Azione 07 del 10 febbraio 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 S. Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 10 febbraio 2014

M sho alle pa pping gine 4 9-56

Azione 07

Industria Migros Le 18 imprese di produzione rappresentano l’ossatura su cui si reggono le cooperative Migros. Un modello unico al mondo, che si iscrive in un tessuto industriale elvetico in piena forma e d’importanza fondamentale per l’intero Paese

dalla pagina 4 alla 14

Società e Territorio L’impegno della Società ticinese per l’arte e la natura nella tutela del nostro patrimonio

pagina 17

Ambiente e Benessere Caccia al fattore «G» del vetro con un calorimetro portatile per misurare la radiazione solare

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/ 64-7 0

Politica e Economia La deriva pericolosa di Kiev investe anche gli equilibri globali

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di Mariarosa Mancuso

pagina 43

Marka

Ti amo, in tutte le lingue

Cultura e Spettacoli Una stanza piena di meraviglie: incantati dalla doppia mostra milanese Wunderkammer

Lugano anno zero di Peter Schiesser Il 30 gennaio 2014 è stato il momento del brusco risveglio per una città cresciuta con le aggregazioni, ma immaginatasi più ricca di quello che è. Certo, una città che non progetta e non si proietta nel futuro, che lesina sugli investimenti, non è degna di assumersi il ruolo di motore del cantone. Tantomeno lo è una città che vive al di sopra delle possibilità finanziarie e non ha più il controllo su strutture e risorse. I prossimi 4-5 anni diranno se e quale equilibrio potrà essere trovato. Dipenderà dal nuovo Municipio, che sotto la guida di Marco Borradori sembra stia generando nuove dinamiche, ma anche dal Consiglio comunale, oggi in prima fila a rimproverare l’esecutivo (un assaggio si è avuto il 3 febbraio, quando è stato bocciato il credito di 1,6 milioni per attrezzature di servizio), mentre in passato ha contribuito a gonfiare i conti comunali respingendo nel contempo l’aumento del moltiplicatore d’imposta dal 70 al 73%, già frutto di un compromesso «pre-elettorale» (l’intenzione iniziale del Municipio, nel 2012, era di portarlo al 75%). Per ora non sembra sia bastato evocare lo spettro di un fallimento finanziario della città, come ha fatto Borradori, per

convincere il legislativo a unire le forze per scongiurare il peggio. Ma può darsi che quando il quadro delle misure strutturali da adottare si farà più concreto la maggioranza del Consiglio comunale e il Municipio ritroveranno un’intesa. La città è davvero sull’orlo del fallimento, nonostante il suo patrimonio immobiliare, le azioni AIL? Si arriverà davvero a superare il miliardo di franchi di debiti? È successo tutto molto in fretta, negli ultimi due anni, o si potevano cogliere dei segnali preoccupanti nel 2007? Vecchi e nuovi municipali hanno pareri diversi, però quasi tutti quelli che erano presenti già in passato ammettono la propria parte di responsabilità. Perché non sono insorti prima, limitandosi a condividere l’allarme lanciato dai servizi finanziari della città ma senza riuscire ad imporre dei correttivi? Non c’era una maggioranza, dicono oggi, il clima politico era dominato dalle due figure carismatiche, Giuliano Bignasca e Giorgio Giudici, e chi parlava di risparmi veniva zittito dal presidente della Lega. Per rispetto di chi non c’è più, pochi politici (e pochi giornalisti) hanno osato puntare il dito su Giuliano Bignasca, limitandosi a ricordare la sua allergia ai risparmi. E non si sente neppure un grande desi-

derio di attribuire responsabilità, tant’è vero che pochi tirano in ballo l’ex sindaco (e questi se ne sta volentieri in disparte). È comprensibile: chi oggi ha il compito di risollevare le sorti finanziarie della città o appartiene agli stessi schieramenti di Bignasca e Giudici, quindi Lega dei Ticinesi e PLRT, o ha condiviso, volente o nolente, la politica che ha portato Lugano davanti a un baratro. Le elezioni non sono lontanissime – fra due anni – ed è molto meglio profilarsi mostrando coraggio e volontà di affrontare le difficoltà che dover rammentare le responsabilità delle due più carismatiche personalità del precedente Municipio. Ma se per Lugano questo è l’anno zero, lo è anche per la nuova Lega, quella che, orfana di Bignasca, si sta lentamente dando una nuova identità. Se nel 2011 Borradori e Gobbi non vollero assumersi la responsabilità di prendere in mano il Dipartimento cantonale delle finanze, oggi Borradori e Foletti lo devono fare a Lugano e dimostrare di saper gestire con ragionevolezza, realismo, oculatezza la città più grande del Ticino. L’identità futura della Lega si costruisce dunque a Lugano, paradossalmente rovesciando la politica di Giuliano Bignasca. Anche questa è politica.


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A sostegno della campagna pubblicitaria «Noi firmiamo, noi garantiamo», lanciata da Migros l’8 febbraio per sottolineare la ricca offerta di marche proprie, la stampa Migros dedica in questa edizione ampio spazio all’Industria Migros e all’industria svizzera in generale. Un’occasione per ricordare l’ampiezza, i dati salienti e alcune particolarità della produzione industriale Migros, l’importanza che riveste per l’agricoltura svizzera, ma anche per riflettere sullo stato di salute del settore industriale svizzero e per tastare il polso ai consumatori sul made in Switzerland

Dove c’è scritto Migros, c’è dentro Migros Noi firmiamo, noi garantiamo Walter

Huber, dal 2007 capo dell’Industria Migros e membro della Direzione generale della Federazione delle Cooperative Migros, proposito dell’importanza delle imprese di produzione Migros Walter Huber «Il modello di successo Migros non è pensabile senza imprese industriali proprie: già tre anni dopo la fondazione della Migros, con la «Produktion AG Meilen», più tardi ribattezzata Midor, Gottlieb Duttweiler pose la base per una fabbricazione propria di prodotti. Oggi l’Industria Migros comprende 18 impianti di produzione in tutta la Svizzera e tre imprese all’estero. Nel mondo elvetico delle merci, l’Industria Migros ha un ruolo fondamentale: chi non conosce l’Ice Tea Migros, il detersivo Handy, il dentifricio Candida o il caffè Delizio? Prodotti straordinari, di alto valore a prezzi vantaggiosi sono i marchi di fabbrica della Migros, che è uno dei principali produttori di marche proprie a livello mondiale. L’Industria Migros produce oggi più di 20’000 articoli, dalla

confettura fino al detersivo. Per l’economia svizzera è un partner centrale e affidabile: occupa circa 11’000 collaboratori e forma ogni anno più di 400 apprendisti in oltre 20 professioni diverse. Con investimenti annuali di circa 200 milioni di franchi in impianti e tecnologia, si situa fra i principali produttori industriali svizzeri; tra l’altro trasforma circa un quarto della produzione agricola nazionale. La preoccupazione centrale dell’Industria Migros è un rapporto responsabile con l’ambiente e le sue risorse. Così, per l’acquisto di caffè e cacao le imprese di produzione della Migros hanno messo in atto ampie iniziative di sostenibilità, solo per fare un esempio. Anche il benessere degli animali sta a cuore alla Migros, come dimostra il suo impegno in favore di forme di allevamento rispettose degli animali, sia in Svizzera sia all’estero».

Settimanale edito dalla Cooperativa Migros Ticino, fondato nel 1938

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Tel 091 850 81 11

Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile) Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Azione

Tiratura 98’654 copie Inserzioni Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Abbonamenti e cambio indirizzi Tel 091 850 82 31 dalle 09.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@MigrosTicino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera Fr. 48.– Estero a partire da Fr. 70.–


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Società e Territorio

Acquisto prodotti svizzeri perché… Elena Arion, Crissier

un vero e proprio stile di vita svizzero; mi piace essere coerente nei consumi.

paura dell’origine dei prodotti. Adoro il latte svizzero, la mozzarella M Budget, il pane azzimo e le verdure a Km Zero.

Christian Neubauer, Brunnen

Lisa Maciocci, Pregassona

Sicuramente. Per certe merci, come la carne, si vede la differenza. Per me è anche importante comprare prodotti regionali.

Comodità dei supermercati svizzeri, fiducia nella provenienza, buona qualità e buon sapore. In particolare mi piacciono i «Nostrani» della Migros e la possibilità di acquistare frutta e verdura a libero servizio.

Kylie Flury, Botterens Andrea Prada, Pregassona

Per quanto possibile compro prodotti svizzeri, ma ci sono anche eccezioni che dipendono dalla nostra disponibilità finanziaria e dal prezzo. Siamo un nucleo familiare composto da otto persone. Se avessi abbastanza soldi, mangerei più volentieri prodotti svizzeri, per la loro qualità, il sapore e la freschezza. Ed anche per motivi ecologici, perché si può seguire il percorso del prodotto.

Compro prodotti svizzeri, soprattutto frutta, verdura e carne, per sostenere l’agricoltura della regione. Ritengo sia un peccato importare prodotti se qui ci sono contadini che lavorano duro e hanno bisogno di sostegno. Quando visito i miei genitori in Australia, porto loro la cioccolata svizzera.

Acquisto specialmente i prodotti ticinesi sia perché sono buoni, sia per sostenere l’economia locale, inoltre inseguo il modello del Km Zero, anche se per avere più qualità e rispetto dell’ambiente devo sostenere un prezzo più alto.

Alexandre Michaud, Bottens

Diamantino Gomes, con la figlia Léana, Bulle,

Sylvia Vega, Zurigo

Therese Püntener, Erstfeld Anne Maria Aalto, Brunnen

Compro di più i prodotti svizzeri, principalmente per ragioni ecologiche e di qualità. Trovo che frutta e verdura si differenzino anche per la freschezza. Sì, per me è davvero importante. Noi stessi abbiamo un’azienda agricola; è un tema che mi tocca da vicino. Andrea Adembri, Novara

Migros offre molti prodotti svizzeri. Sugli alimentari faccio molta attenzione, per altri prodotti, invece, non è così fondamentale.

Il mio atteggiamento è cambiato nettamente negli ultimi due anni grazie all’influenza dei media, perciò faccio attenzione. Per certi prodotti non esistono però alternative.

Ibrahim Ayman, Mendrisio

Daniel Büeler, Brunnen

I prodotti svizzeri sono di qualità superiore e sono più saporiti. A causa del loro costo non posso sempre permettermeli, ma secondo me esiste una reale differenza di gusto. Per quanto riguarda la freschezza, invece, non trovo una vera differenza tra i prodotti svizzeri e le merci importate.

Irma Delgado, Bellinzona Martine Gremion, Pringy

Mi fido della qualità e mi sento garantito; per far funzionare l’economia se si guadagna in Ticino bisogna spendere in Ticino. Mi fido, sono fatti bene, adoro i prodotti tipici della cucina tedesca, quasi introvabili in Italia. Inoltre, come frontaliere, voglio sostenere l’economia locale che mi offre il lavoro e quindi faccio sempre la spesa in Svizzera nella pausa pranzo del lavoro.

Btissam Zwald, Renens

Perché vivo in Svizzera e mi sento più sicura, specialmente con la carne. E poi il pane svizzero è buonissimo!

Sì, naturalmente ci sto attento e bado anche che le merci siano di stagione. Nel caso della carne, per me è importante sia la qualità sia il modo in cui sono allevati gli animali.

Reto Kradolfer, Zurigo Karl Betschart, Brunnen

Simona Schibler, Brunnen

Soprattutto per la carne, perché l’allevamento del bestiame all’estero è regolamentato diversamente. E, naturalmente, per le mele: non devono certo provenire dall’estero.

Sì, soprattutto per il pollame, perché non voglio sostenere il sistema d’allevamento di massa esistente all’estero.

In ogni caso! Soprattutto per i criteri con cui sono prodotte certe cose: carne, verdura e frutta.

Scelgo principalmente prodotti lattieri, pasta e carne svizzeri. Frutta e verdura le compro anche al mercato. Secondo me c’è differenza, soprattutto per i prodotti lattieri e per quelli a base di carne. Quelli svizzeri sono migliori, sia in fatto di gusto che di qualità. Sono buoni sia per il palato sia per lo stomaco!

Io sono per i prodotti locali. Compro in primo luogo locale, piuttosto che biologico. Ritengo, ad esempio, che importare un prodotto bio dal Sudamerica non abbia tanto senso. E compro ortaggi di stagione, per motivi ecologici e di qualità. La verdura trasportata da lontano è meno fresca e non molto saporita. Inoltre, non uso più l’olio di palma, perché la sua coltivazione provoca danni alla natura ed è nocivo alla salute. Marcel e Hong Dummermuth, Renens

Odette Palese, Renens

Silvi Mascioni, Lugano Akiko Matsui, Zurigo

Deborah Jane Tedesco, Lugano

Sono di buona qualità e rappresentano

Mi viene comodo, mi fido delle etichette e della provenienza dei prodotti, mi sento di poterli controllare meglio. Compro anche pizza e pasta per la pizza italiane, che sono più buone, ma ho

Sì, specialmente per gli ortaggi e gli alimenti per bambini. Per me anche il biologico è importante: la qualità è semplicemente migliore.

Compro prodotti svizzeri perché ho fiducia nella Svizzera. Ho letto e visto in televisione cose sul modo di produrre all’estero che non mi sono piaciute. Soprattutto, non condivido il modo in cui vengono trattati gli animali.

Utilizziamo tutti i prodotti, ma preferiamo quelli d’origine svizzera, soprattutto per quanto riguarda gli alimentari, specie la carne. In Svizzera la carne è meglio tracciabile che all’estero e ciò è diventato particolarmente importante dopo gli ultimi scandali, come quello delle lasagne con la carne di cavallo e la mucca pazza.


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Industria Migros

Industria Migros

I luoghi dell’Industria Migros Ben ancorate nel territorio: nel 2012 le 18 imprese di produzione e di commercio all’ingrosso della Migros hanno dato lavoro a 11 mila persone sparse in tutta la Svizzera Testo: Andreas Dürrenberger Infografica: Daniel Röttele

In Svizzera dal 1928: I principali dati delle industrie Migros 1925

1930

Fondazione della Migros Anno di fondazione: Fatturato netto, anno 2012: Collaboratori, anno 2012: Prodotti:

1940

1950

1960

1970

Midor

Jowa

Mifa*

Bischofszell

Chocolat Frey

Delica

Elsa

La Riseria

Micarna

1928 220 mio 615 Biscotti, prodotti da forno, snack, miscele per prodotti da forno, gelati, polveri per dessert

1931 786 mio 3199 Pani, pasticceria, paste per prodotti da forno, surgelati, senape, pasta

1934

1945

1950

– –

524 mio 866

346 mio 766

Liscive, detersivi, prodotti per la pulizia, margarina, grassi alimentari

Pietanze pronte, prodotti a base di patate, confetture, succhi di frutta, ice tea, bevande miste a base di latte, vermicelli

Tavolette di cioccolato, palline, praline, prodotti stagionali, gomma da masticare

1954 234 mio 228 Caffè, sistemi a capsule, prodotti secchi e frutta secca

1955 612 mio 565 Latte, bevande miste a base di latte, panna, jogurt, formaggio fresco e ricotta, dessert, prodotti di soia, aceto, salse per insalate

1957 23 mio 25 Riso

1958 1246 mio 2462 Carne fresca, pollame, affettati, specialità di carne secca, seafood

1980

1990

2000

2010

Aproz

Mibelle*

Mifroma

Scana

Mérat

Dörig

Favorit

Cash+Carry Angehrn

Bergsenn**

1958

1960

1964

2002

2004

2008

2010

2012

2013

96 mio 124

378 mio 963

331 mio 246

254 mio 253

71 mio 120

28 mio 12

12 mio 29

156 mio 413

– 41

Acqua minerale, succhi di frutta, bevande da tavola, bibite dolci, sciroppi, concentrati di soda

Prodotti cosmetici, per la cura del corpo e del viso, per l’igene orale, per i capelli, creme solari, prodotti per la cura dei bebè

Formaggi a pasta extradura, formaggi a pasta dura, formaggi a pasta semidura, formaggi molli, formaggio fuso

Fornitura all’ingrosso per gastronomia, ospedali e case di cura, ecc.

Prodotti di gastronomia (carne e seafood)

Formaggio Appenzeller e specialità casearie

Pollame fresco Forniture e prodotti a base all’ingrosso di di pollame prodotti per la gastronomia e il commercio al dettaglio

* dal 2012 inglobata nel Gruppo Mibelle, incluso il fatturato della Mibelle Ltd. England

Specialità di formaggio di montagna grigionese

** dal 2013 appartiene alla Mifroma


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Industria Migros

«Non si dovrebbe essere meno cari, ma migliori» Intervista L’economista Thomas Straubhaar spiega perché l’industria svizzera continua ad andare bene.

Christian Kerber

E consiglia alle imprese di non puntare solo sui prodotti, ma sempre di più sui processi industriali

Ralf Kaminski Professor Straubhaar, la Svizzera è sorprendentemente resistente alle crisi, come mai?

Il primo successo è proprio che esiste ancora un’industria, mentre molti altre nazioni come l’Inghilterra o la Francia l’hanno abbandonata o trascurata. In Svizzera, invece, esiste ancora un’ampia varietà. A ciò si aggiunge l’eccellente qualità della ricerca applicata e il sistema di istruzione a due livelli, che promuove l’innovazione industriale. Inoltre, l’industria elvetica ha riconosciuto in anticipo che bisogna concentrarsi meno sui prodotti e più sui processi di produzione. I prodotti si possono copiare facilmente e fabbricare da qualsiasi altra parte con costi minori. Per contro, i processi industriali possono essere protetti molto meglio dalla concorrenza. Perché molti altri Paesi hanno ridotto la loro industria, mentre la Svizzera no?

Per molto tempo si è affermato che agricoltura e industria non avessero più un futuro, perciò molti governi hanno puntato sui servizi. Queste ultimi, però, costituiscono un settore economico molto volatile, che si può trasferire molto rapidamente in un’altra nazione o in altri continenti. Il vincente modello svizzero consiste nel fatto che il ceto medio ha costruito un’industria dei servizi attorno al suo nucleo di competenze industriali. Ad esempio, imprese altamente specializzate fabbricano strumenti di precisione e vicino a loro hanno bisogno di ricerca e sviluppo, as-

sicurazioni, trasporti. Altri Stati hanno voluto specializzarsi troppo, ad esempio in Gran Bretagna tutto il Paese ruota attorno alla piazza finanziaria di Londra.

Al momento non tutte le industrie vanno bene: farmaceutica e orologeria prosperano, meno bene va ai macchinari e alla metallurgia. Quali sono i motivi?

C’è stata una fase in cui l’industria elvetica era diventata nervosa a causa della forza del franco. La Banca Nazionale ha agito bene introducendo il tasso di cambio minimo rispetto all’euro?

Non è che determinati settori vanno in generale solo bene e altri solo male. Successi o insuccessi dipendono molto da chi è a capo di un’azienda; ci sono imprenditori che ottengono cattivi risultati in buoni periodi e altri che ne ottengono di buoni in brutti momenti. L’industria svizzera si caratterizza per essere composta da molte piccole imprese (familiari) e dai buoni rapporti esistenti fra datori di lavoro e dipendenti. Ne consegue un’enorme flessibilità sotto ogni aspetto.

Il suo successo ha dato totalmente ragione a questa strategia. Ma è stata una decisione piena di rischi, e tale resta, perché intervenendo a sostegno del franco la Banca Nazionale è diventata uno dei massimi speculatori mondiali sulle valute. Deve sperare che l’euro non crolli, altrimenti dovrebbe svalutare i molti euro accumulati nel suo portafoglio. Una cosa del genere può subito costare alcuni miliardi, come abbiamo appena visto con l’oro. Ma come misura d’urgenza è stata sicuramente una giusta decisione. Per quanto tempo c’è ancora bisogno di una soglia minima?

Sembra che l’Europa si stia lentamente rimettendo in sesto. E più le condizioni sono stabili, minore è la pressione sul franco. Se l’euro si rivaluta, la Banca Nazionale potrebbe addirittura ricavarne dei guadagni. Una scadenza precisa per abolire la soglia minima non dipende da lei. Potrebbe procedere a piccoli passi e, in caso di corsi dell’euro in rialzo, potrebbe ridurre con discrezione le sue riserve di valuta europea. Successivamente si potrebbe quindi annunciare che il tasso minimo è stato abolito.

Esistono però anche settori che sono sotto pressione, è vero?

Naturalmente ci sono aziende che dipendono da determinati cicli, come i molti fornitori dell’industria automobilistica tedesca. Se questa ristagna, ce ne accorgiamo anche noi. In questo caso ci vorrebbe forse la flessibilità e la propensione al rischio per seguire le aziende tedesche che trasferiscono i loro siti di produzione in Asia o Sudamerica. Alcuni settori che richiedono molta energia elettrica sono tornati a stabilirsi negli USA, dove improvvisamente, grazie alla tecnica estrattiva del gas denominata fracking, le tariffe energetiche sono diventate molto meno care. In generale vale la regola: se non lo si è già fatto, si dovrebbe cominciare a puntare maggiormente sui processi industriali piuttosto che sui prodotti. In qualsiasi momento, da qualche parte del mondo qualcuno può produrre a minor prezzo

rispetto a noi, perciò una ditta svizzera non dovrebbe essere meno cara, ma piuttosto migliore. Allora può anche permettersi prezzi più alti. Come valuta la situazione dell’industria alimentare?

Al momento esistono due macro tendenze, che si ripercuotono positivamente sull’agricoltura e di conseguenza sull’industria alimentare elvetica. Una è la globalizzazione: la popolazione mondiale continuerà a crescere ancora per qualche anno, contemporaneamente ci sarà sempre più gente il cui benessere migliorerà gradualmente. Di conseguenza crescerà la domanda di generi alimentari non solo a livello quantitativo ma anche qualitativo. Allora la Svizzera potrà mettere sul piatto i suoi punti di forza, avendo un’enorme esperienza e competenza nella coltivazione, la trasformazione, la raffinazione e la conservazione degli alimenti. Qui il mercato del futuro è enorme. E l’altra tendenza?

Quella dei prodotti locali, ovvero i prodotti della regione per la regione. Il «tipicamente locale» è diventato più importante del biologico. Oggi si vuol sapere da quale fattoria proviene un uovo e come vive la mucca la cui carne si trova nel nostro frigorifero. Per questo si è anche pronti a pagare di più. E, comportandosi da pioniere, la Migros ha riconosciuto questa tendenza in anticipo. Migros vende in gran parte marchi propri e fa fabbricare i suoi prodotti da 18 aziende proprie, che esportano anche all’estero. Come giudica questa filosofia commerciale?

Il successo della Migros, e anche di altre società con marchi propri, parla da sé ed è ammirato e qualche volta emulato. Il cliente apprezza la possibilità di poter scegliere tra un costoso prodotto di marca e un altro prodotto più a buon mercato, ma che ha la stessa qualità. Qui in Germania, Edeka e Rewe si stanno sforzando di imitare questo concetto, anche nei Paesi anglosassoni vi sono tentativi analoghi. Quali sfide intravede per il futuro del concetto delle marche proprie?

Dal mio punto di vista, la differenza decisiva è costituita dal limitarsi soltanto a copiare quel che fanno le grandi marche oppure che, con i propri marchi, si riescano a inseguire subito le nuove tendenze o addirittura a lanciarle. Ad esempio, un nuovo trend è la dieta personalizzata. In futuro si farà ancora più attenzione alla composizione di quel che si mangia: quante calorie, quante fibre, quante vitamine assumo? Molte persone misureranno quotidianamente i diversi valori, dal sangue al tenore di grassi. Vorranno raggiungere determinati valori ideali e poter valutare la propria dieta. Diventerà un mercato gigantesco, assieme agli integratori alimentari, come per esempio i cosiddetti «nano-alimenti intelligenti» o le sostante chimiche per migliorare l’umore. Per far sopravvivere l’industria, innovazione e qualità sono fondamentali. Come si fa a garantirle o a promuoverle?

C’è bisogno di gente intelligente con sufficiente libertà per sperimentare. E naturalmente una buona formazione. Non è molto importante un’organizza-


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Industria Migros zione precisa, ma piuttosto che vi sia abbastanza denaro a disposizione per un’ampia gamma di possibili vie formative da percorrere. Lo standard di vita elvetico è alto, i consumatori sono relativamente sofisticati, hanno un forte potere d’acquisto e sono critici: un terreno di coltura ideale per l’innovazione. Per questo motivo la Svizzera è considerata un buon mercato di prova per introdurre nuovi prodotti, perché le innovazioni sono costose. Attualmente, lo si può osservare bene nel campo delle stampanti 3D: nonostante costino molto, in Svizzera sono già in uso. Più utilizzatori ci sono, più apparecchi si vendono e più produttori ci sono, così i prezzi calano attraendo ulteriori compratori. Lo Stato può fare di più? Altri Paesi hanno un ministero dell’industria.

Non sarebbe adatto al carattere della Svizzera, con la sua struttura decentrata ed eterogenea. Dove lo Stato potrebbe eventualmente contribuire è nella raccolta di capitali per società start-up innovative. Potrebbe, ad esempio, fornire qualche sostegno con privilegi fiscali nella fase iniziale. Il successo delle diverse iniziative anti-immigrazione potrebbe creare problemi al settore industriale?

Chi pensa che si possa accantonare la libera circolazione con l’Unione Europea e rinegoziarla, sceglie una strategia suicida. La UE non può fare ulteriori concessioni nei confronti della Confederazione, perché anche all’interno dell’Unione esiste già una discussione del genere e le richieste di eccezioni saranno categoricamente respinte dalla Commissione europea. Se si comincia a smontare le singole parti degli accordi bilaterali, è probabile che crolli l’intero edificio. Sarebbe fatale, perché il mercato europeo è vitale per la Svizzera. Senza il libero accesso, il successo dell’economia elvetica sarebbe minacciato. Non lo si sottolinea mai abbastanza: questo successo non è nato «malgrado» l’alta immigrazione, ma proprio grazie a lei. Porre restrizioni, a medio e lungo termine sarebbe come spararsi in una gamba.

anche atti illegali. Inoltre, oggi le transazioni avvengono tramite Internet alla velocità di un nanosecondo e in un mondo virtuale completamente anonimo. In questo contesto, una procedura penale da parte delle autorità giudiziarie nazionali diventa difficile. Inoltre, frequenti cambiamenti di datore e luogo di lavoro deresponsabilizzano i singoli operatori. Non esiste quasi più la lealtà verso il datore di lavoro, i colleghi e i clienti. Già solo un unico grande affare fa sembrare che valga la pena approfittare delle relazioni professionali per trarne il massimo tornaconto personale. Ci sono miglioramenti in vista?

Nel migliore dei casi saranno lenti. Ci vogliono anni per costruire la fiducia, ma solo secondi per distruggerla. Molte delle opzioni elogiate dagli operatori globali come innovazioni finanziarie devono prima dimostrarsi tali. Comunque, la finanza locale con rapporti personali con i clienti che durano tutta la vita ha guadagnato attrattiva: aumenta le chance che siano curati gli affari sostenibili per un reciproco e duraturo interesse. Ad Amburgo Lei dirige un gruppo di pensiero, un cosiddetto think-tank. Dove vede attualmente le principali sfide per l’Europa e il mondo?

Il commercio mondiale dovrebbe ravvivarsi nei prossimi anni, ma il sistema commerciale internazionale si trova sotto enormi pressioni. Il rischio più grande per l’economia mondiale –

dunque anche per la Svizzera – è il crescente scetticismo nei confronti della globalizzazione. In molti Paesi vi è un ritorno a pensare in termini nazionali e una tendenza verso misure protezionistiche, non tanto tramite le dogane ma attraverso la manipolazione dei cambi. La Svizzera vi ha partecipato, ma anche Giappone, Brasile, Russia e Turchia hanno svalutato massicciamente le loro valute. È frustrante che in seno all’Organizzazione del commercio mondiale (WTO) non si trovi mai un accordo. In questa sede potrebbero portare il loro contributo anche le piccole nazioni, perché ogni Stato, grande o piccolo che sia, ha un voto. Invece, i grandi Paesi come gli Stati Uniti cercano di negoziare separatamente accordi commerciali regionali, come i partenariati transpacifico e transatlantico. A farne le spese sono chiaramente Paesi terzi come la Svizzera. Lei ha annunciato che nel 2014 lascerà la direzione dell’Istituto di economia mondiale di Amburgo, che guida da 15 anni. Perché e quali sono i suoi programmi futuri?

Ho capito che è tempo di sviluppare intellettualmente nuove idee. La crisi del mercato finanziario degli ultimi anni ha rimesso in questione i vecchi concetti in modo drammatico. Ad esempio, che i mercati finanziari siano efficienti oppure generino utilità per i clienti. L’evidenza empirica dimostra, invece, che i mercati finanziari possono fallire dram-

maticamente e usare le proprie innovazioni soprattutto per le istituzioni finanziarie. C’è bisogno di nuove risposte e in questo momento mi manca il tempo per riflettere in modo strategico sui principi fondamentali. È qualcosa che voglio cambiare. Negli ultimi anni molti tedeschi si sono trasferiti in Svizzera, mentre lei ha fatto il percorso contrario. Come si vive ad Amburgo?

Molto bene. Tanto più trovo ingiusto che molti tedeschi siano trattati in Svizzera come stranieri, mentre io qui sono diventato un cittadino a pieno titolo. Praticamente ogni giorno mi si risponde gentilmente quando parlo il mio dialetto svizzero oppure gente totalmente estranea mi spiega quanto apprezza la Svizzera e ammiri il suo successo economico. Nel nord della Germania noi svizzeri siamo accolti a braccia aperte. Quando parlo dei nostri successi mi si ascolta in modo aperto e interessato. Se in Svizzera racconto dei successi tedeschi, rischio di sentirmi rispondere «quelli non hanno niente da insegnarci su come fare meglio le cose». Cosa le manca della Svizzera?

Alcune curiosità attorno all’Industria Migros e ai suoi prodotti ■ Nel 1925 si misero in moto per la prima volta i camion di vendita Migros, per portare ai clienti zucchero, pasta, riso, sapone e grasso di cocco. Il primo articolo Migros venduto fu però un pacchetto di caffè di miscela brasiliana. E perché no? In fondo Gottlieb Duttweiler, prima di fondare la Migros, era stato un coltivatore di caffè in Brasile. ■ Questo caffè Dutti l’aveva già bevuto: nel 1953 il fondatore della Migros, Gottlieb Duttweiler, aveva inventato personalmente la marca di caffè Exquisito, che si può tuttora trovare sugli scaffali della Migros.

Lo spassionato pragmatismo. E l’alta qualità dei generi alimentari presenti nei negozi. Tornerà un giorno o l’altro?

Sono spesso in Svizzera per lavoro e ogni volta sono contento di venire. Ma sono così ben integrato qui in Germania che al momento non mi pongo la domanda.

■ Stimolante nazionale: con le sue marche proprie, la Migros è il principale venditore di caffè della Svizzera. Ne vende 7476 tonnellate all’anno, il che corrisponde a 1356 milioni di tazze. Nel 2012 l’intera popolazione elvetica ha bevuto in totale 4600 milioni di tazze di caffè. ■ La Midor è nota per le sue frittelle di carnevale: allineando una accanto all’altra quelle prodotte durante una stagione, si otterrebbe una fila lunga 4700 km. La distanza che separa Meilen, il luogo di produzione della Midor, da Dubai. ■ Foca, koala, scimmia e orso: i gelati alla panna col bastoncino della Midor sono prodotti di culto. Ogni anno ne vengono consumati più di 25’000’000 di pezzi. Ciò significa che ogni abitante della Svizzera mangia tre di questi gelati all’anno.

La piazza finanziaria svizzera è stata colpita da crisi e scandali, il segreto bancario per i residenti all’estero è praticamente crollato. Come giudica il futuro delle banche elvetiche?

Abbastanza positivo. Tuttavia anche loro devono abbandonare una mentalità da oasi: il capitale finanziario non conosce la fedeltà, passa rapidamente da un’oasi all’altra. E sono finiti i tempi in cui il resto del mondo era disposto ad accettare le eccezioni svizzere. E poi, le banche elvetiche non ne hanno neppure bisogno. Restano estremamente competitive grazie alla buona qualità dei loro servizi, ai collaboratori meglio formati e più mobili del mondo e alla stabilità della Confederazione.

■ Precursore: Midor produce gelato dal 1949. Era un’epoca in cui ancora poche economie domestiche disponevano di un refrigerante e il gelato era considerato un prodotto di lusso. ■ La Jowa quale set cinematografico: nel 1978 alcune scene de I fabbricasvizzeri furono girate nell’allora sede principale della Jowa a Zurigo-Albisrieden. Nel film, Francesco Grimolli, desideroso di naturalizzarsi, lavora nella pasticceria dove prepara torte Foresta Nera.

È comunque abbastanza sorprendente il fatto che UBS e CS sembrano avere le mani in ogni scandalo che viene denunciato alle autorità. Com’è potuto accadere che i dirigenti di banca abbiano perso la bussola morale in questo modo?

Sono tre i fattori che potrebbero aver recitato un ruolo: globalità, anonimato e mobilità. La globalizzazione ha fatto diventare giganteschi gli importi che vengono trattati sul mercato finanziario. Si tratta di transazioni quotidiane dell’ordine di miliardi. Altrettanto elevata è la propensione al rischio di commettere

■ Record per gli apprendisti Jowa: nel 1984, alla fine della loro formazione gli apprendisti della Jowa hanno prodotto la salsiccia in crosta più lunga del mondo. Misurava 204 metri e valse ai novelli tecnici alimentari un’iscrizione nel libro dei Guinness dei primati.

Economista e capo di un think-tank Thomas Straubhaar (56 anni) è professore di economia all’Università di Amburgo e direttore del locale Istituto di economia mondiale (HWWI). In questo think tank lavorano oltre 50 persone, che generano un fatturato annuo di 4 milioni di franchi. Cresciuto a Burgdorf (BE), il professor Straubhaar vive ad Amburgo da 20 anni, è sposato con una svizzera e ha tre figli.

Christian Kerber

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Lo sapevate che…?

■ Un incendio e un miracolo di Pasqua: nel 2002, nella centrale di distribuzione di Volketswil un violento incendio distrusse buona parte dell’assortimento pasquale della Chocolat Frey, del valore di 30 milioni di franchi. Solo grazie all’enorme impegno profuso da collaboratori, fornitori e addirittura concorrenti, con una produzione d’emergenza si riuscì a produrre nuovamente l’intera quantità di conigli di Pasqua e a fornirli per tempo ai negozi.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2014 • N. 07

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Industria Migros

Contadini e industria solido partenariato ELSA L’Industria Migros trasforma un quarto di tutti i prodotti agricoli svizzeri. La famiglia contadina bernese Räz,

per esempio, vende il latte delle loro vacche da decenni alla Elsa Beat Matter Davanti alla fattoria della famiglia Räz a Rapperswil (BE) i lampioni stradali non sono ancora accesi. Davanti alla grande stalla dietro casa ci attende il giovane contadino Kaspar Räz (30). Alla fattoria è appena passata l’autobotte della latteria Elsa, una delle imprese che fanno parte di Industria Migros. Il camion arriva ogni due giorni. Oggi dall’azienda dei Räz ha preso in consegna 4800 litri di latte. L’agricoltore è soddisfatto. «Vogliamo fare colazione?», chiede in dialetto bernese l’uomo, alto e di robusta corporatura, avviandosi verso casa. Come Räz sono migliaia gli agricoltori svizzeri che lavorano con successo con la Migros. Le aziende dell’Industria Migros trattano circa un quarto di tutti i prodotti agricoli elvetici. Ad esempio, l’anno scorso l’impresa di trasformazione di carni Micarna ha comprato e lavorato un maiale svizzero su quattro, un vitello svizzero su cinque e oltre il 43 percento del pollame elvetico. La panetteria della Migros Jowa ha comprato grano da un quinto dei 20 000 agricoltori membri dell’organizzazione IP-Suisse. L’azienda di trasformazione del latte ELSA ha lavorato 270 000 tonnellate di latte, ciò che corrisponde a non meno dell’8% di tutta la produzione lattiera elvetica. «Apprezziamo molto le prestazioni della Migros nella trasformazione e nella vendita. La società si impegna con molta passione a favore dei prodotti svizzeri», dichiara Markus Ritter, consigliere nazionale e presidente dell’Unione svizzera dei contadini (cfr. intervista qui sotto). Durante la colazione, Kaspar Räz fa rapporto a suo padre Fritz (62 anni). Assieme dirigono l’azienda di 44 ettari. Il papà iniziò già vent’anni fa a rifornire di latte la Migros. Da allora questo cliente affidabile gli ha sempre dimostrato fiducia, dichiara l’agricoltore.

Dopo che la piccola vecchia stalla con 30 vacche non era più conforme alle normative, si dovette prendere una decisione fondamentale: la famiglia Räz fece un grosso investimento in una nuova

Un’infinità di dati vengono elaborati statisticamente. Se si evidenziano anomalie, scatta l’allarme. In tal modo, eventuali problemi possono essere diagnosticati precocemente. Come riassume Räz, la

Kaspar Räz nella sua fattoria a Rapperswil (BE). (Tomas Wütrich)

stalla e si concentrò sulla produzione di latte. «Gli investimenti vanno a beneficio degli animali e di conseguenza della qualità del latte», dice Räz. Nella nuova stalla oggi si aggirano liberamente 90 mucche da latte, 50 manzi e qualche vitello. Il giovane agricoltore conosce ogni animale per nome. Dietro le quinte, però, c’è un computer che detta il ritmo. Ogni mucca ha un sensore nel collare che comunica con il computer. Quanti passi compie il bovino ogni giorno? Quanto e cosa mangia? Quanto latte dà?

nuova tecnologia ha dimezzato lo sforzo fisico, mentre il lavoro di controllo è raddoppiato. «Per quanto riguarda il latte la pulizia è il criterio fondamentale. Se ci si specializza su un prodotto, questo non deve avere il minimo difetto», dice Räz. Va tenuta particolarmente pulita la sala di mungitura con 16 postazioni. Dopo la mungitura – ogni mucca dà in media dai 25 ai 30 litri al giorno - il latte scorre attraverso tubi di metallo direttamente in un locale attiguo. Qui c’è un serbato-

«Migros promuove i prodotti svizzeri» Il Consigliere nazionale PPD Markus Ritter (SG) è il «primo contadino» del Paese. Come presidente dell’Unione Svizzera dei Contadini rappresenta 57 000 aziende. In questa intervista illustra la collaborazione con la Migros. Signor Ritter, il 2014 è stato dichiarato dall’Onu Anno dell’agricoltura familiare, cosa si aspetta da questo evento?

Simboleggia il valore che si dà a questa realtà e ne siamo riconoscenti. Nel mondo il 70 percento dei generi alimentari sono prodotti da aziende agricole familiari. In Svizzera addirittura il 95 percento delle aziende agricole sono a conduzione familiare. L’Unione dei contadini è una delle più influenti organizzazioni del Paese. C’è davvero bisogno di un simbolo come l’anno dell’ONU?

Durante quest’anno non vogliamo diventare più influenti. Vogliamo utilizzarlo per avviare un dialogo con i consumatori e mostrare loro le nostre prestazioni quotidiane. La Migros trasforma circa un quarto di tutti i prodotti dell’agricoltura elvetica. Come vive lei questa cooperazione tra contadini e l’Industria Migros?

La collaborazione è molto apprezzata. Due volte l’anno c’è un incontro ad alto livello. Il dialogo è sempre orien-

io da 6000 litri dove il latte viene stivato e rimescolato ad una temperatura di 4 gradi, affinché non si formi uno strato di panna. Quando, ogni due giorni alle 7 di

tato agli interessi di entrambi i partner. È una cosa che apprezzo molto. Come apprezzo i servizi della Migros nella trasformazione e nella vendita dei generi alimentari. La società s’impegna con tutta l’anima a favore dei prodotti svizzeri. E noi lo percepiamo. Migros vorrebbe comprare buoni prodotti a prezzi ragionevoli, mentre i contadini vorrebbero vendere più cari i buoni prodotti. Di fatto non ne risulta un conflitto?

È così in ogni mercato. L’interesse di base della Migros coincide completamente con il nostro: vogliamo fornire alla popolazione svizzera prodotti svizzeri più buoni possibili. Su questo punto non c’è alcuna differenza. L’Industria Migros si orienta sempre di più verso i prodotti sostenibili. Cosa significa per l’agricoltura svizzera?

Chi vuol produrre con successo deve orientarsi con flessibilità verso le esigenze di mercato. Probabilmente, la domanda di prodotti sostenibili crescerà ulteriormente. Personalmente, lo vedo come un mercato vitale per il futuro e una chance per la creazione di valore aggiunto. Sul sito Internet dell’Unione dei contadini si legge che «il libero mercato e la globalizzazione esigono da noi notevoli adeguamenti, a volte anche dolorosi». Come si prepara l’agricoltura svizzera agli scenari dell’apertura del mercato?

Sembra che la tendenza alla liberalizzazione del settore agricolo si sia arrestata nel 2008. Il libero scambio dei prodotti agricoli con la UE è stato sospeso, nell’ambito degli accordi bilaterali siamo riusciti a integrare gli interessi dell’agricoltura. La protezione delle frontiere è una misura fondamentale nella politica agricola, senza la quale la produzione di generi alimentari in Svizzera non avrebbe alcun senso dal profilo meramente economico. Vede delle possibilità per conquistare nuovi mercati all’estero assieme all’Industria Migros?

Con alcuni prodotti lattieri, soprattutto il formaggio, vedo qualche ristretta possibilità. Perché l’industria lattiero-casearia oggi è l’unico settore in cui produciamo più di quanto consumiamo a livello interno. Per ora. Se si volesse intensificare l’esportazione, ciò andrebbe a scapito dell’autosufficienza. E questo non è il nostro obiettivo. Quali obiettivi vuole raggiungere assieme all’Industria Migros?

Desideriamo offrire una produzione che sia forte e collaborare con una solida industria di trasformazione e un altrettanto forte commercio al dettaglio. L’obiettivo è sempre la creazione di una catena di valore aggiunto, in cui tutti possano guadagnare qualcosa. Cosi possiamo assicurare il futuro di tutti i partner. / BM

mattina, passano i veicoli di raccolta del latte, il lavoro dei produttori entra in contatto con i processi dell’Industria Migros. Dopo un saluto e qualche parola, l’autista preleva ogni volta un campione dal serbatoio del latte. Verrà poi registrato elettronicamente e analizzato nello stabilimento lattiero. L’autista dell’autobotte aspira il latte tramite un macchinario e poi fa partire l’impianto di pulizia del serbatoio e delle condotte. Con il carico di latte prosegue il suo giro dagli altri contadini dei dintorni. Ogni giorno, tra 30 e 35 camion consegnano circa 750 000 litri di latte alla grande latteria ELSA di Estavayer-le-Lac sul Lago di Neuchâtel: latte intero tradizionale, latte Bio, latte Heidi, latte Terra Suisse, tutto ben suddiviso e tracciabile fino alla fattoria di provenienza. ELSA trasforma e confeziona circa 650 prodotti ripartiti in quattro categorie principali: latte e latte da bere, yogurt, dessert, formaggio fresco e ricotta. Prima che gli autisti scarichino il latte, viene prelevato e analizzato un altro campione dal camion. Questo test dura solo dieci minuti. Se il laboratorio dà il via libera, l’autista scarica. Per i generi alimentari i requisiti di sicurezza sono molto elevati, dichiara Urs Egger, responsabile della centrale di controllo

del grande impianto lattiero-caseario. Perciò i procedimenti sono estremamente automatizzati e in gran parte eseguiti all’interno di un circuito chiuso. Latte, yogurt o panna raramente sono visibili nella grande latteria. Dopo ogni fase di lavorazione vengono prelevati nuovi campioni. La centrale di controllo di Egger è il cervello dell’impianto. Un operatore siede davanti a decine di schermi. Assicura che in qualsiasi momento ci sia sufficiente disponibilità di latte nei vari reparti, per poter soddisfare in tempo tutte le ordinazioni. Inoltre controlla anche il cuore dell’azienda, le tre centrifughe. Il latte consegnato viene centrifugato prima di essere ulteriormente trasformato e suddiviso in latte scremato e panna. Ogni centrifuga lavora 25’ 000 litri all’ora. Ma non sempre basta. «Per essere in grado di lavorare più latte secondo i bisogni, sono disponibili vari serbatoi intermedi», spiega Egger. Nel solo reparto del latte pronto al consumo, tra un rumore assordante cinque impianti sterilizzano fino a 100’ 000 litri di latte ogni ora. Spiega Egger: «Il latte viene riscaldato con un colpo di vapore a 150 gradi. Nessun batterio sopravvive». Poi si raffredda e viene omogeneizzato. Dopodiché è immesso in confezioni sterilizzate. Vi si appongono coperchi ed etichette, ed ecco fatto. Migliaia di confezioni tetra pack scorrono quotidianamente sul nastro trasportatore. Infine, vengono impilate su palette da 600 pezzi e riposte su piattaforme. Nel magazzino c’è posto per 3000 palette. Nel reparto dello yogurt c’è più silenzio, ma l’aria è impregnata di un odore pungente. Non si vedono yogurt in giro, se ne percepisce solo l’odore. Il latte arricchito di proteine viene acidificato a 35 gradi centigradi all’interno di serbatoi. «Una volta che si addensa fino a raggiungere la consistenza desiderata, il processo viene arrestato abbassando la temperatura a cinque gradi», spiega Egger. Successivamente si mischieranno frutta o altri ingredienti, prima di immettere gli yogurt in barattoli sterilizzati pronti per la consegna. Nella fase di riempimento, il prodotto è visibile per un attimo. La prossima volta che lo si vedrà sarà quando il consumatore aprirà il coperchio del barattolo di yogurt. Anche dopo 18 anni trascorsi all’ELSA, Urs Egger non ha perso il gusto per i prodotti a base di latte. «Il latte è la mia passione e così sarà sempre», dice il maestro casaro. È esattamente la stessa cosa che aveva detto il giovane agricoltore Räz durante la colazione mattutina.

Le voci dell’agricoltura sostenibile Urs Brändli, presidente di Bio Suisse, associazione mantello dei produttori biologici svizzeri: «La domanda di prodotti provenienti da famiglie contadine Bio svizzere da parte delle aziende di trasformazione della Migros cresce di continuo. Ciò dimostra che Industria Migros propone prodotti Bio che incontrano i gusti dei consumatori. Gli specialisti di Industria Migros partecipano in modo costruttivo ai regolari incontri che avvengono in seno al nostro settore. Ciò rappresenta una sana base per la comprensione, la correttezza e la fiducia tra i singoli attori della catena di

creazione di valore aggiunto. La Migros e le sue imprese di trasformazione apportano in tal modo un prezioso contributo non solo al crescente mercato Bio in Svizzera, ma anche all’agricoltura del futuro orientata alla sostenibilità». Res Stalder, presidente di IP Suisse, l’Associazione svizzera degli agricoltori e delle agricoltrici a produzione integrata:

«Secondo me, la vera anima svizzera c’è solo se si produce e si trasforma in Svizzera. Senza una forte industria di trasformazione nazionale, della quale fanno parte anche le aziende di Industria Migros, non esisterebbe una forte agricoltura svizzera».


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Industria Migros

Lo sapevate che…? Alcune curiosità attorno all’Industria Migros e ai suoi prodotti ■ Un cuore per i polli: per la sua produzione la Midor utilizza esclusivamente uova da allevamento al suolo o all’aperto. Per i suoi biscotti «Tradition» si impiegano addirittura solo uova di galline svizzere allevate all’aperto. In tal Modo la Midor incentiva lo smercio di uova svizzere e dà un importante segnale all’industria.

dei Take Away come pure dei servizi Party e Catering provengono dall’industria propria della Migros. ■ Marche mondiali dal Vallese: Aproz non produce solo acqua minerale e bibite dolci per la Migros, ma in licenza produce anche Pepsi, 7UP e Orangina. ■ Intelligente e più volte riutilizzabile: già nel 1980 l’allora Mifa AG, che ora appartiene al Gruppo Mibelle, lanciò sul mercato il detersivo liquido nella confezione di riserva. In tal modo l’impresa agì da pioniere in Svizzera.

La famiglia Böni: tre generazioni collaborano con la Midor. (René Ruis)

A casa in azienda Midor Una solida tradizione: da ben tre generazioni

i membri della famiglia Böni-Pappa lavorano per la Midor, la più vecchia tra le aziende dell’Industria Migros Michael West L’azienda sulle rive del Lago di Zurigo rappresenta la culla della produzione in proprio della Migros: già nel 1928 Gottlieb Duttweiler comprò l’allora «Alkoholfreie Weine AG Meilen», perché voleva spezzare la dittatura sui prezzi dei fornitori e possedere una fabbrica propria. Oggi la ditta si chiama Midor ed è specializzata in dolci tentazioni: l’azienda dell’Industria Migros è leader del mercato al dettaglio svizzero per biscotti e gelati. Un grosso capitolo della storia Midor l’ha vissuto anche la famiglia Böni-Pappa: l’oggi 78enne Heidi Pappa è originaria dei Grigioni. Ricorda ancora bene quando nel 1959 iniziò a lavorare nell’impresa di Meilen. Durante il turno serale incollava con la glassa figure di Babbi Natale sul pan di zenzero, impacchettava le meringhe appena uscite dal forno, avvolgeva con cura nella carta le frittelle di carnevale.

Heidi Böni-Pappa: «il nostro fu un vero matrimonio Midor, tutto il personale si schierò come picchetto d’onore per noi sposi» Regolarmente, nel reparto di produzione risuonava in italiano il grido «Cambio!», che segnalava un cambiamento d’attività agli operai, all’epoca perlopiù italiani. «Non bisognava fare troppo a lungo la stessa cosa; si variava molto», racconta Heidi Pappa. «Questo modo di lavorare mi piaceva. In più, noi donne del turno serale andavamo d’accordo». Pertanto, non ebbe nulla da obiettare quando la figlia Daniela (oggi 57enne) iniziò a lavorare alla Midor dopo l’apprendistato di parrucchiera. La giovane cominciò nella mensa aziendale, poi si trasferì al controllo di qualità. Daniela Pappa, per esempio,

controllava a campione se il peso dei sacchetti di biscotti e di altri prodotti fosse esatto. Per quella mansione faceva il giro dell’intero stabilimento. Il caso volle che, durante il suo giro, finisse spesso a chiacchierare con un giovane pasticcere di nome Paul Böni (oggi 63enne). Ma ci fu un capo al quale la cosa dava fastidio. «Però un altro responsabile ci prese sotto la sua protezione», ricorda Paul. «Disse che dovevano lasciarci in pace, perché si vedeva che ci volevamo bene». Daniela e Paul divennero una coppia e si sposarono negli anni Ottanta. «Fu un vero matrimonio Midor», racconta Daniela sorridente. Tutto il personale si schierò come picchetto d’onore per gli sposi, pasticceri e panettieri indossavano le loro candide divise da lavoro e brandivano le fruste da cucina. Negli anni seguenti i due coniugi hanno svolto alla Midor compiti di ogni tipo. Guardandosi indietro sembra quasi che si siano occupati di tutto: Daniela ha lavorato, tra l’altro, nella produzione pasticcera, in lavanderia, nell’ufficio postale e come telefonista. Paul, invece, ha mescolato gli ingredienti della pasta e ha lavorato alle macchine che ricoprono i biscotti di cioccolata. Ha contribuito a costruire un impianto di pasticcini e per un certo periodo è stato attivo nella formazione degli apprendisti. Fatta eccezione per qualche anno, quando lavorò a bordo di una nave mercantile, il baffuto signore aveva dedicato tutta la sua vita professionale alla Midor. E non mai avuto un attimo di rimpianto per questa fedeltà all’azienda: «La Midor tratta i collaboratori in modo corretto, offre loro un posto di lavoro sicuro e una cassa pensioni eccellente. E chi si dà da fare e lavora bene, fa sicuramente carriera all’interno della ditta». Tuttavia, Paul e Daniela sono rimasti un po’ confusi quando anche i loro due figli, Reto e Andreas, sono finiti a lavorare per la Midor. «Mi chiedevo se ciò non desse adito a chiacchiere», confessa il papà. «Non volevamo che qualcuno pensasse che entrambi fossero stati assunti solo perché provenivano da una famiglia Midor».

La Midor in breve L’azienda della M-Industrie di Meilen (ZH) conta circa 600 collaboratori. Midor produce cioccolata svizzera, panna, latte e burro e un’infinità di biscotti e specialità di gelateria. Per esempio, con il marchio Blévita la Midor produce enormi quantità di uno spuntino molto amato. Se si mettessero uno accanto all’altro tutti gli snack Blévita venduti nel 2013 si potrebbero ricoprire 225 campi di calcio. Ma quei timori erano completamente infondati, perché i figli si sono fatti valere sin dal primo giorno di servizio. Reto (27 anni), che ha una formazione come assistente della logistica, oggi guida un carrello elevatore e carica biscotti e altri dolciumi sui camion o sui vagoni merci. Andreas (30 anni) ha svolto diverse mansioni, fra cui miscelatore di polvere alimentare o tostatore di nocciole. Oggi è capo-squadra nel reparto di manutenzione dei macchinari e fa in modo che in fabbrica tutto, letteralmente, giri nel verso giusto. «Siamo orgogliosi di come entrambi proseguono la nostra tradizione familiare», dice il padre con entusiasmo.

Paul Böni: «la Midor tratta i collaboratori in modo corretto e chi si dà da fare fa sicuramente carriera» Ma di quale fra le tante prelibatezze Midor i Böni-Pappa sono più golosi? Le preferenze sono variegate quanto l’età dei componenti della famiglia. A Heidi Pappa piacciono in particolare i tradizionali biscotti di Meilen, le famose Rotelle di Meilen, mentre Reto preferisce i gelati alla panna. Comunque, qualcosa che li accomuna c’è: tutti i membri della dinastia Midor adorano le frittelle di carnevale.

■ Biscotti globali: un biscotto su tre della Midor è venduto all’estero. I Japonais, Vogelnestli, Brasilia e Co. sono esportati fra l’altro in Brasile, Thailandia e nelle Filippine. ■ Nel cartone: Elsa è stata la prima impresa svizzera a vendere il latte in tetrapak: già nel 1968 si è convertita ai nuovi pratici imballaggi.

■ Top of Europe: Aproz possiede una delle fonti di acqua minerale più alte d’Europa. Si trova a 1870 metri sul livello del mare. Affinché la sorgente resti pulita, Aproz a fatto iscrivere in zona di protezione delle acque una superficie pari a più di 100 campi di calcio. ■ Succhi a gogò: un succo di frutta su due che viene bevuto in Svizzera proviene dal canton Turgovia. Non è merito dei proverbiali frutteti di quel cantone, ma della Bina, che da più di 40 anni produce a Bischofszell diversi succhi di frutta.

■ Happy Birthday, Ice-Tea: l’apprezzato dissetante Migros festeggia l’anno prossimo il 30esimo compleanno. La Bina produce questa bevanda fin dagli anni Ottanta; all’epoca fu la prima a farlo in Svizzera. ■ Campioni di cioccolato: con circa il 37 per cento di parte di mercato, la Chocolat Frey è il maggior produttore svizzero di cioccolato.

■ Dolce record: nel 2012 i collaboratori della Jowa hanno preparato la più grande torta Foresta Nera del mondo. Aveva una superficie di ben 130 metri quadrati.

■ Importante fornitore per la gastronomia Migros: più di due terzi dell’assortimento globale dei Ristoranti Migros,

■ Non solo più bianco, anche più grande: il maggior produttore svizzero di detersivi non appartiene a una qualche multinazionale, bensì alla Migros. L’impresa, che fa parte del Gruppo Mibelle, è quella che produce più detersivi in Svizzera e per il mercato svizzero. ■ Nella cattedrale del Gruyère: circa 100’ 000 forme di Gruyère del peso di 35 chilogrammi l’una sono conservate nelle grotte di arenaria della Mifroma a Ursy, nel canton Friborgo. ■ Dolcissimi: Aproz, produttrice di bevande, produce 35 varietà diverse di sciroppo. Con uno smercio pari a circa il 36 per cento, il preferito in assoluto e quello al gusto di lampone. ■ Gusti diversi: alla Aproz, gli esperti di sciroppi hanno scoperto, invece di un Röstigraben, uno Sirupgraben, un fossato degli sciroppi: lo sciroppo di menta, molto apprezzato anche in Francia, lo bevono quasi solo i romandi, mentre gli svizzero tedeschi acquistano l’80 per cento degli sciroppi Bio.

■ Sottoprodotto con effetti collaterali: alla Chocolat Frey, ogni anno si ottengono 1200 tonnellate di sottoprodotto sottoforma di gusci di cacao. Una preziosa materia prima per la fabbricazione di foraggi. Tuttavia i cavalli da corsa non dovrebbero mangiarne troppi: la teobromina contenuta nei gusci ha un effetto simile a quello della caffeina. Di conseguenza, i cavalli da corsa incappano nei controlli antidoping e vengono squalificati. ■ Pasta sfoglia molto richiesta: la Jowa ne produce più di 5 milioni di confezioni all’anno. Se si allineassero tutti questi rettangoli di pasta spianati uno accanto all’altro si potrebbe coprire una superficie pari a 100 campi di calcio.


I detersivi per i piatti H andy, chi li produce?

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Ciò che ci sta più a cuore lo facciamo noi stessi: proprio per questo il detergente per piatti Handy viene prodotto dai collaboratori delle aziende Migros in Svizzera. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––

Maggiori informazioni su: www.noifirmiamo-noigarantiamo.ch


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Industria Migros

Cura di bellezza all’inglese Industria Migros all’estero A Bradford, in Inghilterra, Mibelle Ltd. produce prodotti per la cura del viso e del corpo

destinati al mercato britannico Marc Bodmer Quando Max Costantini (43 anni), capo della Hallam Beauty di Bradford (GB), durante una visita ad una locale catena di grandi magazzini disse che la sua azienda avrebbe fabbricato in futuro prodotti per la cura del corpo per conto della Migros, il personale scoppiò in un tripudio. Accadeva quattro anni fa. Il motivo di tanta gioia era semplice: fino al 2008 Migros esportava in Gran Bretagna shampoo, creme e lozioni, ma con la perdita di valore della sterlina iniziarono a calare anche i guadagni. L’esportazione degli amati prodotti elvetici nel Regno Unito non rendeva più e fu interrotta. Tuttavia, restava immutata l’esigenza di Migros di crescere in quel mercato. Dal 2010 la società di Costantini fa parte del Gruppo Mibelle, il terzo maggior fabbricante europeo di marchi propri, e si chiama Mibelle Ltd. «Si è trattata di una delle rare situazioni ‘win-win’, così chiamate perché entrambe le parti ci guadagnano», afferma l’imprenditore d’origini romane, ma cresciuto in Inghilterra. «Non si trattava di risparmiare sui costi, ma di raggiungere obiettivi comuni». Questa è stata una delle ragioni per cui Max, come lo chiamano gli oltre 230 dipendenti dell’azienda, è rimasto fedelmente al suo posto anche dopo la vendita della «sua» impresa. «Per me è stata importante anche l’empatia con il capo di Mibelle, Luigi Pedrocchi. Si trattava ‘solo’ di un cambio di proprietà, non di una modifica della filosofia di lavoro. Infatti, la mia società funzionava già bene». Ecco perché, durante le fasi dell’acquisizione, il personale britannico non era affatto preoccupato. Gli interessava molto di più sapere dove si trovano Frenkendorf e Buchs. Per rispondere a questa domanda, Max Costantini ha appeso nel suo ufficio una grande carta geografica della Svizzera, sulla quale può indicare ai suoi collaboratori dove si trovano le fabbriche consorelle. Era piuttosto negli stabilimenti elvetici che ci si chiedeva se l’acquisto del fabbricante britannico avrebbe portato a tagli di posti di lavoro in Svizzera. «Non vale la pena importare prodotti cosmetici dall’Inghilterra», sottolinea il simpatico imprenditore. Per Migros era molto più importante rimettere piede in Gran Bretagna e approfittare di questo interessante mercato. «I nostri differenti orientamenti si completano: la Mibelle di Buchs apporta un know-how assolutamente di primo piano nel campo della cura della pelle, mentre noi siamo specializzati nei prodotti per capelli», spiega Costantini durante la visita al reparto di ricerca e sviluppo. Qui la microbiologa Shahin Pyaru sta verificando se nel campione di un balsamo per capelli sono presenti germi estranei. Adesso, oltre a prodotti per la cura del viso e del

Bradford, città di 300 mila abitanti nel nord dell’Inghilterra: qui nel 2010 Mibelle ha rilevato la Hallam Beauty. (Marc Latzel)

corpo, a Bradford si producono anche detersivi e detergenti. L’azienda genera un fatturato di 48 milioni di franchi. Nel laboratorio di ricerca alcune collaboratrici immettono nel computer possibili combinazioni di sostanze trattanti. Si elaborano alcune formule, che poi sono subito testate. Nel caso delle prove empiriche sugli shampoo, vengono approntati teste di plastica ricoperte da capelli veri, proprio come ora sta facendo la giovane tecnica di laboratorio Sophie Flannigan. Provvisoriamente, il laboratorio di sviluppo è diretto dalla svizzera Cornelia Schürch (40 anni). Per un anno e mezzo il suo lavoro è di confrontare lo svolgimento dei procedimenti, per facilitare lo scambio dei prodotti. «In Svizzera siamo più inclini ad avere una struttura dei processi rigida», afferma la specialista, che normalmente lavora come responsabile tecnico nel reparto di biochimica a Buchs. «In Gran Bretagna si è più flessibili e disposti a correre rischi». Se un nuovo composto supera i test del laboratorio di qualità sarà miscelato e imbottigliato in grandi quantità. «Lavoriamo con 10 000 materiali diversi», spiega Max Costantini attraversando i reparti di produzione pieni di tappi, bottigliette, tubetti, imballaggi ecc. «Solo 1700 di questi materiali sono ingredienti per i nostri 900 prodotti». Ne consegue che questa enorme varietà comporta ancora molti procedimenti manuali. «Na-

turalmente puntiamo anche all’automazione dei processi», afferma Ron Fenton (51 anni), responsabile per la produzione e l’imbottigliamento. «Tuttavia, così si perde una certa flessibilità. E noi dobbiamo poterci adattare con rapidità». In un giorno, infatti, vengono riempiti tra i 10 e i 15 formati diversi. Fenton sottolinea pure come l’organico dell’azienda di Bradford, dove opera da 15 anni, sia cresciuto progressivamente. All’inizio l’impianto non era stato progettato così com’è, ma è stato ampliato in rapporto alle esigenze. «All’epoca iniziammo con una sola linea d’imbottigliamento, mentre oggi sono dodici. Le nostre possibilità nella sede attuale sono ormai prossime al limite». La tendenza verso prodotti di fascia alta favorisce la Mibelle Ltd., dove si mette in primo piano la qualità piuttosto che la quantità. «Gli oli per capelli sono molto richiesti e grazie alla competenza riconosciuta al Gruppo Mibelle a livello internazionale, siamo credibili anche nel segmento premium per la cura del viso e del corpo», afferma Max Costantini raddrizzando il suo copricapo di color rosso acceso. Tutti gli altri collaboratori hanno invece cappellini bianchi, che per precauzione igienica devono indossare sopra le retine fermacapelli: «Solo il mio è rosso, così non “sparisce” più così spesso come prima», dice sorridendo mentre ci indica la strada.

A Bradford vengono prodotti 900 articoli per la cura del corpo destinati al mercato britannico. A destra: Sophie Flannigan testa nuovi shampoo su manichini di gomma con capelli veri. (Marc Latzel)

Le attività all’estero Di aziende produttive all’estero, l’Industria Migros ne ha solo due: oltre alla Mibelle Ltd a Bradford (vedi articolo), anche la Gastina in Austria, una filiale della Bischofszell, che produce prodotti convenience per il mercato europeo. Il punto di forza dell’Industria Migros è invece l’export: nel 2012 sono state esportate merci all’estero per un volume di affari di 480 milioni di franchi. In oltre 60 Paesi l’Industria Migros

vende prodotti quali formaggi, cioccolato, biscotti, marmellate, capsule per caffé e gomme da masticare. Per la commercializzazione dei suoi prodotti, l’Industria Migros ha da tempo aperto degli uffici propri in Canada e negli Stati Uniti. Dallo scorso ottobre è presente anche con un ufficio in Giappone. In Francia, Mifroma France distribuisce i formaggi e i latticini svizzeri della Migros.


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Società eTerritorio Architettura L’opera di Paolo Mariotta nel volume pubblicato dalla Fondazione Archivi Architetti Ticinesi

Leggere e scrivere Si stima che in Svizzera siano 800mila le persone che presentano gravi lacune nelle competenze di base, una condizione che può provocare esclusione sociale

Scoprire il codice Mastermind, il gioco che spopolò negli anni 70, fu inventato nella sua versione a pioli da Mordecai Meirowitz pagina 21

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Tutelare il nostro Paese Beni culturali Una nuova iniziativa sarà

lanciata in primavera dalla Società ticinese per l’arte e la natura (Stan) Stefania Hubmann Non solo opposizioni e ricorsi ma azioni volte alla ricerca del compromesso, alla sensibilizzazione e soprattutto a una migliore salvaguardia del retaggio culturale del Cantone Ticino. La Società ticinese per l’arte e la natura (Stan), da alcuni anni nuovamente molto attiva sul fronte della tutela del patrimonio architettonico e paesaggistico, sta preparando per la prossima primavera il lancio di un’iniziativa cantonale per chiedere un maggior impegno del Cantone nell’informare i Comuni sulle nuove disposizioni in vigore (in particolare leggi e giurisprudenza federali) e una revisione della Legge cantonale sulla protezione dei beni culturali varata nel 1997. La sigla Stan appare sempre più spesso nei media in concomitanza con progetti edilizi che per la loro realizzazione vorrebbero sacrificare preziose testimonianze architettoniche del passato e altrettanto insostituibili spazi verdi caratteristici di un paesaggio particolarmente pregiato. Beni in alcuni casi persino protetti, perlomeno sulla carta. L’associazione ultracentenaria, che conta circa duemila soci, utilizza l’arma del ricorso come ultima ratio, quando non vi sono più altre vie percorribili. L’intervento in prima persona o la messa a disposizione di conoscenze tecniche a gruppi di cittadini che nascono spontaneamente in difesa del territorio (sempre più numerosi e in ottima sinergia con la Stan) sono considerati una missione che risponde alla volontà e allo spirito contenuti negli statuti dell’associazione. Così si esprimono il vice-presidente Benedetto Antonini e il segretario Paolo Camillo Minotti, ripercorrendo le tappe salienti di questo impegno e le nuove sfide che la speculazione edilizia impone. Da venticinque anni segretario della Stan, Paolo Camillo Minotti ne è la memoria storica, unitamente al presidente Antonio Pisoni, alla guida dell’associazione da oltre vent’anni. «La costituzione della Società Ticinese per la Conservazione delle Bellezze Naturali ed Artistiche – questa la prima denominazione modificata nel 1988 – risale al 1909. Presieduta dal fondatore Arnoldo Bettelini, ingegnere forestale, pubblicò sin dall’anno seguente il bollettino “La Svizzera italiana nell’arte e nella natura” che rivestì anche la funzione d’inventario dei monumenti più pregevoli». Francesco Chiesa, già vice-presidente, ne assunse la guida quindici anni più tardi, accentuandone la componente di difesa dell’italianità e distinguendosi dallo Schweizer Heimatschutz (Lega

per la salvaguardia del patrimonio nazionale fondata a Berna nel 1905) pur condividendone gli intenti. Oggi la Stan è una sezione cantonale del medesimo ente. Due i momenti salienti della storia recente. «La presidenza Pedrini alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso ha permesso di aumentare in modo considerevole il numero di soci, limitati sino ad allora per lo più a rappresentanti dell’élite culturale. Nel 2003 è stato inoltre determinante il lascito di un confederato residente nella valle Onsernone che ci ha permesso di potenziare sia l’attività sia la rivista trimestrale “Il nostro Paese”». La presa di coscienza che la speculazione edilizia stava interessando zone ancora risparmiate, come ad esempio la città di Bellinzona, ha spinto la Stan negli ultimi anni ad azioni sempre più importanti. Dalle ville Branca e Galli a Melide al progetto di Gandria (il villaggio è inserito in due inventari federali di protezione), alle ville di Bellinzona, l’impegno è cresciuto ottenendo anche risultati positivi come lo spostamento nella capitale di villa Carmine che, invece di essere demolita, sarà traslata di una ventina di metri. Un esempio di collaborazione che ha potuto realizzarsi grazie alla sensibilità del proprietario del fondo e che permetterà di salvare, oltre alla storica dimora, la metà del parco e un tasso di 130 anni, costruendo comunque una nuova palazzina d’appartamenti. «La Stan vuole dare voce a oggetti che non l’hanno, testimoni delle radici storiche del nostro cantone», precisa Benedetto Antonini, esperto urbanista e profondo conoscitore del territorio ticinese. Di formazione architetto e urbanista, ha dedicato tutta la carriera professionale alla pianificazione territoriale e all’urbanismo fino a dirigere per diversi anni la Divisione della pianificazione territoriale del Dipartimento del territorio. Oggi insegna urbanistica al Politecnico di Milano e continua «a impegnarsi come prima, affinché gli interventi sul territorio siano rispettosi dei beni degni di protezione e in armonia con il paesaggio. Ciò che non ho potuto impedire nella mia funzione purtroppo salta all’occhio, mentre quanto sono riuscito a salvare è dato per scontato». Qualche esempio di intervento riuscito? «La tenuta Bally e il Pian Casoro nel Luganese, parte della piana di San Martino a Mendrisio o ancora il piano di protezione di Morcote». Oggi, libero dai vincoli di funzione, Benedetto Antonini mette le sue competenze al servizio della Stan, di cui è vice-presidente da due anni. La materia è complessa, ma i punti

Grazie alla sensibilità del proprietario e all’intervento della Stan Villa Carmine a Bellinzona non sarà demolita. (CdT- Scolari)

di riferimento a livello nazionale e internazionale esistono. Si tratta di mostrare la volontà politica di applicarli. Citiamo ad esempio la Convenzione europea del paesaggio, la Legge federale sulla protezione della natura e del paesaggio, l’Inventario federale degli insediamenti svizzeri da proteggere d’importanza nazionale (Isos), l’Inventario federale dei paesaggi, siti e monumenti naturali d’importanza nazionale (Ifp) e l’Elenco dei giardini storici della Svizzera (Icomos). «In particolare l’Isos è uno strumento imprescindibile fondato sulla Legge federale la cui importanza nella pianificazione del territorio e nell’attività edilizia è stata sottolineata anche in un recente contributo di Davide Socchi e Lorenzo Anastasi nella “Rivista ticinese di diritto”». «Attraverso l’iniziativa cantonale – prosegue Antonini – vogliamo pro-

muovere l’informazione e la formazione. Tutte le domande di costruzione e le notifiche di demolizione dovrebbero essere pubblicate sul Foglio Ufficiale in modo da garantire maggiore trasparenza. Il Cantone dovrebbe inoltre aggiornare comuni e uffici tecnici sulle nuove norme e sulla giurisprudenza. È pure necessario promuovere una migliore formazione dei capo-tecnici che giocano un ruolo chiave nel rilascio delle licenze edilizie. La Legge sulla protezione dei beni culturali (1997) ha dal canto suo dimostrato limiti che vanno corretti. In particolare la distinzione tra beni d’importanza cantonale e locale dovrebbe essere superata a favore di una tutela cantonale di tutto il patrimonio citato. Infatti i beni d’importanza locale sono semplicemente segnalati dal Cantone al Comune, il quale spesso dà seguito in modo molto riduttivo nel pro-

prio PR alle indicazioni di tutela». Proteggere significa limitare la libertà d’intervento e questo è sovente fonte di conflitti soprattutto a livello comunale dove gli amministratori sono molto vicini agli interessi locali. Forse non a caso gli edifici privati tutelati sono in realtà pochissimi. Eppure queste visioni vanno superate, così come l’immagine dell’urbanistica quale disciplina che limita l’agire del singolo. «Occorre – concludono i rappresentanti della Stan – che la grande sensibilità dimostrata dalla popolazione negli ultimi anni si trasformi in vera e propria cultura attraverso un nuovo atteggiamento nei confronti del patrimonio costruito. Il senso di responsabilità dovrebbe sì essere una priorità dell’ente pubblico, ma anche un valore per chi ha la fortuna di possedere un bene storico».


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L’opera di Paolo Mariotta Architettura La Fondazione Archivi

Architetti Ticinesi dedica un volume al locarnese che progettò intensamente dagli anni Trenta ai Settanta, oltre i confini svizzeri e europei

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Elena Robert Paolo Mariotta è stato uno dei protagonisti dell’architettura del Novecento in Ticino e ha contribuito tra gli anni Trenta e Settanta, al pari di altri colleghi come Rino Tami, Bruno Brunoni, Alberto Camenzind, Bruno Bossi e Augusto Jäggli, all’evoluzione della stessa, da prima della guerra a dopo il conflitto, traghettandola dalla tradizione alla modernità. Lo fece distinguendosi con un’attività intensissima (che suscitò a volte anche controversie) fino alla sua scomparsa a 67 anni nel 1972, lasciando decine di opere realizzate solo nel Locarnese, la sua regione. Fu uomo di mondo che andò oltre i confini svizzeri e europei, unico della sua epoca in Ticino a costruire a Zurigo, Lucerna, Basilea, in Spagna a Saragozza, Barcellona e Madrid, in Portogallo a Lisbona e persino a Lima in Perù. Dalla sua morte sono trascorsi più di quarant’anni e nei decenni si è sfumata la memoria del suo operato, nonostante il successo in vita e forse proprio per il carattere internazionale della sua attività. Negli ultimi sei anni la Fondazione Archivi Architetti Ticinesi (AAT) ha portato a termine la catalogazione dei copiosi materiali ricevuti dai figli Alfredo e Carlo Mariotta nel 1997. I progetti conservati nel Fondo Paolo Mariotta sono 186, corredati da documenti e bellissimi disegni prospettici acquarellati su cartoncino o eseguiti a carboncino su carta da schizzo, foto d’epoca delle opere realizzate. L’approfondimento dell’AAT è sfociato nella pubblicazione Paolo Mariotta Architetto 1905-1972, edita dalla fondazione, a cura di Angela Riverso Ortelli con testi di quest’ultima, di Paolo Fumagalli, di Simona Martinoli e di Lorenzo Cotti. Grazie a questo studio si sono potuti mettere a fuoco il lavoro e la personalità in ambito professionale di Paolo Mariotta. La curatrice del volume evidenzia che l’architetto «ha saputo trarre ispirazione dai desideri di una committenza sì benestante e desiderosa di innovazioni, ma anche fortemente legata al territorio e conservatrice». Ha progettato ville, case unifamiliari, d’appartamenti, di vacanza, palazzi amministrativi, supermercati, cimiteri, centri parrocchiali, restauri di monumenti (S. Nicolao a Giornico nel 1942), «riuscendo a tematizzare ogni progetto», rileva Paolo Fumagalli, trovando soluzioni architettoniche differenti, anche discordanti e non senza contraddizioni, ottenute in modo libero. Simona Martinoli indica nell’«intreccio di arcaismi

e novità» la peculiarità di molte opere di Mariotta degli anni Trenta. Il suo ricorso, fino alla fine di quel decennio e in particolare nelle abitazioni private, a elementi classici come armoniosi porticati con archi e colonne, splendidi cancelli in ferro battuto va interpretato, annota Fumagalli, come una «necessità» in quanto valori da conservare oltre che per rendere più chiare le scelte compositive e formali. Per Fumagalli siamo di fronte a un’architettura colta sostanzialmente razionale e geometrica, che parte da un progetto totale, quasi sempre da uno spazio centrale capace di ordinare la gerarchia della composizione all’interno di un edificio nonché di entrare in stretta relazione con l’esterno e il paesaggio intorno (Villa Gioia a Ascona del 1938, Villa Dörner a Orselina del 1938, Villa Eugster a Castagnola del 1947). A partire dagli anni Quaranta e Cinquanta Mariotta la esprimerà in modo ancora più marcato soprattutto nelle realizzazioni di carattere pubblico. Tra queste il Garage Biffoni a Muralto, il nuovo emporio Feldpausch a Zurigo (demolito), entrambi del 1946, la Palazzina Ambrosoli a Locarno del 1951, il grande magazzino Sepu a Madrid del 1951, la Centrale Verbano a Brissago del 1952, la sede amministrativa La Colmena a Lima in Perù del 1958 (nella foto sopra), l’ampliamento del cimitero di Locarno (un concorso vinto nel 1961), i grandi magazzini Epa a Lugano del 1962, il palazzo amministrativo Ofima a Locarno del 1965, gli appartamenti al Bosco Isolino a Locarno del 1971. Temi cari all’architetto Paolo Mariotta sono la cura dei dettagli costruttivi e la scelta dei materiali naturali, l’«invenzione» delle vetrine a sé stanti negli ampi spazi d’accoglienza all’entrata dei grandi magazzini, il ricorso a lavori in ferro battuto del suo amico fabbro, l’artigiano e artista Arrigo Spertini, il ricorso a interventi e sculture dell’amico Remo Rossi, l’uso di vetri colorati come strumenti compositivi, lo sviluppo della scala, quasi un elemento scultoreo. La ricerca della misura, cioè dell’equilibrio nei suoi progetti si traduce, come evidenzia Lorenzo Cotti, nell’eleganza che si trasforma in leggerezza. E non è un caso che l’architetto si distinguesse per raffinatezza, signorilità e naturale riservatezza. Bibliografia

Paolo Mariotta Architetto 1905-1972, a c. di A. Riverso Ortelli, Fondazione Archivi Architetti Ticinesi, 2013

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Società e Territorio

Ritrovare le parole

Illetteratismo In Svizzera si stima che 800mila persone abbiano gravi lacune nelle competenze base

di lettura e scrittura, di queste 40mila vivono in Ticino Elisabetta Oppo La padronanza della scrittura e le competenze alfabetiche rappresentano nella nostra società fondamentale importanza nel garantire una migliore qualità della vita e nel riuscire a conquistare una maggiore autonomia, anche nelle piccole azioni quotidiane. Chi fatica a leggere e scrivere può incontrare enormi ostacoli quando è alla ricerca di un lavoro, o trovandosi a dovere fare delle scelte per l’educazione e la crescita dei figli, o nel riuscire ad inserirsi come membro attivo della società. In realtà oggi più che di mancato accesso scolastico con la conseguente carenza nell’apprendimento delle competenze di base, si parla di analfabetismo di ritorno, che interessa persone che pur avendo terminato il percorso di scolarizzazione, nel tempo hanno dimenticato le competenze di base del leggere e dello scrivere. Ancora più corretto sarebbe parlare di illetteratismo, termine che identifica l’insufficienza di quelle capacità di cui ogni persona dovrebbe disporre per riuscire ad orientarsi nelle più disparate situazioni private e professionali richieste dalla società in cui vive. Per quanto riguarda la Svizzera, si stima che circa 800mila persone, di cui 40mila nella Svizzera italiana, vivono in condizione di illetteratismo. Quasi 360mila individui di nazionalità svizzera, di età compresa tra i 16 e i 65 anni, e oltre 410mila persone adulte straniere si trovano in una situazione di illetteratismo grave. Percentualmente, fra il 16% e il 19% degli adulti hanno un debole livello di competenze nella lettura e nella scrittura. Lacune che si ripercuotono in modo decisivo sulla vita quotidiana, spesso

escludendo queste persone da ambiti professionali e sociali. La nostra società esige di continuo il ricorso alla capacità di leggere e scrivere, ad esempio per consultare gli orari dei mezzi pubblici, compilare formulari, rispondere alle inserzioni, scrivere sms o semplicemente la lista della spesa. Senza queste competenze si è tagliati fuori anche dai nuovi mezzi di informazione e comunicazione, quali email, chat e quant’altro. Insomma chi non ha dimestichezza con la lettura e la scrittura è praticamente escluso anche dal mondo tecnologico. Emarginazione che può generare frustrazioni e problemi psicologici in generale.

L’illetteratismo si ripercuote sulla vita quotidiana, provoca esclusione sociale e professionale Le cause dell’illetteratismo possono essere svariate e avere origini diverse. Possono essere ricondotte all’ambito familiare, scolastico, personale o relazionale. Per esempio frequenti cambiamenti di domicilio o lunghe assenze per malattia o altri motivi durante il periodo di scolarizzazione, così come inadeguate risposte da parte della scuola e della famiglia al bambino o all’adolescente, possono provocare una rottura del naturale processo di alfabetizzazione, creando nell’individuo delle debolezze difficilmente recuperabili. Oppure l’allontanarsi dalla lettura e dalla scrittura all’uscita della scuola aumenta il rischio della

perdita di quanto appreso in precedenza. Una delle principali conseguenze del fenomeno è il rischio di disoccupazione a lungo termine o di precarietà. Ma anche l’economia privata ne è colpita su vari fronti: perdita di personale a causa di malattie dovute allo stress, mancanza di personale qualificato, produzioni errate a causa di incomprensione delle consegne di lavoro e mancato acquisto di consumatori potenziali ne sono alcuni esempi. Se da un lato l’illetteratismo incide, come detto, in modo determinante sulla vita del singolo individuo, dall’altro non bisogna sottovalutare l’incidenza sulla società. Si stima, infatti, che il costo a carico dell’economia svizzera per attuare interventi volti a fronteggiare le conseguenze dell’illetteratismo superi ogni anno il miliardo di franchi. Lo studio BASS Volkswirtschaftliche Kosten des Illettrismus, ha valutato che le perdite in termini di indennità di perdita di guadagno, di mancati pagamenti di imposte e di spese sociali (AVS, AI, PC, aiuti assistenziali) indotte dall’illetteratismo provocano costi che si aggirano appunto attorno a questa cifra. Nonostante gli studi effettuati sulle cause, sulle conseguenze e sui costi dovuti all’illetteratismo, contrastare il fenomeno risulta ancora molto complesso, perché troppo spesso resta ancora un tabù. Inoltre c’è poca consapevolezza dell’esistenza di persone adulte che presentano incertezze e lacune nella lettura e nella scrittura. Se ne parla poco e chi è toccato dal problema spesso pensa di essere il solo ad avere queste difficoltà. Di qui una situazione di disagio che porta a vergognarsi di parlarne. Queste persone

Sensibilizzare e formare In Ticino da 20 anni anni, un importante impulso contro analfabetismo e illetteratismo, è dato dall’Associazione Leggere e Scrivere della Svizzera italiana che promuove azioni informative, organizza momenti di sensibilizzazione alla lettura e propone corsi per adulti di alfabetizzazione e recupero delle competenze di base nel leggere e nello scrivere. Fondamentale il Progetto Mediatori, promosso appunto dalla Federazione svizzera Leggere e Scrivere e cofinanziato dall’Ufficio federale della formazione professionale e della tecnologia (Ufft). «Questo progetto si inserisce nell’ambito di altre iniziative messe in atto nel nostro Paese per fronteggiare il

problema dell’illetteratismo», spiega Silvana Spinetti, responsabile del progetto Mediatori dell’Associazione Leggere e Scrivere della Svizzera italiana. «L’obiettivo è quello di contrastare il tabù legato a questo fenomeno, discuterne a più ampio livello e aiutare gli interessati a riprendere un percorso formativo». Grazie ai corsi proposti gratuitamente a enti e servizi pubblici e privati, è stato possibile sensibilizzare dei professionisti, mediatori, che nel loro ambito lavorativo sono in contatto con chi presenta lacune di una certa rilevanza nella lettura e nella scrittura e possono indirettamente motivare al recupero delle competenze di base quelle persone

che in maniera autonoma difficilmente andrebbero alla ricerca di percorsi formativi. Nella Svizzera italiana hanno potuto beneficiare del modulo di sensibilizzazione numerosi enti e servizi pubblici e privati per un totale di 45 corsi e 503 potenziali mediatori. L’Ufft ha poi accordato un ulteriore finanziamento per il Progetto Mediatori II, che si chiuderà il 21 febbraio prossimo con un evento previsto alla Scuola cantonale di Commercio di Bellinzona, dove il regista Stefano Ferrari e il musicista Claudio Taddei presenteranno il documentario Campo nomadi. L’opera racconta il vissuto di bambini rom che hanno imparato a leggere e scrivere (www.leggere-scrivere.ch).

Le competenze di lettura e scrittura sono recuperabili a ogni età. (Keystone)

non sanno che le competenze della lettura e della scrittura sono recuperabili anche nell’età adulta e non conoscono le offerte formative in questo senso. Il Cantone Ticino ha mostrato un certo interesse alla tematica già a partire dagli anni ’90, ma la percezione del fenomeno ha cominciato a essere avvertita nella sua gravità a partire dai risultati delle indagini PISA del 2000. I risultati relativi alle competenze degli allievi alla fine dell’obbligo scolastico suscitarono un certo allarme, investendo in primo luogo la scuola dell’obbligo. Per quanto riguarda l’illetteratismo degli adulti, invece, l’emergere di alcune fragilità importanti di persone con basse qualifiche che fanno capo agli aiuti statali, quali disoccupazione e aiuti sociali, hanno spinto l’autorità pubblica a intraprendere azioni mirate nel campo della promozione delle competenze di base, allo scopo di evitare il rischio di esclusione di alcune fasce di popolazione. Le linee direttive 20122015 del Consiglio di Stato indicano, perciò, nella lotta all'illetteratismo un obiettivo importante, ed il conseguente impegno a promuovere le competenze di base per le persone colpite dal proble-

ma, siano esse di origine straniera o svizzere. Il Cantone inoltre nel 2011 ha aderito al progetto nazionale GO, promosso dalla Federazione svizzera per la formazione continua, dalla Conferenza intercantonale della formazione continua, e sostenuto dall’Ufficio federale della formazione professionale e della tecnologia e dalla Fondazione Paul Schiller, costituendo un Gruppo di lavoro interdipartimentale che ha indicato una serie di misure formative e istituzionali volte ad affrontare il problema dell’illetteratismo, con l’obiettivo di avviare azioni di prevenzione. «Il progetto GO Cantoni è stato un valido spunto per mettere in sinergia chi già a livello cantonale opera, in modo diretto o indiretto, nell’ambito del recupero delle competenze di base al fine di migliorare l’integrazione sociale e professionale – spiega Pepita Vera Conforti, coordinatrice e responsabile del Gruppo di lavoro interdipartimentale per la promozione delle competenze di base – Occasione preziosa per mappare le singole misure adottate o sostenute dai servizi dello Stato e identificare attività da condurre in comune».

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Daniel Pennac, Ernest e Celestine, Feltrinelli. Da 7 anni

Realizzato senza prodigi tecnologici, ma con tutta la delicatezza dell’«animazione classica» ispirata agli acquerelli di Gabrielle Vincent e con la sceneggiatura di Daniel Pennac, Ernest e Celestine è in nomination all’Oscar come miglior film d’animazione. Allora cogliamo l’occasione per segnalare che

il DVD del film (diretto da Benjamin Renner, Vincent Patar, Stéphane Aubier) è edito da Home Video Gallucci (da 3 anni), con le voci italiane di Claudio Bisio e Alba Rohrwacher. Sempre Gallucci pubblica alcuni dei deliziosi albi scritti e illustrati nel secolo scorso da Gabrielle Vincent, importante pittrice belga, che alle avventure della topolina Celestine e dell’orso Ernest dovette il suo successo internazionale. Un orso musicista e una topina pittrice, che nonostante l’apparente incompatibilità delle loro stazze e dei loro mondi, diventano inseparabili. Proprio la diversità è uno dei temi su cui punta Daniel Pennac per il suo romanzo, ispirato alle storie della Vincent: «All’inizio della storia, Ernest e Celestine non si conoscevano. È normale. Celestine viveva nel mondo di sotto, con gli altri topi, ed Ernest viveva nel mondo di sopra, con gli altri or-

si». E invece i due non solo si conosceranno, ma vivranno – sfidando paure e stereotipi – una grande amicizia. Se perde forse un po’ della levità originaria delle storie della Vincent, il romanzo di Pennac è tuttavia interessante per lo stile della narrazione, in cui entrano in modo esplicito le voci dei personaggi in dialogo con l’autore e persino con il lettore. Una «meccanica della narrazione», come l’ha definita lo stesso Pennac, che rende vivacemente il farsi della storia e la prospettiva multipla che la costituisce. Marie-Louise Gay, Stella Fata del bosco, Terre di Mezzo. Da 3 anni

«Sono pericolose le pecore, Stella? Sono scivolosi i sassi del ruscello? E se mi bagno i piedi? E le api? Non è che ci pungeranno?» Sam, il fratellino di Stella, non è propriamente un cuor di leone. Ma a rassicurarlo c’è Stella, che

passo dopo passo lo porterà a scoprire le meraviglie del bosco. E la giornata sarà talmente bella che Sam alla fine vorrebbe stare lì per sempre. Dopo il successo internazionale di Stella Regina della Neve e Stella Sirena del mare, una nuova avventura dei due fratellini, che questa volta apprezzeranno le sorprese del bosco: gli anima-

li, i fiori, le rocce, i grandi alberi dalla corteccia ruvida, la possibilità di costruirsi una capanna segreta tra le fronde. I piccoli lettori potranno di volta in volta identificarsi nel timoroso Sam, oppure ridere delle sue paure: entrambi modi per elaborare emozioni che sicuramente sono state anche le loro, e per comprendere che i mondi sconosciuti, se li si affronta, non fanno più così tanta paura. L’autrice/illustratrice, la canadese Marie-Louise Gay, racconta questa storia con tenerezza e allegria, arricchendo le sue tavole – in cui campeggia il rosso dei capelli di Stella e il biondo di Sam – con tanti dettagli di animaletti in movimento, foglie mosse dal vento, brulichio di vita. C’è anche una porta lasciata socchiusa sull’immaginario dei bambini, perché le fate, dice Stella, si possono vedere. «Ne ho appena vista una – esclama Sam – Ma è già volata via…».


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La logica di Mastermind Giochi La versione con i piolini colorati fu

inventata nel 1970 da Mordecai Meirowitz, un esperto di telecomunicazioni israeliano

Vege tale

Mordecai Meirowitz, inventore del moderno Mastermind, insieme all’agente russo Oleg Gordievsky, festeggiano il 25esimo anniversario del gioco. (Keystone)

Ennio Peres Le regole sono piuttosto semplici. Si gioca in due, scambiandosi a ogni incontro i ruoli di codificatore e di decodificatore. All’inizio, il codificatore di turno compone un codice segreto, celando una combinazione di quattro pioli colorati (con eventuali ripetizioni di colore). Il decodificatore deve poi cercare di scoprire questo codice, effettuando una serie di tentativi successivi. Ogni volta, il codificatore confronta il codice proposto dall’avversario con quello da lui nascosto e fornisce una risposta relativa agli eventuali colori indovinati, con i seguenti criteri: – ogni colore che, nei due codici, si trova nella stessa posizione, deve essere segnalato con un piolino nero; – ogni colore presente in entrambi i codici, ma in posizioni diverse, deve essere segnalato con un piolino bianco. (Per ragioni pratiche, nel seguito porrò: A = Azzurro; B = Bianco; G = Giallo; N = Nero; R = Rosso; V = Verde; n = piolino nero; b = piolino bianco; inoltre, numererò le posizioni dei quat-

tro pioli colorati, percorrendoli da sinistra verso destra). Se, ad esempio, il codificatore componesse il codice: G G R B e il decodificatore proponesse il tentativo: V G A B, la risposta corretta sarebbe: 2 n perché i colori indovinati sono due: G e B ed entrambi occupano, nei due codici, la stessa posizione. Se, invece, il decodificatore avesse proposto il tentativo: B G R V, la risposta corretta sarebbe stata: 2 n, 1 b, perché i colori indovinati sono tre: B, G e R, di cui due (G e R) si trovano nella posizione giusta ed uno (B) si trova in una sbagliata. Quando, in base all’analisi delle risposte avute (o per pura fortuna...), il codice segreto viene individuato, questa fase del gioco termina ed i due giocatori si scambiano i ruoli. Vince alla fine chi, dei due, ha impiegato il minor numero totale di tentativi per scoprire tutti i codici composti dall’avversario. Provate a individuare i codici segreti che possono ricavarsi dalle seguenti situazioni di gioco.

1.

2.

3.

N N B N = 2n 1b

G B R R = 1b

R A G A = 2b

N N A V = 2n

V G V B = 2b

A B N G = 2b

B V R R = 1b

G G B G = 1n 1b

G N R V = 2b

N N R R = 2n

B N N N = 1b

V R A B = 2b

Naso intasato? Sinupret Dragées lo liberano! Sciolgono il muco e liberano il naso grazie all’aiuto delle piante.

2. Dalla risposta al 3° tentativo, si deduce che c’è almeno un G. Quindi, non può esserci né il R, né il B (1a risposta), mentre sono presenti un N (4a risposta), due G (3a risposta) e un V (2a risposta). Il N può stare solo in prima posizione

Disponibile in farmacia. Leggere il foglietto illustrativo. Biomed AG, 8600 Dübendorf. © 2013 Biomed AG. All rights reserved.

1. Dalle risposte fornite al 3° e al 4° tentativo, si deduce che il R non è presente. Quindi, ci sono due N in prima e in seconda posizione (4a risposta) e sono assenti anche A e V (2a risposta). Per cui, c’è un B (3a risposta) in quarta posizione (1a risposta) e non può esserci un terzo N. Per esclusione, il quarto colore è G, in terza posizione. In definitiva, il codice segreto è: N N G B Soluzioni

3. Dalle risposte fornite al 1°, 2° e 4° tentativo, si deduce che l’A non è presente. Quindi, ci sono R e G (1a risposta).e, di conseguenza, non ci sono né N né V (3a risposta), mentre c’è il B (2a risposta). I colori nascosti sono perciò: R, G e B, uno dei quali ripetuto. Il R deve stare in quarta posizione (risposte 1a, 3a e 4a), il G può stare solo in seconda posizione (risposte 1a, 2a e 3a); per cui, il B è il colore doppio e occupa le due restanti posizioni. In definitiva, il codice segreto è: B G B R.

(4a risposta); quindi, i due G devono stare in terza e in quarta posizione (2a risposta ). Per esclusione, il V può stare solo in seconda posizione. In definitiva, il codice segreto è: N V G G


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2014 • N. 07

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi La città, la toga e l’altro posto Town and Gown – la Città e la Toga (accademica) – è l’espressione che si usa a Cambridge per sottolineare l’antica, radicata ed irriducibile rivalità fra gli abitanti della città ed il mondo accademico, ed in primis gli studenti. Dal momento che il vostro Altropologo preferito sta per lasciare l’Università che lo ha ospitato per gli ultimi quattro mesi, una riflessione finale in tema è di rigore. Anche perché le scadenze calendariali della vostra rubrica preferita (e dai!) offrono un’occasione talmente ghiotta che non è possibile ignorarla. Dovete dunque sapere che quando giunsi qui lo scorso ottobre si era in piena ennesima polemica fra Town and Gown per via di un certo video che un certo College aveva prodotto assieme al Comando di Polizia di Cambridge. Il video conteneva direttive ed istruzioni agli studenti per evitare di essere malmenati dagli uligani cantabrigensi (così gli abitanti di Cambridge) i quali, quando non hanno nulla da fare, si riuniscono in gang per dare una ripassatina a qualche studente – mettiamola così. Non uscire per strada con la toga accademica, non farsi vedere

in giro vestiti da sera (segnale che uno sta andando a qualche funzione formale accademica), non declamare versi di Virgilio quando si è ubriachi in un pub…: insomma: fare di tutto per non essere identificati come studenti e finire per essere scaraventati nel fiume, così come successe anni fa ad un mio amico al quale tirarono addosso anche la bicicletta, tanto per finire il lavoretto. Allora: il College produce un video su come essere invisibili e il Consiglio Comunale grida alla provocazione ed all’allarmismo ingiustificato. «Alla faccia!» – si ribatte dall’altra parte. Dovete sapere che nel bel mezzo del parco che separa la Città Universitaria dalla Città Ordinaria c’è un certo lampione. Per antica tradizione quello separa Town and Gown, nel senso che uno membro del Gown che oltrepassa il confine lo fa per spirito d’avventura. E – perbacco le tradizioni si rispettano! – la cosa è ancora talmente viva che di recente il Comune ha speso una barcata di soldi per fare un sistema di illuminazione costosissimo e supermegatecnologico per illuminare la parte Town del percorso pedonale e minimiz-

zare le possibilità di attacco agli studenti. O per rendere più facile distinguerli dagli innocenti – si ribatte da questa parte della barricata. Altroché provocazione: qui la tradizione della caccia allo studente è sentita come quella della caccia alla volpe e dunque… Ma a Cambridge le cose non stanno certo peggio che ad Oxford – the Other Place – l’Altro Posto, come si dice qui a Cambridge dove l’Università rivale è innominabile. Cade oggi, 10 febbraio, il 659.mo anniversario del Massacro di Santa Scolastica, data indelebile nella memoria della città innominabile. Era infatti il giorno di Santa Scolastica del 1355 e – ohibò – studenti ed accademici Oxoniensi (così gli abitanti dell’Altro Posto) avranno pure avuto il diritto di alzare un po’ il gomito, o no!? Insomma, dicono i documenti, alcuni membri dell’Università, fra i quali vi erano anche preti, stanno bevendo alla Swindlestock Tavern. Il vino non è di loro gradimento e si lamentano con il taverniere John de Bereford. Questi (ahi!) è; anche il Sindaco di Oxford – ops! dell’Altro Posto, volevo dire. Forte della sua autorità questi ri-

sponde con parole testarde e salaci. Al che uno degli studenti – pare un certo Roger de Chesterfield – afferra una brocca da un quartino e gliela spacca in testa. A quel punto è il caos. I cittadini suonano le campane della Chiesa di Saint Martin per chiamare alle armi tutta la Town. L’Università a sua volta fa suonare le campane della Chiesa di Saint Mary per allertare la Gown. Archi e balestre saltano fuori in un baleno da biblioteche e cantine. Dopo una prima notte di scontri senza risultati decisivi, il giorno seguente – un mercoledì – il Sindaco cavalca fino a Woodstock per implorare l’intervento del re. Nel frattempo duemila abitanti del contado marciano sulla città al canto: «Ammazza, Ammazza! Viva il Caos! Picchia forte! Dagli duro!». I College e le altre strutture accademiche sono violate e comincia la caccia agli studenti che durerà fino al giovedì. Alla fine si contano i cadaveri di 62 membri dell’Università, fra studenti e docenti. Le sanzioni reali sono dure: da allora Sindaco e Consiglieri Comunali dell’Altro Posto saranno costretti a presenziare ad una messa in

suffragio nel giorno di Santa Scolastica. Si dovevano poi recare in processione a capo scoperto fino alla Chiesa di St Mary dove li attendono le autorità dell’Università. I Consiglieri devono contare ciascuno sessantadue pence in conio minuto (pensate all’umiliazione) per consegnarli al Rettore dell’Università. L’usanza finì solo nel 1825, quando il Sindaco dell’Altro Posto si rifiutò di prendere parte alla cerimonia. Ma le cose mica terminarono qui. Town e Gown rimasero a guardarsi imbronciate fino al 1955, 600.mo anniversario del Massacro di Santa Scolastica. Il Rettore, A. H. Smith, conferì al Sindaco un Dottorato Onorario; di ritorno, il Sindaco W. R. Gowers donò le Chiavi della Città al Rettore. Poi tutti al pub, bicchieri di plastica (ma questa è tradizione orale raccolta dall’Altropologo all’altro pub dell’Altro Posto, il Lamb and Flag, dove la memoria storica ancora pare covi). Morale antropologica della rubrica odierna? Se oggi siete al bar ed entra uno studente, offritegli un bicchiere di vino in onore di Santa Scolastica. Però assicuratevi che sia buono.

la sua «poesia» e non la prendano sul serio, pensando che sei un attempato ragazzino cui gli anni non hanno insegnato niente. Io no, credo nella tua voglia di riscatto, nel desiderio di recuperare il tempo perduto e perciò ti dico: «hai fatto bene a scrivere. Scrivi ancora». Ma, magari, con meno trasporto, con una vena di ironia, di autoironia, che alleggerisca una proposta così impegnativa. Purtroppo il verbo «amare» non conosce l’imperativo e l’amore si può attendere ma non pretendere. Però è giusto propiziarlo e il tuo scritto, messo in una bottiglia e affidato alle onde del caso, va proprio in tal senso. Tuttavia, caro Angelo, non basta. Nel frattempo vivi qualche storia concreta , batti in basso (atterrando sulla dura realtà) le tue ali, a costo di impolverarle quando giungerai al suolo. Le donne, da un quarantenne, si attendono esperienza e conoscenza, non solo speranza. Potresti trovare quella con la vocazione

di mamma o di maestra, che ti ama come un figliolino o uno scolaro, ma non so se ti andrebbe bene perché cerchiamo nell’amato chi ci completa, la parte di noi sconosciuta, seducente proprio perché segreta e misteriosa. Non abbiamo bisogno di qualcuno che ci assista confermando la nostra insufficienza. Eppure colgo, nella tua lettera, un’audacia che ti fa onore, un coraggio che molte «anime solitarie» non hanno e che molti dongiovanni ostentano falsamente. Prosegui la tua ricerca, caro amico! Noi ti stiamo a guardare con simpatia e incoraggiamento perché, con la tua fragilità, rappresenti la nostra parte più vulnerabile. E più vera.

portata, a cominciare da quelli finanziari, che rappresentano per così dire una specialità nazionale, sino a quelli, della delinquenza spicciola, più modesti, ma più fastidiosi per il cittadino comune. Ma la presenza della criminalità si manifesta, e ben più amabilmente, sul piano culturale, sfruttando vecchi e nuovi canali. A cominciare dall’editoria: su quattro romanzi, lanciati sul mercato, uno appartiene al filone poliziesco. Lo stesso dicasi per un terzo dei film, diffusi dalla televisione. Questi dati compaiono nell’ultimo supplemento mensile della «Neue Zürcher Zeitung» dedicato, e non è un caso, alla popolarità del Krimi, cui è difficile sfuggire. Es gibt kein Entkommen, non c’è scampo, come s’intitola il servizio. Che propone una ricerca, approfondita e in pari tempo divertita, per individuare le motivazioni e le radici del successo di un filone creativo, tutt’altro che moderno.

Anzi ha origini lontane che, nei secoli, hanno coinvolto spesso la pittura, si pensi ai Fiamminghi. E naturalmente la letteratura, anche quella alta: Dostoevskij, a suo modo, ne è un esempio, ben prima di Conan Doyle e Grisham. Per vie diverse, si arriva alla conclusione che l’elemento determinante del fenomeno è la paura. Che ci accompagna sin dall’infanzia e, strada facendo, viene alimentata e persino coccolata leggendo, guardando, ascoltando. Si tratta, non da ultimo, di un esercizio mentale. Il thriller mette alla prova impegnando lo spettatore a costruire, personalmente, una soluzione. Sin qui, dunque, il risvolto positivo di un culto della paura che, però, può sfociare in mania. Psicologi e criminologi denunciano le conseguenze dell’«effetto CSI»: creerebbe dipendenza e, peggio ancora, rivelerebbe imprudentemente segreti del mestiere a possibili criminali.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Lettera d’amore a una sconosciuta Cara Silvia, tra poco sarà San Valentino e non avrò accanto a me nessuna ragazza con cui festeggiarlo. Non è accaduto prima e sarà difficile, se non impossibile, che accada adesso che compio 42 anni. Eppure non voglio restare solo e, per reagire, ho deciso di inviare una lettera d’amore a una sconosciuta. Finora non ne ho mai scritte né ricevute, ma ho deciso di rimediare scrivendo a una lettrice senza nome. «Non ti conosco ma sei nel mio cuore, come attesa, attesa d’amore. Sapessi quanto ti ho cercata e quanto ti ho sognata. Saprò riconoscerti quando verrai e sarà possibile, se mi aiuterai. Ci restano ancora tanti anni da vivere insieme ed è con te che vorrei condividere la mia vita, nella gioia e nel dolore, in salute e in malattia… Sarà una storia bellissima, vedrai. Non ci lasceremo mai. La mattina ci scopriremo vicini guardandoci negli occhi, con la testa sui cuscini. E quando saremo lontani ci

penseremo a vicenda, dialogando in silenzio, condividendo la musica delle parole e il colore delle figure. Aiutami, ti prego, a scoprirti e ad amarti. Vieni accanto a me, stiamo vicini, mettiamo all’unisono il battito del nostro cuore, ora e per sempre, amore». Non so se tu, cara Silvia, vorrai pubblicare questo appello ma spero che nella Stanza del dialogo ci sia posto anche per me e per lei, la mia amata sconosciuta. / Angelo Caro Angelo, non so se di nome o di fatto, certo che c’è posto anche per te. La Stanza del dialogo è sempre aperta. Di persone sole, desiderose di amare e di essere amate, ce ne sono tante ma è difficile che s’incontrino perché hanno la pelle dell’anima sottile sottile e temono, esponendosi all’altro, di rimanere graffiate. Vedono i prepotenti, sicuri di sé, magari un po’ rozzi e superficiali, ottenere consensi e successi e, sapendo che

come loro non saranno mai, ritirano la testolina nel guscio, come le lumache. La tua lettera è bella perché sincera ma, rivolgendosi non a ragazzine ma a giovani donne, rischia di essere giudicata un po’ immatura, un po’ fuori tempo. Confessi di non averne mai scritte né ricevute prima e ora cerchi di recuperare il tempo perduto ma mi chiedo quante probabilità ci siano di incontrare una donna che condivida la tua sensibilità e il tuo romanticismo. Mi sembra di capire ( dagli accenni alla formula del matrimonio) che hai intenzioni serie, che non cerchi un flirt ma una relazione profonda e duratura. È proprio quello che ci vuole a quarant’anni ma, di solito, l’evento viene preparato prima, imparando a conoscere, contattare e frequentare qualche ragazza. Magari si dimostrerà inadeguata ma intanto si è fatto, come dicono prima delle partite di calcio, un po’ di «riscaldamento». Temo che le lettrici sorridano leggendo

Indirizzo Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Criminalità: paura reale e immaginaria È una sorta di riflesso condizionato. Dopo le 7 di sera, entrando in un autosilo, quasi deserto, una donna sola si sente stranamente a disagio. E, quindi, si mette sulle difensive: affretta i passi, che risuonano amplificati dal vuoto, stringe forte sottobraccio la borsa, si guarda attorno con circospezione, come se fosse inseguita. Per poi infilarsi nel rassicurante rifugio della sua macchina. Dietro la quale non si era nascosto un assalitore, come invece succede nei thriller, dove un luogo normale e anonimo, qual è un parcheggio, assume i tratti minacciosi di una scena da crimine. Ora, è appunto sotto l’influsso di queste immagini, assimilate attraverso il cinema e la televisione, che anche fra le nostre concittadine si sta diffondendo la paura da autosilo e da sottopassaggio, allargata poi ad altre situazioni, percepite come pericolose tanto da alimentare uno stato di allerta permanente. In

casa e per strada, di giorno e di notte, ci si troverebbe sempre più esposti al rischio di subire scippi, furti, aggressioni, violenze, cioè i mali di un’epoca ritenuta infida. Ma come valutare questa diffusa sensazione di vulnerabilità: è più immaginaria che concreta, è frutto della fantasia, che si nutre di racconti polizieschi, o invece fa capo a episodi di malavita reale e vicina, riferiti dalle cronache? Intorno a questi interrogativi, le opinioni, e soprattutto i sentimenti, divergono, in uno scontro che sta dilatando le distanze fra cittadini e autorità, fra quotidianità e ufficialità. Sono voci discordanti. Da una parte, si chiedono misure per proteggersi da pericoli incombenti. Dall’altra, si cerca di ridimensionare la portata di una minaccia, deformata da apprensioni spropositate. Cifre alla mano, i responsabili dei servizi di polizia confermano che la percentuale dei reati rimane stabile e il nostro Paese continua

a meritare la sua fama tradizionale di sicurezza. Di conseguenza, in molti casi la paura appare ingiustificata. Fatta di niente, campata in aria, persino isterica? Non proprio se, poi, le stesse autorità hanno dovuto correre ai ripari: intensificando i controlli nelle zone cosiddette sensibili, fra cui gli autosili. Qui, infatti, capita adesso d’imbattersi in agenti, pubblici e privati, in uniforme, e in questo caso ben visti: non distribuiscono multe ma sorrisi rassicuranti. E non mancano persino i posteggi bene illuminati destinati alle donne. In pratica, però, occupati prevalentemente dai poliziotti stessi. Ma tant’è. Al di là di queste divergenze d’opinioni e sensazioni, è giocoforza arrendersi all’evidenza: la criminalità è diventata una compagna di vita persino per gli abitanti dell’invidiabile Confederazione elvetica. E in modi diversi. Innanzi tutto, purtroppo, sotto la forma di reati, di varia


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2014 • N. 07

Attualità Migros

Piacere del pesce, spensierato Migros dà il buon esempio: come prima azienda al dettaglio in Svizzera, nei banchi a servizio offre ai suoi clienti soltanto specialità ittiche consigliate dal WWF, che appartengono a specie non minacciate Le ultime novità che arrivano sul bancone delle pescherie Migros hanno nomi particolari: si chiamano ad esempio Ombrina bocca d’oro o Sebastidi. Sono varietà di pesce introdotte di recente per sostituirne delle altre. L’ombrina prende il posto del leccio, ad esempio, e queste nuove specie sostituiscono altri abitanti dei mari la cui sopravvivenza, secondo una valutazione del WWF, è minacciata. In questo modo Migros permette un ricambio dell’offerta ai banchi a servizio e allo stesso tempo offre un contributo al salvataggio delle specie in pericolo. «Vogliamo che i nostri clienti possano gustare con la coscienza tranquilla il pesce che comprano da noi» dice Sandra Hinni, biologa marina ed esperta di sostenibilità nel settore dei prodotti ittici della Federazione delle cooperative Migros. «Per questo orientiamo le nostre scelte secondo le valutazioni del WWF». Prima tra i dettaglianti svizzeri, Migros offre ora nel servizio al banco esclusivamente qualità di pesce che il WWF nelle proprie valutazioni ha catalogato come consigliabili o accettabili. Introducendo questa novità nelle sue pescherie Migros, mantiene già da oggi una parte della propria promessa, un impegno che intende rispettare entro il 2020. L’azienda si è impegnata nell’ambito del progetto Generazione M a offrire soltanto pesci o frutti di mare che provengono da fonti sostenibili. Un obiettivo che sembra ambizioso, se si pensa che Migros è il maggior rivenditore di crostacei e pesci. La promessa sarà mantenuta e i suoi effetti si vedranno gradualmente non solo nell’assortimento a libero servizio ma anche in quello del self-service. In questo senso, Migros lo scorso anno è stata la prima azienda al dettaglio a livello mondiale ad introdurre un tonno rosa in scatola catturato in modo

in questo caso Migros non trascura di porsi una domanda sull’origine di tali prodotti: per questo, ad esempio, l’articolo «MAX pesce secco MSC» è fino ad oggi l’unico snack per cani che sia contrassegnato dal marchio del Marine Stewardship Council. Nel caso del cibo per gatti, poi, Migros offre nella propria marca Selina una serie completa di prodotti con certificato MSC. In questo modo, senza saperlo, anche i nostri felini d’appartamento partecipano alla lotta contro la pesca eccessiva.

Una formazione alla pesca sostenibile

Nei banchi delle pescherie Migros le etichette garantiscono sostenibilità e regionalità. (TiPress)

tradizionale, con canna e lenza, e che per questo si fregia del marchio dell’organizzazione internazionale ambientale Marine Stewardship Council (MSC). Nel quadro di una generale sensibilità verso l’ecosistema marino, l’organizzazione si impegna per una pesca in alto mare rispettosa dell’ambiente e il suo obiettivo è che la popolazione ittica non sia sfruttata oltre misura. Oltre a ciò va considerato anche il rischio della cattura involontaria di altre specie, come pure di mammiferi marini e uccelli. Migros incrementa regolarmente l’offerta di prodotti certificati MSC. Oltre a questo, nel caso di pesci e frutti di mare che non sono catturati in alto mare ma che provengono invece dagli allevamenti, quando possibile sceglie per l’assortimento prodotti ittici certificati

dall’organizzazione di utilità pubblica Aquaculture Stewardship Council (ASC), oppure identificati dal sigillo Bio. Gli allevamenti di questo tipo si impegnano tra l’altro a non minacciare la biodiversità della loro regione. In questo modo nessun habitat naturale, come ad esempio le paludi di mangrovie, finisce per essere danneggiato. Ma perché Migros impegna così tante risorse economiche per acquisire pesci e frutti di mare da fonti sostenibili? «I pesci sono parte di un ecosistema complesso» dice al proposito Mariann Breu, responsabile del progetto del Seafood Group del WWF. «Se una specie si estingue, ciò ha sicuramente delle ripercussioni su altri esseri viventi». Vi sono poi ricadute sulle popolazioni che vivono nelle regioni costiere interessate.

«Insieme alla scomparsa di una specie ittica vanno anche perduti numerosi posti di lavoro» dice l’esperta del WWF. «Oltre a ciò, il pesce costituisce una importante fonte di proteine per una gran parte della popolazione mondiale». Secondo calcoli effettuati da WWF, infatti, il pesce rappresenta per 950 milioni di persone una parte significativa oppure addirittura irrinunciabile dell’alimentazione. Per questo motivo è così importante impegnarsi per uno sfruttamento responsabile dei mari. Quanto esteso sia l’impegno di Migros da questo punto di vista lo si scopre osservando l’assortimento dei mangimi per animali: a cani e gatti a volte si destinano parti di pesce che non sono adatte alla nutrizione umana. Anche

Il pollaio si trasforma

Filiale provvisoria a Tenero

Micarna Migros amplia il suo assortimento di pollame biologico e

sostiene gli agricoltori nella conversione verso forme di allevamento sostenibile. Laurent Godel ha messo in piedi un’azienda modello, che tiene conto del benessere degli animali Succede raramente che arrivino ospiti in visita alla fattoria di Laurent Godel, 46 anni, che si trova vicino a Domdidier, un paesino di 3000 abitanti nella parte nordoccidentale della pianura friborghese. Eppure varrebbe davvero la pena di dare un’occhiata alle costruzioni degli allevamenti. L’agricoltore ha implementato nella sua fattoria, dopo essere subentrato nella gestione al padre nel 2006, numerosi sistemi innovativi. Con il sostegno di Migros ha trasformato il suo stabilimento in un’azienda modello per l’allevamento di polli biologici, in cui sono resi più efficienti sia la produzione che le misure di protezione del benessere degli animali. Grazie a queste misure Migros ha potuto ampliare l’assortimento di pollame biologico di produzione svizzera. La particolarità dei pollai di Laurent Godel, rispetto a quelle predisposte nor-

malmente dagli altri allevatori Bio, sta nella loro installazione fissa. In effetti, negli allevamenti tradizionali le norme di legge prescrivono che debbano essere spostati di tanto in tanto, in modo che le galline possano stazionare su altri spazi erbosi. Nelle aie di Laurent Godel, invece, possono rimanere sempre nello stesso posto, perché sono circondate da tre spazi diversi, pronti ad accogliere le galline. Dopo ogni periodo di allevamento, quindi, i polli utilizzano un’altra area, a rotazione. In questo modo l’erba dei prati ha il tempo di crescere e le malattie che possono essere diffuse sul terreno sono così evitate. Gli spazi fissi inoltre riducono anche la mole di lavoro degli agricoltori. Laurent Godel ha installato nella sua azienda complessivamente sei nuovi pollai fissi. In ognuna si trovano fino a Nel settore degli allevamenti avicoli, Anton Grub di Micarna (a sin.) e l’allevatore Laurent Godel lavorano a stretto contatto. Nei nuovi pollai si trovano al massimo 500 galline.

500 animali. Ciò anche se la normativa nazionale prevede che in uno spazio di queste dimensioni ce ne possono stare fino a 2000. Anche nel campo dell’alimentazione Godel sta percorrendo nuove strade: il mangime secco viene trasportato automaticamente dai silos esterni fino alle mangiatoie nei pollai. «Per il produttore il lavoro deve essere semplificato; con il mio sistema devo occuparmi molto meno del riempimento delle mangiatoie» dice, e accenna inoltre alle rigide prescrizioni a cui devono adeguarsi gli agricoltori biologici, regole che rendono difficile l’introduzione di innovazioni. L’impianto legato alla gestione del silos funziona con energia elettrica prodotta da pannelli solari. Godel ha riflettuto molto sulla costruzione dei pollai. Il tetto a punta crea una corrente d’aria che migliora la ventilazione. Nell’introduzione di queste innovazioni, che possono essere adattate anche alle esigenze di altri allevatori, Godel è stato coadiuvato da esperti dell’industria Migros Micarna. «Trovare dei contadini interessati alla conversione è attualmente una delle sfide maggiori» dice Anton Grub, 35 anni, responsabile della produzione di carne di pollame di Micarna. «L’allevamento di polli nel settore dell’agricoltura Bio non è molto diffuso in Svizzera». Eppure l’investimento conviene: «Gli animali Bio sono più forti» spiega l’agronomo di-

Di recente alle Maldive è stato inaugurato un centro di formazione per pescatori. «Engagement», il fondo per lo sviluppo creato dalla comunità Migros, sostiene questa scuola. Obiettivo del centro è mantenere i metodi di pesca tradizionali e sostenibili maldiviani: i pescatori catturano i tonni con canna e lenza uno alla volta, evitando così le catture involontarie di altre specie. La scuola offre ai pescatori locali un allenamento gratuito a questi metodi di pesca con canna e lenza. Impartisce anche lezioni sulla biodiversità degli habitat marini, sulla sicurezza a bordo delle barche e sulla manutenzione dei motori. A proposito: il tonno in scatola con certificato MSC, che Migros offre da inizio 2013 come primo commerciante al dettaglio al mondo, arriva proprio dalle Maldive ed è stato catturato con canna e lenza. Maggiori informazioni sul fondo di sostegno allo sviluppo di cui sopra all’indirizzo web www.engagementmigros.ch.

Migros Ticino

In concomitanza con la ristrutturazione del supermercato Il mangime secco viene trasportato automaticamente dai silos esterni fino nelle mangiatoie. L’impianto del silos viene messo in movimento dall’energia solare.

plomato. E per quello che riguarda il benessere degli animali, la crescita delle galline Bio è più lenta e naturale rispetto a quella degli allevamenti tradizionali, e dura fino a 80 giorni. Questo è anche uno dei motivi che contribuisce a rendere più costoso l’allevamento degli animali. «Un pollo Bio mangia il doppio rispetto a quello di un allevamento tradizionale» spiega Anton Grub. Il mangime prodotto in Svizzera rappresenta circa il 30 per cento del totale, mentre il resto deve essere importato dall’estero. Attualmente Migros collabora con undici contadini Bio, che sono pronti a convertire i loro allevamenti ai criteri della sostenibilità. «Stiamo aspettando i permessi di costruzione per poter realizzare i progetti» spiega Grub, che fa da tramite tra contadini e autorità. «Mi sento perfettamente a mio agio e sono in grado di capire le necessità di entrambi i settori», dice lo specialista. / Marc Bodmer; Foto: Nik Hunger

Da oggi, 10 febbraio 2014, sarà aperto a Tenero un supermercato Migros provvisorio. Il nuovo spazio commerciale è stato allestito negli spazi dell’ex-negozio di calzature, ubicato nello stesso stabile in cui si trova oggi la filale di Migros Ticino della località locarnese. La struttura provvisoria andrà a coprire il fabbisogno di generi di prima necessità nel corso delle prossime 6 settimane, periodo durante il quale Migros Ticino provvederà alla completa ristrutturazione della filiale. Aperta nel 1967, la filiale Migros di Tenero è stata ristrutturata l’ultima volta nel 1999. Con i lavori attualmente previsti si intendono rinnovare completamente tecnica e illuminazione – tenendo conto sia degli obiettivi di risparmio energetico fissati dalla Cooperativa, sia della comodità per clienti e collaboratori – così come l’arredo del negozio, secondo il concetto già applicato della Cooperativa Migros Ticino in occasione delle più recenti aperture. L’inaugurazione del supermercato rinnovato è prevista per giovedì 27 marzo 2014.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2014 • N. 07

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Ambiente e Benessere Diario di viaggio II Continua il racconto per immagini sul Madagascar, dal taccuino di Stefano Faravelli

Sport per veri uomini Reportage fotografico nel mondo del rugby, una disciplina che richiede grande impegno fisico ma anche senso di squadra pagina 29

Cucinare al vapore Una tecnica per la preparazione dei cibi che ne rispetta i sapori e le proprietà nutritive senza influire sulla digeribilità

Sotto il segno del cavallo Per l’astrologia cinese ogni anno è governato da un animale diverso: il 2014 nitrisce

pagina 30

pagine 26-27 pagina 33

L’agroecologia sfama e salva il pianeta Alimentazione Il film-documentario di

Marie-Monique Robin ci propone un viaggio nel mondo rurale che apre nuove prospettive al futuro

Elia Stampanoni I raccolti del futuro è il titolo del documentario di Marie-Monique Robin, giornalista francese che in questo suo film parla dell’alimentazione nel mondo. I 135 minuti (in onda anche alla Rsi su La2 il 7 gennaio scorso) sono un’inchiesta approfondita sui possibili rimedi alla crisi alimentare. La soluzione proposta dall’autrice si chiama agroecologia, una disciplina insegnata anche nei nostri atenei, ma che non ha ancora trovato un ampio riscontro. Si basa sul rispetto dell'ambiente e delle risorse naturali, sulla ridistribuzione equa dei prodotti agricoli, sulla rinuncia all’impiego di pesticidi e sul recupero di tradizioni soppiantate a favore dello sfruttamento industriale. Il filmato, come leggiamo nella presentazione, «illustra in che modo l’agroecologia possa nutrire l’intera popolazione del globo, a condizione che i detentori del potere politico abbiano finalmente la volontà di opporsi all’egemonia dell’industria petrolifera e di quella agroalimentare». Un tema importante quello toccato da Marie-Monique Robin, che in apertura vola in Messico. Qui, per coltivare il mais (oggi il cereale più coltivato al Mondo), ai contadini si propone una tecnica particolare, ossia seminare assieme e sullo stesso terreno granoturco (il mais), fagioli e zucca. Quali i vantaggi? Le foglie di zucca coprono il terreno e lo proteggono dall’erosione e dall’avvento delle malerbe, oltre a garantire ombra e umidità al suolo. Queste condizioni vanno a beneficio del mais, che può crescere più vigoroso e funge a sua volta da sostegno per i fagioli. Anche questi svolgono un ruolo importante nella consociazione: come tutte le leguminose, sono in grado di fissare l’azoto atmosferico nel terreno e garantire preziose sostanze nutritive. Il risultato è una triplice coltura, rigogliosa e ottenuta senza l’ausilio di pesticidi o fertilizzanti. Un sistema sostenibile che permette a molti piccoli contadini messicani di essere autosufficienti. In contrapposizione troviamo il sistema adottato nel Michigan, negli Stati Uniti, portata ad esempio dell’agricoltura industriale. Qui vediamo un’azienda con 480 ettari di terreno, dove distese di mais e soia vengono coltivate sotto l’im-

pulso di fertilizzanti chimici, erbicidi e insetticidi. Le sementi sono tutte Ogm (con organismi geneticamente modificati), dato che la soia è resistente a un erbicida (poi utilizzato in modo massiccio per distruggere le malerbe presenti), mentre il mais è resistente alla Piralide e alla Crisalide delle radici, due dannosi insetti. Ogni anno l’agricoltore deve acquistare i nuovi semi (brevettati), i cui costi sonio oltretutto in continua crescita. Con questo sistema l’azienda si è resa dipendente dall’industria per la semenza, per i fertilizzanti e per i pesticidi. Una situazione che ha però anche gravi conseguenze ambientali, come dichiarato dall’agricoltore stesso nel documentario I raccolti del futuro. Si stima di fatto che il 50% dei pesticidi impiegati in agricoltura vada a finire nel terreno, con importanti inquinamenti del suolo e delle falde freatiche, i cui effetti sono spesso dilatati nel tempo e con essi anche i danni alla salute dell’uomo. A ciò si aggiungono i problemi di resistenza delle malerbe agli erbicidi, che obbligano i contadini a usare sempre nuovi e diversi prodotti e sementi, rafforzando così la dipendenza dall’industria chimica.

La giornalista francese autrice de I raccolti del futuro.

Un’agricoltura sostenibile è possibile e può migliorare le condizioni di vita della popolazione Il mais, oltre ad essere l’alimento principale per i messicani, è anche la coltura che permette a molti di loro di sopravvivere. Seppur tra mille difficoltà, il Messico è riuscito a mantenere un livello di auto-approvvigionamento alimentare, finché nel 1994 è stato firmato un trattato di libero scambio con Canada e Stati Uniti. Le conseguenze per il Messico sono state pesanti, dato che il Paese si è trovato confrontato a importazioni a prezzi bassissimi. Di fronte a questa concorrenza molti piccoli agricoltori hanno lasciato le campagne e si stima che siano stati tre milioni i contadini ad abbandonare la terra, consci che costava meno comperare il mais statunitense piuttosto che coltivarlo sul proprio terreno. Oggi il Messico importa il 30% del

Una scena del film

granoturco consumato e ogni anno 500mila messicani raggiungono clandestinamente gli Stati Uniti, mentre altri si spostano nelle bidonville di Mexico City. Diciannove milioni di messicani soffrono di malnutrizione e tra le strategie che Marie-Monique Robin evidenzia nel suo documentario spiccano i due principi esposti: un approccio agroecologico e l’eliminazione della dipendenza degli agricoltori dalle energie fossili e le multinazionali. La tecnica push and pull sta invece aiutando molti contadini del Kenya,

mentre l’erba Gliricidia altri piccoli agricoltori del Malawi, dove il 75% della popolazione vive nelle zone rurali. Ma di questo riferiremo in un prossimo contributo. Marie-Monique Robin è una giornalista e scrittrice francese. Nata nel 1960 in una famiglia di agricoltori, ha studiato scienze politiche, per poi diplomarsi in giornalismo all’università di Strasburgo. Dal 1989 ha prodotto una quarantina di documentari d’investigazione, ricevendo una trentina di onorificenze, tra cui il premio Buffon al

Festival internazionale del film scientifico. I suoi documentari sono spesso il frutto di un lungo e meticoloso lavoro di ricerca sul campo e offrono uno sguardo critico sulla situazione dei diritti dell’uomo nelle differenti regioni del mondo. L’America latina e l’Africa sono tra le mete preferite dell’autrice, dove la giornalista si reca con regolarità per cercare di raccontarne la vita quotidiana, un realtà spesso ignorata da molta gente. I raccolti del futuro è il suo terzo documentario sull’alimentazione nel mondo.


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L’occhio dell’uroplatus Viaggiatori d’Occidente In Madagascar, per divenire ciò che si dipinge - Seconda parte Stefano Faravelli, testo e disegni Un globo d’ambra lucente acceso da bagliori dorati, tagliato a metà, in verticale, da una linea scura che ricorda il tracciato di un sismografo. E infatti muta col mutare della luce: si restringe e si dilata. Tutt’intorno a questa linea mobile vedo un labirinto concentrico, una minuta filigrana color rosso di Cina. Questa biglia iridata è inserita in un castone di squame sfrangiate simili a lichene. La biglia si sposta impercettibilmente verso di me ed io mi sento come lo hobbit fissato dal grande Occhio della Torre di Mordor. Non saprò mai come l’Uroplatus fimbriatus ha elaborato la mia figura nel suo apparato visivo ma mi ha «te-

L’Uroplatus fimbriatus , grosso geko arboricolo la cui livrea criptica ne fa un animale di difficile individuazione.

nuto d’occhio» per tutto il tempo che ho impiegato a farne il ritratto. L’Uroplatus è un grosso geco (il mio era lungo 27,5 cm), endemico del Madagascar; lo avevamo catturato la notte precedente: gli amici scienziati sapevano che di giorno sarebbe stato facile dipingerlo. Animale notturno, durante le ore di luce si appiattisce su un tronco e trapassa nel regno vegetale restando cripticamente immobile per l’intera giornata. Ho dipinto così oltre al fimbriatus, il lineatus, che imita le nervature concentriche delle cortecce e il sikorae, il coda a foglia barbuto, che simula le lamine grigio-verdi del lichene. Quante volte, poi, il mio sguardo sarà scivolato sull’agognato e mai tro-

vato phantasticus, scambiandolo per una foglia morta? Questo è la Foresta dei tropici: il luogo dell’Immaginazione. Attiva e vivente forza ideoplastica che forgia continuamente le sue forme come all’alba della creazione. Subdola sfida alla scienza, che pretende di racchiudere nelle cassettiere tassonomiche l’esuberante energia metamorfica che la vita dispiega in un prodigo dispendio di invenzioni. Questo è la Foresta pluviale: luogo dove i regni, come in certi dipinti di Bosch, trapassano incessantemente l’uno nell’altro o si inseguono in una interdipendenza meravigliosa. Cosa è chiave? Cosa è serratura? Guardi una liana ed è un serpente; una

foglia smangiata si rivela coda di geco o mantide o rana… La legge della sinmorfosi (quella per cui la chiave è a misura di serratura) è inscritta in ogni cosa e se cerco di cogliere il Vivente nel suo insieme non è più sensato chiedersi se è il Mixomicete (una sorta di fungo) a imitare i camaleonti nani piuttosto che l’inverso. In questo straordinario atelier ho lavorato per dieci giorni, accampato con alcuni zoologi e due guide sotto il verde manto della foresta. Gli zoologi intenti alla loro nobile missione: preservare nella grande arca genetica la biodiversità di rettili e anfibi che in Madagascar vantano primati mondiali di endemicità. Minuscoli prelievi (una goccia di sangue di pitone, un frammento di

Un esemplare vistoso di camaleonte Furcifer pardalis. L’animale era appena morto, investito da un’auto vicino a Tamatave. L’autore ha usato il corpo come tampone per registrare la coda e il muso (a destra su carta di fazzoletto).

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coda di geco…) sono sufficienti alle operazioni di analisi molecolare. Ed io, con i miei taccuini e pennelli, cercando di tradurre in segni e disegni la Bellezza fantasmagorica di questa cattedrale verde, dove ogni raggio di luce che taglia la canopea illumina creature leggendarie e misteriose. Volevo anche, partecipando come «pittore al seguito» (peintre au suite) di una spedizione erpetologica, ripercorrere le imprese pittoriche di artisti oggi per lo più dimenticati; quell’esercito di pittori naturalisti a cui era affidata la

descrizione delle forme viventi prima che la macchina fotografica invadesse la scena con il suo fardello di oggettività. Johann e George Forster con James Cook nel Pacifico (1772-1775), Ferdinand Bauer al seguito di Flinders in Australia (1801-1805), Henry Walter Bates e le sue incantevoli tavole di insetti brasiliani, gli artisti che viaggiarono sul «Beagle» con Darwin… E sopra tutti quella Maria Sibylla Merian sublime pittrice di rettili e insetti che disegnò mirabili tavole nel corso della sua – davvero per più di un aspetto pionieri-

stica – spedizione in Suriname (16991701). Non è mia intenzione contendere il primato al teleobbiettivo, ma piuttosto fare personale e intima esperienza del divenire geco mentre lo dipingi. Per ingaggiare con il soggetto ritratto una caccia e una danza. Di sguardi, di mimesi (che altro è la pittura?) e di comprensione. Dipingere animali dal vivo e nel loro ambiente, con i fidi acquarelli sempre bagnati (non per nulla la foresta è pluviale), scomodamente appollaiati su

un tronco, è un esercizio per la mente e per il cuore, su quella «via del taccuino» di cui ho fatto una scuola. Infine tra poco, temo davvero poco, questa Foresta dono dell’Immaginazione all’uomo sparirà, si ritirerà nell’invisibile come il Graal e l’unicorno. Assediata dalla deforestazione, dal fuoco, dal commercio di legno pregiato, dalla stessa fragilità estrema del suo ecosistema… Ed io ci sarò stato, per guadagnarla alla mente, per intonarne con i delicati strumenti della mia arte il canto del cigno.

Tavola di rane di foresta, ancora non finita. La rana arancio in alto è la famosa Mantella aurantiaca il cui areale, estremamente fragile e circoscritto, fa di lei una specie in pericolo di estinzione. Qui sopra un Boophis arboricolo dalle palme rosate.

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L’energia dei muri trasparenti Eco-architettura Il vetro, non solo per essere impiegato in funzione di aperture come per le finestre, ma come

materiale edile di infinite possibilità d’impiego e di risparmio energetico

Jane-Lise Schneeberger* La moda architettonica contemporanea è caratterizzata da un crescente utilizzo del vetro nella costruzione, sia nel rivestimento di interi edifici, sia per la creazione di grandi aperture luminose con vetrate o tetti a vetri. Il vetro ha molti pregi, ma il suo impiego incontra diversi ostacoli sul piano energetico. In inverno le superfici vetrate disperdono calore in maniera considerevole, in estate provocano il surriscaldamento all’interno dei locali. Nonostante i numerosi sforzi dei produttori per migliorare le caratteristiche dei vetri, il problema persiste e una facciata trasparente o anche solo traslucida continua a essere un isolante nettamente peggiore rispetto a un muro massiccio.

Il fattore «G» esprime il valore dell’energia solare che entra da facciate trasparenti espresso in percentuale Al fine di sviluppare soluzioni ottimali per questa problematica, tecnici ed esperti devono conoscere il comportamento esatto delle superfici vetrate in condizioni operative reali. Le dispersioni di calore possono essere rilevate in modo alquanto semplice con opportuni dispositivi di misurazione. È invece molto più difficile stimare la percentuale di radiazione solare (espressa come fattore solare «G»), cioè l’energia solare trasmessa dal vetro all’interno di un ambiente. In tutto il mondo, diversi centri di ricerca e laboratori dispongono di calorimetri per la misura della radiazione solare. Questi apparecchi sono tuttavia per lo più di grandi dimensioni e di conseguenza stazionari. Per questo motivo l’Ufficio federale dell’energia ha deciso nel 2009 di finanziare lo sviluppo di un calorimetro trasportabile per la misurazione della radiazione solare, un dispositivo quindi che possa essere montato temporaneamente sulle facciate vetrate per misurare il valore «G». Il progetto, che è prossimo alla sua conclusione, si è svolto in collaborazione con due istituti di ricerca: il Laboratoire énergie, environnement & architecture (Leea) della Haute école du paysage, d’ingénierie et d’architecture (Hepia) di Ginevra e l’Istituto sostenibilità applicata all’ambiente costruito (Isaac) di Canobbio,

L’apparecchio che misura il valore «G» in un’aula della Supsi a Canobbio. Al centro, nascosto alla vista: il serbatoio di accumulo. (Peter Gallinelli / Hepia)

che fa parte della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (Supsi). L’architetto Peter Gallinelli del Leea ha curato il progetto sul piano preparatorio e tecnico. Daniel Pahud, fisico presso l’Isaac, ha sviluppato il relativo sistema di regolamentazione ed è responsabile dell’analisi dei dati. Con il supporto dei propri team di laboratorio, hanno sviluppato due prototipi di calorimetro denominato G-box. Un apparecchio si trova a Ginevra, l’altro a Canobbio. «I due dispositivi sono pronti per il funzionamento e possono essere montati in qualsiasi edificio a piacere per misurare i parametri energetici e provare eventuali soluzioni adatte», ha spiegato Reto Camponovo, direttore del Leea. I ricercatori confidano nel fatto che questo dispositivo uni-

Il prototipo «G-Box duo» installato nell’edificio di Hepia a Ginevra. I due involucri assorbono il flusso di calore che penetra nell’edificio attraverso la superficie vetrata, mentre sulla facciata esterna è installato un solarimetro che misura la radiazione solare. (Peter Gallinelli/Hepia)

co al mondo susciterà grande interesse nel settore edilizio. Le due scuole sono impegnate anche nella diffusione di informazioni sul nuovo dispositivo tra i professionisti nel settore delle costruzioni. Il dispositivo di misura si compone di cinque parti facilmente trasportabili. L’elemento principale è la G-box, da cui prende nome il sistema. Si tratta di un contenitore isolato di dimensioni 50x50x50 cm, che racchiude uno scambiatore di calore e diverse sonde termiche. Questo involucro viene fissato dietro una finestra o una facciata per rilevare il calore solare che penetra all’interno dell’edificio. Il problema consiste nel quantificare questo flusso di calore. «Per farlo, la temperatura all’interno dell’involucro deve essere mantenuta costante immettendo attraverso lo scambiatore di calore l’acqua fredda necessaria per compensare il riscaldamento provocato dal sole. In base alla quantità di acqua fredda immessa possiamo calcolare quanta energia solare passa attraverso la superficie vetrata in esame», spiega Peter Gallinelli. Per determinare l’energia complessiva penetrata all’interno di un edificio sono necessari quattro valori di misura: la quantità d’acqua, la sua temperatura in entrata e in uscita dall’involucro e la sua capacità termica. Per ottenere il valore «G» è sufficiente dividere la corrente termica calcolata per la radiazione solare all’esterno della finestra. La radiazione solare può essere misurata con un solarimetro che viene installato sul lato esterno della facciata. Perché la G-box possa fornire dati affidabili sono necessari altri dispositivi. Un impianto di refrigerazione raffredda l’acqua a 15°C e alimenta un serbatoio di accumulo con una capienza di 100 litri. Una pompa aspira l’acqua contenuta in questo recipiente e la fa circolare attraverso lo scambiatore di calore che si trova nell’involucro isola-

to. Tutto l’impianto è controllato da una centralina di comando. I prototipi installati in Ticino e a Ginevra sono modelli con due involucri denominati «G-box duo». In questo modo è possibile effettuare misurazioni comparative, ad esempio confrontando la situazione di una finestra con tende chiuse con quella della finestra accanto con tende aperte. Dal 2011 i ricercatori hanno testato diversi tipi di facciata vetrata e di dispositivi di protezione solare nei propri edifici. «Poter effettuare misurazioni sul posto rappresenta un grande vantaggio. Fino ad ora ingegneri e architetti si sono dovuti accontentare delle specifiche tecniche fornite dai costruttori, che si basano su prove di laboratorio», spiega Peter Gallinelli. Ma il fattore «G» reale può discostarsi molto da questi valori teorici: «Un edificio interagisce con l’ambiente circostante e con i suoi fruitori determinando una variazione di questo valore lungo la giornata e in base alle stagioni». Tra i fattori che influenzano: l’orientamento delle finestre, l’ambiente, lo sporco o la vicinanza di edifici che fanno ombra. Le condizioni standardizzate delle prove di laboratorio non possono tener conto di questi elementi d’influenza.

Il dispositivo sviluppato dai ricercatori ticinesi e ginevrini consente di determinare il valore «G» di una superficie vetrata Lo stesso fattore «umano» incide in modo non trascurabile sul valore «G». «Il modo in cui viene usato un dispositivo di protezione solare può rappresentare, ad esempio, un vero e proprio

problema», prosegue Peter Gallinelli. Molti edifici sono dotati di un sistema per la chiusura automatica delle tende non appena la luce naturale supera una soglia preimpostata. Se però l’ambiente interno diventa troppo scuro, le persone al suo interno riaprono le tende. «In questo caso anche la migliore protezione dal sole non è di grande aiuto». Grazie alla G-box è ora possibile introdurre nelle considerazioni anche la variabile del comportamento umano. Fino agli anni Settanta i costruttori si sono preoccupati poco di isolamento e protezione degli edifici contro il sole. Per questo motivo sono sorti negli anni precedenti edifici con grandi superfici vetrate, veri e propri energivori. «A quei tempi l’olio combustibile era più economico. Per mantenere una temperatura piacevole all’interno dei locali era usuale installare apparecchi che consumano grandi quantità di energia: impianti di riscaldamento per compensare le dispersioni di calore durante l’inverno, e impianti di climatizzazione per rinfrescare i locali surriscaldati dal sole in estate», così Reto Camponovo descrive la situazione di quegli anni. Nel frattempo si è compiuta fortunatamente un’evoluzione positiva del pensiero che ha portato a un nuovo approccio. «Al giorno d’oggi il consumo di grandi quantità di energia per alimentare gli impianti di riscaldamento e climatizzazione non è più tollerato. Oltre a ciò, i proprietari di immobili sanno che qualsiasi intervento di risanamento va tutto a loro vantaggio. Noi li aiutiamo a trovare delle buone soluzioni». La G-box permette, infatti, anche di testare i vantaggi e gli svantaggi di diversi tipi di tenda e di altri dispositivi di protezione solare. * Articolo scritto su incarico dell’Ufficio federale dell’energia / UFE


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Oltre il rugby Sport Sempre più praticato in Ticino,

è un gioco di squadra che possiede molte qualità insospettabili

Per rispondere a questa domanda cito una frase nota a chi è «sul campo»: il rugby è uno sport per tutti. Ciò significa che qualsiasi persona può essere un potenziale atleta. Esiste un ruolo per ogni persona sia essa alta o bassa, grande o piccola, pesante o leggera.

giocatore fa pressing sull’avversario. Il rugby ha anche un valore educativo?

Le componenti educative e sociali sono certamente presenti in questo gioco. In particolare l’allenatore lavora molto affinché il giocatore riesca ad affrontare l’avversario nel totale rispetto. Un bravo allenatore insegna a giocare con e non contro gli avversari. Si tratta di uno sport che potrebbe essere indicato anche per i bambini iperattivi o per ragazzi problematici?

Ai bambini iperattivi spesso viene consigliata la pratica di un gioco tipo quello

del rugby in quanto serve loro per far esplodere tutta la vivacità nel rispetto delle regole. Il rugby permette loro di fare tutto ciò che a volte i rispettivi genitori impediscono di fare: correre, buttarsi per terra, fare la «lotta», tirare le maglie, mettere i piedi nelle pozzanghere, eccetera, che per molti versi sono attività che assumono un ruolo anche terapeutico. Perché un genitore dovrebbe incitare suo figlio a praticare questo sport?

Uno dei motivi principali è che nel rugby non esistono riserve, tutti devono giocare (in molti sport tanti bimbi si sie-

dono in panchina e giocano pochissimo). Inculchiamo il rispetto delle regole, dell’arbitro, dell’avversario, dei compagni degli educatori. Infortuni? Se ne riscontra un numero maggiore rispetto agli altri sport?

In Italia sono state stilate delle statistiche comparando quattro sport: calcio, volleyball, basket e rugby ed è emerso che lo sport con la percentuale minore di infortuni era proprio il Rugby. Informazioni

www.ticinorugby.ch

Jacek Pulawski

Il rugby è innanzitutto lo sport di squadra per eccellenza dove il sostegno al compagno sia esso in attacco o in difesa è la base per poter giocare bene. Non si vince da soli, ma hai bisogno sempre di un sostegno dei compagni. Il gioco di squadra è fondamentale per raggiungere lo scopo comune, ovvero quello di segnare la «meta» portando avanti il pallone passandolo con le mani al compagno, che deve stare dietro di te, sempre indietro. La «meta» si segna portando il pallone nell’area e appoggiandolo a terra oltre la linea. Ma per completare la risposta alla domanda, aggiungo che il rugby non è uno sport violento; è certamente uno sport duro, ma non aggressivo o che induce all’aggressività. In questo senso può essere paragonato al calcio o al basket nei momenti in cui il

Jacek Pulawski

Molto spesso il gioco del rugby viene associato a uno sport violento e aggressivo. Qual è il suo punto di vista a questo proposito?

Jacek Pulawski

«Quattordici uomini che lavorano insieme per dare mezzo metro di vantaggio al quindicesimo. Questo è il rugby». Così scriveva Charles (Charlie) Kesteven Saxton, noto giocatore di rugby neozelandese. Il gioco del rugby in realtà è molto più di quanto descritto da Saxton; è un gioco di collaborazione, di tattica, di forza, potenza e coordinazione. Uno sport molto simile a quello giocato oggi era già praticato nel IV secolo in terra ellenica, in cui era in voga l’episkiros o phoeninda. Secoli dopo, il 1. novembre del 1823, in un college inglese accadde un fatto, allora insignificante, che diede però inizio alla disciplina sportiva del rugby moderno. Mentre giocava con i compagni nel prato della Pubblic School di Rugby, una graziosa cittadina inglese del Warwickshire, l’irlandese Williams Webb Ellis con grande dispregio delle regole allora in vigore, prese la palla tra le braccia e corse con essa determinando così l’origine di una delle caratteristiche essenziali e distintive del gioco del rugby. Dai campi inglesi, a quelli di casa nostra. Il rugby, per quanto ancora poco noto nel Cantone Ticino, da alcuni anni ha messo radici e negli ultimi tempi ha conosciuto una crescita importante. Per capirne di più, abbiamo incontrato l’allenatore del Ticino Rugby, Gianni Amore.

Signor Amore, a differenza del calcio, praticato in massa, il rugby rimane ancora uno sport tutto sommato di nicchia e poco conosciuto. Chi può essere il potenziale giocatore di rugby?

Jacek Pulawski

Davide Bogiani

L’inarrestabile corsa dell’«elettrico» Motori Tra le ultime novità, il traguardo delle 100mila Nissan Leaf vendute dal 2010 ad oggi,

ma anche gli sforzi di Tesla, Cadillac e BMW, sostenute dal fatto che l’80 per cento degli Stati Uniti è coperto da stazioni di ricarica Mario Alberto Cucchi Cinquantamila monete da due pence di sterlina e cinquantamila monete da due centesimi di Euro. Tante ne sono servite per ricoprire integralmente una ecologica Nissan Leaf. L’occasione? I festeggiamenti per il traguardo superato dall’automobile elettrica giapponese, ben 100 mila Leaf vendute nel mondo dal 2010 ad oggi. La scelta delle monete sta ad indicare quanto sia economico gestire una Leaf, cioé soltanto 0,02 sterline a miglio e meno di 0,02 Euro a km. La vettura è ricoperta per metà da sterline e per l’altra metà da Euro con la scritta Leaf ottenuta sovrapponendo tre strati di monete. Per ottenere questo risultato sono state necessarie sette giornate di lavoro da parte di un team di tre specialisti che hanno applicato sulla

carrozzeria circa 500 chilogrammi di monetine. Nissan si prepara ad arricchire l’offerta della gamma elettrica. Il responsabile design, Shiro Nakamura, ha annunciato il futuro sviluppo di tre inedite versioni. Si tratterà di una zero emissioni pratica sulla falsariga della Leaf, di una vettura più sportiveggiante derivata dalla concept BladeGlider e di una variante più economica che dovrebbe basarsi sul prototipo Pivo3 del 2011. Insomma l’elettrico continua a «correre». Intanto l’offerta mondiale di modelli ibridi plug-in, ossia vetture dotate sia del motore tradizionale che di uno elettrico con batterie ricaricabili anche dalla «presa», sta crescendo significativamente. La Casa più conosciuta in tal senso è la californiana Tesla. Il presidente e

co-fondatore di Tesla, Elon Musk, ha affidato a Twitter l’annuncio che la rete di ricarica americana per le auto elettriche (il network Tesla Supercharged) è stata rafforzata a tal punto che ora la Model S può completare il coast to coast da New York a Los Angeles in un unico viaggio. Secondo Musk, ormai circa l’80% degli Stati Uniti è coperto da colonnine di ricarica libere. La rete è posizionata nei pressi di ristoranti, bar e zone dedicate allo shopping. Per quanto riguarda l’Europa Tesla Motors, in collaborazione con Deutsche Bahn, ha inaugurato quattro nuove stazioni per la ricarica di vetture elettriche sulle autostrade tedesche. Saranno utilissime in occasione di viaggi lunghi nel Paese. La Casa californiana ricorda che la sua Model S ha un’autonomia di 500 km, ma è penalizzata dalle ancora scar-

se infrastrutture. Tanti altri costruttori si stanno lanciando nel settore delle automobili ibride plug-in. Ad esempio Cadillac con la ELR o BMW con l’imminente i8. Una corsa, questa, agevolata dai continui rincari del prezzo della benzina, sia in Europa che in America, e alla quale potrebbero presto partecipare due nomi gloriosi dell’industria auto globale. Il top management sia di Bentley che di Rolls-Royce hanno ammesso che questa ipotesi è in fase di discussione. Sia il responsabile vendite e marketing di Bentley, Kevin Rose, sia il presidente di Rolls-Royce, Torsten Müller-Ötvös, hanno garantito a Business Insider che l’alternativa delle ibride plug-in sarebbe certamente più vantaggiosa rispetto alla possibilità di arricchire le rispettive gamme con versioni a gasolio.

Suona strano che i proprietari di Rolls e Bentley si facciano dei problemi per il consumo. Vero ma oggi salvaguardare l’ambiente è doveroso per tutti, indipendentemente dall’auto che si guida. Porsche sta facendo scuola con le sue ultime ibride che certo non sacrificano prestazioni ed emozioni sull’altare dell’ecologia anzi. Registriamo infine che lo scorso anno quasi 22 milioni di cinesi hanno comprato un veicolo nuovo, ma soltanto poco più di 3000 hanno optato per un modello ad alimentazione ibrida. Numeri ancora insignificanti, dunque, ma destinati a crescere considerevolmente nei prossimi anni grazie anche alle politiche governative che spingeranno per migliorare la drammatica situazione dell’inquinamento nelle metropoli locali.


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Cucinare al vapore Allan Bay Si cucina al vapore da sempre. Però oggi gli strumenti per cuocere a vapore sono in numero maggiore di quanto sembri. Elenchiamoli insieme. 1. I cestelli. Possono essere in bambù, oppure in acciaio. Essi sono accomunati dalla forma circolare e dalla presenza di una griglia alla base di ogni cilindro, per permettere il passaggio del vapore. Sono venduti con i loro coperchi. Sono impilabili tra loro e per funzionare è necessario collocarli sopra (o dentro, dipende dal modello) una pentola con acqua al bollore. È inoltre possibile usarli all’interno di un forno tradizionale, a vapore o a microonde. Vanno foderati con carta o foglie di verza per evitare che gli ingredienti si attacchino al cestello. In sintesi, funzionano molto bene e costano poco (quelli di bambù).

Cestelli, margherite, pentole a pressione, forno a microonde e altro ancora: c’è solo l’imbarazzo della scelta 2. La margherita. Parente stretta dei cestelli in acciaio, è la retina pieghevole, traforata e familiarmente nota per l’appunto con il nome «margherita». È composta di una parte centrale fissa circondata da una corona di petali che possono aprirsi completamente o solo in parte a seconda del diametro della pentola che l’accoglie. Da poco tempo, ne esiste una versione in silicone, davvero salva spazio in quanto telescopica: si richiude su se stessa e diventa una sorta di frisbee. È ideale per la cottura in pentola a pressione. In sintesi: un’invenzione perfetta, prezzo imbattibile e ottimi risultati. 3. La pentola a pressione. Nella pentola viene messa una modesta quantità di acqua. È una cottura più «forte» ma

funziona più che bene (di cui abbiamo parlato sul n° 3 di «Azione» del 13 gennaio 2014). 4. La vaporiera. È l’elettrodomestico nato apposta per la cottura a vapore. È composto da uno o più cestelli impilabili in plastica, forati sul fondo e dotati di un coperchio; tutti combaciano perfettamente con una parte inferiore composta da una cisterna da riempire con acqua e scaldata da una resistenza. Un timer permette di impostare i tempi di cottura. Il grande vantaggio di questa attrezzatura è che in breve tempo si produce molto vapore. 5. Il frullatore termico. Questo strumento è un elettrodomestico che funziona con resistenze elettriche o con l’induzione. Frulla, impasta, mescola e, volendo, nel contempo cuoce. Grazie a questa sua caratteristica, è possibile cuocere a vapore. Il frullatore è, infatti, dotato di un cestello, in acciaio o in plastica, con la base forata da ancorare al boccale (che poi è il recipiente principale) come una sorta di cappello. 6. Il forno a microonde. Cuoce il cibo per mezzo di onde corte prodotte da un tubo elettronico e che, riflettendosi sulle pareti del forno, sono convogliate all’interno dell’alimento: lì, queste onde elettromagnetiche provocano un’agitazione delle molecole dell’acqua contenuta nell’alimento producendo una frizione che a sua volta genera calore. Mentre nella cottura a vapore tradizionale il calore si propaga dalla fonte di calore al recipiente in cui è posto il cibo, nella cottura a microonde il calore si produce all’interno dell’alimento che cuoce grazie al surriscaldamento dall’acqua contenuta. Chi scrive ama il forno a microonde e per questo lo utilizza molto. 7. Il forno a vapore casalingo. È un fornetto dotato di una piccola cisterna asportabile per essere riempita con acqua e di una resistenza che la trasforma rapidamente in vapore. In media la cisterna ha un’autonomia di 120’ di cottura a temperatura costante. Costa un po’, ma funziona molto bene.

Marka

Gastronomia È sano e a volte persino poco costoso, non resta che scegliere lo strumento più adatto al nostro gusto

CSF (come si fa)

Le uova di quaglia sono piccole, dal guscio picchiettato di marrone. Sono più leggere e delicate delle uova di gallina e contengono anche meno colesterolo. Essendo piccole, sgusciarle è un lavoro abbastanza noioso. Si consumano preferibilmente sode. Nulla vieta, comunque, di prepararle all’occhio di bue o secondo le altre tecniche di cottura adatte alle uova di gallina,

con la sola accortezza di quadri- o quintuplicare le dosi: a un uovo di gallina ne corrispondono infatti quattro, cinque di quaglia. Vediamo come si fanno due classiche preparazioni a base di uova di quaglia. Uova di quaglia al vino. Per 2 persone. Cuocete 8/10 uova di quaglia in acqua bollente per 5’, scolatele, fermatene la cottura con acqua fredda, sgusciatele e dividetele a metà per il lungo. Mondate 150 g di funghi a piacere e tagliateli a fettine. Fate dorare uno spicchio d’aglio in una casseruola con una noce di burro o un filo di olio, poi unite i funghi e fateli saltare a fuoco vivo per 5’. Spolverate con 1 cucchiaio di farina setacciata, aggiungete 1 bicchierino di vino sobbollito per 3’ e una punta di concentrato di pomodoro stemperata in poca acqua e sfumate me-

scolando per 5’. Profumate con 1 cucchiaio di prezzemolo tritato e regolate di sale e di pepe. Mettete le uova in 2 cocotte, coprite con i funghi, passate in forno a 200° per 4’ e servite. Uova di quaglia alle verdure. Per 2 persone. Cuocete 8/10 uova di quaglia in acqua bollente per 5’, scolatele, fermatene la cottura con acqua fredda, sgusciatele e dividetele a metà per il lungo. Tagliate 100 g di gruyère a dadini piccoli. Mondate e sbollentate 200 g di verdure a piacere per 2-4’, scolatele e rosolatele in una casseruola con un filo di olio per 4’, poi frullatele con poco olio e regolate di sale. Mettete le uova in 2 cocotte, coprite con il formaggio e nappate con la salsa ottenuta. Irrorate con poco olio e abbondante pepe, passate in forno a 200° per 4’ e servite.

Ballando coi gusti

Manuela Vanni

Manuela Vanni

Oggi due antipasti: le empanadas di pollo, che potete farcire con quanto più vi aggrada, e una terrina di spinaci, cotta a vapore.

Empanada di pollo

Terrina di zucchine

Ingredienti per 4 persone: pasta sfoglia g 350 · 1 petto di pollo da 300 g · 2 cipolle · peperoni g 300 · olive nere denocciolate g 80 · peperoncino · 1 uovo · pangrattato · vino bianco secco · olio per friggere · sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: zucchine g 800 · 4 uova · 1 mazzetto di mentuccia ·

Tagliate a dadini il petto di pollo. Mondate e affettate le cipolle. Mondate e tagliate a filetti il peperone. Tritate le olive. Saltate in padella le cipolle con un filo di olio, aggiungete le verdure e il pollo, dopo 5’ sfumate con 1 bicchiere di vino e cuocete coperto per circa 25'. Lasciate raffreddare il composto e aggiungete le olive e il peperoncino. Regolate di sale. Con la pasta ricavate 9 basi rotonde di 14 cm di diametro. Adagiate circa due cucchiai di ripieno, spennellate con l’acqua i bordi del cerchio di pasta e richiudetelo su se stesso formando una mezzaluna, facendo in modo che i bordi aderiscano bene. Passate brevemente le empanadas in un uovo sbattuto e poi nel pangrattato. Friggetele rapidamente in abbondante olio, lasciatele intiepidire leggermente e servitele.

Gruyère g 50 · anice in semi · panna fresca g 20 · sale e pepe. Lavate le zucchine, tagliatene 2 a strisce di 2 mm di spessore e le altre a cubetti. Sbollentatele per pochi istanti, poi raccoglietele con una schiumarola e gettatele in una ciotola colma di acqua fredda. Frullate le zucchine a cubetti, a eccezione di 1 abbondante cucchiaiata, con le uova, la panna e la mentuccia mondata e lavata. Aggiungete 1 presa di anice e regolate di sale e di pepe. Frullate ancora, poi versate il composto in una ciotola, unite le zucchine a cubetti rimaste e il formaggio tagliato a dadini. Foderate una terrina con pellicola da cucina, lasciando che sporga ai bordi. Rivestitela con le strisce di zucchine e riempitela con il composto di zucchine e panna. Terminate chiudendo il tutto con le zucchine a strisce. Richiudete i lembi di pellicola sulla terrina e cuocete a vapore per 40’. Servitela tiepida.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2014 • N. 07

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Ambiente e Benessere

Calici in pasticceria Bacco a tavola Alla scoperta dei migliori vini da dessert –

Seconda parte Davide Comoli Nella prima parte di questo articolo («Azione» del 13.1.14) , vi avevamo spiegato che i dolci si possono classificare in tre grandi gruppi, illustrandovi il primo, rappresentato dalla pasticceria da forno. Continuiamo oggi la spiegazione dei due insiemi rimanenti. La seconda categoria è quella dei dolci al cucchiaio, così chiamati per la loro morbidezza. Sono quei prodotti tipici, sia caldi sia freddi, della pasticceria degli alberghi e ristoranti di alto livello gastronomico. E ovviamente si consumano utilizzando il cucchiaio. Tra questi dolci citiamo: le bavaresi, il tiramisù, il budino, il crème caramel e il soufflé.

Il principio base nell’accostamento tra dolci e vino è la concordanza tra i sapori La terza categoria è invece quella dei dolci freddi tra cui spiccano i semifreddi e i gelati, ma oltre a questi ricordiamo i torroni dolci, i croccanti composti da frutta secca e mandorle, nocciole e noci (a volte in uno strato di zucchero caramellato), i fondenti dolci, i frutti canditi, i confetti con ripieno di arachidi tostate o mandorla, ma anche ripieni di cioccolato e per finire i biscotti e le varie friandises.

Una fetta di crostata o un dolcetto alla crema hanno il potere d’interrompere in modo gradevole una normale giornata di lavoro. Ogni momento è buono sia fuori pasto sia a coronamento di un pranzo per gustare un dolcetto, ma che cosa abbiniamo al nostro dessert? Per un certo periodo di tempo si era pensato che servire un vino dolce con l’ultima portata fosse un errore perché si riteneva che il sapore del vino mischiato a quello dello zucchero finisse per dare quasi uno sgradevole senso di stucchevolezza. Era ovviamente un errore dovuto a delle scelte poco azzeccate. L’abbinamento di un prodotto di pasticceria con il vino deve fare i conti con le varie differenze di tipologia esistenti tra i vari dolci. La considerazione più importante è che, al contrario di quello che avviene nell’abbinamento cibo-vino, nel quale si segue il principio della contrapposizione delle sensazioni gustative, qui si segue quello della concordanza, quindi a una preparazione dolce, di conseguenza ricca di zuccheri, si deve abbinare un vino dolce che contenga dunque dei residui di zuccheri della fermentazione. Ecco perché i vini ottenuti da vendemmie tardive sono i più adatti, vini liquorosi o passiti (con zuccheri residui), dotati di un buon tenore alcolico, una discreta morbidezza, di media struttura, ma soprattutto devono avere una buona

freschezza e sapidità, conferita dall’acidità e dal terreno, in modo di essere in grado di «avere concordanza» con le varie tipologie di dessert, creando così un fantastico insieme di sapori, per la delizia dei nostri palati. Per aiutarvi nella scelta ci permettiamo di suggerirvi qualche proposta. Con il panettone il grande matrimonio d’amore è dato dal Moscato d’Asti o da un Moscato dell’Oltrepò; con il panforte di Siena, sarà perfetto il famoso Vin Santo; e con un delizioso strudel di mele con cannella, ci vorrà un Moscato giallo passito del Trentino. Un Brachetto d’Acqui frizzante troverà con crostate di prugne o rabarbaro il suo abbinamento ideale, mentre la pastiera napoletana avrà il suo perfetto idillio con una Malvasia delle Lipari liquoroso. Un Cinque Terre Sciacchetrà sarà invece ottimo compagno di una torta alle noci o mandorle. Sublime è l’armonia tra i cannoli siciliani e il Passito di Pantelleria; assolutamente da provare la Saint-Honoré con il Muffato ottenuto con uve Grechetto, o la classica cassata con un Greco di Bianco passito della Calabria. Deliziatevi poi a Carnevale con chiacchiere, fritole e altri dolci fritti, fragranti e delicatamente untuosi, ma senza dimenticarvi di unirvi un Recioto di Soave per ottenere un’adeguata armonia. Un Monbazillac o un Vouvray Moelleux, magari serviti a una temperatura leggermente superiore a quella normalmente indicata, saran-

Un tempo il vino secco era indicato a fine pasto: oggi non più. (Wikipedia)

no invece perfetti con dolci tiepidi come i vari soufflé, le crêpes suzette e la famosa Tarte Tatin, mentre l’aristocratica ricchezza di un Tokay Aszu 5 puttonyos non potrà che deliziarvi con uno zabaione di biscottini. Dessert al cioccolato e vino: combinazione non sempre facile, ma proprio

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2014 • N. 07

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Ambiente e Benessere

Un anno allegro, irrequieto, curioso, energico e libero Mondoanimale Eleganza, forza e nobiltà d’animo si dice siano caratteristici nei nati «sotto il segno del Cavallo» Maria Grazia Buletti «Quando abbiamo pensato di intervenire a favore dei cavalli che oggi tutti conoscono come “i cavalli del Bisbino”, non immaginavamo la strada che avremmo percorso nell’avventura di sostenerli. Eppure abbiamo fondato l’omonima associazione transfrontaliera che ancora oggi si occupa di mantenerli in libertà e di accudirli nel periodo invernale nel rispetto delle leggi vigenti. Ma le grandi avventure non cominciano forse tutte quante con un pizzico di incoscienza?» L’anno del Cavallo, che lo zodiaco cinese indica come il 2014, ci induce a incontrare Luigia Carloni, già presidente e fra i fondatori dell’associazione Cavalli del Bisbino, per ripercorrere insieme tutti questi anni di impegno a favore di quegli equini prepotentemente e loro malgrado assurti alle cronache per essersi spinti, affamati, fino a Sagno, in Svizzera e a Rovenna, vicino a Cernobbio, dove si erano addirittura nutriti dei fiori del cimitero locale. La nostra interlocutrice ricorda che «era l’inverno del 2008-2009 e questa vicenda letta casualmente su un giornale della provincia di Como mi incuriosì parecchio». Si trattava di cavalli il cui proprietario possedeva un tempo l’Alpe Boecc, in cima al Bisbino: «Era deceduto diversi anni prima e i suoi cavalli sono sopravvissuti in libertà, suddividendosi in due branchi e sfidando ogni genere di difficoltà». Fino alla loro discesa nei villaggi: provocò molte rimostranze e profilò il pericolo del sequestro di questi animali che sarebbero stati ridotti in cattività o spediti al macello: «Fu a quel punto, dopo aver letto sempre più notizie su diversi giornali italiani e locali, e aver visto che sempre più personalità e associazioni sia italiane sia svizzere si erano schie-

rate a difesa di questi cavalli, che decidemmo di non stare soltanto a guardare. Si erano mossi a loro difesa addirittura il Console svizzero a Milano, il Prefetto di Como, Fulco Pratesi e l’etologo Giorgio Celli. Ci siamo sentiti in dovere di aiutare quei cavalli perché rappresentavano una ricchezza che non doveva andare distrutta». Il fascino del cavallo come animale ha giocato un ruolo certamente saliente in questa storia, della quale tutti abbiamo sentito parlare più d’una volta nel corso degli ultimi anni. Forza, nobiltà d’animo ed eleganza di questo splendido animale sono stati percepiti nel momento in cui, racconta Luigia Carloni, il gruppo che aveva iniziato a cercarli sul versante svizzero, partendo da Sagno, li aveva poi trovati poco sotto la cima del

Chi nasce cavallo… …si distingue per una vita sociale molto attiva, ama stare al centro dell’attenzione e trascina il gruppo come un vero leader. Grintoso, persuade anche le persone più timide nel divertirsi insieme. È un abile conversatore, molto generoso con il prossimo. Chiunque sia amico di qualcuno nato sotto il segno del Cavallo avrà sempre un compagno capace di farlo divertire. Segno dotato di grande intuito verso le idee altrui, sembra sicuro di se stesso, ma nasconde anche un lato incerto… proprio come il cavallo animale. E questo si rivela essere il suo lato più fragile: e quando perde le sue sicurezze potrebbe cercare conforto proprio negli amici più vicini.

Bisbino: «Per me è stata un’apparizione: erano bellissimi e fieri con le loro criniere quasi bianche. Mi sono detta che qualcosa andava fatto». E proprio le caratteristiche che hanno dato a Luigia e ai suoi amici dei «bisbini» la sensazione di bellezza, grazia, fierezza ed eleganza dominerebbero pure in coloro che sono nati sotto il segno del Cavallo dell’oroscopo cinese. A questo punto, quindi, lasciamo un momento i «bisbini» a pascolare tranquilli e andiamo a vedere il modo con cui lo zodiaco orientale definisce le persone affini all’animale più archetipico a cui l’essere umano si accompagna da oltre 3000 anni. Di fatto, pare che chi nasce sotto questo segno possieda una spiccata predisposizione a lavorare duramente, e ne verrà ripagato con successo, soprattutto in ambito professionale. Inoltre, come nella natura stessa del cavallo che vive in branco, la persona di questo segno ama stare in mezzo alla gente, è allegra, simpatica, irrequieta, curiosa e impulsiva. Tutte caratteristiche che ritroviamo negli equini stessi. E non mancano un pizzico di egoismo e tenacia, insieme a fascino e buon gusto nello stile di vita. Di carattere allegro, irrequieto, curioso, impulsivo, passionale, energico e libero, le persone nate sotto il segno del Cavallo riprodurrebbero inevitabilmente tutte le qualità osservate negli anni dagli Amici dei cavalli del Bisbino e chiediamo a Luigia Carloni, al di là dell’incanto che l’animale cavallo stimola nell’essere umano, il bilancio che si può tracciare dall’esperienza di presa a carico dei «bisbini»; le chiediamo fino a quale punto si tratta di cavalli davvero liberi e «selvatici» spingendoci ad osservare che, in fondo, quei cavalli hanno pur sempre la fortuna di avere al proprio servizio esseri umani molto volen-

Uno dei «bisbini» al pascolo. (Luigia Carloni)

terosi, senza i quali la loro sopravvivenza non sarebbe scontata. Le risposte della nostra interlocutrice sono chiare, oneste ed esaustive: «Quando parliamo dei cavalli del Bisbino, parliamo di cavalli rinselvatichiti che però hanno un grado di libertà molto alto: non sono animali da scuderia, non sono mai stati montati e, per intenderci, non sono condizionati dall’uomo, anche se purtroppo dipendono da esso, perché siamo stati obbligati per legge ad accudirli, onde evitare che vadano nei paesi a procacciarsi il cibo». Così, l’Associazione transfrontaliera dei cavalli del Bisbino (www.cavalli-

delbisbino.ch) conta su donazioni e volontari che assicurano a questi 24 cavalli cibo e cura, e li accompagnano durante la stagione fredda in un recinto dove possono svernare, nel rispetto della legislazione vigente. «Si tratta di un’esperienza unica e arricchente, che vivremo senza riserve finché avremo la possibilità di farlo», afferma Luigia che non nasconde l’incognita del futuro di quest’avventura iniziata attraverso quelle che definisce «una serie di circostanze» che ha fatto incontrare cavalli e uomo: «Per ora la nostra missione è proprio solo questa: sostenere i “bisbini” nella loro ritrovata libertà».

Giochi ORIZZONTALI

Cruciverba

Come si chiama il copricapo nella foto? Per scoprirlo risolvi il cruciverba e leggi le lettere evidenziate.

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1. Nota tragedia dell’Alfieri 4. Tappata 9. Io per Cicerone 10. È sotto gli occhi di tutti 11. In fondo allo stop 12. Due di questo 13. Sono formate da trefoli 14. Amò Leandro 15. L’attore Zingaretti 16. Il piccolo Fauntleroy 17. Organo rotante a pale 19. Un Claudio attore e conduttore 20. Ultimo cerchio del’Inferno dantesco 21. Le iniziali di un noto Angela della TV 22. Famoso quello d’America 23. La via dei ragazzi di Ferenc Molnar 24. Il… trasteverino 25. Natale a Parigi 26. Abitante di Ninive

Sudoku Livello per geni Scopo del gioco

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contenga tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

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VERTICALI

1. Successioni ordinate di elementi 2. Fa piccolissimi fori 3. Le ha in testa l’uomo 4. Fiume del Kenya 5. Abitudini collettive 6. Chiudono l’incontro 7. Di controllo e di lancio 8. Privo di zampe 10. Occipite 13. Detto anche pecchione 14. Dea greca madre dei venti 15. Un tessuto 16. Città natale di Amedeo Modigliani (Sigla) 18. Fiume francese 19. Lo è il merengue 21. Fu maestro di Paganini 23. Avverbio di tempo 25. Le iniziali dell’attrice Stefanenko

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9 Soluzione della settimana precedente

Trova il proverbio – Proverbio risultante: La bugia è madre dell’inganno. F L O R R A G U B O C A R M A V I G R E C R A N A , A L A N D D O V I

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B U S T I E N A A S T O I I S A O S D A I R O A I D O L A B E L E P R I M O A N S G U N O F I S

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2014 • N. 07

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Politica e Economia Nucleare pakistano Nuove centrali atomiche in costruzione presso Karachi sollevano proteste all’interno del Paese e soprattutto da parte dell’eterna rivale India pagina 36

Iraq nel caos A 11 anni dalla caduta di Saddam, Baghdad risulta essere il buco nero del Medio Oriente. Il primo ministro iracheno al-Maliki , preoccupato per le elezioni legislative del 30 aprile, è il primo responsabile del gioco politico che sta portando il Paese verso lo sbriciolamento

Le confessioni del Boss Totò Riina rivendica dal carcere la paternità degli attentati a Falcone e Dalla Chiesa

Contenzioso fiscale Svizzera e Italia restano distanti anche dopo gli incontri di Davos e Berna

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AFP

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La deriva di Kiev Equilibri globali A cavallo fra Russia e l’insieme euroatlantico a guida americana, l’Ucraina è il perno di un’area

contestata che sta correndo il rischio di una guerra civile Lucio Caracciolo La posta in gioco in Ucraina non riguarda solamente quella repubblica ex sovietica e la regione, ma investe gli equilibri globali. Si tratta infatti di un Paese alla marca di frontiera tra l’impero sovietico, provvisoriamente denominato Federazione Russa, e l’insieme euroatlantico a guida americana. Kiev è il perno di un’area grigia, contestata, che corre dai Paesi baltici fino al Mar Nero e al Caucaso. Un’area i cui Paesi non hanno ancora trovato una collocazione più o meno permanente nell’ambito della sfera d’influenza moscovita oppure occidentale. Oggi in Ucraina si gioca quindi una partita a più livelli. Anzitutto, quello domestico. Il presidente Yanukovich, sommariamente considerato filorusso, è contestato da una piazza molto variegata, animata da democratici filoeuropei ma anche da estremisti di de-

stra, se non veri e propri nazisti locali. Le ragioni originarie della protesta hanno molto a che fare con la profonda corruzione della classe politica e dello stesso Yanukovich, sullo sfondo del disastro economico di un Paese che sembra incatenato a una logica di desviluppo e impoverimento. Uno spazio ritagliato nell’ambito sovietico, quando aveva una sua logica geoeconomica pertinente a quella taglia, ora sembra un torso senza più i riferimenti di origine e soprattutto senza una idea di come trovarne di nuovi. Le ricchezze del Paese sono di fatto sequestrate da un piccolo gruppo di oligarchi, in gran parte originari dell’Ucraina orientale russofona, i quali dispongono dei leader politici quasi come di pedine su una scacchiera. Questa gente ha in mente solo i propri affari. Finché conserverà le leve del potere, per l’Ucraina non c’è futuro – né con la Russia né con l’Unione Europea.

Nel confronto politico interno giocano un ruolo rilevante le linee di frattura che segnano lo spazio della Repubblica ucraina. In primo luogo, quello tra città e campagne. Nelle prime si è affermata, fra mille difficoltà, una piccola e media borghesia che rivendica voce e spazio pubblico. Generalmente russofona, ma consapevole della propria identità nazionale. Nelle campagne sopravvivono invece milioni di ucraini abbandonati al proprio destino. Tendenzialmente ucrainofoni, non sembrano poter nemmeno immaginare un qualche protagonismo nel prossimo futuro. C’è poi una macropartizione geopolitica, tradizionalmente deputata a descrivere almeno tre Ucraine. Quella orientale, più vicina alla Russia sotto il profilo culturale, economico e in parte anche politico. Quella occidentale, di ascendenza asburgica e/o polacca ferventemente nazionalista e anti-russa.

Infine quella centrale, centrata su Kiev, dove prevalgono i nazionalisti e i democratici ucraini ma dove persiste una forte presenza russofona, insieme alla viva memoria delle affinità e dei conflitti con Mosca. Un caso a sé è quello della Crimea, per due terzi russa. Qui si trova anche la base militare di Sebastopoli, con all’àncora la Flotta russa del Mar Nero. Una postazione che Mosca certo non è disposta a cedere. In caso di separazione delle Ucraine, la Crimea diventerebbe una sorta di Abkhazia, cioè un satellite russo formalmente indipendente. Se a questi clivages interni sommiamo le tensioni che derivano dalle rivalità fra Mosca e Washington, oltre all’attivismo di quei Paesi dell’Europa centro-orientale che tendono a identificarsi con gli ucraini più nazionalisti, possiamo renderci conto di quanto concreto sia il rischio connesso a una guerra civile in Ucraina. La memoria

corre immediatamente alla Georgia dell’agosto 2008, che si illuse di essere parte dell’insieme atlantico, ma fu abbandonata a se stessa da Bush figlio quando Putin e Medvedev decisero di rispondere con la forza alle velleitarie provocazioni di Saakashvili. Siamo ancora in tempo per evitare una simile deriva. In ogni caso le sue dimensioni in Ucraina sarebbero incommensurabilmente superiori a quelle sperimentate in Georgia. Più che sulla improbabile mediazione europea della baronessa Ashton, converrà contare sul patriottismo e sul senso di responsabilità delle parti meno irragionevoli che si confrontano oggi a piazza Majdan. Se alla fine prevarranno invece i violenti e i provocatori, a quel punto la questione non sarà più se l’Ucraina debba tornare sotto l’influenza diretta di Mosca o aderire all’Occidente. Perché lo Stato ucraino non esisterà più.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2014 • N. 07

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AFP

Politica e Economia

Il nucleare prolifera in Pakistan Nuovi siti a Karachi La costruzione di centrali atomiche destinate a risolvere problemi economici e sociali suscita

feroci polemiche: sono in molti a vedere i pericoli di una connessione saudita-pakistana in chiave anti-Iran Francesca Marino Un nuovo sito nucleare nei pressi di Karachi, il quarto e il più grande del Paese, da costruire subito. E, a seguire, altre sei centrali nucleari entro il 2050. Il Pakistan, affetto da una endemica crisi energetica che causa black-out di 12-16 ore anche nelle maggiori città, dichiara di voler ricorrere al nucleare per risolvere uno dei tanti e scottanti problemi di natura economica e sociale che si trova a dovere affrontare. L’annunciata costruzione della centrale di Karachi ha però suscitato un vespaio di polemiche in patria e non solo. Contro le centrali si sono schierati scienziati e intellettuali di fama come Pervez Hoodboy, rammentando i rischi e i pericoli connessi alla sicurezza degli impianti: in particolare, nel caso di Karachi, i rischi connessi all’uso di reattori basati sul modello ACP-1000 che, pare, fino a questo momento non sono mai stati effettivamente testati. Karachi, che conta circa ventiquattro milioni di abitanti ed è la città più grande e densamente abitata del Pakistan, sarebbe (per usare un eufemismo) piuttosto difficile da evacuare nel caso in cui qualcosa non andasse per il verso giusto e l’ennesima tragedia causata da un guasto a una centrale sarebbe in questo caso di proporzioni epiche. La popolazione o, almeno, quella parte di popolazione in grado di rendersi conto dei rischi connessi alla vicinanza criminale di una centrale nucleare a un sito abitato, protesta. Ma le proteste, al solito, cadono nel vuoto più assoluto. In ballo ci sono molte, troppe cose. L’investimento, l’ennesimo, fatto dalla Cina, ad esempio. Che si è impegnata a finanziare per 6,5 miliardi di dollari la costruzione della centrale indebitando ulteriormente la Terra dei Puri nei confronti di Pechino che tiene saldamente in mano ormai da anni l’economia pakistana e ha praticamente colonizzato Islamabad e dintorni. Ma soprattutto, l’accordo mai digerito stipulato anni fa tra India e Stati

Uniti per la costruzione di impianti per il nucleare civile. Accordo che ancora brucia a Islamabad e che i governi che si sono succeduti al potere in Pakistan hanno disperatamente cercato di emulare sostenendo che il permesso e l’assistenza data a New Delhi per la costruzione di nuovi impianti nucleari cambiava di fatto l’equilibrio di poteri e forze nell’area geopolitica.

La Cina si è impegnata a finanziare la centrale indebitando ulteriormente la Terra dei Puri A dare il via alla corsa all’atomica nel subcontinente indiano, e alla rincorsa tra i due Paesi rivali alla costruzione e al possesso di armi atomiche, è stata Indira Gandhi sotto il cui governo, nel 1974, gli scienziati avevano condotto il loro primo test nucleare a Pokhran nel deserto del Rajahstan, in una località più vicina al confine col Pakistan che a Delhi. In Pakistan, Zulfikar Ali Bhutto si era mosso nello stesso senso subito dopo la sconfitta subita dall’India nella guerra del 1965. «Mangeremo erba e foglie – tuonò in una delle sue frasi rimaste famose – ma non abbiamo scelta, dobbiamo avere l’atomica». Bhutto fondò la Pakistan Atomic Energy Commission (PAEC), mise al lavoro gli scienziati e inviò un’infornata di giovani brillanti negli USA a studiare i segreti della tecnologia nucleare. Ma l’accelerazione risolutiva era arrivata nel 1972, subito dopo la secessione del Bangladesh. Bhutto, all’apice della sua popolarità, aveva convocato i principali scienziati pakistani e i suoi consiglieri militari per una riunione segretissima nei pressi di Multan: presenti tra gli altri Abdus Salam, lo scienziato che nel 1979 vinse il Premio Nobel per la fisica e che ha vissuto a lungo in Italia, il brillante Munir Ahmed Khan, che do-

po essersi laureato negli Usa aveva lavorato come esperto presso l’agenzia dell’Onu addetta al controllo della proliferazione, l’International Atomic Energy Agency (IAEA), e il direttore della PAEC Ishrat Usmani. C’erano anche due giovani studiosi che avrebbero avuto una parte di primo piano nello sviluppo del programma nucleare pakistano: Samar Mubarakmand e Bashiruddin Mahmood, che oltre vent’anni dopo cercò di procurare un ordigno atomico al leader del terrorismo islamico Osama bin Laden. Lo spettro del terrorismo islamico, con la prospettiva non del tutto remota che i siti nucleari possano cadere in mano a jihadi di varia provenienza, è il più importante ma non l’unico fattore a pesare sulle decisioni dell’Occidente che continua a negare a Islamabad accordi e assistenza analoghi a quelli stipulati con New Delhi: il traffico illecito di materiale nucleare messo in piedi nel passato anche recente da scienziati e mafiosi, e protetto in maniera più o meno aperta dalla politica, dall’esercito e dai servizi segreti pakistani; la possibilità concreta che i jihadi, specialmente quelli finanziati dai servizi segreti come la Lashkar-i Toiba, abbiano già di fatto accesso a ordigni nucleari cosiddetti «sporchi» e di portata minore ma sufficiente a causare stragi tra la popolazione civile; ma, soprattutto, l’instabilità estrema della situazione politica del Paese, e la possibilità che a comandare l’accesso alla Bomba islamica arrivino, legalmente o meno, gli integralisti islamici hanno reso e rendono l’Occidente sordo a ogni tentativo di ricatto o blandizie in questo senso da parte di Islamabad. Nei mesi scorsi, ad esempio, il Pakistan si è trovato al centro dell’ennesimo scandalo di carattere «nucleare». Secondo voci provenienti da ufficiali dell’intelligence, difatti, il Pakistan sarebbe pronto a consegnare armi nucleari all’Arabia Saudita per contrastare un’eventuale acquisizione della bomba da parte dell’Iran. A quanto si sa la col-

laborazione in materia tra sauditi e pakistani daterebbe all’inizio degli anni Settanta e sarebbe stata messa in piedi con la regia del solito A.D. Khan, il «padre della Bomba» già condannato per aver trafficato materiale nucleare con l’Iran, la Libia e la Corea del Nord. Ovviamente Islamabad e Rhyad negano tutto, ma i loro dinieghi non tranquillizzano proprio nessuno. E il prossimo abbandono dell’Afghanistan da parte delle truppe occidentali complica di molto la questione.

Il Pakistan non ha mai digerito l’accordo fra India e Stati Uniti per la costruzione di impianti per il nucleare civile A essere in bilico difatti non è soltanto il futuro politico di Kabul ma, soprattutto, quello pakistano. La situazione nel Paese è ormai decisamente fuori controllo, gli attentati si succedono a ritmo impressionante, i talebani pakistani sono più potenti che mai e il governo e l’esercito non possono o non vogliono agire contro i loro nemici interni: si invocano colloqui di pace con il Tehrik Taliban-i-Pakistan (TTP) che a ogni offerta di colloqui rilancia mettendo in atto l’ennesima strage di civili o di militari. Diverse volte il TTP ha colpito nelle vicinanze più o meno immediate di siti nucleari ufficiali, con la probabile collaborazione di settori «deviati» dell’esercito o dell’intelligence, e la possibilità che la famosa valigetta con i codici finisca in mani più o meno criminali non appare poi così remota. Alle preoccupazioni occidentali, l’ex-presidente Musharraf aveva risposto modificando la struttura di controllo e comando: in cima alla nuova struttura c’è la National Command Authority (NCA), che comprende il presidente, il primo ministro, alcuni ministri chiave del governo federale, co-

mandanti militari ed esperti scienziati. Questa è la struttura responsabile per tutte le questioni di politica come lo sviluppo e l’uso degli assetti strategici. Un nuovo segretariato chiamato Strategic Plans Division (SPD) e guidato da un direttore generale militare assiste la NCA nel mettere in pratica i piani di sviluppo e di controllo. Ai governi amici, i dirigenti pakistani assicurano inoltre che le bombe non sono custodite in un solo posto ma sono sparse su tutto il territorio nazionale e che a vigilare sulla loro sicurezza ci sono diecimila soldati di provata fedeltà. Ma il Pakistan (come del resto l’India) non ha firmato il Trattato di Non-Proliferazione Nucleare e di conseguenza non è soggetto alle ispezioni della IAEA e non può importare tecnologia dai Paesi occidentali, inclusa quella legata alla sicurezza degli impianti atomici. Bisogna quindi fidarsi sulla parola e nessuno, tranne i cinesi che hanno pesanti interessi di carattere economico-strategico a consolidare sempre più la dipendenza di Islamabad da Pechino, è disposto a farlo. A rendere ancora più nervosi gli Stati Uniti e l’India, che monitora ovviamente molto da vicino gli sviluppi della situazione, è stato anche il recente cambio al vertice delle forze armate e, soprattutto, della SPD. Nell’ottobre scorso la Casa Bianca aveva lodato gli sforzi effettuati da Islamabad per rendere sicuri i circa duecento ordigni nucleari pronti all’uso sparsi sul territorio, ma le incertezze rimangono e nessuno è pronto a giurare o anche soltanto a scommettere su cosa potrebbe accadere in futuro. La Cina, secondo gli analisti e anche secondo i maggiori scienziati pakistani, farebbe bene a riflettere sulle possibili conseguenze della costruzione dei nuovi impianti. Per il benessere dei pakistani prima di tutto, e per la sicurezza di tutta l’area geopolitica: inclusa, ovviamente, la Cina stessa. Le radiazioni, è bene ricordarlo, non riconoscono i confini segnati sulle carte geografiche.


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Politica e Economia Notizie dal mondo

Iraq sempre più fragile

Erdogan imbavaglia la rete Il parlamento turco ha adottato una serie di emendamenti che rafforzano il controllo dello Stato su internet, permettendo alle autorità di bloccare facilmente l’accesso a specifici siti e, sostanzialmente, di monitorare l’attività dei 34 milioni di cittadini turchi che usano il web. Il nuovo testo, approvato mercoledì scorso dopo un infuocato dibattito, è giudicato «liberticida» dall’opposizione turca e da numerose Ong. Con l’entrata in vigore degli emendamenti, l’autorità governativa per le telecomunicazioni (Tib), potrà ordinare al provider l’oscuramento immediato di una pagina web senza il nulla osta sino ad ora previsto della magistratura. Le aziende che garantiscono l’accesso ad internet, inoltre, dovranno aderire ad un nuovo organismo, l’Unione dei provider: sottoposto al controllo del ministero delle Telecomunicazioni, questo terrà una banca dati delle pagine visitate da tutti gli utenti turchi negli ultimi due anni. L’iniziativa ha scatenato le proteste non solo del mondo del web, ma anche della Tusiad, la Confindustria turca, e dell’opposizione. Per il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) del premier Recep Tayyip Erdogan, la legge è necessaria a tutelare i minori e oscurare pagine che incitano all’odio razziale, religioso o etnico e «violano la privacy dei cittadini». Ma i critici accusano il governo di voler semplicemente limitare la libertà d’espressione.

11 anni dopo Dalla caduta del regime di Saddam Hussein, nel 2003, il Paese rappresenta

ancora un buco nero nella regione. Che rischia la frammentazione lungo linee tribali Marcella Emiliani

Il premier iracheno Nuri al-Maliki durante un incontro politico a Baghdad. (AFP)

gono spediti come kamikaze in Siria a dar man forte ad al-Nusra o altre formazioni jihadiste ufficialmente schierate all’opposizione del regime di Bashar al Assad. Adesso è arrivata, come si diceva, a minacciare Baghdad e la sua superprotetta Zona verde.

Come per la Siria, anche per l’Iraq i motivi del caos sono interni, regionali e internazionali Essendo prossime le elezioni, al-Maliki fino ad oggi si è limitato a fare appello ai leader sunniti perché caccino l’Isis dalle città che ha riconquistato, ma non ha il coraggio di lanciare una grande offensiva militare per riprendere il controllo di Falluja e Ramadi, per paura di innescare una vera e propria guerra civile, anche se gli Stati Uniti continuano a fornirgli armi perché contrasti in qualche modo il terrorismo. Aspetta una qualche mossa politica dalla minoranza sunnita sempre più divisa che però finora non è arrivata. Può pure darsi che a ridosso della scadenza elettorale i sunniti decidano di scegliere la coalizione di al-Maliki, lo State of Law, come male minore rispetto alla furia qaedista o all’impotenza della principale coalizione che comprende i sunniti, al-Iraqiyya , guidata comunque dallo sciita Ayad Allawi, ma le previsioni sono che i partiti che la compongono (al-Mutahidoun dello speaker del parlamento Osama al-Nujaifi, l’Alleanza nazionale irachena di Allawi e il Fronte iracheno del dialogo nazionale del vice-premier Saleh alMutlak) se ne andranno ognuno per la propria strada, formeranno come hanno già cominciato a fare nuovi partiti, o – l’eventualità peggiore per al-Maliki – andranno ad allearsi ai suoi avversari sciiti (il Movimento sadrista di Muqtada al-Sadr e il Supremo consiglio islamico iracheno di Abd al-Aziz al-Haqim che afferisce alla mega coalizione sciita dell’Alleanza irachena unita). Al-Maliki, in tanta incertezza, ha pensato di cercarsi nuovi alleati tra le minoranze etniche o confessionali, facendo loro concessioni importanti. È in quest’ottica che il mese scorso ha trasformato 3 distretti in governatorati (come si chiamano le province irache-

ne): Tuz Khormato, della provincia di Salahaddin, a maggioranza turkmena; Ninive Plains, parte della provincia di Ninive, a maggioranza cristiana e Falluja, la tormentata città sunnita della provincia di Anbar, come captatio benevolentiae nei confronti degli stessi sunniti per convincerli, ripetiamo, a cacciare l’Isis dal proprio territorio. In questa maniera i governatorati dell’Iraq sono diventati 22 da 18 che erano (un altro distretto, Halabja, era già stato trasformato in provincia nel Kurdistan). Ma questo è un gioco pericoloso perché non aiuta il Paese a ritrovare un’unità nazionale, anzi stimola la frammentazione lungo linee settarie, etniche e addirittura tribali. Riprova ne è che sono piovute immediatamente sul governo altre richieste di trasformare 17 distretti in province. Di questo passo l’Iraq andrà letteralmente sbriciolato. E più è frammentato il territorio, più si indebolisce la capacità del Paese di opporsi non solo ad al Qaeda, ma a tutti i giochi di potere delle potenze regionali che se lo contendono, Arabia Saudita e Iran in testa, senza dimenticare la Turchia che segue da vicino le sorti del Kurdistan iracheno per impedire che le sue convulsioni esondino nel Kurdistan turco.

L’Arabia Saudita, come è noto, sostiene i sunniti in tutto il Medio Oriente e l’Iran gli sciiti, ma il loro braccio di ferro in Iraq ha assunto aspetti grotteschi. Basti pensare che l’Iran dà manforte al governo di al-Maliki per contrastare la nuova offensiva di al Qaeda e in questo si ritrova «alleato a distanza» degli Stati Uniti che continuano ad armare e appoggiare diplomaticamente l’attuale primo ministro sciita. Di converso, il più vecchio alleato arabo degli Stati Uniti in Medio Oriente, l’Arabia Saudita, non può sostenere al-Maliki, il premier sciita, ma ha tutto l’interesse che proprio al-Maliki riesca nell’impresa di debellare i disegni di al Qaeda che rappresentano una minaccia per gli stessi sauditi. Certamente non risparmia i propri aiuti alle formazioni sunnite, ma in questo corre davvero sul filo del rasoio: potenziare oltre una certa misura la compagine sunnita in Iraq significa rischiare davvero una nuova guerra civile che – allo stato attuale delle cose – nessuno in Medio Oriente e tantomeno a livello internazionale potrebbe illudersi di governare o spegnere. La realtà è che oggi l’Iraq rappresenta ancora un buco nero nella regione a 11 anni dalla caduta del regime di Saddam Hussein.

Onu contro il Vaticano Duro attacco dell’Onu alla Chiesa. In un rapporto il Comitato delle Nazioni Unite accusa la Santa Sede di «aver adottato politiche che hanno permesso l’abuso sessuale sui bambini». Nel documento la Santa Sede viene invitata ad aprire indagini sui pedofili e sui membri del clero che abbiano nascosto questi crimini. Iniziative che, peraltro, sono state già adottate, su input di Benedetto XVI (nei suoi due ultimi anni di pontificato autorizzò le dimissioni dallo stato clericale di circa 400 preti, coinvolti in casi di abusi) e in seguito di Papa Francesco. «Il Comitato», si legge nel rapporto, «è gravemente preoccupato dal fatto che la Santa Sede non abbia riconosciuto l’ampiezza dei crimini commessi e non abbia preso le necessarie misure per affrontare i casi di abusi sessuali e per proteggere i bambini. Ora la richiesta dell’Onu è che il Vaticano consegni i propri archivi sui casi di decine di migliaia di abusi sessuali e consegni alle autorità civili tutti i prelati coinvolti. Annuncio pubblicitario

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Le Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme già lo scorso anno: in Iraq la situazione è di nuovo precipitata nel caos. Nel solo 2013 i civili morti sono stati 8000, una cifra che, quanto a stragi e bagni di sangue, riporta indietro il Paese al 2008. Giorno dopo giorno gli scontri settari si sono estesi a tutte le regioni con una moltiplicazione geometrica degli attentati nei principali centri urbani, tant’è che già nel mese di gennaio del 2014 le vittime sono state almeno 1000. Al Qaeda, che negli ultimi quattro anni pareva completamente debellata nella provincia di Anbar, proprio all’inizio di gennaio si è ripresentata minacciosamente sulla scena irachena con un nuovo nome, «Stato islamico in Iraq e nel Levante» (con acronimo inglese Isis, da Islamic State in Iraq and Syria ). Guidato da Abu Bakr al-Baghdadi ha riconquistato le città di Falluja e Ramadi, attraversa come e quando vuole il confine con la Siria e i suoi kamikaze da più di una settimana si fanno saltare per aria nella stessa capitale, Baghdad, con un bilancio di almeno 33 morti. Detto in parole povere si sta sfiorando di nuovo la guerra di tutti contro tutti. Perché? Come per la Siria, anche per l’Iraq i motivi sono interni, regionali e internazionali. E il primo responsabile del caos attuale è il premier iracheno Nuri alMaliki, sciita. Maliki è innervosito e preoccupato per le elezioni legislative in calendario il 30 aprile prossimo. I 328 eletti al parlamento (il Consiglio dei rappresentanti) dovranno a loro volta eleggere sia il presidente della repubblica che il primo ministro. Ad oggi i partiti ammessi alla competizione sono quasi 200, ma a contare saranno le alleanze e – allo stato attuale – ne sono state registrate 39, in testa alle quali spicca la coalizione vincente delle elezioni del 2010 ovvero la State of Law del premier al-Maliki. Il quale al-Maliki nel 2010 era riuscito ad aggregare attorno al suo partito d’origine (il Da’wa) non solo gli sciiti più secolarizzati, ma anche parte dei sunniti. Ed è innanzitutto il consenso dei sunniti che rischia di venirgli a mancare alle elezioni di aprile. In pratica il premier uscente non ha rispettato i patti del 2010, non ha equamente suddiviso con loro né il potere politico – che ha totalmente accentrato su di sé – né il controllo degli apparati di sicurezza e dell’esercito. E i leader sunniti lo accusano anche di avere usato indiscriminatamente contro di loro la legge sulla deba’athificazione (concepita da Paul Bremer, il proconsole americano di Bush junior nel 2003 per annientare i seguaci di Saddam Hussein e del suo partito, il Ba’ath) e la legge contro il terrorismo, dopo che avevano aiutato il governo iracheno ad aver ragione di «al Qaeda nel Paese dei due fiumi» (come si chiamava prima) con l’assistenza delle truppe americane. Gli americani hanno abbandonato l’Iraq nel 2011 e non intendono rimetterci piede (il segretario di Stato John Kerry l’ha detto apertamente il 5 gennaio scorso), ma nel frattempo i leader tribali sunniti della provincia di Anbar - la più pericolosa, lungo il confine con la Siria – si trovano tra l’incudine dello Stato islamico in Iraq e nel Levante (Isis) e il martello dell’emarginazione quando non è aperta repressione governativa. Da questo punto di vista, la riconquista di Falluja e Ramadi da parte dell’Isis è anche il frutto del generale indebolimento e frammentazione dello schieramento sunnita che per ora alimenta il terrorismo e il caos. Una delle prime mosse di questa nuova offensiva terroristica qaedista è stata assaltare le patrie galere e liberare decine di jihadisti, molti dei quali ven-

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Politica e Economia

Guerra e pace di Riina Le confessioni del Boss Dal carcere milanese il Padrino rivendica

gli attentati a Giovanni Falcone e Carlo Alberto Dalla Chiesa

Alfio Caruso Quando era il numero uno di Cosa Nostra, quando gli bastava un sussurro per imporre la propria volontà, Totò Riina avrebbe definito una «tragediata» lo show, di cui egli stesso si è reso protagonista nei mesi scorsi. All’improvviso, dopo un’esistenza trascorsa tra cenni, occhiate e rade parole – la frase più lunga «accà finisci a storia» la pronunciava strangolando con le proprie mani il malcapitato di turno – si è prodotto in un oceano di minacce, di considerazioni, di autocelebrazioni raccolte dalle microscopie e dal malavitoso pugliese della Sacra Corona Unita messogli al fianco in qualità di provocatore. Vent’anni addietro Riina aveva retto con un sorrisetto ironico il fiume di tremende accuse rovesciategli addosso da Tommaso Buscetta durante una lunghissima udienza del maxiprocesso; aveva aperto bocca in due sole occasioni: nella prima aveva dato del «tragediatore» a Buscetta, nella seconda aveva affermato di essere all’oscuro di simili «tragediate».

Riina irride lo Stato che non seppe prevenire la strage di via D’Amelio avvenuta due mesi dopo Capaci Adesso ha, invece, tenuto a precisare il proprio ruolo d’implacabile e soddisfatto carnefice. Si è compiaciuto dello scenario di guerra creato nel ’92 a Capaci con l’immenso cratere sull’autostrada; ha persino raccontato l’iniziale apprensione sulla sorte di Giovanni Falcone e della moglie Francesca Morvillo: la radio li aveva dati per sopravvissuti. E si sarebbero salvati se avessero preso posto sul sedile posteriore della Croma blindata. «Pochi centimetri, ma c’è il Signore, c’è il Signore…», ha esclamato Riina convinto, al pari di tutti i boss, che un Dio da Vecchio Testamento sia con loro, che li comprenda e li giustifichi, che addirittura li aiuti soddisfatto delle offerte e di una fede sempre lorda di sangue innocente. Questo Riina ciarliero e autobiografico, sottoposto a un duro regime carcerario e condannato a morire in galera, ricorda le ultime apparizioni di Luciano Leggio, il picciotto poliomielitico e ferocissimo, che a metà degli anni

Cinquanta radunò a Corleone un gruppo di ragazzotti analfabeti e li trasformò in una banda assatanata. Erano poverissimi e maoisti a loro insaputa: la forza che camminava sulla canna del fucile, la campagna che dava l’assalto alla città, ammazzarne cento per educarne dieci (Mao in realtà sosteneva il contrario, ma in Sicilia si è da sempre scettici sull’efficacia dell’esempio e si preferisce andare sul sicuro). Attorno a Leggio – che un errore di battitura nel mandato d’arresto stilato dall’allora capitano Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva trasformato in Liggio – si radunarono, oltre a una sequela di cugini, Bernardo Provenzano, Totò Riina, Calogero Bagarella, che portava seco il fratellino Leoluca. In quindici anni conquistarono Palermo, il potere, i «piccioli». Nel comparire per la prima volta alla sbarra, 1964, Leggio sfoggiava pantaloni di fustagno, camicia di flanella a quadretti, giacca di velluto; teneva lo sguardo fisso in terra, rifiutò di rispondere a ogni domanda. Infatti fu assolto. Vent’anni dopo, seppellito dagli ergastoli, defenestrato da Riina e Provenzano, ormai privo di qualsiasi autorità, cominciò una serie di stupefacenti esibizioni nei tribunali: camicie di seta, vestiti di sartoria con panciotto, gardenia all’occhiello, sigaro di traverso, parlantina sciolta. Recitava da boss, ma non lo era più. I giornali ci sguazzavano, i suoi compari lo commiseravano. Le intemerate di Riina contro i giudici, in particolare contro il sostituto procuratore Antonino Di Matteo, pubblico ministero nei processi più delicati, ha scatenato la psicosi dell’attentato, di nuovi stragi con il tritolo. Eppure molti indizi fanno intuire che Totò «u’ curtu», ottantatré anni compiuti e da venti fuori dai giochi, sia oramai lontano dalle stanze del potere mafioso. Un potere, tra l’altro, assai frammentato ed esposto ai colpi portati dagli inquirenti. Nella sua storia plurisecolare mai Cosa Nostra è stata così in ginocchio come nell’ultimo decennio. Sono saltati mandamenti e gerarchie. Gli eventuali ordini mortuari di Riina da chi dovrebbero essere eseguiti? In testa all’elenco dei ricercati figura il boss di Castelvetrano, Matteo Messina Denaro, latitante da un quarto di secolo. A lui e a un paio d’imprenditori alle sue dipendenze hanno sequestrato beni per circa 3 miliardi di euro; gli hanno ammanettato fratelli, cognati, nipoti, a inizio di gennaio anche la sorella Patrizia, accusata di smistarne i messag-

gi. Proprio quest’arresto, secondo una confidenza che ha molto allarmato le forze dell’ordine, avrebbe scatenato la violenta reazione di Messina Denaro. Si è parlato di tritolo, di una risposta eclatante in preparazione, di micidiali minacce dirette al procuratore aggiunto Teresa Principato, coordinatrice della squadra impegnata nella cattura dell’ultimo esponente della vecchia guardia. Tuttavia Messina Denaro non è il capo di Cosa Nostra, che mai è stata comandata dai boss di Trapani, ai quali al massimo hanno riconosciuto una maggiore autonomia. Quella di cui si è servito Messina Denaro per sviluppare gli affari senza renderne conto ai vertici, a parte l’ossequio dimostrato a Provenzano fino alla cattura. E Riina ne ha certificato la solitudine con accenti sprezzanti: « A me dispiace dirlo questo… questo signor Messina, questo che fa il latitante che fa questi pali eolici, i pali della luce, se la potrebbe mettere nel culo la luce, ci farebbe più figura se la mettesse nel culo la luce e se lo illuminasse, ma per dire che questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque, fa luce, fa pali per prendere soldi, ma non si interessa di noi…». Uno sfogo forse dettato dall’approccio senza esito tentato dal genero. A Palermo l’organizzazione cerca un nuovo assetto attorno a quattro storici mandamenti, San Lorenzo-Tommaso Natale, Porta Nuova, Santa Maria di Gesù, Brancaccio. Vi operano giovani leve e antichi protagonisti rimessi in libertà dopo lunghi periodi di detenzione. Sono nomi ben conosciuti da polizia e carabinieri, ma ignoti al grande pubblico: Calascibetta jr, Giuseppe Arduino, Cesare Lupo, Giuseppe Faraone, Antonino Sacco, Tommaso Di Giovanni, nipote del boss Gaetano Lo Presti, morto suicida in carcere, nel 2008, Giulio Caporrimo, già capobastone di San Lorenzo prima di scontare dieci anni di carcere. Nessuno, però, sembra essere in grado o avere la voglia d’accogliere l’invito di Riina: «Io ho fatto il mio dovere ma continuate, qualcuno non dico magari tutti, ma qualcuno, divertitevi una scopettonata (fucilata, nda) nella testa di questi cornuti». Alla fine di tante esternazioni rimarranno il delirio di potenza del diretto interessato e il suo punto di vista su prim’attori della Storia italiana. Si ha avuto così la conferma che nell’82 il generale Dalla Chiesa, nominato superprefetto, fu inviato, quanto meno a cuor leggero, nel trappolone palermitano. Riina racconta gli accurati preparativi «per dargli il benvenuto», esprime duri apprezzamenti per il matrimonio del generale con una donna più giovane, Emmanuela Setti Carraro, ammazzata anch’essa assieme all’agente Domenico Russo, e dinanzi ai dubbi sempre avanzati sulla dinamica dell’agguato precisa stizzito «Sono convinti che a ucciderlo fu lo Stato? C’è un uomo solo e basta. Ha avuto la punizione di un uomo che non ne nasceranno più», cioè lui, che tuttavia quella sera di settembre se ne rimase a distanza. Riina irride lo Stato che non seppe prevenire la strage di via D’Amelio, avvenuta meno di due mesi dopo Capaci, mentre ancora «raccoglievano i cadaveri… Ci fu che gli ho combinato quella barzelletta di quei 57 giorni, che girò in tutto il mondo». Si vanta: «Ho vinto proprio, ho vinto da strafare», però riconosce che per lui abbia rappresentato l’inizio della fine «poi ho strafatto, ho strafatto». La cronaca lo colloca nella galleria dei mostri del Ventesimo Secolo? Lui ha un’idea leggermente diversa, si paragona a Tolstoj, sostiene che le stragi sono i suoi «capolavori, Guerra e pace, autore Salvatore Riina».

Il Lupo e gli agnelli Il film di Scorsese C’è chi ora vuole

difendere gli interessi dei truffati, ma The Wolf interpretato da di Caprio non fa decollare i veri valori

Federico Rampini Quanto male ha fatto quel Lupo di Wall Street che sta attirando le folle nelle sale cinematografiche del mondo intero? E il successo del film è in qualche modo anch’esso un fenomeno patologico, da non sottovalutare? «Che vincano l’Oscar o no, Martin Scorsese e Leonardo di Caprio potrebbero devolvere una parte degli incassi cinematografici alle vittime del Lupo di Wall Street». La proposta viene lanciata da un illustre giurista americano. Ian Ayres, docente di diritto alla prestigiosa università di Yale, si è fatto avanti per difendere gli interessi di coloro che furono truffati dal Lupo. Ha scritto una lettera al giudice John Gleeson, che amministra il fondo speciale per i risarcimenti presso la corte federale di Brooklyn. Ayres è pronto a offrire i suoi servizi perché le vittime del Lupo siano difese meglio. È una sorta class action, punta però non a condannare il truffatore (che ha già scontato due anni di carcere) bensì a rimpinguare lo speciale restitution fund, il fondo creato dal tribunale federale di Brooklyn per gli indennizzi. The Wolf s’ispira alla storia vera di Jordan Belfort, oggi 51enne, che in un libro autobiografico ha narrato una vicenda fatta di arroganza, operazioni finanziarie fraudolente, droga e sesso a gogò. Una parabola esemplare degli anni ruggenti di Wall Street. Proprio perché è tratto dall’autobiografia di Belfort, il film è stato accusato di non trattarlo con severità. Il difetto più grave: al termine di tre ore di proiezione, lo spettatore non sa quale danno sia stato inflitto da Belfort alla società. Le sue vittime non appaiono. Eppure esistono: nel condannarlo a 22 mesi dietro le sbarre, la giustizia americana stabilì che Belfort aveva defraudato i propri clienti di 110 milioni di dollari. Ci sono reati finanziari, come l’insider trading, dove l’interesse leso è quello del mercato, della collettività di investitori in generale (per questo la giustizia procede d’ufficio anche in mancanza di una denuncia e senza che qualcuno debba costituirsi parte civile). Ma nel caso del Lupo le vittime hanno nomi e cognomi, anche se nel film è difficile capirlo. «Voglio trovare un modo – scrive il giurista di Yale al giudice federale – per fare affluire maggiori contributi al fondo dei risarcimenti. Il tempo stringe, sarebbe utile poter annunciare una novità prima del 2 marzo, data in cui verranno assegnati i premi Oscar». Nel rivolgersi a regista e produttori del film, il professor Ayres lancia anche la proposta che gli spettatori versino piccole donazioni quando vanno a vedere il film. In quanto a Belfort, come si vede nel film, ha cambiato attività. Tiene conferenze per formazione. A pagamento. Escort girl e droghe: cosa vogliamo di più dalla vita? Il messaggio immorale pervade dalla prima all’ultima immagine il film. Le critiche ci sono state fin dall’inizio, sull’aspetto etico. La qualità non

si discute, il ritmo è incalzante, gli attori sono bravi. Il rischio è che alla fine quel bandito ci stia simpatico. Tanto più che è una storia vera, orge comprese. Dunque molti commenti qui in America sono stati di questo tipo: attento Scorsese, tu rischi di «assolvere» un’intera categoria di banchieri-criminali, rendendo attraente il loro stile di vita. E tuttavia quelle critiche non hanno dissuaso il pubblico dall’affluire in massa. Il successo sta forse a indicare che quel modello di vita e di valori continua a esercitare un fascino? O al contrario, corriamo tutti a vedere di Caprio sfigurato dalle pasticche di droghe per una sorta di esorcismo di massa, un po’ come gli adolescenti vanno a vedere film di vampiri? Vedendolo proprio qui a New York, nella «tana del leone», cioè nella capitale mondiale della finanza d’assalto, a me preoccupa un altro difetto della trama. Non è che il protagonista voglia convincerci di essere stato un benefattore, anzi alla fine (ma solo alla fine) c’è qualcosa che assomiglia forse a un ravvedimento. Quello che però risulta difficile da capire, è quanto il Lupo abbia danneggiato degli innocenti. E se risulta difficile per me, che osservo Wall Street per mestiere da tanti anni, figurarsi lo spettatore medio. Solo spulciando negli archivi digitali dei giornali americani, ho potuto ritrovare l’entità della somma che il Lupo ha sottratto illecitamente. Molto più difficile è dare un volto alle vittime, quelle persone che ora il giurista di Yale sta cercando di organizzare. E qui sta un aspetto pericoloso del film. Quando un finanziere senza scrupoli trucca i collocamenti di azioni in Borsa, o sfrutta informazioni confidenziali per arricchirsi, non è detto per forza che si riesca a dare un nome alle sue vittime. Il bottino può essere «spalmato» su una miriade di risparmiatori che sono stati gabbati. Manipolare il mercato, significa rendere la vita più difficile a tutti. Anche se non ce ne rendiamo conto, perché questi crimini sono complessi e raffinati, alla fine siamo tutti un po’ più poveri. Da un lato, potrebbero esserci i nostri fondi pensione tra i danneggiati dai Lupi. D’altro lato, un sistema dove i Lupi scorrazzano, è una società più ingiusta e più diseguale, dove i deboli si sentono indifesi e anche un po’ stupidi. Stupidi? Sì, alla fine è difficile non sentirsi afflitti da qualche sentimento d’inferiorità di fronte all’astuzia dei Lupi. Allora il vero danno del film forse non sta nell’indurci a simpatizzare con quel delinquente. Non penso che la maggioranza degli spettatori lo ami o lo ammiri, al termine della proiezione. Peggio, però: senza amarlo, senza volerlo emulare, ci si può sentire lo stesso disarmati e impotenti. E l’eroe buono del film, l’agente dell’Fbi che non si lascia corrompere e incastra il Lupo, con la sua vita modesta da pendolare in metrò, non fa sognare proprio nessuno. Sotto la voce «valori», c’è un grande vuoto.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2014 • N. 07

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Politica e Economia

Difficile intesa fiscale tra Svizzera e Italia Contenzioso Dopo gli incontri di Davos e Berna si sperava in un

progresso decisivo delle trattative, ma la decisione dell’Italia di varare il sistema dell’autodenuncia per i capitali a risparmio all’estero ha creato difficoltà

Saccomanni e Widmer-Schlumpf, dopo l’incontro a vuoto. (Keystone)

Ignazio Bonoli Lo scorso anno l’ambasciata di Svizzera a Roma aveva organizzato un forum di discussione per contribuire ad appianare le divergenze che sussistono tuttora fra Italia e Svizzera. L’intenzione – da ambo le parti – era quella di ripetere a scadenze regolari questo tipo di incontri, sia a Berna, sia a Roma. Così, il 30 gennaio scorso era in agenda l’incontro in Svizzera per continuare il dialogo avviato a Roma. Sennonché, pochi giorni prima della data prevista, il presidente del governo italiano Enrico Letta si è visto costretto – dalle circostanze politiche locali – a rinunciare a partecipare all’incontro, delegando il compito al ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni. Ma, data l’importanza dei temi in discussione, il viaggio di Letta a Berna è stato rinviato «a breve», mentre è stata confermata la visita di Stato del presidente Giorgio Napolitano, prevista nel prossimo mese di maggio.

Il fatto nuovo – al di là del linguaggio diplomatico – era comunque stato provocato dal governo italiano con il decreto legge della cosiddetta «voluntary disclosure», cioè l’autodenuncia fiscale per i capitali italiani all’estero non dichiarati. Quindi, ben prima dell’incontro di Berna, si poteva immaginare che a fine gennaio a Berna non si sarebbe concluso nessun accordo con l’Italia. E questo tanto più che la Svizzera era intenzionata a proporre un accordo per regolare le pendenze del passato, con un’imposta liberatoria alla fonte, del tipo di quello concluso con Austria e Gran Bretagna (in un primo tempo anche con la Germania, ma caduto a causa del no del Parlamento tedesco). Nei giorni della presentazione del nuovo decreto, da parte italiana non si è nascosta l’intenzione di «andare a cercare i capitali italiani nelle banche svizzere», escludendo perciò a priori una possibilità di accordo di tipo diverso con la Svizzera. Questa posizione è stata del resto confermata dal mi-

nistro italiano Saccomanni in occasione dell’incontro con la consigliera federale Eveline Widmer-Schlumpf, durante il Forum economico mondiale di Davos. In quell’occasione Saccomanni ha ripetuto le intenzioni italiane di andare a cercare capitali all’estero per farli rimpatriare e, a proposito della Svizzera, ha aggiunto che il nostro Paese «si trova ora fra due pilastri»: quello deciso dall’Italia con la «voluntary disclosure» e quello internazionale con le direttive dell’OCSE e del G20 sul trattamento dei capitali a risparmio depositati all’estero. Sulle direttive OCSE la Svizzera ha già detto di volersi adeguare allo scambio automatico di informazioni, ma a patto che la regola valga per tutti (o almeno per i Paesi OCSE) e non venga utilizzata unicamente a danno della Svizzera. Ma proprio su questo tema si apre un altro discorso: l’Italia continua a mantenere la Svizzera nella propria «lista nera» dei paradisi fiscali. C’è quindi il pericolo che le azioni italiane nell’ambito delle

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direttive OCSE vengano utilizzate proprio a danno della piazza finanziaria svizzera. Del resto questo chiarimento (cioè togliere la Svizzera dalla «lista nera») è uno dei presupposti – insieme a quello dell’apertura del mercato finanziario italiano – affinché la Svizzera possa aderire a un accordo con l’Italia. Probabilmente sono questi gli unici due punti sui quali la Svizzera potrà ottenere qualcosa sul mercato finanziario. Infatti, dal momento che Berna ha, per principio, affermato di volersi adeguare alle direttive OCSE – e ha perfino sottoscritto convenzioni in questo senso con una quarantina di Paesi – all’Italia non resta che chiedere di applicare le stesse condizioni, anche senza accordi particolari. Si applicherebbe in sostanza la clausola, internazionalmente riconosciuta nel commercio mondiale, della «nazione più favorita». Dal lato svizzero vi sono però anche altre pendenze finanziarie da discutere con l’Italia. Nel programma del «Forum» sono previste discussioni anche su

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temi come la doppia imposizione, la tassazione dei frontalieri e il problema dei «padroncini» (particolarmente cari al Ticino), la questione di Campione d’Italia. Un accordo con Roma è certamente di interesse per la Svizzera. L’Italia è tra i Paesi con i maggiori scambi commerciali con la Svizzera. In parecchi campi ci sono profondi interessi comuni. In questo senso va per esempio ricordato, proprio nei giorni scorsi, l’accordo per il finanziamento di 150 milioni di franchi da parte svizzera per l’ampliamento della linea ferroviaria che passa da Luino. A seguito dei recenti incontri si è detto di voler portare a termine l’accordo finanziario entro maggio. Si può nutrire qualche dubbio: il decreto legge italiano deve ancora passare al vaglio del Parlamento e necessita di alcune correzioni e precisazioni. Quella con la Svizzera non è la preoccupazione principale dell’attuale governo italiano. A Berna – come spesso avvenuto in passato – ci si può chiedere se a Roma in maggio vi saranno gli stessi interlocutori.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2014 • N. 07

Politica e Economia

Una banca solida e in crescita Banca Migros Per la prima volta nei suoi 55 anni di storia i fondi della clientela hanno superato i 30 miliardi

di franchi. Il direttore generale Harald Nedwed spiega la filosofia che distingue Banca Migros da altri istituti finanziari e perché non ha problemi con i capitali dei clienti americani Daniel Sidler * Signor Nedwed, come giudica lo scorso esercizio della Banca Migros?

Un altro anno di successi e, quindi, una conferma della nostra crescita costante, caratterizzata da un forte afflusso di fondi della clientela e con i proventi operativi ai massimi storici dalla fondazione della banca. L’apertura della banca 55 anni fa da parte di Gottlieb Duttweiler era stata accolta con derisione.

A deriderci erano soprattutto i concorrenti, che chiedevano con toni beffardi se alla Banca Migros fosse possibile eseguire anche un pagamento all’estero. Oggi sento persino rappresentanti di grandi banche affermare che fungiamo da punto di riferimento, al quale altri si orientano. Il settore guarda alla Banca Migros come modello?

Sì. In passato la Migros ha infranto il cartello del commercio al dettaglio dando via libera alla concorrenza sui prezzi. Lo stesso è avvenuto nel sistema bancario. Sin dalla sua fondazione la Banca Migros ha puntato sulla consapevolezza dei costi e su procedure efficienti, riuscendo sempre a offrire servizi validi a prezzi ragionevoli. Mai abbiamo occupato edifici sfarzosi e puntato alla massimizzazione degli utili. La Banca Migros non conosce neppure eccessi in bonus e gratifiche. Quale ruolo svolgono qui i principi cooperativi della Migros?

La responsabilità sociale è una componente fondamentale della cultura d’impresa, come dimostra inequivocabilmente il Percento culturale della Migros. Così come le altre aziende appartenenti alla comunità Migros, paghiamo ogni anno il dieci percento dei nostri dividendi al fondo d’aiuto «Impegno Migros», che sostiene e realizza progetti di pubblica utilità. La Banca Migros non stipula costosi contratti di sponsoring come fanno altre banche?

Non facciamo sponsoring e non destiniamo risorse lì dove il denaro non manca di certo, per esempio nei tornei di golf, nello yachting, nella Formula 1 o nello sport di punta. Fino a che punto i collaboratori condividono questa cultura d’impresa piuttosto insolita per una banca?

L’importante è che i nostri collaboratori

capiscano e rappresentino i valori della banca. Non lavorano né per un investitore anonimo né per un top management strapagato, ma sanno di essere molto più di un semplice centro di costo, a rischio di essere stralciato dalle voci di spesa se gli affari non andassero più così bene. Nelle banche una retribuzione elevata non svolge un ruolo particolarmente importante?

I nostri collaboratori guadagnano stipendi conformi rispetto anche ad altre banche. Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che i dipendenti ben preparati e motivati si contraddistinguano soltanto per retribuzioni elevate e titoli. Consentiamo ai nostri collaboratori di vivere bene anche al di là della professione. Sta parlando del famoso «work-life balance»?

Non mi piace questo termine. Per me deve esistere soltanto un «life balance», di cui fanno parte, oltre al lavoro, anche la famiglia, lo sport, la cultura, gli amici e gli interessi personali, appunto la vita nella sua totalità. Nella sua vita è così?

Certamente. Non voglio che la mia vita sia fatta solo di banca, per questo usufruisco sempre di tutti i giorni di vacanza che mi spettano. Non credo neppure che uno riesca a lavorare costantemente in modo concentrato per 12 ore al giorno e oltre. Mi sembra che 9 siano una cifra più ragionevole. Durante le mie vacanze non sto neppure attaccato al laptop o al cellulare. Secondo me, chi vive solo per il lavoro perde prima o poi il giusto contatto con la realtà e, in ultima istanza, questo è nocivo anche per l’azienda. In passato il settore bancario ha brillato per gli scandali. Ora lo Stato interviene per disciplinarlo. Come giudica questi sviluppi?

Nell’immediato il consumatore può essere avvantaggiato se la sua posizione nei confronti della banca è migliorata dall’intervento statale. Tuttavia io non conosco alcun settore in cui i consumatori abbiano beneficiato della regolamentazione statale nel lungo periodo. Questo tipo di intervento rappresenta sempre una protezione del settore e dei margini e serve in primo luogo agli offerenti, creando una forma di cartello disposta dallo Stato. Ipotizzando uno sviluppo estremo, alla fine esisterà soltanto il monopolio di una banca che, prima o

Harald Nedwed, a capo della Banca Migros dal 2003, ritiene che la crescente regolamentazione statale sia un grosso ostacolo per la crescita economica. (Marcel Studer)

poi, aumenterà i prezzi, perché non deve temere la concorrenza. Sulle banche incombe soprattutto la minaccia del programma fiscale statunitense. Anche la Banca Migros è coinvolta?

Attualmente abbiamo circa 830’000 clienti, di cui meno di 400 sono contribuenti negli Stati Uniti, quindi attorno

I numeri del 2013 Anche nel 2013 la Banca Migros ha registrato un forte incremento del volume d’affari. I fondi della clientela sono aumentati del 4,7 percento superando per la prima volta la soglia dei 30 miliardi. Il volume dei crediti ipotecari è cresciuto del 4,2 percento a 31,2 miliardi di franchi. I proventi operativi hanno raggiunto 596 milioni di franchi, il valore più alto nella storia della banca, mentre l’utile lordo si è attestato su 310 milioni di franchi. Con l’espansione della rete di distribuzione cominciata nel 2008, la Banca Migros gestisce oggi 65 succursali in tutta la Svizzera. Maggiori informazioni

www.bancamigros.ch

allo 0,04 percento. Tutti hanno dichiarato il proprio patrimonio. Se potessimo garantire con sicurezza che anche in passato ognuno ha rispettato i propri obblighi fiscali negli Stati Uniti, saremmo in una botte di ferro. Quindi vi aspettate una multa?

Così come raccomandato dall’Autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari (Finma), abbiamo accantonato una determinata somma per pagare eventuali multe. Ma non abbiamo paura. Naturalmente si può obiettare che questo programma colpisce quelli sbagliati. Tuttavia preferiamo guardare avanti, prendendo atto delle circostanze, invece di occuparci delle seccature, che ci distolgono dal nostro core business. Gestirete clienti americani anche in futuro?

Certamente. Non è pensabile di escludere un gruppo di clienti dall’attività bancaria in Svizzera solo per il loro domicilio fiscale. Molte di queste cosiddette «US-Tax-Person» sono cittadini elvetici, che vivono in America, hanno la doppia nazionalità o sono espatriati e lavorano in aziende svizzere. I clienti americani non rappresentano un potenziale pericolo?

No, perché basandoci sull’accordo «Qualified Intermediary» abbiamo sviluppato una procedura sicura per la gestione dei clienti statunitensi.

Sonni tuttora tranquilli con le azioni La consulenza della Banca Migros

L’accordo consente alle banche di gestire clienti statunitensi al di fuori del loro Paese. Per questo motivo apriamo automaticamente a tutti i clienti statunitensi un conto titoli e acquistiamo un’azione di General Electric del valore di 28 dollari. Dal momento che il titolo versa regolarmente un dividendo, il suo possessore è registrato presso l’autorità fiscale statunitense, ottemperando così all’obbligo di fornire informazioni al fisco. Secondo lei dove risiedono le più importanti sfide del futuro?

Nella crescente esigenza di regolamentazioni sempre più cogenti. Recentemente la Finma ha addirittura chiesto all’Associazione dei banchieri di inasprire ulteriormente le proprie regole in materia di finanziamenti ipotecari. La giungla normativa è particolarmente soffocante in alcuni Paesi europei, tra cui Italia o Francia, dove impedisce un’autentica crescita, perché nessuno è più disposto a investire. Ma senza crescita non può essere risolto il problema del debito. Dovremmo riconquistare fiducia nei mercati e nella capacità innovativa del genere umano, invece di sperare nell’intervento regolatorio dello Stato. * Redattore di Migros Magazin

Fonte fidata di denaro Performance in %

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34%

Daniel Lang Vorrei investire 50’000 franchi in fondi azionari piuttosto a lungo termine. Tuttavia le attuali turbolenze mi disorientano un po’. È il momento giusto per acquistare?

Responsabile Product Management della Banca Migros

Due anni fa ho risposto alla stessa domanda proprio in questa rubrica della Banca Migros. Allora avevo scelto il titolo «Sonni tranquilli con le azioni», raccomandando di non lasciarsi fuorviare dal pessimismo dominante dei media. Consigliavo invece di considerare i solidi dividendi versati dalle aziende. Per una maggiore concretezza avevo presentato qualche dato: grazie al rendimento del dividendo del 3 percento in media, il valore di un investimento azionario di 50’000 franchi aumenta a 67’200 franchi dopo dieci anni, il che corrisponde a un guadagno di tutto

rispetto, pari al 34 percento (v. grafico). Chi due anni fa ha investito in azioni svizzere ha beneficiato di un progresso addirittura del 40 percento. Ma chi non è ancora della partita può entrare in gioco adesso? La mia risposta è sì. E per gli stessi motivi che valevano due anni fa. La performance nel tempo delle azioni dipende in primo luogo da due fattori: il rendimento e la crescita dei dividendi.

I dividendi entrano realmente nelle tasche degli azionisti Guardiamo i due fattori più da vicino. Il primo è tuttora positivo: le azioni svizzere continuano a offrire un considerevole rendimento del 3 percento. Così l’apprezzamento da 50’000 a 67’200 franchi in dieci anni

rimane realistico. Il secondo elemento, la crescita dei dividendi, è più difficile da valutare, tuttavia possiamo aiutarci con la media storica: dal 1900 le azioni svizzere hanno aumentato i loro dividendi del 2,8 percento l’anno con un tasso d’inflazione del 2,3 percento. Nonostante la crisi finanziaria, nell’ultimo decennio le aziende sono addirittura riuscite a innalzare ancora di più gli utili distribuiti. Per cautela ipotizziamo una crescita media annua dell’1 percento in futuro. In tal caso il valore del suo investimento azionario nei prossimi dieci anni aumenterebbe del 48 percento a 74’000 franchi, come risulta dal grafico. Puntare l’obiettivo sui dividendi distribuiti ha un grande vantaggio, perché le provvisorie fluttuazioni dei prezzi dei titoli, attualmente tornate alla ribalta delle cronache, non disorientano l’investitore. Quanto più

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Il dividendo è determinante per la performance delle azioni nel tempo. Il grafico riporta l’andamento con un rendimento costante del dividendo del 3 percento (reinvestito) e una sua crescita dell’1 percento.

lungo è l’orizzonte temporale per l’investimento, tanto meglio si compensano queste oscillazioni delle valutazioni verso l’alto o verso il basso. E ancora più importante è la somma che confluisce effettivamente dall’azienda all’azionista sotto forma di dividendo.


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Politica e Economia Rubriche

Cantoni e Spigoli di Orazio Martinetti Aggregazioni I: il crepuscolo del Ticino comunale «Aggregazione» è parola che può anche avere un’eco sgradevole. È fredda e ricorda il gergo cancelleresco. Ma «fusione», termine senz’altro più caldo, non ha avuto sorte migliore, tant’è vero che è stato abbandonato dopo le esperienze, fallimentari, degli anni ’80. Qualcuno penserà che «aggregazione» sia di conio recente. Non è così. La parola compare già nell’«opus magnum» di Stefano Franscini, La Svizzera italiana, anno 1837: «Del 1803 si contavano fino a 268 Comuni: ora sono 257, undici di meno. Gli è che nel Locarnese e in Vallemaggia diverse terricciuole sono state cancellate dal ruolo de’ Comuni. Negli altri Distretti, se è accaduta qualche aggregazione, si è però autorizzato qualche smembramento, e per tal modo le cose sono rimaste all’incirca come erano dapprima». Le aggregazioni sono tornate alla ribalta in queste settimane, sull’onda di

più iniziative di natura editoriale e politica; e anche di notizie allarmanti, come la voragine finanziaria che si è aperta sotto i piedi della «grande Lugano». Ci riferiamo al volume di Oscar Mazzoleni, Andrea Pilotti e Marco Marcacci, Un cantone in mutamento. Aggregazioni urbane ed equilibri regionali in Ticino (edizioni Opera Nuova) e al convegno sull’argomento tenutosi a Bellinzona lo scorso 24 gennaio. Nel frattempo il Consiglio di Stato ha posto in consultazione il «Piano cantonale delle aggregazioni». Da questo documento, che è stato elaborato tenendo presente la cornice tracciata dal Piano direttore, uscirà il profilo del Ticino di domani, il Ticino urbano o metropolitano, fondato sull’interrelazione di più centri. Ricorrendo ad una metafora chimica, si potrebbe descrivere questa figura come una combinazione di atomi che nel corso del tempo ha dato

luogo a composti disuguali. Gli atomi sottocenerini hanno generato molecole grosse e complesse. La «nuova Lugano» raggiunge ora le estreme propaggini della Val Colla, come Bogno, Certara, Cimadera. Anche Mendrisio ha allungato i suoi tentacoli verso la «montagna», incorporando Besazio, Tremona, Arzo e Meride. Nel comparto sopracenerino, invece, i progetti avanzano lentamente e faticosamente, sia nel fondovalle, sia nelle aree montane in evidente affanno demografico, finanziario e politico. Proprio nei territori in cui il citato Franscini ravvisava rischi di semi-paresi («molti de’ nostri Comuni sono di sì scarsa ed effimera popolazione che non si vede come possano costituire un buon consiglio di reggenza né un’assemblea sufficientemente numerosa»), i propositi aggregativi incontrano maggiore resistenza. Le ragioni sono molteplici: riguardano in-

teressi materiali come il moltiplicatore d’imposta ma anche universi affettivi, come il sentimento di appartenenza ad una determinata comunità. Dallo studio risulta che la micro-identità non è questione marginale e trascurabile, soprattutto nel Locarnese. In questa fascia lacustre, tra Ascona, Locarno, Muralto e Minusio le antiche rivalità pesano ancora come macigni. Gli autori dello studio definiscono le aggregazioni urbane intervenute nell’ultimo decennio come «il maggiore cambiamento istituzionale avvenuto dopo la creazione del canton Ticino». Per ridurli di una decina di unità sono occorsi due secoli: da 257 a 245. L’accelerazione degli ultimi anni li ha portati a 135; il nuovo Piano prevede uno scenario formato da 23 comuni: uno smagrimento inconcepibile fino agli anni ’80. Adesso non più. Le aggregazioni sono naturalmente il

risultato, lo specchio di un’urbanizzazione impetuosa, alimentata da crescenti flussi demografici e produttivi. Le città e i borghi sono diventati un’unica macchia oleosa, che ha sommerso i confini intercomunali, di fatto cancellandoli. I toponimi – la mappa mentale dei nostri antenati – rivivono soltanto nei repertori compilati dai glottologi dell’Archivio di Stato. Il Ticino di domani sarà dunque un Ticino sempre meno comunale, sempre meno municipale, sempre meno locale. Un Ticino dunque più anonimo o più livellato, composto di «quartieri» e non più di «comuni». Il che pone autorità e popolazione di fronte ad una grande scommessa cantieristica: come fare in modo che le dinamiche della dilagante «città infinita» non trasformino questo triangolo di terra in un’informe e caotica periferia della metropoli lombarda.

Lugano ha scardinato la concezione di città Ticino e domina le altre città. Se la sua economia rallenta le cose possono mutare. (foto CdT - Scolari)

nuovo secolo si realizzarono le premesse politiche necessarie a farlo avanzare rapidamente. In primis un accordo di fondo tra parlamento e Consiglio di Stato sugli obiettivi da perseguire. Ma poi anche il diffondersi del consenso politico su questa politica, specie nelle aree urbane, per effetto delle iniziative prese dagli attori politici locali tra i quali spiccano, per l’ampiezza dei risultati raggiunti, i sindaci di Lugano e di Mendrisio. Il secondo quesito riguarda la partecipazione politica. Gli studi disponibili a livello internazionale e nazionale testimoniano dell’esistenza di una correlazione negativa tra partecipazione politica a livello locale e aumento della dimensione del comune. Nel caso ticinese la risposta a questo quesito non è chiara. Se si prendono come indicatori della partecipazione la prossimità con i politici, l’interesse per la politica comunale e l’impegno attivo in un partito e si studia come gli stessi siano evoluti nei nuovi comuni urbani si arriva alla conclusione che l’evoluzione della partecipazione non è probabilmente correlata con la taglia del nuovo comune, né in positivo, né in negativo. Il terzo quesito,

che, occorre riconoscerlo, è la domanda decisiva concerne l’evoluzione delle disparità. Statisticamente parlando, se il numero dei comuni diminuisce è ovvio che anche le disparità tra i comuni debbano diminuire. Gli autori di questo volume fanno tuttavia un discorso sulle disparità legato alla gerarchia degli insediamenti. È evidente che la creazione di una nuova città di quasi 70’000 abitanti, come è la Lugano di oggi, ha scardinato la concezione della città Ticino, ancora valida al momento in cui fu preparato il piano direttore cantonale del 1990. In quel piano, i quattro agglomerati urbani di Mendrisio-Chiasso, Lugano, Bellinzona e Locarno, figuravano come centri di livello equivalente e con vocazioni di sviluppo complementari. Con le aggregazioni, Lugano si è proiettata al livello superiore e domina oramai la gerarchia dei centri urbani ticinesi. Questa situazione andava bene quando Lugano era il motore economico del Cantone. Gli autori del volumetto sulle aggregazioni lasciano però capire che la nuova gerarchia potrebbe dar adito a molte discussioni se, domani o dopo, il motore economico dovesse incepparsi.

la Siria è piena di terroristi, di ogni sorta e violenza: «Non si capisce perché voi occidentali preferiate i terroristi ad Assad», dice serafica la capa della comunicazione del regime, quella Bouthaina Shaaban che a Ginevra si nascondeva negli anfratti del Palazzo delle nazioni per non dover imbattersi in qualche rappresentante dell’opposizione e poi usciva maestosa, con la pelliccia e le perle, e si faceva intervistare da tutti i media internazionali con il suo inglese vivace (è esperta di letteratura inglese romantica). Il regime siriano combatte il terrorismo di al Qaeda, è la sintesi del piano d’attacco – mediatico e strategico – messo a punto da russi e iraniani per annientare ogni velleità occidentale: è innegabile che i terroristi ci siano, si stanno anzi combattendo tra di loro, c’è uno scisma in corso tra le forze di al Qaeda e quelle, violentissime e potenti dello Stato islamico, così come anche i sauditi stanno

facendo di tutto per convogliare soldi, uomini e armi sul loro cavallo: il Fronte islamico. È altrettanto innegabile che l’arrivo in massa di jihadisti in Siria è stato causato dallo stesso Assad e dalla colpevole passività dell’Occidente, così come è innegabile che la Siria è un failed state non soltanto perché è campo di battaglia tra sunniti e sciiti, ma soprattutto perché c’è un dittatore che sta sterminando il suo popolo con bombardamenti e armi chimiche (ci sono almeno 130 mila morti dall’inizio del conflitto, tre anni fa). L’evidenza, in Siria, non è mai stata sufficiente. Al punto che, non appena le delegazioni hanno lasciato Ginevra per la settimana di pausa, il regime siriano ha iniziato a lanciare bombe su Aleppo. Tante bombe, uno dei bombardamenti più feroci degli ultimi mesi, come se i colloqui appena finiti non fossero mai esistiti. A conferma

dell’inutilità di un vertice che è stato venduto dalla Casa Bianca di Barack Obama come il trionfo della diplomazia sulle armi, ci sono altri due fattori: il segretario di Stato americano, John Kerry, ha ammesso in un incontro con i senatori repubblicani che la strategia di Obama in Siria è fallita. Si parla di una nuova virata, a favore dei ribelli più moderati, con finanziamenti e armi, dopo che questa tattica è stata già applicata a singhiozzo in passato, sempre con la paura che non fosse quella giusta. L’altra grande manovra diplomatica dell’America, quella che Obama ha celebrato durante il discorso sullo stato dell’Unione, è sull’orlo del fallimento: Assad ha consegnato il 4,1 per cento delle sue armi chimiche. Secondo il piano della Casa Bianca, deciso con la Russia, in questo momento l’arsenale di Assad dovrebbe essere fuori dalla Siria e in parte già smantellato.

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Aggregazioni II: e se Lugano rallenta? In Ticino, da quindici anni, è in atto un processo di aggregazione dei comuni che ha portato a una forte riduzione del loro numero. Contemporaneamente, la dimensione demografica e quella territoriale dei nuovi comuni (per non parlare dei loro ricavi e dei loro costi) sono aumentate. I promotori di questo processo sperano che con l’aumento della taglia migliori anche la situazione finanziaria del comune. Pensano poi che i nuovi comuni possano adempiere meglio i compiti che oggi gravano sulla gestione pubblica a livello locale. Reputano infine che le disparità a livello locale – in particolare in materia di benessere e di risorse fiscali pro-capite – possano diminuire quando il numero dei comuni diminuisce. Gli avversari pensano, da parte loro, che con le aggregazioni si riduce l’autonomia degli enti locali e si incentiva il disinteresse degli elettori. Sembra sia ora arrivato il momento di un primo bilancio di questa che viene considerata come la maggiore riforma istituzionale affrontata, nel corso dell’ultimo secolo, dal Cantone. È quanto devono aver pensato anche Oscar Mazzoleni, Andrea Pilotti e

Marco Marcacci, dell’Osservatorio della vita politica regionale dell’Università di Losanna che, in un volumetto dal titolo «Un cantone in mutamento», appena uscito, hanno per l’appunto tentato di rispondere a tre quesiti interessanti concernenti le aggregazioni. Il primo è di carattere storico. Fino alla fine del secolo Ventesimo le fusioni di comuni, in Ticino, sono state rare come le mosche bianche. Come mai, nei quindici anni

seguenti fu possibile dare al processo aggregativo il colpo di acceleratore che ha ricevuto? La risposta è duplice. L’accelerazione fu possibile da un lato perché, negli anni Ottanta e Novanta, con l’affiorare delle prime difficoltà finanziarie per l’ente pubblico, fu abbandonato l’orientamento estremamente generoso che era stato seguito, sin lì, nella politica di perequazione finanziaria. Dall’altro lato, perché nel primo decennio del

Affari Esteri di Paola Peduzzi Siria, il fallimento di Ginevra Non è ancora finita, la conferenza di pace sulla Siria a Ginevra. S’è conclusa la prima parte, ma questa settimana si apre la seconda, salvo boicottaggi dell’ultimo minuto, con prospettive sempre meno gloriose. Questi negoziati hanno avuto il merito – l’unico – di far incontrare per la prima volta l’opposizione al regime di Bashar al Assad e i rappresentanti del regime stesso, vittime e carnefici si sono guardati, sfiorati, minacciati, ignorati – mentre nei corridoi si incontravano gli altri, i giornalisti, gli attivisti, che prima erano un unico popolo, alcuni erano amici, altri erano colleghi, e adesso non si parlano nemmeno più. Ma dall’incontro non è uscito molto altro, se non l’assurdità di discussioni su discussioni sul far passare gli aiuti umanitari in direzione di Homs, come se non far morire di fame una città – una regione – fosse negoziabile, come se non fosse già incluso nell’ostraci-

smo del regime a quegli aiuti il significato farsesco di questo summit. Non che ci si aspettasse granché, da questa Ginevra 2 (già che Ginevra 1 non sia bastata la dice lunga su come sta andando la diplomazia sulla crisi siriana): numerose fonti del dipartimento di Stato americano avevano raccontato alla vigilia che tra gli obiettivi c’era poco o nulla, perché non s’è trovato alcun ambito in cui una negoziazione fosse possibile. La transizione post Assad, invocata dall’opposizione (e anche da Washington), è esclusa dal regime a priori: ci saranno le elezioni, in primavera probabilmente, mentre mezza Siria muore di fame e l’altra continua a essere bombardata, e si vedrà chi vince, dicono i portavoce di Assad. Il cessate il fuoco pure è fuori discussione: chi lo può gestire? Il regime dice che sta combattendo i terroristi, e trova naturalmente orecchie pronte ad ascoltarlo, perché è vero che


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Cultura e Spettacoli Danza professionale In Svizzera si imbocca finalmente la professionalità nell’ambito della danza: un percorso ancora lungo ma che comincia a dare frutti pagina 44

Il ritorno della New Age In un mondo in cui tutto viene rivalutato, le cose non potevano andare diversamente per un genere di musica ormai snobbato da anni. A riascoltare oggi la New Age, ci si rende conto che in fondo non era così male, anzi…

Città alla Fondazione Rolla A Bruzella nuove visioni di realtà urbana grazie alla grande fotografia internazionale

Addio a Pete Seeger Se n’è andato uno degli ultimi autentici cantautori folk degli Stati Uniti

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Le stanze delle meraviglie Mostre Wunderkammer al Museo Poldi

Pezzoli e alle Gallerie d’Italia a Milano

Gianluigi Bellei Ci sono tante cose che crediamo vere e reali ma che in realtà non lo sono affatto. La fantasia in effetti è una delle caratteristiche dell’uomo e fra una fantasia e l’altra ci immergiamo volentieri, e spesso, in mondi e realtà chimeriche che ci aiutano nella desolazione della vita quotidiana. Pensare, per esempio, che esista il paradiso terrestre ha radici antiche che risalgono alla Genesi per approdare a Orazio che ne scrive, come campi elisi, quale fuga da una realtà spiacevole, e in questo caso parliamo delle guerre civili, fino all’Ariosto che porta Astolfo a cavallo dell’ippogrifo in un paradiso terrestre a metà strada verso la Luna. L’unicorno, poi, è conosciuto in tutto il mondo fin dall’antichità e si credeva reale ancora nell’Ottocento. Simbolo cristiano di purezza e castità, è raffigurato con le zampe sulle ginocchia della Vergine come un cavallo bianco con un lungo corno attorcigliato sulla fronte. Nessuno lo ha mai visto, selvatico e ribelle com’è, ma credere che sia reale è meraviglioso. Nel Cinquecento, dopo la scoperta delle Americhe, arrivano nel vecchio mondo animali, minerali, vegetali e manufatti mai visti prima; e questo scatena il pensiero immaginifico. I grandi collezionisti fanno incetta di ogni sorta di oggetti imprevedibili, misteriosi, affascinanti. Si creano le prime raccolte suddivise in tre grandi filoni: l’artificialia che comprende tutto quello creato dall’uomo, la naturalia cioè quanto si trova in natura e la mirabilia che raccoglie le cose insolite, mostruose e magiche. Sorgono così le prime Wunderkammern o camere delle meraviglie che offrono, in contrapposizione alla visione specialistica galileiana della cultura, un mondo senza certezze e «aperto verso l’ignoto». Fra i grandi collezionisti troviamo l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, i principi bavaresi Guglielmo V e Massimiliano I, ma anche Francesco de’ Medici il quale nel suo studio-

lo, accanto al Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, crea un ambiente, visibile ancor oggi, piccolo e sofisticato che gioca fra mitologia, scienza e alchimia. Caterina de’ Medici alla sua morte lascia un cabinet de curiosités degno di questo nome. Ma cosa c’è in una Wunderkammer? Si tratta di un ambiente, o anche solo un armadio, nel quale sono raccolti oggetti diversi e stravaganti: dagli animali impagliati ai basilischi, dalle conchiglie ai fossili, dalle uova di struzzo agli unicorni. Il naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi nella sua Monstrorum historia scrive di «un horribile e maraviglioso mostro nato in Eusrigo di una donna vecchia con sette teste et sette braccia, et le gambe da bestia, et la testa principale ha un occhio solo nella fronte, et le orecchie da bue». Vero o falso, Aldrovandi riteneva che l’artificio avesse la stessa valenza del naturale. L’importante era stupirsi e ammirare un universo ibrido e sognante. Di questo facevano parte i coccodrilli, sempre appesi al soffitto delle sale, le madrepore e i coralli, le zanne di elefante e le maschere azteche, ma anche orologi e automi. Poi l’interesse è andato scemando fino probabilmente all’inizio del Novecento con gli scritti di David Murray e Julius von Schlosser e con gli artisti d’avanguardia, da Picasso fino a Kurt Schwitters. Nel 1986 all’interno della discussa Biennale di Venezia intitolata «Arte e scienza» (Enrico Filippini scrive di brutta sorpresa e, al contrario, Roberto Tassi di emozione) l’artista Paolo Tessari porta l’armadio delle meraviglie del suo antenato Gio. Domenico Tessari, dottore in medicina all’Università di Padova, vissuto nel XVIII secolo, con all’interno oltre cinquanta oggetti da lui ereditati e altri prestati da alcuni musei. Vi troviamo due basilischi, un ramarro in bronzo, un’ammonite, un calamaio, un corallo, un cratere daunio a colonnette subgeometrico a decorazione monocroma del IV secolo avanti Cristo,

Anonimo, 2a metà XVIsec, Pesce Rondine, foglio del Codice degli animali di Ulisse Aldrovandi. (© Bologna, Biblioteca universitaria)

una tartaruga marina, un grifo alato in ferro battuto, una bocca di pescecane, un corallo… Nella sezione accanto, curata da Adalgisa Lugli, si ripercorre la storia delle Wunderkammern, da quella grande enciclopedia naturalistica di Plinio il vecchio che è l’Historia naturalis fino alle opere di Properzia de’ Rossi, Cornelius Norbertus Gijsbrechts, Man Ray, Max Ernst, André Breton, Meret Oppenheim, Fausto Melotti, Rebecca Horn. Un primo viaggio dentro la meraviglia. E possiamo continuarlo anche adesso, questo viaggio, visitando le due mostre Arte, natura, meraviglia ieri e oggi allestite al Museo Poldi Pezzoli, per quel che riguarda i manufatti dal Cinquecento all’Ottocento, e alle Gallerie d’Italia per le opere moderne. Al Poldi Pezzoli sono messe a confronto le collezioni dei bolognesi Ulisse Aldrovandi e

Ferdinando Cospi e del milanese Manfredo Settala. Il percorso, suddiviso in quattro sezioni, analizza dapprima il lavoro dei tre collezionisti per poi dare spazio ai naturalia, agli exotica e infine alla scientifica. Ma anche il fondatore del museo, Gian Giacomo Poldi Pezzoli, era un collezionista e nel suo Studiolo Dantesco possiamo ammirare, da sempre, manufatti cinque-seicenteschi; in mostra, finalmente, anche il nostro famoso corno di unicorno, opera di un artista romano eseguita verso il 16601670. Ovviamente si tratta di una zanna intagliata come un dente di narvalo posizionata su quattro zampe caprine con testa di ariete. Un ottimo lavoro scultoreo per altro di estremo valore. I cosiddetti corni di unicorno erano presenti nelle migliori raccolte collezionistiche e, per esempio, quello dei Medici era stimato 6000 fiorini, mentre sotto Cle-

mente VII ne venne venduto uno per 27’000 ducati. Alle Gallerie d’Italia troviamo un’ampia scelta di opere moderne e contemporanee, nella nuova sede museale di Intesa San Paolo vicina alla Scala. Qui accanto a opere di Jannis Kounellis, Damien Hirst o Mario Merz, incontriamo uno stupefacente lavoro Dario Ghibaudo intitolato Matris Dignitas del 1993. E il viaggio continua… Dove e quando

Wunderkammer. Arte, Natura, meraviglia ieri e oggi. A cura di Lavinia Galli e Antonio Mazzotta. Museo Poldi Pezzoli e Gallerie d’Italia, Milano. Fino al 2 marzo. www.museopoldipezzoli.it, www.gallerieditalia.com


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Volevo dirti che…

San Valentino Letteratura e cinema sono pieni zeppi di sdolcinate frasi che promettono l’amore eterno,

Mariarosa Mancuso I campioni contemporanei, a nostro insindacabile giudizio, sono due. Una dichiarazione d’amore prima, e una dichiarazione d’amore dopo. Nel senso che se uno ti vuole chiedere in moglie o in fidanzata (per carità non «compagna», fa davvero tristezza), darà fondo a lusinghe e carinerie. Se invece vuole celebrare un bel po’ di anni insieme da sposati o fidanzati (per «compagni» vale lo stesso interdetto) le parole vengono più difficili. La dichiarazione «prima» sta nel film Harry, ti presento Sally… Diretto da Rob Reiner e sceneggiato da Nora Ephron, una che della sua vita diceva «È tutto materiale che torna utile quando si scrive». Vale soprattutto per i momenti infelici: il secondo marito Carl Bernstein (sì, del Watergate) la lasciò mentre era incinta, e lei invece di piangersi addosso ne ricavò la sceneggiatura di Affari di cuore, diretto da Mike Nichols con Meryl Streep e Jack Nicholson. Ma non è detto: forse anche le dolcezze che Harry-Billy Crystal dice a Sally-Meg Ryan hanno un fondo autobiografico. (questo non autorizza anche voi a scrivere un romanzo sulle pene d’amore o sul corteggiamento andato a buon fine: la ricetta funziona solo se c’è talento, Nora Ephron ne aveva da vendere).

Dichiararsi è difficile, ma soprattutto rischioso, specie quando non si sa quale sarà la reazione... Cominciamo dal prologo, bello e adattabile: «Ti amo quando hai freddo e fuori ci sono 30 gradi. Amo la ruga che ti viene quando mi guardi come se fossi pazzo. Mi piace, dopo una giornata passata con te, sentire ancora il tuo profumo sui miei vestiti, e sono felice che tu sia l’ultima persona con cui chiacchiero prima di addormentarmi la sera». Pri-

ma – è un consiglio – prendete fiato e cercate di non confondervi, l’emozione fa brutti scherzi. Valutate se potete dire «ruga», non tutte gradiscono. Nell’incertezza, conviene saltare il prologo e andare al dunque: «Sono venuto qui stasera perché quando ti accorgi che vuoi passare il resto della vita con qualcuno, vuoi che il resto della vita cominci subito». La dichiarazione «dopo» sta nel romanzo La versione di Barney di Mordecai Richler, ed è rubata a William Shakespeare: «La donna che l’età non può sciupare né l’abitudine guastare». Barney la dice a Miriam, sua terza moglie, adocchiata e corteggiata mentre sposava la numero due. Divorziato dalla seconda signora Panofsky, Barney cerca di fare colpo mandando rose, invitando a pranzo, annotando su un foglietto gli argomenti di conversazione, imponendosi di non guardarle le tette, ordinando una bottiglia di champagne in camera, per poi chiedere di portarla via (l’appuntamento è al ristorante di un albergo, la ragazza potrebbe offendersi, non è come in un film francese – di cui ahimé abbiamo dimenticato il titolo – dove la frase «facciamo felice il cameriere» bastava per invitare la commensale nella stanzetta sopra il ristorante). Tornando indietro, ma è difficile di questi tempi trovare un gentiluomo all’altezza, c’è naturalmente Fitzwilliam Darcy in Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen: «Invano ho lottato. Non è servito. Il miei sentimenti non possono essere repressi. Dovete permettermi di dirvi con quanto ardore vi ammiro e vi amo». Era perfetto, al cinema, Matthew Macfadyen, nel migliore di tutti gli adattamenti (firmato Joe Wright, con Keira Knightley). Staccati, troviamo il Mark Darcy del Diario di Bridget Jones, che era Colin Firth. Oppure il Mr Darcy della miniserie Orgoglio e pregiudizio andata in onda sulla BBC, che era sempre Colin Firth, molto piaciuto alle spettatrici inglesi. Per pubblicità, in un laghetto di Londra

Keystone

ma attenzione a prendere la citazione giusta…

hanno messo una sua statua, immortalandolo mentre esce dall’acqua con la camicia bagnata. Sempre a Colin Firth tocca una delle dichiarazioni di Love Actually – L’amore davvero, diretto da Richard Curtis. In materia, una vera antologia. Ci sono due giovani controfigure che entrano in azione quando si girano le scene sexy: mentre lavorano, nudi, parlano del più e del meno, sarà amore quando si scambiano un bacetto vestiti di tutto punto. C’è il fotografo di matri-

moni che inquadra soltanto la sposa, di cui è segretamente innamorato: a lei lo rivelerà la notte di Natale, fingendosi un suonatore di strada e mostrandole una serie di cartelli dove ha scritto parole dolcissime (il marito sente solo la musica e non sospetta nulla). In Questione di tempo, sempre diretto da Richard Curtis, i maschi possono tornare indietro nel tempo – e lo fanno spesso – per aggiustare la dichiarazione venuta male. Il film dello scorso San Valentino era Warm Bodies di Jonathan Levine:

uno zombie innamorato di una fanciulla, che lo ricambia. Il film di questo San Valentino è Una storia d’inverno di Akiva Goldsman, con Colin Farrell e Jennifer Garner, tratto da un romanzo di Mark Helprin appena uscito da Neri Pozza (l’originale è del 1983). Tra i personaggi, «un magico cavallo bianco di nome Athanasor che veglia sul protagonista» e una fanciulla che muore di consunzione. Rivogliamo il Titanic, con quella straziante dichiarazione di amore eterno nell’acqua gelida.

Storie di donne Pubblicazioni Storia e teoria del giallo anglosassone in un molto femminile libro di P.D. James Stefano Vassere «Se devo scrivere di un personaggio afflitto da una tale timidezza che ogni nuovo lavoro, ogni incontro diventa un tormento, penso sia una benedizione non aver mai dovuto patire questa infelicità. Ma dagli imbarazzi e dalle incertezze conosciuti nell’adolescenza so quale sensazione questa timidezza può dare, e il mio lavoro diventa farla rivivere e trovare le parole per esprimerla». Leggendo questo sapiente e delicato A proposito del giallo. Autori, personaggi, modelli viene da pensare che il giallo è una questione di donne e da donne. Perché il libro è scritto con maestria dalla donna P.D. James (che si ostina a usare le sole sigle ma che si chiama in verità Phyllis Dorothy ed è una tosta, e anche dame, cioè membro della Camera dei Lord), perché ha un paio di capitoli centrali dove si parla delle donne autrici e protagoniste nei romanzi della Golden Age gialla anglosassone e anche

perché gran parte di quello che si può dire sulla teoria del genere poliziesco ha sì a che fare con morti ammazzati e vari malfattori, ma dichiara pure una certa eleganza femminile. Le stesse tesi di una maestra del noir come Dorothy L. Sayers, secondo la quale «gli investigatori dovrebbero concentrare le loro energie sugli indizi senza lasciarsi distrarre dal fascino femminile», presuppongono che queste vicende abbiano da qualche parte un seppur deleterio e maledetto fascino femminile. Ci sono, in questo libro, le conosciute ma originali distinzioni: c’è il giallo in senso tradizionale, che si svolge preferibilmente nella campagna inglese, e vuole un esito affidato alla perspicacia di eleganti investigatori e un contesto che alla fine torna pacificato, «un romanzo della ragione e della giustizia». E ci sono gli esiti del più americano e maudit hard-boiled alla Raymond Chandler, che non presentano riconciliazioni perché tutto rimane nel mar-

ciume di prima e i detective sono assuefatti quando non organici a quel mondo del male, «azione cruda, personaggi vividi ed eccessivi, uno stile spietatamente sfrondato d’ogni fioritura». E poi c’è anche spazio per i compendi storici del-

L’attrice inglese Margaret Rutherford nei panni di Miss Marple, Anni ’50. (Keystone)

le varie modalità dell’assassinio, le regole per l’efficacia di una detective-story, uso della prima persona, dei punti di vista, degli ambienti, considerazioni sui lettori (perché ci piace tanto il giallo? È vero che il giallo può finire per ispirare il crimine?), sul tessuto sociale dove nascono i romanzi, poliziotti di ieri e poliziotti di oggi. E le donne? In questo le donne brillano, per la loro stessa assenza o almeno per il loro statuto di minoranza, seppur notevole, nella compagine degli investigatori: c’è un breve sipario dedicato alle investigatrici donne e a Miss Marple di Agatha Christie, «la cui vita sessuale, ammesso che esista, è misericordiosamente avvolta nel mistero» ma che fu certo avanguardia di qualche altra figura femminile posteriore; dice P.D. James che quasi mai queste protagoniste sono descritte come belle donne. Un po’ di giustizia è pur resa anche alle mogli degli investigatori, «placide e piacevoli signore che se ne stanno sedute a sfer-

ruzzare, per nulla turbate, in apparenza, dalla propensione del coniuge a indagare sugli omicidi». Cambierà ovviamente molto nel noir americano, ambientato nello schifo, dove, saltati gli equilibri sociali e microsociali, le mogli saranno sempre più spesso ex mogli, o prostitute, o attraenti consorti di qualche sanguinario capobanda, o madri irresponsabili, se già non saranno decisamente defunte. In fondo, la tesi sul genere prettamente femminile del romanzo poliziesco non è nuova e non della sola P.D. James: sul pruriginoso rapporto tra crimine e donne è fondata per esempio gran parte dell’opera del maestro James Ellroy e proprio Caccia alle donne si intitola il suo ennesimo intenso romanzo-testamento di qualche anno fa. Bibliografia

P.D. James, A proposito del giallo, Autori, personaggi, modelli, Milano, Mondadori, 2013.


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Cultura e Spettacoli

Di professione ballerini

Senzatetto e dignitosi Mostre Gianluigi Bellei ha dato il via

Danza Novità nell’ambito della formazione anche in Ticino Valentina Janner Il 2013 è stato segnato da una svolta strategica nell’ambito del sostegno alla danza in Svizzera: il 20 settembre scorso sono stati infatti attribuiti i primi Premi svizzeri di danza presso il Théâtre de l’Équilibre a Friborgo, con il patrocinio dell’Ufficio Federale della Cultura. Nel suo discorso di apertura della cerimonia, il consigliere federale Alain Berset ha sottolineato l’importanza della danza quale forma di espressione artistica e ha evidenziato la necessità di incrementarne il sostegno, per permettere una miglior diffusione di una disciplina ancora troppo di nicchia. I premi, assegnati a scadenza biennale, costituiscono una delle misure concrete previste nel Messaggio concernente la promozione della cultura negli anni 2012-2015, il quale esplicita le linee guida e gli obiettivi della politica culturale nazionale stabiliti dall’UFC in conformità alla nuova Legge federale sulla cultura entrata in vigore nel 2012. Questo nuovo orientamento presta un’attenzione particolare al consolidamento del sostegno alla danza, disciplina artistica meno riconosciuta e valorizzata rispetto alle altre. Il Messaggio contiene espliciti riferimenti alla debolezza strutturale della danza, alla quale

bisogna ovviare grazie a una ridistribuzione dei contributi finanziari, tenendo conto delle esigenze specifiche di questa disciplina, quali la creazione di un percorso formativo completo riconosciuto, la riqualifica professionale degli artisti giunti al termine della loro carriera, la conservazione dell’opera coreografica per sua natura effimera, l’incremento del pubblico. I premi sono stati istituiti con lo scopo di rafforzare il sostegno alla danza non solo a favore degli artisti ma anche delle istituzioni che se ne rendono promotrici, quale il Théâtre Sévélin 36 di Ginevra, vincitore del Premio speciale di danza per il suo impegno nella mediazione culturale in ambito della danza contemporanea. In materia di danza la politica culturale del nostro cantone è purtroppo ancora arretrata e carente rispetto a quella delle altre regioni della Svizzera. Il riconoscimento della danza quale professione è avvenuto ufficialmente in Ticino nel 2009. I criteri di definizione di un professionista sono però tuttora piuttosto vaghi e quindi difficili da applicare. Sono principalmente due: il tasso di occupazione, l’artista deve svolgere un’attività in ambito della danza almeno al 50%, e la validità e il prestigio dei diplomi ottenuti. Per poter stabilire e certificare le competenze e la qualità

Ballerine delle Talent Classes durante lo spettacolo del primo gennaio.

artistica dei nostri ballerini, è inoltre indispensabile la presenza di esperti nelle commissioni cantonali di questo ramo. Qualche miglioramento si sta verificando grazie all’impegno dell’Associazione Formazione Professione Danza, fondata nel 2012, la cui missione è quella di garantire la professionalizzazione dell’insegnamento della danza e la tutela della formazione dei giovani talenti in Ticino. Quest’associazione riunisce le scuole di danza che, in conformità ai criteri stabiliti da Danse Suisse (Associazione svizzera dei professionisti della danza), dispongono di insegnanti competenti sia sul piano artistico sia su quello didattico-pedagogico, garantendo così un insegnamento di qualità. In collaborazione con Danse Suisse, AFPDanza è inoltre iniziatrice di un progetto di Talent Classes, che vuole offrire ai giovani ballerini più capaci e meritevoli del nostro territorio lezioni speciali di balletto classico e danza contemporanea. A questi giovani artisti emergenti viene così data l’opportunità unica di sviluppare e perfezionare la loro tecnica e il loro stile sotto la guida di professionisti di alto calibro, provenienti da tutta la Svizzera e dalla vicina Italia. L’obiettivo è quello di preparare nuove leve ad affrontare un eventuale percorso professionale in questo ambito artistico, che purtroppo non prevede ancora una formazione idonea nel nostro cantone. Tramite un’audizione presieduta da una giuria di professionisti esperti, selezionati da Danse Suisse, lo scorso anno sono state scelte e quindi ammesse a questi corsi speciali 14 ragazze (tra gli 11 e i 14 anni). Le partecipanti a queste Talent Classes hanno debuttato lo scorso 1. gennaio al Palazzo dei Congressi in occasione del discorso di Capodanno del sindaco di Lugano Marco Borradori. Le ballerine si sono esibite in tre brani coreografati da Anna Kolesarova per il balletto classico e Chiara Dal Maso per la danza contemporanea. Le audizioni per l’anno 2014-2015 per accedere alle Talent Classes si terranno nel prossimo mese di giugno 2014 (www.afpdanza.ch).

Top10 DVD & Blu Ray

Top10 Libri

Top10 CD

1. Cattivissimo Me 2

1. Clara Sánchez

1. Artisti Vari

Animazione novità 2. Planes

Animazione novità

Le cose che sai di me, Garzanti 2. Jeff Kinney

Diario di una schiappa Guai in arrivo, Il Castoro 3. Stephen King

6. The Lost Dinosaurs

Mondovisione 4. Artisti Vari

4. J. P. Sloan

The Dome Vol. 68

English da zero, Mondadori 5. Eros Ramazzotti

5. I Puffi 2

Animazione

Greatest Hits

Doctor Sleep, Sperling

4. Un piano perfetto

D. Kruger, D. Boon

2. Laura Pausini

3. Ligabue

3. Sotto Assedio

C. Tatum, J. Foxx

Megahits 2014

5. Violetta

Il mio diario - un anno dopo Disney

Noi Due 6. Zucchero

Una rosa blanca

R. Dillane, P. Brooke

a un articolato progetto artistico Eliana Bernasconi La Ex Officinaarte ospita sino al 15 febbraio Progetto Homeless, di Gianluigi Bellei, mostra in significativa sintonia con i valori che da sempre hanno ispirato la galleria di Magliaso e degnamente ne sottolineano la conclusione, la fine di un ciclo intenso iniziato nel 1992 e terminato il 31 dicembre scorso. Per tutto un ventennio Officinaarte ha lasciato una forte impronta nel mondo delle gallerie ticinesi: con generosità e rara apertura mentale Flavia Zanetti ha sempre escluso dalla sua gestione ogni finalità commerciale e con personali, collettive, eventi collaterali ha accolto nei suoi spazi artisti non necessariamente affermati, ha diffuso la conoscenza di nuovi progetti e linguaggi realizzando incontri, integrazione e dialogo tra artisti e pubblico, tra visitatori e contesto sociale. L’esposizione di Bellei è realizzata in contemporanea con altre sedi nel mondo, in collaborazione con alcune persone che in vari modi l’hanno sostenuta e incentivata. Poiché va al di là delle consuete rassicuranti modalità utilizzate solitamente dalle gallerie, necessita di qualche introduzione supplementare.

Il progetto di Gianluigi Bellei si estende negli anni e tocca diversi Paesi del mondo Gli Homeless, coloro che non hanno tetto e tantomeno casa, sono presenti in ogni epoca. Nel nostro mondo civilizzato, non solo occidentale, convivono da sempre con la nostra tranquilla indifferenza, abitano ogni luogo urbano, ogni angolo metropolitano. È per rendere omaggio alla loro ignorata e onnipresente esistenza che Gianluigi Bellei non ha realizzato questa mostra solo a Magliaso «perché non avrebbe avuto molto senso», ci tiene a sottolineare, ma contemporaneamente ha dislocato altri allestimenti in diversi luoghi del mondo. Per es. nelle Salles Royales dell’Eglise de la Madeleine, sotto le volte della famosa chiesa neoclassica parigina (che ospita un ristorante per i senza tetto, un foyer, una biblioteca e una sala esposizioni) ha collocato il ritratto a olio di un uomo assopito su una panchina e la riproduzione di opere che espone in altre città. «A Parigi», ci spiega ancora, «i barboni sono moltissimi, quando proponevo questa esposizione molti fraintendevano e pensavano che volessi fare qualcosa di pietistico, ma il responsabile culturale Jacques Nguyen mi ha compreso, ha accolto favorevolmente la mia idea e ha consentito a farmi esporre in questa prestigiosa sede». Sì, perché Progetto Homeless oltre che a Parigi, si estende anche a Bologna, nella sede della storica Associazione per le arti Francesco Francia, dove troviamo il dipinto

di un senzatetto parigino; a Delhi, dove si trova il ritratto a olio di una bambina indiana che al termine della mostra sarà tagliato in quadrati e simbolicamente regalato ai presenti; a Milano, dove la Galleria City Art espone il ritratto di Boris, un senzatetto dell’est; e infine a Rio de Janeiro dove al termine della mostra verrà distribuito un acquarello assieme ad altro materiale in una performance organizzata da Rubens Pileggi. Si tratta complessivamente di una quarantina di lavori diversi.

Le opere dell’artista non sono in vendita, poiché la dignità dell’essere umano non ha prezzo Ma torniamo alla mostra di Magliaso, composta da molti tasselli di differenti linguaggi: insieme a video, incisioni, fotografie, installazioni sonore e pagine sparse tratte da un’ingiallita edizione de I Miserabili del 1862 e a vecchi volumi di autori ottocenteschi sullo stesso tema, troneggia uno splendente trittico a olio di grandi dimensioni (cm 120 x 80 singolo) che rende omaggio a Franco, un senzatetto bolognese fotografato dall’artista nel 1985 e poi riprodotto nel 2011 in tre maestosi ritratti a tutto campo. L’ondulazione della barba e della chioma, il magnetismo dello sguardo azzurro gli conferiscono dignità regale. «Un tempo», ci dice Bellei, «gli artisti ritraevano in questo modo principi, re e principesse, idealizzandone una bellezza che magari non esisteva, io qui ho voluto fare la stessa cosa per celebrare la grande dignità di un senzatetto». Dignità che nella vita reale nessuno sospetta e tantomeno riconosce, lo testimonia il video realizzato a Madrid, Parigi, Milano e Firenze che fa da crudo contraltare a questi ritratti: sedendosi a pochi metri da loro con una telecamera alla loro altezza Gianluigi Bellei ha registrato dal basso la realtà che i senzatetto quotidianamente percepiscono: rumori, suoni e immagini del quotidiano gelido isolamento in cui vivono, gli altri esseri umani sono corpi che camminano e passano loro accanto ignorandoli, dei quali nemmeno riescono a vedere il volto. Le opere di questa mostra non sono in alcun modo in vendita, nemmeno per progetti caritatevoli, perché non è in vendita la dignità di ogni singolo partecipante, e questo ci riconduce a un tema di fondo che da sempre sottende la produzione artistica di Bellei, l’affermazione che l’arte esiste anche in una dimensione autonoma che sfugge totalmente e nega la logica del mercato, dove il valore è determinato dal prezzo. Dove e quando

Informazione sui luoghi espositivi, gli indirizzi, le date gli orari e l’ubicazione di ogni singolo lavoro sul sito www.bellei.com

6. Fabio Volo 7. Shadowhunters

L. Collins, J.C. Bower 8. R.I.P.D - Poliziotti d’aldilà

J. Bridges, R. Reynolds 9. Elysium

M. Damon, J. Foster 10. Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo 2

La strada verso casa Mondadori 7. Margaret Mazzantini

Splendore, Mondadori 8. Isabel Allende

Il gioco di Ripper, Feltrinelli 9. Khaled Hosseini

E l’eco rispose, Piemme

7. Antony/Battiato

Dal suo veloce volo 8. Andrea Bocelli

Love in Portofino 9. Modà

Gioia… non è mai abbastanza 10. Eugenio Finardi

Fibrillante

L. Lerman, A. Daddario 10. Ildefonso Falcones

La regina scalza, Longanesi

Trittico ad olio (cm 120 X 80 singolo) raffigurante il senzatetto bolognese Franco, fotografato da Bellei nel 1985 e riprodotto dall’artista nel 2011.


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Cultura e Spettacoli

La vibrazione New Age Musica Pubblicata una sorprendente compilation con 40 anni di musica dall’Era

dell’Acquario. Chi aveva detto che la musica new age è brutta?

«Ogni cosa in movimento, ogni cosa che ha assunto la materialità per diventare espressiva in ogni regno nel mondo materiale, è per mezzo delle vibrazioni che sono i movimenti, o quelle influenze positive e negative che determinano quella differenziazione che l’uomo ha chiamato materia nei suoi diversi stadi di evoluzione in cose materiali. Perché entra ed attraversa. Perché, come viene compreso meglio, e come verrà rivelato, ogni vibrazione deve col tempo, man mano che si materializza nella materia, passare attraverso uno stadio di evoluzione e uscirne». La ruota gira. Così quello che ieri sembrava insensato – quando non addirittura ridicolo o brutto – ci ritorna oggi sotto una nuova prospettiva, decisamente più interessante ed affascinante. Così una citazione misticheggiante ed olisticheggiante come quella sopra proposta – partorita il secolo scorso dallo pseudoscienziato, chiaroveggente e taumaturgo statunitense Edgar Cayce – si ripresenta oggi sotto un’altra luce, soprattutto in ri-considerazione di quel movimento «new age» che con alterni esiti spirituali, sociali ed artistici da essa è disceso.

Antonella Rainoldi In tempi di abbondanza dell’offerta e di «multicanalità», capita anche a noi di perderci qualche chicca trasmessa dalle generaliste. Dobbiamo ringraziare uno dei tanti lettori appassionati di telefilm per avercelo ricordato. Scrive Riccardo: «Il 14 gennaio, su Italia 1, ho assistito a un doppio incrocio di due serie bellissime: CSI Las Vegas e CSI New York. L’occasione era importante: l’incontro di D. B. Russel con Mac Taylor. I mitici capi della squadra della polizia scientifica delle due città erano impegnati a risolvere il caso della scomparsa della fidanzata di Mac, Christine. Taylor è volato a Las Vegas, e poi Russel è volato a New York, in un incrocio anche ambientale di colori dei casinò e di grigi metropolitani. Mancava solo il blu del mare di Miami, tanto per ricordare la più grande operazione ‘‘3 CSI’’ di qualche anno fa. Certo, per noi telespettatori è facile smarrire tesori fra le tante proposte del piccolo schermo, ma l’eccezionalità di un incontro ben esaltato dalla qualità del prodotto avrebbe suggerito attenzione da parte di chi si occupa di tv. Invece niente, non una parola da Grasso, da Dipollina, da lei. Un vero peccato». Delle tre serie di CSI abbiamo più volte parlato, sottolineando la felice congiunzione di sceneggiatura, regia, fotografia, ambientazione e recitazione. Per questo è ancora vivo il rammarico per la chiusura della versione Miami,

I Am The Center

Concorsi 091/8217162 Orario per le telefonate: dalle 10.30 fino a esaurimento dei biglietti

Visti in tivù Nella

tredicesima stagione CSI: Las Vegas incrocia lo spin-off newyorkese

Zeno Gabaglio

Io sono il centro è una compilation di «tracce private» della musica new age americana, tra il 1950 ed il 1990; materiale raccolto tra cassette e vinili ormai dimenticati – quando non da registrazioni assolutamente inedite – e presentato dall’etichetta Light In The Attic in un’edizione ricca e documentata, bella da vedere e da tenere in mano. Sono bastate poche settimane dalla pubblicazione e a macchia d’olio ha cominciato a diffondersi uno strisciante coro di «mea culpa»: amanti (quando non veri e propri esperti) di musica che per decenni avevano fieramente preso a male parole tutti i prodotti culturali della new age hanno dovuto fare una decisa inversione di rotta. Ammettendo di conseguenza come in certi prodotti riferibili a quello stile musicale si annidassero – in realtà – elementi di stringente attualità musicale, allora come oggi. Anni luce lontana dal fumo di incensi posticci e dallo sciacquio di fontane giapponesi in

Crossover, un evento imperdibile

plastica, la musica raccolta nelle oltre due ore della pubblicazione – ancorché molto diversificata per poetica ed ispirazione – presenta infatti un quadro qualitativo davvero sorprendente. E non c’è nulla da aggiungere: certa musica new age non faceva per nulla schifo. Constance Demby – Om Mani Padme Hum

Se anche ai più il nome di Constance Demby non dice molto, si tratta nei fatti di una delle figure di riferimento della musica new age, uno dei personaggi più famosi, più prolifici e più citati nell’ambito: un riferimento obbligato ed inevitabile per il sound che

tanto odiavamo. E perché a riascoltarlo adesso, quel lento sviluppo ciclico di elettronica e strumenti acustici tanto assomiglia a quanto di meglio il postrock da classifica-indie riesca a produrre da dieci anni a questa parte? E perché quel suo rigirarsi ludico attorno ai versi del mantra sanscrito «Om Mani Padme Hum» sembra dirompente e penetrante almeno tanto quanto gli esperimenti linguistico-vocali che ormai tutto il mondo ammira nei pezzi dei Sigur Rós? Daniel Emmanuel – Arabian Fantasy

Per sua stessa ammissione, uno dei motivi che ha spinto Douglas Mcgo-

wan a raccogliere, studiare e pubblicare il materiale di I Am The Center è il fortuito incontro con la musica di Daniel Emmanuel. In un discount di libri vecchi a Dallas – durante un viaggio di ricognizione che da Los Angeles aveva portato Mcgowan nell’American abyss – si era trovato in mano svariate copie invendute di due dischi di «new age synthesizer music» d’inizio anni Ottanta: la musica di JD Emmanuel. Un giorno dovremo solo chiedere, a chi conosce i casi della vita, perché mai il minimalismo psichedelico ed organistico di Terry Riley l’ha dovuto conoscere tutto il mondo, mentre quello di Daniel Emmanuel è rimasto fino all’altro ieri a prender polvere in Texas.

Com.X Rassegna della comicità Teatro Sociale, Bellinzona Venerdì 21 febbraio, ore 20.45

Appuntamenti al San Materno Rassegna di spettacoli Teatro San Materno, Ascona Sabato 22 febbraio, ore 20.30

Primi applausi Rassegna per l’infanzia Teatro Sociale, Bellinzona Domenica 23 febbraio, ore 16.00

Due mariti e un matrimonio

Raices Flamencas/Razza Flamenca

Sposa sirena

di R. Marafante. Con U. Alzati, P. Engleberth, A. Ierse, C. Luciani e D. Monachella. Regia di R. Marafante. Il racconto di un matrimonio mancato sviluppa situazioni comiche che conducono a un sorprendente epilogo.

R. Segura, chitarra; J. R. Caro, voce e percussioni; R. Segura, S. Barrero e I. Barbero, danza. L’ampio spettro delle forme più pure e originali del flamenco, a suon di chitarra, canto e ritmo di palmas.

con V. Franchino, S. Marci, L. Zotti. Produzione Crest, 2012. Teatro e danza aerea per raccontare la storia di Filomena, una storia tessuta dal tempo con la sapienza del racconto popolare e della mitologia greca.

www.teatrosociale.ch

www.teatrosanmaterno.ch

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Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate.

Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.

Per aggiudicarsi i biglietti basta telefonare martedì 11 febbraio al numero sulla sinistra nell’orario indicato. Buona fortuna!

Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino

degno spin-off di CSI: Scena del crimine con protagonista David Caruso, in gran spolvero nei panni del detective Horatio Caine responsabile del laboratorio di criminologia della Scientifica. Ma il gentile lettore ha indubbiamente ragione: uno dei pochi eventi di crossover è stato festeggiato un mese fa da Italia 1 con la proposizione nella stessa sera di due puntate speciali e avrebbe meritato almeno una segnalazione. Quello che possiamo fare ora è suggerire agli amanti di CSI: Las Vegas la visione della tredicesima stagione su RSI La2, la domenica alle 21 in un doppio appuntamento. La prossima settimana andranno in onda il nono e il decimo episodio. Nel tredicesimo (In Vino Veritas) Las Vegas incrocerà lo spin-off newyorkese. La prima parte del famoso crossover trasmesso da Italia 1 è vicina, e forse anche la seconda. Da non perdere. P.S. Tempo fa, ci è capitato di leggere su «20 Minuti» una curiosa intervista a Serenella Broggini in cui la bella ticinese, attrice a Los Angeles, dichiara di partecipare a numerosi provini per diventare un volto nei telefilm più seguiti, come ad esempio CSI: Miami. Ma CSI: Miami ha chiuso nel 2012. Qualcuno glielo dica.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2014 • N. 07

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Cultura e Spettacoli

La solitudine urbana Fotografia La Fondazione Rolla di Bruzella continua con le proprie

Avidità epocale e iperbole espressiva

incursioni nel mondo urbano, letto con sguardi sempre nuovi

Filmselezione I nuovi gangster di Martin

Scorsese Gian Franco Ragno

Fabio Fumagalli

La nuova tappa espositiva della Fondazione Rolla, intitolata Urban, narra un percorso artistico tra Europa e Stati Uniti, offrendo così una visione contemporanea della città: una realtà da sempre amata dai fotografi per la sua intrinseca modernità, per le sue suggestioni geometriche, per il suo universo ricco di possibilità creative. Come per le città, o meglio la metropoli, anche le immagini si sono moltiplicate di numero, diventando onnipresenti. Analogamente agli appuntamenti precedenti, la prassi espositiva della Fondazione mette a libero confronto grandi nomi della fotografia contemporanea ad autori meno conosciuti o misconosciuti, giovani leve e persino anonimi – ma in ogni caso, tutto contrassegnato da una grande qualità formale. Seguendo il filo storico, si potrebbe partire da Eugène Atget, riconosciuto postumo come autore di uno stile documentario – ovvero di un atteggiamento fermo, oggettivo ed analitico, senza filtri né abbellimenti – attraverso il quale testimoniò, nel suo caso, aspetti tra i meno noti della Parigi di inizio Novecento. Ma, via via troviamo grandi nomi come Margaret Bourke-White, la prima e più grande fotoreporter americana. Sempre vivo l’interesse anche verso gli autori tedeschi tra le due guerre, specie in relazione all’architettura – elementi portanti della collezione, e ci riferiamo alla già indagata Ruth Hallensleben. Presenti in mostra alcune rare immagini delle architetture razionaliste di Bruno Taut da parte di un poco conosciuto Arthur Köster.

** The Wolf of Wall Street, di Martin

La Fondazione Rolla propone un percorso espositivo tra Europa e Stati Uniti Una novità rispetto alle esposizioni precedenti la presenza di due autori italiani del dopoguerra, i quali si distinsero in un clima artistico relativamente impermeabile al discorso critico e artistico sulla fotografia. Si tratta di Giuseppe

Scorsese con Leonardo DiCaprio, Jonah Hill, Matthew McConaughey, Jon Favreau (Stati Uniti 2013)

Thomas Struth, Bernhardstrasse 2, 1991.

Cavalli, fondatore de La Bussola, e soprattutto, di Arrigo Orsi, coetaneo di Luigi Veronesi, recentemente riscoperto dalla critica. Non professionisti del mezzo fotografico, ma di fatto sperimentatori puntualmente aggiornati sulle avanguardie artistiche come il Bauhaus; non sorprende quindi che siano arrivati a risultati visivi inediti per la vicina Penisola. Ma a voler scegliere tra i pezzi più suggestivi, vorrei riferirmi ad Edward Ruscha. Egli ha indagato a lungo il confine, sempre labile, tra fotografia ed arte contemporanea, tanto da essere considerato uno dei protagonisti della Pop Art. Le sue immagini di Los Angeles – parcheggi vuoti presi dall’alto, che ci ricordano un gioco grafico – ci portano in una dimensione dove nulla appare più anonimo e alienante. Città simbolo della costruzione dell’immaginario cinematografico e televisivo, Los Angeles, in realtà, appare come uno spazio sconfinato dove l’uomo viene letteralmente inghiottito da un reticolo complesso di segni e simboli. Uno spazio, insomma, dove è impossibile fare esperienza, comunicare, conoscere. L’unica possibilità è quella di viverlo in simbiosi con la propria auto, attraversarlo, farne esperienza on the road. L’avanguardia europea degli anni Ottanta viene rappresentata da due allievi dei coniugi Becher, ovvero i notissi-

mi Thomas Struth e Thomas Ruff: il primo, più topografico nel suo interesse per il territorio e in seguito verso la globalizzazione e l’Oriente, mentre il secondo assai più sperimentale, in esposizione qui con due prove fotografiche agli infrarossi. Presenti anche due autori noti alle nostre latitudini per importanti esposizioni monografiche, Pino Musi e Luciano Rigolini. Tra i giovani autori, oltre a Matthias Hoch, Anna Leader che vive ed opera tra Londra e Locarno, autrice di uno scatto affascinante – l’unico comprendente la figura umana in tutta l’esposizione – che ricorda da vicino alcuni quadri di Edward Hopper. Nel catalogo Vincenzo Castella, altro protagonista della fotografia di paesaggio, viene intervistato da Phil Rolla. Il fotografo italiano offre una chiave di lettura del rapporto fotografia e mondo urbano. Per Castella infatti la fotografia sembra essere uno dei pochi strumenti capaci di cogliere il «profilo sfuggente della realtà», del suo incessante rinnovarsi. Proprio perché fermando l’attimo, ci pone anche a una necessaria distanza dal reale, per tentare, com’è necessario, di comprenderlo.

Sono così tanti i capolavori di Martin Scorsese, indiscutibile, travagliato, carismatico punto di riferimento del cinema moderno americano, che ci chiediamo come mai da più di vent’anni non gli riesca l’opera al di sopra di ogni sospetto. Non si tratta delle sue encomiabili intenzioni, ci mancherebbe considerati oltre tutto i tempi. Descrivere la parabola, autobiografica anche se non proprio inedita, del Madoff di turno, semiserio broker cocainato sbarcato dal nulla per farsi portatore della solita rincorsa forsennata del Sogno. O dell’incubo: proporre la carta straccia definita secondo i casi azione, titolo spazzatura, prodotto derivato e via dicendo ai creduloni, incassando all’istante la follia di un 50 percento di commissione. Costruirsi in un attimo un letto di bigliettoni per scoparci sopra le escort di Manhattan; Jordan Belfort è un predatore a dire poco sfrenato nella deriva post reaganiana: fine settimana ai Caraibi, elicottero sul tetto e vagonate di droga. Un sesso, droga & rock and roll sempre più particolare: dal quale uscire (con soli 36 mesi di galera, alla faccia della moltitudine di poveretti ridotti in miseria) soltanto con la delazione all’FBI. The Wolf of Wall Street non è altro che Quei bravi ragazzi, qualche generazione dopo. Con un nuovo genere di

Dove e quando

Urban, Fondazione Rolla, Bruzella. Fino al 16 febbraio 2014, su appuntamento. Info: www.rolla.info

gangster, ancora più corrotto nella sua sfrenata buffoneria, con la sniffata per via anale che inaugura la pellicola e la copulazione sbrigativa in toilette al posto della mitragliata d’epoca. Certo, non è mutato il bersaglio dell’autore: la medesima angoscia nei confronti di un mondo dove l’urgenza della finalità ha cancellato per sempre la coscienza («Un’amoralità più patinata, socialmente, essere un gangster non è più accettabile: in compenso, farsi dei soldi grazie a qualsiasi mezzo offerto dal sistema è perfettamente O.K.»), dove i confini fra lealtà e tradimento sono indistinti, il calcolo del doppio gioco viene elevato a regola. L’evoluzione è però anche nello stile e forse nell’ispirazione del cineasta: perché la farsa del gesto e la precipitazione della visione sembrano avere progressivamente sostituito la grandiloquenza. I goodfellas erano brava gente che tentavano inutilmente di farsi accettare dai prepotenti, martiri alla ricerca di autopunitive redenzioni, carnefici assuefatti dalla sopraffazione fino all’autodistruzione. Ora, l’autolesionismo di quei tassisti, pugili e bricconcelli vari, così consci della loro corruzione da essere tentati di guadagnarsi una fetta di paradiso attraverso un calvario privato, l’universo scorsesiano per definizione, insomma, è ormai impossibile («Per questo nuovo genere di lupi, da questa sorta di avidità irrefrenabile ogni redenzione è ormai esclusa») . Tradotte in ben tre ore d’iperbole espressiva queste legittime angosce arrischiano però di produrre un effetto di troppo pieno; che è un po’ semplice assolvere come presunto specchio dell’orgiastica rincorsa al denaro. Diverte pure la conta che qualcuno ha fatto all’interno della tradizionale fertilità del dialogo scorsesiano, 506 fuck, 69 shit, 18 motherfucker, 8 dick, 7 bitch e 4 pussy; meraviglia la forza visionaria, quando non ridondante, di diverse sequenze; come spettacolare è l’impegno degli attori, a cominciare naturalmente da quello ciclopico di DiCaprio. Priva com’è di una vera e propria progressione drammatica, di un’indagine all’interno dei personaggi, questa sorta di statica esuberanza contemplativa arrischia la ripetizione; e, peggio ancora, di scivolare dalla caricatura a una involontaria assoluzione.

L’ultimo maestro folk Musica Quando la marcia su Washington durava una vita intera: l’inestimabile lascito umano e artistico

del recentemente scomparso e compianto Pete Seeger Benedicta Froelich Quando accade che venga a mancare una figura epocale e per certi versi leggendaria come quella di Pete Seeger, la sensazione più immediata è che se ne sia andato un altro, prezioso testimone di tempi che non potranno più tornare – epoche ormai lontane, in cui le persone erano mosse da un sincero e spontaneo spirito di collettività, cristallizzato in grandi aneliti di cambiamento; e in cui, forse, una canzone aveva davvero il potere di rovesciare eserciti e opinioni. Sì, perché Pete Seeger, da poco scomparso all’età di 94 anni, era ben più di un anziano cantante folk: rappresentava un vero e proprio testimone vivente, impagabile e attento scrutatore dell’anima della sua vecchia e tormentata America e, in fondo, dei segreti pensieri di ogni cittadino di buona volontà che volesse tentare di modificare e migliorare il proprio mondo. Figlio d’arte, Seeger era nato nel 1919 a Manhattan in una famiglia altoborghese dal pedigree inequivocabil-

mente musicale, la cui concezione dell’arte non prescindeva in nessun caso dal suo valore come veicolo di impegno sociale; e quando suo padre Charles si era risposato con Ruth Crawford, pro-

Il cantautore folk statunitense in una foto del 1984. (Keystone)

mettente compositrice appassionata di musica popolare angloamericana, le porte della tradizione folk si erano definitivamente spalancate per il giovanissimo Pete e i suoi fratellastri e sorellastre, tutti destinati a divenire folksinger. Un percorso che Seeger aveva intrapreso fin da adolescente, appassionandosi a tal punto all’arte del banjo a cinque corde da divenire in poco tempo grande virtuoso dello strumento; e proprio l’avvento delle prime esibizioni e concerti itineranti aveva dato modo alla sua coscienza civile di esprimersi attraverso il supporto dei sindacati americani d’anteguerra e degli scioperi che agitavano il Paese. Così, benché non fosse sempre facile affrancarsi dall’autorità familiare, ben presto Pete aveva cominciato a percorrere quei sentieri che lo avrebbero visto incarnare la coscienza sociale di un’America migliore e di quell’ideale superiore che, per un breve attimo di speranza, era davvero sembrato a portata di mano: un processo durante il quale il suo manifesto talento di performer gli permise di divenire di-

scepolo del grande maestro Woody Guthrie – con il quale riuscì addirittura a viaggiare su e giù per gli States, condividendo con lui quella vita randagia e rischiosa tipica di ogni vero menestrello vagabondo assurto a voce dei diseredati del proprio Paese. Questo fu solo l’inizio di una carriera incredibilmente intensa e poliedrica. Tra il 1940 e il 1955 fu membro di due dei più influenti gruppi musicali d’America – dapprima i leggendari Almanac Singers di Woody Guthrie, Lee Hays e Millard Lampell; poi, a ridosso del folk revival, gli indimenticabili Weavers, che seppero rendere l’idea stessa di «musica folk» moderna e accattivante. La grande dote di Seeger è stata quella di saper via via adattare la propria arte al gusto del nuovo, giovane pubblico che, decennio dopo decennio e generazione dopo generazione, ha sempre guardato a lui come a una sorta di «figura paterna» del folk impegnato: grazie anche a hits quali Where Have All the Flowers Gone? e If I Had a Hammer, la lunghissima carriera di Pete non ha mai mostrato

segni di esitazione o cedimento. Vero e proprio canzoniere vivente, attivo fino all’ultimo come musicista e portavoce delle cause a lui care, lo statunitense ha avversato ben settant’anni di storia – dalle lotte della Grande Depressione e l’indignazione per i drammi del nazifascismo alla partecipazione alla Seconda Guerra Mondiale, attraversando poi il movimento per i diritti civili degli anni ’60, l’opposizione alla guerra in Vietnam e la disillusione verso il comunismo sovietico; per arrivare, infine, all’impegno ecologista degli ultimi trent’anni e agli sforzi per la tolleranza e la mediazione nelle tensioni internazionali. Il tutto riuscendo a rimanere sempre profondamente e coraggiosamente coerente e fedele a se stesso – anche quando questo lo portava a essere etichettato come un sovversivo, un sobillatore o un comunista. Ma nulla ha mai fermato l’uomo che, in un certo senso, si potrebbe definire la più autentica «memoria storica» dell’America popolare – o meglio, di quel lato dell’America che, in fondo, noi europei più amiamo.


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Idee e acquisti per la settimana

shopping Pan dal Pepp, rustico e moderno

Flavia Leuenberger

Attualità Quando il sapore della tradizione sposa la qualità

Pan dal Pepp 400 g Fr. 2.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros.

Marta Solinas, curatrice del Museo della civiltà contadina del Mendrisiotto di Stabio. (Flavia Leuenberger)

La tavola apparecchiata con l’essenziale, una pentola di zuppa calda, una ciotola con il pasto fumante e una pagnotta da spezzare con le mani. Un’immagine che ha il sapore di tempi antichi, di ingredienti colti dai campi un tempo numerosi nelle pianure ticinesi e che arrivavano ad occupare i luoghi più impensabili, nelle valli, inerpicati su ingegnosi terrazzamenti. Frumento e segale, i cereali più comunemente coltivati in Ticino, erano tra gli ingredienti base del pane prodotto dai prestinai o nelle case private e poi cotti nei forni comuni, soprattutto nelle zone di montagna. Questi stessi ingredienti sono

alla base del Pan dal Pepp, una pagnotta dall’aspetto rustico e genuino disponibile presso numerose filiali Migros. In realtà, ci spiega Marta Solinas curatrice del Museo della civiltà contadina del Mendrisiotto di Stabio – presso il quale è attualmente in corso una mostra sui costumi alimentari di una volta – il consumo del pane nella dieta quotidiana era meno diffuso di quanto si possa pensare se paragonato ad oggi. Rispetto al pranzo, spesso a base di polenta, la cena era un pasto più leggero e in tavola si serviva del minestrone oppure brodo, zuppa di zucca o castagne con latte. Minestre e zuppe

erano accompagnate con un po’ di carne, avanzi o pane raffermo. In pianura ed in città si faceva uso di farina di frumento bianca o bigia mentre la segale era tra gli ingredienti più comuni del pane delle valli. Ed è proprio la segale che rende il Pan del Pepp così speciale, conferendogli un aroma intenso che viene ulteriormente insaporito dalla presenza di semi misti nell’impasto e da una copertura di fiocchi d’avena. Un prodotto che spicca, se paragonato alle pagnotte disponibili sul mercato ticinese fino a prima degli anni ‘50, per la sua grande qualità. Troppo spesso il pane veniva

impastato con farine di qualità inferiore a quelle attuali e spesso non cotto a sufficienza. Il prezzo non sempre era economico, motivo per il quale in genere tra i meno abbienti gli si preferiva la polenta. Oggi possiamo concederci di assaporare quando vogliamo questo pane speciale che coniuga il sapore rustico e intenso della segale con la morbidezza e conservabilità dei pani moderni. Come un tempo attorno al focolare si assaporava il pasto quotidiano, così adesso possiamo trovare lo stesso calore con del Pan dal Pepp tostato e una buona zuppa calda. / Luisa Jane Rusconi


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Idee e acquisti per la settimana

Ditelo con le orchidee 14 febbraio Perché non regalare una bella orchidea il giorno di San Valentino? Questo straordinario fiore promette

serenità a lungo

Tra pochi giorni è San Valentino, la festa in onore del noto martire cristiano dedicata a tutti gli innamorati, ma anche a chi si vuole semplicemente bene. Celebrata un po’ ovunque nel mondo, questa ricorrenza è da sempre l’occasione per scambiarsi qualche pensierino e, per molte coppie, per concedersi una romantica cenetta al lume di candela, magari con preparazioni culinarie speciali (vedi sotto). Apparecchiamo dunque la tavola con garbo, mettiamo un cd romantico, ac-

cendiamo le candele e decoriamo il tavolo con i fiori ricevuti in regalo, come per esempio con una graziosa orchidea phalaenopsis. Grazie ai suoi straordinari fiori a forma di farfalla, questa pianta ornamentale originaria delle Indie orientali è certamente tra le più gettonate della famiglia delle orchidee. Considerata simbolo di armonia e bellezza, la phalaenopsis è disponibile nei reparti fiori Migros in differenti tonalità. È una pianta da interno molto resistente che non richiede troppe cure, di

conseguenza saprà regalarvi gioia per molto tempo. Alcuni consigli per la cura: la phalaenopsis è una pianta che ama la luce, ma non i raggi diretti del sole. Annaffiatela poco: per mantenerne la sua rigogliosità un trucchetto potrebbe essere quello di immergerla ogni settimana – con il suo vaso - in un secchio riempito di acqua tiepida per una decina di minuti e quindi sgocciolarla per bene. Prima di farlo, verificate con un dito che il substrato sia effettivamente secco.

L’amore in tavola Menu di San Valentino

Proposto con successo per la prima volta lo scorso anno, anche quest’anno gli chef dei Ristoranti Migros hanno allestito un menu completo speciale «San Valentino» di quattro portate per la vostra cena romantica a casa (vedi box). Le pietanze vengono cucinate fresche il giorno di San Valentino. Il piatto principale richiede solo una breve cottura in forno. I banchi pasticceria consigliano altresì altre dolci creazioni per la ricorrenza: le torte a forma di cuore al kirsch e quelle al pan di Spagna con fragole e frutta, i cuori di sfoglia alla fragola e alla frutta, il cuore Foresta nera e il cuore St. Honoré. Tutte queste specialità sono disponibili anche nella forma classica. Il menu completo è ordinabile l’11, 12 e 13 febbraio presso i Ristoranti Migros di Lugano (tel. 091 821 71 20), Agno (091 821 70 07), Serfontana (091 821 74 30), S. Antonino (091 850 85 91) e Grancia (091 821 73 70), oppure contattando il Party Service: telefono 0848 848 018 e-mail: party-service@migrosticino.ch

Stuzzicante duo di fingerfood al bicchiere Spiedino di manzo al pistacchio con salsa allo yogurt Zucchine, formaggio di capra e ravanelli ***** Antipasto freddo a scelta Rosetta di salmone affumicato e cetrioli con morbidissima salsa al miele e alla senape Oppure Cocktail di gamberi al mango ***** Portata principale Cuore di filetto di manzo in crosta di pasta sfoglia con patate al forno e timballo di verdure ***** Dessert Tarteletta alla crema di fragola con cuori al cioccolato Menu intero di 4 portate a Fr. 32.– per persona


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IGIENE DENTALE AL MASSIMO LIVELLO. Ulrich P. Saxer, parodontologo presso il centro di profilassi di Zurigo, professore dell’Università di Zurigo e fondatore della prima scuola privata di igiene orale in Svizzera (www.prophylaxezentrum.ch). Professor Saxer, in che modo si macchiano i denti? In linea di principio i denti sono esposti a tutto ciò che mettiamo in bocca. Ogni volta che ci laviamo i denti, su di essi si deposita un sottile strato di saliva che assorbe molto bene le sostanze coloranti. Se queste rimangono depositate a lungo, penetrano anche nei denti, che sono leggermente porosi. Il compito di un dentifricio è quello di rimuovere queste particelle abbastanza in fretta e con la giusta forza. E per questo sono necessari i cosiddetti agenti abrasivi. Che cosa si può fare per evitare che i denti s’ingialliscano? Le macchie non si formano immediatamente, i denti resistono a lungo. Fondamentale è l’igiene orale quotidiana con un dentifricio in grado di rimuovere le macchie appena visibili e che possiede un valore RDA (indice di abrasione) il più basso possibile. Dal momento che la dentina del colletto è più morbida dello smalto, non la si deve rovinare con degli agenti abrasivi forti, altrimenti i denti si danneggiano.

anche per le punte da trapano per la carie e le corone, per questo in un primo momento il loro utilizzo sembra piuttosto distruttivo. Se però nel dentifricio si utilizza una polvere sottilissima di diamante, l’abrasività sulla dentina è sorprendentemente bassa. Nonostante ciò usandolo si raggiunge un buon grado di pulizia. Il dentifricio Whitening è quindi efficace nonostante il basso indice RDA e non danneggia la morbida dentina. Quali sono gli altri vantaggi della polvere di diamante? È stato dimostrato che utilizzandola regolarmente è possibile impedire la formazione del duro tartaro e persino di rimuoverlo. Per quanto ne so, attualmente nessun altro dentifricio sul mercato è in grado di farlo. A proposito della polvere di diamante, devo preoccuparmi se mi capita di ingoiarla? No, le particelle di diamante sono carbonio puro e vengono espulse dal corpo in modo assolutamente normale.

L’agente abrasivo del nuovo dentifricio Candida White Diamond è la polvere di diamante. Che vantaggi presenta questa polvere di diamante rispetto alla silice abrasiva? I diamanti sono il materiale più duro al mondo e vengono utilizzati dai dentisti

La polvere di diamante di Candida White Diamond è composta da diamante artificiale con una specifica granulosità di circa 3–5 µm ed è stata brevettata per sostituire la silice abrasiva. A livello industriale la polvere di diamante finissima è già utilizzata da tempo per la lucidatura di materiali duri come ad es. il vetro zaffiro degli orologi. Candida è l’unico dentifricio con polvere di diamante sul mercato svizzero.

Quali alimenti e alimenti voluttuari macchiano i denti? – Tè nero – Tabacco come ad es. le sigarette

– Caffè – Vino rosso

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Idee e acquisti per la settimana

Il carnevale ai banchi pasticceria Accanto alle specialità di carnevale proposte dai supermercati Migros, anche i banchi pasticceria e i De Gustibus, fino al 15 marzo, consigliano di assaggiare alcune golosità tipiche della festa più divertente dell’anno, vale a dire le croccanti chiacchiere, i tortelli farciti alla crema vaniglia e le frittelle di mela all’aroma di cannella. I tortelli e le frittelle di mela sono prodotti artigianalmente all’interno delle pasticcerie di Locarno e Lugano. Gli abili pasticceri attivi nei due laboratori preparano queste specialità stagionali due volte al giorno con l’impiego di ingredienti semplici e genuini. La farcitura dei tortelli è composta da una delle creme dolci più note, quella alla vaniglia aromatizzata al Marsala. Questa crema a base di panna montata, zucchero e vaniglia si distingue per la sua inimitabile delicatezza e leggerezza. Appena pronte, le specialità sono immediatamente fornite ai banchi pasticceria delle filiali affinché si possa contare sulla massima freschezza in ogni momento della giornata.

Raccard vincitore Lo scorso mese di dicembre, la piattaforma interattiva specialistica svizzera dedicata ai generi alimentari e alla nutrizione Foodle.ch, ha chiesto ai consumatori le loro preferenze in materia di formaggi da raclette. Diverse centinaia di persone hanno partecipato all’inchiesta. I 10 formaggi da raclette più votati sono stati successivamente degustati da alcuni esperti di Agroscope, i quali li hanno analizzati secondo differenti criteri: sapore salato o amaro; gommosità e viscosità; struttura; separazione del grasso alla fusione; aroma e gusto. Al termine del test, nella categoria formaggi da raclette nature, il numero maggiore di voti li ha ricevuti il Raccard Tradition della Migros. Va segnalato che in generale tutti i formaggi testati hanno ri-

cevuto voti buoni o molto buoni. Infine, il portale Foodle.ch ricorda alcuni suggerimenti per una raclette gustosa al punto giusto: togliere il formaggio dal frigo almeno mezz’ora prima del consumo e non riscaldarlo a temperature troppo elevate. Per una buona digeribilità, accompagnare con verdure di stagione e bere molto tè o acqua.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2014 • N. 07

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2014 • N. 07

Idee e acquisti per la settimana

La rosa che colpisce nel segno Chi lavora nella Finca Nevado Roses in Ecuador approfitta di condizioni particolarmente favorevoli grazie al premio Fairtrade

Regine dei fiori dai nomi altisonanti come Cherry Brandy, Mohana o Forever Young, le rose Fairtrade Max Havelaar sono un regalo di sicuro successo, soprattutto a San Valentino. Non a caso la Migros per l’occasione ne vende dieci volte di più, rispetto a giorni comuni. Le rose della Finca Nevado, situata a oltre 2800 metri d’altezza, sull’altopiano andino, in Ecuador, coltiva queste meraviglie della natura tutto l’anno. Le particolari condizioni climatiche e

geologiche regalano loro una qualità invidiabile. Le rose godono, infatti, di dodici ore di luce al giorno, notti fredde, terra vulcanica ricca di minerali e crescita lenta, dettata dall’altezza. Nascono così fiori grandi, dallo stelo ben dritto, dai 40 ai 150 centimetri di lunghezza e dai colori fantastici, risultato dell’intensità della luce dell’equatore. Alba Guadalupe Tipantasig (38) è una dei 500 impiegati della Finca Nevado Roses, dove sui suoi 35 ettari di terreno vengono coltivati circa 50 varietà della

Sinonimo di commercio equo, il marchio Fairtrade contrassegna prodotti provenienti da Paesi in via di sviluppo e di nuova industrializzazione, coltivati secondo severi criteri sociali e ambientali. Protezione dell’ambiente e condizioni di lavoro regolari sono al centro dell’attenzione delle piantagioni

Abigail León (22) elimina le foglie alla base degli steli per consentire ai fiori di conservare la loro freschezza più a lungo. Alba Guadalupe Tipantasig (38) lavora da cinque anni alla Finca Nevado Roses. Grazie al premio Fairtrade ha potuto migliorare notevolmente le sue condizioni di vita e anche quelle dei suoi tre figli.

Grazie all’intensa luce dell’equatore le rose regalano colori dall’intensità ineguagliabile.

regina dei fiori. L'azienda agricola è stata la fortuna della madre di tre bambini che, dopo la morte del marito, non potendosi più permettere la vita in città, è tornata a Mulalillo, suo paese d'origine, situato a pochi minuti dalle coltivazioni. Fondata nel 1965, la piantagione della

regina dei fiori Nevado Roses è certificata Fairtrade dal 2003. L’azienda si impegna a retribuire correttamente i suoi impiegati e a offrire loro orari di lavoro regolari (40 ore settimanali), nonché a pagare loro le ore straordinarie a un tasso più elevato. In negozio, le rose Fairtrade Max Ha-

Rose Esperance Fairtrade Max Havelaar mazzo da 7 fiori, al prezzo del giorno

Rose altopiano Fairtrade Max Havelaar mazzo da 9 fiori Fr. 16.80

Rose Fairtrade Max Havelaar mazzo da 15 fiori Fr. 14.80 Azione dall’11 al 17.2

velaar, costano un po’ di più, ma è una piccola differenza che fa la differenza. Il dieci percento del prezzo di vendita viene infatti messo a disposizione, come premio, su un conto separato nel Paese d’origine, dove viene poi utilizzato per la realizzazione di progetti di pubblica utilità. E sono gli impiegati

stessi a decidere in modo indipendente e democratico in quali progetti investire. La finca delle rose ha, per esempio, già investito in un progetto di medicina dentale, al fine di migliorare la salute dei suoi impiegati e dei loro famigliari. Ha poi dato vita a un progetto per il finanziamento di stipendi scola-

stici, che ha permesso anche alla figlia di Alba, che si trova attualmente a Cuba, di proseguire i suoi studi. Migliori condizioni abitative grazie a microcrediti.

Un’altra parte del premio Fairtrade va a favore di microcrediti, che mirano, tra l’altro, ad aiutare i collaboratori a co-


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Idee e acquisti per la settimana

Una volta raccolte, le rose raggiungono le filiali Migros in soli tre o quattro giorni.

Melida Tello (35) imballa le rose con precauzione prima del trasporto in cella frigorifera verso la Svizzera.

Rose rosse Max Havelaar 70 cm, al prezzo del giorno

struire case. Si tratta di importi di denaro fino a 5000 dollari, che possono venir ripagati a un tasso d’interesse privilegiato. E Alba ha beneficiato di un microcredito che le ha permesso di migliorare la costruzione della sua casa. La madre sola, che aveva lasciato la casa dei genitori all’età di 15, per lavorare in città in qualità di aiuto domestico, è oggi felice di avere un impiego sicuro. «Il mio lavoro consente a me e ai miei figli di autogestirci.

Quale donna, sono molto grata per la vita che conduco, e sono certa di poter continuare a realizzare i miei sogni». Il lungo viaggio delle rose dura solo pochi giorni

Le rose che Alba raccoglie, vengono provviste a mano dell’etichetta Max Havelaar. Grazie al numero d’identificazione il consumatore può risalire sul sito www.maxhavelaar.ch, alla provenienza dei fiori e ai progetti d’interesse collettivo sostenuti. Dopo la raccolta, le

rose recise vengono messe nell’acqua e depositate per un giorno in cella frigorifera, prima di apprestarsi a volare verso la Svizzera. Tre o quattro giorni più tardi sono già pronte a essere vendute nelle filiali Migros. Le preferite dei clienti sono la Cherry Brandy, con il suo splendido colore bronzeo, e l’Esperance di un incantevole rosa delicato, ma per la giornata degli innamorati la rossa è l’indiscussa protagonista. / Anette Wolffram Eugster

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Generazione M è il nome del programma testimone dell’impegno Migros a favore della sostenibilità. Max Havelaar offre un prezioso contributo.


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PESCE, CARNE E POLLAME Petto di tacchino M-Classic, affettato finemente, Brasile / Francia, 2 x 144 g 4.90 invece di 7.– 30% Salame Rapelli, affettato e al pezzo, per es. salame classico, Svizzera, 118 g 3.75 invece di 5.40 30% Prosciutto affumicato di campagna Malbuner in conf. da 2, Svizzera, 2 x 130 g 9.40 invece di 13.50 30% Carne di manzo macinata, Svizzera, al kg 9.80 invece di 17.– 40% Poulet Fermier Jaune Marensin Sélection, Francia, per 100 g 20x 1.70 NOVITÀ *,** Petti di quaglia Sélection, Francia, per 100 g 3.80 NOVITÀ *,**

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Tutte le cosce di pollo Optigal, per es. 2 pezzi, Svizzera, al kg 9.– invece di 13.– 30% Sinfonia di salmone affumicato Sélection, d’allevamento, Norvegia, 190 g 17.– NOVITÀ *,** 20x Salmone affumicato dell’Atlantico, d’allevamento, Norvegia, 330 g 11.80 invece di 19.80 40% Affettato di vitello, Svizzera, affettato in vaschetta, per 100 g 1.50 invece di 2.30 35% Salametti con pepe della Valle Maggia, prodotto in Ticino, per 100 g 2.95 invece di 4.– 25% Prosciutto crudo ticinese, prodotto in Ticino, affettato fine in vaschetta, per 100 g 5.10 invece di 7.40 30% Arrosto spalla di vitello, TerraSuisse, Svizzera, imballato, per 100 g 2.70 invece di 3.90 30% Entrecôte di cavallo, Canada, imballato, per 100 g 3.50 invece di 5.– 30% Arrosto collo di vitello, TerraSuisse, Svizzera, imballato, per 100 g 2.60 invece di 3.50 25% Fettine di tacchino, importate Unione Europea, in vaschetta, per 100 g 1.35 invece di 1.95 30% Orata reale 300–600 g, Grecia, per 100 g 1.80 invece di 2.30 20% fino al 15.2 *In vendita nelle maggiori filiali Migros.

Caprice des Dieux, 300 g 4.30 invece di 5.40 20% Formaggella ticinese 1/2 grassa, a libero servizio, per 100 g 1.60 invece di 2.05 20%

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2014 • N. 07

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2014 • N. 07

Idee e acquisti per la settimana

Mira Scacchi, impiegata di laboratorio, si dedica ai piatti. Per determinare l’efficienza detergente è importante definire, quanti piatti si possono lavare con una determinata quantità di Handy.

Il grasso utilizzato per i test dei detergenti per stoviglie viene colorato di rosso, in modo che resti ben visibile. La quantità impiegata corrisponde a quella residua in un piatto normalmente sporco.

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20% di riduzione sui detergenti per stoviglie Handy in conf. da 3, dall’11 al 24.2 • Handy 3 x 750 ml Fr. 4.30 invece di 5.40 • Power cc 3 x 500 ml Fr. 5.70 invece di 7.20 • Power cc Lemon 3 x 500 ml Fr. 5.70 invece di 7.20

Jon Forrer, product manager, presenta l’evoluzione dei flaconi di Handy dal 1960 ad oggi: «Handy è un mito».

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui troviamo anche le linee di detersivi Total, di ammorbidenti Exelia e di detergenti per stoviglie Handy e la linea per la cura dei denti Candida.

«Come Handy non c’è nessuno» Il prodotto per rigovernare più amato della Svizzera festeggia quest’anno il suo cinquantacinquesimo compleanno. L’Handy classico ha superato ogni moda e un motivo c’è. Il product manager Jon Forrer e l’impiegata di laboratorio Mira Scacchi ci spiegano il perché. Signor Forrer, come si può misurare la popolarità di questo prodotto?

Possiamo dire che un prodotto di detersivo per rigovernare su tre venduto in Svizzera è un Handy. Il suo flacone è un classico del design, nato anni orsono e più volte copiato da altri fabbricanti.

I creapulito La Mifa AG e la Mibelle AG sono al servizio della pulizia e della cura del corpo e della casa. Noi, abbiamo avuto la possibilità di dare un’occhiata dietro le quinte. Questa settimana, tanti servitori del pulito sono in azione

Lo stile del flacone, non a caso, è considerato un mito. È per questo motivo che non è stato praticamente mai modificato?

Certo il design è d’importanza basilare. Per noi era fondamentale conservare la confezione di Handy come tutti la conoscono e l’apprezzano. Di una cosa si può essere certi: Handy resterà sempre Handy.

Ciononostante in laboratorio si continua a ricercare. Signora Scacchi, cosa sta esaminando al momento?

Esamino l’efficienza detergente dei detersivi per le stoviglie. A tale scopo utilizzo una determinata quantità di grasso di cocco. Giusto quel tanto che resta generalmente in media nel piatto a fine pasto. Il grasso è colorato di rosso, in modo da poter osservare come viene catturato dalla schiuma. Impiego sempre la stessa quantità d’acqua e di detergente. Tratto ogni piatto per la stessa durata di tempo. E come ogni casalinga so che, con lo scomparire della schiuma, si esaurisce anche l’efficienza detergente. Perché si analizza ancora l’efficienza detergente di Handy?

Per poterla paragonare con altri detersivi e per attualizzare la lista dei componenti. È infatti possibile, che uno degli ingredienti non corrisponda più alle esigenze legali, ad esempio perché potrebbe provocare allergie. O magari uno

dei componenti per un determinato periodo non è disponibile sul mercato. In entrambi i casi dobbiamo trovare un sostituto, senza che il potere detergente ne risenta. Ciò significa che Handy resta, quale marca, sempre invariato, mentre il contenuto va al passo con i tempi e viene costantemente migliorato. Si adatta alle esigenze di protezione ambientale e diventa più delicato per la pelle. Nell’ambito del progetto Generazione M miriamo a produrre entro il 2018 solo prodotti facilmente biodegradabili all’80%.

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Signor Forrer, altri detergenti per stoviglie adattano costantemente anche il profumo.

Non Handy. Abbiamo infatti voluto conservare questa particolarità che consideriamo immutabile. Chi desidera provare altre fragranze o sostanze trattanti può optare per la linea Manella, che propone costantemente nuovi profumi ed è anch’essa in vendita alla Migros.

Raccolta Assicuratevi un pacchetto sorpresa, completate questo carnet di raccolta con 18 autocollanti.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2014 • N. 07

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Idee e acquisti per la settimana

Caroline Schunk annusa un asciugamano appena lavato. Corrisponde il profumo alle aspettative? È troppo intenso o troppo leggero? Il suo naso esperto conosce la risposta.

EXELIA

50% di riduzione sugli ammorbidenti Exelia dall’11 al 24.2 • Florence 1,5 l • Golden Temptation 1 l Fr. 3.25 invece di 6.50

• Peach 1,5 l • Violet Senses 1 l

La product manager Denise Stirnimann con tre dei prodotti di sua competenza, che usa regolarmente lei stessa.

«Exelia, tanta morbidezza e molto più» L’essenza delle rose di «Florence» fa di Exelia l’ammorbidente più venduto. Ma ci sono sempre nuove creazioni che si aggiungo alla linea per conferire al bucato quel fantastico profumo di pulito. Caroline Schunk, impiegata del laboratorio dedicato al lavaggio, spiega come nascono nuovi ammorbidenti. Signora Schunk, annusando direttamente al flacone di ammorbidente il profumo che ne scaturisce è molto intenso. È possibile percepire così il profumo effettivo di una nuova varietà?

No, anche se è vero che tanti clienti decidono quale nota scegliere proprio in questo modo. L’importante però è il risultato e quindi il profumo della biancheria quando la si toglie dalla macchina e una volta asciutta. Per questo motivo noi analizziamo il risultato ai tre stadi. Ha dodici lavatrici a disposizione. Sta analizzando dodici diverse fragranze?

Sì, a volte anche di più. Prima decidiamo con il reparto marketing, quale nota

dovrà avere la nuova linea di prodotti. Il produttore di profumi ci sottopone quindi diverse proposte. Nel caso della nuova linea Exelia abbiamo lavorato con profumieri rinomati. Per ogni varietà ci hanno sottomesso una dozzina di proposte. Ognuna è passata quindi alla prova lavaggio e poi alla preselezione. I due o tre favoriti che passano questa fase, vengono a questo punto prodotti in qualità di ammorbidente e sottoposti al giudizio dei consumatori. Il bucato appena lavato ha un profumo incantevole, ma generalmente, prima di venire utilizzato, passa del tempo riposto nell’armadio. E il profumo se ne va…

Perciò noi lavoriamo con microsfere profumate che liberano la fragranza solo quando la biancheria viene utilizzata. Così la freschezza dura più a lungo nel tempo.

TOTAL

30% di rid riduzione sugli additivi Total in confezione risparmio o da due dall’11 al 24.2 • Oxi Booster White 1,5 kg Fr. 14.50 invece di 20.85 • Oxi Booster Color 1,5 kg Fr. 14.50 invece di 20.85 • Spray & Wash in conf. doppia, 2 x 500 ml Fr. 7.75 invece di 11.10 • Color Protect in conf. doppia, 2 x 30 pezzi Fr. 10.60 invece di 15.20 Per eliminare tante macchie, basta pretrattarle con Total Spray & Wash.

Oltre al profumo, qual è il compito di un ammorbidente?

L’ammorbidente è un balsamo per il tessuto; al risciacquo penetra nelle fibre, le cura e le protegge dall’usura. I sacchetti a fondo piatto sono pronti per essere riempiti con l’ammorbidente Exelia.

«È raro che le macchie non se ne vadano» La product manager Denise Stirnimann è responsabile degli additivi per il lavaggio Total. Da quando ha iniziato a lavorare alla Mifa, oltre un anno fa, ha avuto modo di provare in prima persona l’assortimento Total. Il detersivo completo Total lava con efficacia già a basse temperature. Sono necessari additivi per trattare le macchie?

Dipende dal tipo di macchia. A seconda

del tipo di tessuto, quelle di olio per motori, cioccolato o vino rosso, non se ne vanno con tanta facilità. Per trattare efficacemente una macchia Spray & Wash è l’ideale. Scioglie soprattutto quelle grasse, basta spruzzarlo direttamente sulla macchia. Un’altra possibilità è il sale smacchiante. Per i bianchi, poi, è perfetto anche Total Oxi Booster, a base di candeggina. Di cosa si deve tener conto in caso di bucato macchiato?

È importante non far seccare le macchie. È, infatti, molto più semplice eliminare quelle fresche. Anche perché si è certi di sapere di quale tipo di macchia si tratta. Ai nostri collaboratori dell’M-Infoline capita spesso di trovarsi davanti a dilemmi, perché il cliente non ricorda l’origine della macchia. E, prima di poter dare una mano, deve riuscire a risalire al motivo. È poi importante non sfregare la parte macchiata, bensì trattarla tamponandola. Altrimenti si formano brutti bordi.

E cosa fare in caso di indumenti che, secondo le indicazioni, non vanno lavati?

In tal caso niente acqua; questi capi vanno portati in una lavanderia chimica. Il sugo di pomodoro è temutissimo dalle mamme. Come si trattano le sue macchie?

I vestiti vanno messi in ammollo in acqua saponata calda, quindi lavati in lavatrice con l’aggiunta di Total Oxi Booster.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2014 • N. 07

Idee e acquisti per la settimana

CANDIDA

33% di riduzione sulle confezioni multiple Candida dall’11 al 24.2 • Dentifricio White Micro Crystal 3 x 75 ml Fr. 7.80 invece 11.70 • Colluttorio Parodin Professional 2 x 400 ml Fr. 6.70 invece di 10.– • Dentifricio Fresh Gel 3 x 125 ml Fr. 5.90 invece di 8.85 • Gomme da masticare Fresh Classic 3 per 2 Fr. 6.40 invece di 9.60

«Lavare i denti dopo mangiato, può essere un danno più che un vantaggio» Caroline Salzmann lavora da oltre 25 anni nel laboratorio di sviluppo prodotti per la cura dentale ed è dunque una vera esperta in materia, pronta a rivelarci come un dentifricio possa rendere i denti più bianchi, trattandoli comunque con delicatezza. All’acquisto di un dentifricio, oggi si ha davvero l’imbarazzo della scelta. Come si è arrivati a tanta varietà?

Un tempo il consumatore acquistava ciò che gli veniva offerto. Oggi, è ben informato e vuole solo il meglio per i suoi denti. Noi abbiamo reagito a questa tendenza. Il nuovo Candida White Diamond promette denti più bianchi. È davvero possibile misurare il bianco dei denti?

Sì certo, abbiamo fatto esaminare il den-

tifricio con test clinici. All’inizio e alla fine dell’analisi è stata definita la tonalità dei denti. In questo modo ci è stato possibile dimostrare, nello spazio di dieci giorni, l’efficacia sbiancante del prodotto. Candida White Diamond contiene polvere di diamanti. Non è aggressivo sui colletti dentali?

No, al contrario. Utilizziamo particelle di diamante sottoforma di polvere finissima. Per utilizzare un termine tecnico, questo dentifricio propone una bassa abrasività. Ha, infatti, un cosiddetto valore RDA di 30, che corrisponde a quello di un dentifricio particolarmente delicato. Dentifrici simili hanno generalmente valori molto più alti. I denti si dovrebbero lavare dopo ogni pasto.

Caroline Salzmann controlla la viscosità di un dentifricio. Questo valore indica quanta forza si deve esercitare sul tubetto per far fuoriuscire il prodotto.

Non è così semplice. Quando si consumano alimenti acidi lo smalto dei denti si ammorbidisce. In questi casi, lavandoli subito, i denti si potrebbero danneggiare. Meglio dunque ricorrere a un colluttorio in grado di rimineralizzare i denti. È attiva anche in qualità di istruttrice nella cura dentaria. Oggi i ragazzi puliscono i propri denti diversamente rispetto a qualche anno fa?

Sì, oggi i bambini dispongono spesso di uno spazzolino elettrico già all’asilo. Ma non è una garanzia. Anche gli adulti spesso utilizzano lo spazzolino elettrico in modo sbagliato. Come lo si usa correttamente?

È importante posizionare lo spazzolino su ogni singolo dente ed evitare di esercitare troppa pressione. / Claudia Schmidt Le strisce non si devono mischiare nemmeno sotto pressione; una vera e propria sfida.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2014 • N. 07

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Idee e acquisti per la settimana

Frey Adoro palline al latte 200 g Fr. 6.30* invece di 7.90 500 g Fr. 12.95* invece di Fr. 16.20

Frey Giandor cuore 265 g Fr. 9.20* invece di Fr. 11.50

Frey Prestige Praliné, scatola cuore 99 g Fr. 7.60* invece di Fr. 9.50 *Azione fino al 17.2.14: 20% sull'intero assortimento di praline Frey in scatola e Adoro

Le palline Adoro sono il regalo ideale per San Valentino.

Dolci messaggeri d’amore Fot o Getty Images

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui le palline di cioccolato Adoro e le praline Prestige.

Cioccolato e amore si sposano a meraviglia. Ecco perché le palline Adoro sono ideali come regalo di San Valentino Venerdì è San Valentino. È una festa che appartiene agli innamorati i quali, con piccole attenzioni, dimostrano quanto siano uniti tra loro. Oltre ai fiori, anche le praline sono tra i regali più gettonati in occasione di San Valentino. Adoro, la più recente creazione di

cioccolatini della Chocolat Frey, è una dolce dichiarazione d’amore a base di cioccolato al latte. Ogni pallina è un vero confetto incartato singolarmente. L’unione tra la croccantezza esterna e il cuore cremoso è un autentico piacere per il palato. Anche la confezione che li racchiude, grazie al suo colore rosso

intenso e alle fasce dorate, è perfetta per San Valentino, dal momento che il rosso è il simbolo dell’amore. Messaggeri d’amore «cioccolatosi» esistono anche sotto forma di cuore. Un classico è il cuore Giandor con raffigurata una rosa rossa. Qui si nascondono le fondenti palline Giandor. Benve-

nuta è anche la scatola in metallo cuoriforme riempita di delicate praline Prestige. I prodotti della Chocolat Frey sono i più consumati in Svizzera e certificati UTZ. Il cacao utilizzato proviene da coltivazioni socialmente ed ecologicamente sostenibili. / Dora Horvath


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Idee e acquisti per la settimana

Zuppa ideale per l’ufficio: riscaldare nel microonde e gustare.

Cucchiaiate di bontà Anna’s Best lancia tre delicate zuppe in vasetto. Questi piccoli pasti si possono riscaldare direttamente e gustare subito Christian Barth, Product Manager prodotti Ready to cook dell’industria Migros Bina.

«C’è anche del mio»

Vellutata di zucca al curry con semi di zucca 300 ml Fr. 3.90

Zuppa di pomodoro e mascarpone con celestina 300 ml Fr. 3.90

Vellutata di funghi porcini con crostini all’aglio* 300 ml Fr. 3.90 *In vendita nelle maggiori filiali Migros.

Specialità stagionale. Punti Cumulus moltiplicati per 20 dall’11 al 24.2.

Come antipasto, leggero pranzo oppure come benefico «scalda stomaco» tra i pasti, le zuppe sono una sana abitudine: saziano in fretta, sono facili da digerire e forniscono liquidi al corpo. Chi vuole ritrovare velocemente la giusta energia dopo un pasto, non ha che da armarsi di un cucchiaio. Con le zuppe di Anna’s Best ora è tutto

più facile, anche in ufficio. Questo pasto in formato vasetto si riscalda in un baleno nel microonde. Fresco e fumante, si può poi gustare col cucchiaio direttamente dal vasetto. La scelta si compone di tre gusti differenti: vellutata di zucca al curry, zuppa pomodoro e mascarpone e vellutata di funghi porcini. La parte superiore del coperchio contiene, a se-

conda della varietà, semi di zucca, celestina oppure croccanti crostini. Il maggiore contenuto di verdura fresca e le ricette migliorate regalano inoltre un sapore più pronunciato. Per le zuppe pronte di Anna’s Best si utilizzano solo ingredienti selezionati e i conservanti non entrano in considerazione. Sono prodotte secondo i più severi

standard svizzeri dall’azienda del gruppo Migros Bina, a Bischofszell, dove per l’occasione è stato sviluppato un nuovo impianto di confezionamento. Una porzione è ideale per una persona e deve essere conservata in frigorifero fino al momento del consumo. E allora correte a riservare un posto nel frigo dell’ufficio! / Jacqueline Vinzelberg

Ci può svelare il segreto delle nuove zuppe in vasetto? Le ricette sono particolarmente ricche. Abbiamo aumentato considerevolmente il contenuto di verdure e raffinato le vellutate con panna fresca, il che conferirsce loro un intenso sapore naturale proprio. Inoltre il contenuto di sale è ridotto al minimo. Come nascono le idee per nuovi prodotti? Chiediamo per esempio consigli ai cosiddetti Food Scouts, una figura professionale già presente negli Stati Uniti o in Asia. Ma anche i miei desideri e le mie idee come utilizzatore entrano in considerazione. Ritrovare il «proprio» articolo sugli scaffali è sicuramente motivo d’orgoglio. Quante zuppe pronte consumano gli svizzeri annualmente? A livello svizzero, il mercato è da diversi anni in crescita. Nel 2013 sono stati consumati 940’000 litri di zuppe convenience. La sua zuppa preferita? Sicuramente la variante stagionale Anna’s Best, vellutata di funghi porcini con crostini.




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