Azione 08 del 17 febbraio 2014

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 S. Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 17 febbraio 2014

Azione 08 9 pping 9-44 / 50-5 o h s M ine 3 g a p e l al

Società e Territorio Sta per compiere vent’anni il Centro Culturale Cinese di Lugano: incontro con la fondatrice Francesca Wölfler

Ambiente e Benessere Anziani, qualità di vita, accanimento terapeutico e cure intensive: ce ne parla il primario del reparto di medicina intensiva dell’Ospedale regionale di Lugano (Civico) dottor Paolo Merlani

Politica e Economia La Svizzera vista dagli italiani dopo il voto del 9 febbraio

Cultura e Spettacoli Bambini e horror, un binomio apparentemente impensabile ma sempre amato dal cinema

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Ti-Press

Perdersi al gioco

di Laura di Corcia

Europa, integrazione azzerata di Peter Schiesser La Svizzera si è riscoperta Neinsager. E il suo no è una freccia che ha colpito al cuore sia Bruxelles, sia le relazioni con l’Unione europea. Ancora una volta, 21 anni e 2 mesi dopo il no allo Spazio economico europeo, l’arciere è Christoph Blocher; come in una saga medievale ha vinto il torneo battendo gli imbattibili, con lo stesso punteggio di allora. Ma la Svizzera e l’Europa del XXI secolo sono qualcosa di molto più complesso di una saga medievale. Più passano i giorni da quel fatidico 9 febbraio 2014, più ce ne accorgiamo. I fautori dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa sono riusciti a far credere che un voto contro la libera circolazione delle persone non porterà alla decadenza degli accordi bilaterali I, che l’Unione europea non ha interesse a perdere un buon cliente come la Svizzera, e che casomai, se proprio c’è da rinegoziare tutto, si potrebbe ottenere di più. Ma in questa prima settimana da Bruxelles e dalle capitali europee che contano sono giunti all’unisono messaggi opposti: si rispetta la decisione svizzera, ma la libera circolazione delle persone non è negoziabile, i contingenti non sono accettabili.

E non poteva essere altrimenti: l’Unione europea di oggi non è quella di 20 anni fa. Allora era un colosso in crescita, economicamente stabile, con Paesi membri uniti da una volontà europeista attorno a una Germania riunita. Oggi emerge dalla crisi finanziaria dell’Euro, sta tentando di stabilizzare le economie dei suoi Stati membri mediterranei, si deve confrontare con un forte euroscetticismo che troverà probabilmente manifestazione alle elezioni di maggio in un accresciuto numero di europarlamentari anti-europei. Bruxelles non farà sconti sulla libera circolazione delle persone, se lo facesse decreterebbe la fine dell’Unione europea come la conosciamo oggi. Non è un caso – e dovrebbe far riflettere anche noi svizzeri – che nell’Ue il sì all’iniziativa UDC è stato applaudito dai partiti di estrema destra e anti-europei. Va tuttavia detto che, rispetto ai loro politici, i cittadini dell’Ue sono decisamente più vicini alle posizioni della maggioranza svizzera. Al di là dei toni calmi e cauti di governanti e politici, la gravità della situazione non sfugge. Le autorità non hanno interesse a drammatizzarla, per cui vogliono mostrare di avere le redini in mano: entro giugno verrà formulata una legge di attuazione dell’iniziativa dell’UDC, entro l’anno stabiliti i criteri per i contingenti di manodopera

straniera. In realtà, ci vorrà un miracolo per mettere insieme il diavolo (la libera circolazione richiesta dall’Ue) e l’acqua santa (l’iniziativa UDC); d’altro canto, si scatenerà una guerra interna al mondo economico per accaparrarsi la fetta più grande dei contingenti (con il rischio che contino di più criteri e appoggi politici che economici). Sì, perché l’agricoltura, il settore sanitario, l’edilizia, gli altri rami industriali e di servizi, senza dimenticare le piccole e medie imprese, reclameranno quanto loro necessario. Rinascerà la competizione conosciuta in passato per avere la necessaria manodopera, dopo l’illusione degli ultimi anni in cui si era potuto liberamente attingere al mercato del lavoro europeo attirando i più qualificati. La calma serve però anche a coprire lo smarrimento: dopo il no di 21 anni fa ad una convivenza nello Spazio economico europeo, con gli accordi bilaterali era nata una «relazione a distanza», fra Berna e Bruxelles. Ora questa viene messa in dubbio, sollevando un grande interrogativo su come ridefinire i rapporti reciproci e un’ombra riaffacciarsi: l’isolazionismo. In sostanza, il 9 febbraio la «politica d’integrazione europea» svizzera è stata azzerata. E nessuno sa bene in quale direzione farla ripartire.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2014 • N. 08

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Società eTerritorio Incontri in biblioteca L’attività della Biblioteca del Comune di Blenio a Olivone dove la passione per i libri diventa occasione di socializzazione

I Lego diventano un film Sta per arrivare nelle sale cinematografiche ticinesi The Lego Movie: un concorso per i nostri lettori

Mode e modi Gli artisti di strada si sono conquistati i loro spazi nelle nostre città, ma i malintesi a volte persistono pagina 6

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L’umiltà di studiare il cinese Incontri Sta per compiere vent’anni il Centro

Culturale Cinese di Lugano, voluto da Francesca Wölfler, che insieme con insegnanti e traduttori ha gettato un ponte tra due Paesi molto lontani

Ha aperto un piccolo centro culturale cinese nel 1995, una stanza a Riva Caccia di 5 mq con 36 libri, quattro sedie e una teiera. Inizialmente faceva traduzioni, insegnava italiano agli asiatici (prevalentemente uomini d’affari e musicisti), cinese ai ticinesi e prestava libri. In seguito si sono aggiunte altre attività come conferenze, aiuto nelle pratiche per ottenere un visto, cerimonie del tè e feste di Capodanno cinese; nel 2000 Francesca e suo marito hanno organizzato i primi viaggi in Cina e da qualche anno il Centro culturale cinese Il Ponte si è spostato in via Ciseri 2. In questa nuova sede, al pian terreno c’è il negozio, l’ufficio, la biblioteca e al primo piano le sale per le lezioni, la cucina e altri libri e oggetti esposti. Chi sono gli utenti? Cinesi che sono qui per lavoro e vogliono leggere un loro giornale nazionale, studenti di una e dell’altra cultura, bambini e adulti interessati allo studio del cinese, rispettivamente dell’italiano, persone che stanno per intraprendere un viaggio... «L’altro giorno la mamma di un ragazzino di cinque anni è venuta a noleggiare lanterne di carta, draghi cinesi, aquiloni e vestiti per la festa di compleanno di suo figlio. Come lui abbiamo vari studenti del corso per bambini che si sono appassionati da soli al mondo orientale; altri invece sono spinti dai genitori perché la lingua cinese in futuro potrà risultare molto utile. Comunque, i nostri corsi junior sono ludici e soddisfano un po’ di curiosità su questo affascinante mondo della scrittura con i segni». Bisogna ammettere che noi – la maggior parte di noi – non conosciamo la Cina. E per questo in quanto occidentali definiamo l’Oriente «misterioso». Lo disse anche il politico americano Henry Kissinger al braccio di destro di Mao Zhou Enlai, il quale gli rispose: «Quando conoscerà meglio il nostro Paese si accorgerà che in Cina non c’è

proprio nulla di misterioso». Della Cina non sappiamo quasi niente. Quando non pensiamo romanticamente ai draghi e ai gong, associamo questo Paese alla tecnica, all’economia, alla mancanza di democrazia. Ma gli storici ammoniscono spesso che un giorno, se ci sarà dato avvicinarci in qualche modo a quel mondo, ci accorgeremo che la società cinese ha un sistema di valori molto complesso e articolato, una storia di cui sappiamo pochissimo e molto molto di più da offrire che le magliette e i telefonini a basso prezzo. E allora ci chiederemo come abbiamo fatto a essere così rozzi, così ingenui, così poco curiosi. Certo, per conoscere quello che viene chiamato «il paese di mezzo», ci vuole tanto impegno, tanto studio. Ma ne vale la pena, conferma la fondatrice del Centro Culturale cinese: «Ho vissuto a Shanghai e da allora ho sempre fre-

quentato moltissimi cinesi. Abbiamo un’idea di chiusura, di freddezza e di assenza di sentimenti, mentre è tutto il contrario. Ho visto una grande capacità di amicizia, lealtà, affetto. La differenza con l’Occidente è che in Oriente non si dà tanto valore alla manifestazione esteriore dei sentimenti. Da loro imparo moltissimo, da un bambino cinese ho appreso cosa sia veramente la pazienza». Oppure, racconta, è rimasta impressionata dalla capacità di tramandare il sapere di generazione in generazione, per esempio quello in campo medico. Quasi ogni persona, anche giovane, è in grado di sapere di che cosa ha bisogno quando vive un piccolo malessere, andando a pescare nella farmacia della natura. È un po’ come se invece di soppiantare le conoscenze precedenti con quelle moderne, la cultura orientale riuscisse invece a sommarle.

Sopra ogni cosa, però, ad ammaliare Francesca, che a sentirla parlare cinese a me sembra una madrelingua, è la scrittura. «Per me lo studio del cinese, del suo modo di scrivere soprattutto, è un insegnamento enorme, mi rende migliore», spiega. «È un sistema di caratteri basato sulle immagini: ogni segno illustra quello che vuole dire con veri e propri disegni stilizzati e combinati in aggregati logici. Esistono migliaia caratteri. È un metodo molto creativo, molto diverso dal nostro alfabeto che invece usa pochi simboli astratti per dire tutto. Quasi ogni mattina studio un po’ di cinese, ma so che non avrò mai terminato, che sono di fronte a qualche cosa di quasi infinito, un po’ come un astronomo che osserva le stelle: questo mi dà l’umiltà di essere su questa terra, mi rimette al mio posto. Studiare il cinese mi allieta il cuore».

Settimanale edito dalla Cooperativa Migros Ticino, fondato nel 1938

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Tel 091 850 81 11

Tiratura 98’654 copie

Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile) Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Abbonamenti e cambio indirizzi Tel 091 850 82 31 dalle 09.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@MigrosTicino.ch

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Sara Rossi Ha gli occhi a mandorla e a Napoli, dove è cresciuta, si è sempre sentita «fuori posto». A Shanghai, invece, Francesca Wölfler dice che era come essere «veramente a casa». L’origine dei leggeri tratti asiatici della sua famiglia è dovuta a un antenato dell’Est Europa, mentre lei è nata e vissuta fino all’età adulta in Italia. Voleva diventare medico, ma poi le cose sono andate altrimenti. Una motivazione profonda è affiorata e poi cresciuta in lei e Francesca si è ritrovata nella tranquilla e silenziosa isola in mezzo al caos di Napoli, che è la prestigiosa Università di Studi Orientali. Si è sposata presto, trasferendosi a Losanna per seguire il marito. Quando lui è stato spostato a Lugano per lavoro, lei ha continuato e concluso il suo corso di laurea a Milano. È partita per un soggiorno di alcuni mesi a Shanghai dove ha vissuto una delle esperienze tra le più intense della sua vita. «Non solo mi sentivo a mio agio, ma tutti i miei sensi lavoravano meglio: percepivo in modo più netto la bellezza e il dolore dei luoghi, stavo male in una strada e in seguito venivo a sapere che lì, in passato, avevano impalato povere persone. Avevo l’impressione di conoscere la città, ma allo stesso tempo amavo il mio estraniamento, il senso di meraviglia e di serenità che ricevevo. Sentivo che mi svegliavo, ecco». La giovane napoletana ricevette più di un’offerta di lavoro, come guida turistica o come aiuto linguistico in due ditte che avevano bisogno di qualcuno che sapesse l’italiano e il francese. Un marito ti aspetta a Lugano ma tu ti scopri a casa in Cina: come si fa a scegliere? Francesca Wölfler non era donna da rinunciare a checchessia né mancava di coraggio o spirito di iniziativa. È tornata e si è portata pezzi della sua passione, libri, oggetti, conoscenze.

Azione

Francesca Wölfer all’interno del Centro Culturale Cinese di via Ciseri a Lugano. (Stefano Spinelli)

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2014 • N. 08

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Chi vince perde Gioco d’azzardo Uno studio recente della Supsi ha evidenziato come il fenomeno della ludopatia sia diffuso

in Ticino fra i giovani tra i 14 e i 25 anni: si stima che ne siano colpiti circa 1240 ragazzi Laura Di Corcia Sono scatolette sgargianti, colorate e luccicanti come le stelle filanti del Carnevale, fabbriche aperte 24 ore su 24 che vendono sogni ed illusioni. Seduti davanti, con gli occhi incollati allo schermo, incuranti del resto, uomini e donne di ogni età lanciano monetine sperando che crescano, e crescano, e crescano, diventando una montagna – un’ancora cui attaccarsi per essere trascinati via da una realtà asfissiante, dove le soddisfazioni non sono mai piene, mai totalizzanti. Il gioco d’azzardo è una serpe malefica, un morbo che si insinua nelle vite delle persone, prosciugandole da un punto di vista non solo economico, ma anche emotivo. Di recente, uno studio portato avanti dalla Supsi e presentato nelle scorse settimane ha messo in luce quanto il fenomeno sia diffuso fra i giovani ticinesi: si stima che siano circa 1240 i ragazzi (la fascia esaminata va dai 14 ai 25 anni) colpiti da questa patologia, una cifra che non può passare inosservata, ma che deve portare a una riflessione seria sulla questione.

Anna-Maria Sani: «Il gioco dona sensazioni molto forti per questo i giovani ne sono attratti» Prendiamo Davide, per esempio, incontrato all’uscita di un casinò del cantone. Davide ha ventinove anni, fa l’operaio, è originario di Torino ma vive a Clivio e si definisce un dipendente da gioco moderato. «All’inizio sembra un innocuo sfizio, un passatempo – racconta, mentre mi mostra la sua recente vincita di 150 franchi alla slot machine. «L’Italia, purtroppo, è schiava delle lobby del gioco d’azzardo e piazza macchinette in tutti i bar. Io ho cominciato a diciotto anni. All’inizio butti dentro qualche moneta perché non hai tanti soldi, poi, quando inizi a lavorare, hai più disponibilità e alzi il tiro. Magari ci metti 50 euro, li perdi, allora ti senti sciocco e vuoi assolutamente recuperarli. E per farlo, ecco che te ne van via altri 200». Nelle parole di Davide emerge una questione fondamentale: l’autostima, la sensazione di stupidità che si

prova quando le cose non vanno come auspicato (e il conseguente bisogno di affogare quella sensazione spiacevole, di compensare quel senso di inadeguatezza: di rimediare il prima possibile). «Gli adolescenti attraversano una grande crisi narcisistica – spiega Anna-Maria Sani, psicologa e coordinatrice del Gruppo Azzardo Ticino-Prevenzione, che dal 1997 si occupa di prevenzione e sostegno alle vittime della ludopatia e alle loro famiglie. «Il gioco dona sensazioni molto forti e per questo ne sono attratti. Inoltre, oggigiorno, è alla portata di tutti: pensiamo alle slot machine o ai biglietti della lotteria, che vengono venduti e sponsorizzati persino in posta. Non solo: tanti ragazzi hanno un facile accesso al denaro presto, già durante gli studi superiori se si tratta di apprendisti. Non è un caso che siano soprattutto loro ad essere colpiti da questa malattia». La psicologa ricorda, fra le tante persone seguite, tutte con storie più o meno disperate alle spalle, quella di un giovane finito nella pericolosa spirale del poker. «A scuola andava male, in casa peggio che mai: i genitori erano separati e lui soffriva per la situazione tesa. Poi c’era il poker, la sua isola felice, l’unica cosa che lo facesse sentir bene. Si illudeva: pensava che giocando d’astuzia, diventando sempre più esperto e scaltro avrebbe racimolato un cospicuo gruzzoletto che gli avrebbe permesso di cambiar vita per sempre, di affermarsi economicamente e di aver successo un po’ in tutti i campi». Una trappola diabolica, il poker, come specifica AnnaMaria Sani, la cui differenza, rispetto ad altri giochi ad esso affini, consisterebbe proprio nell’insinuare nelle menti di chi lo pratica la falsa convinzione che la competenza conti quanto la fortuna o addirittura di più. «Da una parte è vero, il poker si basa anche sull’astuzia – continua – ma la parte del leone la fa sempre il caso, il giocatore non ha nulla sotto controllo». Morale della favola? Il ragazzo non è riuscito a portare a termine gli studi, non ha un diploma spendibile nel mondo del lavoro e per di più si è indebitato – un’entrata nella vita adulta non proprio fra le migliori. A questo punto la domanda nasce spontanea: è possibile uscirne? Come? Molte persone pensano di riuscire a farcela da sole, ma, ricordiamolo, lo psicologo è quasi sempre indispensabile per guarire dalle dipendenze. An-

Alla base del gioco patologico c’è anche una grave incapacità di gestire il denaro. (Ti-Press)

na-Maria Sani spiega come funziona il percorso terapeutico per le vittime del gioco patologico. «Si inizia con la sensibilizzazione al concetto di caso – racconta –, è interessante constatare come la maggior parte delle persone che finiscono nel tunnel della ludopatia abbiano le idee confuse attorno al significato della parola azzardo e ai rischi che esso comporta. Il terapista deve chiarire al paziente, fino a convincerlo nel profondo, che giocando non ci si arricchisce, al massimo ci si impoverisce, facendolo riflettere sul calcolo delle probabilità, mostrandogli che le chance di vincere al lotto sono inferiori rispetto a quelle di venire colpiti da un fulmine, per citare il più classico e lampante degli esempi». La vita ci insegna che possiamo imparare dalle esperienze precedenti e mettere a frutto il bagaglio di conoscenze accumulate negli anni per evitare che sortiscano risultati deludenti, per migliorare le nostre prestazioni: nel gioco d’azzardo, invece, non è così. Lì la mille-

sima volta è uguale alla prima, sei sempre vergine, sempre fragilissimo di fronte a un ingranaggio che mira solo a risucchiare le tue risorse: non è il gioco che ti salva, tu stesso puoi dire basta. «Sai chi diventa dipendente? Chi all’inizio ha tanta fortuna», mi spiega Davide, lucidissimo nel cogliere i tranelli e le trappole di questa dipendenza. «Se le prime volte che giochi sei sfortunato e perdi, in realtà hai vinto, perché non cadi nel tunnel. Se invece ti capita di guadagnare una bella cifra, sei spacciato». Lo conferma anche la psicologa: tutti i dipendenti hanno alle spalle alcune vincite ragguardevoli, realizzate le prime volte che giocavano. «Ne hanno ricavato un senso di gratificazione così profondo da rimanere impresso nella memoria. Pur di provare di nuovo quel piacere, quel gran senso di benessere e soddisfazione, sarebbero capaci di dilapidare tutti i loro risparmi. Ma bisogna specificare che alla base di questa dipendenza c’è un’incapacità di gestire il denaro: bisogna agire proprio nell’educa-

al lago, ma la pioggia, ancora lei, veramente intensa, ci ha obbligati a restare nella mensa dell’ostello, dove ci siamo sfidati in una serie di divertenti giochi a squadre. Attorno alle 22.30 siamo andati a dormire, controllati dal maestro, che camminava su e giù per il corridoio, apparentemente senza mai stufarsi. La mattina seguente, per fortuna senz’acqua, ci siamo spostati a Ginevra, a visitare il Palazzo delle Nazioni Unite, dove tanta gente dalle origini diverse si salutava nei corridoi e si riuniva in grandi sale, per discutere di pace, come ci ha spiegato la nostra guida. A pranzo i maestri ci hanno lasciato liberi: ci è piaciuto molto, perché abbiamo potuto scoprire diversi posti davvero speciali, stando tra di noi nel pieno centro di una città. Durante il pomeriggio ci siamo recati tutti assieme all’affascinante Patek Philippe Museum. Una guida ci ha rac-

contato, tra l’altro, come i primi orologiai erano dei protestanti francesi in fuga dalla guerra, che hanno trovato rifugio nella città guidata dal famoso teologo Giovanni Calvino. All’uscita, aspettando il bus nella centralissima Plainpalais, ci siamo entusiasmati osservando le prodezze di alcuni nostri coetanei, o quasi, scatenati su delle rampe per skate, bmx e roller, forse stuzzicati dalla presenza di così tanti spettatori. Rientrando abbiamo fatto una sosta a Nyon, per gettare un breve sguardo sull’edificio della UEFA, la direzione europea del calcio. È stato bello, anche se un responsabile della sicurezza si è arrabbiato perché ci siamo avvicinati troppo e una mia compagna ha perso il suo cellulare. Comunque ci siamo subito ripresi, gustandoci un’immancabile fondue al formaggio in un delizioso ristorantino in riva al lago, prima di rien-

re i giovani a utilizzare in modo sano i loro soldi». Davide dice di avere una dipendenza moderata. In un mese può spendere dai 50 ai 300 euro. «Ma sono arrivato anche a buttare via 700 euro. E ne guadagno meno del triplo. So che potrei investire il mio tempo meglio, fare una passeggiata, conoscere una ragazza. E infatti sto cercando di disintossicarmi. Voglio farcela da solo: con le sigarette ho smesso, posso riuscire anche con il gioco». Informazioni

Il Gruppo Azzardo Ticino-Prevenzione si occupa di prevenzione e cura della ludopatia: sul sito www.giocoresponsabile.com è possibile attingere ad approfondimenti vari sul tema. È inoltre attivo, dalle 17.00 alle 19.00, il numero verde 0800 000 330 che fornisce supporto e consulenza alle vittime del gioco d’azzardo.

I ragazzi si raccontano Sharon De Concillis Uniti per tre giorni

Lunedì 16 settembre, dopo due settimane di scuola, la mia nuova classe, la 3A, si è ritrovata alle 8.00 davanti al piazzale scolastico, per andare tre giorni in Romandia. C’erano tutti: i miei compagni dell’anno scorso; quelli provenienti da altre classi; la nuova insegnante di tedesco, una donna alta e gentile; e naturalmente il docente di classe, che già il primo giorno ci aveva spiegato che questa gita ci avrebbe dovuto permettere di conoscerci meglio, in modo da iniziare bene l’impegnativo secondo biennio di scuola media. Una volta sistemati i bagagli e salutato l’autista, un omone simpatico dai tratti fisici simili a Bud Spencer, che si divertirà a scegliere con noi i brani da ascoltare durante il viaggio di ritorno, l’autobus è partito verso Avenches, la località più famosa dell’Elvezia romana, chiamata all’epoca con toni la-

tini Aventicum. Qui, dopo aver consumato un pranzo al sacco, riparati dagli ombrelloni di un ristorante da una fastidiosa pioggerellina, abbiamo visitato l’anfiteatro romano e siamo saliti sulle scale a chiocciola fino in cima al castello, dove abbiamo fatto una bella foto di gruppo. Poi siamo ripartiti alla volta di Losanna, dove abbiamo visitato all’interno di una bellissima villa, in mezzo a un grande parco, tanti quadri dipinti da Joan Miró, a dire il vero spesso dai tratti un po’ strani, anche se i maestri hanno insistito nel dirci che il rapporto tra i colori era veramente speciale. Finita la visita, i docenti ci hanno concesso un’oretta da soli, in modo da scoprire il centro pedonale della città vodese, prima di andare all’Auberge de Jeunesse di Montreux, luogo della cena in comune. Durante la serata era prevista una passeggiata in riva

trare all’ostello, non senza fare due passi sul lungolago di Montreux, corredati da uno sprint finale per vedere chi arrivasse per primo alla meta. Mercoledì, per concludere, avremmo dovuto recarci al Labyrinthe Aventure vicino a Evionnaz, in Vallese, a sfogarci dopo tante visite impegnative; ma l’acqua, purtroppo di ritorno, ci ha costretti a cambiare programma. Abbiamo così optato per Berna, a vedere la fossa degli orsi, i mille negozietti sotto i portici e la Piazza federale, con i suoi imponenti palazzi. Da qui siamo ripartiti per il Ticino, felici di ritrovare i nostri genitori, ma anche contenti dei tre giorni passati assieme e dell’unità creata tra di noi e con i docenti. Testi corretti dal professor Gian Franco Pordenone


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Società e Territorio

La lettura come incontro sociale Valle di Blenio L’interessante esperienza della Biblioteca comunale

di Olivone

Mara Zanetti Maestrani «Quando si legge, si ama sempre un poco versarsi fuori di sé, viaggiare», lo scriveva già nel 1905 Marcel Proust. Leggere è un po’ un’avventura, un viaggio. Quanto più il lettore riesce ad «immergersi» nelle pagine e a viverle col respiro del libro stesso, tanto più avvincente ed indimenticabile sarà la sua avventura. Lo scopo di una biblioteca pubblica, è quello di promuovere ed incentivare la lettura, sperando magari che si accenda, tra i molti lettori, qualche fiammella di passione. Se la biblioteca è situata in cima ad una valle, in una piccola comunità come quella di Olivone (Comune di Blenio), il compito della biblioteca può diventare anche sociale. Ossia punto di incontro, di scambio di idee, luogo per chiacchierare un attimo, per uscire di casa. Può, scrivevamo: può diventare tutto questo ma dipende dall’attitudine delle bibliotecarie (o bibliotecari). A Olivone, nella biblioteca del Comune di Blenio situata al pianterreno delle Scuole elementari, sono attive da qualche anno Lorenza Gatti e Nelly Aspari. Grazie al loro dinamismo, alle loro iniziative ma soprattutto alla loro grande passione, nel giro di tre anni hanno addirittura più che duplicato il numero di utenti esterni (ossia tra la popolazione), che ora è di un centinaio, con un aumento di 12-15 utenti tesserati all’anno.

Da notare che la tessera (del costo di 10 franchi) dà diritto al prelievo di 20 volumi (non necessariamente tutti in un anno) e vale anche per i componenti del nucleo familiare. Quindi i 100 utenti sono in realtà ben di più. La biblioteca dispone di circa 4400 volumi che, ogni due mesi, le responsabili aggiornano con immissioni temporanee grazie alla Bibliomedia di Biasca. «Dobbiamo ancora lavorare parecchio per farci ulteriormente conoscere – ci conferma Lorenza – Molti ancora non sanno che la biblioteca è aperta al pubblico» (ogni martedì dalle 15 alle 16.30 e ogni venerdì dalle 20 alle 21.30, escluse le vacanze scolastiche. Durante il periodo estivo, è aperta il giovedì dalle 20 alle 21.30, ndr). Molte sono le iniziative messe in atto dalle due responsabili, a cominciare dal «Club del Libro» che raccoglie un buon successo, anche se la partecipazione agli incontri può ancora essere incentivata. Attualmente sono 6 o 7 i lettori – ma meglio sarebbe dire le lettrici – che si ritrovano due volte all’anno per discutere, commentare e parlare di un libro proposto di volta in volta da Lorenza e Nelly. «Solitamente scegliamo temi attuali – spiega Lorenza – ed è sempre interessante vedere come ogni libro, ogni lettura è interpretata diversamente rispetto al vissuto di ognuno di noi. È affascinante e poterne discutere è un elemento di crescita personale e un aiuto agli altri».

«Una volta – ricorda Lorenza – mi ha telefonato una signora di Claro chiedendomi se poteva partecipare al Club, perché il libro che avevamo proposto l’aveva molto toccata e voleva parlarne con gli altri». Questi ritrovi, che avvengono nella biblioteca stessa, non hanno… «tempo»: la discussione prosegue infatti ben oltre l’oretta prevista. È qui che prevale meravigliosamente l’aspetto sociale. Le iniziative promosse dalla biblioteca, e sostenute dal Comune, vengono divulgate attraverso la stampa, i volantini a tutti i fuochi del paese, sulle locandine e via mailing. Un bell’impegno, che a volte «raccoglie» la presenza di pochi utenti, ma che «vale comunque la pena fare», dicono all’unisono le due donne, domiciliate a Olivone. Tra le iniziative, figura anche «Nati per leggere», progetto lanciato dalla Bibliomedia di Biasca e rivolto ai bimbi dagli 0 ai 4 anni, accompagnati dalle loro mamme. Ben 45 sono i bambini di quell’età nel Comune, ma quest’anno pochi purtroppo partecipano agli incontri mensili proposti in biblioteca, sia per scoprire i libri o per ascoltare dei racconti. A raccogliere un grosso successo sono invece le serate organizzate da qualche anno in occasione della «Giornata mondiale del libro» e, da un paio di anni, della serata «Diamo voce a scrittori locali». L’anno scorso era stato invitato lo scrittore e cantautore di Aquila Davide Buzzi. «Quest’anno – an-

Lorenza Gatti e Nelly Aspari nella biblioteca del Comune di Blenio.

nuncia Nelly – il 25 marzo alle 20.15 nella sala dell’Osteria centrale a Olivone daremo voce a Michela Persico-Campana di Biasca che presenterà il suo libro Talvolta la vita… strangola i sogni, ma non la speranza. Per la «Giornata mondiale del libro» il 23 aprile verranno presentate letture sul tema «Donne tra romanticismo e coraggio». I diversi brani verranno letti da persone volontarie del posto, sostenute da Pietro Aiani che collabora per passione dando ai lettori e alle lettrici gli insegnamenti per una corretta dizione nella lettura. «Questi eventi sono ricchi di emozione – osserva Lorenza – ma impegnativi per noi: dopo aver scelto il te-

ma, mesi prima leggiamo diversi libri. Ne selezioniamo sei e in quei sei libri scegliamo i passaggi più significativi o forti da proporre in lettura. E occorre che il tutto abbia un fil rouge». Queste due serate, nel filone delle «Donne», hanno poi dato l’occasione a Lorenza e Nelly di organizzare un terzo evento: una conferenza, in maggio, della psicologa e psicoterapeuta Pamela Meda-Peduzzi sul tema «Amori sani e Amori malati». Un ciclo di tre serate con entrata gratuita, offerto alla popolazione e a tutti gli interessati. Dove il libro è sempre sulla scena o appena dietro le quinte. In attesa che si accendano altre fiammelle di vera passione.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2014 • N. 08

Società e Territorio

Mattoncini eroi degli schermi Anteprima In Ticino arriva The Lego Movie Quanta strada hanno fatto le costruzioni Lego dalla loro apparizione sul mercato negli anni 60... In quell’epoca (i papà e le mamme di oggi se ne ricordano sicuramente) le forme dei mattoncini erano piuttosto semplici. La cura dei dettagli nei vari modellini era sempre approssimativa, lasciata più alla fantasia dei bambini che al realismo dell’imitazione. Negli ultimi decenni le cose sono molto cambiate. Lego riproduce oggi con fedeltà di particolari qualsiasi oggetto reale. La sua specializzazione sono mezzi meccanici e architetture ad alta tecnologia. Un suo punto di forza assoluto sono le astronavi spaziali e addirittura le applicazioni robotiche. Oltre a questo, il catalogo delle proposte si è arricchito di scenari hollywoodiani. Non esiste film d’avventura per ragazzi di cui la Lego non abbia riproposto in scatola di montaggio il set, i personaggi e le scenografie. Ora però sembra aprirsi una nuova era. Dopo aver tratto ispirazione dalle avventure cinematografiche, Lego ha deciso di diventare produttrice «in proprio» creando sceneggiature originali, divertenti e spettacolari. Sfruttando

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quindi i propri punti di forza e ambientando vicende fantascientifiche in un mondo squadrato e variopinto, sfida i film più celebri sul terreno che le è più congeniale. A molti di voi sarà capitato di scoprire su Youtube le animazioni amatoriali realizzate con i piccoli omini della Lego. Il film ufficiale dell’azienda si ispira un po’ a quei piccoli episodi ma li arricchisce con una tecnologia ad altissimo livello e soprattutto con l’esperienza che maturata negli ultimi anni quale produttrice di videogame. In The Lego Movie gli spettatori di tutte le età potranno assistere alle avventure di personaggi nuovi di zecca: Emmet, pacifico e tranquillo ometto che si troverà a dover indossare i panni dell’eroe; Vitruvius, una specie di Gandalf dalla barba annodata che deve motivare Emmet nel suo ruolo di superuomo; Lucy, una giovane molto decisa e combattiva che accompagnerà il protagonista nella sua battaglia contro il Presidente Business, un cattivo CEO che vuole prendere il potere nel paese dei Lego. Tanti altri personaggi entreranno in scena, passando direttamente dalle pagine dei cataloghi Lego al set cinematografico: il mondo dei mattoncini più piccoli del mondo non sarà mai sembrato così grande come in questa ultima sorpresa che Lego ha assemblato.

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i vincitori del concorso di Palco ai Giovani Quale main partner di Palco ai Giovani, il Percento culturale Migros Ticino ha proposto come ogni anno un concorso a premi, cui hanno partecipato numerosissimi spettatori. Tra tutti i concorrenti che hanno risposto correttamente alla domanda del concorso, Nadir Fontana ha vinto il primo premio: 2 Vip Pass per il festival m4music (incluso pernottamento in hotel per due notti a Zurigo), organizzato e prodotto dal Percento culturale Migros. Alessio Marino si è aggiudicato il secondo premio (2 Pass per il Gurtenfestival, realizzato e sostenuto da Migros), mentre il terzo premio (2 Vip Pass per il festival m4music) è toccato a Nicolò Vespa.

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A destra, Nadir Fontana, il fortunato vincitore del concorso, e Valentina Janner (Percento culturale Migros Ticino).


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2014 • N. 08

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni La follia delle mode Può sembrare curioso che un filosofo severo, austero, riservato e tutt’altro che mondano come fu Kant si sia occupato di moda. Eppure ci sono alcune pagine della sua Antropologia pragmatica che analizzano il fenomeno della moda con un’acutezza che difficilmente si ritrova nei moderni testi di sociologia. Kant prende le mosse da una considerazione generale: c’è, nell’uomo, la tendenza naturale a paragonarsi con chi appare superiore – per prestigio, per fama o per successo – e a imitarlo per raggiungerlo o almeno avvicinarvisi. La moda nasce così: per non apparire da meno degli altri. Questa la premessa di principio. Ma occorre poi dire che gli statuti della superiorità, del successo, dell’ammirazione collettiva sono determinati dalla cultura e dunque cambiano nel tempo. In passato erano le classi ricche e nobiliari a dettare i canoni della moda; poi venne la democrazia, la progressiva de-

cadenza dei titoli di nobiltà, il primato di Monsieur tout le monde. Dilagò la moda dei jeans. Il fenomeno è significativo, perché «blue-jeans» (letteralmente: «blu di Genova») erano i pantaloni da lavoro, sdruciti e senza alcuna pretesa d’eleganza, indossati dagli operai nel porto di Genova. D’improvviso divenne di moda non l’innalzarsi, ma l’abbassarsi al livello dell’uomo qualunque. Il Sessantotto con i suoi ideali d’egualitarismo a oltranza indusse sensi di colpa in chi non si adeguava all’uniforme operaia. Ma questo livellamento durò poco. I jeans erano la divisa del nuovo imperativo sociale? Ebbene, vennero i jeans alla moda, griffati e costosi quanto basta per non essere alla portata di tutti. Occorreva introdurre un segno di distinzione nell’indistinzione dell’uniforme: un po’ come i ricami dei gradi nelle divise degli ufficiali dell’esercito. Anche la tradizionale e antichissima di-

stinzione tra abbigliamento maschile e femminile venne a cadere negli anni Sessanta: la rivendicazione della parità dei sessi comportava anche una qualche uniformità dell’abito. Una donna con i pantaloni, che sarebbe stata esecrabile nei secoli andati, divenne la consuetudine. E pensare che la Bibbia lo vieta espressamente! «La donna non si metterà un indumento da uomo né l’uomo indosserà una veste da donna; perché chiunque fa tali cose è in abominio al Signore tuo Dio» (Deuteronomio 22, 5). Ma anche la veste da donna è dettata dalla cultura del tempo: a Bologna, nel 400, una commissione di frati supervisori timbrava le gonne garantendone così una lunghezza non inferiore ai limiti stabiliti dal Governo; ai tempi nostri Mary Quant inventò la minigonna e fu una corsa a indossarla sempre più mini. Ma l’uomo è perennemente combattuto fra il desiderio di essere integrato –

il che comporta l’uniformarsi ai costumi della comunità – e il bisogno opposto di separarsi e distinguersi per affermare la propria individualità. L’abbigliamento e l’acconciatura del corpo, in qualche modo, devono esprimere non solo un’appartenenza sociale, ma anche la personalità del soggetto. E non di rado è davvero così: l’esteriorità è in qualche modo specchio dell’interiorità; e spesso, a colpo d’occhio, ci facciamo un’idea – anche se inconscia – del carattere della persona in base a come si presenta esteriormente. Per fare un esempio banale: un ragazzo sui vent’anni, con barba incolta, capelli lunghi e abbigliamento trasandato, è improbabile che voti per il partito conservatore o che sia convinto che la nazione ha bisogno di più ordine e più regolamenti. Già, perché le mode non riguardano solo l’abbigliamento, ma anche le idee, i comportamenti, le ideologie e le fedi. Prima degli anni Cinquanta la cultura

italiana era di destra; ma sul finire degli anni Sessanta, se non eri di sinistra, che intellettuale eri? A volte la moda ideologica e quella dell’abbigliamento possono entrare in conflitto tra loro: come si fa ad essere ecologista e indossare una pelliccia? Non è escluso che con il prevalere di una coscienza ecologica l’uso della pelliccia finisca per scomparire, almeno nella nostra cultura. Molte mode, di fatto, sono già scomparse: sappiamo da Erodoto che gli Sciti si facevano mantelli con la pelle dei nemici, e un’usanza analoga si ritrova tra gli Aztechi. Anche la moda fa progressi. Per tornare a Kant: il filosofo osservava che chi è fuori moda è considerato antiquato mentre chi non dà nessun valore all’essere fuori moda è ritenuto originale; e concludeva che «è pur sempre meglio essere matto secondo la moda che fuori di essa». La follia condivisa non è considerata tale.

C’è inoltre la fiumana dell’esercito svizzero, intersecata nell’armata sconfitta dei bourbaki, a spaesare di più lo sguardo. Danno una mano e controllano il disarmo: laggiù, mucchi di fucili. Ma si entra nel panorama di Castres, esposto in origine in una rotonda panoramica a Ginevra per otto anni e poi portato qui nel 1889, solo passeggiando in un’ottica d’ora d’aria. Passo per passo si assapora la bravura umanitaria di Castres, incaricato dall’imprenditore Benjamin Henneberg, a lungo proprietario del panorama; ottimo investimento, a quei tempi di panoramania era un’attrazione visitatissima. Con pazienza lo si trova anche nel dipinto restaurato quattordici anni fa: un barbuto a fianco dell’ambulanza-carrozza. Mica un vezzo d’artista, Castres stesso è proprio stato lì sul campo il primo febbraio 1871 come volontario per la Croce Rossa, oltre essere tornato lì a Les Verrières l’inverno 1876-1877 a studiare per

giornate intere, il colore della neve e il paesaggio di quelle gelide regioni. Si potrebbe stare qui ore a caccia di dettagli, come quella donna che fascia la caviglia di un soldato francese o il prete crocerossino che dà l’estrema unzione a un altro. Ma la cosa che amo di più è scappare nei punti di fuga fiamminghi. Al di là del panorama, questo luogo, soprannominato un tempo FränkliMühle (mulino a un franchetto, il prezzo d’entrata), è un punto d’incontro. Sotto c’è un bel bar-ristorante con colonne doriche derivanti dall’ex garage Koch & Söhne, proprietario del panorama negli anni Trenta. Oltre alla biblioteca, c’è il cinema Bourbaki, quattro sale nel seminterrato. All’uscita, rimango un po’ in quello spazio intermedio di viavai riscaldato: due personaggi discutono in un angolo con una lattina di birra da mezzo in mano. Sono due perduti in questo inverno, mezzi barboni schiaffeggiati dalla vita e spiaggiati qui come i bourbaki.

una valenza artistica e addirittura sociale. Musicisti, clown, giocolieri, acrobati sembrano svolgere una funzione di utilità pubblica, portando nel cuore di una city finanziaria una boccata di fantasia, di estro spericolato: a testimoniare che si può campare anche così, al di fuori delle regole del cosiddetto mondo ufficiale, in un mondo invece affidato alla spontaneità e all’estro. In realtà, fra questi due mondi, le distanze si stanno assottigliando. Proprio perché aspirano a un apprezzamento delle loro capacità, gli artisti di strada hanno finito, in certi casi, per creare, soprattutto nell’ambito musicale, un genere proprio. Tanto da attirare professionisti, addirittura star di successo, come Sting e il violinista Joshua Bell, con il suo Stradivari, che si sono cimentati, improvvisando all’aperto. Ed è della settimana scorsa, l’incontro, avvenuto su una piazza a Milano, fra cinque artisti di strada e cinque strumentisti della Filarmonica della Scala: scuola classica a

confronto con virtuosismo spontaneo. Sin qui, dunque, gli aspetti salienti e positivi del fenomeno artisti di strada, con cui, come vogliono sociologi e urbanisti, si cerca di riempire un vuoto. Le città vanno animate, a furia di eventi, e grazie appunto agli artisti di strada, vecchi e nuovi. Anzi, pensando a Lugano, piuttosto vecchi, com’è il caso del simpatico suonatore d’organetto, che ormai appartiene all’arredo locale. Rimane, comunque, sempre aperta la questione del compenso, implicitamente richiesto, sia pure in modi diversi, da persone che di arte devono pur vivere. Prevale, di solito, la cortesia, un cenno di dignitoso ringraziamento per una moneta con cui si paga liberamente una prestazione. Non mancano, però, in questo rapporto, malintesi. L’artista, e spesso un suo accompagnatore, insiste, tira in ballo i suoi guai, e la richiesta diventa una forma di accattonaggio, persino ricattatorio: il passante che non dà è il solito borghese egoista insensibile.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Il panorama Bourbaki a Lucerna Dalla stazione, nota per l’atrio organico e trasparente (1989) di Calatrava, prendete il Seebrücke, dove la Reuss entra nel lago dei Quattro Cantoni. Sul fianco sinistro, di traverso, si snoda l’arcituristico ponte coperto di legno, a destra tre cigni s’immergono comici a testa in giù. Alle spalle della stazione e dell’impeccabile KKL (2000) lì accanto – centro di Cultura e Congressi di Jean Nouvel la cui acustica della sala concerti è rinomata – si abbraccia un bianco panorama alpino niente male. Un pezzo di quai, poi svoltate nell’Alpstrasse e ci siamo, un quarto d’ora in tutto circa: Löwenplatz, la destinazione di oggi. In cima a tre lati della rotonda icosagonale con cupola, inglobata perlopiù dall’efficace e discreto edificio vetrato di Kreis-SchaadSchaad che è la biblioteca cittadina dal 2000, si legge, in maiuscolo, per tre volte, la vecchia scritta Panorama. La parola panorama appare nel 1792, combinazione neogreca del pittore ir-

landese Robert Barker (1739-1806): pan, tutto, e orama, vista. L’armata del generale francese Charles-Denis Bourbaki (1816-1897) spunta invece all’orizzonte nel febbraio 1871 dalle parti di Les Verrières, alla fine della Val de Travers, al confine con la Francia; in occasione del suo internamento-disarmo in Svizzera. È questo il soggetto del dipinto circolare di 112 x 10 metri del 1881, opera di Edouard Castres (1838-1902) con l’aiuto di nove altri pittori – tra i quali, quattro panoramisti affermati e il giovane Hodler – che salgo a vedere adesso, una mattina di metà febbraio. La prima impressione a trecentosessanta gradi del panorama Bourbaki a Lucerna (443 m) è stupefacente; chissà l’effetto per gli spettatori all’epoca, senza cinema. L’illusione magica e tragica di vivere panoramicamente questo retroscena di guerra franco-prussiana fin nei minimi dettagli, è accentuata dalla ringhiera a cui appoggiarsi come nei tanti posti con

vista. Il faux-terrain qui sotto che sviluppa la tridimensionalità, l’illuminazione calibrata e l’audio (voce narrante di attori credibili, nitrire di cavalli, ululati di lupi) fanno il resto. Perdipiù: stesso mese, 143 anni fa. Mi siedo sulle panche in pelle nera al centro di questa piattaforma in parquet. Partecipo così, escludendo da questa posizione i ventuno manichini poco convincenti del faux-terrain, assieme a tre altri spettatori, al bianco stordente di queste distese di neve dove una marea di uomini è alla deriva. Accolta e arginata dalla popolazione e la Croce Rossa al suo primo intervento. È proprio attraverso questo panorama che la croce rossa su campo bianco fa capolino nell’immaginario collettivo. I cavalli sono stramazzati al suolo, sale il fumo di fuochi accesi, risalta il rosso di alcuni pantaloni alla zuava. L’armata Bourbaki era infatti un mix da ultima spiaggia, oltre ai soldati francesi ci sono unità coloniali come i tiratori algerini o i turcos.

Mode e modi di Luciana Caglio Artisti di strada: graditi, sgraditi, malintesi Rieccole, da qualche settimana, nelle loro abituali postazioni. Sono ormai una nostra vecchia conoscenza le minuscole equadoregne che, periodicamente, compaiono accanto alle casse degli autosili luganesi, munite dei ferri del mestiere: una sorta di minimandolino, da cui ricavano una sorta di concerto offerto ai passanti. Offerto, si fa per dire. Un cappello capovolto, posato per terra, invita chiaramente a deporre un obolo. E, a sollecitare il gesto, interviene poi la presenza di un bimbo di pochi mesi, in groppa alla mamma, che ovviamente intenerisce, o di un ragazzino che ha già imparato a tendere la mano. Ora come giudicare questa scenetta che, ironia del caso, si svolge proprio sotto un cartello che ufficialmente dichiara il luogo off limits per i suonatori ambulanti: deve commuovere o irritare, indurre alla generosità o alla condanna? Qui, le reazioni, di cui si è spesso spettatori, rivelano sentimenti contrastanti. La stessa immagine di quella mamma-suonatrice con prole si

presta a interpretazioni ben diverse: per alcuni, è un simbolo del disagio del Terzo Mondo, e merita solidarietà, a cominciare dal franchetto nel cappello. Altri, invece, ci vedono

Gli artisti di strada hanno conquistato i loro spazi nelle città. (CdT - Crinari)

un’odiosa forma di sfruttamento dell’infanzia, addestrata alla furbizia e all’accattonaggio. «Mandateli a scuola» ho sentito tuonare un nostro concittadino, davanti a quello spettacolo, secondo lui indecoroso. A scanso di equivoci, va subito detto che le mammine equadoregne rappresentano un caso a parte, persino anomalo, rispetto al fenomeno ben più ampio e vivace degli artisti di strada, una definizione che copre prestazioni e aspirazioni di tutt’altra portata. Nel corso degli ultimi decenni, la categoria, un tempo assimilata ai perdigiorno e ai balordi, ha conquistato spazio, credibilità e a volte prestigio, insomma diritto di cittadinanza. E, non più soltanto nelle metropoli, per loro natura più tolleranti, ma anche nei centri minori di una provincia più sospettosa. Persino nella nostra Svizzera, gelosa delle sue prerogative di ordine e tranquillità, gli artisti di strada sono stati sdoganati sul piano legale e professionale, e quindi autorizzati a esibirsi in prestazioni a cui si riconosce



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Ambiente e Benessere Le capre e la loro diffusione È stato l’uomo dell’epoca neolitica a introdurre questi animali dalle steppe asiatiche dapprima nel Medio Oriente, successivamente nell’Europa occidentale

L’ultima caccia di Hemingway Nel 1954 l’autore de Verdi colline d’Africa, organizzò il suo ultimo safari di caccia grossa nel continente nero; il ricordo di un viaggio simile nel racconto e nelle immagini di uno dei fondatori del Wwf Italia

Novità dallo Sportech Un simulatore per allenarsi nelle discese con i bob e un app per lo sci di fondo

I luoghi della Grande guerra Viaggi dentro la memoria nell’anno dell’anniversario del primo conflitto mondiale

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Vincenzo Cammarata

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Medicina intensiva e anziani Salute Interrogarsi sui concetti di vita e morte è importante perché la conoscenza può creare problemi,

ma non è l’ignoranza che riuscirà a risolverli Maria Grazia Buletti L’incremento delle aspettative di vita della popolazione è dovuto alle migliori condizioni ambientali, alle abitudini alimentari e comportamentali, alla prevenzione e alle terapie delle malattie, come pure all’enorme progresso della medicina. L’aumento della popolazione anziana ne è la conseguenza e gli ospedali sono dunque confrontati con un gran numero di anziani che spesso annoverano una varietà di malattie. Oggi anche i reparti di medicina intensiva sono confrontati con la presa a carico di un sempre maggior numero di persone molto anziane. Perciò è importante chiedersi quali sono le possibilità terapeutiche che si debbano offrire in medicina intensiva rispettando la dignità della vita. Questioni tanto complesse quanto delicate che abbiamo discusso con il primario del reparto di medicina intensiva dell’Ospedale regionale di Lugano (Civico) dottor Paolo Merlani, nominato dal Consiglio federale nella Commissione nazionale d’etica in materia di medicina umana (Cne). «Da qui al 2060 il numero di giorni di degenza nei reparti di medicina intensiva dei pazienti al di sopra degli 80 anni d’età subirà, secondo i nostri calcoli, un importante incremento: al di sotto dei

65 anni passeremo da un po’ meno della meta a circa un terzo, la fascia intermedia (65-79 anni) aumenterà lievemente a 40%, ma ciò che deve farci riflettere è l’aumento esponenziale degli over 80, i cui giorni di degenza in medicina intensiva raddoppieranno per diventare un terzo», conferma il dottor Merlani. Gli chiediamo che cosa, per sua natura, la medicina intensiva può offrire loro, con quali prospettive e soprattutto con che risultati. «La risposta sta nell’essenza della medicina intensiva, data dall’equilibrio dei quattro principi etici dell’autonomia, fare del bene, non fare del male e della giustizia distributiva. Quest’ultima, nel nostro Paese ancora non ha un valore di peso, ma diviene sempre più importante verificare in quale modo dedicare e distribuire le nostre risorse mediche che purtroppo non potranno essere infinite». L’autonomia, nel senso della possibilità di scegliere il proprio destino, è essenziale. «Tuttavia, per decidere, il paziente e i suoi famigliari necessitano un’esaustiva informazione circa gli interventi e soprattutto sui possibili risultati, che, ovviamente, non sono sempre preventivabili». A questo proposito, però, bisogna pure tenere conto che, oggi, gli enormi progressi della medicina intensiva hanno alimentato nella popolazione una fidu-

cia nella pratica di queste terapie che spesso va oltre le possibilità concrete d’intervento offerte dalla medicina stessa. E qui entriamo nel secondo principio etico del «fare del bene» correlato inevitabilmente al «non nuocere». «Spesso, per far guarire bisogna incidere». Perciò non dobbiamo dimenticare la proporzionalità fra il nostro intervento terapeutico e il possibile risultato che per il paziente anziano può anche non corrispondere alle sue attese: «Questa aspettativa sorge in tutti i pazienti, ma diventa ancora più drammaticamente attuale per pazienti avanti con gli anni. Attese che possono essere riassunte dalla domanda più frequente che ci viene posta: “Dottore, potrò tornare a casa e condurre la vita di prima?”». Il limite anagrafico e la qualità di vita non sono i soli parametri utili alla valutazione di questo equilibrio terapeutico: «Il fondo biologico – che è il risultante del proprio vissuto, delle malattie e della genetica – può aiutarci a fare delle previsioni». E ancora più importante sembrano alcune misure di cosiddetta fragilità (come massa muscolare, capacità o meno di adempiere ad alcune incombenze e quant’altro) che permettono di intravedere l’aumento della probabilità di non sopravvivere: «Questo oggi si os-

serva nei nostri pazienti, mediamente, attorno agli 80-85 anni, con variazioni interpersonali notevoli». I criteri di ammissione in un reparto di medicina intensiva dovrebbero dunque sottostare a una sorta di approccio multidisciplinare ed etico assolutamente onesto nei confronti della vita stessa, dove sono contemplati la volontà del paziente e della sua famiglia, insieme alle informazioni ricevute dal medico cui spetta il delicato e difficile compito di valutare rischio/beneficio delle procedure mediche. Il progresso medico-scientifico degli ultimi anni ha indubbiamente dato al medico che opera in medicina intensiva nuovi poteri d’intervento sulla vita umana, riuscendo a salvare circa il 90% dei pazienti. La natura delle terapie intensive è dunque identificabile nelle cure mediche atte ad aiutare temporaneamente le funzioni vitali di un organismo gravemente ammalato. «Per rendere il tutto più difficile bisogna dire che nella letteratura, benché i pazienti anziani abbiano una mortalità molto più elevata che i giovani, se sopravvivono, spesso hanno una qualità di vita per loro soddisfacente, soprattutto legata al fatto che sopportano di buon grado alcune menomazioni». Tuttavia, pre-

cisa il Dottor Merlani, bisogna essere eticamente onesti nella valutazione dell’equilibrio dei principi, affinché il paziente non subisca un accanimento terapeutico, «ciò che non significa lasciar morire e non curare, bensì “accompagnare il paziente” senza travolgerlo con trattamenti per lui nocivi e che non gli permetterebbero di raggiungere quello che lui desidera. Ricordiamoci che l’accanimento terapeutico prolunga l’agonia del paziente, non la sua vita». È labile il limite fra tenere in vita ad ogni costo un paziente anziano e curarlo per restituirgli la vita: «In tal caso, l’umiltà di accettare che non possiamo (e non dobbiamo) accanirci ci permette di cambiare obiettivo terapeutico: tutti saremmo sereni se qualcuno sapesse accompagnarci a miglior vita con tutta la sua empatia, compassione e partecipazione». E proprio nell’umiltà dell’interpretazione del procedere, in questo caso, sta la chiave che andiamo cercando: «Non esiste una risposta univoca alla domanda assoluta che un medico si deve porre e che racchiude tutte le altre: “Posso (ancora) offrire una buona qualità di vita?”, perché di questo si tratta. Come dice George Bernard Shaw: “Per ogni problema complesso esiste una soluzione semplice sbagliata”».


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Ambiente e Benessere

La fine della Magna Grecia Uomo e natura Come le capre hanno contribuito alla scomparsa di una civiltà mediterranea:

Metaponto, Siris, Sibari, Crotone, Paestum Alessandro Focarile Lo stivale italico è una terra giovane. 170mila anni or sono, al culmine della glaciazione denominata Riss e con la conseguente trattenuta di acqua sotto forma di ghiaccio, il Mediterraneo aveva un livello più basso di 120-150 metri rispetto alla situazione attuale. Il fiume Po sfociava al largo di Ancona, 150 chilometri più a sud rispetto a oggi. L’isola d’Elba era collegata con la prospiciente costa toscana, e Malta era unita alla Sicilia. Numerose pianure oggi alluvionali, formate con gli apporti detritici di importanti fiumi – quali l’Arno, il Tevere, il Garigliano e il Sele – erano bracci di mare insinuati verso l’entroterra. Che cosa è questa giovinezza geologica, se paragonata alle rocce della Sardegna, che hanno un’età di oltre 500 milioni di anni (periodo Ordoviciano dell’era Paleozoica)? Gli Appennini, l’ossatura portante della penisola italiana, sono fiancheggiati a Est, verso il mare Adriatico, da una pressoché ininterrotta fascia di sedimenti marini di recente emersione. Da Rimini al promontorio del Gargano (300 chilometri) argille fossilifere ricche dei resti di organismi marini, testimoniano l’antica presenza del mare Adriatico, ben più esteso in un remoto passato, prima delle glaciazioni quaternarie. Il Gargano e il Tavoliere calcareo delle Murge pugliesi, fino al Salento, e cioè fino a Brindisi e Lecce, sono lembi di antiche connessioni territoriali con la prospiciente penisola Balcanica: tra Otranto e la costa albanese intercorrono soltanto 65 chilometri, la distanza tra Bellinzona e il Gottardo. Ricordando che la città pugliese è collocata quasi sullo stesso meridiano di Varsavia. Terra italica, terra giovane, riflettendo sul suo popolamento umano. Grazie a un clima benigno fiorivano le ricche civiltà del Medio Oriente (la Mezzaluna fertile), dove si erano insediati progressivamente gli Ittiti, gli Assiri, i Babilonesi e gli Egizi. Più a Occidente, Miceni e Greci. Civiltà opulente di benessere economico in virtù di una progredita agricoltura, di cultura e di arte. Nel contempo, primitive popolazioni italiche già erano stanziate nell’Appenninia, da Nord a Sud. Piceni, Umbri, Osci, Volsci, Marsicani, Sanniti, Frentani, Irpini, Dauni, Lucani, Iapigi, Messapi, Bruzi. Tutte stirpi gelose custodi della loro relativa indipendenza, pur nell’esiguità tribale e territoriale nella quale erano insediate. E sul versante tirrenico esposto al mare: gli Etruschi, popolo misterioso per origine e lingua. E i Romani, forse meno primitivi dei loro vicini montanari, e che nell’arco di pochi secoli avrebbero creato ben altra storia e sarebbero as-

Capre al pascolo in Ticino. (Lindo Grandi)

surti a ben altra gloria, dopo aver sottomesso tutte le popolazioni della penisola. Anche l’Appenninia era ricoperta con folte foreste. La Lucania, piccola regione che si estende tra la Campania e la Puglia, deriva il suo antico nome dal latino lucus = bosco, che ritroviamo da noi nel toponimo Lucomagno = grande bosco. Boschi di pioppi, salici, ontani, platani e frassini nelle bassure alluvionali e lungo i corsi d’acqua. Querceti ricchi di ghiande sulle prime pendici dei monti. Faggi e abeti (bianchi) più in alto. Pini più in alto ancora, fino ai 2000 metri del Pollino, tra Lucania e Calabria. Tutto è stato documentato, grazie alle analisi dei pollini ottenuti con trivellazioni (carotaggi) in sedimenti lacustri e torbosi in alcune località dell’Appennino meridionale. Con l’apporto di un puntuale rilevamento della relittuale situazione attuale, che tanta storia forestale ha da raccontare. Un fitto e continuo manto boscoso, già intaccato dall’intervento incendiario dell’uomo. Bosco, il cui insediamento assicurava la stabilità dei pendii, costruiti con materiali (argille, marne, arenarie) facilmente erodibili, e dilavabili verso il basso, per sedimentare nelle vallate sottostanti, aumentandone il riempimento. Allora, come oggi, su terre, acque e sui popoli dominava il determinismo climatico. Le capre, al pari delle pecore, non sono animali di bosco. È stato l’uomo dell’epoca neolitica (8-10mila anni or sono, a seconda delle regioni popolate), fondatore dell’agricoltura stanziale, a introdurre questi animali dalle steppe asiatiche dapprima nel Medio Oriente, successivamente nell’Europa occidentale. Animali acrobatici, insieme con i camosci e gli stambecchi (Capra ibex), le capre non temono le vertigini. Sono equipaggiate con un efficiente e razionale apparato digerente. Questo, consente loro di ingurgitare qualsiasi materiale vegetale, comprese le foglie secche. E di cibarsi impunemente anche di vegetali notoriamente tossici, quali sono le ginestre, le felci e persino i maggiociondoli (Laburnum). Nonché, all’occasione, masticare con gusto un foulard scout con anello di pelle intrecciata compreso! Salvo i sassi e il legno, le capre mangiano tutto, pur non essendo carnivore. Nel bacino mediterraneo, dall’Anatolia al Marocco, nel corso di alcuni millenni hanno concorso massicciamente nell’alterazione e successiva distruzione della copertura arborea, portando alla desertificazione di estesi territori. La bandiera del Libano ha come emblema il Cedro, a significare quanto fosse presente questa conifera in tutto il Paese. In epoca attuale, sporadici e isolati gruppi

Il tempio di Metaponto (Costa ionica della Lucania). (Alina Focarile)

Giordania (Al-Karek) 2013. (Alina Focarile)

di alberi sono religiosamente protetti con il filo spinato! Il Castel del Monte, in Puglia, era dimora di caccia dell’imperatore Federico II. Si ergeva maestoso e solenne tra colline boscose. In epoca attuale, dopo quasi 800 anni, si staglia isolato nel luminoso paesaggio pietroso dell’alta Murgia pugliese, in una landa magra di vegetazione. Non più richiami di cavalieri e di corni da caccia, ma, più prosaicamente, belati di pecore affamate. L’isoletta di Lampedusa, ora completamente priva di vegetazione arborea, era fino al 1800 riserva di caccia dei Re Borboni. Sulla costa ionica italiana, su un tratto di appena 45 chilometri, sfociano cinque fiumi con un corso di oltre cento chilometri: non sono dei rigagnoli di

poco conto: Bradano, Basento, Cavone, Agri e Sinni. Durante alcuni secoli, un simile reticolo idrico ha avuto un ruolo decisivo per gli insediamenti Greci che si stavano costituendo sul litorale: Metaponto, Siris, Sibari. Taranto più a Est, e Crotone, la città di Pitagora, più a Sud. Tutti luoghi, insieme a Posidonia (Paestum) fondata dai ricchi sibariti sulla costa tirrenica a sud di Napoli, che sono stati la sede di una florida e progredita civiltà: la Magna Grecia (Megas Ellas). Un diffuso disordine idrologico, causato dalle forti alluvioni dissestanti, e che impedivano un regolare deflusso perpendicolare alla linea di costa. La formazione di dune, costituite di sabbie cementate dalle argille, vere barriere che favorivano la formazione di vasti impaludamenti, incubatoi di malaria. È agevole, e istruttivo ricostruire l’origine, l’evolversi, e il drammatico epilogo di una storia plurisecolare. Con il fuoco, l’uomo ha distrutto un patrimonio arboreo in origine continuo. Il disboscamento è stato aggravato dalla presenza di eserciti di capre, le quali – con la brucatura dei rigetti – impedivano la rinnovazione degli alberi. Le pendici quasi completamente denudate delle montagne, grazie anche alla loro natura geologica, erano preda di frane diffuse, catastrofici trasporti di materiali minuti su terreni impermeabili: tutto doveva scendere a valle nel minor tempo possibile. Per navigare, i Greci (come i Fenici) dovevano costruire navi, per le quali occorrevano alberi di alto fusto, che potevano allignare soltanto in boschi maturi e non dissestati. La Repubblica di Venezia, potenza marinara per eccellenza, aveva promulgato severe leggi forestali per impedire l’irrazionale utilizzo dei boschi. E le capre erano tenute sotto controllo, perché per la flotta della

Serenissima occorrevano alberi di alto fusto. Fa riflettere la constatazione che tre fattori hanno causato la scomparsa di una fiorente e colta civiltà, continuatasi attraverso parecchi secoli. 1. L’ignoranza umana accanto all’imperativa necessità di procurarsi il cibo. Attraverso gli incendi voluti, si è ottenuta la quasi totale scomparsa della copertura arborea su intere montagne. 2. L’incisiva azione delle capre ha impedito la rinnovazione vegetale. 3. Il disordine idrologico a valle e verso il mare, con la conseguente formazione di sbarramenti dunali in prossimità della costa, ha creato i presupposti geomorfologici per la formazione di estesi impaludamenti di acque calde e stagnanti: luoghi ideali e incubatoi per l’insediamento della zanzara Anopheles all’origine delle febbri malariche. E in questa lunga e drammatica catena di cause ed effetti, le capre portano una elevata parte di responsabilità. Gustando un «tomino», si è ben lontani dal considerare quanto è stato sin qui narrato. Bibliografia

Pascal Acot, Storia del clima. Il freddo e la storia passata. Il caldo e la storia futura, Donzelli editore (Roma), 2003, 249 pp. Michael J. Crawley, Herbivory. The Dynamics of Animal-Plant Interactions, Blackwell Scientif. Public. (Oxford, London, Boston, Melbourne), 1983, 437 pp. John R. McNeill, The Mountains of the Mediterrean World: an Environmental History, Cambridge University Press (Cambridge), 2003, 423 pp L’Italia Fisica, Touring Club Italiano (Milano), 1957, 282 pp.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2014 • N. 08

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Ambiente e Benessere

L’Africa dei cacciatori di trofei Carnet di viaggio Nel 1954 Hemingway organizzò il suo ultimo safari di caccia grossa in Africa.

Nel 1954 l’autore dell’articolo fece, a 19 anni, il suo primo viaggio in Kenya e Tanganika (oggi Tanzania)

Fulco Pratesi Nel 1954, sessanta anni or sono, Ernest Hemingway partecipò al suo ultimo safari in Kenya e Tanganyka (l’attuale Tanzania). Aveva 55 anni e proprio quell’anno aveva ricevuto il Premio Nobel per la letteratura. Vent’anni prima, nel 1934, era iniziata la sua lunga passione per la caccia grossa africana, descritta nei suoi stupendi e cruenti romanzi. Sia nei due racconti, La breve felice vita di Francis Macomber e Le nevi del Kilimangiaro, sia nel romanzo Verdi colline d’Africa del 1935, il grande scrittore ne parla con entusiasmo. Il diario dell’ultimo safari, quello del 1954, fu invece pubblicato postumo da suo figlio Patrick nel 1999, con il titolo Vero all’alba. Ho sempre avuto un interesse e un amore istintivo per gli animali. Passavo da piccolo le giornate al Giardino zoologico di Roma dove mi divertivo a disegnare le specie più belle. Più tardi, questa passione mi portò, nell’agosto del 1954, a 19 anni, a imbarcarmi su un cargo per Mombasa, e a battere, (purtroppo cacciando), i territori descritti da Hemingway, i cui libri mi avevano affascinato.

«Mentre disegnavo un magnifico leone maschio e una femmina, sulla preda alle nostre spalle si materializzarono due altri leoni giovani» In seguito, a trent’anni, la visione di un’orsa con tre cuccioli in una foresta dell’Anatolia dove mi trovavo a caccia, mi fece capire l’assurdità di voler distruggere tali miracoli della natura. Tornato in Italia, iniziai a battermi per la difesa dell’orso marsicano; e nel 1966 fondai, con degli amici, alcuni dei quali come me ex cacciatori, il Wwf Italia. L’animale che più spesso compare negli scritti di Hemingway, è il leone. Nella Breve vita felice di Francis Macomber, forse il più bello dei suoi 49 racconti, così lo descrive: «Allora Macomber vide il leone. Era quasi di profilo, con la grossa testa alta e voltata nella loro direzione. La brezza del primo mattino che spirava verso di loro gli scompigliava appena la criniera scura, e il leone sembrava enorme, così stagliato sulla parte più alta della riva nella grigia luce mattutina, con le spalle massicce e il corpo cilindrico agile e vigoroso». Segue la sanguinosa descrizione del massacro che le carabine dei white hunters (cacciatori bianchi) operarono sul suo nobile corpo. Negli anni Cinquanta del secolo scorso, in Kenya la licenza di caccia, al costo di 140 dollari, consentiva l’abbattimento di un gran numero di specie, incluso un leone, tre bufali e moltissime antilopi e gazzelle. Una Special licence permetteva altre stragi a queste tariffe: primo elefante, 210 dollari; secondo elefante, 280 dollari; due rinoceronti, 42 dollari l’uno; un leopardo, 28 dollari; una giraffa, 42 dollari; eccetera. Il tutto per la passione della caccia e il fanatico collezionismo di trofei. Nelle mie peregrinazioni nel Continente Nero per missioni del Wwf dedicate alla difesa della specie più in pericolo, ho avuto molte occasioni di ammirare i leoni in natura, come mi

accadde in una riserva in Sudafrica. Mi muovevo in un fuoristrada con una guida locale per sentieri e piste non battute da turisti. Arrivammo a un certo punto in una valletta chiusa ai lati dalla boscaglia. Davanti a noi, a pochi metri, su un basso rilievo erboso, un magnifico leone maschio e una femmina sulla preda. Mentre disegnavo, alle nostre spal-

le si materializzarono due altri leoni giovani. Pur se il nostro ranger aveva una grossa carabina, ritenne prudente tagliare la corda, inerpicandosi sulla scarpata che chiudeva la valle. Nell’incipit di uno dei più famosi racconti hemingwayani, Le nevi del Kilimangiaro, pubblicato sulla rivista Esquire nell’agosto del 1936, da cui fu tratto un film con Gregory Peck e Ava

Gardner del 1952, Hemingway parla del leopardo. «Il Kilimangiaro è un monte coperto di neve alto 5895 metri, e si dice che sia la più alta montagna africana. La sua vetta occidentale è chiamata, dai Masai, Ngàje Ngai, la Casa di Dio. Vicino alla vetta occidentale c’è la carcassa rinsecchita e congelata di un leopardo. Nessuno ha saputo spiegare cosa cercasse il leopardo a quell’altitudine». In Vero all’alba così ne parla: «… vidi il leopardo sdraiato pesantemente sull’alto ramo destro dell’albero, il lungo corpo chiazzato era lambito dall’ombra del fogliame che si spostava nel vento. Era a sedici metri d’altezza, un posto ideale in cui starsene in quella bella giornata». Naturalmente lo uccise e la sua pelle finì come un tappeto nella casa della vedova Mary a New York. Vedere questo felino nel suo ambiente non è facile. A parte le visioni inaspettate, in pieno giorno, lungo i sentieri, lo spettacolo più emozionante lo cogliemmo a tarda sera in una riserva del Sudafrica. Al tramonto, attirati dal latrato triste di uno sciacallo affamato, scoprimmo in una radura una grande femmina di leopardo alle prese con un impala appena ucciso. Com’è nel costume di questa specie, il leopardo tentava, con balzi ripetuti, di portare la preda sui rami più bassi di un enorme albero che dominava la scena. Attorno ad esso, lo sciacallo cercava, lamentandosi, di approfittare dei resti della cena del leopardo. Non so come sia finita, perché, per non disturbare oltre, dopo aver avuto il tempo di disegnare, lasciammo la scena ormai immersa nella stellata notte equatoriale. Tra le altre vittime dello scrittore/ cacciatore, figura il grande bufalo cafro. Francis Macomber, protagonista del racconto di cui ho già parlato, cerca di rifarsi da un comportamento codardo

mostrato in un precedente incontro con il leone. E se la prende a colpi di fucile con dei bufali inconsapevoli. «Macomber vide tre enormi bestie nere che sembravano quasi cilindriche nella loro allungata pesantezza, simili a grossi carri cisterna neri, che passavano al galoppo lungo il margine opposto della prateria». Ed ecco l’incontro con un bufalo precedentemente ferito: «…il portatore lanciò un grido selvaggio ed essi lo videro uscire dalla boscaglia di traverso, veloce come un granchio, e il bufalo che veniva con le froge dilatate, la bocca serrata, il sangue gocciolante, il testone proteso in avanti, che veniva alla carica, con gli occhietti porcini iniettati di sangue». In realtà, a guardarli e a disegnarli da vicino, soprattutto la loro splendida testa tanto agognata dai collezionisti di trofei, i bufali non danno l’aria di essere particolarmente aggressivi se non direttamente minacciati. Ho addirittura potuto disegnare, da una decina di metri, un grande bufalo su cui diligenti bufaghe toglievano i parassiti avventurandosi anche nelle grandi orecchie. Parlare delle altre imprese africane di Hemingway, ai danni di rinoceronti, antilopi varie, avvoltoi e iene, collegate ai tanti episodi raccolti nei miei taccuini sarebbe troppo lungo. Oggi bisogna cercare di salvare queste ultime meravigliose specie di un continente in cui, anche se la caccia grossa distruttiva è scomparsa, il bracconaggio e la invasione degli habitat da parte di una popolazione, salita dai 357 milioni di persone nel 1970 a più di un miliardo, hanno ridotto i leoni a soli 30mila esemplari, il rinoceronte nero a 4’800 in rapidissimo declino, l’elefante a meno di 500mila individui, il gorilla di montagna (600 individui) e il ghepardo (10mila). Questo nonostante l’azione che in tutto il mondo le Associazioni ambientaliste come il Wwf conducono con vigore ed efficacia.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2014 • N. 08

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Ambiente e Benessere

«App» e simulatori al servizio dello sport Innovazione Un’applicazione

per apprendere la tecnica dello sci di fondo e un simulatore per allenarsi nelle discese di bob Elia Stampanoni Lo scorso gennaio è tornata a Tenero Sportech, la manifestazione che, alla sua quinta edizione, mette in relazione scienza e sport. Tra i 34 laboratori presenti negli spai del Centro nazionale di Tenero anche «app» e simulatori, che hanno permesso ai visitatori di tuffarsi negli sport invernali e immedesimarsi per un attimo nei fondisti o nei bobbisti.

L’applicazione «Tecnica dello sci di fondo» è la prima proposta dell’Ufficio dello sport di Macolin (Ufspo) e consente a tutti gli appassionati della disciplina di accedere a delle immagini di alta qualità, in qualsiasi posto e in qualsiasi momento. Lo scopo è di perfezionare la tecnica e l’«app» è dunque dedicata a docenti, allenatori o sciatori autodidatti. Con il neologismo «app», lo ricordiamo, s’intende una variante

Il simulatore visto dall’alto. ( Sportech)

Il simulatore per permettere gli allenamenti nelle discese con i bob. ( Sportech)

delle applicazioni informatiche (da qui il nome) dedicate ai dispositivi di tipo mobile, quali smartphone e tablet; apparecchi che facilmente si possono portare anche sulle piste di allenamento o di gara. Quali sono le funzioni dedicate allo sci di fondo? Si tratta di una sequenza di filmati in cui i quadri di Swiss ski mostrano con abilità tutti i passi nelle specialità dello skating (passo pattinato) e del classico (passo alternato). Per le riprese l’Ufspo ha quindi scelto di puntare l’obiettivo su chi ha fatto dello sci di fondo il suo mestiere, compreso Dario Cologna, eletto svizzero dell’anno 2012 e sportivo svizzero del 2013, nonché, di recente, medaglia d’oro olimpica a Sochi. Le sequenze video sono di ottima qualità e possono essere utilizzate anche offline (senza un collegamento internet attivo). Sono pertanto un mezzo ideale per un esame preciso della tecnica, dato che i movimenti possono essere studiati in tempo reale o al rallentatore. È inoltre disponibile una funzione fermo immagine con didascalie, mentre elementi grafici inseriti nelle sequenze illustrano il corretto svolgimento dei diversi passi. «Il supporto è un complemento ideale dei manuali esistenti e offre immagini didattiche di alta qualità», sottolinea il direttore dell’Ufspo Matthias Remund, molto orgoglioso di questo innovativo prodotto, per il quale la tecnologia è stata sfruttata al meglio in funzione della formazione. Un risultato pionieristico e innovativo, per ora limitato allo sci di fondo, ma che l’uffi-

cio di Macolin sta già studiando di ampliare ad altri sport in cui la tecnica gioca un ruolo importante, come la ginnastica. Dall’«app» per lo sci al simulatore per il bob nazionale. Nella disciplina del bob il problema ricorrente per gli atleti di punta è la ridotta possibilità di esercitarsi su delle piste vere. Si stima che Beat Hefti, il pilota appenzellese capofila della nazionale svizzera (e fresco duplice campione europeo), trascorra poco più di due ore all’anno alla guida di un bob. Una discesa dura circa un minuto, ma in una giornata non se ne possono fare troppe, anche perché lo sport è molto esigente a livello sia psichico sia fisico. Anche la difficoltà di trovare delle piste al di fuori dei mesi invernali, oltre ai costi e ai tempi elevati per eseguire delle sedute specifiche sul ghiaccio, riducono le occasioni propizie per degli allenamenti sui tracciati veri. In un’era sportiva in cui la specializzazione, la tecnologia e la cura dei particolari giocano un ruolo essenziale, è comprensibile che anche la nazionale svizzera di bob abbia maturato l’idea di trovare delle valide alternative. Da qualche anno Swiss sliding (la federazione che racchiude le discipline bob, slittino e skeleton) ha a disposizione il simulatore creato dal Politecnico federale di Zurigo (Ethz) per affrontare la preparazione a secco in modo ottimale. Uno strumento con il quale gli atleti possono testare, tutto l’anno, più volte e senza rischi, ogni pista del circuito di coppa del Mondo. I bobbisti hanno così i mezzi per affrontare anche decine di volte una pista,

senza rischi di farsi male in caso di cappottamenti. In questo modo viene pure eliminata la dipendenza dalle condizioni meteorologiche e si riducono estenuanti trasferte. Per arrivare all’eccellente dispositivo, i ricercatori del politecnico federale hanno analizzato e riprodotto tutti i dettagli. Sono state rilevate le curve, le angolazioni, le misure e le pendenze delle piste, mentre il bob è stato reso reale monitorando le dimensioni, i contatti con il ghiaccio e la mobilità. I dati, elaborati matematicamente, si riflettono in una ricostruzione fedele delle piste di bob. Per Beat Hefti e compagni, però, è pure importante testare i vari materiali a disposizione per affrontare le piste esistenti. Ebbene il simulatore dell’Ethz consente anche questo: si possono di fatto inserire e variare tutti i dati relativi alla costruzione del bob, come l’assetto o il tipo di pattini. Dettagli che nello sport, a volte, fanno la differenza. Il simulatore permette oggi agli atleti di simulare molteplici discese, affinando la tecnica in tutta sicurezza e soprattutto in condizioni molto vicine alla realtà. L’unica cosa che non si è ancora riusciti a ricostruire è quella sensazione di velocità percepita lungo le discese. Mancano le sollecitazioni corporee e quelle emozioni che solo sfrecciando a 140 chilometri orari si possono avvertire sulla pelle. Indirizzi utili

www.sports-apps.ch www.imes.ethz.ch

M Uno strumento efficace per gestire lo stress Scuola Club Migros Ticino La sofrologia è una tecnica che aiuta a mettere

in equilibrio la mente e il corpo, promuovendo un atteggiamento positivo e rilassato Nervosismo, agitazione e ansia? Lo stress vi è familiare? La Scuola Club Migros di Lugano propone un incontro sulla «Gestione dello stress con la Sofrologia Caycediana», presentando un nuovo corso in programma. La Sofrologia è una tecnica corporale, dal greco sos (armonia), phren (coscienza) e logos (studio), atta ad acquisire consapevolezza del proprio corpo, delle proprie sensazioni, delle tensioni fisiche e mentali, delle emozioni e dei pensieri. Parallelamente l’individuo impara a conoscersi meglio, ad acquisire un equilibrio interiore e una coscienza permeata da uno stato di benessere generale. «Quello che mi ha avvicinata alla sofrologia – racconta Catalina Dusi, do-

cente del corso – è la semplicità e l’immediatezza con cui combina la familiarità orientale alla meditazione, alla consapevolezza del sé e alla riflessione, con l’approccio razionale, che caratterizza il mondo occidentale, cui io appartengo». Negli anni 60, il neuropsichiatra Prof. Alfonso Caycedo creò il metodo omonimo dopo aver trascorso un paio d’anni in Oriente e aver studiato con yogin, monaci zen e lo stesso Dalai Lama, per capire come loro riuscissero a raggiungere e mantenere quello stato di coscienza sereno, attento e calmo. Integrando ciò che aveva imparato sulla respirazione, sulle posture e sulla meditazione, con le sue conoscenze scientifiche, sviluppò il Metodo Caycedo, di fa-

cile adattabilità alla vita di tutti i giorni. In modo progressivo e metodico la persona aumenta la percezione e la conoscenza della propria corporalità, delle proprie emozioni, dei propri pensieri, delle proprie azioni e dei propri valori. Sviluppa essa stessa la volontà di migliorare quelle capacità che vuole potenziare ed impara a gestire le sue percezioni, i suoi sentimenti e pensieri. In Svizzera negli ultimi 20 anni, più di centomila persone hanno appreso le tecniche sofrologiche. Secondo le statistiche dell’autorità sanitaria federale, le persone che applicano queste tecniche con regolarità risparmiano circa il 30% in cure mediche rispetto al resto della popolazione (minor ricorso a me-

dici, ad analgesici, tranquillanti, sonniferi, ecc.). Il corso di Sofrologia della Scuola Club Migros è rivolto a tutti coloro che sentono l’esigenza di abbassare i livelli di stress e migliorare la qualità della propria vita in ogni ambito. Per i professionisti costituisce uno strumento per la gestione del personale e per motivare i collaboratori. La sofrologia è inoltre utile per la cura della persona, per prepararsi al parto o a un intervento, per mitigare gli effetti di malattie fisiche o psichiche, per migliorare la concentrazione, la motivazione e la sicurezza. Per questo è da tempo considerata un valido supporto agli sportivi, per gestire e controllare l’ansia da prestazione.

Informazioni

Serata informativa gratuita: martedì 18 febbraio, ore 19.00. Scuola Club Migros Lugano, via Pretorio 15. Corso: 10.03.2014-05.05.2014, 20.00-22.00. Scuola Club Migros Lugano.


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Ambiente e Benessere

Passi nella memoria

Il mondo in miniatura

Viaggiatori d’Occidente L’anniversario della Prima guerra mondiale propone

Bussole Inviti a

il viaggio più significativo dell’anno Claudio Visentin Da giorni la pioggia batte sui vetri con monotona regolarità e scrivere di viaggi in queste circostanze può sembrare strano, se non forse come auspicio di un tempo (meteorologico) migliore. È invece proprio il clima più appropriato per raccontare quello che sarà il viaggio più importante di quest’anno: la visita ai luoghi della Prima guerra mondiale. Basti pensare alla battaglia di Passchendaele, nel saliente di Ypres, in Belgio, svoltasi tra luglio e novembre del 1917, quando l’avanzata britannica fu tormentata dalla pioggia continua e si impantanò in un mare di fango, con un numero altissimo di caduti. Un secolo dopo, tutta Europa si prepara a tornare sui campi di battaglia, tra Belgio e Francia, ma questa volta come turisti o viaggiatori per celebrare degnamente l’importante anniversario. In questa zona, nei primi mesi di guerra, i tedeschi con una rapida avanzata (il cosiddetto Piano Schlieffen) cercarono di aggirare le truppe francesi e britanniche per conquistare Parigi, sia pure violando la neutralità di diversi Paesi. Quasi per un contrappasso, una volta fallita questa azzardata strategia, la guerra sprofondò nell’immobilità più totale. Per quattro lunghi anni due linee ininterrotte di trincee, separate dalla terra di nessuno, si srotolarono dal Mare del Nord giù sino al confine svizzero, dove i rumori della battaglia si abbattevano. La trincea protetta dal filo spinato e difesa dalle mitragliatrici si rivelò straordinariamente efficace nell’ostacolare ogni avanzata, se non a costi insopportabili in vite umane, di certo costringendo i soldati a una vita quotidiana di stenti e sofferenze. Oggi sul fronte occidentale, la terra

ha cancellato quasi per intero i segni del grande scontro, salvo in pochi tratti dove le trincee sono state conservate o ricostruite. Ma restano i cimiteri di guerra a punteggiare la campagna e a indicare i luoghi delle battaglie più sanguinose. Non si può confonderli con altri perché accolgono solo giovani maschi, nel loro idealismo le vittime predestinate di ogni guerra. Sono anche curiosamente riconoscibili le specificità nazionali, specie nel caso dei cimiteri di guerra britannici, che sorgono su terreni donati per sempre alla Gran Bretagna e curati meticolosamente dalla Commonwealth War Graves Commission (www.cwgc.org). All’approssimarsi dell’anniversario in senso stretto, all’inizio di agosto 2014, sono previste innumerevoli celebrazioni, cerimonie, aperture e riallestimenti di musei ecc. (un buon elenco sul sito http://bit.ly/1b4eAPO); ma altrettanto legittima sarà la scelta di chi invece preferirà aggirarsi in solitudine lun-

go il fronte. Quasi inevitabile utilizzare l’auto per raggiungere luoghi fuori mano e molto distanti tra loro, ma poi una tranquilla passeggiata può essere la scelta migliore. Gli spunti di riflessione davvero non mancano. Come poté la situazione sfuggire di mano a tal punto? Come poté un’Europa all’apice del suo splendore sprofondare in un vortice di autodistruzione, innescando le tragedie del XX secolo? Un’altra guerra mondiale, i totalitarismi, lo sterminio degli Ebrei, tutto sembra discendere in qualche misura da quella tragedia collettiva. Ancora, la domanda forse più inutile ma al tempo stesso inevitabile rimanda al significato complessivo dell’evento: a cosa è servita la Grande Guerra? Difficile riuscire a dare una risposta che spieghi l’accanimento di una lotta micidiale tra popoli che oggi vivono in pace e che, anche grazie al turismo, si rendono frequenti e cordiali visite. Davvero cento anni or

sono gli Italiani odiavano gli Austriaci come nessun altro? Difficile raccontarlo alle nuove generazioni, che spesso scoprono queste vicende attraverso le memorie di qualche familiare che ha lasciato lettere e cimeli. Un paradosso: se è mai servita a qualcosa, la Grande guerra ha reso evidente a tutti la necessità di un’Europa unita, per porre fine alle guerre tra gli Stati. Eppure proprio l’Europa, quanto meno sino ad ora, è la grande assente in questo anniversario. Ciascuno Stato si muove per conto proprio, con il rischio che le memorie del conflitto risveglino antichi rancori e anacronistici nazionalismi. Per i ticinesi, il fronte è poi meno lontano di quanto sembra. Infatti, davvero alle porte di casa sorgono le fortificazioni della Linea Cadorna (nella foto), costruita per prevenire una possibile invasione tedesca violando la neutralità svizzera: un’ipotesi non così stravagante se pensiamo che i tedeschi lo avevano già fatto con Lussemburgo, Olanda e Belgio. Riprendendo precedenti iniziative, dal 1915 fu realizzata un’imponente linea fortificata che dalla Val d’Ossola giunge fino al territorio bergamasco: è un vasto complesso di strade, mulattiere, sentieri, trincee, postazioni d’artiglieria, osservatori, ospedali da campo, centri di comando, strutture logistiche ecc. Le trincee, lunghe oltre settanta chilometri, sono particolarmente ben conservate in alcuni tratti, circostanza come abbiamo visto abbastanza rara altrove. La Linea Cadorna non fu mai utilizzata e alla fine del conflitto fu abbandonata sino quasi ai giorni nostri; ma attualmente sono state avviate diverse iniziative per recuperare questi luoghi aprendoli agli escursionisti. È l’occasione per fare pace con la nostra storia.

letture per viaggiare

«Il mondo misura un diametro equatoriale di 12’756,274 km e un diametro polare di 12’713,504 km. Troppo. Non ho bisogno di tutto questo spazio… La comodità non ha mai portato a niente, l’uomo sulla luna non ci è arrivato in pantofole. Mettiamoci scomodi. Non prendiamoci troppo spazio…» La minima dimensione di questa rubrica è in questo caso anche la più appropriata, considerato il tema del libro di Valerio Millefoglie. Si comincia dalla cattedrale più piccola del mondo, sull’isolotto di Nona. Poi è una discesa senza freni nel minuscolo: c’è la libreria più piccola del mondo, in Ungheria; il Teatrino Concordia di Monte Castello di Vibio, un borgo medioevale in provincia di Perugia; il ristorante solo per due su una collina che si affaccia sui monti Sabini; il carcere dei Cappuccini della Repubblica di San Marino, con solo sei celle; l’Eh’Häusl, l’albergo con un solo letto nella cittadina bavarese di Amberg; la banca con un solo impiegato nel villaggio tedesco di Gammesfeld; e così via. È un viaggio sentimentale, rassicurante, accomunato solo dalla minima dimensione delle mete, per raccontare un mondo dominato dalla timidezza, dal timore delle folle, dal desiderio di dialogare con sé stessi e pochi altri: anche nei luoghi più ristretti del resto le distanze tra le persone restano sempre troppo grandi per essere veramente superate. In compenso le aspettative sono inevitabilmente ridotte e quindi la riuscita del viaggio è garantita. Bibliografia

Valerio Millefoglie, Mondo piccolo. Spedizione nei luoghi in cui appena entri sei già fuori, Laterza, 2014, pp.152

I tesori dell’Uzbekistan Viaggio Per i lettori di «Azione», Hotelplan organizza

una settimana di esplorazione attraverso un paese ricco di storia e cultura, dal 19 al 26 aprile 2014 Un viaggio unico e straordinario tra le meraviglie architettoniche di Samarcanda, le città museo Bukhara e Khiva, vere perle dell’architettura islamica, e infine un tuffo nella ricca storia della capitale Tashkent. L’Uzbekistan, un paese ricco di storia e splendidi monumenti di arte islamica, dichiarati anche patrimonio dell’umanità dall’Unesco, annovera alcune delle città più antiche del mondo, molte delle quali centri cardinali lungo la Via della seta. Hotelplan accompagnerà i lettori di «Azione» che vorranno lasciarsi guidare alla scoperta

Programma di viaggio 1° giorno – 19 aprile, Ticino/Milano

Trasferta in bus dal Ticino all’aeroporto di Milano e partenza. 2° giorno – Milano/Khiva Arrivo a Khiva e prima escursione. 3° giorno – Visita di Khiva. 4° giorno – Khiva /Bukhara Volo per Bukhara; inizio visite. Via terra in caso di impedimenti. 5° giorno – Visita di Bukhara. 6° giorno – Bukhara/Samarcanda Trasferta in bus per Samarcanda con soste a Sachri Sabz. 7° giorno – Visita di Samarcanda. 8° giorno – 26 aprile – Tashkent / Milano / Ticino: trasferta in bus e visita di Tashkent. Trasferimento in aeroporto e partenza. In bus da Milano per il Ticino.

di questo fantastico caleidoscopio di esperienze indimenticabili e trionfo di cultura antica. Secondo il programma, a Khiva si arriverà in mattinata con un volo di linea Uzbekistan Airways per Urgench, dopo aver volato di notte. In seguito avrà luogo l’escursione nel deserto nella regione di Karakalpakstan per la visita ai resti di due siti della cultura di Khorezm: la fortezza di Djambas Kala, risalente al VII secolo a.C. e la città di Toprak Kala, l’insediamento più importante della zona nel quale sono stati rinvenuti canopi funerari della cultura zoroastriana. Nel pomeriggio si rientrerà a Khiva per sistemarsi in hotel. Il terzo giorno si visiterà Khiva, vera perla dell’architettura islamica. Il quarto giorno si prende un volo per Bukhara, che tra il IX ed il X secolo d.C., divenne il cuore religioso e culturale dell’Asia Centrale. L’intera giornata del 23 aprile sarà dedicata alla visita del suo centro storico. Il sesto giorno si parte di primo mattino in bus per Samarcanda. Lungo il percorso si effettueranno soste a Sachri Sabz, città natale di Tamerlano. L’arrivo a Samarcanda è previsto verso sera. Il 25 aprile sarà dedicata alla visita

della città compreso l’antica Samarcanda abbandonata all’inizio del XII secolo dopo la conquista dei mongoli e l’osservatorio di Ulugh Begh. L’ultimo giorno si ripartirà in mattinata con il bus per andare a visitare Tashkent e fare un breve giro in metropolitana tra le stazioni storiche. E infine risalirà a bordo di un volo di linea Uzbekistan Airways con arrivo in tarda serata.

Prezzi per persona

Tagliando d’iscrizione

Prezzo per persona in camera doppia: Fr. 2445.– Supplemento in camera singola: Fr. 166.– Spese di dossier Hotelplan: Fr. 60.–

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2014 • N. 08

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Ambiente e Benessere Cucina di Stagione La ricetta della settimana

Calzone ai porri Piatto principale Ingredienti per 4 persone: 500 g di farina · 2 cucchiaini di

sale · 20 g di lievito · 3 dl d’acqua tiepida · 2 cucchiai d’olio d’oliva · 500 g di porri · 300 g di mozzarella · 300 g di pancetta da cuocere · farina per spianare · sale · pepe. 1. In una scodella mescolate la farina e il sale e formate una

cavità. Sciogliete il lievito in un poco d’acqua e versatelo nella cavità insieme all’acqua rimasta e all’olio. Impastate il tutto in una massa liscia e omogenea. Coprite la massa con un canovaccio umido e fatela lievitare del doppio in un luogo caldo per circa 1 ora. 2. Scaldate il forno a 200° C. Tagliate i porri per il lungo in quattro parti e poi a pezzetti larghi 5 mm. Tagliate la mozzarella a dadini e la pancetta a striscioline fini. Rosolate i porri e la pancetta in una padella per 2 minuti, mettete da parte e fate raffreddare. Dividete l’impasto in quattro parti e formate delle palline. Spianate le palline su poca farina e formate dei dischi abbastanza ampi. Mescolate la mozzarella con la pancetta e i porri. Condite con sale e pepe. Distribuite il ripieno sui dischi di pasta. Piegate i dischi a metà e sigillateli. Accomodate i calzoni in una teglia foderata con carta da forno e cuoceteli al centro del forno per circa 20 minuti.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2014 • N. 08

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Ambiente e Benessere

La migliore Lara Gut perdente Sportivamente Le prime giornate dei Giochi olimpici invernali ci hanno regalato soddisfazioni inattese

con medaglie e comportamenti che non di rado riescono a commuovere anche lo spettatore più incallito, per non dire vecchio Alcide Bernasconi Mi sento quasi nei panni di quello sciatore del Senegal, o delle Isole Vergini o proveniente da una delle più belle spiagge dei mari lontani, dove ben pochi sanno che cosa sia l’inverno. Sono passati anni da quell’estemporanea partecipazione ai Mondiali di un atleta certamente benestante, visto che poteva permettersi vacanze bianche nelle località montane più alla moda oltre che gareggiare con materiale di qualità. Egli tagliò il traguardo una quindicina di minuti dopo il primo classificato, perché scendeva a spazzaneve, ma ebbe il suo bell’applauso per il coraggio con cui affrontò le prevedibili risate del pubblico oltre che il ripido pendio. Sto esagerando, visto che il mio ricordo è davvero vago, dato il tempo che passa: per farla breve, lo attesero davvero a lungo all’arrivo, sia pubblico sia operatori della tv, anche se il ritardo rispetto al tempo vincitore della medaglia d’oro fu meno di un quarto d’ora dopo... Non ricordò veramente più quando ciò avvenne, ma poco importa. Quell’episodio, se fosse accaduto veramente come l’ho raccontato, potrebbe essere entrato nella storia dello sci e negli annali dello sport. Qui mi serve unicamente per sottolineare il solito disagio, nel soffermarmi in questo caso sulle giornate d’oro degli svizzeri nella prima parte dei Giochi Invernali, scrivendone su un giornale che apparirà quando altri capitoli della storia a cinque cerchi saranno stati scritti a Sochi. La giornata che non si dimentica è stata senza dubbio quella della vittoria a pari merito nella libera, dell’elvetica Dominique Gisin e della slovena Tina Maze, con la nostra Lara Gut battuta di un paio di metri e poco più, al termine di una bellissima gara rovinata – si fa per dire – da un paio di piccoli errori di

valutazione su un fondo di consistenza mutevole. Sono state molte le immagini belle di quella giornata, che vale la pena ricordarle ancora. Come la Maze e la Gisin mentre salgono sul podio al traguardo, tenendosi per mano per andare a ricevere il primo «mazzolin di fiori» (che, appunto, «vien dalla montagna»), mentre Lara Gut lotta con il cuore in tumulto per una medaglia d’oro che era certamente alla sua portata, frenando la rabbia che le impedisce inizialmente di gioire per la medaglia di bronzo. Non so cosa abbia detto ai microfoni la ragazza di Comano davanti alle telecamere nei minuti immediatamente seguenti alla gara. So però che bellissimo è stato il colloquio con il commentatore televisivo Stefano Ferrando, nello speciale sui Giochi. Credo che molti abbiano captato il notevole salto di qualità nel racconto della giornata da parte di Lara Gut. L’interlocutore ha saputo toccare i tasti giusti, mettendo più che a suo agio la bionda ticinese, finalmente pacata nel giudicarsi e nell’esporre i suoi punti di vista: la campionessa di razza punta alla vittoria, lottando in tutti i sensi, anche nelle interviste, con gli spigoli. Lara è però apparsa finalmente serena, direi pure adorabile, perché sfido chiunque ad accettare meglio di lei una sconfitta come questa. Ricordate forse la bella Maria Walliser, quando venne sconfitta da Michela Figini, la più giovane vincitrice dell’oro olimpico nello sci, ai Giochi di Sarajevo, trent’anni fa? Maria venne pure battuta per una manciata di centesimi, forse cinque. Aveva le lacrime agli occhi, intuendo che quella era forse stata l’occasione irripetibile per salire sul gradino più alto del podio ed essere ricordata, sempre, come la campionessa olimpica. È andata così. Abbiamo comunque scoperto una Gisin, quella che fece un

La svizzere Dominique Gisin con la ticinese Lara Gut a destra, e Tina Maze dalla Slovenia, a sinistra, durante la cerimonia dei fiori sul podio delle Olimpiadi di Sochi. (Keystone)

pauroso volto nel finale a Vancouver, che l’oro lo meritava per tutti gli infortuni che avevano costellato sin qui la sua carriera. Bella anche la Gisin: simpatica, intelligente, spiritosa, la ragazza di Engelberg si esprime in italiano e francese davanti alle telecamere della tv svizzera. «Come mai parla così bene il francese?», gli chiedono al telegiornale romando. La risposta è stata semplicemente… svizzera: «Ho imparato la lingua a scuola». E poi ride di gusto. A noi è piaciuta questa giornata, fra esplosioni di gioia e momenti di commozione. È piaciuto conoscere anche lo svizzero nato a Mosca, Iouri Podladtchikov, medaglia d’oro nello snowboard halfpipe, ossia volteggiando acrobaticamente nell’aria, come in un grande circo di neve, per vincere con orgoglio per la bandiera rossocrociata nella nazione che gli ha dato i natali, la Grande madre Russia. E che dire della vittoria di Dario Cologna, al termine della sua prima grande cavalcata nei due stili, a un cen-

tinaio di giorni dall’incidente che sembrava poter compromettere la sua partecipazione ai Giochi Invernali? Anche lui, strepitoso. Non è stata una pioggia di medaglie, bensì una dimostrazione di seria preparazione e impegno da parte dei campioni più quotati. Se negli sport individuali la Svizzera si è sempre difesa bene, aggiungerei fra le note positive anche il successo risicato della nazionale di hockey nella gara d’esordio contro la Lettonia. Il gol cercato con insistenza per quasi tutta la partita, è giunto a otto secondi dal termine. La prova degli elvetici meritava di essere ricompensata da un successo. Il torneo di hockey si prospetta durissimo. Per la Russia la medaglia d’oro più importante sarà proprio quella dell’hockey, mentre nelle altre discipline essa è spesso costretta a vedersela con avversari assai più preparati ed esperti. Pensare che all’inizio degli anni Cinquanta i sovietici non ne volevano quasi sapere di questo sport, preferendo il bandy all’hockey. Il campo di gio-

ORIZZONTALI

Sudoku Livello facile

co era grande quanto uno di calcio, anche le porte; al posto del puck si giocava con una pallina e l’ingaggio fisico non era paragonabile ai durissimi colpi che si scambiano oggi i giocatori di hockey; al posto dei caschi poi, bastava una cuffia di lana, per ripararsi dal freddo. I russi, così volle la politica, dovettero comunque adattarsi e impararono il gioco dei canadesi tanto da imporsi subito alla loro prima partecipazione ai Giochi, nel 1956 a Cortina d’Ampezzo. L’Urss vinse davanti a Usa e Canada e conquistò il maggior numero di medaglie d’oro (sette) quando, ai VII Giochi invernali, si gareggiò in sole sei discipline (dicono 24 gare in tutto): bob, sci nordico, sci alpino, hockey, pattinaggio artistico e pattinaggio di velocità. Il grande protagonista di quell’edizione fu comunque l’austriaco Toni Sailer, impostosi in tutte le specialità dello sci alpino. La Svizzera fu quarta nel medagliere, dietro a Urss, Austria e Finlandia, ma nell’hockey fu eliminata subito con due sconfitte.

Giochi Cruciverba

Lo sapevi che il coccodrillo non può sporgere la… Termina la frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere nelle caselle evidenziate.

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Scopo del gioco

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contenga tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

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1. La regista Wertmuller 4. Iniziali dell’attore Depardieu 6. Contrapposta all’altra 7. Quel di ferro non cuce 8. Scritte senza consonanti 9. Culmine della fama 10. Il Panza del Don Chisciotte 13. Allevò Bacco 14. Opposto allo Zenit 18. Con Giovanni e Giacomo 20. Scampò alla distruzione di Sodoma 21. Due vocali 22. Un rettile… galleggiante 23. Attacca il dente 25. La iniziali di una Rodriguez della TV 26. Lago etiopico 27. Sigla di autenticità 29. Linguaggio proprio di un popolo 30. Il frutto di Fra Galdino

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1. Pronome personale 2. Fu amata da Vasco de Gama 3. Ci… seguono in cucina 4. Il famoso D’Alessio 5. Nome femminile 7. Muore dopo essersi unito all’ape regina 9. Quando muore si festeggia 11. La Yespica 12. Dottori della legge ebrei 15. Cibele lo mutò in pino 16. Come finisce… comincia 17. Aggregati naturali di minerali 19. Titolo nobiliare inglese 20. Quella in bioccoli è grezza 23. Un figlio di Noè 24. Antico nome di Tokyo 26. Nelle torte e nel timballo 28. Il «sì» di Provenza

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Soluzione della settimana precedente

Clero e dintorni – Frase risultante: Saturno, quello del Papa è rosso. S E Q U E N Z , E

A U L G O O F L U L I C O N O I O R N A S S

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2014 • N. 08

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Politica e Economia Renzi sarà premier Enrico Letta si è arreso dopo il voto di sfiducia della Direzione del Pd

Crisi in Argentina Intervista a Roberto Lavagna, ex ministro dell’economia argentino, che spiega perché il Paese sta vivendo una nuova fase di crisi economica anche se non è paragonabile a quella del 2001

Una voce in pericolo Centinaia di personalità romande si mobilitano per salvare «Le Temps», messo in vendita da Tamedia e Ringier

Testimonial insuperabili Più dei divi, gli animali sono i migliori ambasciatori di un prodotto – una storia lunga e consolidata pagina 28

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La Svizzera vista dagli italiani Votazione popolare del 9 febbraio Al di là delle polemiche e dei luoghi comuni attorno all’interpretazione

del voto, il quadro delle percezioni reciproche è più complesso e variegato Lucio Caracciolo Il clamoroso risultato della votazione popolare del 9 febbraio, con cui la Svizzera ha di fatto avviato una sorta di «guerra fredda» con l’Unione Europea e in particolare con i tre grandi Paesi vicini – Germania, Francia e Italia – da cui proviene gran parte degli immigrati, è stato accolto con costernazione dalla gran parte dell’opinione pubblica italiana. La vittoria di Blocher e la sconfitta dell’establishment svizzero – politico, industriale e finanziario – che si era cautamente opposto all’idea di contingentare i flussi di lavoratori stranieri, vanno visti anche nel contesto del deprecabile stato delle relazioni fra Italia e Svizzera, di cui il prolungato braccio di ferro sul negoziato fiscale è il fatto più evidente e pesante, certo non l’unico. Le recenti «battute umoristiche» del sindaco di Berna Alexander Tschäppät sulla (bassa) statura degli italiani e sulla loro (scarsa) propensione al lavoro, riportate con risalto dai media italiani, sono solo l’ultimo caso di una stagione nella quale gli stereotipi reciproci sull’«italiano inaffidabile» e sullo «svizzero parassita» sono tornati in evidenza. In particolare, nel modesto spazio che i media italiani hanno dedicato alla Svizzera – negoziato fiscale a parte - so-

no spiccate le polemiche sul «Muro di Berna», ossia sul trattamento ostile che toccherebbe agli emigrati italiani nella Confederazione, mentre sui media svizzeri non sono mancate, fra l’altro, le polemiche sul rischio di «invasione» straniera e sul dumping salariale che stranieri e frontalieri produrrebbero a danno della forza di lavoro autoctona. Polemiche che sono alla radice del voto che due ticinesi su tre hanno espresso a sostegno dell’iniziativa «contro l’immigrazione di massa». Naturalmente il quadro delle percezioni reciproche è più complesso e variegato. Vale la pena di consultare i dati forniti dalla Tv svizzera, che ha commissionato un’analisi su come nella Rete ci vediamo gli uni gli altri, condotta da Voices from the Blogs e da SpinOff (Università degli Studi di Milano). In sintesi, per quanto riguarda la Svizzera vista dall’Italia (148’205 commenti sui social network, tracciati fra il 1. giugno 2013 e l’8 gennaio 2014), il «sentimento» italiano verso la Svizzera appare relativamente buono: al netto dei neutri, i giudizi positivi superano quelli negativi (49,4% contro 26,3%), con un saldo del 23,1%. Molto interessante è il fortissimo iato fra questo dato nazionale e quelli relativi alla Lombardia (positivi 79,4%, negativi 13,4%) e a

Milano (positivi 76,3%, negativi 18,1%). Fra i fattori positivi più citati, il lavoro e lo stipendio, il rispetto delle regole e la qualità dei servizi e dei trasporti (per lombardi e milanesi anche la cucina), mentre criticati sono l’eccesso di organizzazione e la opacità del sistema bancario che favorisce la fuga di capitali italiani oltralpe. A lombardi e milanesi dispiace soprattutto il trattamento dei transfrontalieri. Per quanto riguarda l’Italia vista dalla Svizzera, i risultati sono meno favorevoli. Sui 137’280 commenti tracciati tra il 1. giugno 2013 e l’8 gennaio 2014, e divisi per lingua, abbiamo per quelli espressi in italiano un saldo negativo del 10,6% (42,7% positivi versus 53,3% negativi), per il francese un saldo positivo del 12,9% (53,8% positivi versus 40,9% negativi), e per il tedesco un saldo positivo del 7,6% (43,8% positivi versus 36,2% negativi). Anche qui, a fattori rovesciati, la Svizzera che parla italiano – non solo il Ticino, ma anche le grandi comunità italiane di Zurigo, Berna, Lucerna – vede l’Italia in modo molto diverso da quella che non parla italiano. Ma stavolta peggio. Ne esce confermata l’idea di due Paesi che si danno le spalle soprattutto lungo il crinale di frontiera. Si noti infine che agli svizzeri tedeschi piace l’Italia turistica,

agli svizzeri italiani e agli italo-svizzeri piace il sistema universitario (!), agli svizzeri tedeschi la cucina. A molti, in genere, dispiace il sistema politico, soprattutto per quanto riguarda corruzione e infiltrazioni mafiose. Il tema dei transfrontalieri contribuisce in maniera fondamentale a modulare i rapporti fra Ticino e Lombardia, ma in misura comunque notevole incide anche sulle relazioni complessive fra i due Paesi. I dati ci dicono che nel terzo trimestre del 2013 i frontalieri operanti in Svizzera erano complessivamente 277’356. Di questi 65’568 italiani, contro i 145’393 francesi e i 56’921 tedeschi. In prevalenza si tratta di lavoratori nel settore terziario (167’974). La massima concentrazione di transfrontalieri italiani riguarda ovviamente il Ticino, con 58’632 unità nel secondo trimestre 2013, con un aumento del 6,2% su base annua. In dieci anni i frontalieri sono aumentati dell’80%, effetto anche della crisi economica che colpisce l’Italia. Va inoltre considerato che in Ticino stanno aumentando anche i residenti stranieri, che rappresentano ormai il 26,7% della popolazione. Si tratta di persone provenienti da 153 Paesi diversi, in testa ovviamente gli italiani. Su 341’652 residenti in Ticino nel

2013, 53’120 sono italiani. Ne scaturiscono polemiche sulla Überfremdung che scatenano forti emozioni contrapposte sui due lati della frontiera, con gli italiani spesso accusati di «rubare» il lavoro ai ticinesi (e agli svizzeri in generale) e di generare dumping sociale – si accontentano di salari più bassi – mentre da parte italiana si denunciano episodi di xenofobia. Nel corso degli anni, inoltre, i capitali italiani esportati in Svizzera hanno raggiunto una cifra ragguardevole (160 miliardi di euro circa) e negli ultimi tempi sono aumentati anche gli italiani che hanno acquistato casa nella Confederazione, ciò che ha reso ancora più visibile e controversa la presenza italiana in Svizzera. È su questo sfondo che occorre considerare la battaglia politico-diplomatica in corso fra Svizzera e Italia, così come fra la Confederazione e gli altri Paesi comunitari. Certo, il governo svizzero ha tre anni per determinare le quote di immigrati, e quindi la possibilità di addolcire la pillola e di trattare con i vicini. Ma il clima in Europa non è certo favorevole al dialogo razionale. Per questo dobbiamo renderci conto che il 9 febbraio la campana non ha suonato solo per la Svizzera, ma per tutta l’Europa, Italia inclusa.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2014 • N. 08

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Politica e Economia

Il Pd «rottama» Letta Crisi di governo La Direzione nazionale del partito dà il via libera

Alfredo Venturi Imprimendo una brusca accelerazione alla sua marcia verso il potere, Matteo Renzi non ha esitato di fronte al rischio di offuscare la propria immagine e quella del Partito democratico di cui è segretario. Si è infatti piegato, lui che dichiarò guerra alla «casta», ai riti tradizionali della politica e ha reso evidente, costringendo Enrico Letta nell’angolo, la lacerazione che attraversa il Pd. Dopo avere a lungo dichiarato lealtà e sostegno per Letta, il sindaco di Firenze ha ceduto alle crescenti pressioni perché ne prendesse il posto. Pressioni diversamente motivate: da una parte chi lo vuole a Palazzo Chigi per imprimere una svolta innovatrice all’azione di governo, dall’altra chi manda la farfalla a bruciarsi le ali al fuoco del potere. L’uomo nuovo vada al governo, tocchi con mano che un conto è sparare propositi roboanti di rilancio, un altro mantenere questa effervescenza nella gestione di un Paese afflitto da un’endemica crisi economica e sociale, frenato da un’insopportabile pressione fiscale, da una burocrazia asfissiante, da una legislazione obsoleta. Si confronti con la diagnosi impietosa di Giovanni Giolitti: governare l’Italia non è impossibile, è inutile. Renzi è ben consapevole di tutto questo, infatti non mostrava nessuna fretta d’insediarsi alla presidenza. Lo ha sempre detto: sarò cristallino con Enrico Letta, lungi da me l’intenzione di sgambettare il compagno di partito. Letta vuole gestire il semestre di presidenza dell’Unione europea che scatta il prossimo luglio? Lo faccia, e intanto sbarazziamoci dell’indecente normativa elettorale, facciamo la nuova legge e poi andiamo a votare. Sarà a quel punto che il sindaco, incoronato da una sonante vittoria, s’insedierà alla guida del governo. In questo modo si è sempre espresso, ma accompagnando le parole amichevoli con una grandinata di critiche: così non si può andare avanti, il Paese ha bisogno di ben altro, è necessario che Letta si dia una mossa. Ha sempre escluso di aspirare al governo se non dopo un passaggio elettorale: se non altro perché proprio questo sarebbe un elemento di svolta dopo i due presidenti del consiglio, Monti e Letta, privi d’investitura popolare.

Poi gradualmente qualcosa è cambiato. Le pressioni si sono fatte insistenti e Renzi ha cominciato a cambiare registro. Nella nuova visione passa in secondo piano un’emergente contraddizione che gli darà filo da torcere: come può il «rottamatore» che vuole rinnovare gli schemi della politica accettare un’investitura di palazzo? Non rischia di esasperare ulteriormente l’opinione pubblica, di fare il gioco dei grillini e della loro antipolitica? Eppure l’evoluzione è proseguita, apparentemente inarrestabile. Lo stesso presidente della Repubblica, che ha lungamente sostenuto Letta e il suo governo, anche dopo che la defezione dei berlusconiani di Forza Italia ne aveva notevolmente ridotto il carattere di salute pubblica implicito nella formula delle larghe intese, si è arreso all’evidenza: se le cose stanno così, ebbene sia il Partito democratico a decidere. A questo punto Letta non aveva più scampo. Giorgio Napolitano ha mutato la sua strategia nel bel mezzo di una situazione a dir poco scomoda. Un anno fa il vecchio presidente che aspirava al meritato pensionamento venne praticamente costretto ad accettare un secondo mandato, con l’incarico di supplire alle manchevolezze di una classe politica incapace di governare il Paese. Oggi viene accusato, per avere promosso prima Monti poi Letta, di oltrepassare le prerogative costituzionali del capo dello Stato, risuona perfino l’accusa di golpismo. I grillini del Movimento cinque stelle chiedono addirittura che sia avviata una procedura d’impeachment per alto tradimento, ovviamente negata per manifesta inconsistenza delle motivazioni. Ma l’attacco più insidioso viene dal fronte berlusconiano: Napolitano non è più il mio presidente, titolano i giornali vicini al cavaliere di Arcore. Il «Corriere della Sera» pubblica alcune anticipazioni di un libro del giornalista americano Alan Friedman in cui si ricostruiscono i fatti del 2011, quando Monti successe a Berlusconi alla guida del governo. Friedman racconta che fin dall’estate, cioè alcuni mesi prima dell’avvicendamento, il presidente consultò Monti preparandone la nomina. Il centrodestra grida al complotto, accusa Napolitano di essersi prestato a una manovra internazionale (Commis-

sione europea, Bce, Fondo monetario) volta a defenestrare Berlusconi. In realtà tutti sapevano in quei mesi che l’Italia, afflitta da una disastrosa situazione economico-finanziaria e da evidenti carenze legislative, stava mettendo in crisi gli equilibri europei ben più della piccola Grecia. Era dunque necessario cambiare governo e ricorreva appunto il nome di Monti: a cavare le castagne dal fuoco ci penserà lui, il tecnico prestato alla politica. Ora ci si chiede come mai, se di golpe si trattava, il centrodestra votò la fiducia al governo Monti, e più tardi Berlusconi salutò calorosamente la rielezione di Napolitano. L’enfasi sulle presunte rivelazioni di Friedman viene interpretata come una manovra volta a mettere in difficoltà un presidente così ostinato nel difendere Letta dal subdolo assedio di Renzi. Quest’ultimo non perde occasione per infierire su un governo che ha, dice, le batterie scariche: il problema è se vadano cambiate o ricaricate. Il fatto è che proprio Letta annuncia di voler ricaricare le batterie. Volete che me ne vada? Prendetevi la responsabilità di sfiduciarmi. All’indomani di un infruttuoso incontro con il rivale si presenta in un’affollata sala stampa e con voce tesa annuncia il suo «Impegno Italia», un piano che prevede più di trenta miliardi di euro destinati a interventi per il lavoro e il rilancio dell’economia. È convinto che nessuno possa dire di no: infatti Renzi lo accetta come contributo d’idee subito dopo avere ringraziato Letta per il «notevole lavoro» svolto alla guida del governo. Chi è vicino al presidente del Consiglio si chiede: dov’è finita la diversità di Renzi? In che cosa il suo governo si differenzierà da Letta? In altre parole, con quale agenda il sindaco si appresta a guidare l’Italia? Finora si è limitato ad elencare alcune priorità, come la legislazione sul lavoro che ha battezzato jobs act, ma senza stilare un vero e proprio programma. I seguaci del sindaco indicano nel suo pirotecnico dinamismo la vera innovazione, promettono un’azione d’urto fin nei primi cento giorni, prospettano allargamento della maggioranza grazie ad apporti del partito Sel (Sinistra ecologia e libertà) e di alcuni transfughi a cinque stelle, stufi della gestione autoritaria di Beppe Grillo.

Keystone

all’avvicendamento a Palazzo Chigi di Matteo Renzi

Ma intanto, a proposito di dinamismo, la procedura di approvazione di quella legge elettorale che Renzi vanta come merito personale, e che effettivamente è scattata grazie alla sua intesa con Berlusconi dopo anni di continui rinvii, è stata sospesa. E Letta non manca di farlo notare. Il sindaco ne aveva caldeggiato l’adozione con accenti perentori e addirittura enfatici: se salta la legge elettorale, salta l’Italia! Ma poi la crisi è precipitata e la nuova norma sul voto è ferma al palo. Qualcuno fa notare che in fondo Renzi non ne ha più urgente bisogno, visto che arriva a Palazzo Chigi, esattamente come i due predecessori, senza bisogno di scomodare gli elettori. Altri s’interrogano sul prezzo che dovrà eventualmente pagare, per essersi assicurato l’appoggio di Berlusconi. Quest’ultimo ha già ottenuto dall’intesa un dividendo d’incalcolabile valore: il ritorno al centro della scena politica nonostante la recente condanna, i processi in corso e l’imminente destinazione ai servizi sociali. Con il fiuto politico che lo contraddistingue, Berlusconi è pronto a trarre il massimo profitto dall’avvento di Renzi. Forza Italia tuona contro i «giochi di palazzo», eppure il cavaliere di Arcore non ha mai nascosto la sua simpatia per l’arrembante sindaco di Firenze: mi piace perché mi assomiglia, è solito dire con la consueta autostima. È inoltre convinto

che una volta insediatosi alla presidenza si scontrerà con tali ostacoli da preparare la strada alla riscossa del centrodestra. Nel frattempo confida che i buoni rapporti con Palazzo Chigi gli permetteranno, pur rimanendo all’opposizione, di non temere insidie per il suo impero mediatico, per esempio in materia di legislazione sui diritti televisivi. Naturalmente il fatto che Renzi piaccia tanto a Berlusconi non manca di allarmare gli strati più tradizionalisti dell’elettorato di centrosinistra, preoccupati da un Pd che il segretario sembra voler trasformare in una sorta di Democrazia cristiana post litteram. Questo timore fa da sfondo al ritorno della maledizione che incombe da sempre sulle sorti del maggior partito della sinistra italiana: le lotte fratricide al vertice. Gli esempi si sprecano, l’ultimo nel 1998, quando fu Massimo D’Alema a impallinare Romano Prodi: la vicenda Renzi-Letta sembra ricalcare proprio quel precedente. Con una differenza che attiene alle due diverse radici del partito: allora l’ex comunista fece fuori l’ex democristiano, stavolta il cortocircuito è fra due ex democristiani. Una situazione davvero penosa per il cuore rosso del partito. Ha successo in rete l’amara battuta di un militante deluso: Antonio Gramsci con chi sarebbe schierato? Con Letta o con Renzi?

Marcia su Islamabad Belucistan Una ventina di famiglie hanno percorso oltre 700 chilometri per denunciare i parenti separatisti

scomparsi e ricordare al mondo che nella tormentata provincia pakistana è in atto un genocidio

Chakar aveva dieci anni appena, un sorriso timido e gli occhi ridenti. L’ultima volta che l’hanno visto era al bazaar di Turbat. A comprare dolci o caramelle, forse a giocare con gli amici. Il suo corpicino straziato è stato ritrovato qualche giorno dopo ai bordi di una strada, una delle tante ormai costellate in Belucistan sempre più spesso di cadaveri invece che di piante o fiori. Quattro colpi, alla testa e al petto, sparati a bruciapelo. Un atto di pietà, infine, e chissà dopo quanto tempo, da parte dei suoi coraggiosi assassini. Che devono certo andare particolarmente fieri di avere torturato e ucciso un bambino colpevole soltanto di avere un fratello maggiore attivo nella campagna dei separatisti beluci. Aveva dieci anni a stento, Chakar, e poteva essere il figlio di ciascuno di noi. Ma era figlio di una famiglia di attivisti politici in cui alcuni sono morti, altri sono sopravvissuti per miracolo, altri ancora sono scomparsi senza lasciare traccia. Circa diciottomila persone, nella travagliata provincia pakistana, si sono let-

teralmente volatilizzate nel corso di pochi anni: e altre seimila sono scomparse dopo essere state arrestate. Nessuno è al sicuro, nessuna famiglia può mai dirsi certa di veder tornare a casa da scuola o dal lavoro tutti i propri componenti. Il governo pakistano, periodicamente, forma Commissioni di inchiesta, i tribunali si danno un gran da fare a comandare indagini e richiedere risposte, ma tutto viene insabbiato dopo pochi giorni. Così, i beluci si sono messi a camminare. Si sono messi a camminare come le madri della plaza de Mayo, a camminare per chiedere risposte. A camminare perché nessuno dimentichi, a camminare per ricordare al governo pakistano e al resto del mondo che nel Paese è in atto un genocidio e che quel genocidio viene passato sotto silenzio. Che i figli e i fratelli e i padri del Belucistan vengono uccisi due volte: la prima dalle pallottole, la seconda dal silenzio. Camminano da mesi, ormai, sfidando la pioggia, il freddo, il sole o il vento. Sono partiti da Quetta per arrivare a Karachi e, dopo meno di un mese di riposo, sono ripartiti da Karachi per raggiungere Islamabad. Una ventina

di famiglie, donne, uomini, bambini e vecchi. Famiglie che cercano da anni di avere notizie dei loro cari, invano. A guidare la marcia un ultrasettantenne, Mama Qadeer Baloch. Accompagnato per lunghi tratti da un altro ultrasettantenne, il giornalista Mir Mohammad Ali Talpur: minacciato e aggredito diverse volte per aver scritto e parlato in

AFP

Francesca Marino

favore dei beluci. Man mano che i dimostranti si avvicinano alla provincia del Punjab, la provincia dominante in cui si trova la capitale Islamabad, sono cominciate, denunciate dalla Asian Human Rights Commission, le minacce: l’Isi, la famigerata agenzia di intelligence pakistana, ha mandato a dire che non gradisce affatto l’arrivo dei beluci a Islamabad e ha minacciato Qadeer e i suoi di «serie conseguenze». Inutile dire che la marcia non si è fermata affatto. Nonostante le minacce, nonostante la coltre di silenzio stesa sulla protesta dalla stampa locale. Nonostante tutto. Le voci filtrano, le notizie arrivano comunque. Come l’uso, da parte dell’esercito pakistano, di gas letali sulla popolazione nel distretto di Panjgur. Uomini, vecchi, donne e bambini, come al solito. Niente medici, niente acqua potabile, le linee telefoniche e l’elettricità tagliate: il fiero esercito pakistano combatte così i cittadini inermi del proprio Paese, mentre il governo offre invece ponti d’oro e colloqui di pace ai talebani che rispondono bombardando ormai ogni settimana un cinema, un

luogo di culto o un mercato. E nel silenzio sempre più assordante della politica e delle istituzioni nazionali e internazionali, il mese scorso sono state scoperte in Belucistan tre tombe di massa da cui sono stati recuperati centotré corpi irriconoscibili. Chissà se qualcuno di loro era il figlio, il fratello, il padre o il marito di quelli che continuano a marciare verso Islamabad. Chissà se i coraggiosi cittadini di un Paese che cerca di soffocare le loro voci riusciranno a essere uditi. Chissà se qualcuno deciderà di sostenere la loro lotta. Lotta impari, sostengono i più, e forse hanno ragione. Ma c’è una grandezza, una grandezza che merita rispetto, nel cercare giustizia con una protesta pacifica e democratica. Pur sapendo che è inutile, che non cambierà nulla. C’è una grandezza nel ribadire le proprie idee e la propria fiducia nella giustizia, nella lotta per i diritti di tutti. Senza quella caparbietà, quel sogno, quella grandezza e quella convinzione disperata, un piccolo uomo di nome Mohandas Gandhi sarebbe rimasto, probabilmente, a fare l’avvocato in Sud Africa.



Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2014 • N. 08

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Politica e Economia

Non c’è rischio default Intervista Roberto Lavagna, l’ex ministro dell’Economia che ha

Angela Nocioni Riserve di denaro agli sgoccioli in Argentina. Nelle casse di Buenos Aires mancano i dollari, ma anche i pesos. «Ma non siamo alla vigilia di un nuovo default» spiega Roberto Lavagna, l’uomo che traghettò l’Argentina fuori dalla drammatica crisi esplosa nel Natale del 2001. Lavagna, figlio di immigrati italiani, con i suoi 71 anni portati splendidamente, è il principale economista argentino. Fu lui a governare l’emergenza quando il Paese stava rotolando nel baratro che lo portò al default. Nominato ministro dell’economia subito dopo il tracollo di Buenos Aires nel 2002 – con il Pil precipitato del 20%, grandi fughe di capitali, i conti correnti congelati dalle banche e buona parte della classe media finita a rovistare nei cassonetti della spazzatura – riuscì a risollevare le sorti di un Paese dato ormai per spacciato, applicando ricette economiche finalizzate innanzitutto a restituire potere d’acquisto alla popolazione. Fu il superministro economico prima con la presidenza Eduardo Duhalde (2002-2003) e poi con la presidenza di Nestor Kirchner (2003-2005) con cui ruppe perché non ebbe dal presidente la concessione dell’autonomia che voleva nelle decisioni di lungo periodo. Ha lavorato spesso con peronisti di diverse correnti, ma si differenzia molto dalla maggior parte di loro per cultura e formazione. È considerato un sostenitore del modello neokeynesiano («ma con molti correttivi e sempre adattandolo al corpo economico che si ha davanti» raccomanda) ed è un appassionato difensore dell’intervento dello Stato nell’economia. Feroce nella critica alla gestione

dell’economia dei governi di Cristina Kirchner – contro cui corse alle presidenziali nel 2007 piazzandosi al terzo posto con il 16% e a cui rimprovera di esercitare il potere «con le favole invece che con azioni precise di governo» – è convinto che l’Argentina abbia problemi serissimi, ma che sia insensato parlare del ritorno della crisi del 2001. «La crisi del 2001 è solo paragonabile a quella del 1890, come ricordano tutti gli storici dell’economia. Siamo ridotti male, ma non male come allora» dice. La realtà – predicava già mesi prima che Cristina Kirchner decidesse di rendere leggermente flessibile il cambio del dollaro (cosa ben diversa dal lasciarlo fluttuare liberamente, infatti continua ad esistere un ricco mercato parallelo di valuta tanto che ancora il dollaro al nero vale il doppio che al cambio ufficiale) – è che da anni esiste una svalutazione mascherata a Buenos Aires. Ossia il dollaro ha un cambio fissato con il peso, ma poiché quel valore è irreale, il mercato nero di valuta gode di ottima salute, l’inflazione aumenta e la moneta nazionale è svalutata di fatto perché tutta la merce e i servizi di importazione sono pagati in dollari. Si finisce cioè per importare un’inflazione in dollari e spingere così ancor più l’economia verso l’avvitamento dei prezzi. Di Lavagna sono noti gli strali contro la politica governativa tutta tesa a minimizzare l’impatto dell’inflazione sulla vita degli argentini. «Si può vivere nell’irrealtà, però le conseguenze poi le pagano i cittadini» rimprovera alla Kirchner furibondo soprattutto per la cieca ostinazione, mantenuta dalla presidente per anni, di negare i reali livelli di inflazione che fluttuano attorno al 30% e ogni tanto sfiorano il 40%. Così Lavagna spiega ad «Azione» come l’inflazione corro-

da il portafogli degli argentini: «Oggi chiunque abbia in mano una banconota sa che deve disfarsene rapidamente perché quel pezzo di carta perde ogni mese almeno il 2% del suo valore. Nessuno prende sul serio il valore del dollaro ufficiale, quello che cambiano le banche a cambio fisso e tutti hanno come punto di riferimento il valore del dollaro al mercato nero. Stiamo al settimo anno consecutivo di crescita dell’inflazione. Le riserve di valuta che pochi anni fa superavano i 40 miliardi di dollari, sono precipitate ed ora sono sotto i 28 miliardi nonostante le forti restrizioni governative alle importazioni, alle rimesse all’estero e le tasse su chi cambia pesos in dollari per viaggiare all’estero». La situazione che dipinge non è rosea: «Ci sono disequilibri macroeconomici molto forti. C’è deficit ed è finanziato con l’emissione di moneta. Ci sono bassi investimenti e poca creazione di lavoro». C’è un rischio di default? Chiediamo. «Lo escludo, al momento – risponde Lavagna – perché dopo la ristrutturazione del debito fatta nel 2005 e altre misure prese nel 2010, l’Argentina ha un livello di debito, rispetto al prodotto interno lordo, intorno al 40%. È uno dei più bassi del mondo. E va aggiunto che il 20% di questo debito è nelle mani di fondi pensione pubblici e altri enti pubblici locali. Per questo il tema del debito, e conseguentemente del default, non è un’urgenza». Ma che cosa è successo? Perché si è passati dalla «rinascita di Buenos Aires» del dopo crisi ad una nuova emergenza economica? «Il giro di boa arriva nel 2006, nel dicembre del 2005 i conti prevedevano un margine molto buono che consentiva al governo di manovrare l’economia con

La ricetta di Roberto Lavagna Peronista, ma con formazione liberale. Quando gli si chiede dove trovò la bacchetta magica che salvò dalla fame l’Argentina nei primi mesi del 2002, quando tutto il mondo la dava per spacciata, risponde orgoglioso: «Per governare serve il coraggio intellettuale di compiere scelte politiche autonome e di perseguirle. Vi ricordate i versi «due cammini si separavano nel bosco, io ho preso il meno transitato e lì sta tutta la differenza»? Eravamo un Paese in balia del disastro economico e sociale, noi al governo prendemmo il cammino meno transitato e quella fu la differenza che ci salvò». Roberto Lavagna, settantun anni, figlio di un tipografo di origini italiane, fu nominato ministro dell’economia in Argentina dal presidente ad interim Eduardo Duhalde nel marzo del 2002, nel bel mezzo del disastro. In tre mesi erano cambiati cinque presidenti, nelle piazze affamate in rivolta la polizia an-

tisommossa aveva lasciato venti cadaveri, davanti alle porte delle banche protette da cancelli di ferro alte due metri migliaia di argentini infuriati chiedevano la restituzione dei soldi depositati nei conti correnti e bloccati dalla sera alla mattina. Bancomat vuoti, niente contante, nella capitale australe d’America era tornato il baratto. Lavagna rimase all’economia fino al maggio del 2005. In quel periodo il Pil aumentò dell’8%. Fu lui a decidere l’abolizione della parità tra dollaro e moneta nazionale, a scongelare i conti correnti bancari, a cominciare a far respirare il Paese. Rappresentò l’Argentina di fronte agli organismi internazionali, mediò a lungo anche con l’Unione europea. L’operazione che tutto il mondo gli riconosce è la ristrutturazione del debito argentino, grossa gatta da pelare. Ma rimanere in sella al Ministero dell’economia in un Paese in rivolta, con le mense scolastiche di Buenos Ai-

res piene di bambini digiuni e le piazze gonfie di gente che gridava que se vayan todos, (andatevene tutti), non fu la missione più semplice. Si dimise dal governo alla fine del 2005, dopo un lungo braccio di ferro con l’allora presidente Nestor Kirchner sulla gestione della Banca centrale. Fu sostituito da una sua ex alunna, Felicia Micheli, travolta dallo scandalo del Toilet gate, una valigia piena di dollari nascosta in un bagno e apparentemente a lei destinata. Roberto Lavagna alle elezioni presidenziali del 2007 si presentò in alternativa a Cristina Kirchner, arrivò terzo con poco più del 16% dei voti. Nel suo libro Pensando un paìs si legge un racconto dettagliato della gestione politica della crisi economica argentina e delle strade tentate per salvarla. «Il rischio, quando si scommette su ricette eterodosse, è di cadere in un volontarismo populista irresponsabile» dice Lavagna.

Keystone

strappato l’Argentina dalla crisi del 2001, spiega perché il Paese oggi vive una nuova emergenza

agio. Oggi l’Argentina ha un’economia i cui unici margini di manovra vengono dallo straordinario prezzo internazionale delle materie prime che esportiamo. Nel dicembre del 2005 il prezzo della soia oscillava tra i 210 e i 230 dollari alla tonnellata. Dal 2007 è cresciuto di cinque volte». Ciò nonostante i soldi in cassa non bastano. «Un solo dato basta a farsi un’idea della situazione alla quale siamo arrivati» dice Lavagna. «Nel 2005 il totale dei sussidi governativi alle varie bollette di consumo e ai trasporti era di 614 milioni di euro. Sei anni dopo era di 13,3 miliardi. Si sono moltiplicati per 22. Non c’è bisogno di aver studiato economia per sapere che se si moltiplicano per 22 le proprie uscite, senza moltiplicare per 22 le entrate, è probabile che la cassa finisca per piangere». Eppure negli ultimi dieci anni dopo la crisi i dati governativi danno la crescita dell’economia all’8%. «Attenzione alle inesattezze nei conti governativi – raccomanda Lavagna – innanzitutto c’è un primo periodo, dal maggio del 2002 alla fine del 2006, in cui il tasso di crescita reale era del 9%. Poi, tra il 2007 e il 2008, i tassi non superarono mai il 6%. Nel 2009, come conseguenza della crisi internazionale, il Prodotto interno lordo reale e non quello dichiarato dal governo, cadde di 3 punti e mezzo. Poi c’è stata una piccola ripresa, ma non formidabile. Certo, facendo la media dei valori partendo dal 2002 le percentuali confondono i non esperti. Ma non si possono mettere insieme le pere e le mele e poi fare finta che siano la stessa cosa. Si tratta di due periodi di governo con politiche economiche completamente diverse. La verità è che ci fu un periodo di crescita alta, con stabilità di prezzi. Adesso c’è una crescita più bassa e molto volatile. «Però l’anno scorso ha pagato l’ultima quota del Boden 12, l’ultima rata dei soldi dovuti a chi nel 2001 aveva un conto in banca in dollari e se lo vide confiscare e poi tradurre in pesos» obiettiamo. Lavagna risponde che «non c’è nulla da festeggiare perché si tratta di una

semplice e dovuta operazione di rimborso crediti. In questo caso si tratta di un buono che emettemmo nel 2002 con opzione volontaria per liberare fondi bancari congelati quando finì la convertibilità, ossia il cambio fisso uno a uno tra peso e dollaro. Fu emesso durante il governo di Eduardo Duhalde e infastidì molto il Fondo monetario internazionale che voleva invece farci emettere un altro tipo di buono in grado di far chiudere alle banche le vertenze con i singoli risparmiatori però facendo ricadere i costi sul governo e, quindi, su tutta la società». Non si sbilancia nel giudizio sulla espropriazione della quota di Ypf, la compagnia petrolifera argentina, che fino al 2012 era nelle mani della multinazionale spagnola Repsol. Ma sembra vedere uova marce sia nel paniere degli espropriatori che in quello degli espropriati. «È un’espropriazione causata da tre fattori. Innanzitutto, la Repsol era una impresa che difettava di capitale e di tecnologia quando entrò in Ypf. Secondo, quando il governo argentino decise di fare entrare un gruppo locale (la società Patersen, della famiglia Eskenazi) fece entrare un gruppo senza capitale e senza tecnologia. E terzo punto, questa sì una colpa tutta da attribuire al governo, la politica energetica degli ultimi otto anni è completamente sbagliata. L’anno scorso il Paese ha dovuto importare combustibile per 14 miliardi di dollari. La cattiva qualità della politica energetica argentina è rimasta invariata tra il prima e il dopo l’espropriazione. Quello che è cambiato, e mostruosamente, è la spesa: 3 miliardi di dollari l’anno scorso, 12 miliardi di dollari quest’anno». Lavagna rimprovera però alla Repsol, e ai dirigenti del governo argentino che chiusero tutte e due gli occhi di fronte all’errore spagnolo, di essersi preoccupata di distribuire gli utili e non di investire nella produzione. «La distribuzione dei dividendi era superiore all’80%, in alcuni anni fu superiore al 120% degli utili. E nel frattempo la produzione precipitava. Repsol non investiva. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2014 • N. 08

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Politica e Economia

Un giornale in bilico

Ministri cantonali e indennità scivolose

Le Temps Nato nel 1998 dalla fusione di tre testate,

si è affermato come quotidiano di riferimento in Romandia. Ringier e Tamedia però intendono venderlo

Etica politica Il caso del consigliere di Stato

Carlo Conti, che non ha riversato alle casse cantonali i suoi onorari di consulente, ha fatto scalpore. Ora i cantoni si chiedono come trovare una soluzione, possibilmente uniforme, a queste problematiche

Keystone

Ignazio Bonoli

Marzio Rigonalli Sono già più di 300 le personalità romande scese in campo per difendere il quotidiano «Le Temps», messo in vendita dai suoi due azionisti di maggioranza, i gruppi editoriali «Ringier» e «Tamedia». L’iniziativa ha preso avvio a metà gennaio con un appello lanciato da un gruppo ristretto di persone, con in prima fila l’ex consigliere di Stato ginevrino Olivier Vodoz e l’ex segretario di Stato Charles Kleiber, gruppo e che si è autodefinito «Cercle des Amis du Temps». I firmatari dell’appello definiscono «Le Temps» uno strumento indispensabile per l’analisi del territorio romando e che dà una visione originale dell’attualità politica, economica e culturale, sia regionale che nazionale ed internazionale. Si dichiarano pronti ad impegnarsi per garantire un futuro a questo quotidiano, nel segno della continuità, se necessario anche cercando di convincere potenziali investitori a mettere a disposizione i soldi necessari. In pochi giorni, il numero delle persone che hanno aderito al «Cercle des Amis du Temps» si è ampliato e continua a crescere. Trattasi di politici e di rappresentanti della società civile, operanti in svariati settori, come l’economia, la cultura e il giornalismo, provenienti in buona parte dai due principali cantoni romandi, Ginevra e Vaud, ma anche da altre regioni svizzere e dall’estero.

Oltre 300 personalità di ogni settore della società romanda sono scese in campo per difendere il quotidiano La decisione di vendere il quotidiano ginevrino è stata presa da Ringier e Tamedia l’8 ottobre 2013. I due gruppi editoriali, che hanno la loro sede principale a Zurigo, detengono ciascuno il 46,2% della proprietà, le altre parti minori sono in possesso del quotidiano «Le Monde» (2,1%), del banchiere Claude Demole e del personale che è attivo nell’azienda. Nel comunicato diffuso il giorno dell’annuncio della vendita, «Ringier» e «Tamedia» hanno espresso la volontà di trovare un acquirente credibile, capace di garantire lo sviluppo e la continuità del quotidiano. Ed hanno aggiunto che in assenza di un’offerta convincente, ciascuno dei due gruppi valuterà la possibilità di comprare la parte detenuta dall’altro e,

quindi, di diventare unico azionista di maggioranza. «Le Temps» (nome scelto dai lettori, vedi foto, ndr) è nato nel 1998, dalla fusione di tre quotidiani: «Le Journal de Genève», «La Gazette de Lausanne» e «Le Nouveau Quotidien», tutti e tre alle prese con grossi problemi finanziari ed incapaci di affrontare e vincere le sfide che poneva il mercato. Ha quindi soltanto 16 anni di vita e poca storia alle spalle. In poco tempo, però, ha acquisito una buona notorietà e si è imposto come quotidiano di riferimento della Svizzera romanda, nonché buon ambasciatore nelle altre regioni della Svizzera e all’estero. Difende una certa indipendenza e offre spesso articoli di qualità, rigorosi e frutto di approfondite inchieste. Per questo, vien considerato una piattaforma importante, che dà validi contributi al dibattito politico e sociale, e che costituisce anche una buona palestra per le giovani leve del giornalismo. È riuscito ad allacciare collaborazioni internazionali con testate di prestigio, come il «New York Times» negli Stati Uniti, «Le Monde» in Francia e «Le Soir» in Belgio. Si rivolge ad un pubblico esigente che cerca spunti di riflessione e risposte ai problemi ed alle situazioni conflittuali sparsi nel mondo e, quindi, stenta ad aumentare la sua tiratura. Le copie stampate quotidianamente sono circa 40 mila. La questione della proprietà è importante non soltanto ai fini del futuro del quotidiano, ma anche perché si inserisce in un contesto mediatico, quello romando, relativamente piccolo, poco diversificato e dove i principali quotidiani sono nelle mani di un unico editore, «Tamedia». Il gruppo editoriale zurighese possiede «24 Heures», «Le Matin», «Le Matin Dimanche», «La Tribune de Genève» e «20 minutes», l’unico foglio gratuito della Svizzera romanda. Il gruppo vanta quindi una posizione di forza sul mercato nei due principali cantoni romandi, Vaud e Ginevra, e può condizionarne l’evoluzione. Nel marzo dello scorso anno, il gruppo ha annunciato un piano di risparmio di 34 milioni di franchi, di cui 18 milioni nella stampa romanda. I giornali di un certo rilievo che sfuggono al controllo di «Tamedia» sono «La Liberté» di Friburgo, «L’Express/L’Impartial» di Neuchâtel, «Le Nouvelliste» nel Vallese, «Le Quotidien jurassien» e «Le Courrier» di Ginevra. I timori di un’ulteriore concentrazione di proprietà, per esempio con la ripresa del quotidiano ginevrino da parte di «Tamedia», o il timore dell’arrivo di un

editore con una precisa finalità politico-mediatica, sono concreti. Si teme di dover assistere ad una profonda modifica della linea editoriale di «Le Temps», nonché al licenziamento od alla fuga di una parte dei giornalisti del quotidiano. Sono paure ed inquietudini di cui si sono fatti portavoce anche i governi cantonali vodese e ginevrino, con prese di posizione pubbliche, nonché Impressum, il principale sindacato dei giornalisti della stampa scritta. Chi sono gli interessati all’acquisto di «Le Temps»? I due principali azionisti mantengono il massimo riserbo e, quindi, le notizie in merito sono frammentarie. Si parla di una dozzina di interessati e di questi sono stati fatti alcuni nomi. Per esempio, il gruppo NZZ, il terzo grande gruppo editoriale svizzero; il duo Tettamanti-Blocher con la MedienVielfalt Holding AG, che edita la «Basler Zeitung»; il gruppo francese Hersant; l’Agefi SA, che pubblica il quotidiano economico con lo stesso nome, Jean-Claude Biver, patron di Hublot, e la direzione del quotidiano ginevrino in vendita. Almeno due di questi candidati hanno già rinunciato: il gruppo NZZ, perché privilegia l’area germanofona e non ha l’intenzione di espandersi sul mercato romando e l’Agefi SA, perché ritiene troppo alta la somma richiesta dai due principali azionisti. Altri interessati sono già stati eliminati, perché non offrirebbero le garanzie richieste. La decisione finale dovrebbe arrivare nella prima metà dell’anno, forse già entro la fine del primo trimestre. Il futuro nuovo azionista di maggioranza dovrà far fronte ad una grande sfida: garantire la continuità delle caratteristiche del quotidiano ginevrino e nello stesso tempo procedere a quei cambiamenti strutturali che impone il mercato, dove la concorrenza si fa sempre più forte e gli introiti pubblicitari diminuiscono. Cambiamenti che devono prendere in considerazione il ruolo crescente di internet e l’utilità di sinergie con altre testate simili. «Le Temps» costituisce un punto forte della stampa romanda, un utile strumento per analizzare e comprendere la realtà svizzera, vista da Ginevra, e anche la realtà europea, considerata l’attenzione che la testata dedica alle faccende ed al divenire del vecchio continente. La perdita della sua identità si tradurrebbe in un impoverimento dell’offerta mediatica romanda e sottrarrebbe ai lettori un prezioso mezzo per orientarsi e per capire il groviglio di interessi e le tendenze che caratterizzano il mondo di oggi.

Le dimissioni del consigliere di Stato di Basilea-Città, Carlo Conti (medico e uomo politico di notevole statura, presidente della Conferenza dei direttori cantonali della sanità), hanno destato parecchia sorpresa e non solo negli ambienti politici. Conti ha tratto le conseguenze estreme di un atto della cui portata non si era reso conto: non riversare allo Stato indennità ricevute quale rappresentante del Cantone in vari gremi politici o amministrativi. Nel frattempo le indennità sono state riversate ma, a quanto sembra, si tratta di un’abitudine molto diffusa e in qualche caso non ben definita o non regolamentata del tutto. Il gesto di Conti è apparso quindi come un gesto di rottura non solo a livello cantonale, ma anche sul piano nazionale. A quanto sembra, il semicantone di Basilea-Campagna stava conducendo un’indagine su situazioni analoghe, per cui Conti ha voluto esaminare da vicino la sua posizione, di propria iniziativa. Per finire, in generale, si è apprezzato il gesto di onestà e correttezza e ci si aspetta che molti altri seguano il suo esempio. In sostanza, Conti ha contribuito a risvegliare nuove sensibilità, ma sono parecchi i casi di comportamenti analoghi in altri cantoni. A Basilea-Campagna è stato il controllo delle finanze che ha scoperto che l’ex-direttore delle finanze cantonali aveva trattenuto per sé cifre che avrebbe dovuto girare alla cassa cantonale. Sei mesi prima al direttore delle finanze del canton Soletta è stato rimproverato di aver trattenuto gli emolumenti versatigli dal Consiglio di amministrazione di Alpiq e di aver riversato soltanto quanto previsto dalla legge. Il suo comportamento è stato corretto, ma oggi gli si rimprovera mancanza di sensibilità. A seguito di alcuni di questi casi, molti cantoni hanno inasprito le disposizioni concernenti questi particolari aspetti. Già oggi, nella maggior parte dei cantoni, gli emolumenti previsti dalla partecipazione di un consigliere di Stato ai consigli di amministrazione di aziende in cui lo Stato ha un interesse, vengono versati direttamente allo Stato. Oggi tutti promettono di controllare le singole situazioni soprattutto laddove la legge consente la trattenuta di parte degli emolumenti. Diventa però talvolta difficile distinguere tra gettoni di presenza – che di regola spettano al consigliere di Stato – e gli onorari, che invece spetterebbero allo Stato. Fino a pochi anni fa si trattava generalmente di pochi soldi. Oggi le rimunerazioni sono aumentate, ma sono aumentate anche le responsabilità dei membri dei Consigli. Situazioni come quella del canton Basilea-Campagna

Carlo Conti annuncia le dimissioni. (Keystone)

sono però estreme. Il rappresentante nel CdA di Alpiq avrebbe potuto trattenere nel 2012 107’050 franchi, corrispondenti al 38% della rimunerazione totale. Ora molti cantoni passano all’estremo opposto, facendo riversare nelle loro casse il totale delle rimunerazioni. Il concetto è di per sé ineccepibile, dal momento che i consiglieri di Stato sono impiegati a tempo pieno, hanno generalmente un buono stipendio e godono anche di altre indennità. D’altro canto le responsabilità di un consigliere d’amministrazione non si limitano alla rappresentanza del Cantone. Vi sono casi in cui la sua partecipazione travalica l’aspetto cantonale e talvolta anche nazionale. Una particolare indennità è in questo caso giustificata, come lo è in caso di supplemento di lavoro. Ma anche qui è difficile distinguere chiaramente i ruoli. Alcuni cantoni non si pongono il problema e vietano ai loro governanti di entrare in consigli d’amministrazione, anche di aziende dello Stato. A volte si invoca anche un principio di incompatibilità, ma spesso si dimentica anche il caso di opportunità, a vantaggio dell’azienda stessa. Quando però si tratta di somme elevate, ovviamente collegate con l’importanza economica dell’azienda e quindi anche dell’elevato grado di responsabilità del membro del CdA, l’idea di separare nettamente la funzione di proprietario da quella di «cliente» dell’azienda appare sempre più opportuna. Una separazione che si giustifica sempre più oggi che i rapporti fra cantone e i suoi servizi vengono regolati sulla base di mandati. È evidente però che in questo caso il governo debba avere una sua strategia che dica chiaramente che cosa chiede alla sua azienda. Il consiglio d’amministrazione deve poi porsi gli obiettivi che corrispondono a questa strategia. In teoria la cosa è semplice, nella realtà è un po’ più complicata. Spesso perché lo Stato non è in grado di definire la strategia, per cui la collaborazione con l’azienda è più che mai necessaria. Molto dipende però dal caso concreto: la gestione di un ospedale è molto diversa, per esempio, da quella di un parcheggio a partecipazione statale. In Svizzera però vi sono ancora alcuni cantoni che non occupano i consiglieri di Stato a tempo pieno. A questa domanda l’esperto professor Kuno Schedler di San Gallo risponde che ognuno deve trovare le soluzioni che gli convengono, non dimenticando però l’aumentata sensibilità del pubblico verso questi problemi. Per questo il consigliere di Stato vallesano Jean-Michel Cina, attuale presidente della Conferenza dei Cantoni, conclude che, tenuto conto delle particolarità dei singoli cantoni, un chiarimento e un coordinamento sono necessari.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2014 • N. 08

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Politica e Economia

Io Tarzan, tu Jane, lei Cita Dietro il marchio Uomo, donna, famiglia… compresi gli animali domestici e non, sono protagonisti del cinema

e della pubblicità. Gli animali sono attori indiscussi di tante storie di prodotti famosi Mirko Nesurini Il trailer del film Torna a casa Lessie (1943), dopo avere mostrato una serie di libri in un ambiente domestico, sul finale presenta un concetto oggi consolidato: un buon libro, fa un buon film. Il libro di Eric Oswald Knight (Lessie Come Home, del 1940) ispirò gli autori del film e successivamente della famosa serie TV che andò avanti fino agli anni ’90. Dal film alla pubblicità. In questi ultimi mesi un bracco dispensa consigli per risparmiare sulle polizze assicurative (segugio.it). In passato un labrador è diventato una razza popolarissima grazie allo spot Scottex dove si paragona la morbidezza della carta a quella del pelo del cucciolo. La pubblicità, lo sappiamo, è una disciplina ingorda. Per gli spot, non si è limitata a reclutare il migliore amico dell’uomo. Alessandro del Piero, prima di trasferirsi in Australia a giocare a calcio, ha duettato per anni con un passero. Chi ha buona memoria ricorda il cavallo bianco della Vidal per pubblicizzare il bagnoschiuma Pino Silvestre, divenne un mito, una sorta di «Furia cavallo del West», in salsa nostrana. Nel 1993, la Coca-Cola entra nel mondo della produzione degli spot pubblicitari animati con un orso polare che si gusta il pro-

Il «gorilla del Crodino» in una scena dello spot pubblicitario.

dotto mentre guarda l’aurora boreale. Dagli anni ’80 Coccolino usa un orsacchiotto di peluche per fare emergere il messaggio di morbidezza. Gli esempi sono moltissimi: I delfini delle caramelAnnuncio pubblicitario

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le Dufur, le pantere di Breil, la famosa tigre di Esso (Metti un tigre nel motore), lo scimpanzé di Seat Pagine Bianche, la Mucca Milka, il cammello delle sigarette Camel, l’aquila del Fernet Branca. Ultimamente, gli animali hanno iniziato a fare gli umani. Lo avete visto il Gorilla-burino del Crodino? Vodafone ha aperto una serie di messaggi pubblicitari televisivi di successo con Bruno (l’orso), Pino (il pinguino) e Monica (la foca). Non c’è genere di prodotto che non abbia attinto agli animali per la comunicazione, anche la moda, partendo dal famoso tigrotto di Cartier fino al Gufo della Mulberry e ai gatti neri di Lavin Paris. Il mondo animale è stato tirato in ballo anche per stupire. Fece scalpore la campagna pubblicitaria della International Fund for Animal Welfare con Marina Ripa di Meana senza veli sui cartelloni stradali, che sentenziava: L’unica pelliccia che non mi vergogno di indossare. La fotografia non lasciava dubbi circa il tipo di pelliccia indossata laggiù dalla Signora nuda. La storia degli animali in pubblicità è quindi lunga e consolidata. Parte dal brutto anatroccolo Calimero passa per l’ippopotamo blu della Lines ed arriva ai giorni nostri. L’animale in pubblicità è un testimonial che non ti tradisce. Con un animale, vero, in forma di cartoon o in 3d, non rischi i guai occorsi alla Accenture (e molti altri) con Tiger (tigre) Woods

Offriamo – Salario attrattivo e prestazioni sociali all’avanguardia; – Ambiente di lavoro aperto e dinamico. Saranno prese in considerazione unicamente le candidature con i requisiti corrispondenti al profilo indicato. Le persone interessate possono inviare la loro candidatura, corredata da un curriculum vitae e da fotocopie dei certificati d’uso a: Cooperativa Migros Ticino Dipartimento Risorse Umane Casella Postale 468 6592 S. Antonino

Anche un pulcino può servire per pubblicizzare un prodotto.

che pescato dalla moglie a farne di cotte e di crude dovette ammettere pubblicamente di non essere quel «bravo ragazzo» raccontato nella pubblicità. La conseguenza fu che molti brand che avevano affidato la loro reputazione alla faccia perbene del golfista dovettero fare un passo indietro cambiando strategia. Ad un animale chiedi di rappresentare un certo immaginario e lo farà per sempre. Un animale viene scelto con dei criteri rigidi che possano rappresentare il marchio in modo inequivocabile. Pensiamo al cavallo della Vidal per un bagnoschiuma. Bianco, la criniera lunga, pulito, forte. Tutti valori positivi difficili da scalfire.

L’animale in pubblicità è un testimonial che non ti tradisce, non rischi i guai avuti con Tiger Woods Inoltre, fattore non indifferente, gli animali costano meno degli attori. Sia nella versione «reale» che nella versione animata in forma di cartoon o in 3d, l’onorario da dedicare all’animale è una percentuale ridotta di quella che i grandi brand destinano al testimonial famoso. Grazie all’uso ironico dell’animale in pubblicità, si attira l’attenzione e il prodotto rimane nella memoria dei consumatori generando spesso un pro-

sieguo di campagna sui social network. Le battute di ogni genere sull’uccellino di Alessandro Del Piero bastano da sole per descrivere il genere. Il rischio che il testimonial venga ricordato più del prodotto (salvo eccezioni virtuose) è una realtà sia per gli animali che per gli attori famosi. Il testimonial «attira l’attenzione» e trasmette dei valori in modo efficace. In questo senso il marchio guadagna in visibilità, è immediatamente posto all’attenzione del destinatario della campagna. Inoltre, il testimonial è un elemento di status. Posso permettermelo perché sono ricco e famoso! Il lato negativo del testimonial è che spesso rimane nella mente del consumatore più del prodotto. Tra prodotto e consumatore c’è competizione. Competere son Tiger che rincorre le gonnelle non è stato un grande affare per molti. Banderas è perfetto per Mulino Bianco, mentre il testimonial impasta ogni genere di prelibatezze, il marchio e i prodotti crescono in notorietà. Gli animali in pubblicità svolgono lo stesso ruolo dei testimonial con il vantaggio che sono «anonimi». Si dice «il cavallo Vidal», «il gorilla del Crodino», «il cucciolo dello Scottex». il brand «vince in termini di notorietà». George Clooney con quello slogan forte «What else» potrebbe coprire il marchio. Non è necessario dire «Clooney del caffè», spesso si dice «l’avete visto Clooney nella pubblicità del…». In conclusione: in pubblicità l’animale vince sull’umano. 1:0.


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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Vizi pubblici, private virtù Ora che, girando la testa e turandosi il naso, la maggioranza del Gran Consiglio ha approvato il preventivo del Cantone per il 2014, si può riprendere il tema delle finanze pubbliche per fare qualche considerazione un po’ meno legata all’immediato. Il male di cui soffre il Cantone, oramai da qualche anno, è un debito pubblico in aumento. Il debito pubblico del Cantone aumenta perché, nonostante gli sforzi che vengono profusi da tutte le parti, non si arriva a chiudere in pareggio i conti. Così ogni nuovo disavanzo va ad aggiungersi al debito pubblico preesistente facendolo aumentare. La situazione viene deprecata da molti come un vero e proprio vizio pubblico. Ma se il Cantone spende più di quanto incassa che cosa si può fare? Qualche politico, quasi sempre del partito vicino alle famiglie, predica che lo Stato dovrebbe imparare dalla famiglia ticinese la virtù privata del risparmio.

Purtroppo però questa è solo un’allegoria. I ticinesi e le loro famiglie tendono infatti, come il Cantone, a spendere di più di quello che incassano e, perciò, ad indebitarsi. Anzi, i debiti delle famiglie sono di gran lunga superiori a quelli dello Stato, sia in termini assoluti, sia in termini relativi. A questo punto bisogna però introdurre una distinzione. La famiglia, come lo Stato, può fare debiti vuoi per creare attivi che faranno aumentare il suo patrimonio, vuoi invece a fini di consumo. Per esempio l’ipoteca, che la famiglia proprietaria della casa o dell’appartamento nei quali vive ha, è un debito. Ma la casa e l’appartamento sono elementi importanti del suo patrimonio. La famiglia che invece accende un debito per comperarsi un automobile, o per andare in vacanza, praticamente non fa che consumare la somma ottenuta e all’attivo non gli resterà niente. Per quel che riguarda i debiti privati

non disponiamo di nessuna statistica completa. Basterà però ricordare che le ipoteche accese in Ticino ammontano a 40 miliardi ossia a circa 118mila franchi pro-capite. Visto da quest’altezza, il debito del Cantone, che è dell’ordine dei 4000 franchi pro-capite, diventa una quantità trascurabile. Ripetiamo, tuttavia, che non sono i debiti ipotecari a preoccupare le famiglie ticinesi perché, almeno di questi tempi di interessi bassi, è possibile che servire l’ipoteca venga a costare meno che pagare l’affitto anche perché, nelle zone urbane del nostro Cantone, gli affitti aumentano rapidamente. I debiti che pesano molto sulle famiglie ticinesi sono altri: sono quelli legati al credito al consumo. Anche qui non disponiamo di un quadro generale. L’annuario statistico cantonale tuttavia ricorda che solo un po’ più di un terzo (36,8%) delle persone residenti in Ticino vive in un’economia domestica che non ha bi-

sogno di chiedere un prestito. Un po’ più di un quarto (26,4%) vive in un’economia domestica che ha un debito con un istituto bancario. Le persone restanti si dividono in due tra il gruppo delle persone che ottiene soccorso da parenti e amici (18,4% ) e quello (un altro 18,4%) che vive in un’economia domestica che non riceve credito perché non dispone di garanzie sufficienti. È probabile che le famiglie di quest’ultimo gruppo finiscano in mano agli strozzini. L’UCS ricorda ancora, ed è un dato che fa accapponare la pelle, che il 7,5% dei ticinesi vive in un’economia domestica che si trova con uno scoperto di pagamento critico, superiore cioè ai due terzi del reddito di cui può disporre mensilmente. Il quadro tracciato dall’UCS è allarmante: quasi due terzi dei ticinesi non riesce, coi propri mezzi, a far quadrare il bilancio. È vero che questi dati risalgono al 2008, anno particolarmente

difficile. Nel frattempo, però, la situazione non deve essere migliorata di molto. Altro che virtù private! Quella descritta dall’UCS è una situazione all’americana, nella quale una larga proporzione delle famiglie, vive al di sopra delle proprie possibilità. Certo in parte questa situazione è dovuta alla relativa povertà dei ticinesi. Ma altrettanto importante è l’impulso a spendere per spendere. Quando si considerino le spese che portano all’indebitamento ci si accorge infatti che il principale motivo di indebitamento concerne l’acquisto dell’automobile. La quota di persone indebitate, in seguito all’acquisto dell’automobile, è in Ticino quasi il doppio di quella media svizzera. In Ticino, il Cantone sembra quindi aver imitato la tendenza allo spendere delle famiglie. È anzi probabile che se spende troppo è perché deve aiutare molte famiglie che non ce la fanno.

era stata interpretata e raccontata come un cedimento emotivo. Si era persino favoleggiato di un Bergoglio balbettante di fronte al Cristo della Sistina, che si fa da parte sentendo la propria inadeguatezza. Le cose erano andate in modo molto diverso. Martini, leale avversario di Ratzinger, aveva individuato in Bergoglio – un conservatore in tema di dottrina, ma un progressista dal punto di vista sociale – l’uomo che poteva raccogliere attorno a sé i consensi di chi non voleva l’austero cardinale tedesco sul soglio che era stato del carismatico Wojtyla. E in effetti alla prima votazione così era stato. Appariva evidente a quel punto che, se Bergoglio si fosse intestardito, avrebbe potuto impedire l’elezione di Ratzinger; a quel punto sarebbe stato necessario cercare un compromesso su una terza persona. Ma il cardinale argentino rifiutò di diventare la pietra d’inciampo dell’approdo di Benedetto XVI alla massima carica della cristianità. E la rinuncia del 2005 paradossal-

mente ha reso possibile la sua elezione del 2013. A quel punto è accaduto un vero e proprio miracolo. La Chiesa ha una storia millenaria, ma può essere rivoluzionata in cinque minuti: i cinque minuti tra le 20 e 22 e le 20 e 27 del 13 marzo di un anno fa. Un Pontefice che tra cerimonieri increduli si affaccia dalla loggia senza la mozzetta rossa, simbolo del potere dei predecessori, con una croce semplice anziché quella dorata, che non si definisce mai Papa ma «vescovo di Roma», che prima di benedire i fedeli chiede a loro di pregare il Signore perché lo benedica, che si inchina alla folla anziché attendersi inchini. E poi il nome, mai sentito prima in piazza San Pietro, quasi una sfida al mondo vecchio: papa Francesco. Con quel saluto così semplice: «Buonasera». La folla ha capito. E gli ha subito voluto bene. Nel giro di un’ora, in un capogiro di emozioni collettive, è passata attraverso il giubilo per la fumata bianca, la tensione dell’attesa, la delusione nel non sentire il nome di un italiano, lo

stupore per la scelta di Francesco, l’ammirazione per l’umiltà e insieme il coraggio del nuovo Pontefice: il primo Papa gesuita, il primo Papa a chiamarsi come il poverello di Assisi, il primo Papa sudamericano. L’unico paragone possibile è con il 16 ottobre 1978. Anche allora a San Pietro pioveva ed era buio, quando fu annunciato il nome a quel tempo oscuro di Karol Wojtyla, che presto diradò lo sconcerto con parole ancora ricordate e si fece amare fin dalla prima sera. Ovviamente i paragoni tra Giovanni Paolo II e Francesco sono inopportuni. Il pontificato di Bergoglio è appena agli inizi. E già si scontra con il conservatorismo di una parte dell’episcopato, ostile all’idea di ammettere i divorziati alla comunione, un’apertura già abbozzata dallo stesso Ratzinger. Che forse ha esercitato per otto anni un mestiere che non era il suo; ma certo ha avuto un ruolo provvidenziale. Dopo Wojtyla non poteva venire Bergoglio, e non sarebbe sorto un Francesco.

gregati a Mendrisio o a Lugano». Non mancano infatti quelli che pensano che sia meglio saltare il fosso e evitare di diventare la fossa (un «Valmara – Graben») che separa le due maggiori entità del Sottoceneri. Fin qui la cronaca, o meglio: quel che la politica sta predisponendo. Ragionando sulla situazione di questi cinque comuni non si può fare a meno di allargare il pensiero anche ad altre «tessere» di un mosaico che vedono rafforzarsi il loro isolamento. Senza andare troppo lontano, l’aggregazione a cinque che si sta delineando davanti ai loro occhi finirà per spingere, oltre a Brusino, anche Melide e forse Morcote a ripensare alle loro condizioni «isolate» e non contemplate nei progetti dei politici. Certo, alla fine saranno pur sempre i cittadini dei singoli comuni a decidere del proprio futuro. Ma è poco consolatorio praticare questo diritto democratico quando si avverte che l’aggregazione diventa «obbligatoria», magari per sfuggire alle fauci dei «grandi».

A questo punto mi piace concludere con un discorso più personale, comunque meno condizionato dalle leggi e dalla regole della politica. Vengo da quelle terre, essendo nato sull’altro pendio del Generoso. Ho sempre guardato alle aggregazioni come a una medicina di cui fatico a riconoscere non solo i benefici, ma anche una validità da spalmare su tutto il territorio cantonale. E oggi c’è l’esempio drammatico di Lugano a darmi ragione e a consigliarmi di rispolverare il mio scetticismo. Così non esito a confessare che se chiudo gli occhi e penso alle aggregazioni, l’immagine che mi si presenta non è quella di un Cantone-città, bensì quello di un bersaglio di tiro a segno: attorno ai vari buchi dei centri già «colpiti» c’è una corona di forellini isolati. Queste corone non segnano scarsità di mira, bensì le carenze di una politica del Cantone sempre più disattenta, quando non disinteressata, ad ascoltare le periferie e soprattutto a tutelare un minimo di contesto sociale.

Sul sito del governo si può leggere che «il Piano cantonale delle aggregazioni (PCA) disegna il Ticino del domani, frutto della visione strategica del Consiglio di Stato che attraverso questa riforma epocale intende rafforzare il nostro Paese a livello istituzionale, socioeconomico e competitivo». Ma davvero? Come nel Mendrisiotto? Con Mendrisio che ha giocato l’asso pigliatutto? Con realtà come Chiasso e Stabio rimaste paralizzate? Con realtà «strategiche» (tradizioni, territorio, verde, abitabilità) di comuni periferici (penso a Castel S. Pietro, Balerna e Coldrerio) snobbati o difficili da aggregare? Sul «New York Times» del 2 febbraio leggo articolo sulla Cina con questo titolo: Once the Villages Are Gone, the Culture Is Gone (Una volta spariti i villaggi, sparisce la cultura). Chissà perché, come con Google Earth sul tablet, dalla Cina il mio pensiero vola ad Arogno, ai 175 anni di vita della sua filarmonica…

In&outlet di Aldo Cazzullo I fidanzati di Bergoglio Rivedere a un anno di distanza le immagini delle dimissioni di Ratzinger, e confrontarle con quelle di Bergoglio che riceve 25 mila fidanzati (quindi coppie non sposate) in piazza San Pietro nel giorno di San Valentino, è impressionante. La capacità di rigenerarsi della Chiesa cattolica è andata oltre qualsiasi previsione, e stride a maggior ragione con le lentezze della politica italiana. Ora è possibile intendere meglio le ragioni che hanno portato alle clamorose dimissioni di Ratzinger, e alla fulminea elezione di Bergoglio. Il Papa tedesco intuiva le cose da fare. Aveva capito che la lunga stagione di Tarcisio Bertone alla guida della segreteria di Stato era terminata. Era consapevole che non solo la Santa Sede ma la Chiesa universale andava profondamente cambiata. Ma dentro di sé avvertiva di non avere più le energie, e forse neanche la volontà, per farlo. Da qui la scelta di lasciare. Non credo che Ratzinger abbia fatto

qualcosa per orientare il conclave che ha eletto il suo successore. È ragionevole però supporre che intuisse che dopo di lui sarebbe venuto Bergoglio. Quasi nessun vaticanista l’aveva previsto, perché la rinuncia dell’arcivescovo di Buenos Aires nel conclave del 2005

Zig-Zag di Ovidio Biffi S’ha da fare o sa d’affare? Da qualche anno, complice la residenza di una nipotina e di un caro amico, mi trovo a trascorrere scampoli di vita in quel di Arogno. Racchiuso a nord-est dal Generoso e dal Sighignola, il comune occupa la sponda destra (quella solatìa) della val Mara e la sormonta per arrivare alla frazione di Pugerna e al confine con Lugano-Caprino, sulla destra dell’enclave di Campione. Fino a dieci anni fa il mio contatto con quel paese avveniva solo tramite… bottiglia, nel senso che ero tra gli estimatori (e consumatori) di un merlot in purezza coltivato nel ronco Cügiaree, con mirabili risultati, dalla passione di un viticoltore purtroppo scomparso. L’ultima visita, a metà gennaio, per seguire il Concerto di gala della Filarmonica, un piccolo gioiello che spiega, anzi: suona la vitalità degli arognesi e la loro invidiabile cura della tradizione. Nei conversari in attesa del concerto l’amico Angelo mi accenna che il comune si sta muovendo per una aggregazione con Bissone, Maroggia,

Melano e Rovio. Aggiunge che anche Brusino potrebbe aggregarsi (non lo ha detto, ma forse il suo pensiero andava a quando lui nuotava dal lido di Maroggia sino alla riva di Pojana…). Poi va sul sarcasmo: «I pianificatori cantonali devono aver pensato a una piccola (ca. 5000 abitanti) riserva per gli indiani: per le tribù di Arogno e Rovio ci sarà la caccia sulle falde del Generoso, alle tribù del piano invece spetterà la pesca nel Ceresio». Passano pochi giorni e i giornali danno conferma dei primi contatti fra i comuni interessati: i cinque, secondo il Piano cantonale delle aggregazioni, potrebbero unirsi per dare luce al comune di Val Mara. L’entusiasmo e le spinte sono deboli e a prevalere sono le note negative già rilevate da uno studio che ha posto l’accento sulle diversità fra i comuni: tre laghée e due montagnards. La conferma giunge dal sindaco di Maroggia: «Non c’è una grande convinzione. Ma è meglio lavorare per rafforzarci che rischiare di essere ag-


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Cultura e Spettacoli Nuove visioni Alla Cons Arc di Chiasso le insolite fotografie dell’italiano Maurizio Montagna

Il jazz di Elina Duni Inbtervista con la cantante di origini albanesi che sarà una delle protagoniste dell’edizione 2014 del Festival jazz di Chiasso pagina 33

La Celestina di Ronconi Il Piccolo di Milano propone un classico della letteratura spagnola: la figura senza tempo di Celestina

Musica svizzera Dalla Romandia una giovane rapper, dalla Svizzera tedesca le note di Fai Baba

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Innocenze sporcate Cinema Quando il candore dell’infanzia fa irruzione nei film horror, un leitmotiv sempre in auge Muriel Del Don Il binomio film horror e infanzia è forse quello che incute più timore, che risveglia in noi delle paure ancestrali alle quali non riusciamo a dare un nome tanto l’angoscia che producono è grande. Che il ruolo dei bambini sia quello delle vittime, degli eroi o peggio dei carnefici, l’inquietudine risentita è la stessa e rimanda ad un mondo innocente ed inviolabile. Ma da dove viene quest’angoscia primordiale? Come diceva Freud, è forse da ricondurre più a un sentimento di paura che di pericolo. Il contrasto tra un mondo che dovrebbe essere rassicurante, famigliare, e degli elementi disturbanti, incomprensibili, crea paura e sgomento. Nel caso dei bambini nei film del terrore lo smarrimento è dovuto allo scambio di ruoli, alla posizione di potere che si stravolge in modo improvviso e non premeditato. Il bambino, normalmente relegato al ruolo del debole, dell’essere da proteggere, prende il posto dell’adulto e ne assume la forza e il potere. Questa confusione stravolge delle certezze che credevamo eterne, mettendoci di fronte ad

una realtà che non capiamo e che non siamo pronti ad accettare. Il ruolo dei bambini nei film del terrore può essere di differente natura: possono essere al servizio del bene aiutando le entità paranormali a trovare la pace (come nel caso di The Nameless di Jaume Balaguerò) oppure al contrario possono rivelarsi estremamente crudeli nel caso in cui la loro esistenza venga corrotta da un mondo di adulti perverso e minaccioso (¿Quién puede matar a un niño? Di Narciso Ibañez Serrador ne è un esempio emblematico). La base, il nocciolo di queste diverse interpretazioni dell’infanzia sta nella nozione stessa d’innocenza. I bambini posseggono in effetti uno stato di candore che permette loro di accedere, senza essere influenzati da barriere sociali e pregiudizi, ad un mondo paranormale inaccessibile agli adulti. L’innocenza perduta, la corruzione del bene da parte del male, rappresentano l’orrore massimo e ci svelano il lato perverso di un universo normalmente immacolato. Il bambino si trasforma in questo caso (posseduto da una forza soprannaturale incontrollabile) in una creatura malvagia che

crea nello spettatore un’angoscia potente riconducibile al capovolgimento totale dell’ordine delle cose. In questi casi sono i bambini i cattivi, sebbene gli adulti non riescano a concepire il maligno che si nasconde nel candore di un volto innocente. Shock di Mario Bava è un esempio molto interessante dello stravolgimento delle regole che definiscono il mondo dell’infanzia. Marco, il piccolo protagonista della vicenda, viene posseduto dal fantasma del padre che vuole, attraverso di lui, vendicarsi della moglie che l’ha ucciso in un momento di follia, stufa delle violenze psicologiche e fisiche alle quali la sottoponeva. Nel caso del film di Bava, non è solo il mondo dell’infanzia ad essere stravolto ma anche il nucleo famigliare tradizionale e soprattutto il rapporto tra madre e figlio. In effetti, tutta la storia si basa su di una famiglia ricostituita apparentemente felice e serena ma che nasconde in realtà inquietanti verità. Il regista impregna il film delle sue ossessioni (stupendamente sottolineate dalla musica dei Libra), concentrandosi sulla lenta degenerazione di un gruppo fa-

migliare in crisi a causa di un terribile segreto e di eventi paranormali che trasformano il loro figlio in un nemico potenziale. La prima parte del film che mette in scena la relazione tra madre e figlio è tra le più morbose e perverse mai viste all’interno del panorama del cinema italiano. Sempre nella stessa corrente troviamo il magnifico film di David Cronenberg, The Brood, che vede come protagonista una coppia che lotta per l’affidamento della figlia. La madre è prigioniera delle sue stesse fobie, della sua stessa rabbia e, accompagnata da uno psichiatra senza scrupoli, dà alla luce una discendenza mostruosa frutto dei suoi stessi incubi: delle strane creature asessuate, dall’aspetto di bambini ma privi di qualsiasi forma di sentimenti. La loro aggressività li porta ad uccidere tutte le persone che li vogliono separare dalla madre, in un tentativo disperato di ricreare un nido famigliare perverso e disturbato. La maternità è in questo caso presentata come potenzialmente mostruosa, un misto di affetto soffocante e di crudeltà. The Brood indaga nel profondo della psiche umana e tocca dei punti sensibili che risvegliano

nel pubblico un sentimento di sgomento e incredulità. Un altro regista che ha mostrato senza veli il mondo spesso inquietante, dell’infanzia è Dario Argento. Freud è indubbiamente una fonte d’ispirazione fondamentale del nostro regista che afferma di mettere in scena, nei suoi film, paure e ossessioni. Come dice lui stesso, da quando esiste l’uomo le paure sono sempre le stesse e potremmo aggiungere che tra queste si trova anche quella legata alla perdita dell’innocenza. I bambini, gli automi, le nenie infantili, sono elementi ricorrenti nelle sue opere dove l’infanzia è spesso stravolta, corrotta da un mondo di adulti insensibili e al limite della pazzia. Profondo rosso è un esempio perfetto di questa sua poetica, ricco di rimandi alle conseguenze di traumi infantili rimossi ma non dimenticati. La filastrocca canticchiata dall’assassino è forse tra le più spaventose del cinema di genere italiano. La fine dell’innocenza terrorizza perché rimanda forse ad un vuoto che non riusciamo a colmare nell’età adulta, ad un sentimento di perdita con il quale tutti dobbiamo convivere.


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Cultura e Spettacoli

La luce nascosta di Maurizio Montagna

Ritratti levati dall’ombra

Fotografia Il lavoro del milanese alla Cons Arc di Chiasso

i racconti di Pietro De Marchi

Giovanni Medolago «Senza luce nessuno spazio»: il pensiero di Mario Botta (poi preso a prestito da Andreas Pfäffli quale titolo del suo documentario dedicato al più celebre degli architetti ticinesi contemporanei) ci è tornato in mente appena varcata la soglia della Cons Arc, dove sono esposte una quarantina di fotografie firmate da Maurizio Montagna, nato nel 1964 a Milano, dove vive tuttora. Nell’ampia sala della Galleria chiassese ci si trova immediatamente a confronto con quella «luce nascosta», così definita da Francesco Zanot, con il bianco&nero prediletto da Montagna: scarno, dalla lieve densità e quei pochi toni che evitano contrasti marcati, puntando piuttosto su grandi superfici monocrome. Una precisa cifra stilistica che caratterizza tutta la variegata produzione dell’artista milanese. Infatti, se questa lievità si nota soprattutto nella serie «Billboards», ecco che nemmeno nelle immagini dedicate all’opera dell’architetto razionalista Giulio Minoletti (1910-1981, suoi i disegni della stazione di Porta Garibaldi, nonché dell’ETR 300, il treno chiamato «Settebello») non c’è traccia alcuna di prospettiva, nessuna via di fuga, preferendo il Mon-

tagna un approccio frontale alla facciata delle case milanesi del Minoletti, utilizzando cioè un linguaggio scabro, essenziale quanto sintetico. Un approccio che viceversa nella serie «Caleidoscopio» (già di per sé intrigante: non è facile trovare un frondoso banano dietro un muro di Gallarate!) viene arricchito da curiose forme – «quasi geroglifiche didascalie» – assunte di volta in volta da un cavo elettrico, da un fil di ferro o ancora da un pezzo di legno. Altrettanto singolare la doppia immagine (fronte/retro) della gigantesca insegna pubblicitaria, una bottiglia di cognac scovata da Montagna ai lati di un’autostrada spagnola, dove il fotografo si è buttato sulle tracce del «Toro di Osborne», dal nome dell’omonima azienda vitivinicola che scelse le taurine sagome nere di oltre quattro metri d’altezza, create dall’artista Manolo Prieto, quale veicolo pubblicitario di una campagna che, negli Anni ’60 del secolo scorso, ricoprì buona parte della penisola iberica e oggi divenute un’autentica icona! Davvero un bell’allestimento, curato in ogni dettaglio dall’artista e da Daniela e Guido Giudici. Infatti, ci confessa Montagna, «da qualche tempo preferisco il termine installazione a quello più generico di mostra. Potrei

parlare di allestimenti che vedo simili a una performance jazzistica in cui non c’è mai qualcosa di esattamente uguale da un concerto all’altro». Un’installazione dove lo spettatore è chiamato a interrogarsi dinnanzi a trittici con soggetti in rapida sequenza e con pochissime variazioni di rilievo. Ecco allora i tabelloni pubblicitari privi di qualsiasi réclame che, pur così spogli, ci ricordano come la pubblicità sia invasiva… anche in sua assenza. «Da questi Billboards viene esclusa la possibilità che a questo progetto si possa attribuire un carattere classificatorio – annota ancora Zanot – Manca il più elementare requisito di scientificità: Montagna non abbozza alcuna tassonomia e non individua tipologie». Semplicemente, potremmo aggiungere, Montagna aspira a cogliere una bellezza così discreta da basarsi sulla sottrazione, sull’assenza, piuttosto che su un’evidenza che sovente diventa sfacciata. Dove e quando

Maurizio Montagna, Fotografie 2006-2013. Chiasso, Galleria Cons Arc (Via Grütli, 6830 Chiasso). Orari: lu-ve 9-12 / 14-18.30; sabato 9.00-12.00. Fino al 9 marzo.

Meridiani e paralleli Casagrande pubblica

Giovanni Orelli Ritratti levati dall’ombra è indovinatissimo titolo che Pietro De Marchi ha dato a suoi racconti per l’editore Casagrande di Bellinzona, 2013. È titolo che va bene per una bella prosa e per una bella poesia. Come si scrive una poesia? È cosa facile e difficile, e miracolosa se miracolosa riesce. Prendo un frammento da uno dei racconti, L’anno dello sbarco sulla luna, sono alla pagina 66 e prendo solo la seconda metà di un periodo naturalmente lungo, profittando di un e infine…: e infine il cinema dove avevo visto Marcellino pane e vino, mettendomi le mani davanti agli occhi perché prima del film «per ragazzi» c’erano dei prossimamente per adulti che secondo la mamma e la zia era consigliabile non guardare: Quelle donne che si aggiravano sperdute nella città in fiamme portavano delle tuniche leggere leggere strette alla vita e molto succinte, lui le aveva guardate lo stesso, allargando un poco le dita. Qui è facile leggere il pensiero intimo dell’autore in forma di «poesia» Quelle donne che si aggiravano sperdute nella città in fiamme e portavano tuniche leggere strette alla vita e molto succinte lui le aveva guardate lo stesso allargando, un poco, le dita.

contengono anche una sorta di guida dissimulata alla «professione» (al mestiere) di insegnante (facciamo lingua e cultura italiana), se quel lettore avrà desiderio (tra desiderio e noia la nostra inquietudine oscilla) di conoscere altro dello scrittore, aggiungerò allora, in veste di sommario ridottissimo, che il De Marchi è tra i validi, e non sono pochi, italianisti che operano in università svizzere. Per noi della Svizzera italiana è da segnalare la sua attenzione per cose letterarie della contrada (spiccano i nomi di Giorgio Orelli e di Fabio Pusterla). Per l’italianistica d’Italia, cito solo il suo lavoro di curatore e commentatore del libro di Silvio Guarnirei, Lavori d’autunno, Manni, Lecce, 2012: non fosse che per i rapporti tra Guarnirei e Calvino, e per sue opinioni sulla «brevitas» (meglio un racconto serrato che un romanzo allungato con l’acqua – ma questa è arbitraria sintesi mia). Di lì direi poi di andare al De Marchi poeta, a sua poesia epigrammatica, che qualcuno avrà già trovato nei versi di Replica, Casagrande, Bellinzona, 2006, dove un insegnante di scuola elementare (anche di otto classi come felicemente la ebbi io per cinque anni) può trovare cose (poesie) fatte su misura per la sua scuola. Un esempio è la Ninna nanna di p. 73, ma qui trascrivo invece, solo perché è più corto (!), l’epigramma di p. 74 Piedi nudi, occhi chiusi

I miracoli di miracoli o stramberie. «Ma bisogna andarci piano – dice l’autore che è saggio – bisogna andarci piano con le infatuazioni letterarie». Pagina 119: Mi viene in mente quel nostro compagno d’università, un po’ strambo, che avevamo soprannominato Socrate perché ci aveva detto che avrebbe dato chissà cosa, un dito di una mano, o tutti i diti di un piede per passare un giorno nell’Atene del quinto secolo avanti Cristo. Ma dài, Socrate. E due pagine dopo, al nome di un francese che si chiama Chardonne, ecco una sua bella frase, in bel francese, che mi permetto di voltare in italiano: Sulla parola voluttà, come sulla parola piacere, bisogna cercare di capirsi. Si tratta di vocabolario personale. Per Epicuro, la voluttà era un bicchiere di acqua fresca. «Il buon vecchio Epicuro», commenta Pietro De Marchi. Se un lettore si lascerà conquistare, come mi auguro, da questi racconti che

Bull project Bottle 001/002 – 2012. (Maurizio Montagna)

«Pedi nudi, occhi cusi, veni pà». Ancora non conosci le aperture dei dittonghi e come nel Dugento per cuore dici core. Devo sorvolare su altro. Ma… Ma per un titolo futuro, fossi De Marchi, non dimenticherei a priori Le aperture dei dittonghi, oscuro titolo, da spiegare, come metafora, sulle oscure complicazioni della vita. Vorrai tu, lettore, vorrai forse sfruttare gli errori (che errori non sono) del bambino o anche i miei? Posso, se mi occupo di giovani, interrogarmi su fuochi e fuchi (essere svegli o addormentati), se mi occupo di cose universitarie, nostre comprese, se e come distinguo tra CUSI e chiusi. Il giuoco piace, e come, anche al De Marchi. Ed è molto di più di un giuoco. È, per ripetere parole altrui (qui del Tasso): «proprie son quelle parole che signoreggiano la cosa».

Solitudini creative Filmselezione Uno straordinario Robert Redford e l’ultimo film dei fratelli Coen Fabio Fumagalli *** All is lost – Tutto è perduto, di J.C. Chandor, con Robert Redford (Stati Uniti 2013)

Per quanto riguarda la storia narrata, All is lost non rappresenta nulla di nuovo: un navigatore solitario va a sbattere contro un container in una zona dell’Oceano Indiano lontana da ogni rotta commerciale. La falla apparentemente trascurabile viene tamponata con mezzi di fortuna, ma secondo manuale; e ciò prima che sopraggiunga una tempesta che già s’intravvede all’orizzonte. Segue il concatenarsi delle conseguenze, 106 minuti dedicati al tentativo di rimanere a galla. Non siamo però dalle parti delle grandi epopee del mare di Conrad, Melville o Hemingway. Il film è nuovo per altri aspetti. Ad esempio non vi si pronuncia una sola parola, ad eccezione di un breve incipit,

forse superfluo, con la voce fuori campo del protagonista. In seguito, solo l’osservazione ravvicinata del gesto e delle conseguenze minime cui conduce. Non è forse un caso: scrittore e pubblicitario, il regista J.C. Chandor ha esordito nel 2011 con Margin Call, nel quale seguiva per 24 ore le vicissitudini di una banca all’inizio della crisi finanziaria. Una cronaca dettagliata e claustrofobica dall’interno di Wall Street, nata anche dal fatto che il cineasta è figlio di un banchiere. Da quel film corale che narrava il naufragio collettivo iniziato dalla Lehman Brothers a quello intorno a un singolo individuo (uno straordinario Robert Redford), il passo ha una sua logica. Si sa che nel cinema è difficile elevarsi alla trascendenza con il solo realismo, ed è vero che il film, nella sua logica e caparbia determinazione di attenersi ai fatti, raramente sconfina nelle dimensioni altrimenti esaltanti del mentale. All is lost rimane incollato agli aspetti materiali, ai

dettagli tecnici che condizionano una sopravvivenza sempre più problematica. Ma riflette così sull’uomo, sul suo ingegno, sulla sua fede nella ragione, nonché sulla sua lotta – impari – con la natura. Chandor ha una formidabile carta vincente nel suo sapiente montaggio: la presenza del solo attore capace di sussurrare ai cavalli, d’immergersi nella natura, nell’abbandono indimenticabile del Jeremiah Johnson (Corvo rosso non avrai il mio scalpo) girato da Sidney Pollack nel 1971. Ogni ruga scavata del viso contraddice la trasparenza serena del leggendario azzurro degli occhi. *** Inside Lewyn Davis – A proposito di Davis, di Ethan e Joel Coen, con

Oscar Isaac, Carey Mulligan, John Goodman, Justin Timberlake (USA 2013) Nell’universo surreale e poetico ma sempre innovativo dei due grandi fratelli del cinema americano si distinguo-

no comunque vari filoni. La rivisitazione dei generi (poliziesco, letterario, western, autobiografico, spionaggio, fantastico, noir) e la diversità di tono (grottesco, crudele, spassoso, sfrontato). A proposito di Davis è al contrario tenero e melanconico dietro il suo aspetto di raffinato esercizio di stile. Nel Greenwich Village degli Anni Sessanta, vita e scarsi miracoli del cantante folk Dave van Ronk, dotato ma decisamente sfigato, eterno perdente simile a molti eroi dei Coen, dignitoso ma cocciuto nel suo rifiuto di quel briciolo di opportunismo indispensabile alla carriera. È difficile non volergli bene, anche se rincorre il gatto invece della gloria che sta per baciare chi gli suona accanto, ossia Bob Dylan, Joan Baez, Joni Mitchell. Crudele e divertito al tempo stesso, il film vive di questo equilibrio instabile, simile alla tragicomica fatalità che condiziona il protagonista. I Coen a un certo punto si servono della cornice magi-

La locandina del film A proposito di Davis dei fratelli Coen.

ca offerta dalla loro maturità espressiva, con attori che sembrano crederci sempre, una fotografia incantata nella sua trasparenza. L’aderenza all’epoca è perfetta, così come il rispetto per la musica che ha pochi confronti: le canzoni sono eseguite nella loro totalità, sempre in diretta; e il protagonista Oscar Isaac, pur non essendo un professionista, le restituisce in modo toccante.


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Cultura e Spettacoli

Le suggestioni di Roduner Mostre Alla Galleria Mosaico di Chiasso un’esperienza solo all’apparenza pittorica: ci si addentra

di fatto nel concettuale Gian Franco Ragno Solitamente la critica d’arte cerca delle ascendenze, delle lunghe corrispondenze nell’opera di un autore. Forse intimamente convinta che sia possibile collocare un artista in una cartina immaginaria di stili, in una sorta di geografia impossibile. Più utile ed arricchente, cercare di ripercorrere un sentiero artistico, che spesso è anche umano, per arrivare non tanto a punti fermi quanto a suggestioni di carattere diverso, non solo limitate alla disciplina dell’arte.

Sebbene Roni Roduner curi ogni minimo dettaglio, da buon artigiano, il suo lavoro è concettuale Questo è il caso di Rodi Roduner, artista ticinese d’adozione oggi alla Galleria Mosaico di Chiasso, architetto dalla formazione – negli anni Cinquanta in Svizzera Orientale – ancora di sapore umanistico; legata sì alla pratica, ma al contempo arricchita da suggestioni di ampio spettro culturale; una formazione in cui è confluita, va detto, anche la vitalità culturale degli anni Sessanta, con soggiorni a Parigi e Milano. Roni Roduner ha mantenuto questi interessi per tutta la sua carriera d’architetto, in cui ha progettato costruzioni austere ed essenziali, capaci di adagiarsi sul territorio senza stravolgerne una sorta di forma preesistente. Questa dimensione di mestiere apre connessioni con le riflessioni dello studioso Richard Sennett, allievo di

Hanna Arendt. Egli indaga su uno degli aspetti più importanti del nostro presente, ovvero sulla dimensione etica del lavoro rivalutando la prassi, l’esperienza pratica anche da un punto di vista concettuale, vista come quella capacità di aprire un problema, di esplorarlo, di indagare la sua materia e le sue finalità. Applicarsi a un manufatto con dedizione, termine che Sennett usa spesso, implica un qualcosa in più del semplice dovere esecutivo. Tutto ciò alla luce anche delle degenerazioni di un’economia speculativa. La digressione appena svolta ci porta a comprendere con più esattezza il lavoro di Roduner. Egli è ancora artigiano nel senso più nobile del termine, avendo cura del minimo dettaglio del suo lavoro. Dal taglio della carta alla preparazione della tela, dal temperare le matite all’esercizio quotidiano del proprio fare. Ad analizzare la sua opera da vicino, scopriamo che il foglio subisce solo una prima leggera preparazione, consistente in alcune linee orizzontali – quasi che queste fossero un binario, le righe di uno spartito, i leggeri solchi di un aratro. In seguito, la matita tratteggia, con un gesto fortemente ripetuto, concentrato e rituale, il vuoto entro le condizioni date dalle due linee parallele. Un lavoro, per quanto semplice e ripetitivo, è la ricerca di un equilibrio che non è solo artistico, ma che implica concentrazione e quella dedizione che abbiamo ricordato in precedenza. La stessa matita richiama ad una perenne progettualità, risponde all’atto consumandosi e chiede di essere ruotata per continuare il suo percorso. Il risultato è quello di un’opera quasi intangibile, una ragnatela fitta di segni di graffite,

Una delle opere di Roni Roduner esposte alla Galleria Mosaico di Chiasso.

una sorta di nebbia in cui lo spettatore cerca un appiglio, un superficie. Una via ferrata. Alcuni lavori appaiono più veementi, si impongono maggiormente allo sguardo prendendo come materia del segno l’acrilico; altre riempiono un profilo in una sorta di bulbo, lasciando come l’impressione, quasi il ricordo, di trovarsi di fronte ad una sorta di «Stele di Rosetta». Si tratta nell’insieme di opere minimali dove è già stato epurato tutto ciò che risulta non essenziale, come lo era stato precedentemente nella sua architettura.

Certo, sono opere che suggeriscono un altro concetto caduto in disuso, fuori moda; la disciplina. Max Frisch, nel Libretto di servizio, la definì come la «coscienza di disporre di sé stessi» che proprio nell’imposizione di sacrifici, produce risultati inattesi. Naturalmente, come in tutta l’arte contemporanea, è lo spettatore il vero attore della visione. Senza l’ausilio di soggetto né titolo, è lui stesso responsabilizzato a rintracciare il senso. Concludendo, il risultato ultimo a mio avviso non è strettamente pittorico, bensì concettuale; nelle tele vi è

la riuscita di un’aspirazione universale negli artisti (dal Futurismo alla Land Art), ovvero quella di far coincidere opera ed esistenza dell’autore, esprimere il binomio arte e vita. Il loro spessore consiste nell’aver saputo distillare in una forma data un lungo percorso di insegnamenti, esperienze e vissuto. Dove e quando

Roni Roduner. Black Bodies. Galleria Mosaico, Chiasso. Orari: ma-sa 15.00 / 18.00. Fino al 22 febbraio 2014.

Poesia nel jazz dei Balcani Festival Intervista con Elina Duni, cantante e compositrice svizzero/albanese che interpreta

la musica della sua terra con il gusto dell’improvvisazione moderna Alessandro Zanoli Onore al merito: la scelta di dedicare a Duke Ellington l’edizione 2014 del Festival jazz di Chiasso (dal 20 al 22 febbraio allo Spazio Officina) potrebbe avere per gli appassionati un effetto collaterale interessante, stuzzicandone la curiosità sull’ampia e splendida discografia ellingtoniana e, forse, spingendoli a prendere in mano la sua autobiografia La musica è la mia signora (Minimum fax, 2007). (Citazione significativa: «Forse conoscerete il termine jazz. Va benissimo se voi con questa parola individuate e capite di cosa si parla. Ma noi abbiamo smesso di usarla nel 1943 e preferiamo chiamarlo l’Idioma americano, o la Musica della libertà di espressione», p. 290). La rassegna chiassese offrirà la possibilità di gustare molte declinazioni contemporanee della «musica della libertà di espressione», compresa una riedizione di due «suite classiche» di Ellington, a cura della Civica Jazz di Milano. A noi è sembrato invece interessante parlare di jazz con una delle protagoniste forse più originali di questa edizione. Elina Duni, di origini albanesi, è cresciuta e si è formata alla scuola jazz di Berna: al suo terzo LP, Matanë Malit (oltre le montagne) è entrata a far parte della prestigiosa scuderia ECM. Un’opportunità incredibile. Il suo stile è molto personale, emotivamente intenso. «Bisogna dire» ci spiega la cantante stessa «che la tradizione poetica e la musica folclorica sono stupende. Oggi laggiù sono state un

po’ risucchiate in un vortice di quello che definirei “turbo folk”. Le melodie popolari sono state sovrapposte alla musica house, al rhythm’n’blues, creando degli ibridi strani. Non c’è più molto spazio per la sensibilità». I brani della Duni sono infatti pervasi da un intenso «blues» albanese: la rivista «Downbeat», in una sua intervista (caso più unico che raro per un artista svizzero) ne ha etichettato lo stile come «gioia malinconica». «Sì, direi piuttosto che è una musica contemplativa: ma tutto questo si riferisce ai miei dischi, anche perché corrisponde a un côté molto arcaico della musica balcanica. Dal vivo l’aspetto meditativo, evocativo, è accompagnato da un aspetto

assolutamente gioioso. Penso in particolare alla tradizione popolare dei tamburi che scandiscono la danza. È una caratteristica delle montagne d’Albania: c’è un pezzo molto rappresentativo nell’ultimo disco, Urrit Vasha». Ma cosa c’entra Duke Ellington in tutto questo, viene da chiederle: «Un esperto di jazz, Konrad Heidkamp, ha scritto una recensione del mio primo disco dicendo di me che “la poesia non ha paese”, alludendo al modo in cui ho unito la mia cultura d’origine con il jazz. D’altro canto il jazz è la musica di coloro che sono in esilio, è una forma di espressione in cui la musica occidentale incontra il blues e la musica che viene dall’Africa. Il jazz dunque è un luogo di

incontro, è per definizione un miscuglio». «Il jazz, inoltre» prosegue Elina Duni «è una musica intrinsecamente innovativa, perché prescrive l’improvvisazione ed è l’improvvisazione che genera il rinnovamento. Permette la ricerca di nuove soluzioni, spinge ad uscire dagli schemi rigidi. Detto questo, occorre concludere che per me personalmente il jazz non è uno stile, ma un modo di concepire la musica». Molto importante nell’esperienza della Duni è il rapporto di collaborazione e di mutua creatività che si costruisce con i suoi partner. «Quando il pubblico europeo sente parlare di musica dei Balcani ha l’immagine di una musica da orchestra di ottoni, alla Bregovic.

La nostra proposta ha il vantaggio di aver diversificato la sonorità. La particolarità del lavoro è data dal coinvolgimento dei tre musicisti eccezionali che compongono il gruppo, Colin Vallon al pianoforte, Patrice Moret al contrabbasso e Norbert Pfammatter alla batteria. Ognuno di loro ha portato il proprio bagaglio culturale in modo personale, ciò che ci ha permesso di guardare al jazz e all’improvvisazione come a una possibilità per trasformare dei brani tradizionali molto belli ma anche difficili da reinterpretare». Centrale, nella personalità dei brani, è il valore lirico dei testi: che Elina Duni abbia musicato una poesia di Ismail Kadare è significativo. «Sì, il testo e il suo suono sono fondamentali» spiega la cantante «in rapporto al significato raccontato in musica, sia che si tratti di una canzone d’amore oppure di una canzone d’esilio. Ho messo in musica una poesia di Kadare, e poi di un testo di mia madre, Bessa Myftiu. Anche lei è una scrittrice». Certo, il testo in albanese non può essere apprezzato immediatamente dagli ascoltatori: «Visto che canto in una lingua che non è conosciuta dal pubblico è molto importante spiegare di cosa parlano le canzoni (a Chiasso lo farò in italiano), perché sono convinta che è molto più bello ascoltare un brano sapendo di cosa parla. E, se ci pensa è paradossale, è un problema che non mi porrei se dovessi cantare delle canzoni in inglese». Informazioni

www.jazzfestivalchiasso.ch


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Cultura e Spettacoli

Celestina: sesso, denaro e morte Teatro La celebre tragicommedia messa in scena da Ronconi Giovanni Fattorini

Per Celestina l’amore è passione illusiva e brama di possesso, nonché una discreta fonte economica Chi è la vecchia chiamata Celestina, la cui figura sembrò da subito così centrale e memorabile da sovrapporre rapidamente il proprio nome al titolo originale dell’opera di de Rojas? Ascoltiamo ciò che ne dice un altro servitore di Calisto, Pàrmeno, che in giovanissima età lavorò per qualche tempo presso di lei: «Questa brava signora possiede in fondo alla città, vicino alle concerie, sul pendio del fiume, una casa appartata, mezzo in rovina, poco adorna e meno approvvigionata. Ella aveva sei mestieri: e cioè cucitrice, profumiera, maestra in belletti, esperta in verginità, mezzana e un poco fattucchiera. Il primo mestiere era di coperchio agli altri».

Maria Paiato nei panni di Celestina. (Luigi Laselva)

Nella messinscena di Ronconi, Celestina (la bravissima Maria Paiato) emerge lentamente da una botola, il corpo e il capo coperti da una tunica e una cuffia nero-viola, il viso imbiancato, le labbra rosse e sottili, le mani semicoperte da logori mezzi guanti adorni di lustrini: reliquie di stagioni lontane, di acconciature studiate per sedurre. Sotto la tunica porta una borsa-marsupio dove ripone i guadagni delle sue più o meno illecite attività (tra le altre, quella di rifacitrice di verginità). È l’emblematica figura di un mondo subalterno di servi e prostitute, un mondo governato dalla ferrea legge della sopravvivenza, e perfettamente edotto circa lo stretto legame fra desiderio sessuale e potenza mediatrice e corruttrice del denaro. Fa pensare anche alle streghe delle fiabe, alle fattucchiere che hanno commercio col demonio, alle mitiche o leggendarie figure del mondo infero, alla Morte del Settimo Sigillo.

Lo spazio scenico in cui s’inoltra è una piattaforma inclinata, priva di riferimenti alla Spagna di fine Quattrocento, e disseminata di porte e imposte lignee che si aprono e chiudono come botole, attraverso le quali i personaggi gradatamente appaiono o scompaiono, o in cui saltano pericolosamente (le figure della soglia e della caduta hanno un grande rilievo nella tragicommedia di de Rojas). Insieme ad altri elementi scenici che si muovono in senso verticale (il letto e la scala d’amore e morte di Calisto, la torre del suicidio di Melibea) porte ed imposte disegnano una sorta di labirinto, dove i personaggi sono in continuo movimento, perché, come notava Carlo Emilio Gadda, «la Celestina è la commedia delle visite e delle controvisite, oltreché degli incontri e dei convegni d’amore». Quanto all’amore, l’idea che se ne è fatta la mezzana ed ex-prostituta Ce-

Viva il teatro da camera… ardente In scena Il silenzio è obbligatorio di Massimiliano Zampetti convince Giorgio Thoeni Ha vinto il concorso per l’attribuzione della prima «Borsa di scrittura teatrale per la Svizzera italiana» e ora ha messo le gambe. Stiamo parlando de Il silenzio è obbligatorio, il testo drammaturgico scritto da Massimiliano Zampetti con il quale l’anno scorso ha conquistato l’alloro nella competizione indetta dal DECS (Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport) in collaborazione con Pro Helvetia e la Rete Due della RSI. Zampetti è indubbiamente un bravo attore e sul suo neonato ruolo di autore solitamente si schernisce, preferendo la scena. Ma talvolta non c’è come un attore che sappia scrivere le parole giuste per andare in scena. E in questo caso occorre dar pienamente ragione a chi ha visto in questo lavoro le piene potenzialità della scrittura teatrale (e il suo risvolto radiofonico). Va anche fatta notare l’aggiunta possibilità di poter produrre un allestimento vero e proprio come naturale seguito e vero atto conclusivo della gara. In questo senso la responsabilità è andata al regista Luca Spadaro che ha curato l’allestimento con la Compagnia del Teatro d’Emergenza, uno spettacolo che abbiamo visto al suo debutto al Teatro Foce di

Gli attori Anahì Traversi e Massimiliano Zampetti.

Lugano per la rassegna «Home». Ed è proprio all’incontro della regia con la scrittura, accanto alla bravura degli attori, a cui si deve il successo dell’operazione. Zampetti e Spadaro, oltre ad avere in comune diverse esperienze teatrali, hanno anche una particolare predilezione per il teatro che cavalca l’assurdo pur rimanendo coi piedi per terra: un assurdo dai contorni beckettiani e dai delicati risvolti clowneschi. Ma andiamo con ordine. Il silenzio è obbligatorio sviluppa otto quadri in un unico ambiente: una gelida camera ardente con i suoi ornamenti e una bara al centro. Il tema manco a dirlo è la morte.

Un becchino e il suo muto aiutante sono i pronubi di collegamento fra le scene che si avvicendano: dalle piangitrici a pagamento per le veglie a una coppia di killer venuti a controllare se la vittima è morta davvero, da una ladra che approfitta della sacra solitudine per alleggerire la salma all’uomo venuto a soffrire accanto alla piccola bara di un presunto bambino senza genitori (ma si scoprirà essere un nano), dal rapporto fra il malandato custode e il maldestro aiutante fino alla lotta di questi con una mosca impertinente. Senza dimenticare la scena conclusiva, dove l’autoironia della regia vale l’intero spettacolo. Ma sarebbe ingiusto, in realtà tutto è godibile e lo testimonia il pubblico che ha seguito le tre serate luganesi e l’appendice di due serate al Paravento di Locarno. È uno spettacolo dove si apprezza la regia, d’altronde Spadaro in questo senso è una garanzia, in simbiosi perfetta con la bravura degli attori: Antonio Ballerio (becchino), Massimiliano Zampetti (il muto assistente, una sola battuta nella scena finale), Mirko D’Urso, Silvia Pietta e Anahì Traversi. Davvero molto bravi, sicuri, efficaci e divertenti. Il pubblico l’ha capito e ha loro tributato gli applausi di rito, numerosi e sinceri.

lestina è, si può dire, schopenhaueriana ante litteram, come rileva Umberto Galimberti in una nota del programma di sala. Per lei l’amore è passione illusiva, brama di possesso, inganno della Natura finalizzato alla conservazione della specie. Non dissimile è la visione che Ronconi ha degli amori che agitano i personaggi maschili e femminili della tragicommedia di de Rojas (fatta eccezione, in parte, per Melibea: la bella e brava Lucrezia Guidone). Uno sguardo schopenhaueriano dunque, ma con l’aggiunta di un’ottica irridente che gli fa scegliere la cifra espressiva del grottesco, o quella della caricatura schernevole, nel caso di Calisto (Paolo Pierobon), che per gran parte del primo atto è una sorta di allupato epilettoide, che preme le mani sulla braghetta, come per nascondere-domare una vistosa erezione, o che si abbandona a simulate copulazioni col materasso e con la nuca di Sempronio (perché tra

Concorso

«Entrando Calisto in un verziere dietro ad un suo falcone, vi trova Melibea e, preso d’amore per lei, comincia a parlarle. Respinto con severità dalla donna, si dirige a casa sua molto angustiato. Parla con un suo servo chiamato Sempronio, il quale, dopo molti ragionamenti, lo indirizza da una vecchia chiamata Celestina». Così comincia (nella traduzione di Fernando Capecchi) l’Argomento premesso al primo atto della Comedia de Calisto y Melibea, il dramma – o tragicommedia, o romanzo dialogato che dir si voglia – di Fernando de Rojas, pubblicato a Burgos, in sedici atti, nel 1499, e poi a Siviglia, in ventuno atti, nel 1501. Nel 1991 il poeta e drammaturgo franco-canadese Michel Garneau ne curò un adattamento – intitolato Celestina – laggiù vicino alle concerie in riva al fiume – che nel 2004 fu messo in scena, in traduzione spagnola, da Robert Lepage, e che ora viene riproposto da Luca Ronconi, nella traduzione di Davide Verga.

padrone e servo, secondo Ronconi, c’è del torbido). Come lui stesso ha detto, Ronconi ha affrontato di rado il sesso esplicito, e ogni volta, a mio parere, con risultati di sorprendente grevità. Qui ci sono gesti inequivocabili (come quelli che ho descritto), ci sono i ripetuti accoppiamenti, ci sono nudi integrali, ma non c’è un solo momento in cui si avverta un’autentica tensione erotica, il calore di corpi che si attraggono e si congiungono (ciò che avveniva invece con lo spettacolo di Lepage). Di alcuni attori ho già detto. Bravi tutti gli altri. In particolare: Fausto Russo Alesi, Licia Lanera, Fabrizio Falco, Bruna Rossi, Lucia Lavia, Riccardo Bini, Pierluigi Corallo. Dove e quando

Milano, Piccolo Teatro Strehler, fino al 2 marzo.

Tra jazz e nuove musiche Rassegna di Rete Due Spazio Officina, Chiasso Giovedì 20 febbraio, ore 22.00

Archie Shepp Quartet Archie Shepp: sax ten. e sop.,voce Tom McClung: piano Reggie Washington: contrabbasso Steve McCraven: batteria

Orario per le telefonate: dalle 10.30 fino a esaurimento dei biglietti

091/8217162 Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per la manifestazione sopra menzionata. Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.

Per aggiudicarsi i biglietti basta telefonare martedì 18 febbraio al numero sulla sinistra nell’orario indicato. Buona fortuna!

Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2014 • N. 08

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Cultura e Spettacoli

Musica svizzera per sentirci meno soli?

Votazioni, il mistero di un’assenza

CD La Gale e Fai Baba: i dischi di due tra le maggiori promesse

ha dimenticato che per fare una buona tv ci vogliono gli ospiti giusti

Visti in tivù La RSI

della nostra musica popular

Zeno Gabaglio «Il passaggio di una frontiera, il niente di una carriera. Prima i droni, poi la cava di ghiaia, poi i debiti al rincaro. Il passaggio di una frontiera, il niente di una carriera. La forza strisciante di voler essere qualcosa di diverso da ieri. I droni, la cava di ghiaia, i debiti al rincaro: una breccia, per una guerra a cielo aperto». Può capitare, nei momenti di disorientamento di una nazione, in quelle situazioni in cui una metà sta esattamente contro l’altra, consapevoli che dal di fuori si verrà giudicati comunque vadano le cose, può capitare di voler guardare alla cultura per ricevere delle risposte, per chiederle chi siamo e sperare in una risposta unificante, o se non altro consolante. O magari per cercare un punto di vista più reale rispetto agli slogan di chi vuol rendere le cose molto più semplici di quello che in realtà sono. La Gale – La Gale

«Non si fa rap per raccontare il colore delle proprie mutande. Qualche anno fa, quando il rap è stato sdoganato, il suo linguaggio è diventato accettabile a tutti, e si è scivolati verso testi dalla banalità umiliante. Il rap era diventato una mu-

Antonella Rainoldi

Il musicista svizzero tedesco Fai Baba.

sica che fluisce indisturbatamente, come i prodotti più patinati del pop o dell’easy-listening». E fatta quest’osservazione preliminare è altresì chiaro per La Gale il suo porsi sul versante opposto, quello dove senza compromessi si ricerca l’incisività – magari anche fastidiosa – nel mettere le parole in ritmo ed in rima. Non è facile per noi comprendere una simile posizione, se non altro perché la donna-rapper è un fenomeno

inesistente nella Svizzera italiana, com’è altrettanto poco abituale, dalle nostre parti, un rap che si collochi nel bel mezzo del dibattito sociale. La citazione con cui abbiamo aperto l’articolo viene proprio da qui, dal disco d’esordio di Karine Guignard, in arte La Gale; e già solo traducendo lo pseudonimo scelto – «la scabbia» – ci si rende conto come il consenso o l’appagamento estetico non siano gli obiettivi principali di questa rapper, metà svizzera (il padre è vodese) e metà libanese. E quindi? Quindi non si vada a cercare nella musica dell’artista – tra le più importanti della giovane generazione romanda del rap con tracce punk e sapori electro – facili soluzioni o riconoscimenti identitari. Tutt’al più si troverà un’intrepida performer che dà la parola ai veri sconfitti della società svizzera, a quegli emarginati di qualsiasi colore che, comunque vadano le cose, saranno sempre al posto sbagliato, a patire le grandi decisioni altrui. Fai Baba – She’s My Guru

La rapper romanda La Gale.

E dall’altra parte dell’Aar? Se si prende in considerazione – anche per la Svizzera tedesca – una delle più convincenti novità musicali, si va incontro ad

un’ulteriore risposta poco stabilizzante. Perché se anche la musica di Fai Baba non va a mettere direttamente le dita sulle piaghe aperte del nostro vivere sociale, uno dei complimenti che la stampa estera ha rivolto a Fabian Sigmund (leader della band) è quello di «suonare assai poco svizzero». C’è addirittura chi – partendo da strettissime somiglianze somatiche tra il nostro e la contro-spia statunitense Edward Snowden – ha sentenziato che quello che ha fatto quest’ultimo ai propri servizi segreti nazionali, Fai Baba lo ha fatto alla musica svizzera, portando gli osservatori esteri a riconsiderare i giudizi stereotipi su di essa. Al di là del fatto che sarebbe molto difficile definire ed indicare quale sia quell’unica e monolitica musica svizzera dalla quale Fai Baba – con il suo psychedelic-garage-soul molto riverberato e sufficientemente sporco – prepotentemente si sarebbe distaccato, quel che può e deve far pensare è il fatto che sia visto come un merito il «non suonare svizzeri». Certo, l’internazionalità. Ma così togliamo al cittadino ogni speranza che a consolarlo della politica possa venire in aiuto perlomeno un po’ di musica.

Top10 DVD & Blu Ray

Top10 Libri

Top10 CD

Eventi sostenuti dalla Cooperativa Migros Ticino

1. Cattivissimo Me 2

1. Clara Sánchez

1. Artisti Vari

Primi applausi Sposa sirena Domenica 23, ore 16.00 Teatro Sociale, Bellinzona

2. Planes

Agenda dal 17 al 23 gennaio 2014

Animazione Animazione

Archie Shepp Quartet Tra jazz e nuove musiche Giovedì 20, ore 22.00 Spazio Officina, Chiasso

Diario di una schiappa – Guai in arrivo, Il Castoro

Megahits 2014 2. Zucchero

3. Eros Ramazzotti 3. Stephen King

4. I Puffi 2

Animazione

Noi Due 4. Laura Pausini

4. J. P. Sloan

English da zero, Mondadori

D. Kruger, D. Boon

Greatest Hits 5. Eugenio Finardi

Fibrillante 5. Violetta

6. Sotto Assedio

C. Tatum, J. Foxx 7. Shadowhunters

L. Collins, J.C. Bower 8. R.I.P.D - Poliziotti d’aldilà

J. Bridges, R. Reynolds 9. Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo 2

Il mio diario - un anno dopo Disney 6. Fabio Volo

La strada verso casa, Mondadori 7. Margaret Mazzantini

Splendore, Mondadori 8. Isabel Allende

Il gioco di Ripper, Feltrinelli

6. Ligabue

Mondovisione 7. Antony/Battiato

Dal suo veloce volo 8. Andrea Bocelli

Love in Portofino 9. Modà

Gioia… non è mai abbastanza

L. Lerman, A. Daddario 9. Khaled Hosseini 10. Elysium Per saperne di più su programmi, attività e concorsi del Percento Culturale Migros consultate anche percentoculturale.ch e Facebook

E l’eco rispose, Piemme

M. Damon, J. Foster 10. Ildefonso Falcones

La regina scalza, Longanesi

Reto Ceschi. (www.rsi.ch)

Una rosa blanca

Doctor Sleep, Sperling

5. Un piano perfetto

Due mariti e un matrimonio Com.x, rassegna teatrale Giovedì 20, venerdì 21, ore 20.45 Teatro Sociale, Bellinzona

2. Jeff Kinney

3. The Lost Dinosaurs

R. Dillane, P. Brooke Raices Flamencas Concerto Sabato 22, ore 20.30 Teatro San Materno, Ascona

Le cose che sai di me, Garzanti

Reto Ceschi ha tirato la volata a Gianni Righinetti? Vorremmo tanto conoscere gli ascolti di Piazza del Corriere di martedì scorso. La prima sensazione, a pelle, è di un risultato meno modesto del solito per la trasmissione di Teleticino, nonostante il livello deprimente di conduzione (Righinetti è imbarazzante, i ritmi della tv gli sono estranei). In studio erano presenti Sergio Savoia, Carlo Luigi Caimi, Christian Vitta e Michele Guerra, chiamati a discutere sulle votazioni di domenica 9 febbraio e sulla proposta dei Verdi per un Ticino a statuto speciale. Torniamo alla domanda iniziale. Reto Ceschi ha tirato la volata a Gianni Righinetti? Ridendo e scherzando, con gran spreco di iperbole, potremmo dire di sì. Con tutto il rispetto, ma Ceschi ha fatto male a non invitare Savoia a Democrazia diretta o a 60 minuti se è vero, com’è vero, che i due dibattiti a più voci hanno il pregio di una rigorosa scelta degli ospiti e di un’ottima conduzione. Da un punto di vista giornalistico, è stato un errore. Savoia meritava di essere sentito a lungo, non solo perché è un animale televisivo straordinario, capace di fare ascolti, ma soprattutto perché ha svolto un ruolo fondamentale nel promuovere l’iniziativa dell’UDC. Invece è stato liquidato in quattro e

10. Artisti Vari

The Dome Vol. 68

quattr’otto con un faccia a faccia proposto dal Quotidiano martedì. A scanso di equivoci, il Servizio pubblico ha sbagliato poche mosse la domenica del voto del popolo svizzero contro la libera circolazione delle persone. Inutile spiegare cos’ha fatto la direzione: ha trasformato la RSI in una all news. Se qualcuno voleva avere informazioni su vincitori e vinti, poteva collegarsi con Speciale votazioni federali, il Quotidiano e i TG, ma anche ascoltare la radio, consultare il sito e il Teletext. Democrazia diretta e 60 minuti (in onda lunedì su La2) sono stati l’occasione per spiegare le ragioni dei risultati e per toccare attraverso le domande giuste le questioni da affrontare, dalle modalità di applicazione del nuovo articolo costituzionale alla rinegoziazione degli accordi con Bruxelles, dall’introduzione di quote per gli immigrati al blocco dei ristorni fiscali dei lavoratori frontalieri. Certo, non è mai facile mettere in scena un processo di conoscenza, specie su temi così delicati. L’ottima conduzione aiuta, ma guai a sbagliare ospiti.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2014 • N. 08

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Il Seminario di Asti A proposito della Giornata della Memoria. Io sono nato nel 1937 nel ghetto ebraico di Asti ma nessuno, quand’ero ragazzo, si è preso la briga di dirmelo. L’ho scoperto da solo, leggendo I giorni del mondo, il romanzo di Guido Artom ambientato ad Asti. Scrive Artom: «Il ghetto era formato da due stradine che si incrociavano e si aprivano ogni tanto in vicoli ciechi, in cortiletti, in uno slargo esiguo e privo di luce. La strada principale si chiamava Contrada degli Israeliti, l’altra San Bernardino, perché con le sue casette era giusto alle spalle del teatro detto appunto di San Bernardino. (…) In quella strada, la minore delle due, sorgeva il Tempio, la scola, costruzione modesta, ma dalle porte dorate, sormontate da versetti biblici in ebraico. C’erano bottegucce: il macellaio, assai importante, perché accanto al suo banco il rabbino stesso sorvegliava che la macellazione avvenisse secondo i riti, un falegname, un venditore di acciughe in barile…». Quel banco di acciughe c’era ancora quando sono nato, era gestito dal

padrone della casa nella quale i miei genitori avevano affittato un appartamento. Le due stradine nel frattempo avevano cambiato nome: San Bernardino era diventata via Ottolenghi e la contrada degli Israeliti via Aliberti; qui mia madre aveva il suo negozio. Gli ebrei, pure abitando nel ghetto, avevano il divieto di uscire in strada dopo il tramonto. Perciò si poteva andare da casa nostra al negozio senza mai uscire in strada, attraversando cortili, passaggi interni, cantine, scale. Per molte estati noi ragazzi abbiamo giocato a nascondino sfruttando quei passaggi segreti e per quegli anditi umidi e bui vennero fatti passare, nei giorni successivi all’8 settembre 1943, i soldati in fuga dal Regio Esercito che chiedevano abiti borghesi per non farsi riconoscere dai tedeschi. Per anni noi saremmo stati vestiti con la stoffa di quelle divise abbandonate, ritinta dal grigioverde al nero. C’è, sepolto fra le memorie della mia infanzia, un remoto lunedì. Mia madre faceva la pettinatrice e il lunedì il negozio re-

stava chiuso. Quel giorno, dopo aver messo in una borsona i ferri per arricciare i capelli, i pettini, il phon, le forbici e un po’ di asciugamani e mantelline, mi aveva preso per mano e portato con sé in un grande palazzo di mattoni rossi, non lontano da casa nostra. Le prime due rampe di scale erano molto larghe, poi, man mano che si saliva, si restringevano, fino all’ultima che portava in soffitta. Lì, sul piccolo pianerottolo, davanti a una porta chiusa, seduti sugli sgabelli, sostavano due soldati tedeschi. Io non avevo paura dei tedeschi perché tutti i giorni, quando verso le cinque mi mandavano a comprare il latte, ne trovavo due seduti nella latteria. Uno di loro mi issava a sedere sulle sue ginocchia e si commuoveva mostrandomi delle foto di bambini tirate fuori da un portafoglio sdrucito; dopo di che mi comprava un bastone di liquirizia o un pezzo di surrogato di cioccolata. Su quel pianerottolo mia madre aveva aperto la borsa facendone vedere il contenuto e così le sentinelle ci avevano fatto passare. Ricordo

uno stanzone sotto i tetti, con il soffitto inclinato e piccoli finestrini. Al centro una stufa con un tubo che saliva verso l’alto; partendo da quel tubo erano state tirate delle corde che finivano contro i muri perimetrali; su quelle corde erano stese coperte, lenzuola, cappotti, pellicce; a me quegli spazi facevano venire in mente fette di una torta gigantesca. Ricordo un gran brulicare di vita; mia madre si era fatta dare una sedia, l’aveva sistemata vicino alla stufa sulla quale scaldava l’acqua per lavare i capelli. Per tutta la mattina su quella sedia si alternarono signore anziane e giovani ragazze; mia madre tagliava capelli, metteva bigodini, faceva riccioli con i ferri dopo averli scaldati sulla stufa. Ero un bambino che osservava tutto ma non chiedeva mai spiegazioni e in quella circostanza mia madre non me ne diede. Molti anni dopo ho scoperto che quel palazzo di mattoni rossi era il Seminario e che tutta quella gente sistemata nella camerata sotto i tetti erano ebrei radunati lì con tutta la famiglia in attesa di es-

sere deportati in Germania. Se quelle ragazze e quelle signore si preoccupavano di avere i capelli in ordine, certamente ignoravano la sorte che le attendeva. Di tutte quelle vite interrotte resta un elenco con i nomi dei 44 ebrei astigiani vittime del nazismo incisi su una lapide sul muro della Sinagoga. Nel lontano 1995, incaricato di recensire una guida agli «Itinerari ebraici in Piemonte», mi ero permesso di rievocare brevemente questi miei ricordi infantili, con la premessa che potevano anche essere imprecisi. Mi ha confortato una lettera di Giorgio Avigdor, autore delle stupende fotografie che illustravano il libro. Ne cito un brano: «Il suo articolo mi ha particolarmente toccato per la descrizione, viva e puntuale, del Seminario di Asti, in cui anche mio padre e mia madre furono rinchiusi. Riuscirono a salvarsi per miracolo. Con mia madre, novantottenne ma lucida, ricordiamo quei momenti e abbiamo molto apprezzato il suo scritto. Cordialmente, suo Giorgio Avigdor».

meno. Fuori dalle scuole le mamme e le tate si caricano dei libri, della tuta da ginnastica, della chitarra, mentre passano la merendina bio al frugoletto. In autobus gli cedono il posto, tutte intente a rispondere in un soffio «Sì, poi dopo te lo compro, ma adesso non gridare, non vedi che figura mi fai fare?». Dopo dieci anni, la lezione dà i suoi frutti. Prendete un mezzo pubblico tra le dodici e l’una, nei pressi di un liceo. Salgono scomposti in massa, vabbè, un’esplosione di giovanile entusiasmo. Si siedono dove capita, come sarebbe giusto, se poi dal sedile o dal pavimento non si protendessero verso la vittima del giorno o la ragazza del giorno. Grida, urli, «suon di man con elle», sottolineati da un turpiloquio del tutto privo di fantasia, che si limita a declinare nelle diverse forme lessicali un solo termine dotato di due zeta, al ritmo di sei zeta ogni due parole, anche otto. Poi quando devono scrivere una mail a un professore, quando tra pochi anni dovranno scrivere una tesina o una tesi,

ma anche solo un curriculum vitae, cercheranno di sostituire l’esclamazione a due zeta con altri segni più neutri, ed ecco che si comprende l’esagerazione di virgole, puntini, punti esclamativi, e il susseguirsi di sostantivi senza preposizioni. Per parlar pulito, mettono la prima cosa che capita per riempire gli spazi che a voce saprebbero come riempire, poi, compiuto questo sforzo, non si vede perché scrivere «Ci potremmo incontrare domani al terzo piano, per esempio alle 14?», quando tutti capiscono anche «Terzo piano incontro?». Tanto lei, prof, non è lì per aiutarmi, a disposizione come la mamma che portava cartella e merenda? No, non così, fattelo spiegare dalla nonna, quando torna con le sue amiche dal corso di meditazione zen e ikebana, prima che inizi quello di cucina vegana, dopo il tai chi del mattino. Ah sì, avevamo detto del Galateo: tenetelo sempre in vista, per ora abbiamo visto esempi di bon-ton, che non è Galateo.

vernali russe: la crociata contro i cani randagi, colpiti con frecce avvelenate e ammassati sui camion dell’immondizia. Denuncia degli animalisti: da ottobre a oggi, eliminati circa 300 cani al mese. Lasciamo il ridente villaggio olimpico ma restiamo agli animali. (Parentesi: se dovessi consigliare un settimanale in lingua italiana leggendo il quale si possa avere uno sguardo sul panorama delle politiche estere, sull’economia globale e sulle società anche lontane dalle nostre, direi «Internazionale» (5½), che propone il meglio dei giornali di tutto il mondo. Ottimi articoli. Tradotti molto bene e illustrati con cura. Particolare non da poco: la politica italiana viene trattata poco, al netto del teatrino). Uno degli ultimi numeri di «Internazionale» aveva in copertina un elefante. Notizia: cento animali uccisi ogni giorno in Africa per favorire il traffico illegale d’avorio. Una «strage silenziosa». «Negli ultimi dieci anni i bracconieri hanno ucciso più di mille guardie forestali, tra-

sformando ampie parti del territorio africano in zone di guerra». Dall’elefante alla giraffa, il salto è (relativamente) breve. Marius (6 alla memoria) era un maschio di giraffa di 18 mesi, era sano e abitava nello zoo di Copenhagen. Non disturbava nessuno. Non piaceva però al direttore dello zoo (–1), che ha deciso di abbatterlo perché era «in surplus numerico e genetico». Il corpo è stato dissezionato davanti agli occhi dei piccoli visitatori e la sua carne è stata data in pasto ai leoni, sempre lasciando che il pubblico assistesse allo spettacolo. Se sul piano genetico quell’esemplare fosse stato davvero incompatibile con la comunità giraffesca dello zoo, il direttore avrebbe potuto prendere un’altra decisione: restituire Marius alla natura, rimandandolo in Africa. Tanto, non aveva zanne d’avorio che potessero allettare i bracconieri. E da quelle parti non risulta che ci siano giochi olimpici invernali, né tanto meno un Putin con le sue frecce avvelenate.

Postille filosofiche di Maria Bettetini Bon-ton, dove sei finito? Ne ho incrociate parecchie, negli ultimi tempi. Riconoscibili subito, prima che aprano bocca. Scarpe basse, simili a espadrillas o bombate come gli antichi amati zoccoli di legno. Calze di lana, cappottaccio ruvido, sciarpa lunga e fatta a mano. Qualche gioiello etnico, dal colore fuori tema. Zaini e tracolle, non borse e borsette, capelli lunghi raccolti a treccia, a coda, lasciati liberi, e orrendamente grigi, ignari del tocco di un qualsivoglia sarto delle chiome. Non devono dire niente, perché le conosciamo e riconosciamo, sappiamo tutto. Avevano vent’anni negli anni Settanta. Speravano in un mondo migliore, più libero. Per portarsi avanti si erano liberate dalle schiavitù imposte alle donne. Per rompere le catene imperialiste (come negarlo?) della moda, degli orpelli della seduzione, degli stereotipi, questi sì mai passati di moda, le ragazze in quegli anni hanno inventato una divisa. Forse per risparmiare, compriamo le gonnellone e i jeans all’ingrosso, tot a

testa. Forse per evitare i confronti tra l’una e l’altra. Forse per non perdere tempo nell’inutile shopping, rivalutato in maniera estrema nell’ultimo decennio: meno vetrine, più veline, nel senso dei comunicati da inviare ai giornali o distribuire per strada. Come che sia, le ragazze quasi senza dirselo hanno creato la divisa, con qualche piccola concessione alla varietà: per il freddo golfoni sformati o scialli, per il caldo abitini campestri. A volte, tentano di confondere gli osservatori, indossano completi minimal tutto nero, meglio tutto grigio e beige, indossano gioielli. Ma non ci cascate, si smascherano subito, qua e là appaiono i segnali: la borsa è nuova ma il modello è quello, la «postina»; i gioielli forse non sono etnici, ma sono pochi e molto grandi, oppure pochissimi e molto piccoli, come se ci si dormisse insieme. Capelli e unghie spesso sono nature. D’accordo, direte, le abbiamo riconosciute, ma che male fanno queste ex-mogli di combattenti, o attuali fidan-

zate di soggetti in eskimo (!) e maglioncini stretti, per non dire dei pantaloni? Ma no, non fanno del male, sono totem che ricordano quel decennio tanto cupo quanto, per certi versi, entusiasmante. Hanno figli che lavorano come informatici nelle multinazionali, che anche se fanno politica (alcuni) non si perdono il Grande Fratello. Hanno nipoti che disprezzano profondamente genitori e nonni, che dopo tante lotte e conquiste presentano loro un mondo radioattivo. Un mondo dove faranno fatica a lavorare, ad avere tranquillità economica, a crearsi una famiglia che sia anche solido rifugio, speranza di futuro nei bambini, garanzia di essere accettato e voluto bene, comunque. I ragazzini che escono da scuola guardano i grandi e li chiamano «vecchi», anche se sono trentenni. Vecchi che fin da piccoli li hanno spronati solo alla competitività, perché uno su mille ce la fa. Studia bambino, fai sport, e impara a darle piuttosto che a prenderle. La lezione è recepita senza

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Dalle stravaganze russe alla giraffa Marius I giochi olimpici di Sochi (1½ a prescindere, dopo le decisioni di Putin: contro gli omosessuali e contro quella che definisce la «blasfemia») si sono distinti per le toilette alquanto stravaganti. Intanto, i cartelli dei divieti: vietato pescare nel water con una canna da pesca, vietato ai maschi fare la pipì in piedi (per non sporcare), vietato vomitare, vietato mettersi in piedi sul vaso, vietato sedersi per terra e infilarsi una siringa nel braccio, oppure, secondo un’altra interpretazione della stessa vignetta, vietato prendere a martellate il cesso. Non è uno scherzo: gli organizzatori delle Olimpiadi invernali (1) pensano davvero che ci siano atleti che non vedono l’ora di gettare l’amo e mettersi a pescare le triglie o le orate nei gabinetti. Così, tanto per passare il tempo tra un allenamento e l’altro. Qua e là c’è anche il divieto di gettare nel gabinetto la carta igienica dopo aver espletato i propri bisogni fisiologici. Dunque, per i brillanti dirigenti olimpici, gli atleti sarebbero

obbligati a ingoiare o mettersi in tasca la carta igienica appena usata. Se si considera la precisione dei divieti, salvo indicazioni contrarie, bisogna desumere che a Sochi sull’asse del gabinetto è permesso mangiare un primo, un secondo e/o un contorno, sdraiarsi di traverso, dormire, sorseggiare un caffè o un tè, dipingere, lavarsi i denti o i piedi. Dentro lo scarico si può anche farsi uno shampoo, fare il bucato o lavare le stoviglie, tuffarsi e nuotare. Gli architetti russi hanno poi inventato il cosiddetto «twin-toilet», un doppio water open, senza pareti divisorie. Una specie di bagno matrimoniale, che ignorando la privacy prevede due sedili, uno di fianco all’altro, qualora si volesse dialogare con il vicino durante l’evacuazione. Altra variabile creativa è il gabinetto-cinema: di fronte al wc è stata collocata una fila di sedie per chi volesse prendere posto e godersi tranquillamente (magari mangiando popcorn) lo spettacolo della altrui defecazione. Una

meravigliosa trovata. Bisognerebbe diffonderla ovunque nei gabinetti pubblici: se qualcuno, in tempo di crisi, non potesse permettersi un biglietto a cinema o a teatro potrebbe sempre consolarsi con una visione e un ascolto alternativo. Gabinetti protagonisti a Sochi. Si è a lungo parlato del dentifricio-bomba, vero spettro degli agenti antiterrorismo, preoccupati degli attacchi dell’estremismo islamico. Quando su Twitter è circolata una fotografia con la porta di una toilette del villaggio olimpico visibilmente squarciata, qualcuno ha pensato che le più funeste previsioni si fossero avverate e che fosse esploso un tubetto di Durbans, di Mentadent o di Candida: invece quel buco enorme era il risultato di un calcio sferrato dal bobbista statunitense Johnny Quinn allorché si è accorto che la porta del bagno era rimasta bloccata da fuori. 4½ alla prontezza di Quinn nello sfondamento. Un tipo deciso, questo bobbista. Una specie di elefante. Altro versante delle simpatiche Olimpiadi in-


Il nostro pane, chi lo produce?

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Ciò che ci sta più a cuore lo facciamo noi stessi: proprio per questo il nostro pane viene prodotto dai collaboratori delle aziende Migros in Svizzera. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2014 • N. 08

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Idee e acquisti per la settimana

shopping

È l’ora dei carciofi

Carciofi marinati

Attualità Un ortaggio delizioso con molteplici proprietà benefiche

Antipasto per 8 persone

Contrariamente a quanto molti potrebbero pensare, i carciofi sono relativamente facili da preparare. Gli ortaggi più grossi, dopo aver eliminato le foglie esterne più dure nonché il gambo, si possono cuocere per una trentina di minuti in acqua salata con l’aggiunta di un po’ succo di limone. I carciofi sono cotti quando le foglie si staccano facilmente. Quindi dimezzarli, eliminare la peluria interna con l’ausilio di un cucchiaio e servirli, per esempio, con una vinaigrette oppure utilizzarli come ingrediente per altre appetitose ricette: saltati in padella come contorno, sulla pasta, sottolio, in ripieni vari o gratinati. I carciofi sono però ottimi anche crudi, in insalata, accompagnati da scaglie di

parmigiano: tagliare a striscioline molto fini le foglie interne più tenere ed eliminare la peluria. Mettere i carciofi tagliati in una ciotola con acqua e succo di limone per evitare che ossidandosi anneriscano (l’acidità del succo di limone lo impedisce). Si consiglia di maneggiarli utilizzando dei guanti per evitare di sporcarsi le mani. Scolarli; asciugarli bene e condire a piacimento con un filo d’olio extravergine, sale, pepe, succo di limone, aceto balsamico e infine cospargerli con scaglie di parmigiano. Dal punto di vista nutrizionale, il carciofo è un autentico portento: è ricco di cinarina, vitamina C e B, ferro, magnesio. È un alimento delicato, considerato grande amico del fegato, tonico per il

cuore, di facile digestione, regolatore dell’intestino e leggermente diuretico. Le origini del carciofo si situano nel bacino mediterraneo. Già i Romani lo consideravano un pregiato e ghiotto alimento 500 anni a. C. La sua coltivazione si diffuse in modo importante nel corso del 15. secolo, soprattutto in Italia e Francia. Il nome botanico del carciofo è Cynara Scolymus. È utilizzato anche anche nella fabbricazione di bevande alcoliche, vi dice niente il nome Cynar? Il carciofo si può consumare anche sotto forma di succo fresco, infusione o decotto. Alla vostra Migros Ticino attualmente trovate i carciofi di provenienza italiana, nella fattispecie dalla Sardegna e dalla Sicilia.

Ingredienti sale 2 cucchiai di succo di limone 4 carciofi 4 cucchiai d’aceto ai lamponi 6 cucchiai d’olio d’oliva ½ cipolla ½ mazzetto di prezzemolo pepe Preparazione Portate a ebollizione abbondante acqua, salatela e aggiungete il succo di limone. Spuntate i gambi dei carciofi lasciando un pezzetto di ca. 2 cm. Lessate i carciofi per ca. 30 minuti finché risultano morbidi. (prova cottura: la punta del coltello deve penetrare nel gambo fino al cuore senza in-

contrare resistenza). Scolate e fate raffreddare. Staccate le foglie esterne più coriacee dei carciofi. Tagliate i cuori a metà ed eliminate la paglia. Mescolate l’aceto con l’olio. Tritate finemente la cipolla e il prezzemolo. Distribuite sui carciofi, salate e pepate. Lasciateli marinare per almeno 30 minuti. Tempo di preparazione ca. 20 minuti + cottura ca. 30 minuti + marinatura almeno 30 minuti Per persona ca. 2 g di proteine, 6 g di grassi, 2 g di carboidrati, 300 kJ/70 kcal Ricetta di


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Idee e acquisti per la settimana

Il gran bollito misto Attualità Il bollito di una quindicina di varietà di carne del Ristorante al Parco di Muralto conquista ogni inverno

molti buongustai. Se dopo averlo assaggiato volete provare a prepararlo a casa gli ingredienti di qualità li trovate nelle macellerie di Migros Ticino

È storicamente accertato che a Carlo Magno, oppresso dalla gotta, fosse stato ordinato (invano) di bandire dalla mensa reale gli spiedi di selvaggina e di adottare in alternativa verdure bollite e lesso di manzo. L’origine del lesso, o se preferite bollito, nasce e ha diffusione attorno al IV secolo d.C., quando le campagne diedero ricovero ai fuoriusciti dalle città, prede preferite dalle orde barbariche. In particolare nelle regioni del nord si fece largo questo sistema di cottura che prevedeva l’uso dell’acqua e di ingredienti vari contenuti in grossi recipienti, sotto ai quali ardeva un fuoco e che poteva così fornire a tutte le ore cibi caldi e corrobo-

ranti. Oggi presso i banchi macelleria Migros, gli abili macellai vi potranno aiutare a scegliere le canoniche carni o polpe (geretto, la punta di petto, il piancostato, l’aletta, le ossa con midollo o la spalla di vitello), nonché altri golosi complementi (cotechino, testina, lingua, pollo, luganighe,…). Vi potranno anche consigliare le salse d’accompagnamento più idonee per questa straordinaria preparazione, come la salsa verde, la mostarda o la salsa al rafano. E quando arriva la carne su fumanti piatti di porcellana, accompagnate il tutto con un nostro ben strutturato Merlot. / Davide Comoli


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Idee e acquisti per la settimana

Il ricco bollito misto Ricetta per molte persone Ingredienti Diversi tipi di carne quali ad esempio: aletta di manzo (o collo)*, piancostato di manzo*, spalla di vitello (o collo)*, lingua di manzo*, pollo intero o cosce*, pancetta affumicata*, piedino di maiale*, cotechino nostrano*, wienerli*, luganighe nostrane*, testina di vitello*, ossa con midollo*, zampone, geretto di manzo* Bouquet guarnito (carote, sedano, porro, prezzemolo) 2 cipolle steccate con chiodi di garofano Foglie d’alloro Sale *Disponibili nelle macellerie di Migros Ticino. Preparazione Lavare sotto acqua corrente fredda l’aletta e il piancostato. Far bollire abbondante acqua con il sale e aggiungere l’aletta e il piancostato. La cottura a fuoco medio è di ca. 2 ore (per i pezzi più grossi 2 ore e mezza). A due terzi di cottura aggiungere le

Guido Denninger è lo chef del Ristorante Al Parco di Muralto. (Flavia Leuenberger)

cipolle steccate, il bouquet guarnito e le foglie di alloro. Per controllare la cottura pungere la carne: quando è cotta il liquido che fuoriesce deve essere limpido. Nel fondo ottenuto si può far cuocere anche la lingua. Tutte le carni con salmistrato vanno cotte in un fondo a parte, così come le carni bianche e gli ingredienti restanti. Alcuni consigli Gli immancabili contorni del bollito misto sono: patate bollite, carote, crauti, lenticchie, olive varie marinate, sott’aceti diversi, senape, mostarda di frutta e salsa verde. Per quest’ultima amalgamare bene insieme tutti gli ingredienti quali prezzemolo fresco tritato, capperi tritati, cetrioli sott’aceto tritati, olio d’oliva, olive verdi farcite con le acciughe tritate, aceto balsamico bianco, sale e pepe. Con le rimanenze del lesso si possono fare delle ottime polpette; mentre il brodo si può usare per un saporito risotto oppure per i ravioli in brodo.


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Idee e acquisti per la settimana

Viaggio alla scoperta dei sapori svizzeri

Voglia di intraprendere un indimenticabile viaggio gastronomico alla scoperta dei più classici piatti della cucina svizzera? Allora vi aspettiamo da oggi, fino al 01.03.2014, nei nostri Ristoranti Migros di S. Antonino, Lugano, Grancia, Agno e Serfontana, dove troverete ogni giorno un piatto rossocrociato tipico preparato sul momento dagli abili chef. Il goloso viaggio prende avvio oggi dal Ticino con un grande classico – Risotto al Merlot con luganighetta – e dopo 12 giorni a zonzo per i diversi cantoni svizzeri si concluderà nuovamente nella nostra regione, sabato 1. marzo, con un’altra specialità ticinese,l’«Ossobuco di vitello e polenta».

Tra le altre note bontà nazionali proposte, citiamo ad esempio la «Bistecca di maiale alla vallesana», il «Ragù di tacchino alla turgoviese», il «Filetto di salmerino ginevrino», oppure ancora l’intramontabile «Berner Platte»(vedi il programma completo sulla cartina qui a fianco). Il viaggio attraverso la Svizzera continuerà tuttavia anche dopo il 1. marzo:

in collaborazione con Swissminiatur di Melide, infatti, per ogni piatto svizzero acquistato ognuno riceverà un buono sconto del 50% sull’entrata al parco, questo per l’intera stagione 2014. Infine, per tutti i nostri avventori non mancheranno nemmeno altre sorprese sotto forma di simpatici gadget con la bandiera svizzera. Segnatevelo in agenda!

Stuzzicanti novità targate Orogel

Un classico ticinese: l’ossobuco di vitello.

Il barometro dei prezzi Informazioni sui cambiamenti di prezzo

Il già apprezzato e ampio assortimento di surgelati Orogel in vendita a Migros Ticino – tra cui il Buon Minestrone, le Olive all’Ascolana, le Zucchine Grigliate e i Cuori di Carciofi – si arricchisce di cinque gustose novità per la gioia e la praticità di molte massaie: i Fagioli Borlotti, le Patate al Rosmarino, il Verdurì, il Peperoncino Piccante e i minigelati 9 Club dei Mini. I prodotti Orogel si caratterizzano per l’alto livello qualitativo delle materie prime utilizzate – tutte di origine italiana, ottenute nel rispetto dell’ambiente e della natura – e per i rigorosi metodi di lavorazione applicati dall’azienda romagnola per garantire piatti di qualità ineccepibile. Sul retro di ogni confezione Orogel troverete utili consigli d’utilizzo e sfiziose ricette per pietanze sempre riuscite.

I costi di acquisto delle materie prime come cacao, noci e mandorle sono aumentati a livello mondiale. In Svizzera c’è un rincaro anche per i prezzi del latte: i produttori ricevono da inizio gennaio un prezzo maggiore, come fissato dall’Organizzazione interprofes-

v

Orogel Fagioli Borlotti 450 g Fr. 4.50 Orogel Patate Rosmarino 450 g Fr. 5.90 Orogel Verdurì 600 g Fr. 5.90 Orogel Peperoncino Piccante 75 g Fr. 1.90 Orogel 9 Club Dei Mini 300 g Fr. 7.20

In vendita al reparto surgelati delle maggiori filiali Migros.

Alcuni esempi:

M-Budget Corn Flakes, 600 g M-Budget Energy Drink, 355 ml M-Budget Chips Paprica, 350 g M-Budget Chips Nature, 350 g M-Budget carta alu, 75 m x 29 cm Pralinés Prestige Frey, 250 g Truffes assortite Frey, 230 g Bastoncini alle nocciole, 270 g Choc Midor Carré, 100 g Tradition cuoricini al limone, 200 g Bio Pinoli, 100 g Zucrinet dolc. liquido, 200 ml Sun Queen noci miste, 200 g FUN Cornet fragola, 8 x 145 ml Mega Star Almond, 6 x 120 ml

sionale latte, la quale ha aumentato il prezzo indicativo del latte. Per questi motivi Migros è costretta ad adeguare i prezzi di diversi prodotti contenenti queste materie prime. Al contrario, diversi prodotti M-Budget saranno più convenienti.

Prezzo vecchio in Fr. 1.90 0.90 3.70 3.70 4.05 13.90 8.50 2.25 2.90 2.90 5.80 4.30 3.50 8.40 8.50

Nuovo in Fr.

in %

1.85 0.85 3.55 3.55 3.90 14.60 8.90 2.35 3.10 3.10 6.40 4.50 3.60 8.70 8.90

–2,6 –5,6 –4,1 –4,1 –3,7 5,0 4,7 4,4 6,9 6,9 10,3 4,7 2,9 3,6 4,7


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Idee e acquisti per la settimana

Uno spuntino croccante Gli Zwieback sono ora confezionati in porzioni più piccole: ogni scatola ne contiene quattro pacchetti, invece di due. Nel loro pratico formato sono ancora più indicati per una merenda

Zwieback originali 260 g Fr. 3.20

Zwieback Fitness senza aggiunta di zucchero 270 g Fr. 4.10

Zwieback di Spelta 290 g Fr. 4.20

Uno spuntino equilibrato con Zwieback e frutta. Le nuove porzioni, più piccole, sono davvero pratiche.

Con le nuove confezioni di minor formato gli Zwieback sono diventate un comodo spuntino da viaggio. Ora, invece di 12, ogni pacchetto contiene solo 6 fette biscottate. Basta accompagnarli a un altro alimento fresco, come una mela o una carota, per farli diventare un saporito spuntino o una merenda.

Bio Zwieback grano integrale 260 g Fr. 3.95

Le piccole porzioni saranno apprezzate anche da chi li tiene sottomano a casa propria, come sostituto del pane fresco oppure perché ha una digestione delicata. Una volta aperte, le confezioni tendono ad assorbire l’umidità, mentre se rimangono impacchettate in modo ermetico la loro conservabilità è garantita. Il problema di mantener fresco il

pane era già conosciuto dai greci e dai romani: entrambi avevano risolto di sottoporlo ad una doppia cottura, ciò che gli ha dato il nome di «bis-cotto», in tedesco «Zwieback». Un’ulteriore novità, oltre alla nuova confezione in piccole porzioni, è l’uso di farina svizzera per la fabbricazione degli Zwieback originali e di quelli alla

spelta, identificata da un’etichetta rossocrociata stampata sui singoli pacchetti. Da notare che diventa ecologica anche la confezione in cartone di tutto l’assortimento: la materia prima è tratta da un’economia forestale attenta all’ambiente e alle condizioni sociali dei lavoratori. / Anna-Katharina Ris; foto Claudia Linsi

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche i diversi tipi di Zwieback


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Pomodorini ciliegia su rametto Spagna / Italia, vaschetta da 500 g

Ananas Costa Rica, al pezzo

Insalata di Carnevale Anna’s Best 250 g, 20% di riduzione

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2.50

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Arance bionde Spagna, retina da 2 kg

Filetto di salmone senza pelle in vaschetta d’allevamento, Norvegia, per 100 g, fino al 22.2

Prosciutto cotto al forno Svizzera, per 100 g

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Fragole Spagna, imballate, 250 g

Salame Strolghino di culatello Italia, a libero servizio, per 100 g

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Kiwi Italia, in conf. da 6 pezzi

Fettine e arrosto coscia di maiale, TerraSuisse Svizzera, imballati, per 100 g

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FRUTTA E VERDURA Insalata di Carnevale Anna’s Best, 250 g 3.10 invece di 3.90 20% Cetrioli, Spagna, al pezzo 1.10 invece di 1.40 20% Pomodorini ciliegia su rametto, Spagna / Italia, vaschetta da 500 g 2.10 invece di 3.50 40% Broccoli, Italia / Spagna, al kg 2.40 Ananas, Costa Rica, al pezzo 2.40 invece di 3.60 33% Arance bionde, Spagna, retina da 2 kg 2.50 Asparagi verdi, Messico, mazzo da 1 kg 5.30 invece di 7.60 30% Kiwi, Italia, in conf. da 6 pezzi 1.50 invece di 1.90 20% Fragole, Spagna, imballate, 250 g 1.50 invece di 1.90 20%

PESCE, CARNE E POLLAME Fleischkäse, TerraSuisse, affettato finemente, per 100 g 1.40 invece di 2.– 30% Saucisson Tradition, TerraSuisse, per 100 g 1.25 invece di 1.80 30% Saucisson vaudois, Svizzera, per 100 g 1.40 invece di 1.80 20% *In vendita nelle maggiori filiali Migros. Società Cooperativa Migros Ticino

Prosciutto cotto al forno, Svizzera, per 100 g 2.85 invece di 4.10 30% Bistecca di lonza di maiale, TerraSuisse, per 100 g 2.40 invece di 4.– 40% Pollo intero Optigal, 2 pezzi, Svizzera, al kg 6.60 invece di 9.50 30% Filetti di trota affumicata M-Classic, d’allevamento, Danimarca, 3 x 125 g 8.60 invece di 10.80 20% Salame Strolghino di culatello, Italia, a libero servizio, per 100 g 3.50 invece di 5.– 30% Carne secca ticinese, prodotto in Ticino, affettata in vaschetta, per 100 g 7.20 invece di 9.– 20% Costa schiena di manzo, TerraSuisse, Svizzera, imballata, per 100 g 3.40 invece di 4.30 20% Fettine e arrosto coscia di maiale, TerraSuisse, Svizzera, imballati, per 100 g 1.80 invece di 2.70 30% Mini filetti di pollo, Svizzera, in vaschetta, per 100 g 2.55 invece di 3.65 30% Filetto di salmone senza pelle in vaschetta, d’allevamento, Norvegia, per 100 g 3.– invece di 4.30 30% fino al 22.2

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2014 • N. 08

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2014 • N. 08

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Idee e acquisti per la settimana

Caffè crudo e caffè tostato messi a confronto. Il responsabile dell’acquisto del caffè Bruno Feer e la maestra torrefattrice Nicole Gisi, degustano il caffè esattamente come si degusta il vino: una volta assaggiato, non viene ingoiato, bensì sputato.

La maestra torrefattrice Nicole Gisi estrae un campione di chicchi di caffè appena tostati da un vecchio apparecchio tuttora utilizzato per effettuare test.

«La tostatura del caffè richiede grande sensibilità» Nicole Gisi è maestra torrefattrice presso la Delica di Birsfelden BL. Ha sempre saputo che un giorno avrebbe trasformato la sua passione per il caffè nella sua professione, e questo ancor prima di iniziare a studiare ingegneria alimentare. Infatti, oltre a percepire le più delicate sfumature del caffè tostato, è in grado di estrarre il massimo del gusto dai preziosi chicchi di caffè. Questo luogo è pieno di giganti torrefattori e il delizioso profumo di caffè si diffonde persino al di fuori dell’edificio. Quanto caffè crudo si può tostare qui?

Da 120 a 440 chili, a seconda del torrefattore usato. Qui non devono succedere errori, vero?

Esatto, altrimenti si provocherebbero ingenti danni. I responsabili della produzione controllano perciò l’intero processo di torrefazione dal loro computer. In tal modo, se succede qualcosa, sono in grado di intervenire tempestivamente. Se, ad esempio, la temperatura si

surriscalda, provvedono a inumidire i chicchi con dell’acqua. Ma ciò accade molto raramente. Se il caffè viene tostato troppo, non può più essere consumato. Ma nella maggior parte dei casi, la tostatura procede senza imprevisti. Per prevenire problemi, eseguiamo spesso test con piccole quantità in un vecchio torrefattore; in questi casi, infatti, sono sufficienti 4 chili di caffè. La torrefazione delle più note varietà di caffè richiede ancora dei test?

Ciò dipende dalla qualità dei chicchi. Il caffè crudo, infatti, non è sempre uguale. Il raccolto varia di volta in volta, e molto dipende anche dal modo in cui si raccoglie il caffè nelle diverse piantagioni. Quello raccolto a mano, infatti, è spesso molto pregiato. La torrefazione, durante la quale si sprigionano oltre 1000 aromi, richiede perciò grande sensibilità. Certamente avrà già visitato i produttori di caffè direttamente sul posto.

Sì, sono stata in Costa Rica, dove mi ha ospitato una famiglia di raccoglitori di caffè. Sul posto si scoprono tutti i segreti

di questo pregiato dono della natura, e dopo una tale esperienza non lo si considera più solo una semplice bevanda. Quante volte assaggia il caffè tostato?

Alle nove di mattina degustiamo il caffè tostato il giorno prima, iniziando dalle tostature più delicate e passando poi man mano a quelle più intense. Tra quest’ultime troviamo per esempio il caffè utilizzato nelle capsule per il caffè ristretto. Il consumo del caffè in Svizzera ha subito cambiamenti?

Come quasi ovunque in Europa, il caffè si beve soprattutto in viaggio. Oggi come oggi non potremmo quindi più rinunciare al tanto apprezzato «coffee to go», senza dimenticare il caffè in capsule, che da anni registra un incredibile boom. In Svizzera, che cosa si acquista di più, il caffè in chicchi o quello macinato?

L’industria Migros produce in Svizzera numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui il caffè in chicchi o macinato della Delica, il pane della panetteria Jowa, nonché il latte, gli yogurt e i dessert della latteria Elsa.

Il più amato è decisamente il caffè in chicchi. Il rapporto è di 2:1. In Svizzera, si vende quindi più del doppio di caffè in chicchi rispetto a quello macinato.

Offerte Al centro del giornale trovate un flyer con le attuali offerte relative ai prodotti di marca Migros.

Profumato caffè, pane croccante e deliziosi latticini in grado di soddisfare qualsiasi palato: sono questi i prodotti più amati a colazione in Svizzera. Scoprite con noi cosa accade dietro le quinte delle imprese Migros Delica, Jowa ed Elsa.

Illustrazione: Frederic Meyer

I creacolazione DELICA

Raccolta Sul caffè in chicchi o macinato, 20% di riduzione dal 18 al 24.2 • Caffè in chicchi Boncampo 500 g Fr. 3.50 invece di 4.40 • Caffè in chicchi Caruso Imperiale Crema 500 g Fr. 6.55 invece di 8.20 • Caffè M-Classic Espresso, macinato 500 g Fr. 4.40 invece di 5.50 • Caffè Bio Fairtrade, macinato 500 g Fr. 6.60 invece di 8.30

Assicuratevi un pacchetto sorpresa, completate questo carnet di raccolta con 18 autocollanti.


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Idee e acquisti per la settimana

Sabrina Mühlethaler (seconda da sinistra) assaggia con i suoi colleghi tutte le bontà della linea Dessert Tradition… e a volte anche delle nuove creazioni.

La crème brûlée viene chiusa appena tolta dal forno.

ELSA

20% su tutti i Dessert Tradition dal 18 al 24.2 • Crème Caramel 175 g Fr. 1.– invece di 1.30 • Crème brûlée 2 x 100 g Fr. 2.25 invece di 2.85 • Flan Vanille 125 g Fr. –.60 invece di –.80 • Crème au four Chocolat 2 x 100 g Fr. 2.25 invece di 2.85

«Un dessert buono come quello della nonna» Sabrina Mühlethaler è la product manager responsabile della linea Dessert Tradition presso la ELSA di Estavayerle-Lac FR. Partecipa regolarmente alle degustazioni, per assaggiare tutte le nuove creazioni sviluppate dai suoi colleghi. Come nascono le nuove varietà della linea Dessert Tradition?

Come lo svela già il nome, si tratta di dessert rinomati e apprezzati, preparati secondo la tradizionale ricetta della nonna. E chi decide se una ricetta è buona abbastanza per essere prodotta?

Lo decidiamo tutti insieme. A tale scopo organizziamo regolarmente degustazioni, durante le quali gli sviluppatori e la direzione valutano la

consistenza e ovviamente il gusto della creazione. Se un dessert risulta troppo dolce o non dolce abbastanza, bisogna produrre nuovi campioni. E questo finché il dessert non viene considerato buono da tutti. Una bontà proposta dalla Dessert Tradition deve infatti rievocare i sapori della propria infanzia. Ma un’azienda così grande è in grado di preparare un dolce esattamente secondo la ricetta della nonna?

Ovviamente le procedure non sono del tutto uguali, ma anche da noi i collaboratori utilizzano il forno per preparare la nostra deliziosa Crème brûlée o la golosa Crème au four Chocolat. Il nostro forno, però, è naturalmente molto più grande di quello della nonna. Ma come

in un forno tradizionale, anche qui da noi le creme devono cuocere nel forno 70 minuti, e quella al cioccolato richiede persino 90 minuti di cottura. Gli ingredienti per la Crème brûlée sono identici a quelli utilizzati per la preparazione in casa. Prima di gustarla, bisogna aggiungere solo ancora lo strato di caramello sopra, vero?

Esatto, è l’unica soluzione davvero valida. Se a casa si cosparge di zucchero la crème brûlée caramellandolo con un apposito bruciatore e lasciandolo riposare, il caramello si scioglie. La stessa cosa accadrebbe anche con il nostro prodotto. Per tale motivo, chiudiamo i vasetti quando la crema è ancora calda e forniamo il caramello in un sacchetto separato.


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Idee e acquisti per la settimana

«Ogni ricetta di pane ha la sua storia» Nella panetteria della casa della filiale Migros di La Chaux-de-Fonds NE, Patrizio Dainotti prepara una pasta per pane con farina semibianca, poco lievito, sale e acqua. Senza apposita impastatrice, paragonabile a un robot da cucina sovradimensionale, non sarebbe in grado di sfornare tutte le varietà di pane proposte alla Migros. La baguette della linea Pain Création richiede comunque un po’ di lavoro manuale. Che cosa rende così speciale la linea Pain Création e la baguette alle olive?

È semplice: l’impiego ridotto di lievito e le lunghe fasi di riposo della pasta. Quest’ultima, infatti, riposa 24 ore acquistando così il suo caratteristico gusto amato da grandi e piccini. I germogli di frumento le conferiscono inoltre la sua delicata e irresistibile nota nocciolata. E quando vanno aggiunte le olive?

Solo nell’ultima fase dell’impasto. Se le aggiungessimo sin dall’inizio, l’impastatrice le ridurrebbe in pezzetti minuscoli facendole sparire nella pasta. Sarebbe un vero peccato, visto che utilizziamo una varietà di olive greche particolarmente buona. E le baguette come ottengono la loro tipica forma rusticale?

Bisogna formarle a mano. Ogni porzione di pasta viene ritorta fino ad ottenere la caratteristica forma della baguette. Ecco perché nessuna è uguale all’altra. I panettieri si mettono all’opera molto presto al mattino. Ma alla sera, poi, le baguette alle olive sono ancora croccanti?

La baguette alle olive è molto apprezzata per accompagnare un aperitivo o la cena, raramente per la colazione. Per tale motivo, questa varietà la sforniamo di pomeriggio; in questo modo, il cliente può deliziare il suo palato con un Pain Création sempre fresco. Anche questa è una particolarità che contraddistingue questo tipo di pane. A livello nazionale, ben 126 filiali Migros vantano una panetteria in store. Questo permette ai clienti di osservare i panettieri all’opera. Qui a La Chaux-de-Fonds purtroppo non è così.

Sì, purtroppo qui non è possibile, perché non disponiamo di sufficiente spazio. Ma qui al Métropole Center, solo due piani ci separano dal reparto del pane. Ciò ci permette di sfornare il pane in base alle necessità e di esporlo negli scaffali ancora caldo e deliziosamente profumato.

Il panettiere Patrizio Dainotti toglie dal forno le baguette appena cotte. Questa varietà viene sfornata più volte al giorno.

Le olive si aggiungono alla pasta solo nell’ultima fase di produzione.

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Su tutte le varietà Pain Création –.40 di riduzione dal 18 al 24.2 • Baguette alle olive 380 g Fr. 3.50 invece di 3.90 • Le Rustique 400 g Fr. 3.40 invece di 3.80 • Pane croccante 400 g Fr. 3.30 invece di 3.70

Il panettiere Dainotti prepara una porzione di pasta per ricavarne la tipica baguette.


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Idee e acquisti per la settimana

Amate da tutti Ci sono cose che non cambiano mai. Ad esempio le frittelle di carnevale della Migros: un successo da 64 anni a questa parte

Foto Christian Dietrich; styling Mirjam Käser

Per un carnevale indimenticabile: ghirlande, coriandoli e frittelle di carnevale Migros.

È bellissimo che ci siano cose che tornano puntualmente ogni anno a portarci un po’ di gioia. Ora è il momento delle frittelle di carnevale. Quelle della Migros sono le migliori, si dice. Non c’è da stupirsene: quelle sottilissime dolcezze sono croccanti, dorate ed equilibratamente dolci. Potenzialmente potrebbero dare dipendenza. E nelle settimane di carnevale se ne smerciano 2 milioni di pezzi. Inoltre, con la loro tipica forma ondulata e le graziose bolle appagano anche l’occhio. Questo dolce delicato, in una simile qualità, può essere prodotto solo industrialmente. Le frittelle di carnevale, un

classico Migros fin dal 1950, sono prodotte dalla Midor SA a Meilen, sul lago di Zurigo. La ricetta è immutata. Affinché gusto, forma e croccantezzza rimangano sempre uguali, la qualità del prodotto e il processo di fabbricazione sono sottoposti a controlli continui. Un’ottima fama comporta degli obblighi, si sa. Il processo di fabbricazione è e rimane un segreto aziendale ben custodito. Le frittelle di carnevale sono disponibili anche in formato mini. Ma attenzione: possono creare dipendenza tanto quanto quelle grandi. / Dora Horvath

Frittelle di carnevale 6 pezzi, 210 g Fr. 2.90* Frittelle di carnevale 6 pezzi, 90 g Fr. 2.10

* 20% ribasso fino al 24. 2.

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui le Frittelle di carnevale


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Idee e acquisti per la settimana

Un sorriso brillante Candida presenta una nuova generazione della cura dentale: particelle di diamante lucidano i denti mentre li puliscono rendendoli bianchi e proteggendo comunque la dentina Denti curati, bianchissimi e brillanti sono il marchio di fabbrica delle star. Ma al giorno d’oggi quasi tutti possono avere un sorriso da dentifricio. Con una pulizia regolare con il dentifricio giusto si è già a metà dell’opera. Con la novità White Diamond, Candida lancia un dentifricio di nuova generazione, basato su una tecnologia straordinaria: autentiche particelle di diamante lucidano a fondo ma delicatamente la superficie dentale. Nel contempo, la dentina dei colletti, molto sensibile, è protetta. Con questo procedimento si elimina la placca e si proteggono i denti dalla carie. Inoltre il dentifricio riesce a ridurre il tartaro nella sua fase di formazione, prima che si indurisca del tutto. Basso valore di abrasione per proteggere i denti

Le particelle di diamante sbiancano i denti. Grazie alla loro grana finissima, hanno un valore di abrasione molto basso, il cosiddetto valore RDA (Radioactiv Dentin Abrasion). È una misura che definisce il livello di abrasione che il dentifricio esercita sulla dentina: più è basso, tanto meglio per la dentina. Col livello RDA 30, straordinariamente basso, entro 10 giorni Candida White Diamond riesce a ottenere uno sbiancamento dei denti efficace e assolutamente delicato. Le particelle di diamante del nuovo Candida regalano, nel vero senso del termine, un sorriso brillante. / Jacqueline Vinzelberg; foto Getty Images

Con autentiche particelle di diamante per un sorriso bianco e brillante: Candida White Diamond 75 ml Fr. 4.90

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui anche Candida White Diamond.


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Idee e acquisti per la settimana

Sferzata di energia per gli sportivi Il nuovo Actilife Crunchy Mix Sport è il primo müesli della Migros pensato appositamente per gli sportivi

Chi è attivo sportivamente e segue un’alimentazione consapevole cerca di assumere sufficienti proteine. Le proteine sono infatti importanti per mantenere le ossa sane e incrementare la massa muscolare. Per soddisfare questi fabbisogni, Actilife ha ora ampliato il suo assortimento di müesli. Il nuovo Crunchy Mix Sport è particolarmente ricco di proteine. In aggiunta contiene Isomaltulosio. Questo zucchero, estratto dalla barbabietola, viene impiegato principalmente nell’alimentazione degli sportivi. Croccanti varietà di cereali, con l’aggiunta di pezzetti di mela e fiocchi di banana, conferiscono al nuovo müesli uno squisito, inconfondibile sapore. Inoltre esso è arricchito di vitamine e sostanze minerali: il magnesio sostiene la normale funzione muscolare, il ferro è utile per il trasporto dell’ossigeno nel sangue. Grazie a tutti questi preziosi elementi, Crunchy Mix Sport contribuisce a un’alimentazione equilibrata. / Jacqueline Vinzelberg; foto Getty Images

L’alto contenuto di proteine dell’Actilife Crunchy Mix Sport sostiene la rigenerazione e lo sviluppo dei muscoli.

Actilife Crunchy Mix Sport 600 g Fr. 6.90

Actilife Crunchy Mix Fibre 600 g Fr. 6.30

Actilife Germi di frumento 250 g Fr. 3.30

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I nostri yogurt Bifidus, chi li produce?

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Ciò che ci sta più a cuore lo facciamo noi stessi: proprio per questo i nostri yogurt Bifidus vengono prodotti dai collaboratori delle aziende Migros in Svizzera. ––––––––––––––––––––––––––––––––––––

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Idee e acquisti per la settimana

Saluti dalla Svizzera

• «Swiss Chocolate» Milch extra tavoletta 100 g Fr. 1.40* invece di 1.80 • «Swiss Chocolate» Napolitaines 300 g Fr. 5.75* invece di 7.20

*20% su tutto l’assortimento «Swiss Chocolate» della Chocolat Frey dal 18 al 24.2.

Svizzera e cioccolato, cioccolato e Svizzera – un binomio riconosciuto immediatamente in tutto il mondo. Nulla di strano, dunque, se il cioccolato è sempre molto apprezzato da amici e conoscenti all’estero come dolce ricordo legato alle vacanze in Svizzera. La Chocolat Frey, nella sua linea «Swiss Chocolate», propone un ampio assortimento di articoli di cioccolato

ideali per i turisti che visitano il nostro bel paese. Esso si compone di non meno di nove diverse variazioni di prima qualità dei cioccolati più consumati in Svizzera. Dalle grandi e piccole tavolette ai Napolitaines fino ai «Matternhörnli», o addirittura a quelli confezionati in un originale zainetto o bidoncino del latte, ne esiste uno per ogni gusto e budget.

L’industria Migros produce numerosi prodotti molto apprezzati, tra cui la linea «Swiss Chocolate».

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In vendita ai banchi pescheria delle filiali Migros di: Locarno, Lugano-CittĂ , S. Antonino e Serfontana. OFFERTE VALIDE DAL 19.2 AL 22.2.2014, FINO AD ESAURIMENTO DELLO STOCK.


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