Azione 17 del 22 aprile 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 22 aprile 2014

Azione 17 -59 ping M shop ne 45-48 / 57 i alle pag

Società e Territorio In Svizzera si va verso una centralizzazione dei reparti maternità: le preoccupazioni delle levatrici

Ambiente e Benessere La Terra come la Luna o Marte: sul nostro pianeta esistono diversi luoghi molto simili a pianeti alieni

Politica e Economia Sulle elezioni parlamentari irachene incombe l’incubo dell’estremismo islamico

Cultura e Spettacoli Scoperta a Rimini la casa di un medico vissuto poco meno di duemila anni or sono

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di Sara Rossi pagina 5

Vincenzo Cammarata

Vivere il Convento

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Il tempo fugge, il mare incalza di Peter Schiesser Se volete visitare le isole Maldive con il loro mare turchese, o i Sundarbans, l’estesa regione nel delta del Gange a cavallo fra India e Bangladesh regno delle ultime tigri del Bengala, oppure l’arcipelago di San Blas nel mar dei Caraibi davanti a Panama, per millenni patria degli indio Kuna, affrettatevi: tra qualche decennio potreste trovare solo mare. E se vogliamo evitare ai popoli più poveri di oggi di dover tentare di sfuggire a miserie ancora maggiori cercando sopravvivenza altrove, perché il mare avrà eroso o sommerso o anche solo bruciato con il sale le terre che coltivano, affrettiamoci: come sottolineato nell’ultimo rapporto dell’Intergovernmental panel on climate change (ONU), non resta più molto tempo per evitare che venga superata la soglia di un aumento della temperatura atmosferica di due gradi rispetto all’era pre-industriale, limite oltre il quale i cambiamenti climatici diverrebbero incontrollabili: entro 15 anni deve realizzarsi la svolta tecnologica ed energetica, con massicci investimenti nelle energie verdi e un’altrettanto importante riduzione degli investimenti nelle energie fossili, affinché entro il 2050

le emissioni di CO2 si riducano del 40-70 per cento. Nella terza parte del suo rapporto (presentata una settimana fa), mastodontico lavoro che viene elaborato ogni 5-6 anni, l’IPCC constata che in questi anni è cresciuta la consapevolezza del problema e la sensibilità dei governi. Tuttavia, le misure applicate non sono bastate per contrastare un aumento delle emissioni di CO2: a causa di una crescita economica mai vista in precedenza su scala planetaria, nel primo decennio del nuovo secolo le emissioni di CO2 sono raddoppiate rispetto agli ultimi decenni del Novecento. E se pure qua e là sono stati raggiunti i primi obiettivi del protocollo di Kyoto (per la Svizzera, una riduzione delle emissioni di CO2 dell’8 per cento fra il 2008 e il 2012 rispetto al 1990 e del 20 per cento entro il 2020), e se anche gli Stati Uniti (non firmatari del protocollo) e la Cina hanno autonomamente adottato misure in difesa del clima, ormai questi approcci e obiettivi non sono più sufficienti. Serve urgentemente una politica incisiva, che renda più care le energie fossili e più accessibili quelle rinnovabili, sostenuta da un solido trattato internazionale. Dieci Paesi, con in testa Cina e Stati Uniti, sono responsabili del 70 per cento delle emissioni di CO2, è vitale coinvolgerli tutti. Fin qui, l’accordo è stato invocato da più parti ma non ancora

trovato. Si sta lavorando con l’obiettivo di firmarlo l’anno prossimo, perché possa entrare in vigore nel 2020. Forse l’ottimismo è un po’ eccessivo: senza gli Stati Uniti non si va da nessuna parte, questa volta, vanno perciò considerati i tempi politici per ottenere un consenso interno. Come scrive in un’analisi il «New York Times», una tassa sui carburanti fossili – assolutamente necessaria per una svolta energetica – resta molto impopolare, proporla prima delle elezioni di Midterm (autunno 2014) sarebbe un regalo elettorale ai repubblicani: nel 2009 la Camera dei rappresentanti a maggioranza democratica votò una tassa sul CO2, poi bocciata dal Senato, dopodiché nel 2010 i repubblicani conquistarono la maggioranza alla Camera dei rappresentanti… Benché avesse l’ambizione di condurre una politica ambientale molto più incisiva, il presidente Obama è comunque riuscito a imporre, grazie alle sue prerogative esecutive, una serie di misure per ridurre l’inquinamento prodotto dal traffico stradale, ma ora, suggerisce il NYT, una volta superato lo scoglio delle elezioni di metà mandato al Congresso dovrà sfruttare il tempo che gli resta per spingere sull’acceleratore e preparare così il terreno a chi gli succederà alla Casa Bianca alla fine del 2016, affinché possa assumere la leadership mondiale nella lotta ai cambiamenti climatici.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 aprile 2014 ¶ N. 17

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Società e Territorio Il Convento di Faido Una giornata trascorsa con i tre frati che vi abitano e i tanti volontari che lo animano

Adolescenti e comportamenti a rischio Intervista alla dottoressa Marianne Caflisch, specialista di medicina degli adolescenti all’Ospedale universitario di Ginevra pagina 8

Gli e-detective esplorano le scuole Il progetto messo a punto dalla Supsi invita gli allievi di quarta media a proporre misure di risparmio energetico per il proprio edificio scolastico pagina 10

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Levatrici preoccupate Sanità In Svizzera sono troppo poche

ed esprimono perplessità verso la centralizzazione dei reparti maternità e l’alto numero di parti cesarei Roberto Porta In Svizzera nel 2013 sono nati 82mila bambini, 10mila in più rispetto al 2003. E fin qui tutto bene. Il problema è che nel nostro Paese mancano e mancheranno sempre più levatrici. Lo afferma un recente studio della scuola superiore di scienze applicate di Zurigo. La carenza in termini numerici di questa figura professionale si fa sentire già oggi ma in futuro sarà sempre peggio. Al momento lavorano in Svizzera quasi 3500 levatrici. A detta dei ricercatori zurighesi entro il 2020 questo numero dovrà aumentare del 40%, per far fronte agli sviluppi demografici prevedibili per il prossimo futuro. A queste difficoltà dovute agli aspetti quantitativi del problema si aggiungono altri timori legati invece alla qualità delle cure prestate nelle maternità elvetiche. Ad esprimere le proprie preoccupazioni la Federazione svizzera delle levatrici, che non vede di buon occhio ciò che sta accadendo nella sanità pubblica svizzera. Negli ultimi tempi diverse maternità sono state chiuse ed inglobate in strutture più grandi e centralizzate. Misure di risparmio o se preferite di «ottimizzazione finanziaria» che l’anno scorso hanno portato alla chiusura ad esempio del reparto maternità presso l’ospedale di Riggisberg, nel canton Berna. Stesso destino per quello di Riaz, nella Gruyère. Una chiusura che obbligherà tutte le donne del cantone a recarsi a Friborgo per partorire, il cantone ha deciso di concentrare tutte i reparti maternità nella capitale. A nulla sono valse proteste, petizioni e manifestazioni di piazza, di cui una persino davanti a Palazzo federale. A detta della Federazione delle levatrici, la chiusura di queste piccole ma preziose strutture impedirà alle neo-mamme, e anche ai neo-papà, di accogliere il loro neonato in una struttura vicina alla loro regione abitativa e capace di garantire alla coppia e al bambino un’atmosfera sufficientemente familiare. Le levatrici svizzere denunciano un sostanziale peggioramento delle

Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

loro condizioni di lavoro, dovuto alle misure di risparmio ma anche ai compiti che nelle maternità vengono sempre più spesso assegnati a questa storica figura professionale. «Tra le levatrici c’è un certo disagio – fa notare Delta Geiler Caroli, presidente dell’Associazione Nascere Bene Ticino – anche perché nelle maternità, soprattutto nel settore privato, ci sono troppi tagli cesari, ad esempio, e un crescente uso di medicamenti e ormoni sintetici durante il parto. Il parto non è una malattia e le levatrici sono specialiste della fisiologia (mentre i ginecologi sono specialisti della patologia) e preferirebbero poter accompagnare le donne per una nascita naturale. Da milioni di anni il cervello della donna è programmato anche per il parto e posta in condizioni ideali di intimità e tranquillità, con il rispetto dei tempi e dei movimenti, la donna può produrre gli ormoni che le servono per partorire e per limitare il dolore, senza dover somministrarglieli». Condizioni ideali che in Svizzera sono sempre più sacrificate sull’altare di una medicina che va di fretta, anche nelle maternità. E come in altri cantoni, anche in Ticino la centralizzazione di queste strutture è ormai dietro l’angolo, ad esempio con la recente lettera d’intenti tra l’Ente ospedaliero cantonale e il gruppo Genolier, che porterà alla nascita di un polo della maternità nel Luganese, integrando presso la Clinica Sant’Anna di Sorengo lo specifico reparto dell’Ospedale Civico. Con questo progetto la metà delle circa tremila nascite che ogni anno vengono registrate in Ticino verrà concentrata in un unico luogo. «Oggi i reparti di maternità inseriti nelle strutture pubbliche ticinesi – sottolinea Delta Geiler Caroli – dispongono della certificazione dell’Unicef “Ospedale amico del bambino” che garantisce una buona qualità delle cure per mamma e bambino e chiediamo, a nome dei genitori, che rimanga così anche nella nuova struttura centralizzata». Anche per questo motivo e per ottenere queste rassicurazioni l’asso-

ciazione ha scritto di recente alle autorità cantonali. «La nascita è un momento molto delicato – continua la signora Delta Geiler Caroli – perché, come sostiene la Federazione svizzera delle levatrici, il vissuto precedente la nascita e il modo di venire al mondo possono influenzare tutta la vita di una persona. Numerosi studi scientifici dimostrano che molti disturbi della salute e dell’equilibrio psico-fisico degli adulti hanno origine nella fase perinatale quando si distanzia troppo dai meccanismi per i quali siamo biologicamente programmati. Perciò venire al mondo in condizioni ideali rappresenta un investimen-

to enorme per l’insieme della salute pubblica». Per questo le levatrici sostengono la realizzazione di una «Casa della nascita» anche in Ticino, da porre al fianco delle altre 22 che già esistono in Svizzera. Una struttura a metà strada tra l’ospedale e l’abitazione privata, una sorta di terza opzione – riconosciuta dalle casse malati – che sappia unire intimità e calore umano con tutti gli aspetti legati alla sicurezza del parto. Insomma meno analgesici e ormoni sintetici, meno tagli cesarei e più spazio al contatto interpersonale, all’intimità tra madre e neonato e al lavoro del-

le levatrici. «Noi partiamo comunque sempre da un principio: la donna deve essere bene informata e libera di scegliere, poi va comunque sempre sostenuta, qualunque sia la sua scelta» – conclude Delta Geiler Caroli. L’obiettivo delle levatrici e delle diverse associazioni che le difendono è quello di ricordare che un altro modo di venire al mondo è possibile, più naturale, meno frettoloso ma comunque in sicurezza. E forse questo modo di avvicinarsi al parto spingerà un numero maggiore di donne a scegliere la professione di levatrice. Ce n’è sempre stato bisogno fin dall’inizio dei tempi…

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Nel 2013 in Svizzera sono nati 82mila bambini, le levatrici attive sono quasi 3500. (CdT - Demaldi)

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 aprile 2014 ¶ N. 17

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Società e Territorio

A Faido pulsa il Convento Incontri Una giornata nell’orto dei Frati francescani, mangiando alla loro tavola, visitando la biblioteca, l’ostello

e assistendo a un doposcuola all’aperto

Sara Rossi A Faido ci sono case bellissime. Si arriva in treno e si esce su un viale di platani bordato di case ottocentesche, quasi parigine. Qualche cosa però stride: i grandi alberghi fin de siècle sono tristemente chiusi. In una giornata di primavera come questa danno l’idea di vacanza, ma in un’epoca passata. Le montagne intorno, però, sono ben reali e ben reale è il verde che le avvolge e il bianco dei ciliegi. Le cime sono ancora innevate.

Sono solo tre i Frati che vivono nel Convento di Faido, ma tanti volontari si prodigano per le numerose attività sociali rivolte ai ragazzi e ai bambini

è ai fornelli. Tutti e tre sono allegri e hanno tante storie da raccontare; Fra Angelo ha 88 anni e ha la barba bianca, Fra Edy è giovane e ha la barba rossiccia, mentre quella di Fra Davide è grigia solo a metà. Ognuno ha il proprio ruolo all’interno del Convento e fuori, all’esterno. Fra Edy e Fra Angelo sono insegnanti, mentre Fra Davide lavorava in banca e quindi è lui che svolge i lavori

tina ormai da tre anni (neve permettendo). Quando crescono le verdure, il venerdì i ragazzi le portano a scuola, i frati le mangiano tutti i giorni e così gli ospiti dell’ostello annesso al Convento. Cesti di ortaggi che avanzano sono a disposizione degli abitanti di Faido, su offerta libera. A volte viene ad aiutare un nonno o una nonna del paese per insegnare quello che sa sulla coltivazione dell’orto. Anche Gigi dà una mano: è un docente in pensione. I frati francescani cappuccini di Faido sono tre, anche se alla loro tavola c’è spesso qualche ospite in più; Cécile aiuta in cucina ed è responsabile dell’Ostello e delle numerose attività «sociali»; Fra Edy è il guardiano della comunità, composta da lui, Fra Angelo (nelle foto) e Fra Davide, che oggi

amministrativi e di economato. Tutti e tre svolgono funzioni di cappellania all’ospedale, in casa anziani e a domicilio; si occupano anche di dire Messa nelle chiese del Comune. Poi ci sono i lavori in giardino: spalare la neve d’inverno, potare le piante in primavera, raccogliere la legna per la stufa della cucina, fare il fieno... per fortuna, dicono, hanno molto aiuto da volontari. Racconta Fra Edy che la Media Leventina è uno degli ultimi posti in Ticino dove si fa ancora la benedizione delle case con le visite casa per casa alle famiglie. Si comincia il primo di novembre e si passa di casa in casa e chi vuole riceve il frate. È importante la compagnia, l’amicizia, lo scambio di due parole; il tempo che si passa nella casa è proporzionale alla distanza dalla

Vincenzo Cammarata

Il Convento dei Frati si trova all’altro capo del paese, così attraversiamo il borgo, dove incontriamo altri magnifici palazzi e giardini: balconcini liberty con la ringhiera un po’ bombata accanto alle vecchie case di tradizionale architettura leventinese, in legno scuro col tetto a punta. In paese ci sono caffè, una biblioteca, negozi, il grande ospedale con la casa per anziani, strade, piazze e vicoli. Sembra un bel posto dove vivere. Entrare nel Convento significa perdere i rumori della strada ed essere abbagliati da un frutteto al sole che profuma di miele. In mezzo al cortile c’è un grande orto e Cécile Moreau vi sta lavorando con la classe di scuola speciale di Faido, come tutti i giovedì mat-

tanza alle visite, sia negli istituti sia a domicilio. Poi ci sono le feste patronali, le inaugurazioni, le messe da dire in capanna, quelle per la nuova stagione... Il problema delle chiese vuote, continua il guardiano del Convento, non riguarda tanto la fede della gente quanto lo spopolamento della valle. Arrivano preti, suore, frati dall’estero, ma mancano le vocazioni dei nostro giovani. Perché? Secondo lui, la crisi è della vocazione in generale: la vocazione di metter su famiglia, di trovare un lavoro che abbia una missione importante, di adoperarsi per uno scopo appassionante. Ben vengano i religiosi stranieri, ma per stare vicino alle persone bisogna conoscere la realtà locale, bisogna aver voglia di parlare con gli anziani, con i ragazzi, con i genitori, con tutte le persone che ne hanno desiderio e bisogno. Fra Angelo ci fa compiere una visita dell’antico Convento, tra le mura del 1607, alcune ricoperte di legno, altre di calce bianca. Fra Angelo è nato ad Ascona nel 1926. Da bambino aiutava a servire messa e sognava un giorno di condurre anche lui quella cerimonia solenne, buona, cantata. All’età di 11 anni è venuto a Faido, proprio nella scuola adiacente il Convento che stiamo visitando (la parte che negli anni Ottanta è stata tramutata in Ostello) e per cinque anni ha studiato «da fratino». Cinque anni senza mai uscire, con solo una visita all’anno dei genitori. Dice: meno male che queste cose oggi non le fanno più...

Vincenzo Cammarata

Vincenzo Cammarata

Chiesa: non c’è bisogno di trattenersi a lungo da chi viene tutte le domeniche, ma se qualcuno abita lontano, magari una persona anziana che fa fatica a camminare, allora la visita si può protrarre parecchio. Il frate, spiega Fra Edy, è una figura popolare che gode di simpatia nella popolazione. Ha una funzione sociale molto forte e i cappuccini di Faido danno moltissima impor-

Presto io mi perdo, tra porticine, volte, corridoi; vediamo le camerette, spartane come uno se le immagina, il refettorio di una volta, austero, di legno, con i tavoli ai lati, e la stupefacente biblioteca. Non è grande ma fitta; tutti i libri hanno la copertina in cartapecora e in mezzo troneggia il grande leggio dove è appoggiato un Salterio aperto. Fra Angelo legge le parole latine e canta dove sono indicate le note. Le parole devono essere sottolineate dalla musica, afferma, e ci fa sentire la differenza tra una lode al cielo pronunciata con voce piana e un’altra detta con il canto gregoriano. «Sentite che gioia?», esclama. Guardiamo un antico trattato settecentesco di anatomia, scritto a mano e senza figure; sugli scaffali ci sono volumi di morale, di storia, di diritto; le vite dei santi e naturalmente libri di catechismo, dogmatica, teologia pastorale... C’è la colonna sottochiave dei libri proibiti, oggi vuota. Finiamo la nostra giornata con la visita dell’Ostello, pieno di famiglie, bambini in visita da Lugano e i ragazzi delle scuole medie di Faido che vengono in giardino per il doposcuola. Cécile, i frati e la coordinatrice Enrica Dadò offrono loro la merenda poi li suddividono nelle materie che devono studiare; c’è così il tavolo di matematica, quello di tedesco, quello di italiano e via dicendo. A ogni tavolo un insegnante di scuola media in pensione spiega, corregge, suggerisce, aiuta nei compiti e nella metodologia di studio. Ci stupisce la quantità di volontari che il Convento, l’Ostello e le attività «sociali» sono riuscite ad attrarre attorno a sé: Enrica Dadò stringe le spalle, sorride, non sa bene cosa rispondere. Ci stupisce anche il bell’ambiente che c’è su quel prato di adolescenti. In totale sono iscritti alle attività 40 ragazzi e 40 bambini che bazzicano intorno al Convento; molti di loro prima non sapevano nemmeno che esistesse, da quando ci sono le attività (colonia diurna estiva, doposcuola, cineforum, corsi vari, serate a tema durante l’anno) vi trascorrono anche tre o quattro sere la settimana. A fine giornata siamo stravolti dal turbine di gente e dalle sorprese incontrate; salutiamo i frati che ci stringono la mano e ci dicono: «In alto i cuori!».


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Società e Territorio

Adolescenza fra rischi ed etica Intervista La dottoressa Marianne Caflisch parla dei comportamenti cosiddetti «a rischio» degli adolescenti,

sottolinea l’efficacia del dialogo e della disponibilità all’ascolto dei genitori e ribadisce come la sperimentazione permetta al ragazzo di acquisire una certa autostima nel cammino della propria ricerca identitaria Maria Grazia Buletti «Oggi la società vive a velocità sostenuta e quello che non ci soddisfa viene facilmente sostituito con qualcos’altro. Questo vale tanto per gli adulti quanto per i giovani che, pur coltivando gli stessi valori dei loro genitori, non possiedono ancora gli strumenti che ne favoriscano la gestione a livello emozionale. Uno dei cosiddetti comportamenti a rischio comuni negli adolescenti appartiene alla sfera sessuale: comportamenti pericolosi come rapporti intimi senza protezione e cambiamento frequente del partner, nell’ambito di una relazione che manca del profondo valore emozionale. E poi parliamo di alcol, cannabis e fumo, per citarne alcuni fra i più comuni». Abbiamo incontrato la dottoressa Marianne Caflisch, specialista di medicina degli adolescenti all’Ospedale universitario di Ginevra, che ha parlato di adolescenti e comportamenti a rischio nell’ambito del simposio tenutosi all’Ospedale regionale di Lugano per il venticinquesimo della Società svizzera di etica biomedica (SSEB, www.bioethics. ch/sgbe). Le abbiamo chiesto di definire l’età dell’adolescenza e di spiegarcene l’evoluzione nel corso degli ultimi tempi: «È un periodo in cui i giovani non sono più bambini, ma non sono ancora adulti. È una fase di transizione, oggi più precoce di un tempo, situabile fra i 10 e i 19 anni, caratterizzata da tutti i cambiamenti del corpo associati a quelli psicosociali, al modo di pensare e alla costruzione identitaria dei futuri adulti». Evidente l’abbassamento dell’età puberale che la dottoressa dice di non vivere come fatto negativo: «È dovuto ad una multifattorialità, con la migliore alimentazione che favorisce la precocità delle modificazioni del corpo. Inoltre, la società si rapporta diversamente a questi giovani che, dal canto loro, hanno adeguato il proprio modo di integrarsi nella vita: spinti parecchio e velocemente in avanti, si trovano molto presto a dover decidere del proprio futuro mentre, paradossalmente, i loro studi durano più a lungo di un tempo e la tradizione che caratterizzava la società di un tempo ha lasciato spazio all’interazione multiculturale e al virtuale. Quest’ultimo mondo è avanzato con prepotenza e ha messo tutti dinanzi ad una marea di informa-

Marianne Caflisch, specialista in medicina degli adolescenti all’Ospedale universitario di Ginevra, e Valdo Pezzoli, primario di Pediatria all’Ospedale Civico. (Stefano Spinelli)

zioni accessibili in tempo reale, creando uno scollamento tra giovani e adulti: i primi si sono adattati velocemente a questa condizione che per i secondi è relativamente nuova e meno facilmente acquisibile». Questa analisi ci permette di comprendere che, se gli adolescenti si sono adattati con facilità, il problema risiede nel fatto che per gli adulti non è successo altrettanto e per loro non è semplice riuscire ad accompagnare i ragazzi, guidandoli nell’ambito di queste nuove conoscenze. Genitori che, oggi più di un tempo, valorizzano l’età adolescenziale, anche se talvolta vorrebbero loro stessi rimanere adolescenti più a lungo: «Sarebbe importante, per contro, che gli adulti restassero nel loro ruolo di guida e trasmettessero i valori ai propri figli, parlando con loro, lavorando e riflettendo insieme, chiedendo loro cosa farebbero se si trovassero in questa o quella situazione complicata». Perché, spiega la nostra interlocutrice, riflettere con un figlio su come si comporterebbe in una situazione complicata, lo aiuta ad anticiparla: «L’adolescente vive molto nel suo presente e non ha

dimestichezza nell’anticipare una situazione. Ad esempio: non possiamo proibirgli, la sera, di uscire e basta. Abbiamo il dovere di farlo riflettere sulla pericolosità dell’alcol quando si esce e si beve troppo, del fumo e quant’altro. Non serve dirgli solamente: “Fa’ attenzione!”, perché egli necessita di informazioni più precise che spesso l’adulto non osa dargli». Dire ai nostri figli ciò che pensiamo è necessario per comunicare con loro, che ci ascoltano più di quanto crediamo: «È importante permettere all’adolescente di spiegarci cosa vive e, anche se non collabora o non ha voglia di rispondere, siamo certi che così si rende conto di come noi genitori ci interessiamo a lui, di come sappiamo chiedergli cosa non va se lo vediamo in difficoltà, di come manteniamo il contatto». La dottoressa Caflisch è convinta dell’efficacia del dialogo e dell’utilità di un atteggiamento disponibile all’ascolto da parte dei genitori: «Siate sicuri che i giovani sono in grado di manifestare il proprio disagio ai genitori, anche se bisogna rispettare il fatto che

esistono argomenti di cui preferiscono parlare fra coetanei: i figli sono legati molto lealmente ai propri genitori, anche se questi ultimi spesso pensano di non essere davvero il loro punto di riferimento. E sbagliano, perché i ragazzi sono molto interessati a ciò che i loro genitori pensano. Desiderano che siano fieri di loro e noi che lavoriamo con questi ragazzi lo percepiamo chiaramente». Dialogo senza paura di dire ciò che si vuole dire, porta aperta, ascolto, sono queste le parole d’ordine per aiutare i giovani ad esprimere tutta la loro sensibilità: «Ricordiamoci che nell’adolescenza si fanno i conti con il mondo emozionale: i giovani devono imparare a scoprire emozioni e sentimenti e imparare a dare loro un nome e questo vale anche per le pulsioni». Tutto questo processo necessita di una guida da parte dell’adulto, così come della sperimentazione individuale che col tempo concretizzerà un mondo interiore tutto da scoprire: «La sperimentazione è necessaria ed è tipica dell’età dell’adolescenza stessa, perché permette al ragazzo di acquisire una certa autosti-

ma nel cammino della propria ricerca identitaria. Un adolescente che non sperimenta in qualche modo, è un giovane a rischio, proprio perché non prova nulla». E a proposito di comportamenti a rischio come quelli di cui abbiamo portato qualche esempio, chiediamo dove si situa il limite ciò che accettabile o no: «Tutto dipende dai valori, il limite è difficile da stabilire: ad esempio, per lungo tempo i graffiti sono stati considerati come prodotti di un comportamento a rischio, mentre oggi molti li considerano arte. Un tempo gli adolescenti si fotografano in pose buffe agli apparecchi per le fototessere, oggi ci sono i “selfies”: lo fanno tutti, ma ciò diventa comportamento a rischio quando, per esempio, ci si comincia a svestire davanti all’obbiettivo. Sono da considerare a rischio tutti quei comportamenti che non sono più definibili come sperimentazione, ma diventano dipendenze». Le implicazioni etiche e la loro collocazione ci vengono spiegate dal primario di pediatria dell’Ospedale Civico dottor Valdo Pezzoli: «I comportamenti a rischio degli adolescenti sfidano il mondo degli adulti per le loro implicazioni etiche. Parliamo di etica quando vengono messi in discussione dei valori: dunque il comportamento a rischio dell’adolescente non è cosa banale e comporta un ventaglio di implicazioni che possono essere valutate diversamente dai diversi attori sociali». Pezzoli spiega: «Il consumo di sostanze stupefacenti è stigmatizzato dalla società che, attraverso normative precise, cerca di proteggere i giovani dai suoi danni. L’adolescente che pensa alla propria libertà individuale è convinto che fumare uno spinello sia un suo diritto. Queste posizioni sono in conflitto: si tratta di due approcci antitetici che poggiano su valutazioni differenti». Gli adolescenti che mostrano i cosiddetti comportamenti a rischio necessitano di un approccio e un accompagnamento multidisciplinare. In questo senso, la dottoressa Caflisch puntualizza: «Per gli adolescenti, gli adulti sono un modello e i genitori non devono aver paura di rapportarsi ai propri figli, anche quando è necessario chiedere insieme un aiuto, una mediazione che permetta di riprendere il dialogo». E di ritrovarsi nelle mani le redini della loro vita tutta in evoluzione.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Frida Nilsson, Mia mamma è un gorilla, e allora?, Feltrinelli Kids. Da 9 anni Teneramente pazzo, surreale e anarchico, come molta della letteratura scandinava per ragazzi contemporanea, questo romanzo è una delle proposte più interessanti viste alla recente Fiera Internazionale di Bologna. Feltrinelli ci aveva già fatto conoscere una giovane autrice finlandese, Siri Kolu, molto popolare in patria, con il divertente e graffiante La mia estate con i Ruberson, per certi versi accostabile a questo, Mia mamma è un gorilla, della svedese Frida Nilsson. In entrambi i casi, una bambina viene affidata a personaggi apparentemente molto poco affidabili: là dei briganti, i Ruberson, qui una gorilla. Sì, proprio una gorilla, «alta due metri (…), a torso nudo con un paio di sciatti pantaloni azzurri arrotolati a salsicciotto sopra le ginocchia», che come niente fosse un bel giorno arriva a bordo della sua scassatissima Volvo all’orfanotrofio Biancospino e chiede in adozione una

bambina, Janna. La direttrice gliela rifila volentieri («in nove anni non c’è mai stato verso di appiopparla a qualcuno») e così la piccola Janna, terrorizzata, si ritrova a casa della gorilla. Più che una casa, è una fabbrica dismessa alla periferia della città, circondata da un cortile che funge da discarica di vecchi oggetti, che la Gorilla rigattiera sistema e rivende, con un notevole e scanzonato senso degli affari. Ma la cosa che alla Gorilla piace di più è leggere: comodamente sprofondata nella

sua poltrona da lettura, si immerge nelle storie, e va pazza soprattutto per Oliver Twist. Così, quella che sembrava la tragedia dell’orfanella adottata da un’orchessa, diventa un’allegra, vitale e molto affettiva relazione madrefiglia. Certo, i modi della gorilla non sono sempre un modello di aplomb e raffinatezza, ma Janna non la cambierebbe con nessun’altra mamma. E sarà pronta a lottare per restare con lei, quando un torvo e avido consigliere comunale farà di tutto per riportarla all’orfanotrofio. Un’avventura fresca e coinvolgente sulla diversità, ma senz’alcun moralismo, e quindi tanto più efficace. Bob Graham, Come curare un’ala spezzata, Il Castoro. Da 3 anni Splendido esempio di come con poche parole e tante immagini si possa raccontare una storia intensa, che nella sua semplicità susciterà echi profondi nel vissuto di piccoli e grandi, perché è una storia di accudimento. C’è un

piccione che sbatte contro il vetro di un grattacielo e si ferisce un’ala. È a terra, sul selciato della grande metropoli, e nessuno si accorge di lui. Solo un bambino, Billy, lo nota, e con l’aiuto della mamma lo porta a casa e lo cura, finché il piccione sarà pronto per volare di nuovo. Sembra niente, e invece è tanto. Lo è per il suo coinvolgimento emotivo, perché il lettore s’identifica con Billy, ma anche con il piccione. Lo è per la tematica del prendersi cura, dal significato immediato e universale.

Guarigione, tempo, speranza. Lo è per la valenza simbolica delle illustrazioni: grigiore spento dei passanti indifferenti (soprattutto i loro piedi, nella prospettiva del piccione) in contrasto con il colore acceso della figuretta di Billy, che crea un cerchio di luce nel suo chinarsi sul piccione (e anche la mamma prende colore quando entra nella zona di luce); nuvole opprimenti nel cielo, nella prima doppia pagina, quando il piccione precipita; in contrasto con il cielo più sereno, quando, alla fine, il piccione prende il volo. Sono immagini in cui ogni dettaglio è tratteggiato con grande sensibilità: ad esempio Billy ci appare mentre emerge dalla scala della metropolitana, intento a «scalare» (una grande impresa per le sue gambette corte) l’ultimo gradino, in una città che non è a misura di bambini né di animali; oppure il tallone della mamma che fuoriesce un po’ dalla scarpa, mentre si china sul piccione, a ricordarci forse che occorre «fuoriuscire» un po’ da noi stessi per renderci conto della sofferenza degli altri.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 aprile 2014 ¶ N. 17

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Società e Territorio

Dov’è finita l’energia? Formazione Scuole medie e Sezione della Logistica unite nel progetto didattico E-detective messo a punto

dalla Supsi con lo scopo di sensibilizzare gli allievi sul risparmio energetico rendendoli propositivi sulle misure da adottare negli edifici scolastici che li ospitano Stefania Hubmann Allievi che passano al setaccio la propria scuola alla ricerca d’indizi sullo spreco di energia. Un’attività accattivante che permette di visitare luoghi di solito vietati agli studenti, come l’aula docenti o il locale caldaia, ma soprattutto un modo per capire e apprendere in prima persona quali misure e comportamenti adottare per contribuire concretamente a rendere la nostra società più sostenibile. Grazie al progetto didattico «E-detective – Il caso dell’energia scomparsa», messo a punto dall’Istituto sostenibilità applicata all’ambiente costruito (Isaac) della Supsi per conto del programma federale «Svizzera energia per i Comuni», la problematica del risparmio energetico non è più solo una delle grandi sfide globali del XXI secolo ma una questione di etica quotidiana che implica un cambiamento del proprio stile di vita e favorisce lo sviluppo di una cittadinanza attiva. Composto da tre momenti investigativi dedicati rispettivamente all’energia solare, termica ed elettrica e da un evento conclusivo, il pacchetto E-detective è un accompagnamento ideale al programma di scienze previsto in quarta media, anno in cui viene appunto trattato il tema dell’energia. Il progetto è comunque di natura interdisciplinare. Toccando tematiche di più materie, come ad esempio matematica, geografia e italiano, tutti gli insegnanti interessati possono compiere con le loro classi l’insolito viaggio all’interno della scuola, viaggio che richiede in particolare spirito d’osservazione e impegno in misure e calcoli. In pratica cosa devono fare i giovani detective? Rispondono Giorgia Crivelli e Pamela Bianchi, consulenti E-detective che accompagnano docenti e studenti nella realizzazione del progetto. «Gli allievi lavorano a piccoli gruppi raccogliendo una serie di dati riferiti, per esempio nel caso del modulo dedicato all’energia termica, alle temperature dei locali, all’involucro dell’edificio, ecc. L’elaborazione di questi dati e il loro confronto con dei valori ideali di riferimento permettono di effettuare una diagnosi energetica della scuola e di suggerire possibili misure di risparmio». Uno dei punti di forza di E-detective è proprio quello di coinvolgere anche l’autorità competente per la gestione e la manutenzione della struttura scolastica.

Le giornate E-detective favoriscono lo sviluppo di una cittadinanza attiva spingendo i ragazzi a elaborare proposte concrete di risparmio energetico.

Il quarto modulo è infatti dedicato all’elaborazione di tre proposte di risparmio energetico concrete – riguardanti l’edificio, gli impianti e il comportamento degli utenti – da sottoporre alla Sezione della Logistica. A quest’ultima è affidato il compito di gestire il parco immobiliare di proprietà del Cantone Ticino che comprende anche le scuole medie. Partner del progetto E-detective, la Sezione della Logistica mette a disposizione degli allievi le informazioni di base riguardanti l’edificio (fabbisogno energetico, sistema di riscaldamento, ecc.) per permettere lo svolgimento delle indagini. Finora informata via lettera dei risultati e delle proposte, da quest’anno sarà presente alle giornate di chiusura per uno scambio diretto con gli allievi. Il progetto è stato sviluppato sotto la direzione della ricercatrice Roberta Castri partendo dall’analoga iniziativa proposta nella Svizzera interna. «La fase pilota si è svolta nell’anno scolastico 2010-2011 a Bedigliora e Morbio Inferiore – spiegano le nostre interlocutrici – mentre l’attività vera e propria è iniziata l’anno scorso in cinque scuole medie (Biasca, Pregassona, Castione, Bedigliora e Balerna). Dai 150 allievi (7 classi) coinvolti si è passati quest’anno a

280 (13 classi) suddivisi fra Acquarossa, Tesserete, Cevio, Locarno, Breganzona, Biasca e Balerna». L’impegno non è però il medesimo ovunque, perché E-detective è un progetto flessibile sia per quanto riguarda lo svolgimento dei diversi moduli sia per il ruolo svolto dai docenti. Giorgia Crivelli e Pamela Bianchi: «Il programma completo è composto da quattro moduli di mezza giornata che si svolgono sull’arco dell’intero anno scolastico. I docenti sono però liberi di limitarsi a un solo modulo. La scuola può anche rendersi autonoma nella gestione del progetto partecipando a una mezza giornata di formazione dei docenti. Essendo attualmente in corso la campagna di adesione 2014/15, gli interessati per il prossimo anno scolastico possono ancora contattarci». Nei primi due anni d’indagini, docenti e specialisti dell’Isaac hanno potuto constatare l’importanza di una diagnosi effettuata dall’interno dell’edificio scolastico, da chi lo vive quotidianamente per molte ore. Fra questi anche il docente di scienze José Luis Gadea, che sta completando Edetective con i diciotto allievi della 4B della Scuola Media di Locarno 2. Motivato da una profonda sensibilità

per tutte le questioni legate alla salvaguardia dell’ambiente, il prof. Gadea sottolinea che «i ragazzi con questo progetto imparano a rendersi conto delle conseguenze dei loro gesti e a contribuire nella riduzione del consumo di energia. Dall’inizio dell’anno la loro attenzione e le loro conoscenze sono aumentate. Ora sono i primi a farmi notare se durante la lezione il beamer rimane acceso e inutilizzato per troppo tempo». Nel caso di Locarno 2 l’esperienza ha un valore soprattutto didattico, essendo la struttura una sede provvisoria seppure da diversi decenni. «La nostra partecipazione è stata possibile grazie al sostegno finanziario dell’Ufficio tecnico comunale di Locarno che ha dimostrato grande sensibilità. Il progetto è ben strutturato con attività appropriate alle conoscenze degli allievi. Le ispezioni che compiono permettono di utilizzare apparecchi come luxmetro ma anche di avvalersi di strumenti rudimentali come il secchio per misurare la fuoriuscita di acqua al minuto da un rubinetto aperto al massimo o la candela per individuare gli spifferi d’aria attraverso porte e finestre. Ciò che imparano a scuola può essere facilmente messo in pratica anche a

Informazioni

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M Revoca delle elezioni

Migros news Clienti come inventori Migipedia è la piattaforma che Migros mette a disposizione dei consumatori. Sul sito web gli utenti possono valutare ed esprimere commenti su oltre 13’000 prodotti e anche collaborare a svilupparne dei nuovi. Oggi alle menti creative si offrono ben due possibilità di trasformare le proprie idee in un prodotto che va ad arricchire l’assortimento Migros. I reparti surgelati di Migros propongono una nuova qualità di gelato della Megastar. Il gelato al fior di panna è ricoperto da uno strato di cioccolata bionda, dal sapore di biscotto leggermente salato. Bionda? Avete letto bene: dopo la cioccolata nera, bruna e bianca oggi ne esiste una quarta varietà. L’ha inventata lo storico fabbricante francese di prodotti cioccolatieri, Valrhona, e l’ha battezzata con il nome di Dulcey. Ma il gelato Megastar non ha ancora un nome. E

casa. Ridurre la temperatura nei locali, spegnere le luci, evitare di lasciare il caricatore nella presa e gli apparecchi in stand-by sono azioni semplici a costo zero». Sulle abitudini del singolo e sul senso di responsabilità collettivo punta l’intero progetto didattico che forse per la prima volta vede i ragazzi non solo quali destinatari di un’attività di sensibilizzazione ma partner di una collaborazione tra scuola e autorità. Se alcuni interventi all’edificio scolastico risultano troppo invasivi e onerosi, altri si prestano invece ad essere attuati. «Per vedere l’efficacia di piccoli accorgimenti, si può ripetere il progetto l’anno successivo con un’altra classe», concludono Giorgia Crivelli e Pamela Bianchi. «A volte basta davvero poco: un cartello che ricorda di spegnere la luce, sapere che gli apparecchi in standby consumano energia». Conoscenze e buone abitudini da imparare a scuola e diffondere in famiglia, meglio se attraverso una presentazione pubblica dei risultati di E-detective come previsto alla Scuola Media di Breganzona.

proprio su Migipedia Migros chiede la vostra collaborazione per trovargliene uno. E quando le temperature esterne

aumentano, ecco che si ricomincia a grigliare con impegno. A fianco di bistecche e cervelat, sulla griglia trovano il loro spazio sempre più

spesso salsicce al tofu, pesce e spiedini alle verdure. Per questo, Migros vuole lanciare una nuova salsa da griglia, che possa accordarsi con tutti i sapori. Inviate la vostra proposta tramite Migipedia, all’indirizzo www.migipedia.ch/ideas oppure utilizzando il codice QR qui a lato con l’apposita App sul vostro smartphone. SportXX si rafforza SportXX si affilia a Sports Trade Marketing International (STMI), una delle principali centrali d’acquisto nel panorama europeo. La centrale, creata per iniziativa del gruppo francese Go Sport e della Hervis, catena austriaca specializzata in articoli sportivi, riunisce oltre a SportXX anche la società spagnola Forum Sport e la francese Twinner International. I cinque partner gestiscono complessivamente più di 1300 negozi di ar-

ticoli sportivi in 24 Paesi e generano un fatturato di 2,4 miliardi di franchi. SportXX e Outdoor by SportXX, catene di negozi della Migros specializzate in articoli sportivi, hanno creato le premesse per un ulteriore sviluppo del loro successo: con l’affiliazione a STMI, una delle maggiori centrali d’acquisto europee, SportXX si assicura infatti un accesso diretto al mercato di approvvigionamento europeo. Grazie ad attività di marketing congiunte, i cinque partner potranno realizzare incrementi di efficienza e ottimizzare gli acquisti. Si prevedono inoltre l’accesso a nuovi marchi e un’offerta esclusiva, così come un graduale avvicinamento alle condizioni offerte dal mercato europeo. SportXX rafforza così la propria posizione di punta come catena svizzera con la migliore immagine in termini di rapporto qualità/prezzo sul mercato degli articoli sportivi.

Cari soci, in riferimento all’avviso apparso nel no. 11 di «Azione» del 10 marzo 2014 concernente il rinnovo degli organi statutari della cooperativa, e cioè l’elezione dell’Ufficio elettorale per un nuovo mandato biennale (2014-2015), vi informiamo che entro i termini previsti non abbiamo ricevuto candidature. Conformemente all’articolo 38 dello Statuto, l’elezione ha dunque avuto luogo tacitamente e possiamo revocare lo scrutinio annunciato. L’esito della procedura elettorale sarà pubblicato nel numero 26 di «Azione» del 23 giugno 2014. Sant’Antonino, 22 aprile 2014 Cooperativa Migros Ticino Il Consiglio di amministrazione


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 aprile 2014 ¶ N. 17

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi In quanti giorni sarà fatta Roma? O forse sarebbe meglio chiedersi quante volte fu fatta e rifatta, vista la quantità di saccheggi che la Città Eterna ha dovuto subire dagli Eruli agli ultimi sciaguratissimi piani (ir)regolatori. Fatto sta che ieri, 21 aprile 2014, correva il duemilasettecentoquarantaduesimo anniversario ab urbe condita – più o meno trent’anni a seconda di quale storico romano uno voglia credere. E comunque poca roba, concorderete, rispetto alla quantità d’acqua passata da allora sotto i ponti sul Tevere. Secondo Plutarco, il nonno materno di Romolo e Remo era Numitor, discendente a sua volta da Enea in fuga da Troia. Numitor aveva un fratello, Amulio, al quale aveva dato la custodia del tesoro ereditato da Enea. Guai affidare gli ori di famiglia ad un parente, tantomeno ad un fratello: Amulio usa il tesoro di famiglia per abbattere Numitor. Amulio teme a questo punto che la bella figlia di Numitor, Rea Silvia, possa procreare figli che poi avrebbero rivendicato il trono del

nonno usurpato dal prozio. Allora che fa Amulio? Precede la mossa di Amleto con Ofelia e manda Rea Silvia in convento: ovvero la fa diventare Sacerdotessa Vestale, custode del fuoco sacro e come tale semprevergine. Ma, come tutti sanno dalla Monaca di Monza in poi, il Diavolo si nasconde in convento e Rea Silvia rimane incinta: di Ercole? Del dio Marte? Di Amulio stesso? Mah! Su questo il dibattito è ancora aperto. Fatto sta che il Re denuncia il sacrilegio di Rea Silvia e fa mettere a morte sia lei che i due Gemelli figli dello sconcio: pari e patta, pensa lui. Ma come tutti i cattivi della storia Amulio è anche un po’ tonto: i due gemelli sono salvati dal fiume Tevere che li trova abbandonati in un cesto sulle sue rive (ricordate Mosè abbandonato alle acque del Nilo? Beh, una storia così…). I gemelli sono trovati e salvati da una Lupa che viene aiutata da un Picchio ad allevarli. Altre versioni della storia – che vi risparmio perché ci vorrebbero gli anni dell’an-

niversario per narrare nei particolari – chiamano in causa Acca Larentia, Dea Dia, i Fratelli Arvali, Quirino e un Lupo Maschio e tante altre comparse che ci vorrebbe un elenco telefonico… Insomma, un bel giorno i due, Remo e Romolo, scoprono che sono figli di principessa e vanno a chiederne ragione ad Amulio. Questi cincischia, fa la brutta fine che si merita e Numitor viene rimesso sul trono. I due giovani però sono irrequieti. Invece di aspettare la morte del nonno per ereditarne la città decidono di fondarne una nuova. E qui… location, location, location: dove la facciamo la nuova città!? Romolo: sul Palatino. Remo: sull’Aventino. Un po’ come dire, visti gli sviluppi successivi, che uno stava in soggiorno e l’altro in camera da letto. Ma allora erano altri tempi, altre distanze e altri temperamenti. Si accordano di fondare la città e dicono che la faranno laddove si manifesterà più evidente un segno di augurio profetico. Bene: entrambe

salgono sui rispettivi colli con tanto di arbitri, guardalinee eccetera e si mettono a guardare per aria a contare gli uccelli augurali. Remo dichiara di averne visti sei. Romolo risponde con dodici. Remo ribatte che i suoi sei erano avvoltoi (che valgono il doppio) e che erano passati per primi. Romolo, in sostanza, se ne frega e si mette a costruire la sua città erigendo anzitutto un muro – o scavando una trincea – per definirne i confini. Quello che successe dopo è materia ancora dibattuta. Secondo Livio i casi sono due: o Remo sparisce semplicemente dalla scena, morto e sepolto senza tante storie che possano riguardarci, oppure – versione accettata dai più – Remo si mette nei guai quando, al momento di ispezionare le «mura» costruite con tanto amore e altrettanto orgoglio da suo fratello gemello, le scavalca con un salto e una risata di scherno: «Ah, sì!? E queste sarebbero le mura della Città Eterna?! A’ Ro’, facce ride!» («Romolo, facci ridere!»

nella parlata romana attuale). Zac e tac: Romolo lo ammazza senza tante cerimonie: «Così perisca – dice – chi mai in futuro scavalcherà le mura della mia città!». In tal modo – capirete – si dà un contegno e fa capire di che pasta è fatto a chi ancora dubita. Versioni meno note dicono che Remo fosse accoppato da Fabio, un seguace di Romolo con una non proprio eroica badilata in testa. Sta di fatto che ora Remo è lì, stecchito morto, e che Romolo si accorge di averla fatta grossa. Allora gli fa un bel funerale seguito da un colossale banchetto funebre a base di tarallucci e vino e sic transit. Morale: Roma, ora come allora, nasce sulla base – letteralmente – di standard edilizi quantomeno dubbi. Mura fatiscenti, sistemi fognari approssimativi… Secondo le cronache, nell’Urbe vi è una denuncia per abuso edilizio un giorno sì e uno no – quando gli uffici competenti sono chiusi. Buon compleanno anche dall’Altropologo, Eterna Inevitabile Città!

to esistenziale, la invito a rientrare in casa e a prendere in mano le redini del suo destino evitando di commisurarlo con quello altrui. Ognuno interpreta il suo copione! Lei è in procinto di sposarsi e, con ogni probabilità, di mettere presto al mondo dei figli. Le sembra niente? Ha notato che i suoi paragoni sono tutti a senso unico: con chi ha di più tralasciando chi ha di meno? Certi potrebbero pensare che il suo atteggiamento sia motivato dall’invidia, ma non credo. Il vero invidioso gode del male altrui, mentre lei soffre del bene altrui. Un’invidia non maligna la vivono anche gli uomini, che si confrontano continuamente sulle prestazioni e sul possesso. Soprattutto da giovani, si controllano a vicenda per stabilire chi fa più carriera, sposa la più bella, ha la macchina più potente, il cellulare più aggiornato, la televisione più tecnologica. Una volta calcolata la differenza, si

mettono in graduatoria e riprendono la gara. Le donne invece, che sono «acqua nell’acqua», non conoscono gerarchie per cui il loro confronto è continuo, circolare e illimitato. Ma, nella maggior parte dei casi, non è maligno perché è animato da un desiderio di giustizia distributiva: noi vorremmo, per tutte, lo stesso «spicchio di felicità». Purtroppo la fortuna è cieca e solo la convinzione che i modi di essere felici sono infiniti, mutevoli, provvisori, interconnessi, per cui nessuno può essere felice da solo, ci riconcilia con noi stesse e con gli altri.

lizzanti di un’uscita collettiva piuttosto che quelli didattici. Non da ultimo, poi, la gita scolastica ha dovuto fare i conti con l’evoluzione dei tempi, diciamo pure con le mode anche turistiche. Di conseguenza, mete una volta lontane sono diventate accessibili e luoghi, che parevano estranei, appartengono ormai all’inventario dei sogni giovanili. Da qui il potere d’attrazione delle capitali e delle località «in», difficilmente contrastabile. È, insomma, un rompicapo per l’insegnante, costretto a mediare fra le richieste dei ragazzi e le necessità formative. Senza dubbio, aveva ragione Michele Fazioli, quando, in un recente articolo, contrapponeva il vuoto di certe gite in metropoli, appena sfiorate, al pieno di una visita alla chiesa romanica di Negrentino. Mettiamoci, però, nei panni del docente che la propone a una classe di quattordicenni che si vedevano già a Piccadilly Circus. Delle conquiste, come pure dei vizi, di un’epoca, che va troppo in fretta, anche la tradizione, ormai secolare, della gita scolastica ha subito i contraccolpi. Cambiano gli itinerari, i mezzi di

trasporto, le ambizioni educative, ma il punto centrale rimangono loro, ragazzi e adolescenti immersi in un universo, spesso impenetrabile. Ho usato il termine immersi ricordando la descrizione che Fruttero e Lucentini fecero della gita scolastica: dove il pullman, che trasporta una classe, viene paragonato a un acquario. È un pezzo da antologia, vale la pena di rileggerlo: «Gli orizzonti si allargano di anno in anno. I giovani fruitori dilagano festosi e trafelati fra chiostri, facciate, monumenti, musei. Ma basta osservarli qualche minuto per constatare che la loro esuberanza ha qualcosa d’irreale, che la loro ricettività sembra contratta, tarpata. Chiusi in un acquario portatile, essi si muovono come branchi di pesci: una parete di vetro li divide dal mondo esterno, che vedono transitare deformato e fioco davanti ai loro occhi, se mai lo vedono. Perché l’impressione ultima è che non vedano niente come se fuori, invece di palazzi, navate, crocifissioni, ci fosse il deserto assoluto. Solo ciò che succede all’interno del branco li interessa davvero».

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Ogni esistenza è unica Cara Silvia, sono una donna di trent’anni senza grandi problemi, almeno apparentemente. Invece ne ho uno che li comprende tutti: sono scontenta della mia vita. Lavoro in banca, sono fidanzata con un collega, ho poche amiche ma fidate e una famiglia che mi sostiene. Eppure, non mi sento in pace con me stessa. L’ansia mi spinge a confrontarmi continuamente con le altre e mi sembrano tutte meglio: più fortunate, più realizzate, più felici. Senza dire delle mie due sorelle maggiori. La prima, che vive a Ginevra, ha una bellissima casa di proprietà che dà sul lago, due figli maschi che l’adorano, un marito in carriera con cui viaggia, incontra persone interessanti, partecipa ad avvenimenti importanti. La seconda è un’architetta che costruisce bellissime ville di legno. Viene citata nelle più prestigiose riviste del settore e ha appena ottenuto un riconoscimento internazio-

nale. E io? Un impiego sicuro, un prossimo marito mediocre, un appartamento in affitto, un futuro senza prospettive. Come posso fare per uscire dalla palude in cui sto sprofondando? Ho diritto anch’io a uno spicchio di felicità! Perché la vita a me lo nega? / Ines Cara amica, parliamoci chiaro: la palude la vede solo lei. Una vita normale, che gli antichi avrebbero definito aurea mediocritas, non è una disgrazia ma una premessa di serenità. Il vero problema, che lei condivide con molte giovani donne, è la compulsione al confronto. Perché continua a paragonare la sua vita con quella di altre (sorelle, amiche, colleghe)? Non sa che ogni esistenza è unica, insostituibile, inconfrontabile? Così facendo smarrisce il bandolo dell’autonarrazione, che contiene il senso di ogni esistenza. Ognuno di

noi viene inviato sulla terra quando il racconto della sua vita è già iniziato e molti capitoli si sono già conclusi. Ma restano sempre margini di libertà, di scelta, di creatività che ci permettono di divenire autori e protagonisti del «romanzo» che giorno dopo giorno stiamo scrivendo. A condizione però di saper vedere e valorizzare le decisioni che si possono prendere. Chi si lascia vivere, passivamente, stancamente, non facendo altro che lamentarsi di ciò che non ha e non è, si condanna alla mera sopravvivenza. Conosco persone che, per evitare di soffrire, hanno rifiutato ogni responsabilità, non si sono assunte rischi, hanno accolto tutto ciò che sopravveniva come se non potessero fare altro. Forse non hanno commesso errori, ma l’impunità è costata cara perché la vita gli è sfilata sotto la finestra mentre loro stavano a guardare. Se non vuole cadere nel vuo-

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Gita scolastica: un’occasione mancata? Jonathan, 16 anni, studente di liceo losannese, in gita scolastica a Roma, ha perso la vita in circostanze ancora misteriose: vittima delle ferite provocate da un coltello. Impugnato da chi? Da un compagno di camera, da lui stesso, collezionista di questo tipo di armi, durante un gioco, in una gara di bullismo o in un litigio? Il caso, figurarsi, ha fatto notizia, innanzi tutto per i suoi aspetti macabri e giudiziari, per la sua eccezionalità. E non soltanto. Come hanno dimostrato i tanti commenti, letti e ascoltati, nelle ultime settimane, in dibattiti pubblici e in chiacchiere private, dietro una deriva estrema, la morte di Jonathan, emerge una situazione frequente e normale: qual è la gita di fine anno. Una data incombente nel calendario delle scuole medie e superiori ticinesi. Si parte, solitamente, fra maggio e inizi di giugno. E fervono, ormai, gli ultimi preparativi. Si moltiplicano, il sabato mattina, le bancarelle con cui, gli allievi, vendendo torte e biscotti, raccolgono fondi per finanziare la loro uscita. Mentre i docenti stanno perfezionando

programmi e itinerari verso destinazioni anche lontane. Anzi, sempre più lontane. Una tendenza che è diventata il bersaglio di critiche, non ingiustificate. Perché volare a Parigi, a Berlino, a Londra, a Barcellona, perché scendere in autobus fino a Roma, a Napoli, o in Provenza proponendo visite in stile mordi e fuggi? Coi tempi che corrono, l’obiezione ha trovato il sostegno di motivazioni d’ordine finanziario e per-

sino patriottico. Vanno, dunque, prese in considerazione le alternative suggerite: spostamenti più brevi, meno costosi e meno dispersivi. Magari, appena al di là delle Alpi, per far conoscere città belle, accoglienti, e che, poi, raccontano la storia di una Svizzera di cui molti allievi, figli di immigrati, sono diventati cittadini, quasi inconsapevolmente. Allora, ecco che la gita scolastica si trova a svolgere una preziosa funzione culturale ed educativa. Si apre, con ciò un interrogativo legato, appunto, alle motivazioni e agli obiettivi di un viaggio che non dovrebbe essere una scampagnata, tanto per star insieme, bensì un prolungamento delle lezioni, un’occasione ancora per imparare. In altre parole, deve prevalere l’aspetto gita o l’aspetto scolastico? Le opinioni, in proposito, divergono. Non soltanto quelle popolari, dettate da un vago buon senso, ma anche quelle degli stessi addetti ai lavori. Sulle scelte dei docenti e delle autorità competenti hanno, visibilmente, influito teorie ispirate al ’68, con cui si valorizzavano i contenuti psicologici, liberatori e socia-


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Ambiente e Benessere Reportage dal Regno Unito Una Londra meno turistica dai pub ai parchi e a teatro

Un’«Onda» di plastica a Roma Lo «Stato dei rifiuti» dell’artista Maria Cristina Finucci prende forma al MAXXI, museo romano d’arte moderna

In crociera con Hotelplan Un viaggio per i lettori di «Azione» navigando lungo le coste del Mar Baltico

Amianto: rischi e difese Il problema si presenta soprattutto quando si ristruttura un edificio antecedente il 1991

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Siti alieni sulla Terra Spazio Ambienti strani o eccezionali possono aiutare la ricerca su altri pianeti Loris Fedele Cosa hanno in comune le lande desolate e le coste rocciose delle remote isole Svalbard, a nord della Norvegia, e l’arido e infuocato deserto di Atacama, in Cile? Apparentemente proprio nulla, ma gli scienziati che studiano lo spazio non sono dello stesso avviso. Per loro i due siti sono accomunati da qualcosa di speciale: sono siti alieni sulla Terra. In che senso? Nel senso che sono, oppure potrebbero essere, così simili a luoghi di altri pianeti tanto da poter essere utilizzati per condurre i test che preparano le missioni strumentali o umane su Marte e sulla Luna. Nel recente passato, il team di una missione congiunta dell’Agenzia Spaziale Europea e dell’americana Nasa visitò davvero le isole Svalbard con geologi, biologi e ingegneri, per provare degli strumenti montati sul robot Curiosity, che dall’agosto 2012 è all’opera su Marte. Analogamente il deserto di Atacama è stato più volte palestra di collaudo per diversi rover, i carrettini spaziali, chiamati a esplorare il territorio marziano. Questo deserto arido e temperato, situato tra il nord del Cile e il sud del Peru, con poca pioggia, pochissima umidità e un forte irraggiamento solare, è giudicato tra le migliori riproduzioni terrestri dell’ambiente marziano: la sabbia disseminata di rocce, la pol-

vere, le tempeste di vento, gli sbalzi di temperatura. Si estende lungo 1000 km, e comprende bacini salini, sabbia e colate di lava. Muoversi in quella zona è come spostarsi sul Pianeta Rosso e tutte le situazioni che si presentano, compresi i problemi da risolvere, costituiscono fasi utilissime per lo studio preliminare delle missioni spaziali. Una delle zone di studio è quella di Pampas de La Joya, posta tra le Ande e la Cordigliera della costa, che è un altipiano alla quota media di 1200 metri, coperto da una coltre semicontinua di fine sabbia vulcanica, con suoli che variano da punto a punto e contengono un miscuglio di sabbia, di argilla e di sedimenti. Possiede analogie sia con Marte sia con la Luna. Lo scorso ottobre una zona del deserto di Atacama, nella regione del Cerro Paranal, quella dove si trova il grande Osservatorio europeo, è stata teatro di una settimana di esperimenti condotti dagli scienziati europei che stanno preparando la missione ExoMars 2018. Ma esistono parecchi posti idonei sulla Terra. La zona di Alice Springs, per esempio, nell’Australia centrale: un deserto di sassi, con crateri da impatto simili a quelli marziani e lunari. Senza allontanarci troppo da noi c’è poi lo spettacolare vulcano del Teide, sull’isola di Tenerife, nelle Canarie. Un

altro sito di ricerca è stato il Rio Tinto, un fiume che nasce sulla Sierra Morena in Andalusia, in Spagna, e raggiunge il mare presso la città di Huelva. Il fiume Tinto si distingue per le acque di elevata acidità e un evidente colore rossastro, in certi posti decisamente rosso (e da qui viene il suo nome), dovuto al minerale di ferro disciolto. Nel 2003 il Rio Tinto ospitò un progetto che aveva l’obiettivo di cercare nel letto del fiume forme di vita microbiologica estremofila e di mettere a punto gli strumenti necessari per cercarla nei suoli di Marte. Gli investigatori principali appartenevano all’Ames Research Center californiano, uno dei maggiori centri della NASA, attivamente coinvolto in molte missioni lunari. Se poi si volessero studiare le zone vulcaniche e i canali formati dalle colate di lava, che ci sono anche su Marte, dove dovremmo andare a cercare un equivalente terrestre? Dipende da cosa si vuol cercare esattamente, rispondono gli scienziati europei, ma noi sceglieremmo di andare in Islanda, che è piena di zone vulcaniche aliene, oppure alle Hawaii, sulle pendici del vulcano Kilauea, oppure ancora su Tenerife. I siti adatti alle sperimentazioni sono raccolti in un Catalogo delle analogie planetarie curato dalla Open University britannica. L’ultima versione è datata dicembre 2012, ma un simile catalogo

sarà sempre passibile di ampliamento e aggiornamenti. Nelle prime pagine si parla diffusamente delle cosiddette valli asciutte (Dry Valleys) situate in prossimità del Mare di Ross, nell’Antartide. Pare siano un luogo da tenere in considerazione per chi vuole lavorare in condizioni estreme paragonabili a quelle marziane. Le valli devono il loro nome al fatto di possedere un’umidità bassissima e una mancanza di copertura ghiacciata o nevosa, nonostante si trovino al Polo Sud. Sono soprattutto secche e aride a causa delle montagne ghiacciate che fronteggiano il mare gelato, perché questa presenza contribuisce a formare masse d’aria di alta densità che vengono attirate verso il basso dalla forza di gravità (tecnicamente si parla di vento catabatico) e scendendo precipitosamente fanno evaporare acqua e ghiaccio. Immaginiamo questo vento come diverso dal Foehn, che può essere ancora carico di umidità, pensandolo piuttosto come una freddissima e asciutta Bora dell’Adriatico. Diverse condizioni di quella zona oltre ad aspetti geomorfologici, chimici e atmosferici si trovano anche su Marte. Sono, per esempio, un freddo polare (la temperatura media annuale è attorno ai -18°C) e la velocità del vento che può raggiungere i 320 km/h. Inoltre nell’estate australe, che dura 2 mesi, ci

sono 24 ore al giorno di insolazione. Se invece vogliamo occuparci di rocce e di crateri da impatto, quelli formati dall’urto con i meteoriti (sulla Luna e su Marte ce ne sono moltissimi) anche sulla Terra abbiamo l’imbarazzo della scelta. Il cratere Haughton sull’isola di Devon, nell’arcipelago artico canadese, è un posto con formazioni geologiche uniche, ancora frequentato dagli astronauti. Poi ci sono i crateri disseminati poco sopra Flagstaff, in Arizona: il Sunset Crater e il famosissimo e fotografatissimo Meteor Crater, vicino al quale c’è l’interramento di Cinder Lake che ha una storia curiosa. Il sito appare davvero alieno, ma è artificiale. Negli anni ’60, all’epoca dei programmi Apollo, su quest’area polverosa, coperta dai detriti che arrivarono dal Meteor Crater, gli scienziati della United National Geological Survey scavarono prima uno e poi molti crateri artificiali, copiati dalla Luna, per allenare gli astronauti e provare le attrezzature e le tecniche per le esplorazioni lunari. Qui fu provato il veicolo elettrico usato nelle ultime 3 missioni sulla Luna. Il primo cratere artificiale fu scavato per riprodurre l’area del Mare della Tranquillità, che il satellite americano Lunar Orbiter 2 aveva fotografato nel 1966. I siti alieni sulla Terra non si esauriscono qui: il citato catalogo ne riporta 30. A voi il piacere di scoprirli.


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Ambiente e Benessere

Inciampando attraverso Londra Reportage Tra parchi e birrerie, passando per il National Theatre e la Tate Modern Markus Zohner* Un’ora di attesa all’immigrazione per accedere al Regno Unito. Code senza fine a Heathrow finché mi ritrovo finalmente davanti a una gentile signora di origini arabe che esamina il mio passaporto e la mia faccia, e io lei: occhi scuri, limpidi e severi, sulle labbra appena un accenno di rossetto, i capelli nascosti sotto un fazzoletto che per colore, tessuto e foggia fa parte dell’uniforme. Ai possessori di passaporto elettronico non è concesso il suo umano «Welcome!»: con la mano su uno scanner per identificare la trama delle vene, le bocche semi-aperte e lo sguardo fisso si fanno prendere le misure fin nei più intimi dettagli e si lasciano guardare fino in fondo all’iride da un occhio elettronico finché il calcolatore li riconosce e gelidamente spalanca il cancello di ferro. Si guida a sinistra! Dapprima verso casa. Adel è un vecchio compagno di scuola diventato medico che vive da molti anni a Londra. Poco più tardi corriamo fianco a fianco attraverso Bushey Park, la terra che ondeggia al ritmo regolare degli scarponcini da corsa. Ci vengono incontro dei cavalieri, il sole basso fa scivolare la sua calda luce sugli alberi cespugliosi che già perdono le prime foglie. A causa di un forte stiramento muscolare al polpaccio, nelle scorse settimane non mi sono potuto allenare bene, ma non rinuncerò alla Richmond Running Festival, domenica nei Kew Gardens di Londra. Adel sa tutto. La sera ci ritroviamo in un ristorantino indiano. Il proprietario ci saluta con una stretta di mano. Adel, medico e filosofo di chiara fama, è un vecchio e buon cliente ed ecco al volo supplementi di curry di pesce, vini di riso e per finire due bicchieri di Gin Bombay Sapphire, limpido come l’acqua. «Dall’India ha preso solo il nome: è distillato da Bacardi, la ditta ha sede alle Bahamas, che 150 anni or sono è stata fondata a Santiago de Cuba e proprio qui, a Kingston upon Hull, e che oggi distilla il cosiddetto rum cubano a Puerto Rico. Dagli anni 60 mantie-

Uno scorcio sulla Londra dei Discount; sotto, Standing Ovation alla fine di Othello. (Markus Zohner)

soffitto. Vado a prendere due London’s Pride. La birra è calda e senza schiuma e il tavolo un po’ appiccicoso come in ogni Pub inglese che si rispetti. «E con le donne Adel, come va?» «It’s his showbut it’s her choice. O, come lo dice Salman Rushdie: sono sempre le donne che decidono. Agli uomini resta solo la gratitudine di essere il fortunato che hanno scelto. E penso che abbia maledettamente ragione. Possiamo solo essere grati. Bevi, ce ne andiamo, è un luogo triste questo. E domani, la giornata sarà lunga». Nel suo potente anti-museo surrealista, Meschac Gaba, artista originario del Benin, mostra un’istallazione di pezzi di legno che i visitatori assemblano per ottenere opere audaci, fotografie e reliquie del suo matrimonio,

«Bar (In The Music Room)» opera dell’artista Mescha Gaba, al Tate Modern di Londra; sotto, il Pub The Harp. (Markus Zohner)

ne un governo cubano in esilio negli Stati Uniti e sostiene finanziariamente la Cia nella lotta contro il regime cubano. Di questa roba non bevo!» protesta. E ordina Gordon’s. «Questo qui è distillato dal 1786 a Islington, nel quartiere di Clerkenwell. Ci ha vissuto Salman Rushdie finché non è stato colpito dalla Fatwa e costretto da islamisti fanatici a fuggire in una vita nell’ombra con la paura di morire per compagna. Il cibo è buono qui, l’oste cordiale. Dai che andiamo ancora al The Lamb per due Ales! Non c’è molto qui fuori a Kingston ma la birra è buona come ovunque». Una birreria, un miscuglio tra vecchio bar stile inglese con i fusti di birra e un negozio hippie, nell’angolo degli ombrelloni con le crespe, alle pareti un po’ di cianfrusaglie stile flower power, fiori di plastica impolverati, un poster di Warhol con Marilyn a quattro colori e privi di ogni contesto, due seni di gomma con reggiseno rosso attaccati al

mostra una banca svizzera che rende felici e una Music Room deliziosamente kitsch, nella quale due giovani visitatori si siedono ad un pianoforte a coda per incantare a quattro mani gli ospiti che si accomodano deliziati sulle sedie, sulle poltrone felpate e sui divani. Una grande, splendida mostra di Gaba alla Tate Modern immerge il visitatore in un mondo giocoso, pieno di calore africano e risate diaboliche. Adel è socio sostenitore del Tate Modern, cosa che permette, oltre all’entrata libera a lui e a un’altra persona, l’accesso esclusivo alla Member’s Lounge all’ultimo piano: breve sosta con splendida vista sul Tamigi, St. Paul’s Cathedral e la città di Londra. Le distanze qui sono grandi ma a chi verrebbe in mente di privarsi di tutto quello che di bello c’è da vedere e usare il Tube che sfreccia in anfratti bui sotto questo mondo magico? Così, poco dopo, per attraversare il Tamigi prendiamo il Millenium Bridge, il ponte pedonale richiuso solo due giorni dopo la sua apertura nel 2000, poiché il passaggio delle persone aveva causato un’oscillazione sempre più ampia, tanto che si rischiò la catastrofe: un anno e mezzo dopo fu riaperto grazie una sostanziale miglioria. Passando da St. Paul’s Cathedral, giungiamo a Royal Courts e a Trafalgar Square, quando Adel mi prende per una manica e mi trascina in un viuzza laterale: «Qui fanno i migliori fish’n chips della zona. La

pastella è fatta in casa, il merluzzo appena pescato e le patate sono di prim’ordine. Prendi ancora un po’ di aceto!». I fish n’chips di oggi, merluzzo fritto in pastella di birra, patate tagliate spesse con sale e aceto al malto secondo tradizione, non vengono più avvolte, come fino a qualche decennio fa, nei fogli del giornale scandalistico del giorno prima. Oggi mi viene a mancare nel sapore, quella tipica sfumatura di carta e inchiostro di stampa, ricerca proustiana del ricordo delle visite a Suffolk della mia infanzia. Ma l’amaro di una India Pale, consumata poco dopo in un sovraffollato Harp’s, uno dei migliori pub di Londra, tra Trafalgar Square e Covent Garden, spegne la sottile delusione. I pub sono strapieni, ora; sembra che tutti gli uomini di Londra, tra loro solo poche donne sperdute, confluiscano nei Public Houses per dimenticare davanti ad un paio di Ales le fatiche della giornata e lucidarsi l’anima prima di rientrare ciascuno alla propria casa. Impieghiamo 15 minuti o poco più per arrivare al National Theatre. Il mondo appare bello ora: il sole è sparito e la pioggia anche ma, malgrado ciò, le case di Londra, gli autobus rossi, le chiese, i ponti e le persone risplendono di una beatitudine, di una lucentezza che riveste come una patina divina la metropoli all’imbrunire. Otello. I miracoli della macchina scenografica fanno apparire case vittoriane, la sala delle riunioni dello stato maggiore veneziano, piazza d’armi con

tanto di divisori di cemento armato, il bagno nudo della caserma e per finire il maledetto talamo e letto di morte di Desdemona nella camera del generale Otello, il quale sussurra: «Non mi piace!», quando Desdemona segue Cassio fuori dall’ufficio. Otello: «Che cosa non ti piace?» e Jago: «O, niente, niente...». È grande teatro, è teatro preciso, con attori eccellenti e l’eccezionale e precisa regia del direttore artistico del National Theater Nicholas Hytner. È teatro antico e allo stesso tempo moderno che mostra un classico, anzi «IL» classico, ma respira aria fresca, attuale; teatro che sembra essere possibile solo qui, in questo Paese e in questa città, nella quale Shakespeare fa parte del bene comune e degli strumenti di lavoro anche degli attori più giovani. «Adrian Lester e Rory Kinnear sono stati straordinari. Gli attori inglesi sono i migliori del mondo. Puoi dire quello che vuoi» commenta Adel poco dopo, quando siamo seduti al bar del British Film Institute con la sua amica Kemi. Adel beve una Long Blond, Kemi un Cider e io assaggio una delle tante Bitter. Un secondo giro non ci sta. I pub e i bar di Londra chiudono alle 23.00 e così ci ritroviamo poco dopo, in mezzo al flusso di gente che rincasa, alla stazione di Waterloo per prendere il treno di ritorno per Kensington. «Desdemona, lei è di fatto la perfezione!» * Traduzione di Daniela Mannu


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Ambiente e Benessere

Il ritorno del Codirosso comune Mondoanimale Ad aprile si torna ad udire il canto melodioso di questo uccello migratore

nostro territorio è ancora variegato per habitat e biodiversità, perché apparteniamo a un’area biogeografica differente da quella che ritroviamo al nord delle Alpi. I nostri habitat sono più simili a quelli della vicina Penisola dove, dal profilo della natura, vi sono popolazioni più consistenti per numerose specie che alimentano inevitabilmente le nostre». Di fatto, in tutta l’area prealpina, il Codirosso comune vive piuttosto bene: «Noi confinanti godiamo in parte di questa fortuna e dovremmo saperla amministrare, in modo da consolidare nuovamente l’insediamento del Codirosso comune, e di tante altre specie, su suolo elvetico».

Maria Grazia Buletti «Il suo canto è fra i più belli e melodiosi di tutti i canti degli uccelli di città» esordisce l’ornitologo Roberto Lardelli a proposito del Codirosso comune. Sul nostro territorio, questo volatile migratore può essere osservato e ascoltato – con un po’ di fortuna e spirito di osservazione persino nei nostri giardini – proprio dal mese di aprile: «Si tratta di un uccello che in Ticino non figura fra le specie super prioritarie per la conservazione, come invece è il caso a nord delle Alpi». La stazione ornitologica di Sempach ha, infatti, proposto e seguito un lavoro di master con l’obiettivo di fare il punto della situazione in merito al ritorno su suolo elvetico del Codirosso comune e Lardelli ce ne spiega il motivo: «Negli anni Ottanta, questo e altri uccelli migratori transahariani hanno subito un tracollo generale a causa del disastro ambientale avvenuto nella fascia di territorio dell’Africa subsahariana del Sahel dove questa e altre specie svernano». Il Codirosso comune ha patito parecchio la siccità di allora ed è stato praticamente decimato in Svizzera: «Dopo quella crisi, le popolazioni di Codirosso si sono di nuovo consolidate, ma in Ticino la sua presenza si è riaffermata più che a nord delle Alpi, dove il suo declino non è ancora stato compensato a sufficienza». L’ornitologo associa la rinnovata discreta diffusione del Codirosso comune nel nostro cantone alla posizione biogeografica diversa del Sud delle Alpi, alla minore urbanizzazione del nostro territorio rispetto alla Svizzera interna, inoltre «in Ticino non mancano gli ambienti ad agricoltura meno intensiva e questa è una fortuna dal punto di vista della biodiversità: pensiamo ad esempio alle coltivazioni a mosaico, vigneti, alberi da frutta ad alto fusto che presentano più che altrove suoli con vegetazione non uniforme, dunque ideale

Un prezioso contributo Il maschio del Codirosso comune ha una macchia bianca sulla fronte. (Marcel Burkhardt)

per questo uccello. Inoltre, pratichiamo un’agricoltura meno intensiva, con poca predilezione per le monoculture, che troviamo prevalentemente solo sul Piano di Magadino, dove infatti il Codirosso comune scarseggia, anche se la sua presenza è per contro favorita nei luoghi con vigneti di versante che confinano con boschi ricchi di cavità scavate dai Picchi». Il Codirosso comune predilige dunque un habitat variegato in cui non mancano zone aperte, giardini, parchi e boschi di castagno. A questo proposito, il piccolo e intonato uccellino potrebbe essere un elemento interessante come aiuto nella lotta al cinipide del castagno, come conferma l’ornitologo: «Il Codirosso comune si nutre di insetti volanti, dunque, anche

del cinipide che tanto affligge i nostri castagneti. Esso potrebbe perciò contribuire in parte al suo contenimento, così come le Cince e il Pigliamosche». Un’altra buona ragione per mettere a sua disposizione delle cassette-nido, un piccolo aiuto che può fare la differenza nel favorire e consolidare la sua presenza sul nostro territorio: «Migros, Ficedula e la Stazione ornitologica svizzera offrono cassette-nido che possono essere piazzate nei giardini e negli ambienti che abbiamo descritto, proprio perché oltre a prediligere gli spazi agricoli e i vigneti, il Codirosso comune si trova a proprio agio pure nei giardini di casa, dove sarà possibile ascoltare il suo bellissimo canto, a partire dall’inizio del mese di aprile».

Lardelli invita a coinvolgere tutta la popolazione nel favorire il ritorno del Codirosso comune. E chi vi si cimenterà, verrà certamente premiato dall’insediamento di qualche esemplare. Vale dunque la pena di munirsi di qualche cassette-nido e chissà che non si abbia la fortuna di incontrare o ascoltare il Codirosso comune proprio nel giardino di casa: «Ogni osservazione e informazione sugli avvistamenti è preziosa e tutti possono contribuire al monitoraggio di questa specie e di tutte le altre che vivono attorno a noi. Basta entrare nel sito www.ornitho.ch (vedi box qui a lato) e segnalare la presenza, l’avvistamento o tutto quanto coinvolge questa specie, così come tutte le altre, naturalmente». Lardelli conclude con una riflessione: «Il

www.ornitho.ch è il portale internet sul quale tutti possono inserire le loro segnalazioni e gli avvistamenti del Codirosso comune, così come pure di altre specie di uccelli. Il contributo di ciascuno può essere prezioso per testimoniare la presenza soprattutto di specie comuni o che tutti conosciamo. La Citizen Science, ovvero: la scienza effettuata con il contributo anche dei cittadini che hanno le giuste competenze, può aiutare a capire i cambiamenti di abitudine di alcune specie che sono influenzate dai cambiamenti climatici o dalle modifiche del territorio. Attraverso ornitho.ch, oltre un migliaio di ornitologi e volontari stanno realizzando un Atlante degli uccelli nidificanti in Svizzera. I lavori sul campo sono iniziati nel 2013 e si protrarranno fino al 2014. Ficedula e la Stazione ornitologica Svizzera di Sempach possono offrire, attraverso i loro contatti, tutte le indicazioni per un maggior coinvolgimento del pubblico.

Lo Stato dei rifiuti Inquinamento «L’Onda» di plastica di Maria Cristina Finucci, artista e fondatrice del Garbage Patch State,

fluttua al Museo nazionale della Arti del Ventunesimo Secolo a Roma Blanche Greco Sulla piccola piazza di ciottoli bianchi, abbagliante sotto il sole, che accoglie i visitatori del MAXXI, il Museo Nazionale delle Arti del Ventunesimo Secolo a Roma, da qualche giorno spicca un angolo di mare, dove una serie di morbide onde blu sembrano rincorrersi e brillano sotto il sole con mille riflessi colorati. È «L’Onda», installazione di trenta metri dell’artista Maria Cristina Finucci. I bambini, rapiti da questa insolita visione, istintivamente, vi si avvicinano con gridolini di gioia e cominciano una sarabanda tra quelle onde di plastica blu che, in alcuni casi,

sono ampie gallerie che al loro interno imprigionano mille cose: canotti, cuscini, paperelle, ciambelle, alligatori, rinoceronti e tutta quella stirpe di amici di plastica, che è anche il loro bagaglio estivo. Però, i bambini si bloccano quasi subito, a fermarli più che ciò che vedono, è l’odore, qualcuno di loro piagnucola disgustato da quella sorta di lezzo maleodorante che si sprigiona dalla plastica sfatta dal sole e dall’acqua, come quelle migliaia di briciole, una distesa di scaglie colorate e brillanti, che ricoprono «L’Onda». Alcuni rimasugli di materie plastiche provenienti da bottiglie riciclate, infatti, «galleggiano» su quelle false

onde blu, come succede nella realtà su quelle vere, in mezzo ai nostri mari: «Tre milioni di tonnellate di rifiuti plastici affiorano sotto forma di isole nei nostri oceani, adesso anche nel Mediterraneo. Nel tempo, hanno formato cinque isole enormi che insieme avrebbero un’estensione di sedici milioni di chilometri quadrati, quanto la Russia, o gli Stati Uniti e il Brasile messi insieme. Quando non li vediamo, non è perché siano spariti: sono tutti lì, trenta metri sotto il pelo dell’acqua». Ci racconta Maria Cristina Finucci, che l’11 aprile del 2013 davanti alla sede dell’Unesco, a Parigi, ha portato una sua opera che rappresentava una di quelle isole di rifiuti di plastica galleggianti, e ha fondato il «Garbage Patch State», lo Stato dei Rifiuti.

Le Isole di plastica galleggianti nei mari sono diventate uno Stato e hanno la loro ambasciata: The Garbage Patch State Embassy L’artista Maria Cristina Finucci, vicino alla sua «Onda» di plastica. (MAXXI)

Una provocazione plateale per richiamare l’attenzione generale sul problema dell’inquinamento dei mari e degli Oceani da parte dei rifiuti plastici e

che ha ripetuto, a un anno di distanza, al MAXXI di Roma, per celebrarne il primo anniversario, con l’installazione dell’«Onda» e la creazione della prima Ambasciata del Garbage Patch State. Un modo per portare questa enorme «macchia» galleggiante, che si allarga ogni giorno che passa, fin nelle nostre città, sotto i nostri occhi, per farci stare più attenti a ciò che buttiamo, perdiamo, o ci lasciamo dietro con noncuranza: «Solo il venti per cento dei rifiuti di plastica viene buttato in mare dalle barche; l’ottanta per cento proviene dall’entroterra: dal pallone, alla ciabatta infradito, alla forchettina di plastica, tutto ciò che “seminiamo” in giro, non importa se in montagna, o in campagna, se non viene smaltito convenientemente, prima o poi, finirà in mare e andrà a far parte delle isole di spazzatura di plastica, che avvelenano il mare e i pesci» spiga Maria Cristina Finucci. «Perché sotto l’azione del sole e dell’acqua, la plastica si sbriciola, si degrada sino allo stato infinitesimale di polimero, e adesso si calcola che in mare per una particella di plancton ce ne siano almeno sei di plastica». Si parla spesso dell’inquinamento dei mari in occasione di inspiegabili morie di pesci; per i branchi di balene che si arenano sulle spiagge; per i delfini che si ritrovano su rotte insolite: «Non tutti sanno che il polimero attrae gli ormoni dispersi nel mare, che così

vengono mangiati dai pesci assieme alla plastica scambiata per cibo e, quando non muoiono con lo stomaco pieno di pezzetti di plastica, è il loro sistema endocrino che si avvelena». Ma siccome neppure i satelliti sono in grado di tracciare le «chiazze» di plastica, queste tragedie restano «invisibili», e perciò è come se non avvenissero, o sono facilmente dimenticate. Maria Cristina Finucci, artista e appassionata di fisica quantistica, ha deciso di dare una forma e uno «status», a questo tipo d’inquinamento che sta diventando una vera «piaga» e con il «Garbage Patch State», ha creato una bandiera che ha piantato davanti alla sede dell’Unesco; e a Venezia, sul padiglione che l’anno scorso la Biennale ha riservato allo Stato dei Rifiuti e che ora sventolerà a Roma, al MAXXI sino al 2 maggio. Per chi volesse diventare cittadino di questo Away State, gioco di parole per «Stato dei Rifiuti», Maria Cristina ha ideato anche una carta d’identità dove a ognuno è abbinato un oggetto di plastica, come un frisbee ad esempio, immortalato in una delle 5mila schede incollate sulle pareti dell’Ambasciata, piccola anagrafe di oggetti plasticosi destinati prima o poi, a finire in mare. Un modo per dire agli entusiasti di questa iniziativa che è venuto il momento di riflettere, più che su cosa comprare, soprattutto sul modo migliore di buttarlo via.


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Ambiente e Benessere

Navigando tra le salse Gastronomia Dalla maionese alla barbecue, passando per il ketchup

Qual è la più universale delle salse, oggi? Se la giocano due colossi: maionese e ketchup. Spesso, spessissimo, si possono usare l’una o l’altra sulle medesime preparazioni. Io per anni ho preferito la maionese, ma negli ultimi tempi mi ritrovo di più con il ketchup: succede. A favore di quest’ultimo gioca il fatto di essere più leggero: nella maionese c’è tantissimo olio e ci sono pure le uova! Non che io, ahimè, badi più di tanto a questi aspetti, sia chiaro, ma in tanti ci badano e quindi un po’ mi adeguo.

Qual è la più universale delle salse, oggi: la classica maionese oppure l’americana salsa bbq o ancora il ketchup? Ambedue in genere le compriamo già fatte nel supermercato: è comodo. Qualcuno poi si fa la maionese a casa: con il minipimer è facile. Però non conosco nessuno che si fa il ketchup in casa, e questo non me lo spiego proprio. Quindi vi do la ricetta casalinga di questa salsa – che peraltro assomiglia tantissimo a un tradizionale condimento piemontese, il bagnet ross: misteri della cucina. Ecco la ricetta. Ingredienti: 2 dl di aceto di mele, 4 cucchiai di zucchero semolato, ma va bene anche quello scuro di canna e va benissimo quello bianco di canna, purtroppo non facile da trovare, 500 g di (ottima) passata di pomodoro, 1 cipolla, 1 carota, 1 gambo di sedano, prezzemolo, maizena o fecola di patate, peperoncino, o paprika in polvere, e sale. Mondate e spezzettate le verdure, cuocetele con poca acqua per 30 minuti e frullatele bene. Portate al bollore in un pentolino l’aceto con lo zucchero e lasciate sobbollire per 5

minuti, mescolando. Unite le verdure frullate, la passata di pomodoro, un cucchiaio di prezzemolo tritato finemente e un cucchiaio abbondante di maizena stemperata in un cucchiaio di acqua fredda. Cuocete la salsa a fuoco dolcissimo per 20 minuti o più, mescolando spesso: alla fine dovrà essere densa, appunto, come il ketchup. Regolate di sale e profumate con peperoncino secco sbriciolato o con paprika. Fate raffreddare, mettete in un barattolo e conservate in frigorifero. Sorella grande e nobile del ketchup è una salsa altrettanto meravigliosa, se non di più: la salsa bbq (Barbecue Sauce). È lunga da fare ma non certo difficile: più che altro ci vuole tempo per comprare tutti gli ingredienti necessari… Questa ricetta è di Matteo Tassi, grande amico e super esperto di bbq. Si utilizza sugli ingredienti cotti alla griglia ma anche in tutti quei casi per i quali si usa il ketchup. Ingredienti: 300 g di salsa ketchup, 60 g di miele di acacia, 35 g di miele di castagno, 30 g di salsa di senape, 10 g di Tabasco, 35 g di salsa Worcester, 25 g di paprika forte in polvere, 50 g di succo di limone, 30 g di aceto di riso, 20 g di aceto di mele, 25 g di zucchero di canna meglio se tipo Muscovado, 15 g di semi di cardamomo, 5 chiodi di garofano, 1 stecca di cannella, 1 cucchiaino di aglio in polvere, 1 cucchiaino di cipolla disidratata, 1 cucchiaino di pepe nero. Tostate in padella i semi di cardamomo e riduceteli in polvere, la più fine che la vostra pazienza vi permetterà di ottenere, in un mortaio con il pepe, i chiodi di garofano e la cannella. Unite l’aglio in polvere e la cipolla disidratata. In un tegame scaldate il ketchup, unite la senape e le due qualità di miele. Spegnete, una volta intiepidito il composto aggiungete le spezie pestate e il resto degli ingredienti. Mescolate e frullate a fondo con un frullino a immersione. Riaccendete il fuoco e completate la cottura per almeno 20 minuti o fino al raggiungimento della consistenza desiderata.

CSF (come si fa)

Kimberly

Allan Bay

Tre ricette russe a base di filetto di manzo. Molto classiche, molto ghiotte. Tutte per quattro persone. Vediamo come si fanno. Filetto alla Voronov. Mondate 400 g di funghi champignon e tagliateli a fette. Sbucciate e tritate 1 cipolla, rosolatela con 1 noce di burro insieme ai funghi in una casseruola. Aggiungete 200 g di panna acida e portate a quasi bollore. Regolate di sale e di pepe. Tagliate 800 g di filetto in 4 fette, battete leg-

germente la carne e cuocetela in una padella ben calda con poco burro per 2-3 minuti da entrambi i lati. Trasferite la carne in piatti caldi, nappate con la salsa e servite subito. Filetto allo cherry. È un liquore dolce a base di ciliegie. Preparate la salsa: versate 1 dl di cherry brandy in una padella, aggiungete una presa di dragoncello, il succo di ½ limone, un pizzico di sale e una presa di pepe nero pestato. Portate a ebollizione e fate ridurre circa di metà la salsa finché si addensa – se volete è possibile anche unire farina setacciata. Tagliate 800 g di filetto in 4 parti, fate appiattire leggermente la carne e cuocetela in una padella ben calda con una noce di burro, circa 2-3 minuti per lato. Trasferite la carne in piatti caldi e nappate con la salsa.

Filetto flambé al brandy. Tagliate 800 g di filetto in 4 parti, appiattite leggermente la carne e ungetela un po’ con olio di semi di arachide o altro olio vegetale a piacere. Pestate grossolanamente 4 cucchiai di pepe nero in grani, mettetelo in un piatto e passateci la carne da entrambi i lati. Riscaldate 4 cucchiai di olio in una grande padella e cuocete la carne a fuoco alto 2-3 minuti per lato. Scaldate 8 cucchiai di brandy in una pentolina alta, stando attenti che non si incendi (nota bene: quando si flamba, per farlo al meglio bisogna sempre aggiungere un alcol caldo, non a temperatura ambiente), versatelo sulla carne e flambate. Mettete 4 cucchiai di burro a fiocchetti sulla carne calda, salate e servite in piatti riscaldati.

Manuela Vanni

Oggi due proposte a base di un ingrediente negletto: le cosce di pollo. A mio parere sono molto più buone del petto di pollo.

Manuela Vanni

Ballando coi gusti

Cosce di pollo ai piselli

Cosce di pollo con peperoni e capperi

Ingredienti per 4 persone: 12 cosce di pollo · 200 g di pisellini · cumino · cannella in stecche · 1 ciuffo di coriandolo · 1 lime · 2 scalogni · 4 spicchi d’aglio · vino bianco secco · sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: 800 g di cosce di pollo disossate · 2 peperoni rossi · 60 g

Fate marinare per 2 ore in frigorifero le cosce di pollo incise con un coltello assieme a qualche cucchiaiata di vino, l’aglio schiacciato con il palmo della mano, il coriandolo mondato e tritato, lo zest grattugiato e il succo filtrato del lime. Trascorso il tempo necessario, distribuite il composto all’interno di 4 quadrati di carta da forno. Unite i piselli, gli scalogni mondati e tritati, 1 pezzetto di cannella, 1 cucchiaino di cumino e regolate di sale e di pepe. Richiudete la carta da forno in modo da formare 4 cartocci e cuoceteli al vapore per 15’. Servite subito.

Pulite e mondate i peperoni; metteteli ancora umidi in forno già caldo a 220° per circa 10’, in modo che si bruci la buccia rendendoli più facili da sbucciare. Sfornateli e metteteli in una terrina coperti con pellicola per alimenti. Una volta freddi eliminate pelle, semi e filamenti bianchi. Tagliate i peperoni a listarelle e conditeli con i capperi ben dissalati, l’aglio restante a fette, il basilico, olio, sale e pepe; lasciate insaporire a temperatura ambiente. Macinate la carne, mettetela in una terrina e conditela con il rosmarino tritato finemente con uno spicchio di aglio, un pizzico di sale e di pepe. Formate 4 hamburger di uguale misura e lasciateli riposare in frigorifero per almeno 15’. Arrostite i burger in una padella antiaderente almeno 4’ per lato. Serviteli nappati con i peperoni.

di capperi sotto sale · 2 spicchi di aglio · 1 rametto di rosmarino · 8 foglie di basilico · olio di oliva · sale e pepe.


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Ambiente e Benessere

Lungo le sponde del Mar Baltico

Tagliando d’iscrizione

Viaggio Per i lettori di «Azione», Hotelplan organizza una crociera

Desidero iscrivermi alla crociera estiva dal 3 al 14.08.2014

estiva sulla nave Costa Pacifica, dal 3 al 14 agosto 2014

Nome

te come d’inverno, Stoccolma offre un volto inconsueto di natura e cultura. Si visiterà poi la briosa capitale dell’Estonia – Tallin – città dall’illustre passato e dall’affascinante atmosfera. La nave proseguirà per San Pietroburgo, uno dei principali centri culturali russi, dove si potranno ammirare i parchi e i Palazzi storici, le residenze degli Zar e il meraviglioso Museo Ermitage. Helsinki invece, deve il proprio fascino all’incomparabile posizione sul mare. Cuore della vita culturale del paese, la capitale finlandese è una grande metropoli che conserva nella piazza del Senato splendidi esempi di neoclassicismo architettonico. La nave attraccherà poi a Riga, città dalla storia antichissima che quest’anno sarà capitale europea della cultura. Questo itinerario porterà a conoscere anche delle località meno note, come Klaipeda in Lituania, Gdynia in Polonia e Ronne in Danimarca. Un viaggio che conquisterà e regalerà momenti indimenticabili. La Costa Pacifica vanta cabine spaziose che dispongono di bagno o doccia/WC, climatizzazione, Tv, telefono, minibar, cassaforte, asciugacapelli, servizio in cabina 24 ore su 24. Inoltre sulla nave si trovano cinque ristoranti (di cui due a pagamento su prenotazione) e ben 13 bar, di cui un Cognac & Cigar

Rotta verso le capitali Baltiche, lungo un suggestivo itinerario che vi condurrà sulla via degli antichi mercanti, alla scoperta delle più belle città del Mar Baltico. Il litorale lega fra loro le mete del viaggio, in maniera storica, geografica e culturale. Un’opportunità unica, organizzata da Hotelplan per i lettori di «Azione». La prima sosta sarà fatta nella capitale svedese che si sviluppa su quattordici isole e vanta uno dei cuori urbani medievali più grandi d’Europa. D’esta-

Programma di viaggio Costa Pacifica, Mar Baltico 1. giorno – Kiel (Germania) partenza alle 17.00 2. giorno – navigazione 3. giorno – Stoccolma (Svezia) 4. giorno – Tallin (Estonia) 5. giorno – San Pietroburgo (Russia) 6. giorno – San Pietroburgo (Russia) 7. giorno – Helsinki (Finlandia) 8. giorno – Riga (Lettonia) 9. giorno – Klaipeda (Lituania) 10.giorno – Gdynia (Polonia) 11. giorno – Ronne/Bornholm (Danimarca) 12. giorno – Kiel (Germania) arrivo ore 09.00

CHF 50.– 14 i d e r lo a v l 0 de isti Migros ni entro il 9 maggio 2 u q c a a t r a MC r prenotazio e p ) a in b a c (per

Cognome Via NAP Località Telefono e-mail Sarò accompagnato da … adulti e … bambini (0-17 anni) Sistemazione desiderata

Bar e un Coffee & Chocolate Bar. Al di là della ristorazione si annoverano anche quattro piscine (due con copertura semovente), cinque vasche idromassaggio e un centro benessere. Per non parlare delle innumerevoli attività: ad esempio, la sera vengono offerti spettacoli nel teatro e musica nelle varie sale. Ci sono poi un casinò e una discoteca per trascorrere serate piacevoli, mentre di giorno, per chi non volesse scendere a terra, saranno proposte variegate attività, sia per adulti sia per bambini. Non mancano poi una pista di jogging e il campo polisportivo. La Spa Wellness Samsara di 6mila mq ubicata su due piani, dispone infine di palestra, pisci-

Cabina interna Cabina esterna con finestra Cabina esterna con balcone

na per talassoterapia, sale trattamenti, sauna, bagno turco e solarium UVA.

Prezzi per persona a Malpensa e ritorno, volo di andata e ritorno su Amburgo, accompagnatore Hotelplan, sistemazione nella cabina prescelta, trattamento di pensione completa, utilizzo di tutte le attrezzature della nave e partecipazione alle attività di animazione a bordo, tasse portuali.

Cabina doppia interna CHF 2770.–per persona Cabina doppia esterna con finestra CHF 3290.– per persona Cabina doppia esterna con balcone CHF 3650.– per persona

La quota non comprende Spese di dossier Hotelplan CHF 60.–, quote di servizio obbligatorie da pagare a bordo, bevande ai bar e ai pasti, escursioni ed i tour organizzati, assicurazione viaggio completa CHF 90.– per persona, adeguamento carburante e ogni extra non menzionato nella voce «la quota comprende».

Bambini da 0 a 17 anni in cabina con due adulti CHF 1625.– per bambino

Bellinzona

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Lugano

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Viale Stazione 8a 6500 – Bellinzona T +41 91 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch

Centro Comm. Serfontana 6834 – Morbio Inferiore T +41 91 695 00 50 chiasso@hotelplan.ch

Via Pietro Peri 6 6900 – Lugano T +41 91 910 47 27 lugano@hotelplan.ch

Via Emilio Bossi 1 6900 – Lugano T +41 91 913 84 80 lugano-viabossi@hotelplan.ch

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Ambiente e Benessere

Cina: la carica di milioni di eScooter Motori Un pieno di energia costa meno

di 35 centesimi ed è sufficiente per 40 chilometri, grazie a una nuova tecnologia

Mario Alberto Cucchi La multinazionale tedesca Bosch ha da sempre una missione: «Offrire alle persone soluzioni concrete, innovative e accessibili per migliorare la qualità della vita di tutti i giorni». In Cina oggi sta raggiungendo questo ambizioso obiettivo grazie alla sua tecnologia volta a equipaggiare gli eScooter. Motorini ecologici che circolano in grande numero sulle strade orientali. La Cina è un mercato di enorme importanza per i veicoli a due ruote tenuto anche conto degli enormi problemi di viabilità e congestione del traffico delle città. Per questo Bosch, già nel 2011, aveva stipulato una Joint Venture con la Ningbo Polaris Technology, azienda locale specializzata in produzione di motori per scooter elettrici. Grazie alla ricerca del Gruppo tedesco, le caratteristiche di questi motori si sono evolute incrementando affidabilità, prestazioni e sicurezza. Grazie a questo e a un costo inferiore a 35 centesimi per una ricarica completa, oggi in Cina circolano oltre 120 milioni di eScooter.

In Cina entro il 2016 si punta a raggiungere 440 milioni di scooter elettrici Un numero destinato a crescere: si stimano 440 milioni di eScooter entro il 2016. Bosch per questo mezzo ha sviluppato l’innovativa A.R.S. (Advance Recuperation System), una tecnologia che permette di recuperare energia durante le frenate. Grazie a questa implementazione, eScoter può percorrere ben 40 chilometri prima di doversi fermare per effettuare un pieno di energia. Anche il Gruppo Volkswagen sta investendo come mai in passato nelle

tecnologie ecosostenibili. Lo scorso anno, le spese nel settore ricerca e sviluppo sono state di 10,2 miliardi di euro e la parte del leone l’hanno appunto fatta le tecnologie «verdi». Il presidente Martin Winterkorn è convinto che la strada intrapresa sia quella giusta, e che quest’ultima consentirà al Gruppo di diventare il principale costruttore al mondo entro il 2018, anche in termini ecologici. Winterkorn ha, infatti, ricordato che nel 2013 le emissioni medie di CO2 dei nuovi veicoli lanciati in Europa si sono attestate a 128 g/km, livello già rispondente alle normative 2015. Ma non si parla solo di CO2. Il cammino verso la leadership ecosostenibile passerà anche attraverso la riduzione del 25 per cento del consumo di energia e di acqua nei suoi stabilimenti, sempre entro il 2018. Attualmente, il Gruppo tedesco sforna 54 versioni con emissioni di CO2 inferiori a 100 g/km e 324 varianti sotto i 120 g/km. La diminuzione dei consumi non si ottiene però esclusivamente attraverso l’evoluzione dei propulsori o l’adozione di motori «verdi». Lo ricorda la Commissione Europea che ha inserito tra le migliori Eco-Innovation per l’automobile, il modulo di illuminazione anabbagliante a Led denominato «E-Light» proposto dalla divisione Automotive Lighting dell’azienda italiana Magneti Marelli. Non un semplice fanale per auto, ma una tecnologia che viene dunque riconosciuta ufficialmente come innovativa ed efficace nell’ottica degli sforzi per l’abbattimento delle emissioni di CO2 prodotte dalle auto. Al modulo «E-Light» di Magneti Marelli, la Commissione Europea ha riconosciuto un contributo al taglio delle emissioni di CO2 di almeno 1 g/km nell’utilizzo reale del veicolo. La tecnologia anabbagliante a Led «E-Light» della Casa consuma inoltre 11 watt contro i 68 di una normale lampadina anabbagliante alogena. Anche questo è rispetto per l’ambiente.

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Ambiente e Benessere

Amianto: un pericolo nascosto Salute Anche detto asbesto, è un minerale presente in molti materiali e apparecchi costruiti prima del 1990.

Dal 2014 è obbligatoria una perizia sull’amianto se si vuole demolire o trasformare edifici realizzati prima del ’91 Per questi motivi l’informazione e la sensibilizzazione di chi entra in contatto con ambienti potenzialmente a rischio è ancor più importante. I tetti in fibrocemento, dato che sono particolarmente visibili, suscitano inquietudini nei non addetti ai lavori, ma sono però solo una delle possibili cause di contaminazione degli ambienti, con conseguente messa in pericolo della salute delle persone. Rischi peraltro potenziali e limitati quasi esclusivamente a una scorretta manipolazione meccanica (rotture, taglio, fresature...). Il materiale, se lasciato intatto o rimosso correttamente, non deve invece destare alcuna preoccupazione alle persone che operano o transitano nelle adiacenze. Ben diverso è il problema in caso di ristrutturazioni o demolizioni di edifici contenenti materiali o apparecchi costituiti da elementi contenenti amianto. In queste situazioni si possono liberare

Che cos’è l’amianto L’amianto (o asbesto) è un prodotto presente in natura (un insieme di minerali) che si è diffuso nell’edilizia grazie alla sua spiccata resistenza al calore e alla sua fibrosità. Le fibre che lo costituiscono sono molto sottili (microscopiche) e, se respirate, possono provocare malattie polmonari gravi. La prima nazione a riconoscerne la natura cancerogena fu la Germania nel 1943, mentre la Svizzera adottò un divieto d’utilizzo dal 1990. Tutti gli edifici antecedenti questa data sono dunque potenzialmente a rischio.

nazionale, si impegna per promuovere una metodologia di lavoro unificata, in modo che tutti i consulenti abbiano i mezzi opportuni per effettuare le perizie. I membri dell’Asca dispongono di un vademecum su come, dove e quando effettuare i prelievi, come valutare gli edifici e come stilare i loro rapporti. Come citato esplicitamente nell’Ordinanza sui lavori di costruzione (vedi box) è d’altronde un obbligo ridurre al minimo i rischi professionali (infortuni, malattie o danni alla salute). La Suva – l’ente di diritto pubblico che assicura all’incirca 115mila aziende (ossia due milioni di lavoratori e disoccupati) contro gli infortuni e le malattie professio-

nali – è pertanto particolarmente attenta alla questione dell’amianto. La prevenzione è anche in questo caso il cavallo di battaglia, sia tramite il controllo dei posti di lavoro sia con un’informazione di facile reperibilità. Il sito www.suva.ch/ amianto è particolarmente ricco di dati, indicazioni e chiarimenti rivolti principalmente ai datori di lavoro, ma anche ai privati. «L’amianto, anche se in matrice fortemente agglomerata, può rappresentare comunque un potenziale rischio per la salute di chi, con metodi di lavoro e misure di sicurezza inappropriate, lo manipola o lo lavora meccanicamente oppure di chi, in caso di

contaminazione degli ambienti, fruisce dei locali», ricorda Nicola Skory, responsabile del Centro di competenza in materia di Amianto per la Suva in Ticino e nel Grigioni italiano. Importante è dunque conoscere il problema, per evitare che da potenziale diventi effettivo. Durante i controlli sui cantieri, svolti a campione dalla Suva, non sono rari i casi di una scorretta manipolazione di materiali e apparecchi contenti amianto. «Anche piccole quantità, se maneggiate in modo superficiale o inadeguato, possono liberare nell’aria grandi quantità di fibre d’amianto, largamente sopra i limiti ammissibili per la salute pubblica», precisa Nicola Skory. Essenziale è dunque anche evitare il «fai da te» in caso di lavori su strutture antecedenti il 1990. Non conoscendo i rischi e le misure di sicurezza da adottare, gli interventi devono essere affidati a delle persone esperte e formate, sia in fase di progettazione sia d’esecuzione. Un valido aiuto arriva dalla ReteInfo Amianto che s’indirizza in modo particolare ai privati, alle persone che vogliono avere informazioni. Ogni anno sono oltre 150 le consultazioni effettuate dagli esperti del Cantone, che rispondono a domande inerenti la problematica «amianto»: come intervenire, chi chiamare, quali i pericoli. Ad esempio, dall’Ordinanza sui lavori di costruzione, OLCostr, così avvisa l’articolo 3: «Se vi è il sospetto che siano presenti sostanze particolarmente tossiche come l’amianto o i policlorobifenili (PCB), il datore di lavoro deve accertare accuratamente i pericoli e deve valutare i relativi rischi. In base a tali analisi devono essere pianificate le misure necessarie. Se durante i lavori di costruzione si dovessero inaspettatamente rinvenire sostanze particolarmente pericolose, occorre interrompere tali lavori e avvisare il committente». La piattaforma, grazie alle conoscenze specifiche di esperti settoriali, vuole dare indicazioni concrete e precise, oltre a fornire informazioni sulla corretta gestione e sul corretto smaltimento di materiali contenenti amianto. L’obiettivo principale è dunque quello di assicurare la necessaria informazione affinché gli interventi su materiali contenenti amianto avvengano senza rischi per la salute pubblica e per l’ambiente, evitando che una piccola particella possa scatenare dei grandi problemi di salute. Indirizzi utili

ReteInfo Amianto, www.ti.ch/reteinfoamianto, 091 814 37 51; Associazione svizzera dei consulenti per l’amianto (Asca), www.asca-vabs.ch; Suva, www.suva.ch

Jacek Pulawski

L’amianto sembrerebbe un problema del passato, ma purtroppo non è così. A causa del suo largo utilizzo avvenuto fino agli anni Novanta (dal 1990 in Svizzera vige un divieto), questo elemento è contenuto in molti materiali adoperati nelle costruzioni. I suoi effetti nocivi sulla salute non sono immediati e dunque, a volte, si tende a dimenticare che, lavorando o manipolando in modo inappropriato materiali contenenti amianto, si possono scatenare delle patologie anche incurabili.

nell’aria delle notevoli quantità di fibre d’asbesto respirabili e dunque dannose per la salute. Chi vi lavora senza le dovute precauzioni e i necessari dispositivi di protezione è dunque esposto a un elevato pericolo che non si manifesta però a breve tempo, dato che non si riscontrano irritazioni immediate o altri sintomi durante il contatto. Un accertamento prima di intraprendere qualsiasi tipo di lavoro o demolizione in una costruzione antecedente al 1990 è dunque un buon investimento, come spiega Gustavo Milani membro dell’Asca, l’Associazione svizzera dei consulenti per l’amianto: «La prevenzione è importantissima, sia per evitare contaminazioni, sia per scongiurare interruzioni dei lavori una volta scoperta una fonte di amianto. Spesso si nota ancora una mancanza d’informazione sia da parte dei cittadini, ma anche degli architetti o degli addetti ai lavori». Oggi più che mai. A partire da quest’anno, infatti, è diventata d’obbligo: «alla domanda di costruzione per la demolizione o la trasformazione di edifici realizzati prima del 1991, dovrà essere allegata una perizia che attesti la presenza o meno di amianto nell’edificio. Questa perizia deve rispettare precisi requisiti tecnici e va eseguita da specialisti riconosciuti dalla Suva» (dal Regolamento alla legge di applicazione della Legge edilizia cantonale). Durante le sue perizie anche Gianluca Bertoni dell’Asca ritrova quasi sempre delle tracce che, se rimosse nel modo errato, sono dei concreti pericoli per la salute: «L’amianto presente nelle abitazioni, se in forma fortemente agglomerata e in ottimo stato di conservazione, non deve destare particolari preoccupazioni. Ovviamente il materiale non deve essere danneggiato o alterato, per esempio con il «fai da te». Al momento di rimuoverlo è sufficiente affidarsi a delle ditte specializzate che, appositamente attrezzate, possono evitare che le fibre nocive vadano a finire nei polmoni degli operai o degli inquilini. Diverso, invece, il caso dell’amianto in forma debolmente agglomerata per il quale i rischi sono maggiori». I materiali con asbesto in matrice fortemente agglomerata sono per esempio il fibrocemento utilizzato per i tetti ondulati, alcuni tipi di collanti utilizzati per le fughe delle piastrelle, gli stucchi delle finestre o nelle placche isolanti dei vecchi interruttori elettrici. I materiali con amianto in forma debolmente agglomerata, sono invece i plafoni dei soffitti, alcuni tipi d’isolazione esposte all’aria o isolazioni danneggiate di certi tubi dell’acqua calda. Per meglio coordinare l’operato dei consulenti in materia di amianto è attiva da tre anni l’Asca che, a livello

Jacek Pulawski

Elia Stampanoni

Jacek Pulawski

Per rimuoverlo o eliminarlo bisogna affidarsi a degli esperti


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Ambiente e Benessere

Un calcio e basta al Football club Ticino Sportivamente Dicono che un giorno o l’altro si dovrà tornare a spogliarsi dei campanilismi per riportare

in alto il football ticinese. Ma i problemi non sono tanto di natura passionale, quanto finanziaria: chi mette i soldi per un tale progetto? Alcide Bernasconi Siamo rimasti che ognuno si «tiene» il proprio stadio, aspettando che una tv locale venga a curiosare su cosa succede dietro le quinte in vista dei prossimi impegni, intervistando di volta in volta il tecnico, o un giocatore o il presidente. È un modo per cercare di tenere vivo l’interesse dei tifosi rimasti e non lasciar morire di morte lenta, oltre che ingiusta, il «calcio che ancora conta» nel cantone. La stagione l’abbiamo trascorsa così, con il lungo intermezzo in cui ha tenuto banco il fantomatico Fc Ticino: avrebbe dovuto nascere dalle ceneri del Fc Locarno e coinvolgere molte persone a cui stava a cuore il calcio ticinese, quello vero. Questo è quanto hanno voluto farci credere in molti, con i media tutti più o meno coinvolti e decisi a sostenere la nascita di una nuova squadra che sapesse riunire le forze – umane e finanziarie – affinché da un punto qualsiasi del nostro cantone si alzasse in alto e forte un nuovo incitamento: «Forza Ticino!»

Intanto rinasce l’Ac Bellinzona e Lugano e Chiasso proseguono, forse accompagnati da un «nuovo» Locarno Dimenticate i vecchi club: appartengono al passato! Ora bisogna guardare in avanti, avere il coraggio di cambiare, rimboccarsi le maniche, unire le forze per riportare il calcio ticinese almeno nell’élite svizzera. Basta piagnucolare… Insomma, l’invito a dire basta ai vecchi club, per i quali da sempre si è sofferto (molto) e gioito (poco) era esplicito, perfino accompagnato da qualche provocazione di troppo con

parole giustamente ritenute dai presunti destinatari come offensive. Si è fatta così aleggiare anche l’aria di un complotto ordito contro i promotori della nuova squadra (o della nuova idea) affinché non si approdasse a nulla. Ma nessun boicottaggio era in atto, salvo la volontà della maggior parte di coloro che hanno intensamente vissuto, anno dopo anno, le vicende del calcio ticinese (ma soprattutto della squadra del cuore) di non vedere chiusa per sempre la storia della beneamata. Nello sport non si può obbligare nessuno a battersi, anima e cuore, per sostenere una squadra che dovrà nascere secondo criteri tecnici e di politica sportiva studiati a tavolino. Se a ciò si aggiunge che nemmeno esisteva la certezza di un sostegno finanziario adeguato alle ambizioni di riportarsi il più presto possibile nell’élite del calcio nazionale, era inevitabile che a prevalere fosse lo scetticismo quasi generale. Chi conosce uno sponsor pronto ad assumersi, di questi tempi, un onere tanto importante? Lasciamo perdere poi le storie del campanilismo considerate come uno dei mali peggiori dello sport ticinese e tirate in ballo quando era chiaro che sarebbe stato difficile concretizzare il progetto della squadra unica. Non siamo abbastanza larghi di vedute, è il rimprovero che ci è stato fatto, quali sostenitori sia del Fc Lugano, sia del Fc Chiasso, sia dell’Ac Bellinzona e del FC Locarno: guardate che la soluzione per ridare lettere di nobiltà al calcio ticinese è una sola e sta nella squadra unica. Presto o tardi si dovrà prenderne atto. Intanto, però, fra sorrisi e lacrime risorge dalle ceneri l’Ac Bellinzona e a Locarno c’è chi sarebbe pronto a chiedere alla famiglia Gilardi il bastone di comando, mentre a Lugano Renzetti si batte per rispettare la sua tabella di marcia verso posizioni migliori pro-

Il Fc Ticino? Sotterrato! (Cdt)

seguendo sulla strada intrapresa anche nella prossima stagione, così come avviene a Chiasso. La classifica della Challenge League, dopo 29 giornate, rispecchia in modo molto chiaro le difficoltà di ogni club: 5. Lugano, 8. Chiasso, 10. Locarno. Ci sono margini per la speranza in un futuro migliore forse per un paio di club, ma bisogna ammettere che il futuro non è dei più rosei. Chiusa – per il momento – la discussione senza punti d’arrivo (né di partenza, a ben guardare) della «squadra unica», il calcio ticinese ha dovuto prendere atto di episodi poco edificanti verificatisi sui campi degli allievi, a causa del comportamento di protagonisti sul campo e di alcuni genitori fuo-

ricampo. La storia del fairplay sportivo, nonché della buona educazione in casa, a scuola e nella società andrà sempre aggiornata, non lesinando gli sforzi affinché, almeno fra gli sportivi, questo termine abbia ancora un senso. Anche in campo internazionale, per il calcio svizzero che va per la maggiore – ossia quello rappresentato dal Basilea – non è mancata la brutta figura per il comportamento di alcuni facinorosi nella gara di Coppa Europa giocata dai renani a Salisburgo, tanto che la successiva partita ha dovuto essere giocata al St. Jakob a porte chiuse. I basilesi sono poi stati eliminati dalla competizione in Spagna, ma in campo nazionale si battono per man-

Giochi Cruciverba Per la sua socievolezza e allegria il delfino è uno degli animali più amati dall’uomo. Scopri quanti anni può vivere leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate.

ORIZZONTALI 1. Una traccia nell’aria 4. Nome femminile 9. È ripetitivo 10. Precedono le seconde 11. La mitica giovenca 12. Brevi composizioni musicali 13. Le iniziali del cantante Antonacci 14. Provocato da una scarica elettrica 15. Così in latino 16. Ha un lungo becco 18. Ispirava i poeti 19. Inutile 21. La Lollobrigida 22. Quindici meno undici 23. Un liquore 24. Ci fanno aprire gli occhi… VERTICALI 1. Opinione favorevole dell’altro 2. Pronome dimostrativo 3. 99 romani 4. Smottamenti 5. Il cantante Gaetano 6. Appesi ad un filo 7. Termine di paragone 8. Un giaciglio sospeso... 10. Volto verso terra 12. Persona mite e accondiscendente 13. Si chiede gridando 14. Eccetto, fuorché 15. Preposizione 17. In quel luogo 20. «Tempestose» quelle di Emily Brontë 21. Sono molto espansivi... 22. Avverbio di luogo 23. Le iniziali di Leoncavallo

Sudoku Livello medio Scopo del gioco

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contenga tutti in numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

Soluzione della settimana precedente

Brani d’autore – Risposte risultanti: Wagner, Tristano e Isotta

tenere la loro supremazia. Le note confortanti per lo sport svizzero le hanno offerte intanto il tenace Fabian Cancellara. Secondo nella Sanremo, vincitore nelle Fiandre e terzo nella Roubaix, il bernese ci ricorda per quanto tempo abbiamo amato lo sport delle due ruote, anche quando mancava almeno uno svizzero a battersi da pari a pari con i migliori del mondo. Infine, ecco riaccesa in tutta l’Elvezia la speranza che si possa puntare, finalmente, alla Coppa Davis. Roger Federer e Stan Wawrinka non hanno avuto vita facile al Palexpo contro il Kazakistan, ma alla fine l’hanno spuntata: ora dovranno vedersela con l’Italia!


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Politica e Economia Il Ruanda 20 anni dopo A Kigali si commemorano in questi giorni le vittime del genocidio africano pagina 25

Ucraina nel caos I separatisti filorussi si stanno scontrando con le truppe di Kiev che nell’est del Paese hanno dato il via a una vasta operazione di anti-terrorismo. Putin nega il coinvolgimento di Mosca

Cambiare per crescere La sconfitta alle elezioni bernesi sprona il PBD a profilarsi meno a destra in vista delle «federali»

Freno all’indebitamento Se il 18 maggio i ticinesi diranno sì, saremo il penultimo cantone ad introdurlo pagina 28

Prigionieri del passato Ruanda Vent’anni fa nel piccolo Paese africano ebbe luogo una delle più grandi carneficine del XX secolo

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e della storia, nella quale morì un ruandese su 10, ovvero quasi un milione di persone in soli 100 giorni Pietro Veronese Il Ruanda ricorda in queste settimane il genocidio che venti anni fa causò la morte di circa un milione di Tutsi ruandesi e di molti Hutu che si rifiutarono di partecipare alle stragi, oppure tentarono di offrire nascondiglio e salvezza ai morituri, o ne furono considerati complici perché avevano una moglie o un marito Tutsi. È stata una delle più grandi carneficine del XX secolo e della storia, nella quale perì circa un ruandese ogni dieci. Una decimazione, le cui vittime non erano però designate dal caso: erano scelte per la loro appartenenza a un gruppo che si voleva sterminare.

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Il genocidio era pianificato e le vittime furono scelte per la loro appartenenza al gruppo sociale, i Tutsi e gli Hutu

Un poster elettorale con scritto «Stop al terrore». (Keystone)

Democrazia a rischio

Elezioni irachene Sul voto del 30 aprile pesano una lunga scia di attentati e le tensioni fra i sunniti dell’Isis e la

maggioranza sciita. Dopo il ritiro americano (2011) il Paese resta una polveriera che minaccia l’intero Medio Oriente Marcella Emiliani Il 30 aprile prossimo dovrebbero svolgersi in Iraq le elezioni per il rinnovo del parlamento. Il condizionale è d’obbligo perché i jihadisti sunniti dell’Isis (Islamic State of Iraq and al-Sham, laddove Sham significa Levante alias la Siria) hanno già manifestato l’intenzione di far deragliare il processo elettorale a suon di attentati e bombe. Fino allo scorso anno, l’Isis si chiamava Al Qaeda in Iraq e dal dicembre 2013 ha riassunto il controllo della provincia di Anbar, soprattutto delle città di Falluja e Ramadi, ma ha un raggio d’azione che si estende anche a Kirkuk, Ninive, Diyala, fino ai quartieri settentrionali di Baghdad. In tweet postati il 3 marzo scorso l’Isis ha condannato a chiare lettere la democrazia affermando che «partecipare alle elezioni è severamente proibito dall’Islam, perché questo processo rimpiazza le leggi della shariah, che sono le leggi di Allah, con leggi fatte dagli uomini, soprattutto da infedeli». Attenzione ora: gli infedeli in questione non sono gli americani o gli occidentali che dir si voglia, come ci si

potrebbe aspettare, ma gli sciiti, definiti nei tweet «rafidhi» e «safavidi». Rafidhi è uno dei termini usati per definire gli sciiti e deriva dalla radice «raft che significa «rifiuto» del califfato dei primi successori di Maometto, Abu Bakr e Omar. Ancora più interessante è l’altro termine, safavidi, che si riferisce alla dinastia che nel 1501 conquistò la Persia, oggi Iran, e vi proclamò lo sciismo religione di Stato. Sembra una questione polverosa: con i rafidhi l’Isis si riferisce alla frattura fra sunniti e sciiti avvenuta dopo la morte del Profeta nel 632 dopo Cristo, con i safavidi si torna – come dicevamo – al 1501 d.C. E invece il messaggio contenuto in questa terminologia è attualissimo. Gli estremisti islamici sunniti dell’Isis ritengono che gli sciiti iracheni siano ormai dei burattini nelle mani degli iraniani e in questa maniera vanno oltre la frattura sunniti-sciiti per fare appello ad un islamo-nazionalismo che vuole difendere l’Iraq dalle mire espansionistiche dell’Iran. Visto che il primo ministro iracheno, Nuri al-Maliki è sciita e molto probabilmente la sua coalizione, la State of Law, potrebbe riconqui-

stare un buon numero dei 328 seggi del parlamento, l’attacco è diretto al cuore del potere a Baghdad. Ma al-Maliki è davvero una creatura degli ayatollah di Teheran? La cosa più importante da sottolineare ora è il rifiuto totale della democrazia da parte dell’Isis, in nome dei tempi d’oro dell’Islam e non di uno scontro di civiltà con l’Occidente e gli Stati Uniti che quella democrazia l’hanno voluta esportare con le armi in Iraq con l’Operazione «Iraqi Freedom» del 2003. Detto in altre parole, visto che gli americani se ne sono andati nel 2011, i jihadisti devono trovare altri argomenti per scardinare la pur scalcagnata democrazia irachena e creare il loro Stato islamico. Per ora si limitano a seminare il caos come hanno sempre fatto. La democrazia impiantata in Iraq non è né bella né perfettamente funzionante, ma se all’Isis riuscisse di sabotarla davvero, sarebbe il disastro non solo per l’Iraq ma per l’intero Medio Oriente. Non dimentichiamo innanzitutto che l’Isis attraversa come e quando vuole il confine con la Siria e assieme ai jihadisti di al-Nusra ha spinto la guerra civile siriana a livel-

li di barbarie inauditi, contribuendo a mettere fuori gioco e a screditare le opposizioni cosiddette «pacifiche» al regime di Bashar al-Assad che ha reagito da par suo massacrando la sua stessa popolazione. In secondo luogo diventerebbero ancora più incerti gli esiti già pericolanti delle primavere arabe. L’esempio dell’Egitto, col colpo di Stato militare del generale al-Sisi, ha già tolto credibilità al processo democratico egiziano. Se ora l’estremismo islamico riuscisse a impedire le elezioni in Iraq, si creerebbe un precedente pericolosissimo che in molti sarebbero tentati di imitare nello stesso Egitto, in Tunisia e altrove. La posta in gioco il 30 aprile a Baghdad è dunque altissima. Ma l’Iran in tutto questo come si sta muovendo e cosa si aspetta? Ovviamente Teheran vuole conservare la sua indiscussa influenza sulla politica irachena; non vuole che si indebolisca il predominio sciita in Iraq ma preferirebbe evitare una vera e propria guerra civile sunniti-sciiti dagli esiti sempre incerti. Gradirebbe infine trovare un «uomo forte» sciita in grado di sostitu-

ire al-Maliki che non ha mai nascosto la sua antipatia per il regime degli ayatollah. Al-Maliki si presenta come un vero nazionalista che non tollera alcuna ingerenza esterna, non ultimo per ottenere anche il consenso delle altre comunità confessionali, quella sunnita innanzitutto. Il fatto è che dal 2003 in ambito sciita non è emerso un altro leader credibile, per lo meno tra i non religiosi. I cavalli di battaglia dell’Iran rimangono perciò i «turbantati» dell’Isci (Islamic Supreme Council of Iraq) col suo leader, Ammar al-Hakim, e la sua guida spirituale Ali al-Sistani. Non può invece contare più sull’enfant terrible dello sciismo iracheno, Muqtada al Sadr, che il 18 febbraio scorso ha smantellato la propria organizzazione, il Movimento sadrista e licenziato gli uomini del suo esercito, dicendosi ormai votato alla pace e allo studio. Dove confluiranno ora i suoi seguaci e chi decideranno di votare il 30 aprile? Anche per l’Iran, dunque, le elezioni irachene rappresentano un dilemma e, come l’Arabia Saudita e gli emirati sunniti del Golfo, guarda a Baghdad con apprensione.

I massacri durarono circa cento giorni e altrettanto durerà il lutto, che ogni anno impone ai sopravvissuti la sofferenza del ricordo. Per molti è un periodo di crisi, di profondo dolore anche fisico. «Sempre in aprile mentre mi alleno soffro di forti mal di testa», dice per esempio Adrien Nyonshuti, ciclista professionista. Le vedove, gli orfani, che sono decine di migliaia, attraversano giorni di depressione e di angoscia. Ci sono anche casi di vere e proprie crisi epilettiche, come si è visto fin dal primo giorno delle commemorazioni, lunedì 7 aprile mattina nello stadio Amahoro di Kigali, in presenza del capo dello Stato Paul Kagame. In Ruanda, come dice Philip Gourevitch, autore di uno dei libri più famosi sul genocidio del 1994 (Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie, Einaudi), «la memoria è una malattia». Sono passati venti anni ma in Ruanda, minuto Paese nel cuore dell’Africa la morte è ancora onnipresente. Nella memoria, nei sacrari che qui e là commemorano le stragi più grandi; nella retorica del potere, che continua a trarre legittimità dai fatti del ’94; nelle feroci polemiche che sono all’origine di rinnovate crisi diplomatiche, in particolare con la Francia, ma non solo; nelle critiche sorde, spesso alimentate da ambienti legati alla Chiesa cattolica e al mondo missionario, che raccontano storie diverse dalla versione più universalmente accettata. In questo ventennio il Ruanda ha fatto sforzi enormi per ritrovare la pace e andare avanti, costruirsi un nuovo futuro. È stato un compito terribile, per una società ferita a morte e costretta a ritrovare una convivenza tra vittime e aguzzini in un territorio relativamente angusto. In parte ci è faticosamente riuscito. Kigali, la capitale, mostra oggi il volto di una città in pieno sviluppo, linda, fervente di attività. Il Ruanda è ordinato, accogliente, sicuro, attira un numero crescente di turisti ma anche di investitori. Rimane essenzialmente contadino, povero, privo di materie prime, esportatore di raccolti, in primo luogo di caffè. Ma è considerato dai donatori internazionali tra i pochissimi che godono di una ottima governance, merce ancora rara nell’odierna Africa nera. Poca corruzione, poca criminalità, grande

disciplina sociale. Il rovescio di questa medaglia è l’onnipresenza dello Stato e dei suoi apparati di sicurezza, il rigore delle leggi, il controllo sul dissenso politico e sui media, la repressione severa. Un Paese tutto sommato libero, ma certamente non libertario. La «propaganda divisionista», cioè ogni riferimento pubblico al dualismo Hutu-Tutsi, è severamente condannata e punita per legge. Il trauma del genocidio ancora governa scelte e indirizzi. Il potere è saldamente nelle mani dei sopravvissuti e vi resterà nel prevedibile futuro. In termini africani, il Ruanda è molto piccolo. È la metà del Togo, un quarto della Liberia, un decimo del Gabon, un centesimo dell’Algeria. Un grumo di colline color smeraldo in perenne saliscendi, coltivate dalla cima alla base a terrazzamenti che ricordano la Cina o le fasce della Liguria e i cui esigui spazi tra l’una e l’altra, angusti avvallamenti pianeggianti, sono tenuti a pascolo o a risaia. Bellissime contrade contadine di mezza montagna, sempre sopra i mille metri di altitudine, bagnate da piogge abbondanti che le fanno scintillare al sole, ma spesso anche avvolte da nebbie fitte e fredde. Lontane dalla costa e dall’oceano, dominate da imponenti vulcani, nascondono le più remote sorgenti del Nilo: da quassù i fiumi corrono a gettarsi nel grande mare interno del Continente, il lago Vittoria, dal quale poi, verso nord, in Uganda, si diparte uno dei due rami del grande fiume. È in questo «Shangri La» africano, ingannevole idillio rurale, che venti anni fa tutto precipitò in un gorgo di sangue e di morte. E i fiumi trasportarono al lago i cadaveri. Da sempre la società ruandese (come molte altre attraverso il continente) era composta da una élite di allevatori e da un maggior numero di coltivatori, i Tutsi e gli Hutu. Gruppi sociali, non etnie. I primi avevano un ruolo dominante ed esprimevano la monarchia, ma non c’erano tra gli uni e gli altri vere barriere. Diverse furono le regole imposte dai colonizzatori europei, prima tedeschi, poi belgi. Con pretese scientifiche, misurarono crani, stature, aspetti, e classificarono. Codificarono tre etnie – Hutu 85 per cento, Tutsi 14, Twa 1 – e ne imposero la registrazione sui documenti di identità. Divisero la società tradizionale con rigidi steccati e usarono questa divisione a fini di potere. Si allearono dapprima all’élite Tutsi, poi quando questa mostrò segni di irrequietezza ed esternò velleità indipendentiste, rovesciarono l’alleanza. Il clero missionario belga, reclutato sempre più tra i fiamminghi, vide nei Tutsi l’equivalente ruandese degli odiati valloni. Al momento dell’indipendenza il governo di Bruxelles era retto dai cristiano-sociali, i quali sposarono entusiasti la causa degli Hutu, considerati il «proletariato» ruandese opposto all’«aristocrazia» Tutsi, la maggioranza cui è doveroso in democrazia che spetti il potere, ed anche bravi cattolici (i missionari andavano fieri dell’evangelizzazione massiccia del Ruanda, dove talora celebravano battesimi di massa innaffiando i catecumeni con i tubi da giardiniere). I governi del Ruanda indipendente furono sempre in mano a formazioni nazionaliste Hutu, ancor più nella «seconda Repubblica» creata con il colpo

A sinistra, Emmanuel Ndayisaba, carnefice e Alice Mukarurinda, vittima, oggi sono diventati amici. (Keystone)

di Stato di Juvénal Habyarimana nel 1973. Periodici pogrom provocarono migliaia di vittime e successive ondate migratorie dei Tutsi: molti degli attuali dirigenti ruandesi sono cresciuti in esilio, in Burundi, in Uganda, in Europa. La Chiesa ha sempre benedetto questo stato di cose e la Francia si sostituì progressivamente al Belgio facendosene il protettore internazionale. Con gli anni ’90, la fine della Guerra fredda e l’esplodere di feroci guerre identitarie nel cuore dell’Europa, la logica dell’esclusione etnica si inasprì anche in Ruanda. Mentre la ribellione armata del Fronte patriottico ruandese prendeva piede dentro i confini, infiltrandosi dall’Uganda, frange estreme all’interno del partito di Habyarimana cominciarono a parlare in maniera sempre più esplicita della necessità di eliminare fisicamente i «nemici» Tutsi. Nessuno si oppose o condannò davvero, né la Chiesa, né la Francia. Il presidente, che aveva consentito la formazione di milizie paramilitari del partito, gli Interahamwe, divenne ostaggio degli estremisti. La sera del 6 aprile 1994 l’aereo sul quale volava insieme al collega burundese fu abbattuto

da un missile in fase d’atterraggio a Kigali. Già dalla notte iniziarono le stragi. Sorsero ovunque posti di blocco; i miliziani chiedevano ai passanti di esibire la carta di identità: i Tutsi venivano massacrati sul posto a colpi di machete. I successivi processi celebrati davanti al Tribunale penale internazionale di Arusha, in Tanzania, hanno provato senza possibilità di dubbio l’esistenza di un disegno genocidario lungamente pianificato. Ai primi di luglio il fronte patriottico entrò infine a Kigali, ponendo fine ai massacri. Milioni di Hutu, protetti da una retroguardia militare inviata dalla Francia (l’Opération Turquoise), ripararono nel vicino Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo). Accampati in sterminate tendopoli a ridosso del confine, sostentati dalle Nazione Unite, presero a seminare il terrore infiltrandosi in Ruanda. Tre anni dopo, agendo attraverso suoi alleati congolesi ma anche con truppe proprie, il governo del Ruanda eliminò manu militari questa nuova minaccia, esportando però in Congo una guerra spietata che in varie forme dura ancor oggi. Questi, in estrema sintesi, i fatti

apocalittici che travolsero la regione dei Grandi Laghi africani nell’ultimo decennio del secolo scorso e ancora oggi non sono sopiti. Il ventennale del genocidio è stato causa di rinnovati scambi di accuse tra Ruanda e Francia. Il presidente Kagame ha ribadito la tesi delle responsabilità politiche e militari francesi, originando una mini-crisi diplomatica e sdegnate smentite ufficiali. Ma proprio la mattina del 7 aprile, intervistato da Radio France Culture, un ufficiale francese oggi a riposo, che aveva partecipato alla Opération Turquoise, ha dichiarato che lo scopo dell’intervento armato era difendere il governo genocidario, e solo in un secondo tempo divenne una missione umanitaria (mentre i successivi governi francesi di ogni colore hanno sempre sostenuto questa seconda versione). Dal canto loro, ambienti missionari italiani hanno definito l’attuale governo ruandese un vero e proprio «Tutsiland», riesumando le tesi classiche degli anni ’50 (la maggioranza Hutu oppressa da una minoranza…). Dal genocidio sono trascorsi vent’anni, ma il passato del Ruanda non passa.


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Politica e Economia

Alta tensione Crisi ucraina A Ginevra firmato un accordo per delineare una «road map», ma gli Stati Uniti continuano a temere la

minaccia di un intervento di Mosca nell’est del Paese sull’orlo della guerra civile Astrit Dakli Come molti temevano e nessuno ha cercato di impedire, l’Ucraina si è avviata sulla via della guerra civile, trascinandosi appresso tutto il sistema delle relazioni internazionali in Europa. Tutti ora guardano alle regioni dell’est del Paese che sono teatro delle operazioni militari e dove le cancellerie europee e statunitense continuano a vedere la minaccia di un intervento armato in grande stile della Russia: è in quelle regioni che ci sono stati i primi scontri e i primi morti. A meno di un miracolo, l’accordo firmato giovedì scorso a Ginevra tra rappresentanti di Ucraina, Russia, Usa e Ue servirà solo a mantenere aperto un canale diplomatico in attesa di sviluppi sul terreno. Il vero nodo della situazione è in realtà a Kiev, dove il fragile e incerto regime uscito dalla «rivoluzione» (o colpo di stato, come lo definisce Mosca) di febbraio subisce le pressioni e le derive violente della destra più estrema, sia in piazza – dove i gruppi neonazisti continuano a manifestare chiedendo la testa del «debole» presidente ad interim, Turchinov – sia nei corridoi del potere, dove sono gli uomini delle formazioni più oltranziste a imporsi nei posti chiave, soprattutto negli apparati della forza, militari e servizi di sicurezza.

Rispetto alla Crimea il Donbass è un’altra storia. Difficile pensare che Putin voglia semplicemente annetterlo alla Russia A Kiev è fortissima anche l’influenza delle cancellerie occidentali, e di Washington in special modo, e quindi sarebbe ancora possibile per l’Occidente bloccare le derive peggiori: Stati Uniti e Unione europea restano comunque pronti a rispondere a tentativi della Russia di interferire nell’Ucraina orientale e meridionale. Obama non ha precisato quali sanzioni aggiuntive potreb-

bero essere imposte contro Mosca, ma intanto il presidente russo Vladimir Putin (che ha l’obiettivo di guadagnare tempo e consolidare in Ucraina uno status di Paese diviso e debole) è tornato a minacciare l’uso della forza, accusando il governo ucraino di adottare metodi violenti contro le popolazioni russofone del Paese. La volontà di spazzar via con le armi i gruppi pro-russi dalle regioni orientali è chiara: quello che non è chiaro è come le autorità di Kiev pensino di riuscirci. È molto probabile infatti che nelle forze armate regolari ci siano divisioni profonde e che molti reparti, ufficiali in testa, siano decisi a rifiutarsi di sparare contro i propri concittadini o intendano addirittura, se si presenterà il caso, passare dall’altra parte; del resto episodi del genere si sono già verificati nelle settimane scorse con il passaggio di gran parte della marina ucraina sotto il comando dei russi; e si stanno verificando anche tra le forze di terra (testimoni parlano di gruppi di veicoli militari con le bandiere russe esposte) e che proprio per questo le operazioni militari «antiterrorismo» annunciate con parole truci dai generali di Kiev («chi non depone le armi sarà liquidato», ha detto il capo di stato maggiore generale Krutov) abbiano avuto un inizio così incerto e lento. Scontri armati potrebbero dunque verificarsi – se non si sono già verificati – tra reparti ucraini, con tutto quel che ciò comporta in termini di rancori e veleni seminati per il futuro. E la Russia? Resterà alla finestra senza far nulla o interverrà a sua volta? Se è molto difficile pensare che Mosca possa impegnarsi in una guerra «piena» contro le forze ucraine, guerra che sarebbe sicuramente facile sul terreno strettamente militare ma avrebbe costi politici proibitivi sia sul piano delle relazioni internazionali sia su quello del consenso interno alla società russa, oggi molto alto intorno a Vladimir Putin ma certamente destinato a crollare nell’eventualità di una guerra fratricida, non si può nemmeno credere che la Russia possa assistere passivamente al massacro dei suoi sostenitori al di là del confine e al consolidamento militare di quella

Separatisti filorussi fermano una colonna di militari ucraini a Kramatorsk, nell’est del Paese. (AFP)

che i russi considerano una dittatura neonazista. È dunque logico pensare che Putin e i comandi militari russi cercheranno delle modalità di intervento soft, probabilmente con infiltrazioni di commandos di forze speciali, forniture di armi ai gruppi ribelli e soprattutto con un’azione di pressione psicologica sui comandi stessi delle forze armate ucraine, tesa a convincerli della necessità e possibilità di opporsi agli ordini di Kiev. Del resto, è un modello di azione già usato con successo (ma lì la situazione era molto più semplice) in Crimea, e probabilmente già in atto in queste ore nel Donbass, il bacino industriale e minerario del Don. Il «modello Crimea», perlomeno sul piano militare, potrebbe quindi tornare ad essere usato senza troppi rischi. Per ottenere cosa, però? La Crimea, piccola, povera, con una popolazione largamente pro-russa e separata fisicamente dall’Ucraina, era un obiettivo semplice da ottenere e quasi logico, tanto che

persino il regime di Kiev ha de facto accettato la perdita senza troppe proteste. Ma il Donbass è un’altra storia, difficile pensare che Putin voglia semplicemente annetterlo alla Russia. La cosa più logica è che l’obiettivo russo sia esattamente quello che viene proclamato pubblicamente: ottenere per l’intera Ucraina una costituzione federalista in cui le grandi regioni mantengano una larghissima autonomia, ivi compresi i legami di politica estera. Un’Ucraina insomma in cui le regioni orientali e meridionali si possano legare economicamente e culturalmente alla Russia, pur continuando a far parte di uno Stato diverso, mentre le regioni occidentali si potrebbero legare all’Unione Europea e lo Stato nel suo insieme avrebbe uno status di neutralità. Di mezzo ci sarebbero mille problemi complicati, ovviamente, a partire da quelli doganali, ma per Mosca l’importante sarebbe la direzione impressa al Paese, cioè una marcia verso il federalismo spinto.

Comunque, federalismo o no, è chiaro che l’obiettivo di fondo del Cremlino ormai non è il destino di un territorio o un altro, ma l’abbattimento del regime che si è installato a Kiev in febbraio con un colpo di forza. Mosca continua a ripetere senza cedimenti che si tratta di un regime «illegale» e «fascista» che minaccia la popolazione di etnia e lingua russa: un regime, per di più, con strettissimi rapporti con gli Stati Uniti, la Nato e le potenze occidentali, e dichiaratamente nemico della Russia. Un regime che il Cremlino non può tollerare alle proprie frontiere – anche perché potenzialmente sarebbe un modello per l’opposizione filo-occidentale nella Russia stessa, che oggi è quasi azzerata ma domani, se un’Ucraina Maidan-style dovesse consolidarsi, ne riceverebbe ovviamente impulso e alimento. Tutto quel che sta accadendo in Ucraina in queste settimane, fino all’estremo della guerra civile, è legato a questo nodo.

Cinesi d’Egitto Storie globali Sempre di più, molti asiatici esclusi dal miracolo economico cinese scelgono di trasferirsi all’ombra

delle piramidi

«Sorpreso che ci siano così tanti cinesi perfino in Egitto? I cinesi sono ovunque» esclama con una smorfia tra il serio e l’ironico Xige, una ragazza ventiseienne trasferitasi al Cairo quando di anni ne aveva appena nove. La crescita demografica e soprattutto economica cinese, con le sue schizofrenie e ineguaglianze, sta spingendo sempre più cinesi a cercare fortuna in Africa e Medio Oriente, non solo in Europa. «Non oserei dire che mia madre sia stata la prima», spiega Xige mentre impartisce ordini in arabo e cinese a camerieri e cuochi dei due ristoranti che gestisce. «Sicuramente, però, è stata tra i primi cinesi ad arrivare al Cairo». Giunta per visitare finalmente le piramidi nel 1995, la madre di Xige aveva portato in valigia dei piccoli regali andati subito a ruba tra gli egiziani che le offrivano ospitalità. Appena tornata nel suo villaggio nel nord della Cina, aveva raccolto i pochi risparmi che aveva ed era tornata al Cairo all’avventura, iniziando a vendere porta a porta centrini, corredi nuziali, tessuti e decori. «Non

aveva bisogno di un visto di ingresso, nessun controllo all’aeroporto e il margine di guadagno era altissimo» continua Xige, «così ad ogni viaggio si faceva accompagnare da sempre più familiari e amici». Negli anni, i venditori di tessuti sono stati sostituiti dai piazzisti di telefoni cellulari, ma la concorrenza è tale da spingerli a girare a piedi anche

Keystone

Stefano Accorsi

nei villaggi più remoti lungo le sponde del Nilo. «Lavorano in squadre di 1020 persone, condividendo una piccola stanza e un magazzino in cui stipano la merce» spiega Youssef Zhang, giornalista cinese cresciuto in Egitto. «Sono contadini, disoccupati o gente che ha perso il lavoro a quarant’anni, persone completamente escluse dal miracolo economico cinese» aggiunge Xige. Secondo Youssef, «È molto dura, spesso vengono derubati o picchiati, ma i cinesi non sono stupidi… se lo fanno è perché si guadagna bene». Dopo pochi mesi, tornano in Cina dalle loro famiglie con una piccola fortuna. «Qualcuno particolarmente in gamba decide di rimanere e diventare il leader della squadra. C’era un uomo arrivato per fare il venditore che, dopo un anno, aveva 400 persone che lavoravano per lui». Per chi resta, la scelta più semplice e profittevole è quella di esportare prezioso marmo verso la Cina e importare prodotti di consumo di basso costo e qualità. Altri, invece, raccolgono cetrioli di mare, cavallucci e alghe marine dal Mar Rosso per venderli ai migliori ristoranti di Shanghai. O,

meno fantasiosamente, aprono ristoranti, centri di medicina tradizionale e fabbriche di tofu per soddisfare la nostalgia di casa degli «emigranti» più fortunati: i giovani laureati che lavorano per le grandi aziende cinesi delle tele-comunicazioni. Anche loro vivono una vita da eremiti-lavoratori, dedita al risparmio e al lavoro. «La mia compagnia gestisce la mia giornata e il mio tempo libero, così non devo pensare a nient’altro», spiega Feng, ingegnere informatico. «Può essere noioso e non so molto dell’Egitto anche se vivo qui da quasi un anno». Ma come i contadini e i disoccupati che vendono telefoni porta a porta, «anche noi impiegati lottiamo per una vita migliore una volta tornati in Cina. La competizione è dura e venendo all’estero possiamo guadagnare di più, fare carriera e sposarci» anche se, ammette con un certo imbarazzo, per trovare una ragazza non ha tempo. Anche Bohai è un giovane laureato, venuto in Egitto non per fare carriera, ma per studiare all’università di Al Azhar, la più antica e prestigiosa del mondo islamico. Bohai, viene dalla

stessa area della Cina e dalla stessa etnia, veste con gli stessi jeans e T-shirt di Feng, ma in Cina si sente discriminato in quanto musulmano. «Sono tornato lo scorso anno e mi sentivo a disagio» confessa. «In Cina c’è troppa pressione, sia per il ritmo di vita, sia per vivere la mia fede. Vengo rispettato, ma ho molti limiti e socializzare non è facile, mentre qua posso sentirmi me stesso». Xige, chiuso il ristorante, si rilassa fumando la tipica pipa ad acqua araba e confessa di non voler tornare in Cina. «Mia madre dopo due anni di viaggi avanti e indietro, si è follemente innamorata di un uomo egiziano, si sono sposati e così sono cresciuta qua. In Cina tutti corrono, chi si ferma è perduto. Gli egiziani sono più rilassati, si prendono le loro pause e si godono la vita. E a noi, qua basta il minimo sforzo per avere successo» scherza scoppiando in una risata fragorosa. «Poi in Egitto hai questa sensazione un po’ presuntuosa di essere cinese, ma di parlare arabo, per cui ti senti speciale. Mentre in Cina… sei solo uno fra un miliardo e mezzo di persone».


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Politica e Economia

Aspettando i giudici di Strasburgo Giornalismo di ricerca Parlamento e Tribunale federale

non brillano per la difesa della libertà di stampa, è quindi il caso di volgere lo sguardo alla Corte europea dei diritti dell’uomo – Terza e ultima parte Enrico Morresi Se il giornalismo di ricerca si è dato, oggi, grazie alle nuove tecnologie, uno spazio di libertà che nessun intervento censorio può frenare né impedire, constatarlo può essere motivo di soddisfazione e addirittura di orgoglio per chi, dall’epoca dei Lumi, si è sempre battuto contro gli arcana imperii. Chi però nutre uguale preoccupazione per il funzionamento delle società democratiche non potrà accettare a cuor leggero che le legislazioni siano messe semplicemente fuori uso. Non è sano, in democrazia, che il diritto debba semplicemente arrendersi davanti al fatto. Dopotutto, le Costituzioni non ignorano questa tensione. Il concetto di «interesse pubblico» a sostegno della libertà di informazione e dei media è esplicitamente citato nel primo capitolo della Costituzione svizzera (revisione approvata dall’elettorato il 18 dicembre 1998). Vi si ammette che i diritti fondamentali possono entrare in conflitto tra loro e l’art. 36 cpv. 2 prescrive che «le restrizioni dei diritti fondamentali devono essere giustificate da un interesse pubblico o dalla protezione di diritti fondamentali altrui». Finora, tuttavia, l’attenzione si è focalizzata soprattutto sul conflitto tra la libertà dei media e la protezione della sfera privata delle persone. Anche le sentenze dei nostri tribunali riflettono un campo di interessi diverso da quello toccato in questi articoli. Uguale constatazione si fa percorrendo una trentina di prese di posizione del Consiglio svizzero della stampa in tema di «interesse pubblico»: i reclami presentati all’organismo di

deontologia non fanno quasi mai riferimento a valori come i segreti di Stato, la sicurezza della popolazione, la politica di una grande banca mondiale. Su questo punto una posizione netta è quella difesa nel caso Snowden da Suzette Sandoz, losannese, docente emerita di diritto e consigliera nazionale radicale nel periodo 1991-1998: in democrazia il potere deriva da un’elezione; i mass media non sono stati eletti da nessuno: né dal popolo direttamente né da uno degli organismi statali (legislativo, esecutivo, giudiziario) in cui il potere è esercitato in democrazia, sono gruppi di interesse, allo stesso modo dei partiti politici: «Utili ma non eletti. Né loro né chi li rappresenta può decidere al posto delle autorità elette quando determinati fatti possono essere resi noti al pubblico. Chi diffonde un’informazione segreta o confidenziale tradisce la democrazia e pone le premesse per un sistema totalitario di delazione» (S. Sandoz, Wer Geheimnisse preisgibt, verrät die Demokratie, in «NZZ am Sonntag», 12 dicembre 2010). Ma le cose non sono così semplici. «Il giornalismo suscita a volte delle controversie perché si trova a punto di confluenza di due diritti che collidono: il diritto dello Stato di tenere segrete delle cose per assicurare la protezione dei cittadini e il diritto dei mezzi d’informazione di divulgare vicende che possono alimentare il dibattito pubblico. Uno dei modi per gestire questo conflitto è fornire ai giornalisti uno statuto legale speciale». Lo sostiene George Brock, ex giornalista del «Times» e docente alla City University di Londra: «Ai giornalisti deve essere riservato un

trattamento speciale perché essi portano allo scoperto fatti che la società ha bisogno di conoscere» («The Guardian», 9 agosto 2013). Un buon esempio è il Secondo Emendamento della Costituzione americana (1791), dove è scritto che «il Congresso non farà leggi che limitano la libertà di stampa». In base a questo testo, la Corte suprema degli Stati Uniti ha mandato assolti i giornalisti del «New York Times» che avevano pubblicato nel 1971 i Pentagon Papers, documenti che provavano i retroscena dell’impegno americano nella guerra del Vietnam. Per la stessa ragione, attualmente, perseguiti dalla giustizia americana sono gli autori dei leaks (Timothy Manning, Edgar Snowden) ma non i giornali che li hanno pubblicati. La posizione difesa da Suzette Sandoz può essere superata se si attingono idee e proposte dalla filosofia del diritto. Per esempio, l’etica del discorso di Habermas – che situa la libertà dei media in una sfera direttamente responsabile verso il mondo della vita dei cittadini e quindi autonoma rispetto alle sfere della politica e dell’economia – offre un fondamento ragionevole e del tutto persuasivo alla norma del Secondo Emendamento americano. Non credo però di dover porre uguale fiducia nel Parlamento e nel Tribunale federale del nostro Paese. La mia attenzione si volge piuttosto a uno di quei fremde Richter che stanno in uggia a Christoph Blocher: la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, una sede in cui il confronto tra diritti ugualmente meritevoli di protezione avviene secondo una concezione moderna e de-

Strasburgo, un dettaglio dell’edificio della Corte dei diritti dell’uomo. (Keystone)

mocratica del rapporto fra Stato e cittadini. È a questo livello che il principio costituzionale svizzero dell’«interesse pubblico» potrebbe trovare, non dico riconoscimento, perché è scontato, ma applicazione. Un esempio chiaro dell’incapacità dei tribunali svizzeri di uscire dalle secche di una concezione negativa della libertà dei media è offerta dalla situazione legale dei whistleblowers. «Ognuno dovrebbe provare rispetto per persone come Manning e Snowden, per il loro esemplare coraggio civico», dice Habermas («Le Monde», 14 agosto 2013). Ma da questo orecchio, davvero, Losanna non ci sente e il Consiglio federale ha abbandonato un tentativo di allargare lo spazio ai denunciatori di irregolarità nel Codice delle obbligazioni. Nessuno nega che l’esercizio di questo diritto sia soggetto a condizioni limitative. La denuncia delle irregolarità deve passare attraverso le istanze dell’azienda deputate al controllo del-

Il soldino e il panino

la correttezza prima di raggiungere il pubblico. Ma «…i giudici di Losanna costringono il denunciatore a un vero percorso di guerra (…): non si potrebbe fare di meglio per dissuadere i meglio intenzionati», scrive il prof. Bertil Cottier dell’USI, allegando un elenco persuasivo degli obblighi che la Svizzera ha assunto verso la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo («MediaLex» 1/2012, p. 19). L’attualità anche recente induce a credere che molte magagne delle pubbliche amministrazioni non verrebbero allo scoperto senza il concorso di coraggiosi insider. Si arriva dunque al punto di auspicare che una legislazione repressiva possa essere superata solo con una violazione della legge? È il cane che torna a mordersi la coda. Gli articoli precedenti sono stati pubblicati il 17 e il 24 marzo 2014.

Salari: la Svizzera è un caso a sé

La consulenza della Banca Migros

5%

30 anni fa

Vaud

Zurigo

Vallese

Lucerna

Obvaldo Nidvaldo

0%

Turgovia

La Svizzera ha dunque beneficiato della globalizzazione da due punti di vista. Prima di tutto, le aziende si sono aperte a nuovi mercati redditizi per l’export. Inoltre, hanno investito 1000 miliardi di franchi direttamente all’estero, per questo ogni anno riaffluiscono ricavi miliardari nel nostro Paese. Se Nestlé, Novartis & Co. ottengono buoni utili, aumenta anche il nostro patrimonio nelle casse pensioni, che possiedono pacchetti cospicui di queste azioni. In secondo luogo la stabilità della quota salariale dimostra che, contrariamente alla maggior parte degli altri Paesi, in Svizzera i lavoratori hanno visto aumentare i propri redditi di pari passo con la crescita del Pil. E

10%

Argovia

In Svizzera sono aumentati gli utili e i salari

15%

Svitto

Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

Nel mondo si riscontra un inasprirsi dei toni da lotta di classe. Anche qui la crisi finanziaria ha lasciato le sue tracce: la mancanza di crescita alimenta i contrasti su chi debba spartirsi la torta e come. Tra i vincitori si collocano i gruppi industriali, che si sono messi in forma e ottengono utili mai raggiunti prima. Il trend dell’aumento dei margini è cominciato già negli anni Ottanta, con la globalizzazione e la nascita di nuove tecnologie. Da allora le imprese trasferiscono la produzione dove è più conveniente, per esempio in Asia. Nel frattempo, gli utili societari negli Stati Uniti hanno raggiunto una quota di gran lunga superiore al 10 percento del prodotto interno lordo (Pil), rispetto al 6 percento della media pluriennale. D’altro canto la globalizzazione ha indebolito il potere negoziale dei lavoratori. Negli Stati Uniti la quota dei salari nel Pil è scesa dal 65 al 59 percento in trent’anni. In Francia, in Austria o in Italia la cosiddetta quota salariale è diminuita addirittura di 8 punti percentuali e oltre (v. grafico). Quasi nessun Paese è riuscito a sot-

20%

Zugo

Come giudica l’evoluzione dei salari in Svizzera: è vero che la globalizzazione ha aumentato la pressione sui nostri stipendi?

trarsi a questa evoluzione, ad eccezione della Svizzera. Da noi il reddito dei lavoratori rimane a un elevato 68 percento del Pil. Gli occupati in Svizzera hanno dunque superato molto meglio la spinta alla globalizzazione. I motivi sono da ricercare nel livello elevato di istruzione, nella forza innovativa delle aziende, nei mercati aperti e nella costruttiva collaborazione tra i partner sociali.

Friborgo

Albert Steck

Oggi

Nel mondo la quota salariale sta scendendo notevolmente. Solo in Svizzera la quota dei salari nel prodotto interno lordo è rimasta su un livello elevato. Dati: KOF / AMECO

anche il basso livello d’inflazione ha avuto ripercussioni positive sul loro potere d’acquisto. Conclusione: il nostro Paese si trova in una posizione privilegiata, abbiamo il «soldino e il panino». Tuttavia non è

senz’altro escluso che alcune categorie professionali siano fortemente penalizzate dalla globalizzazione. Ma noi non riscontriamo una generalizzata pressione sui salari, così come avviene in altri Paesi.


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Politica e Economia

Incidente di percorso o crisi d’identità? Partito Borghese Democratico Lo scivolone registrato alle cantonali bernesi è un campanello d’allarme

per la formazione politica della consigliera federale Widmer-Schlumpf, che ora si interroga se mutare profilo per accrescere i consensi elettorali in vista delle elezioni federali dell’ottobre 2015 Marzio Rigonalli Tutto sembrava filar liscio per il Partito Borghese Democratico (PBD), nel segno di una lenta, ma progressiva ascesa. Dopo il buon risultato registrato alle elezioni federali del 2011, con un 5,4% conquistato alla sua prima partecipazione a una consultazione nazionale, e dopo aver ottenuto la rielezione della sua portabandiera, la consigliera federale Eveline Widmer-Schlumpf, il PBD ha registrato risultati positivi, là dove presentava delle liste, anche in tutte le elezioni cantonali che si sono svolte in questi ultimi anni. È stato il caso di Friburgo, San Gallo, Turgovia, Soletta, Argovia e Basilea-città, tanto per citare i cantoni dove il guadagno in termini elettorali fu superiore all’1%. La buona sorte di questo partito sembrava assicurata e nessuna ipotetica minaccia riusciva a diventar concreta ed a turbare i sonni dei suoi dirigenti. Tutto a un tratto l’idillio si ruppe.

Alle elezioni cantonali bernesi dello scorso 30 marzo, il PBD registrò una scivolata tanto inattesa quanto impressionante. Perdette il 4,5% di voti e ben 11 deputati in Gran Consiglio su 25, ossia più del 40% della sua presenza nel parlamento cantonale. Una vera batosta, mitigata soltanto in parte dalla brillante rielezione in Consiglio di Stato della sua rappresentante Beatrice Simon. Che cosa era successo? si sono chiesti in molti. Quali erano le ragioni di questa sonora sconfitta? Le interpretazioni non sono mancate e tra queste, la più diffusa dai media fu quella del consigliere nazionale Martin Landolt, presidente del PBD. Secondo Landolt la sezione bernese del suo partito ha seguito una linea troppo moderata e troppo vicina a quella dell’UDC. Avrebbe dovuto, invece, darsi un profilo più moderno, più progressista, un profilo, sempre secondo Landolt, caratteristico di una nuova forza di centro destra. La colpa, quindi, ricadrebbe sui

Il presidente Landolt e la consigliera federale Widmer-Schlumpf. (Keystone)

responsabili della sezione cantonale e non andrebbe attribuita a fattori esterni al canton Berna, legati alla scena politica nazionale. L’analisi di Martin Landolt è probabilmente giusta, ma non è completa. Il PBD è nato nel 2008; è dunque una formazione molto giovane e, per questo, può vantare tante attenuanti. Durante questo periodo, però, non è riuscito a forgiarsi una personalità che lo rendesse chiaramente visibile tra gli altri partiti e distinguibile da loro. Si è adagiato dietro alla locomotiva Widmer-Schlumpf, puntando sul prestigio della consigliera federale e sulla sua aureola di combattente e di politico competente. Per molti osservatori il PBD è rimasto il volto moderato dell’UDC; per altri è una forza politica conservatrice che stenta a trovare una collocazione sulla destra dello scacchiere politico già ben occupato; per altri ancora è una leva su cui agiscono volentieri forze politiche come il PS ed il PPD, per mettere in difficoltà l’UDC. L’assenza di un profilo ben definito, su scala nazionale, ha numerose conseguenze. Ne segnaliamo tre. Primo: fa perdere al PBD il confronto con formazioni rivali del centro destra, come per esempio i Verdi liberali. Il partito guidato da Martin Bäumle vanta delle opzioni ben chiare, fondate su una sintesi tra ecologia ed economia liberale e, probabilmente proprio per queste ragioni, è il principale beneficiario delle elezioni cantonali degli ultimi anni. In cantoni come Turgovia e Ginevra ha aumentato la sua presenza di oltre il 3% e nel canton Friburgo di più del 4%. Secondo: pur essendo nato da una costola dell’UDC, il PBD non è riuscito a mettere in difficoltà in termini elettorali il primo partito svizzero, eccezion fatta per due cantoni, Grigioni e Glarona. Nel canton Berna, con il suo 29%

alle ultime elezioni, l’UDC ha superato il 27,4% che deteneva prima del 2008, quando nacque il PBD e, secondo uno studio del «Zentrum für Demokratie» di Aarau, negli ultimi anni l’UDC ha aumentato la sua presenza nei parlamenti cantonali. Nel 2008, deteneva il 22,7% dei seggi; dopo le elezioni cantonali di fine marzo, questa percentuale è salita al 23,6%. Terzo: L’assenza di un profilo ben chiaro, da un lato impedirà al PBD di fare progressi e, dall’altro, lo espone al rischio di nuove scivolate con ulteriori conseguenze negative. Come si prospetta il futuro per il PBD? A breve termine ci sono due scadenze elettorali: il 18 maggio nel canton Grigioni, il 1. giugno nel canton Glarona. A medio termine, spiccano le elezioni nazionali dell’autunno 2015, con il rinnovo del Consiglio federale e, quindi, con la rielezione di Eveline Widmer-Schlumpf, se chiederà un terzo mandato. Grigioni e Glarona sono due roccaforti, due serbatoi di voti del PBD; il primo è il cantone di provenienza della consigliera federale, il secondo ha dato i natali a questo partito. Il risultato di queste due prossime elezioni cantonali sarà determinante ai fini della strategia necessaria per salvare il seggio in governo. Un aumento dei consensi avuti fino adesso a Coira ed a Glarona rischia di far dimenticare la ferita di Berna e di lasciare invariato il percorso che il PBD ha intrapreso fin ora. Una perdita di voti e, o, di seggi riapre il dibattito sul futuro, sulle scelte che converrà fare in vista della scadenza elettorale nazionale. Il PBD detiene due carte. La prima è quella del rinnovamento interno, con l’approvazione di un programma chiaro e ben percepibile dagli elettori. La seconda guarda verso l’esterno, verso forme di collaborazione, perfino di fusione, con altre forze politiche. La

seconda carta è la più delicata, perché può concretizzarsi soltanto se ci sono forti interessi convergenti ed un’altrettanta forte volontà politica. In passato si è parlato più volte di una possibile fusione tra il PBD e il PPD. I due partiti collaborano strettamente tra di loro, hanno caratteristiche comuni, con forti radici nei villaggi e nelle piccole città e con una buona presenza nei governi e nelle amministrazioni cantonali, là dove detengono una certa forza elettorale. Presentano, però, anche divergenze, con alle spalle una storia completamente diversa e con sensibilità differenti sul piano confessionale. La storia del PPD risale al periodo in cui nacque lo Stato federale, nel 1848; quella del PBD è entrata nel suo sesto anno di vita. Per di più, i due partiti non sono di forza uguale; c’è il rischio che il più grande assorba il più piccolo, cancellandone l’identità. Vicinanze ed ostacoli richiedono un paziente lavoro di armonizzazione e presuppongono un cammino destinato a durare parecchio tempo, come ha dimostrato in passato la fusione tra il Partito liberale radicale ed i Liberali. Il PBD giocherà la carta dell’avvicinamento al PPD con l’obiettivo di ulteriori intense collaborazioni a breve termine e della fusione a medio termine? O sceglierà un’altra via? Avremo una prima risposta già nei prossimi mesi. Una cosa è sin d’ora certa. Le elezioni bernesi sono state il primo campanello d’allarme. Per difendere il seggio di Eveline WidmerSchlumpf l’anno prossimo occorrerà disporre di una certa forza elettorale propria e di appoggi sicuri da altre forze politiche. Senza queste premesse, il seggio è in pericolo e senza una sua presenza in Consiglio federale, il PBD rischia di diventare una forza politica marginale.

Freno all’indebitamento: Ticino come gli altri cantoni? Votazione cantonale I ticinesi dovranno dire, il 18 maggio,

se vogliono inserire nella Costituzione cantonale il principio del freno all’indebitamento e la possibilità di adeguare le imposte alla necessità di pareggio del bilancio Ignazio Bonoli Nelle votazioni previste per il prossimo 18 maggio, a livello cantonale, è prevista anche l’introduzione nella Costituzione cantonale di alcuni principi della gestione finanziaria e del freno ai disavanzi, con la possibilità di aumentare le imposte. Da tempo si parla della necessità di introdurre vincoli particolari alla gestione dei conti pubblici in modo che non si accumulino regolarmente disavanzi che provocano poi un aumento del debito pubblico a livelli pericolosi. La Confederazione ha introdotto nel 2001 questo strumento con notevole successo. È, infatti, riuscita a ridurre il suo debito pubblico da 130 miliardi nel 2005 a circa 110 miliardi di franchi nel 2013. Anche (quasi) tutti i cantoni hanno adottato strumenti analoghi. Nel Ticino è stato fatto un primo tentativo nel 2003 con il progetto di freno alla spesa pubblica. Tale progetto è però rimasto fermo in Commissione della gestione, che al momento non riusciva a trovare una maggioranza di membri favorevoli, pur ammettendo la necessità di porre un freno ai disavanzi

d’esercizio che si andavano accumulando, fino a giungere, qualche anno dopo, a un autofinanziamento negativo. Le opposizioni al progetto lo ritenevano da un lato troppo rigido e dall’altro non necessario, poiché il Consiglio di Stato, basandosi sulla legge finanziaria che prevedeva la parità di bilancio a media scadenza, poteva disporre di mezzi adatti a risolvere il problema. Così, nel 2008, il Consiglio di Stato metteva in consultazione un progetto di freno ai disavanzi pubblici che dovrebbe impedire all’indebitamento del Cantone di crescere a dismisura: gli obiettivi sono praticamente analoghi, ma tra i due modelli vi sono importanti differenze. Senza scendere troppo nei dettagli, si può dire che, mentre il progetto del 2003 prevedeva in sostanza un freno alla spesa dello Stato, quello oggi in votazione prevede in sostanza di vincolare le uscite alle entrate. In pratica l’obiettivo prioritario diventa il pareggio del bilancio. Entrambi i modelli prevedono comunque deroghe in caso di difficoltà economiche. Nel frattempo, la necessità di tenere a freno le spese dello Stato, soprattutto se rapportate al Pil cantonale (cioè la

produzione annuale di ricchezza) diventavano sempre più evidenti. Ad ogni preventivo il Consiglio di Stato doveva compiere manovre di contenimento e anche i consuntivi non conoscevano più le sopravvenienze che risolvevano il problema. Le prospettive erano sicuramente peggiorate a causa del rallentamento congiunturale. Anche i dati del consuntivo 2013, appena pubblicati, confermano questa tendenza. Il problema di uno strumento moderno di controllo dei costi dello Stato in questi ultimi anni è tornato d’attualità. Ora il popolo è chiamato a decidere sul modello di freno ai disavanzi, dopo lunghe discussioni fra i partiti e senza aver risolto alcune diffidenze di fondo. Sotto questo aspetto politico il nuovo modello introduce anche due novità importanti: da un lato i principi del modello sono inseriti nella Costituzione cantonale, dall’altro si introduce anche la possibilità di fare ricorso al «coefficiente d’imposta cantonale», in pratica un «moltiplicatore» cantonale, come quello utilizzato dai comuni. Quest’ultimo punto, e considerati i costanti aumenti di spese del

Se i cittadini voteranno di sì, il Ticino sarà il penultimo cantone a dotarsi di un freno all’indebitamento. (CdT - Crinari)

Cantone (in parte poi anche scaricate sui comuni), ha sollevato parecchie perplessità. Il Gran Consiglio le ha affrontate proponendo la maggioranza qualificata dei due terzi dei votanti in Parlamento per deciderne l’aumento. A questo proposito, la legge sulla gestione e sul controllo finanziario dello Stato precisa due deroghe al principio del pareggio già del preventivo: se la situazione economica lo richiede, il disavanzo può superare al massimo del 4% i ricavi correnti (5% in caso di grave crisi economica e di bisogni finanziari eccezionali). Se i tagli alla spesa e/o l’aumento dei ricavi non sono sufficienti, si può ricorrere all’aumento delle imposte, con la decisione del Gran Consiglio citata. Il pareggio dei conti deve avvenire «a medio termine». Lo si può fare compensando anni buoni con anni cattivi

i cui risultati vengono registrati in un conto di compensazione, da pareggiare però a sua volta entro quattro anni. Per il profano l’operazione (che qui abbiamo limitato all’essenziale) appare parecchio complicata. Al cittadino resta comunque la scelta di fondo se accettare o meno questo modello di controllo dei conti dello Stato. A fronte di coloro che sono contrari per principio ad ogni limite alla spesa statale, la maggioranza vede sicuramente la necessità di un controllo migliore. Tutti si accorgono che il problema sta nella crescita rapida delle spese, per cui desta un certo timore la possibilità che questa spesa possa venir finanziata con maggiori imposte, perché questa possibilità (pur limitata) non è di stimolo a una riduzione delle spese, che era invece l’obiettivo principale del modello del 2003.


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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la piazza di Angelo Rossi La trappola dei salari bassi Il principio della popolazione di Malthus è abbastanza conosciuto. Forma la base di una delle prime teorie della distribuzione del reddito. Di fatto quello che Malthus affermava è che i lavoratori vivevano in una specie di trappola del reddito basso perché appena le condizioni economiche permettevano al livello del loro reddito di innalzarsi al di sopra del livello di sussistenza, il tasso di natalità aumentava. Pur disponendo di un reddito più elevato, il lavoratore doveva sfamare più bocche. Di conseguenza il reddito pro-capite ridiscendeva rapidamente al livello di sussistenza. Tra i Cantoni svizzeri il Ticino è uno di quelli nei quali i salari sono sempre stati inferiori alla media nazionale. L’emigrazione stagionale che, dal 1850 al 1950, ha visto migliaia di lavoratori ticinesi emigrare verso i

centri industriali dell’Altipiano e del Giura aveva come causa principale proprio il differenziale nei salari. L’emigrante stagionale guadagnava, fuori Cantone, più di quanto potesse guadagnare in casa propria. Dopo il 1950, il fenomeno dell’emigrazione stagionale si è arrestato. Ma le disparità salariali tra il Ticino e il resto della Svizzera sono rimaste. Se, per avere un riferimento quantitativo, prendiamo, per misurarle, il reddito pro-capite, ci accorgiamo che all’inizio degli anni sessanta dello scorso secolo, quello ticinese era di circa il 20% inferiore a quello medio svizzero. Nel 2005, ultimo anno per il quale disponiamo di dati su questa variabile, il divario era salito al 23%. Molti ticinesi e, in particolare, i lavoratori dipendenti, pensano che questa sia un’ingiustizia che va eliminata. Di fatto però è

solo la conseguenza inevitabile della differenza che esiste tra il modello di sviluppo economico del Ticino e quello del resto del paese. Per capire la ragione di questa differenza bisogno risalire ai fattori che determinano la crescita di un’economia. Semplificando il discorso si può affermare che l’economia di una regione cresce per effetto della crescita dei due fattori di produzione essenziali, ossia l’effettivo dei lavoratori e la produttività per lavoratore. Il primo fattore dipende dal tasso di natalità e dal saldo migratorio. Il secondo, invece, dagli investimenti e dall’innovazione tecnologica. Come abbiamo visto qui sopra, nel corso degli ultimi decenni, il divario nel reddito pro-capite, tra il Ticino e la media svizzera, è restato, pur passando per alti e bassi, più o meno costante. Questo significa che il reddito del

nostro Cantone è aumentato più o meno al medesimo ritmo del reddito svizzero. In effetti il tasso di crescita annuale reale medio dell’economia ticinese, tra il 1960 e il 2010, è stato pari al 2,3% vicinissimo a quello dell’economia nazionale pari al 2,4%. Molto diversi sono però stati i tassi di crescita dell’occupazione (effettivo dei lavoratori) e della produttività che, sommati, danno il tasso di crescita dell’economia. Mentre in Svizzera la produttività è cresciuta a un tasso annuale medio dell’1,4%, in Ticino essa non è aumentata annualmente che dello 0,8%. Inverso è invece il rapporto tra i tassi di crescita dell’occupazione. In Svizzera il fattore lavoro è aumentato annualmente dell’1%, mentre il tasso di aumento medio ticinese di questo fattore è stato dell’1,5%. E veniamo alle conclusioni. Stando agli econo-

misti i salari evolvono in parallelo con la produttività. Se il tasso di aumento della produttività è basso, anche i salari saranno bassi e l’economia tenderà a crescere più per il crescere dell’occupazione che per l’incremento della produttività. Questo è quanto è capitato nell’economia ticinese dal 1960 a oggi. Scriveva il prof. Kneschaurek nel suo famoso rapporto «Stato e sviluppo dell’economia ticinese». «Ciò significa che l’auspicato progresso economico del Ticino potrà praticamente svolgersi solo per mezzo di un aumento sovraproporzionale (in rapporto alla media svizzera) della produttività». Per l’appunto, questo è quanto non è purtroppo capitato. Pur essendo cresciuto allo stesso ritmo del resto del paese, il Ticino è rimasto, per l’insufficiente sviluppo della produttività, nella trappola dei salari bassi.

la: Osborne è il simbolo di quanto poco il governo sappia intercettare i bisogni del popolo inglese, e i laburisti infatti lo usano spesso come bersaglio facile (pure se anche i leader dell’opposizione non è che abbiano un’immagine molto «popolare»). Siccome il voto, in Inghilterra, è tra un anno e i conservatori sono già in piena campagna elettorale, questo problema identitario va risolto. Ed è per questo che è stato chiamato Javid. È il sostituto di Maria Miller, la ministra che si è dovuta dimettere dopo uno scandalo sulle spese di una casa a Wimbledon, poca roba a dire il vero, ma la Miller non s’è scusata mai, ha fatto la martire di una caccia alle streghe, Cameron l’ha difesa ma non con troppa convinzione e così in una settimana Miller se n’è andata – un altro disastro d’immagine. Javid, a differenza della Miller e di buona parte dei ministri, non fa parte della «gang» di Cameron. Ha tutta un’altra storia, e sensibilità. Suo padre è arrivato dal Pakistan all’aeroporto di Heathrow all’inizio degli anni Sessanta, dopo che la sua famiglia aveva perso ogni cosa

durante la partizione dell’India. Aveva in tasca soltanto una sterlina, di numero, perché suo padre, il nonno di Javid, credeva, «in modo toccante quanto tremendamente errato», dice oggi Javid, che una sterlina sarebbe stata sufficiente per sopravvivere per un mese mentre cercava lavoro. Il papà trovò lavoro in una fabbrica di cotone a Rochdale, e poi in modo più stabile come autista di autobus: lavorava così tanto che i suoi colleghi lo chiamavano «Mr. Night and Day». Quando Sajid aveva quattro anni, suo padre iniziò un’attività di abbigliamento femminile, a Bristol, e la sua famiglia, ormai formata da sette persone, si ritrovò a vivere in un bilocale sopra al negozio. La lezione che Sajid ha raccolto è stata: «Nessuno ti darà niente, devi andare fuori e prenderti da solo quello che vuoi». E così ha fatto. Ha studiato, ha ottenuto borse di studio, ha superato i pregiudizi nei confronti del «pachistano», è stato assunto da Chase Manhattan, dove ha avuto una crescita a ritmi pazzeschi finché non è stato «rubato» dalla Deutsche Bank che, secondo alcune fonti non si sa quanto

benintenzionate, lo pagava 3 milioni di sterline l’anno per fargli gestire la divisione asiatica. È ricchissimo, Javid. E thatcheriano fin dalla nascita, quando suo padre condivideva con lui il disgusto per l’inverno del discontento: dice di essere prima thatcheriano e poi conservatore, e un’immagine della Lady di ferro vestita di blu è sempre appesa nel suo ufficio. Di cultura pare che non sappia tantissimo, Javid, non è su quest’ambito che ha investito (dicono che sia appassionato di Star Trek e poco più) ed è per questo che è già stato soprannominato il «poster boy» della campagna detossicante che i Tory vogliono fare alla loro immagine. Basterà? Molti sostengono che sia impossibile cambiare la natura dei Tory, altri dicono che una storia come questa, una storia da «sogno americano», è esattamente quel che ha bisogno il Paese per tornare a credere nella ripartenza. L’importante è che Javid si tenga a distanza di sicurezza dalla guida dei Tory: si sa che si è tutti amici e tutti alleati finché non si inizia a insidiare i capibranco.

dall’agricoltura ai servizi (frontalieri esclusi). Tale segmentazione permetteva di raggiungere anche un altro scopo: quello di frammentare la classe lavoratrice, fatto che comportava la quasi impossibilità di creare un fronte sindacale compatto. Tale sistema fatto di porte semi-aperte, a dipendenza dell’andamento congiunturale, non era tuttavia gradito ai movimenti xenofobi, i quali lo consideravano ancora troppo lasco, e in ogni modo inefficace, dato che il flusso continuava ad ingrossarsi. Già allora quello della «sovrappopolazione» era uno dei temi che più infiammavano gli animi. Allora – anni 70 – la Svizzera contava poco più di sei milioni di abitanti. Ora siamo a otto: un aumento dovuto esclusivamente all’immigrazione. Troppi? Per i promotori dell’iniziativa EcoPop (Ecologia e Popolazione) la risposta è affermativa. Ecco quindi riapparire, sotto altra formula, una parola che già si è ritagliata un posto al sole nel

lessico quotidiano: Dichtestress, lo stress da sovraffollamento. I sintomi, si dice, sono evidenti: i treni strapieni, le autostrade intasate, il territorio cementificato oltre misura. La diagnosi non è del tutto infondata, perché il fenomeno che gli anglosassoni chiamano sprawl (dispersione insediativa) è sotto gli occhi di tutti. D’altra parte, gli scenari che i demografi allestiscono prevedono una crescita ulteriore, chi verso i 9 milioni di abitanti, chi verso i 14 milioni entro il 2050. Ancora una volta: siamo (saremo) in troppi in questa stia sempre più angusta e asfissiante? Un fatto è certo: senza l’apporto di sangue straniero saremmo già, e da tempo, un gerontocomio. Già, l’immigrazione: croce e tormento dell’Unione che si appresta a rinnovare il parlamento (25 maggio). Negli ultimi tempi furoreggiano le forze, i movimenti, i partiti che vorrebbero defezionare dal progetto europeo. Manifestano il desiderio di

tornare agli antichi recinti, alle tradizionali logiche dello Stato nazionale. Non amano né Bruxelles, né i vincoli monetari. Si autodefiniscono «sovranisti», ovvero padroni in casa propria, e non sopportano né interferenze né autorità superiori che sfuggano al voto e al controllo del popolo sovrano. Un appello a ritirarsi nelle piccole patrie dunque. Che tuttavia ignora, o trascura, un piccolo particolare: l’Europa di oggi non è più la fotocopia dei disegni del Congresso di Vienna (1815), ma un arcipelago densamente interconnesso di relazioni economiche, sociali, tecnologiche, diplomatiche. L’idea di restaurare le frontiere rigide è certamente un bel sogno, maestosamente rassicurante come un nido d’aquila, ma probabilmente illusorio. Una reazione tutta schiacciata sul presente e sulla breve durata; una visione miope ma che attualmente incamera voti e miete consensi in molte piazze del vecchio continente.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Un pakistano a Downing Street Il nuovo ministro della Cultura britannico ha 45 anni, una moglie, quattro figli, la testa pelata, una carriera da banchiere, lo sguardo mite, una devozione per Margaret Thatcher, la passione per i sigari Havana, e un padre pachistano. Si chiama Sajid Javid ed è considerato l’uomo del rilancio dei conservatori inglesi, non tanto per le sue capacità in sé – che ci sono – quanto piuttosto per la sua storia. La leadership dei Tory che governa oggi il Regno Unito ha un grave problema di immagine: è composta quasi prevalentemente da figli di papà che hanno studiato a Eton, si sono divertiti parecchio e poi hanno deciso di buttarsi in politica, tutti insieme, tutti legati, come una gang. In realtà il luccichio di queste vite spensierate non dovrebbe trarre troppo in inganno: il premier, David Cameron, ha perso un figlio, ha avuto la moglie che per un anno è andata tutti i giorni sulla tomba del piccolo e non riusciva a fare nient’altro se non piangere. È una spensieratezza piuttosto stropicciata, a voler guardare bene, ma nemmeno questa tragedia personale è riuscita a

invertire la percezione dell’opinione pubblica del gruppo di politici che fa capo a Cameron. Il peggiore, in questo senso, è considerato il cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, che all’elitismo aggiunge una buona dose di arroganza e non c’è modo di fargli imparare quanto costa una bagel o di fargli fare la figura del ministro-checapisce-la-gente durante i bagni di fol-

Sajid Javid è stato nominato da Cameron ministro della Cultura.

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Vivere nell’iperdensità Parole (semi)nuove saettano come girini nello stagno del discorso pubblico: contingenti, stress da sovraffollamento, sovranismo. Parole, naturalmente, collegate tra loro. «Contingenti»: è quella più antica. Origine e diffusione sono intimamente legate al linguaggio casermesco, in particolare alla pratica del servizio mercenario, una tradizione elvetica che conobbe i suoi fasti maggiori in età moderna, dal Rinascimento alla Rivoluzione francese. Formalmente il servizio mercenario fu messo fuori legge nel 1848, dopo il varo della Costituzione federale. Ma fino a quel momento, non c’era re, imperatore, capitano di ventura, papa che non chiedesse alla Confederazione di fornire un determinato «contingente» di militi, «gente ferocissima» da gettare sui campi di battaglia di mezza Europa. Fu soprattutto il re di Francia a sollecitare i servigi dei reggimenti svizzeri; Napoleone chiese ai cantoni di contribuire fattivamente ad infol-

tire la sua Grande armée con elementi provenienti dalle valli alpine. Alla campagna di Russia, come sappiamo, parteciparono anche alcuni pontieri reclutati nell’alto Ticino. Il termine «contingente» riappare negli anni 60 del Novecento, ma questa volta non riguarda più il mestiere delle armi, bensì il reclutamento di operai stranieri. L’esplosione economica postbellica attrasse nei Paesi dell’Europa centrale e settentrionale un gran numero di lavoratori e di lavoratrici provenienti dalle aree arretrate del bacino mediterraneo. Preoccupate da tale afflusso, che sembrava inarrestabile, le autorità di Berna misero a punto un articolato sistema di permessi, che suddivideva la manodopera per categorie: A, B, C, F… Il dipartimento preposto all’economia, in collaborazione con la Polizia degli stranieri (Ausländerpolizei), stabiliva periodicamente una lista di effettivi di manodopera in base alle richieste dei vari settori produttivi,


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Cultura e Spettacoli Le scelte di Sofia Ritratto di una figlia d’arte che a più riprese ha dimostrato di avere talento

Un Nobel controverso (Quasi) ogni anno si ripete la stessa storia: quando viene annunciato il vincitore del Nobel per la letteratura, da ogni parte del mondo si levano cori indignati. I retroscena del premio letterario più ambito

La felicità di Pharrell Tutto il mondo balla al ritmo del tormentone Happy, ma chi è il geniale Pharrell Williams?

Kurt Cobain, un mito A vent’anni dalla morte di Kurt Cobain, la sua musica continua ad essere amata pagina 43

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Eutyches, medico di Rimini Archeologia L’eccezionale (e casuale) ritrovamento della casa di un dottore del II secolo, con strumenti di lavoro

e pavimenti con mosaici in perfetto stato Sergio Tamborini Rimini. Il grosso centro che si trova a metà strada tra Milano Marittima e Cattolica, sulla riviera romagnola tanto cara a Federico Fellini, era un tempo regno dei pescatori, oggi invece di alberghi accatastati uno contro l’altro. Ma rovistando con attenzione nel suo passato incontriamo prima gli Etruschi, poi i Celti che fecero di Rimini uno dei più importanti porti dell’Adriatico. Il vero splendido sviluppo risale però all’epoca dei Romani, che fondarono la colonia di «Ariminum» nel 268 a.C. come difesa contro l’avanzata dei Galli e avamposto per le conquiste territoriali, che si intensificarono con la costruzione di tre conosciute vie: l’Emilia verso Piacenza e la Pianura Padana, la Flaminia verso Roma e la PopiliaAnnia verso Trieste. La difende una solida cintura muraria e conosce un notevole sviluppo

fino all’età imperiale, in cui detiene un’importanza strategica ed economica come scalo marittimo e nodo di comunicazione terrestre. Purtroppo arriva rapida anche la decadenza e l’abbandono. Verso la metà del VI secolo gli storici moderni situano il passaggio dalla romanità al Medioevo e poi, infine, alla modernità. Testimoniano la solidità dell’architettura il ponte stradale di Tiberio sul fiume Marecchia, ancora utilizzato, l’arco di Augusto, i resti dell’anfiteatro che poteva ospitare circa 10’000 spettatori. Nel 1989, durante lavori nei giardini pubblici, un rinvenimento casuale permette di individuare il vasto complesso della città romana. Sondaggi, scavi, esplorazioni scientifiche durate fino al 2007, hanno permesso di riportare alla luce e aprire al pubblico uno straordinario esempio urbanistico di circa 700 metri quadrati. E proprio al margine settentrionale è stato fatto un ritrovamento eccezionale

che, confermano gli specialisti, non ha uguali in tutto il mondo romano conosciuto e studiato: la famosa «domus del chirurgo». Risale probabilmente al II secolo, ma venne distrutta da un incendio nel III secolo. Il crollo del tetto ha favorito la conservazione dell’interno e dei suoi contenuti. Sono ancora splendidi gli affreschi e i mosaici policromi che adornano pavimenti e pareti tra cui ne spicca uno in particolare, Orfeo tra gli animali. I dati forniti dallo scavo hanno permesso di ricostruire lo studio medico. Al piano terreno un corridoio serviva diversi locali: una stanza in cui il chirurgo riceveva e operava i clienti, e la taberna medica, che fungeva da ambulatorio e si affacciava su un cortile interno. Durante le ricerche nella «domus» è stata rinvenuta in buonissimo stato la più antica e ricca collezione di attrezzatura chirurgica e farmacolo-

gica dell’epoca romana a livello europeo. Sono circa 150 strumenti in ferro e in bronzo utilizzati specialmente su ferite e traumi ossei. Nell’impressionante corredo spiccano vari bisturi, sonde, pinzette, scalpelli, tenaglie odontoiatriche, leve odontoiatriche, un trapano a braccia mobili, ferri per asportare calcoli urinari. E un pezzo rarissimo detto «cucchiaio di Diocle» che serviva per estrarre le punte di freccia dal corpo umano. E ricordiamoci che non esisteva l’anestesia! Non sono stati trovati strumenti ginecologici, quindi il nostro chirurgo si occupava unicamente di problemi maschili. Il nome di questo medico, che doveva avere grande esperienza e abilità è con tutta probabilità Eutyches, (sul muro della sua taberna medica è stata ritrovata la scritta «Eutyches homo bonus») quasi certamente di origine

greca, e doveva essere specializzato in professione medica militare. Certamente molto utile in quei tempi, quando cioè le guerre e le battaglie erano all’ordine del giorno. Si tratta dunque di un tesoro archeologico unico nel suo genere, e che proprio Rimini, in alternativa alle spiagge assolate, può offrire. Dove e quando

La domus del chirurgo si trova a Rimini, vicino a Piazza Ferrari. Orari: ma-sa 8.30-13.00/16.00-19.00; do 10.00-12.30/15.00-19.00. Lunedì chiuso. A partire dal 1. giugno e per tutta la stagione estiva la domus resterà aperta fino alle 23.00. Per informazioni: Musei della città musei@comune.rimini.it www.domusrimini.com


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Cultura e Spettacoli

Sofia Coppola, ritratti pop di personaggi alla deriva Cinema La figlia del celebre regista statunitense è riuscita a trovare uno stile e un percorso propri nonostante

la condizione (a volte difficile) di figlia d’arte Muriel Del Don Il nome di Sofia Coppola fa istintivamente aleggiare nell’aria un’aura di mistero, ambigua e sensuale, attraente e al contempo pericolosa. Ammettiamolo pure, Miss Coppola è un personaggio controverso, che non lascia certo indifferenti, un’artista dai mille talenti ma anche dalle mille sfaccettature. Il suo universo cinematografico provoca sentimenti contrastanti che si concretizzano in ammirazione oppure in rigetto. L’equilibrio e la misura non si addicono alle critiche dei suoi film che sono (troppo) spesso relegati nella categoria delle opere superficiali e frivole che non meritano un’attenzione particolare. Bisogna ammettere che Sofia Coppola adora confondere le tracce scegliendo spesso dei progetti che la mettono in pericolo e non curandosi delle tendenze in auge nell’industria cinematografica hollywoodiana. La sua filmografia si dibatte, in fragile equilibrio, liquefacendosi volontariamente in una miscela composta da un’estetica estremamente curata, quasi patinata e da ambientazioni eteree e spesso squisitamente claustrofobiche. La regista americana gioca volontariamente con la fragilità delle sue opere esponendosi al giudizio non sempre dolce di pubblico e critica. Questa sua presa di posizione estetica sottolinea la sua volontà di mostrare un mondo che conosce bene, quello della upper class americana. Un universo fatto di paillettes e stiletto Louboutin che l’ha accompagnata durante tutta la sua infanzia e adolescenza (essere figlia del mostro sacro Francis Ford Coppola non è cosa da poco) e che le ha permesso di accedere ad un mondo dorato dove tutto sembra possibile. Quello che è certo è che la nostra regista non finge di filmare le miserie del mondo da un punto di vista proletario che non conosce, preferendo invece mostrare la solitudine e le assurdità di un mondo famigliare, apparen-

temente perfetto, fatto di lusso e dolce far niente. I suoi primi tre film (potremmo parlare di trilogia): Lost in Translation, The Virgin Suicides e Marie Antoinette sono un esempio perfetto di questa sua presa di posizione artistica fatta di umori e sensazioni più che di azione e colpi di scena. L’atmosfera che impregna questi film è dominata da un languido sentimento di abbandono ad un’esistenza che non ha più molto da offrire se non una routine ovattata fatta di piccoli rituali quotidiani. L’aura che aleggia attorno ai personaggi è spesso dominata da un senso d’individualismo, di calma distaccata e di fascino adolescenziale. Un sentimento di perdita permane, come se la bellezza e la spensieratezza fossero sul punto di svanire. Sofia Coppola mette l’accento sui microclimi sentimentali delle sue giovani protagoniste, sulle loro ansie e i loro desideri. Come dice lei stessa i suoi film non sono basati sull’essere ma sul divenire, ed è per questo che l’adolescenza è spesso al centro delle sue opere. Malgrado le sue origini decisamente statunitensi, la filmografia di questa regista riflette una sensibilità che potremmo definire europea, nella linea di grandi maestri quali Antonioni o Chantal Ackerman. La vera ricchezza si trova, nel caso di Sofia Coppola, nei piccoli (ma grandi) dettagli, nella cura quasi maniacale della messa in scena, nella ricerca di quel qualcosa di misterioso e alchemico che accompagna la banalità del quotidiano. Un elemento fondamentale che le permette di dare alle immagini quel je ne sais quoi d’inafferrabile è la musica. My Bloody Valentine, Gang of Four, The Jesus and Mary Chain o ancora Siouxsie and The Banshees sono solo una parte dei gruppi che hanno accompagnato le indimenticabili immagini dei suoi film, arricchendole con atmosfere accattivanti, quasi da videoclip.

La regista e figlia d’arte Sofia Coppola. (Keystone)

Questa sua ossessione per la musica è forse da ricondurre alle sue prime esperienze dietro la cinepresa (la sua formazione artistica è piuttosto legata alla fotografia) quando ha diretto vari video clip per Flaming Lips o ancora White Stripes. La colonna sonora è spesso utilizzata in modo anacronistico rispetto all’ambientazione storica e questo le permette di dare al «colore» generale del film un tocco indubbiamente moderno e stuzzicante. Grazie alle scelte musicali di Sofia Coppola il personaggio di Maria Antonietta si trasforma per un istante in una Riot Girl scatenata che si ribella alle convenzioni della corte. La colonna sonora è sempre am-

miccante e sensuale, rock e al contempo sofisticata, un clin d’oeil al suo passato da bad girl e alla sua propensione per la musica degli anni ’80 e ’90. Il risultato è immancabilmente ipercurato, un’esplosione di colori e di melodie attraenti. La sua ultima fatica The Bling Ring si distacca in parte dai temi abbordati nella trilogia, proponendo un universo più pop-art, forse meno esteticamente «bello» rispetto alle suo opere anteriori ma con un tocco estremamente contemporaneo, quasi d’urgenza, che ancora mancava alla sua filmografia. Miss Coppola vorrebbe che i suoi film fossero un’esperienza quasi reale, un riflesso iperrealistico della società che ci circonda. Nel caso

di The Bling Ring questa ricerca di realismo è sottolineata da immagini che rimandano spesso ai selfies dei social network, vera e propria vetrina multimediale della cultura trash dominata dai tabloid e dalle celebrità. I suoi film, malgrado la diversità dei soggetti trattati, sono sempre attraversati da una dolce malinconia, da un tocco glamour esteticamente sensuale, ormai diventato il suo marchio di fabbrica. Ci troviamo di fronte a una regista unica nel suo genere, che ha saputo imporsi nel panorama di quello che potremmo definire come l’Indiewood

(Hollywood indipendente), senza però perdere la propria identità e la propria visione estetica.

La «piccola danza macabra» di Horváth Teatro Dura più di tre ore la messinscena di Christoph Marthaler Giovanni Fattorini «Il più compiuto esemplare letterario della narrativa danubiana dalle duecento nazionalità», come lo ha definito Ladislao Mittner. Un drammaturgo inviso ai nazisti, che alla fine del ’32 (poco prima che Hitler diventasse cancelliere) impedirono la rappresentazione berlinese di Glaube Liebe Hoffnung (Fede amore speranza), andata in scena nel ’36 in un teatrino di Vienna. A guerra finita, Ödön von Horváth era un autore quasi dimenticato. La sua riscoperta (alla quale contribuì non poco Peter Handke) si ebbe alla fine degli anni Sessanta e nella prima metà degli anni Settanta. Poi fu ancora l’oblio, finché negli anni Novanta l’opera dello scrittore mitteleuropeo ridivenne oggetto di fervida attenzione, soprattutto in Germania. Dopo un ventennio circa di sporadiche riapparizioni, Horváth è tornato non casualmente e inquietantemente alla ribalta. Valgano come esempi i tre allestimenti del Teatro Due di Parma e la messinscena di Glaube Liebe Hoffnung – in programma dal 9 al 12 aprile al Piccolo Teatro di Milano – firmata da uno dei più importanti registi europei, Christoph Marthaler. Coproduttori dello spettacolo: Volksbühne am Rosa-Luxemburg-Platz (Berlin),

Un momento dello spettacolo Glaube Liebe Hoffnung.

Wiener Festwochen, Schauspielhaus Zürich, Théâtre National de l’Odéon (Paris), Théâtres de la Ville de Luxembourg. Le date parlano chiaro: Horváth ricompare puntualmente sui palcoscenici europei in tempi di gravi crisi economiche, di forti tensioni sociali, di possibili derive reazionarie. Se oggi interessa o affascina più di Brecht, è perché il suo deciso orientamento a sinistra rifugge da rigidità dottrinarie, illustrazioni didascaliche, esplicite adesioni a forze politiche organizzate. Opera esemplare, al riguardo, è Glaube Liebe Hoffnung, il cui titolo amaramente ironico richiama le parole conclusive del

capitolo 13 della prima lettera di San Paolo ai Corinzi: «Ora soltanto queste tre cose perdurano, fede, speranza e amore, ma la più grande di tutte è l’amore» (la traduzione pubblicata da Adelphi nel ’74 s’intitolava Fede speranza carità: le virtù teologali del cattolicesimo). Nelle prime scene di questa «piccola danza macabra in cinque quadri» – così recita il sottotitolo – la giovane Elisabeth si presenta alla porta dell’Istituto di Anatomia, intenzionata a vendere il proprio futuro cadavere al prezzo di 150 marchi: cifra con cui acquistare una licenza di commercio ambulante che le permetterebbe (ma non è certo, dati i tempi) di provvedere al proprio sosten-

tamento. Da qui in avanti la sua storia è un «dramma a stazioni» che racconta – con perfetto equilibrio tra realismo e ironia, tra estrema lucidità nello smascherare il fascismo latente del ceto medio e pietà non lacrimosa per la sventurata ragazza – una progressiva perdita di fede e speranza negli esseri umani, una discesa – interrotta per poco tempo da un’ingannevole relazione d’ amore – verso la miseria e la morte. Con la complicità di Malte Ubenauf e Stefanie Carp, che firmano la drammaturgia dello spettacolo, Christoph Marthaler (il geniale artefice di Stunde Null, Die Spezialisten, Schutz von der Zufunkt: per menzionare solo tre titoli) ha considerevolmente guastato la nitidezza e l’agilità di un testo fatto di scene brevi o brevissime, appesantendolo oltre misura (tre ore e venti di rappresentazione) con aggiunte verbali e gag più o meno metaforiche (come quella iniziale, lunghissima, dell’operaio intento a riparare l’insegna dell’Istituto di Anatomia, che precipita da una scala di legno marcescente), quasi tutte etichettabili come «interpolazioni didascaliche». Fastidiosamente didascalica è la duplicazione di Elisabeth e Alfons (il poliziotto con cui la protagonista intreccia una breve relazione e che l’ab-

bandona senza esitazioni quando scopre che è stata condannata a quattordici giorni di carcere): duplicazione intesa a significare che oggi come ieri sono numerose le giovani donne vittime di sfruttamento padronale, mancanza di carità, legalità di classe, egoismo maschile, dominio del «banale» (Alfons in particolare, ma anche gli altri personaggi della media e piccola borghesia si esprimono prevalentemente attraverso frasi fatte: la più sintomatica manifestazione del Kitsch, del sentimento inautentico, del pensiero asservito). Avremmo da esprimere qualche riserva anche su certe ripetizioni didascaliche o ludico-umoristiche, sulla moltiplicazione delle giovani morte per annegamento, nonché sull’uso a nostro parere eccessivo della musica, che raramente è parte integrante del testo come lo è in Horváth. Ma crediamo sia giusto concludere elogiando gli attori-cantanti (anche se la recitazione, a tratti, è sembrata troppo estraniata) e menzionando una delle scene in cui rifulge la peculiare inventiva di Marthaler: quella al contempo ironica e fiabesca dell’innamoramento di Elisabeth e Alfons, che si abbandonano con trasporto e leggerezza a una sorta di danza accademica alla sbarra, al ritmo di un’orecchiabile canzonetta d’epoca.


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Cultura e Spettacoli

Sotto terra Pubblicazioni Lo scrittore britannico

Peter Ackroyd si immerge nel mondo sotterraneo di Londra

un film d’animazione. C’è tutto il resto, però, raccontato con il suo inconfondibile stile. Nulla gli sfugge di Londra – e di molte altre cose, basta leggere le sue biografie di Charles Dickens, Geoffrey Chaucer, William Blake, William Turner. Ora sta lavorando a un libro sul grande londinese Charlie Chaplin, quest’anno ricorrono i 125 anni dalla nascita. Parla della città accumulando curiosità e aneddoti, come se fosse una vecchia conoscenza. Tra i libri da non perdere, se poco poco vi interessa la capitale britannica, va segnalato Londra: biografia di una città. Grazie a lui sappiamo tutto del Tamigi, e abbiamo la certezza che nelle prime pagine del romanzo dickensiano Il nostro comune amico il barcaiolo ripesca un cadavere. Alla figlia che rabbrividisce, spiega che il grande fiume ha fornito la legna per scaldarla e anche l’arredo della casupola. Allora il riciclo e la raccolta differenziata erano una risorsa per i poveri, non una prerogativa dei ricchi dotati di coscienza ecologica. Dopo aver esplorato la superficie, Peter Ackroyd scende nel sottosuolo: un labirinto di gallerie, di passaggi abbandonati, di condutture del gas e dell’elettricità, di vecchie prigioni dismesse, di binari della metropolitana con le stazioni fantasma, di fognature, di catacombe, di gallerie preistoriche.

Mariarosa Mancuso Una Londra tale e quale a quella che conosciamo – c’è anche il Big Ben delle cartoline che si spedivano dalla prima vacanza-studio, il Tower Bridge, lo scintillio di Piccadilly Circus – costruita però con la spazzatura, nelle fogne della città. È Ratropolis, nel film di animazione Giù per il tubo, girato dalla premiata ditta Aardman. La stessa di Wallace e Gromit, Galline in fuga, La maledizione del coniglio mannaro, e Pirati! Briganti da strapazzo: piccola enciclopedia dell’Inghilterra vittoriana, di cui appunto i pirati facevano parte, con un giovane Charles Darwin e la sua scimmietta maggiordomo. A Ratropolis sbraita un profeta di sventura. «Pentitevi, la Grande Onda sta arrivando» è il suo grido d’allarme (a noi inevitabilmente ricorda «Anatrema! Anatrema!» urlato ai peccatori dal testimone di Bagnacavallo, quando Giorgio Faletti faceva il comico a «Drive In»). Un diluvio a misura di fogna, che diventa realtà nell’intervallo della finale dei mondiali di calcio del 2000: quando tutti ne approfitteranno per andare in bagno e il concorso di sciacquoni provocherà la terribile inondazione. Peter Ackroyd è persona troppo seria per mettere nel suo libro I sotterranei di Londra (esce da Neri Pozza) un riferimento al diluvio fognario preso da

La costruzione del primo tunnel sotto il Tamigi durò dal 1825 al 1843, collegava Wapping e Rotherhithe. (Keystone)

Poche le mappe, bisogna arrangiarsi: i fornitori di servizi e i gestori di centri nevralgici preferiscono non far girare troppe informazioni, i terroristi potrebbero approfittarne. Ombre, puzze, oscurità, sporco, mostri e sinistre presenze completano gli inferi della città. Non da oggi. In un libro pubblicato nel 1862 – Underground London – John Hollingshead consigliava alle persone perbene di non avventurarsi in quei luoghi immondi, alloggio di farabutti che il giorno dormivano e la notte uscivano per le strade. Appena un anno dopo fu inaugurata la prima ferrovia metropolitana di Londra (e del mondo). Anche in quel caso i predicatori avevano le idee chiare e per nessuna ragione al mondo le avrebbero tenute per sé: «L’imminente fine del mondo sarà anticipata dalla

costruzione di strade ferrate nel sottosuolo che, insinuandosi nelle regioni infernali, irriteranno il diavolo». Un cronista certificò che i treni sferraglianti facevano «il rumore di diecimila demoni». Londra è ancora in piedi, la metropolitana trasporta ogni giorno un miliardo di passeggeri su 11 linee e 270 stazioni, i binari corrono sempre più in profondità, i profeti di sventura sono morti da tempo. Fu immaginata da Charles Pearson negli anni Trenta dell’Ottocento, già afflitti dal problema del traffico: omnibus, carrozze, pedoni. Peter Ackroyd ricorda il primo incidente: una coppia di fidanzati a cui era stato detto di allontanarsi dai binari, ma erano troppo ubriachi per mettersi in salvo. Ritroviamo una scena simile nell’ultimo – e comicissimo – film di Ken Loach. Un giovanotto sbronzo

marcio e parecchio tonto sta per cadere sui binari, l’uomo della sorveglianza cerca di salvarlo, ma non riescono a capirsi sulle istruzioni. Tra le stazioni, Peter Ackroyd non dimentica la «Swiss Cottage»: prende il nome dalla Swiss Tavern, locale in stile chalet inaugurato nel 1804. Ricca anche la fauna. Nel sottosuolo ci sono topi e ranocchie, anguille e il ratto bruno originario delle steppe russe. Una leggenda metropolitana vuole che i roditori siano più numerosi dei cittadini, ma pare non sia vero. In certe stazioni si vedono i piccioni salire e scendere dai treni, nei tunnel prolifera una specie di zanzara che non si trova in nessun’altra regione dell’Inghilterra. È l’underground, e non stupisce che la parola sia stata prontamente adottata dai terroristi e dagli artisti ribelli.

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Cultura e Spettacoli

Il Nobel della letteratura: mito da sfatare? Premi letterari Spesso (ed è così sin dagli inizi) gli scrittori premiati

suscitano reazioni di sdegno da parte dei lettori di tutto il mondo Luciana Caglio Il vento della dissacrazione che, da decenni, sta sferzando poteri e istituzioni, non ha risparmiato neppure il Nobel per la letteratura, l’unico del resto esposto al giudizio popolare. La constatazione è persino ovvia. Mentre i premi destinati alla fisica, alla chimica, alla medicina possono, eventualmente, sollevare obiezioni in singoli settori scientifici, quello che incorona «il miglior scrittore del mondo» tocca un ambito aperto alle reazioni di un pubblico sconfinato, i lettori appunto, che si sentono chiamati in causa. E dicono la loro. Così, ogni anno, a metà ottobre, quando l’Accademia di Stoccolma rende noto i suoi verdetti, è proprio l’attribuzione del premio letterario a fare notizia suscitando opinioni e sentimenti contrastanti: curiosità, sorpresa, plauso, delusione. È un coro di cui, oggi più che mai, si deve tener conto. I malumori dei critici e la riluttanza dei lettori-consumatori possono compromettere le sorti di un riconoscimento in cui sono in gioco non solo prestigio culturale ma anche interessi economici, che coinvolgono l’editoria e il cinema, possibile approdo di un romanzo best-seller. E non mancano neppure le implicazioni politiche quando il premiato è magari un personaggio ideologicamente imbarazzante. Fatto sta che la parola stessa Nobel, sinonimo di genio indiscusso, assume ben altri connotati sul piano dei valori letterari. All’autore, insignito del cosiddetto «premio dei premi», non spetta più il consenso generale. Anzi, crescono gli indizi di segno opposto. Nell’autunno del 2011, quando l’ambito titolo andò allo svedese Tomas Tranströmer, sulla «New York Review of Books», Tim Parks non usò mezzi termini per denunciare «l’essenziale stupidità del premio» e «la nostra idiozia di prenderlo sul serio». E con questa inesorabile sentenza, il critico americano intendeva colpire non soltanto uno scrittore di scarso rilievo bensì l’apparato di una procedura non più in grado di esaminare ragionevolmente una realtà troppo vasta e complessa qual è la letteratura mondiale dell’era globalizzata. Secondo Parks, ai cinque membri

della commissione Nobel che, a partire da febbraio, affrontano la selezione delle candidature in lizza, s’impone un lavoro immane: leggere almeno due opere di ognuno dei circa 200-250 concorrenti, per ricavare entro maggio la rosa di 25 papabili, poi ridotti ai 5, da sottoporre all’esame dei 18 membri dell’Accademia. Si tratta di un impegno che esige ritmi di lettura vertiginosi da stakanovisti: «Circa 200 volumi all’anno, in media 4 per settimana, un intero libro ogni 36 ore», come ha calcolato il critico americano provocando la risposta polemica del presidente della commissione Nobel, Per Wästberg, che, sottolineando con orgoglio, una virtù nazionale, replica: «Noi svedesi siamo ossessionati dal bisogno di leggere sin dall’infanzia. Per quel che mi concerne, un libro al giorno… per levare il medico di torno». Questa mole di pagine stampate non potrà, del resto, che aumentare: infatti continuano ad allargarsi le aree prese in considerazione dai giudici di Stoccolma. Si era partiti, nel 1901, con l’Europa, allora culla esclusiva della cultura, comprendente Scandinavia, Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Spagna, Paesi Slavi. Nel 1930, ci si aprì agli Stati Uniti, premiando Sinclair Lewis (preferito a Mark Twain), poi al Sudamerica, all’Australia. Per abbracciare, infine, una dimensione mondiale che include la letteratura africana, indiana, cinese. Chiave d’accesso: le conoscenze linguistiche. Anche se il presidente Wästberg dichiara che «i suoi colleghi dell’Accademia padroneggiano tredici lingue», è giocoforza ricorrere a traduzioni, e non sempre reperibili e attendibili, quando si tratta di idiomi poco diffusi o appartenenti a culture lontane qual è la Cina. Ed è legittimo chiedersi se i giudici di Stoccolma siano in grado di vagliare, con pertinenza, le opere pubblicate da migliaia di scrittori in un Paese di oltre un miliardo di abitanti. La lacuna, che poteva sembrare uno sgarro nei confronti di una superpotenza economica, fu colmata nel 2012: il Nobel andò a Mo Yan, scrittore critico verso il regime, ma non dissidente. Verosimilmente, per vastità e molteplicità, la letteratura contemporanea

sta sfuggendo di mano a un gruppo di accademici, tutti esclusivamente svedesi, che operano in segretezza, alla stregua di intoccabili, cercando d’interpretare la volontà del fondatore-finanziatore. Nel suo testamento, Alfred Nobel aveva disposto che il premio letterario dovesse spettare «all’autore che aveva prodotto la cosa più eccellente in direzione ideale». Come tradurre in pratica un concetto tanto vago e astratto? Sin dagli inizi, l’ambizione di assicurare all’umanità, di anno in anno, il meglio della creatività affidata alle parole, si rivelò un’impresa difficile. Si partì, del resto, col piede sbagliato incoronando, nel 1901, Sully Prudhomme, il cui merito, s’ironizzerà poi, era stato di appartenere all’Académie française. Pensare che quell’anno erano in lizza Zola, Rostand, Mistral. L’anno dopo, un’altra cantonata: si premia lo storico tedesco-danese Theodor Mommsen, preferito a Carducci, Ibsen, Hauptmann e a Tolstoj. Quest’ultimo, accusato di predicare un «anarchismo teorico», non riuscirà mai a convincere i giudici di Stoccolma: un’esclusione addirittura paradossale. Cui ne faranno seguito altre, non meno sconcertanti: Joyce, Proust, Pound, Kafka, D’Annunzio, Svevo, Virginia Wolf. Ma sconcerta anche l’elenco degli inclusi: il filosofo tedesco Rudolf Eucken, nel 1908, considerato a posteriori, «il più grande passo falso nella storia del Nobel». E poi Grazia Deledda, nel 1926, Pearl Buck nel 1938, Winston Churchill, insignito per meriti letterari nel 1953 e, naturalmente, ci sarà, nel 1997, Dario Fo, un caso a parte, indizio di una presunta svolta storica. Per giustificare quella che, agli occhi del pubblico, è parsa un’incomprensibile gaffe, il presidente della commissione Kyell Espmark, dirà: «Fo s’inserisce in una tradizione che da Plauto passa attraverso la commedia dell’arte fino a Majakovskij e a Brecht». Si tratta di una scelta senza precedenti: basata sui meriti di un uomo di spettacolo, sull’oralità, anziché su un’opera letteraria, consegnata alle pagine. Una primizia che potrebbe aprire la via ad attori, contastorie, mimi. Insomma si può di parlare di un premio multiuso? Affronta quest’interrogativo En-

Un Nobel controverso e molto criticato, Dario Fo. (Keystone)

rico Tiozzo nel saggio Il Nobel svelato: segreti, errori e verdetti del premio per la letteratura (Aragno editore). L’autore, per oltre 40 anni docente di letteratura italiana all’università di Göteborg, conosce per esperienza diretta la realtà culturale e politica svedese e ha avuto modo di accedere agli archivi dell’Accademia di Stoccolma: che ha esplorato con la precisione dello storico e la curiosità del giornalista. Così, attraverso le sue pagine, porta alla luce, ed è fra i primi a farlo, i retroscena di un premio che non è più al di sopra di ogni sospetto. Non di sola letteratura si discute a Stoccolma. Le decisioni degli accademici subiscono pressioni d’ordine politico e diplomatico, dipendono da simpatie personali e da criteri selettivi poco chiari. Premiare talenti confermati o promuovere le avanguardie, escludere gli anziani per motivi di età, considerare scrittori gli storici, i filosofi, i saggisti: sono domande sempre in sospeso. Tutti fattori che contribuiscono a relativizzare il valore di un titolo che sembrava assoluto: il migliore scrittore del mondo, in realtà, non è sempre tale. A Stoccolma ci si muove, a zig zag, fra attribuzioni azzeccate e discutibili. Tiozzi racconta percorsi a volte tortuosi. Com’era avvenuto per la candidatura di Fo, favorita dall’amicizia fra Giacomo Oreglia, operatore

culturale italiano in Svezia (e vicino al Ministero degli esteri a Roma), e Lars Fossell, membro della commissione, spirito anticonformista e ammiratore dell’«eterno giullare». Si apprendono anche particolari piccanti. Sartre che, nel 1964, aveva sdegnosamente rifiutato il premio per motivi ideologici dieci anni dopo briga per intascare l’assegno (273’000 corone pari a 300’000 euro). Dall’Italia, tramite Fo, arriva, nel 2007, la candidatura di Benigni. Un’indiscrezione concerne anche la Svizzera: nel 1919, il Nobel era andato a Carl Spitteler, per ragioni di convenienza politica: serviva, in quel momento, l’autore di un Paese neutrale. Con ciò, ci mancherebbe, il Nobel ha svolto una funzione di guida utile per orientarsi nell’affollato mercato dei prodotti letterari contemporanei. È un compito, del resto, che vede impegnati, sul piano mondiale, centinaia di premi letterari e di istituzioni culturali. Ma soltanto il verdetto di Stoccolma, grazie alla tradizione, alla forza finanziaria e a una solenne ritualità ha costruito il mito di un potere esclusivo d’infallibilità: scoprire, per proprio conto, il libro più bello e importante del mondo. Un mito da sfatare: non per smania contestatrice, ma perché nell’era della molteplicità non può esistere. E anche i giudici di Stoccolma se ne stanno rendendo conto.

Gran raffinata pasticceria Filmselezione Il gotha del cinema americano nell’ultima eccentricità di Wes Anderson Fabio Fumagalli ** Grand Budapest Hotel, di Wes Anderson, con Ralph Fiennes, Adrien Brody, Léa Seydoux, Bill Murray, Edward Norton, F. Murray Abraham, Harvey Keitel, Jeff Goldblum, Jude Law, Mathieu Amalric, Owen Wilson, Tilda Swinton, Tom Wilkinson, Tony Revolori, Willem Dafoe (Stati Uniti 2014) Dallo svitato e ormai mitico I Tenenbaum del 2001 all’esilarante ma anche tenera storia d’amore fra i surreali boyscout del recente Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore (il suo film più compiuto a tutt’oggi) , Wes Anderson si è costruito un universo tutto suo. Fatto di uno stile inconfondibile, virtuosistico fino ai confini del manierismo, controllato e autoreferenziale fino a sfidare il compiacimento; sempre di un tono dalla rara coerenza, nel nonsense comico come nel desiderio di stemperarlo finalmente nella fiaba. Con Grand Budapest Hotel il regista sembra volere mirare ancora più in

alto. S’immerge con il suo tipico giubilo nella fascinosa atmosfera mitteleuropea degli anni Trenta, ma si reclama anche in modo esplicito alle premonizioni storiche di uno Stefan Zweig,

l’erede per eccellenza di tutta una cultura che sente avvicinarsi la notte dei totalitarismi. Costruisce allora una fuga in avanti, tragicomica, non ancora angosciosa: grazie alle sue tipiche, mi-

nuziose miniature, i piani statici e simmetrici che un montaggio sempre più precipitoso intende riferire alle grandi commedie di Ernst Lubitsch, all’arte vertiginosa dell’autore di Vogliamo vivere! di mutare l’assurdo in verità. O al concatenarsi degli intrighi cari ad Agatha Christie. È un fardello non di poco conto per quel piccolo mondo deliziosamente immaginario cui assistiamo all’inizio: l’immenso albergo color fragola dai fasti decaduti, le montagne magiche dell’Europa centrale all’orizzonte, un concierge tuttofare (in particolare con le signore ospiti), un’eredità seguita da furti e inseguimenti vieppiù ispirati alla grafica dei cartoni animati da parte di una banda di torvi individui nei quali è facile riconoscere la matrice del nazismo incombente. Il tono dell’ambiente, lo sfondo scenografico, la meccanica dell’architettura filmica, perfino il resuscitato formato 4/3 di una parte delle inquadrature sono in effetti i veri protagonisti di Grand Budapest Hotel. Al ser-

vizio, nei momenti migliori, di una Tilda Swinton imbalsamata che sembra avviarci a funebri atmosfere gore, di una fuga dal carcere che ci riporta alle comiche mute di Buster Keaton; o di una paradossale discesa con gli sci che fonde mirabilmente le riprese dal vero con l’animazione e gli effetti digitali. Mentre la cura maniacale dei dettagli, le pieghe incessanti della progressione drammatica si popolano di un’infinità di ritratti schizzati alla perfezione, spesso per pochi minuti, dalla smisurata galleria d’attori benevoli: Fiennes, Brody, Murray, Swinton, Seydoux, Amalric, Norton, Abraham, Keitel, Dafoe, Law, Goldblum… Ma cos’è allora che muta progressivamente la nostra ammirazione in disattenzione, la meraviglia in indifferenza, la comicità in caricatura? Probabilmente una sceneggiatura dilatata e compiacente, tutta in funzione di un piacere per la forma, ma a scapito di personaggi e situazioni. Un effetto di troppo pieno, come quando da ragazzini si sognava di svaligiare la pasticceria.


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Cultura e Spettacoli

Artigiani della musica

Intervista Incontro con il contrabbassista Domenico Ceresa: presenterà a Bellinzona

il suo progetto che unisce il jazz alla musica popolare e alla letteratura ticinese Alessandro Zanoli Tornare alle radici, cercare un’ispirazione risalendo alla purezza originaria dell’espressione artistica: molti musicisti hanno scelto un percorso creativo che guarda all’indietro per poter procedere in avanti. I nero-americani sono stati tra i primi. Con il loro bisogno d’Africa hanno risalito la corrente fino alle fonti della creatività. E da tempo i jazzmen europei hanno seguito l’esempio, tornando a riscoprire il rispettivo patrimonio musicale nazionale. E in Ticino? L’esperienza messa in cantiere (è proprio il caso di dirlo) da Domenico Ceresa e dal suo gruppo Musicisti artigiani è, a memoria di chi scrive, forse l’esempio più ambizioso e strutturato di ricerca etno-jazzistica. Pur ricalcando le tracce di esperienze compiute da Pietro Viviani e da altri (chi scrive ricorda un giovanissimo Riccardo Garzoni misurarsi un po’ per scherzo con una La bella la và al fosso modale assolutamente esilarante), questo progetto allarga in modo significativo l’esperimento di contaminazione. Il suo ampio tentativo di far confluire elementi letterari nostrani nella musica creativa moderna (lui stesso fatica un po’ a chiamarla jazz), sembra ben riuscito. In occasione di un importante concerto che i Musicisti artigiani terranno al Teatro Sociale di Bellinzona e dell’uscita dell’album che racchiude l’essenza di questo lavoro, ci è sembrato interessante farci raccontare da lui come funziona questa articolata officina dei suoni. Quando sono nati i Musicisti artigiani?

Concorso

Il gruppo si è formato nel 2005. A quell’epoca avevo terminato gli studi al Conservatorio di Lugano e ho avuto la fortuna di incontrare e collaborare con Claudio Pontiggia, persona di uno spessore musicale enorme: mi ha influenzato nel suo modo di fare, compreso l’aspetto del riportare la musica popolare nel jazz. Anche tramite il festival «Airolo in transizione» ho scoperto un modo di intendere le attività musicali come è praticato nella

Antonella Rainoldi

I musicisti che collaborano con te sono veri e propri tuoi compagni di strada...

Di solito si pensa che la musica abbia una forza comunicativa tale da potersi «reggere» da sola. A cosa serve la parte letteraria all’interno del vostro lavoro? Come dialogano scrittori ticinesi e melodie popolari rielaborate?

Volevo lavorare sulla canzone popolare, e in particolare sulla sua melodia. Privando i brani delle parole, però, la loro carica emotiva sembra perdere forza. La mia idea è stata quella di utilizzare un elemento «colto», come quello letterario, che permettesse di mettere in luce il quadro sociale e anche storico che sta dietro alla musica: ho cercato quindi nella letteratura della Svizzera italiana una serie di testi adatti

Visti in tivù È il

cinico burattinaio in House of Cards, una serie da non perdere, in onda su Sky

Svizzera tedesca, molto legato alla loro radice popolare. Penso in particolare a un festival come Alpentöne, a cui io stesso avevo partecipato in un progetto musicale del compositore ticinese Pietro Viviani. Nel 2005, dunque, mi era stato chiesto di creare una parte musicale di intrattenimento per una mostra dell’artigianato. Partendo dalle influenze di cui parlavo, avevo in mente di fare qualcosa che mescolasse musica popolare e jazz.

Sono partito col nucleo di quello che è diventato poi il gruppo odierno col quale abbiamo inciso il disco. Andrea Menafra alla chitarra, io al contrabbasso e Luisa Beffa alla fisarmonica: durante una settimana estiva, ci siamo trovati a Schignano, un paesino della Valle d’Intelvi, per le prove. Nell’autunno seguente c’è stata la nostra prima esecuzione. Il 2009 invece è stato l’anno in cui l’ensemble si è maggiormente consolidato, inglobando Marco Castiglioni alla batteria e più tardi Mirko Roccato ai sassofoni. Tutti i musicisti del gruppo hanno una formazione da musicisti classici (avendo studiato al Conservatorio) ma suonano anche jazz. Credo che nell’esecuzione dei brani vengano fuori questi due volti. Oltre all’amicizia che ci lega, li ho scelti anche per questa loro doppia competenza che è stata fondamentale per il progetto.

Kevin Spacey, impossibile resistergli

La musica popolare diventa jazz: Domenico Ceresa.

che parlassero di quei temi. Ad esempio ho associato la melodia della canzone Mamma mia dammi cento lire, in cui si racconta dell’emigrazione, a un testo che mi aveva colpito già in passato: il primo paragrafo de Il fondo del sacco di Plinio Martini. Credo sia un bellissimo frammento che parla da sé. Ho voluto combinarlo con un determinato arrangiamento e allo stesso modo ho operato per gli altri nostri brani, andando quindi a cercare legami in letteratura che andassero a fare da introduzione alla musica.

senso, tre negozi. A Bellinzona by Pinguis, di Claudio Scaramella; a Lugano l’Alhambra Music, di Rita DeMarchi; a Biasca l’Ecolibro, di Michele Strozzi. Sono tre piccoli commercianti che meritano di essere citati, perché fanno un lavoro straordinario in un settore che ormai è in crisi da anni. Inoltre sarà possibile avere il CD tramite il mio sito, www.domenicoceresa.ch.

Può piacere o non piacere, ma il telefilm è lo specchio del tempo, il meglio della tv, qualunque siano i modi di fruizione. Per questo non ci stancheremo mai di parlarne, in questa sede e in altre sedi, in Ticino e non solo. Per il varo di Sky Atlantic, scelta migliore non poteva esserci. Il nuovo canale televisivo italiano dedicato alla serialità di qualità è partito lo scorso 9 aprile con un capolavoro assoluto, fresco vincitore di tre Emmy e un Golden Globe: House of Cards (mercoledì, ore 21.10). La serie americana creata da Beau Willimon per Netflix, il servizio di vendita online di contenuti video, basata sull’omonima miniserie britannica, a sua volta ispirata al romanzo omonimo di Michael Dobbs, ex consigliere della «lady di ferro» Margaret Thatcher, è un piccolo trattato sull’ambizione infarcito di citazioni. Impossibile staccarsi da House of Cards, specie per lo spettatore esigente come l’appassionato del quality drama. Il protagonista è Francis «Frank» Underwood (Kevin Spacey), un politico intelligente e carismatico ma mai sazio di potere, capo della maggioranza democratica al Congresso. Quando il nuovo presidente degli Stati Uniti, elet-

In collaborazione con

Parlando concretamente, dopo lo spettacolo dove saranno in vendita i vostri dischi?

Ho contattato, ottenendo il loro con-

Musicisti artigiani Concerto spettacolo Teatro Sociale, Bellinzona Giovedì 8 maggio, ore 20.45

Saggia vitale ironia

«Momenti» - Melodie popolari ticinesi e del nord Italia amalgamate con estratti di brani della letteratura della Svizzera italiana

in un libretto che sottolinea i suoi 85 anni

Spacey, nei panni del politico democratico USA Frank Underwood.

Uno dei maggiori piaceri nella lettura di poesie è l’incontro con un poeta in cui saggezza e profondità di pensiero sono diventate humor. Come se la costruzione lirica, la riflessione filosofica, il disegno delle immagini verbali, sorprendendo le aspettative, riuscissero a dribblare il nostro innato pregiudizio contro l’intellettualismo, il nostro timore verso la metrica e la retorica, prendendo una forma umile, naturale, piena di semplicità vitale. Che grande sorpresa quando una poesia ci si presenta con leggerezza e vitalità e ci strappa un sorriso. È come se ci mostrassero una foto di noi stessi, scattata a nostra insaputa, in cui scopriamo qualcosa che ci fa ridere di come siamo. Un fotogramma che ferma un attimo quotidiano, toccante e sorprendente, capace di farci scorgere un frammento del grande paradosso della vita. Saper scrivere così è sicuramente frutto di una capacità rara. L’esperienza profonda che ci restituisce una poesia capace di far sorridere, si coglie, ad esempio, in Montale e nel suo ironico understatement. Il poeta saggio e divertente che preferiamo, e lo diciamo con un evidente e per nulla rifiutato senso di

to per merito suo, gli nega la carica di Segretario di Stato attraverso il metodo collaudato della manovra gattopardesca, scatta la costruzione della vendetta. Intrighi, pressioni politiche travestite e ricatti, rotti soltanto da un eccesso di mondanità e da una generosa spruzzata di sesso, sono le armi quotidiane impiegate senza scrupoli da Underwood per compiere la sua missione. Accanto a lui, la non meno machiavellica moglie Claire (Robin Wright), animata dallo stesso spirito di vendetta, e la giovane giornalista più ambiziosa del «The Washington Herald», Zoe Barnes (Kate Mara), portatrice insana di incondizionato appoggio. L’aspetto più interessante della serie è l’introduzione di uno stratagemma narrativo di grande efficacia. Underwood guarda spesso negli occhi lo spettatore, lo prende per mano e lo accompagna nel suo mondo, dove tutto si è già compiuto, fornendogli non solo i suoi personali interessi, ma anche una serie di informazioni confidenziali sulle macchinazioni di palazzo. L’interpretazione dell’intero cast è superlativa, dal burattinaio cinico alla degna moglie, fino ai burattini chiacchieroni.

Con: Domenico Ceresa contrabbasso Luisa Beffa fisarmonica Mirko Roccato sassofoni Andrea Menafra chitarra elettrica / synth. Marco Castiglioni batteria e percussioni Francesco Locatelli lettore in scena

www.teatrosociale.ch

091/821 71 62 Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate.

Per aggiudicarsi i biglietti basta telefonare mercoledì 23 aprile al numero sulla sinistra dalle 10.30 alle 12.00.

Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.

Buona fortuna!

Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino

Editoria I versi di Giovanni Orelli

parzialità, rimane il nostro Giovanni Orelli. Il suo recentissimo volumetto Frantumi, edito da Alla chiara fonte di Lugano, con prefazione di Pietro De Marchi, ci suscita gli stessi sorrisi e lo stesso senso di compartecipazione umana delle sue precedenti raccolte. E anche se temi e occasioni, in realtà, sono spesso tristi e vanno a toccare argomenti e pensieri che preferiremmo evitare, eccoci qui a sorridere, grazie ai versi di un poeta filosofo, anche del lato difficile della vita. /AZ


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Cultura e Spettacoli

L’italiano in trappola Pubblicazioni Una raccolta di contributi sul ruolo della nostra lingua in Svizzera Stefano Vassere «Proteggere l’italiano dalla trappola del federalismo e dalla trappola del territorio comporta anche ridefinire il concetto di Svizzera italiana superando la trappola geografica nella quale finora è imbrigliato». Pubblicare nel 2014 un libro intitolato L’italiano in Svizzera è impresa piena di trappole, e ciò per almeno due motivi: uno, perché molto, anzi moltissimo, quasi tutto, è già stato detto e fatto sul tema e diventa veramente arduo trovare contenuti, idee e spunti per innovare il dibattito; due, perché il terreno è malfermo e talora «politico» e non sempre è facile separare la scienza dalla pancia e dalle rivendicazioni. Così, la vera partita nello studio dell’italiano in Svizzera consiste nel trovare idee innovative e originali e se si può un po’ produttive. Questo L’italiano in Svizzera: lusso o necessità? Riflessioni giuridiche, culturali e sociali sul ruolo della terza lingua nazionale raccoglie i contributi di una benemerita duegiorni organizzata alla fine del 2012 a Basilea, in una molto leggibile raccolta curata da Maria Antonietta Terzoli e Carlo Alberto Di Bisceglia. Ci sono i testi di politici, amministratori, intellettuali, ricercatori, presidenti di associazioni di tutela, diplomatici e professori universitari. Ognuno dal suo osservatorio condivide il valore dell’italiano in Svizzera, denuncia la poca considerazione di cui la nostra lingua gode in certi ambienti, dice che bisogna fare qualcosa. Quindi, di idee che sembrano più indovinate in prospettiva, sia per la

Un particolare del libro edito da Casagrande.

parte più scientifica che quella più militante e impegnata, sembrano essercene tre o quattro, peraltro piuttosto incisive. Tra le altre la prospettata idea di lobby, che «non vuole essere un’idea troppo elevata in termini culturali», ma che percorre un canale quasi «individuale»: andare a stanare la gente che conta in questi ambiti e convincerla del bene che può fare la promozione dell’italiano. «Una lobby dell’italiano

che sappia condividere una strategia a vari livelli e soprattutto puntare al raggiungimento di precisi obiettivi monitorando l’avanzamento di questa missione». Viene in mente che se ci fosse stato un lavoro (un lavorio, verrebbe da dire) del genere alla fine degli anni Sessanta quando si trattava di incoraggiare l’italiano in Svizzera tedesca con gli immigrati e tutto, forse a questo punto saremmo in ben altra situazione.

Certo saranno utili misure di accompagnamento gli scambi scolastici seri e i gemellaggi tra comuni, tra «villaggi di diverse regioni linguistiche della Svizzera». Ma operazioni forse piene di prospettive potranno essere anche una serie di analisi sulle motivazioni di chi, nella Svizzera non italofona, sceglie di imparare l’italiano, la sera, dopo il lavoro e spendendo magari qualche soldo perché veramente

motivato. Occorrerà forse anche superare l’idea dei corsi di lingua e cultura italiane insieme, conservando magari, in attesa di tempi migliori, solo la prima. E occorrerà valutare, come molti già fanno, il valore concretamente economico delle competenze linguistiche e dello stesso plurilinguismo svizzero, un «apprezzamento della forza di una lingua sulla base delle potenzialità di messa in relazione con l’esterno»: con quanti parlanti europei si può entrare in relazione sapendo una determinata lingua? E occorrerà valutare aspetti della presenza dell’italiano nella Svizzera tedesca, che è di tipo principalmente urbano, e quindi decisamente pesante. E occorrerà infine porre mano a una valutazione dell’italiano in Svizzera ma anche dell’italiano tout court, in Svizzera, in Italia, altrove. Il coraggio di guardare in faccia una realtà sociolinguistica che vede la lingua italiana sempre più costretta nella sua regione-territorio sarà operazione certamente onesta oltre che necessaria; da lì si dovrà partire per ricostruire quello che resta della nostra lingua sul piano nazionale. Non tutti lo faranno: ma qui, si sa, corre l’insidioso confine tra il dato scientifico e le passioni del cuore. Bibliografia

Maria Antonietta Terzoli e Carlo Alberto Di Bisceglia, L’italiano in Svizzera: lusso o necessità? Riflessioni giuridiche, culturali e sociali sul ruolo della terza lingua nazionale, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2014. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Un mondo Happy Personaggi L’incredibile ascesa musicale di Pharrell Williams,

che è riuscito in pochi mesi a contagiare l’intero universo

Big Bang Family* Noto anche come Pharrell o Skateboard P, Pharrell Williams è un personaggio assolutamente versatile e fuori da qualsiasi schema. Come ha più volte asserito, ad affascinarlo è la genialità di Albert Einstein, che non esita a tirare in ballo quando gli si chiede in cosa consista la sua ispirazione. Ad ispirare Skateboard P concretamente però, oltre a Einstein, vi sono nientemeno che i pilastri della musica mondiale, fra cui Michael Jackson (con il quale Pharrell provò a più riprese a collaborare, ma senza successo), J Dilla, Stevie Wonder, Donny Hataway, Marvin Gaye, Rakim e Q-Tip. Il quarantunenne di Virginia Beach non è «solamente» un affermato cantante, musicista e produttore discografico, ma è riuscito a ritagliarsi uno spazio di tutto rispetto anche come imprenditore e stilista (lanciando ad esempio la moda del cappello da ranger). Risulta a tratti difficile etichettare i suoi lavori musicali, poiché Pharrell riesce a spaziare da suoni più funk/rock, come quelli in prevalenza proposti dalla sua band, a sfumature più hip-hop/ R&B, presenti nella maggioranza delle sue interpretazioni da solista. Nel 2006 pubblica il suo primo disco, In My Mind, firmandosi Pharrell: un prodotto decisamente affine al genere rap, in cui sfoggia una lunga serie di featuring. Il musicista riuscì infatti a coinvolgere alcuni dei personaggi più rinomati della scena mainstream

e non. Prima di questo disco Pharrell aveva avuto modo di sperimentare, oltre a tonalità differenti, anche un universo di carattere più strumentale, e ciò grazie ai due dischi realizzati dalla sua band N.E.R.D. (acronimo di Noone Ever Really Dies – «nessuno muore mai davvero»). Sebbene tra il 2006 e il 2013 siano seguiti altri due album, Seeing Sounds del 2008 e Nothing del 2010, sono soprattutto le collaborazioni di carattere individuale e quelle con i «The Neptunes» (duo storico di produttori discografici noti per la realizzazione di hit e album di qualsiasi genere) a trasformare Pharrell in una star dell’universo musicale. In questi anni il curriculum di Pharrell si è fatto sempre più invidiabile, arrivando ad annoverare collaborazioni con artisti del calibro di Jay-Z, Snoop Dogg, Gwen Stefani, Lenny Kravitz, Nelly, Daddy Yankee, Britney Spears, Justin Timberlake, Shakira, Madonna e i Rolling Stones. Pharrell è stato inoltre nominato «Producer of the decade» dalla rivista «Billboard». Pharrell Williams, che si è rivelato una vera e propria «fabbrica di successi», ha implementato ulteriormente la sua già considerevole fama artistica grazie soprattutto a tre collaborazioni. Il 26 marzo dell’anno scorso il cantante statunitense Robin Thicke pubblicò un singolo-teaser per annunciare l’uscita del suo sesto album: il brano Blurred Lines (che porta il nome dell’album) è stato appunto realizzato in col-

laborazione con il rapper T.I. e Pharrell – che ha prodotto il pezzo contribuendo alla sua stesura. La hit ha suscitato subito molto scalpore raccogliendo le accuse più disparate, a partire dalla presunta volgarità del video, prontamente censurato e riproposto. L’inneggio smodato del maschilismo apparentemente non ha però gravato in alcun modo sulla diffusione del brano, che ha ormai superato le 280 milioni di visualizzazioni ufficiali su youtube. Poco dopo, è il 19 aprile, il gruppo cult francese Daft punk lancia il singolo Get Lucky tratto dall’album Random Access Memories. Il brano, cantato da Pharrell, raggiunge le prime dieci posizioni della hit parade di oltre 30 paesi diversi. E grazie a questa collaborazione Pharrell Williams riceve 3 dei 4 Grammy Awards 2013, tra cui il riconoscimento per la miglior canzone e la «standing ovation» dopo un’esibizione live con i Daft Punk e Stevie Wonder. Oltre ai successi musicali, il 12 ottobre, il quarantunenne di Virginia Beach si sposa con Helen Lasichanh, da tempo sua compagna e madre di Rocket, il figlio di Pharrell che lui stesso ha definito come «la migliore canzone che abbia mai scritto insieme a qualcuno». Forte di questa incredibile annata Skateboard P decide di annunciare l’uscita del suo secondo disco solista G I R L. Il disco celebra la positività, l’amore e le donne, rispondendo così alle accuse suscitate dal pezzo con Robin Thicke. L’album è composto da 10 tracce e ospi-

Pharrell Williams con il suo stile inconfondibile. (Keystone)

ta Justin Timberlake, Miley Cyrus, Daft Punk e Alicia Keys. Il 21 novembre 2013 Pharrell ha presentato il primo estratto dall’album, Happy, il singolo che diventerà la colonna sonora portante di Cattivissimo Me 2. Probabilmente, proponendo una canzone spensierata, carica di energia e capace di far ballare tutti, non avrebbe mai immaginato di sfornare quella che oltre a rivelarsi una hit mondiale, ha compiuto una «piccola rivoluzione» in ambito musicale, cominciata con l’hashtag #HAPPYDAY il 20 marzo (in occasione della giornata mondiale

della felicità) finalizzatasi in un video di 24 ore (24hoursofhappy.com). Happy infatti è versatile come il suo autore, non è «solo una canzone», ma un mood, un’ambizione, un messaggio (riuscito) cantato e ballato da chi vuole trasmettere un concetto semplice: la felicità è contagiosa. *La Big Bang Family è un gruppo musicale composto da Michele Larghi, Davide Pallaro, Luca Costanzo e Alberto Sacchi, che si alterneranno nella stesura degli articoli. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Un tormento fatale

In memoria Vent’anni dopo la tragica scomparsa, l’icona del rock

Kurt Cobain ancora influenza e condiziona innumerevoli musicisti

Silvia Lelli

Benedicta Froelich

Tra maestosità classica e rabbia punk Progressive Mox Cristadoro introduce

I 100 migliori dischi del progressive italiano

Zeno Gabaglio «Il progressive è un genere musicale che ha trovato il proprio senso d’esistere nella capacità di trasformarsi in tanti generi musicali. Le sue composizioni non erano conformi ma difformi, e quello che sento oggi purtroppo non ha questa difformità ma molta uniformità. Quel tipo di esperienza aveva fatto capire a tanti ragazzi che la forma canzone non è l’unico modo per poter esprimere qualcosa di eccitante».

Il progressive è una musica illimitata e senza barriere, ad esso si deve una sconfinata libertà

Silvia Lelli

Sarebbe l’epitaffio perfetto – questo espresso da Franco Mussida, il leggendario chitarrista della PFM – per il genere del progressive rock. Se non fosse che il prog – a più di quarant’anni dalla nascita – sembra tutto tranne che sul punto di passare a miglior vita: le grandi band di allora continuano (o hanno ripreso) a suonare e a registrare dischi, nuovi gruppi iniziano oggi a suonare rifacendosi dichiaratamente a quella tradizione, il pubblico urbi et orbi segue avidamente ogni forma di revival o di novità e la critica musicale non ha mai smesso di occuparsi del tema. Prova ne sia il recente libro I 100 migliori dischi del progressive italiano scritto da Mox Cristadoro per Tsunami Edizioni. «Il progressive rock è un genere che abbiamo tutti il dovere di continuare a promuovere nel tempo. È ovviamente già stato storicizzato e discusso, ma ha senso parlarne ancora

oggi perché si è trattato di un momento davvero glorioso e prolifico della creatività italiana, che ancora non ha esaurito i propri effetti sul presente». Il dubbio infatti ci poteva essere: il progressive rock è effettivamente uno degli argomenti più fulgidi della recente storia della musica italiana (dai tempi di Puccini è stata forse la musica creata in Italia più amata e desiderata nel resto del mondo) e quindi di libri, di trattazioni e di ritrattazioni in proposito già ne esistono parecchie. L’approccio di Cristadoro è però nuovo, perché innanzitutto muove dall’ascolto – e le pagine trasudano l’infinito amore per ciò che è stato ascoltato – e perché su di esso sono state costruite cento sintesi al tempo stesso oggettive e personali. La selezione proposta appare infatti come condivisibile – nel senso di poter essere compresa e giustificata – ma non asettica. Come a ricordare che nel confronto con la musica, e con l’arte in generale, a contare sopra ogni cosa sono le emozioni che una persona può vivere. Ma quale fu la precisa ricetta di quelle emozioni targate progressive? «Il progressive è una musica illimitata, senza barriere, perché è un calderone creativo in cui non ci sono mai stati parametri prefissati da dover rispettare: tutto vale. Jazz, hard rock, folk, musica etnica, musica sperimentale e musica classica ad inizio anni Settanta si sono ritrovati uniti per dare forma intelligente ad una sconfinata libertà espressiva». Un gesto musicale sincero, perciò, espressione di una precisa epoca in cui pensiero ed azione potevano finalmente coesistere, con un’inedita combinazione di sguardi all’indietro e corse in avanti. «Leggendo queste pagine e (ri)ascoltando questi dischi ci si rende conto di quanto il prog rock abbia rappresentato uno straordinario e ideale anello di congiunzione tra la maestosità espressa dalla musica classica e il rumoroso canto di rabbia del punk». E in tutto questo la cultura italiana fu pioniera e protagonista; su scala mondiale seconda solo alla scena-madre inglese, con la quale ebbe scambi profondi e della quale seppe riconoscere anticipatamente alcuni dei frutti più pregiati (come i Genesis o i Van der Graaf Generator). È stata una grande stagione (l’ultima?) per la musica italiana, che per mezzo secolo ha connotato lo sviluppo anche delle correnti musicali mainstream, dal pop alla canzone d’autore. Basti pensare che nel prog ebbero origine musicale Franco Battiato, Alan Sorrenti, Ivano Fossati, Francesco De Gregori, Ludovico Einaudi, Tullio De Piscopo, Ivan Graziani, Red Canzian o i Matia Bazar.

Nell’ambito dell’attenzione ossessiva che la scena musicale internazionale dedica agli anniversari a cifra tonda, capita che a volte tali ricorrenze non costituiscano occasione di festeggiamento, quanto piuttosto di contrita commemorazione. Così è anche per la recente rievocazione, da parte di tv e giornali, della morte di Kurt Cobain, figura chiave del rock anni ’90: sono infatti passati già vent’anni dal disgraziato giorno di aprile in cui, solo nella sua casa di Seattle, l’artista 27enne poneva termine alla propria vita con un colpo di fucile. A distanza di tanto tempo, appare ormai chiaro come il suicidio di Cobain abbia rappresentato uno shock dalle ripercussioni ben più estese di quanto non apparisse a prima vista: infatti, nel corso degli anni, il dolore per una morte annunciata (un mese prima della tragedia, il cantante era stato salvato in extremis da un’overdose) si è sovrapposto agli ambigui risultati di varie inchieste giornalistiche, secondo le quali il povero Kurt sarebbe stato «aiutato» nel compimento dell’estremo gesto. Al di là delle ipotesi di complotto, resta però il dubbio che Cobain sia stato innanzitutto vittima dell’indifferente ignoranza di chi lo circondava – un’accusa da cui nemmeno la sfuggente e ambigua vedova dell’artista, Courtney Love, è rimasta immune. Del resto, lo schivo e infelice cantante – una «star riluttante», come lo definì la rivista «Life» – era stato una vittima delle circostanze fin dall’inizio: cresciuto nella squallida cittadina di Aberdeen (Washington), Kurt avrebbe conosciuto molto presto la dipendenza da farmaci, giacché, fin dall’età di sette anni, i genitori appena divorziati gli avrebbero somministrato il famigerato e controverso Ritalin, da molti ritenuto responsabile della successiva tossicodipendenza del cantante. Costretto a convivere con la seconda famiglia del padre e ad assistere alla violenza domestica esercitata sulla madre dal nuovo compagno, il nervoso e ipersensibile Cobain sarebbe inevitabilmente divenuto un adolescente

Kurt Cobain, il tormento negli occhi. (Keystone)

problematico: presto la musica avrebbe costituito l’unica arma per sfuggire all’amarezza della sua vita quotidiana – in un desiderio di rivalsa destinato a diventare il leitmotiv delle canzoni dei Nirvana, il gruppo che Kurt avrebbe fondato nel 1985 con il concittadino Krist Novoselic. I loro brani rabbiosi, pervasi da un insopprimibile desiderio di ribellione, sarebbero divenuti lo specchio dei sentimenti di Cobain in quanto songwriter della band; e la sua capacità di fondere tali impeti di insubordinazione e nichilismo con la delicatezza e arrendevolezza da cui è pervaso un concerto storico come il celebre MTV Unplugged (1993) è ulteriore dimostrazione della maestria creativa che l’artista è stato in grado di maturare in pochi anni di attività. La carriera dei Nirvana, per quanto breve, è infatti costellata di piccole gemme della forma canzone, assai più rilevanti, nel loro fascino esemplare, della reputazione di «primo vero gruppo grunge»; poiché il lascito artistico di

Cobain va ben oltre le etichette stilistiche affibbiategli da critici e riviste musicali. A posteriori, quel che più conta è che l’insperato successo dei Nirvana ha infine portato all’attenzione della stampa specializzata la scena cosiddetta «alternativa», offrendo una chance di successo alle tante band emergenti della «Generazione X»; al punto che, nonostante il gruppo abbia dato alle stampe soltanto tre album, ognuno di essi – dall’esordio Bleach al travolgente Nevermind, fino al canto del cigno di In Utero – esercita tuttora un’influenza cruciale sui rocker delle nuove generazioni. Lo spirito dolente e recalcitrante di Kurt Cobain, che non appariva a suo agio in nessuna situazione se non nel momento in cui lasciava parlare la propria chitarra, racchiudeva un intero universo, nel quale molti giovani erano in grado di riconoscersi; e che nessuno sia riuscito a penetrare tale universo quel tanto che bastava da salvarne l’autore resta uno dei grandi rimpianti della storia del rock.

Top10 DVD & Blu Ray

Top10 Libri

Top10 CD

1. Lo Hobbit 2

1. Andrea Camilleri

1. Gotthard

M. Freeman, I. McKellen 2. Frozen

Animazione 3. Hunger Games 2

J. Lawrence, J. Hutcherson 4. Escape Plan

S. Stallone, A. Schawarzenegger novità

Inseguendo un’ombra, Sellerio 2. Albert Espinosa

Braccialetti rossi, Salani

R. Nathan, S. Pancake novità 6. I sogni segreti di Walter Mitty

2. I Nomadi

Nomadi 50 + 1 novità

3. Camilla Läckberg

La sirena, Marsilio 4. Markus Zusak

3. Abba

Gold - 40th Anniversary novità

Storia di una ladra di libri, Frassinelli 4. Mondo Marcio 5. Geronimo Stilton

5. Hungover Games

Bang!

Nella bocca della tigre

Viaggio nel tempo 7, Piemme 5. George Michael 6. Andrea Vitali

Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti Rizzoli

B. Stiller, S. Penn

Symphonica 6. Artisti Vari

Sanremo 2014 7. Jo Nesbo

7. Piovono Polpette 2

Il pipistrello, Einaudi

Animazione

7. Moreno

Incredibile 8. Veronica Roth

8. Barbie - La principessa delle perle

Animazione

Allegiant, De Agostini

Bravo Hits Vol. 84 9. Clara Sánchez

Le cose che sai di me, Garzanti

10. Battle of the year

J. Holloway, C. Brown

9. Roby Facchinetti

Ma che vita la mia

9. Monster High - Ciak si grida!

Animazione

8. Artisti Vari

10. Luis Sepulveda

Storia di una lumaca che scoprì l’importanza di essere lenta, Guanda

10. Pegasus

Love & Gunfire


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Idee e acquisti per la settimana

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shopping La Regina di maggio

Attualità Un’insalata nobile molto diffusa nel nostro Cantone: la lattuga cappuccio verde

La lattuga cappuccio verde era chiamata la Regina di maggio, proprio perché, assieme alla lattuga romana, era una delle poche insalate che i consumatori potevano trovare nel piatto al risveglio della natura. Ora se ne sono invece aggiunte molte altre: la lollo, la foglia di quercia o la lattuga rossa, e la cappuccio è oggi un po’ meno Regina. La sua importanza nell’assortimento orticolo ticinese rimane comunque indubbia, come ci conferma Francesco Vosti di Gerra Piano (nella foto) che ogni anno mette a dimora 30mila piantine di quest’insalata. «A inizio febbraio cominciamo a piantare nei tunnel di plastica (che non sono riscaldati ma garantiscono protezione, nda), poi in campo aperto, coprendo inizialmente la coltura dal freddo con dei tessuti speciali», spiega l’esperto orticoltore. In queste condizioni la lattuga si sviluppa in modo ottimale sui terreni dell’azienda famigliare che si estende su una superficie di cinque ettari (50mila metri quadri) e da diversi anni fornisce Migros Ticino con una vasta gamma di prodotti nostrani e a chilometro zero. Oltre alla lattuga verde o rossa, l’azienda produce diverse altre tipologie d’insalate, come pure formentino, pomodori e zucchine. La lattuga cappuccio è un vegetale poco esigente e sopporta bene anche il freddo, soffrendo invece il caldo. Per questo è particolarmente adatta al periodo di fine inverno: importante è sorvegliare i primi giorni, quando potrebbero insorgere dei problemi con alcune malattie crittogamiche (causate da funghi), mentre con l’arrivo del caldo sono gli afidi (i pidocchi) a mettere a rischio la coltura. Solo se necessario Francesco Vosti effettua dei trattamenti, in modo che da inizio aprile il consumatore possa trovare degli ortaggi perfetti e gustosi. «Le nostre insalate arrivano da Gerra Piano e nel giro di poche ore passano dal campo al negozio e al cliente, garantendo così la freschezza e un impatto ambientale minimo», ci spiega il nostro interlocutore. È poi sufficiente sciacquare le foglie con un po’ di acqua corrente, asciugarle ed ecco che sono pronte per essere degustate in un’ottima insalata primaverile con il proprio condimento preferito. / Elia Stampanoni

Francesco Vosti è orticoltore a Gerra Piano. (Giovanni Barberis)


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Idee e acquisti per la settimana

Pronte da gustare Attualità Le insalate pronte al consumo dell’orticoltore Enzo Crotta

sono disponibili in una moltitudine di varietà

Giovanni Barberis

Sono prodotte a partire dai migliori ortaggi dei nostri campi, lavorate subito dopo il raccolto per assicurare la massima freschezza e le proprietà nutritive, già tagliate e accuratamente lavate e centrifugate: stiamo parlando delle insalate in sacchetto dell’orticoltore Enzo Crotta (nella foto), titolare dell’Orticoltura Mondino di Muzzano, disponibili in numerose tipologie nel reparto refrigerati dei supermercati di Migros Ticino entro poche ore dalla lavorazione. Prive di qualsiasi conservante, per gustare tutta la loro croccantezza è sufficiente aprire il sacchetto, versare l’ortaggio nell’insalatiera e condirla, a piacimento, semplicemente con olio e aceto oppure con un saporito dressing. «Inoltre, per garantire la massima sicurezza igienica ai consumatori ed escludere che corpi estranei siano entrati accidentalmente nelle confezioni, prima di essere fornite alla Migros le mie insalate subiscono un ulteriore controllo tramite metal detector», precisa Enzo Crotta. La gamma di insalate pronte dei Nostrani del Ticino include attualmente le seguenti varietà: formentino, chioggia, milano, rucola, cicorietta, insalata mista, lattughini misti, lattughini con rucola, insalata ticinese, insalata filante, carote grattugiate, cavolo rosso e cavolo bianco.

Tentazioni airolesi

La grande passione di Paul Forni per la produzione di biscotti è rimasta sempre la stessa da quando iniziò a produrli una quindicina di anni fa. Oggi le sue bontà nostrane sono presenti a Migros Ticino sotto forma di quattro croccanti specialità. Le Pastefrolle sono amate sia dai meno giovani – che in passato già le andavano ad acquistare direttamente in Valle Bedretto – sia dalle generazioni successive. Le Frolle al limone sono invece dedicate a chi preferisce la pastafrolla con quel «qualcosina» in più. Nati per valorizzare un pregiato prodotto come la Farina Bona della Valle Onsernone, oggi gli omonimi biscotti hanno ormai conquistato il palato di tutti i ticinesi. Gli ultimi nati in casa Forni sono i Crèfli, i biscotti alla panna e al miele nostrano particolarmente gettonati dagli sportivi per la loro valenza energetica.

Vincenzo Cammarata

settimana sono in offerta speciale a Migros Ticino: un’ottima occasione per farne una bella scorta

Da ultimo, è importante segnalare il contributo sociale nella produzione di queste specialità: da anni infatti Paul Forni collabora con gli utenti della Fondazione Diamante per quanto attiene al confezionamento dei biscotti.

Crèfli 150 g Fr. 4.70* invece di 5.90 Biscotti alla Farina Bona 100 g Fr. 3.10* invece di 3.90 Frolle al limone 100 g Fr. 3.10* invece di 3.90 Pastefrolle 100 g Fr. 3.10* invece di 3.90 *Azione valida dal 22 al 28.4.

Si può resistere a tutto tranne che alle tentazioni. E grazie agli iogurt nostrani e al formaggio San Gottardo Riserva Speciale dei supermercati Migros Ticino non c’è nulla di più facile che assecondare questa massima. Entrambe le specialità sono prodotte dall’azienda Agroval di Airolo, al cui timone troviamo l’estroverso imprenditore Ari Lombardi. Comun denominatore di queste chicche: l’impiego di latte bovino di montagna proveniente da piccoli allevatori della Leventina, le cui mucche sono foraggiate solo con erba e fieno, assolutamente senza insilati. Il San Gottardo Riserva Speciale è un formaggio esclusivo, stagionato per oltre 14 mesi in una cantina a volta in pietra naturale, situata nel cuore di Airolo (nella foto). Le particolari condizioni di questo luogo conferiscono al formaggio un aroma intenso, speziato, che a molti può ricordare il profumo di erba dei pascoli alpini appena tagliati. Il suo colore e di un bel giallo paglierino con pasta dalla consistenza compatta. Ari Lombardi, da buon imprenditore, ha risposto in modo positivo all’idea di Migros Ticino di lanciare sul mercato uno iogurt 100% ticinese. E così nel 2011 è nato lo iogurt di montagna, un

Giovanni Barberis

Attualità Gli apprezzati biscotti di Paul Forni questa

prodotto che nel frattempo è diventato un autentico cult. Questa fonte naturale di calcio e proteine spicca per la sua cremosità, la ricchezza di frutta e il moderato contenuto di zuccheri. È ottenibile in numerose tipologie di aroma per soddisfare ogni esigenza di gusto. Inoltre ora tutto l’assortimento di iogurt nostrani è in offerta speciale. Flavia Leuenberger

Tanto gusto e genuinità

Iogurt di montagna 180 g (p. es. rabarbaro e mela) –.85* invece di –.95 San Gottardo Riserva Speciale Migros 14 mesi al kg 44.– *Azione valida dal 22.4 al 5.5


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Idee e acquisti per la settimana

La Farina del Mulino di Maroggia Muffin salati con salame e formaggio nostrani Quantità per 14 muffin: 340 g di Farina Bianca Nostrana 60 g di amido di granoturco 14 g di lievito per dolci 280 ml di latte intero Nostrano 140 g di salametto al Pepe della Valle Maggia tagliato a dadini 140 g di Formaggella Ticinese Cremosa (p.es. Crenga della Valle di Blenio) tagliata a dadini 70 g di olio di semi 2 uova Nostrane un pizzico di sale

Flavia Leuenberger

Risultato della collaborazione tra il Mulino di Maroggia e Migros Ticino, la farina bianca nostrana è stata introdotta nei supermercati Migros lo scorso mese di settembre riscontrando nel frattempo un ottimo successo presso la clientela. Derivante da frumento tenero accuratamente selezionato coltivato da una trentina di aziende agricole del Piano di Magadino e del Mendrisiotto, è una farina che si distingue per gli alti valori proteici, vitaminici e di sali minerali contenuti; aspetto, quest’ultimo, dovuto alla valorizzazione nella lavorazione delle parti del chicco più vicine alla crusca, particolarmente ricche di nutrienti. È adatta a tutti gli usi gastronomici, dalla preparazione di torte, biscotti e dolci alla panificazione, alla pasta per pizza fino alla pasta fatta in casa. Infine, affinché possiate apprezzare tutta la qualità della farina bianca nostrana, vi proponiamo qui un’invitante ricetta, principalmente a base di ingredienti della regione. Altre ricette su www.mulinomaroggia.ch o su Facebook: Mulino Maroggia. Farina Bianca Nostrana 1 kg Fr. 2.–

Sbattete le uova con l’olio e il latte. Unite la farina, il lievito, l’amido di granoturco e sale già mischiati e setacciati. Mescolate al massimo cinque volte, l’impasto non deve essere troppo liscio o i muffin verranno troppo compatti e poco soffici. Unite salame e formaggio tagliati a dadini e uniformateli nell’impasto aiutandovi con una spatola di gomma. Versate l’impasto in stampini per muffin generosamente imburrati, riempiendoli per 2/3. Cuocete in forno preriscaldato a 180°C per circa 30’-35’. Sfornati, lasciateli raffreddare qualche minuto prima di sformare e finire di raffreddare su una gratella. I muffin sono più gustosi tiepidi, potete scaldarli 5’ a 70°C circa prima di mangiarli. Una ricetta di Luisa Jane Rusconi

Menu Nostrani nei Ristoranti Il barometro

dei prezzi

Migros riduce i prezzi di oltre 50 prodotti per la cura del viso per uomini, in media dell’11 percento. Più caro sarà il becchime per uccelli M-Classic. In Europa sono coltivati sempre meno cereali per uccelli e la forte richiesta fa aumentare i prezzi. Più care sono anche le fette di mango secche Bio. I temporali in Sudafrica hanno ridotto l’offerta di mango di qualità bio. Poiché il processo di essiccamento a causa degli alti prezzi non è più redditizio, gran parte dei frutti coltivati sono venduti freschi.

Alcuni esempi:

La rassegna sui prodotti nostrani ha «contagiato» anche i Ristoranti Migros di Lugano, Serfontana, Agno, S. Antonino e Grancia i quali, da oggi e fino al 3 maggio, propongono ogni giorno una miriade di proposte culinarie tipicamente ticinesi, sia fredde che calde. Tra le succulente pietanze segnaliamo, ad esempio, dal buffet servisol, trota in carpione, verdure

grigliate, diverse insalate, formaggi, antipasti, affettato misto, scarpazza, raviöö e polenta abbrustolita con formaggella Crenga; mentre le proposte dal grill vertono su lonza di maiale, luganighetta e bistecca con contorni vari a scelta. Per accompagnare i piatti, sempre disponibili sono le gazose, l’aquaciara, il succo di mele e la tisana nostrana.

Prezzo vecchio in Fr.

AXE After Shave Africa,100 ml Nivea for MEN Sensitive balsamo dopobarba, 100 ml Nivea for MEN crema idratante delicata, 75 ml Men Expert Hydra Energy trattamento quotidiano idratante antistanchezza, 50 ml Gillette gel da barba per pelli delicate, 200 ml Gillette Fusion ProGlide Power rasoio, 1 pz Wilkinson Hydro 5 rasoio, 1 pz Bio fette di mango, 100 g M-Classic becchime per uccelli, 200 g

Nuovo in Fr.

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17.90 3.95 28.40 15.80 3.– 1.45

16.10 3.75 24.80 13.40 3.20 1.65

–10,1 –5,1 –12,7 –15,2 6,7 13,8


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 aprile 2014 ¶ N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

Le specialità di pasta di Armando de Angelis: fresche e subito pronte.

Autenticamente italiane Il segreto delle paste fresche di Armando de Angelis è semplice: i migliori ingredienti, la tradizione familiare e la passione per la pasta

Armando de Angelis: un nome che si scioglie sulla lingua. È simbolo di un’azienda familiare a Villafranca presso Verona, dove da più di tre decenni si fabbricano paste fresche secondo ricette tramandate in famiglia. Puntando all’altissima qualità, con passione e originalità l’azienda riesce ad abbinare tradizione a innovazione. Lo si vede e lo si può gustare. Le ricette creative per sostanziosi ripieni offrono un’autentica varietà di sapori tipicamente italiana. Per produrla entrano in linea di conto solo ingredienti freschi di prima qualità. L’alta percentuale di uova rende la pasta

bella morbida e soffice. Uno speciale procedimento di fabbricazione fa sì che la superficie resti leggermente porosa, in modo che le salse possano aderirvi bene. Le forme attraenti portano varietà nel piatto, e si sa che l’occhio vuole la sua parte. La pasta è già delicatamente precotta al vapore, quindi deve solo essere immersa brevemente in acqua bollente. Per condirla basta poco: un filo d’olio d’oliva, limone, erbe aromatiche e parmigiano per sottolineare il sapore delle specialità di pasta. / Testo: Jacqueline Vinzelberg

Armando de Angelis Tortelli ricotta e spinaci 250 g Fr. 5.40 25% sul duo-pack fino ad es. stock Fr. 8.10 invece di 10.80

Armando de Angelis Tortellini al prosciutto crudo 250 g Fr. 5.90 25% sul duo-pack fino ad es. stock Fr. 8.80 invece di 11.80

Armando de Angelis Tortelli ai funghi porcini 250 g Fr. 5.90

Armando de Angelis Sacchettini allo speck 250 g Fr. 5.90


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CONSIGLIAMO Delizia famiglia e amici con una squisita pizza del padrone e con una croccante insalata di carote e cavlo rapa per contorno. Trovi la ricetta su www.saison.ch/it/ consigliamo e tutti gli ingredienti freschi alla tua Migros.

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Pomodori a grappolo Svizzera / Italia / Spagna, al kg

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Ali di pollo speziate Optigal Svizzera, al kg

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Tartare di manzo Svizzera (prodotta in filiale), imballata, per 100 g

Cosce di coniglio Ungheria, imballate, per 100 g

Wienerli M-Classic Svizzera / Germania, in conf. da 3, 600 g

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Uva rosé Peru / Sudafrica / Cile, al kg

Lattuga verde Ticino, al pezzo, 25% di riduzione

Tutto l’assortimento i Raviöö prodotti in Ticino, per es. al brasaa (ravioli al brasato), in conf. da 250 g

Pollo Optigal Svizzera, in conf. da 2 pezzi, al kg

Salametti di cavallo prodotti in Ticino, in conf. da 2 pezzi, ca. 180 g, per 100 g

Bistecca di maiale del taglialegna, TerraSuisse per 100 g

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5.10 invece di 8.60

Fragole Spagna, cassetta da 1 kg

Formentino Anna’s Best 100 g, 20% di riduzione

Tortellini Armando De Angelis in conf. da 2 25% di riduzione, per es. con prosciutto crudo, 2 x 250 g

Bresaola Beretta Italia, affettata in vaschetta da 100 g

Prosciutto crudo Emilia Romagna, affettato Italia, per 100 g

Filetto di manzo Australia, al banco a servizio, per 100 g

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Biscotti prussiani 500 g

Branches Classic Frey in conf. da 50, UTZ 50 x 27 g

Tutti i gelati da passeggio alla panna in conf. da 12 e i gelati in blocchetto in conf. da 6 20% di riduzione, per es. gelati da passeggio alla panna gusto vaniglia, 12 pezzi, 684 ml

Cornetti al prosciutto, baguette all’aglio, bruschette e sfogliatine per l’aperitivo Happy Hour surgelati, 20% di riduzione, per es. cornetti al prosciutto, 12 pezzi

Nuggets di pollo Don Pollo surgelati, 1 kg

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5.40 invece di 7.20

3.95 invece di 4.95

3.80 invece di 4.80

5.20 invece di 7.80

Tutte le bevande a base di latte Starbucks 220 ml, 20% di riduzione, per es. Seattle Latte

Biberli d’Appenzello in conf. da 2 6 pezzi da 75 g

Tutto l’assortimento Kellogg’s 20% di riduzione, per es. Special K Classic, 500 g

Verdure in conserva e purea di mele svizzere in conf. da 3 20% di riduzione, per es. piselli e carote, 3 x 260 g

Ice Tea di culto al limone o alla pesca oppure Green Tea in conf. di PET da 6* per es. Ice Tea al limone, 6 x 1 l

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Minirose, Fairtrade il mazzo da 20

Petunie rampicanti a fiori grandi in vaso da 10 cm, la pianta

Tutti i praliné Merci e tutti i Toffifee per es. Merci Finest Selection, 250 g

Califora, Eimalzin o Banago in conf. da 2 20% di riduzione, per es. Banago Fairtrade, 2 x 600 g

Tutto l’assortimento di olio e aceto M-Classic 20% di riduzione, per es. olio di girasole, 1 l

Tutto l’assortimento di alimenti per gatti Vital Balance 20% di riduzione, per es. Adult con pollo, 4 x 85 g

*In vendita nelle maggiori filiali Migros. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 22.4 AL 28.4.2014, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK


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Prodotti per l’igiene intima Molfina in conf. da 2 15% di riduzione, per es. salvaslip Bodyform Air, 2 x 36 pezzi

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Petunie rampicanti a fiori grandi, in vaso da 10 cm, la pianta 3.90 invece di 4.90

Fragole, Spagna, cassetta da 1 kg 3.95 invece di 5.70 30%

PESCE, CARNE E POLLAME Wienerli M-Classic, Svizzera / Germania, in conf. da 3, 600 g 5.50 invece di 9.30 40% Bratwurst di vitello, TerraSuisse, 6 x 140 g 9.70 invece di 16.20 40%

Ali di pollo speziate Optigal, Svizzera, al kg 9.– invece di 14.50 33% Bresaola Beretta, Italia, affettata, in vaschetta da 100 g 5.90 invece di 8.60 30%

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Calzini sportivi a tinta unita da donna in conf. da 10 o calzette in maglia fine in conf. da 5 per es. calzini sportivi in conf. da 10

Detersivi Elan per es. Pacific Dream, 2 l, offerta valida fino al 5.5

Detergenti Potz in conf. da 2 1.50 di riduzione, per es. Calc, 2 x 1 l

Tutto il Fleischkäse Delikatess, per es. Fleischkäse Delikatess, TerraSuisse, Svizzera, affettato finemente in vaschetta, per 100 g 1.70 invece di 2.15 20% Salametti di cavallo, prodotti in Ticino, in conf. da 2 pezzi, ca. 180 g, per 100 g 2.55 invece di 3.65 30%

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Tutti i prodotti per la pulizia dei pavimenti Twist 20% di riduzione, per es. panni di ricambio Wet, 20 pezzi, offerta valida fino al 5.5

Aspirapolvere Miggy potenza 1600 W, raggio d’azione di 8 m, filtro HEPA, con bocchette per fughe e tappeti incluse, offerta valida fino al 5.5

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ALTRI ALIMENTI Branches Classic Frey in conf. da 50, UTZ, 50 x 27 g 10.30 invece di 20.75 50% Tutti i praliné Merci e tutti i Toffifee, per es. Merci Finest Selection, 250 g 3.75 20x 20x PUNTI Tutte le stecche e le confezioni da 4 e da 6 Blévita, a partire dall’acquisto di 2 confezioni, –.60 di riduzione l’una, per es. Blévita, 285 g 2.70 invece di 3.30 Califora, Eimalzin o Banago in conf. da 2, per es. Banago Fairtrade, 2 x 600 g 12.60 invece di 15.80 20%

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Crème d’or Cachaçana do Brasil 750 ml, Limited Edition 20x 8.60 NOVITÀ ** Crème d’or fior di latte & framboise, 750 ml, Limited Edition 8.60 NOVITÀ **

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Tutte le bibite Passaia in conf. da 6, per es. Passaia Regular, 6 x 1,5 l 8.40 invece di 12.60 6 per 4 Tutte le bibite Oasis, per es. alla pesca, 25 cl –.85 invece di 1.25 30% Ice Tea di culto al limone o alla pesca oppure Green Tea in conf. di PET da 6, per es. Ice Tea al limone, 6 x 1 l 5.20 invece di 7.80 6 per 4 * Tutto l’assortimento Mister Rice, per es. Wild Rice Mix, 1 kg 3.60 invece di 4.50 20%

Tutti i tipi di Nescafé, per es. de Luxe Smart, 150 g 7.10 invece di 8.90 20% Tutti i tipi di miele in vasetto da 550 g e in squeezer da 250 g / 500 g, –.60 di riduzione, per es. miele di fiori cremoso in vasetto, 550 g 4.70 invece di 5.30 Tutto l’assortimento Kellogg’s, per es. Special K Classic, 500 g 3.95 invece di 4.95 20%

Purea di patate Mifloc in conf. da 4 + 1 bustina di salsa per arrosti gratuita, 4 x 95 g 4.55 Tutto l’assortimento di olio e aceto M-Classic, per es. olio di girasole, 1 l 3.10 invece di 3.90 20% Verdure in conserva e purea di mele svizzere in conf. da 3, per es. piselli e carote, 3 x 260 g 3.80 invece di 4.80 20%

Chips brezel Soletti, 150 g 2.70 NOVITÀ **

Nuggets di pollo Don Pollo, surgelati, 1 kg 7.05 invece di 14.10 50%

Biscotti prussiani, 500 g 3.20 invece di 4.80 33%

Filetto di manzo, Australia, al banco a servizio, per 100 g 5.10 invece di 8.60 40%

Cornetti alla fragola Crème d’or, 6 pezzi, 732 ml 8.90 20x NOVITÀ *,**

Biberli d’Appenzello in conf. da 2, 6 pezzi da 75 g 5.40 invece di 7.20

Tartare di manzo, Svizzera (prodotta in filiale), imballata, per 100 g 3.50 invece di 5.– 30%

Cornetti al tiramisù Crème d’or, Limited Edition, 6 pezzi, 20x 732 ml 9.80 NOVITÀ *,**

Branzino 300–600 g, Grecia, per 100 g 2.20 invece di 2.80 20% Fino al 26.4

Ghiacciolo Ice Tea al limone in conf. da 12, 576 ml 6.– NOVITÀ *,**

Pollo Optigal, Svizzera, in conf. da 2 pezzi, al kg 6.60 invece di 9.50 30%

Ammorbidenti Exelia in conf. da 2 20% di riduzione, per es. Orchid, 2 x 1,5 l

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Cornetti al prosciutto, baguette all’aglio, bruschette e sfogliatine per l’aperitivo Happy Hour, surgelati, per es. cornetti al prosciutto, 12 pezzi 4.95 invece di 6.20 20%

Cosce di coniglio, Ungheria, imballate, per 100 g 2.35 invece di 3.40 30%

10.40 invece di 13.–

Minirose, Fairtrade, il mazzo da 20 10.80 invece di 12.80

Uva rosé, Peru / Sudafrica / Cile, al kg 3.20 invece di 4.80 33%

Bistecca di maiale del taglialegna, TerraSuisse, per 100 g 1.15 invece di 1.95 40%

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FIORI E PIANTE

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Crème d’or fior di latte & framboise, in coppetta, Limited Edition, 200 ml 3.50 NOVITÀ *,**

Coppetta svedese, surgelata, 175 ml 1.90 NOVITÀ *,**

Mesembryanthemum, in vaso da 14 cm, la pianta 5.90

Lattuga verde, Ticino, al pezzo 1.25 invece di 1.70 25%

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Mini Babybel, retina da 15 x 25 g 5.80 invece di 7.25 20%

Zucchine, Spagna / Italia, al kg 2.10

Prosciutto crudo Emilia Romagna, affettato, Italia, per 100 g 4.85 invece di 6.95 30%

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PANE E LATTICINI Tutte le bevande a base di latte Starbucks, per es. Seattle Latte, 220 ml 1.75 invece di 2.20 20%

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Tutti i gelati da passeggio alla panna in conf. da 12 e i gelati in blocchetto in conf. da 6, per es. gelati da passeggio alla panna gusto vaniglia, 12 pezzi, 684 ml 5.75 invece di 7.20 20%

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Chips dei Mondiali Joujoux Zweifel, 4 x 42 g 5.40 invece di 6.20

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Caffè Chicco d’Oro in conf. da 3, in grani o macinato, 500 g 18.85 Pane piuma grano tenero e integrale, arte bianca, 400 g 3.10 invece di 3.90 20% Frolla e frolla al limone, biscotti farina Bona e Crefli al miele, Nostrani, per es. Crefli al miele, 150 g 4.70 invece di 5.90 20% Tutto l’assortimento i Raviöö, prodotti in Ticino, per es. al brasaa (ravioli al brasato), in conf. da 250 g 5.40 invece di 6.80 20%

NEAR FOOD / NON FOOD Tutto l’assortimento di alimenti per gatti Vital Balance, per es. Adult con pollo, 4 x 85 g 3.10 invece di 3.90 20% Tutto l’assortimento I am (confezioni multiple escluse) per es. crema da giorno Q10+, 50 ml 8.30 invece di 10.40 20% ** Prodotti per l’igiene intima Molfina in conf. da 2, per es. salvaslip Bodyform Air, 2 x 36 pezzi 2.70 invece di 3.20 15% Calzini sportivi a tinta unita da donna in conf. da 10 o calzette in maglia fine in conf. da 5, per es. calzini sportivi in conf. da 10 14.90 Calzini sportivi da uomo in conf. da 10 o calzini Rohner neri in conf. da 3, per es. calzini sportivi da uomo in conf. da 10 14.90 Tutti i prodotti per la cura dei bebè Milette, a partire dall’acquisto di 2 prodotti, –.50 di riduzione l’uno, per es. bagno per bebè, 500 ml 3.70 invece di 4.20 ** Calzetteria per bambini e bebè, per es. calzini sportivi per bambini in conf.da 5, taglie 27/30–39/42 7.90 Detersivi Elan, per es. Pacific Dream, 2 l 6.95 invece di 13.90 50% ** Ammorbidenti Exelia in conf. da 2, per es. Orchid, 2 x 1,5 l 10.40 invece di 13.– 20% Detergenti Potz in conf. da 2, 1.50 di riduzione, per es. Calc, 2 x 1 l 8.30 invece di 9.80 Carta igienica Hakle in confezioni multiple, per es. Naturals, 30 rotoli 15.– invece di 25.– 40% Tutti i prodotti per la pulizia dei pavimenti Twist, per es. panni di ricambio Wet, 20 pezzi 5.25 invece di 6.60 20% **

Tutte le salse per insalata Tradition, per es. salsa française, 450 ml 4.90 20x NOVITÀ *,**

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 aprile 2014 ¶ N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

Fior di Latte con Lamponi è una delle tre creazioni estive di Crème d’Or.

Una botta di freschezza Anche quest’anno Crème d’Or sorprende i fan del gelato con speciali creazioni estive

Le giornate primaverili ricche di sole fanno pregustare l’estate e la voglia di gelato. Perfettamente in tema, Crème d’Or presenta di nuovo tre specialità stagionali, che vengono a completare solo per un breve periodo l’offerta abituale con sorprendenti combinazioni di gusti. La ricetta del gelato alla panna all’arancia e ananas con autentico rum Cachaçana do Brasil sprigiona tutta la gioia di vivere del Brasile e il temperamento del sud. Pezzettini di ananas e una salsa di granatina leggermente aspra conferiscono a questo gelato la sua particolare nota. Fior di Latte & Lamponi ci porta in Italia. Si tratta di un delizioso gelato alla panna cremoso e fruttato arricchito da un’aromaticissima salsa ai lamponi. Per conservare il sapore intenso, Crème d’Or utilizza solo ingredienti selezionati con cura. Inoltre i prodotti Crème d’Or sono privi di additivi di sorta. Fuori croccante e dentro cremoso

Sempre all’Italia s’ispira anche il cornetto Tiramisù, la cui cremosa miscela di gelato alla panna Tiramisù e salsa al caffè è avvolta da un biscotto croccante e cosparsa di squisito cioccolato in polvere. Di originale qualità svizzera sono invece gli ingredienti di base, latte e panna, che la Midor AG utilizza per le sue creazioni. / DH

Crème d’Or Cornetto Tiramisù Limited Edition 6 x 122 ml Fr. 9.80 In vendita nelle maggiori filiali

Crème d’Or Fior di Latte e Lamponi Limited Edition 750 ml Fr. 8.60 oppure 200 ml Fr. 3.50

Crème d’Or Cachaçana do Brasil Limited Edition 750 ml Fr. 8.60

L’industria Migros produce numerosi prodotti Migros molto apprezzati, tra cui anche i gelati di Crème d’Or.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 22 aprile 2014 ¶ N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

Questi due commensali sono entusiasti degli hamburger a forma di coccodrillo e di elefante. (Foto: René Ruis, Stlyling: Esther Egli)

La fantasia mette appetito I prodotti Lilibiggs sono calibrati sulle esigenze dei bambini e risultano dunque particolarmente fantasiosi. Affinché il cibo sia non solo buono, ma anche divertente, ora c’è l’hamburger a forma di elefante o coccodrillo

Chi ha bambini in casa conosce bene il giochetto: dall’oggi al domani i cari pargoli non gradiscono più la salsa sugli spaghetti, disdegnano ogni boccone di carne o verdura, rifiutano minestra e insalata. Le mamme e i papà esasperati accolgono con gioia nuove idee e furbi trucchetti utili a convincere la prole a non snobbare quanto arriva in tavola. Potrebbe trattarsi, per cambiare, di un hamburger non di forma rotonda, bensì dall’aspetto di un coccodrillo o di un elefante. Con Lilibiggs è possibile. Inutile precisare che per la preparazione della divertente polpetta, che rende il cibo più appetibile per i bimbi e porta un po’ di allegria in tavola, si utilizza esclusivamente carne svizzera di manzo di ottima qualità. «Come per tutti i pro-

dotti Lilibiggs, anche per i burger a forma di coccodrillo e di elefante valgono determinate linee direttive alimentari», spiega Annina Erb, direttrice di Alimentazione e Salute alla Federazione delle cooperative Migros di Zurigo (vedi anche il box «Direttive per i prodotti». Per i bambini, un’alimentazione variata è di particolare importanza. Per la crescita hanno bisogno di molte vitamine, sostanze nutritive e minerali. I genitori responsabili badano a fornir loro, oltre a un’equilibrata miscela di verdure, frutta e carboidrati come pasta o patate, anche quantità sufficienti di proteine. Con gli originali burger a forma di coccodrillo o di jumbo la cosa non dovrebbe costituire un problema. / SL

Lilibiggs hamburger di manzo 4 pezzi da 40 g Fr. 3.85

Le direttive per i prodotti Lilibiggs I prodotti Lilibiggs devono soddisfare determinate direttive alimentari. Queste regolano i valori energetici, il contenuto di grassi, acidi grassi saturi, zucchero aggiunto e sodio nonché l’impiego di sostanze supplementari. Rafforzatori del gusto, coloranti e dolcificanti artificiali sono vietati in tutti i prodotti, ad eccezione delle caramelle e delle gomme da masticare per la cura dei denti. La confezione è fatta in porzioni a misura di bambino.


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Idee e acquisti per la settimana

I profumi a lunga durata degli ammorbidenti di Exelia sprigionano una folata di aria parigina.

Concorso 1. premio Un fine settimana a Parigi (2 persone) con introduzione alla profumeria. Compreso viaggio in treno e tre pernottamenti in albergo a 3 stelle. 1. – 10. premio Buono regalo per profumi di 100 franchi. 11. – 20. premio Pacchetto Parfumeur da 3 ammorbidenti Exelia. Domanda Quali tre nuovi profumi Exelia-Parfumeur sono disponibili da poco alla vostra Migros? Inviate una cartolina postale con la soluzione a: Mifa AG, concorso Exelia Parfumeur, Rheinstrasse 99 4402 Frenkendorf

Termine d’invio: 31 ottobre 2014

Sono escluse le vie legali. I collaboratori della Mifa AG e della Federazione delle cooperative Migros sono esclusi dalla partecipazione.

Exelia Violet Senses 1 l Fr. 6.50 sviluppato da Gerard Leblanc Exelia Golden Temptation 1 l Fr. 6.50 sviluppato da Philippe Durand Exelia Pink Pleasure 1 l Fr. 6.50 sviluppato da Martine Gaffet

Foto: Getty Images, fotolia

Profumi per sognare Gli ammorbidenti della nuova linea Parfumeur di Exelia trasportano direttamente nel mondo dei profumi. Le loro composizioni sono create da famosi profumieri Parigi, una città che più di ogni altra viene associata al mondo dei profumi. Sull’onda della Fine Fragrance World è stata creata la nuova linea di Exelia, in esclusiva da rinomati profumieri. Ne sono risultati tre ammorbidenti i cui profumi durano a lungo: Golden

Temptation avvolge la biancheria con un delizioso aroma di vaniglia e spezie, mentre Pink Pleasure abbina una nota di frutta e fiori con un tocco di gelsomino. Violet Senses sprigiona il profumo di fiori delicati con una leggera sfumatura fruttata. Questi ammorbidenti ben

biodegradabili impediscono la carica elettrostatica e facilitano la stiratura. Dal 23 al 24 aprile alle casse Migros saranno distribuiti campioncini di Exelia con gli esclusivi profumi. È attivo anche un concorso dotato di… profumatissimi premi. / JV

L’industria Migros produce numerosi prodotti Migros molto apprezzati, tra cui anche gli ammorbidenti di Exelia.


prodotti a km zero di casa nostra. I Nostrani del Ticino sono la riscoperta dei sapori locali e provengono esclusivamente da aziende ticinesi che ne garantiscono la qualità , la freschezza e la genuinità . Essi rappresentano l’impegno concreto e coerente nel sostenere agricoltori, allevatori e produttori alimentari della nostra regione.


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