Anno LXXXVII 8 gennaio 2024
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
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MONDO MIGROS
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SOCIETÀ
TEMPO LIBERO
ATTUALITÀ
CULTURA
Alcune considerazioni su modalità e futuro delle celebrità di internet, anche note come influencer
Strongman e sciatore: nella sua ricerca costante di record Fabio Guglielmini non conosce limiti
Le Presidenziali negli Stati Uniti del novembre 2024? Un test sulla tenuta della democrazia
Thomas Huber e il suo Lago Maggiore protagonisti al MASI fino al prossimo 28 gennaio
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Keystone
Non è un mondo per donne
Francesca Marino
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Meno spazio, per uno spazio migliore Simona Sala
La buona notizia di qualche tempo fa, sempre che sia lecito questo aggettivo, è che in dieci anni abbiamo ridotto i rifiuti alimentari dai 60 kg a testa del 2012 ai 50 del 2022, quella invece che ci fa poco o nulla onore è che a testa ancora riusciamo a produrre circa 148 kg all’anno di rifiuti globali, ossia qualcosa come due o tre volte il nostro peso fisico. Visto in altri termini, anno dopo anno moltiplichiamo la nostra presenza fisica sotto forma di rifiuti che consegniamo a terzi da smaltire. I centri di raccolta, o ecocentri, diventati in alcune località vere e proprie stazioni di smistamento «fai da te», hanno sicuramente fatto la loro parte, prendendosi a carico plastiche e altri rifiuti speciali, nonché il nostro senso di colpa a fronte della mole di oggetti che ci ritroviamo regolarmente a buttare. Senza dubbio anche in Svizzera ci si è nel frattempo specializzati nel riciclaggio di parte di ciò che gettiamo, ma resta
il fatto che siamo costantemente intenti a consumare; come ha sottolineato Katrin Schneeberger, direttrice dell’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM): siamo più sensibili verso la raccolta differenziata, meno nei confronti dello spreco di cibo. Risulta dunque difficile, almeno sul breve termine, individuare delle soluzioni capaci di invertire un trend che denota anche un atteggiamento di certa noncuranza verso cose e cibo. Gli sprechi, però, non riguardano unicamente le cose, ma anche l’immaterialità rappresentata dallo spazio, e per farsene un’idea basta attraversare il Ticino, con le sue ampie zone in cui la pianificazione pare più frutto di caso e necessità, che non di una oculata considerazione del territorio. Poiché l’inarrestabile fenomeno dell’espansione urbana – in tutte le sue forme – e dunque del consumo del terreno non riguarda unicamente le nostre latitudini, vi è chi altrove, nel desiderio
di trovare una soluzione unica al problema della mancanza di spazio, nonché a quello della produzione di rifiuti, si è organizzato, dando vita a un particolare movimento, quello delle Tiny Houses, traducibile con qualcosa come il «Movimento delle piccole case». Trattasi de facto di micro abitazioni indipendenti, non necessariamente situate in boschi o altri luoghi idilliaci come le si trova in internet, ma potenzialmente anche in cortili, giardini privati o aree dismesse. Ogni centimetro di una Tiny House è studiato e ponderato, dai mobili alla luce, alla quantità di cose, per uno sfruttamento ottimale e il più possibile naturale. Le microabitazioni, infatti, costringono a un ripensamento dello spazio, pubblico e privato, e a uno stile di vita più oculato, in cui al vaglio, per motivi di posto, passa anche la spesa, come dimostra la quotidianità all’interno delle Love House 1 e 2 (18 mq) dell’architetto Takeshi
Hosaka a Tokyo; oppure l’estrema Casa Keret di Varsavia (chiamata così in onore allo scrittore israeliano Etgar Keret), costruita addirittura nel vano tra due palazzi, con una larghezza che oscilla tra i 92 e i 152 centimetri; o ancora, l’insediamento di Grienen, vicino a Winterthur, con alcuni dei suoi abitanti che vivono in carrozzoni da circo dismessi o in una iurta. Senza arrivare a dovere rivoluzionare le nostre vite o tantomeno volere indicare la Tiny House come panacea di tutti i mali, una cosa questo movimento ce la sta comunque dimostrando: forse è proprio pensando in piccolo, con poco, ma in modo strutturato, che si può finalmente invertire un trend come quello del consumo sfrenato che genera tonnellate di rifiuti e divora incessantemente spazio. E forse, si tratta di un genere di pensiero che darebbe anche aria fresca alle nostre idee.
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SOCIETÀ ●
Per una giustizia forse più completa Anche alle nostre latitudini si comincia a parlare di «giustizia riparativa», sebbene questa non sia ancora entrata nel diritto penale
Elettriche sempre più performanti Opel Corsa ha raccolto la sfida del motore elettrico e propone ora un’auto performante seppur in un formato compatto
Fare attenzione al cuore Il rischio di sviluppare fibrillazione atriale e ictus diminuisce significativamente praticando dell’attività fisica
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Ritratto senza filtri degli influencer
Intervista ◆ La sociologa Maria Angela Polesana fa chiarezza sulla figura delle «celebrità di internet» spiegando perché hanno successo e quale sarà il loro futuro Stefania Prandi
Sentiamo ripetere in continuazione il termine «influencer». Questa parola – l’Accademia della Crusca la traduce in italiano con «influenzatore» mentre Wikipedia con «celebrità di internet» – è talmente diffusa da essere diventata un’etichetta piuttosto vaga. L’influencer, d’altronde, è una figura ibrida, al confine tra mondo online e offline. Per fare chiarezza sul tema e approfondirlo, Maria Angela Polesana, professoressa associata di Sociologia dei media allo Iulm di Milano, ha appena pubblicato un libro intitolato Influencer e social media (FrancoAngeli). Maria Angela Polesana, ci spiega la figura dell’influencer? L’influencer è una persona che costruisce il seguito, la popolarità e quindi il successo sulla capacità di aggregare attorno a sé una comunità affettiva grazie alla narrazione visuale (condividendo foto e video) e testuale della propria vita. Si tratta cioè di un racconto identitario che trae vantaggio dalla curiosità dei follower, dalla loro partecipazione emotiva e dall’identificazione con situazioni di vita quotidiana. La quotidianità viene caricata di dimensioni comiche, ironiche o surreali in base alla capacità creativa dell’influencer che, di fatto, è un creatore di contenuti. L’influencer è una micro-celebrity capace di creare intimità, relazione e accessibilità per favorire un senso di prossimità con i follower e lo sviluppo di una relazione affettiva con la propria comunità. Per risultare credibile e trasparente dichiara le sponsorizzazioni che promuove, manifestando sintonia tra il proprio stile di vita e i propri valori e quelli del brand, usando spesso un registro ludico che esprime emozioni positive.
I mondi virtuali pullulano di influencer, e non sempre si tratta di modelli positivi o che vale la pena di seguire. (Freepik)
Perché esistono gli influencer? Questo tipo di figura si è imposta perché viviamo in uno stato di connessione continua, in ambienti governati dalle logiche capitalistiche che muovono le piattaforme. Ricordiamoci, infatti, che dietro agli algoritmi dei social media ci sono esseri umani con i loro interessi economici. L’ideologia neoliberale spinge gli individui a gestirsi come se fossero una marca (il cosiddetto self-branding) con l’obiettivo di attirare l’attenzione delle aziende per firmare contratti vantaggiosi.
Ferragni), la cosmesi (Giulia De Lellis) e il turismo (Giovanni Arena) – e alla dimensione del loro audience. In base a quest’ultima, possiamo distinguere tra: nano influencer (con meno di 10’000 follower); micro influencer (tra i 10’000 e i 50’000 follower); macro influencer (tra i 500’000 e il milione di follower); mega influencer (oltre un milione di follower). Se è infattibile rispondere a milioni di follower, è invece possibile farlo con piccoli numeri. Di conseguenza le aziende, i brand, sono interessati anche ai nano o ai micro-influencer perché sanno di poter contare su un maggiore coinvolgimento da parte della comunità che li segue.
Lei scrive che ci sono diversi tipi di influencer. Ci può fare qualche esempio? Ci sono diversi tipi diversi di influencer in relazione al settore cui appartengono – ad esempio il food (Benedetta Rossi), il fashion (Chiara
Sembra che, soprattutto per certi lavori, dovremmo diventare tutti degli influencer per avere davvero successo. Perché ci troviamo in questa situazione? Perché la nostra vita è sempre di più ibridata con i social media. E la loro
frequentazione continua ha avuto un impatto sulla nostra percezione, sul nostro comportamento e sulla nostra socialità. La lucidità, la sintesi e la semplificazione che caratterizzano le modalità di comunicazione degli influencer, e che risentono dei media in cui avvengono, ci hanno abituato a ritmi diversi e a modalità di interazione orizzontali. Per i più giovani ci sono modelli alternativi a quelli degli influencer? Sì, pensiamo, ad esempio, a Greta Thunberg, Elon Musk e Samantha Cristoforetti, solo per citare qualche nome. I genitori stessi continuano ad avere un ruolo centrale nella formazione dei figli e a rappresentare delle fonti di ispirazione. E aggiungerei anche i nonni (cui spesso i miei studenti dedicano la loro tesi di laurea) che oggi, più ancora che in passato, spesso crescono i nipoti perché le madri e i padri sono impegnati al lavoro. E comunque vanno fatti
dei distinguo tra gli influencer. Ci sono, ad esempio, i bookinfluencer che promuovono la lettura dei libri tra i ragazzi. Si pensi al caso recente del libro Il fabbricante di lacrime di Erin Doom, pubblicato su Wattpad, piattaforma di condivisione di storie, che ha superato i 6 milioni di lettori e poi, anche grazie ai booktoker, ha venduto 450’000 copie cartacee. L’hashtag #EricDoom ha raccolto 20 milioni di visualizzazioni. Crede che sia sbagliato giudicare negativamente la figura degli influencer? Sì, non dobbiamo giudicarli male. Certo, non possiamo negare le conseguenze negative dell’esibizione di corpi perfetti sui social, né ignorare l’ansia e l’insoddisfazione indotte dal confronto con modelli di successo economico spesso irraggiungibili. È bene ricordare che la frustrazione è spesso figlia degli stereotipi che aleggiano sulle figure degli influencer. Si
pensa che siano diventati facilmente ricchi, famosi e quindi anche felici, grazie alla loro sola passione. In realtà ci sono moltissime persone che cercano di diventare influencer e falliscono. Secondo lei sono modelli destinati a durare? Gli algoritmi cambiano repentinamente, costringendo gli influencer a produrre contenuti sempre diversi, pena la perdita di popolarità. Alcuni di loro sono sottopagati, senza tutele, al punto che in Italia, nel 2018, è nata l’Associazione Assoinfluencer con l’obiettivo di tutelarne la professione. La sopravvivenza degli influencer richiede sempre più abilità autopromozionali e di marketing. Inoltre oggi molte aziende si rivolgono ai cosiddetti virtual influencer, interamente creati al computer: tra i più conosciuti Lil Miquela. Sono più economici, quindi più convenienti per le aziende, e soprattutto totalmente controllabili e perciò meno rischiosi.
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MONDO MIGROS
Il buono dell’inverno
Attualità ◆ Le verdure invernali sono un vero concentrato di sapore e preziose sostanze nutritive. Ora ne trovate un’ampia e vantaggiosa scelta nella vostra filiale Migros più vicina
Per contrastare le influenze a cui siamo maggiormente soggetti in inverno, non c’è niente di meglio che fare il pieno di energia e vitalità in modo del tutto naturale, per esempio consumando regolarmente delle verdure tipiche della stagione più fredda dell’anno. La maggior parte di questi ortaggi sono coltivati nel nostro cantone o nella Svizzera interna; di conseguenza sono prodotti in modo particolarmente sostenibile e non necessitano di trasporti troppo lunghi prima di giungere sulle nostre tavole. Tra questi possiamo per esempio citare carote, cavoli vari, porri, formentino, cicoria belga, cime di rapa, broccoli, sedano rapa e molto altro. Inoltre, oltre ad essere buone, queste verdure sono anche ricche di importanti sostanze benefiche, come vitamine, sali minerali e ulteriori nutrienti secondari. Ecco alcuni gustosi ortaggi tipici della stagione invernale, attualmente disponibili alla Migros:
Le varietà invernali di verza hanno un sapore pronunciato e un colore verde più intenso rispetto a quelle precoci. Le caratteristiche foglie arricchiate di prestano bene per la preparazione di zuppe, involtini, pietanze al wok oppure come ingrediente base per la cassoeula, tipico piatto lombardo a base di verza e carni bollite.
La cicoria o indivia belga è ottima sia gustata fredda in insalata o come pinzimonio, sia calda gratinata al forno con prosciutto e formaggio, oppure sotto forma di zuppa. Si caratterizza per il suo sapore piacevolmente amarognolo.
Considerato anch’esso un classico ortaggio invernale, il porro è una pianta antica originaria del mediterraneo. È ricco di vitamine, sali minerali e composti aromatici. Si consuma gratinato, in zuppe, in insalata oppure come condimento in numerosi piatti e salse.
Come per i broccoli e i carciofi, del cavolfiore si mangiano i fiori. Ricco di nutrienti e poco calorico, è consumato in insalata – sia cotto che crudo – oppure bollito, gratinato o fritto. Per evitare che perda il suo bel colore bianco, si consiglia di aggiungere del succo di limone all’acqua di cottura.
Conosciuti anche come cabis, il cavolo bianco e rosso sono protagonisti di molte ricette della tradizione elvetica, come i crauti oppure come classico contorno della selvaggina per il cugino di rosso vestito. Il colore di quest’ultimo è dato dai pigmenti vegetali presenti naturalmente nella pianta, gli antociani.
I cavoletti di Bruxelles sono una verdura relativamente recente e prendono il nome della città in cui sono stati coltivati per la prima volta. Ogni rosetta dei cavoletti è composta da molte foglioline una sopra l’altra che vanno a formare una sorta di piccola verza.
Ingredienti per 4 persone • 500 g di cavoletti di Bruxelles • 300 g di verza o di cavolo cinese • 300 g di cavolo rosso • 2 peperoncini • 1 cm di zenzero • 3 cucchiai di salsa di soia • 1 cucchiaio d’olio di sesamo o di noci • 2 cucchiai d’olio d’arachidi • 1 cucchiaino di succo di limone o di limetta • ½ mazzetto di coriandolo • 1 cucchiaio di semi di sesamo a piacere • sale Come procedere
Rispetto al gusto particolarmente accentuato degli altri cavoli, il cavolo cinese possiede invece un aroma molto delicato, che piace anche ai palati più difficili. Facilmente digeribile, si presta a molte preparazioni, dai classici piatti della cucina asiatica alle croccanti insalate fino alle zuppe di verdure. Il formentino è una delle insalate più amate in inverno o durante le festività di fine anno, grazie al suo sapore raffinato e delicatamente nocciolato. Questa insalata resiste bene alle basse temperature; il freddo influisce addirittura sulla qualità del prodotto e sul bel colore verde brillante.
La ricetta Wok di cavoli
Dimezzate i cavoletti di Bruxelles e lessateli al dente in acqua salata per ca. 10 minuti. Passateli sotto l’acqua fredda e fateli sgocciolare bene. A piacere, estraete i semini dai peperoncini e affettateli finemente. Bagnate i cavoletti con la salsa di soia e l’olio di sesamo. Unite lo zenzero grattugiato finemente. Mescolate bene tutto e fate riposare per 10 minuti. Tagliate la verza a pezzi grossi. Eliminate il fusto dal cavolo rosso e tagliate il cavolo a fettine sottilissime. Scaldate l’olio d’arachidi nel wok o in una padella dal bordo alto. Rosolate la verza e il cavolo rosso a calore molto intenso per 1-2 minuti. Unite i cavoletti di Bruxelles assieme alla marinata e continuate a rosolare a calore alto per ca. 5 minuti rimestando di continuo. Insaporite con la salsa di soia e il succo di limetta. Guarnite con foglioline di coriandolo strappate e cospargete di semi di sesamo. Accompagnate con riso al gelsomino.
La carota è una delle verdure più amate dai consumatori. Incredibilmente versatile in cucina e ricca di vitamina A, il suo consumo regolare può influire positivamente sul benessere di pelle, vista, capelli e fegato. Si gusta cruda da sola, grattugiata in insalata, oppure cotta in una miriade di ricette.
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SOCIETÀ
La giustizia che guarda al futuro
Società ◆ In Svizzera la giustizia riparativa non è ancora entrata nel diritto penale, ma se ne discute soprattutto a livello accademico. Ne parliamo con Annamaria Astrologo, professoressa all’Università della Svizzera italiana
Al termine di un processo penale la sofferenza della vittima o dei suoi familiari difficilmente risulta superata o perlomeno elaborata. Nell’aula penale si dibattono infatti reati di tale gravità da generare conseguenze molto pesanti per chi li ha subiti in maniera diretta o indiretta, come dimostrano regolarmente anche le cronache regionali. Il compito della giustizia penale ordinaria è quello di comminare una pena al colpevole, ma come permettere alle vittime di comprendere in modo adeguato al proprio sentire quanto è successo? Pure dal punto di vista dell’autore del reato possono inoltre esserci vissuti ed eventi irrisolti. La giustizia riparativa, concetto attuale da diversi anni ma non ancora presente nel diritto penale svizzero, si concentra proprio sul rapporto tra autore e vittima, proponendo uno spazio di ascolto e incontro su base volontaria per accogliere i bisogni delle persone coinvolte. Sul significato di questa nozione, sulla sua applicazione nei Paesi europei e su quanto viene promosso nel Canton Ticino abbiamo interpellato Annamaria Astrologo, professoressa titolare all’Istituto di diritto dell’Università della Svizzera italiana (IDUSI), presente nel board del Forum Svizzero sulla Giustizia riparativa (Swiss RJ Forum) e coordinatrice del Gruppo regionale Ticino della medesima associazione. Per la studiosa di diritto penale è innanzitutto doveroso chiarire un principio, ossia che «la giustizia riparativa affianca la giustizia penale tradizionale e non la sostituisce». Quest’ultima rimane «l’imprescindibile punto di riferimento per l’ordine sociale in quanto punisce chi lo trasgredisce e permette di applicare le relative misure di contenimento. Oggi si è però consapevoli che la giustizia ordinaria non è esente da criticità, come appunto la debita considerazione dei bisogni più autentici delle parti coinvolte». Oltre ad autore e vittima, possono essere prese in considerazione la cerchia familiare, la comunità di riferimento fino a inglobare l’intera società. Elaborare i sentimenti negativi legati alle conseguenze di un reato subito, rispettivamente acquisire un senso di responsabilità da parte dell’autore del crimine, permette infatti ai diretti interessati una migliore evoluzione personale con ricadute positive sul loro inserimento o futuro reinserimento nella società. «Le domande che si pongono le
Freepik
Stefania Hubmann
vittime possono apparire banali, ma per loro sono centrali al fine di riuscire a superare il dolore e la rabbia che le tormentano». Così spiega Annamaria Astrologo il genere di problemi con i quali si confrontano le vittime di un reato, offrendo qualche esempio relativo ai casi di violenza sessuale. Gli interrogativi più frequenti infatti sono: «Perché è successo proprio a me?», «Come avrei potuto evitarlo?», «Cosa ho sbagliato?». Prosegue l’esperta: «Da parte sua l’autore sovente non è totalmente consapevole della sofferenza che ha provocato e di conseguenza non si assume la responsabilità di quanto commesso, mantenendo un elevato rischio di recidiva. La giustizia riparativa risulta poi di particolare utilità quando autore e vittima sono uniti da una relazione (come quella familiare) che non può essere annullata malgrado quanto avvenuto». «La giustizia riparativa – prosegue la nostra interlocutrice – è caratterizzata da una modalità di approccio che mette al centro la relazione con l’altro, inserendosi in una più ampia visione di cultura riparatrice applicabile ai conflitti in generale. Conflitti che si possono manifestare negli ambiti più diversi, dal rapporto di coppia alla famiglia, dall’ambiente scolastico a quello professionale». Sul piano penale l’obiettivo non è per forza la riconciliazione, quanto piuttosto la possibilità di un confronto costruttivo che permetta di soddisfare i bisogni del-
le parti. La giustizia riparativa è basata sul consenso volontario ed è mediata da un professionista; nei Paesi che l’hanno formalmente adottata può essere richiesta da ambo le parti durante il procedimento penale oppure in fase di esecuzione della pena. Già precisato che nel nostro Paese l’ordinamento penale non contempla la giustizia riparativa, se non limitatamente ad alcuni casi del diritto penale minorile, nel resto dell’Europa la sua diffusione negli ultimi anni si è intensificata. Questo grazie anche alla dichiarazione dei ministri della giustizia del Consiglio d’Europa al termine della conferenza sul tema svoltasi a Venezia nel 2021. In Italia la giustizia riparativa è stata regolata l’anno successivo con un decreto legislativo. In Belgio invece esiste già dal 2005 una normativa nazionale inclusiva che prevede il diritto di sollecitare un simile servizio per qualsiasi tipo di reato. La norma è stata elaborata con il contributo dello specialista Antonio Buonatesta, che l’anno scorso ha tenuto un corso intensivo all’USI sui concetti di giustizia riparativa e mediazione penale. Quindi anche in Svizzera, perlomeno a livello accademico, il tema viene approfondito. A che punto siamo a livello politico? Risponde la professoressa Astrologo: «La possibilità di inserire questo strumento nel Codice di procedura penale è al vaglio del Consiglio federale. Le autorità si stanno quindi muovendo, ma in generale gli
attori istituzionali dimostrano poca sensibilità sul tema. C’è purtroppo la tendenza a pensare che la giustizia riparativa possa togliere spazio a quella penale, mentre in realtà la arricchisce a beneficio di tutta la società. Un secondo freno è costituito dalla concezione che a livello penale l’atto criminale è ormai giunto al suo culmine, per cui il conflitto non può più essere gestito come avviene invece in altri settori in cui si promuove la mediazione». Un ulteriore aspetto delicato riguarda la necessità di evitare che la giustizia riparativa provochi nella vittima nuovi turbamenti ovverosia una vittimizzazione secondaria. «La giustizia riparativa è uno strumento difficile da gestire – spiega al proposito l’intervistata – per cui sono indispensabili competenze adeguate e interdisciplinari. Ciò significa poter offrire ai mediatori una formazione specifica che permetta loro di preparare e accompagnare le parti nel percorso che hanno deciso di intraprendere incluso un eventuale confronto diretto che non è comunque mai immediato e nemmeno obbligatorio». Tale formazione nella Svizzera italiana al momento non esiste. La priorità del Gruppo regionale Ticino di Swiss RJ Forum è proprio quella di promuoverla a livello postuniversitario. Annamaria Astrologo: «Swiss RJ Forum lavora su molteplici fronti, dalla sensibilizzazione a progetti pilota promossi ad esempio in struttu-
re carcerarie della Svizzera tedesca». Il Gruppo regionale Ticino si sta concentrando sulla possibilità di creare una formazione italofona che deve avere carattere interdisciplinare. Attivo da diversi anni e composto da una trentina di membri con varie competenze, il Gruppo si riunisce a cadenza mensile e ha sede nell’Istituto di diritto dell’Università della Svizzera italiana. L’ateneo ticinese ha infatti ospitato in più occasioni corsi e riflessioni sul tema della giustizia riparativa e dei concetti sui quali si fonda come l’ascolto, al centro di una giornata di studio lo scorso mese di novembre. La violenza che non guardiamo è invece il titolo di un altro convegno, svoltosi l’anno precedente e sempre organizzato dall’Istituto di diritto unitamente all’Istituto di argomentazione, linguistica e semiotica (IALS). La professoressa Astrologo lavora infatti a stretto contatto con la collega Sara Greco, vicedirettrice dello IALS. Le due professoresse animano da tre anni anche il corso di formazione continua «Narrare, dialogare, (ri)costruire» per persone (detenute o ex detenute) seguite dall’Ufficio dell’assistenza riabilitativa. Organizzata in tre giornate intensive, fra teoria e laboratori pratici, la formazione offre un grande insegnamento anche alle formatrici, come testimonia Annamaria Astrologo. «Si tratta in effetti di un’esperienza didattica intensa caratterizzata dal confronto con il particolare vissuto di queste persone che esprimono un forte carico di emozioni». Per la professoressa dell’USI tutte queste iniziative dimostrano come l’istituzione sia impegnata in progetti scientifici legati alla società e al territorio, fungendo da punto di riferimento e coordinamento per i temi emergenti. La giustizia riparativa è uno di questi. Si occupa di sentimenti profondi legati alla fragilità delle persone alle quali è indispensabile garantire cura e professionalità . Da un atto criminale discendono effetti a cascata che coinvolgono più individui, effetti che esulano in parte da quanto viene affrontato nel contesto di un procedimento penale. Le due forme di giustizia volgono in pratica lo sguardo in direzioni opposte, la giustizia ordinaria al passato, la giustizia riparativa al futuro per aiutare a superare paure e dolori. Informazioni www.swissrjforum.ch
Una sosta al Buffet Bellavista
Concorso ◆ Con il trenino del Monte Generoso sabato 20 gennaio trascorrerete un’indimenticabile serata con murtadela e fasöö Nel corso di tutto l’inverno il Buffet Bellavista, situato a 1200 metri lungo la linea che porta in vetta al Monte Generoso, offrirà una serie di serate all’insegna della buona cucina regionale. Il ristorante, da poco ristrutturato, grazie a un’atmosfera intima e curata saprà incantare gli ospiti. «Azione» estrarrà a sorte settimanalmente due ticket che permetteranno di scoprire la bellezza del Monte Generoso. Il prossimo appuntamento, dedicato al gustoso murtadela e fasöö, è previsto il 20 gennaio 2024.
Dove e quando Serata murtadela e fasöö, sabato 20 gennaio 2024, Buffet Bellavista. Orari: Partenza da Capolago ore 19.00, discesa da Bellavista ore 21.30. Prezzi: Trenino e menù a 3 portate, bevande escluse: adulti CHF 60.–; ragazzi 6-15 anni CHF 40.–; bambini 0-5 anni treno gratuito. Info e prenotazioni www.montegeneroso.ch
Concorso «Azione» mette in palio due ticket per il 20 gennaio 2024 che includono ciascuno il biglietto andata e ritorno a bordo del trenino a cremagliera e la cena di tre portate. Per partecipare al concorso mandare una e-mail a giochi@azione.ch (oggetto «Murtadela»), indicando i propri dati entro, lunedì 15 gennaio 2024. Buona fortuna! Per info: www.montegeneroso.ch
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SOCIETÀ
Un formato ridotto per una tecnologia estesa Motori ◆ La nuova Opel Corsa elettrica ha il potenziale di dare un contributo importante alla «democratizzazione» della mobilità a zero emissioni Mario Alberto Cucchi
Anno nuovo vita nuova. Un proverbio nato dalla saggezza popolare che spiega in quattro parole che l’inizio di un nuovo anno spesso porta la voglia e la determinazione per cambiare le cose che non vanno. Ecco allora che, applicando questo proverbio al mondo della mobilità, per alcuni il 2024 potrebbe essere davvero l’anno della svolta. Ma per altri lo è già stato il 2023. Specialmente se si sono messi di recente in garage una vettura elettrica. In questo caso non si tratta di aver comprato semplicemente una nuova quattro ruote ma significa essere entrati da protagonisti nel «nuovo» mondo della mobilità fatto di programmazioni differenti.
Se da una parte aumentano i tempi di autonomia, dall’altra scendono i costi, rendendo le elettriche più accessibili Tempi di ricarica dettati da algoritmi tra kilowatt ora potenziali ed effettivi. Soste alle colonnine con caffè al seguito e preventivi per pannelli fotovoltaici da posizionare sul tetto in modo da caricare gratis, almeno a casa. Di certo chi ha comprato oggi un mezzo elettrico non si può definire un pioniere della mobilità a zero
emissione che ormai esiste da oltre un ventennio. Chi l’acquista oggi è un consumatore che sceglie un prodotto ormai maturo. Utilizzabile senza troppa difficoltà sia nella quotidianità sia nei viaggi. Ma scegliere cosa comprare in modo consapevole non è così scontato. Stiamo vivendo un periodo di transizione in cui è necessario valutare bene le scelte da farsi. Il cambiamento tecnologico è davvero rapido, talmente veloce che è difficile stargli dietro anche per gli addetti ai lavori. Facciamo un esempio. Cosa ci ricorderemo di aver guidato nel 2023? Senz’altro la brillante Mini Cooper S elettrica del 2023 che ha «solo» 200 chilometri di autonomia contro gli oltre 400 del nuovo modello che la sostituisce nel 2024. Pensate che «errore» comprare nel 2023 la «vecchia». Una grande differenza. Le autonomie crescono e i tempi di ricarica diminuiscono in modo proporzionale. Per capire la velocità dell’evoluzione tecnologica che ci aspetta basti pensare al televisore in bianco e nero senza telecomando che molti di noi hanno utilizzato o alla vita senza internet. Sulle auto elettriche moderne i dati da considerare sono: capacità del pacco batterie, consumo di energia per 100 km, capacità di ricarica e peso. Queste le sole cose che conta-
Un’immagine della nuova Opel Corsa elettrica. (Opel)
no per capire cosa si sta comprando. I mezzi non «nativi elettrici», ovvero non studiati sin dall’inizio per essere a zero emissioni, difficilmente oltrepassano i 300 chilometri con una carica. Invece le auto che abbiamo testato alla fine del 2023 vanno da oltre 400 chilometri sino a fino a 700 come l’ultima Peugeot 3008. La sostenibilità a 360° è data da auto che hanno oltre 600 chilometri di
autonomia in ciclo wlpt e che possono caricare anche alle colonnine fast-charge oltre 100 kilowattora. Le automobili che avranno queste caratteristiche saranno sempre di più. E nel frattempo i prezzi scenderanno grazie a Tesla, ma soprattutto grazie ai costruttori cinesi che stanno sbarcando in Europa velocemente uno dopo l’altro. Ci ricorderemo il 2023 per la presa di coscienza
che la via tracciata verso la mobilità a zero emissioni è strada senza di ritorno. Se così non dovesse essere falliranno molti costruttori che ormai troppo hanno investito solo ed esclusivamente in questa direzione. Ecco perché tra le auto provate a fine 2023 e in vendita dal 2024 ci ricorderemo senz’altro la nuova Opel Corsa elettrica. Dalla sua presentazione nel 1982 ne sono state vendute nel mondo circa 15 milioni. In moltissimi ci sono saliti almeno una volta, tanti hanno guidato magari quella di un amico o di un parente e altrettanti l’hanno comprata. Ecco perché quella presentata oggi riveste un’importanza particolare, per non dire epocale. Si tratta di un prodotto maturo dotato di una grande autonomia. Facile da ricaricare. Istintivo da usare e con un prezzo corretto. Da 32’790 CHF ma soprattutto da 299 CHF al mese. Con 136 cavalli che diventano 156 con tremila franchi in più. Fino a 405 chilometri di autonomia con tempi di ricarica di soli 30 minuiti per passare dal 20 all’80%. «Piccolo formato ma grande tecnologia» dicono gli uomini Opel. Come dargli torto, stiamo parlando di un mezzo che darà un aiuto sostanziale per la «democratizzazione» della mobilità a zero emissioni. Ne siamo convinti e per questo ce la ricorderemo. Annuncio pubblicitario
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SOCIETÀ
Un cuore che ha bisogno di movimento Salute ◆ L’attività fisica regolare diminuisce il rischio di sviluppare fibrillazione atriale e ictus Antonio Caperna
Fare attività fisica diminuisce il rischio di sviluppare fibrillazione atriale e ictus. Lo afferma uno studio su oltre 15mila persone, presentato al recente Congresso europeo di cardiologia – Esc di Amsterdam1. La fibrillazione atriale (FA) è il più comune disturbo del ritmo cardiaco (o aritmia) in cui la contrazione delle cellule atriali del cuore (i miociti) non avviene in sincronia ma in modo indipendente, determinando un battito molto rapido e disorganizzato. Si stima che un europeo su tre svilupperà questa condizione nella propria vita con un rischio di ictus cinque volte maggiore rispetto ai loro coetanei.
Fra i sintomi allarmanti vi sono palpitazioni, affaticamento o stanchezza, vertigini, svenimenti, affanno e dolore al petto La cavità superiore del cuore (atrio) pompa meno sangue del necessario nella cavità inferiore (ventricolo) quindi parte del sangue ristagna nell’atrio creando una condizione assimilabile alla stasi venosa periferica. È quindi possibile che si formi un coagulo, il quale si può frammentare o staccare e, attraverso la circolazione, arrivare fino al cervello determinando una parziale o completa occlusione di un’arteria cerebrale. La conseguenza è una variabile riduzione dell’apporto di ossigeno al cervello che si concretizza nell’ictus o il TIA (Transient Ischemic Attack, se si risolve clinicamente entro 24 ore). Nel nostro Paese risulta essere l’aritmia più frequente e ne sono colpite circa 100mila persone. La prevalenza nel mondo è di circa l’1-1,5% nella popolazione generale. Si stima che in Europa siano 4.5 milioni i soggetti affetti da FA e nel mondo si superino i 40 milioni 2. La prevalenza aumenta con l’età, con una incidenza che raggiunge il
9-10% nella popolazione sopra i 7580 anni ed è maggiore negli uomini rispetto alle donne. Lo studio, presentato ad Amsterdam, ha coinvolto 15’450 individui senza fibrillazione atriale, che sono stati sottoposti a un test su tapis roulant tra il 2003 e il 2012. L’età media era di 55 anni e il 59% era di sesso maschile. La forma fisica è stata valutata utilizzando il protocollo Bruce, in cui ai partecipanti veniva chiesto di camminare più velocemente e con una pendenza maggiore in fasi successive di 3 minuti. Inoltre è stata calcolata in base al tasso di dispendio energetico raggiunto dai partecipanti, espresso in equivalenti metabolici (MET) 3. I partecipanti sono stati seguiti per fibrillazione atriale di nuova insorgenza, ictus, infarto miocardico e morte. I ricercatori hanno analizzato le associazioni tra forma fisica e fibrillazione atriale, ictus ed eventi avversi cardiovascolari maggiori (ictus, infarto miocardico e morte), dopo aver aggiustato i cosiddetti «fattori confondenti» come l’età, il sesso o il colesterolo. La scoperta chiara è stata che una maggiore forma fisica è associata a una minore probabilità di sviluppare fibrillazione atriale. Ciò significa che rimanere attivi e mantenere un buon livello di fitness può potenzialmente ridurre il rischio di questa patologia cardiaca. Infatti è stato rilevato un rischio inferiore dell’8% di fibrillazione atriale, del 12% di ictus e 14% di eventi avversi cardiovascolari maggiori. I partecipanti sono stati divisi in tre livelli di forma fisica in base ai MET raggiunti durante il test sul tapis roulant: basso (meno di 8,57 MET), medio (da 8,57 a 10,72) e alto (più di 10,72). La probabilità di rimanere liberi dalla fibrillazione atriale per un periodo di 5 anni è impressionante: 97,1% per il gruppo a bassa forma fisica; 98,4% per il gruppo a media forma fisica e 98,4% per quello ad alta forma fisica. Che si tratti di correre, andare in palestra, ballare o persino fare le scale invece di prendere l’ascenso-
lazione senza fibrillazione atriale. La malattia aumenta anche il rischio di insufficienza cardiaca e disfunzione ventricolare sinistra. Comporta d’altra parte una più frequente ospedalizzazione e una limitazione della qualità della vita e del benessere globale a causa sia dei sintomi che degli effetti delle terapie. Negli ultimi 20 anni si è registrato un aumento importante delle ospedalizzazioni per vari motivi: l’aumento dell’età media della popolazione; la sempre maggiore diffusione delle patologie cardiovascolari croniche e un diverso approccio alla diagnosi. La patologia risulta quindi un problema di sanità molto importante anche dal punto di vista economico. Per questo è importante ricordare che il corpo è stato progettato per muoversi e i benefici vanno ben oltre il semplice aspetto esteriore. La forma fisica svolge un ruolo fondamentale nel proteggere il cuore e nel mantenerlo in perfetta forma. Salire le scale, anche in casa, è una delle molte piccole cose che possiamo fare per migliorare il nostro stile di vita. (Freepik)
Note The abstract Exercise performance and the risk of incident atrial fibrillation presentato nel corso del Congresso. 2. Hindricks G, Potpara T, Nikolaos Dagres N, et al. 2020 ESC Guidelines for the diagnosis and management of atrial fibrillation developed in collaboration with the European Association of Cardio-Thoracic Surgery (EACTS). Eur Heart J. 2021; 42:373–498. 3. Un equivalente metabolico (MET) è il tasso di dispendio energetico, o consumo di ossigeno, mentre si è seduti tranquillamente (1 kcal/kg/ ora o 3,5 ml/kg/min). Le attività leggere (stare in piedi, camminare lentamente) utilizzano meno di tre MET, le attività di intensità moderata (camminata veloce) utilizzano da tre a sei MET e le attività ad intensità vigorosa (jogging, giocare a calcio) utilizzano più di sei MET. 1.
re: ogni piccolo gesto è importante per muoversi e prevenire un disturbo cardiaco estremamente variabile. La fibrillazione atriale, infatti, è in molti casi asintomatica (dal 10% al 40%) tanto che la prima manifestazione può essere una complicanza embolica (come l’ictus) o l’esacerbazione di una patologia cardiaca sottostante come l’insufficienza cardiaca. I sintomi più frequenti includono palpitazioni, affaticamento o stanchezza, vertigini, svenimenti, affanno, dolore al petto. Una pulsazione irregolare deve comunque far sospettare e richiede un approfondimento diagnostico attraverso esami specifici. Per questo l’elettrocardiogramma (ECG), esame che registra il ritmo e l’attività elettrica del cuore, permette la verifica sicura di un episodio della malattia. Dal momento che risulta difficile ri-
uscire a cogliere l’episodio di fibrillazione atriale, il medico può richiedere al paziente di indossare un piccolo apparecchio ECG portatile (Holter) durante il normale svolgimento delle attività quotidiane. Questo strumento tiene traccia del battito continuativamente per 24 ore. È dimostrato come il rischio d’insorgenza aumenti con l’età e raddoppi ogni 10 anni. Altri fattori di rischio sono i difetti congeniti del cuore, le cardiomiopatie, i difetti del setto atriale, le patologie valvolari, l’ipertensione, la coronaropatia, l’insufficienza cardiaca (scompenso), l’obesità, il diabete, la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), i disturbi della tiroide, l’abuso di alcol e la storia familiare di fibrillazione atriale. L’evento più grave è la morte, con un rischio raddoppiato rispetto alla popo-
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Viale dei ciliegi Lucy Fleming Ella e le luci della notte Emme Edizioni (Da 4 anni)
Un racconto gentile e delicato per illuminare le lunghi notti d’inverno, ma anche tutte le notti dell’anno, e soprattutto le notti dell’anima, quando dentro di noi cala qualche ombra, di ansia, tristezza o paura. La luce che Ella raccoglie di notte – «la luce sfavillante delle stelle, quella tremolante dei lampioni, e anche quella argentata dei ciottoli del fiume che riflettevano i raggi lunari» – per donarla «a chi si era perso nell’oscurità» è metafora del prendersi cura amorevolmente dell’altro. Ai bambini, che certo ne faranno prima di tutto una lettura letterale, com’è giusto che sia, questo significato profondo arriverà di certo, grazie alla dolcezza del tratto di Lucy Fleming, illustratrice britannica qui al suo esordio anche come autrice. Ella ha antenne di piuma e soffici ali da falena, vive nel tronco di una quercia, sembrerebbe una fata, ma ciò non viene detto, ed è questo il bello. Ella entra in scena direttamente, presentata come «una minuscola bambina». È il magico, che irrom-
di Letizia Bolzani
pe imperturbabile nella prospettiva infantile di guardare il mondo. Una minuscola bambina, con antenne di piuma e ali di falena, che vive in una minuscola tana, può essere una «normalità», una meravigliosa normalità. Però le ali da falena di Ella sono talmente sottili e delicate da non sopportare la luce del sole, che lei non ha mai visto, anche se desidererebbe tanto vederla, all’alba. Ella vola di notte, raccoglie la luce e la dona ai dispersi, agli ultimi, ai sofferenti: «Non aver paura della notte scura. Ti lascio la mia luce che brilla e ti conduce». C’è sempre qualcuno che ha bisogno di luce. A Ella si legheranno in par-
ticolare una volpe e una civetta, che prenderanno a cuore il suo desiderio di vedere il sole e riusciranno a esaudirlo. Un albo da leggere insieme, tenendosi vicini, avendo cura di tenere acceso il nostro piccolo lume interiore. Il libro è dedicato: «A tutte quelle persone che rendono il mondo un posto più luminoso». Christine Schneider Illustrazioni di Hervé Pinel Una giornata al museo Il Castoro (Da 5 anni)
Tra i vari albi che presentano l’arte ai bambini scegliamo questo, perché non forza le opere d’arte facendone scaturire arbitrariamente dei racconti, e non è neanche d’altra parte solo didattico-didascalico, ma ha una sua dimensione immaginifica e può fungere davvero da primo incoraggiamento a guardare i quadri, ad apprezzare una visita al museo, a lasciarsi andare al piacere dell’opera d’arte. Un albo illustrato che parla di estetica ai bambini, con rispetto, umorismo, leggerezza, serietà, dal punto di vista loro. Il fulcro della storia è GranGrosGri (Grande Gros-
so Grigio), un elefante amico «immaginario» (ma quanto reale!) della bimba protagonista, Iris. Piove, Iris si annoia e GranGrosGri le propone di andare a «divertirsi» al museo. Già qui, sul concetto di divertirsi, emerge un tema interessante. Divertirsi non è scivolare sul parquet lucidato, come di primo acchito vorrebbe fare la bambina, ma divertirsi è guardare i quadri. L’esperienza estetica come divertimento, questo insegna l’elefante a Iris, diventandone il vero mentore ma senza paternalismi né pesantezze. Guardare le opere d’arte è qualcosa di bello, di divertente. Non qualcosa che si deve fare per im-
parare. In questo museo, chiaramente ispirato al Louvre e tuttavia immaginario, i due ammirano capolavori come il Paesaggio invernale di Bruegel Il Vecchio, La zattera della Medusa di Géricault, La Gioconda di Leonardo, L’urlo di Munch, L’autunno di Arcimboldo, Iris di Van Gogh e molti altri, dei quali nelle ultime pagine troviamo l’elenco, completo di dati storici essenziali. Tra l’altro ogni quadro è riprodotto in modo eccellente da Hervé Pinel, marito dell’autrice, con cui realizza da anni libri per bambini. Per ogni quadro ci sono nel corso della narrazione dei suggerimenti tecnici, storici, espressivi, rigorosi ma non calati dall’alto, anzi esposti con empatia nel dialogo tra l’elefante e la bambina, alla quale è lasciata la libertà di vivere pienamente e con gioia la sua fruizione artistica. Nel finale si torna alla realtà. Iris forse ha sognato tutto, domani sarà la nonna a portarla al museo, ma quell’onirico elefante campeggia sullo sfondo a ricordarci quanto l’arte vada apprezzata giocosamente, con immediatezza, aprendo occhi e cuore al mistero. Un libro che aprirà occhi e cuore dei bambini alla bellezza dell’arte.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVII 8 gennaio 2024
azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ / RUBRICHE
Approdi e derive
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di Lina Bertola
Un augurio particolare ◆
Poco prima di Natale ho fatto visita a un’anziana signora, cara amica di mia madre, che mi ha congedata con un augurio molto particolare. «Abbi cura di te!». Erano le stesse identiche parole che sempre mi rivolgeva la mamma, con voce flebile quanto appassionata, dal fondo della stanza della sua vecchiaia. Questa cura di sé, affettuosamente evocata, va ben al di là del suo significato terapeutico, si rivolge più in profondità al tessuto della nostra esistenza, al nostro camminare nella vita, giorno dopo giorno. Forse non è un caso che questo auspicio mi veniva e mi viene ancora oggi rivolto da persone molto anziane, ormai estranee alle formule beneauguranti che si moltiplicano attorno a Natale e all’inizio di ogni anno. Formule impersonali, rivolte ai giorni a venire, nella speranza che le cose desiderate, dalla salute all’amore, dal successo professionale ai beni materiali, possano venirci incontro dentro
paesaggi nuovi della vita. Che capiti qualcosa di buono, insomma, affidiamoci alla fortuna! Le parole della anziana signora non si riferivano invece all’attesa di qualche buona occasione che ci possa felicemente sorprendere ma erano rivolte direttamente al mio cuore, come se sapessero che alla fine toccherà a me dar forma ai giorni che verranno. Rispetto a tanti auspici di felice anno nuovo, corredati da immagini di brindisi, maialini portafortuna, coccinelle e quadrifogli, in quell’«abbi cura di te» risuonano parole davvero inattuali. Parole che portano con sé il valore grande di ciò che, proprio perché inattuale, resiste al mantra di tanti luoghi comuni, di pensierini e rituali à la page, spesso allegra prigione di un’omologazione collettiva. È davvero inattuale, démodé, questo auspicio che bussa alla soglia del nostro mondo interiore per invitarci ad averne cura, a prestare atten-
zione, giorno dopo giorno, al nostro modo di vivere e di convivere, perché la sorgente di una vita buona e felice è in noi, fortuna permettendo, ma anche no. In queste parole inattuali è custodito un messaggio indelebile della saggezza antica. La cura come sorgente di una vita buona è infatti un tema centrale fin dalle radici della nostra civiltà, fin dall’esperienza socratica, contenuta e sviluppata in tanti dialoghi platonici. Basti pensare all’Apologia, in cui Socrate si difende dai suoi accusatori dicendo che lui non ha fatto altro che insegnare a chi lo ascoltava ad avere cura di sé, e cioè ad aver cura della propria anima affinché potesse acquisire la forma migliore possibile. Non bisogna preoccuparsi di ciò che si può avere dalla vita, sosteneva, ma di ciò che si può essere. Seppur con sfumature talvolta molto diverse, questo monito ha alimentato
secoli di saggezza. I pensieri raccolti nel manuale dello stoico Epitteto, ed è solo un esempio tra molti possibili, sono una vera e propria bussola esistenziale per orientare e per dar forma al proprio vivere e convivere. Prendersi cura della vita significa anche saper accettare ciò che non possiamo modificare, perché comunque non sono le cose, ma siamo sempre noi i responsabili, anche dei nostri turbamenti. Questo richiamarci al centro della nostra vita rimane sullo sfondo nel brindare al nuovo anno. Trascinati sulla giostra di un mondo triste che non vuole sapere di esserlo e si inventa tante piccole felicità, facciamo fatica a metterci all’ascolto di noi stessi, delle sfumature di una vita sempre vulnerabile, sempre incompiuta, sempre in attesa di uno sguardo attento. E così guardiamo fuori, in attesa che ci capiti qualcosa di buono. In mezzo a tanti sorrisi spettacolo
qualcosa della nostra umanità rimane silenzioso. Ma è proprio questo suo silenzio a chiedere di aver cura di noi stessi e dagli altri. Perché la cura della propria vita è anche cura dei legami, del nostro stare insieme. Perché l’attenzione alla vita è un modo di esserci, un modo di abitare la vita insieme agli altri. È una postura di gentile accoglienza, di tenera condivisione. C’era tanta tenerezza nelle parole donatemi dalla vecchia signora. Scrive lo psichiatra Eugenio Borgna: «Non c’è cura dell’anima e del corpo se non sia accompagnata dalla tenerezza che, oggi ancor più che nel passato, è necessaria a farci incontrare gli uni con gli altri, nell’attenzione e nell’ascolto, nel silenzio e nella solidarietà». E aggiunge: «non c’è tenerezza che non nasca dall’interiorità, dalla soggettività e dalla consapevolezza che siamo tutti chiamati a un comune destino di dignità e di libertà».
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Terre Rare
di Alessandro Zanoli
Quando il cervello non basta ◆
Nell’annosa discussione su pregi e difetti dell’intelligenza artificiale (IA) ha introdotto alcuni suggerimenti interessanti Roberto Viola, direttore generale per le Reti di comunicazione, contenuti e tecnologie della Commissione europea, nel corso di una stimolante conferenza proposta qualche settimana fa a Lugano dalla Fondazione Moebius. Il suo competentissimo intervento ha avuto, per chi scrive, il merito di sollecitare alcune riflessioni, che si sono perfezionate alla luce di altre informazioni diffuse dalla stampa nelle settimane successive. Il punto è molto semplice, se non banale, e forse molti dei lettori c’erano arrivati prima del sottoscritto. Se si indirizzano da più parti tante energie e si investono tanti capitali nel settore dell’intelligenza artificiale, è perché ci si rende conto che quella «natura-
le» non è più all’altezza dei compiti richiesti per garantire uno standard di vita accettabile agli esseri umani. In altre parole, è possibile che il cervello umano non sappia in tempi ragionevoli trovare una soluzione ai problemi che con le sue sole forze biologiche ha causato al nostro stile di vita occidentale. Uno degli esempi che Viola ha proposto al pubblico è il calo generalizzato della produttività nelle società evolute. Si tratta di indicazioni precise che le autorità europee hanno tratto da studi sull’argomento. Crea preoccupazione il dato oggettivo che tanto più migliora lo standard di vita degli esseri umani, tanto minore risulterebbe la loro capacità di rispondere in maniera efficace alle necessità di innovazione nella continua presa a carico dei bisogni della popolazione. Avremmo voluto chiedere a Vio-
Le parole dei figli
la se in queste défaillances fosse compresa anche l’impossibilità di trovare una soluzione al problema dei costi di Cassa malati per i cittadini svizzeri, ma ci è mancato il coraggio di spiegargli il dramma… Scherzi a parte, il problema del calo di produttività è sentito in maniera tanto seria da spingere la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, a incaricare Mario Draghi di occuparsi della questione. Ora, proprio in questo, come in altri contesti, il contributo dell’intelligenza artificiale sembra davvero determinante. Da un punto di vista farmaceutico, ad esempio, pare che l’IA stia affrontando in modo molto efficace il tema della scoperta di nuovi antibiotici, mettendo così nelle mani dei medici nuove terapie e superando le preoccupazioni legate allo sviluppo di resistenze da parte
dei microorganismi patogeni. In altri settori della chimica l’IA si sta dando da fare addirittura per individuare nuove molecole e nuovi materiali, rivoluzionando le nostre conoscenze e offrendo nuove possibilità di sviluppo all’industria. I campi dello scibile umano che sono passibili di miglioramenti concreti sono molti e a tutti questo nuovo strumento di lavoro promette nuove prospettive. Il metodo stesso del suo funzionamento, la sua capacità di trovare nuovi collegamenti inusitati tra vari campi della conoscenza umana è assai promettente. Nel corso della sua conferenza Roberto Viola si è concentrato in particolare sugli aspetti della nuova medicina: il medico del futuro, coadiuvato dall’IA sarà in grado di correlare informazioni e dati diagnostici in modo efficace e veloce, trovando spun-
to per i migliori trattamenti. In una società sovrappopolata, che soffre di una cronica mancanza di curanti (come già oggi sperimentiamo), l’introduzione della nuova tecnologia sarà non solo auspicabile, ma necessaria. In conclusione, visto l’inevitabile destino a cui la nostra civiltà sta andando incontro, da un lato sarà importante che le autorità mantengano un alto e competente controllo sull’uso dello strumento. Viola stesso annovera tra gli strumenti di difesa contro gli aspetti più nocivi di questa tecnologia (che sperimenteremo di sicuro) una vigile attenzione della comunità scientifica e degli stessi utenti. Insomma, lasciamola lavorare ma teniamola d’occhio. Per noi il lavoro è appena all’inizio. Più sarà implementata, più dovremo vigilare. Come già detto, sarà dunque un doppio lavoro, altro che semplificazione.
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di Simona Ravizza
Feat.
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«In auto a trecento all’ora (No, no), non ho mai finito scuola (No, no) / Volevo le tasche piene (Bu, bu), avevo la testa vuota (Bu, bu) / Quando il vuoto è nella pancia, faresti qualsiasi cosa / Che tutto è meglio di niente se è niente che ti circonda (Money Gang) / E sto un po’ giù (No, no) se ripenso a mio pa’ (No, no) / Non ha mai visto mio figlio né suo figlio diventare una star (Uh)». In auto con la mia 15enne Clotilde, sul display della radio scorre Momenti No di Sfera Ebbasta feat. Tedua. È l’ennesima volta che nei titoli delle canzoni preferite dalla mia adolescente mi capita di vedere comparire la scritta feat., abbreviazione di featuring, o addirittura anche solo f.. Che cosa sta dietro questa Parola dei figli? Nel gergo musicale il termine – tradotto dall’inglese – significa «in collaborazione con…», a indicare che due o più artisti fanno una canzone insieme.
In macchina adesso risuona: «Ho il culo sopra una Rolls e se l’inferno è low cost / Non seppellitemi coi soldi quando morirò / Non mi affeziono da un tot e lei mi scrive ogni notte / Ma nel cuore non ho niente, ho solo money love». La canzone è Moneylove di Massimo Pericolo feat. Emis Killa. E in cima alla classifica delle canzoni più ascoltate su Spotify nel 2023 ci sono quasi tutte feat.: Gelosa di Finesse, feat. Shiva, Sfera Ebbasta e Guè; Hoe di Tedua, feat. Sfera Ebbasta; Il male che mi fai di Geolier, feat. Marracash; e la lista continua. Ma perché nel rap, musica di riferimento della Gen Z – mi domando – la feat. è tanto diffusa? Per capirci di più mi rivolgo al collega Andrea Laffranchi, esperto di musica al «Corriere della Sera» che, giusto per farmi sentire subito una boomer, mi fa presente che ai nostri tempi li chiamavamo duetti. Il mio
preferito è quello di Fausto Leali e Anna Oxa, a Sanremo nel 1989 con Ti lascerò. Lui: «Ti lascerò andare / Ma indifesa come sei / Farei di tutto per poterti trattenere / Perché dovrai scontrarti / Con i sogni che si fanno / Quando si vive intensamente / La tua età». Lei: «Ti lascerò decidere / Per chi sarà al tuo fianco / Piuttosto che permettere / Di dirmi che sei stanco / Lo faccio perché in te / Ho amato l’uomo e il suo coraggio / E quella forza di cambiare / Per poi ricominciare». Memorabile, sempre al Festival, anche Vattene amore, 1990, Mietta e Amedeo Minghi: «Magari ti chiamerò Trottolino Amoroso, Dudu dadadà» E, per dire, nel 1997 nella hit Can’t stop thinking of you Eros Ramazzotti duetta niente meno che con Tina Turner. Ma la collaborazione tra Mietta e Amedeo Minghi nasce a uso e consumo della kermesse sanremese; Fausto Leali e Anna Oxa
diventano grandi amici solo dopo il Festival, mentre Tina Turner si incuriosisce alla storia di Eros che le piace, contatta la sua casa discografica e chiede al manager: «Vorrei fare un duetto con lui». In sintesi, il duetto dei nostri tempi è una collaborazione artistica tra due o più cantanti dietro cui c’è, anche e soprattutto, una strategia di marketing: spesso i cantanti prima di condividere il microfono non si conoscono neppure. Certamente anche oggi unire i fan dell’uno e dell’altro per fare più streaming (ossia più ascolti su piattaforme con Spotify) è uno dei motivi della diffusione dei feat. ma c’è dell’altro. Innanzitutto, il ruolo del produttore che adesso ama apparire in prima persona. Per esempio in Gelosa, che abbiamo citato prima, Finesse, già nominato ai Grammy, firma la canzone mettendo insieme artisti della propria scuderia. Lui fornisce il
sound, gli altri la voce, insieme fanno una feat. Ma a me, e Andrea è d’accordo, piace anche vederci dell’altro ancora. Nel rap le feat. avvengono il più delle volte tra rapper che hanno storie simili fatte di infanzie difficili, periferie e riscatto. In Momenti No, Tedua canta: «Le cose che avevo eran poche, ma dopo le ho pre-pre-pre-prese», a rimarcare che sia lui sia Sfera vengono dalla strada e poi: «Ho un brivido lungo la schiena ora che Sfera è diventato pa’ (Giona) / Io a ventinove anni ho conosciuto mio papà (Solo ora)». Dietro Colori di Tedua feat. Rkomi c’è l’esser «figli dei film visti insieme», ai tempi della casa condivisa, come canta Tedua stesso in un’altra canzone, Lo-fi for you. Insomma, ci piace pensare che dietro alle feat. non ci siano solo collaborazioni commerciali ma anche storie d’amicizia. Valore molto caro alla Gen Z.
Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVII 8 gennaio 2024
azione – Cooperativa Migros Ticino 11
TEMPO LIBERO ●
Nel futuro dei Guaranì Un reportage da Misiones, Argentina, dove in bilico tra tradizione e nuove sfide vive il popolo dei Guaranì, un tempo sotto l’egida dei gesuiti
Uno sfizioso piatto di spaghetti Oltre a pomodori secchi e pecorino, a rendere speciale questo piatto è il fioretto, gustoso incrocio tra broccolo e cavolfiore
Alla scoperta dei tesori della Grecia Affascinante viaggio nella Grecia classica e nel complesso di Meteore dal 4 al 12 maggio con Hotelplan
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Pagina 17 ◆
Fabio Guglielmini, lo strongman… delle nevi
Adrenalina ◆ Ritratto del primo e unico istruttore svizzero dello sport di forza che comprende elementi del sollevamento pesi Moreno Invernizzi
Il cuore batte a mille. Pulsa come un martello. Quando ci si spinge al limite, e anche oltre, ogni muscolo del proprio corpo è reattivo, l’adrenalina scorre a fiotti nelle vene. Sensazioni, queste, con cui Fabio Guglielmini ha imparato a convivere. Anzi, rappresentano una sorta di pane quotidiano per il giovane ventinovenne che ha fatto della costante ricerca dei suoi limiti personali una sorta di credo. Sciatore? Bodybuilder? Strongman? Sì e no. In lui c’è sicuramente un po’, o parecchio, di tutto questo. Ma egli non si identifica con nessuna delle tre discipline. «Sono conosciuto come una “figura sportiva” e non solo, ma non ho una disciplina particolare in merito. O, meglio, ho quella di inseguire un sogno, e questo sogno si chiama record», tiene a chiarire come preambolo della chiacchierata.
La vita di Fabio Guglielmini è una costante sfida nella sfida, dove a farla da padrona sono disciplina, organizzazione e studio Per raccontare la vita di Guglielmini in seimila caratteri e spiccioli occorre fare un non indifferente esercizio di sintesi. La sua è una costante sfida nella sfida, alla ricerca dell’apice della prestazione. «Voglio un primato, un record del mondo, di quelli che entrano di diritto nel Guinness dei primati, per intenderci. Ne ho uno in attesa di certificazione, ma finché non sarà nero su bianco non voglio rivelare di cosa si tratta. La concorrenza, in questo campo, è parecchia». Ci sono sostanzialmente due vie per ottenere un riconoscimento: una direttissima costosa, una con «corsia preferenziale», pure onerosa, e quella «fai da te», senza grosse spese ma per questo più lunga da percorrere. Lui ha scelto quest’ultima, anche perché, appunto, Fabio Guglielmini è sempre in evoluzione e alla ricerca di collaborazioni aziendali. Fabio è un ragazzo che si è costruito da sé. Arrivato dalle favelas brasiliane, passando poi dalle piste da sci, dalle palestre come pure dalla piscina. Entrare nel Guinness dei primati per la prima volta, a ogni buon conto, per lui sarebbe solo il punto d’inizio, «il passo più importante da fare del percorso, oltre che il più complicato. Poi la via sarebbe un po’ più in discesa: potenzialmente potrei realizzare un’altra trentina di primati, di nuovi o battendone altri». In cosa di preciso? «È relativo. Perché alla fine dei conti non è la disciplina che fa il campione, ma la mentalità. Ci vuole tanta organizzazione, studio, pianificazione e disciplina, oltre che, ovviamente, il fisico e l’animo. Per que-
Fabio Guglielmini impegnato sulle piste da sci, una delle numerose discipline in cui eccelle.
sto ogni cosa nella mia vita è scandita come fosse un cronometro, divisa tra il lavoro e la preparazione, fisica e mentale». La determinazione non gli manca, forgiata anche da un’infanzia segnata dalla strada, quella delle favelas brasiliane e dall’orfanotrofio, dove ha vissuto prima di arrivare in Ticino. Poi le piste da sci, sulle quali è arrivato da giovanissimo, seguendo la scia di famiglia (e in particolare del papà, allora membro dei quadri tecnici di Swiss Ski) e facendosi notare sin dalle prime gare. Facendo leva sulla sua doppia nazionalità, svizzera e brasiliana, ha optato per difendere i colori della nazionale sudamericana sulle piste. «Con tutti i limiti che questa scelta comporta, visto che, logicamente, in Brasile lo sci non è propriamente uno sport nazionale, anzi, ne consegue che per competere a un certo livello devi fare affidamento quasi esclusivamente sulle tue risorse, anche finanziarie». Fabio però non è il tipo da arrendersi alla prima diffi-
coltà, per nulla. Anzi, è proprio quel genere di persona che di fronte a un ostacolo, per insormontabile che possa apparire, cerca la soluzione che gli permetta di superarlo. «Questa è la mia filosofia di vita. Nello sport per eccellere occorrono sì le qualità, su questo non ci piove, ma non è tutto e, anzi, direi che non è la componente fondamentale per il successo. Per arrivarci è necessaria anche la mentalità giusta, quella “fame” e allo stesso tempo quella resilienza necessarie a scalare le montagne». Questo ragazzo, dopo aver lasciato le piste da sci («Ma non è che lo sci sia un capitolo chiuso: quella è una porta che resta sempre socchiusa per me. Dopotutto è anche grazie allo sci che ho forgiato la base dello sportivo che sono diventato ora») è approdato in palestra. Ma non per fare la «semplice» muscolatura in vista della successiva stagione bianca: per plasmare la sua corazza. Qui entra in scena lo strongman, disciplina molto spettacolare nata come arte circense. «Lo strongman mi
ha sempre appassionato, sin da piccolo. Appena avevo la possibilità guardavo quei marcantoni sollevare ogni tipo di peso, trascinare una macchina piuttosto che la carlinga di un piccolo aereo. Sì, quella, mi sono detto, è una disciplina che voglio provare e grazie a Francesco Gioia e al suo Bunker 48 ho potuto conseguire il certificato di allenatore». Detto e fatto, quasi fosse come bere un bicchier d’acqua per un ragazzo che energia (e forza) pare averne da vendere. «Mi sono dedicato anima e corpo alla cura del mio fisico, della mia forza. Ore e ore passate in palestra a sollevare bilancieri, o a correre (spesso e volentieri di notte, sembra un paradosso, ma sono un tipo schivo, non mi piace la “folla”), oppure ancora a nuotare in piscina, zavorrato con un giubbotto di 15 kg (cosa che ovviamente non manca di suscitare l’attenzione degli altri bagnanti). Un po’ in Ticino e un po’ in Italia, perché non è facile da noi trovare le strutture adatte e le persone predisposte per questo genere di sport».
L’incontro con Francesco Gioia gli ha permesso di certificarsi e identificarsi in una disciplina funzionale, segnando una svolta nella sua evoluzione. «Mi sono allenato nella sua palestra seguendo il corso per diventare istruttore strongman, il primo e sinora unico in Svizzera». E questo, se si vuole, è già un primato che nessuno gli può togliere. Ma Fabio Guglielmini non si vuole certo fermare qui. La sua determinazione è quella di un ragazzo che vuole e può arrivare al successo del riscatto in diversi ambiti e, soprattutto, il suo è un fisico che quando si trova davanti a una montagna, se non riesce a scalarla, gli permette di sollevarla per lasciarsela alle spalle. Non resta dunque altro da fare che chiudere questa chiacchierata, prima di lasciarlo tornare al lavoro con gli allenamenti (e una speciale maschera per accentuare lo sforzo, per non farsi mancare niente), con un augurio, quasi scontato… preso a prestito da George Lucas e Guerre Stellari: «Che la forza sia con te…».
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVII 8 gennaio 2024
azione – Cooperativa Migros Ticino
C’era una volta Tupá-Mbaé, il mon
Reportage ◆ Sono molte le sfide con cui deve confrontarsi il popolo dei Guaranì dello Stato argentino Misiones, dalla difesa di uno s Enrico Martino, testo e foto
Donna Guaranì con il suo bambino; sotto, uno scorcio del mondo dei Guaranì; nella pagina accanto, lo sciamano con un antico violino annerito dal tempo e un Guaranì mentre realizza un oggetto artigianale.
La risposta che cercavo me la rivela Victoriano quando, messa da parte un’ancestrale diffidenza, esce dalla capanna-tempio vietata agli estranei con uno degli oggetti più sacri della comunità Guaranì di Guavirà-Poty, un violino annerito da secoli di pioggia e umidità che rigira con delicatezza tra le sue mani di sciamano, come se avesse paura di spezzare l’incantesimo di questa macchina del tempo. Un’autentica illuminazione che riscatta tutta la polvere mangiata lungo le piste di terra rossa che tagliano come un coltello quello che resta della foresta pluviale, quasi il sequel perfetto dell’ultima sequenza del film Mission in cui un giovane Guaranì sparisce nella selva con un violino che ha salvato dal saccheggio dei soldati portoghesi.
Queste piccole comunità non sono assediate solo da coloni e alcolismo, ma soprattutto dalla televisione – con partite e telenovelas – dai social Un momento all’altezza dell’incredibile utopia sociale del Sagrado Esperimento, e una risposta all’interrogativo che mi ha portato quaggiù, alla ricerca di dove fossero finiti i Guaranì dopo la fine delle reducciones, le missioni dei gesuiti disseminate tra Paraguay, Brasile e Argentina bollate nei secoli come proto-comunismo o teocrazia, lodate da illuministi come Voltaire e Montesquieu. In
realtà la loro colpa è stata soprattutto quella di rappresentare un’intollerabile sfida per i Governi coloniali spagnoli e portoghesi, che nel 1750 si accordarono per spartirsi il cosiddetto «Stato gesuita Guaranì» con l’avvallo di papato e governanti europei. Per capire cosa fosse realmente questo mondo perduto che i Guaranì chiamavano Tupá-Mbaé, «quello che è di Dio», bisogna raggiungere lo stato argentino di Misiones, una sottile striscia di territorio incuneata tra Paraguay e Brasile dove si consumò l’ultimo tragico capitolo dell’esistenza delle trenta missioni fondate dai gesuiti dopo il 1609. Dopo una breve e disperata resistenza tra il 1754 e il 1756, guidata in alcuni casi da gesuiti con esperienze militari che si ribellarono con coraggio agli ordini dei superiori, la maggioranza dei Guaranì venne ridotta in schiavitù e i pochi superstiti si rifugiarono nella selva che Kuarahy, dio dell’energia creatrice, aveva destinato loro riservando i terreni agricoli ai bianchi. Proibendo a ognuno, coloni europei e nativi, di invadere gli spazi dell’altro, ma senza troppo successo perché, soprattutto negli ultimi decenni, agricoltori e compagnie di legname hanno distrutto porzioni sempre più estese di foresta, letteralmente evaporate nel fumo degli incendi. Un’apocalisse esistenziale per un popolo che vede in ogni rottura dell’equilibrio ambientale i segni che preannunciano la fine del mondo. Capire il loro mondo è impossibile senza conoscere i fiumi, gli albe-
ri, gli uccelli, la terra e il potere della parola che in una cultura essenzialmente orale non è solo uno strumento per comunicare, è anima, e perderla significa morire per queste piccole comunità assediate da coloni e alcolismo, ma soprattutto colonizzate dalla televisione, e oggi persino dai social, che in pochi anni hanno trasformato un popolo di cacciatori e agricoltori in un universo di telespettatori di partite di calcio, telenovelas brasiliane e follower di TikTok. «È un di-
sastro, poi ci sono i cacciatori di frodo che distruggono tutto», si indigna Martin che vive sotto la loro continua minaccia e non si è certo fatto i soldi proteggendo i quattrocento ettari di selva della riserva Jaguaroundì. «Denunciarli è pericoloso, i peggiori sconfinano dal Brasile con freezer e mitragliatori e se incontrano la polizia sparano sin problemas. Il problema dei Guaranì è che non sono organizzati, per non parlare della corruzione, conosco un Cacique che appena rice-
vuti trentamila dollari dalla cooperazione spagnola per la sua comunità andava al casinò tutte le sere e quando gli hanno chiesto dove erano finiti i soldi ha risposto “noi ci facciamo quello che vogliamo”. Bisogna capire che ancora oggi i Guaranì appartengono alla cultura del cacciatore, quindi è meglio lasciar perdere un astratto idealismo, non ti diranno mai grazie, ma li posso capire, perché sono stati così defraudati che sono comunque ancora e sempre in credito. Il punto
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ndo ormai perduto dei Guaranì
straordinario habitat che fa gola a molti, all’invasione tecnologica che rischia di stravolgere valori e modi di vivere
è che devono essere loro a decidere il proprio futuro e in realtà non lo hanno ancora fatto». Un mondo che non si sente argentino, brasiliano o paraguayano, ma solo Guaranì, costretto a ripensare il proprio futuro, «Il problema principale è che vediamo diminuire sempre di più la selva e il monte. Come sopravvivremo?» si preoccupa Juan Duarte, che vive lungo il rio San Francisco. Una domanda esistenziale per la vita di un popolo così strettamente legato alla selva, che al nome «ufficiale» scritto sui documenti affianca un nome tradizionale. Quello di Juan significa «l’uomo della liana», espressione di un’identità legata a un mondo naturale di cui i Guaranì si sentono parte. Fernando, che vive nella comunità di Iryapù, pensa di avere la risposta, «Dobbiamo imparare in fretta a convivere con la società bianca».
Ai tempi dei gesuiti in questi luoghi la qualità della vita era alta, e artigiani e orchestre erano in grado di fare concorrenza all’Europa «L’ambiente in cui siamo sempre vissuti non esiste più, ma i nostri figli continueranno a nascere e dobbiamo riuscire a dargli strumenti di conoscenza con cui possano diventare medici, avvocati, tecnici di computer. Però devono anche sapere chi sono e da dove vengono, per esempio se vado a caccia e prendo un pecari devo dividerlo con gli altri perché l’ambiente è di tutti, non solo mio, non è come se compro dieci chili di carne e li congelo». Così i Guaranì di Iryapù, come di altre comunità, si stanno organizzando per trasformare in opportunità sfide decisive come le vicine cascate di Iguaçù, Patrimonio dell’umanità UNESCO, ma soprattutto una crescente icona turistica dell’America Latina che rischia di sradicare un habitat di cui sono stati gli unici abitanti e custodi per secoli. Un mondo annunciato da un rombo lontano che cresce mentre l’acqua del fiume inizia a scorrere sempre più velocemente prima di precipitare tra nuvole d’acqua nebulizzata nella Garganta del diablo, la Gola del diavolo, dove decine di cascate e milioni di metri cubi d’acqua convergono in un gigantesco pentolone ribollente d’acqua in cui si avventurano solo uccelli solitari in cerca di colpi di adrenalina. Uno scenario dantesco che tra le viscere della Terra nasconde un gigantesco tesoro liquido e più strategico del petrolio, il bacino acquifero Guaranì, probabilmente la più grande riserva d’acqua dolce sotterranea del mondo, di cui si ignora ancora l’estensione reale. Per amara ironia porta proprio il nome di uno dei popoli indigeni più importanti dell’America meridionale, seduto ma senza alcuna reale voce in capitolo su almeno trentasette milioni di metri cubi di acqua, che per altri ricercatori potrebbero raggiungere i cinquantacinque milioni, estesi sotto i territori di Argentina, Brasile e Paraguay, nutriti da fiumi, corsi d’acqua e piogge, ma anche dalle sostanze contaminanti di un’agricoltura sempre più invasiva. Una risorsa strategica sempre più importante per gli equilibri geopolitici della regione che gestita bene potrebbe fornire al pia-
neta duecento anni di risorse idriche, teoricamente protetta da accordi interstatali ma sempre a rischio di privatizzazioni striscianti. In attesa del futuro a Misiones ci si accontenta di leggende legate a ricchissimi tesori nascosti dai gesui-
ti prima di andarsene, spesso diffuse ad arte da altri ordini monastici rivali. «Grazie a Sant’Ignacio questa è la provincia dove si vendono più metal detector», ride un contadino che vive nei dintorni della reducción di Santa Ana. «Quando la gente ha comincia-
to a vedere strane luci notturne nella selva accompagnate da voci inquietanti, si è sparsa la voce che troppa gente andava in cerca di tesori e gli spiriti dei Guaranì li stavano difendendo. Così hanno denunciato queste presenze alla polizia che ha in-
Argentina. L’organizzazione delle reducciones Le reducciones, le missioni dei gesuiti in America Latina, erano strutturate in modo molto simile a un antico castrum romano, un campo militare con i dormitori dei Guaranì allineati in file parallele ai lati della grande piazza su cui si affacciavano le case dei gesuiti e la chiesa, l’elemento centrale che sottolineava lo spirito comunitario. Davanti alla sua facciata passava la strada che divideva, dal punto di vista urbanistico ma anche simbolico, la società civile dagli edifici sacri. All’inizio l’incontro tra gesuiti e Guaranì fu difficile e molti missionari vennero uccisi, ma inaspettatamente l’arma segreta si rivelò la musica che faceva letteralmente impazzire i nativi e i Guaranì capirono in fretta che la pro-
tezione dei gesuiti era l’unica possibile contro i cacciatori di schiavi portoghesi e spagnoli. Un altro fattore importante erano le numerose coincidenze tra la mitologia Guaranì e il messaggio cristiano dei gesuiti, incentrato molto sul rispetto per l’ambiente e un’agricoltura che oggi potremmo definire ecologica. Così i Guaranì accettarono una vita quotidiana scandita da regole severe e basata su un sistema sociale integrato di strutture urbane economicamente indipendenti e collegate tra loro. Il loro limite era però la totale dipendenza dei Guaranì dal paternalismo dei Padres che in linea con la cultura del tempo consideravano los indios bisognosi di protezione e incapaci di autogovernarsi.
dagato, scoprendo un ubriaco che viveva in una capanna del cimitero e di notte metteva la radio a tutto volume». I tesori veri invece sono i fantasmi di pietra del Sagrado Esperimento, le rovine di missioni come San Ignacio Minì, la più scenografica reducción argentina, dove angeli di pietra guardano con celeste distacco piazze silenziose, raffinati capitelli barocchi, mura mangiate dall’umidità della selva e scalinate che salgono verso il nulla, e i rumori della foresta tropicale hanno sostituito le musiche barocche dei violini. Nella missione di Loreto la luce radente dell’alba fa riemergere dall’ombra le pietre di questo sogno perduto, mangiate dall’umidità della selva e da un’onnipresente matassa di implacabili liane che ricoprono il luogo dove nacque la prima tipografia del Nuovo Mondo, che si spostava di missione in missione a seconda delle necessità. Le reducciones non erano certo idilliaci paradisi terrestri popolati dal «buon selvaggio» di Rousseau, ma piuttosto avamposti di frontiera che ricordavano l’ossessiva geometria degli accampamenti militari romani, anche perché molti gesuiti avevano un passato militare, dove i Guaranì per sfuggire alla fame e ai bandeirantes, i cacciatori di schiavi portoghesi, rinunciavano alla propria autonomia accettando una nuova religione e una nuova vita, trasformandosi da nomadi, cacciatori e poligami, a sedentari, agricoltori e monogami. Le loro esistenze erano scandite dal rintocco delle campane che chiamavano alla liturgia e ritmavano i tempi del lavoro. Ogni mattina colonne di Guaranì si dirigevano verso i campi guidate da un gesuita, mentre le donne tessevano e collaboravano alla semina e al raccolto in un collettivismo autoritario che sembra la versione cristiana di una comune maoista. Con una differenza fondamentale, meno di ottanta gesuiti governavano oltre centoquarantamila Guaranì senza bisogno di apparati di repressione, il massimo della pena era l’espulsione, e la fine delle reducciones, che lasciò un enorme rimpianto nei Guaranì, non avvenne per un collasso del sistema ma per un’aggressione esterna, paradossalmente causata soprattutto dal successo economico. Al tempo dei gesuiti questa era l’area del Cono Sur dell’America Latina con la migliore qualità della vita, dove artigiani e orchestre erano in grado di competere con l’Europa e la fabbricazione di strumenti musicali raggiunse una qualità da renderli competitivi anche a Lisbona o a Madrid. Un modello alternativo incomparabilmente superiore a quello coloniale, in grado di trasmettere inaccettabili esempi agli occhi dei mercanti spagnoli e portoghesi, quasi una versione radicale della teologia della liberazione che, per quanti difetti avesse, era comunque fondato sul rispetto delle tradizioni indigene e sull’uso dell’arte come strumento di evangelizzazione. Un mondo straordinario che i Guaranì chiamavano La Tierra sin mal, quasi irreale per i suoi tempi, a tratti immerso in un’atmosfera di realismo magico degna di Gabriel García Márquez. Informazioni Su www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica.
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Viaggio ◆ Dal 4 al 12 maggio 2024 Hotelplan porta i lettori di «Azione» nella Grecia classica e nel complesso di Meteore
Tagliando di prenotazione Desidero iscrivermi al tour in Grecia dal 4 al 12 maggio 2024 Nome Cognome
La Grecia è una terra entusiasmante che ama offrire tutta sé stessa ai propri visitatori. Il Paese ellenico è caratterizzato da un alternarsi di antichi templi riflessi nel blu del mare, suggestivi siti archeologici, monasteri, chiese, villaggi dove il tempo sembra essersi fermato e paesaggi indimenticabili che conservano ancora oggi
i ricordi di un considerevole passato. Organizzato da Hotelplan in collaborazione con «Azione», si tratta di un viaggio di gruppo accompagnato da una guida italofona; ha la durata di 9 giorni (8 notti) e avrà luogo dal 4 al 12 maggio 2024. Tra le mete principali che saranno visitate vi è ovviamente Atene e poi
Corinto, Olimpia, Delfi, ma anche i monasteri di Meteore, che sembrano essere rimasti sospesi nel tempo. Ma non si starà solo sulla terra ferma: è prevista infatti anche una crociera per le isole di Saronico che incanterà i viaggiatori con un po’ di folclore grazie a intrattenimenti di musica e danze tipiche.
e il sito archeologico); Olimpia. 4. Olimpia – Arachova Visita dell’Antica Olimpia: il Santuario di Zeus Olimpio, l’Antico Stadio e il Museo Archeologico. Sosta a Patrasso; pomeriggio nel villaggio di Arachova, nei pressi del sito di Delfi. 5. Arachova – Delfi – Karditsa Visita sito archeologico di Delfi, segue la visita di Karditsa, piccola città situata a circa 50 km dal complesso delle Meteore. 6. Karditsa – Meteore – Atene Visita dei monasteri di Meteore che si ergono sospesi tra cielo e terra, in cima a enormi rocce di granito, e che
conservano tesori storici e religiosi. Rientro ad Atene, con sosta al sito della battaglia delle Termopili. 7. Crociera per le isole di Saronico Giornata in mare tra e sulle isole del Golfo Saronico: Hydra, Poros e Aegina. Pranzo a bordo con intrattenimento di musica e danze tipiche. 8. Atene Visite nella capitale greca: l’Antica Agorà e il Museo Nazionale Archeologico, il più grande e il più ricco al mondo. 9. Atene – Linate – Ticino Volo verso Linate, via Roma e rientro in Ticino.
Bellinzona Viale Stazione 8a 6501 Bellinzona T 091 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch
Locarno-Muralto Piazza Stazione 8 6600 Muralto T 091 910 37 00 locarno@hotelplan.ch
Lugano Via Ferruccio Pelli 7 6900 Lugano T 091 910 47 27 lugano@hotelplan.ch
Giochi e passatempi Cruciverba Lo sapevi che la parte più incavata della scarpa tra… Termina la frase leggendo a cruciverba ultimato le lettere evidenziate. (Frase: 5, 1, 5, 2, 6, 6)
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Prezzo per persona
Il programma di viaggio 1. Ticino – Linate – Atene Trasferimento in pulmino a Milano Linate. Partenza per Atene via Roma. 2. Atene Atene: tour panoramico che include Piazza Syntagma, sede del Parlamento e in cui si trova la Tomba del Milite Ignoto, lo Stadio Panathinaiko e l’Accademia. Pomeriggio visita dell’Acropoli e del suo Museo. 3. Atene – Corinto – Epidauro – Nauplia – Micene – Olimpia Al Canale di Corinto è prevista una sosta fotografica. Si prosegue per Epidauro (Teatro del IV secolo a.C.); Nauplia; Micene (Tomba di Agamennone
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24. Un grido dell’acrobata 25. Precedono la «l» 26. Le iniziali dell’attore Accorsi 28. Una signora in gioco 30. D’oro e… di pane 32. Adiacente, congiunto VERTICALI 1. Noia, fastidio 2. Le iniziali di Pisacane 3. Taglio inglese 4. Termine liturgico 6. Sul pulsante dell’accensione 7. Sono simili ai fiordi
Sistemazione desiderata (cerchiare ciò che fa al caso). Variante singola: SI
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8. Libro 9. Un abitante di Addis Abeba 11. Allegri, gioiosi 14. Fu vittima di Polifemo 16. Finisce... al fresco 19. Le iniziali dell’attrice Stone 21. Un organo dell’autoveicolo 25. Ettogrammo in breve 27. Un libro della Bibbia 28. Rintocco di campana 29. Anni in Francia 30. Le iniziali di una Francesca attrice 31. Due vocali
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Soluzione della settimana precedente UN SINGOLARE AMICO – Pare che Mozart come animale da compagnia … Resto della frase: … EBBE PER TRE ANNI UNO STORNO
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVII 8 gennaio 2024
azione – Cooperativa Migros Ticino 19
ATTUALITÀ ●
Un vero fallimento A quattro anni dall’uscita del Regno Unito dall’Unione europea i britannici bocciano la Brexit
USA verso l’autocrazia? L’antidemocratico Donald Trump ha buone probabilità di vincere le prossime elezioni di novembre
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Quell’odio contro le donne Uno sguardo alla tragica condizione femminile in Iran, Afghanistan, Pakistan e Israele
Tassazione dei coniugi Il Consiglio federale si muove per correggere la legge fiscale, ma sono ancora molti i nodi da sciogliere
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◆
C’è chi cammina sulla bandiera israeliana nella città di Kerman, in Iran, teatro di esplosioni che hanno causato la morte di un centinaio di persone. (Keystone)
Verso un conflitto senza limiti tra Israele e Iran
L’analisi ◆ La guerra di Gaza potrebbe essere stata il colpo di pistola dello starter di una nuova guerra regionale, forse mondiale Lucio Caracciolo
La guerra di Gaza non è più la guerra di Gaza. Ammesso lo sia mai stata. Indipendentemente da quelli che saranno i prossimi sviluppi militari, la questione della Striscia va letta in controluce, su scala ampia. Il potere oggi in controllo a Tel Aviv sembra deciso a farne la base di una rivoluzione geopolitica mediorientale di larga ambizione e lungo termine, che affermi il suo controllo sulla Terra di Israele, in lato senso biblico. Spazio ovviamente abbastanza flessibile – Dio non fa il cartografo – che nella sua espressione più vasta andrebbe dal Nilo all’Eufrate e dal Mediterraneo al Mar Rosso, a occidente, o al Golfo Persico, a oriente. Nella versione ridotta, ovvero riportata dalla metastoria alla relatività dei rapporti di forza correnti, Israele si accontenterebbe dell’annessione di Cisgiordania, Gaza e di parti del Libano meridionale, da sommarsi alle già integrate Alture siriane del Golan. Così, almeno, nelle espressioni e nella cartografia delle fazioni più estreme della destra oggi al Governo, sotto (o sopra?) Netanyahu. E del suo leader più disinibito, il ministro delle Finanze e di fatto vicerè di Giudea e
Samaria (Cisgiordania), Bezalel Smotrich, che ha preso in mano una quota rilevante degli apparati militari e di sicurezza israeliani. Questa visione parte dall’interpretazione dell’attacco di Hamas del 7 ottobre come segno dell’irriducibile disegno permanente della resistenza palestinese: distruggere lo Stato ebraico. È la presa d’atto del fallimento della tattica israeliana, che giungeva fino a finanziare Hamas con i dollari del Qatar fatti arrivare a Gaza pur di mantenere diviso il fronte palestinese. Il massacro del 7 ottobre ha rotto la diga, anche se diversi analisti israeliani sono convinti che Hamas ne abbia perso il controllo e non ne abbia quindi valutato tutte le conseguenze. È un salto di fase e di scala dalle conseguenze incalcolabili. Perché accelera un conflitto senza limiti e senza regole fra Israele e Hamas, ma soprattutto fra Tel Aviv e Teheran, che dell’islamismo palestinese è il supremo sostenitore e garante. Sui due fronti si rafforzano gli ultrà. O dovremmo definirli apocalittici? Gente disposta a giocare con la guerra come fossimo prossimi al
Giorno del giudizio. Confidiamo di esserne lontani, ma non c’è dubbio che la (il)logica mediorientale contribuisca ad avvicinarlo. La storia ci aiuta a capire. La grande strategia dell’impero persiano, di cui la Repubblica islamica è scartamento ridotto, consiste nell’estendere il proprio controllo dal Mediterraneo Orientale e al Mar Rosso fino al Golfo Persico (non Arabico) e all’Oceano Indiano a sud, all’Afghanistan occidentale (Herat) e a porzioni di Asia anteriore (specie Caspio). La direttrice Herat-Beirut (Hizbullah)-Gaza (Hamas), passante per Baghdad e Damasco, centrata su Teheran, disegna il campo d’azione della potenza iraniana. Ed è precisamente il perimetro dello scontro fra Israele e Iran, via suoi referenti regionali, non sempre obbedienti né perfettamente sotto controllo, come ad esempio gli huti padroni del «loro» Yemen. Nell’attuale clima di paranoia, tutto viene riportato, a Tel Aviv come a Teheran, a componente di questo meccanismo semiautomatico. Sicché la guerra di Gaza vale come fattore di un’equazione abbastanza irrazionale, dunque molto affascinante: perfetta-
mente in tono con le menti belliciste che imperversano nella regione. Seguiamo le tappe del percorso aperto a sorpresa da Hamas il 7 ottobre. Dalla vendetta israeliana in corso, che in ultima analisi mira a rendere Gaza inabitabile per i palestinesi, all’intensificazione delle ostilità fra ebrei e arabi in Cisgiordania, allo scambio di missili e bombardamenti sul fronte libanese fra Hizbullah e Tsahal (esercito di Israele), mentre anche il fronte siriano e quello iracheno si riscaldano. E ancora, la liquidazione del numero due di Hamas da parte di Israele a Beirut, la strage alla commemorazione del generale Suleimani nella città persiana di Kerman: non per forza di mano israeliana, ma immediatamente targata tale nel mondo islamico e non solo, proprio a causa del combinato disposto sopra descritto (giovedì scorso, comunque, l’Isis avrebbe rivendicato la responsabilità degli attacchi). Chiude il cerchio il blocco del Mar Rosso al traffico commerciale internazionale prodotto dalle incursioni piratesche degli huti, con rilevanti effetti sull’economia globale. Facile e comprensibile lasciarsi tra-
scinare lungo questo piano inclinato verso la sensazione che la guerra di Gaza sia stata il colpo di pistola dello starter di una nuova guerra regionale, forse mondiale. Stile Sarajevo. Per fortuna la storia non è già scritta e non procede mai linearmente. Pare evidente che in questa fase l’Iran non abbia né la voglia né la forza di impegnare uno scontro diretto con Israele, quindi con l’America. La quale America è troppo sovraesposta e afflitta da gravi problemi intestini per alimentare altri incendi. Resta però che a Tel Aviv prevalgono finora i radicali. Fautori della vittoria decisiva, ovvero del Grande Israele tra Mediterraneo e Giordano (almeno). Se poi questa visione sia nell’interesse dello Stato ebraico o dei suoi più assoluti nemici è la domanda cui non sappiamo rispondere. L’importante è non farsi travolgere dai fatti compiuti, lasciando che si accumuli una valanga alla fine infrenabile. Per gli spiriti fanatici significherebbe accettare la volontà di Dio. Facciamo perciò appello agli scettici, se ancora ve ne sono, perché solo dal dubbio può riprendersi il filo di un dialogo di pace.
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ATTUALITÀ
Più danni che benefici
Londra ◆ Un bilancio dopo quattro anni di Brexit Barbara Gallino
A quattro anni dall’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, i britannici bocciano la Brexit: ha avuto un impatto negativo sull’economia, contribuito a un innalzamento generale dei prezzi e ha pure ostacolato, invece che facilitare, la politica del Governo per controllare l’immigrazione, al contrario di quanto a suo tempo propagandato dalla campagna Vote Leave. È quanto emerge da un sondaggio condotto da Opinium e pubblicato da «The Guardian», secondo il quale solo per un interpellato su 10 lasciare l’Ue ha recato benefici alle finanze personali a fronte del 35% che reputa invece di averne subito un danno. Anche il National Health Service (NHS) con le sue liste d’attesa che peggiorano di giorno in giorno, e scioperi continui, non ha tratto giovamento dall’addio a Bruxelles. Solo il 9% dei sudditi la pensa diversamente, a fronte del 47% per il quale dal 2021 il servizio sanitario nazionale – da sempre fiore all’occhiello del welfare britannico – è decisamente peggiorato. Come biasimarli d’altronde. Migliaia di cosiddetti «junior doctor» – ovvero medici qualificati ma ancora impegnati nella decennale specializzazione post-laurea – hanno appena avviato il 2024 incrociando le braccia per 6 giorni, mettendo a dura prova l’erogazione dei servizi e delle cure essenziali visto che costituiscono circa la metà del personale medico nazionale. Si tratta del più lungo sciopero nella storia dell’NHS. E pensare che uno degli slogan vincenti di Boris Johnson e degli altri «brexiter», era stato «basta soldi a Bruxelles e 350 milioni di sterline in più alla settimana al servizio sanitario nazionale». Una delle tante boutade che condizionarono certamente il voto del 23 giugno del 2016 quando il 52% della popolazione si espresse a favore dell’uscita dal mercato unico, senza sostanziarsi tuttavia in nulla se non un deterioramento dello status quo. Un altro baluardo della campagna per lasciare l’Unione europea era stata la presunta riacquisizione del controllo dei confini, con conseguente diminuzione dell’immigrazione. Il risultato? Forse un declino degli arrivi dalla Ue, ma di sicuro un boom di quelli extra Ue. Secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica (ONS), infatti, nell’anno fino a giugno del 2023 hanno stabilito la propria residenza nel regno 1,2 milioni di persone a fronte delle 508mila che se ne sono andate, con un saldo netto dunque di 672mila ingressi in più. Se fino al 2019 i cittadini Ue rappresentavano la più ampia componente degli immigrati, dal 2021 la stragrande maggioranza degli arrivi
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sono extra-comunitari. Per la precisione, a giugno dello scorso anno erano 968mila e costituivano pertanto l’82% dell’immigrazione totale. Provengono in particolare da India (253mila), Nigeria (141mila), Cina (89mila), Pakistan (55mila) e Ucraina (35mila). Non sorprende dunque che secondo l’indagine di Opinum basata su un campione di 2132 adulti, oltre il 53% di quanti avevano votato per uscire dalla Ue ora pensi che Brexit abbia avuto un effetto negativo sulla capacità del Regno Unito di controllare l’immigrazione. Certamente ha causato una maggiore instabilità politica e una diminuzione degli investimenti, come ha ammesso lo scorso mese lo stesso Jeremy Hunt. «Abbiamo avuto Brexit, che ha portato a un Parlamento senza maggioranza e a sua volta a una fase incredibilmente ardua sotto un profilo politico», ha dichiarato infatti il cancelliere dello Scacchiere a un evento organizzato dalla Resolution Foundation in collaborazione con il Centro per la Performance Economica (CEP) della London School of Economics. «I britannici avevano votato a favore dell’uscita dalla Ue, ma il Parlamento non riusciva a raggiungere un accordo su come farlo. Dopodiché abbiamo avuto la caduta del Governo di Theresa May e poi pure la pandemia», ha spiegato il ministro Tory, auspicando d’ora in avanti una maggiore stabilità. Contrariamente alla visione del premier Rishi Sunak – da sempre proBrexit e convinto che sarebbe stata un volano per l’economia del Paese – secondo il 63% dei britannici, lasciare l’Unione ha avuto un impatto determinante sull’impennata di inflazione e costo della vita. Ed è proprio sul costo della vita che si giocherà la campagna elettorale per le politiche nei prossimi mesi. Seppure la maggioranza dei sudditi di Re Carlo III giudichi la Brexit un fallimento, la questione dell’appartenenza o meno alla Ue non avrà più un ruolo dirimente come avvenuto nelle due consultazioni elettorali precedenti. L’attenzione degli elettori di ambedue le fazioni, infatti, è ormai concentrata sulle bollette da pagare per arrivare a fine mese, sui servizi pubblici in affanno e sull’agonizzante crescita economica. Con l’addio a Bruxelles, i conservatori non hanno procurato il cambiamento che i britannici caldeggiavano e pertanto si è diffusa la convinzione che solo cacciandoli si possa perseguire l’obiettivo. I laburisti di Keir Starmer, ormai in testa a tutti i sondaggi, saranno in grado di centrarlo e imprimere finalmente al Regno l’agognata svolta post Brexit?
Proteste contro la Brexit. Lo slogan in primo piano: «La realtà della Brexit? Abbiamo perso il controllo». (Keystone)
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ATTUALITÀ
Stati Uniti, democrazia a rischio
Elezioni USA ◆ Per i sondaggi Donald Trump va forte nella corsa alle elezioni in programma il prossimo novembre; l’ipotesi del ritorno dell’ex presidente repubblicano suscita apprensione in molti Paesi alleati e speranze in molte autocrazie Federico Rampini
Keystone
È l’anno di tutte le elezioni. Si comincia con Taiwan, dove il risultato può essere cruciale per la stabilità nell’Indo-Pacifico. Voterà in primavera la più grossa di tutte le democrazie, l’India. Si rinnoverà l’Europarlamento. Ma la più importante di tutte sarà l’elezione presidenziale (e congressuale) di novembre negli Stati Uniti, un test sulla tenuta della più antica tra le liberaldemocrazie. Vista da sinistra: Donald Trump (nella foto in alto) rischia seriamente di vincere e quindi un leader che disprezza le istituzioni democratiche (come dimostrò il 6 gennaio 2021) potrebbe trascinare la Repubblica americana verso il baratro di un’autocrazia. Vista da destra: il partito democratico pur di impedire la libera espressione della volontà popolare sta cercando di «cancellare» il nome di Trump rendendolo ineleggibile per via giudiziaria, con procedimenti aperti in 33 Stati su 50. Vista dal resto del mondo: la salute della democrazia Usa suscita apprensione in molti Paesi alleati e speranze in molte autocrazie; inoltre vi sono ricadute importanti in politica estera, soprattutto se l’America dovesse scegliere un ritorno a politiche unilateraliste o perfino isolazioniste.
Debolezza fisica e politica Sullo sfondo c’è la debolezza, fisica e politica, di Joe Biden (nella foto in basso). Ancora pochi mesi fa il presidente rispondeva così alle obiezioni sulla sua età avanzata: sono io il candidato più adatto a sconfiggere Trump perché ci sono già riuscito (a differenza di Hillary Clinton). Oggi questo argomento non fa presa, alla luce dei sondaggi che assegnano un vantaggio all’ex presidente repubblicano. Biden non si capacita della «ingratitudine» degli americani. L’economia scoppia di salute, è di gran lunga la più prospera del mondo e aumenta il suo vantaggio su Europa e Cina; il mercato del lavoro è vicino alla piena occupazione; i salari aumentano. I piani di reindustrializzazione dell’America avanzano, così come la transizione verso un’economia meno carbonica. Eppure l’insoddisfazione cresce, le classi lavoratrici preferiscono Trump, lo slittamento a destra coinvolge anche le minoranze etniche (black, latinos, asiatici). Perfino i giovani cominciano a disertare Biden, nonostante lui abbia ricevuto l’appoggio della superstar pop Taylor Swift: il conflitto in Medio Oriente è una delle cause di questa disaffezione, vista la popolarità di Hamas nella sinistra giovanile.
lazione verso altri Stati Usa (Texas e Forida). Sul fronte repubblicano Trump ha promesso che «sarà dittatore, ma solo per un giorno». La frase allude al progetto di far piazza pulita del deep state: quell’establishment che controlla gli apparati burocratici e sabotò le riforme più dirompenti del primo Trump. Una occupazione dello Stato da parte di fedelissimi dovrebbe consentire al Trump 2 di spingersi molto più avanti, in particolare nel controllo dei flussi migratori e nell’azione contro la criminalità. Verrebbe meno la penalizzazione delle energie fossili. Al resto del mondo Trump annuncia la riduzione dell’impegno americano nella Nato e in Estremo Oriente, il ridimensionamento degli aiuti all’Ucraina. Tutte cose popolari in un’America che si sente in declino, e non solo a destra. Con lui i democratici hanno giocato agli apprendisti stregoni: fanno di tutto per aiutarlo a vincere la nomination repubblicana, convinti che sia l’avversario più facile da battere; ora i sondaggi dicono che lui potrebbe riconquistare davvero la Casa Bianca. Forte del suo
enorme vantaggio virtuale sui rivali, Trump non ha partecipato ai dibattiti televisivi con i candidati della destra. Le primarie di gennaio in Iowa e New Hampshire devono dire se davvero quel vantaggio è incolmabile. I più quotati restano il governatore della Florida Ron DeSantis e l’ex ambasciatrice all’Onu Nikki Haley. Stando alle indagini demoscopiche, tutti e due possono battere Biden in un duello finale. La parte più difficile viene prima: staccare da Trump la base più militante del partito.
Sfida tra due ottuagenari Molti elettori sono insoddisfatti dal remake Biden-Trump, non si riconoscono in questa sfida tra i due ottuagenari. Lo conferma il proliferare di candidature indipendenti. Robert Kennedy Jr ha lasciato il partito democratico, con un tradimento della storia familiare, e pesca consensi ai due estremi dello spettro politico. Cornel West piace ai giovani radicali dei campus universitari e a Black Li-
La base democratica a maggioranza non vuole che Biden si ricandidi. Ma il consenso finisce qui. Se il presidente in carica facesse un passo indietro si riaprirebbe uno scenario simile al 2020, segnato da spinte centrifughe. Il più noto dei candidati potenziali è il governatore della California, Gavin Newsom. Ma la California, insieme a New York, è una vetrina dei disastri compiuti dalla sinistra radicale: eccessiva pressione fiscale, invadenza burocratica, incapacità di controllare l’immigrazione, aumento della criminalità, onnipresenza dei senzatetto, esodo di popo-
Keystone
Dittatore per un giorno
ves Matter. Jill Stein corre di nuovo per i Verdi. Nessuno ha chance di vincere, ma le loro percentuali pur piccole avranno un peso nel rubare voti decisivi ai big; tutti insieme possono danneggiare più Biden che Trump. Resta possibile anche una nuova candidatura no label («senza etichetta»), un ticket misto democratico-repubblicano per offrire una vera alternativa.
Incriminazioni e condanne I giudici sono onnipresenti in questa campagna elettorale. Trump ha quattro processi a carico. Alcuni sono pretestuosi e avallano la certezza dei suoi fan su una persecuzione giudiziaria; altri sono fondati ma comunque vedono protagonista una magistratura di parte. Il calcolo dei democratici è questo: le incriminazioni, e forse qualche condanna, rafforzano Trump presso la base repubblicana più estremista, quindi «blindano» la sua nomination; ma possono costargli il sostegno decisivo di elettori moderati e indipendenti nel duello finale. Due Stati Usa hanno già deciso la ineleggibilità di Trump, altri potrebbero imitarli; la Corte suprema federale avrà la parola finale. Il protagonismo della magistratura potrebbe concludersi proprio con un’elezione contestata davanti alla Corte suprema. Stile Bush-Gore 2000. A differenza che nei tribunali di grado inferiore, spesso dominati dai democratici, tra i giudici costituzionali prevalgono i conservatori con una maggioranza 6 a 3. Dieci mesi, è il tempo rimasto a Biden – o chi per lui, se l’anziano presidente rinuncia a ricandidarsi – per riconquistare le classi lavoratrici, e «salvare il mondo da Donald Trump». Le due cose sono legate. I pericoli di un Trump bis sono reali: forse per la democrazia americana, di sicuro per le alleanze tra Nazioni del mondo libero. La rielezione di Tru-
mp è diventata meno improbabile perché si è rafforzato tra le classi lavoratrici, i non-laureati: quasi due terzi dell’elettorato. Lungi dal declinare, la classe operaia è più centrale che mai, i suoi confini si sono allargati. Dalle fabbriche (che conoscono una rinascita) il lavoro non-laureato spazia alle attività di servizio come badanti, fattorini per le consegne, addetti alla vigilanza o alle pulizie, camionisti, dipendenti dei trasporti e della distribuzione, personale di ristoranti e alberghi. Con un ribaltamento della rappresentanza politica – iniziato in America ben prima di Trump, ora in atto anche in Europa – queste categorie si riconoscono nella destra, mentre la sinistra egemonizza i laureati. L’aspetto più sconcertante nel sostegno popolare alla destra è che si rafforza pure tra le minoranze etniche. Se si votasse oggi, Trump sarebbe il repubblicano con il massimo consenso della storia tra latinos e afroamericani.
Slittamento a destra È in corso nei settori meno dogmatici del partito democratico uno sforzo di capire il perché di questo slittamento a destra dei lavoratori. Sul fronte economico, è onesto ricordare che i progressi ebbero inizio sotto Trump. La riduzione dei flussi migratori illegali migliorò le condizioni dei salariati, in base a una legge di mercato antica e implacabile: l’immigrazione incontrollata indebolisce il potere contrattuale dei lavoratori. Cominciarono sotto Trump anche i generosi aiuti anti-Covid alle famiglie, poi prolungati da Biden. Fu Trump a imporre con i dazi la drastica revisione dell’apertura alla Cina, poi proseguita da Biden che abbraccia il protezionismo del suo predecessore. Non è strano che una parte degli elettori si fidi più dell’originale.
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La guerra sul corpo delle donne
Prospettive ◆ Uno sguardo alla tragica condizione femminile, dall’Iran all’Afghanistan, passando per Pakistan e Israele Francesca Marino
La massa di capelli ricci di Narges Mohammadi, che ha vinto il premio Nobel per la pace ma continua a rimanere, proprio a causa di quei capelli ricci mostrati con orgoglio al mondo, ospite delle prigioni iraniane: condannata a sedici anni e 140 frustate per essersi schierata contro l’obbligo di indossare l’hijab e contro il «programma di castità» a cui la polizia morale dell’Iran costringe le donne. E ancora, i capelli corti da ragazzino e il piercing al naso di Armita Garavand, che aveva soltanto sedici anni e che è stata uccisa, picchiata a morte dalla polizia morale, per essersi rifiutata di coprire quel caschetto sfilzato e quel piercing sbarazzino. E poi, i capelli al vento liberati all’improvviso da tante ragazze donne iraniane, ragazze e donne malmenate e controllate da altre donne, quelle che indossano il lugubre sudario nero della polizia morale, quelle che nella metro, nelle stazioni, agli angoli delle strade o nei negozi si assicurano che neanche una ribelle ciocca di capelli o un polso o una caviglia siano esposti allo sguardo dei passanti. L’onore della famiglia, della società e del Governo risiede nelle chiome femminili.
Da quando Ebrahim Raisi è diventato presidente dell’Iran l’applicazione delle rigide regole sociali e religiose è stata ulteriormente rafforzata Da quando Ebrahim Raisi è diventato presidente dell’Iran l’applicazione delle rigide regole sociali e religiose è stata ulteriormente rafforzata e Raisi ha ordinato a tutte le «entità e istituzioni responsabili» di elaborare una strategia per intensificare l’applicazione dell’hijab. Le violazioni, ha detto, danneggiano i valori della Repubblica islamica e «promuovono la corruzione». Il procuratore capo dell’Iran si è dichiarato favorevole a impedire alle donne «impropriamente coperte» di accedere ai servizi sociali e governativi, compresa la metropolitana. Il Ministero della Guida ha ordinato ai cinema di non mostrare più le donne nelle pubblicità. Come in Afghanistan, poco più in là. Dove donne e bambine sono state letteralmente cancellate dalla faccia della Terra. Private dell’istruzione, del lavoro, di assistenza medica perché tra poco, senza ragazze laureate, cominceranno a scarseggiare anche i medici donna. Ed essere curate da un uomo è contro la legge. Così come è contro la legge andare in palestra, dal parrucchiere, al parco o viaggiare senza un accompagnatore maschile. È contro la legge fare l’attrice, la cantante o anche leggere le notizie in televisione. È contro la legge essere donna, in pratica. A meno che tu non sia relegata in casa e all’unico compito che ti compete: fare figli e allevarli. E, se i figli per disgrazia sono di sesso femminile, liberarsene appena possi-
Ragazze israeliane piangono le compagne uccise e stuprate da Hamas; sotto, foto dell’iraniana Narges Mohammadi, imprigionata e frustata per essersi schierata contro l’obbligo di indossare l’hijab. (Keystone)
bile dandole in moglie in età prepubere a un bravo combattente timorato di Dio. Che in genere, se si deve giudicare dalla documentazione video che gira sui social e dai libri pubblicati, preferisce gli uomini: ma questa è un’altra storia. La storia delle donne, invece, continua anche di là del confine, in Pakistan. Continua con il volto scavato e i capelli neri e lisci, appena coperti da uno scialle per ripararsi dal freddo, di Mahrang Baloch. Mahrang, che è una dottoressa. Mahrang che urla in strada fin da quando era poco più di un bambina contro il genocidio del suo popolo. Mahrang, a cui hanno fatto sparire il padre, ritrovato poi quattro anni dopo cadavere, con segni di tortura. Mahrang, a cui l’eser-
cito pakistano ha fatto sparire anche il fratello. Mahrang che si è messa a capo di centinaia di donne e bambine che hanno camminato dal Belucistan a Islamabad, come facevano un tempo le madri della Plaza de Mayo in Argentina, per chiedere il ritorno dei loro cari scomparsi. Per chiedere che il vero e proprio genocidio a cui sono soggette abbia fine. Perché sono stanche di essere soltanto vittime senza voce. Il rapimento di donne e bambini in Belucistan (regione tra l’Iran sud-orientale e la bassa valle dell’Indo, in Pakistan) non è una novità, anzi. In passato ci sono stati casi, diversi casi, di donne rapite, detenute e torturate, usate come schiave sessuali dai militari e poi gettate via. Tuttavia è difficile avere dei numeri
Redazione Carlo Silini (redattore responsabile) Simona Sala Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)
perché, come sempre accade in questi casi, le donne si vergognano di raccontare. Ali Arjumand, un cittadino norvegese «scomparso» per dodici anni nelle celle «segrete» dei servizi pakistani, ricorda molto bene le donne violentate e torturate, e una di loro lasciata morire dissanguata davanti alla sua cella. Le organizzazioni che rappresentano il popolo del Belucistan e i gruppi di attivisti per i diritti umani dicono: «Abbiamo redatto una lettera per richiamare l’attenzione sul continuo abuso dei diritti delle donne beluci da parte delle forze armate pakistane. Negli ultimi anni le donne che protestavano contro le sparizioni forzate sono state minacciate, attaccate e fatte sparire. Sono state tenute in celle di tortura dell’esercito dove molte hanno subito abusi sessuali».
In Afghanistan è contro la legge essere donna. A meno che tu non sia relegata in casa e all’unico compito che ti compete: fare figli e allevarli Ci sono voluti anni e anni per portare alla luce gli orrori degli stupri di massa durante la guerra in Bangladesh (sempre da parte dell’esercito pakistano), e ci vorranno anni, quando e se tutto questo sarà finito, per fare luce sugli orrori subiti dalle donne beluci. Così come ci vorranno anni per rendere giustizia alle donne israeliane stuprate, brutalizzate, torturate,
bruciate vive e macellate come animali dai terroristi di Hamas. Orrori per cui si domandano ancora prove, dopo che le prove sono state fornite in diretta dai loro assassini durante il massacro del 7 ottobre. Dopo che le prove sono state visionate, verificate indipendentemente, passate al vaglio da giornalisti ed esperti vari. Ma no, non basta. Non tutte le organizzazioni che dovrebbero difendere le donne, le marce che domandano la fine del patriarcato, dicono qualcosa. Molte se ne stanno in silenzio. Chiedono prove, come nelle caso delle israeliane. O tacciono, come nel caso delle iraniane o delle baluci, in nome di un malinteso «rispetto della loro cultura». O non menzionano l’hijab, come nel caso delle afghane, ma soltanto il divieto di studiare. Oppure, per restare più vicino a noi, non scendono in piazza per la povera Saman Abbas macellata nel 2021 dalla sua famiglia in Italia: per i capelli al vento, per una fascia rossa, perché voleva essere libera. «Intimiditi come siete dalla paura d’andar contro corrente cioè d’apparire razzisti, non capite o non volete capire», scriveva Oriana Fallaci ne La rabbia e l’orgoglio. Le voci delle donne ebree, di quelle iraniane, delle beluci vengono silenziate in nome di agende politiche, di un malinteso senso di rispetto per le culture «altre» o di pura e semplice ignoranza. E le guerre, quelle fisiche e quelle culturali, continuano così a combattersi sul corpo delle donne. E sui loro capelli.
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ATTUALITÀ
Tassazione dei coniugi: novità in vista
Berna ◆ Il Consiglio federale ha adottato i parametri per correggere la legge fiscale, ma sono ancora molti i nodi da sciogliere
A livello federale non è ancora risolto il problema della tassazione di due redditi prodotti da un solo nucleo famigliare. E questo benché già nel 1984 il Tribunale federale avesse affrontato la cosiddetta «penalizzazione del matrimonio». Nella scorsa sessione autunnale il Parlamento federale ha incluso nel programma di legislatura 2019-2023 l’adozione di un messaggio sull’introduzione della tassazione individuale. Quindi il Consiglio federale, dopo la solita procedura di consultazione, ha definito i parametri fondamentali di questo tipo di tassazione, che presenterà nel marzo del 2024. Il messaggio fungerà da controprogetto all’iniziativa popolare «Per un’imposizione individuale a prescindere dallo stato civile» (detta anche iniziativa per imposte eque). Questi parametri prevedono che le coppie di coniugi siano tassate separatamente; che la deduzione per i figli passi da 6’000 a 12’000 franchi per figlio; che nessuna deduzione speciale sia concessa per economie domestiche di una sola persona, o per coniugi con reddito unico o un secondo reddito basso. È invece prevista una riduzione delle aliquote per redditi medio-bassi e un leggero aumento per redditi molto elevati. L’obiettivo della riforma è quello di consentire un effetto di sgravio più omogeneo sulle classi di reddito, attenuando lo sgravio che verrebbe concesso alle coppie sposate.
L’obiettivo della riforma è quello di consentire un effetto di sgravio più omogeneo sulle classi di reddito Il Consiglio federale è disposto ad accettare una minore entrata fiscale di circa 1 miliardo di franchi, di cui il 78,8% a carico della Confederazione e il 21,2% a carico dei Cantoni. La legge prevede infatti di estendere il sistema anche ai Cantoni. Difficile però dire quale sarà l’impatto finale sui Cantoni, date le differenze degli sgravi attualmente concessi dai Cantoni stessi. Storicamente in Svizzera l’imposta sul reddito si basa sul principio della tassazione della famiglia. Famiglia che viene considerata come una comunità di reddito e di consumo e viene tassata globalmente in quanto entità economica. È evidente il riferimento alla famiglia dedita ad attività agricole, per la quale il contributo di entrambi i coniugi (e talvolta anche dei figli) è molto importante. Questo principio, o meglio la sua applicazione pratica, comporta alcune conseguenze anche per le famiglie odierne, in cui anche la donna, cioè la moglie di una coppia regolarmente sposata, che spesso svolge una propria attività, contribuisce a produrre il reddito famigliare. In questo caso il reddito dei due coniugi viene addizionato ai fini fiscali provocando un aumento delle aliquote. Tutte le leggi fiscali cantonali prevedono comunque alleggerimenti delle imposte in vari modi, tramite sgravi per le coppie sposate. Alcuni Cantoni (Ticino compreso) applicano due aliquote differenziate per coppie e persone sole o il sistema dello «splitting», tassando il doppio reddito con un’aliquota ampiamente inferiore a quella della somma dei redditi. Da notare che le coppie che vivono in partenariato registrato beneficia-
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Ignazio Bonoli
no pure delle riduzioni per le coppie sposate. Va forse precisato anche che la Costituzione svizzera prevede la sovranità fiscale dei Cantoni e riservava fino al secolo scorso alla Confederazione la facoltà di prelevare tasse, ma non l’imposta sul reddito e sulla sostanza (quest’ultima ancora riservata ai Cantoni). L’imposta prelevata dalla Confederazione sul reddito (oggi Imposta federale diretta, IFD) è nata come imposta volta a fornire alla Confederazione i mezzi finanziari per far fronte ai debiti accumulati durante la prima guerra mondiale e si chiamava appunto Imposta per la difesa nazionale (IDN). In seguito è stata mantenuta, cambiando il nome nel 1983, e oggi è la fonte principale di gettito fiscale anche per la Confederazione. Nel preventivo 2024 figurano entrate per l’IFD pari al 34,5%, per l’IVA al 27,2%, per entrate non fiscali all’8,6%, per l’imposta preventiva al 6,1%, sugli oli minerali al 5,2%, per altre imposte al 18,4%. La complessità della materia e anche la soluzione proposta non fanno però l’unanimità. Al punto che il Gruppo del Centro ha lanciato un’ulteriore iniziativa popolare «Sì a imposte federali eque anche per i coniugi – Basta con la discriminazione del matrimonio». Questo perché, per esempio, le famiglie con un solo reddito potrebbero dover sopportare un aggravio di oltre 2000 franchi, per la sola imposta federale, rispetto alle coppie non sposate. D’altro canto, già a livello parlamentare, mentre la sinistra non potrà accettare una diminuzione di entrate di un miliardo, i Cantoni sono spesso contrari a lasciarsi imporre vincoli da parte della Confederazione, oltretutto su un tema che molti di loro hanno già risolto. Non va inoltre dimenticato che una riforma fiscale ha generalmente effetti concreti anche in altri settori. Per esempio sui ruoli dei coniugi nelle famiglie, sulle pari opportunità fra uomo e donna, sul ruolo delle donne nel mercato del lavoro. Circa quest’ultimo punto si sperava che la legge potesse favorire l’accesso delle donne sposate al mercato
del lavoro. Ma non sarà sempre così. Se probabilmente almeno la metà dei contribuenti otterrà uno sgravio, per le famiglie di tipo tradizionale, nelle quali un solo coniuge provvede al
reddito, non vi saranno sgravi. Così succederà anche nelle coppie in cui un partner guadagna poco e l’altro molto. Per queste coppie la situazione odierna è più vantaggiosa. Nella
consultazione si citava anche un possibile sgravio per famiglie con un solo reddito, ma la misura non è stata prevista dal Consiglio federale. Queste famiglie potrebbero quindi dover considerare aumenti di imposta, anche se hanno figli a carico, poiché le deduzioni per figli verrebbero divise per due, in pratica ridotte della metà, non potendole dedurre da un reddito che non c’è. In sostanza, la comunità famigliare non conterebbe più nulla per il fisco. Lo stesso Tribunale federale aveva considerato questa procedura contraria alla Costituzione. Ma da allora molte cose sono cambiate, in particolare in caso di divorzio. Anche qui vale il principio per cui, se ogni coniuge dovrà provvedere da solo al proprio sostentamento, sarà anche un contribuente per la nuova tassazione del reddito. I tempi si prospettano lunghi per l’eventuale modifica della legge federale e dovranno comprendere anche una votazione popolare. Questo perché (altra particolarità svizzera) le imposte federali sono previste nella Costituzione. D’altro canto, un problema simile si presenterà anche per le rendite AVS. Le coppie sposate non ricevono due rendite, cioè una per ogni coniuge, ma solo una rendita e mezzo per coppia. Forse è giunto il momento di cambiare concetto, il che potrebbe costare parecchio alla Confederazione. Annuncio pubblicitario
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ATTUALITÀ
La Svizzera, una democrazia completa?
Il saggio ◆ Uno sguardo a Democrazia e libertà, l’ultimo libro scritto dall’ex consigliere nazionale Adriano Cavadini
Stando al Democracy Index 2022 dell’Economist Intelligence Unit, quella Svizzera è una democrazia completa. In una graduatoria che mette a confronto la salute democratica di 165 Paesi, il nostro è al settimo posto, dietro a Norvegia (primo posto), Nuova Zelanda, Islanda, Svezia, Finlandia e Danimarca. Tra le democrazie imperfette c’è anche l’Italia, al 34. posto (nel Belpaese il cittadino vota i nomi sulle liste ma sono le segreterie di partito a scegliere i loro rappresentanti in Parlamento). Gli Usa sono al 30. posto. Ma troviamo anche Israele, Portogallo, Belgio e numerosi altri Paesi europei. Il dato è tanto più rallegrante se si considera che i sistemi democratici nel mondo non se la passano troppo bene. Il 75% della popolazione mondiale vive in Paesi che non appoggiano la linea delle democrazie occidentali. Lo dimostra il formarsi del cosiddetto Sud globale che ruota attorno all’estensione dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) e ad altri sei Paesi tra cui Arabia Saudita e Iran. Nazioni che per cultura, religione e sistemi politici sono in definitiva contrari alla civiltà occidentale. Preoccupa che all’inizio del secolo scorso i Paesi con Governo democratico erano molti di più. Il modello occidentale non è più attrattivo, le democrazie sono in ritirata. Anche nella qualità del loro funzionamento inter-
no. Chi avrebbe immaginato che un presidente americano, battuto alle elezioni, avrebbe spronato i suoi sostenitori a occupare la sede del Congresso? Ma davvero possiamo considerarci un modello da seguire? Nell’immaginario collettivo la nostra è una democrazia che funziona molto bene anche perché il Paese è prospero e la stabilità ci viene invidiata nel mondo. Stando agli indicatori della graduatoria, la Svizzera se la passa egregiamente: indice della corruzione, libertà di stampa, libertà economica, competitività, capacità di innovare, sicurezza e diritti delle donne. Queste e altre considerazioni sono contenute nel libro di Adriano Cavadini Democrazia e libertà, edito da Fontana Edizioni, in cui troviamo riflessioni e testimonianze di autori, politici, intellettuali, studiosi che danno risposte a domande quanto mai attuali: che cosa significa democrazia oggi? Perché senza libertà non c’è democrazia? Quali sono i principi del liberalismo? C’è un futuro per la democrazia? Perché la neutralità è in discussione? L’opera tratta esaurientemente tutte le tematiche della scienza politica in chiave divulgativa, con una parte storica. Non mancano riflessioni teoriche e filosofiche e raffronti con le altre forme di governo. Analizzando il nostro sistema istituzionale e il funzionamento della democrazia in Svizzera ai vari livelli, federale, cantonale e comunale,
Keystone
Carlo Manzoni
troviamo aspetti che suscitano qualche interrogativo. Perché tanta lentezza nel prendere decisioni? Perché la nostra democrazia di concordanza, modello unico al mondo, non riesce a risolvere il problema dei continui aumenti dei premi di cassa malati? Perché la disaffezione alle urne e l’ascesa di movimenti populisti? Una lucida radiografia ci viene offerta da Adriano Cavadini il quale classificando la nostra come una democrazia forte e in continua evoluzione, ricorda che il cittadino svizzero ha un privilegio unico al mondo: poter votare ed esprimere la propria opinione sui grandi soggetti dell’attualità. E i rischi? Per Cavadini la nostra democrazia incontra delle
difficoltà quando prendono il sopravvento movimenti populisti, o quando nascono incomprensioni tra le regioni linguistiche del Paese. Altri cambiamenti ci aspettano, aggiunge pensando al futuro Cavadini – già in Consiglio nazionale dal 1987 al 1999 – come il voto elettronico coi suoi rischi, la crescente diffusione di notizie false, per cui sarà sempre più arduo riconoscere quelle vere, le opportunità e i rischi dell’intelligenza artificiale eccetera. Il rischio è che prevalga un’insidiosa indifferenza per la politica e le istituzioni. Cavadini si chiede se ci sia un futuro per la democrazia. E cede la parola a Marina Masoni – «Senza liber-
tà non c’è democrazia» – e a Franco Zambelloni sui «Principi del liberalismo». Fulvio Pelli, già consigliere nazionale e presidente del PLR svizzero, si esprime sul funzionamento della democrazia e sul ruolo dei partiti: le formule da noi adottate per eleggere i Governi, quello federale e quelli cantonali, generano composizioni di persone che rappresentano una parte importante delle forze politiche, senza però vederle coalizzate, e che divengono inevitabilmente governi che, davanti ai Parlamenti e alle decisioni popolari risultano «deboli». Non dispongono di maggioranze certe che devono costruire di volta in volta con compromessi accettabili per più Partiti, sostenuti da un probabile consenso popolare. Tendono poi a governare per tolleranza reciproca tra i loro membri, a vantaggio di un dipartimentalismo che si esprime secondo la regola del non disturbarsi a vicenda. Malgrado l’evoluzione descritta, aggiunge Pelli, nel confronto internazionale la politica svizzera è abbastanza stabile e i partiti che ne determinano lo sviluppo (non senza sofferenze) sono sopravvissuti a un’evoluzione che in Europa ne ha fatti sparire molti. E propone un confronto con Francia e Italia, dove i partiti storici sono scomparsi, sostituiti da forze politiche spesso improvvisate, nate dalla protesta e prive di una visione politica sorretta da convinzioni culturalmente rilevanti.
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CULTURA ●
Sul tetto c’è Mendelssohn È uscito per Einaudi il romanzo picaresco dello scrittore ceco Jiří Weil tradotto da Giuseppe Dierna
Culture diverse in dialogo Demis Quadri racconta del progetto teatrale interculturale dell’Accademia Teatro Dimitri
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Tookie e l’amore per i libri Storia di una ragazza uscita dal carcere che vive una seconda vita in una libreria di Minneapolis
Alla scoperta di Rösli La Fondazione Svizzera per la fotografia dedica un importante tributo a Rosellina Bischof-Burri
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Il Lago Maggiore di Thomas Huber
Mostre ◆ Sin dalla sua giovinezza l’artista zurighese è legato al lago prealpino che torna spesso ad ammirare dalla riva di Cinzago
È successo a molti pittori: trovare un luogo che ti cattura completamente e dipingerlo in continuazione, quasi a volerne rubare la bellezza per appropriarsene per sempre. Cézanne, ad esempio, lo aveva fatto con la montagna Sainte-Victoire, massiccio calcareo nei pressi di Aix-en-Provence che per il maestro francese era diventato fonte inesauribile di ispirazione. Per Thomas Huber, artista nato a Zurigo nel 1955, il paesaggio dell’anima è il Lago Maggiore, la cui vista lo ha suggestionato sin dalla giovinezza e sulle cui rive trascorre lunghi periodi ogni anno. Da Berlino, infatti, dove il pittore vive e lavora, sono molto frequenti i suoi spostamenti verso Cinzago, un villaggio sul confine italo-svizzero distante una manciata di minuti da Cannobio. Da questo minuscolo borgo, con una vista che a nord regala lo spettacolo delle vette delle Alpi elvetiche e che a sud offre allo sguardo le propaggini delle alture che danno sulla Pianura Padana, Huber dipinge quotidianamente il panorama lacustre ammirato dalla finestra del suo atelier, immortalandone il meraviglioso incontro di acqua, monti, cielo e luce che si presenta ai suoi occhi ogni volta diverso, seguendo il trascorrere delle ore del giorno e il succedersi delle stagioni. Come afferma lo stesso artista, la serie di opere dedicate al Lago Maggiore nasce dall’esigenza di ricongiungersi a quei paesaggi svizzeri a lui tanto cari che adesso può restituire in infinite variazioni. Dopo essersi allontanato per anni da questi luoghi per passare lunghi soggiorni in Inghilterra e in Germania, Huber ha deciso di tornare dove tutto è iniziato: «Di fronte alla casa della mia infanzia c’era un lago. Dall’altra parte del lago potevo vedere le montagne stagliarsi all’orizzonte. Fu in quel luogo che imparai a conoscere me stesso. In seguito, me ne andai da lì. Attraversai le montagne e mi spostai a nord. Il paesaggio davanti a me si fece piatto. Mi soffermai a lungo in questo territorio vago. Essendo privo di delimitazioni esterne, dovevo imporre a me stesso leggi interne, per rassicurarmi. Nel corso degli anni, queste fortificazioni divennero sempre più come una prigione in cui mi ero rinchiuso. Così mi ricordai delle montagne che ai vecchi tempi segnavano l’orizzonte davanti a me. Mi tornò agli occhi quel lago che rifletteva il mio sguardo. Dopodiché, tornai a sud. Fu un ritorno a casa, l’Heimkehr. Il mio percorso si rivelò come un grande cerchio che torna al punto di partenza». La serie Lago Maggiore, frutto di un lavoro che Huber descrive come ossessivo, dedito e appassionato, è una sorta di frattura rispetto alla produzione pittorica precedente dell’artista, sin dagli esordi rimasta ancorata
Julien Gremaud © Thomas Huber & Skopia/P.-H. Jaccaud / 2023, Pro Litteris, Zurich
Alessia Brughera
a un’identità quasi immutabile nello stile e nelle tematiche. È così che i dipinti raffiguranti imponenti edifici collocati in città utopiche e interni di architetture monumentali dalle atmosfere oniriche a cui l’artista ci aveva abituato lasciano ora il posto alla misteriosa potenza del lago e alla forza estetica del paesaggio. Permane però, filo rosso dell’intera ricerca di Huber, quell’attitudine a saggiare e mettere in discussione le possibilità della rappresentazione pittorica, caratteristica che ha fatto apprezzare l’artista da pubblico e critica sin da quando, nemmeno trentenne, nel 1984 venne invitato da Kasper König a esporre alla celebre rassegna Von hier aus a Düsseldorf insieme a nomi del calibro di Marina Abramović e Joseph Beuys, segnando così l’inizio del suo riconoscimento a livello internazionale. Da allora i suoi lavori fanno parte delle collezioni delle più importanti istituzioni museali, tra cui il Centre Pompidou di Parigi, e la sua indagine artistica continua ancora oggi a destare interesse, come dimostra la partecipazione alla sezione Art Unlimited di Art Basel 2023. La mostra dedicata a Thomas Huber negli spazi del Museo d’arte della Svizzera italiana a Lugano, nella sede espositiva del LAC, si concentra proprio sul nuovo ciclo intitolato Lago Maggiore, radunando una settantina circa di opere tra tele a olio di grande formato e acquerel-
li, tutti realizzati negli ultimi anni. Come si scopre dai dipinti in rassegna, presentati in un allestimento ben riuscito, concepito insieme al pittore, anche in questa serie Huber non abbandona i colori vivaci e le forme nette, e nemmeno il suo tradizionale modus operandi, contraddistinto dal procedere riflessivo e progettuale di chi indaga la composizione nei minimi dettagli. In questi lavori si potrebbe dire che l’approccio dell’artista sia quasi scientifico, come suggeriscono tra l’altro alcuni titoli di opere, costituiti dalla data della creazione del dipinto: al pari di Monet o del già citato Cézanne, Huber esplora le potenzialità della tecnica pittorica attraverso le trasformazioni del paesaggio, arrivando però anche a dare struttura alle emozioni che si provano di fronte alla forza elementare della natura. Punti di riferimento imprescindibili per questo ciclo sono per lui le opere di Ferdinand Hodler, di Félix Vallotton, di Alberto Giacometti e di Giovanni Segantini, così come le illustrazioni pubblicitarie della Svizzera turistica della prima metà del Novecento, con i loro tagli suggestivi e con le loro tinte briose. Huber reinterpreta così il genere pittorico del paesaggio in chiave contemporanea lasciando che l’ambiente naturale del Lago Maggiore domini incontrastato tutta la serie. E non stupisce allora che la presenza umana in questi lavori, proprio come accadeva in quelli del con-
nazionale Hodler, sia spesso completamente bandita. Per aprire il percorso espositivo di Lugano è stato emblematicamente scelto il dipinto Heimkehr, datato 2021 (nella foto), non solo per la sua capacità di incarnare quell’idea di ritorno alle origini che ha spinto l’artista a riavvicinarsi al luogo che più sentiva a lui affine ma anche perché rappresenta nella produzione di Huber il momento di snodo tra vecchio e nuovo. Attraverso le sue consuete forme ben definite e le sue superfici impeccabili, in quest’opera il pittore condensa l’universo simbolico che lo ha accompagnato per lungo tempo dischiudendo però le porte a un’inedita visione vibrante del paesaggio lacustre. In Bellavista, altro quadro particolarmente significativo per comprendere il passaggio alla più recente serie di dipinti, lo specchio d’acqua che riflette le vette alpine innevate si scorge dalle aperture di una struttura architettonica; al contempo però l’artista inserisce un enigmatico quadro nel quadro in cui la natura viene liberata da ogni restrizione per manifestarsi in totale libertà. Ci sono poi le tele in cui il lago riempie lo spazio pittorico: delimitato dalle catene montuose che si innalzano a destra e a sinistra, viene realizzato da Huber innescando un gioco di riflessi quasi impercettibili. La superficie dell’acqua è liscia, senza alcuna traccia di pennellata. Appare calma,
quieta, seppur lievemente animata da modulazioni cromatiche che danno forma a delicate sfumature: l’artista affina abilmente i suoi contorni donandole un chiarore e una brillantezza seducenti. Le medesime atmosfere dei dipinti si ritrovano anche negli acquerelli esposti in mostra, lavori leggiadri e luminosi che per il pittore sono una sorta di prima creazione in piccolo formato per poi giungere alla più grande dimensione. Con il ciclo dedicato al Lago Maggiore, Huber testimonia la sua capacità di rinnovare la propria arte pur continuando a portare avanti le considerazioni artistiche che da sempre lo hanno coinvolto. Ciò che più colpisce in queste opere è che il linguaggio impassibile, rigoroso e calibrato tipico del pittore riesca, senza cedere a facili sentimentalismi, a esprimere la presenza del lago come qualcosa di infinitamente più grande di noi, di incommensurabile. Qualcosa a noi vicino ma inafferrabile nella sua arcana profondità. Dove e quando Thomas Huber. Lago Maggiore. Lugano, Museo d’arte della Svizzera italiana – MASI. Fino al 28 gennaio 2024. Orari: ma-me-ve 11.00-18.00; gio 11.00-20.00; sa-do e festivi 10.00-18.00. www.masilugano.ch
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CULTURA
Sul tetto del Conservatorio c’era Mendelssohn Narrativa ◆ È uscito per Einaudi il romanzo di Jiří Weil, autore molto ammirato da Philip Roth
Fu un ordine tassativo. Impossibile eluderlo, veniva da molto in alto. Da Reinhard Heydrich, nominato dallo stesso Hitler nella primavera del 1941 governatore del Protettorato di Boemia e Moravia. Uno degli uomini più terribili del Terzo Reich, un feroce assassino ideatore della «soluzione finale» del problema ebraico nella conferenza di Wannsee. Da ragazzo suonava il violino nel quartetto di famiglia e amava la musica di Mozart, che per lui era tedesca, anche se dentro c’era la massoneria e «chissà cosa diavolo ancora». Non poteva quindi perdersi il Don Giovanni nella sala da concerto del Rudolfinum di Praga, ormai casa tedesca delle arti. Ma qualcosa lo aveva infastidito: la statua di un musicista ebreo sulla balaustra dell’edificio che, a suo parere, bisognava assolutamente rimuovere. Una follia, ma del tutto consona allo spirito del tempo: un vero nazista non sopportava certo un simile affronto.
In questo particolare romanzo, dove anche l’orrore è come ammorbidito da uno stile singolare e coinvolgente, c’è talvolta un colpo di fortuna Sembra l’incipit di un romanzo picaresco, impregnato di uno humour un po’ surreale, ma in realtà Sul tetto c’è Mendelssohn dello scrittore ceco Jiří Weil, edito da Einaudi nella bella versione di Giuseppe Dierna, è una storia, ambientata nella Praga occupata dai tedeschi (nella foto l’entrata dei nazisti in città), di persecuzioni e violenze naziste, un doloroso e tragico capitolo della Shoah, in cui nemmeno le progressive sconfitte della Germania possono portare un raggio di luce.
Figlio di genitori ebrei ortodossi, Weil, traduttore e giornalista, nato nel 1900 in un paesino non lontano da Praga, trascorse un paio di anni a Mosca dal 1933 al 1935, per poi essere espulso dal partito comunista per le sue critiche ai processi politici. Tornato nella capitale ceca pubblicò un resoconto delle purghe staliniane, La frontiera di Mosca, e sopravvisse, più tardi, all’Olocausto, grazie a una serie di sotterfugi, compreso un matrimonio combinato e un finto suicidio nella Moldavia. Vicende che stimolarono sia il romanzo del 1949, Una vita con la stella, sia la storia della statua di Menddelssohn, uscita nel 1960, un anno dopo la morte dell’autore molto ammirato da Philip Roth che lo paragonò a Babel’. Di statue nel romanzo ce ne sono a iosa, come una sorta di leitmotiv che attraversa le innumerevoli vicende tragicomiche in cui si condensa tutto il male di un’epoca. Ma purtroppo quella che Bečvář e Stankovský, i due inservienti cechi in bilico sul tetto cercavano, era difficile scovarla. Sembravano tutte uguali. Nemmeno il dottor Rabinovič, un dotto giudeo inviato dalla Comunità ebraica su ordine delle SS, ci riesce. Poi a qualcuno viene in mente che la statua giusta è quella col naso grosso, come hanno tutti gli ebrei secondo la «scienza della razza». Dev’essere allora quella col basco, dice Bečvář, nessun’altra ha un naso del genere. Peccato poi che la statua col cappio al collo depositata più tardi sulla balaustra, sia in realtà quella di Richard Wagner, il più grande compositore tedesco. L’episodio iniziale si proietta nel romanzo quasi a mitigare quel senso ineluttabile di morte che gira per la città e che all’epoca sembra non risparmiare nessuno e scivola accanto a chiunque. Persino al potentissimo
Keystone
Luigi Forte
Heydrich, che controllava l’intero apparato delle SS, vittima di un attentato organizzato da partigiani cecoslovacchi con l’aiuto dell’intelligence inglese. Mentre intanto all’Est si intensificano le eliminazioni con l’utilizzo del gas Zyklon, rapido e sicuro, e si localizzano nuovi insediamenti e lager come Terezín dove concentrare tutti gli ebrei evacuati, i cui beni riempiono grandi magazzini. Eppure in questa terribile realtà, in cui tutto sembra «trasformarsi in pie-
tra», la vita cerca riparo con la forza della speranza e dei sentimenti. C’è chi, come Jan Kruliš, mette al sicuro le giovanissime sorelle Adéla e Gréta, nipoti dell’amico Vorlitzer stroncato da una grave malattia, e nel frattempo si avvicina a un gruppo della resistenza. E chi, come l’ebreo Richard Reisinger, uomo dai mille lavori che ora fa il portiere presso la Comunità ebraica e per forza di cose si trova non di rado in compagnia di criminali e assassini della Gestapo, come fosse
«nemico della sua stessa gente». Anche lui alla fine si convince che combattere è ancora possibile per la pace e la libertà. Weil non risparmia le scene più crudeli come l’esecuzione di nove condannati che avevano solo commesso reati insignificanti, ma lascia in-travedere una fiduciosa attesa. Nel silenzio generale risuona un’unica parola: Stalingrado! Purtroppo la sconfitta tedesca è ancora lontana, mentre sempre più numerosi sono i convogli carichi di uomini, donne e bambini al gelo diretti verso la morte. Anche Franz Schönbaum, che prima della guerra arredava le abitazioni dei ricchi e lavorava in un famoso teatro di sinistra, si chiede quando sarà il suo turno, mentre il dotto Rabinovič, che un tempo parlava di Talmud e di Cabala, non ha più dubbi dal momento che le SS lo hanno caricato su un treno che ha un’unica destinazione. Eppure in questo singolare romanzo, dove anche l’orrore è come ammorbidito da uno stile singolare e coinvolgente, scorrevole e vivace, c’è talvolta un colpo di fortuna. Ne sa qualcosa l’inserviente Bečvář licenziato dal comune a causa della statua e spedito lontano nel Reich, ma rientrato poi a casa per aver salvato una ricca signora. Ben diverso sarà il destino delle bambine Adéla e Gréta sorprese per strada dalla polizia e picchiate a morte. Mentre la terra è ormai solo un deserto pietrificato dalla violenza, loro sembrano però librarsi su un paesaggio che torna a fiorire, in una natura che riprende a vivere. È il gesto solidale di Weil, che riabbraccia la speranza anche quando nasce da tanto dolore. Bibliografia Jiří Weil, Sul tetto c’è Mendelssohn, Einaudi, Torino, 2023.
Vite normali eppure straordinarie
Racconti ◆ Con la scrittrice messicana Guadalupe Nettel vagabondiamo tra storie e futuri possibili
La vita altrove, l’ultima raccolta di racconti di Guadalupe Nettel, tradotta in italiano da Federica Niola per la casa editrice La Nuova Frontiera conferma il talento indiscusso della scrittrice messicana che si è aggiudicata coi suoi testi precedenti importanti riconoscimenti letterari e che soprattutto continua a regalare a lettrici e lettori pagine perfette. Nei libri di Nettel si ritrova infatti ciò che a scuola viene insegnato essere il vero senso della letteratura: la capacità che i romanzi e i racconti letterari hanno di raccontare la verità, di prevederla anche, senza fornire giudizi o opinioni, garantendo quindi a chi legge il privilegio di godere di un’opera d’arte, a lungo e comodamente seduti sul proprio divano o in treno. È così anche nel caso di questa raccolta di racconti. Intanto, Nettel ci parla della pandemia e del lockdown, riportando quindi alla coscienza un evento che la società e i singoli individui hanno inevitabilmente e comprensibilmente la tendenza a rimuovere. Come è stato detto molte volte, in quanto shock sociale su scala globale il Covid non viene facilmente raccontato in film e libri proprio perché domina la ten-
denza a voler dimenticare quel periodo. Nettel lo fa in modo del tutto imprevisto e come solo le grandi scrittrici sanno fare: descrivendo situazioni intime da una parte e utilizzando quell’evento per interrogarsi, come da sempre fa la letteratura, sulla natura del Male. In Giocare col fuoco la voce narrante è quella di una madre con due figli che decide insieme al marito, appena il governo ne dà la possibilità, di andare a trascorrere un fine settimana in montagna. Il racconto che tocca le stesse vette che ricordiamo nella raccolta Stagioni diverse di Stephen King ha il ritmo del thriller e la capacità di farci riflettere sulle difficoltà dei ragazzini e delle ragazzine in quel periodo, senza mai nominare direttamente il tema del disagio giovanile, diventato ormai un leitmotiv per opinionisti vari. Anche Il torpore che chiude la raccolta racconta della pandemia, ma in una prospettiva distopica: il virus nominato non è il Covid e il testo è ambientato quindici anni dopo il primo lockdown, quando ormai l’intero mondo vive confinato in casa, interagendo e lavorando solo attraverso la rete. Anche in questo caso, Nettel offre un punto di vista del tutto origina-
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Laura Marzi
le: la protagonista della storia decide che l’ultima possibile forma di dissidenza, in una realtà in cui tutti hanno iniziato a volere solo dormire per sognare la vita vera, è la veglia. La pandemia ha, come risaputo, aumentato e amplificato, ovunque nel mondo occidentale, il tempo trascorso in famiglia: ci sono state esperienze felici di persone che hanno goduto della possibilità di stare di più insieme in casa con figli e consorti e altre per cui la protratta convivenza forzata è stata un vero e proprio incubo. In
diversi racconti contenuti in questa raccolta la famiglia è al centro della scena: in Imprinting una ragazza scopre per caso che suo zio, bandito misteriosamente dalla loro vita, è ricoverato in ospedale senza speranze di guarigione. Alla facilità dei due di ritessere una relazione fatta di complicità e affetto si contrappone una verità che Nettel racconta con maestria: senza nominarla, ma suggerendo alla lettrice e al lettore come, appunto, il Male alberghi laddove è più inatteso. In La porta rosa al centro della storia c’è una coppia. Il protagonista e voce narrante è un uomo di oltre sessant’anni sposato con una donna a cui lui attribuisce manie di controllo: «già prima di sposarci si era sempre premurata di prendere ogni singola decisione importante che riguardasse la nostra famiglia». Per questo, sentendosi quasi giustificato, decide di varcare la porta rosa che dà il titolo al racconto, convinto che lì lo attenda una prostituta, invece ad aspettarlo c’è una venditrice di caramelle che hanno il potere di far tornare indietro nel tempo. Attraverso questa storia psichedelica Nettel ci racconta come i drammi matrimoniali, le crisi di coppia siano in fondo un’illusione: l’i-
stituzione del matrimonio è più forte ed è immutabile, marito e moglie sono come marionette che si desiderano, litigano, non si sopportano, si biasimano per aver passato tanto tempo insieme e nulla di tutto ciò può davvero mai essere modificato dalla volontà individuale o dai singoli eventi. Nella raccolta esiste poi un filo conduttore tra tutti i racconti ed è il legame che Nettel tesse con animali, piante, vento: protagonisti a pieno di titolo di questo libro. A rimanere particolarmente impressi sono l’albero di araucaria in Un bosco sotto la terra e gli albatri in Albatri vaganti, specie di uccelli che avevano già raggiunto la fama letteraria grazie alla poesia di Charles Beaudelaire. Con la sua penna e la sua visione Nettel non ci fa rimpiangere il grande poeta francese, del resto: «il mondo è pieno di rarae aves, di bestie rare che non sanno neppure di essere tali» e Guadalupe Nettel è di certo una di loro, un rarissimo e benedetto talento letterario. Bibliografia Guadalupe Nettel, La vita altrove, traduzione di Federica Niola, La Nuova Frontiera, Roma, 2023.
Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVII 8 gennaio 2024
CULTURA
Un teatro inclusivo per un dialogo tra culture
La diversità nelle arti performative
Natascha Fioretti
Stefania Hubmann
«Per noi il teatro è prima di tutto un’occasione di incontro che nasce lavorando sulle storie. Non si tratta soltanto di raccontarle ma di viverle. In questo senso lavoriamo sull’idea di un teatro applicato in cui usiamo le basi del teatro per lavorare in contesti che non sono per forza teatrali e coinvolgendo in modi diversi le persone che si fanno partecipi di un progetto comune». Parte da qui il racconto di Demis Quadri, professore di Ricerca e didattica in Physical Theatre, Responsabile dei settori Ricerca & Servizi, docente di teoria e storia del teatro all’Accademia Teatro Dimitri affiliata alla SUPSI. Con lui andiamo alla scoperta del progetto In dialogo. Lungo i fili dell’arte, del linguaggio e della comunicazione che ha avuto una prima parte in questi iniziali mesi dell’inverno e che riprenderà sulla stessa scia e con lo stesso spirito in primavera. Nata dalla collaborazione tra l’Accademia Dimitri, il Teatro Zigoia e il centro di competenze Bisogni educativi, scuola e società (BESS) del DFA/SUPSI la rassegna di eventi culturali intende creare un percorso tematico volto a promuovere la coesione sociale, il dialogo tra le culture e a riflettere su come diverse identità possano consocersi e dialogare tra loro entrando in contatto. Un progetto ampio che accanto agli eventi prevede anche dei corsi laboratoriali di teatro: «l’idea è di far incontrare persone con provenienze, età, caratteristiche professionali diverse e farle lavorare insieme alla costruzione di percorsi narrativi attorno a dei racconti suggeriti dai luoghi in cui si trovano e da storie che invece scegliamo per l’occasione» dice Demis Quadri evidenziando come nel progetto siano state coinvolte anche persone richiedenti asilo o con statuto di rifugiato, oltre naturalmente alle persone appartenenti ai luoghi interessati.
A gennaio l’Accademia Dimitri riproporrà per la seconda volta un progetto probabilmente unico nel suo genere, nel contempo a vocazione internazionale e legato al territorio. Si tratta del corso di formazione continua Performing Arts and Inclusion destinato ad artisti con e senza disabilità impegnati a lavorare insieme acquisendo gli strumenti necessari per sviluppare progetti artistici partendo dalla loro creazione fino alla diffusione. L’inclusione di artisti con disabilità è una realtà anche sulla scena ticinese, per cui il nuovo attestato nella forma di un Certificate of Advanced Studies (CAS) risponde a un’esigenza della società. Fra i dodici iscritti figurano persone provenienti dal Ticino, dal resto della Svizzera e dall’Italia.
Per capire meglio è arrivato il momento di fare un esempio concreto raccontando Prepararsi all’inverno il primo dei tre eventi che hanno dato il via al progetto In dialogo. «Intanto è importante dire che il nostro percorso teatrale si svolge nei diversi territori compresi tra le Centovalli e Onsernone. Ad ispirare il primo appuntamento è stato Accendere un fuoco il racconto di Jack London in cui dove un uomo con il proprio cane si trova inaspettatamente esposto al freddo dell’inverno. Sulle orme di questa storia abbiamo costruito l’escursione teatrale intinerante con racconti e musica dal vivo percorrendo La via del Mercato da Palagnedra a Camedo. Tutto ha avuto inizio con una lenta cammniata finché passo passo ci siamo immersi nel bosco.». Nel secondo appuntamento invece i protagonisti della storia erano un gigante e una bambina «si, in questo caso a fare da fil rouge è stata la leggenda lappone di Naran, una ragazza sul ritorno verso casa viene sorpresa dal freddo e dal maltempo e trova rifugio
Formazione ◆ Al via la seconda edizione del progetto Performing Arts and Inclusion
«La diversità è fonte di ricchezza che permette di esplorare nuove forme di creazione individuale e collettiva»
sulle spalle di un gigante. I due iniziano a dialogare e su questa storia il gruppo teatrale ha iniziato a sviluppare delle attività naturalmente con la partecipazione del pubblico lungo gli itinerari del nostro cammino che in questo caso ci ha portati sul percorso degli antichi mestieri tra Borgnone e Lionza». Visto che la partecipazione del pubblico è un elemento fondamentale di questo teatro, sorge spontanea la domanda se per partecipare bisogna avere un bagaglio o delle conoscenze teatrali. «L’esperienza è aperta a tutti – ci tiene a sottolineare Demis Quadri – l’idea è proprio che sia un progetto inclusivo. Chiaramente coinvolgiamo persone che hanno un bagaglio teatrale per guidare le attività». L’altra curiosità che sorge è se il pubblico sin dall’inizio sa cosa avverrà. «Il pubblico partecipante quando giunge sul posto è consapevole del programma di massima e sa che si faranno delle attività di gruppo ma c’è anche l’effetto sorpresa che è parte di un teatro vivo e in divenire come quello che noi vogliamo proporre». Sembra chiaro a questo punto che un elemento fondamentale da instaurare sia quello della fiducia «le persone che arrivano sanno che parteciperanno ad un progetto comune. Per noi è fondamentale lavorare sulle basi della relazione, sul concetto di prendere e restituire. Con degli esercizi e delle pratiche aiutiamo a creare e promuovere dinamiche di gruppo, dinamiche di ascolto. Il nostro è un teatro vivo che si basa anche sulle reazioni del momento». I percorsi, le escursioni teatrali che l’Accademia Dimitri e il Teatro Zigoia propongono nascono dunque dal concetto cardine di «incontro interculturale – spiega Demis Quadri –
che prende forma facendo riferimento alle tradizioni passate dei luoghi – dunque come le persone delle valli si preparavano all’inverno mettendo ad esempio da parte le provviste –, raccontando delle storie che ispirano diverse attività come la danza o la raccolta di materiali trovati in natura per la costruzione di una figura come quella del gigante della storia di Nara». Il confronto e il dialogo sono il cuore dell’incontro che si fa emozionante nel momento in cui una persona che porta la sua testimonianza di come ci si prepara all’inverno in Africa racconta di stagioni delle piogge, alluvioni e morti. Non ci sono però soltanto gli eventi al centro di questo progetto che propone anche laboratori teatrali e artistici per le scuole che inizieranno a febbraio e per i centri anziani. «Abbiamo avviato anche una collaborazione con la Croce Rossa con cui stiamo facendo un percorso con persone che hanno differenti situazioni migratorie e retroterra culturali, ma che abitano nell’area delle due valli, del Locarnese o più in generale del Canton Ticino. L’idea è di creare un’antenna per l’integrazione coinvolgendo varie associazioni e enti e avviare insieme una riflessione teatrale allargata sulla coesione, l’identità e l’idea di comunità». Non resta allora che attendere il programma di quest’anno che si potrà vedere sul sito dell’Accademia Dimitri. Informazioni www.accademiadimitri.ch/ indialogo/
«La formazione pratico-teorica – spiega Daniel Bausch, responsabile della formazione continua all’Accademia Dimitri – non ha obiettivi terapeutici, bensì risponde a necessità artistiche, estetiche ed espressive del processo creativo nella diversità dei corpi. La diversità è considerata quale fonte di ricchezza che permette di esplorare nuove forme di creazione individuale e collettiva». I partecipanti hanno quindi già una formazione nel settore delle arti performative o una pratica professionale avanzata. Quest’ultima rientra nel concetto di Scuola universitaria professionale quale è la SUPSI, di cui l’Accademia Dimitri fa parte. Daniel Bausch, docente di Bachelor e membro della direzione dell’Accademia, aggiunge che «bisogna pure considerare come in questo ambito determinate formazioni di base per le persone con disabilità non esistano ancora». L’innovativo percorso dell’Accademia Dimitri, sperimentato con successo nella prima edizione del 2021, si fonda sul progetto di ricerca nazionale DisAbility on Stage promosso fra il 2015 e il 2019 dall’Institute for the Performing Arts and Film dell’Università delle Arti di Zurigo (Zürcher Hochschule der Künste). L’Accademia ticinese vi aveva partecipato con il progetto Disabled Bodies in Discourse dedicato a ciò che accomuna tali
pratiche sceniche con il teatro fisico. Il programma del corso è coordinato da Emanuel Rosenberg della compagnia luganese Teatro Danzabile, affiancato da rinomati insegnanti nell’ambito del teatro inclusivo provenienti da Paesi come Austria e Gran Bretagna. Spiega Daniel Bausch: «Claire Cunningham, ad esempio, è una coreografa e ballerina scozzese che si esibisce con le stampelle. Non è quindi solo il gruppo dei corsisti a essere composto da persone con e senza disabilità, ma anche quello dei docenti». Per quanto concerne i partecipanti, le disabilità possono essere molto diverse, dalle difficoltà di tipo cognitivo a quelle che interessano i sensi o ancora ai problemi motori. La formazione Performing Arts and Inclusion si adatta alle specificità degli iscritti, tenendo pure in considerazione le diverse lingue parlate, per cui il corso si svolge utilizzando più idiomi nell’ambito di un piccolo gruppo composto da un massimo di 14 persone. La formazione è prevista sull’arco di un anno con quattro moduli ognuno di 8-10 giorni durante i quali diverse ore sono dedicate al lavoro fisico. La parte teorica si focalizza sugli aspetti legati alla produzione e alla diffusione dei progetti artistici. «Sono questioni rilevanti – sottolinea il nostro interlocutore – per poter trasformare la propria creatività in uno spettacolo concreto. Presentazione del progetto, definizione del budget, ricerca dei finanziamenti sono aspetti che rientrano in questo ambito e che vengono messi in pratica nel lavoro finale di certificazione. A corso concluso, ognuno può utilizzare questo progetto nel rispettivo contesto di vita». In genere gli artisti che hanno frequentato la prima edizione del corso svolgono anche altre attività professionali; quelle delle persone senza disabilità sono sovente legate a contesti in cui la disabilità è presente. Fra i diversi CAS proposti dall’Accademia Dimitri, strettamenti legati all’attualità e alle nuove sfide della società, è in programma l’anno prossimo anche una formazione in collaborazione con Ginco Ticino per sfruttare le modalità del lavoro teatrale nell’accudimento degli anziani, in particolare quelli colpiti dal decadimento cognitivo. Informazioni www.accademiadimitri.ch
Accademia Dimitri
Incontri ◆ Demis Quadri racconta il progetto nato dalla collaborazione tra l’Accademia Dimitri, la SUPSI e il Teatro Zigoia
Non ci sono soltanto gli eventi al centro di questo progetto che propone anche laboratori teatrali e artistici per le scuole
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CULTURA
Libri salvifici per esistenze difficili
Narrativa ◆ La storia di Tookie che sopravvive al carcere grazie ai libri e rinasce in una libreria di Minneapolis
I libri possono salvare da una vita dissipata? Sì, non c’è dubbio. Così come non c’è dubbio che questa storia di redenzione grazie alla lettura (redenzione durissima, ma al tempo stesso incantevole, poiché venata di mitologia e di fiabe dei nativi americani) si ricolleghi a un filone che narra di esistenze, vere o immaginarie, in cui i libri hanno rappresentato l’estrema àncora di salvezza. Come nel caso di Jean Genet o di Arturo Bandini, il protagonista di Chiedi alla polvere di John Fante, così autobiografico sotto un velame di finzione. La vicenda prende avvio con l’arresto di Tookie, la protagonista, nella primavera del 2020 quando Minneapolis vive giornate di rabbia e guerriglia urbana a seguito dell’uccisione di George Floyd. Rea di avere aiutato un’amica a trasportare droga, Tookie viene condannata a sette anni di carcere ai quali sopravvive grazie a letture voraci che le fanno ingurgitare di tutto, dalle graphic novel a Proust, da Louis L’Amour a Almanac of the Dead. Tookie capisce ben presto che per lei leggere rappresenta l’illusione più efficace per trascinare la mente fuori da quel luogo claustrofobico. Ma ecco un avvenimento che ha del miracoloso: appena uscita di prigione trova lavoro in una piccola libreria di Minneapolis. Nel libro ci sono pagine splendide che descrivono i momenti di estasi di questa meravigliosa e dura professione: ac-
Keystone
Manuel Rossello
cadono ogni volta che una libraia incontra un lettore con cui condivide un entusiasmo sconfinato per un determinato scrittore. Tookie dunque si barcamena nella sua nuova vita tra i libri da vendere ma che vorrebbe solo per sé, come quando era in carcere, e l’esplorazione di Minneapolis alla ricerca di un pasto a poco prezzo. Ma Tookie ha sangue misto e spesso il sangue le va in subbuglio. Anche perché una cliente assidua, Flora, muore, ma si ripresenta alcuni giorni dopo sotto forma di spirito (il fiabesco di cui si diceva). La cosa sorprendente è che il fantasma di Flora continua ad aggirarsi per la li-
breria e a frugare tra le novità. Possibilissimo, del resto la mitologia degli indiani d’America, come ogni mitologia, mostra dei confini mentali permeabili e «vedere fantasmi» rientra tra le possibilità dei suoi codici narrativi. E si consideri che le librerie sono luoghi magici per eccellenza, come ha mostrato Borges nella Biblioteca di Babele. In ogni caso Tookie si rivela un’abile piazzista di libri: quando un cliente le rivela i propri gusti, le si attiva una fittissima rete di associazioni mentali, frutto delle sue sterminate letture carcerarie, e immancabilmente propone il libro perfetto. Ecco che cosa serve per
farsi una cultura: qualche anno di cella d’isolamento e una biblioteca fornita! La grande controversia riguardante le rivendicazioni dei nativi americani emerge costantemente nelle pagine del libro. Si scopre così, per esempio, che per loro la ricorrenza del Thanksgiving è un giorno infausto perché ricorda l’inizio dell’invasione dei primi coloni bianchi e le persecuzioni che seguirono. Perciò hanno ribattezzato quella festa Thanks-taking. E si rimane sbalorditi apprendendo che la legge che obbliga i musei etnografici a restituire i cadaveri dei nativi ai legittimi discendenti (rimuovendoli perciò dalle vetrine nei quali erano non di rado esposti) è stata varata solo nel 1990. Nel frattempo il fidanzato di Tookie è deciso a non farle dimenticare le loro comuni origini potawatomi: partecipano a cortei di protesta, organizzano mercatini, si impegnano per la Causa, sono orgogliosi delle loro radici. Ma sotto sotto, ci si potrebbe chiedere, tutto questo attivismo non è una scusa, un modo di sopravvivere vendendo chincaglieria etnica ai turisti? Un modo in fondo per illudersi di dare un senso, sia pure effimero e venale, a ciò che rimane della loro cultura defraudata dagli invasori? Ovviamente si intuisce l’osmosi tra la protagonista del libro e Louise Erdrich, essa stessa proprietaria di una libreria proprio a Minneapolis, così come la piccola libreria minacciata dalle grandi catene diventa facilmente me-
tafora dei territori dei nativi minacciati dall’avidità dei «bianchi». La stessa epifania spettrale di Flora (che aveva sostenuto di essere stata un’indiana in una sua vita precedente) è funzionale ad attivare una sorta di coscienza collettiva della comunità. Ma non si creda che L’anno che bruciammo i fantasmi sia solo un testo (giustamente) rivendicativo. È, anche, una lunga dichiarazione d’amore verso la letteratura. Ma pure il racconto delle traversie di una piccola comunità dove tra i suoi membri circola tenace la linfa della solidarietà, per di più insaporita dall’ironia. Assistiamo così agli sforzi, a volte rabbiosi, con cui i loro membri cercano di emanciparsi dalle strettoie di una cultura egemone che sentono ostile. Una comunità pulsante malgrado tutte le angherie subite, ostinata nel voler tenere in vita le antiche conoscenze tribali. Tookie sa che la società americana, in gran parte ancora maschilista e classista, è implacabile e la etichetta in base a un triplice, odioso stigma: donna, ex detenuta e nativa. Eppure, nonostante tutto, quei libri letti avidamente nel carcere l’hanno salvata e le hanno dato la forza di fornircene una splendida testimonianza. Bibliografia Louise Erdrich, L’anno che bruciammo i fantasmi, Milano, Feltrinelli, 2023. Annuncio pubblicitario
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CULTURA / RUBRICHE
Rosellina Bischof-Burri, una vita per la fotografia
Mostre ◆ Alla scoperta di Rösli, come veniva spesso chiamata da chi la conosceva bene, e del suo apporto all’arte dell’immagine
La Fondazione Svizzera per la fotografia di Winterthur dedica un importante e doveroso tributo a Rosellina Burri, moglie di Werner Bischof, rivelando quanto la sua figura sia stata imprescindibile per la crescita dell’arte fotografica a livello nazionale nel secondo dopoguerra. Figlia di emigranti dell’Europa dell’Est di origine ebraica, Rose Helene Mandel, più spesso chiamata Rosellina o Rösli, nasce a Zurigo nel 1925 e si forma come maestra di scuola d’asilo. Appena terminata la seconda guerra mondiale si reca a Rimini ad aiutare un’infanzia traumatizzata dal conflitto, lavorando con i ragazzi orfani al Centro Educativo Italo-Svizzero. In Italia, complice un reportage, conosce il futuro marito Werner Bischof (1916-1954). Un’unione affettiva e anche creativa: la coppia condivide passioni (l’arte, la fotografia) e ideali, come l’impegno sociale e le condizioni dell’infanzia. Tornati in Svizzera e celebrato il matrimonio nel 1949, Rosellina sostiene il lavoro del marito sia in ambito amministrativo sia in ambito più creativo – come testimoniano alcuni piccoli progetti e pubblicazioni. Accompagna Werner nei viaggi per tutto il mondo ed infatti è proprio con l’immagine iconica del loro soggiorno in Giappone che si apre l’esposizione. Qui Rösli appare assorta guardando l’orizzonte in un vestito nero con un gioco di cerchi bianchi, un vasto drappo che sembra formare una figura geometrica (nella foto). Un’immagine di grande lirismo ed equilibrio, tipica dello stile di Bischof. Un’altra, assai nota e presente in mostra, è l’istantanea di loro due seduti su una finestra, a New York, nello studio di Alexander Calder, in cui si intravvede una sottile
sagoma di fil di ferro e forme di una scultura dell’artista americano, volteggiare sui loro volti, còlti di sorpresa da Peter Bally. Si tratta di una piccola esposizione documentaria – formata da lettere ufficiali e altre, più private, scritte a mano e corredate da piccoli e meravigliosi disegni, provini di stampa e altri ricordi. L’aspetto più toccante è appunto questo: leggere, vedere con i propri occhi questi piccoli frammenti di vita alla luce di ciò che sapremo essere la precoce morte di Werner: come ad esempio, sconfinando nella grande mostra a fianco, una lettera scritta a macchina e non ancora finita di Bischof al grande artista svizzero Max Bill, con il quale faceva parte del gruppo Allianz e nella quale racconta le sue prime impressioni sulle rovine delle civiltà precolombiane. Nel viaggio americano, Rosellina non accompagnò Werner in Perù – partendo in aereo per la Svizzera da Città del Messico. Come è noto, nelle Ande il giovane fotografo, appena trentottenne, il 16 maggio 1954 perde la vita in un incidente automobilistico. Rösli, dopo il primo figlio Marco (1950), aspetta da lui un secondo figlio, Daniel che nasce nove giorni più tardi. Nonostante il lutto, Rosellina non si ferma: organizza la mostra itinerante che segue la pubblicazione dello stupendo libro del marito, intitolato Japan e premiato con il Prix Nadar nel 1955. Si impegna nella sede svizzera di Magnum, e grazie alle sue riconosciute doti organizzative, oltre a quelle umane e alla sua grande capacità di lavorare in gruppo, dà alla disciplina un contributo insostituibile. Tra il 1956 e i 1961, presso la Scuola d’arti applicate di Zurigo – dove Werner Bischof e molti altri validi autori stu-
© Werner Bischof Estate / Magnum Photo
Gian Franco Ragno
diarono fotografia con Hans Finsler – aiuta ad organizzare importantissime esposizioni: Henri Cartier-Bresson (1956), Robert Capa (1961) e soprattutto l’imprescindibile The Family of Man – prodotta tre anni prima da Edward Steichen e proveniente dal MoMA di New York (1958) – l’esposizione principe della fotografia umanistica. Nel 1963 sposa René Burri, e la coppia avrà altri due figli. Abbiamo sottolineato uno degli elementi principali della fotografia di reportage dell’epoca, ovvero l’impegno sociale per un mondo senza guerre. Si è usato per un certo periodo l’aggettivo inglese «concerned» ovvero impegnato, partecipato, preoccupato delle sorti del mondo contemporaneo – e da qui l’etichetta di Concerned Photography.
Ma vi è anche un altro aspetto centrale da considerare ed è la grande attenzione verso la qualità dell’insieme del messaggio che l’autore ha prodotto. Ciò si traduceva nel rifiuto per un certo tipo di tagli, nel controllo delle didascalie e dei testi – così importanti per il significato complessivo dei reportage. Per capire l’importanza e il peso delle iniziative a cui Rosellina diede il contributo bisogna immaginare un contesto ancora molto lontano dall’odierno. La fotografia tra gli anni Cinquanta e Settanta non era vista come arte e veniva guardata con sospetto da gran parte dell’arte ufficiale. Molti professionisti e addetti ai lavori si batterono per uno spazio e un riconoscimento all’interno delle più prestigiose sedi: il loro modello era
quello americano, come il ricordato MoMA che aveva al suo interno un dipartimento dedicato alla più giovane disciplina. E ciò avvenne nel 1971 con la costituzione di una Fondazione a tutela del patrimonio fotografico svizzero, all’interno del Kunsthaus di Zurigo, dove Rosellina è operativa nel mettere in campo piccole ma significative esposizioni sui protagonisti della fotografia mondiale, sia storici che contemporanei. Nel 2002, l’istituzione consacrata alla fotografia svizzera aprirà l’attuale sede nella cittadina di Winterthur in una zona industriale, congiuntamente a un’istituzione gemella, il Fotomuseum, che a sua volta guarda verso la fotografia su scala internazionale. Nel 1974 con Walter Binder e altri, Rosellina lavora alla mostra La fotografia svizzera dal 1840 a oggi, vero punto di partenza di tante ricerche successive. L’esposizione antologica nazionale ha un grande successo, in soli dieci giorni richiama più di 70’000 persone. Circa un decennio più tardi, nel 1986, proprio mentre lavora a una nuova esposizione antologica di Werner, Rosellina si spegne non vedendo la fine del progetto. Ripercorrendo le pagine della vita di Rosellina Bischof-Burri, appare chiaro un fatto: la cultura visiva svizzera ha potuto farsi strada non solo grazie ai suoi grandi autori ma anche grazie ai molti e seri professionisti che hanno lavorato con cura – dietro le quinte – alla valorizzazione e tutela di questo prezioso patrimonio. Dove e quando Rosellina – Vivere per la fotografia, Winterthur, Fotostiftung Schweiz, fino al 28 gennaio 2024. www.fotostiftungschweiz.ch
La ninfa Platée protagonista dell’opera barocca Musica ◆ All’Opernhaus di Zurigo fino al 16 gennaio va in scena il lavoro di Jean-Philippe Rameau
Sta avendo un enorme successo di pubblico all’Opernhaus di Zurigo Platée, opera lirica in un prologo e tre atti di Jean-Philippe Rameau, rappresentata per la prima volta a Versailles nel 1745, e su libretto di Adrien-Joseph Le Valois d’Orville e Balot de Sovot. Libretto tratto dal lavoro Platée ou Junon jalouse di Jacques Autreau che si riconduce a sua volta a uno scritto del geografo greco Pausania. Si tratta, per essere più precisi, di un ballet bouffon. Oltre che di lavori teatrali di ogni genere, di opere strumentali, mottetti e cantate profane, Rameau si era infatti sempre interessato anche del genere opéra-ballet, comédie-ballet e balletto. E le coreografie occupano ovviamente anche in Platée una posizione di primo piano. All’Opernhaus di Zurigo, dunque, si imbocca di nuovo la strada del barocco francese, e di nuovo con Rameau. Stavolta con una delle sue opere che segnano una tappa fondamentale nella storia del teatro in musica. Peraltro, con questo suo spettacolo epocale sotto ogni aspetto, il compositore francese diventa famoso anche fuori dei confini francesi. Intriso di una notevole verve drammatica e musicale, Platée ci offre tutte le caratteristiche dell’impagabile arte di Rameau, con quelle armonie e con quei ritmi,
con quelle cantabilità, espressività e orchestrazione di una modernità senza precedenti. In una potente lettura che, come detto, sta entusiasmando il pubblico, quella dell’Opernhaus è una produzione che punta sull’eccellenza di interpreti e orchestra. Alla testa dell’ormai famosissima Orchestra La Scintilla (specializzata in esecuzioni con strumenti d’epoca) è questa volta una donna, la cembalista francese Emmanuelle Haim. Con grande pertinenza stilistica, la Haim si dimostra sempre perfettamente in grado di coinvolgere in un fantastico virtuosismo tutti i musicisti (e per il continuo: Benoît Hartoin al cembalo, Claudius Hartmann: violoncello, Dieter Lange: violone), i cantanti e il Chor der Oper Zürich come sempre mirabilmente preparato da Janko Kastelic. Musicalmente, si può ben dire di assistere a un’esecuzione trascinante, a un’eloquente testimonianza delle tante finezze della partitura. Ottima anche la prestazione dei cantanti, soprattutto quella di Mathias Vidal che interpreta magnificamente quel personaggio bizzarro, ma di grande impatto che è Platée. Il tenore francese, specializzato nel repertorio barocco, dà impeccabilmente corpo e voce al personaggio della brutta e sgraziata ninfa di palude in tutte le sue sfaccettature: l’ingenu-
T+T Fotografie / Toni Suter + Tanja Dorendorf
Marinella Polli
ità, la dabbenaggine, l’incredibile sicurezza in sé stessa quando crede che Jupiter (e non solo lui) si possa innamorare perdutamente di lei e sposarla. Vidal, al suo debutto a Zurigo, è plausibile sia vocalmente sia scenicamente, destando sì ilarità – e non solo quando danza, o tenta di danzare, indossando il tutù bianco – , ma anche compassione per l’amara solitudine della povera ninfa di cui in fondo tutti si burlano. Del tutto a proprio agio anche Evan Hughes nei panni di uno Jupiter doverosamente regale e presuntuoso, Katia
Ledoux in quelli della gelosissima Junon, Renato Dolcini nel doppio ruolo di Satyre e Cithéron e, soprattutto, la strepitosa Mary Bevan nel ruolo tutto suo della Folie. Bravi anche Alasdair Kent (Thespis), Nathan Haller (Mercure), Theo Hofmann (Momus), Anna El-Kashem (Clarine e Thalie), Tania Lorenzo che interpreta Amour e tutti gli altri componenti del cast. La regista olandese Jetske Mijnssen trasporta Platée nel mondo contemporaneo, facendo molte allusioni alla Schadenfreude (ovvero alla gioia mali-
gna, o al piacere per la sfortuna degli altri) che permea il carattere di quasi tutti i personaggi. Forse anche per poter superare meglio i non pochi ostacoli rappresentati dal Teatro nel Teatro (ricordiamo che il titolo del prologo è Nascita della Commedia), ne fa però poche ai fasti e agli eccessi dell’Olimpo. La regista rende omaggio alla spumeggiante composizione di Rameau, ma lo fa, più che muovendo da una precisa idea di base, avvalendosi della scenografia fatta di pochi elementi, quali conchiglie (lo è anche la buca della souffleuse, ovvero di Platée) e conchigliette, luci e lucine di Ben Baur, dei moderni costumi moderni di Hannah Clark, del Light Design di Bernd Purkrabek e, soprattutto, delle numerose trovate giocose e ironiche ravvisabili nella coreografia parodistica di Kinsun Chan. Provenienti da ogni ordine di posti gli scroscianti e interminabili battimani all’indirizzo di tutti i partecipanti e, soprattutto, del tenore Mathias Vidal nel ruolo in titolo. Inoltre, di Emmanuelle Haim e della smagliante Orchestra La Scintilla. Le repliche di Platée di Jean-Philippe Rameau, in lingua francese e con sopratitoli in tedesco e inglese, si protrarranno all’Opernhaus di Zurigo fino al 16 gennaio e saranno riproposte nella prossima stagione.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXVII 8 gennaio 2024
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CULTURA / RUBRICHE
In fin della fiera
35
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di Bruno Gambarotta
Quando Iva Zanicchi rischiò di cadere dal palco ◆
«Cosa vuoi fare da grande?» mi domandavano quando ero piccolo. «Il reduce», rispondevo. «Vivere esperienze memorabili, invecchiare e poi sfinire il prossimo con i miei racconti». Sono anni che tengo duro in attesa di questo 70esimo compleanno. Il mio primo incontro con la televisione è nel 1956. In un night di Torino. Avevo 19 anni e lavoravo, si fa per dire, come fotoreporter per un’agenzia. Il boss mi affida un doppio incarico: riprendere la signorina Maria Luisa Garoppo, tabaccaia di Casale Monferrato e campionessa in carica di Lascia o raddoppia? sulla tragedia greca. La mattina dopo devo partire all’alba per Cervinia per un servizio su un convegno di pubblicitari. La signorina Garoppo, arrivata con due cavalieri, sarebbe stata indotta a prendere parte a ripetuti brindisi augurali. A un certo punto il pavimento della sala danze sarebbe stato tutto ricoperto da
materassi a molle e i presenti invitati a ballarci sopra. Io avrei dovuto cogliere con il mio flash l’attimo in cui la celebre campionessa avesse accettato l’invito alle danze. Scorrono le ore, tutti ballano, lei resta inchiodata alla sedia. Sono le tre. Mi faccio coraggio, mi avvicino: «Mi perdoni, ma il bus per Cervinia parte fra due ore». Ha l’aria di una che non ha capito, eppure sono stato chiaro. Mi spiego: «Prima di partire avrei bisogno di scattarle una fotografia». Finalmente! Si mette in posa. «Dovrei farla mentre balla sui materassi». Apriti cielo. Una furia. Mi addita: «Lui vuol farmi cacciare via dal quiz! Il signor Mike mi ha avvertito, guai se esce ancora una mia foto pubblicitaria!». Indietreggio traballando sui materassi e penso che forse quello non è il mestiere giusto per me. Se provassi a fare il cameraman? Sono trascorsi sei anni, è il 7 aprile 1962, il mio primo giorno di lavo-
ro alla sede Rai di Torino. L’ingegner Liverani mi istruisce: lei vada in uno dei due studi e chieda a un collega di farle provare la telecamera durante le prove. Allo studio 2 stanno registrando Giovanna la nonna del Corsaro Nero. Mi accosto alla numero tre. Il collega: sei quello nuovo? Vuoi provare? Me la molla e sparisce. Indosso le cuffie e seguo le indicazioni della regia. Dopo le prove si passa a registrare il programma, non oso dire niente. Dura un’ora, va tutto bene. La regista scende in studio per ringraziare la squadra, mi vede: «Lei chi è scusi?». È stata la prima delle tante fortune che mi sono capitate lavorando in Rai: essere battezzato dalla grandissima Dada Grimaldi, mancata a 104 anni pochi giorni or sono. Il collega che mi aveva ceduto il posto era Peppo Sacco, colui che anni dopo, creando Tele Biella, avrebbe aperto la diga alla concorrenza delle reti e alla ossessiva caccia all’indice di ascolto.
È difficile rendere l’idea a chi non c’era della centralità e dell’autorevolezza di quella Rai monopolista. Festival di Sanremo, 1958, teatro del casinò, un esordiente sta provando la sua canzone, Nel blu dipinto di blu. Il regista Vittorio Brignole dice al suo aiuto Massimo Scaglione: «Vai a dire a quel Modugno che canti quello che vuole ma non faccia quei salti che lo fanno uscire dall’inquadratura». Le trasmissioni chiudevano alle 23 e se il festival non era ancora terminato, pazienza. Ho debuttato nel 1965. Ero sul palcoscenico, inquadravo il direttore dell’orchestra e la sala. Di fianco a me i cantanti in attesa di entrare in scena. Iva Zanicchi, al suo primo festival con I tuoi anni più belli, in coppia con Gene Pitney, non obbedisce al cenno dell’aiuto regista, resta bloccata. In cuffia dalla regia: «dalle una spinta!». Ho esagerato un tantino, per un pelo non è finita giù dal palco.
Facevo parte della squadra per le riprese dei concerti di musica classica all’Auditorium di Torino. Si prova la Sinfonia dei Salmi di Igor Strawinskj, per coro e orchestra. Nella pausa, nell’ingresso artisti, sono davanti alla macchina dei caffè quando due mani di acciaio mi artigliano i glutei. Mi volto e una giunonica soprano si scusa: «Ti avevo preso per un collega, è dietro di me e quando cantiamo si prende delle libertà». La regista per le riprese dei concerti, dava gli stacchi seguendo lo spartito. Durante una diretta, invece di un foglio ne volta due e va nel panico. In quel momento sono in onda, inizio a passeggiare sull’orchestra inseguendo i suoni delle varie sezioni. Va a finire che mentre suonano gli archi inquadro gli ottoni che, in pausa, hanno capovolto gli strumenti per far colare la saliva. Un gesto rivoluzionario, Massimo Mila anni dopo se lo ricordava ancora.
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Pop Cult
di Benedicta Froelich
Capodanni, graduatorie e l’inevitabile rituale di inizio anno ◆
Anche stavolta, come avviene dopo ogni Capodanno, ecco che ci si ritrova perseguitati dall’immancabile rituale delle classifiche – ovvero, dalla necessità di decidere cosa di davvero stimabile o significativo rimanga dell’anno appena concluso; in altre parole, cosa valga la pena di portare con sé nel 2024. Normalmente, questa usanza si applica a qualsiasi prodotto commerciale nell’ambito della cultura popolare – ai dischi di musica leggera, così come ai film giunti nei cinema nel corso dei mesi, e perfino a videogiochi, programmi televisivi e, secondo le mode del momento, siti web e affini; per non parlare dell’obbligo, ormai sancito ufficialmente dalle maggiori riviste di costume, di scegliere quali figure pubbliche del momento incoronare come «personaggi dell’anno». Tutto ciò, però, pone anche ovvie pro-
blematiche; ad esempio, non è sempre facile definire quale sia l’elemento su cui si basano le decisioni dei media – se la scelta di una determinata opera o candidato sia legata alla qualità del lavoro artistico, o piuttosto alla sua popolarità. E, soprattutto, non è dato sapere quale dovrebbe essere il criterio alla base di tali classifiche – se il gradimento del pubblico vi giochi un ruolo, o se siano piuttosto le decisioni «ai vertici» a determinare le scelte dei fruitori. D’altra parte, se il parametro è costituito dalla notorietà, non si può negare come siano sempre più numerosi i casi di personaggi saliti alla ribalta per motivazioni quantomeno fatue, destinate a divenire rapidamente obsolete: in un mondo governato da influencer e trendsetter, è sufficiente qualche dichiarazione ardita per ritrovarsi non solo sulla bocca di tutti,
ma, quel che più conta, ampiamente citati dai maggiori social network. Eppure, spesso tale audacia corrisponde, anziché a effettiva grandezza, al semplice desiderio di ritrovarsi sotto i riflettori; quello stesso desiderio che, troppo spesso, conduce a un’effimera ma travolgente fama – nonché all’ingresso nelle ambitissime classifiche di fine anno. E poiché i social, e il web in generale, consentono a chiunque di ottenere i propri «quindici minuti di fama» – il più delle volte senza alcun merito apparente – c’è da scommettere che molti tra quelli che appariranno nella lista degli eventi più «gettonati» del 2023 saranno, infine, poco più che semplici bravate: basti pensare alle miriadi di ragazzini che, pur di conquistare poche centinaia di like su TikTok, sono disposti a lanciarsi in sfide (le cosiddette challenges) nelle quali rischiano – e,
a volte, addirittura perdono – la vita. Del resto, val la pena ricordare che a tutt’oggi, nel Guinness dei Primati, il titolo di «video live più visionato su Facebook» è detenuto da un capolavoro come Chewbacca Mask Lady (2016) – filmino amatoriale realizzato da una mamma texana che, indossata la maschera del celebre personaggio di Guerre Stellari, viene presa da un attacco di fou rire (l’intento: celebrare le piccole gioie della vita). Mentre oggi, la classifica dei filmati più «cliccati» del 2023 vede figurare, tra gli altri, uno degli exploit di Dumpy – celebre rana australiana la quale, grazie al sapiente editing operato dallo YouTuber di turno, in ogni video appare come a dir poco enorme accanto al suo proprietario: un trucco che ha tratto in inganno molti spettatori, presto convintisi dell’esistenza di una nuova razza di rane giganti. Il che sembra spin-
gerci a considerare come l’ambiguità – l’incapacità di distinguere il vero dal falso, specie quando ottenuto tramite manipolazioni digitali – sia oggi giunta a rappresentare qualcosa di perfino desiderabile, in netto contrasto con il passato. Eppure, dato che l’esperienza ci insegna come non vi sia modo di sottrarsi all’eterno rituale delle retrospettive di fine anno, forse l’unica soluzione al riguardo consiste nel tenere a mente che non tutto è riconducibile a una graduatoria, e neppure dovrebbe esserlo – tantomeno l’arte, la quale, per sua stessa definizione, non necessita di alcuna legittimazione da parte di organismi che, seppure più o meno validi, troppo spesso sembrano autoproclamarsi detentori della verità. Una volta appurato questo, forse anche l’inizio di un nuovo anno ci peserà un po’ meno.
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Xenia
di Melania Mazzucco
La strana amicizia tra Jessie White e Giuseppe Mazzini ◆
«L’unico scrittore sociale che la Democrazia abbia avuto in Italia» – ha sentenziato Giosuè Carducci – «è la signora Jessie Mario». Oggi il poeta che meritò l’epiteto di Vate (e il premio Nobel per la Letteratura nel 1906) è quasi dimenticato, salvo qualche ode nei programmi scolastici. Ma nell’Italia del 1879 la sua parola contava. Deve contare ancora, poiché non dispensava facilmente elogi. Dobbiamo perdonargli l’uso del genere maschile: allora era un complimento. Jessie è stata dunque un’importante scrittrice. Anche se Carducci apprezzava piuttosto le sue inchieste a tema sociale – sui brefotrofi, le opere pie, l’infanticidio, la pellagra, le condizioni dei contadini, dei minatori e del popolo di Napoli – sono notevoli anche le sue biografie dei protagonisti del Risorgimento (Mazzini, Garibaldi, Bertani, Nicotera, Cattaneo, i fratelli Cairoli).
Eppure non figurano in nessuna antologia. L’italiano non era la lingua madre di Jessie White. Per lei, nata a Portsmouth nel 1832, in una ricca famiglia della borghesia (i suoi costruivano velieri), l’Italia è stata una scelta e un destino. Figlia di puritani, era cresciuta fra Bibbia e preghiere. Ma fin da adolescente preferiva l’impegno, la questione sociale, l’emancipazione femminile, gli ultimi: l’azione, insomma. Leggeva i filosofi (il religioso Morell, il liberalista Stuart Mill), seguiva i dibattiti sulle riforme politiche e sociali che agitavano l’Inghilterra (in quegli anni Charles Dickens, pure lui di Portsmouth, mandava in stampa David Copperfield). A diciannove anni pubblicò i primi racconti anonimi con protagonisti operai e contadini: credeva fiduciosamente nell’educazione come pilastro del progresso sociale. Nel 1854 si trasferì a Parigi
per seguire i corsi di filosofia del teologo de Lamennais alla Sorbona. Alla metà dell’800, l’Italia era ancora la meta artistica e culturale dei giovani europei in viaggio di istruzione. Ma era diventata anche il paese del cuore di quanti sognavano di liberarla dall’occupazione straniera, dall’oppressione illiberale e monarchica, e di fondare una nazione unita, democratica e repubblicana. Così doveva essere per Jessie White. Accompagnando a Nizza la sua amica Emma Roberts, un’aristocratica inglese, vedova, che si considerava fidanzata con lui, conobbe Giuseppe Garibaldi. Al fascino del biondo guerrigliero dagli occhi azzurri, già eroe omerico delle guerre di liberazione nei due mondi, soggiace anche Jessie: ma è l’ideale della causa nazionale italiana che la seduce. Gli promette di rientrare in Inghilterra per studiare medicina e assistere così i
volontari delle future spedizioni. L’università però non accetta studentesse, e il sogno libertario di Jessie assume connotazioni più rischiose. A Londra entra in contatto con Giuseppe Mazzini, l’ascetico profeta della Giovine Italia, lì esule dopo vari processi ed espulsioni, inguaribile rivoluzionario e, secondo i re, i tiranni e la polizia di molti paesi di cui è la bestia nera, corruttore degli animi della gioventù, che trascina alla rivolta e alla rovina: insomma quel che oggi i benpensanti definirebbero un «cattivo maestro». Benché sia giovanissima, Mazzini la considera «seria ed energica» e le affida il compito di conquistare l’opinione pubblica inglese alla causa italiana e di organizzare – con una serie di conferenze dal titolo The emancipation of Italy – una raccolta fondi per finanziare le iniziative pratiche ed editoriali del movimento. Diventano amici,
e nulla più riuscirà a guastare il loro rapporto – né le gelosie delle altre adoratrici del profeta né la differenza di opinioni. Nel 1857 Mazzini rientra clandestinamente a Genova e le chiede di raggiungerlo. Jessie arriva dunque nel paese per cui già si è tanto prodigata, e si stabilisce in città come corrispondente del «Daily News». Il che le permette di spostarsi nella penisola, attirando su di sé l’attenzione della stampa. In realtà la professione di giornalista è una copertura perché Jessie è una cospiratrice, coinvolta nell’organizzazione della spedizione di Carlo Pisacane che mira a scatenare l’insurrezione nel Mezzogiorno. Le riunioni si tengono in casa di Alberto Mario, nobile di Rovigo, esule a Genova dal 1849. Carducci lo definì «il più naturalmente repubblicano degli italiani, il più artisticamente italiano dei repubblicani». (Continua)
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a partire da 2 pezzi
20% Tutto l'assortimento Knorr per es. salsa per arrosto, 230 g, 5.80 invece di 7.20 Migros Ticino 10
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Snack e aperitivi
Per uno spuntino o una merenda bilanc iati
conf. da 2
20%
20%
Tutto l'assortimento V-Love
Noci di anacardi o spicchi di mango secchi, Sun Queen
per es. scaloppina plant-based, surgelata, 4 pezzi, 340 g, 3.65 invece di 4.60
per es. noci di anacardi, 2 x 200 g, 5.40 invece di 6.80
a partire da 2 pezzi
20% Tutte le conserve di pesce Rio Mare e Albo
conf. da 4
30% 5.85 invece di 8.40
per es. tonno rosa all'olio d'oliva Rio Mare, 3 x 52 g, 5.60 invece di 6.95
Farina bianca M-Classic, IP-SUISSE 4 x 1 kg
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CUMULUS
Popcorn M-Classic
CUMULUS
Novità
4.95
Rice tta mig liorata e ora in tre gusti
al cioccolato o al caramello, in conf. speciale, per es. al cioccolato, 300 g, 2.80 invece di 3.50
Novità Insalate Neni penne al curry e pollo o ceci con tahina e cipolle, 200 g
Migros Ticino
1.85
Ketchup di pomodoro M-Classic Classic, Hot o Light, 500 ml
Offerte valide solo dal 9.1 al 15.1.2024, fino a esaurimento dello stock. 11
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Fiesta del Sol
Tutto per una fiesta mexicana tutta da gustare A tt enzione: extra picc ant e
20x
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Novità
Novità
Novità
CUMULUS
3.80
CUMULUS
Tortillas di frumento Fiesta del Sol 8 pezzi, 320 g
CUMULUS
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Red Chili Sauce Fiesta del Sol 200 ml
3.30
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Novità
Novità
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CUMULUS
4.20
CUMULUS
Tortillas integrali Fiesta del Sol 8 pezzi, 320 g
Habanero Salsa Fiesta del Sol 270 g
CUMULUS
3.80
Sliced Jalapeños Fiesta del Sol 210 g
3.30
Spicy Mango Salsa Fiesta del Sol 270 g
Con 33% di ve rdure
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Novità
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4.30
CUMULUS
Tortillas Fiesta del Sol carote o barbabietole, 6 pezzi, 370 g
1.10
Mescolanza di condimenti Fiesta del Sol Taco o Burrito, per es. Taco, 28 g
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Salsa di pomodoro con quel tocc o fruttato di mirt illi
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Novità
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CUMULUS
3.30
CUMULUS
Chipotle Dip Fiesta del Sol 300 g
3.30
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Novità
Novità
CUMULUS
4.95
Salsa Fiesta del Sol Blueberry, Dip dolce o Chunky Hot, 300 g
CUMULUS
Lemon & Chili Hot Sauce Fiesta del Sol
2.20
130 ml
Dip Fiesta del Sol Cheese, Sour Cream o Guacamole, 300 g
20x
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Novità
Novità
CUMULUS
1.10
CUMULUS
Fajita Mix Fiesta del Sol 30 g
4.95
LO SAPEVI? Con la nuova marca Migros «Fiesta del Sol» proponiamo un vasto e ricco assortimento di prodotti per la cucina messicana a prezzi equi. Sono prodotti dal gusto messicano autentico, versatili e facili da preparare. L'assortimento vanta ora nuove varianti di salse e dip, oltre a tortillas in diversi gusti che danno agli impasti diversi colori. E la linea viene continuamente ampliata, olé!
Smokey Sweet Hot Sauce Fiesta del Sol 130 ml
Offerte valide solo dal 9.1 al 15.1.2024, fino a esaurimento dello stock. 13
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Dolci e cioccolato
Rimedi davvero buoni per cali di zucchero e raucedine
conf. da 3
conf. da 3
33% 19.95
invece di 29.85
20% Palline al latte Lindt Lindor
Ragusa
3 x 200 g
in conf. multiple, per es. Classique, 3 x 100 g, 5.85 invece di 7.35
Pe r al le viare rauc edine e mal di gola
a partire da 2 pezzi
a partire da 2 pezzi
20%
30%
Pastiglie per la gola
Tutto l'assortimento Katjes
220 g e 110 g, per es. ribes nero, sacchetto da 220 g, 4.65 invece di 5.80
per es. coniglio dalle orecchie verdi, 200 g, 1.40 invece di 1.95
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Bevande
Frizzanti e no
conf. da 6
40% 7.50 invece di 12.50
Tutto l'assortimento Tuca per es. Citro, 6 x 1,5 l
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Evian 6 x 1,5 l
Ideali pe r la cura dei succ hi
invece di 6.60
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30% Bibite per aperitivo della marca Apéritiv in conf. da 6, per es. acqua tonica, 6 x 500 ml, 5.25 invece di 7.50
conf. da 12
Hit 6.40
20% Coca-Cola Classic o Zero, 12 x 150 ml
Tutte le bevande Biotta, non refrigerate bio, per es. mirtilli rossi Plus, 500 ml, 3.95 invece di 4.95
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Bellezza e cura del corpo
Qui è quasi tutta roba da uomini
conf. da 2
25% Deodoranti Rexona
e st at o t o t t o d o r P da or g ani t i n indipe nde
per es. roll-on Cobalt Dry 48h, 2 x 50 ml, 3.60 invece di 4.80
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Deodoranti Axe per es. spray Africa, 2 x 150 ml
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Fazzoletti di carta o salviettine cosmetiche Linsoft, FSC® in confezioni multiple o speciali, per es. fazzoletti di carta in scatola, 4 x 100 pezzi, 5.75 invece di 9.60
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IL TRUCCHETTO Così lo specchio del bagno non si appannerà dopo la doccia: applica un sottile strato di schiuma da barba sullo specchio e lascialo agire brevemente. Quindi rimuovi la schiuma con un panno in microfibra. La pellicola protettiva così creata impedisce al vapore di depositarsi e allo specchio di appannarsi. Ripeti l’operazione ogni due o tre settimane.
a partire da 2 pezzi
25% Tutto l'assortimento di prodotti per la cura del viso I am Men e Bulldog per es. rasoio I am Men, al pezzo, 3.75 invece di 4.95
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durata
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33% Rasoi usa e getta Gillette Blue II in conf. speciale, 20 pezzi
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Prodotti per la doccia Nivea Men per es. gel doccia Sport, 3 x 250 ml, 5.90 invece di 8.85
Schiuma da barba I am Men Sensitive (confezioni multiple escluse), 250 ml, 1.90 invece di 2.50
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Varie
Praticità e comodità per grandi e piccini
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30%
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Carta per uso domestico Twist
Tutti i coltelli da cucina e le forbici Cucina & Tavola e Victorinox
in conf. speciali, per es. Classic, FSC, 12 rotoli, 10.90 invece di 15.60
per es. coltello da pane Victorinox, il pezzo, 17.50 invece di 24.95
Pe r un fre sc o profumo ne g li armadi e ne i ca sse tt i
a partire da 2 pezzi
30% Tutto l'assortimento Migros Topline, Fresh, Sistema, Glasslock e Cuitisan Candl (prodotti Hit e borracce esclusi), per es. contenitore per frigorifero Topline blu, 0,75 litri, il pezzo, 3.50 invece di 4.95
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Novità
6.30
Sacchetti profumati M-Fresh Sensual Flower o Blue Fresh, 3 pezzi
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Fiori e giardino I n q ua l i t à
bio
Un inno alla natura
a partire da 2 pezzi
20% Tutte le pappe Hipp
Una be lla dec orazione pe r chi ha il pollic e ve rde
per es. spaghetti alla bolognese, bio, 190 g, 1.80 invece di 2.25
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Calze per bebè disponibili con diversi motivi, n. 10–14, 15–18, 19–22 e 23–26
Hit 12.30 Tulipani
mazzo, 30 pezzi, il mazzo
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Hit 24.95 Pantofole da uomo disponibili in blu, n. 40–45, il paio
16.95 invece di 19.95
Rose mazzo da 9, lunghezza dello stelo 60 cm, il mazzo
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Prosciutto crudo Emilia Romagna Italia, per 100 g, in self-service, offerta valida dall'11.1 al 14.1.2024
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Fettine di vitello IP-SUISSE per 100 g, in self-service, offerta valida dall'11.1 al 14.1.2024
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