Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 S. Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXVII 27 gennaio 2014
M sho alle pa pping gine 4 1-45 / 55-59
Azione 05
Società e Territorio Storia di Doro, piccola e incantevole frazione di Chironico, e dei suoi amici
Ambiente e Benessere Effetto placebo: visto che in molti casi funziona, perché non usarlo al posto dei farmaci o almeno per rafforzare la loro efficacia?
Politica e Economia Si è aperta a Montreux la conferenza internazionale di pace sulla Siria
Cultura e Spettacoli Il 2014 inizia con una mostra strabiliante e rivoluzionaria al Centro Pompidou di Parigi
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Aspettando la svolta energetica
A caccia di fossili sulla Jurassic Coast
di Peter Schiesser
di Amanda Ronzoni
Amanda Ronzoni
Impotenti contro le devastazioni delle catastrofi naturali, impotenti contro le resistenze della comunità internazionale a contrastare l’effetto serra. Potremmo sintetizzare così lo stato della lotta ai cambiamenti climatici, sei anni dopo l’appello degli scienziati riuniti nell’Intergovernmental Panel on Climate Changes dell’ONU (IPCC) sull’urgenza di un mutamento radicale e immediato nella politica energetica mondiale. Uragani, scomparsa dei ghiacci ai poli e in montagna, innalzamento del livello dei mari sono presto dimenticati da chi non ne è toccato, mentre la volontà di investire capitali a protezione del clima si riduce rapidamente non appena si affaccia una crisi economica. Ma l’eterna debolezza del genere umano, di rimuovere dalla mente l’esistenza dei problemi (tanto più pronunciata quanto più gravi essi sono), non aiuterà neppure questa volta a cancellarli dalla realtà. Ancora una volta, sono gli studiosi dell’IPCC a rammentarci come stanno le cose. In settembre hanno presentato la prima di tre parti di un importante rapporto sullo stato del clima, in cui si addossa alle attività umane la responsabilità dei cambiamenti climatici con un grado di certezza del 95 per cento; in ottobre, attraverso delle indiscrezioni, si è avuta conoscenza della seconda parte del rapporto (che sarà pubblicato in Giappone a marzo), in cui si mette l’accento sul fatto che i mutamenti climatici potrebbero far sì che la produzione agricola mondiale non sia più sufficiente per coprire i bisogni dell’umanità; pochi giorni fa l’agenzia Reuters e in seguito il «New York Times» hanno pubblicato anticipazioni della terza parte del rapporto, che si focalizza sulle politiche da adottare per limitare l’impatto dei cambiamenti climatici. In questa bozza della terza parte del rapporto, gli scienziati constatano che nel mondo la volontà politica di contrastare i mutamenti climatici è senza dubbio in crescita, ma viene vanificata da un aumento del consumo complessivo di carburanti fossili, in particolare nei Paesi emergenti, e che si spende tuttora di più per sussidiare energie fossili piuttosto che favorire il passaggio a quelle pulite. Tuttavia, sarebbe semplicistico addossare a questi Paesi tutta la colpa: la globalizzazione economica fa sì che molti beni consumati in Europa e negli Stati Uniti vengano oggi prodotti in Cina e in altre nazioni emergenti; di fatto, dislocando altrove la produzione industriale, noi ascriviamo ad altri Paesi una quantità di emissioni nocive che in realtà andrebbero sul nostro conto, sia per la parte creata producendoli, sia per quella generata trasportandoli attraverso cieli e mari. Le scelte economiche di molte aziende occidentali, che hanno creduto di poter ridurre i costi del lavoro sfruttando manodopera a bassissimo prezzo in quello che era il Terzo mondo al prezzo di un maggiore inquinamento «altrove» (e sappiamo quanto avvelenati in Cina sono aria, acque e terre) e di milioni di tonnellate di CO2 liberate nell’atmosfera, si ritorce ora contro il mondo intero. È ancora possibile raggiungere l’obiettivo di limitare a 2 gradi l’aumento della temperatura atmosferica rispetto all’era pre-industriale? Considerato che all’orizzonte non si profila un accordo internazionale per un nuovo trattato (e più efficace di quello di Kyoto), i dubbi sono molti. Secondo gli scienziati dell’IPCC, altri 15 anni di fallimenti nel ridurre in modo sostanziale le emissioni di CO2 e l’umanità sarà costretta pagare un prezzo enormemente più alto per liberare l’atmosfera dai gas ad effetto serra. Come scrive il «New York Times», gli studiosi dell’IPCC immaginano che le generazioni future dovranno investire somme astronomiche per risucchiare CO2 dall’atmosfera e stoccarlo nel sottosuolo, mentre sarebbe meno caro investire oggi i capitali per ridurre le emissioni. Purtroppo, una politica rivolta alle generazioni future ha poche possibilità di essere accettata, dai cittadini come dai politici che pensano alla loro rielezione e non al bene di figli e nipoti. Ce ne dà dimostrazione la Commissione europea che il 22 gennaio ha presentato le misure da implementare dal 2020 in avanti. La crisi economica, sommata ad un aumento del 40 per cento dei prezzi dell’elettricità nell’Unione dal 2005 ad oggi, ha portato la Commissione a ripensare la sua politica: in sostanza, proporrà ai capi di Stato dell’UE e al Parlamento europeo di rinunciare a porre obiettivi vincolanti ai Paesi membri in materia di sfruttamento di fonti rinnovabili. Quindi l’obiettivo di una quota del 27 per cento di energia pulita sul totale entro il 2030 varrà per l’UE complessivamente, ma i singoli Stati avranno mano libera per decidere se e come raggiungerlo. Forse nei prossimi anni, usciti dalla crisi, Stati Uniti, Europa, Cina e altri grandi opteranno per politiche più incisive. Oggi è solo dato sperarlo.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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Attualità Migros
M Profumi e sapori dal mondo Industria Da 60 anni la Delica SA di Birsfelden è specialista in articoli coloniali Marc Bodmer * Articoli coloniali: una definizione non più in uso nella quotidianità, ma che per questo nostro articolo ha ancora un significato. Fino agli anni 70 venivano così definiti prodotti alimentari e generi di consumo che arrivavano da oltre oceano, come zucchero, caffè, spezie, riso e tè. Il concetto risale alle importazioni che si effettuavano in epoca coloniale, quando le nazioni marittime europee possedevano territori in altre parti del mondo. La definizione «generi coloniali» raggruppa oggi in primo luogo il caffè, le spezie, le nocciole e la frutta secca. Questi alimentari pregiati vengono trasformati poi elaborati e stoccati dalla Delica a Birsfelden, nel canton Basilea, che opera da 60 anni per i clienti di Migros. Qui viene elaborata una parte delle 9000 tonnellate di alimentari che giungono annualmente, mentre un’altra parte viene solo selezionata adeguatamente, pulita e impacchettata. Tutti i prodotti vengono esaminati accuratamente per verificare che conservino le loro caratteristiche qualitative. Le noci, le spezie, la frutta secca e molte altre derrate giungono da ogni angolo del mondo e devono essere controllate per verificare che non trasportino… passeggeri indesiderati. Non si tratta in questo caso dei leggendari ragni nelle piante di Yucca, ma di possibili parassiti o funghi. Al momento della consegna, un team di tre persone è responsabile dei controlli. Martin Hoffmann, 32 anni, ne fa parte. Il giovane lavora già alla Delica da 18 anni e, inizialmente, aveva concluso qui un apprendistato co-
me assistente alla logistica. «A seconda dei prodotti e della partita consegnata, effettuiamo delle prove a campione. Si testa la presenza di pesticidi, metalli pesanti o di cariche batteriche» spiega Hoffmann. Oltre a ciò, i campioni sono conservati per permettere ulteriori indagini in caso di reclami. Proprio in questo momento è appena arrivato un carico di nocciole dal Piemonte. Le nocciole italiane sono, come dire, un po’ come le Ferrari della frutta secca. «Il loro diametro e la loro qualità sono molto superiori alla media» afferma Hoffmann. E ora è il momento dei controlli dell’aspetto e delle qualità organolettiche. La dimensione corrisponde a quella richiesta? La nocciola possiede il suo sapore inconfondibile? In questo caso anche lo stoccaggio del prodotto gioca un ruolo importante: «Se il seme viene ad esempio conservato vicino a delle partite di foglie di menta, la nocciola acquista un sapore diverso» spiega Hoffmann, mentre dispone i campioni su un asse da taglio, per poter evidenziare i possibili difetti di qualità. «L’assaggio va effettuato solo dopo che la prima fase del test ha avuto esito positivo. Sono cose che si imparano…», dice con un sorriso da esperto. La partita consegnata oggi, comunque, è esente da difetti. Dopo i controlli d’entrata si tratta di procedere alla ripulitura, perché igiene e pulizia sono essenziali nel trattamento degli alimenti. «Per prima cosa le noci corrono lungo un setaccio vibrante e infine proseguono in una galleria del vento» ci dice Harry Austel, 48 anni, responsabile della produzione dei coloniali. In questo modo le nocciole vengono liberate anche dalla polvere. In un
L’industria Migros, composta da 18 imprese in Svizzera e tre fabbriche all’estero, appartiene alla Comunità Migros. Produce oltre 20’000 prodotti, dalla marmellata al detersivo. Con oltre 11’000 collaboratori, tra cui 415 apprendisti in formazione per 20 professioni diverse, l’industria Migros è uno dei maggiori datori di lavoro in Svizzera e a livello mondiale è la maggiore produttrice di marche proprie. Non fornisce soltanto i supermercati Migros, ma esporta prodotti di qualità svizzera in più di 50 nazioni. Altre informazioni disponibili su: www.mindustry.com.
passaggio ulteriore sono tolti di mezzo i sassolini. Poi c’è di nuovo un passaggio in un «tamburo vibrante» che elimina nuovamente la polvere e altre particelle. Attraverso un tubo le nocciole arrivano al terzo piano, dove scorrono attraverso un metal detector. «Usando un pezzetto di metallo lungo 1,5 mm, contenuto in un bastoncino di plastica, controlliamo più volte al giorno che il rilevatore funzioni correttamente» spiega la cinquantenne responsabile del settore di taglio, Rosemarie Bittaye. E nel frattempo recupera il bastoncino colorato di prova, che è stato correttamente riconosciuto ed espulso dalla macchina. Una volta passate attraverso il metal detector le nocciole salgono di nuovo al quarto piano. Qui vengono raccolte in giganteschi sacchi e immediatamente pesate. I sacchi in materiale plastico (possono pesare fino a 1000 chili) sono poi sistemati nel magazzino. «In un ambiente raffreddato teniamo fino a 100 tonnellate di nocciole» dice Harry Austel. «Nel reparto di produzione abbiamo a disposizione oltre otto di questi magazzini. I prodotti Bio, poi sono stoccati separatamente». Ma le nocciole rappresentano solo una parte dell’ampia offerta di Delica. Un piacevole profumo di caffè riempie il lungo corridoio che conduce alla prossima area di produzione. Ogni anno l’azienda lavora circa 12’500 tonnellate di caffè grezzo e questo la colloca tra le più importanti torrefazioni a livello nazionale. Oltre questo passaggio, ecco ora farsi strada un aroma fresco di noce di cocco. Nell’area di produzione seguente una grande parete vetrata apre lo sguardo sul Reno, che scorre qui vicino. Sul fiume navigano chiatte per il trasporto delle merci: sono così vicine che sembra di poterle toccare, e passano placidamente. Il profumo nell’aria qui cambia di nuovo: questa volta si diffonde un aroma agrodolce di albicocche. «Le albicocche chiare, che vengono dalla Turchia, sono più morbide delle altre. Le qualità Bio sono un po’ più scure e possiedono un sapore quasi caramellato» spiega Austel, mostrandoci le tre diffe-
Una delle linee di produzione. ( Nik Hunger)
renti qualità di albicocche secche che Migros propone nel suo assortimento. «I frutti sudafricani hanno un sapore leggermente acidulo. Le porto con me volentieri come merenda quando vado in escursione». Se nel processo di preparazione le nocciole vengono insaporite o arrostite, la frutta secca viene soltanto esaminata nella sua qualità, mescolata e impacchettata in maneggevoli sacchetti. Il compito è svolto da un miscelatore a diversi scomparti. Le albicocche vi sono convogliate attraverso una grossa conduttura, vengono divise in 14 diversi canali e cadono attraverso bocche disposte su due file, provviste ciascuna di 14 diverse uscite. Qui le albicocche vengono pesate, per creare porzioni da 200 g, e vengono poi impacchettate. «Il ripartitore a uscita multipla deve essere sempre tenuto sotto osservazione» dice Austel. «Lo zucchero che trasuda dai frutti può rendere collose le bocche di uscita e queste devono essere costantemente pulite». Noci e semi da parte loro sono molto più semplici da maneggiare, tranne quando sono già stati macinati. La diffe-
Migros aumenta il trasporto su rotaia Con la recente firma di un contratto quadro triennale valido dal 2014 al 2016, FFS Cargo resta il partner strategico privilegiato di Migros sia nel traffico a carri completi che nel traffico combinato
renza si nota anche dalla durata nel riempimento dei sacchetti. Mentre con la frutta secca si possono riempire tra le 50 e 60 buste al minuto, nel caso dei semi si possono raggiungere anche le 65 buste. In comune le due linee di produzione hanno il controllo finale dell’imballaggio. I prodotti passano attraverso un metal detector per l’ultima volta; i sacchetti sono schiacciati con forza, a mano, per verificare la saldatura a caldo dei bordi di plastica. Tra le varie prove a campione sul prodotto c’è anche l’assaggio del contenuto, in cui viene esaminata l’ineccepibilità del sapore. L’occhio allenato di un collaboratore controlla che i dati stampati e il peso sulla confezione siano corrispondenti al protocollo d’esame. Solo a quel momento i collaboratori di Delica imballano i sacchetti a tenuta d’aria in scatole di cartone, che caricano poi sui treni. Dall’area di carico i vagoni raggiungeranno direttamente il centro di distribuzione di Suhr. * Redattore di Migros Magazin
Con Famigros a Europa-Park Concorso In palio
28000 biglietti gratuiti
Già oggi Migros è il principale cliente di FFS Cargo in Svizzera. Nello scorso anno FFS Cargo ha trasportato per conto di Migros oltre 1 milione di tonnellate nette e 75’500 carri nel traffico interno e in quello import/export. In questo modo è stato possibile alleggerire il traffico stradale di circa 87’000 corse di camion e ridurre complessivamente l'impatto ambientale di 11’000 tonnellate di CO2. «In alcuni campi Migros intrattiene già un ottimo rapporto di collaborazione con FFS Cargo da oltre 50 anni. Con la partnership strategica potenziamo il nostro impegno a favore di soluzioni di trasporto eco-compatibili e sostenibili. Il nostro obiettivo è di aumentare ulteriormente la quota dei trasporti merci su rotaia nei prossimi anni», sottolinea
Bernhard Metzger, responsabile per la logistica dei trasporti da Migros. FFS Cargo è l'azienda leader nel traffico merci su rotaia in Svizzera. La partnership con Migros rafforza il vettore di trasporto ferroviario e compren-
de sia i trasporti nel traffico a carri completi sia delle soluzioni di trasporto comuni nel traffico combinato (TC). «Il contratto quadro lo dimostra: la ferrovia è competitiva e propone al settore delle offerte idonee alle esigenze del
mercato. Per il commercio al dettaglio la qualità elevata e l'affidabilità dei trasporti rappresentano un importante fattore per il successo. E noi siamo in grado di offrire entrambe», spiega Nicolas Perrin, CEO di FFS Cargo.
All’iniziativa potranno partecipare esclusivamente i membri Famigros e tutti coloro che si registreranno per la prima volta al club durante il periodo del concorso. Il concorso online è pubblicato su www.famigros.ch, avrà inizio il 23 gennaio 2014 e proseguirà fino al 19 febbraio 2014. Tutti i vincitori verranno informati entro il 26 febbraio via e-mail e si vedranno recapitare i biglietti per posta entro il 10 marzo. Per la registrazione al club sono necessarie una carta Cumulus e una password Cumulus. Famigros avrà un occhio di riguardo per la partner Pro Juventute alla quale donerà mille biglietti oltre a quelli previsti per Famigros. Pro Juventute distribuirà direttamente i biglietti a circa 250 famiglie disagiate.
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Società eTerritorio Vicini agli anziani La sezione del Luganese della Croce Rossa Svizzera ha diversi progetti rivolti agli anziani ed è sempre alla ricerca di volontari
Nel cervello esiste il «pilota»? Le ricerche del neuroscienziato Michael Gazzaniga sugli emisferi del cervello e sul nostro «Io» pagina 5
Dove nasce la lungimiranza Attraverso il pensiero globale possiamo prevedere le conseguenze multiple delle nostre azioni ma l’essere umano usa più frequentemente il pensiero locale pagina 7
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Nel corso degli anni l’associazione «Amici di Doro» ha garantito il risanamento di molto muri a secco, sentieri e della teleferica per il trasporto di materiale. (Amici di Doro)
Gli amici che fanno rivivere Doro Leventina Il monte sopra Chironico riscoperto negli anni ’70 dopo il suo spopolamento vede ora un rilancio
dell’attività pastorizia e un progetto che punta sull’agriturismo Alberto Cotti La sensazione di sentirsi a casa senza esserci veramente è rara e quindi preziosa. È proprio questa sensazione quella che provano gli «Amici di Doro» quando si trovano sul monte che sovrasta Chironico. Una ventina di case immersa nel verde; quasi tutte residenze secondarie, ma vi è pure una cappella costruita nel diciassettesimo secolo. A Doro fino a non molti decenni fa erano l’agricoltura e la pastorizia a farla da padrone. Non per nulla nei primi anni del secolo scorso, su quel monte ci vivevano ancora diverse decine di persone. Poi il lento declino fino allo spopolamento. A riscoprire Doro ci hanno pensato i cosiddetti «neo-rurali» – si tratta di quelle persone che, soprattutto sul finire degli Anni ’70 del secolo scorso, decisero di lasciare le città per tornare a vivere nelle zone rurali – che, poco per volta, hanno ristrutturato alcuni edifici. Ed hanno pure saputo integrarsi a tal punto che, in qualità di «Amici di Doro», si propongono ora di gettare le basi affinché anche in futuro sia garantita la gestione alpestre del monte. «Il progetto si chiama «Doro vivo» – spiega a nome dell’associazione Beat Bachmann –
e presuppone l’investimento di circa 460mila franchi», con la non troppo segreta speranza di poter beneficiare di un sussidio federale – «Doro vivo» infatti, si inserisce nell’iniziativa «Piumogna viva» –. «Stiamo valutando anche altre strade – ammette Bachmann –, ma solo prossimamente decideremo cosa fare». D’altra parte gli «Amici di Doro» già in passato erano riusciti a reperire i fondi per le loro iniziative. Nel 2007, per esempio, grazie alla Fondazione svizzera per la tutela del paesaggio e alla Comunità aziendale Meyer-Moosimann, hanno garantito il risanamento di numerosi muri a secco e della teleferica per il trasporto del materiale. «Oggi però – annota Beat Bachmann –, i mezzi finanziari per la tutela del paesaggio sono molto modesti. Gli interventi per la ricostruzione dei muri di sostegno e per la manutenzione dei sentieri e del bosco di protezione ammontano a circa duemila franchi all’anno e vengono eseguiti da volontari e scuole. I costi del materiale e del trasporto con la teleferica e le paghe per i monitori sono finanziati con le modeste entrate dell’associazione». Resta il fatto che l’investimento complessivo per garantire pure in futuro la gestione alpestre di Doro, anche
con gli eventuali sussidi federali, è superiore alla forza finanziaria dell’associazione. «Stiamo perciò valutando la possibilità – spiega Beat Bachmann – di presentare delle richieste di sostegno anche a diverse organizzazioni per la tutela del paesaggio». Resta il fatto che il rilancio dell’attività alpestre sul monte sopra Chironico, non è finalizzata ad un profitto finanziario. «A noi Amici di Doro – spiega ancora l’architetto che vive ad Agarone – interessa soprattutto creare i presupposti affinché gli allevatori della regione tornino a far pascolare gli animali, ed in particolare le capre, sul monte. Proprio come succedeva fino ad alcuni decenni fa». E come succede ancora, visto e considerato che da alcuni anni nel corso dell’estate a Doro pascolano un centinaio di capre. E non solo. Da qualche tempo gli «Amici di Doro» cullano l’idea di ampliare le loro attività, giocando la carta dell’agriturismo. In particolare l’ipotesi è quella di ristrutturare un antico edificio rurale dove, accanto ai locali legati direttamente all’attività pastorizia, dovrebbero essere realizzate alcune stanze per ospitare dei turisti. Poi, se tutto dovesse andare per il verso giusto, il progetto
potrebbe essere ulteriormente ampliato, realizzando un ostello. Intanto nel corso degli anni, gli «Amici di Doro» si sono preoccupati di risanare sentieri, muri a secco ed altre infrastrutture di pubblica utilità. «Tutti lavori – annota Beat Bachmann – che contribuiscono non solo a migliorare la qualità di vita a Doro, ma anche a cementare l’intesa tra chi ha scelto di trascorrere parte del proprio tempo libero sul monte della Leventina». E ad aver scelto Doro non sono solo i Bachmann, i Meyer o i Moosimann. «Certo – replica quasi con un sorriso il segretario degli Amici di Doro –, d’estate sul monte si parla italiano, dialetto, tedesco e svizzero-tedesco in parti uguali». Non per nulla «Appunti Doro» – la rivista annuale dell’associazione – è stampata in 130 esemplari bilingui. Eppure dietro al rilancio dell’attività alpestre sul monte sopra Chironico, lo svizzero-tedesco – ed il dialetto bernese in particolare –, è fondamentale. A riscoprire letteralmente Doro, nell’ormai lontano 1975, è stato un gruppo di giovani bernesi che con piglio sessantottesco ha quasi subito deciso di chiamarsi «Doro Popolo». Il loro obiettivo era quello di fuggire dalla città
per tornare alla campagna e il monte leventinese aveva tutte le caratteristiche necessarie per ospitarli, così nell’estate del 1977 i giovani vi portarono i loro primi animali; mentre nel 1980 alcuni di loro decisero di trasferirsi stabilmente proprio a Doro. Poi, un passo dopo l’altro, si è giunti fino ad oggi, agli «Amici di Doro», al rilancio della pastorizia e al progetto di puntare anche sull’agriturismo. Intanto però, si profila un sfida assai umana: il ricambio generazionale. I giovani neo-rurali che si sono letteralmente innamorati di Doro negli Anni ’70, tanto giovani non lo sono più; non anagraficamente almeno. Insomma: la prima generazione degli «Amici di Doro» è sulla sessantina. E per dare continuità al loro progetto è davvero giunto il momento di trovare dei successori. Oggi come oggi però, anche se verosimilmente alcuni dei responsabili dell’associazione qualche idea al riguardo l’hanno già maturata, il passaggio del testimone non sembra ancora vicinissimo. «Il nostro impegno prosegue – assicura Beat Bachmann –: siamo concentrati sui nuovi progetti, sul loro finanziamento e sulla gestione dell’associazione».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
Società e Territorio
Nel mondo dell’anziano Croce Rossa Svizzera Da un anno la sezione del Luganese ha avviato un nuovo servizio di sostegno domiciliare
temporaneo rivolto a chi non è autonomo dopo una degenza all’ospedale Stefania Hubmann Un aiuto temporaneo per chi ha problemi di salute o è appena stato dimesso dall’ospedale per cui da solo non riesce a camminare e ad andare a fare la spesa. È questo il progetto di sostegno domiciliare avviato un anno fa dalla sezione del Luganese di Croce Rossa Svizzera a seguito di richieste provenienti da alcuni ospedali, confrontati in particolare con pazienti anziani autosufficienti ma completamente soli. Il Servizio Espresso è rapido, efficiente, sicuro e con un costo molto basso. Forse è ancora poco conosciuto, perché nel primo dei due anni di sperimentazione gli utenti sono stati una ventina di cui solo due giovani. In compenso ha individuato un bisogno reale che non si limita a qualche mese ma che per le persone della quarta età si protrae nel tempo.
Sono diversi i servizi della Croce Rossa pensati per gli anziani soli, ma la carenza di volontari è cronica «In pratica con gli anziani il concetto di temporaneo non esiste», spiega la responsabile del servizio Lorella Carnevali. «In alcuni casi la necessità di prolungare l’aiuto è dovuta al fatto che la persona, magari già novantenne, non riesce più a recuperare l’autonomia di cui go-
deva prima del ricovero in ospedale. L’aspetto preponderante è però la grande solitudine con cui sono confrontati gli utenti. Il nostro arrivo per aiutarli a camminare o portare loro la spesa è quindi un momento atteso soprattutto per avere compagnia. Con il tempo si instaura un rapporto personale al quale non vogliono più rinunciare». Gli interventi del Servizio Espresso non devono però sovrapporsi all’attività del Servizio Visite, uno dei due capisaldi dell’impegno della sezione Luganese a favore degli anziani. Alla fine di quest’anno il progetto pilota, che in quanto tale non è sostenuto dalle casse malati, dovrà quindi essere valutato anche a questo livello. «Espresso è in grado di intervenire nel giro di mezza giornata e ha un tariffario basato sul reddito che parte da dieci franchi all’ora più quattro franchi di trasferta per le destinazioni servite dalle linee dell’Azienda comunale dei trasporti». Un costo limitato per una prestazione praticamente immediata e mirata. In genere gli utenti, quasi tutti sopra gli 80 anni, beneficiano già di aiuti specifici per la pulizia e le cure infermieristiche. Una rete di sostegno dunque esiste, ma non colma lo stato di solitudine in cui si trovano. Il mondo dell’anziano è d’altronde il settore che occupa circa la metà dei volontari impegnati nelle molteplici prestazioni che Croce Rossa assicura nel Luganese. «Oltre al Centro Diurno Terapeutico, dove si alternano momenti di animazione e attività a favore del mantenimento cognitivo – spiega la co-
Il progetto SolidariETÀ incoraggia la convivenza tra anziani e giovani studenti. (Croce Rossa Svizzera Sezione del Luganese)
ordinatrice del Servizio Volontariato Erika Sutera Fogliani – un gran numero di volontari è impegnato nel Servizio Visite, il cui scopo è di offrire compagnia e affetto. Persone sole al proprio domicilio o in casa anziani possono beneficiare una volta alla settimana della visita di un nostro collaboratore. A ogni utente corrisponde un volontario in modo da poter instaurare una relazione personale a lungo termine». In questo caso, quando si tratta di visite a domicilio, la spesa o altre piccole uscite si fanno insieme, a differenza del servizio Espresso. Di qui la necessità in futuro di
coordinare i campi d’azione delle due proposte per evitare, come già evidenziato, sovrapposizioni. «Dobbiamo anche tener conto del fatto che le richieste di visita sono molto numerose e abbiamo una mancanza cronica di volontari in questo ambito. L’attesa è sempre di diverse settimane o addirittura di mesi». Croce Rossa lancia quindi un appello a tutte le persone interessate a mettersi a disposizione come volontari. Per chi è entrato nella terza età e soffre di solitudine perché vive solo, magari in un grande appartamento, Croce Rossa ha lanciato quattro anni or sono
un’altra iniziativa pilota: il progetto SolidariETÀ. I pensionati sono invitati a mettere a disposizione una stanza a uno studente (scelto secondo i bisogni e le aspettative) che assicura compagnia, un piccolo aiuto in casa e un rimborso spese mensile di 300 franchi esenti da imposte. I giovani che arrivano in Ticino per frequentare in particolare l’Università della Svizzera italiana e la Supsi (Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana) possono così trovare un alloggio familiare a costi contenuti. Le richieste infatti sono numerose, molto meno le offerte di camere libere. Già diffuso nelle grandi città come ad esempio Milano, il progetto nel Luganese non è ancora riuscito a decollare. La sua valutazione è prevista a fine 2015. Secondo la responsabile di Croce Rossa la proposta intergenerazionale, che promuove la condivisione, l’altruismo e il sostegno reciproco, incontra una certa diffidenza, pur essendo garantita la presenza dell’ente quale intermediario fra le parti. Informazione, sensibilizzazione e perseveranza sono le strategie messe in atto da Croce Rossa per implementare progetti innovativi che, pur partendo da esigenze concrete riscontrabili sul territorio, a volte faticano a diventare risposte in grado di soddisfare tutte le parti interessate. Informazioni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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Società e Territorio
Non c’è nessuno al comando del nostro cervello
Neuroscienza Studiando pazienti con i due emisferi separati, Michael Gazzaniga ha visto che il nostro «Io»
è un’illusione generata dal cervello Lorenzo De Carli Provate a toccarvi il naso. Avrete certamente la sensazione di una percezione contemporanea: non sentite prima il naso e poi il dito. Eppure, il neurone che va dal naso al cervello è lungo circa sette centimetri e mezzo, mentre quello che trasporta la sensazione dalla mano al cervello è lungo poco più di un metro. Perché li percepiamo contemporaneamente?
Nell’emisfero sinistro del cervello esiste un «modulo interprete» che raccoglie gli stimoli che arrivano e li restituisce sotto forma di narrazione Secondo Michael Gazzaniga – uno dei più importanti neuroscienziati del mondo, famoso soprattutto per i numerosi studi fatti su pazienti ai quali sono stati separati i due emisferi del cervello – «l’informazione è raccolta da un input sensoriale ed elaborata; poi viene presa la decisione che naso e dito si sono toccati nello stesso istante, anche se il cervello non ha ricevuto gli impulsi nello stesso momento, solo dopo questo processo avete la sensazione di un’esperienza cosciente». Ciò significa che la coscienza è qualcosa che arriva dopo. Gazzaniga, che è professore di psicologia all’Università della California, è autore di molti studi specialistici ma anche di libri divulgativi. Scrivendo Chi comanda? Scienza, mente e libero arbitrio, egli ha compiuto con grande successo l’impegnativo sforzo di fornirci una sintesi dello stato della ricerca neuroscientifica, mettendo a fuoco un paio di questioni che ciascuno di noi sente molto personali: come fa quel groviglio di neuroni che abbiamo in testa a fornirci la sensazione di un «Io»? E qual è il grado di libertà che abbiamo, se quel groviglio è sottoposto alle leggi della fisica e, quindi, in linea di principio prevedibile? La prospettiva generale di Gazzaniga è evoluzionista: in che modo il nostro cervello si differenzia da quello dei nostri parenti più stretti? Gazzaniga ci dice che «la scoperta che la corteccia cerebrale umana ha un volume 2,75 volte mag-
I due emisferi del cervello hanno competenze specifiche. (Keystone)
giore di quello dello scimpanzé, ma solo 1,25 volte più neuroni, presuppone che gran parte di questo aumento di massa dipenda dallo spazio tra i corpi cellulari. Questo spazio, il “neuropilo”, è formato da un denso intreccio di assoni, dendriti e sinapsi». Una delle grandi differenze è, dunque, la densità locale; l’altra è la specializzazione di questi distretti: «negli ultimi quarant’anni la ricerca ha dimostrato che il cervello umano contiene miliardi di neuroni organizzati in circuiti locali, i “moduli”, specializzati per funzioni specifiche»; e Gazzaniga ha dato un contributo importante all’impresa di mappare questi moduli, osservando – tra l’altro – che il nostro cervello ha un’architettura small-world; vale a dire: fitte reti locali sono connesse da lunghi e quasi isolati link. Abile ideatore di test, Gazzaniga ha osservato che l’emisfero destro è specializzato in compiti di riconoscimento dei volti, attenzione focalizzata e distinzione percettiva; mentre il sinistro è quello intellettuale, specializzato nel linguag-
gio, nella parola e nel comportamento intelligente. Ma Gazzaniga voleva anche scoprire dove si trova la parte del cervello in cui è per così dire installato il «pilota», dov’è l’«Io» – insomma. Nel corso di questa ricerca, Gazzaniga ha dedicato molti studi al tema generale di come abbiamo percezione delle cose. Egli sostiene che «la coscienza fenomenica, ossia la sensazione di essere coscienti di una percezione, viene generata da processi locali che sono coinvolti solo in una specifica attività». Nel modello di Gazzaniga, il cervello è una rete che connette fitte sotto-reti, che prendono decisioni indipendentemente da noi. Siccome il nostro cervello funziona benissimo anche senza la nostra volontà (guidiamo l’automobile senza tutta la concentrazione con cui imparammo a farlo), Gazzaniga si chiede: «come può un sistema funzionare senza un capo supremo, e perché si ha l’impressione che ce ne sia uno?». La risposta è che la coscienza è un fenomeno emergente: «l’idea complessiva è che abbiamo una
gamma di sistemi gerarchici emergenti che passano dal livello della fisica delle particelle a quello della fisica atomica, della chimica, della biochimica, della biologia molecolare, della fisiologia, fino a emergere nei processi mentali». Ma resta aperta una domanda: perché, se il nostro cervello è una rete distribuita di sotto-reti senza un centro di comando, noi ci sentiamo comunque esseri unitari? È Gazzaniga a dire che: «abbiamo scoperto nell’emisfero sinistro un altro modulo che in un certo senso raccoglie tutti gli stimoli che arrivano al cervello e li restituisce sotto forma di narrazione. È quello che chiamiamo modulo interprete». Secondo il neuroscienziato, «usiamo il nostro modulo interprete per tutto il giorno, nel tentativo di cogliere l’essenza delle situazioni, interpretando i segnali in ingresso e le reazioni fisiologiche del nostro corpo, dando una spiegazione a tutto». Il modulo interprete è dunque il nostro centro di gravità narrativa, è lui «che dà spiegazioni a proposito delle nostre percezioni,
dei nostri ricordi, delle nostre azioni e delle relazioni tra tutti questi». Il libero arbitrio non esiste: la selezione naturale ha evoluto il modulo interprete semplicemente perché orientarci nel mondo cercando rapporti di causa-effetto e costruire storie verosimili è utile alla nostra fitness. Stop. Ma allora dov’è la nostra responsabilità? «La responsabilità – ci dice Gazzaniga, attento ai problemi di giurisprudenza e di etica – è una dimensione di vita che deriva da uno scambio sociale, e lo scambio sociale richiede più di un cervello». L’interazione dei nostri cervelli crea una dimensione sociale, nella quale siamo liberi di orientare le nostre scelte e, anche, la nostra evoluzione, perché, rafforzando per esempio i comportamenti prosociali, espelliamo dal pool genetico complessi genici che orienterebbero verso atteggiamenti troppo aggressivi. Gazzaniga, dunque, dice non solo che assieme siamo liberi, ma che assieme possiamo plasmare la nostra natura.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani La Giornata della Memoria che si celebra oggi è purtroppo anche un’occasione di marketing per l’editoria per ragazzi, impegnata ogni anno a pubblicare romanzi che possano interessare in particolar modo le scuole, perché è soprattutto ai giovani che si rivolge il monito di non dimenticare e, prima ancora, di conoscere la Shoah. Data la corsa postnatalizia a fare uscire titoli sul tema è evidente che non tutti questi libri siano di qualità. Quest’anno però mi pare si sia toccato il fondo con Io voglio vivere, di Mirjam Pressler (Sonda), che si fregia di un sottotitolo quanto mai presuntuoso, «la vera storia di Anne Frank», e che consiste in una sorta di ricostruzione della vita di Anne a partire dal suo diario. Ora, a parte il fatto che il diario di Anne Frank parla già da solo, incisivo e poetico com’è, rendendo ogni commento ridondante, qui si giunge a «commenti» pruriginosi e offensivi, con
il pretesto di trattare un aspetto «cruciale» come «la storia della pubertà di Anne Frank». «Intendo gettare luce sulla storia di una pubertà, dire tutta la verità sulla trasformazione di una ragazzina in donna, senza gli aggiustamenti o abbellimenti che il caso parrebbe richiedere», ci informa perentoriamente l’autrice. Già affermare (senza pudore) di dire, appunto, tutta la verità, colloca questa tra le biografie più trash; ma anche quel categorico gettare luce ci dice quanto siamo lontani dallo sguardo di Perseo (il quale non guarda Medusa direttamente, ma nello specchio) che il Calvino delle Lezioni Americane proponeva come sguardo rivelatore della letteratura. La Pressler giunge ad analizzare i brani in cui nel diario si parla della relazione con Peter cercando di ricostruire, con una volgarità tanto sconcertante quanto pretestuosa, ogni dettaglio della sessualità di Anne, certissima che «chiunque si
chieda cos’abbiano realmente combinato quei due». Anche no, grazie, verrebbe da dire alla Pressler, poiché non tutti i lettori hanno le curiosità sue. E se su qualcosa occorre gettare luce, questo è l’orrore della Shoah, non l’intimità di una ragazza. Leon Leyson, Il bambino di Schindler, Mondadori. Da 11 anni
Tra i vari libri sull’argomento usciti in questo mese di gennaio, uno dei migliori, in grado di onorare davvero la Giornata della Memoria, è l’autobiografia di Leon Leyson appena pubblicata da Mondadori con il titolo Il bambino di Schindler. Nato in Polonia nel 1929, Leyson fu il più giovane della «lista di Schindler», nella cui fabbrica di Cracovia lavorava insieme al padre, nonostante fosse così esile che solo salendo su una cassa di legno riusciva ad azionare i comandi delle macchine. L’adolescenza e la giovi-
nezza di Leon Leyson furono tragicamente segnate dagli orrori del nazismo: confinato nel ghetto e poi deportato nei campi di concentramento, separato da ogni affetto, sottoposto a continue privazioni e crudeltà, riuscì a sopravvivere e nel 1949, con quello che restava della sua famiglia, si trasferì negli Stati Uniti, dove, grazie a una forza di volontà mai spenta nonostante gli indelebili traumi
subiti, recuperò gli anni di studio e divenne insegnante. Non parlò mai in pubblico della sua esperienza, fino agli anni Novanta, quando, sulla scia del film di Spielberg, i giornalisti arrivarono a lui. Oltre a numerose conferenze tenute negli Stati Uniti, Leyson scrisse (con l’aiuto della moglie Elisabeth e di Marylin Harran del Centro di Studi sull’Olocausto della Chapman University) la sua storia, che purtroppo non riuscì a vedere pubblicata perché morì nel gennaio del 2013. La storia di ogni vittima dell’Olocausto è unica, pur nel cupo contesto che le accomuna: così noi seguiamo la testimonianza, semplice e autentica, di Leon e ogni sua parola aggiunge spessore alla Memoria. È una testimonianza che non solo ci commuove, ma che ci dà ulteriori motivi di amaro stupore e ci fornisce nuovi elementi per ricostruire quel clima e per cercare con tutte le forze di non renderlo più possibile.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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Società e Territorio
La difficile strada della lungimiranza
Faido, pioniere della luce elettrica Archeologia industriale Nel 1889 Faido fu
il primo comune ticinese a essere illuminato ragionano per loro natura, ma solo con il pensiero globale si possono con 278 lampadine a incandescenza prevedere le conseguenze multiple delle nostre azioni Pensiero locale e globale Sono i due modi in cui gli esseri umani
Laura Patocchi-Zweifel
Lo sforzo di prevedere le conseguenze delle nostre decisioni è un’aspirazione legittima e urgente della specie umana. (Keystone)
Massimo Negrotti La distanza fra i concetti di «locale» e «globale» non ha a che fare solo con l’attuale polemica sulla cosiddetta globalizzazione. Prima ancora, c’è un significato dei due termini che si riferisce al modo in cui gli esseri umani, per loro stessa natura, pensano e ragionano. Si tratta di due modalità presenti e attive in ognuno di noi ma alle quali accediamo con diversa frequenza. Il pensiero locale, il più frequente, ci accomuna a tutti gli esseri viventi e consiste nel valutare ciò che accade, appunto, localmente ossia separando le cose e gli avvenimenti su cui operiamo da tutto ciò che li circonda, nello spazio e nel tempo.
Il pensiero globale è una nobile aspirazione che cerca di individuare le conseguenze multiple delle nostre decisioni Gli esempi, naturalmente, abbondano. A tavola spesso rifiutiamo cibi magari preziosi per la salute ma che non ci piacciono preferendovi altri che troviamo gradevoli trascurando la loro dannosità per il nostro organismo. In questi casi, noi isoliamo i termini della questione – un certo cibo e il piacere o meno che ci dà – in via «locale», tagliando corto sulla catena di effetti positivi o negativi che la nostra decisione produrrà. Una simile condotta non si ritrova solo nei giochi infantili, nei quali il ragionamento sulle conseguenze delle azioni interviene molto raramente e solo progressivamente con la crescita. Si può sostenere che il pensiero locale costituisce la nostra modalità permanente, individuale e collettiva. Troviamo delle buche sulla strada o troppo scarsa l’illuminazione? La reazione è ovvia: è necessario che le autorità decidano al più presto di provvedere. Se, poi, le tasse aumenteranno nessuno metterà ciò in relazione alle spese sostenute dall’ente pubblico che, anzi, verrà giudicato nel peggiore dei
modi applicando anche all’aumento della tassazione la stessa valutazione «locale». In fondo, tutti i problemi legati alla diffusione esponenziale delle tecnologie nelle società avanzate traggono origine da questa modalità di pensiero. Ogni automobile, per fare un altro esempio, è «localmente» perfetta, o quasi. La famiglia vi si sistema a suo agio, i controlli e i servizi di bordo funzionano ottimamente. Tuttavia, il traffico, nel suo insieme, è opprimente, fonte di ansia e nervosismo oltre che di sprechi e inquinamento. Il passaggio al pensiero globale è invece una nobile aspirazione che, a partire quanto meno dagli studi di Jeremy Bentham, cerca di individuare le conseguenze multiple delle nostre decisioni. Anche in questo caso si tratta di una modalità naturale ma che ha visto persino una formalizzazione negli anni 60 del secolo scorso nella cross impact analysis o «analisi delle conseguenze incrociate». L’idea consiste nell’incrociare, anche per mezzo di simulazioni al computer, le possibili interazioni fra gli eventi decisi o previsti tentando dunque di prevedere ciò che accadrebbe o accadrà. È facile arguire che una simile strategia può essere valida solo in ambiti limitati e sufficientemente chiusi. Per esempio, le possibili degenerazioni nelle sequenze dei controlli di sicurezza di una centrale nucleare sono valutabili in questo modo. Ma quando si cerca di valutare interazioni appartenenti ad un ambito non solo più vasto ma, soprattutto, più aperto ed eterogeneo, il rischio di fornire previsioni del tutto inadeguate è piuttosto alto. La previsione delle conseguenze multiple in ambito macro-economico, geopolitico o climatologico è per questo quasi sempre assai inaffidabile. È però da sottolineare che siamo davanti ad un’aspirazione certamente legittima e, in taluni casi, anche urgente, per esempio in medicina, in robotica, nell’educazione ed anche in alcuni delicati settori della politica economica. In fondo, lo sforzo di anticipare le conseguenze multiple delle nostre decisioni e azioni, se non portato ad un eccesso
iper-razionalistico, è da sempre sinonimo di lungimiranza, un concetto che richiama un’abilità sicuramente non diffusissima ma, quando c’è, molto preziosa in politica come nell’arte militare, in ingegneria come nelle attività imprenditoriali e così via. La capacità di semplificare l’insieme delle circostanze intuendo il possibile sbocco delle opzioni disponibili non è, d’altra parte, cosa facile. Infatti, allargando anche di poco la configurazione locale della realtà, si ha subito modo di avvertire l’estrema complessità delle interazioni in gioco, fino a constatare la perdita di ogni ragionevole prevedibilità. Va da sé che il disorientamento che può originare da questa apertura alla globalità è particolarmente forte in chi ha una pressoché esclusiva consuetudine con il pensiero locale del quale, peraltro, si nutre lo stesso «senso comune». Così come va da sé che nessuno può arrogarsi l’autorevolezza necessaria per indicare, con certezza, le conseguenze di questa o quella condotta collettiva. Il vantaggio del pensiero locale consiste, infatti, nella verifica immediata di una decisione o di un’azione, mentre la debolezza del pensiero globale, o sistemico, consiste nella sua verifica necessariamente differita, nello spazio, nel tempo o in ambedue. L’esistenza della nostra specie sulla sola base del pensiero locale sarebbe non più in pericolo di quanto lo sarebbe dando credito esclusivo ad un modello o ad una pianificazione fondati sul pensiero globale di qualche guru del momento. Tutte le specie viventi, salvo quella umana, corrono continui e grossi rischi di estinzione perché la loro speranza di sopravvivenza è legata alla costanza delle condizioni ambientali. Gli uomini, invece, con la tecnologia hanno aumentato le proprie probabilità di adattamento all’ambiente e alle sue variazioni. Ciò nonostante, saper prevedere le conseguenze, almeno di medio periodo, delle innovazioni più pervasive rimane un obiettivo importante per evitare le trappole e le disillusioni provocate dalla miopia implicita nel pensiero locale preservandone, comunque, il principio di libertà che esso include.
Faido, con la costruzione della ferrovia del San Gottardo (1882) divenne luogo di villeggiatura privilegiato per l’alta borghesia e nobiltà milanese in cerca di aria pura e frescura estiva. Erano sorti ottimi alberghi e ristoranti e fiorirono alcune attività artigianali e della piccola industria che crearono un nuovo polo di sviluppo di gran successo. Già dal 1869 le vie e le piazze di Faido venivano rischiarate da lampioni a petrolio. In una buia serata dicembrina del 1888 un gruppo di intraprendenti cittadini, che aveva intuito l’importanza di valorizzare le applicazioni dell’energia elettrica per lo sviluppo socio-economico del paese, prese la coraggiosa iniziativa di illuminare il borgo a luce elettrica. L’avvocato Giovanni Dazzoni, consigliere nazionale conservatore, e l’imprenditore e commissario di governo Carlo Vella ne furono i principali fautori. L’importante sviluppo turistico e imprenditoriale locale che necessitava di un incentivo promozionale aveva fortemente inciso su questa pionieristica decisione. Si passò quindi alla fase progettuale per la costruzione di una centralina rivolgendosi a diverse ditte e valutandone le offerte. Come forza motrice si pensò in un primo tempo di utilizzare le acque del riale Cabbio, ma le portate del corso d’acqua apparvero subito insufficienti per far fronte alle necessità dell’impianto. Si decise quindi di costruire la centralina nel bosco patriziale del Traseggio accanto alla cascata della Piumogna per sfruttare l’energia potenziale della sua considerevole massa d’acqua. L’opinione pubblica accolse molto favorevolmente questa novità in occasione di una prima riunione nella Casa comunale di Faido avvenuta il 30 maggio 1889 per «l’esposizione dei vantaggi dell’illuminazione elettrica e delle condizioni speciali in cui il borgo si trovava per poterne effettuare l’impianto a condizioni favorevoli, dotato com’era di preziose forze d’acqua non lontane dal paese, e trovandosi questo abbastanza riunito con un discreto numero di negozi ed esercizi pubblici». Vennero presentati i vari progetti con i rispettivi preventivi e si costituì un primo Comitato promotore che l’11 giugno firmò l’Atto di fondazione dell’Associazione Cooperativa per l’illuminazione a luce elettrica di Faido. Il 7 luglio il Patriziato di Faido concesse il terreno per l’impianto di captazione e la costruzione della «casa
delle macchine» affidata al capomastro Giovanni Peduzzi di Chiggiogna. La realizzazione della condotta forzata comportò gravi pericoli e disagi dovendo praticare tagli di roccia nella rupe a picco accanto alla cascata. Dopo impegnative trattative venne firmato il contratto con la ditta Alioth di Basilea per l’esecuzione dell’impianto. I lavori dovevano essere ultimati entro i primi di ottobre ma il cattivo tempo e impreviste difficoltà li avevano ritardati fino al 30 novembre. Il 4 dicembre si benedice l’impianto e per quattro sere ancora, all’imbrunire, il lampionaio accenderà le fumose lampade a petrolio nelle vie e nelle piazze del borgo e i mattini seguenti farà il suo giro lo «spegnino». L’8 dicembre del 1889 Faido è in gran festa per l’inaugurazione e messa in funzione della prima centrale con rete di distribuzione di luce elettrica pubblica e privata del Ticino. Improvvisamente 278 lampadine a incandescenza si accendono «inondando il paese di una luce vivissima a giorno». Il quotidiano «Il Dovere» riporta ampiamente la storica impresa con fervente entusiasmo: «La luce di fatto è assai viva e risplendente, placidamente tranquilla, chiara, nitida senza abbagliare la vista. Si direbbe che uguagli quella di raggi solari riflessi attraverso un vetro appannato di bianco». Un visibilio di gente «presa da una specie di esaltazione collettiva» invade strade e piazze per festeggiare lo straordinario evento. Negli anni successivi, in seguito alle numerose richieste di allacciamento, si dovette ampliare e potenziare la centralina a più riprese e il 23 ottobre 1931 il glorioso impianto venne definitivamente spento. Nel 2001-2002 l’ormai pericolante rudere venne dignitosamente sistemato. Una targa commemorativa ricorda questa avveniristica sfida. Quest’anno la CEF (Cooperativa Elettrica di Faido) festeggia il 125° della sua fondazione. Lungo il percorso di una piacevole passeggiata nella pineta attorno alla cascata della Piumogna si può visitare la storica centralina. Bibliografia
Daniele Zanzi, Turismo Faido. Plinio Grossi, Primi in luce, Cooperativa Elettrica di Faido, 1989. Fabrizio Viscontini, Alla ricerca dello sviluppo - La politica economica nel Ticino (1873-1953). AAVV, Il San Gottardo e l’Europa, Bellinzona, 1983.
La storica centralina elettrica fu smantellata nel 1931, quel che rimane è stato valorizzato nel 2002 e si può visitare. (Patocchi-Zweifel)
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Europa (dis)unita Uno dei problemi classici dell’antropologia riguarda la questione del «carattere» di una cultura. Concetto e problema difficili anche da formulare. Se non fosse ovvio a tutti che comunque esiste, sarebbe meglio lasciarlo perdere perché si rischia, qui come altrove nel campo (minato) dell’antropologia, di scivolare sulle bucce di banana degli stereotipi e del pregiudizio. Ma tant’è: hic Rhodus, hic salta. Volenti o meno il problema c’è, e far finta di niente non lo fa sparire. Anzi. Così ruminava l’Altropologo ieri sera mentre assisteva, da uno degli scranni là in fondo, all’Officio dei Vespri nella Cappella del St John’s College, a Cambridge. Il College pratica la liturgia nello stile «High Anglican» – quello, per intenderci, della Casa Reale e delle classi aristocratiche, di contro alla versione semplificata e modesta dell’Anglicanesimo «per tutti» – per così dire. Funzioni curate nei minimi particolari, un coro sublime (quello di St John’s è tra i migliori del mondo) che può cantare di tutto – dal gregoriano alla musica sacra contemporanea, della quale esiste nella tradizione anglicana una produzione
fiorentissima, una solennità che sembra contrastare il fatto che le presenze dei fedeli sono ridotte al minimo… ed una celebrante donna, e per giunta nera. «Ecco il carattere dell’Inghilterra» – meditava l’Altropologo – conservatrice e rivoluzionaria, attaccata alla tradizione come pochi eppure capace di produrre musica sacra ex novo, medievale e modernissima allo stesso tempo… contrasti e contrappunti che, giocati con la cura e l’attenzione propria di un popolo che ha nel cricket (uno sport dalle regole impossibili da comprendere per chi non ci sia nato dentro) il suo gioco preferito… Pensieri in libertà, direte… Fino ad un certo punto, rispondo. Quando leggerete queste note, infatti, saranno trascorsi 450 anni (e un giorno) dalla pubblicazione della Bolla papale Deus Benedictus. Emessa da Papa Pio IV rappresentava la fine dei lavori ormai quasi ventennali del Concilio di Trento, dove si sanciva de facto la scissione dell’Europa fra romano-cattolici e protestanti. Una serie di decreti che annunciavano ufficialmente le prese di posizione dei Padri Conciliari relativamente alle varie
materie di controversia – dal culto delle reliquie alla questione del culto delle immagini, dalla questione delle indulgenze a quella della natura teologica dell’Eucarestia e avanti di questo passo – erano stati resi pubblici nel corso degli anni mano a mano che si raggiungeva una posizione unanime su questa o quella questione. E – si badi – non si era affatto trattato di un cammino scontato, laddove l’ortodossia conservatrice avrebbe trovato nei Cardinali retrivi alla novità terreno più che favorevole per affermarsi. Negli alti ranghi della Chiesa romana erano in molti ad avere simpatie per le posizioni che venivano delineandosi in campo protestante non solo oltralpe ma anche in ambito cisalpino. Da quando Lutero aveva affisso le 95 sue tesi (pare fosse il 1517, o comunque giù di lì) al portale della Cattedrale di Wittenberg erano stati in molti – e fra questi anche alti porporati – a ritenere che, per quanto un tantino azzardate, le posizioni del monaco tedesco non fossero poi tanto campate per aria – o non fossero comunque combustibile da rogo. Il clima di relativa libertà instauratosi con
l’umanesimo e la curiosità per il nuovo ed il meraviglioso che permeava il Neoplatonismo allora di gran moda era ancora ben lontano dalle blidanture dogmatiche che, dal richiamo all’ordine del Concilio di Trento, avrebbero poi portato al rogo i Giordano Bruno e condannato i Galilei di questo mondo. Ma quel 26 gennaio 1564 segnava anche come spesso succede essendo la Storia dotata di un grande senso dell’ironia e del paradosso – la sconfitta dell’idea stessa di «Verità» come risultato di una ricerca collettiva che giunga ad un consenso «mediano» laddove ogni tentativo viene fatto per accomodare posizioni divergenti. Con la Bolla Deus Benedictus, infatti, il Papa accoglieva ed avocava a sé la richiesta dei Padri Conciliari di eleggere il Papato stesso ad unico ed esclusivo interprete dei decreti conciliari. La pubblicazione scaglionata dei decreti conciliari aveva infatti ormai reso abbondantemente chiaro che un conto era la lettera del decreto e altro lo spirito – che ciascuno poi tirava dalla sua parte in fase interpretativa. Si decretava così che una decisione col-
lettiva e «democratica» sottostava però a un’interpretazione autocratica. Fu l’atto che spaccò l’Europa in due tronconi – e molti Paesi in un mosaico male assortito di Cattolici e Protestanti impegnati per almeno i prossimi cent’anni a massacrarsi prima a colpi di eresie, di roghi e colpi di cannone benedetti dalle rispettive autorità ecclesiali. Una storia triste, imbarazzante per un Continente che oggi si arrovella interrogandosi sulla propria identità culturale per sostituire (ma è possibile?) la foglia di fico dell’Euro con un vestito un po’ più consistente… o solo un po’ più à la mode. Esiste – e in che misura e con quali differenze interne – un carattere culturale «cristiano» dell’ Europa, allora? Mmmh… rimuginava l’Altropologo ieri dallo scranno là in fondo alla cappella del St John’s College, Cambridge. Occorrerebbe forse chiederlo ai Confederati: multietnici, multiculturali, multilingui, multireligiosi e moltoricchi… Loro forse lo sanno come si fa. Già… però… però quanto e fino a che punto, proprio per le loro virtù, i Confederati sono «europei»? Referendum?
chisce, invecchia prima del tempo. Oltre le sbarre si apre un mondo ricco di alternative. Sognavi di prenderti cura degli altri, di vivere esperienze ospedaliere? Perché non ti impegni, per quanto possibile, nell’ambito del volontariato di cura? Quanto all’amore, non possiamo esigerlo ma solo propiziarlo e il modo migliore, almeno il migliore che io conosca, consiste proprio nel trovare il senso della propria vita, nel sentirsi sufficientemente bene nei propri panni eppure pronti a cambiare. Quello che possiamo offrire agli altri è la sovrabbondanza del giusto amore per noi stessi. Via quindi rimorsi e rimpianti! La vita è come una partita a carte, dove molto dipende da quelle che ci sono toccate in sorte al momento della distribuzione. È vero che le regole prevedono quasi sempre dei cambi, ma è impossibile ricominciare da capo: ogni mossa
condiziona le successive pur essendo previsti margini di libertà e di iniziativa. Solo alla fine sapremo se abbiamo giocato bene, se siamo stati abili a far fruttare la nostra posta. Ma, anche nel consuntivo finale, molto dipende dal nostro sguardo, dalla nostra capacità di cogliere il lato positivo delle cose: il famoso bicchiere, mezzo pieno per uno, mezzo vuoto per l’altro. Depreco invece l’occhio maligno del tuo ex partner, quel gioire del male altrui che, senza giovare a chi lo prova, aumenta il disprezzo e l’odio del mondo. Se avrai il coraggio di aprire la gabbia in cui ti stai richiudendo, vedrai che i sogni troveranno le ali per volare. Non certo tutti: sarà difficile che tu divenga un luminare che transita lungo le corsie di un grande ospedale seguito da un codazzo deferente di allievi, ma ci sono tanti altri modi per aiutare chi soffre. Guardare indietro fa venire il torcicollo mentre guardare avanti aguzza la vista facen-
doci scorgere ciò che non avevamo mai visto prima. Quarant’anni sono giusto una tappa per valutare ciò che si ha (nel tuo caso un buon impiego!) e per disegnare un futuro desiderabile che preveda l’amore naturalmente, che verrà quando verrà. Come scrive in proposito W.H.Auden: «Quando viene, verrà senza avvisare, proprio mentre mi sto frugando il naso? Busserà la mattina alla mia porta, o là sul bus mi pesterà un piede? Accadrà come quando cambia il tempo? Sarà cortese o spiccio il suo saluto? Darà una svolta a tutta la mia vita? La verità, vi prego, sull’amore».
diversità. Sin qui, dunque, le conseguenze positive di un cambiamento, imposto dall’avvento di una società multiforme e multietnica, e in pari tempo da nuove disposizioni legali. In altre parole, dare del negro, dell’ebreo, del finocchio costituisce reato, e allora attenti. Strada facendo, però, questa crociata di risanamento, che non dovrebbe concernere unicamente il linguaggio ma soprattutto i comportamenti, ha rivelato i vizi del resto tipici in questo genere di iniziative, su cui incombe innanzitutto il rischio di strafare e, peggio ancora, di cadere nel ridicolo. Ed è, appunto, quel che sta succedendo. Le cronache registrano, infatti, continui casi di derive apertamente grottesche. Ecco che in Svezia, l’epiteto di «razzista» è spettato a una caramella di liquirizia, a forma di maschera africana. Il distributore del prodotto, importato dalla Germania, per evitare polemiche, ha
preferito toglierlo dal mercato. Da noi, se non si è ancora toccato l’apice di simili esasperazioni moraliste, si delinea comunque un indirizzo allarmante. Certo, a Losanna, lo spettacolo del comico francese Dieudonné, chiaramente antisemita, è stato autorizzato, ma ha suscitato proteste a non finire. Mentre due comici di successo se la devono vedere con l’accusa di razzismo: Viktor Giacobbo, per aver usato provocatoriamente la parola negro, e Massimo Rocchi, che avrebbe inopportunamente scherzato sul tema dell’antisemitismo. Per non parlare, poi, dell’incidente che ha visto protagonista il sindaco di Berna, Alexander Tschäppät: beccandosi l’accusa di xenofobia per via di una barzelletta sugli italiani «scansafatiche», raccontata in un club privato. Intorno a questi episodi che, francamente, sembrano appartenere all’ambito delle banalità, si è sviluppata una polemica che ha assunto toni seri e preoccupati di un allarme: la Svizzera in
preda a un’ondata di razzismo e di xenofobia? Non esageriamo, ha dichiarato la presidente della Commissione contro il razzismo, Martine Brunschwig-Graf: «I casi accertati, in base alla legge sul razzismo, in vigore dal 1994, sono circa una quindicina all’anno». Si tratta piuttosto, ed è qui che si gioca la sorte di questa causa, d’imparare a muoversi su un terreno labile. Dove mettere i paletti? Come ha rilevato Daniel Vischer, consigliere nazionale verde, bisogna saper distinguere fra battuta scherzosa e offesa mirata, insomma fra leggerezza e gravità. Tanto più che la severità, imposta dal politically correct, rischia di diventare controproducente. Anche in sede parlamentare, si sono alzate voci per difendere «la tolleranza liberale per le banalità». C’è chi non nasconde il rimpianto per i tempi in cui circolavano canzonette come Bongo bongo stare bene solo al Congo o I vatussi altissimi negri, non offensive, soltanto sceme.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Quarant’anni, tempo di bilanci Cara Silvia, faccio parte anch’io della generazione depressa, che non ha ideali sublimi cui ispirarsi né grandi successi da raggiungere. Ormai ho più di 40 anni e, diplomata in ragioneria, lavoro come contabile mentre mi sognavo in corsia a salvar vite umane. Da poco ho interrotto una breve relazione con un coetaneo perché a lui interessava solo far sesso, internet, blog e telefonini. Si animava solo per commentare, con evidente soddisfazione, i problemi, gli insuccessi e le disgrazie altrui. Che tristezza! Il tempo passa e aspetto ancora che i miei sogni si avverino. Dove ho sbagliato? Me lo dica lei, grazie. / Sonia Cara Sonia, è normale che, a quarant’anni, si tracci un primo bilancio della propria vita e si confrontino i sogni della giovinezza con i traguardi della maturità. Raramente i
conti tornano perché sognare implica di non tener conto della realtà, di ignorare condizionamenti e limiti. Altrimenti che sogno sarebbe? In proposito le metafore sono eloquenti: si parla delle «ali del sogno» mentre il risveglio evoca piuttosto i «piedi per terra». Non per questo dobbiamo impedirci di volare con la fantasia perché è proprio nell’irreale che possiamo trovare alternative alla concretezza del presente. Le persone troppo realistiche si chiudono in una gabbia ove le sbarre sono costituite da false certezze come «non si può», «non ce la faccio» e «non ci provo neanche». In questo modo evitano di affrontare debolezze e paure e, in fin dei conti, di sbagliare e talora fallire. È una scelta minimalista, che non consente di sperimentare le proprie potenzialità, di portare alla luce le proprie possibilità. La personalità che evita ogni rischio alla fine si rattrappisce, si rinsec-
Indirizzo Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Umorismo alla sbarra Tempi duri per gli addetti ai lavori della risata e del sorriso. Non soltanto, come vuole il loro mestiere, attori comici, vignettisti, autori di sketch e commedie, si trovano, ogni volta, ad affrontare l’incognita del giudizio di un pubblico, più o meno disponibile all’ilarità. Ma, adesso, devono fare i conti anche con un altro genere di giudizio: d’ordine politico, sociale, morale, deciso da un vero e proprio tribunale, in grado di emanare condanne da scontare in termini di multe, divieti, scomuniche culturali. Paradossalmente, ciò avviene proprio nei Paesi democratici, anzi i più democratici che ci siano, dove la Costituzione garantisce ai cittadini la massima libertà d’espressione, ma anche dove si sta restringendo lo spazio in cui praticarla. Dagli USA al Regno Unito, alla Scandinavia, all’Olanda, alla Francia, e la Svizzera è del novero, si allarga a macchia d’olio una tendenza partita con le migliori intenzioni: delimitare l’ambito di
una libertà individuale che, ovviamente, finisce là dove comincia quella dell’altro. Si sono, quindi, alzati paletti difensivi, destinati a proteggere le possibili vittime di una malintesa interpretazione del diritto di esprimersi e di manifestare. Senza dubbio, quest’operazione di tutela delle categorie più vulnerabili, maggiormente esposte a subire le offese di un umorismo magari becero, ha contribuito a diffondere, nell’opinione pubblica, una nuova sensibilità nei confronti di quelli che furono bersagli addirittura storici: da rispettare cominciando dalle loro denominazioni. Gli ebrei non si possono più chiamare giudei, le persone di colore non sono più i negri, gli omosessuali finocchi, gli immigrati italiani cincali. E via enumerando il vasto repertorio di definizioni spregiative o scherzose di cui ci si serviva per sottolineare, anche verbalmente, una differenza: fra noi, gente del posto, persone normali, e loro, ultimi arrivati, tipi di sospettabile
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Ambiente e Benessere Reportage dalla Jurassic Coast Considerato patrimonio mondiale dell’Unesco, il sito di grande interesse paleontologico si sviluppa lungo la costa della Manica nel sud dell’Inghilterra pagina 12
Brasile: crogiolo di etnie Molte le tradizioni culinarie e gastronomiche che si sono fuse per dare vita alla sintesi perfetta che si trova nella cucina brasiliana
Il mondo degli insetti Da una parte le vespe muratrici, dall’altra l’animale dell’anno di Pro Natura: il grillo campestre
Grand Prix Migros 2014 La tappa ticinese riservata ai giovani sciatori è prevista ad Airolo il 23 febbraio
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Il termine «placebo» può essere tradotto dal latino come «ti compiacerò, ti appagherò». (Keystone)
Effetto placebo Medicina L’importanza di conoscere e sfruttare al meglio le potenzialità di un fenomeno che potrebbe,
se non altro, accrescere l’efficacia dei farmaci veri Sergio Sciancalepore È possibile che un farmaco «finto» – una compressa, uno sciroppo, il contenuto di una fiala da iniettare – che non contiene alcun principio farmacologicamente attivo e che quindi non può avere un effetto terapeutico, possa rivelarsi benefico se chi lo assume è convinto che sia un farmaco vero e proprio perché così gli è stato detto? Sì, è possibile e c’è di più. Può un farmaco vero avere un effetto ancora maggiore se è somministrato in una certa situazione che accresca l’aspettativa, la fiducia del paziente in quel medicamento e in chi glielo ha prescritto, cioè il medico? Anche questo è possibile, e in entrambi i casi si parla del cosiddetto «effetto placebo». Ancora oggi, la guarigione ottenuta attraverso l’assunzione di medicine finte è per lo più considerata – a livello divulgativo – come un fatto curioso, sorprendente, mentre ci sono evidenze scientifiche e sperimentali che dimostrano i meccanismi e le circostanze alla base di questo fenomeno che varrebbe la pena di conoscere e utilizzare in modo ancor più appropriato nella pratica della medicina. Placebo può essere tradotto dal latino – il verbo si trova in un versetto del salmo biblico 116, se-
condo la versione di San Girolamo – come «ti compiacerò, ti appagherò». Tradizionalmente, il placebo è una sostanza che non ha alcuna azione terapeutica (può essere amido mescolato a zucchero e altro) ma che viene presentato in una forma farmaceutica e somministrato facendo credere che si tratti di un vero farmaco, tanto da accompagnarlo da una prescrizione con la rassicurazione che il «medicamento» potrebbe alleviare o addirittura guarire il malanno che affligge una persona: un «utile inganno» per accontentare e venire incontro alla richiesta d’aiuto da parte di un paziente al quale non è possibile – per vari motivi – prescrivere una vera cura. Il rituale della somministrazione, le rassicurazioni circa l’efficacia, la premura del medico fanno scattare una serie di meccanismi a livello mentale e cerebrale che possono migliorare la condizione di salute, dando origine per l’appunto a ciò che viene definito effetto placebo. Questo fenomeno può manifestarsi in tutte le persone anche se l’intensità della risposta è variabile, e non è possibile sapere in anticipo chi reagirà più o meno intensamente al placebo. Inoltre, l’effetto dipende anche dall’intensità e dal tipo di patologia o sintomo presente. Un fatto è comunque certo: la rispo-
sta al placebo è la dimostrazione del ruolo centrale svolto dalla mente e dal cervello, del ruolo del condizionamento da esperienze vissute, e anche da quanto ci attendiamo potrebbe succedere. Un esempio, a tal proposito, è illuminante. Se somministriamo una bevanda a un gruppo di persone facendo loro credere che contenga molta caffeina – mentre in realtà la caffeina non c’è – è probabile che un buon numero di queste persone dicano di sentirsi nervose, dopo aver bevuto quel placebo. Non solo. È probabile che alcune manifestino sintomi rilevabili oggettivamente e non solo sensazioni: un aumento lieve della pressione del sangue e perfino una lieve tachicardia. La somministrazione di un placebo può determinare effetti benefici anche in caso di disturbi d’ansia, dell’umore e di dolori di varia natura: indispensabile, naturalmente, che il paziente sia convinto di assumere un farmaco efficace e che il medico sia altrettanto convincente nel farglielo credere. Ma come si determina l’effetto placebo a livello del cervello? I meccanismi sono solo in parte noti, tuttavia nel caso dell’effetto placebo in presenza di dolore si sa già quel che accade. La riduzione del dolore, indotta dal placebo – un finto antidolorifico – si verifica grazie alla
produzione «inconsapevole ma intelligente» da parte del sistema nervoso centrale di sostanze ad azione analgesica simile a quella degli oppiacei, le endorfine: queste si fissano ai recettori specifici delle cellule nervose coinvolte nella registrazione cerebrale del dolore, bloccandone l’azione. Che si tratti di eventi biochimici reali e non di sola suggestione è dimostrato dal fatto che l’effetto placebo può essere bloccato se contemporaneamente al placebo viene somministrato del naloxone, un farmaco antagonista degli oppiacei che blocca, inattiva i suddetti recettori. Come detto prima, la ricerca ha dimostrato che l’effetto placebo può verificarsi anche se si somministrano veri farmaci, secondo certe modalità: possiamo affermare che l’effetto specifico (terapeutico) del farmaco si somma all’effetto placebo indotto dal contesto nel quale avviene la somministrazione. Questo effetto è ben visibile negli esperimenti open-hidden, cioè in situazione palese-nascosta. Ad esempio. Somministriamo a un gruppo di persone che hanno subìto un intervento chirurgico un vero antidolorifico: la somministrazione sarà accompagnata da un «rituale» (modalità open) che prevede un colloquio con il medico, il quale fornirà ampie rassicurazioni circa l’efficacia del
farmaco. Se invece la somministrazione avviene in un contesto hidden, cioè il paziente riceve il farmaco a sua insaputa e senza alcun colloquio con il medico, si osserverà che anche antidolorifici efficaci come la morfina possono avere meno effetto nel contesto «nascosto» rispetto a quello «palese». L’uso del placebo pone, naturalmente, una questione di tipo etico. L’effetto della somministrazione di un farmaco finto può verificarsi solo se il paziente è convinto dalle parole e dall’atteggiamento del medico che si tratta di un vero farmaco: è dunque lecito, corretto ingannare il paziente, sia pure a fin di bene? Può essere corretto se il placebo che si usa è innocuo e non ci sono altre risorse terapeutiche: si può dire che, in questo caso, si fa un uso compassionevole del placebo. Sarebbe tuttavia opportuno – come ha sottolineato uno dei più autorevoli studiosi dell’effetto placebo, Fabrizio Benedetti, dell’Università di Torino – conoscere e sfruttare al meglio le potenzialità dell’effetto placebo associato all’uso dei farmaci. Questo, riporta al centro dell’attenzione l’importanza del rapporto tra il medico e il paziente: un buon farmaco e una buona informazione possono migliorare e potenziare l’efficacia di una terapia.
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Ambiente e Benessere
Trapassato remoto Reportage Cronache dalla Jurassic Coast Amanda Ronzoni, testo e foto San Giuda non ha tradito: ha colpito con la violenza che si temeva Inghilterra, Francia, Belgio e Olanda, poi Germania, Danimarca e Svezia, diretta verso il Baltico. I venti da 200 chilometri orari si son portati dietro 16 morti. Aeroporti chiusi, voli cancellati, fermi i reattori nucleari del Kent. Alberi sradicati, ponteggi devastati, blackout, tetti che volano via. Danni per milioni di euro. Alcuni giornali hanno amaramente titolato «la tempesta perfetta». Le forze della Natura che si scatenano spietate e inarrestabili. Primordiali. E se San Giuda avesse colpito le coste inglesi tra Dorset e Devon un paio di secoli fa, a inizio Ottocento, di certo sarebbe stata la «tempesta perfetta» per Mary Anning. Tra il 1799 e il 1847, Mary ha setacciato spiagge e scogliere intorno a Lyme Regis a caccia di fossili. Solitamente proprio dopo le intemperie invernali, quando il mare aggredisce la costa con tutta la sua rabbia facendola lentamente a pezzi, portando alla superficie nuovi reperti. I suoi ritrovamenti sono leggendari: aveva 10, forse 11 anni quando insieme al fratello Joseph trovò il primo esemplare di ittiosauro. A 20 anni scoprì uno scheletro incompleto di plesiosauro. Era la prima volta che si vedevano animali del genere e la paleontolo-
gia si arricchiva di nuovi capitoli. Il nome di Mary raramente appare nei carteggi degli esperti, tutti uomini, che si aggiravano nei musei intenti a classificare i reperti da lei segnalati. È, infatti, postumo l’elogio funebre scritto per la Anning dal presidente della Geological Society, onore mai accordato prima a una donna. La sua fu una vita vissuta pericolosamente. A 15 mesi sopravvisse a un fulmine. Arrampicarsi con tanto di gonna e sottogonna, mantello e cappello sulle scogliere franose doveva sembrarle un’inezia. Si manteneva vendendo piccoli fossili ai primi turisti che presero in quegli anni a frequentare Lyme Regis, futura «Perla del Dorset». Qui erano di casa Thomas Hardy e Jane Austen, che nel suo Persuasione descrive «the Cobb» – le mura frangiflutti che proteggono il porto –, set del film La donna del tenente francese, con Meryl Streep e Jeremy Irons, dal romanzo di John Robert Fowles. Oggi Lyme Regis è un luogo cult per gli amanti della paleontologia: per strada campeggiano lampioni a forma di ammoniti stilizzate, si organizzano battute di caccia ai fossili e ogni anno si celebra il Mary Anning Day. Famiglie della nobiltà e della middle class inglese cominciarono proprio a fine Settecento ad affollare quella che oggi è nota anche come Riviera degli Inglesi. Sì, anche. Perché per geologi e paleonto-
logi, la costa tra Studland (Dorset) ed Exmouth (Devon Orientale) ha un altro nome, ben più evocativo: Jurassic Coast. Lunga 153 chilometri, patrimonio dell’umanità dal 2001, è una delle cinque meraviglie naturalistiche della Gran Bretagna. Per lui, l’uomo con l’Estwing (il martelletto da cui Mario Tozzi non si separa mai, ndr.), questo tratto di costa è una specie di palestra di geologia a cielo aperto dove compiere un triplo carpiato nel trapassato remoto, indietro di circa 250 milioni di anni. Evoluzioni da macchina del tempo tra Triassico (250-200
milioni di anni fa), Giurassico (200-145 milioni di anni) e Cretaceo (145-65 milioni di anni), le tre epoche che compongono il Mesozoico, noto anche come «Era dei dinosauri». Praticamente Jurassic Park Live. La nostra maratona T-Rex inizia in pieno Cretaceo dalle Old Harry Rocks, faraglioni e archi di gesso bianco erosi dal mare. Con i loro 65 milioni di anni, sono le rocce più giovani della costa. Troviamo nelle vicinanze la very victorian Swanage, con le signore che sferruzzano nelle cabine di legno fronte-mare
perfettamente attrezzate per l’immancabile tè delle 5. Si susseguono affioramenti schizofrenici, alternanza tra Cretaceo e Giurassico, prodotto delle spinte non proprio gentili delle placche terrestri. A Lulworth Cove, con una semplice occhiata dall’alto su una serie di baie tondeggianti apprendiamo, meglio che su un libro, l’effetto dell’azione erosiva del mare, mentre lungo tutta la costa si snocciola la sequenza di formazione degli archi naturali, che culmina nell’imponente Durdle Door (per gli appassionati dei Tears for Fears, set della celebre Shout). E sembra una beffa per i rassegnati inglesi, ma pare proprio che un tempo qui il clima fosse tropicale. Lo testimoniano i resti di foresta fossile in cima alla scogliera. Superata Weymouth, entriamo più distintamente nell’era dei dinosauri, il Giurassico. Niente cancelli elettrificati o bestioni riportati in vita, ma un paradiso per gli uccelli, trampolieri in testa, che nidificano a Chesil Beach, un tombolo di ciottoli (spiaggia a forma di cordone che congiunge un’isola alla terraferma) lungo 29 chilometri. Dimenticando per un attimo la geologia, in posizione panoramica sulla collina, affacciato sulla spiaggia, c’è Abbotsbury, uno dei villaggi più belli della contea, le case in pietra con i tradizionali tetti di paglia, le numerose gallerie d’arte, un giardino sub-tropicale e la swannery dove una nutrita colonia di cigni viene a riprodursi ogni anno. L’ultimo salto nel tempo ha il colore rosso. Entriamo spazialmente e temporalmente nel Triassico. Il punto più scenografico è senza dubbio Ladram Bay, con i contrafforti rosso scuro piantati in mare, colonizzati dai gabbiani, ma una visita la valgono anche le scogliere di Budleigh Salterton e Orcombe Rocks, capolinea della Jurassic Coast. Se, dopo tutte queste rocce, fossili e ossa, vi venisse finalmente voglia di qualcosa di più «fresco», siete comunque nel posto giusto. A Beer (!), tra lunghe file di sedie sdraio gonfiate da un vento per nulla tropicale, assaggiate i sandwich alla polpa di granchio pescati proprio di fronte. Un bel modo per tornare al presente.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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Ambiente e Benessere
Una cassaforte per i Nobles crus Vini senza frontiere Il primo fondo d’investimento sui vini pregiati Grimod Oggi più che mai la crisi economica, di cui si parla da tempo un po’ ovunque, ci costringe a fare una riflessione anche sui prezzi dei vini, anzi dei buoni vini. Saranno certamente in molti a concordare sul fatto che si dovrebbero poter reperire ottime bottiglie (da 75 cl., s’intende) già sotto i venti franchi. Tuttavia basta dare uno sguardo a qualche listino dei prezzi per veder comparire alcuni Merlot del Ticino che quotano largamente al di sopra dell’asticella massima indicata. Mentre Paesi emergenti come il Cile, l’Argentina e la Nuova Zelanda, che producono vini di eccellente qualità, sono venduti a prezzi assai vantaggiosi anche alle nostre latitudini. Il che, considerati i costi di trasporto, di sdoganamento e di altra natura, costituisce un fattore di concorrenza da molti apprezzato. Continuando a dare uno sguardo all’estero e ricordando la precedente nota di questa rubrica, in cui si parlava della bottiglia facendo notare il contributo degli inglesi alla produzione industriale della stessa a vantaggio della conservazione del vino, ci preme illustrare qualche altro loro merito gettando uno sguardo al contenuto e non più al contenitore. Ora, infatti, anche in Inghilterra può essere coltivata la vite e in futuro, grazie al riscaldamento globale, questa nazione potrebbe produrre vini deliziosi. A che prezzi per il consumatore è però difficile da immaginare. Nemmeno durante l’interessante discussione tra amici appassionati di vino avuta negli scorsi giorni e da cui sca-
turiscono queste riflessioni, sono state fornite delle plausibili ipotesi in questo senso, tuttavia è emerso che – pure in ambito economico-bancario – il vino è ritenuto anche un oggetto da investimenti. Non solo, qualche volta pare essere addirittura oggetto di speculazioni. Insomma, il vino oltre a essere una passione per alcuni potrebbe rappresentare un investimento assai redditizio. In effetti, in pochi anni, i grandi vini di Bordeaux e di Borgogna hanno realizzato incrementi di valore del 200 per cento e anche più. Inoltre non sono mancati e continuano a operare audaci speculatori che fanno affari d’oro rastrellando notevoli quantitativi di bottiglie di bordolesi venduti en primeur, ossia prima ancora che gli stessi siano affinati, imbottigliati e messi in commercio. Un paio di anni fa ho riferito in queste note del libro di Denis Saverot e Benoist Simmat (In vino satans, Edizioni Albin Michel, 2008) in cui evidenziano i redditi stratosferici – siderali – fatti con i più grandi e celebri vini francesi. Essi sostengono addirittura la tesi secondo cui il vino francese non sia mai stato, in apparenza, così potente come ora, al punto che la Francia sembra voltare le spalle alla cultura del piacere. Dev’essere anche per questo che, qualche anno fa, due banchieri lussemburghesi appassionati di vini hanno avuto un’intuizione piuttosto geniale. Esperti nella promozione di fondi d’investimento, hanno creato un valore estetico, pratico ed emotivo, sfruttando l’interesse della clientela per i Passion investments.
Il vino oltre a essere una passione per alcuni potrebbe rappresentare un investimento assai redditizio. (Adam Bruderer)
Al fine di consentire agli investitori di beneficiare di questo tema, avvalendosi della necessaria competenza, la loro società «Elite Advisers» ha creato nel 2008 il fondo «Nobles Crus» sui vini per cui si intende coniugare passione e ragione. Esso mira a realizzare un investimento ottimale a lungo termine tramite l’acquisto, lo stoccaggio e la vendita di un’accurata selezione di vini di alto pregio. Facendo una panoramica del portafoglio, se Bordeaux e Bourgogne la fanno da padroni, oggi iniziano a essere presenti anche Toscana e Piemonte. I
due citati promotori hanno individuato in un certo Christian Roger la combinazione di talento enologico e capacità gestionali: una persona con alle spalle una carriera trentennale presso i maggiori istituti internazionali, il che gli ha consentito di continuare a coltivare il suo interesse di lunga durata nel vino. Nel 1998 ha lasciato il settore bancario ed è diventato un esperto di fama e membro permanente del Grand Jury Européen di degustatori. L’attività di Roger prevede inoltre la vendita e l’arbitraggio dei vini, la co-
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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Ambiente e Benessere
Il profumo dell’Africa in Brasile Gastronomia La ricchezza gastronomica della grande nazione sudamericana non si limita
Il Brasile è un grande Paese, letteralmente! Conta più di 200 milioni di abitanti sparsi su 8,5 milioni di chilometri quadrati, risultando di poco più piccolo dell’intera Europa. La sua caratteristica saliente è di essere un crogiolo, in inglese si dice melting pot, di tantissime etnie: ai popoli indigeni si sono mescolati i conquistatori portoghesi poi gli africani importati come schiavi per lavorare nelle piantagioni e tanti asiatici, soprattutto cinesi e filippini; dall’Ottocento ci sono state poi ondate di migrazione di italiani, tedeschi, ebrei, levantini, giapponesi – oggi solo a San Paolo vivono parecchi milioni di nipponici! – e di altri ancora. E, ovviamente, ognuno ha portato con sé le proprie tradizioni comprese quindi quelle culinarie e gastronomiche. Arti della cucina che si sono fuse – mi sia consentito affermarlo – meglio che in altri Paesi in una sintesi che è doveroso definire oramai brasiliana. Questo detto, in cucina non si può negare che l’influsso dominante, il più fecondo, è stato quello africano dal momento che nelle cucine di questa nazione, e in proprio tutte, hanno sempre lavorato prevalentemente donne africane. Un’altra cosa da non dimenticare mai è il numero dei vegetali di origine latino-americana che è enormemente maggiore di quelli di origine euroasiatica. Laddove, di fatto, noi conosciamo una decina di cultivar, quelli che sono arrivati sino in Europa, loro ne hanno e ne usano centinaia. Ingredienti tipici della cucina brasiliana sono l’olio di palma, un grasso dal sapore pieno e ahimè – anzi ahiloro – ricchissimo di grassi saturi, e il latte di cocco, che lega moltissime preparazioni, un po’ come in Europa si utilizza la panna acida. Quanto agli amidi, prevale il riso lungo, tipo indica, ma è onnipresente
anche la manioca, utilizzata sia come tubero sia come farina. I legumi sono inevitabilmente onnipresenti, in quanto erano e restano le proteine più a buon mercato che ci sono. Particolarmente utilizzati i fagioli neri. La carne tradizionalmente era salata, retaggio del periodo in cui i frigoriferi ancora non esistevano, e il maiale dominava e domina; oggi però è fresca. Il pesce è comunque molto presente. Senza ovviamente dimenticare poi la frutta, non solo mango e papaia, ma anche molte specialità dell’Amazzonia, usate in particolare nelle marinate di carne. Quanto alle preparazioni, le zuppe sono un vero e proprio cardine della gastronomia brasiliana: per la loro preparazione mescolano verdure, legumi, carne e pesce, arricchendo il tutto con allegria, nel senso che una volta venivano preparate con ciò che quel giorno passava il convento, e il retaggio persiste. Tra i secondi sono ben rappresentati gli spezzatini, le grigliate e gli stufati densi e corposi. Alla seconda categoria appartiene il churrasco, un piatto tipico da ristorante (o per meglio dire: non è casalingo). Si tratta di carne o pesce cotti allo spiedo in un forno verticale, cioè con una fonte di calore retrostante e non sottostante: gli spiedi vengono portati dai camerieri ai clienti, poi davanti a loro tagliano una fettina nel piatto che viene in seguito rimesso in forno. Questo tipo di servizio si chiama rodizo. È invece uno spezzatino la feijoada, ultra casalingo della festa, preparata con vari tagli salati di maiale (piedini, orecchio, lingua affumicata) e fagioli neri, servita con riso pilaf, salsa piccante e farofa (farina di manioca cotta con pancetta e salamella). Churrasco e feijoada sono anche la base dei ristoranti brasiliani in giro per il mondo, oramai onnipresenti. Da bere: birra, ma anche cocktail diluiti con acqua e ghiaccio.
CSF (come si fa)
Joe Loong
Allan Bay
Turismobahia
al churrasco e alla feijoada
La scottiglia è un antico piatto toscano chiamato anche «cacciucco di carne» per indicare la varietà delle carni che lo compongono. Vediamo come si fa. Ovviamente si può fare la scottiglia anche con un solo tipo di carne, ma comunque se ci tenete a rispettare la tradizione usatene almeno quattro. Ricetta per 6 persone. Mondate e spezzettate 1 cipolla, 1 carota e 1
gambo di sedano, cuoceteli con poca acqua per 30’ poi frullateli: ma se volete tagliateli a dadini regolari, cuoceteli sempre per 30’ con poca acqua e poi non frullateli. Tagliate a piccoli pezzi possibilmente di eguale dimensione 1,5 kg di carni miste: manzo, vitello, maiale, agnello, coniglio, pollo, piccione, faraona, prosciutto, mortadella, salame ecc. In un tegame, scaldate 1 filo di olio con 1 spicchio d’aglio mondato e leggermente schiacciato, gettate la carne e fatela rosolare rigirandola spesso. Sfumate con 1 bicchiere di vino rosso o bianco a piacere sobbollito per 3’. Unite il soffritto, 200 g di salsa di pomodoro e 1 manciata di prezzemolo tritato e 1 ciuffo di basilico spezzettato a mano. Bagnate con 1 bicchiere di brodo di carni miste (ottimale sarebbe prepa-
rarlo facendo cuocere per 2 ore in brodo vegetale ossa e ritagli delle carni utilizzate) o di brodo vegetale (va ancora bene) o di acqua (meno bene) e fate cuocere, coperto e a fuoco basso, per circa 3 ore, aggiungendo eventualmente dell’altro brodo bollente se il sugo asciugasse troppo. A cottura ultimata la scottiglia dovrà risultare della consistenza di un ragù piuttosto denso. Regolate di sale e di peperoncino e profumate a piacere con cannella, noce moscata e chiodi di garofano pestati. Si serve su fette di pane tostate, che devono intridersi nella puccia: questa è la versione classica. Io la utilizzo anche come un ragù rosso, abbinato con qualsiasi tipo di pasta, o anche con riso, polente, gnocchi e quant’altro. In ogni caso va sempre abbinata a un amido.
Manuela Vanni
Oggi proponiamo due secondi piatti gustosi, come sono peraltro sempre queste ricette…, e facili da fare, anche se in entrambi i casi bisogna stare ben attenti ai tempi di cottura.
Manuela Vanni
Ballando coi gusti
Anguilla con piselli
Carré d’agnello confit con carciofi sott’olio
Ingredienti per 4 persone: 1 anguilla da 1,2 kg già spellata · 400 g di pisellini anche in scatola o surgelati · 1 cipolla · 1 spicchio d’aglio · 1 lime · 1 mazzetto di erba cipollina · 80 g di pancetta affumicata a cubetti · 40 g di salsa di pomodoro · vino bianco secco · brodo vegetale · sale e pepe.
Ingredienti per 4 persone: 800 g di carré d’agnello · 4 carciofi sott’olio · 200 g di
Lavate bene l’anguilla e tagliatela a pezzi di 6 cm. Stufate in una casseruola la pancetta con la cipolla e l’aglio mondati e tritati per una decina di minuti, mescolando. Alzate la fiamma, unite i tranci di anguilla e rosolateli uniformemente. Sfumate con 1 bicchierino di vino (qui va bene anche se il vino non viene sobbollito, l’acido della parte alcolica del vino viene smorzato dal grasso dell’anguilla), poi aggiungete la salsa di pomodoro e 1 mestolo di brodo bollente. Cuocete coperto a fuoco dolce per 15’ poi unite i pisellini e cuocete ancora per 10’. Regolate di sale e di pepe. Distribuite l’anguilla con i piselli sui piatti da portata, grattugiate sopra poca scorza di lime e profumate con una presa di erba cipollina tritata finemente.
cipolle rosse · 100 g di sedano · 100 g di carote · 100 g di porri · aglio · menta peperita · alloro · 200 g di strutto di maiale od olio di semi · sale e pepe. Scolate i carciofi e tagliateli a spicchi. Mondate e lavate tutte le verdure tagliandole a cubetti, tranne le cipolle che vanno fatte a spicchi. Quindi sbollentate il tutto per 4’. Pulite il carré d’agnello e tagliatelo «a fette» per avere 12 costine. Mettete le verdure, poca menta, 2 foglie di alloro, i carciofi, la carne e lo strutto fuso o l’olio di semi in una pentola che li contenga appena. Cuocete in forno a 90° per 30’. Scolate dal grasso e tenete le verdure in caldo, eliminando l’alloro e la menta. Caramellate in padella il carré d’agnello con poco strutto oppure con olio per un paio di minuti. Mettete la carne nei piatti individuali, unite le verdure, spolverizzate di sale e di pepe e servite.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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Ambiente e Benessere
Vespe muratrici Entomologia Ai figli la carne e ai genitori frutti maturi. I singolari costumi di vita di molti imenotteri Alessandro Focarile Nel vastissimo mondo degli insetti, dei quali sono state descritte e censite finora (2010) ben un milione e 400mila specie – rappresentando i quattro quinti degli organismi animali esistenti sul Globo terracqueo – gli imenotteri (160mila specie) costituiscono il più elevato modello evolutivo, insieme alle térmiti, che appartengono all’ordine degli isotteri.
Adulto di Pseudagenia (corpo 14 millimetri). (Alessandro Focarile)
Noi esistiamo da qualche milione di anni, gli imenotteri da oltre 70 milioni, ecco perché i vantaggi biologici, fisiologici ed evolutivi favoriscono questi esseri L’esempio evolutivo più noto, e che più impressiona l’uomo, è rappresentato dalle api e dalle formiche. Di questi imenotteri conosciamo nei minimi particolari la loro straordinaria (e per noi intrigante) vita sociale. La cui organizzazione, altamente complicata, ci obbliga a riflettere sul fatto che si tratta di esseri pensanti e quindi intelligenti, capaci di agire razionalmente e senza sprechi di energie. Tutti, dotati di facoltà che offrono materia per constatare – magari a malincuore – che non siamo soltanto noi umani a essere «intelligenti». Noi discendiamo da un essere barbottante, vissuto qualche milione di anni or sono. Gli imenotteri sono presenti sulla faccia della Terra da oltre 70 milioni di anni (periodo Giurassico). Da quando, cioè, sono comparse le piante con i fiori. L’incolmabile handicap temporale è notevole, e i vantaggi biologici, fisiologici ed evolutivi sono palesemente a favore di chi è comparso per primo. Da parte dell’uomo, la scoperta della terracotta è stata del tutto casuale. Ma
Nidi di vespe muratrici costruiti con argilla (scala 14 millimetri). Nidi costruiti da due specie di vespe muratrici. Reperto di Giovanni Marx (Lugaggia). ( Alessandro Focarile)
le vespe muratrici hanno aggirato l’ostacolo, fabbricando con la loro saliva (che ha le caratteristiche chimiche dell’albume), un materiale altrettanto solido, resistente e duraturo. Le vespe solitarie del genere Pseudagenia (foto) fabbricano degli artistici «barilotti» (foto), che saranno la casa per la loro figliolanza. Con metodica precisione, ogni barilotto contiene un solo inquilino. Altrettanto specializzata è la ricerca della preda, costituita da un ragno, e solo un ragno, che verrà paralizzato da mamma vespa e trascinato fino al barilotto. Sull’animaletto – che ha ben otto zampe,
ma non può fuggire al suo destino – sarà deposto un uovo. Da questo, e in brevissimo tempo, nascerà una larva, la quale si darà febbrilmente da fare nel divorare il ragno paralizzato, partendo dalle sue parti grasse, e lasciando per ultimi gli organi vitali. Ma, attenzione: la scorta-viveri immessa nel barilotto da mamma vespa, è calibrata in maniera talmente razionale, che questa dovrà essere sufficiente fino alla trasformazione della larva in ninfa e, per ultimo, in adulto. A questo punto del ciclo biologico dell’insetto, e nella buona stagione, le pareti di «casa» saranno parzialmente
demolite con un foro rotondeggiante. Con pochi colpi di mandibola, la vespa neonata, se femmina, potrà prendere il volo e andare alla ricerca di… un ragno e di un giacimento di argilla. L’eterna avventura della vita avrà il suo seguito. L’adulto delle vespe muratrici si ciba quasi esclusivamente di frutti maturi, ghiotto dei loro succhi zuccherini. Se riflettiamo, queste minuscole vespe, il cui corpo ha le dimensioni di un pisello, hanno una vita piuttosto frenetica, razionale e complicata ai nostri occhi. In effetti, la femmina deve assolvere ai seguenti compiti: 1. Localizzare
il luogo adatto per costruire il proprio nido, che può essere il retro di un nostro vecchio mobile in soffitta; oppure una legnaia. 2. Reperire un giacimento di argilla al suo giusto grado di umidità, tenendo presente che l’argilla è un colloide (minerale oppure organico) le cui particelle hanno un calibro di 0,0040 millimetri! 3. Grazie a un numero difficilmente calcolabile di voli, questa argilla deve essere trasportata con le mandibole. 4. Con sequenze razionali, il materiale da costruzione (l’argilla) deve essere posizionato, secondo uno schema ben preciso, per realizzare il «barilotto». Queste elencate sono tutte operazioni che richiedono un elevato apporto di conoscenze funzionali finalizzate alla costruzione di strutture, che richiedono un’elevata capacità di progettazione ed esecuzione trasmessa da una generazione all’altra, da molti milioni di anni. I maschi della Pseudagenia hanno invece vita breve e fannullona. Compiuto il loro dovere di cerca-femmine da fecondare, bighellonano senza lavorare, durante qualche settimana, e poi il loro destino è giunto al capolinea. Bibliografia
Louis Berland, Atlas des Hyménoptères de France, Belgique et Suisse, Editions N. Boubée (Paris), 1958, 184 pp. Tome II. Ian Gauld e Barry Bolton, The Hymenoptera, Oxford University Press, 1988, 332 pp.
Il grillo? Un timido canterino Mondoanimale L’animale dell’Anno proclamato da Pro Natura
è un ottimo musicista e porta tanta fortuna Maria Grazia Buletti Uno degli auspici che accomuna tutti quanti all’inizio di un nuovo anno è che esso porti tanta fortuna. Chi meglio dell’animale scelto da Pro Natura a rappresentare il 2014 poteva incarnare questa legittima speranza? Il suo canto è noto a tutti ed evoca piacevoli giornate estive, mentre il suo aspetto ha un che di alieno. Ma nell’immaginario collettivo e nelle tradizioni di tutto il mondo è considerato un portafortuna: allontana le disgrazie e favorisce la buona sorte; è un vero e proprio simbolo di fortuna, assicura guadagni ai commercianti ed è un buon auspicio sentirlo cantare intorno alla propria abitazione. Infine, non bisogna ucciderlo se non si vuole capovolgere la propria buona sorte.
È il Grillo campestre (Gryllus campestris) a cui Pro Natura affida il ruolo di ambasciatore dei prati fioriti che definisce «un habitat sempre meno diffuso in Svizzera, vittima dell’agricoltura intensiva e dell’inarrestabile cementificazione». Nelle sembianze di Grillo campestre, l’animale dell’anno di Pro Natura vuole perciò ricordare a gran voce che dovremmo salvaguardare questi ambienti importanti per lui e per moltissime altre specie. Sì, perché questo simpatico e beneaugurante insetto appartenente all’ordine degli ortotteri (come pure cavallette e locuste) non è minacciato di estinzione come il 40 per cento di queste specie, ma viene comunque ritenuto vulnerabile perché il suo habitat si sta per l’appunto vieppiù riducendo e la qualità dei prati fioriti dei
Così si dice… «Avere grilli per la testa» è un modo di dire del Ferrarese per indicare chi fa capricci, mentre nel Reggiano «L’ée alègher come un gréll» (ndr: «È allegro come un grillo») si dice di chi è sempre contento e canterino. Nell’ambiente bucolico si usa dire che «Quando canta il grillo il brutto tempo è finito», mentre il fatto di perdere tempo andando a cercare cose di poco conto viene indicato come: «L’andar in cerca
di grilli». A Bologna, di chi alterna momenti di apatia e pigrizia ad altri d’intensa attività si dice che «Fèr cum fa ’l grell, che o ’l salta o al sta fàirum» (ndr: «Fa come il grillo che o salta o sta fermo»). È infine diffusa la credenza che il suo canto maturi le uve: la superstizione, in effetti, ha un fondo di verità, dato che il grillo canta quando fa molto caldo, condizione indispensabile affinché l’uva possa maturare.
nostri paesaggi è in calo, a causa dello sfruttamento agricolo e dell’abbandono dei pascoli. Pro Natura ci rende inoltre attenti sul fatto che il Grillo campestre non sa volare ed essendo perciò poco mobile al di fuori del suo ambiente, le popolazioni restano facilmente isolate tra di loro: condizione rischiosa che può portare facilmente all’estinzione locale. Scopriamo che per aiutare il Grillo campestre e gli altri ortotteri si può tenere il proprio giardino il più possibile allo stato naturale, con alberi e arbusti autoctoni, rinunciando a pesticidi chimici e a concimi artificiali. Una distesa di fiori selvatici sarebbe un habitat migliore di un tappeto verde e quando si passa con il tosaerba, bisognerebbe avere cura di farlo dal centro verso l’esterno oppure a fasce, in modo da lasciare almeno ad alcuni degli animali la possibilità e il tempo di fuggire. Pro Natura suggerisce infine di dare il proprio contributo nella sensibilizzazione dei danni che il cambiamento di destinazione dei terreni può comportare, nuocendo a grilli, cavallette e locuste, come a tante altre specie animali. E siccome tutti sono d’accordo sulla simpatia da accordare a questo insetto e nessuno vorrebbe privarsi del suo influsso positivo, andiamo a conoscerlo un po’ più da vicino e scopriamo che il Grillo campestre è diffuso in tutta la Svizzera, ama il clima temperato, e se l’ambiente è caldo e secco si può trovare anche fino a 1800
Un esemplare di Grillo campestre (Gryllus campestris). (Gilles San Martin)
metri d’altitudine. Al di fuori dei nostri confini, esso abita in Europa meridionale e centrale, nell’Africa settentrionale e nell’Asia occidentale. Tutti gli accordiamo lo scettro della colonna sonora dell’estate, anche se il nostro beniamino è un timido musicista, perché l’artista rimane per lo più nascosto agli occhi del pubblico e individuarlo tra i fili d’erba è tutt’altro che facile, come ci indicano i biologi di Pro Natura: «Chi desidera vedere questo grande musicista deve essere abile perché al minimo segnale di pericolo questo pavido insetto ammutolisce e scompare fulmineo nella sua tana. Solo dopo un paio di minuti, quando si sente di nuovo al sicuro, torna all’ingresso e ricomincia il suo concerto». Dicevamo che il suo aspetto ha un che di strano: «È nero con un gran testone, il suo corpo tozzo è lungo tra i 18 e i 27 millimetri e presenta una grande testa rotonda e ali brune con venature nere. I maschi, che sono i soli ad avere il dono del canto per attirare le femmine e
per intimorire e scoraggiare gli altri avversari maschi, si distinguono per la base delle ali giallo scuro, mentre la parte inferiore delle cosce posteriori è di un rosso brillante. Le femmine si riconoscono per il loro ovopositore, lungo e sottile». Un’altra peculiarità che ci rende tanto simpatici questi grilli maschi canterini sta nell’origine del loro concerto: «Lo strumento dei grilli è rappresentato dalle elitre (le ali anteriori modificate) il cui “cri cri” può raggiungere i 100 decibel ed è udibile anche fino a 100 metri di distanza. Mentre l’organo dell’udito si trova invece sulle zampe anteriori, appena sotto le ginocchia e corrisponde a una fessura ovale munita di timpano». Canta quindi con le ali e ascolta con le zampe, questo «animale dell’anno 2014» di Pro Natura, che allontana le disgrazie e favorisce la buona sorte. Con il suo canto cullante e melodioso dona un senso di benessere e tranquillità e proprio perché così beneaugurante, ci piace proprio un sacco!
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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Ambiente e Benessere
M Grand Prix Migros ad Airolo
Divertirsi sulla neve
Sci alpino L’ottava tappa domenica 23 febbraio; è possibile iscriversi fino al 9 febbraio
Nel quadro del suo progetto Generazione M, Migros sostiene i campi di sci «Juskila»: anche la 73ma edizione è stata un successo
Calendario 2014 Gennaio 5 12 18 26
Les Crosets Schönried Les Diablerets Hoch-Ybrig
Febbraio 2 Wengen – Grindelwald 9 Davos 15 Klewenalp 23 Airolo Marzo
2 Adelboden 9 Savognin 16 Wildhaus (Toggenburg) 23 Lauchernalp (Lötschental) 29 Nendaz
Dal 4 al 6 aprile: finale ad Arosa Informazioni e iscrizioni: www.gp-migros.ch
Christoph Petermann *
Mario Curti
Mancano 12 giorni alla prima gara di sci alpino in programma ai Giochi Olimpici di Sochi; domenica 9 febbraio, infatti, l’attesissima discesa libera maschile aprirà il programma delle 10 competizioni che vedranno scendere in pista i migliori sciatori al mondo in lotta per le tanto ambite medaglie olimpiche. Sabato 22 febbraio, sarà la danza fra i paletti stretti dello slalom maschile a chiudere il programma sulle piste di Sochi, e poi, domenica 23 febbraio, tutti ad Airolo-Pesciüm per il Grand Prix Migros! Gli oltre 500 giovanissimi sciatori attesi sulle nevi della località leventinese, si presenteranno a questo appuntamento con una carica di entusiasmo certamente alle stelle, avendo ammirato, nei giorni precedenti, i propri idoli contendersi al centesimo di secondo gli allori olimpici. Per non essere esclusi da questa magnifica festa dello sci giovanile, è necessario che l’iscrizione avvenga entro il prossimo 9 febbraio median-
te il sito www.gp-migros.ch. La quota d’iscrizione di 20 franchi dà la possibilità di partecipare a ragazze e ragazzi dagli 8 ai 16 anni (nati tra il 1998 e il 2006); tutte le annate gareggeranno in categorie separate e non è necessario fare parte di uno sci club. Bambini e bambine di 6 e 7 anni (nati nel 2007 e 2008) potranno partecipare alla Mini Race, su una pista e un tracciato che permetterà a tutti di divertirsi senza grandi difficoltà tecniche; per queste categorie il costo dell’iscrizione è di 10 franchi. Come da tradizione, il Grand Prix Migros saprà divertire tutti i partecipanti anche al di fuori delle piste. Nel villaggio degli sponsor (Migros, Thomy, Vacanze Migros, Leki e Swiss-Ski) avranno tutti la possibilità di giocare e vincere simpatici premi; ma anche di provare gli ultimi modelli di sci Nordica e Blizzard. Compreso nell’iscrizione persino il servizio di ceratura degli sci da parte degli abili skiman della Toko, oltre che il buono pranzo e la giornaliera a tariffa ridotta. Swiss-Ski, promotore di questa manifestazione, ha pensato proprio a tutto. Il grande lavoro organizzativo dello Sci Club Airolo e della Valbianca SA, favorito dalle copiose nevicate delle scorse settimane, saprà soddisfare egregiamente le aspettative di concorrenti e accompagnatori. L’evento sarà seguito anche dalla stampa e in particolare vi invitiamo a non perdervi l’edizione di «Azione» del 3 marzo, su cui verrà pubblicata una selezione di fotografie tratte da un ricco reportage. Per coloro che non potessero partecipare alla tappa di Airolo del Grand Prix Migros, il calendario 2014 offrirà comunque altre possibilità di qualificarsi per la grande finale in programma ad Arosa il 5-6 aprile; basterà iscriversi a uno dei successivi 5 appuntamenti in programma nel mese di marzo: il 2 ad Adelboden, il 9 a Savognin, il 16 a Wildhaus, il 23 a Lauchernalp (Lötschental) o il 29 a Nendaz.
Mario Curti
Renato Facchetti
Grand Prix Migros, 23 febbraio 2014 Airolo-Pesciüm
Per 600 ragazzi tra i 13 e 14 anni il 2014 è iniziato in piena attività sportiva e con grande divertimento: sono i fortunati che hanno potuto partecipare al campo di sci «Juskila», a Lenk, nell’Oberland bernese. Si trattava della 73ma edizione del campo di sci, una iniziativa che vuole suscitare nei teenager l’interesse per lo sport invernale e per le sue discipline principali come lo sci, lo snowboard e lo sci di fondo. Le lezioni sono state impartite, come negli anni precedenti, da 150 docenti con una formazione specifica. I 600 giovani sono stati scelti tra le 1500 candidature che erano pervenute agli organizzatori da ogni cantone della Svizzera e persino dall’estero. Insieme all’attività sulla neve non potevano mancare certo i momenti di divertimento. Ogni sera il programma prevedeva discoteca oppure karaoke o ancora cinema. Questo perché Migros, come sponsor principale, si impegna a tutti i livelli affinché i giovani possano portare a casa con sé molti bei ricordi della settimana trascorsa. Lo testimoniano i commenti di Sereina Mosimann, 14 anni, di Grenchen (SO): «La settimana è stata bellissima e il nostro gruppo era eccezionale. Ci siamo divertiti moltissimo con lo snowboard e sono riuscita a saltare per la prima volta sopra una cunetta». Jann Leupin, di Bubendorf (BL) era dal canto suo altrettanto entusiasta «Spero di per tornare anche l’anno prossimo». Livia Stoll di Riffenmatt (BE) ha apprezzato le attività di gruppo: «Per me è molto bello poter sciare tutti insieme, e poi poter trascorrere insieme anche tutto il resto del tempo». * Redattore di Migros Magazin
Icone del passato reinventate al Cobo Center Motori Le americane hanno attirato l’attenzione durante la prima importante rassegna automobilistica di quest’anno
presentando alcune rivisitazioni delle più classiche Corvette, Mustang e Dodge Mario Alberto Cucchi Si è chiuso ieri, domenica 26 gennaio, al Cobo Center di Detroit l’edizione 2014 del North American International Auto Show. La prima importante rassegna internazionale automobilistica di quest’anno ha ospitato una trentina di anteprime mondiali, tra vetture di serie e concept. I costruttori a stelle e strisce questa volta hanno mostrato i «muscoli». General Motor ha, infatti, portato nella Cobo Hall un’interessante versione della iconica Corvette Stingray: la Z06 con motore 6.2 sovralimentato, che eroga 625 cavalli e 861 Nm di coppia. Ford ha risposto con una nuova Mustang, la GT 5.0 V8 da 420 cavalli. Presente all’appello anche la Shelby GT500 con una versione turbo di un V8 5.8 che eroga ben 662 cavalli. Non poteva infine mancare la classica Dodge SRT Viper che sotto il lungo cofano anteriore nasconde un motore V10 da 8.4 litri, 640 cavalli di potenza massima. Cilindrate da camion e potenze da autodromo.
Tra le novità di Detroit ci è sembrata più adatta all’Europa la bellissima Porsche Targa il cui «piccolo» motore da 3400 cc eroga «solo» 350 cavalli. Insomma tutte auto da sogno, belle e velocissime, equipaggiate però con pro-
pulsori che consumano anche «poco» considerando i loro «numeri», ma che funzionano esclusivamente con la tradizionale benzina. Attenzione però, a Detroit ha debuttato un prototipo Audi potente e ve-
loce, ma anche ecologico. Allroad Shooting Brake Concept (nella foto) è, infatti, equipaggiata con una motorizzazione ibrida plug-in che combina il già conosciuto benzina 2.0 TFSI da 292 cavalli a un propulsore elettrico da 40 kW e 270 Nm di coppia all’asse anteriore e di un altro elettrico da 85 kW e 270 Nm all’asse posteriore, per una potenza complessiva di ben 408 cavalli e una coppia di 650 Nm. In pratica, un motore a benzina associato a due elettrici. La Allroad Shooting Brake Concept raggiunge una velocità massima di 250 chilometri orari (limitata elettronicamente) ed accelera da 0 a 100 orari in soli 4,6 secondi. Sono però i dati sui consumi e sulle emissioni di CO2 a impressionare maggiormente: rispettivamente 1,9 litri/100 km e 45 g/km. Dotata di batterie agli ioni di litio, la vettura promette un’autonomia totale di 820 km, 50 dei quali in modalità completamente a zero emissioni, modalità durante la quale la velocità tocca i 130 km/h. Una supercar per pochi? No. Sembra si tratti di un pro-
totipo che, rivisto e corretto nelle potenze ora esagerate, potrebbe prefigurare le linee della nuova Audi Q1. Lo si intuisce anche dalle misure, dato che questa concept è più corta di 18 cm e più bassa di 19 cm rispetto al SUV compatto Q3. In occasione del North American International Auto Show è stato inoltre fatto il punto sul mercato automobilistico cinese che ha consolidato la sua leadership mondiale, dopo aver chiuso il 2013 con l’ennesimo nuovo record di vendite. Le immatricolazioni hanno sfiorato i 22 milioni di veicoli. Nel dettaglio la crescita è stata del 14 per cento con 21,98 milioni di esemplari, dei quali 17,93 milioni sono autovetture (+16 per cento). Il responsabile vendite e marketing Porsche, Bernhard Maier, ha anticipato ad Automotive News Europe che la Cina diventerà il principale mercato mondiale per la Casa di Stoccarda. Il cambio della guardia con gli Stati Uniti potrebbe avvenire già entro la fine di quest’anno, ma è più probabile che si concretizzi nel 2015.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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Ambiente e Benessere
Grazie, Stan, per il lungo abbraccio Sportivamente Nella villa di Via Collinetta il labrador è tornato ad abbaiare di gioia come ai vecchi tempi del noto
fans club, per via di un ottimo Federer e di uno strepitoso Wawrinka Alcide Bernasconi Il labrador non mi aveva dimenticato. Mi aspettava, anzi, agitatissimo, giù al cancello della villa, sentendomi arrivare col fiato grosso, colpa di troppe concessioni culinarie, un regalo che mi ero fatto per le classiche cene natalizie. Ciao «Bello», gli ho detto accarezzandogli la testa, mentre lui continuava a saltare di gioia; abbaiando, certo, ma come si fa con un amico. Allo stesso modo ha continuato a marcarmi stretto come un difensore di hockey, ma senza grinta né cattiveria naturalmente, lungo tutta la stradina, dal cancello della villa fino in cima alla Collinetta. Sulla porta mi attendeva Victoria, la governante spagnola, che invitava invano «Bello» a calmarsi, mentre agitava una mano per accogliermi, come si fa con un parente beneamato, che non si vedeva da tempo. Tanto ne era passato, in effetti, dalla mia ultima visita nella sede del Federer Fans Club di via Collinetta. «Avanti, avanti! Michelle la sta aspettando». Michelle, ma belle, canticchiavo mentalmente, dopo aver stretto la mano della governante e aver ripreso un po’ di fiato, perso durante la salita affrontata con un ritmo insensato. Mi sono quindi avviato verso il salone del grande scher-
Errata corrige Algebra Magica di Peres Purtroppo sul numero 4 di «Azione» un errore «grafico» ha compromesso la formula che qui di seguito riportiamo correttamente. Di fatto, anche se il risultato (Y+3) era corretto, mancava il simbolo «–» (sottrazione) tra la Y e la X: il risultato R delle operazioni richieste è dato quindi da: R = [2(X+7)5+X]/3+Y-X.
mo tv, quello che a suo tempo fu definito il «salone delle feste» dopo le numerose vittorie di Federer, il «Roger Nazionale», parafrasando un appellativo coniato negli anni Cinquanta per il campione ciclistico Kübler, chiamato anche «Ferdy National». In verità, ero ansioso di vedere Michelle, reduce dalle solite vacanze in Engadina, dalle quali tornava sempre col volto deliziosamente abbronzato, felice come una ragazzina. La padrona di casa mi aveva già invitato a seguire gli incontri di Federer in crescendo agli Australian Open. Ma le notturne ormai mi mettevano a disagio. Sì, perché il marito di Michelle si congedava presto, ritirandosi nella camera da letto stanco per la giornata di lavoro in cui, direttore di banca, non aveva più molti momenti di soddisfazione. Visibilmente provato dal lavoro e sempre sovrappensiero, l’ex presidente del Federer Fans Club aveva, infatti, ceduto la carica alla moglie, tra l’approvazione generale dei soci. I quali, per dirla tutta, con scuse diverse, negli ultimi tempi avevano diradato le visite in villa. Ossia da quando Roger aveva preso l’abitudine di uscire dai tornei assai prima della finale, col volto corrucciato, a volte al limite del pianto. Eppure c’era ancora gente che avrebbe fatto parte volentieri dell’esclusivo club di Via Collinetta. Amici mi avevano chiesto di intercedere presso la presidenza allo scopo di ottenere un posto in questa élite di tifosi. Ogni tanto alcuni soci facevano un salto a Gstaad, per il noto torneo. L’ultima spedizione nell’Oberland Bernese, però, era stata semplicemente uno strazio per chi sperava che Roger si rialzasse immediatamente, riprendendo il volo verso altri successi dopo più di un anno di magre. Nonostante ciò, c’era ancora il freno del numerus clausus, deciso per questioni meramente logistiche e organizzative, ostacolo che tiravo sempre in ballo, anche se nel frattempo due soci, fra i più
Stan Wawrinka. (Keystone)
anziani, ci avevano lasciati per sempre. La decisione, insomma, spettava soltanto a donna Michelle la quale – lo scrivo a titolo di informazione – non ha però mai voluto toccare l’argomento. Nei programmi del nostro club di aficionados, un tempo figurava pure una visita in villa da parte del grande Roger, ma non se ne fece mai nulla. Michelle, che era stata anche all’ultima edizione degli Swiss Indoors di Basilea, pur di stringere la mano di Roger e scambiare quattro parole con lui, ha sofferto parecchio quando ha capito che gli impegni con gli sponsor, i tornei e tante altre attività collaterali dell’ambasciatore dello sport mondiale, unitamente agli acciacchi che affliggono ormai tutti gli sportivi d’élite nel corso della stagione, rendevano quasi impossibile una capatina a Lugano dello sportivo svizzero più amato di sempre. Figurarsi che Roger ha perfino deciso più d’una volta di rinunciare agli impegni di Coppa Davis, pur sapendo che così avrebbe fatto storcere il naso a non pochi dei suoi fans. Così, ecco che donna Michelle, a sorpresa, mi ha invitato a colazione perché, mi dice, non c’è solo Federer ora: c’è
Stan Wawrinka e l’avversario si chiama Novak Djokovic! Brava, le ho detto al telefono. Mi aspettavo questa chiamata, le ho poi svelato aggiungendo che l’avrei raggiunta in un baleno. L’abbraccio con la presidentessa non poteva essere più bello, né più lungo, nonostante il labrador sempre fra i piedi. Forse anche perché con un occhio sbirciavo il grande schermo su cui Stan mi appariva pronto a fare il colpaccio, per il quale si era preparato nel corso di tutto un anno. Il 28enne romando, dopo 14 sconfitte consecutive contro il 26enne serbo, ne aveva decisamente abbastanza. L’anno scorso tutti lo lodarono per una partita durata oltre cinque ore e persa 12-10 al quinto set negli ottavi di finale. Lo fecero anche dopo la sconfitta al quinto set in semifinale a New York, sempre contro il serbo. Il «maratoneta» vodese però, questa volta sentiva di potercela fare, al punto da non perdere il ritmo e la concentrazione dopo due match-ball sprecati nel quinto set. Come sempre, non è possibile approfondire ulteriormente il giudizio sulla stupenda prova vincente dello
ORIZZONTALI
Sudoku Livello facile
svizzero dell’anno, che - mentre scriviamo - in seguito ha pure battuto in semifinale il ceco Tomas Berdych; poi sarà la volta dell’infinito duello fra Rafael Nadal e Federer. Michelle, piacevolmente sorpresa, dopo la vittoria di Stan contro Novak, aveva cacciato un grido, un urletto che aveva richiamato la governante Victoria, la quale, accorsa ci sorprese, ancora un volta, abbracciati; o meglio io mi ero ritrovato avvinghiato da Michelle che mi aveva letteralmente strappato dalla mia… postazione. «Sono incredula» è tutto ciò che è riuscita a dire Victoria correggendosi subito dopo con un sorriso, per smussare l’imbarazzo colto nel mio sguardo smarrito: «sì… sono incredula per la vittoria di Wawrinka. Vuoi vedere che adesso ci ritroveremo i due svizzeri in finale!» Victoria, insomma, la sa lunga, forse anche perché ha letto d’un fiato – dice lei – l’ultimo libro di Gianni Clerici, Wimbledon, che i padroni di casa le avevano fatto trovare sotto l’abete di Natale. Ma ci sarà ancora da soffrire nei prossimi giorni, ho pensato liberandomi con calma dall’abbraccio di Michelle. Forse Stan e Roger mi regaleranno altre occasioni. Ci conto, perché questi slam, davvero, fanno vivere anche a distanza grandi emozioni. Tornando al «nostro momento» mi ritrovo così di nuovo al settimo cielo per la vittoria di Federer contro Andy Murray. «Non urlare» ho sussurrato a Michelle, per evitare che accorresse di nuovo Victoria, magari più sospettosa che in precedenti occasioni. Il fatto vero è che Michelle ha preso finalmente in simpatia anche Stan. Comunque si risolva il torneo di Melbourne, in cima a Via Collinetta si discuterà prossimamente non tanto di allargare la lista dei soci, bensì di aggiungere un nome all’intestazione del club: quello di Stanislas Wawrinka.
Giochi Cruciverba
Non tutti sanno che i fiori di tiglio hanno preziose proprietà, due delle quali potrete trovarle a cruciverba ultimato leggendo le caselle segnalate.
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Scopo del gioco
Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contenga tutti i numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.
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1. Nome di molti papi 2. Eroe troiano 3. Un insetticida 4. Pronome poetico 5. Un assistente 6. Difetto 8. Lo è l’ostro 12. Cresce nei terreni incolti 13. Hanno un abbassamento di voce 14. Granai 15. Le iniziali della conduttrice D’Amico 16. Il primo navigatore 17. Alberi ad alto fusto 19. Celeste verdiana 20. Un verso con le fusa… 23. Capovolto aumenta della metà 24. Si usa per incoraggiare ed esortare 26. Le iniziali del conduttore televisivo Timperi 28. Le carote meno care
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1. Luogo di residenza 5. Sono uguali nel baratto 7. Insalata belga 9. Si anima girando… 10. Quartiere romano e acronimo di Esposizione Universale di Roma 11. È finita in fondo 12. Vergogna, disonore 13. Animale domestico 17. Vicino al casale 18. Un nome da cane 19. Elevato 21. Le prime lettere in olandese 22. Egregi 24. Fornaio senza forno 25. Negazione inglese 27. Vi si acquista il quotidiano 29. Penisola del mare Adriatico 30. Lo era Sartre
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Soluzione del no. 03
Per conoscerci meglio – Risposte risultanti Circa centomilaottocento. C E S T E
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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Politica e Economia Negoziati sulla Siria Conferenza internazionale a Montreux per discutere il dossier siriano. Ma il vero nodo dei negoziati è il futuro del dittatore al-Assad pagina 24
Nuovo genocidio Catherine Samba Panza è il nuovo presidente ad interim della Repubblica centrafricana. Il suo compito è di avviare un processo di riconciliazione nazionale in un Paese sconvolto dalla violenza settaria
Iniziativa sull’immigrazione Il voto del 9 febbraio e l’opinione del Consiglio federale: intervista a Simonetta Sommaruga
Interessi al risparmio I tassi sono al minimo, il perché nella consulenza dell’esperto di Banca Migros
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AFP
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Che cosa resta di Tahrir Egitto tre anni dopo Oggi il Paese è di nuovo in mano a esercito e polizia stretti attorno al generale Sisi,
futuro presidente. Fratelli musulmani e gente comune sono i pezzi mancanti della rivoluzione del 25 gennaio 2011 Alessandro Accorsi Sono passati tre anni da quel 25 gennaio 2011 in cui l’Egitto ha imparato a riunire in piazza Tahrir tutte le sue contraddizioni e sfaccettature, insieme per una volta nella protesta contro Mubarak. Quel giorno di tre anni fa i giovani sono scesi in piazza spronati da un video dell’attivista Asmaa Mahfouz postato su Youtube. Tre anni dopo, la storia di quella rivoluzione approda agli Oscar grazie al documentario The Square. Purtroppo, però, quella rivoluzione oggi sembra sopravvivere solo in pellicola scomparendo dalle strade. Invece di prestarsi come palcoscenico di una sola, unica, epica storia, la stessa Tahrir è divenuta un simbolo svuotato della sua importanza in cui, tuttavia, tra storie differenti continuano a competere. Partiamo dalla prima, quella dei vincitori del momento. Esercito, polizia, vecchio e nuovo regime che scendono in piazza questa volta non su in-
vito di un’attivista, ma dello stesso Ministro dell’Interno che non esita un istante nell’applicazione ferrea e sanguinaria della legge sulle proteste che vieta a chiunque altro, fondamentalmente, di esprimere dissenso. Vecchio e nuovo regime che si stringono nell’esaltazione data dall’esercizio del potere e nell’adulazione collettiva per il generale Sisi. L’uomo della misericordia, «il leone d’Egitto», «il nuovo Nasser» che guida da dietro le quinte la Nazione in attesa di sedersi finalmente sul trono dopo le prossime elezioni presidenziali. È una storia, questa, che prevede un eroe e tanti antagonisti, ma nessuna possibilità di dissenso. Una storia il cui finale è già scritto e il cui inizio è «riscritto» per autocelebrarsi e legittimare le cose come stanno. Secondo questa storia, infatti, la «prima» rivoluzione è stata realizzata con il contributo fondamentale di esercito e polizia – responsabile in realtà di crimini orrendi e di aver sparato contro i civili – ma è deragliata per colpa dei Fratelli Musulmani, degli
«agitatori che si fregiano del titolo di rivoluzionari» e dell’assenza di una guida forte come al-Sisi. Solo con la «seconda» rivoluzione del 30 giugno scorso e la rimozione dell’ex presidente Morsi – sempre grazie a esercito e polizia – la storia si è compiuta. Poco conta che gli slogan di «pane, libertà e giustizia sociale» si siano persi per strada. La rivoluzione è compiuta grazie all’esercito e ne è prova inconfutabile il risultato del referendum sulla nuova Costituzione. Certo, l’affluenza ferma al 38 per cento è un po’ scarsa. Certo, la campagna del «no» era assente e i pochi che hanno provato a diffondere manifesti e volantini dell’opposizione sono stati arrestati in base ad una legge che vieta di inneggiare al sovvertimento della Costituzione nonostante questa non fosse stata ancora approvata. Ma chi può sostenere che il 98,1 per cento di «sì» al referendum non sia rivoluzionario e, soprattutto, democratico? La seconda storia è quella dei Fratelli Musulmani, scesi in piazza Tahrir
perché, per loro, la rivoluzione significava soprattutto la possibilità di avere elezioni libere da poter finalmente vincere. E una volta vinte, per la democrazia, per i compromessi e per la condivisione del potere non c’era più tempo. Di spazio per il dissenso, invece, ce n’era un po’ più di ora, ma poi ci pensava sempre la polizia – sempre lei – a sistemare le cose. E ora, spazzati via dal potere, massacrati, banditi e dichiarati organizzazione terroristica, i Fratelli Musulmani – schiacciati tra le sirene jihadiste dei gruppi radicali e una lotta politica pacifica ma impossibile da portare avanti – appaiono di tanto in tanto in strada per chiedere spazi democratici prima di scomparire dietro le sbarre di una cella. In prigione come alcuni dei protagonisti della terza storia, quella dei rivoluzionari che in questi tre anni sono sempre scesi in strada: contro Mubarak, contro i militari, contro i Fratelli Musulmani e, di nuovo, contro i militari. Una storia senza leader e con tanto dissenso. Una storia un po’ persa e
che rimane in silenzio, in attesa di tempi migliori. Una storia che, però, sa come la rivoluzione sia un processo lungo e imprevedibile per quanto ora sia stanca e quasi arresa. «Ogni volta che vado in prigione, una parte di me si spezza», ha scritto uno degli attivisti più famosi della rivoluzione, Alaa Abd El Fatah, arrestato da tutti i regimi alternatisi al potere negli ultimi anni. La rivoluzione ha perso pezzi e ci si chiede quanta ne sia rimasta ancora dopo tre anni. La rivoluzione ha perso pezzi ad ogni conquista, ogni volta che qualcuno abbandonava la piazza per sedersi nel palazzo del potere. Per questo, pur amareggiati, in silenzio e concentrati su altri progetti, i ragazzi della rivoluzione si rivedono in video con gli occhi pieni di lacrime, ma con la risata pronta ad esplodere al solo pensiero che, un anno fa, Morsi sembrava ben saldo al potere, la rivoluzione sconfitta e Sisi un burattino degli islamisti. Oggi la rivoluzione è a pezzi, ma l’Egitto è troppo imprevedibile per scrivere ancora la parola «fine».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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Politica e Economia
Che fine farà Assad? Ginevra 2 A 3 anni dall’inizio della guerra, si è aperta a Montreux
Dopo 33 mesi di guerra civile, 120’000 morti, 5,7 milioni di sfollati, 2,7 milioni di profughi fuggiti in Turchia, Libano e Giordania, il 22 gennaio scorso si è aperta in Svizzera la tanto attesa conferenza di pace sulla Siria. Dal 22 al 24 i lavori sono stati ospitati a Montreux, poi si sono spostati a Ginevra. Scopo dichiarato del summit, detto Ginevra 2, era arrivare ad un accordo tra il regime di Bashar al-Assad e le opposizioni su un governo di transizione in grado di traghettare il Paese alle prime elezioni democratiche. Spiace dirlo ma, a dispetto delle parole accorate con cui il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha aperto i lavori, esortando le parti a «non perdere l’occasione irrepetibile», su Ginevra 2 fin dall’inizio è aleggiato un clima di profondo scetticismo. Sulla conferenza hanno proiettato la loro ombra lunga la gravissima emergenza umanitaria che, a giudizio delle Nazioni Unite, nel 2014 investirà i tre quarti della popolazione e il terribile Rapporto sullo stato delle carceri siriane. Il Rapporto, commissionato dal Qatar che sostiene le opposizioni, ha rivelato 11’000 esecuzioni compiute arbitrariamente dal regime siriano e una lunga sequela di orrori e torture, documentati con più di 55’000 foto rese note da uno scoop del quotidiano inglese «The Guardian» il 20 gennaio scorso. Il tutto mentre le armi chimiche siriane viaggiavano nel Mediterraneo dopo esser state usate per massacrare i civili.
Gli aspetti internazionali hanno rischiato di avere un peso soverchiante sul conflitto siriano In questa atmosfera plumbea Ginevra 2 è stata convocata per trovare una via di uscita non a una, ma a tre guerre che si sono intrecciate e che stanno martoriando la Siria: la prima è quella che oppone il regime alle opposizioni; la seconda è la «guerra per procura» tra sunniti e sciiti – capofila Arabia Saudita e Qatar per i sunniti, Iran per gli sciiti che investe tutta la regione e ha i suoi campi di morte soprattutto in Siria e in Iraq con un’estensione sempre più pericolosa in Libano; la terza non è un conflitto vero e proprio ma un duro braccio di ferro tra gli Stati Uniti e l’Occidente da una parte, la Russia e la Cina dall’altra che sostengono Bashar al-Assad, la Russia soprattutto che proprio in Medio Oriente e nel Caucaso sta collaudando la sua ritrovata voglia di «impero». E a dire il vero, gli aspetti regionale e internazionale fin dall’inizio hanno rischiato di avere un peso e un’importanza soverchianti rispetto alle dinamiche siriane del conflitto. Lo si è visto anche
nell’affollamento dei Paesi ospiti a Ginevra 2. Erano ben 30, oltre all’Onu, alla Lega araba, l’Unione europea e l’Organizzazione della Cooperazione islamica. Ma quelle che si notavano maggiormente erano le assenze, una in particolare, quella dell’Iran, grande alleato del regime di Bashar al-Assad, che ha dato origine a un piccolo giallo alla vigilia dell’apertura dei lavori. Il segretario generale dell’Onu, infatti, il 19 gennaio aveva invitato ufficialmente una delegazione iraniana, ma aveva poi dovuto fare una rapida marcia indietro perché la Coalizione nazionale siriana (praticamente l’unica grossa formazione di opposizione al regime presente a Ginevra) aveva minacciato di disertare il summit se Teheran fosse stata presente. Così un contrito Ban Kimoon aveva dovuto ritirare l’invito aggrappandosi ad una motivazione ufficiale sottile quanto un foglio di carta velina che asseriva che l’Iran non aveva mai sottoscritto le conclusioni del precedente round di negoziati ovvero Ginevra 1, del 30 giugno 2012, in base alle quali le parti in causa (regime siriano e opposizioni) avrebbero dovuto raggiungere un accordo su un governo di transizione con poteri esecutivi. Per quanto vaga come formula, l’opinione corrente nel 2012 era che comportasse l’uscita di scena di Bashar al-Assad e proprio per questo l’Iran non l’aveva sottoscritta. Fermo restando che Teheran non ha cambiato opinione, oggi i rapporti di forza sul terreno in Siria sono cambiati. I cosiddetti ribelli siriani sono molto più deboli e divisi di due anni fa per le pesanti ingerenze dei loro «padrini» mediorientali e perché proprio l’Iran è sceso in campo al fianco del dittatore siriano coi suoi pasdaran e col «dirottamento» degli Hezbollah libanesi a sostegno del regime di Damasco. Ovvio che oggi più che mai le opposizioni siriane non vogliano trovarsi di fronte ad una delegazione iraniana legata mani e piedi a Bashar. Al di là del linguaggio ingessato delle conferenze internazionali, infatti, il vero nodo della trattativa sta tutto nell’interrogativo: che fine farà Bashar? Sarà o non sarà compreso nel governo di transizione? Il segretario di Stato americano John Kerry, all’apertura dei lavori di Montreux ha subito messo le mani avanti dichiarando che «Assad non può far parte della transizione politica in Siria», aggiungendo in sovrappiù che «un uomo non può tenere in ostaggio un Paese e un’intera regione». Messaggio rispedito al mittente dal capo delegazione siriano, il ministro degli Esteri Walid Muallem, che ha ripetuto più volte che lo scopo di Ginevra 2 è por fine al dilagare del «terrorismo» in Siria e il regime di Assad è l’unico a poterlo fare. Ma Kerry ha saputo controbattere affermando che proprio Bashar al-Assad è «il vero magnete del terrorismo» nel suo Paese. Il leader della Coalizione nazionale, Ahmed Jarba è andato giù ancora
più pesante definendo il regime «nazista e criminale» e ribadendo che l’uscita di scena di Bashar è la precondizione per qualsiasi trattativa. Insomma uno scontro molto duro fin dalle prime battute della conferenza, che ovviamente ha reso più faticoso il suo iter negoziale. Va precisato che per il regime di Damasco tutte le opposizioni sono terroristiche per definizione, qualsiasi mezzo usino. Si va dalla Coalizione nazionale, l’unica presente a Ginevra, al Consiglio nazionale siriano di George Sabra, le due coalizioni «storiche» dell’opposizione che dal 2011 ufficialmente sostengono una transizione pacifica ma, appunto, non vogliono sentir parlare di una permanenza al potere dell’attuale leadership. Per una transizione pacifica militano anche il Comitato di coordinamento nazionale per un cambiamento democratico di Hassan Abdul Azim, un’alleanza di 16 organizzazioni di sinistra, e il Supremo comitato curdo, nato per iniziativa di Massoud Barzani, storico leader della guerriglia curda irachena. Dietro di loro è un affollamento di 1000 (mille!) formazioni armate a vario gradiente islamico: il Supremo consiglio militare del Libero esercito siriano del Brigadier-generale Salim Idris, il primo a prendere le armi contro il regime nel 2011, essendo stato creato da disertori dell’esercito, e dal 2012 ufficialmente impegnato anche a reprimere i gruppi jihadisti in Siria. Diciamo ufficialmente perché al Supremo consiglio militare sono affiliate diverse formazioni militari a base locale tra le quali alcune (come l’Harakat Ahrar alSham al-Islamiyya – il Movimento islamico degli uomini liberi del Levante, un gruppo salafita) sono sospettate di avere legami con Al Qaeda. Dal novembre 2013 si è invece formato il Fronte islamico, coalizione di 7 gruppi, guidata da Ahmed al-Sheikh , il cui scopo, oltre alla caduta del regime, è la creazione in Siria di uno Stato islamico, partendo dall’unione delle varie formazioni musulmane. Scopo che peraltro si è prefisso anche il Jaysh al-Islam (Esercito dell’Islam) di Zahran Alloush, coalizione di ben 50 gruppi con base nella provincia di Damasco, che è stato creato non più tardi del settembre dell’anno scorso. Potremmo andare avanti per pagine e pagine con questo elenco tragico che ci dà la misura dello stato di disgregazione e anarchia cui è arrivata la Siria in 3 anni di guerra civile. Ma se di terrorismo vero dobbiamo parlare, allora bisogna puntare il dito contro le due formazioni sicuramente terroristiche e qaediste: il Fronte di Supporto, meglio conosciuto come al Nusra di Abu Mohammed al-Julani e lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante di Abu Bakr al-Baghdadi, organizzazioni estremiste sunnite, che hanno operato sul terreno la fusione tra gli scenari di conflitto iracheno e siriano. Ora possiamo affermare con maggior cognizione di causa che a Ginevra 2 è chiesto un vero e proprio miracolo.
Keystone
Marcella Emiliani
AFP
fra mille difficoltà la conferenza internazionale di pace sulla Siria
Suona che ti passa Paso doble «El Sistema» è un progetto
sociale di orchestre infantili fondato 40 anni fa in Venezuela e importato in Italia dal maestro Abbado, recentemente scomparso Angela Nocioni «El Sistema» si chiama. È il metodo di educazione alla musica inventato trentacinque anni fa in Venezuela dal musicista José Antonio Abreu. Claudio Abbado, il direttore d’orchestra italiano appena scomparso, se ne era innamorato e dopo un lungo tirocinio sulle tracce di Abreu in Venezuela (quattro mesi all’anno per anni) si è fatto in quattro per esportare il sistema in Europa. Come lui altri grandi maestri, il più entusiasta è Simon Rattle, il direttore della Filarmonica di Berlino, probabilmente il migliore direttore del mondo, che spesso vola a Caracas, al Teatro Teresa Carreño, sede dell’Orchestra principale della scuola, ad ascoltare i concerti.
A esaltare il valore politico del progetto, facendone il suo fiore all’occhiello, fu Hugo Chavez L’idea di Abreu è semplice e straordinaria: tirare via dalla strada i ragazzini, sottrarli alla criminalità, non con la polizia, ma con la musica. E scoprire così che la distanza tra un futuro di emarginazione e una carriera artistica di successo può essere di meno di 50 centimetri: la misura di un violino. Ognuno dei trecentomila ragazzini che hanno imparato a suonare con «El sistema» lo sa, perché l’ha visto o su di sé o intorno a sé. E questo è il primo risultato dell’idea applicata. Il metodo Abreu ha originali strategie di educazione, un sistema di insegnamento gratuito, democratico e fortemente antiautoritario. Talmente efficace che in Venezuela oggi esistono 200 orchestre giovanili, 150 orchestre infantili, 300mila ragazzi che hanno imparato con «El Sistema» a suonare uno strumento, migliaia che sanno lavorare come liutai. L’85% degli alunni viene da famiglie che vivono sotto il livello di povertà, ma ovviamente le scuole sono aperte a tutti, anche ai bambini ricchi. Le scuole sono 250 e sono sparse in tutto il Paese, ma soprattutto nelle zone considerate a rischio alto di criminalità. Baraccopoli, periferie urbane, profondo sud del Paese. Il valore del progetto e la sua grandiosa riuscita sono stati riconosciuti internazionalmente ad Abrau, che ha ricevuto per questo il Nobel. Quando cominciò, nel ’75, faceva scuola in un garage a 11 bambini. Oggi la sua scuola di musica esiste in 25 Paesi. Fattore fondamentale del successo è stata l’intelligenza politica di Abreu, fine economista, che ha saputo ogni volta far rifinanziare il sistema di insegnamento dai tanti governi succedutisi in Venezuela dal 1975
ad oggi. A esaltare il valore politico del progetto, facendone il suo fiore all’occhiello, fu nel 1999 Hugo Chàvez. Tutto si può rimproverare al defunto presidente venezuelano, ma non che non abbia colto l’importanza dell’idea di Abreu. Questo nessuno glielo può togliere. Con il suo governo «El sistema» è diventato capillare. I finanziamenti sono arrivati a pioggia, tutto gratuito per tutti. Uno strumento in regalo a qualsiasi bambino lo richieda, a condizione che entri a studiare nella scuola. Il miracolo didattico è che tutti riescono ad integrarsi in orchestra dopo pochi mesi di studio. Quindi viaggiano. Quindi conoscono. Quindi si emancipano dalle situazioni di provenienza. L’esordio della scuola fu nel periodo del boom del petrolio, fine anni Settanta, il momento ricco del «Venezuela saudita», in cui i petrodollari dell’export del greggio erano tanti, ma era tutt’altro che semplice riuscire a farli finire nelle casse pubbliche per reinvestirli in progetti culturali. Abreu persuase l’allora ministro della Salute a finanziarlo. Nacque così la Fesnojiv (Fundación del Estado para el Sistema Nacional de las Orquestas Juveniles e Infantiles de Venezuela) che tutti conoscono ormai semplicemente come «El Sistema». Durante una pausa delle prove generali di un concerto dell’Orchestra giovanile nel Teatro Teresa Carreño a Caracas, Abreu ha raccontato una volta ai giornalisti davanti a un bicchiere di Coca light: «Quando a un ragazzino di un quartiere sprofondato nella miseria gli regali uno strumento musicale, lui ci salta su come su un surf. È la sua unica chance, l’unica cosa che ha: ci si afferra come un naufrago». «Per questo vedi ragazzini provare tutti i giorni per tre, quattro ore al giorno. Sperimentano l’entusiasmo di sentire la vita acquisire un senso profondo». «Il lato peggiore della povertà assoluta è non essere nessuno, non sentirsi nessuno. Nell’orchestra sono qualcuno e lo imparano ad essere insieme agli altri. Sapete che cosa significa per un bambino di questi vedere il maestro Rattle che lo abbraccia e si complimenta per come ha suonato? È una felicità sublime». Rattle, a sua volta, ha raccontato che la sua passione per «El Sistema» è nata per ribellione all’educazione musicale come abitudine d’elite, come didattica che cerca solisti perfetti e intanto semina tutt’intorno insuccessi e frustrazioni. Il dettaglio rivelatore che l’ha conquistato nei ragazzini venezuelani è stato, dice lui, «la totale disinibizione». «Quando qualcosa non gli riesce, quando sbagliano, non succede niente. È straordinario – si stupisce Rattle – lo ripetono e lo ripetono e lo ripetono finché non ci riescono. Hanno capito che si migliora. Questi ragazzi sono liberi dal senso di colpa».
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Politica e Economia
Centrafrica, spettro Ruanda Emergenza Nel Paese dilaniato dalla violenza settaria fra cristiani e musulmani il Parlamento ha eletto Catherine
Samba Panza presidente ad interim. Dovrà avviare un difficile processo di riconciliazione nazionale Pietro Veronese La mattina di lunedì 20 gennaio il parlamento provvisorio di un Paese che appare al momento provvisorio anch’esso, la Repubblica Centrafricana, ha eletto un nuovo capo (provvisorio) dello Stato. Sorprendentemente, una donna. Catherine Samba Panza, avvocato, 60 anni, entra a far parte di un club assai ristretto, che conta lei compresa solo tre socie. Le altre due sono la liberiana Ellen Johnson Sirleaf e la malawiana Joyce Banda. Le uniche donne presidente dell’Africa. La centrafricana è la prima dell’Africa francofona. Quella stessa mattina, a Bruxelles, i ministri degli esteri dell’Unione Europea, rispondendo infine alle insistenze della Francia che ha già in Centrafrica 1.600 suoi soldati, hanno acconsentito in linea di principio all’invio di altri militari, tra 500 e mille. In attesa che si formi un contingente panafricano il quale però stenta a materializzarsi. Ci saranno anche i tedeschi, ma gli uomini combat ready che verranno inviati dalla Germania avranno ordine di non oltrepassare il perimetro dell’aeroporto internazionale di Bangui, la capitale centrafricana. Nelle stesse ore, ma in un’altra sala conferenze brussellese, un certo numero di Paesi donatori hanno sottoscritto un impegno complessivo di 500 milioni di dollari di aiuti umanitari per il Centrafrica. Due quinti in aiuti d’emergenza e il resto come contributo alla stabilizzazione del Paese, da erogare quindi con minore urgenza. Si consideri che lo Stato centrafricano è in piena bancarotta, le sue casse sono vuote, i dipendenti pubblici non vengono pagati da quattro mesi, le scuole sono chiuse, gli ospedali privi di tutto, l’esercito è praticamente dissolto e la sua autorità non riesce a esercitarsi nemmeno sui quartieri della capitale. Tutto ciò detto e fatto in un solo giorno, anzi una mattinata, la Repubblica Centrafricana, fugacemente apparsa nei notiziari internazionali, è tornata a scomparire. Invano se ne cercherebbe il nome sulle home page dei siti internet, nei titoli dei quotidiani o nei sommari dei telegiornali. Eppure la guerra civile che ha portato il Paese sulla soglia della dissoluzione continua. Nelle strade di
Bangui le bande armate degli «anti balaka» (cioè anti-spada, anti-machete), squadre di autodifesa della popolazione cristiana armate di mazze chiodate e altre armi primordiali, continuano a dare la caccia ai musulmani. Se ne identificano uno, il malcapitato finisce immediatamente linciato. In alcuni casi – più d’uno – le vittime sono state bruciate, e i loro corpi mangiati. Orrori di una guerra barbarica, frutto della paura, dell’abiezione, della privazione materiale e morale. Una guerra tra miseri, ma non così poveri che non ci sia qualcuno dotato di smartphone pronto a filmare: questi episodi estremi sono documentati. A sua volta, la popolazione di Bangui è stata per mesi in balia delle milizie calate dal nord, che presero il potere nel marzo scorso scacciando il presidente François Bozizé. Rimasti senza paga, ma non senza munizioni, i miliziani si sono rifatti su chi capitava loro a tiro, vessando, rubando, violentando e diffondendo insomma il terrore e l’anarchia. I sistematici saccheggi dei camion provenienti dal Camerun, in taluni casi l’assassinio degli autisti, hanno portato alla paralisi del traffico di merci da quel Paese, maggiore via di rifornimento del Centrafrica, che non ha sbocchi al mare. Isolati, affamati, sfollati a centinaia di migliaia, i centrafricani sono stati ridotti alla disperazione. Questo lento sprofondare nel caos è durato mesi finché negli ultimi tempi, da dicembre, è precipitato in un turbine di violenza incontrollata. Ma l’attenzione internazionale è stata minima. Come ha ammesso alla riunione di Bruxelles il ministro degli esteri svedese Carl Bildt, «sappiamo poco o nulla di quanto succede fuori Bangui», una constatazione che fa venire i brividi se si pensa che la Repubblica Centrafricana è vasta 600 mila chilometri quadrati. Eppure l’emergenza umanitaria e geopolitica non ha fatto che crescere. La reazione europea è arrivata con grandissimo ritardo e forse è destinata a rivelarsi insufficiente. Nel frattempo il Paese, esausto, si è affidato a Catherine Samba Panza, una personalità generalmente stimata e accettata da entrambi i campi in conflitto. La nuova presidente è cristiana, ma è nata e cresciuta nel Ciad, che confina col Centrafrica a nord ed è
Catherine Samba Panza riceve scudo e spada da un capo tribù durante la cerimonia di giuramento a Bangui. (AFP)
considerato la retrovia delle milizie musulmane. Parla correntemente l’arabo oltre al francese e tutti le riconoscono una notevole capacità di dialogo. Il suo compito è arduo davvero. Dovrà per prima cosa dare da mangiare a qualche centinaia di migliaia di sfollati per i quali le stesse Nazioni Unite avvertono di non avere cibo a sufficienza. Dovrà convincere milizie e «anti balaka» a deporre, se non a consegnare, le armi e i profughi a tornare nei villaggi e seminare prima delle piogge di aprile. Dovrà avviare un processo di riconciliazione nazionale per arrivare entro un anno – questo il suo mandato – all’elezione di un capo dello Stato non più provvisorio. La Repubblica Centrafricana è un Paese difficile da immaginare per un europeo. È vasta due volte l’Italia ma i suoi abitanti sono la metà degli svizzeri. La sua superficie è occupata per gran parte da una densa foresta pluviale e solo al nord diventa savana. La geografia non ne ha mai aiutato l’unità, perché è in realtà un grandissimo spartiacque tra il bacino del fiume Oubangui a sud e quel-
lo del Chari a nord. Questo discrimine ha costituito nei secoli anche una differenza etnografica e religiosa ed è parte di quella faglia politico-culturale oggi in sofferenza in tutta l’Africa occidentale. Essa passa tra nord e sud del Mali, nord e sud della Nigeria, attraverso il Centrafrica e poi, ancora più a est, lungo il nuovo confine tra Sudan e Sud Sudan, creato appena due anni fa. È un vastissimo e assai inquietante terreno di coltura dell’islamismo, scelto da tempo dai militanti fondamentalisti come campo d’azione. Se c’è una delle tante cosiddette «crisi dimenticate» che proprio non avrebbe dovuto esserlo, è quella del Centrafrica. Tra le tante sfortune di questo Paese, il quale occupa il fondo di tutte le classifiche sullo sviluppo umano delle Nazioni Unite ed è forse l’unico oggi nel quale la speranza di vita sia diminuita (da 49 a 48 anni) anziché aumentare, c’è la ricchezza del suo sottosuolo. La classica maledizione africana. Diamanti, oro, uranio scatenano l’avidità, in particolare i primi, più facilmente estraibili e com-
merciabili. I diamanti centrafricani, da sempre strumento di corruzione, hanno una lunga storia. Negli anni 70 del secolo scorso furono più volte all’onore delle cronache quelli offerti in dono dall’allora dittatore Jean-Bedel Bokassa – uno dei più grotteschi tra i tanti che l’Africa ha conosciuto – a presidenti e politici francesi. I giacimenti diamantiferi sono soprattutto localizzati al nord, nelle regioni tradizionalmente più neglette dai successivi regimi che hanno retto il Centrafrica. Già questo basterebbe a spiegare le ragioni della rivolta che dieci mesi fa giunse vittoriosa a Bangui. Ma per come stanno le cose oggi, le cause remote della catastrofe importano poco. Più volte alti responsabili delle Nazioni Unite hanno fatto ricorso alla parola «genocidio» («alto rischio di genocidio», «livelli di violenza senza precedenti») per descrivere quello che sta accadendo. È una parola pesantissima, dalla quale la diplomazia internazionale rifugge finché può, e che evoca spettri terribili, come quello del Ruanda. Ecco il punto in cui siamo.
Ladri e stupratori: ma essere gay è più grave La seta indiana Annullato il decreto che depenalizzava l’omosessualità Francesca Marino La Corte Suprema dell’India ha decretato che la famigerata legge 377 del Codice penale dichiarata incostituzionale nel 2009, rimarrà in vigore. La legge, retaggio della cultura e dell’epoca vittoriana al tempo in cui l’India era ancora parte del dominio britannico riguarda i rapporti omosessuali: dichiarati illegali e punibili quindi con un certo numero di anni di galera. Si tratta della stessa legge, tanto per capirci, in base a cui Oscar Wilde ai suoi tempi è stato condannato ai lavori forzati. La sentenza, emessa su istanza di una petizione presentata da esponenti di gruppi religiosi di diverse confessioni, cristiani, musulmani e integralisti hindu per una volta tanto uniti a formare un muro compatto di intolleranza, ha scatenato clamore e proteste in tutta l’India. Anche perché, ironia suprema, è stata emessa appena un giorno dopo la celebrazione della Giornata mondiale dei diritti umani. «È una giornata molto triste per noi, dobbiamo ricominciare da capo con la nostra lotta per il diritto democratico della comunità gay», ha
dichiarato Ashok Row Kavi, a capo del gruppo per i diritti degli omosessuali Humsafar Trust. E molti attivisti gay riuniti davanti alla sede della Corte ad aspettare la sentenza, hanno pianto all’annuncio del ripristino di una legge che riporta la più grande democrazia del mondo indietro di qualche centina-
io d’anni. «Adesso so cosa significa essere una minoranza nella propria terra», ha scritto il giornalista Kunal Majumder. «So cosa prova un Dalit quando un membro delle caste alte brucia la sua casa e lo dichiara intoccabile. So come si sente un musulmano quando un integralista hindu lo definisce non-indiano… cosa si prova a essere una donna che cammina da sola per una strada deserta. Oggi sono una minoranza, un criminale nel mio stesso Paese». A scendere in campo contro la sentenza sono stati moltissimi: scrittori, artisti, attivisti e tanta gente comune, gay e anche etero. Perché la legge 377, a ben guardare, non riguarda soltanto i gay ma tutti i cittadini indiani. Il famigerato articolo recita difatti che «chiunque abbia volontariamente rapporti sessuali contro la natura con un uomo, una donna o un animale» può essere condannato a un massimo di dieci anni di carcere. Chiunque, con chiunque. Consenziente o meno può essere condannato a dieci anni di carcere: più di uno stupratore, per esempio. Più di un ricattatore, più di un ladro. In nome di una cosiddetta morale di cui i gruppi religiosi e
i giudici si considerano, evidentemente, custodi e arbitri. A scendere in campo sono stati moltissimi: lo scrittore Vikram Seth per primo, e tanta gente comune gay o etero che sia. Che su Facebook e Twitter si è dichiarata «gay per un giorno» fotografandosi abbracciata a partner o amici dello stesso sesso per solidarietà con tutti coloro che, con il ripristino dell’articolo 377 rischiano la propria libertà. O peggio. La legge sull’omosessualità è stata difatti per anni fonte di ricatti, abusi e violenze ai danni di gay e lesbiche. Per anni ho avvisato amici omosessuali che andavano in India di evitare le relazioni occasionali per il rischio di cadere vittima di un ricattatore: se i rapporti «contro natura» sono puniti dalla legge, basta una foto mano nella mano, un bacio, una denuncia e un poliziotto più o meno corrotto per ritrovarsi in un mare di guai. Oggi «Siamo tutti gay», hanno dichiarato i cittadini indiani. E sarebbe stato bello se qualche politico, tutti i politici, si fossero uniti a loro in questa gara di civiltà, in quella che è una lotta per i diritti umani e non, come sostengono i gruppi religiosi, una questione morale.
Non è successo, però. E se Sonia Gandhi, in compagnia di una sparuta minoranza di governo ha criticato la sentenza sostenendo che la rimozione dell’articolo 377 nel 2009 aveva «saggiamente rimosso una legge arcaica, repressiva e ingiusta che incideva negativamente sui diritti umani», la destra nazionalista e i partiti che la sostengono hanno cantato vittoria facendo affermazioni più o meno deliranti: si va dalla vecchia storia, abolita finalmente anche dall’Oms, per cui l’omosessualità sarebbe un disturbo da curare, a dotte disquisizioni su come i gay non abbiano diritto di cittadinanza nella cultura indiana (falso). E a nulla vale fare osservare che la legge indiana ha istituito anni fa carte di identità rilasciate a un «terzo sesso» i cui esponenti sono diventati sindaci e politici locali. La battaglia è appena cominciata. La Corte Suprema, pilatescamente, ha infatti decretato anche che spetta alla politica abrogare l’articolo 377, e non ai giudici. E la politica, con le elezioni alle porte, non sembra avere alcuna intenzione di combattere battaglie controverse per i propri cittadini.
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Politica e Economia
«L’iniziativa non risolve i problemi» Intervista La consigliera federale Simonetta Sommaruga s’impegna per un no all’iniziativa «contro l’immigrazione
di massa» perché comporta unicamente incertezze per l’economia e per le relazioni con l’Unione europea
tiamo da loro che si interessino anche al potenziale esistente in Svizzera per esempio integrando più donne nel mercato del lavoro. Anche i giovani devono darsi una mossa, rendersi conto che vale la pena di fare un apprendistato; al momento attuale, 7000 posti di apprendista non trovano chi li occupi.
Ralf Kaminski e Sabine Lüthi * Presto voteremo sull’iniziativa dell’UDC contro l’immigrazione di massa. La barca è piena?
No, non si può dirlo. Ma è vero che la popolazione è molto aumentata negli ultimi anni. Anche se questa crescita è legata a una forte congiuntura, suscita una certa inquietudine nella popolazione. Ecco perché ora abbiamo questa importante discussione sulla qualità di vita, la crescita e la prosperità nel nostro paese.
Un rimprovero che si sente spesso a sinistra e fra i Verdi è che solo l’economia e la sua infinita fame di crescita incoraggia l’immigrazione, e che la società dovrebbe mettere lì dei paletti. È possibile, senza concessioni sulla prosperità?
Riesce a capire questo malessere assai diffuso?
Sì, capisco che la forte immigrazione di mano d’opera preoccupi la popolazione. Ma penso che essa sia altrettanto preoccupata dell’enorme incertezza che l’accettazione di questa iniziativa comporterebbe per l’economia: metterebbe in pericolo gli accordi bilaterali e, quindi, l’insieme delle nostre relazioni con l’Unione europea. L’iniziativa dell’UDC permette di affrontare i problemi esistenti?
No, perché non ne risolve nessuno. Non mette termine alla proliferazione urbana sul territorio e non aiuta a proteggere il paesaggio. Non impedisce il dumping salariale, né gli abusi sul mercato del lavoro. Non farebbe nemmeno ridurre automaticamente l’immigrazione, come dimostra l’esperienza del periodo di alta congiuntura degli anni 1960. All’epoca arrivavano in Svizzera 140’000 persone in media ogni anno, nonostante i contingenti. Certi anni ci si avvicinava addirittura alle 200’000. L’iniziativa non offre nessuna soluzione, porta solo incertezze. Chi fornisce risposte? Il mercato?
Nel corso degli ultimi cento anni, l’immigrazione è sempre stata importante quando la congiuntura era buona, e debole quando l’economia faticava. Ma ciò non vuol dire che dobbiamo accontentarci di osservare queste fluttuazioni. Quando si pongono problemi reali, dobbiamo reagire. Il canton Zugo, per esempio, negli ultimi anni ha registrato una forte crescita della sua popolazione. Ora il governo cantonale ha presentato un piano che indica come si può bloccare la dispersione urbana pur mantenendo una crescita moderata. Dunque è possibile. E il 9
Simonetta Sommaruga, capo Dipartimento federale di giustizia e polizia. (Keystone)
febbraio voteremo su uno sviluppo dell’infrastruttura ferroviaria, per rispondere a una mobilità in aumento. Ecco risposte concrete, che hanno un effetto reale. Questa votazione può avere conseguenze di ampia portata?
Contrariamente al divieto dei minareti, per esempio, la votazione del 9 febbraio non è di quelle a carattere simbolico, che si possono utilizzare per dare un segnale. La libera circolazione delle persone è un elemento centrale della collaborazione con l’UE. Ciò nonostante è difficile prevedere quali sarebbero gli effetti di un’accettazione dell’iniziativa sulle nostre relazioni con l’UE e su altri trattati importanti come gli accordi di Schengen e di Dublino. Non voglio speculare, né mettere paura, ma è certo che ciò non resterebbe privo di conseguenze. Pare che in caso di accettazione dell’iniziativa, il Consiglio federale e il Parlamento sarebbero liberi di fissare dei contingenti talmente elevati che ciò non porrebbe nessun problema all’UE. Sarebbe una soluzione?
L’iniziativa non menziona nessuna cifra massima e permetterebbe quindi effettivamente contingenti molto elevati. È esatto, per quanto assurdo possa sembrare. Dal punto di vista dell’UE avremmo comunque un problema anche con contingenti elevati, perché la libera circolazione delle persone è considerata come una libertà fondamentale, incompatibile con dei contingenti. La Svizzera dovrebbe negoziare una regolamentazione particolare con i 28 Stati membri, e ottenere l’approvazione di ciascuno di loro. Lascio giudicare al popolo il realismo di questa proposta. Una gran parte degli immigrati arrivano tramite il ricongiungimento familiare. Non bisognerebbe renderlo più difficile?
No. Le condizioni sono chiare: chi dispone di un alloggio sufficientemente grande deve poter far venire la sua famiglia in Svizzera. Non vogliamo tornare all’epoca dello statuto di stagionale, quando i lavoratori esteri facevano venire in segreto la moglie e i figli, che in seguito dovevano vivere qui nascosti. Era una situazione indegna, insostenibile.
Non bisogna quindi dare un giro di vite in materia di ricongiungimento familiare?
No, perché noi abbiamo un grande interesse a che venga una mano d’opera altamente qualificata. Un informatico di punta, per esempio, non verrà a lavorare in Svizzera se gli si dice che deve lasciare al suo paese moglie e figli. Gli avversari dell’iniziativa non esagerano i benefici dell’immigrazione per l’economia svizzera? Negli ultimi anni, il PIL per abitante è aumentato più rapidamente in Germania e in Austria che in Svizzera, nonostante un’immigrazione nettamente più debole.
Consideriamo la nostra situazione economica: uno dei tassi di disoccupazione più bassi, l’economia più competitiva del mondo, connessa benissimo a livello internazionale, un volume di scambi con l’UE di un miliardo di franchi al giorno! La forte immigrazione degli ultimi anni ci ha aiutato. Grazie a lei, le nostre imprese hanno potuto reclutare la mano d’opera di cui avevano bisogno. Ma le imprese devono anche assumersi la loro parte di responsabilità: ci aspet-
Effettivamente è una questione determinante, quella della nostra qualità di vita. La prosperità ne è solo un elemento, ma un elemento importante. Per preservarla è indispensabile una certa crescita, ma dobbiamo assicurarci che questa evoluzione sia intelligente e sostenibile. Che non sia troppo avida di terreno e di energia. Certi comuni mettono già in pratica questi principi di sostenibilità, per esempio Köniz (BE), dove risiedo. Da parecchi anni ha uno sviluppo moderato, senza aver dezonato un solo metro quadrato supplementare di terreno. Con la nuova legge sulla pianificazione del territorio, la popolazione ha indicato la via da seguire, e anche i cantoni devono agire, per porre un termine alla proliferazione urbana sul territorio. Il PS, che finora ha sempre sostenuto la via bilaterale, minaccia di sostenere il referendum sulla Croazia se le misure fiancheggiatrici non vengono rafforzate. La minaccia del suo partito è seria?
Dovrebbe porre la domanda al suo presidente. Ma è esatto che le misure fiancheggiatrici sono importantissime, dobbiamo imperativamente preservare le buone condizioni di lavoro che abbiamo in Svizzera. Se si presentano nuovi problemi, dobbiamo riflettere su misure supplementari, sanzioni più severe, controlli più efficaci. È anche la posizione del Consiglio federale: non vogliamo che la libera circolazione delle persone sia il pretesto per una pressione esercitata sulle buone condizioni di lavoro in Svizzera. * Redattori di Migros Magazin
Cambiareil sistema monetario svizzero? Finanza Un’iniziativa popolare vorrebbe impedire alle banche di creare moneta per propri interessi aziendali,
obbligandole a passare sempre attraverso la Banca Nazionale Ignazio Bonoli Tra le molte iniziative popolari a livello federale se ne annuncia una che propone una vera e propria rivoluzione nella struttura e nel ruolo del sistema bancario in Svizzera. Si tratta dell’iniziativa promossa da un’Associazione per la modernizzazione monetaria (MoMo) che vuole vietare alle banche di creare moneta, senza passare dalla Banca Nazionale. Oggi, infatti, le banche commerciali creano moneta (la cosiddetta moneta scritturale) tramite la concessione di crediti alle aziende e ai privati. In sostanza, un’attività che viene sorvegliata soltanto in parte dalla Banca Nazionale, ma che dipende dall’evoluzione del mercato e può provocare le cosiddette bolle speculative, mettendo talvolta in pericolo l’intero sistema. Il sistema monetario attuale permette, infatti, alle banche di creare moneta tramite il credito e questa moneta contabile è ormai diventata la compo-
nente di gran lunga maggiore rispetto a quella classica dei biglietti di banca e della cosiddetta moneta di conto (in genere metallica). Questa particolare moneta costituisce oggi il 90% della massa monetaria in circolazione. L’iniziativa non propone quindi una correzione o un miglioramento del sistema attuale, ma un completo cambiamento, consentendo in pratica soltanto alla Banca centrale il compito di creare moneta. Tanto questa iniziativa, quanto quella del reddito minimo incondizionato, propongono quindi un totale cambiamento del sistema sul quale si basano ormai quasi tutte le economie del mondo. Sistema che è accompagnato però da parecchi correttivi e da molte restrizioni, maturate talvolta a seguito di eccessi che hanno provocato importanti periodi di crisi. Chiaramente questa iniziativa prende lo spunto dall’enorme sviluppo del mercato finanziario mondiale, che – al di là della tradizionale creazione di moneta – ha inventato strumenti che
l’hanno moltiplicata a dismisura, con lo scopo di seguire le molte speculazioni e i lauti guadagni che il sistema prometteva. Quindi, secondo la «MoMo», è passato il tempo delle piccole correzioni di rotta, ma si rende necessario un totale cambiamento di sistema. L’idea si avvicina ad altre recenti che perseguono scopi analoghi e ottiene anche il sostegno di alcuni docenti universitari, con alla testa il professor Joseph Huber (Germania). L’associazione che promuove l’iniziativa in Svizzera e che verrà probabilmente lanciata in primavera, attira le simpatie di movimenti alternativi di sinistra, ma anche di membri dell’UDC. L’associazione «MoMo» si è dotata anche di un comitato scientifico e ha già preso contatto con alcuni membri di partiti politici (SP, Verdi, UDC). L’idea si sta del resto sviluppando anche in altri Paesi (Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania), mentre in Islanda (fortemente colpita dalla crisi) se ne sta già occupando il Parlamento.
L’Associazione dei banchieri svizzeri mette però in guardia contro un cambiamento così radicale del sistema monetario attuale, che è tuttora valido: non c’è inflazione, il Paese è sufficientemente rifornito di moneta, la crescita economica è stabile, la Banca Nazionale non si lamenta di una perdita di controllo. Il sistema proposto fa nascere dubbi su un sufficiente approvvigionamento del mercato in crediti, mentre un unico responsabile centrale conoscerebbe meno bene le esigenze locali e sarebbe sottoposto a pressioni politiche. Argomenti che sono però confutati dai responsabili del progetto. L’ultima crisi che ha messo in pericolo il sistema è molto recente e se la Banca Nazionale non si lamenta di un insufficiente controllo del mercato monetario, non vuol dire che in sostanza non lo tema. Essi negano inoltre che, al momento del cambiamento di sistema, si possa verificare un blocco del credito, poiché la massa monetaria sarà uguale a quella precedente e la Banca Nazionale conti-
nuerà a rifornire le banche come prima. Le autorità monetarie avrebbero un miglior controllo di tutto il sistema e le banche non potranno più creare moneta per i propri interessi aziendali. I fautori del sistema aggiungono anche che gli eventuali guadagni dovuti alla creazione di moneta aumenterebbero di parecchio e a favore unicamente dello Stato. Per quantificare questa affermazione precisano che un aumento del prodotto interno lordo dell’1%, con una massa monetaria in crescita costante, procurerebbe un guadagno di 7 miliardi di franchi. Ben oltre questa cifra sarebbero i guadagni nel periodo di transizione e sarebbero tali da coprire l’intero debito pubblico attuale. Il cambiamento colpirebbe soprattutto le banche d’investimento che, oggi, vivono di denaro speculativo. Né si dovrebbero nutrire timori per la piazza finanziaria. Cambiando sistema per prima, la Svizzera si garantirebbe il vantaggio della piazza finanziaria più sicura.
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Politica e Economia
Frenare l’immigrazione? Votazioni federali L’iniziativa popolare lanciata dall’UDC è senz’altro il tema più controverso e dalle conseguenze
più importanti fra i tre oggetti su cui i cittadini si esprimeranno il 9 febbraio Alessandro Carli Per gli oppositori, l’iniziativa popolare dell’UDC «Contro l’immigrazione di massa», in votazione il 9 febbraio, è un attacco all’economia e alla prosperità del nostro Paese. Per la maggioranza dei partiti, per le organizzazioni economiche e il Consiglio federale, a subirne le conseguenze sarebbero i settori sanitario, agricolo, alberghiero e della costruzione, oltre che le relazioni bilaterali con l’UE. I promotori dell’iniziativa sostengono invece che l’attuale immigrazione incontrollata rappresenta una minaccia per la libertà, la sicurezza e l’occupazione. Stando ai sondaggi, l’iniziativa UDC, come pure quella contro il finanziamento dell’aborto da parte delle casse malattia, verrebbero bocciate, mentre il decreto federale sul finanziamento dell’infrastruttura ferroviaria (FAIF) – terzo oggetto in votazione – sarebbe accolto. Sugli altri due oggetti riferiremo nel prossimo numero.
Secondo gli oppositori, un sì all’iniziativa metterebbe a rischio i più importanti accordi bilaterali con l’UE Depositata il 14 febbraio del 2012 e sostenuta da 136 mila firme raccolte in appena sette mesi, l’iniziativa contro l’immigrazione di massa è il tema più controverso della prossima votazione federale. Chiede che la Svizzera gestisca autonomamente l’immigrazione degli stranieri mediante tetti massimi e contingenti annuali, stabiliti in funzione degli interessi globali dell’economia elvetica. Essi varrebbero per tutte le categorie di stranieri, dunque per i lavoratori (frontalieri compresi), i congiunti e i richiedenti l’asilo. Proprio la reintroduzione di contingenti, abbandonati con l’entrata in vigore nel 2002 dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone tra la Svizzera e l’Unione europea (UE), potrebbe comportare la denuncia di quest’ultimo. In tal caso, sei mesi dopo tutti gli accordi Bilaterali I potrebbero decadere, a causa della clausola «ghigliottina» in essi contenuta. Le conseguenze sarebbero imprevedibili.
L’iniziativa prevede inoltre che i datori di lavoro diano la precedenza ai cittadini svizzeri, con conseguente rinuncia a qualsiasi forma di dumping salariale. Infine, non potranno essere conclusi trattati internazionali che contraddicano le disposizioni dell’iniziativa, mentre quelli esistenti – Accordo sulla libera circolazione in primis – dovranno essere rinegoziati e adeguati entro tre anni dall’approvazione dell’iniziativa. «Missione impossibile», ha in sostanza ammonito recentemente la vicepresidente della Commissione UE Viviane Reding, con un’ingerenza senza precedenti in una campagna di votazione popolare elvetica. Secondo la commissaria, «pensare di rinegoziare la libera circolazione è un’illusione». Per l’UDC, si tratta di una minaccia «non credibile». Infatti, l’UE ci penserebbe due volte prima di denunciare i trattati, in quanto «avrebbe troppo da perdere». Basti pensare che nel 2012, il 56% delle esportazioni svizzere era diretto verso l’UE, mentre da quest’ultima proveniva il 75% delle nostre importazioni. L’UE resta il partner economico più importante della Svizzera, per cui la conduzione di una politica europea attiva è di capitale importanza. E Bruxelles – secondo l’UDC – ne è assolutamente consapevole. Nel momento in cui la popolazione straniera residente sfiora 1,9 milioni di persone, negli ultimi cinque anni in Svizzera sono immigrati più stranieri di quanti non ne siano emigrati. Il saldo migratorio annuo è in media di quasi 80’000 persone (pari agli abitanti di Lucerna), il 70% delle quali proviene dall’UE, grazie all’Accordo sulla libera circolazione. Se ne prevedevano dieci volte meno. Il fenomeno dell’immigrazione è strettamente legato all’andamento dell’economia del nostro Paese, che registra il 23,2% di lavoratori stranieri. Le conseguenze di questa massiccia presenza sono più che percettibili in una Svizzera che, sempre nel 2012, ha superato gli 8 milioni di abitanti: diminuzione della superficie abitativa, tasso di disoccupazione nazionale del 3.5% nel 2013 (a fronte dell’8% tra gli stranieri), più alta percentuale di stranieri a carico dell’assistenza e di altre istituzioni sociali, mezzi di trasporto pub-
blici sovraffollati, strade congestionate, difficoltà nel trovare un appartamento e un impiego. Secondo l’UDC, così non si può più andare avanti.
In Svizzera arrivano 80 mila immigrati in più all’anno, se ne prevedevano dieci volte meno Secondo il comitato interpartitico contrario all’iniziativa (PPD, PLR, PBD, Verdi liberali, Verdi, Evangelici), la libera circolazione ha portato più vantaggi che inconvenienti al nostro Paese. Ha favorito l’aumento del prodotto interno lordo (PIL) pro-capite. L’accordo con l’UE – afferma – è alla base del successo economico svizzero degli ultimi anni in un’Europa in crisi, poiché ha permesso ai nostri imprenditori di assumere forze lavorative altamente qualificate, in maniera veloce e non burocratica. Quest’affermazione è contestata dall’UDC, secondo cui le autorità continuano a ripetere a iosa che la libera circolazione porta a un’immigrazione altamente qualificata. Per i fautori dell’iniziativa si tratta di un’«ipocrisia», poiché solo una parte degli immigrati dell’UE occupa posti di lavoro che richiedono un’alta qualificazione. Circa la metà degli immigranti entra in Svizzera senza lavorare. Ogni anno vengono rilasciati 10’000 permessi per «attività lavorative non definibili». A un decennio dall’entrata in vigore dell’accordo sulla libera circolazione – ammette il Consiglio federale – in Svizzera sono giunti circa 600’000 stranieri. Nella Confederazione un impiego su tre dipende dal commercio con l’Europa. I settori sanitario (che dà lavoro al 32% di stranieri), agricolo ed edile «non potrebbero funzionare senza l’apporto della manodopera straniera». Ne abbiamo bisogno, poiché i lavoratori indigeni non bastano. Del resto, il tasso di disoccupazione in Svizzera è molto ridotto. Questo dato di fatto non ha comunque impedito al governo, lo scorso maggio, di attivare (anche in previsione di questa consultazione e nonostante le critiche di Bruxelles) la clausola di salvaguardia che permette di introdurre
provvisoriamente contingenti di lavoratori europei. Il timore di dover limitare l’accesso a un serbatoio di 500 milioni di consumatori europei, ha indotto gli ambienti economici a suonare i tamburi di guerra. Da economiesuisse all’USAM, agli albergatori, agli orologiai, agli enti ospedalieri, a Swissmem (organizzazione padronale che rappresenta l’industria meccanica, elettronica e metallurgica): tutti temono le conseguenze di un sì all’iniziativa, definita «autolesionista», apportatrice di inutile burocrazia. Persino l’Unione svizzera dei contadini (USC), zoccolo duro dell’UDC, ha voltato le spalle al partito. A dar battaglia all’UDC sono pure scesi in campo ben tre consiglieri federali: Simonetta Sommaruga (vedi intervista nella pagina a fianco), Didier Burkhalter e Johann Schneider-Ammann. Per loro, l’iniziativa implica la rinuncia all’attuale comprovato sistema di ammissione, ostacolando il reclutamento all’estero dei lavoratori di cui l’economia ha bisogno, e rimetterebbe in causa gli accordi bilaterali e le nostre relazioni con l’UE. Pensare di poter fare a meno dei mercati europei «è illusorio». Approvare l’iniziativa significa aprire un lungo periodo d’insicurezza. Dal canto suo, la Conferenza dei governi cantonali è convinta che l’iniziativa mette a repentaglio vari settori economici, senza risolvere i problemi dell’alloggio o dei trasporti. La libera circolazione comporta tuttavia anche problemi. Ne sa qualcosa il Ticino che, con la percentuale più alta di stranieri dopo il cantone di Ginevra, annovera anche 60’000 frontalieri, su una popolazione di 330 mila abitanti. Per proteggere la manodopera indigena, da tempo si chiede un rafforzamento delle misure di accompagnamento. A tre settimane dal voto su quest’iniziativa, non a caso il Consiglio federale ha deciso, con una «normativa vincolante», che i cittadini dell’Unione europea che vengono in Svizzera a cercare lavoro non hanno diritto all’aiuto sociale. Sebbene l’Accordo sulla libera circolazione delle persone non imponga la concessione di questo aiuto, il governo ha voluto precisarne il principio a livello federale, visto che alcuni cantoni concedono un simile sostegno finanziario. Il governo ha poi annunciato che
Tre medici anestesisti (da sinistra, uno svizzero, un tedesco e un belga) al lavoro all’Inselspital di Berna: il settore sanitario sarebbe fra i più toccati da un sì all’iniziativa dell’UDC. (Keystone)
intende anche chiarire a quali condizioni potrà essere revocato il diritto di soggiorno ai cittadini UE/Aels disoccupati e a quelli in pensione che percepiscono prestazioni complementari. Le necessarie modifiche legislative saranno poste in consultazione entro maggio 2014. Proprio l’insufficienza delle misure di accompagnamento alla libera circolazione delle persone ha suscitato malcontento a sinistra. Il Partito socialista e i sindacati hanno così deciso di sostenere una campagna contro il progetto dell’UDC, distinta da quella del comitato interpartitico. Per i sindacati i contingenti aumenterebbero il lavoro nero e gli stipendi sarebbero più bassi. In controtendenza con il partito nazionale, i Verdi ticinesi hanno invece deciso di sostenere l’iniziativa UDC. Puntano infatti il dito contro gli «effetti perversi» della libera circolazione, in particolare il dumping salariale e la messa in disparte dei lavoratori ticinesi a vantaggio dei frontalieri. E la situazione – affermano – «peggiora in modo grave e costante». Per farvi fronte non occorrono mezze misure e promesse, ma provvedimenti drastici come quelli proposti dall’iniziativa. Stando agli ultimi sondaggi, l’iniziativa verrebbe bocciata con una maggioranza del 55% (contro il 37% di favorevoli e l’8% di indecisi), ciò che non tranquillizza comunque gli avversari. Il ministro dell’economia Schneider-Ammann teme un «effetto minareti», cioè un risultato contrario ai sondaggi. Infatti, anche nel 2009 le previsioni davano quell’iniziativa perdente, ma poi è avvenuto il contrario, dato che «nel segreto dell’urna le opinioni possono cambiare». Stavolta, tuttavia, la posta in gioco è ben più importante dell’edificazione di qualche minareto. La tensione in vista del 9 febbraio non può poi non richiamare alla mente l’iniziativa Schwarzenbach che, nel 1970, voleva limitare il numero della popolazione straniera in Svizzera al 10% (1972) e al 12% (1974), dopo anni di forte immigrazione. Non se ne fece nulla, anche perché Berna aveva garantito che non si sarebbe mai giunti neppure al 15%. Attualmente siamo al 23,2%. Sempre in tema di stranieri, nelle prossime sessioni le Camere federali dovranno pronunciarsi sull’iniziativa popolare «Stop alla sovrappopolazione – sì alla conservazione delle basi naturali della vita», dell’Associazione ecologia e popolazione (ECOPOP), che vuole limitare la crescita della popolazione dovuta all’immigrazione allo 0,2% all’anno. In tal caso, ogni anno potrebbero immigrare solo 16’000 persone, contro le quasi 80’000 attualmente. Il Consiglio federale propone di respingerla senza controprogetto, poiché contraria alla politica migratoria svizzera e alla prassi adottata dal nostro Paese nella cooperazione internazionale allo sviluppo. Anche questo progetto comporterebbe un ritorno ai contingenti, proprio come chiede l’iniziativa UDC. Altro appuntamento con questa problematica: l’allargamento dell’accordo sulla libera circolazione delle persone alla Croazia, che fa parte dell’UE dalla scorsa estate. I suoi cittadini dovrebbero poter giungere in Svizzera più facilmente. Secondo il progetto del Consiglio federale sono previsti periodi transitori di 5-7 anni. La parola spetta al parlamento, ma l’UDC ha già promesso il referendum. Il popolo potrebbe dunque essere chiamato a pronunciarsi. Per il momento, il quesito è il seguente: vogliamo proseguire sulla via bilaterale, che funziona e ci porta benessere pur con i problemi legati alla forte presenza di stranieri, oppure ritornare sulla strada dei contingenti, con tutte le incertezze che comporta? Ai cittadini l’ardua sentenza.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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Politica e Economia
Risparmio – una parolaccia? La consulenza della Banca Migros
Gli Svizzeri forti risparmiatori Quota di risparmio in %
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Responsabile Product Management della Banca Migros
Il risparmio va scoraggiato. Quello che, a prima vista, può sembrare un paradosso è l’obiettivo dichiarato dell’attuale politica monetaria. Per questo motivo le banche centrali tengono i tassi ai minimi possibili. Quale pensiero si cela dietro a ciò? Chi risparmia rimanda i consumi al domani. Ma è proprio questo che le massime autorità monetarie vogliono impedire a qualunque prezzo: se le persone, incoraggiate dai tassi bassi, consumano di più, l’economia esce più in fretta dalla crisi. Con lo stesso argomento i governi si oppongono a un rigore eccessivo delle finanze pubbliche: stimolando la domanda impediscono il protrarsi della fase di stallo congiunturale. E grazie ai tassi bassi gli Stati devono spendere meno per pagare gli
Senza risparmi non ci sono investimenti Ma allora è tutto a posto? Niente affatto. A lungo termine un’economia non può prosperare senza risparmi sufficienti. Quello che i privati accantonano rimandando i consumi confluisce nel capitale di base di un Paese, che serve all’economia per sviluppare le proprie capacità produttive. Risparmiare consente quindi di finanziare gli investimenti e promuove la crescita a medio-lungo termine.
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Sul conto di risparmio non percepisco quasi interessi. Le banche centrali e i politici sostengono che non è il momento di risparmiare troppo. Che cosa pensa del fatto che «risparmio» sia diventata quasi una parolaccia?
interessi sul debito pubblico, che continua tuttavia a salire. La politica dei tassi bassi ha portato all’effetto sperato: nonostante la recessione i consumi sono rimasti stabili, mentre la quota dei risparmi è salita solo per poco tempo. Nel frattempo i risparmi dei privati negli Stati Uniti, in Giappone e nella zona euro sono tornati ai bassi livelli di prima della crisi (cfr. grafico).
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Daniel Lang
Quota di risparmi: risparmi dei privati in % del reddito disponibile. Dati: OCSE
Da questo punto di vista l’esigua quota di risparmi nei Paesi occidentali è un segnale preoccupante, tanto più che il trend discendente dura già da più di due decenni, come illustra il grafico. Hanno cominciato gli Stati Uniti, seguiti dal Giappone, una volta primo della classe nel risparmio, e ora, in modo un po’ meno diffuso, dalla zona euro. Questi Paesi attingono sempre di più alla loro sostanza. La bassa propen-
sione al risparmio, combinata a un indebitamento elevato, riduce tra l’altro le capacità di resistenza durante una crisi, come ha dimostrato senza ombra di dubbio il recente passato. Dal grafico risulta che la quota di risparmi degli Svizzeri mostra, invece, una rassicurante evoluzione. Dei cento franchi guadagnati sono stati risparmiati più di 13 franchi lo scorso anno, a dispetto dei tassi bassi.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Carlo Magno, il riformatore Al lettore di «Azione» è probabile che interessi poco sapere che domani, 28 gennaio, ricorrerà il 1200esimo anniversario della morte di Carlo Magno. Di questo re e imperatore dei Franchi è probabile che sappia poco, per non dire niente. Forse gli sarà restato in testa, quale ultima reminiscenza delle letture liceali, qualche verso dell’Orlando Furioso come «…che furo al tempo che passaro i Mori/ d’Africa il mare e in Francia nocquer tanto,/ seguendo l’ire e i giovenil furori/ d’Agramante lor re che si diè vanto/ di vendicar la morte di Troiano sopra re Carlo imperator romano». Sono versi tratti dall’incipit del poema che Ariosto dedicò a Rolando di Bretagna, l’eroe della battaglia di Roncisvalle (una vallata nei Pirenei) che fu una delle poche che Carlo Magno perse. Se la battaglia si tenne a Roncisvalle e se il
conte Rolando sia davvero un personaggio storico sono enigmi che finora nessuno ha saputo sciogliere. È uno dei tanti misteri della vita di questo grande monarca che merita di essere ricordato ai ticinesi non soltanto perché unificò il regno dei Franchi estendendo i suoi confini dai Pirenei al mare del Nord, sui territori che oggi sono della Francia, della Germania, del Lussemburgo, del Belgio, dell’Olanda, dell’Austria, di parte della Cechia e di parte della Slovacchia, ma anche perché, aggiungendo al regno dei Franchi quello dei Longobardi, che si estendeva sul Norditalia e parte dell’Italia centrale, fu il primo, dopo la caduta dell’impero romano, a reintegrare il Ticino, con il resto della Svizzera, sotto una medesima potestà, quella del Sacro Romano Impero. Carlo Magno regnò dal 768 all’814 dopo Cristo. Il
suo regno fu contrassegnato da quarant’anni di battaglie contro i popoli vicini. Egli fu quindi un grande condottiero, capace di costruire e mantenere intatto un regno immenso. Ma, secondo Montesquieu, egli fu anche «il principe più vigilante e più attento che mai abbiamo avuto». Il suo merito maggiore, però, è di essere stato un grande riformatore. Riformò l’amministrazione del suo regno unificando i due diritti che ancora prevalevano presso i Franchi come pure il modo di condurre i processi. Non fu solo un difensore della religione, ma operò perché la stessa si diffondesse, facendo costruire più di duecento conventi, promuovendo le biblioteche, le scuole e l’arte libraria. A lui si deve l’introduzione della scrittura minuscola che si ritrova in tutti i libri e i documenti prodotti nel suo regno e in tutto il Me-
dioevo. Si dice anche che a Carlo Magno si debba il punto interrogativo, ossia la possibilità, certamente da considerare come inaudita, per quei tempi, di mettere in forse un’opinione o di chiedere il perché di una decisione. Carlo Magno capostipite degli intellettuali e della scuola del dubbio, anticipatore del Rinascimento? Non esageriamo. Ricordiamo tuttavia che fu questo imperatore il primo a circondarsi, nella sua corte di Aquisgrana, di una cerchia di intellettuali, come Eginardo, Alcuino, Paolo Diacono e altri membri della Schola Palatina, con i quali soleva discutere dei problemi del suo governo. Come ricorda un’interessante esposizione presso il Museo nazionale di Zurigo, che resterà aperta ancora un paio di settimane, il re dei Franchi lasciò molti segni del suo
regno anche in Svizzera. Le testimonianze più visibili sono l’abbazia benedettina di San Gallo, dell’inizio del nono secolo, e il monastero di San Giovanni di Mustair, fondato nel 775, ambedue conventi benedettini. La leggenda afferma che il monastero di Mustair fu costruito in segno di gratitudine da Carlo Magno che, rientrando dall’Italia, nel traversare le Alpi, nel 774, aveva rischiato di morire in una bufera di neve. A Mustair l’imperatore è venerato come un santo: la sua statua si erge a fianco del crocifisso, quale guardiano della chiesa. In Ticino non vi sono tracce di Carlo Magno, anche se il nome Carlo è molto diffuso. Ma il Carlo che i Ticinesi onorano non è un riformatore, è un contro-riformatore: San Carlo Borromeo, fustigatore della Riforma luterana e grande difensore dell’antica fede.
di debolezza: Ed Miliband e i suoi non si sentono più così sicuri di farcela da soli, hanno bisogno fin da ora di un piano B. La svolta è stata segnata dagli ultimi dati economici del Regno Unito, che ha ricominciato a crescere alla grande e che ha prospettive future rosee, soprattutto se paragonate al resto del Continente europeo. Il Fondo monetario internazionale, che meno di un anno fa aveva detto agli inglesi che stavano «giocando con il fuoco» e che dovevano rinunciare alle loro ambizioni d’austerità, ha rivisto al rialzo le previsioni di crescita: dall’1,9 per cento al 2,4 per il 2014. Soprattutto: il Regno Unito supera tutti, i francesi e non ci voleva molto, ma anche i tedeschi. Certo, resta la disoccupazione e la ristrutturazione dei conti non è terminata: il premier conservatore, David Cameron, ha annunciato «l’austerità permanente» e il suo cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, ha alzato ancor più la posta annunciando tagli al welfare ulteriori in caso di vittoria alle prossime elezioni del 2015. Scommettere sul rigore per restare al governo pare quasi una follia, ma per i Tory è la formula vincente. Soprattutto per Osborne: al Fondo monetario ha rispo-
sto più o meno «ve l’avevo detto», si sente vendicato dai dati, dopo anni in cui è stato considerato l’architetto del fallimento del piano di ripresa dell’Inghilterra. Osborne attacca i laburisti, dice che i danni fatti dai loro governi sui conti economici non sono ancora stati sistemati, «siamo a metà strada, questo è l’anno della dura verità». Gli inglesi non amano il loro cancelliere dello Scacchiere – «Boy George» è il suo soprannome – e le rilevazioni sulla sua figura mostrano un consenso mediocre. Ma si fidano delle sue idee: l’austerità era necessaria e nonostante le rimostranze del cancelliere dello Scacchiere ombra, Ed Balls, il rigore non ha impedito la crescita, anzi. Se i dati confermano il boom economico in arrivo, la fiducia in Osborne crescerà, e quella in Balls e nei laburisti diminuirà: è già così, se si pensa che fino a qualche mese fa i laburisti erano avanti nei sondaggi di una decina di punti percentuali almeno e adesso lo scarto è di una manciata di punti (in questo momento, tuttavia, nessuno dei due grandi partiti inglesi potrebbe governare da solo). Quel che più conta è che il messaggio del Labour – il rigore
non funziona – è stato massacrato dalla realtà. Per ora Balls ribatte dicendo che la crescita c’è, ma i problemi strutturali del Paese pure, ma è chiaro che deve trovare un’altra modalità per contrastare il «nuovo» Osborne. Il quale ha mostrato, e mostra tuttora, grandi doti di flessibilità: non va dimenticato che oltre a essere il cancelliere dello Scacchiere è anche a capo degli strateghi per la campagna di rielezione del 2015. Ecco perché qualche giorno fa ha abbandonato la posizione storica del suo partito e ha detto di voler aumentare il salario minimo riportandolo ai valori pre-shock economico. Così facendo ha neutralizzato un’altra forte argomentazione di Miliband e Balls: l’insostenibile costo della vita, soprattutto nelle aree metropolitane (a Londra gli affitti crescono a ritmi impressionanti, c’è aria di una nuova bolla immobiliare, secondo molti esperti). Ma quel che più pesa ai laburisti non è la mancanza di argomenti forti contro il governo: è il tono di Osborne, trionfalistico, aggressivo, vagamente minaccioso. Anche nel 2010 il cancelliere dello Scacchiere era tra gli ottimisti: ma quattro anni al governo logorano anche i più sfrontati.
minalità. L’ideale (l’Europa) è un nobile traguardo; la pratica quotidiana (l’Unione europea) un percorso melmoso e irto di ostacoli. Gli squilibri sono evidenti anche sul piano dei rapporti intercantonali. Cantoni che pure condividono un tratto di confine interno (Giura-Basilea campagna-Soletta; Ticino-Grigioni) esibiscono dati assai diversi, sia come conti pubblici, sia come tasso di disoccupazione. Differenti sono pure le relazioni che i singoli cantoni (o gruppi di cantoni) intrattengono con i vicini: Francia, Germania, Austria, Italia. Nel nord della Confederazione la cooperazione transfrontaliera funziona, al Sud arranca (Regio Insubrica, Società italo-svizzera Cisalpino, linea ferroviaria Stabio-Arcisate). Negli ultimi anni il Ticino è anzi diventato la valvola di sfogo occupazionale della Lombardia e del Piemonte, sia per i giovani alla disperata ricerca di uno
sbocco professionale, sia per le aziende in fuga dal fisco e dall’asfissiante burocrazia romana. Si è detto e ripetuto in questi giorni che l’iniziativa dell’Udc non risolverà gran che. È vero, soprattutto perché rispolvera vecchi arnesi come i contingenti (il che fa pensare ad una regolazione, ad una programmazione di Stato probabilmente improponibile nell’era delle reti e delle economie globali). Speriamo comunque che faccia aprire gli occhi su processi e distorsioni locali non più sostenibili. Ha osservato Dani Rodrik, noto economista della Harvard University non sospettabile di simpatie leghiste/populiste: «Le democrazie hanno il diritto di proteggere i loro patti sociali, e quando tale diritto entra in conflitto con le esigenze dell’economia globale, è quest’ultima che deve cedere il passo» (La globalizzazione intelligente, Laterza, 2011).
Affari Esteri di Paola Peduzzi L’austerità per vincere nel 2015 I conservatori britannici non si sono mai sentiti tanto forti. Anzi, una volta sì, ma la vogliono dimenticare: era la conferenza di partito nel settembre del 2009, l’ultima prima delle elezioni del 2010. Ci furono fiumi di champagne, festeggiamenti sfrenati, alla maniera degli inglesi. La partita pareva chiusa, i Tory pensavano che sarebbero tornati finalmente al potere, e in bellezza. Dal 2010 governano con i liberaldemocratici, quella tornata elettorale non andò affatto bene, e anzi questa convivenza forzata è diventata la barzelletta di Londra, bisognerebbe fare uno studio su quanti
articoli sulla fine della coalizione sono stati scritti, da tutti i commentatori, anche i più quotati, verrebbero fuori numeri astronomici. Da ultimo poi, ora che i numeri dei Tory e del Labour si avvicinano nei sondaggi (è un sondaggio perpetuo, l’Inghilterra, pure se si vota tra più di un anno), è iniziato il corteggiamento ai Lib-Dems da parte dei laburisti, per creare un polo del centro-sinistra, più naturale, politicamente parlando, di questa coabitazione. Gli uomini di Nick Clegg sono tentati: i conservatori sono stati partner impossibili. Ma l’offerta dei laburisti è sintomo
George Osborne, cancelliere dello Scacchiere britannico.
Cantoni e Spigoli di Orazio Martinetti Salvaguardare il patto sociale L’iniziativa «Stop all’immigrazione di massa», in votazione il prossimo 9 febbraio, spaccherà nuovamente il paese in due. I sondaggi danno un no intorno al 54-55 percento, ma ampia è la fascia degli indecisi. Previsioni che ricalcano lo storico voto del 1970 (iniziativa Schwarzenbach: 54% no contro 46% sì). Il tema è caldo; anzi, al Sud delle Alpi è addirittura rovente, per i motivi che sappiamo. Il collasso italiano, che ha trascinato rovinosamente nella scarpata anche la locomotiva lombarda, ha trasformato il nostro cantone in una polveriera sociale. Nel Ticino l’iniziativa raccoglierà molte adesioni provenienti dalle file dei Verdi e dei socialisti, fatto che ha stupito non poco i commentatori d’oltralpe. La libera circolazione – approvata nel 2000 con i Bilaterali I e poi resa operativa a partire dal 2002 – non ha generato effetti benefici per tutti. Là dove il
tessuto formativo e produttivo era robusto e ben strutturato, le conseguenze sono state positive, tutti ne hanno approfittato, immigrati e autoctoni; non ha scatenato né guerre tra i poveri, né competizioni al ribasso. Nelle economie tradizionalmente deboli e più esposte alle pressioni esterne, come il Ticino, la libera circolazione ha invece inciso nella carne viva del mercato del lavoro. Inoltre, nelle marche di frontiera, molta gente si è sentita tradita; raggirata dalle autorità federali che a suo tempo avevano promesso attenzione e protezione, per poi passare oltre alzando le spalle. Promesse ancora ribadite nel 2005, in occasione del voto sull’estensione della libera circolazione delle persone ai nuovi Stati membri dell’Ue: «Per scongiurare i salari al ribasso e gli abusi nelle condizioni di lavoro, le attuali misure collaterali contro il dumping salariale e sociale saranno potenziate.
In tal modo si potrà evitare che il nostro artigianato si trovi svantaggiato (potrà competere ad armi pari)». Nove anni dopo queste parole hanno il sapore della beffa (è chiaro che al governo interessava assicurarsi l’appoggio del movimento sindacale per l’approvazione dei Bilaterali). La libera circolazione, sul piano dei princìpi, è senz’altro una conquista. Poter viaggiare liberamente, studiare, lavorare, commerciare senza subire discriminazioni o vessazioni è un progresso. A suo tempo questa Europa l’abbiamo sempre salutata con favore. Civile, pacifica, sollecita nell’attenuare squilibri regionali e disparità sociali. Ma ecco il rovescio della medaglia: l’Unione europea è profondamente disuguale al suo interno; Sud e Nord, bacino mediterraneo e area nordica, Paesi solidi, anche sul piano delle istituzioni e delle regole, e Paesi fragili, dominati dalla corruzione e dalla cri-
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
Cultura e Spettacoli made in italy Uno spettacolo nudo e crudo, capace di sviscerare vizi e virtù, presto in scena a Bellinzona
Storia politica cantonale Il Ticino negli anni fra le due guerre mondiali è oggetto di studio dello storico ticinese Pompeo Macaluso pagina 36
Mens sana… Un’interessante mostra all’Antikenmuseum di Basilea espone e analizza il rapporto degli antichi con il corpo
Lacrime e humour Esce anche da noi Philomena, il nuovo film di Stephen Frears, con un’ottima Judi Dench
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La vertigine della pluralità Mostre Eccezionale esposizione-manifesto
al Centre Pompidou di Parigi
Gianluigi Bellei Per chi ama andar per mostre ne segnaliamo una assolutamente da non perdere. Per chi, al contrario, non si occupa di arte o la sfugge come la peste, questa volta deve assolutamente dimenticarsi di tutto e andare al Pompidou a Parigi per vedere qualcosa di eccezionale da raccontare ai propri figli. Si tratta di Modernités plurielles, la mostra-manifesto che apre le porte a nuove prospettive espositive e soprattutto rivoluziona il concetto di cultura alta e bassa relegando l’esperienza di «valore», tanto cara all’élite intellettuale, in un angolo come uno dei tanti fattori che compongono il fare estetico. Le mostre, si sa, possono essere di varie categorie: dalla personale alla retrospettiva, dalla collettiva all’interdisciplinare, quest’ultima oramai di tendenza, oggi. Pochissime al contrario quelle che hanno fatto la storia e delle quali tutti parlano, anche se magari non le hanno neppure viste. Fra queste citiamo l’immancabile When Attitudes Become Form alla Kunsthalle di Berna nel 1969 curata da Harald Szeemann; Les Magiciens de la Terre al Centre Pompidou di Parigi nel 1989 curata da Jean-Hubert Martin; Post Human in diverse sedi tra il 1992 e il 1993 curata da Jeffrey Deitch; L’informe. Mode d’emploi al Pompidou di Parigi nel 1996 curata da Rosalind Krauss; ultimamente Elles sempre al Pompidou nel 2009 curata da Camille Morineau e ora sicuramente Modernités plurielles curata da Catherine Grenier, direttrice aggiunta del Musée national d’art moderne e responsabile del programma Recherche et Mondialisation. Per vederla con attenzione vi occorrerà una giornata, ma saranno ore intense e fruttifere. Stiamo parlando di un percorso costellato di più di mille opere di quattrocento artisti di quarantasette Paesi comprendente pittura, cinema, fotografia, architettura, design… una storia dell’arte mondiale del periodo tra il 1905 e il 1970. Catherine Grenier, nel saggio in catalogo, parla di prima proposizione di un rinnovamento del discorso convenzionale sull’arte moderna che rompe lunghi anni di con-
senso unificato, lineare, fondato sulla tipologia dei movimenti classificati secondo criteri progressivi. Una concezione «schematica, teleologica e autoreferenziale». Molte volte parziale, etnocentrica, che nei musei, per esempio, raggruppa le pitture per scuole nazionali con le sculture separate delle pitture in un percorso cronologico e geografico che legge la storia dell’arte secondo criteri come moderno, antimoderno, pionieristico, tardivo, maggiore o minore. Un metodo che, oggi come oggi, appare obsoleto e fuori contesto. Mettere in discussione questi criteri discriminanti ed esclusivi è stato il compito del gruppo che ha operato assieme a diverse università per il programma «Recherche et Mondialisation» che lavora dal 2010 e che è alla base dell’odierna mostra. Rileggere, insomma, la storia del mondo affrancandosi dalle frontiere e dalle gerarchie. Modernités plurielles tenta una lettura non più tematica ma generale e storica aprendo le frontiere alle diverse categorie produttive quali gli oggetti etnografici, l’arte popolare, i disegni infantili, mettendo assieme una figurina egizia, un’opera cinese e una di Rousseau, un’immagine popolare con un Picasso, artisti europei con cinesi e giapponesi o del Medio Oriente. Una visione critica, aperta e decentrata che non ha la prosopopea di diventare canonica ma di porre le basi per nuovi postulati da discutere, approfondire e rimodulare in seguito. L’esposizione è suddivisa cronologicamente e per temi: da Primitivismes che analizza il rapporto dell’arte d’avanguardia nei confronti di quella «negra» popolare, gotica, a Le regard véhiculé che si addentra nella fotografia come veicolo fra spazio e tempo, passando per il Futurismo internazionale, il progetto Costruttivista di un’arte sociale, l’Art Naïf, l’astrattismo internazionale o l’Africa moderna: 42 sale che coprono l’intero quinto piano del Pompidou. Alcune di queste sono provviste di testi esplicativi e di citazioni; più di trecento opere sono commentate mediante appositi cartelli. Un’audioguida è disponibile in cinque lingue e nel sito internet del museo si possono trovare dei dos-
Francis Picabia, L’adoration du veau (1953). (© ADAGP, Paris 2013)
sier tematici, ma soprattutto è in programma nel 2014 un grande colloquio internazionale dedicato alla riscrittura della storia dell’arte. Particolare attenzione è riservata alle artiste che sono più di cinquanta in rappresentanza di diciannove Paesi. A questo punto non sarebbe nello spirito dell’esposizione citare alcuni dei lavori presenti, né dovrebbe esserlo affiancare l’articolo a un’immagine, per non privilegiare chi non dovrebbe esserlo e noioso sarebbe elencare tutti gli artisti presenti che vanno da Shaffic Abboud a René Zuber. Per mettere a profitto quanto precedentemente detto meglio sicuramente riportare, quale passaggio interpretativo, una citazione di Hans-Georg Gadamer: «Accedere a una migliore comprensio-
ne di se stessi grazie a una riflessione sull’altro (il passato, l’alterità) senza negare la propria identità». Così scopriamo che per comprendere noi stessi dobbiamo capire gli altri e che la storia non è fatta solo di grandi personalità ma di micro realtà di cui noi siamo parte. Solo allora capiremo la proposta rivoluzionaria della mostra, i suoi intendimenti, le sue prospettive, il suo modo di rapportarsi alla storia e alle identità diverse che la compongono in un abbraccio totalizzante il quale non può farci che bene. Alain Seban, presidente del Pompidou, sottolinea che questa mostra favorisce la comprensione dell’arte e del mondo e contribuisce all’elaborazione di una storia comune che trascende le
frontiere instaurando un ponte fra il passato, il presente e il futuro. Ottimi, e soprattutto utili, i vari cataloghi, splendido l’allestimento che spazia dal lindo rigore modernista alla complessa e sfaccettata quadreria ottocentesca. Dove e quando
Modernités plurielles (1905-1970). Centre Pompidou, Parigi. Tutti i giorni ore 11.00-21.00. Chiuso martedì. Fino al 31 dicembre 2014. Catalogo, sotto la direzione di Catherine Grenier, euro 34,90. Album euro 9,90. Antologia «Art e Mondialisation» euro 39.90. www.centrepompidou.fr
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Cultura e Spettacoli
Il cabaret popdi Babilonia Teatri Teatro Il gruppo veronese in scena a Bellinzona con made in italy Giovanni Fattorini Il Premio Scenario 2007 lo vinse made in italy, uno spettacolo di e con Enrico Castellani e Valeria Raimondi, fondatori di Babilonia Teatri, gruppo nato e operante in provincia di Verona, che la critica annoverò prontamente tra i più innovativi del teatro italiano dell’ultimo decennio. Nel 2010 Castellani e Raimondi pubblicarono una lunga dichiarazione di poetica, intitolata Specchio riflesso, da cui estrapolo quanto segue.
Raimondi e Castellani non concepiscono l’attore come un interprete ma come un «megafono» «Per noi il teatro ha ancora senso di esistere se può essere specchio della società in cui vive. / Della realtà in cui è immerso. […] Il tentativo è: fotografare e fotografarci. / Senza sconti. / Con cinismo e affetto assieme. / Ritrarre [..] La follia che siamo e che ci circonda. / Per fare tutto questo raccogliamo pezzi di vita. / Di mondo. / Di realtà. / Li accostiamo e li montiamo. […] Seguendo un filo rosso che non è quello di una narrazione […] La frammentarietà della forma teatrale […] È la forma che per noi più aderisce e meglio rappresenta la realtà oggi». made in italy è per l’appunto uno spettacolo strutturato a «blocchi» non legati fra loro da un filo narrativo e accomunati dal proposito di «rispecchiare», di «fotografare» modi di vivere e di pensare largamente condivisi nel NordEst d’Italia. Presentando il loro lavoro al Premio Scenario 2007, Castellani e Raimondi dissero e scrissero di lavorare «per un teatro pop, un teatro rock, un teatro punk». Una qualche affinità col rock e il punk la si può cogliere nella durezza e nella scabrosità di certe enunciazioni, nelle esplosioni di gestualità convulsa, nella declamazione fortemente ritmata del testo. Ma ben più pertinente è la definizione di «teatro pop». Anche se immagini, oggetti e musiche hanno un peso rilevante nella scrit-
I fondatori di Babilonia Teatri Enrico Castellani e Valeria Raimondi.
tura scenica di made in italy, sono le parole l’elemento più vistosamente pop dello spettacolo. Il testo, infatti, è formato in prevalenza da enumerazioni e filastrocche costruite per accumulazione di frasi fatte, di locuzioni e interiezioni anche blasfeme ma di uso comune, di proposizioni sintatticamente elementari che delineano una realtà socio-culturale (non solo veneta) impregnata di pregiudizi, volgarità, razzismo, intolleranza, ipocrisia, condizionamenti mediatici, aspirazioni consumistiche, idolatria del denaro. Oltre all’enumerazione per asindeto (priva cioè di congiunzioni fra due o più termini o proposizioni), nel testo ha grande rilievo un’altra figura retorica: l’anafora, cioè la ripetizione marcata di un sintagma verbale o nominale che può associarsi a enumerazioni di varia lunghezza (ad esempio:
«cerco signora / disinibita / no bulimica / no anoressica / no nera / no est / no sud america / no marocco / no algeria / no tunisia / no turchia / no cina / no sud / no handicap / amante del presepe / no figli / no gravida / no stitica / con passione per la casa […] cerco donna / anche non bella / anche non giovane / anche prima esperienza / no mercenarie / per amicizia e/o relazione / cerco na roia […]»). È da notare che le enumerazioni di made in italy non scadono mai nell’accumulazione caotica. Sono frutto di accurate selezioni e calcolati accostamenti, che spesso sortiscono effetti esilaranti. Presuppongono un punto di vista. Non si può quindi parlare di rispecchiamento «senza giudizio» della caoticità del reale, come fece parte della critica dopo il debutto, e come fecero gli stessi attori-autori in un’autopresenta-
zione del 2007, in cui parlavano anche, contraddittoriamente, di «sguardo etico». A me sembra che made in italy sia un singolarissimo spettacolo satirico, ascrivibile al genere «cabaret». Disdegnando le storie, i personaggi, e ogni forma di recitazione mimetica (ma il «blocco» intitolato Veneto, nel quale si espone il fatto reale che ha fornito lo spunto per l’intero spettacolo, si può definire una microstoria), Castellani e Raimondi (che non hanno avuto, è giusto segnalarlo, una formazione accademica) concepiscono l’attore non come un «interprete», un «personificatore», ma come «un megafono», un enunciatore del testo. Parlando singolarmente, o all’unisono, o alternandosi come in un bizzarro e corrosivo carme amebeo, Castellani e Raimondi, immobili di fronte al pubblico, scandiscono le
frasi e le parole con voce priva di coloriture emotive. Una «recitazione» (termine che i due attori-autori non amano) inespressiva, che negli intermezzi con musica – e in tutta la seconda parte dello spettacolo, quasi interamente priva di parole – lascia posto alle immagini e alla fisicità a tratti ipercinetica dei corpi. Tra i «blocchi» non parlati, efficacissimi quelli in cui viene utilizzata la telecronaca intrisa di retorica patriottarda della vittoria italiana ai mondiali di calcio del 2006, e quella del funerale di Luciano Pavarotti. Uno spettacolo unilaterale, senza sfumature, ma di fortissimo impatto. Dove e quando
Bellinzona, Teatro Sociale, il 31 gennaio 2014.
Venti gelidi intorno allo studio della Fondazione Tibor Varga Edifici culturali La prestigiosa sala di registrazione vallesana avrebbe i giorni contati Timoteo Morresi Lo studio di registrazione della Fondazione Tibor Varga di Grimisuat, sopra Sion in Vallese, uno dei più rinomati a livello di musica classica in Svizzera, sarebbe prossimo alla demolizione. L’allarme è stato lanciato dalla «Revue musicale de Suisse Romande» lo scorso dicembre ed è stato ripreso nel mese di gennaio dalla «Rivista musicale svizzera». Visto che non ne è stata ancora scritta l’ultima parola, sono numerosi i musicisti e gli addetti ai lavori i quali sperano che l’eventualità possa essere scongiurata e si trovi una soluzione positiva. Fra di essi il musicologo Vincent Arlettaz, il quale allo studio di Grimisuat ha dedicato proprio di recente una pubblicazione (Le studio de la Fondation Tibor Varga à Grimisuat, Lausanne, HEMU, 2013, pp. 167), a cui questo articolo fa riferimento. All’origine dello studio di Grimisuat fu il violinista ungherese Tibor Varga, solista di fama internazionale e dal 1949 docente di violino alla Musikhochschule di Detmold in Germania.
A causa della malattia di un suo figlio, nel 1956 Varga decide di trasferirsi con la famiglia in Vallese, dove l’aria salubre e il clima secco avrebbero portato dei benefici alla salute del piccolo Gilbert. Dalla primavera del 1956 dimora pertanto a Grimisuat. Nello spazio di pochi mesi, Gilbert guarisce e Varga, anche a causa dei tragici fatti seguiti all’invasione sovietica del suo Paese natale, si convince che il Vallese è un buon posto per abitarvi. Appassionato di tecnologia (sono noti i suoi legami
con il Tonmeisterinstitut di Detmold), all’inizio degli anni Settanta progetta la costruzione di uno studio di registrazione, che vedrà la luce nel 1975. Terminato il suo insegnamento a Detmold e aiutato dal genero Jean-Noël Rybicki, Varga può seguire più da vicino le sorti dello studio, che sarà pronto per essere affittato nel 1994. All’esterno lo studio ha l’aria severa e poco invitante di un «bunker». Lo splendido paesaggio della Valle del Rodano, l’immancabile vista sulle Alpi e la
Lo studio di registrazione della Fondazione Tibor Varga.
calma che vi si respira ne fanno un luogo unico e ideale. Non è necessario registrare di notte per evitare i rumori del traffico, si può lavorare tutta la giornata. L’interno (lunghezza 18,50 m; larghezza massima 12,50 m; altezza massima 8,30 m), a forma di trapezio, ha un parquet di legno, pareti in parte a muro e in parte rivestite di legno, un soffitto a pannelli acustici con i quali modulare la quantità di riverbero del suono. Tra il 1994 e il 2008 vi sono state effettuate trecento registrazioni, in media una ventina all’anno, la maggior parte per case discografiche prestigiose: Harmonia Mundi, Deutsche Grammophon, Naïve, Auvidis, Claves, Emi, Ambroise, ecc. Fra i fruitori dello studio si trovano musicisti di primo piano come il pianista Philippe Cassard, il Quartetto Talich, il Quartetto Sine Nomine, Musica Antiqua Köln, il controtenore Andreas Scholl, l’Ensemble 415 di Chiara Banchini, Luca Pianca, Jordi Savall, Barbara Hendricks, Monserrat Figueras, Renaud Capuçon, Pierre Amoyal, Vadim Repin, Laurent Korcia, ecc.
L’attività dello studio è continuata anche dopo la morte di Tibor Varga, avvenuta nel 2003, grazie a Jean-Noël Rybicki. I guai sono cominciati nel 2007 con i problemi di salute del curatore, ritardi nei pagamenti da parte delle case discografiche, rincaro del prezzo della nafta per il riscaldamento della sala. Nel maggio 2009 la Fondazione ne ha decretato la chiusura; da allora il futuro appare più che mai incerto. L’importanza dello studio della Fondazione Tibor Varga travalica i confini cantonali. In Svizzera non sono molti i luoghi di registrazione che possono vantare condizioni simili a quello di Grimisuat. È dunque auspicabile che autorità cantonali, federali, mecenati privati si accordino per un riacquisto e una «riabilitazione» dello studio. Gli investimenti necessari alla riapertura dell’attività artistica sono poca cosa rispetto ai costi che genererebbe la costruzione di una nuova sala di musica di alta qualità. La fine dello studio vallesano sarebbe una perdita considerevole e una sconfitta per la musica classica in Svizzera.
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Cultura e Spettacoli
Come ti twitto il bestseller Editoria (digitale) I libri sempre più spesso nascono su twitter e finiscono su carta
Blacklist, la lezione della Rsi Visti in tivù Una
bella serie, una favorevole collocazione: così la fedeltà è garantita
Mariarosa Mancuso Steven Soderbergh, regista di Sesso, bugie e videotape e Dietro i candelabri, ha annunciato qualche mese fa il suo ritiro dal cinema. Poco tempo dopo, era al lavoro per scrivere un romanzo. Su twitter, a colpi di 140 caratteri per volta. L’account era «bitchtuation», per una storia poliziesca scritta in seconda persona, con il «tu» che fa subito entrare il lettore dentro la storia. 41 capitoli in tutto, intitolati Glue che sta per «colla» (come un romanzo di Irvine Welsh uscito in italiano da Guanda), ora disponibili anche su carta, in edizione limitata e dalla grafica curatissima. Segno che internet e i social media affascinano, ma il vecchio e caro libro non ha ancora esaurito le sue lusinghe. «Il mondo esiste per approdare a un libro», sosteneva Stephane Mallarmé. Vale anche per twitter, evidentemente (e del resto siamo convinti che ogni forma di autopubblicazione sia in realtà un appello rivolto a un editore, che si faccia carico del capolavoro riconoscendo finalmente il talento dello scrittore, ben lieto di entrare in serie A). Anche Jennifer Egan, altra pioniera del romanzo scritto a 140 battute per volta sul social network, ora si può leggere senza accendere l’iPad o l’iPhone. Si intitola Scatola nera, esce da minimum fax, era stata immaginata come una storia di spionaggio annotata sul diario della protagonista. Fa da sfondo la lotta americana contro il terrorismo, non più condotta dai servizi segreti ma da comuni cittadini che si offrono volontari. In un futuro non meglio precisato, ma comunque vicino, l’eroina di Scatola nera ha una missione: infiltrarsi nell’harem di un miliardario, per sottrarre informazioni importanti. «L’obiettivo è risultare al tempo stesso irresistibile e invisibile», dice uno dei primi tweet, avvertendo che «I primi trenta secondi in presenza di una persona sono i più importanti». I futuri critici della twitterletteratura possono prender nota da subito che anche la spy story di Jennifer Egan, come
Antonella Rainoldi
La scrittrice americana Jennifer Egan. (jenniferegan.com)
la crime story di Steven Soderbergh è scritta con il tu: «In un chip impiantato sotto l’attaccatura dei tuoi capelli vengono impiantati i tuoi Appunti Operativi». Oppure: «Quando vengono sparati dei colpi nella dimora di un uomo potente hai pochi minuti, se non pochi secondi, prima che arrivi la sicurezza». Nata a Chicago nel 1962, vincitrice di un premio Pulitzer per Il tempo è un bastardo (sempre minimum fax), Jennifer Egan aveva pubblicato i suoi tweet sul «New Yorker» seguendo precise regole. Tuittava ogni sera dalle otto alle nove, una frasetta al minuto, per dieci giorni consecutivi. Vincoli che fanno tornare in mente i testi letterari prodotti dall’Oulipo, Officina di Letteratura Potenziale che aveva tra i suoi soci Georges Perec e Italo Calvino. Non è la prima volta che la scrittrice tenta simili esperimenti. Sul «Guardian» aveva pubblicato una to-do-list-story, vale a dire una storia raccontata attraverso una lista delle cose da fare. Il capitolo 12 di Il tempo è un bastardo, con il titolo «Le
grandi pause del rock», è interamente costruito con le slide di Power Point che si usano nelle presentazioni (mentre la maggior parte degli astanti, con la complicità della penombra, in genere pensano ai fatti loro, e magari compilano la lista delle commissioni da sbrigare). Gli scambi tra romanzi e twitter vanno anche in direzione inversa. Sono tanti i tentativi di ridurre a tweet le trame dei libri celebri. Alexander Aciman e Emmet Rensing hanno pubblicato nelle edizioni Penguin Twitterature, i più celebri libri del mondo in 20 tweet o anche meno. Amleto di Shakespeare comincia con «Il re mio padre è morto e nessuno se ne preoccupa», seguito da «Mia madre ha smesso di portare il lutto». Per culminare nel monologo «essere o non essere», abbreviato nel più pratico «2bornt2b». Gli autori, che ebbero l’idea quando frequentavano l’università, dicono di non aver voluto fare un bignamino per studenti pigri. Solo la conoscenza delle opere integrali fa gustare fino in fondo le sintesi.
La sfida è ancora più affascinante con il libro che tutti fingiamo di conoscere e pochi hanno letto fino in fondo. Insomma, Ulisse di James Joyce. Qualche anno fa fu lanciata l’opera collettiva Ulysses meets Twitter (era un 16 giugno, il giorno in cui Leopold Bloom fa la sua passeggiata per le strade di Dublino: a ognuno dei partecipanti era assegnata una sezione del libro, da sunteggiare al massimo in 6 tweet). Prima ancora, era il 2009, ci avevano provato due soli coraggiosi, Ian Logos e Ian McCarthy, nel commovente tentativo di «riconvertire i social media dal narcisismo alla cultura». La scelta cadde sul capitolo «Wandering Rocks», che pedina 19 personaggi in giro per Dublino a sbrigar varie faccende. I due lo ribattezzarono «Twittering Rocks», registrarono i vari personaggi come utenti di Twitter, ridussero le battute di ognuno nella gabbia dei 140 caratteri. Ottenendo esattamente l’effetto che aveva voluto Joyce: gente che si incontra e chiacchiera.
The Blacklist, acclamata serie targata Davis Entertainment e Sony Pictures Television, è arrivata sugli schermi della RSI la scorsa settimana, a quattro mesi dalla messa in onda americana (La1, mercoledì, ore 21.05). La trama è questa: un pericoloso boss del crimine internazionale, Raymond «Red» Reddington (James Spader), si consegna volontariamente all’FBI dopo anni di latitanza, offrendosi di fornire informazioni su terroristi e complotti tratti da una personale «lista nera», la «blacklist» del titolo. I dubbi sulle sue vere intenzioni si moltiplicano quando Reddington pone come condizione la sola collaborazione con Elizabeth Keen (Megan Boone), una giovane agente specializzata in psicologia forense, al suo primo giorno di lavoro nell’FBI. Per questo, Harold Cooper (Harry Lennix), il vicedirettore della sezione antiterrorismo, affianca alla profiler Donald Ressler (Diego Klattenhoff) e Margot Malik (Parminder Nagra), due agenti particolarmente devoti alla professione. Le premesse per un ulteriore credito di audience ci sono tutte, a cominciare dalla costruzione narrativa: una caccia ai terroristi infarcita di colpi di scena, un crime dove il racconto si snoda per un’impervia salita fra il tema
La grazia muta Editoria La straordinaria e movimentata storia di Toby, maialino parlante e sapiente
Stefano Vassere «“Ebbene, signore, voi potete entrare, – rispose il paggio, – ma il vostro maiale dovrà restare fuori”. “Non è, – replicò Sam, – il mio maiale: Toby appartiene solo a sé stesso. Ed è proprio il maiale, a dirla tutta, che il signor Banks sarà più ansioso di conoscere”». Nella letteratura e nella finzione estetica in generale, siamo abituati a conoscere animali parlanti; lo sanno i papà che accompagnano placidi bambini a vedere ere glaciali e altri cartoons e, costretti tra popcorn e bicchieri di carta con la cannuccia che sporge, subiscono la logica surreale di animali dotati di qualsiasi competenza cognitiva: parola, ironia, sapienza, tristezza, saggezza, tutto quello che si vuole. Lì il patto è soprattutto una delega: «ragazzina! Lo sappiamo io e te che è tutta una finta. Dai, animali che parlano! Ci si diverte un po’ e poi tutti fuori, ok?». E lo sguardo che va a qualche mammina un po’ più sveglia con cui si condivide il momentaneo destino è complice e confortante. Questo Toby. Memorie di un maialino sapiente è un’operazione simile, ma cambia il target. È la storia per adulti di un maiale che sopravvissuto a una fase delicata della vita, quella che lo espone a mazze e disastri di varia origi-
ne, impara a parlare e a maneggiare la comunicazione, tanto da farne una sorta di ragione di vita. Dapprima mettendo in scena piccoli teatrini comunicativi al circo e poi, conseguita la laurea cum laude e lo statuto di baccelliere delle Arti all’università di Glasgow, scrivendo la propria autobiografia, la propria avventurosa storia. Ora, va ricordato che chi studi la teoria dei linguaggi e la semiologia impara quasi su-
La copertina del libro di Russell Potter edito da Einaudi.
bito che l’uomo si distingue dagli animali, e quindi anche dai suini, tra l’altro per la capacità di parlare di sé stesso e delle sue abilità linguistiche. Come Toby, appunto. «Sono ancora sconcertato – dice infatti il porcellino – all’idea che vi sia più gente disposta a credere nei poteri soprannaturali di un maiale, di quanta non gli riconosca le capacità più ordinarie, come saper intendere i rudimenti del linguaggio». Nella vicenda, la vita del maialino sapiente e autocosciente è in continua tensione tra lo statuto del sapiente e quello del maialino, che alterna dimostrazioni sbalorditive della propria capacità di comporre parole con lettere depositate su cartoncini e disperati tentativi di fuga dalla sua condizione, che è pur sempre quella dell’animale da allevamento e macellazione. Tra esibizioni di cultura, teatro, poeti illustri, le arti liberali, e disperate gimcane tra pastoni, lordure, giacigli fetenti. Fortunatamente c’è la buona fede dell’intelligenza e «la grazia muta e animalesca della sincerità». A riportare il pubblico dei fortunati lettori di questo libro con i piedi per terra una serie di note critiche e storiche con informazioni su luoghi e persone citate, come in una vera e propria edizione del testo autobiografico. Ci si diverte molto leggendo Toby, a patto di condividere certo umorismo
inglese e se si è capaci anche solo un pochino di recuperare una capacità che abbiamo avuto da bambini e che nei nostri bambini sappiamo osservare: quella di sottoscrivere preventivamente e in modo disinteressato e naturale il contratto della finzione letteraria. Se sapete apprezzare le osservazioni di Toby su «astrusissimi nomi di luogo gallesi incontrati per via, Llanfairfechan, Llandudno, Llanddulasy», se vi conforta sapere di un animale che ammetta discretamente di conoscere i limiti del proprio sapere, se non avete vergogna a coglierne lo sguardo di gratitudine nei confronti delle persone che gli vogliono bene, allora se vi va questa serie di cose, chiuso questo libro lo riporrete tra le letture care, vicino a certa brillante narrativa anglosassone e non lontano da quelle di linguistica teorica. «Come disse il sommo Goethe, i cui versi mi fanno compagnia nella vecchiaia, l’uomo vivrebbe meglio se non avesse ricevuto in dono quel barlume di luce ch’egli nomina ragione, e non ne usa che per imbestiarsi più di qualunque bestia». Bibliografia
Russell Potter, Toby. Memorie di un maialino sapiente, Torino, Einaudi, 2013.
Jamer Spader è il criminale pentito Raymond «Red» Reddington.
forte della fiducia e quello ancora più forte del tradimento. In The Blacklist niente è come sembra. La cosa più straordinaria della serie è però la recitazione eccellente dei protagonisti, su tutti quella di un magnifico James Spader. Ma siccome la tv è anche confezione, vale la pena di spendere qualche parola sulla collocazione in palinsesto. The Blacklist precede due titoli acclamati come The Americans e The Mentalist e inaugura una delle tante serate «all’americana» che hanno innescato una spirale positiva: l’abitudine e la fedeltà. Della capacità della RSI di valorizzare i telefilm statunitensi abbiamo già riferito, lodando l’applicazione del principio di razionalità. Per salvaguardare il piacere della visione telefila non basta proiettare un prodotto di qualità: bisogna saper costruire il palinsesto prestando attenzione al pubblico di riferimento, garantire una certa ritualità, rappresentare un contenuto appealing in anteprima, possibilmente anticipando l’Italia nella prima visione. The Blacklist, non c’è dubbio, è partita sotto i migliori auspici.
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Cultura e Spettacoli
L’identità, una ricerca costantemente rinnovata
Intervista Pompeo Macaluso ha dedicato al Ticino della prima metà del ’900 uno stimolante studio
in cui si indicano temi e discussioni utili per un confronto con la nostra società attuale
Alessandro Zanoli I primi decenni del ’900 sono stati un periodo difficile per la società europea. L’inizio del secolo aveva trascinato con sé questioni difficili, ereditate dall’800. La società moderna, post-industriale, chiedeva nuove forme di gestione dello Stato e dell’economia. Le varie classi cercavano una nuova collocazione sociale e la propria identità. Spinte conservatrici e rivoluzionarie, idealismo eroico e positiva fiducia verso il progresso si scontravano, aprendo la strada a gravi avvenimenti mondiali che hanno avuto in Svizzera e in Ticino un’inevitabile influenza, politica e ideologica. Pompeo Macaluso, storico, politologo e docente liceale, studia da tempo la società ticinese. Le sue ricerche indagano gli avvenimenti passati senza trascurare l’osservazione degli effetti che quegli eventi riverberano fino al nostro presente. Nel suo ultimo libro, Tra le due guerre. Problemi e protagonisti del Ticino (1920-1940), edito da Dadò, ha raccolto una serie di studi che analizzano quell’epoca, anche tracciando i ritratti di alcuni dei protagonisti che animavano la vita pubblica. Ne abbiamo parlato con lui. Il periodo tra le due guerre mondiali di cui si occupa il suo libro è un’epoca in cui le grandi ideologie totalitariste prendono il potere in Europa. Il Ticino ha risentito della vicinanza con l’Italia e i partiti ticinesi si sono dovuti confrontare con i tentativi del fascismo di influenzare la vita politica, sociale e culturale del cantone. A quasi un secolo di distanza sembra che una parte di quanto successo allora non sia ancora stata compresa, metabolizzata.
Sì, l’interesse verso gli anni Trenta va ben oltre la curiosità popolare o degli storici. Nel libro infatti sostengo che quel periodo si configura come un autentico snodo nel processo di strutturazione dell’identità e della memoria culturale dei Ticinesi. Pensiamo a personaggi come Francesco Chiesa. Pensiamo anche alle 19 edizioni del Libro dell’Alpe di Giuseppe Zoppi, a un’operetta come Sacra Terra del Ticino, alla
diffusione delle fotografie di Vicari e dei volumi pieni di immagini del cosiddetto Ticino rurale. Libri, musiche, fotografie, paesaggi, tutti risalgono agli anni ’20 e ’30. Quanto c’è stato prima ed è venuto dopo, costituisce appena una sorta di corollario di questo nucleo forte della nostra memoria culturale che, altrimenti da quella collettiva, è intergenerazionale.
Il periodo tra le due guerre del ’900 ha visto i ticinesi partecipare alle dispute ideologiche che animavano l’Europa Ma quanto ci riguarda quella storia, oggi?
Le faccio un esempio. Woodstock, il Vietnam, Allende, la Primavera di Praga, vivono per davvero nel ricordo della mia generazione, mentre per le altre, se va bene, rappresentano avvenimenti studiati a scuola. È utile sottolineare che la memoria culturale è sempre costruita: dai media, dalle chiese, dai partiti, dalla scuola. Su di essa si gioca dunque una fondamentale partita politica ed ideologica per l’egemonia. In questo momento pare stiano prevalendo quanti la vogliono porre a fondamento di un’idea di Ticino come piccola patria chiusa alle innovazioni, sospettosa verso la diversità, dove il mito dell’ordine prevale sui rischi che la libertà sempre comporta. Nella sezione iniziale del suo libro si trova un suo colloquio con il filosofo Virginio Pedroni, una discussione in cui affrontate un confronto a distanza tra due epoche, ieri e oggi. Quali sono i punti di contatto che legano il nostro presente a quel periodo così complesso e drammatico?
Le differenze tra la crisi degli anni Trenta e quella attuale sono numerose, sia per il contesto internazionale, si pensi solo alla minaccia rappresentata dal regime fascista con le sue mire annessioniste, che per la realtà interna: quella economico-sociale, allora segnata da contraddizioni ancora
Renato Guttuso, La discussione (1959-60).
sostanzialmente preindustriali, e quella politica, con un’intensa partecipazione ed una straordinaria permeabilità delle élite alle grandi culture politiche europee (liberalsocialismo, fascismo, comunismo) del tempo. E in cosa si assomigliano i due periodi storici?
Mi pare che stiamo assistendo al riproporsi di alcuni aspetti di una seria crisi politica, con la radicalizzazione delle domande e delle scelte di una parte dell’opinione pubblica e la polarizzazione dei partiti che restringe gli spazi per compromessi utili. Le conseguenze sulla governabilità del Paese appaiono sempre più preoccupanti. Negli anni Trenta saltò l’intesa tra cattolici e socialisti, da cui è nata la nostra democrazia consociativa, infilando il Cantone in un lungo periodo di stagnazione, superato solo nella seconda metà degli anni ’40 con l’Alleanza di Sinistra, che finalmente rimise in moto il Paese. Oggi siamo tornati alla
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navigazione a vista, senza progetti di lunga lena, affidando alle manovre tattiche dei partiti il destino della comunità.
Stretto tra minaccia fascista ed egemonia economica del Nord il cantone cercava una propria fisionomia Nel suo libro lei richiama spesso il tema del populismo.
Un’altra similitudine sta senza dubbio nel risorgere del populismo. Ieri ed oggi, attingendo all’inesauribile magazzino del pregiudizio e della paura – allora di Mosca, oggi dell’Europa – si punta a diffondere una mentalità da bunker. Demagoghi, lesti ad offrire la luna da rosicchiare a quanti si sentono spaesati dalla crisi e dalla globalizzazione, per raccoglierne il consenso inventano conflitti apparenti (Sopraceneri/Sottoceneri) o radicalizzano contraddizioni (lavoratori indigeni/frontalieri, Ticino/Berna), che al contrario andrebbero risolte nell’ottica di un destino comune. In tal modo rischiano di compromettere per lungo tempo il futuro del Paese, trasformandolo in una sorta di società incantata, dove sogno e realtà si confondono. Lei è uno studioso che si è dedicato in particolare alla storia del partito liberale. Riandando a quell’epoca, la frattura tra le due anime del partito è stata particolarmente drammatica: una corrente si è profilata in modo fortemente antifascista, un’altra è stata meno intransigente.
Nel liberalismo ticinese c’è sempre stata la copresenza di due tipi di liberalismo. Uno «critico», più ottimista, basato sull’etica piuttosto che sull’economia, motivazionalmente ricco, sensibile ad un’intesa tra borghesia produttiva e classi lavoratici; ed un altro più «realistico», prudente, costruito sulla discontinuità tra etica ed economia, motivazionalmente scet-
tico, vicino soprattutto agli interessi della grande borghesia. Queste due aree, riconoscibilissime negli anni ’30, tanto che si divisero con la scissione da cui nacque il Partito Democratico, oggi sono poco distinguibili nel PLRT e ciò credo sia un elemento di debolezza per questo partito ed un problema aggiuntivo per il nostro sistema politico, che così appare privo di opportunità per un autentico ricambio. In un’altra parte del testo lei sottolinea come in Ticino la «ricerca di un’identità ticinese» sia un lavorio costante che a volte sembra configurare un «eccesso di identità».
In effetti nel dialogo iniziale con Virginio Pedroni, che sostituisce l’introduzione a Tra due guerre, scrivo di un «eccesso di identità», che definisco anche «coatta» perché costruita proprio negli anni Trenta sotto una doppia pressione: quella alla sovranità cantonale, proveniente dal regime fascista, e quella dell’egemonia economica sprigionata dal nord confederale. Da qui, appunto, quell’«eccesso». Voglio dire che dovremmo sentirci più svizzeri e nel contempo più italiani, senza per questo trascurare le specificità della nostra piccola comunità: dalla lingua alla gastronomia. Comunque il tema dell’identità resta complesso, perché occorre sempre distinguere tra identità «primarie» (regionali, di classe, religiose, familiari …) e «secondarie» (nazionali, civiche, politiche …). In genere sono le identità primarie a costituire il nocciolo duro della resistenza ai processi di integrazione, determinando il rifiuto dell’altro. Qualcuno dice che la costante ricerca di un’identità, in fondo, è una forma di identità, ed è comunque un’attitudine profondamente… svizzera. È d’accordo?
Non so se oggi la costante ricerca dell’identità, come suggerisce lei, costituisca «un’attitudine profondamente svizzera». Ne sarei lieto, anche se starei attento a farne un tratto della cosiddetta svizzeritudine, poiché tutti i popoli, in tutti i tempi, facendo storia, sono andati alla ricerca di sé stessi.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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Cultura e Spettacoli
Quando un uomo è davvero un uomo Mostre Una mostra alla Skulpturhalle di Basilea affronta un tema
di attualità tra cultura e sport
Marco Horat Si è discusso tempo fa sui giornali di cultura e sport, quando alcuni operatori hanno rivendicato per la cultura uno spazio analogo a quello che le cronache riservano quotidianamente allo sport in tutte le sue declinazioni. Si potrebbe dire che i visitatori di una mostra o le persone che frequentano le sale da concerto sono almeno altrettanto numerose degli spettatori che assistono a una partita di calcio o di hockey su ghiaccio. Quindi, anche limitandosi a un discorso di numeri, la discussione è fattibile,
«Mens sana in corpore sano» è il motto ereditato dalla cultura latina per illustrare l’equilibrio perfetto fermo restando che ognuno è poi libero di avere l’opinione che ritiene più giusta. Chi difende il ruolo della cultura pensa che se gli avvenimenti culturali avessero una eco importante sui giornali, alla radio e alla televisione, al di là di qualche comunicato stampa interessato e di qualche breve servizio in coda alle informazioni, anche i fruitori aumenterebbero perché più informati e motivati dal momento che il loro livello di conoscenza sarebbe alla lunga molto maggiore. Per gli «sportivi» invece lo spazio
riservato alle varie discipline o ai grandi avvenimenti – Olimpiadi, campionati e coppe del mondo, ecc – giustifica gli enormi investimenti che i media mettono in campo in fatto di uomini, risorse e denaro: è la gente che li vuole. Un circolo vizioso, ci si può chiedere? Più aumenta l’offerta più la richiesta cresce oppure è vero il contrario? Chiaramente il problema è ampio e non è l’argomento di queste poche righe. Cultura e sport vanno invece a braccetto in una mostra aperta alla Skulpturhalle di Basilea dedicata gli atleti e alla competizione nell’antichità. E subito scopriamo che anche nell’antica Grecia, come succederà in seguito a Roma, gli atleti più in vista erano delle vere e proprie «star», seppure con qualche differenza rispetto a quanto succede oggi, dove la manifestazione sportiva è finalizzata al denaro e i cosiddetti campioni sono disposti a cambiar maglia appena trovano chi paga loro uno stipendio più alto. Ad Atene invece lo sport era prima di tutto disciplina e allenamento, del corpo ma anche dello spirito, affinché l’individuo potesse raggiungere un equilibrio fisico e mentale ideale; con evidenti ricadute positive sulla società in generale. Il vincitore di una gara durante i giochi in onore di Zeus a Olimpia era ufficialmente premiato con un ramo di alloro e poco più, fosse il partecipante a una corsa a piedi, con carri o a cavallo, a una gara di pentathlon, di lotta o pugilato. Una serie di magnifici vasi greci originali provenienti dall’Antikenmuseum
di Basilea come pure da un’importante collezione privata, vengono esposti accanto a sculture classiche tratte dalla straordinaria collezione di moulages della Skulpturhalle (ne possiede oltre 2200) che riproducono atleti in movimento; come non ricordare il celebre Discobolo di Mirone? Insieme ad alcuni video e ricostruzioni d’ambiente – come l’entrata al grande stadio di Olimpia – ci raccontano di atleti e di competizioni più o meno pacifiche e ci permettono di fare qualche suggestivo paragone tra l’antichità e i nostri giorni. Naturalmente il discorso riguardava in Grecia solo gli uomini, e nemmeno tutti; di qui il titolo della mostra basilese: Wann ist man ein Mann? Il concetto è in qualche modo passato nella cultura latina ed è giunto fino a noi: mens sana in corpore sano diciamo per sottolineare l’importanza di sviluppare un insieme armonico che comprenda le varie componenti dell’uomo. Per non dire delle culture orientali che hanno fatto della forza della mente il primo scopo dell’educazione di un allievo. Il più grande romanzo di cappa e spada del Giappone si intitola Musashi ed è ambientato all’indomani della celebre battaglia di Sekigahara del 1600 che vede nascere di fatto il nuovo Giappone unito. È il Via con vento o I Promessi sposi della cultura nipponica, dal quale sono stati tratti centinaia di film, telefilm e racconti; scritto da Eiji Yoshikawa apparve a puntate sull’Asahi Shinbun tra il 1935 e il 1939. Musashi, il samurai prota-
Torso di atleta, il cosiddetto Diadumeno («colui che si cinge la fronte con la benda della vittoria»); opera romana tratta da un bronzo dello scultore greco Policleto (420 a.C.). (Antikenmuseum Basel e Sammlung Ludwig Antikenmuseum)
gonista del feuilleton, dice a un certo punto di essersi misurato, nei suoi vagabondaggi, con decine di guerrieri, sicuramente grandi spadaccini; ma tra di loro di aver incontrato ben pochi uomini veri. Questo è il nocciolo della questione che vale per l’uomo greco come per quello giapponese, legati entrambi dalla tradizione: se la preparazione atletica e l’apprendimento delle tecniche di combattimento aiuteranno sicuramente il guerriero quando questi dovrà misurarsi con un nemico, è altrettanto importante
che il suo corpo, sviluppato armoniosamente, si presenti come specchio fulgido della forza d’animo e della morale perfetta che lo pervadono. Non possono esistere l’uno senza l’altro. Dove e quando
Wann ist man ein Mann? Basilea, Skulpturhalle des Antikenmuseums. Orari: ma-sa 10.00-17.00; lunedì chiuso. Fino al 30 marzo 2014. www.skulpturhalle.ch
Springsteen, destinato a sorprendere Musica Una piacevole anomalia: Bruce Springsteen stupisce i fan con un’operazione di recupero,
a metà strada tra l’album inedito e la compilation autocelebrativa
Benedicta Froelich Non vi è dubbio sul fatto che, nell’ambito della grande scena rock americana, Bruce Springsteen sia uno dei pochi fenomeni rivelatisi in grado di mantenere non solo un profilo qualitativo eccellente, ma anche una presenza di fortissima rilevanza pubblica: da ormai molti anni, il cantautore del New Jersey si è confermato grande professionista e performer dal carisma straordinario, capace di mesmerizzare il suo numeroso pubblico con esibizioni live dalla grandissima energia e potenza. Proprio per questo, si può dire che ogni nuovo album del «Boss», come lo chiamano i suoi ammiratori, costituisca un evento internazionale; anche se, nel caso di questo ultimo lavoro in studio – High Hopes, da poco disponibile nei negozi – l’operazione discografica tentata da Bruce ha lasciato interdetti parecchi dei suoi fan. In realtà, forse non dovrebbe stupire troppo il fatto che, a questo punto della sua lunga e sfolgorante carriera, Springsteen abbia compiuto la scelta in qualche modo azzardata di pubblicare un «album contenitore»: una compilation mista, che raccoglie sia cover, che rarità e «rivisitazioni» di canzoni tutto sommato ancora abbastanza recenti (i brani presenti risalgono al massimo agli anni ’90). Eppure, quello che ad alcuni potrebbe apparire come un tentativo di «prendere tempo» (quasi il Boss fosse stato costretto a pubblicare un nuovo album, pur senza disporre di materiale sufficiente), potrebbe in verità essere letto anche come una sorta di riepilogo: un tentativo di
fare il punto sull’ultima fase della carriera di Bruce, dando alle stampe raro materiale inedito della E Street Band – peraltro impreziosito dal fatto che qua e là appaiono anche Clarence Clemons e Danny Federici, i due membri del gruppo recentemente scomparsi. Del resto, il titolo stesso dell’album costituisce una «autocitazione» che certo non sarà sfuggita al vero springsteeniano: High Hopes, prima traccia del cd, è infatti una canzone della band degli Havalinas, già presentata da Bruce nell’EP Blood Brothers (1996) e qui proposta in una versione particolarmente vivace e rockeggiante. Un lavoro di rielaborazione a cui viene sottoposto
Il Boss davanti ai suoi fan durante un concerto. (AFP)
perfino un pezzo acustico come The Ghost of Tom Joad, con cui, nel ’95, Springsteen rivestì per la prima volta il ruolo di moderno erede di Woody Guthrie: seppur interessante, questo riadattamento sotto forma di epica cavalcata elettrica (già più volte collaudato dal vivo) tende forse a banalizzare in parte la canzone, privandola del distintivo spirito folk che l’aveva resa una delle ballate più indimenticabili del vecchio Bruce. In effetti, a tratti si ha l’impressione che il desiderio di Springsteen di collaborare di nuovo con l’insigne Tom Morello (la cui chitarra è presente in molte tracce dell’album) abbia in gran parte condizionato lo spi-
rito di queste nuove versioni, che comunque presentano tutte una notevole forza espressiva; anche se di certo, per il fan, il «piatto forte» del disco sono le nuove incisioni in studio di brani finora riservati soltanto alle esibizioni dal vivo. Ecco quindi la stupenda American Skin – topical song di grande forza, eseguita per la prima volta nel 2000 in memoria di Amadou Diallo e qui incisa con grande sobrietà e intensità – e The Wall, pezzo del ’98 legato al dramma del Vietnam. Non mancano, tuttavia, nemmeno i brani inediti, come il duro e brutale Harry’s Place (outtake dall’album The Rising, del 2002) e il toccante Down in
the Hole (sui pompieri di Ground Zero), senza dimenticare una ballata ipnotica quale Hunter of Invisible Game: pezzi che, seppur non proprio originalissimi, mostrano la grazia e la raffinatezza stilistiche alle quali Bruce ci ha ormai abituati. Certo, si riscontra comunque qualche traccia più debole – This is Your Sword, esperimento dalle atmosfere pseudo-celtiche, non è del tutto convincente, mentre, nell’ambito delle cover incluse nella tracklist, Just Like Fire Would risulta francamente un po’ risaputa. Tuttavia, una delle caratteristiche più interessanti di questa compilation sta nel fatto che mostra una certa coerenza tematica e musicale: seppure le varie tracce provengano da periodi e album differenti, il filo rosso che le collega resta quello degli argomenti favoriti dallo Springsteen più maturo, narratore della nostra realtà e dell’eterno dramma dell’uomo comune – il diseredato sopraffatto dalla durezza del mondo e di una società che non lo protegge. In questo senso, High Hopes centra il bersaglio, soprattutto grazie ai consueti sincerità e coinvolgimento mostrati da un autore la cui potenza rock e il tocco da songwriter ancora ammaliano, senza dare il minimo segnale di declino; tanto che, sebbene quest’album non possa considerarsi come uno dei capolavori di Springsteen, resta comunque un lavoro onesto, non accomunabile alle solite miscellanee animate dal puro interesse commerciale. Il che, in fondo, non può che spingerci ad attendere con ancor maggiore ansia il prossimo exploit del Boss, certo destinato a spiazzarci una volta di più.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
Cultura e Spettacoli
Ritorna l’analogico Meeting Si è tenuta a Locarno una giornata attorno ai sintetizzatori
organizzata da Roberto Raineri-Seith
Commozione con humour all’inglese Filmselezione Stephen Frears
o l’arte di fondere i toni Zeno Gabaglio
Fabio Fumagalli
Analogico. Nell’epoca del trionfo delle tecnologie digitali la parola chiave – quella che sembra schiudere vergini universi di senso e significato – è proprio questa. Perché nell’analogico, inteso come rifiuto della stereotipizzazione perfetta e sempre uguale a sé stessa del digitale, sembra nascondersi un calore umano ormai perduto, il positivo valore dell’imperfezione e dell’errore, un contatto con la materia volubile e fallace che la vita computerizzata sembra averci rubato. E quindi – ormai da qualche anno – è partita la rincorsa collettiva ai mezzi analogici, a recuperare quel passato che forse troppo prematuramente avevamo cercato di cancellare. C’è però chi da questo passato non si è mai allontanato, apparendo prima anacronistico e oggi – di nuovo e incredibilmente – à la page. Persone che, restando all’ambito musicale, non hanno mai venduto o gettato via i vecchi strumenti e che dieci giorni fa si sono ritrovati per l’Analogue Synthesizer Meeting 2014 presso la Biblioteca cantonale di Locarno. E per introdurci al tema ne abbiamo incontrato l’organizzatore, Roberto Raineri-Seith.
*** Philomena, di Stephen Frears, con
Dove è nata l’idea di una giornata attorno ai sintetizzatori e agli strumenti elettronici?
Concorsi
Questo tipo di incontri non sono una novità in sé – perché in altre sedi esistono già da diverso tempo – ma lo sono per il Canton Ticino, una regione che (forse insospettabilmente) ospita diversi appassionati dell’analogico che possiedono strumenti molto interessanti e anche piuttosto rari. Strumenti particolari, a volte anche delicati, che raramente escono dagli studi o dalle collezioni private, e quindi è piuttosto insolita la possibilità – al di là delle registrazioni o dei video dimostrativi presenti in rete – di poterli ascoltare dal vivo, vedere come funzionano e magari toccare con mano alcune loro specifi-
Steve Coogan, Judi Dench (Gran Bretagna 2013)
L’organizzatore dell’incontro Roberto Raineri-Seith.
che e comprenderne certi funzionamenti. Parlando di strumenti ed elettronica ci si immagina di tutto: dalla chitarra elettrica icona del rock’n’roll agli organi da chiesa, dai software informatici ai pianoforti elettrici. Di quali strumenti si è precisamente trattato in occasione del vostro incontro?
Quello dello strumentario elettronico è effettivamente un campo molto vasto, e la nostra attenzione si è concentrata sui sintetizzatori analogici: i classici strumenti prodotti a partire dagli anni Sessanta – tipo MiniMoog, per citare il più conosciuto – che oggi sono entrati a far parte della categoria vintage ma che pure sono costante oggetto di nuovi progetti e di nuove fabbricazioni. Si dice spesso che la differenza tra strumento elettrico o elettronico risieda nella generazione del suono: origine fisico-oggettuale (tipo la corda che vibra) per gli strumenti elettrici, mentre origine esclusivamente elettrica per gli strumenti elettronici. È davvero così?
Sì: nel sintetizzatore l’origine del suono è data da un oscillatore, che generando determinate frequenze crea «dal nulla» l’onda percepita come suono. Negli stru-
All’inizio il mondo del sintetizzatori era per ragioni tecniche un mondo per iniziati, se non per veri e propri esperti. Ad inizio anni Settanta si è però assistito ad una commercializzazione dei sintetizzatori in un formato più compatto, pensato proprio per un impiego esterno rispetto ai laboratori. Curioso è il fatto per cui anche il suonatore più «pop» non misconosce mai le origini colte del proprio strumento, e riconosce anzi in personaggi altamente sperimentali quali Karlheinz Stockhausen i progenitori di alcune tra le più diffuse sonorità contemporanee.
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…pour échapper à la télévision Fausto Romitelli, Gérard Grisey, Johannes Schöllhorn. Ensemble 900 in dialogo con giovani musicisti e il coro di voci bianche Clairière.
1. Sotto Assedio
1. Fabio Volo
1. Modà
C. Tatum, J. Foxx novità
La strada verso casa, Mondadori
2. I Puffi 2
Animazione
Gioia… non è mai abbastanza 2. Robbie Williams
2. Margaret Mazzantini
Swing Both Ways
Splendore, Mondadori www.conservatorio.ch
3. Shadowhunters
L. Collins, J.C. Bower Minispettacoli Rassegna teatrale per l’infanzia Oratorio S. Giovanni, Minusio Do 9 febbraio, ore 15.00 e 17.00
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4. Turbo
Orario per le telefonate: dalle 10.30 fino a esaurimento dei biglietti
3. Andrea Bocelli 3. Jeff Kinney
Diario di una schiappa – Guai in arrivo, Il Castoro
Animazione
Love in Portofino 4. Artisti Vari
Megahits 2014 4. Glenn Cooper
5. Starbuck
Il calice della vita, Nord
P. Huard, J. Le Breton novità
5. Ligabue
Mondovisione 5. Isabel Allende
6. Come ti spaccio la famiglia
J. Aniston, J. Sudeikis 7. Elysium
M. Damon, J. Foster
Il gioco di Ripper, Feltrinelli 6. Gianrico Carofiglio
Il bordo vertiginoso delle cose Rizzoli
8. R.I.P.D - Poliziotti d’aldilà
J. Bridges, R. Reynolds
Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate. Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.
I sintetizzatori sono strumenti nati e sviluppati negli studi di fonologia, da personale proiettato verso le ricerche di stampo classico-contemporaneo o avanguardistico. Presto hanno trovato però un fertile impiego nell’esatto opposto, cioè il mondo del pop. È corretto definirli strumenti socialmente e culturalmente trasversali?
900presente Rassegna concertistica Auditorium RSI, Lugano Domenica 9 febbraio, ore 17.30
Una giornata con Giulio Coniglio Compagnia Teatro dell’Archivolto. Spettacolo con attore e pupazzi adatto dai 3 anni.
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menti più tradizionali gli oscillatori sono due ma possono essere anche di più, e l’onda da essi generata viene plasmata da dei filtri, che intervengono regalando caratteristiche colorature al suono, dando al suono la sua riconoscibile personalità.
C’è un film duro e intransigente a monte dell’ultimo di Stephen Frears, The Magdalene Sisters (2002), di Peter Mullan, l’attore feticcio di Ken Loach. Che già ricordava le stesse ragazze-madri, presunte peccatrici, prostitute potenziali, giovani donne accusate di aver ceduto al piacere; detenute in tragiche lavanderie, gestite dalle suore nell’Irlanda cattolica in nome di una sadica redenzione. Creati nel 19mo secolo (ma l’ultimo venne chiuso soltanto nel 1996…) questi conventi-riformatori videro sfilare 30’000 poverette, estratte dalle classi popolari e piccolo-borghesi, private di ogni libertà fino alla morte, ovviamente non retribuite e confrontate all’integralismo religioso più bieco, alle più avvilenti degradazioni. E mai riabilitate dalla Chiesa. Con la storia, autentica di Philomena Lee si ritorna ora all’Irlanda; ma di un 1952 che non appartiene alla nebulosa leggenda, tratto dal bestseller autobiografico pubblicato nel 2009 da Martin Sixsmith, uno stretto collaboratore di Tony Blair. Ed è Steve Coogan (più noto come attore comico, magnifico protagonista del film e autore di una sceneggiatura candidata all’Oscar) che permette a Philomena di affinare ulteriormente le cose. Si sa che alle madri venivano sottratti i bimbi, «venduti» in adozione, spesso negli Stati Uniti, come nel caso, sfiorato dal film in uno dei suoi numerosi momenti divertiti, della celebre diva Jane Russell. Il destino delle recluse era allora quello della protagonista (Judi Dench, il viso più referenziale del cinema britannico) che trascorre cinquant’anni nell’angoscia (e nella disperazione della colpa) di non sapere nemmeno se il figlio sia ancora in vita. Philomena melodrammatico e lacrimoso, di un anti cattolicesimo un po’ telefonato? Significa dimenticare l’intel-
ligenza di Stephen Frears, capace di tutto come di essere capito da tutti, maestro nella fusione dei toni, attento ai costumi e alla realtà ma pure sedotto dal fascino della commedia. Che indaghi nella società con irresistibile comicità (The Snapper) o realismo spietato (Prick Up your Ears), nel privato dell’aristocrazia più costipata (The Queen), nella rievocazione storico-letterarie in funzione del contemporaneo (la meravigliosa versione di Le relazioni pericolose, Mary Reilly), negli effetti del tempo sull’effimero amoroso (il misconosciuto Cheri), la qualità del cinema di Frears, dietro l’apparente incostanza del tono, arrischia spesso di essere fraintesa. Commedia e dramma, sentimentalismo e denuncia sociale, miracolo di una fusione impossibile ma essenzialmente cinematografica, l’anziana e commovente Philomena è accompagnata nella ricerca da un personaggio del tutto opposto, un giornalista politico frustrato, alla ricerca dello scoop. Dalla perfetta interpretazione dei due, dal contrasto fra commozione e ironia che Frears carpisce anche solo dai loro sguardi, risalta allora quanto Philomena sia ancora impregnata di una fede ingenua, fatta di semplicità; riconoscente a qualche religiosa provvista di carità cristiana ma senza rivendicazioni nei confronti di quelle che le dicevano che «il dolore fosse la sua penitenza». Tutto all’opposto del tanto più giovane collega d’inchiesta, ironico e agnostico, scettico fino al cinismo, arrabbiato fino alla vendetta. Dall’impossibilità romanzesca della coppia, dal paradosso curioso e umoristico di una situazione che sappiamo pertanto ferocemente vera e attuale nasce così l’impossibilità della banalità melodrammatica e moralistica. È invece l’impagabile leggerezza di tono di Frears, unita alla grande sensibilità degli attori a condurre alla riflessione, semiseria e di larga comprensione, su come età e tempo, presunzione, carità e perdono giochino a rimpiattino con le anime di buona volontà.
6. Antony/Battiato
Dal suo veloce volo 7. Laura Pausini
Greatest Hits 8. Artisti Vari
7. Benedetta Parodi
The Dome Vol. 68
È pronto, Rizzoli 9. Io sono tu
J. Bateman, M. McCarthy
9. Zucchero 8. Khaled Hosseini
Una rosa blanca
E l’eco rispose, Piemme Per aggiudicarsi i biglietti basta telefonare martedì 28 gennaio al numero sulla sinistra, nell’orario indicato. Buona fortuna!
Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino
10. Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo 2
L. Lerman, A. Daddario
10. Eros Ramazzotti 9. Joël Dicker
La verità sul caso Harry Quebert Bompiani 10. Ildefonso Falcones
La regina scalza, Longanesi
Noi Due
Iscriviti ora e partecipa: www.famigros.ch
Il 29 marzo 2014 l’Europa-Park aprirà le sue porte in esclusiva per i membri Famigros. Dettagli relativi a concorso, iscrizione e partecipazione su www.famigros.ch/concorso (al massimo 10 biglietti; viaggio di andata/ritorno, pasti, ecc. a spese proprie). Il termine di partecipazione è il 19.2.2014.
MGB www.migros.ch W
In palio 28 ’000 biglietti per la giorna ta Famigros all’Europa-Park del 29 marzo 2014.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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di fiori nostrano è prodotto nella fattoria della Fondazione OTAF di Origlio, in collaborazione con Don Mario Pontarolo. La grafica dell’etichetta è invece opera degli allievi del CSIA di Lugano
Mér da tanti fiuu (Miele di fiori) 500 g Fr.13.70 In vendita nelle maggiori filiali Migros fino ad esaurimento dello stock.
Le proprietà gastronomiche e benefiche del miele sono riconosciute da tempi immemorabili ed erano già note a Ippocrate. Grazie alle sue qualità antibatteriche esso è efficace contro numerosi disturbi quali, ad esempio, irritazioni cutanee, rughe, occhi stanchi, anemie, tosse, catarro. La presenza di glucosio e fruttosio, velocemente assimilabili, rivitalizzano in poco tempo l’organismo in caso di fatica fisica e intellettuale. Il miele migliora anche la digestione ed è in grado di preservare l’equilibrio della flora intestinale e di calmare i bruciori di stomaco. Inoltre diversi studi hanno dimostrato l’effetto cicatrizzante e disinfettante sulle ferite.
Dall’OTAF al CSIA
Da qualche giorno sugli scaffali delle maggiori filiali Migros ha fatto la sua comparsa il miele di fiori misti (o millefiori) ticinese, prodotto nella fattoria della Fondazione OTAF di Origlio in collaborazione con Don Mario Pontarolo. Questa struttura protetta accoglie una ventina di utenti disabili, i quali, coadiuvati da personale specializzato, sono attivi in vari settori agroalimentari. La grafica dell’etichetta è stata sviluppata in collaborazione con il CSIA (Centro Scolastico per le Industrie Artistiche) di Lugano, dove durante l’anno scolastico 2012-2013 era stato indetto un concorso creativo presso una classe di studenti di grafica del se-
condo anno. La vincitrice, la giovane Emi Santer, per la creazione dell’etichetta ha potuto sbizzarrirsi ispirandosi ai colori vivaci e freschi dei campi fioriti. «Ho utilizzato la tecnica dell’acquerello – spiega Emi Santer –, metodo che mi ha permesso di ottenere dei colori morbidi e leggeri, senza forme nette. Così facendo la superficie non diventa piatta e dura, ma si distingue per le sfumature e le macchie naturali che con altre tecniche non sarebbero possibili». Infine, segnaliamo che per questo miele di fiori nostrano Migros Ticino rinuncia all’utile e riversa tutto il ricavato delle vendita all’OTAF. Ciò che del resto avviene per tutti i prodotti delle Fondazioni ticinesi.
La classe del secondo anno di grafica del CSIA di Lugano (20122013). Seduta, con in mano una bozza dell’etichetta del miele, Emi Santer. (Vincenzo Cammarata)
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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Idee e acquisti per la settimana
La Cazzoeula Attualità Piatto molto diffuso anche in Ticino, è una preparazione corposa e saporita. Il Grotto Vallera
di Genestrerio è particolarmente rinomato per questa specialità. Siamo stati loro ospiti
Piatto tradizionale della cucina insubrica, che risale in epoca non definita, ma quasi certamente non prima del 500 e che nel corso del tempo ha subito variazioni sostanziali negli stessi ingredienti che la compongono. La grafia del nome può essere anche «cassoeûla o cazzoeûla» oppure «cassöla» che è invece la grafia della versione novarese (diminutivo di cazza, «tegame»). La Cazzoeula viene chiamata «bottaggio» probabilmente dal francese potage, «minestra», o da «pot» (pignatta). È un piatto tipico del tardo autunno e dell'inverno, a base di vari tagli di maiale e verze: il momento più adatto per prepararla è quando le verze sono gelate nei campi e sono più dolci, più asciutte e tenere rispetto a quelle raccolte più precocemente.
Come tutti i piatti tradizionali, anche questo è oggetto di controversie, che vertono soprattutto su questi punti: se la Cazzoeula vada consumata il giorno stesso che è stata preparata oppure riscaldata il giorno dopo; se le verze devono essere completamente disfatte o ancora «riconoscibili»; se è corretta l'aggiunta di un po' di concentrato di pomodoro o comunque poco pomodoro; se tra gli insaccati deve comprendere anche la luganiga oppure solo gli specifici salamini «delle verze». Il nostro consiglio: preparatela come la prepara lo chef Fernando Buzzi del Grotto Vallera di Genestrerio. Nei supermercati Migros troverete tutti gli ingredienti per cucinare questo monumento della cucina povera. / Davide Comoli
Fernando (a sinistra) e Franco Buzzi, titolari del Grotto Vallera di Genestrerio. (Flavia Leuenberger)
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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Idee e acquisti per la settimana
La Cazzoeula Ricetta per 5-6 persone Ingredienti 2 kg di carni miste di maiale (p. es. 1 kg costine tagliate a metà per il lungo, 15 pezzetti di cotenna*, 2 codini interi dimezzati*. Facoltativi: 2 piedini*, 1 musetto*) 2 kg di verze ricce (ancora meglio se hanno preso il gelo) 300 g di carote 200 g di sedano 1 bicchiere di vino bianco Olio, burro, sale e pepe Le verze e la carne devono essere in quantità equivalente. Calcolare ca. g.400 di carne per persona. La proporzione delle varie parti di carne varia secondo i gusti. *Disponibili su ordinazione nelle macellerie di Migros Ticino. Preparazione Sfogliare e lavare le verze, attenti a non rompere le foglie, mondare lo «scarun» o nervatura centrale delle foglie esterne e medie. Dividerle in gruppi, un mazzo delle foglie esterne più coriacee, uno medio-dure, uno di medie, uno di medio-tenere e l'ultimo di tenere. Bruciacchiare le parti con cotenna, piedini, musetti e codini per toglierne le eventuali setole rimaste. Tagliare le costine ogni due ossa, le cotenne in pezzi di ca. cm 6 x 6, i codini e i musetti in pezzi da ca. 6 cm. Sbollentare per 5 minuti i piedini già segati a pezzi. In una pentola capace e con coperchio, non leggera, rosolare bene la carne in burro e olio di semi (non molto olio: tenete presente che la carne di maiale è già grassa di suo), facendo molta attenzione alle parti con cotenna affinché non attacchino. Salare e pepare. Aggiungere le carote ed il sedano e rimestare. Aggiungere un bel bicchiere di vino bianco e quanto bolle bene abbassare a fuoco medio. Poi aggiungere sopra le carni uno strato di verze crude cominciando da quelle esterne più scure e più coriacee. Mettere il coperchio. Quando si sono ben ammorbidite, con l'aiuto di un cucchiaio di legno, infilarle tra i pezzi di carne. Ripetere l'operazione più volte partendo con strati di foglie di verza dalle più dure per finire con le centrali più tenere. Volendo, le foglie tenere centrali si possono lasciar sopra, così che saranno cotte ma croccanti. Salare quanto basta di tanto in tanto. Fare bene attenzione che il tutto non si asciughi aggiungendo eventualmente un po' di acqua calda. Infine cuocere il tutto con il coperchio a fuoco basso 2 o 3 ore (eventualmente anche in forno a 110°) rimestando con molta cura di tanto in tanto, facendo ben attenzione a non rompere o spappolare costine e verze. Il segreto della Cazzoeula sta nel tasso di umidità: non dev'essere un pot-au-feu nè un arrosto, la Cazzoeula è a metà strada. Qualche consiglio: - Se durante l'immissione delle foglie la Cazzoeula asciuga aggiungere acqua calda con prudenza, tenendo conto che le verze crude lasceranno la loro acqua nella pentola. - Se a cottura ultimata la Cazzoeula è ancora troppo acquosa ridurre il liquido di cottura in un pentolino ed indi rimetterlo nella padella. - Il tutto dev'essere molto ben cotto: le costine stanno per perdere le ossa e le cotenne si sciolgono. - Servirla ben calda un po' per volta con eventuali ripassi affinché sia sempre in temperatura. - Accompagnarla con polenta nostrana.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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Idee e acquisti per la settimana
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a tutte le donne un aspetto seducente senza troppi eccessi. Scopritela ora nella maggiori filiali Migros del Ticino Ombretto 24 ore Velvet, Matita Kajal, Rossetto Atomic Red Mat e Cipria in polvere Face Perfect: questi sono i quattro prodotti della nuova collezione Nude Attitude Collection di Deborah Milano. Secondo le ultime tendenze stilistiche, il filo conduttore che traspare in modo palese è «semplicità e sobrietà», sia per quanto attiene al modo di vestire, sia nella scelta del make-up di tutti i giorni. Deborah Milano, da sempre particolarmente attenta nell’interpretare gli umori femminili contemporanei e nell’assecondare la voglia di distinguersi, lancia sul mercato Nude Attitude Collection, il trucco dai toni pastello e dai colori che non coprono la carnagione, bensì valorizzano la naturale bellezza della donna. L’Ombretto 24 ore Velvet si distingue per la sua consistenza vellutata e setosa. La purezza del colore è data da un mix di perle che catturano e riflettono la luce. Degli speciali polimeri filmogeni e olii siliconici assicurano a lungo una tenuta perfetta senza antiestetiche striature e un’altrettanto perfetta sfumabilità e ade-
renza. Può essere utilizzato sia asciutto che bagnato. Le tonalità disponibili sono Courtesan Powder, Cappuccino Brown e Cameo Pink. Morbida e ultra-scorrevole, la Matita Kajal color burro rilascia un colore puro e intenso che mette in evidenza le caratteristiche dello sguardo. Le donne che vogliono essere eleganti e originali scelgono il Rossetto Atomic Red Mat, nelle due nuances Innocent Beauty e First Kiss. Scorrevole e omogeneo, questo rossetto disegna con precisione la bocca rendendo le labbra impeccabili e morbide per tutto il giorno. Infine, ecco la Cipria in polvere libera Face Perfect, in grado di rendere la pelle omogenea e vellutata, assorbendo il sebo in eccesso e neutralizzando l’effetto lucido grazie alla microsilica. Setosa e leggera da applicare, non lascia residui ed è disponibile nelle due tonalità Rose e Beige. Tutti i prodotti Deborah Milano sono dermatologicamente e oftalmologicamente testati.
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v Quando si parla di provolone, il tradizionale formaggio a pasta filata, l’associazione d'idee con il marchio Auricchio è praticamente automatica. Questa azienda italiana, infatti, lo produce a partire da una sua ricetta segreta fin dal lontano 1877. Le fasi più importanti della lavorazione del provolone Auricchio – come p. es. la formatura in forme sferoidali o cilindriche – sono ancora oggi effettuate manualmente da parte di abili casari. A Migros Ticino i prodotti
Auricchio sono disponibili in quattro varianti, tutte quante a base di latte vaccino: Le Provolizie sono sottili fette di provolone confezionate in una pratica vaschetta, nelle varianti affumicate, piccanti e dolci, e si prestano ottimamente per arricchire pizze, paste, carni, verdure o panini imbottiti. L’Auricchietto, dal canto suo, grazie alla sua dolcezza e tenerezza, si gusta come secondo piatto oppure come ingrediente per ricette più elaborate.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
Idee e acquisti per la settimana
Un’equa sferzata di energia Non tutte le banane sono uguali. Chi acquista quelle con il marchio Fairtrade Max Havelaar si impegna in favore del commercio equo e della lotta contro la povertà in America Latina
Ecuador: nelle piantagioni di bananitos i frutti vengono portati al centro di raccolta con i muli. Perù: i lavoratori lavano le banane e le preparano per il viaggio verso la Svizzera.
Banane o le loro sorelline, i bananitos? Poco cambia, grazie al suo alto contenuto di vari tipi di zuccheri della frutta, l’arcuato frutto tropicale fornisce energia immediata ed è praticamente apprezzato da tutti. Chi all’acquisto delle banane presta attenzione al marchio Fairtrade Max Havelaar, sostiene il commercio equo e fornisce un aiuto concreto ai piccoli contadini dell’America Latina. Grazie a un prezzo minimo garantito, i produttori certifiFairtrade sostiene i piccoli contadini e i lavoratori delle piantagioni, fra l’altro con prezzi minimi garantiti per le materie prime e premi Fairtrade, affinché essi possano migliorare autonomamente il loro tenore di vita e le condizioni lavorative.
cati Fairtrade dispongono di una rete di sicurezza che li protegge dai prezzi bassi dei mercati mondiali. Inoltre ricevono un premio Fairtrade, il quale va a vantaggio delle associazioni dei produttori: sta a loro decidere democraticamente quali progetti sostenere con questo premio. Nel caso della cooperativa di banane bio Valle del Chira, sulla costa peruviana, con l’aiuto del premio sono state rinnovate scuole, finanziati programmi in favore della salute e costruite strade d’accesso. In questa vallata Migros si rifornisce da oltre dieci anni della maggior parte di banane bio, tanto da figurare tra i pionieri del boom delle banane peruviano. Questa collaborazione di lunga data con la Cooperativa ben rispecchia l’idea del commercio equo. Da qualche tempo anche le banane mini sono disponibili col certificato del Fairtrade. Provengono dalla cooperativa di piccoli contadini Union Carchense, in Ecuador.
Il lungo viaggio delle banane bio Fairtrade dalle piantagioni agli scaffali
I caschi di banane, pesanti fino a 40 kg, sono raccolti a mano dai lavoratori ancora verdi e acerbi, poiché le banane non maturano sulla pianta. Queste banane appena raccolte sono farinose e amarognole:solo grazie alla maturazione acquisiscono il loro sapore dolce, dal momento che l’amido si trasforma in fruttosio, il che si manifesta anche nel cambiamento di colore della buccia, che da verde diventa gialla. Dopo la raccolta si passa al controllo di qualità, dove le banane sono lavate, già tagliate in unità di vendita e preparate per la spedizione. Durante il lungo tragitto in nave attraverso il Canale di Panama e
l’Atlantico i frutti sono refrigerati per ritardare il processo di maturazione. Infine le banane giungono nei porti di Anversa e Rotterdam e raggiungono poi su rotaia la Svizzera, dove vengono fatte maturare ulteriormente in speciali celle, prima di arrivare alle filiali Migros e, in seguito, a casa nostra. / Nicole Ochsenbein Per saperne di più: www.maxhavelaar.ch.
Parte di
Generazione M testimonia l’impegno della Migros per la sostenibilità.
Bio Banane Fairtrade al kg Fr. 3.20 Bio Mini-Banane Fairtrade sacchetto da 300 g Fr. 3.50 Il codice Fairtrade posto sull’etichetta (p.es. codice 2281) permette di risalire all’origine della banane tramite www.maxhavelaar.ch.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2014 • N. 05
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Idee e acquisti per la settimana
La varietà
Una mela che conquista i cuori bio
Topaz è una varietà resistente alla ticchiolatura, acidula-aromatica, con un albero semplice da trattare. Nella coltura bio si punta sulle forze della natura. Si evitano le malattie delle piante e i parassiti con una scelta ottimale del luogo e coltivando varietà resistenti alle malattie.
Il vostro contadino bio lo sa Avvicinatevi alla natura e fate visita ai contadini e alle contadine Bio-Suisse delle varie regioni nelle nostre filiali. Giocate alla ruota delle fortuna col nostro quiz scientifico bio e vincete. I contadini Bio-Suisse sono a vostra disposizione anche per rispondere a tutte le vostre domande a proposito della coltura bio e dell’allevamento bio. Durante la degustazione vengono offerte le varietà di mela Topaz e Gala nonché anelli di mela essiccati. Le date in Ticino: Migros Taverne, dal 31.1 all’1.2.2014 Migros Locarno, dal 31.1 all’1.2.2014 Migros Bellinzona, dal 7.2 all’8.2.2014 Migros S. Antonino, dal 7.2 all’8.2.2014
Non tutte le mele sono adatte alla coltivazione bio. L’aromatica Topaz è una varietà robusta, per questo è apprezzata dai contadini bio
Bio è simbolo di misure severissime nella coltivazione di materie prime. La massima priorità spetta al rapporto delicato con la natura, alla naturalezza delle materie prime e dei prodotti nonché al benessere degli animali.
Dalle due antiche varietà ceche Rubin e Vanda se ne è ricavata una cui è stato dato il nome di Topaz. L’idea era di ottenere una varietà possibilmente robusta, dato che negli anni ottanta nella Cecoslovacchia di allora i mezzi finanziari per la protezione delle piante scarseggiavano. L’ingegnere agronomo Jaroslav Tupy riuscì a realizzare questa varietà resistente alla ticchiolatura del melo, il che la rese interessante per la coltivazione bio. Oltre alla Topaz, le Braeburn bio e le Gala bio sono altre apprezzate varietà adatte alla frutticoltura biologica.
nestre e succhi. La Gala, relativamente piccola, ha una polpa gialla e soda, e si sposa bene con le patate, le erbe o le pietanze a base di latte. E per una buona torta di mele va benissimo la Braeburn, ma anche la Topaz. Come spuntino si prestano naturalmente tutte le varietà di mele bio. Prima di gustarlo, lavare bene il frutto e mangiarlo con la buccia, dove si nasconde la maggior parte delle vitamine. / Heidi Bacchilega; foto Getty Images
Frutto e colore
Le mele Topaz sono di grossezza media e possiedono un colore di base giallo con strisce o «fiamme» rosse. La polpa del frutto è soda, succosa, dolce-acidula e particolarmente aromatica. Questa varietà contiene moltissima vitamina C. Coltivazione
Originariamente questa mela proviene da un’arboricoltura nei pressi di Praga.
Se occorre comunque trattare i frutteti, lo si fa con prodotti minerali e vegetali. Ad esempio, in caso di macchie da ticchiolatura si utilizza dell’argilla.
• Aceto di mele bio 500 ml Fr. 1.75* invece di 2.20 • Succo di mele bio 1,5 l Fr. 2.45* invece di 3.10 • Mele bio Topaz al kg Fr. 4.60*
Conservazione
stano per la coltivazione biologica. Deve trattarsi di una varietà resistente e robusta, poco soggetta all’attacco di parassiti e malattie, come la ticchiolatura del melo. La Topaz, che è stata ottenuta nel 1984 nell’attuale Repubblica Ceca, è molto richiesta nella coltura bio per la qualità della sua polpa e la resistenza alla ticchiolatura del melo.
La cura
Le mele andrebbero conservate preferibilmente in cantine fresche a una temperatura di 10 gradi al massimo. Possibilmente su un supporto morbido, ad esempio carta di giornale, col gambo all’ingiù. Se manca lo spazio per sistemarle tutte una accanto all’altra, si possono farne degli strati, avendo cura di porre un foglio di giornale fra uno strato e l’altro. Bisogna assolutamente controllare se una mela è marcita. Le mele contengono infatti etilene, responsabile del processo di maturazione dei frutti. Se una mela è marcia emana più etilene attorno a sé contagiando così altre mele.
* Azione dal 28.1 al 3.2
Il terreno
Uso in cucina
L’uso di mele in cucina spazia dalle torte agli sformati, dalla composta alla passata o al succo. Non tutte le mele si prestano per ogni ricetta. La Topaz, detta anche la Succosa, è particolarmente adatta per mi-
Sviluppare ulteriormente la coltura bio Dal 1995 la Migros ha un proprio programma bio e lavora in stretto contatto con Bio Suisse. Bio Suisse è la principale organizzazione bio svizzera e rappresenta gli interessi delle sue circa 6000 aziende agricole e di giardinaggio. Il partenariato di Migros Bio e Bio Suisse si fonda sugli stessi obiettivi: promuovere a un alto livello di credibilità la coltivazione bio in Svizzera e incentivare il suo sviluppo ulteriore. Le aziende sono controllate e certificate regolarmente da istanze indipendenti quanto all’osservanza delle severe linee direttive Bio-Suisse. Per saperne di più su Migros Bio, i luoghi e i termini della degustazione, il concorso e le azioni, cliccare su: www.migros.ch/it/supermercato/bio
Parte di
I contadini bio rinunciano coerentemente a fertilizzanti artificiali e pesticidi chimici e utilizzano concimi organici come composto o letame. Le mele bio contengono quindi meno residui.
Generazione M è simbolo dell’impegno sostenibile della Migros.
Foto Getty Images
La mela è il frutto più apprezzato in Svizzera. Annualmente se ne consumano circa 16 chili a testa. Le mele sono ideali come spuntino o per farne succo, purea o torte. Sempre più persone scelgono mele di qualità bio, perché prediligono la naturalezza. Ma non tutte le varietà si pre-
Degustare prodotti bio e vincere nel contempo favolosi premi alla ruota della fortuna.
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Idee e acquisti per la settimana
Bocconcini di carne per ogni occasione La carne secca è energetica e fornisce al corpo molte proteine. Le chips di carne sono lo snack ideale fuori casa, non solo per chi è attento alla linea La carne essiccata si conserva a lungo senza refrigerazione e ha una lunga tradizione come alimento base nelle regioni desertiche o montane, come pure in Svizzera. Oggigiorno la carne secca è considerata una vera leccornia. Le diverse varietà di chips di carne della Migros sono ideali per gli snack, soddisfano tutti i gusti e sono perfette in qualsiasi occasione, sia come aperitivo oppure come spuntino energetico fuori casa. Questa carne ricca di proteine possiede un basso contenuto di grassi, che va dall’1,5 al 3,5 per cento a seconda della varietà. Gustata come spuntino tra i pasti, con un po’ di pane, sa spegnere quel certo languorino accontendando anche il palato. Le chips di carne di Micarna sono disponibili sotto forma di carne di manzo come Beef Chips e di carne di cavallo come Horse Chips. Nuove nell’assortimento, ora ci sono anche le Pork Waves e le Turkey Chips. Questa pregiata carne magra è lavorata secondo ricette tradizionali. È leggermente salata, speziata in modo naturale ed essiccata all’aria oppure affumicata. La nuova confezione in doppia porzione è molto pratica per le piccole economie domestiche. / Anette Wolffram Eugster
Pork Waves (chips di prosciutto crudo ondulate) 81g Fr. 4.90
Le saporite chips di carne di tacchino e di maiale arricchiscono ogni aperitivo.
Beef Chips (carne di manzo) 80g Fr. 4.90
Turkey Chips (petto di tacchino) 70 g Fr. 4.90
In vendita nelle maggiori filiali Migros.
L’M-Industria produce molti apprezzati prodotti Migros, tra cui le chips di carne.
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Idee e acquisti per la settimana
Mangiare bene al Ristorante Migros Mangiare fuori casa in modo equilibrato e variato non è sempre facile. Discorso diverso ai Ristoranti e De Gustibus Migros, i quali sotto il marchio Délifit offrono leggeri menu, insalate e snack per buongustai attenti ad un’alimentazione sana e variata. I piatti sono riconoscibili grazie al logo verde Délifit. Chi a mezzogiorno vuole gustare un piatto caldo, troverà differenti menu. Possono essere per esempio gamberi all’arancia con riso alle verdure e insalata mista; chili con
carne, patate e purea di mele oppure curry verde Tailandese con riso basmati. Tutti sono stati composti in modo equilibrato e contengono al massimo 25 grammi di grassi e 600 calorie. Nonostante siano leggeri, saziano a lungo. L’offerta stagionale varia regionalmente e propone ricette sempre nuove e innovative con sapori provenienti anche da cucine lontane. Chi con Délifit cerca ispirazione anche a casa, troverà numerose ricette sotto www.delifit.ch.
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