisse 200 g Fr. 4.65

Pancetta da grigliare TerraSuisse Fr. 2.55 per 100 g

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche gli alimenti per le vostre grigliate.


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Idee e acquisti per la settimana

Sapori brasiliani Il verde è il colore della primavera e dell’estate e, in sintonia con la bella stagione, la Chocolat Frey presenta ora una raffinata bontà: i golosi truffes deliziosamente profumati alla Caipirinha

Truffes alla Caipirinha Frey, Limited Edition 140 g Fr. 7.60* invece di 9.50 * 20% su tutti i praliné Frey in scatola e gli Adoro dal 29.4 al 12.5 In vendita nelle maggiori filiali Migros

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui l’edizione limitata di truffes alla Caipirinha della Chocolat Frey.

Stefanie Schiffgen (42), Niederönz BE professionista indipendente I truffes alla Caipirinha mi piacciono molto. Il loro manto è sorprendentemente croccante, e anche il grado di dolcezza è perfetto e in sintonia con la primavera e l‘estate. Il ripieno, invece, per i miei gusti potrebbe essere leggermente più cremoso e leggero.

I truffes alla Caipirinha sono ricoperti da un finissimo strato di zucchero a velo.

Quest’estate, il Brasile attirerà l’attenzione di tutti i tifosi di calcio del mondo. Gli imminenti mondiali di calcio hanno contagiato anche i grandi cioccolatieri della Chocolat Frey, che per la loro nuova creazione si sono ispirati al cocktail brasiliano per eccellenza, ovvero alla Caipirinha. Questi irresistibili truffes dal colore verde acceso saranno disponibili solo per breve tempo in edizione limitata. Agli occhi dei grandi appassionati

di calcio, queste piccole e gustose palline rievocheranno la forma del pallone di calcio, mentre i meno sportivi le considereranno semplicemente un inno al celebre cocktail brasiliano. Un cuore di cioccolato bianco ricoperto da un manto color verde limetta

Queste piccole bontà sorprendono con il loro rinfrescante gusto e il finissimo ripieno raffinato con un

Illustrazioni: Heiko Hoffmann; styling: Katja Rey

IL LETTORE ESPERTO

goccio di Cachaça. Grazie alla copertura di cioccolato bianco color verde limetta, leggermente spolverata con dello zucchero a velo, anche dal punto di vista del colore, questi truffes fanno onore al loro nome. A proposito: queste incantevoli delizie ricoperte di cioccolato bianco profumate alla Caipirinha, oltre ad allietare le emozionanti serate di calcio brasiliane davanti alla TV, sono ideali da regalare a chi più ci sta a cuore. La festa della mamma è alle porte! / DH


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Illustrazioni: Getty Images; iStockphoto

Idee e acquisti per la settimana

Idrata la pelle a fondo per 24 ore. I am Body Lotion Hydratante 400 ml Fr. 4.90 Azione con conf. doppia: Fr. 7.80* invece di 9.80

Rinfrescanti salviettine detergenti per pelli normali e miste, arricchite di estratto di fiori di mandorlo e provitamina B5. I am Face 25 pezzi Fr. 4.60 Conf. doppia: Fr. 7.35

La natura rifiorisce e risplende in tutta la sua bellezza. E osservandola vien voglia di imitarla. L’inverno, infatti, con il freddo fuori e l’aria secca e calda in casa, ha fortemente sollecitato la nostra pelle e i capelli. È il momento, quindi, di regalare tante piccole attenzioni al nostro corpo. La linea di cosmetici della Migros I am propone una vasta gamma di prodotti trattanti per qualsiasi esigenza ed età, in grado di prendersi cura del corpo dalla testa ai piedi. Queste «pulizie di primavera» speciali iniziano dai capelli e dal loro styling, passando per il viso e il corpo, fino ad arrivare all’ultimo tocco dato con il deodorante e il balsamo per le mani. Qualsiasi sia il vostro tipo di pelle, normale, esigente o sensibile, alla Migros trovate prodotti speciali per ogni bisogno. Inoltre, con I am natural, la Migros vi offre una valida linea di cosmetici naturali certificati. Concedetevi qualche ora di assoluto relax, celebrando in tutta intimità i vostri rituali di bellezza primaverili, iniziando con la cura dei capelli, per poi proseguire con la maschera per il viso, la depilazione delicata e tante altre piccole attenzioni da dedicare al vostro corpo. E in compagnia di un’amica il divertimento raddoppia. Lo spazio Style Channel dedicato alla bellezza sul sito web I am (www.i-am.ch) offre tanti utili trucchi e consigli per preparare la pelle in modo ottimale alla bella stagione. E farla rifiorire, esattamente come la natura, in tutto il suo splendore. / Jacqueline Vinzelberg

Docciaschiuma cremoso e delicato. I am Shower Milk & Honey 250 ml Fr. 2.20 Azione con conf. tripla: Fr. 4.40* invece di 6.60

Rilassa svolgendo un’azione calmante: maschera idratante con miele e aloe vera. I am Natural Cosmetics 2 x 7,5 ml Fr. 2.20* invece di 2.80

Pulizie di primavera per il corpo Siete pronte per preparare il corpo all’arrivo dell’estate? I am vi offre una gamma completa di prodotti per una cura di bellezza a 360°

Olio trattante per capelli, senza risciacquo: ripara i capelli senza appesantirli rendendoli morbidi e brillanti. I am Professional Oil Repair 100 ml Fr. 7.40* invece di 9.30 * Azione dal 5.5 fino a esaurimento dello stock

Particolarmente indicata per la pelle sensibile grazie all’olio d’albicocca, alla vitamina E e all’aloe vera. Crema depilatoria I am Sensitive 150 ml Fr. 6.30* invece di 7.90

Si prende cura delle mani ruvide. Balsamo rigenerante per le mani I am 50 ml Fr. 2.85* invece di 3.60

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui gli articoli I am.


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Idee e acquisti per la settimana

Salsa Balsamique Tradition 450 ml Fr. 5.50

Salsa Espagnole Tradition 450 ml Fr. 5.50 In vendita nelle maggiori filiali Migros.

Salsa Italienne Tradition 450 ml Fr. 5.50

Tradition oblige Le quattro nuove salse per insalate già pronte Tradition, sono così buone, come quelle fatte in casa. Sono infatti preparate secondo ricette di successo, con ingredienti freschi

Antipasto, contorno o piatto forte: le variazioni d’insalata sono perfette per qualsiasi portata. Comunque sia, è la salsa a fare di un’insalata un piatto davvero speciale. E ora la linea Tradition della Migros, finora conosciuta per i dessert, ve ne propone quattro classiche di qualità Premium, disponibili nel reparto frigorifero: Française aux herbes, Italienne, Espagnole e Balsamique. Tutte e quattro sono preparate

esclusivamente con ingredienti freschi, secondo una ricetta tradizionale. Per la salsa francese e quella italiana impiega, ad esempio, erbette appena colte e per quella spagnola succo di limone e pezzetti di aglio freschi. La linea Tradition punta, infatti, sull’autenticità dei suoi prodotti, rinunciando a coloranti, conservanti e aromi artificiali. Le salse sono prodotte e imbottigliate, settimana per settima-

na, nell’impresa Elsa appartenente alla Migros, rispettando la proporzione di olio e aceto generalmente calcolata per le salse fatte in casa di due parti di olio e una di aceto. Gli ingredienti base vengono quindi emulsionati senza aggiunta di alcuno stabilizzante, motivo per cui - dopo un certo periodo - le diverse componenti si dissociano e l’olio sale in superficie. Si consiglia perciò di agitare la bottiglia prima di ogni impiego. / DH

Per la bottiglia abbiamo scelto una grandezza indicata anche per le piccole economie domestiche.

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche le salse per insalate Tradition.

Salsa Française aux herbes Tradition 450 ml Fr. 4.90


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Idee e acquisti per la settimana

Tuffi e sole sono il bello dell’estate. E per godersi la bella stagione, l’olio solare Sun Look con booster dell’abbronzatura è proprio quel che ci vuole.

Un tuffo nei piaceri dell’estate Protezione e tintarella non sono un controsenso

Il sole mette di buon umore ed è indispensabile per la produzione di vitamina D nel corpo umano. Prima di abbandonarsi ai piaceri all’aria aperta, è però assolutamente consigliabile proteggersi in modo corretto e sufficiente. Sun Look vi offre una vasta scelta di prodotti per ogni esigenza, dalla protezione al doposole. Tra i più richiesti attualmente, troviamo l’olio solare Sun Look protect & tan Oil con fattore di protezione 15 e il booster dell’abbronzatura Solarin III, una sostanza vegetale in grado di

stimolare la sintesi melamminica della pelle e accelerare così l’abbronzatura naturale; il tutto senza alcun autoabbronzante. Quest’olio solare contiene inoltre dei filtri efficaci in grado di proteggere dai dannosi filtri UVA/UVB. In formato spray, si applica facilmente in qualsiasi momento, penetra rapidamente, idrata a fondo per tutto il giorno e conferisce alla pelle un aspetto piacevolmente vellutato, senza comunque renderla appiccicosa. Inoltre è resistente all’acqua; quindi, largo ai tuffi! / JV

Sun Look protect & tan Oil IP 15 150 ml Fr. 11.60* invece di 14.50 * 20 percento di riduzione sull’intero assortimento Sun Look dal 29.4 al 12.5

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche i prodotti Sun Look.


300 prodotti ticinesi e genuini. I Nostrani del Ticino sono la riscoperta dei sapori locali e provengono esclusivamente da aziende ticinesi che ne garantiscono la qualità , la freschezza e la genuinità . Essi rappresentano l’impegno concreto e coerente nel sostenere agricoltori, allevatori e produttori alimentari della nostra regione.


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