Azione 07 del 11 febbraio 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Nell’ex scuola di Ravecchia è nata la casa del DaRe, un luogo di solidarietà e aggregazione

Ambiente e Benessere A beneficio dei laghi: azione di pulizia, contro la dispersione di plastiche nelle nostre acque

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 11 febbraio 2019

Azione 07 Politica e Economia Inizia domani il processo per i politici che hanno promosso la secessione della Catalogna

Cultura e Spettacoli Trent’anni dopo l’ultima retrospettiva, Zurigo invita a una riscoperta di Kokoschka

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Marka

A ciascuno il suo amore

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La forza della debolezza di Alessandro Zanoli La Sindrome di Asperger è una malattia molto particolare, per alcuni aspetti paragonabile all’autismo. Chi ne soffre però non mostra problemi cognitivi, cioè di intelligenza. Anzi. In molti casi i portatori di Asperger si dimostrano straordinariamente dotati di capacità intellettive: tra i colpiti dalla sindrome c’è persino un premio Nobel per l’economia, ad esempio. Gli aspetti più deficitari di chi soffre di Asperger sono la scarsità delle qualità emotive, come l’empatia, e la difficoltà di gestire le relazioni col prossimo. Non sembra il caso questo (o forse sì) di Greta Thunberg. In effetti è difficile valutare il suo grado di malattia. Da come l’abbiamo vista parlare durante le interviste rilasciate in occasione della sua protesta a Davos, al World Economic Forum di quest’anno, la piccola Greta, dall’alto dei suoi 16 anni, ha mostrato una grinta, una determinazione e una lucidità di espressione che fa sembrare malati molti di noi, piuttosto. Greta Thunberg è svedese, si esprime però in un inglese impeccabile. E nella stessa lingua aggiorna il suo profilo Facebook raccontando i vari momenti della sua vita, una

giovane esistenza che da un certo momento in poi è stata completamente risucchiata dal tema dell’ecologia e della sostenibilità. Con la determinazione la caparbietà che le viene dalla sua condizione patologica, Greta ha cominciato a raccogliere informazioni e dati sul tema della crisi ecologica globale che sta minacciando il nostro pianeta. Con la freddezza e la spietata aderenza al reale che, di nuovo, sono probabilmente dovute alla sua difficoltà di mediazione emotiva, ha lanciato e continua a lanciare un monito spietato a tutti noi. Greta non ha filtri. La sua disperazione per lo stato di salute del pianeta è proprio sottolineata dalla fissità dei suoi lineamenti, in quel suo volto impassibile da personaggio di una fiaba. Le sue affermazioni risolute sono pacatissime e sembrano gridate. Chiedono risposta. Lei stessa, nella sua razionalissima battaglia, ha cercato un modo per comunicare il suo malessere, per diffondere la consapevolezza del problema ecologico. E l’ha fatto nei modi che sono più propri a chi soffre del suo problema. Si è seduta, da sola, davanti al Parlamento di Stoccolma, con un cartello di protesta in mano, e si è rifiutata di andare a scuola. Una risposta minima ma dai grandi effetti, a considerare il modo con cui i

media hanno riportato la sua iniziativa. Ma ancor di più osservando il numero impressionante di nemici che hanno cominciato a bersagliare il suo profilo Facebook. Si chiamano «haters», in gergo: sono gli «odiatori», o meglio i seminatori di odio (di professione?), che attaccano nei loro spazi sui social network personaggi pubblici o figure istituzionali. Li sommergono con le peggiori accuse, con le insinuazioni più infamanti, non importa con quanta verità, ma con il solo scopo di infangarne la reputazione. Tanto che la piccola Greta, dall’alto dei suoi 16 anni, per difendersi, non ha potuto fare altro che ripetere la sua incredibile storia, spiegare le sue deboli, fortissime motivazioni, assicurare che dietro di lei no, non c’è proprio nessuno, se non i suoi genitori, stupiti ancora più di lei della sua forza e della sua determinazione. «La mia malattia non è un limite» dice Greta nella sua risposta. «Anzi credo proprio che sia la mia forza». Visti gli effetti inauditi scatenati dalla sua presa di posizione non si può che darle ragione. Chiunque si abbassi a infangare la protesta di Greta dimostra enormi incapacità di empatia, spaventose difficoltà a gestire le relazioni con il prossimo. Ma la diagnosi di Asperger a loro è negata. Troppo poco intelligenti.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 febbraio 2019 • N. 07

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Attualità Migros

Migros e i Maya

Il premio per la salute

Pompelmi messicani I l concentrato usato per il succo di pompelmo rosa di Migros

Kebab+ Selezionati

viene da una cooperativa della penisola messicana dello Yucatan: negli anni i cinque progetti si è sviluppata un’intensa collaborazione con il marchio per il commercio equo Max Havelaar che parteciperanno all’edizione 2019

Roland Schäfli L’uragano Irma che ha colpito la Florida nel 2017 ha distrutto gran parte delle coltivazioni di pompelmi statunitensi. Per trovare nuove fonti di approvvigionamento le aziende svizzere si sono rivolte all’America centrale: proprio lì è già attiva da oltre cinque anni la Bischofszell Nahrungsmittel AG (Bina), una delle realtà dell’Industria Migros. In particolare, nello Yucatan si trova un comparto produttivo gestito da alcune tenute agricole locali. I responsabili di Migros hanno cercato qui una fabbrica che fosse capace di adattare gradualmente i propri processi produttivi agli standard elvetici. Dopo intense ricerche si è potuta instaurare una proficua collaborazione con la fabbrica produttrice di succhi di frutta Arpen. Qui le idee di Migros hanno trovato una precisa sintonia con la concezione produttiva di un imprenditore locale, il quale intendeva realizzare un’azienda di commercio equo. Questo progetto ha potuto coniugarsi, quindi, con l’iniziativa di Migros, in modo che entrambi i contraenti ne tra-

I pompelmi arrivano alla fabbrica di succhi da un’area con 50 km di raggio. (Maurice Ressel )

essero vantaggio. Da parte della cooperativa elvetica, infatti, c’è l’impegno a provvedere al ritiro di tutta la produzione annuale, garantendo al progetto una solida continuità. Nella fabbrica giungono i camion

Fairtrade Max Havelaar Acquistando prodotti con il marchio Fairtrade Max Havelaar si permettono migliori entrate economiche e migliori condizioni di lavoro alle famiglie dei piccoli produttori e ai loro dipendenti. Entrambi possono godere di prezzi stabili nel tempo e premi di produzione «Fairtrade»,

uniti a una serie di consulenze specifiche in loco. Una parte del ricavato dalle vendite viene investito in progetti che vanno a vantaggio di tutta la comunità: costruzione di fontane, scuole e ospedali. Migros è partner di Max Havelaar dalla fondazione di quest’ultimo, nel 1992.

dalle coltivazioni poste nel raggio di 50 chilometri. I responsabili svizzeri fanno visita con regolarità all’azienda messicana, in particolare proprio nel momento del raccolto, importante per controllare la produzione e per valutare il mantenimento degli accordi presi e il futuro rinnovo della collaborazione. Interessante osservare che i colloqui tra partner avvengono nella lingua Maya, il mayathan, idioma che non è parlato al di fuori del gruppo sociale dei coltivatori messicani. Del resto, secondo quanto raccontano gli stessi proprietari delle piantagioni, molte delle tecniche che si utilizzano per la coltura sono tramandate da generazioni e non s’imparano semplicemente a scuola. Fanno parte delle tradizioni culturali dei Maya. Le nuove leve però devono

tener conto anche delle tecniche più moderne, ad esempio per ciò che riguarda la lotta alle piante nocive e ai parassiti. Tutto ciò permette ai succhi concentrati di mantenere l’alta qualità della linea di produzione proposta da Bina, con l’etichetta «Fairtrade Max Havelaar». La collaborazione dei coltivatori con l’industria svizzera permetterà un deciso miglioramento delle condizioni salariali locali. Oltre a questo, è stata messa in opera una coltivazione-vivaio in cui su 48 ettari vengono messi a dimora giovani alberi, che forniranno un ricambio in futuro. Al progetto, che richiederà vari anni per una sostituzione completa delle piantagioni, ha partecipato finanziariamente anche il governo messicano.

Kebab+ sta per «kochen, essen, begegnen, ausspannen, bewegen» (cucinare, mangiare, incontrare, rilassarsi, muoversi) ed è un progetto lanciato nel 2008 dal Percento culturale Migros in collaborazione con l’Associazione mantello svizzera per l’animazione socioculturale dell’infanzia e della gioventù DOJ. Nell’ambito di Kebab+, i centri giovanili ricevono un contributo finanziario per progetti che sensibilizzano i giovani a un’alimentazione e a uno stile di vita sani. I progetti possono essere presentati in tutta semplicità sul sito www.kebabplus.ch/it. Ogni anno, il Kebab+ Award premia le iniziative di maggiore successo. Fra gli 85 progetti presentati, sono cinque quelli selezionati dalla giuria; in lizza per il Kebab+ Award 2019: la «Festa delle generazioni» (Bösingen FR), l’«Atelier Cuisine du monde» (CransMontana), «jeton bringt Beton» (Basilea), «Sport e musica» (Mendrisio TI) e «Laisse tomber tes chips et ramène ta fraise» (Renens VD). Il 14 marzo, durante il festival svizzero del cinema giovanile «Schweizer Jugendfilmtage», i responsabili di progetto avranno modo di presentarsi al pubblico. Per quello che riguarda il progetto ticinese, «Sport e Musica», si è trattato di un variopinto festival organizzato da un gruppo di ragazzi nel centro giovani di Mendrisio. Gli organizzatori si sono occupati anche di realizzare un volantino e di pubblicizzare l’evento attraverso i media. Il torneo di calcio si è concluso con una cena a base di pasta per tutti, una lunga tavolata dedicata allo spirito della convivialità.

Una nuova stagione da scoprire FORUM elle È stato completato il calendario dell’associazione che riunisce le donne

convinte dei valori, delle attività e del knowhow di Migros Con il nuovo anno riprendono gli incontri di FORUM elle, l’organizzazione femminile di Migros. Con un programma di attività come sempre vario e stimolante, la Presidente della sezione ticinese, Gaby Malacrida, vuole offrire, assecondando l’intento del fondatore di Migros Gottlieb Duttweiler, un’ampia proposta di momenti di discussione, di approfondimenti su temi culturali e di visite guidate a manifestazioni culturali e luoghi di interesse. Il tutto indirizzato a un pubblico femminile, con un taglio il più possibile conviviale, ma senza per questo rinunciare ad af-

frontare in modo approfondito e competente temi importanti della nostra quotidianità. In tal modo, FORUM elle concretizza la sua volontà di rappresentare per le sue iscritte un momento di apprendimento e di socializzazione, in cui i più svariati argomenti e le materie più disparate possono diventare temi di dialogo, di conoscenza ma anche di divertimento intelligente. Nel programma della prossima stagione, infatti, accanto agli incontri che affrontano tematiche di attualità e propongono eventi di sicuro interesse culturale (come ad esempio la visita al

Ferdinand Hodler, Abend am Genfersee, 1895. (Kunsthaus Zurigo)

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Centro svizzero di Calcolo di Lugano, oppure la mostra dedicata ai pittori svizzeri Hodler, Segantini e Giacometti al MASILugano, o quella alla Pinacoteca Zuest di Rancate), troviamo appuntamenti più pratici e concreti, come il laboratorio di panificazione ai Mulini di Maroggia, e ancora veri momenti di alta gastronomia come la cena giapponese o quella sul San Salvatore. Uno dei momenti più interessanti, sarà di certo rappresentato dalla visita alla miniera d’oro di Sessa, occasione per vivere un’avventura inusuale e riscoprire l’emozione di osservare da vicino una delle imprese più singolari e coraggiose dell’industria del nostro Cantone. Ricordiamo che il programma annuale è riportato in dettaglio sul sito web www.forum-elle.ch (nella sezione dedicata al Ticino). In linea di principio tutte le attività proposte richiedono una quota di iscrizione di 10 franchi, che va inviata insieme al relativo tagliando di partecipazione alla segretaria Simona Guenzani (simona.guenzani@forum-elle.ch, tel. 091 923 82 02). La quota verrà rimborsata sotto forma

di carta regalo Migros/FORUM elle a tutte quelle socie che parteciperanno, nel corso dell’anno, a un minimo di cinque eventi. Tutti gli incontri sono

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

Tiratura 102’022 copie

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

aperti ad amiche, amici e simpatizzanti delle socie. Per iscriversi a FORUM elle Ticino basta compilare il formulario online; la quota annua è di CHF 30.–.

Calendario febbraio-settembre 2019 Mercoledì 27 febbraio – ore 19.30 Suitenhotel Parco Paradiso, Lugano. Cena giapponese al Tsukimi Tei. Mercoledì 13 marzo – ore 14.30 Visita al Centro Svizzero di calcolo scientifico. Giovedì 21 marzo – ore 16.30 Canvetto Luganese, Lugano. Assemblea Forum elle Ticino. Giovedì 4 aprile – ore 14.00 Mulino di Maroggia. Homebaker – impariamo a fare il pane. Mercoledì 8 maggio – giornata intera Visita alla Villa Borromeo Visconti Litta, Lainate. Giovedì 16 maggio – ore 18.00 Suitenhotel Parco Paradiso. Incontro con Luca Corti, responsabile

Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

comunicazione & cultura Migros Ticino. Giovedì 6 giugno– ore 14.30 MASILugano – Lac Lugano. Visita alla mostra Hodler – Segantini – Giacometti. Venerdì 14 giugno – ore 18.45 Ristorante Vetta Monte S. Salvatore. Cena d’inizio estate in vetta al San Salvatore. Giovedì 12 settembre – ore 13.30 Visita alla Miniera d’oro di Sessa – Malcantone. Ulteriori informazioni nelle locandine, scaricabili anche online all’indirizzo www.forum-elle.ch, incluso formulario d’adesione. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 febbraio 2019 • N. 07

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Idee e acquisti per la settimana

L’amore stuzzica la creatività

Gesti romantici 14 febbraio Alcune idee regalo

per la festa degli innamorati

San Valentino Nei reparti fiori delle filiali Migros Ticino

a volte i clienti arrivano con richieste originali…

Profumo da donna Apotheose de Rose* 100 ml Fr. 19.80

Jasmina Banjac, responsabile del reparto fiori di Migros Lugano, vi aspetta per proporvi le più belle creazioni floreali per un indimenticabile San Valentino.

Profumo da uomo JS Magnetic Power* 100 ml Fr. 15.90

Dei regali sempre apprezzati, non solo per San Valentino. Questi seducenti profumi per lui e per lei dalle fragranze contemporanee sono molto gettonati da coloro che desiderano celebrare la festa degli innamorati con stile, ma con un occhio di riguardo al budget. La delicatissima Eau de Toilette da donna Apotheose de Rose possiede una vita-

lità unica, grazie per esempio alle sue sublimi note di rosa, pera, mandarino e patchouli. L’uomo che ama le fragranze particolarmente speziate, sarà invece felice di ricevere la fragranza JS Magnetic Power. Essenze di mandorle, bergamotto, rosmarino e gelsomino, conferiscono al profumo un tocco di raffinata originalità e potenza.

Ellen Amber reggiseno nero* Fr. 24.95

Flavia Leuenberger Ceppi

Ellen Amber panty nero* Fr. 19.95

Jasmina Banjac ha 38 anni e lavora da ben 13 anni per Migros Ticino, nella filale di Lugano. È la responsabile del Reparto fiori. Le chiediamo se, per chi svolge il suo lavoro, la ricorrenza di San Valentino rappresenti una giornata speciale, in cui ci si può anche trovare confrontati con richieste particolari o curiose. Lei ci racconta che, in effetti, succede di frequente: la festa degli innamorati stimola la creatività e chi lavora nel settore deve tenersi pronto a dar forma alle dichiarazioni più affettuose. Forse la richiesta più originale che le è successo di ricevere negli ultimi anni è quella di un signore che ha ordinato quattro mazzi di rose rosse... ma ne voleva solo i petali. «Abbiamo dovuto lavorare un’intera mattina per toglierli ai fiori, utilizzando i tempi di attesa tra un cliente e l’altro», racconta Jasmina. «Alla fine i petali erano talmente tanti da riempire un’intera cassetta di pla-

stica. L’abbiamo consegnata la sera al cliente, che ne è stato molto contento». Altro episodio divertente è stato quello di un ragazzo che ha richiesto di creare un bracciale di rose per la sua fidanzata. Ha portato un disegno con la sua idea e Jasmina e le sue college sono riuscite a realizzarla per la gioia dell’innamorato. «Per accontentare il cliente si prova a fare anche cose che non si sono mai fatte: mettendoci l’impegno e la passione si impara sempre qualcosa». Jasmina ci mostra delle fotografie di varie creazioni floreali realizzate per il 14 febbraio. «Capita relativamente più di frequente che i clienti richiedano una composizione di rose, in cui all’interno del mazzo, con fiori di diverso colore, sia disegnata l’iniziale del nome della persona amata». Occorre quindi trovare i fiori che facciano da sfondo: la lettera viene poi composta con fiori dai petali più chiari.

Abbastanza spesso il mazzo di fiori da consegnare all’innamorata deve contenere una bella sorpresa: si tratta naturalmente dell’anello di fidanzamento. Con la complicità delle commesse all’interno del bouquet si nasconde quindi la tradizionale scatoletta scrigno. «A volte la richiesta è di inserire direttamente l’anello tra le foglie, senza scatola, in modo che chi riceve il gioiello lo possa trovare immediatamente», ci spiega ancora Jasmina. Più in generale, non si conta il numero delle persone che progettano di celebrare il proprio matrimonio proprio nel giorno di San Valentino. «In quelle occasioni siamo impegnati nella preparazione di numerosi mazzi, bouquet, composizioni e decorazioni a tema Cupido». Un lavoro complesso e in un certo senso di routine, ma che in quella giornata particolare assume naturalmente un carattere del tutto speciale.

Se per San Valentino non avete ancora deciso cosa indossare, ecco che nel variegato assortimento della nostra linea di lingerie firmata Ellen Amber troverete ciò che fa al caso vostro. Questi panty e il reggiseno coordinati in pizzo, ad esempio, rappresentano il completo perfetto per sedurre il proprio partner con eleganza e gusto. Alcuni consigli

affinché la vostra biancheria intima rimanga in perfetto stato a lungo. Chi lava la biancheria in lavatrice anziché a mano, dovrebbe utilizzare una retina da bucato a maglie fini. In questo modo le fibre dei capi non vengono danneggiate. Inoltre è importante utilizzare un detersivo per delicati e il lavaggio deve avvenire al massimo a 40 gradi.

Choco Love Cake* 210 g Fr. 4.95 * Gli articoli illustrati sono in vendita nelle maggiori filiali Migros

Un dolcetto davvero originale che conquista sin dal primo morso e che non può mancare in tavola come dopocena nel giorno della festa di San Valentino. Il Choco Love Cake è fatto apposta per tutti gli innamorati che cercano qualcosa di particolarmente sfizioso e diverso dal solito. Il dessert è arricchito con croccanti noci e gocce di cioccolato per un avvolgente con-

nubio di sapori, mentre le fave di Tonka gli conferiscono un tocco speziato e un profumo ricco. A proposito: le fave di Tonka, originarie del Centro e Sud America, contengono la cumarina, un composto aromatico utilizzato negli alimenti, nei liquori, in cosmetica e profumeria. Inoltre alle fave di Tonka vengono attribuite proprietà afrodisiache.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 febbraio 2019 • N. 07

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Idee e acquisti per la settimana

Merluzzo nordico Skrei

Attualità Gli specialisti dei reparti pesce Migros vi consigliano di assaggiare il saporito merluzzo norvegese

delle isole Lofoten certificato MSC, proveniente da pesca selvatica sostenibile

Azione 30%

Filetto dorsale di merluzzo Skrei MSC a libero servizio e al banco pesce. 100 g Fr. 3.35 invece di 4.80 dal 12 al 16.02

migusto.ch

È tempo di gustare il pregiato merluzzo norvegese Skrei, disponibile per un periodo limitato nei reparti pesce Migros. Da gennaio ad aprile, interi banchi di questo pesce migratore nuotano dal mare di Barents al largo delle isole Lofoten per riprodursi. Ed è proprio durante questo suo peregrinare che lo Skrei acquista i suoi pregi culinari, dal momento che sviluppa una carne magra, compatta, tenera e delicatamente saporita. I norvegesi hanno severamente regolamentato la pesca dello Skrei, al fine di preservarne gli stock ittici, tanto che solo il 10% dei pesci può essere catturato. Inoltre ciò deve avvenire con metodi tradizionali, principalmente con la lenza, e i pesci devono essere completamente cresciuti, ossia avere almeno cinque anni. Unicamente le aziende certificate dal Norwegian Seafood Council hanno l’autorizzazione a commercializzarlo. In cucina lo Skrei è, a ragione, considerato un pesce molto prelibato, apprezzato da chef stellati e buongustai esigenti. Data la sua versatilità, si presta a mille preparazioni diverse – al vapore, in umido, arrostito, fritto, al forno o grigliato – sposandosi a meraviglia con gli ingredienti più disparati, sia salati che dolci, dalle ricette della cucina tradizionale nordica a quelle mediterranee, fino alle specialità asiatiche. Infine, vi proponiamo una gustosa ricetta a base questo delicatissimo pesce: il merluzzo alle arance. Per 4 persone servono: 500 g di filetti dorsali di merluzzo Skrei, 1 cipolla, ½ arancia, 1½ cucchiai di semola di grano duro,

1 cucchiaino di farina, ½ cucchiaino d’erbe essiccate, ad es. timo, sale, pepe e 3 cucchiai d’olio d’arachidi. Scaldate il forno a 200 °C. Tagliate la cipolla ad anelli sottili. Pelate l’arancia al vivo, eliminando la pellicina bianca. Taglia-

tela in quarti, poi a fettine. Sciacquate il pesce sotto l’acqua fredda e tamponatelo con carta da cucina. Mescolate la semola di grano duro, la farina e metà del timo. Salate e pepate leggermente. Passate i filetti di pesce nella miscela di

semola e farina. Dorateli 1 minuto per lato nell’olio d’arachidi. Adagiateli su una teglia rivestita con carta da forno e distribuitevi sopra le cipolle e l’arancia. Terminate con il timo rimasto e cuocete il pesce in forno per ca. 15 minuti.

MSC (Marine Stewardship Council) è sinonimo di pesca sostenibile e certificata. Pesci e frutti di mare provengono unicamente da pesca selvatica. Migros è stato il primo dettagliante svizzero a proporre pesce e frutti di mare certificati MSC nelle proprie pescherie a servizio. MSC contribuisce a preservare le risorse, i pesci e il loro ambiente marino.

Voglia di bio? Attualità Naturale! Allora venite a provare le nostre bontà sostenibili, ottenute nel rispetto della natura,

dell’ambiente e degli animali

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Lo spuntino per i più piccoli da cereali biologici. Questi biscottini contengono succo denso d’agave leggermente dolcificato e sono di dimensioni adatte alle manine dei bimbi. Senza coloranti né conservanti. Ideali a partire da 1 anno di età.

Dissetarsi in modo sano e naturale all’insegna della regionalità. La tisana nostrana biologica prodotta dalla Sicas di Chiasso è leggermente zuccherata, non gassata, ed è fatta con estratti di erbe officinali dotate di proprietà particolarmente benefiche per l’organismo.

1 Biscottini alla spelta Alnatura

2 Tisana Nostrana Bio

125 g Fr. 1.90

50 cl Fr. 2.10

Queste finissime tagliatelle fresche di friscello di grano duro, ricche di uova da allevamento all’aperto, sono perfette per i vostri primi piatti più sfiziosi, come con del classico ragù alla bolognese o dell’aromatico pesto. Ideali per due persone, sono pronte in 2 minuti.

Le mele che piacciono a tutti, soprattutto ai bambini. Le mele Gala svizzere bio si caratterizzano per il loro bel colore giallo-rosso, il sapore marcatamente zuccherino e la croccantezza della polpa. Ricche di vitamine e nutrienti, sono una delizia sia crude che nei dessert.

3 Pasta fresca Bio

al kg Fr. 6.60

300 g Fr. 3.40

4 Mele Gala Bio

Prodotto secondo la ricetta tradizionale grigionese con cosce di maiali svizzeri allevati all’aperto nel rispetto delle loro esigenze, questo aromatico prosciutto crudo è una vera bontà accompagnato da un croccante pane rustico. Delicatamente affinato con sale e spezie, viene stagionato almeno sei mesi. 5 Prosciutto crudo grigionese

Bio affettato 100 g Fr. 8.50


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 febbraio 2019 • N. 07

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Società e Territorio Educazione attiva L’offerta formativa dei CEMEA si rivolge agli animatori delle colonie ma anche a educatori attivi in diversi ambiti

La magnifica fabbrica in mostra Il Museo della Scala di Milano ospita una mostra che ripercorre i 240 anni del Teatro: un’occasione per riflettere sul destino dei beni culturali pagina 11

Sport e disabilità L’attività dell’Associazione InSuperAbili a favore delle persone paraplegiche alle quali offre la possibilità di praticare un’ampia gamma di discipline sportive pagina 13

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Lara Robbiani Tognina presidente dell’associazione DaRe. (Vincenzo Cammarata)

La Casa del «DaRe»

Incontri Dentro alla quotidianità di una struttura che apre le proprie porte alle persone bisognose d’aiuto Maria Grazia Buletti «Sono arrivato in Svizzera con mia sorella, prima a Neuchâtel e poi ci hanno portati in Ticino. È molto bella, la Svizzera. Le persone sono molto gentili e ci aiutano. Ho seguito un corso di italiano, sei mesi soltanto, e ho imparato poco poco», parliamo con Amjad Alsaid, un ragazzo siriano che ci racconta del suo Paese dove vivono ancora i suoi genitori che non vede da ormai 7 anni. Con un velo di malinconia nei suoi grandi occhi neri ci racconta che laggiù: «Alla nostra famiglia manca tutto, anche da mangiare». Ma subito un sorriso lo illumina quando aggiunge: «Qui ho trovato casa, lavoro come magazziniere e tutti sono molto gentili». Siamo nell’ex scuola di Ravecchia, in via Belsoggiorno 22, alla casa del DaRe, dove DaRe sta per «Diritto a Restare». Una casa presa in affitto un paio d’anni or sono dall’omonima associazione (http://www.associazionedare. ch), a suo tempo nata come magazzino di stoccaggio per ogni genere di merce. «Ogni martedì siamo aperti per chi ci porta qui qualsiasi cosa in buono stato: dai vestiti ai giochi per bambini, dai generi di prima necessità (come ad esempio i kit di accoglienza per il neonato) fino a tutto quanto può servire per la casa: piatti, stoviglie, tovaglie, armadi, tazze e bicchieri. Qui questa merce

viene scelta, riordinata e ridistribuita alle persone bisognose», la presidente dell’associazione dalla quale la casa DaRe prende il nome è Lara Robbiani Tognina, una signora incontenibile, che sprizza energia da tutti i pori e che, coadiuvata da altri membri del suo Comitato, è accogliente anche con noi come con le persone che fanno capo a questa vecchia costruzione di quattro piani che lei ci fa visitare con orgoglio. Ci racconta che è aperta a tutti i bisognosi: «Qui, il giovedì, non arrivano soltanto richiedenti d’asilo in attesa di una risposta o coloro i quali già l’hanno ottenuta, vengono pure famiglie ticinesi residenti e famiglie domiciliate che si trovano alla soglia dell’assistenza, che stanno attraversando un momento difficile o che sono molto numerose e necessitano per lo più indumenti per i bambini (che pesano parecchio sul budget famigliare)». Le difficoltà e la povertà cui l’associazione DaRe e la sua relativa residenza cercano di dare sollievo non fanno distinzioni fra le persone e la loro provenienza. Questo ci ricorda le parole dello scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun quando dice: «Siamo tutti lo straniero di qualcun altro». Quest’esperienza che, dicevamo, qui a Ravecchia ha visto la luce circa due anni fa come magazzino, ad oggi è un vero e proprio tetto di accoglienza che

propone differenti attività: «I progetti dell’associazione DaRe per questo luogo sono tutto un divenire e cerchiamo di realizzarli secondo le risorse di cui disponiamo di volta in volta», racconta la signora Tognina che spiega come, oltre al magazzino, la casa è soprattutto un punto familiare di aggregazione: «Mi sento come in una famiglia allargata!». E continuando a farci da cicerone nella visita dello stabile continua a mostrarci locali e attività: «Abbiamo una sartoria per i migranti o per chi ha bisogno di sistemare i propri indumenti, offriamo conversazioni di italiano, stiamo organizzando incontri di ginnastica, c’è una cucina che ogni giovedì ci permette di preparare i pasti e ci si trova anche in 20-25 persone a pranzare tutti insieme». Oltre ai volontari che ne permettono il funzionamento, la casa del DaRe si avvale di cinque piani occupazionali (uno dei quali è quello di Amjad), il posto per un servizio civile (conosciamo Leonardo che studia sport e presto organizzerà ore di ginnastica per gli utenti) e in tasca un mare di altri progetti che, replica la presidente: «Crescono in base alle risorse dei nostri volontari». Nel corso della nostra visita viviamo un andirivieni di persone: giovani donne eritree con il pancione, una mamma dedita alle conversazioni che le servono ad imparare meglio l’italia-

no, il cui bambino si è addormentato su una poltrona e viene coperto e sorvegliato dai volontari. E ancora qualcuno che sceglie la merce e ne organizza la distribuzione, persone che arrivano a consegnare alcuni sacchi contenenti abiti e via dicendo: tutti con il sorriso, che si salutano, ci salutano, che scambiano due parole anche con noi. Dietro suggerimento della signora Tognina, ci promettono che faremo tutti insieme una bella fotografia come ricordo del pomeriggio passato insieme. Anch’essi si sentono «in famiglia» come la nostra interlocutrice che qualcuno definisce «la mamma dei migranti» e che ripete: «Questa è la mia famiglia allargata, la mia grande famiglia». Una realtà che ci induce a qualche riflessione e ci porta alla mente le parole di Don Andrea Gallo che a nostro avviso ben rappresentano questa realtà di accoglienza: «Io vedo che, quando allargo le braccia, i muri cadono. Accoglienza significa costruire dei ponti e non dei muri». «E pensare che quando mi sono chiesta cosa potevamo fare per accogliere queste persone, abbiamo iniziato anni fa semplicemente con il portare nei centri e nelle pensioni di Milano sacchi contenenti abbigliamento per i migranti e per chi ancora si trovava in quella zona grigia della richiesta d’asilo», ricorda la nostra interlocutrice che ribadisce il concetto

dell’accoglienza a 360 gradi pure di persone bisognose ticinesi e famiglie residenti. «Una casa che non si apre al di fuori, che non sa coniugare intimità e accoglienza, diventa una tana, o una tomba», ha detto la sociologa italiana Chiara Giaccardi. Non è il caso della casa del DaRe che accoglie tutti a braccia aperte. «Vorrei che la giornata avesse più delle 24 ore di cui disponiamo, per far fronte ad ogni richiesta e dare seguito ai numerosi progetti che ci frullano per la testa», conclude Lara Robbiani Tognina, mentre Alsaid è stato la sua ombra per tutto il tempo della nostra chiacchierata. È a lui che lasciamo dire in arabo: «‫»ريخب انأ انه ديعس انأ‬. «’ana saeid huna ’ana bikhayr», che significa: «Sono contento. Qui sto bene».

Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista a Lara Robbiani Tognina.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 febbraio 2019 • N. 07

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Società e Territorio

Il bambino al centro

Educazione attiva Le proposte formative dei CEMEA si rivolgono

agli animatori di colonie e a educatori attivi in diversi ambiti

Stefania Hubmann La necessità di personale formato per garantire ai bambini un’educazione attiva in ogni momento è sempre elevata pur manifestandosi in ambiti nuovi. Tali esigenze seguono lo sviluppo della società e quindi alle occasioni prettamente ricreative quali erano alcuni decenni fa le colonie estive si sono aggiunti nel tempo gli asili nido, i centri extrascolastici, le pause pranzo. In Ticino questo tipo di formazione non professionale ma di grande rilevanza, chiamata ad affrontare situazioni sempre più articolate, è assicurata da quasi mezzo secolo – la ricorrenza cadrà l’anno prossimo – dai CEMEA: Centri di Esercitazione ai Metodi dell’Educazione Attiva. Un acronimo ben conosciuto nell’ambito pedagogico, partner delle istituzioni e formatore ogni anno di diverse centinaia di persone. Partiamo proprio dai numeri che caratterizzano l’attività della Delegazione Ticino dei CEMEA. «Il programma 2019 appena pubblicato – precisa il segretario generale Paolo Bernasconi – racchiude una ventina di proposte di cui una parte sotto forma di stage, forma che privilegiamo. I formatori, tutti volontari, sono una quarantina». L’attività è sempre stata basata sul volontariato e solo da alcuni anni, di fronte al crescente sviluppo, sono state introdotte due figure professionali: il segretario generale e la segretaria amministrativa. L’associazione conta 250 soci il cui

unico scopo è la diffusione dei principi dell’educazione attiva attraverso il sostegno finanziario. In Ticino la nascita dei CEMEA è legata alle colonie dei sindacati di Rodi, dove già negli anni Cinquanta si erano svolti i primi stage. I formatori provenivano dall’Italia, ma il movimento di educatori ha origini francesi risalenti al 1937 e derivanti proprio dalla necessità di formare il personale delle colonie di vacanza. Oggi il raggio d’azione si è ampliato in Francia come negli oltre venti Paesi in cui si è diffuso il movimento. Per il Ticino il segretario generale precisa: «Attualmente i nostri settori d’intervento sono tre e riguardano gli animatori, gli educatori della prima infanzia e quelli dei centri extrascolastici, coprendo in questo modo una fascia d’età che va dai più piccoli (0-3 anni) fino agli adolescenti. Il fondamento che guida le formazioni è sempre il medesimo, ossia credere nell’educazione quale valore universale da promuovere in ogni contesto e momento concentrando l’attenzione sulla centralità della persona come pure sulle sue potenzialità». Lo stage di base per animatori di colonie, della durata di una decina di giorni, resta il cardine delle formazioni organizzate dai CEMEA. Queste attività hanno conosciuto al loro interno un’evoluzione che ha portato i monitori (obbligatoriamente maggiorenni) a confrontarsi con nuovi concetti e situazioni più complesse. La formazione,

composta anche da giornate tematiche, include quindi argomenti come la sicurezza, i primi soccorsi, la diversità. Nel 2003 con l’adozione della Legge per le famiglie i CEMEA hanno iniziato ad entrare nel mondo della prima infanzia, all’epoca ancora poco strutturato. Vi erano da un lato esigenze di formazione, dall’altro mancavano curricoli professionali specifici. Paolo Bernasconi: «I CEMEA ricevettero il mandato dal Cantone per offrire corsi di base, organizzati fino a una decina di anni fa. Oggi esistono formazioni adeguate anche nel nostro Cantone, ma la nostra organizzazione resta comunque un punto di riferimento per la formazione interna. Le équipe degli asili nido si rivolgono a noi con richieste precise attorno alle quali costruiamo un percorso formativo composto in genere da trenta ore suddivise in quindici incontri». Sempre attenti al contesto sociale e ai suoi mutamenti, i CEMEA si sono poi confrontati con nuove realtà in cui l’applicazione dei principi dell’educazione attiva trova terreno fertile. Si tratta in primo luogo dei centri extrascolastici, sorti per permettere ai genitori di conciliare gli impegni familiari con quelli professionali. Su mandato dell’Ufficio del sostegno a enti e attività per le famiglie e i giovani e in collaborazione con le educatrici e le direttrici di questi centri la Delegazione CEMEA Ticino ha realizzato nel 2014/15 un documento che racchiude le buone prati-

Esercizi di gioco per prepararsi alle colonie estive. (Ti-Press)

che a cui tendere per offrire un servizio di qualità. Altro momento sensibile è quello di mezzogiorno. Non a caso uno dei corsi inseriti nel programma di quest’anno si intitola «Dalla mensa alla pausa pranzo». La proposta è alla seconda edizione, come precisa Paolo Bernasconi, dopo aver conosciuto nel 2018 un ottimo successo con 40 iscritti. «Questo momento non va sottovalutato – aggiunge il segretario dei CEMEA – perché il bambino deve potersi rilassare spezzando il ritmo della giornata scolastica pur restando in un contesto collettivo. Vanno quindi predisposti gli spazi e le attività affinché ciò sia realizzabile». Anche qui il bambino resta «al centro dei centri» come recita il titolo del documento dedicato ai servizi extrascolastici. Malgrado il calo di partecipanti registrato dalle colonie di lunga durata (due settimane), compensato però dall’avvento di nuove proposte residenziali come i campi mirati dedicati alla natura oppure alla musica o alle discipline sportive, i CEMEA mantengono il focus su questa forma di esperienza.

«È un arricchimento importante per la crescita», conclude il nostro interlocutore rivolgendosi in questo caso più che altro ai genitori. «Vivere in una microcomunità, confrontarsi con diritti e doveri al suo interno, svolgere compiti pratici, conoscere nuovi bambini, sono tutte occasioni per acquisire competenze e indipendenza». I principi dei CEMEA comprendono infatti il rispetto e la considerazione per il bambino (e l’essere umano in generale), il contatto con la realtà e l’importanza dell’ambiente per un sano sviluppo dell’individuo con obiettivo ultimo il suo positivo inserimento nella società. Nell’attesa di sottolineare il traguardo del mezzo secolo di attività in Ticino con un evento di richiamo, i CEMEA offrono, oltre ai numerosi corsi, un sito (www.cemea.ch) ricco di informazioni e la possibilità di accedere al Centro di documentazione con sede a Mendrisio. Informazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 febbraio 2019 • N. 07

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Società e Territorio

I 240 anni della magnifica fabbrica Architettura Il Teatro alla Scala e il Palazzo dei Diamanti, beni culturali e interventi contemporanei

Alberto Caruso In occasione dell’apertura del cantiere dell’ultimo lotto del progetto di Mario Botta per il Teatro alla Scala, è stata allestita una mostra dal titolo intrigante La magnifica fabbrica, 240 anni del Teatro alla Scala da Piermarini a Botta. Aperta fino alla fine di aprile, la mostra merita una visita, soprattutto per chi è interessato alla vicenda storica e al destino dei beni culturali, in quest’epoca nella quale assistiamo spesso a pratiche di manomissione delle qualità sopravvissute al logorio del tempo e, insieme, a proposte di protezione di opere che invece ne sono prive. È un’occasione per riprendere il filo di una riflessione necessaria, che abbiamo iniziato parlando del Palazzo del Cinema di Locarno. Il lungo titolo della mostra è intrigante perché anticipa tutti i contenuti dell’esposizione: la storia dei progetti (da quello originario di Giuseppe Piermarini del 1778, all’ultimo intervento di Mario Botta) e l’estensione temporale delle attività di questa fabbrica, che continua ad essere magnifica dopo 240 anni. Nonostante l’allestimento non sia eccellente, perché costretto negli spazi angusti del Museo della Scala – ricolmi di memorie e documenti, ma inadatti ad un esposizione molto frequentata – e che il contenuto dei pannelli che illustrano la vicenda sia ripetitivo e scritto in modo troppo divulgativo – più rivolto al turista straniero che all’appassionato del teatro – la mostra riesce tuttavia a trasmettere un’informazione

importante, e ai più sconosciuta: che del manufatto costruito dal Piermarini non rimane oggi più nulla. A parte la radicale ricostruzione postbellica, prima di allora ogni parte del teatro e degli importanti spazi complementari è stata più volte sostituita o costruita ex novo. Anche la stessa immagine pubblica è completamente mutata nel tempo: si pensi, per esempio, che il colore prevalente dei rivestimenti in tessuto dei palchi e degli affreschi del palco arciducale era l’azzurro, e che solo alla fine dell’800 è diventato il rosso. Il fenomeno della permanenza dei beni culturali è di una complessità che impone diverse riflessioni. In questo caso, è la straordinaria corrispondenza, continuata nel tempo, tra la qualità architettonica degli spazi (del teatro vero e proprio, formato dalla sala, dai luoghi di accoglienza, dal palcoscenico) e la qualità dell’attività culturale che vi è stata esercitata (la musica e le messe in scena) che ha determinato la speciale resistenza del manufatto, nonostante le rilevanti trasformazioni. Anche il ruolo della sua architettura nella storia della città è stato importante, ed è soprattutto su questo che Mario Botta ha fondato le ragioni del suo progetto. Un tempo, piazza della Scala non esisteva, la cortina edificata di via Manzoni continuava anche davanti al teatro, cosicché soltanto l’avancorpo della galleria delle carrozze rompeva l’allineamento dei fronti, segnalando l’eccezionalità dell’edificio pubblico. Il punto di vista del passante era, stretto quanto la sezione della strada, e occul-

La mostra dedicata alla storia del Teatro alla Scala. (Andrea Martiradonna)

tava le vaste coperture, sopra le quali sono stati costruiti nel tempo diversi e disordinati volumi di servizio. Il lavoro di Botta, che ha previsto (oltre al nuovo palcoscenico) la sostituzione di tutti gli edifici costruiti intorno agli spazi dello spettacolo, è stato finalizzato proprio a mettere ordine nel paesaggio urbano. Anche chi a Milano non condivide il forte carattere del linguaggio dell’architetto ticinese, conviene sull’esito positivo del suo lavoro, nel senso che la sua opera stabilisce una continuità con le forme settecentesche, dimostrando che la cultura architettonica autenticamente contemporanea è capace di stabilire relazioni dialoganti con quelle più antiche. E che questo può avvenire quando il progetto riconosce le qualità spaziali

preesistenti e contribuisce alla loro permanenza. A questo proposito, ultimamente le pagine culturali dei quotidiani italiani si sono riempite di commenti dedicati ad un’altra vicenda architettonica, quella dell’ampliamento del Palazzo dei Diamanti di Ferrara, il cinquecentesco edificio di Biagio Rossetti, al centro della cosiddetta addizione erculea della città romagnola. È stato Vittorio Sgarbi, il vivace polemista dal pensiero ultraconservatore (lo stesso Sgarbi che da viceministro promosse diversi anni fa il mandato a Botta per la Scala), a denunciare come un delitto il progetto di costruzione di un piccolo edificio, progettato dallo studio romano Labics, nel giardino del palazzo. Non si tratta di un

ampliamento, ma di un edificio autonomo, un porticato quasi trasparente sorretto da sottili pilastri, che richiamano la James Simon Gallery costruita da David Chipperfield a Berlino davanti al Neues Museum. Esito di un pubblico concorso, organizzato dal comune di Ferrara insieme alla Soprintendenza ai Beni Culturali, l’opera si inserisce nel contesto monumentale stabilendo, con il suo linguaggio semplice e chiaro, una relazione positiva con il bene culturale. Il nuovo fabbricato è destinato a fornire gli spazi di accoglienza e di servizio indispensabili per la fruizione pubblica del museo ospitato nel palazzo. Il polverone suscitato è stato tale da indurre il Ministro dei Beni Culturali – membro di un governo che non si distingue per favorire la cultura – a contraddire i suoi funzionari e a negare l’autorizzazione. Il confronto con la cultura del nostro tempo terrorizza chi propaganda un cambiamento che in realtà si rivela un pesante arretramento civile. Il Teatro alla Scala e il palazzo dei Diamanti sono beni di valore indiscusso, e le loro vicende, dall’esito diametralmente opposto, indicano come la questione centrale nelle pratiche di tutela e valorizzazione dei beni culturali antichi è sempre quella della relazione con la cultura contemporanea. È un confronto che non si può eludere e che può produrre risultati eccellenti o fallimentari, a seconda che siamo capaci o meno di riconoscere le ragioni della permanenza del bene, della sua resistenza al tempo, facendole diventare il tema del nuovo progetto. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

«Lo sport dimostra come l’inclusione sia possibile»

Disabilità L ’attività dell’Associazione InSuperAbili a favore delle persone paraplegiche alle quali offre consulenza,

sostegno e la possibilità di praticare un’ampia gamma di discipline sportive Natascha Fioretti Nella vita, sia sul lavoro, sia nel privato, ho imparato quanto la condivisione di un’esperienza possa fare la differenza. L’esperienza personale unisce le persone, i progetti e gli intenti. Condividere, seppur con sfumature diverse, il contatto fisico ed emotivo con una certa realtà delle cose cambia lo sguardo ma, soprattutto, nelle persone accende un motore, una forza di volontà che altrimenti manca. È questo il mio ragionamento mentre ascolto Walter Lisetto parlarmi degli InSuperAbili, l’Associazione che presiede dal 2012, da quando un gruppo di ragazzi con disabilità che praticava handbike gli ha chiesto se voleva farne parte. «Per me questa opportunità ha simboleggiato la chiusura di un cerchio. Ho sentito che aderire al progetto era la cosa giusta da fare». Walter Lisetto ha un fratello che, giovanissimo, è rimasto tetraplegico a causa di un incidente. Non è facile in questi casi scendere a patti con la nuova esistenza anche quando i famigliari danno tutto il loro supporto e le cure mediche adeguate non mancano. «Mio fratello non è mai riuscito ad accettare la sua nuova condizione. Come dice lo scrittore italiano Giuseppe Pontiggia nel suo libro Nati due volte, chi fa questa esperienza vive due volte e la seconda deve iniziare tutto da zero. Non potendo essere d’aiuto a mio fratello nella misura in cui avrei voluto, mi è sembrato naturale poterlo offrire ad altre persone pronte, nonostante tutte le difficoltà e le barriere del caso, ad accettare la loro nuova condizione e ad abbracciare una nuova vita». L’Associazione InSuperAbili è una delle 27 sezioni ufficiali dell’Associazione Svizzera dei Paraplegici (ASP) di Nottwill, l’associazione mantello delle persone mielolese, che in tutta la Confederazione conta oltre 11’000 membri tra soci attivi (con disabilità) e soci passivi (sostenitori). Lo scopo degli InSuperAbili è quello di aiutare le persone con disabilità a rimettersi in pista dopo un grave infortunio o una pesante malattia. E quale migliore ricetta se non quella dello sport che in molti casi si rivela essere uno straordinario percorso di recupero personale e di integrazione sociale. «La nostra associazione no-profit crede fortemente nello sport e sin dalla sua fondazione, oltre a tutte le

Nelle gare di handbike spesso atleti, disabili e non, gareggiano fianco a fianco. (www.insuperabili. ch)

attività di tempo libero, gite, cene enogastronomiche, visite ai musei, offre un’ampia gamma di discipline sportive ai propri membri». L’associazione che oggi conta 350 soci tra i quali 80 attivi, si propone, inoltre, di tutelare gli interessi dei mielolesi nei confronti del pubblico e delle autorità, incoraggiare e sviluppare l’amicizia e la solidarietà fra i soci, promuovere le pari opportunità delle persone disabili nella società, collaborare con altri Enti, pubblici o privati, con analoghi scopi e abbattere le barriere architettoniche. «In altre parole il nostro club permette alle persone con disabilità di inserirsi in un nuovo tessuto sociale, fare amicizia e, attraverso l’esempio dello sport, e il senso di emulazione che ne deriva, trasmettere un messaggio tanto semplice quanto fondamentale: “se quella ragazza tetraplegica riesce a divertirsi facendo aerogravity o andando a sciare, posso riuscirci anch’io”», conclude Walter Lisetto. Tra le varie discipline, gli InSuperAbili offrono la possibilità di fare nuoto, tennis, giornate in montagna sugli sci, attività di vela, parapendio e molto altro. Quella che ha più successo è sicuramente l’handbike. Ne sa qualcosa Gian Paolo Donghi che fa parte

del team e da dieci anni, dal 2008, è il referente dell’ASP per il Ticino. In altre parole è l’antenna sul territorio della Svizzera italiana per il Centro svizzero per paraplegici di Nottwill e attraverso la tecnica del Peer Counseling, «Consulenza tra pari», basata sul principio di reciproco scambio d’idee tra due persone che si trovano in una situazione di vita simile, ha il compito di seguire le persone che arrivano a Nottwill nel loro percorso di recupero. Gian Paolo Donghi ha avuto un incidente in moto nel 1992 e da allora è paraplegico. L’ho conosciuto in occasione di un evento sulla disabilità tenutosi a Lugano dal titolo «Una vita senza barriere. Disabili siamo tutti» organizzato da Business Professional Women Ticino e dall’Associazione Down Universe. In quell’occasione ha raccontato la sua storia mettendo a fuoco alcuni punti essenziali per chi vive esperienze come la sua: l’importanza di rientrare al lavoro, l’opportunità di poter fare una riqualifica professionale se necessario, l’inclusione nella società, l’autonomia e la possibilità di fare sport. «Partecipo spesso a gare in handbike, ed in queste occasioni sportive atleti disabili e non, gareggiano fianco a fian-

co. Mi sento di affermare che lo sport è davvero un terreno fertile in grado di dimostrare come l’inclusione sia possibile e reale. È un ambito nel quale i valori dell’inclusione e del rispetto reciproco sono messi in atto da persone che condividono la passione per una sana competizione sportiva. Un ambito al quale sarebbe sicuramente vantaggioso ispirarsi e da cui si potrebbero trarre modelli concreti e positivi da estendere ad altri settori della vita sociale». Oggi grazie al suo lavoro Gian Paolo Donghi aiuta persone che si trovano nella sua stessa situazione a trovare la ricetta per andare avanti. Ad esempio con la consulenza di un architetto valuta se l’appartamento è idoneo a ricevere la persona una volta dimessa da Nottwill oppure se sono necessarie delle modifiche. «Inoltro le richieste all’ASP per gli aiuti finanziari necessari, nel caso una persona decida di praticare dello sport le indico a chi rivolgersi, fornisco consigli riguardo ai mezzi ausiliari da acquistare. Seguo la persona in tutto e per tutto, sono il suo punto di riferimento». Gli chiedo se in dieci anni di attività c’è stata una persona o una storia che gli è rimasta particolarmente impressa.

mento»: «quindi ti piacciono i ciccioni, Sera». A scoperchiare le tensioni contribuirà, come spesso accade, la fatidica gita scolastica. Sera però ha fatto la sua scelta: con più ottimismo che in Stargirl (il classico di Jerry Spinelli sulla resistenza all’omologazione), i due ragazzi vanno oltre le apparenze e s’incamminano con libertà e allegria nel loro percorso di crescita. Il romanzo della scrittrice tedesca Stefanie Höfler si regge su una scrittura (ben tradotta da Anna Patrucco Becchi) che rende con immediatezza il pensiero dei due ragazzi: i capitoli alternano, con caratteri tipografici diversi, la prospettiva di Sera e quella di Niko. I loro punti di vista ci raccontano con caustica consapevolezza non solo se stessi e i coetanei, ma anche il mondo adulto che li circonda, a cominciare dagli insegnanti (la Höfler è insegnante e sa quel che dice!), certo animati da buona volontà, tuttavia non sempre in grado di comprendere appieno il disagio dei ragazzi.

Pierdomenico Baccalario (illustrazioni di Anna Pirolli), E poi viene il momento, Salani. Da 5 anni Nella vita di tutti viene sempre il momento di qualcosa e nella vita dei bambini ancora di più. I loro momenti scandiscono con gioia le tappe della crescita, la conquista dell’autonomia. Ma anche i momenti degli adulti scandiscono i tempi della vita, a volte con la baldanza del progetto, altre volte con il saper accogliere il cambiamento. È una bella idea, questa, di Pierdomenico Baccalario: attraverso sei momenti chiave che segnano delle nuove pagine esistenziali, ci racconta l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta e l’età matura. I momenti sono sempre quelli: «e poi viene il momento di diventare grandi / di fare grandi progetti / di non avere paura / di imparare cose nuove / di trovare nuovi amici / di fare grandi promesse», ma il loro significato, essendo ad ampio spettro di interpretazioni, cambia a

«C’è stato il caso di un ragazzo – racconta – che conoscevo, veniva con noi a sciare, ci accompagnava nelle nostre uscite in carrozzina. Un bel giorno ha avuto un infortunio con la bicicletta ed è rimasto tetraplegico. E lì devo dire la verità, l’ho detto anche ai miei superiori, ho avuto un po’ di difficoltà quando sulla lista ho visto il suo nome. Il primo giorno sono andato a trovarlo in clinica e mi ha fatto un certo effetto. Lui è stato bravo, mi ha messo subito a mio agio. Mi ha detto “stavolta è capitato a me, nessuno è immune”». Se associazioni come gli InSuperAbili offrono preziosi esempi di inclusione e di vita comune all’insegna del rispetto e del divertimento, non è sempre lo stesso nei nostri contesti di vita urbana. Gian Paolo Donghi è dovuto arrivare con mezz’ora di ritardo al nostro appuntamento in centro a Lugano per via di una Smart che abusivamente occupava due parcheggi riservati a persone con disabilità dietro al Casinò. L’inclusione passa anche da qui, ricordiamocelo. E se avete voglia di diventare anche voi degli InSuperAbili, contattate l’Associazione, i volontari non sono mai abbastanza! (info@insuperabili.ch)

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Stefanie Höfler, Il ballo della medusa, La Nuova Frontiera Junior. Da 12 anni «Ti immagini essere come lui?»: l’incipit di questo romanzo ne esprime bene il senso. C’è qualcuno che è diverso, e che in quanto tale suscita sia scherno, sia (forse) un briciolo di compassione, sia sollievo per non essere come lui. Per essere invece come è prescritto che si sia dalle leggi non scritte del gruppo dei pari che contano. E c’è qualcuno di questo gruppo dei pari che contano che lo guarda, commentando con gli altri. Ti immagini essere come lui? Lo sguardo del branco adolescente non perdona: o se sei come noi o sei «sfigato». Il diverso, in questo caso, è Niko, un ragazzo in sovrappeso. Una fine sensibilità e una sottile ironia dentro quel corpo grasso, che Niko si porta dietro come uno scomodo fardello, sì, ma a volte anche come una comoda corazza, o come «un bozzolo molto spazioso per superare l’inverno». L’inverno dell’adolescenza, delle domande

senza risposta, delle ferite dell’abbandono. Vive con la nonna, a cui l’hanno affidato i genitori, e vive in un mondo tutto suo, dove cerca di non farsi scalfire dalle emozioni e dalla malevolenza. Ma il bozzolo si incrina quando nella vita di Niko entra Sera, una compagna di classe bella e benvoluta: all’inizio Sera si avvicina a Niko per un senso di gratitudine, perché lui l’ha difesa coraggiosamente da un compagno che la molestava, poi però comincia ad essere attratta da quella dignità, quell’assenza di vittimismo, quell’intelligenza acuta. Come si può ben immaginare, il gruppo non le perdonerà questo «tradi-

seconda della fase della vita. Il «non avere paura» può essere, ad esempio, per un bambino, non temere la notte, mentre per un adulto le paure si declineranno in altro modo. È ovvio che importantissime sono le illustrazioni, che ci danno ogni volta il significato per quel momento (nel caso del «non avere paura» adulto vediamo due mani di sposi che si infilano l’anello), perché il testo è sempre, volutamente, uguale. Sarebbe interessante capire come Baccalario, esperto storyteller, abbia interagito con l’illustratrice Anna Pirolli. Un libro per i bambini e per tutti, per ogni fase della vita.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 febbraio 2019 • N. 07

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Ebbri, unti e innamorati Ci racconta Cicerone nei toni un po’ disgustati che gli si addicono che nelle giornate comprese fra il 13 ed il 15 febbraio gruppi di giovani scorrazzassero correndo in senso antiorario fra il Palatino ed il Foro della Roma antica in condizioni disdicevoli che il Nostro descrive come «nudus, ebrius, unctus et concianatus» – nudi, ebbri, unti e paonazzi dall’eccitazione. Si trattava di giovani scapoli appartenenti alle famiglie più antiche dell’urbe – i Quinctiliani ed i Fabii. A queste due confraternite ne venne aggiunta, nel 44 a.C., una terza, quella dei Juliani, in onore di Giulio Cesare. Questa ebbe come primo Magister niente di meno che Marco Antonio. Fu abolita ai tempi delle guerre civili per poi essere resuscitata da Ottaviano Augusto nel contesto della restaurazione della religione romana arcaica. I personaggi in questione erano noti come Luperci, e la festività che li vedeva protagonisti è passata alla storia come Lupercalia. Si tratta di

una pratica rituale arcaica dai contorni ancora poco chiari. Certamente affondava le sue radici nella preistoria di Roma, quando l’economia prevalente era ancora di natura pastorale e pare avesse un significato di purificazione dalle impurità negative dell’inverno in vista dell’incipiente primavera. Si credeva che in questo mese le anime dei morti ritornassero sulla terra e dunque occorresse placarle mediante offerte ed atti penitenziali condotti col tramite di un oggetto mai meglio identificato dalle fonti scritte chiamato «februum» – da cui febbraio. Secondo Ovidio il termine sarebbe stato di origine etrusca, ma la cosa è controversa perché linguisticamente «februum» è termine indoeuropeo connesso a pratiche di purificazione e penitenza laddove, com’è noto, l’etrusco era una lingua che con l’indoeuropeo aveva ben poco a che fare. Insomma: incertezza e una certa confusione circondano uno dei più misteriosi rituali della Roma antica.

Ma c’è di più: secondo la mitologia degli antichi latini il rito avrebbe a sua volta radici nella Grecia arcaica, dove la festa del Licaio Arcadico celebrava la figura del dio Pan nella forma di lupo (lycos in greco, lupus in latino). Secondo lo storico Giustino – ma siamo già nel II secolo d.C. – una statua di Fauno Lupercus (la versione latina dell’antico Pan greco) sarebbe stata custodita nella caverna del Lupercal nella forma di un pastore nudo. Il Lupercal, a sua volta, era una grotta che si è creduto identificare negli scavi del 2007 ad una quindicina di metri di profondità al di sotto del Palazzo di Augusto sul Palatino: qui, secondo la leggenda, la Lupa avrebbe allattato Romolo e Remo e qui sarebbe stata la sede dei Luperci. Alla vigilia del festival, dunque, le confraternite si ritrovavano nella caverna. Qui, sotto la supervisione del capo dei sacerdoti del tempio di Giove, venivano sacrificati un cane ed un montone. Il sangue delle vittime veniva gettato

addosso ai Luperci i quali cominciavano a ridere e a scherzare. Consumato il banchetto sacrificale preparavano fruste con le pelli delle vittime e poi si scatenavano – nudi, sovreccitati ed ubriachi – per le vie di Roma frustando senza pietà tutti coloro che incontravano. Matrone e fanciulle erano le vittime preferite: si riteneva infatti che una buona sferzata da parte dei Luperci ne garantisse fertilità e parti senza problemi. Così andarono le cose per secoli: alla persistenza della pratica si accompagnava l’oblio progressivo della sua storia e delle sue ragioni – o così almeno fino al quinto secolo d.C. quando il cristianesimo ormai trionfante soprattutto in ambiente urbano decise che fosse ora di finirla con una pratica folclorica oramai obsoleta. Ancora nel 354 i Lupercalia compaiono in un antico calendario fianco a fianco alle festività cristiane ormai egemonizzanti. Per quanto un editto imperiale del 391 abolisse ufficialmente tutte le

feste pagane, i Lupercalia furono duri a morire: Papa Gelasio (494-496) tornò all’attacco contro un Senato dove molti ancora ritenevano che fossero essenziali per il benessere di Roma. «Ormai i Lupercalia sono celebrati solo dalla feccia della società romana – tuonò il Pontefice – e se proprio ritenete che la festa debba continuare, andate voi stessi a correre nudi e ubriachi per le strade che ci divertiremo proprio a prendervi in giro!». Poi lo stesso Gelasio ebbe la pensata vincente: se i Lupercalia sono la festa della fertilità li trasformeremo nella festa dell’amore e degli innamorati. Detto e fatto: San Valentino era un santo martire dal profilo storico controverso e misterioso almeno quanto i Lupercalia. Di lui la leggenda diceva che avesse pagato la dote di matrimonio ad una fanciulla onde prevenire che dovesse consegnarsi al meretricio. Il 14 febbraio, dunque, non fu mai più lo stesso: ebbri e sovreccitati sì – ma di sacrosanto amore cortese e cristiano.

un adolescente gli apprezzamenti di mamma e papà scivolano via. Sa che lo amano da sempre e per sempre e proprio per questo li prende in scarsa considerazione. Le loro valutazioni gli appaiono scontate e le parole usurate. Vorrebbe piuttosto conquistare l’ammirazione dei coetanei. È da loro che si attende di essere riconosciuto come una persona unica, straordinaria, invidiabile. Ed è per questo che il bullismo gli fa tanto male. L’aspetto più inquietante rimane tuttavia che, a lungo andare, chi è preso di mira finisce per condividere il disprezzo dei suoi persecutori convincendosi di essere inadempiente, inadeguato, meritevole del disprezzo che riceve. Inutile aspettare e minimizzare, meglio intervenire subito. Bene quindi ribadire gli aspetti positivi dell’identità. Ma ritengo altrettanto importante riorganizzare la vita delle vittime in modo da spostare almeno in parte le energie (sogni, speranze, paure…) sul mondo esterno, al di fuori della scuola e della famiglia, che rimangono in ogni caso i fondamentali ambiti di riferimento. Risulta molto

utile, soprattutto per i più fragili, seguire un’attività sportiva perché l’allenatore può cogliere e sviluppare potenzialità che sfuggono ai genitori e agli insegnanti. Lo stesso vale per altri contesti, come le scuole di recitazione, i corsi di arte, di danza, per i viaggi e il volontariato. Chi è perseguitato dal bullismo si riprende più facilmente dall’umiliazione patita se può presentare una nuova immagine di sé, libera dagli stereotipi che lo imprigionano. Avere a disposizione più palcoscenici su cui esprimersi, stabilire nuove relazioni, concentrarsi su obiettivi condivisi, le sottrae alla tirannia del bullo e al gioco delle parti. Il problema risulta superato quando l’adolescente è in grado di non arrendersi passivamente al giudizio altrui perché ha fiducia in se stesso. Ma non è facile. Poiché nessuno si dà valore da solo, per tutta la vita chiediamo al mondo esterno conferme e apprezzamenti. Tra la boria del narcisista che si auto-incensa e la dipendenza del depresso che si auto-disprezza vi è però una terza via: mantenere aperto un dialogo interiore tra chi vorremmo essere e come ci percepiscono gli altri. È

una tensione ardua da sostenere e si può sempre eccedere da una parte o dall’altra ma è proprio l’impossibilità di fissare una volta per tutte l’equilibrio tra i due piatti della bilancia che ci induce a conoscerci e a modificare i comportamenti inadeguati. Ho voluto intitolare il libro scritto con Anna Maria Battistin L’età incerta: i nuovi adolescenti, per rassicurare gli educatori che le loro oscillazioni non sono del tutto negative in quanto li aiutano a crescere. L’essenziale è evitare tanto di lodarli troppo quanto di criticarli troppo, limitandosi a osservarli, proteggerli e incoraggiarli un po’ da lontano, come quando, da piccolissimi, li abbiamo lasciati liberi di compiere i primi passi, timorosi di vederli cadere, fiduciosi di vederli rialzare e procedere oltre.

invidiata dagli osservatori d’oltre frontiera. Fra cui, devo citare Gillo Dorfles, Edgar Morin e, in particolare, Indro Montanelli: che apprezzava l’atmosfera silenziosa dei bar svizzeri, con gli avventori intenti nella lettura dei quotidiani «appesi a una stanga di legno». Un rito che, bando al pessimismo, non è completamente scomparso. Rivive, ogni mattino, durante la pausa caffè, concessa da aziende pubbliche e private, e dedicata appunto alla lettura dei quotidiani, non solo i fogli gratuiti, piccoli e sbrigativi, ma ancora quelli storici e impegnativi, appesi alla stanga di montanelliana memoria. D’altronde, anche fra gli addetti ai lavori non ci si dà per vinti. Un paio di settimane fa, il nostro tg presentava l’iniziativa di un gruppo di giovani giornalisti che avevano, per così dire, trasferito la redazione in un bar di Losanna: «Per essere vicini alla gente

comune, per raccontarne le storie, farne i protagonisti della nostra realtà». La ricetta, francamente, mi è parsa tutt’altro che originale, anzi insidiosa e controproducente. Se la parola non fosse inflazionata, la definirei populista, insomma sull’onda di pregiudizi più che mai attuali, nei confronti delle presunte caste, fra cui figura nientemeno che quella giornalistica. In pratica, proprio nell’ambito mediatico, in particolare nella stampa, si assiste all’apertura, sempre più ampia, nei confronti del cosiddetto grande pubblico, ritenuto il detentore di una spontanea saggezza: la sana voce del popolo, a sua volta sano, per intenderci. Per motivi economici, mentre calano pubblicità e abbonati, le redazioni dei nostri quotidiani offrono una generosa ospitalità alle lettere dei lettori, così si chiamavano un tempo, e che adesso che sono diventati articoli, articolesse, come si dice in gergo, e

hanno non da ultimo, il vantaggio di essere gratuiti. Inoltre, a questa forma di volontariato esterno spetta, non di rado, il compito di esprimere opinioni magari scomode, esonerando i redattori da interventi compromettenti. Tanto che con il passare del tempo questi autori non professionisti sono diventati un punto di riferimento, creando una forma di familiarità con i lettori: che, a seconda dei casi, evitano, a priori, di leggerli o, invece, vanno a cercarli, e ne condividono umori e soprattutto malumori. Infine, questa marea di testi porta a galla un desiderio di scrivere, oggi appagabile, e che ha senza dubbio effetti terapeutici, ma anche inquietanti. Uno che se ne intendeva, Giovanni Arpino, definiva lo scrivere «qualcosa che ha a che fare col peccato originale». La conseguenza sembra, infatti, un po’ diabolica, e paradossale: oggi ci sono più scrittori che lettori.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Vittime del bullismo, un’altra riflessione Cara Signora Silvia, mi permetto di scriverle a proposito di quanto lei ha pubblicato su «Azione», in risposta alla richiesta di aiuto della Signora Lidia, insegnante e madre di una ragazza vittima di bullismo femminile. Mi sembra che nella sua risposta lei si sia dilungata troppo nella presentazione del problema e che il tempo dedicato alla risoluzione sia stato veramente un po’ misero; infatti solo nell’ultimo paragrafo lei afferma, testualmente, che «Non è facile, ma per aiutarli davvero dobbiamo convincerli ad abbandonare i circuiti della violenza e indurli a uscire dal mondo virtuale per costruire, in quello reale, il futuro che le attende». In qualità di ex-insegnante e genitore di tre figli ora trentenni, posso dire con certezza che il miglior modo per cercare di cambiare una situazione di bullismo sia quello di rassicurare la vittima valorizzandola di fronte a se stessa e alle sue innate capacità. Spronare una vittima a riconoscere i propri valori e la propria forza di carattere, dirle di badare a se stessa senza ascoltare ciò che le dicono le persecutrici, chiederle di avvicinarsi

maggiormente a eventuali altre vittime e fare comunella con loro, potrebbe stimolare questa giovane a risolvere i suoi problemi del momento. Da ultimo vorrei aggiungere che l’ascolto e l’amore dei genitori per i figli che stanno male, può essere di grande aiuto. Grazie per l’attenzione e cordiali saluti. / Marco Bianchetti Gentile professore, lei ha ragione: ho concesso più spazio all’analisi che ai suggerimenti su come aiutare le vittime del bullismo. Ma, vede, dopo tanti anni di corrispondenza con i lettori, sono convinta, forse a torto, che quando una persona ha compreso il problema, sia in grado di trovare essa stessa le risposte più adeguate alla situazione che sta vivendo. Ciò non toglie che i suoi suggerimenti siano giusti e opportuni e la ringrazio del contributo che generosamente fornisce alla «Stanza del dialogo». Lei consiglia di « spronare una vittima a riconoscere i propri valori, la propria forza di carattere… ». Perfetto. Ma chi deve assumersi questo compito? Per

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Sos: lettori cercansi L’allarme, questa volta, si giustifica. Ma, sia chiaro, non ha niente da spartire con l’allarmismo, suscitato dai fantasmi di catastrofi climatiche, crolli finanziari e pandemie globali, insomma cause grandi e lontane, che mobilitano le piazze. Invece, qui, si sta parlando di un fenomeno, più prosaico ma statisticamente accertato, che ci concerne da vicino: ed è la crisi dei giornali, in particolare dei quotidiani su carta stampata, alle prese con un’inarrestabile perdita di lettori, cioè della loro stessa ragion d’essere. La minaccia non ha risparmiato neppure la Svizzera che, con Svezia, Norvegia e Gran Bretagna, si classificava virtuosamente ai primi posti, sul piano mondiale, per numero di giornali e pubblico di lettori. La tendenza è ormai irreversibile e, del resto, ne siamo tutti direttamente responsabili, divisi fra rimpianto del passato e assuefazione al nuovo. Il che ha,

magari, significato disdire l’abbonamento al quotidiano locale o rinunciare all’acquisto in edicola di una testata, cosiddetta autorevole, tipo «Corriere della Sera», «Le Monde» o NZZ. Del resto, sembra una decisione logica, perché tanto le notizie di cronaca le trovi anche sul telefonino, e, per saperne di più, basta cliccare Internet o guardare un dibattito in Tv. E non mancano neppure motivazioni d’ordine economico, i giornali costano, o ambientalista, i giornali sono uno spreco di carta, e addirittura d’ordine etico e politico, i giornali asserviti al potere ci nascondono le verità vere. Ora, in Ticino, questo cambiamento di abitudini e mentalità ha avuto effetti più vistosi e profondi che altrove. La scomparsa, in sé ragionevole, di tanti, troppi giornali, sei quotidiani ridotti a due, ha però spazzato via una prerogativa regionale, un’anomalia,


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 febbraio 2019 • N. 07

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Ambiente e Benessere L’arte del viaggio, oggi I versi di Leopardi aprono a una riflessione sul rapporto tra autenticità e globalizzazione pagina 17

Fino a Portaferry e all’Isola di Man In navigazione con Mamé nel mare d’Irlanda avvolti dalla nebbia ma anche in buona compagnia

Non solo grazie alle spezie L’ingegnoso artefice del primo Vermut fu Antonio Benedetto Carpano di Torino

Il nuovo che avanza La cucina veneta è rimasta al passo con i tempi arricchendo la propria tradizione

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Acque pulite Clean Up lake Intervento di

Elia Stampanoni È stato presentato alla stampa, negli scorsi giorni, lo studio promosso dal Dipartimento del territorio inerente alla presenza di microplastiche nel lago Ceresio. Risultati che hanno evidenziato valori sopra la media svizzera portando le autorità a riflettere ulteriormente sul problema. Tra le misure adottate, rientra anche la sensibilizzazione della popolazione attraverso articoli, comunicati e informazioni ai Comuni, ma anche azioni più pratiche. Come ad esempio le due giornate di pulizia «clean up lake», che il Dipartimento del territorio propone il 26 febbraio ad Agno e il 1° giugno a Magadino. Lo scopo di queste due operazioni è proprio quello di coinvolgere e far conoscere il problema delle microplastiche presenti nei laghi. Inquinanti composti per l’80 per cento da frammenti derivanti dalla disgregazione di plastiche sotto l’influsso dell’usura e del tempo. Particelle sgretolate e originate principalmente da materiali abbandonati nell’ambiente, quali confezioni, imballaggi o sacchetti, come ha evidenziato lo studio effettuato nel Ceresio tra marzo e maggio dello scorso anno. Nel lago di Lugano sono infatti state ritrovate 213mila microplastiche per chilometro quadrato, in linea con i dati rilevati nei laghi di Locarno e Lemano (220mila) da uno studio analogo effettuato nel 2014 dal Politecnico federale di Losanna, ma decisamente superiori alle media svizzera di 100mila, basata sui dati riscontrati nei bacini di Brienz, Neuchâtel, Costanza e Zurigo, dove i valori variavano tra le 11 e 36mila microplastiche per kmq (dati dello studio del 2014). Oltre ai citati frammenti non specifici, le microplastiche reperite dallo studio sul Ceresio erano composte da altre particelle minuscole, per esempio frantumi di pellicole alimentari, pezzetti di tessili a base di poliesteri, polistirolo o altre plastiche primarie,

come possono esserlo alcuni granulati industriali oppure componenti abrasive in detersivi o cosmetici. Tutte queste microplastiche rilevate nell’indagine sono dei materiali con una dimensione inferiore ai 5 millimetri (0,3-5 mm), che sinora erano conosciuti e studiati soprattutto nei mari e oceani, ma di cui poco si conosce, o conosceva, a livello di bacini d’acqua dolce. Particole piccole o piccolissime di cui ancora si sa poco anche per quanto riguarda il loro effetto sull’ecosistema, come ci conferma Nicola Solcà, capo dell’Ufficio della gestione dei rischi ambientali e del suolo del Dipartimento del territorio, nonché redattore del rapporto conclusivo sullo studio effettuato nel 2018 nel Ceresio: «Secondo l’Ufficio federale dell’ambiente, il rischio ambientale derivante dalla presenza di microplastiche nelle acque ai livelli riscontrati nel Ceresio può essere considerato basso e subordinato ad altri tipi di inquinanti, come i microinquinanti organici, per esempio residui di farmaci, pesticidi o sostanze endocrine. Andrebbero inoltre studiate le particelle più piccole di 0,3 mm, che sono verosimilmente presenti in numeri ancora più importanti e derivanti da fonti anche diverse da quelle qui ritenute, come per esempio l’abrasione degli pneumatici». La presenza di microplastiche non è comunque un problema che s’intende sottovalutare e nei fatti lo dimostrano sia le attenzioni portate ai risultati presentati, sia le iniziative proposte, come le citate giornate di pulizia che hanno lo scopo di sensibilizzare la popolazione: «Sì, importante è chiudere il ciclo dei rifiuti, evitando in ogni caso l’abbandono (littering) e prevenendone la dispersione nell’ambiente», commenta Nicola Solcà. Per ora restano tuttavia molti i rifiuti abbandonati nell’ambiente, come si potrà capire in occasione delle giornate clean up lake di Agno e Magadino. Nel primo evento, in programma un martedì pomeriggio, saranno coinvolti anche circa 140 allievi del secondo ciclo

Peter Charaff

sensibilizzazione contro le microplastiche, con la pulizia dei laghi e dei lidi del Ceresio e del Verbano: il 26 febbraio e il 1. giugno

delle scuole elementari del luogo, mentre sulle rive del Verbano, la giornata sarà destinata alle famiglie e a tutta la popolazione interessata. Il prossimo 26 febbraio, ad occuparsi del recupero delle plastiche (prima che, sgretolandosi, diventino delle microplastiche), e non solo, sulle rive del Ceresio, per quanto riguarda le acque, saranno delle attrezzate squadre di sub della società Pesce sole sub Lugano. Un gruppo del Consorzio pescatori con rete del Ceresio invece si occuperà di ripulire la riva del Lido comunale. Sullo specchio d’acqua antistante il Parco comunale sarà presente il Consorzio della pulizia rive e dello specchio d’acqua del Ceresio con la propria imbarcazione, mentre nell’adiacente parco verrà allestito un villaggio con lo scopo di coinvolgere ed educare la popolazione. La manifestazione, come detto, si svolgerà poi in modo analogo anche sulle rive del Gambaro-

gno il 1. giugno, in occasione del sabato d’apertura del lido di Magadino. Il Dipartimento del territorio, nel corso dei prossimi mesi, prevede altre attività in aggiunta ad altre iniziative che già contribuiscono a sensibilizzare e a ridurre la diffusione di plastiche nell’ambiente e nei laghi. Pensiamo per esempio alle giornate di pulizia organizzate sul territorio dall’IGSU, il Gruppo d’interesse per un ambiente pulito, oppure al progetto Montagne Pulite promosso dallo stesso Dipartimento del territorio e che vuole educare gli utenti delle montagne e i gestori delle capanne o rifugi nello smaltimento corretto dei rifiuti. Ci sono poi anche impulsi privati che tendono a eliminare gli oggetti «usa e getta» da manifestazioni o avvenimenti e quindi contribuire a diminuire drasticamente il rischio che plastiche e altri materiali si disperda-

no nell’ambiente e che vadano quindi, infine, a sgretolarsi e terminare il loro percorso nelle acque dei laghi. Oltre a evitare di disperdere i rifiuti nell’ambiente, si può di certo contribuire alla causa evitando di gettare rifiuti attraverso tombini, lavandini, gabinetti o nelle reti delle canalizzazioni per l’evacuazione o lo smaltimento delle acque. «Va comunque ricordato – conclude Nicola Solcà – che il sistema svizzero di raccolta e gestione ecosostenibile delle plastiche è all’avanguardia. Dal 2000 i materiali plastici, così come altri rifiuti combustibili, non vengono più conferiti nelle discariche, ma valorizzati termicamente. Anche il divieto generalizzato di impiego dei fanghi di depurazione in agricoltura, vigente dal 2006, contribuisce a recuperare e successivamente eliminare le plastiche smaltite in maniera scorretta».



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Ambiente e Benessere

Una Coca-Cola per Leopardi Viaggiatori d’Occidente Avventure attorno al globo nel tempo... della globalizzazione

Stefano Faravelli «Ahi ahi, ma conosciuto il mondo / Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto / L’etra sonante e l’alma terra e il mare / Al fanciullin, che non al saggio, appare. «Nostri sogni leggiadri ove son giti / Dell’ignoto ricetto / D’ignoti abitatori, o del diurno / Degli astri albergo, e del rimoto letto / Della giovane Aurora, e del notturno / Occulto sonno del maggior pianeta? / Ecco svaniro a un punto, / E figurato è il mondo in breve carta; / Ecco tutto è simile, e discoprendo, / Solo il nulla s’accresce. A noi ti vieta / Il vero appena è giunto, / O caro immaginar; da te s’apparta / Nostra mente in eterno; allo stupendo / Poter tuo primo ne sottraggon gli anni; / E il conforto perì de’ nostri affanni». Qualche tempo fa ripensavo a questi versi di Giacomo Leopardi (tratti dalla canzone Ad Angelo Mai). L’arte del viaggio nel mondo globalizzato potrebbe avere in essi una sorta di disincantata premessa e al tempo stesso un culmine. Questi versi furono scritti nel 1820, quando venne ufficialmente «scoperta» l’Antartide: allora, davvero, tutto il mondo fu «figurato in breve carta». Ma se è vero che l’ultima grande incognita geografica sparì dalle carte, è anche vero che il mondo di allora aveva ancora vaste riserve inesplorate; quegli spazi vuoti sulle mappe così invitanti, che facevano sognare da bambino Charles Marlow, il protagonista di Cuore di tenebra di Joseph Conrad. Eppure con quanto anticipo e con quale implacabile lucidità il poeta Giacomo Leopardi vede in questo progredire delle conoscenze positive la voragine di nulla che si spalanca nello spirito umano. Come se intravedesse il nostro mondo, già dispiegato. Questo contrarsi del globo, questo scemare del mondo man mano che lo si misura, lo si pesa, lo si quantifica, è già compiuto nell’atto stesso del suo nascere. Ed è per

«Per vedere l’elefante» è un omaggio alla stagione delle esplorazioni coloniali. Mi sono autoritratto in veste di esploratore; ma se abiti, casco e ombrellino sono un’ironica citazione dell’immaginario ottocentesco, l’atelier portatile, completo di acquerelli e pennelli, è proprio quello che mi accompagnò nei miei viaggi indiani. La foresta è uno scorcio di jungla del Kerala in via di sparizione ma nei pochi scampoli rimasti resta, come disse Kipling, «antica e vera come il cielo». (S. Faravelli)

questo che il disincanto leopardiano è totale; si dovranno aspettare le diagnosi crepuscolari di un filosofo, Friedrich Nietzsche, per ritrovare un nichilismo altrettanto radicale. Il poeta di Recanati sembra trascinare nella sua rovina anche il «caro im-

Kashgar, Xinjiang, Cina. Questa millenaria città di confine, è divisa tra due etnie, cinesi han e turchi uighur. Così per ogni parola uighur ce n’è una han, in una guerra segreta tra dizionari. Per esempio i cinesi chiamano il pioppo peyang; gli uighur usano invece una parola turca, kavak. Tutto qui è doppio come il pioppo, la cui foglia è vellutata e bianca di sotto, verde e coriacea di sopra. Nella luce delle nove del mattino, i bambini uighur vanno a scuola. Lo zaino azzurro

Un angolo del tradizionale, affollatissimo mercato di Chandni Chowk nella vecchia Delhi, vicino alla stazione. L’insegna con il logo della nota bevanda fa capolino tra altre di gusto locale. In India sono ancora in circolazione etichette e insegne che riflettono una grafica deliziosa ma datata, in certi casi addirittura riproduzioni di cromolitografie

maginar», che resta allora nient’altro che uno svaporato sogno infantile. Quella finzione di «arcani mondi» tutti da scoprire che suscitava in lui, come scrive nelle Ricordanze, «pensieri immensi e dolci sogni». Eppure, per quanto paradossale, sono proprio le parole del poe-

della bambina di spalle vestita di ciniglia stampata con motivi iqat reca l’immagine di Topolino. Lo zaino della ragazzina un po’ più grande, con il capo coperto dal fazzoletto, segno di raggiunta pubertà, ha invece il logo della ben nota bevanda multinazionale. Tra i bassi edifici in fango e terra battuta, altri bambini uighur, forse meno fortunati, si aggirano con cesti di paglia in cerca di escrementi di vacche e di asini, da usare come combustibile. (S. Faravelli)

ottocentesche (come il baffuto in alto a destra). È il caso anche delle confezioni di minisigarette (bidies), come quelle incollate sulla pagina. Si noti, in basso, accanto al disegno, la scritta «For real smoking pleasure», che ignora bellamente il terrorismo dissuasivo degli avvertimenti sui pacchetti di sigarette occidentali. (S. Faravelli)

ta, il suo canto sul rimpianto del mondo, a schiudere un nuovo modo di vedere il globo: come se quell’impossibile sogno infantile dovesse risorgere su un altro piano più vero del vero, la cui cifra è appunto la nostalgia. Perché forse la varietà del mondo si salva nel ricordo; in quella particolare nostalgia (dove nostos è infatti cifra di un viaggiare), a cui solo l’arte sa dar forma compiuta. Ed è per questo che una riflessione sull’arte del viaggio nell’epoca della globalizzazione dovrà forse capovolgersi in un viaggio dell’arte. Se la globalizzazione non è altro che una perdita della distanza, è nell’universo dei segni (e dei di-segni) che bisognerà ritrovarla per contrastare l’uniformizzazione che minaccia il mondo. Come scriveva Victor Segalen, altro profetico avversario di quella che definiva la crescente monotonia del mondo («la sfera è monotonia»), «le parole sono più evocatrici delle cose racchiuse in esse» e permangono anche quando le cose sono sparite. Come autore di carnet di viaggio, sulle tracce di una bellezza e di un mistero sempre sul punto di sparire, ingoiati nelle fauci dell’accelerazione globalizzante, so bene come parole e immagini collaborino nel ricomporre il mondo attraverso quell’elemento fittizio e miracoloso che costituisce la ragion d’essere dell’Arte.

Uno dei banchetti di stret food in Piazza Jemaa el-Fnaa, a Marrakech, Marocco. Da Mohammed Baolo, la testa grande costa 70 dirham, 60 la testa piccola e 30 dirham mezza testa media. Dark side del pianeta vegano dell’esangue occidente. Il popolo mangia carne, si sa. E qui a Marrakech il popolo non ha ancora ceduto il passo alla classe

Trilogia del viaggio Lo scorso 17 gennaio Paolo Rumiz e Stefano Faravelli hanno discusso del «Senso del viaggio nel mondo globale» allo Studio 2 RSI, davanti a un pubblico da tutto esaurito. Giovedì 21 febbraio 2019, alle ore 9.00, i passaggi più interessanti di quella serata saranno proposti in una puntata del programma «Laser» (Rete Due). Quello stesso giovedì 21 febbraio, alle 18.00, presso Scuola Club Migros (Via Pretorio 15, Lugano) è previsto il secondo incontro della Trilogia del viaggio, organizzata da Scuola Club Migros insieme a RSI Rete Due. Lo scrittore e psicologo Andrea Bocconi dialogherà con Sandra Sain di «Viaggio e cambiamento. Perdersi, ritrovarsi, crescere» (l’evento è gratuito, per informazioni e prenotazioni 091 8217150 oppure scuolaclub.lugano@migrosticino. ch). L’ultimo incontro, sempre presso Scuola Club Migros, sarà giovedì 21 marzo 2019, alle ore 18.00: la scrittrice Alessandra Beltrame dialogherà con Barbara Sangiovanni: «Io viaggio da sola. Storie di donne».

mediamente istruita ma già dimentica della fame ancestrale. Se il cibo ha ancora il volto della tradizione, la bevanda lo sta perdendo: regge il tè alla menta, ma dilagano gassate dolciastre. Appena camuffato dal fluente ductus calligrafico il logo bianco-rosso fa capolino nella scritta in arabo. «Ecce Signum! Coca-Cola». (S. Faravelli)


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Ambiente e Benessere

WOW!

Una macchina autonoma per amica Motori Mercedes Benz con il prototipo

Cooperative Car studia come creare empatia e fiducia tra auto e altri utenti della strada

APPROFITTARNE SUBITO:

CHF DI SCONTO* Mario Alberto Cucchi Gli automobilisti parlano tutti i giorni tra di loro senza usare la voce. Sì, è vero. Lo fanno quasi tutti. Sin dai primi giorni di patente si impara una serie di microgesti che permette di comunicare con gli altri utenti della strada. Come? La maggior parte delle volte si utilizzano gli occhi e le mani. Quando un pedone si accinge ad attraversare, cerca una conferma negli occhi dell’automobilista che sta sopraggiungendo per capire se lo abbia visto e se intenda fermarsi per farlo passare. Spesso l’automobilista dà conferma di averlo visualizzato abbassando il mento, altre volte muovendo l’indice della mano in modo orizzontale mimando il passaggio del pedone. Situazione che si ripete quando una vettura vuole uscire da un posteggio e un altro mezzo si ferma per consentire l’operazione. Ecco allora che il conducente della vettura che si mette in movimento ringrazia alzando il palmo della mano. Persino quando si mette la freccia per un cambio di corsia si cerca comunque una conferma visiva per capire se l’auto che sta sopraggiungendo alle nostre spalle intende agevolare la manovra. Insomma una serie di microgesti che impariamo nella quotidianità e che spesso effettuiamo in modo inconscio ma che sono indispensabili per la convivenza tra i vari utenti della strada. Questi comportamenti sono stati ultimamente analizzati attentamente

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I Led azzurri integrati in vari punti della carrozzeria segnalano le manovre.

dai diversi costruttori automobilistici e in particolare da Mercedes-Benz. Perché? La ragione è da ricercare nell’avvento della guida autonoma. Secondo gli ingegneri della casa di Stoccarda è necessario «creare empatia e fiducia per accettare questa nuova tipologia di veicoli». Come fare?

Segnali luminosi sostituiscono la serie di gesti mimici che tutti i giorni gli automobilisti si scambiano tra loro La risposta si chiama Cooperative Car. Si tratta di un prototipo, basato sull’ammiraglia Classe S, dotato di un sistema di segnalazione luminosa che lavorando a 360° è in grado di anticipare agli utenti della strada le azioni che il veicolo sta per compiere. In pratica il prototipo è stato equipaggiato con un sistema luminoso dedicato di colore turchese. Una fila di led all’altezza dei finestrini, un’altra sotto il lunotto posteriore, altri frontalmente a livello della griglia del radiatore e nei fari. Le luci di segnalazione sono anche presenti negli specchietti. In fase sperimentale erano stati posizionati sul tetto ma poi sono stati integrati nella vettura. Se le luci sono accese in modo fisso la vettura sta comunicando che opera in modalità di marcia autonoma indipendentemente dal fatto che sia in movimento oppure ferma. Se le luci lampeggiano lentamente significa che la vettura sta per frenare. Se il lampeggio è invece rapido allora vuol dire che la vettura sta per partire. Tutto questo serve per capire in modo intuitivo come la vettura sta per agire. Si parla di «carrozzeria digitale». Ci sono persino delle piccole file di led luminosi che si accendono solo se la traiettoria dei pedoni o dei ciclisti coincide con quella della vettura. In questo modo l’auto comunica che i suoi sistemi, radar e telecamere, hanno identificato gli altri utenti della strada. Ecco che così si ricrea il contatto visivo naturale che si sarebbe instaurato tra guidatore e pedoni. I tecnici Mercedes che lavorano al Test e Technology Centre di Immendingen parlano «di volto umano della guida autonoma». Esagerano?


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Ambiente e Benessere

Verso la Scozia nella nebbia Reportage Nona puntata del viaggio della barca a vela Mamé in navigazione nel mare d’Irlanda Giorgio Thoeni «Scendiamo insieme fino a Portaferry – mi propone l’irlandese – poi ognuno sulla propria barca fino all’Isola di Man: ti va l’idea?» C’è un bel sole di fine luglio sull’Irlanda del Nord quando rimetto in acqua Mamé, pronta a navigare. In fondo è quello che volevo per concludere la mia lunga avventura a tappe verso la Scozia (sul sito www.azione.ch si trova una mini galleria fotografia). L’anno scorso, poche ore prima di tornare a casa, avevo incontrato una coppia che aveva la barca ormeggiata a Bangor, nel Galles, accanto alla mia. Due chiacchiere, un sorso di whisky e tra noi è sbocciata una bella amicizia che abbiamo coltivato anche a distanza, ripromettendoci che quando ci saremo rivisti avremmo condiviso una parte della navigazione. Così è stato.

«Sono in un momento di stallo fra alta e bassa marea, i fondali sono molto bassi e il rischio di toccare è altissimo» Ho navigato di conserva, come si dice, con loro per una decina di giorni ma senza rinunciare alla mia beata solitudine. Accompagnata però da una piccola sfida personale: rileggermi I Promessi sposi in barba a certe rimembranze scolastiche, la mia guerra illustre contro il Tempo, per dirla col Manzoni. Ma torniamo a bordo. Le prime trenta miglia fino a Portaferry mi fanno conoscere quello che diventerà il tormentone di questa navigazione: la nebbia. Fitta e improvvisa, è una sorta di maledizione… che ha il suo fascino! Ma se non si è muniti di strumentazione, navigare in sicurezza può diventare un problema serio. Manco a farlo apposta, su Mamé durante questo viaggio non funziona più niente. A parte un mio vecchio GPS e l’ecoscandaglio che ho fatto installare in Bretagna. Di conseguenza, per capire dove mi trovo, devo far ricorso alle care vecchie carte nautiche, un esercizio che richiede più tempo e una certa precisione. Così riportavo sul diario di bordo prima di raggiungere Portaferry sulla costa irlandese: «Sono in un momento di stallo fra alta e bassa marea, i fondali sono molto bassi e il rischio di toccare è altissimo. Faccio il punto e riprendo la rotta avvolto dalla nebulosa bambagia. Per raggiungere il marina di Portaferry dovrò entrare nello stretto che porta al Langford Lough (Lough, tipico lago irlandese): in tutto un paio di miglia dove la corrente di marea però è molto forte. Dovrò calcolare il momento giusto per entrarvi». Quando finalmente mi appare il segnale d’ingresso. La nebbia si è già dissolta, ma non del tutto: la foggy dew mi ha ormai vaccinato e a quel punto ormeggio in un batter d’occhio. Tiro il fiato e scopro la località. È il punto d’attracco del traghetto che porta a Strangord sulla riva oppo-

sta, Portaferry, appunto. Sul suo lungomare, il colore delle facciate delle case, arancione, rosa, azzurro, appare come una studiata sequenza cromatica. Dopo aver preparato la barca, Mamé riprende il mare con la sua nuova amica, Cu Na Mara («Segugio del mare», in gaelico), uno sloop di nove metri. Dopo aver mollato l’ormeggio annoto sul diario di bordo: «L’uscita dallo stretto è da romanzo. Sta iniziando la bassa marea e il flusso è im-

petuoso, sostenuto, si formano gorghi improvvisi e violenti. Fantastico. La barca sembra volare spinta dalla corrente». Usciamo per attraversare il Mare d’Irlanda; l’isola di Man è fra il George’s Channel e il North Channel. L’isola è a poco più di trenta miglia ma ne faremo di più. Il cielo è coperto, non fa freddo e ogni tanto piove. I bassi fondali, la corrente, le onde incrociate e il vento instabile rendono la navigazione

abbastanza faticosa. Un po’ a vela un po’ a motore, dopo otto ore superiamo il ponte levatoio che segna l’ingresso di Peel, porto d’arrivo, riconoscibile dalla ciminiera della factory dove vengono affumicate le aringhe (ottime in padella). Ci accolgono anche gli imponenti ruderi di un millenario castello vichingo. Dopo l’ormeggio mi specchio distrattamente. Devo essermi ferito leggermente a un sopracciglio, con il

berretto calcato sugli occhi sembro un gangster dopo una scazzottata: fortunatamente è solo un graffio. L’isola di Man è una dipendenza della Corona Britannica ma ha statuto autonomo e batte Sterlina propria. Dalle antiche radici celtiche e vichinghe, oggi l’isola è famosa per una folle corsa motociclistica che si disputa dal 1909: un pericoloso circuito di 60 Km lungo la via costiera a strapiombo sul mare e attraverso case, muretti e pali della luce. Nata per attirare il turismo internazionale, la gara vanta un triste primato con 256 piloti morti finora. Da Peel prendiamo l’autobus per visitare Douglas, la capitale. È sulla riva opposta dell’isola. Sul suo lungomare si allineano decine di alberghi. Come sul Boulevard des Anglais, a Nizza. Dopo qualche giorno di sosta, decidiamo di raggiungere, sempre insieme, la parte più occidentale della costa scozzese. Destinazione Portpatrick, un minuscolo villaggio di pescatori a una quarantina di miglia, molto frequentato dal turismo estivo. Impostare la rotta da Peel non è complicato. Tradizionalmente è la prima tappa per chi vuole andare in Scozia via mare. Cu Na Mara sceglie un percorso leggermente diverso con il risultato che dopo poche ore ci perdiamo di vista. La nostra destinazione si trova all’interno di una baia semicircolare dall’ingresso stretto che va preso centralmente e con molta attenzione: accanto ai frangiflutti ci sono scogli appuntiti dove l’acqua non è molto profonda. Inoltre va tenuto conto dell’ora d’arrivo per calcolare l’altezza della marea. Come se non bastasse finisco in un altro tratto di mare abbracciato dalla nebbia che fa capolino a poche miglia dall’arrivo. Non sono distante dalla costa ma non la vedo e le sto andando incontro. Poco dopo aver fatto il punto nave sulla carta, esco dal quadrato, ho la nebbia alle spalle e di fronte a me, con un brivido, vedo la scogliera vicinissima. Viro all’istante e, avendo già ammainato le vele, procedo lentamente a motore lungo la linea costiera a una trentina di metri, confrontando la mia posizione sulla batimetrica indicata sulla carta con la profondità rilevata dall’ecoscandaglio. Un valido esercizio che avevo dimenticato sui banchi del corso per l’ottenimento della licenza. Nel frattempo sento via radio Cu Na Mara che mi fa sapere di essere già in porto. Infine riesco anch’io a vedere il minuscolo ingresso di Portpatrick. È bassa marea e all’interno del bacino spiccano ancora di più gli alti muraglioni che lo cingono. Le barche possono ormeggiare solo a pacchetto, una di fianco all’altra. Con Mamé l’abbiamo schivata ancora una volta. Sono in Scozia ma nonostante la nebbia, il mio viaggio continua… Informazioni

Le puntate precedenti sono apparse su «Azione» il 18.02.2013, il 17.06.2013, il 07.10.2013, il 02.12.2013, il 09.02.2015, il 21.03.2016, il 19.06.2017 e il 22.01.2018. Annuncio pubblicitario

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Mangiar bene in modo naturale

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Ambiente e Benessere

È l’Ora del Vermut

Scelto per voi

Vino nella storia Non solo un vino, ma anche un rituale mondano che un tempo

mescolava al banco del bar tutte le classi sociali Davide Comoli Fu alla fine del XVIII secolo che si verificarono a Torino una serie di situazioni che resero possibile la nascita del Vermut come lo conosciamo noi oggi. In primis, tra i motivi che facilitarono la creazione, ci sentiamo di mettere la grande disponibilità delle spezie necessarie alla sua produzione, che arrivavano dalla vicina Genova, in quegli anni, ancora sotto il dominio di Napoleone (nel 1815 sarà annessa al Regno di Sardegna e dei Savoia, di cui Torino era la capitale). Come secondo fattore per importanza, è la presenza nel capoluogo piemontese del vitigno Moscato, fortemente aromatico e ricco di zuccheri, vera chiave del successo del Vermut, la cui produzione aumentò con l’affermarsi per l’appunto di questo vitigno, prima come vino da meditazione e in seguito come spumante. A parlare di Moscato, ci torna in mente la lettura dello scritto di Arnaldo di Villanova, che nel suo: Liber de Vinis descrive la distillazione del vino come un miracolo, e la sua intuizione di fortificare il vino Moscato, vitigno molto coltivato nell’area di Montpellier, nella cui università insegnava il

medico, alchimista catalano (12401311). Il terzo fattore fu l’ingegno dell’artefice del primo Vermut, Antonio Benedetto Carpano. A dire il vero, si è dibattuto e ancora si dibatte, se sia stato davvero Carpano a inventare il Vermut. Sicuramente fu colui che ne industrializzò il processo, introducendo importanti innovazioni alla ricetta, rendendo così possibile la conquista del mondo. Carpano era di origini biellesi, nacque a Bioglio nel 1765. Lavorava come garzone nella liquoreria rivendita vino Marendazzo, aperta nel 1780 in piazza delle Fiere (oggi piazza Castello). Vuole una leggenda, che proprio sotto questa piazza si trovino le Grotte Alchemiche, quelle dove si dice operassero il meglio degli alchimisti, qualche nome? Paracelso e Cagliostro. Questa rivendita di vini fu successivamente convertita in un bar aperto 24 ore su 24, per soddisfare la clientela in fatto di Vermut. Il locale era situato in un luogo strategico, poco lontano dai palazzi del potere savoiardo di Palazzo Reale e Palazzo Madama. Sulla stessa piazza, in seguito, sarebbe sorto il Caffè Mulassano, che ancora porta sulle vetrine i loghi Carpano, con cui faceva accompagnare il famoso tramezzino, da lui

inventato all’inizio del novecento, con il classico Punt e Mes. In quel periodo, fermenti risorgimentali infiammavano Torino e qui, Carpano decise di cercare fortuna. Come ogni pasticcere dell’epoca, Carpano produceva tutte le bagne alcoliche per i ripieni dei cioccolatini e per i dolci. Poco più che ventenne, iniziò a elaborare un prodotto a base di Moscato – che a Torino si trovava in grande quantità – seguendo i dettami dell’infusione di frutta, erbe e spezie, e applicando i precetti appresi nella tradizione dei monasteri della Valsesia, dove egli risiedeva. Il primo Vermut fu elaborato nel 1786, ed ebbe un immediato successo. La liquoreria divenne il luogo più frequentato della Torino di allora. Le ragioni del successo furono semplici: ispirandosi ad una preparazione medica e adattandola all’uso voluttuario, migliorò il vino di allora, poco adatto al fine gusto di nobili e dame, rendendolo assolutamente piacevole con l’uso dello zucchero e di spezie dolci. Il nome sembra sia stato dato dallo stesso Carpano in omaggio alla sua passione per Goethe, che proprio in quell’anno intraprese il suo viaggio in Italia. Infatti, Wermutkraut è il termine che indica l’Assenzio maggiore. In re-

Il famoso Caffè Mulassano di Torino. (Bettylella)

altà la ragione potrebbe essere ben più sottile. Da sempre Casa Savoia, si era affannata nel dimostrare che la casata discendesse direttamente da Re Ottone II di Sassonia. Per fare ciò, si avvalsero di storiografi che alla fine trovarono le prove che la famiglia discendesse addirittura da Vitichindo, il difensore dei diritti Sassoni contro Carlo Magno. Il Vermut era presente a corte e faceva parte integrante dell’economia dello Stato Sabaudo. Giovanni Vialardi, cuoco di corte di Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II, scrive nel 1854 il suo Trattato di cucina, pasticceria moderna, credenza e relativa confettureria, riportando una ricetta di Vermut piuttosto complessa. Molte sono le erbe aromatiche presenti, le principali sono: l’assenzio, genzianella, quassio, china, centaurea, scorza di cedro e sambuco. La macerazione, come scrive l’autore, avviene nel vino Moscato, a cui segue un’accurata filtrazione. Il suo uso a corte era, così si legge, in abbinamento alle ostriche gratinate, uno dei cavalli di battaglia del Vialardi. Un elemento fondamentale per il successo del Vermut, fu l’investimento sulle vie di comunicazione. Nel 1853, la ferrovia Torino-Genova, permetteva di raggiungere il capoluogo ligure in quattro ore mentre nel 1819 erano necessarie 26 ore di carrozza. Il traforo del Frejus nel 1871 e quello del San Gottardo del 1882, furono investimenti incredibili per l’export di questo prodotto nei paesi sparsi nel mondo. Le fatture di spedizioni ancora visibili presso molti produttori attestano questo successo. Fu Cora nel 1838, seguito a breve da Cinzano, Gancia e Martini, a spedire il Vermut prima in sud America e poi negli Stati Uniti. Fino al 1915 era in auge dalle sei alle sette di sera l’«Ora del Vermut», un rituale mondano che mescolava al banco del bar tutte le classi sociali. Per le signorine della Torino benestante, essere portate dalla mamma all’Ora del Vermut, rappresentava una sorta di debutto in società, dove apprendere i primi meccanismi del corteggiamento.

Champagne J. Charpentier brut

Subito dopo la leggera esplosione che segue la sua apertura, lo Champagne incomincia a crepitare, e continua anche dopo essere stato versato nella flûte. È la sua effervescenza che lo fa mormorare e fremere. Le piccole bollicine salgono veloci e leggere verso il bordo, in colonne o a grappoli e appaiono ai nostri occhi come una pioggia di stelle nella notte di San Lorenzo. San Valentino è alle porte, lo Champagne, «noblesse oblige», richiama romantici scambi di promesse. Da tempo, infatti, quell’inesprimibile delizioso annebbiamento, quel voluttuoso stordimento, delle facoltà procurato dalle sue complici bollicine, costituiscono piacevoli alibi dove poter tentare approcci ed effusioni amorose. Quindi, il nostro consiglio è quello di abbassare le luci, spegnere il telefono e mettere un CD di musica romantica, aprire una bottiglia del nostro ultimo arrivo, lo Champagne J. Charpentier, un brut prodotto a Villers sous Châtillon, nel cuore della regione dello Champagne, e godersi la cenetta a lume di candela. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 36.–. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 febbraio 2019 • N. 07

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Ambiente e Benessere

Cucina veneta di gran moda Allan Bay Parliamo della cucina veneta, oggi di gran moda. Perché lo è? Perché dopo il 1945, Alfredo Beltrame del ristorante El Toulà di Treviso e Giuseppe Cipriani dell’Harry’s Bar di Venezia hanno saputo svecchiarla salvandone l’anima: un lavoro straordinario. Quindi è riuscita ad affrontare il nuovo che avanza con successo.

Il primo piatto per eccellenza è il riso, mai mangiato da solo ma accompagnato dagli ingredienti più svariati, dai piselli alle cozze, dal radicchio al baccalà Ricca e variegata, la gastronomia veneta porta l’impronta della sontuosa cucina dei dogi veneziani e dei nobili, cui si mescolano filoni contadini e alpigiani. Mais e riso sono i cereali di base. La polenta di farina gialla accompagna un’infinità di piatti, soprattutto a base di carne, ma anche con il latte o il formaggio: la mosa, per esempio, è cotta nel latte e servita con latte freddo e burro, eventualmente con zucchero e cannella; di sapore più intenso è invece la polenta pastizzada (pasticciata), con ragù e parmigiano. Una polenta di gusto delicato, da servire preferibilmente con il pesce, è quella preparata con il mais bianco, cereale tipico dell’area veneta e friulana. Il primo piatto per eccellenza è il riso, mai mangiato da solo ma accompagnato dagli ingredienti più svariati: piselli (nel famoso risi e bisi), radicchio di Treviso, fagioli di Lamon passati; oppure pezzi di pollo (nel risotto alla sbirraglia) e luganeghe; o ancora prodotti ittici come il ghiozzo (o gô, pesce di laguna usato nel risotto alla chioggiotta), le anguille (bisati), le cozze (peoci), le seppioline e il classico baccalà alla vicentina.

Da ricordare anche alcune minestre, in particolare il broeto (a base di muggine, capone e pesci misti di laguna) e la sopa coada, preparata con piccioni cotti in padella e disossati, alternati a fette di pane e parmigiano grattugiato; irrorata di brodo, questa zuppa va cotta a lungo in forno, ma si serve morbida evitando che il pane si asciughi troppo. La ricchezza di risotti e minestre non deve far dimenticare la pasta, in particolare i bigoli, grossi spaghetti di farina integrale, con o senza uova, preparati con un apposito torchietto e conditi con ragù di carne (pocio), rigaglie di pollo (rovinazzi), anatra oppure con un denso intingolo di acciughe e cipolle. Tra i prodotti di pasta, i casumzieei, grossi ravioli a forma di mezzaluna ripieni di barbabietola e ricotta, conditi con burro e semi di papavero; tipici della valle d’Ampezzo, sono una delle specialità dell’area dolomitica, insieme alla puccia, un pane di segale tondo e basso aromatizzato con semi di finocchio, e allo speck in pasta di pane, prosciutto affumicato cotto al forno in un involucro di pasta lievitata. Tra i secondi, invece, spicca il fegato di vitello: oltre a quello cucinato con le cipolle, va ricordato il fegato garbo e dolce, impanato, fritto e servito con succo di limone mescolato a zucchero. Accanto al moderno e celeberrimo carpaccio, tra le ricette a base di carne rientrano molti piatti tradizionali: per esempio la pastizzada (o pastissada), carne di manzo, cavallo o asino, marinata e stufata nella terracotta; oppure il cavroman, spezzatino di castrato cotto in umido con spezie e aromi, e servito con patate e cipolle bollite. Molto graditi anche volatili come l’anatra, la faraona (spesso cotta in tecia, cioè nella terracotta), la tacchinella (servita con una salsa di melagrana) e il cappone (cucinato anche in vescica, cioè insaporito con erbe aromatiche e bollito dentro una vescica di bue). Ma lo spazio è tiranno, arrivederci alla prossima uscita.

Luca Nebuloni

Gastronomia L’impronta sontuosa dei dogi e dei nobili veneziani, ma anche la genuinità di contadini e alpigiani

CSF (come si fa)

Parliamo del granchio e vediamo come mondarlo. Per pulire il granchio, una volta cotto, vanno staccate le zampe e le chele con una leggera torsione, tenendolo appoggiato sul dorso: le une e le altre vanno poi rotte con un pestello, evitando di schiacciarle, in modo da recuperare la carne che contengono con l’aiuto delle apposite forchettine a due punte. Va poi staccata ed eliminata la «coda»:

infilando un coltello tra il guscio e il punto in cui erano attaccate le zampe e facendo leva, si estrae la carne all’interno del guscio, che va asportata con un cucchiaio, eliminando lo stomaco, posto dietro la bocca. Da spolpare infine anche la parte cui erano attaccate le zampe, tagliando a metà per il lungo in modo da facilitare l’operazione. Vediamo come si fa una ricetta base con il granchio: la salsa al granchio, che poi utilizzerete sull’amido che volete, pasta, riso, polenta e quant’altro. Salsa di granchio. Ingredienti per 4 persone. Cuocete 2 grossi granchi in acqua e 2 foglie di alloro per 8’. Scolateli, separate la polpa come indicato sopra, rimettete nel brodo i gusci e gli altri scarti, aggiungete 1 cipolla picchettata con 2 chiodi di garofa-

no, 1 carota, 1 pomodoro e 1 gambo di sedano e cuocete per 40’. Alla fine scolate e riducete il brodo fino a 2 dl. Fate un roux biondo rosolando per 5’ e mescolando sempre 40 g di burro e 4 cucchiai di farina. Scaldate in una casseruola una noce di burro e rosolate per 5’ una piccola cipolla o un pezzo di porro, uno spicchio d’aglio, un piccolo peperone dolce e uno verde, tutti mondati e tagliati a dadini. Unite il brodo al roux e cuocete per 20’, mescolando di tanto in tanto. Alla fine frullate il tutto. Riportate al bollore, unite la polpa dei granchi spezzettata con un coltello e regolate di sale, di paprica, di Tabasco e di prezzemolo tritato. 1’ di cottura e la salsa è pronta. Al posto del burro potete usare dell’olio, ma mi raccomando, che non sia troppo saporito.

Ballando coi gusti Oggi due allegre e nutrienti frittelle salate a base di formaggi. Perfette come antipasto o per un break in ogni momento

Frittelle di formaggi

Frittelle di patate e Sbrinz

Ingredienti per 4 persone: 150 g di farina 00 · 50 g di farina di riso · 4 uova · latte · 300 g di formaggi duri a piacere · pangrattato · spezie a piacere · burro · sale

Ingredienti per 4 persone: 400 g di Sbrinz · 400 g di patate · burro · sale e pepe

Setacciate la farina in una ciotola e lavoratela con la farina di riso e le uova. Unite a filo circa 5 dl di latte e mescolate. Fate addensare il composto su fuoco dolce per 10 minuti, poi regolate di sale e di spezie a piacere. Fuori dal fuoco unite i formaggi grattugiati e mescolate bene. Versate il composto sul piano da lavoro e livellatelo a uno spessore di circa 2 centimetri. Quando è freddo, tagliatelo a dadi: passateli nel pangrattato e friggeteli, pochi per volta, in abbondante burro. Scolateli man mano su carta assorbente da cucina a perdere l’eccesso di unto.

Cuocete le patate a vapore per 30 o 40 minuti (dipende dalla grossezza), levatele, sbucciatele, mettetele in un piatto e lavoratele con i rebbi di una forchetta finché saranno spappolate. Grattugiate il formaggio e mescolatelo alle patate, regolate di sale e di pepe. Formate con l’impasto dei mucchietti. Fate cuocere ogni mucchietto in padella con burro, schiacciandolo con una paletta, in modo da ottenere dei tortini. Capovolgeteli e fateli dorare anche sull’altro lato, quindi serviteli.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 febbraio 2019 • N. 07

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Ambiente e Benessere

Hai un cervello matematico? Editoria Tre libri per allenare e divertire la mente

e dell’ortografia di parole e frasi. È in pratica un manuale per interessati – e sappiamo che gli appassionati di enigmistica sono tanti – che richiede una lettura attenta e concentrata. L’enigmistica, intesa come arte di comporre e di risolvere questioni ambigue e oscure, può dirsi nata con la storia dell’umanità. Nell’antichità gli enigmi potevano essere prove da superare, a volte con esiti drammatici. Oggi fortunatamente sono soltanto piacevoli strumenti per allenare la mente. Tornando alla matematica, sempre di Ennio Peres, è anche Matematica per comuni mortali (Salani, pp. 160). Una vasta raccolta di giochi interessanti e divertenti problemi, enigmi, paradossi, ecc., tratti in parte dalla vasta e variegata letteratura di Matematica ricreativa. Allo scopo di coinvolgere anche l’ampio pubblico citato all’inizio di coloro che si de-

Di fronte a delle frasi che sentiamo spesso – tipo «io di matematica non ci capisco niente» oppure «in matematica sono uno zero» – gli autori del libro Zero Uno Infinito (Iacobelli Editore, 2018), Mario Fiorentini ed Ennio Peres, storcerebbero il naso e subito controbatterebbero. Infatti alla prima affermazione rispondono dicendo che recenti studi neurobiologici hanno dimostrato che il cosiddetto «bernoccolo della matematica», cioè la capacità innata di capirla, in realtà non esiste. Quindi non solo chi possiede una particolare predisposizione la può comprendere, ma chiunque abbia la volontà di sforzare la propria mente può arrivarci. Lo sforzo ci vuole, perché la matematica non si presta a essere appresa in maniera semplificata. È così e basta. Per questo va insegnata bene privilegiando, accanto all’apprendimento mnemonico delle regole, l’incentivo al ragionamento. Quanto a «essere uno zero», anche se qui si tratta di un modo di dire, dal punto di vista matematico potrebbe acquistare un valore importante. Il libro dedica un capitolo per ogni numero da 0 a 10. Quindi c’è anche un capitolo zero, e non a caso. Arrivato dall’Oriente, lo zero fu da noi considerato un vero numero solo dal dodicesimo secolo, assumendo poi un ruolo fondamentale in tutti i calcoli. I matematici medioevali fecero fatica ad accettare l’idea di dare un valore concreto a qualcosa che rappresentava il nulla, ma la scelta risultò pagante. Infatti, dopo aver introdotto il concetto di zero come numero è stato possibile al-

Pxhere.com

Loris Fedele

finiscono negati per la matematica, il materiale raccolto è esposto in forma chiara e scorrevole, ricorrendo solo a dei concetti matematici molto elementari. Ma il libro intende rivolgersi anche agli insegnanti interessati a integrare le proprie lezioni in maniera piacevole e ai genitori (illuminati) desiderosi di offrire uno stimolante doposcuola ai propri figli.

largare l’ideazione numerica. Nell’am- allenarla a dovere. L’autore che ha conpio «Glossariotto», riportato in coda diviso questa sua fatica è Ennio Peres, ai capitoli, sono spiegate tutte le varie nato a Milano ma residente a Roma, entità caratterizzanti i numeri. È una matematico e professore di informatiparte nozionistica, ma fondamentale ca. Peres da quasi 50 anni è «giocologo» per aiutare nella comprensione il letto- di professione, una di quelle persone re non esperto. Il libro richiede almeno che inventano giochi di qualsiasi tipo, conoscenze aritmetiche e algebriche di per i quali ha curato una cinquantina base, oltre a quello sforzo mentale ri- di libri di argomento ludico e divulga- Giochi per “Azione” - Gennaio 2019 cordato all’inizio. Per gli autori è «un zione scientifica, oltre ad aver scritto Stefania Sargentini divertimento per la mente», di certo è già 175 «giochi di parole» per il nostro una nutrita raccolta di curiosità ma- settimanale «Azione», con cui collabotematiche e uno spunto per chi voglia ra da anni. approfondire le potenzialità degli struL’ultima sua fatica, pubblicata nel SUDOKU PER AZIONE - GENNAIO 2019 menti matematici che tutti possono febbraio 2018, è un Corso di enigmistica 1 - ... in eBulgaria si ideare fa il contrario) avere a disposizione. Un’annotazione (N. – Tecniche segreti per e risolveN. 1 FACILE non da poco, che aggiunge curiosità 1re rebus, anagrammi, cruciverba 2 3 4 5 6 7 e altri 8 Schema Soluzione I N C U B I U L N A alla curiosità. giochi di parole (Carocci editore,12Roma 9 10 11 G A L4 E R I 9A 1 7 4 2 8 5 3U S Mario Fiorentini, matematico 2018). Sei capitoli dedicati ad altrettanti 13 14 15 romano, già professore ordinario di temi, la cui materia principale è costiL O I8 F A N 3 9 8 7 4 6 2T O C 17 geometria all’Università di Ferrara, tuita da16 giochi linguistici,18ovvero, come O M E3 I 1 N 9 8L 7O V E 5 2 6 3 1 9 ha pubblicato questo suo libro nel no- 19dice l’autore, da quella20 vasta famiglia di O P A C O P U T I N 8 3 7 1 5 4 3 5 4 2 vembre 2018, mese del suo centesimo passatempi, di varia 21 natura, che si basaT O M O S compleanno. La sua mente continua ad no sulla manipolazione del significato 6 5 1 9 2 8 9 22 23 24

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8 2 5 6 1 7 3 9 4 8 Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con 4il cruciverba SUDOKU PE 9 6 3 8 7 2 4 5 1 9 e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 7 1 5 4 9 3 6 8 2 3 (N. 2 - ... vanta ben cinque premi Nobel) 1 5 4 N. 5 FACILE N. 2 MEDIO V A N E S S A Schema ORIZZONTALI Sudoku 2 8 3 4 7 5 1 6 9 8 4 6 27

Cruciverba 1. Si dice approvando I T A C A B Come si chiamano i cetacei, un esemplare dei 4 9 7 4. Le calze di una famosa Pippi Soluzione: R E N O C I 42 quali è rappresentato nello schema e come sono 9. Non è sempre legale Scoprire i 3 U N corretti O M O T numeri soprannominati a causa del loro verso acuto? Scopri 10. Penisola dell’Asia orientale 2 3 S E C Q U 9 I 11. Nota musicale da inserire nelleA R I le risposte risolvendo il cruciverba e leggendo le 6 3 4 caselle colorate. 12. Pianta dalle bacche O D O R E P U E R Giochi per “Azione” - Febbraio 2019 commestibili 3 lettere evidenziate. E A M7 I A T8 A1 3 I 7 A 13. Le iniziali dell’attore Neal 6 9 2 8 (Frase: 6 – 8, 3, 4) N O R M A R I O T 14. Pulito Stefania Sargentini 8 9 5 O S E A B E L A T O 15. Pronome personale 1

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16. Ordinanza nell’antica Roma

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18.3Presente... per leha feste (N. - ... un piede ventisei ossa)

(N. 5 - Beluga - Canarini del mare) 1

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente 5 6 la pubblica7 zione del gioco.

(N. 6 - ... se diventare colla o spazio) 1

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19. Una consonante 1 2 3 21. Nome femminile 22. Poco più in7 alto del re8 10 sonno 11 23. Una fase del 24. Ossa piatte del nostro 13 scheletro 14 15 16 17

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C6 I 4 L A S 9 8 2 1 3 6 4 7 5 I N I 1 8B E 3 7 4 3 2 9 5 6 1 8 12 O D R I N 1 8 2 5 1 6 4 7 8 9 3 2 3C I E L O 1 7 5 6 4 3 8 2 9 O C H E S A L T I 6 5 4 1 6 9 8 5 2 7 3 4 1 18 19 20 VERTICALI V I E N E L L E T 2 7 2 3 4 8 1 9 7 5 6 21 22 23 1. Un Roberto ballerino V A F I G L I S E 7 9 3 2 7 9 8 1 5 6 4 2. La Giunone dei greci 25 26 24 I P O N G O S O L 3. Ci seguono in cucina... 27 28 9 2 8 4 5 9 3 6 2 1 8 7 O P E R A settimana I O S I A 4. Sudicio, sporco Soluzione della precedente 6 7 5 8 mio 6 amore 1 7 sul 5 braccio 4 2 ma…» 9 3 5. Collisione TRA AMICI – «Volevo tatuarmi anch’io il nome del 6. Una Resto della frase: …PARMIGIANA DI MELANZANE ERA LUNGO. (N. 4 - ...macchietta... parmigiana di melanzane era N. lungo) 4 GENI 7. Le iniziali del politico 1 2 3 4 5 6 7 8 9 P 5 A R M A2 G R 4I G I A Alemanno 8 5 7 9 2 1 6 4 3 10 11 8. Il Morricone musicista A 9 N N A D I E G O M 3 9 6 7 8 4 2 1 5 12 13 14 15 16 10. Abbracciano la vita... E N T E5 R6 G O L O B 1 2 4 3 5 6 8 9 7 7 1712. Copricapo 18 19 vescovile 20 S I A Z I I O G N I 2 9 8 1 7 3 2 4 9 8 1 5 6 13. Il Matteo di Terence Hill 21 22 23 I N E I N E R O E 14.24Genere di poesia 25 4 6 8 9 5 1 3 7 2 4 26 Z I R O F O O T A 15. Stanno in coda... 27 28 29 30 4 3 4 1 5 6 7 2 9 3 8 17. La più famosa era Giunone N A M E N I L A T I 31 32 33 34 5 9 5 7 8 1 3 9 4 6 2 20. Utensili per levigare E R A P A L O S R U 35 36 21. Quelli nobili sono rari 37 38 9R 4 L E O6 N I 9 4 3 2 6 7 5 8 1 E 1T A T 3922. L’attore Gibson 40 2E L 1 2 6 1 8 4 5 3 7 9 I T R E5 3G 7N O M O 23. Astro al tramonto...

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Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 febbraio 2019 • N. 07

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Politica e Economia USA, Russia e l’atomica L’uscita dal patto nucleare stipulato nel lontano 1987 riapre scenari impensabili

Un viaggio all’inferno Il Presidente del Consiglio europeo Tusk augura la dannazione a chi ha inventato la Brexit: molti lo criticano, ma la situazione è davvero diabolica pagina 30

La scheda è nel computer L’introduzione in Svizzera del voto elettronico è un’opzione concreta ma c’è chi teme manipolazioni

Più sussidi alle famiglie Il Tribunale Federale impone di ripensare il sistema di aiuti per i premi delle Casse malati

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Indipendentisti alla sbarra Spagna Inizia domani l’udienza pubblica

contro i politici catalani protagonisti del referendum sull’indipendenza dell’autunno 2017. Gli sviluppi e l’esito del dibattimento condizioneranno il futuro della politica spagnola Gabriele Lurati Un intero gruppo di dirigenti politici sotto processo. L’ex vicepresidente del governo catalano Oriol Junqueras, otto ex ministri della Generalitat, la ex presidente del Parlamento regionale Carme Forcadell e due leader della società civile indipendentista di Barcellona rischiano fino a 25 anni di carcere. La prigione d’altronde la conoscono molto bene questi imputati, visto che sono in detenzione preventiva da ben 16 mesi, in attesa del processo per i reati di ribellione, malversazione e disobbedienza. E l’ora del giudizio è finalmente arrivata in quello che è già stato definito dai media «il processo più importante della democrazia spagnola». E l’enfasi, per una volta, non è esagerata dato che da domani saranno chiamati a testimoniare oltre 500 persone, tra cui l’ex premier conservatore Mariano Rajoy, la sindaca di Barcellona Ada Colau e l’ex capo della polizia catalana. I magistrati del Tribunale Supremo di Madrid cercheranno di fare luce sulle responsabilità politiche nell’organizzazione del referendum del 1. ottobre 2017 e sui successivi atti politici (come la fugace dichiarazione di indipendenza). Le aspettative sono altissime: vi saranno 600 giornalisti accreditati provenienti da tutto il mondo e il processo accenderà passioni in tutto il Paese per i circa quattro mesi che si prevedono necessari per arrivare a una prima sentenza. Le manifestazioni di piazza non sono mancate già prima dell’inizio, con proteste a Barcellona davanti alla sede di rappresentanza dell’Unione europea. E proprio le ripercussioni internazionali di questo processo saranno notevoli anche in termini di giurisprudenza, soprattutto in relazione al principio dall’autodeterminazione dei popoli e del conseguente diritto a celebrare un referendum. La partita non si gioca quindi solo in terra spagnola ma anche in ambito europeo perché potrebbe terminare in ultima istanza davanti alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Inoltre in alcuni Stati del Vecchio Continente hanno trovato rifugio quattro dei protagonisti dell’autunno 2017. In primis l’ex presidente della Generalitat Carles Puigdemont tuttora esiliato in Belgio, ma anche tre donne con incarichi politici di alto livello, attualmente residenti in Scozia e Svizzera. Tutti questi Paesi (così come la Germania, che in un primo momen-

to aveva arrestato Puigdemont su ordine di cattura emesso dalla magistratura spagnola, per poi scagionarlo e lasciarlo in libertà) non hanno riconosciuto che siano stati commessi reati di ribellione e pertanto hanno considerato che questi politici catalani esiliati non fossero passibili di prigione preventiva, a differenza di quanto avvenuto in Spagna con gli altri esponenti indipendentisti ora sotto processo. La possibilità che questi dodici imputati vengano considerati come dei «prigionieri politici» da una parte dell’opinione pubblica internazionale è concreta e questa percezione potrebbe persino crescere durante il dibattimento. Per scongiurare tale evenienza, il Tribunale Supremo e il governo spagnolo hanno approntato una strategia ad hoc. In primo luogo i giudici hanno deciso che l’intero processo sarà trasmesso in diretta televisiva. In questo modo la massima Corte spagnola, dopo aver respinto le richieste della difesa catalana che voleva che osservatori internazionali potessero assistere al processo, intende dare le massime garanzie di trasparenza e di legalità nello svolgimento del dibattimento. L’esecutivo socialista di Pedro Sánchez, dal canto suo, ha creato una piattaforma governativa chiamata «España global», una start-up diplomatica volta a migliorare la percezione del Paese all’estero, riconoscendo pubblicamente che l’immagine della Spagna fuori dalla penisola iberica sia peggiorata in seguito al «procés» e che l’indipendentismo abbia saputo comunicare meglio le proprie istanze all’estero. I sette magistrati del Tribunale Supremo e anche l’esecutivo di Madrid sanno perfettamente che sotto processo vi sono certamente i separatisti catalani, ma sotto osservazione vi sarà anche la qualità e l’indipendenza della giustizia spagnola (che è considerata tra le più politicizzate d’Europa). Non a caso un editoriale della rivista economica britannica The Economist ha recentemente scritto che sarebbe una macchia per la democrazia spagnola, se gli imputati venissero mantenuti ancora a lungo in carcere. La mossa di trasmettere in diretta tv tutto il processo, fatto inedito per la storia giudiziaria spagnola, rientra quindi in questo contesto di competizione mediatica per la vittoria nella narrazione del processo. Quando le televisioni internazionali mandarono in onda i filmati della

Lo scorso 26 gennaio si è tenuto il congresso dell’organizzazione indipendentista catalana Crida national per la Republica, guidata dal presidente regionale Quim Torra (in basso nella foto): la richiesta è di liberare i politici ancora detenuti. (Keystone)

polizia spagnola che colpiva cittadini catalani inermi ai seggi durante il referendum indipendentista, lo Stato spagnolo perse di credibilità e anche la battaglia della comunicazione di fronte ad immagini così esplicite. Questa volta però sarà diverso perché le autorità iberiche hanno giocato d’anticipo. La risposta degli indipendentisti consisterà nel cercare di veicolare nel mondo sempre lo stesso messaggio: l’idea che si tratti di un «processo politico», una farsa nella quale si processa tutta la Catalogna per mano dello Stato spagnolo oppressore. L’evoluzione di questo processo avrà però anche delle importanti conseguenze politiche. Proprio in questi giorni, in parallelo con lo svolgimento del dibattimento al Tribunale Supremo, il governo di minoranza di Sánchez deve superare in Parlamento il duro ostacolo dell’approvazione della legge di bilancio 2019. Necessitando dell’appoggio parlamentare degli indipendentisti per mantenersi in carica il più a lungo possibile, il premier ha previsto per questa manovra finanziaria un aumento considerevole degli investimenti in Catalogna per ingraziarsi le simpatie catalane. Quest’ultimi però tengono da tempo Sánchez sotto scacco, esigono un mediatore neutrale per le negoziazioni e anche un segnale chiaro circa il diritto all’autodeterminazione. Il rischio di una bocciatura della legge di bilancio è alto. In tal caso Sánchez sarebbe moralmente obbligato

a mettere fine in anticipo alla legislatura, probabilmente in ottobre. L’atteggiamento del primo ministro sulla questione catalana è sempre stato da un lato rispettoso dei confini giuridici dettati dalla Costituzione spagnola ma, allo stesso tempo, anche aperto a soluzioni negoziate di carattere politico con i catalani. Questo approccio risulta però impopolare nella maggior parte dell’opinione pubblica spagnola. La pancia del Paese, alimentata da anni di propaganda spagnolista nei media nazionali, chiede una punizione esemplare nei confronti dei «ribelli indipendentisti». L’intransigenza verso i nazionalismi periferici, in particolare quella anticatalana, è non a caso uno degli ingredienti vincenti di Vox, il nuovo partito dell’estrema destra spagnola. Il partito ultranazionalista, dopo essere entrato in forza nel Parlamento andaluso con l’11% dei voti e aver formato il governo regionale con i popolari del Pp e i liberali di Ciudadanos, è in continua ascesa nei sondaggi anche su scala nazionale. Vox, un mix di neo-falangismo, antifemminismo e xenofobia, si è costituito parte civile proprio nel processo contro i leader catalani e non vede l’ora che cominci il dibattimento per portare in piazza i suoi votanti, anche in vista delle elezioni politiche europee di fine maggio. Lo svolgimento di questo processo sarà probabilmente il miglior viatico per l’imminente inizio della campa-

gna elettorale di Vox (alcuni sondaggi lo proiettano infatti già attorno al 15%). È chiaro quindi che il Governo di Sánchez si trova in una situazione di grande imbarazzo politico. Ogni sua mossa in direzione del dialogo e di una soluzione politica alla questione catalana alimenta lo spazio dell’opposizione di destra, desiderosa di una rivincita dopo la mozione di sfiducia contro Rajoy di sette mesi fa. Questi tre partiti (Pp, Ciudadanos e Vox) cercheranno di ripetere il recente successo avuto in Andalusia. E, stando ai sondaggi, la formazione di un governo composto da queste tre destre avrebbe molte probabilità di concretizzarsi anche a livello nazionale in caso di voto anticipato. Questo processo rappresenta quindi un bel grattacapo per Sánchez che rischia di essere contestato sia da una parte (nazionalisti spagnoli) che dall’altra (separatisti catalani). Ci saranno manifestazioni di piazza di segno opposto nei prossimi mesi e in questo clima incandescente si inserirà la campagna elettorale in vista del 26 maggio. Sarà il giorno delle elezioni europee ma, soprattutto, è anche la data delle elezioni municipali in tutte le città spagnole nonché di importanti elezioni regionali in gran parte del Paese. Molti analisti pensano quindi che la sentenza del processo non potrà avvenire prima di fine maggio perché influenzerebbe il risultato elettorale. Probabilmente il verdetto del Tribunale Supremo arriverà quindi solo ad estate inoltrata.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 febbraio 2019 • N. 07

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Politica e Economia Nel dicembre del 1987 Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov firmarono il patto che metteva al bando i missili a corto e medio raggio. (Keystone)

Salvare la stampa e la democrazia Mass media N egli USA sempre più

pressante il dibattito intorno all’uso dell’informazione da parte dei social network i quali, sfruttando le testate ufficiali, impoveriscono il panorama giornalistico Christian Rocca

Un accordo buttato via Strategia militare Stati Uniti e Russia riaccendono un faccia a faccia

intimidatorio in cui, accusandosi a vicenda di aver infranto il trattato Inf, danno il via a un braccio di ferro nucleare che fa paura all’Europa Anna Zafesova La corsa agli armamenti è ufficialmente ripartita. Il 1. febbraio il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dal Trattato sul bando dei missili a corto e medio raggio (Inf), con un periodo di sei mesi prima della sua cancellazione immediata nel corso del quale la Russia avrebbe dovuto tornare a rispettarlo. Il giorno dopo però Vladimir Putin ha a sua volta annunciato la sospensione del trattato, dando ordine al ministro della Difesa Serghey Shoigu di iniziare i lavori sui nuovi missili nucleari, l’ipersonico Zirkon a medio raggio e la versione nucleare del già esistente Kalibr, e al ministro degli Esteri Serghey Lavrov di non lanciare iniziative diplomatiche di disarmo nucleare: «Aspettiamo che siano i nostri partner a maturare fino a avviare con noi un dialogo equo su questo argomento importante per tutto il mondo», ha detto il presidente russo. Quindi, allo scadere dei 180 giorni dell’ultima proroga formale dell’Inf concessi a Mosca dalla Casa Bianca la situazione di parità strategica sarà ormai irreversibilmente compromessa al punto di non ritorno. È il ritorno degli «euromissili» che tanto avevano spaventato l’Europa nella «prima» guerra fredda, un incubo interrotto da Mikhail Gorbaciov e Ronald Reagan che nel 1988 hanno firmato l’Inf, che proibisce a russi e americani di possedere missili nucleari basati in terra con una gittata di 500-5500 km. Allora sembrava l’inizio di una nuova epoca di pace, oggi entrambe le parti si accusano a vicenda di aver provocato la rottura del trattato. Donald Trump – che si è espresso contro l’Inf ancora in campagna elettorale – sostiene che i russi hanno violato l’accordo collaudando il missile 9M729, potenzialmente armabile con testate nucleari e posizionato nell’enclave europea di Kaliningrad, sul Baltico, a distanza di tiro da Polonia e Germania. Vladimir Putin – i cui generali da anni sostengono che firmando l’Inf Gorbaciov ha «tradito» gli interessi russi accettando di distruggere un arsenale che superava quasi del doppio quello analogo di Washington – sospetta che gli americani avessero violato l’accordo con i droni, e con la costruzione del sistema di difesa antimissilistica Aegis Shore in Europa dell’Est, potenzialmente attrezzabile con i Tomahawk con testata atomica. Tutte preoccupazioni che, secondo il generale Vladimir Dvorkin, uno degli

autori delle strategie nucleari dell’Unione Sovietica, «hanno un carattere tecnico e formale e avrebbero potuto essere risolte con un negoziato, in presenza di relazioni bilaterali normali». Le relazioni russo-americane si trovano però «nel punto più basso della loro storia», come ammettono sia Mosca che Washington, e il ministero della Difesa russo sostiene che il Pentagono già da qualche anno stava preparando i finanziamenti, la ricerca e la base industriale per uscire dall’Inf, cosa che evidentemente ha fatto anche la Russia. Il «Wall Street Journal» riferisce, citando fonti dell’intelligence americana, che i russi hanno creato una quarta divisione di missili 9M729, portando il loro arsenale a 100 unità. La Russia ha di nuovo incentrato la sua difesa e la sua diplomazia sull’avversario storico, gli Usa e la Nato, e la retorica militarista è diventata una delle componenti principali dell’ultimo quinquennio putiniano. All’inizio del 2018 il presidente russo ha dedicato metà del suo principale discorso elettorale all’illustrazione dei nuovi tipi di missili che nei filmati proiettati venivano lanciati contro la Florida, e alla fine dell’anno ha annunciato «il miglior regalo ai russi per l’anno nuovo», il progetto del nuovo missile ipersonico che la difesa americana non sarebbe in grado di intercettare. Per Trump il discorso è più complesso: mentre parte dell’establishment militare e diplomatico americano non vuole la rottura del trattato, altri suoi componenti vorrebbero archiviarlo per avere le mani libere su un fronte ormai più importante per Washington, la Cina. Due terzi dell’arsenale nucleare di Pechino, non vincolata dall’Inf, sono composti proprio da missili a corto e medio raggio, e Trump ha anche ventilato a Putin l’ipotesi di un nuovo trattato, da stipulare stavolta a tre, senza però trovare responso né in Russia, né in Cina. I più preoccupati da questi nuovi sviluppi sono naturalmente gli europei: l’Inf di fatto proibiva missili che avrebbero potuto trasformare il Vecchio Continente in un teatro di guerra tra le due superpotenze nucleari. Il capo della diplomazia tedesca Heiko Maas – la Germania sarebbe la prima a trovarsi nel mirino dei missili nucleari a corto e medio raggio russi – ha chiesto a Lavrov di rispettare il trattato e eliminare i missili 9M729 – una versione degli esistenti Iskander con elementi dei missili da crociera Kalibr – «che sono in evidente violazione dell’Inf». Lavrov

ha risposto che i missili sono solo un pretesto usato dagli americani, e pochi giorni dopo i militari russi hanno condotto una «presentazione» dell’arma incriminata nella quale hanno sostenuto che non viola il trattato in quanto la sua gittata massima è di 476 km, 24 km in meno del limite posto dal divieto. Intanto a Washington negano di voler collocare di nuovo missili nucleari a medio raggio in Europa, e Putin ha già promesso che punterà le sue testate contro qualunque Paese europeo che vorrà ospitarli. Negli anni Ottanta la manovra analoga, invece di dividere gli alleati della Nato, finì per compattarli, ma anche nell’Europa dei partiti populisti, spesso apertamente filorussi, la prospettiva di un conflitto nucleare potrebbe sortire alla fine lo stesso effetto. Tensioni che minacciano di far ripiombare il mondo in uno dei periodi più tesi del Novecento, se non fosse che gli stessi esperti militari russi esprimono svariate perplessità sulle nuove armi nucleari annunciate dal Cremlino. L’ingegnere militare Andrey Gorbachevsky ha spiegato alla «Novaya Gazeta» che il nuovo missile «non intercettabile» Avangard per ora non è in produzione, alla fine del 2019 potrebbe esistere in due esemplari (rimodernando i vecchi razzi UR-100 del 1967) per arrivare a una dozzina nel 2023. Inoltre, manovrando per evitare i radar americani, diventerebbe inevitabilmente più lento, e quindi meno efficace e preciso, e andando a velocità ipersoniche diventerebbe talmente incandescente da venire facilmente individuato con gli infrarossi. L’esperto Mark Solonin va ancora oltre, mettendo in dubbio l’esistenza stessa del progetto Avandard: un missile «ipersonico», secondo lui, non può fare manovra, e i primi progetti di armi simili risalgono agli anni Sessanta, ma non sono mai stati realizzati proprio perché impossibili o inefficienti. In altre parole, l’annuncio di Mosca sarebbe «un bluff per costringere l’avversario a enormi spese, come le “guerre stellari” lanciate dagli americani contro i russi negli anni 80». La Russia possiede già adesso tutto l’arsenale necessario a distruggere l’America, e viceversa, e nessun sistema di difesa riuscirebbe a impedirlo. In compenso, mentre «al Pentagono piangono di gioia per la prospettiva di nuovi budget enormi», come dice Gorbacevsky, la già fragile economia russa – come 30 anni fa quella sovietica – potrebbe affondare sotto il peso dei costi dei nuovi missili.

I giornali americani di carta e online, senza distinzione tra print e digital, continuano a licenziare giornalisti e dipendenti a ritmi che stupiscono anche in tempi di conclamata crisi dell’editoria. La causa primaria della crisi e dei licenziamenti nel sistema dell’informazione globale non è la congiuntura economica né la rivoluzione tecnologica, ma la posizione dominante dei social media. Facebook e Google, e le loro associate, prosciugano le risorse agli editori tradizionali perché distribuiscono gratuitamente i contenuti, forniti dagli stessi editori, e perché si accaparrano il novanta per cento degli investimenti pubblicitari digitali grazie agli algoritmi con cui monetizzano i dati sottratti agli utenti. I media tradizionali non hanno scampo in questo scenario, perché a causa della gratuità e della voracità dei social vendono sempre di meno e vedono crollare i ricavi pubblicitari. Poco male, se si trattasse di un semplice settore industriale obsoleto che viene rimpiazzato da un altro al passo con i tempi. Ma senza informazione non c’è dibattito pubblico e senza dibattito pubblico non c’è democrazia. La novità positiva degli ultimi tempi è che, perlomeno negli Stati Uniti, si è finalmente aperto un dibattito sul ruolo dei social media nella società contemporanea e sui pericoli che rappresentano per la democrazia. Questa nuova consapevolezza è certamente un effetto dell’onda lunga causata dall’ingerenza dei servizi russi, via social media, nelle elezioni americane del 2016. In attesa delle conclusioni delle inchieste penali sulle complicità del team Trump con il Cremlino, adesso commentatori e opinionisti, e perfino qualche politico di nuova generazione, cominciano a sostenere la tesi fino a poco tempo fa inaudita che se non si romperanno i monopoli delle grandi piattaforme digitali le conseguenze saranno enormi per tutti, perché prima salteranno gli organi di informazione, poi salterà il dibattito pubblico e infine toccherà alla democrazia. «Regolamentate subito i social media, il futuro della democrazia è a rischio», titolava la settimana scorsa il «Washington Post». La soluzione, per quanto rivoluzionaria, è comunque a portata di mano, perché è scritta nella storia e nella tradizione delle società occidentali. Non è la prima volta, infatti, che i monopoli industriali, dal petrolio al tabacco, dalle ferrovie alle telecomunicazioni, dopo una fase iniziale di crescita tumultuosa grazie alle innovazioni tecnologiche e alla mancanza di regole, vengono in un secondo momento smantellati per favorire la concorrenza e una maggiore equità. È già successo, a cominciare dalla grande battaglia anti trust del pre-

Il quartier generale di Google; nel 2018 l’azienda ha avuto un utile di 137 miliardi di dollari. (Marka)

sidente Theodore Roosevelt all’inizio del secolo scorso, che gli stati e i governi intervenissero a regolamentare settori nati e cresciuti in assenza di norme adeguate. Oggi, restando nel campo dei media, esistono in tutto il mondo occidentale leggi contro le concentrazioni e queste regole valgono sia per i giornali sia per le televisioni sia per le concessionarie pubblicitarie, ma non per le grandi piattaforme digitali, malgrado siano diventate il primo editore, il primo concessionario pubblicitario e nonostante riescano anche a eludere le imposte fiscali perché il loro business è considerato immateriale e non circoscrivibile in un territorio nazionale. Oggi non sono i cittadini a fare le regole d’ingaggio, non sono i Parlamenti, non sono le istituzioni sovranazionali, ma sono gli stessi monopolisti a regolare se stessi. Decidono loro come catturare i dati degli utenti e come usarli, a chi mostrarli e se venderli a fini pubblicitari non solo commerciali ma anche politici. Decidono loro chi, come e quando censurare, e le loro scelte condizionano il dibattito pubblico senza che il pubblico ne sappia niente e tanto meno li abbia consapevolmente autorizzati. Eppure i dati personali sono nostri, non sono loro, e per questo dovranno tornare nella piena disponibilità dei titolari senza l’alibi di astruse e illeggibili note cui dare il consenso. Servono regole nuove, dunque, che spacchettino i monopoli e consentano di far rinascere la concorrenza. È ovvio che non potrà continuare in questo modo. Lo sa anche Facebook, tanto da aver avviato l’accorpamento ingegneristico delle sue piattaforme, Facebook, Instagram e Whatsapp, in modo da rendere più complicato un eventuale intervento legislativo contro i monopoli che prima o poi arriverà. È altrettanto comprensibile, però, lo scetticismo di chi non crede alla disponibilità della Silicon Valley a cambiare le cose, cioè a rinunciare a una parte dei favolosi ricavi che, nel 2018, per Google sono stati di quasi 137 miliardi di dollari, per Amazon 233 miliardi, per Facebook quasi 56. Ma i monopoli vanno spezzati ugualmente, con o senza il consenso delle piattaforme digitali. «Abbiamo regolamentato i mercati finanziari» ha scritto Anne Applebaum sul «Washington Post» «un altro settore dove la tecnologia cambia costantemente, la quantità di soldi in ballo è enorme, tutti fanno pressione e provano a barare. Ma se non lo facciamo, se nemmeno ci proviamo, non saremo in grado di assicurare l’integrità dei processi elettorali e la moralità della sfera pubblica. Se non lo facciamo, nel lungo periodo non ci sarà nemmeno più una sfera pubblica e non ci saranno più nemmeno democrazie funzionanti».


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Politica e Economia

Paradiso o inferno?

Brexit Le affermazioni del presidente del Consiglio UE scatenano un dibattito aspro

ma la situazione in Inghilterra, in effetti, è tutt’altro che rosea Cristina Marconi La diplomazia a volte ha bisogno del suo contrario: quando il presidente del consiglio Ue Donald Tusk ha parlato di uno «speciale posto all’inferno» per chi ha promosso la Brexit senza avere lo straccio di un piano su come portarla avanti, non solo ha scandito bene le sue parole ma è poi corso a ribadirle su Twitter, dopo aver ridacchiato insieme al premier irlandese Leo Varadkar che lo avvertiva che le sue dichiarazioni avrebbero suscitato le ire della stampa britannica. E meno male che a Londra qualcuno si è adirato, riprendendo le metafore dantesche per dire che un mondo senza eurocrati «sembra piuttosto il paradiso» (Nigel Farage), che «Tusk non è Tommaso d’Aquino» (Jacob Rees-Mogg) o chiedendo semplicemente delle scuse (Andrea Leadsom), perché Bruxelles, alla vigilia della visita della premier Theresa May per cercare di riaprire il capitolo irlandese, non poteva non mandare un segnale chiaro di insofferenza nei confronti della logica autoreferenziale del dibattito di Westminster. Che dopo aver votato per trovare «soluzioni alternative» al backstop irlandese ha dimostrato di non aver maturato nessuna visione realistica di come portare avanti il suo sogno indipendentista. L’Irlanda è come il neonato conteso tra due madri davanti a Re Salomone. Solo che in questo caso c’è chi preferisce condannare l’isola dal passato tormentato alla scissione netta del «no deal» che rendersi conto che il backstop, ossia la clausola di salvaguardia con cui la Ue vuole evitare a ogni costo e in qualunque circostanza il confine fisico, non è una cattiveria gratuita perpetrata nei confronti di Londra ma il risultato di un’attenta e lunghissima valutazione della situazione e di tutti i suoi effetti. Nel corso della sua visita a Belfast, la May aveva l’aria rilassata di chi sa che sta parlando tra persone che capiscono bene il problema, visto che l’Ulster ha votato per il Remain e ha una maggio-

ranza di partiti a favore del backstop, che però non piace agli unionisti sui cui voti il governo deve contare per raggiungere una maggioranza. E non piace ai feticisti della Brexit radicale, quella che deve avere i contorni dell’autolesionismo per essere pura, incorrotta, assoluta e che ha la seconda guerra mondiale come mito fondatore: grazie allo stoicismo dimostrato allora dalla popolazione britannica non ci saranno problemi troppo difficili da affrontare, code troppo lunghe alle frontiere, penuria di farmaci troppo grave, pomodori che non possano essere coltivati in giardino in mancanza di import. Quando questa fantasia svanirà e la gente si ritroverà furibonda per le strade a pretendere quello a cui crede di avere diritto, la spaccatura sociale sarà profonda, la crisi irreversibile. Forse il posto all’inferno per i vari Boris Johnson, bravi con gli slogan e meno con i dettagli pratici, esiste davvero e Tusk ha fatto bene a ricordarlo. Perché la Brexit non è la seconda guerra mondiale, né la crisi del 2008: è una ferita autoinflitta da una classe politica che aveva alcune giuste ragioni per avercela con Bruxelles ma che non ha saputo trovare una maniera intelligente di pretendere una correzione senza farne una battaglia ideologica confusa e dannosa. Un documentario della BBC di questi giorni, Inside Europe: Ten Years of Turmoil, ricostruisce la maniera in cui l’ex premier David Cameron arrivò a promettere un referendum sulla Ue, in un contesto in cui l’Eurozona era trascinata verso l’abisso dalla crisi della Grecia e reagiva compattandosi e seminando il panico nei palazzi di Londra. Erano gli anni in cui Farage e il suo Ukip sempre in crescita rappresentavano una spina nel fianco per i Tories al governo insieme agli europeisti LibDem e, almeno dalla ricostruzione della BBC, quella di Cameron sembrava una scelta obbligata, inevitabile, qualcosa che anzi, fosse andato tutto bene, avrebbe stroncato qualunque populismo nel Regno Unito per molti anni. E

Il Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk nel suo discorso a Bruxelles, lo scorso 6 febbraio. (Keystone)

invece ora, a cinquanta giorni dall’uscita dalla Ue, il populismo è così invalso e radicato che non c’è pudore a chiedere di rimettere in discussione la soluzione per l’Irlanda come se si trattasse di spostare una fioriera e cambiare la disposizione dei mobili in salotto. Guy Verhofstadt, che negozia la Brexit per conto del Parlamento europeo, ha spinto un po’ più in là la metafora di Tusk e ha detto che Lucifero non ce li vorrebbe con lui, gli autori di questo disastro. La May, ormai prossima allo stato liquido o gassoso, premier fantasma di un parlamento fantasma, continua a girare per capitali ripetendo lo stesso messaggio, occhieggiando a destra e agli euroscettici che vogliono modifiche sul backstop irlandese che non sembrano bastare mai e ignorando la sinistra che le tende più o meno la mano suggerendo una Brexit più morbida, fatta di unione doganale (e quindi impossibilità di stringere accordi commerciali indipendenti) e allineamento con il mercato interno, una Brexit norvegese ragionevole e poco corsara. Salomonica, verrebbe da dire. Tusk, nella sua amara tirata a favor di microfoni, ha ammesso un’altra cosa importante mercoledì scorso, ossia che

la Brexit avverrà, ormai i dati sono incontrovertibili, ma che questo è dipeso anche dal fatto che nessun politico di rango si sia fatto carico di perorare la causa del Remain o del secondo referendum in maniera vigorosa. Per il Labour di Jeremy Corbyn la questione è sempre stata troppo spinosa. Come dimostra il caso di Sunderland, città operaia del Nord dove il 61% ha votato per la Brexit salvo ritrovarsi con Nissan che comprensibilmente sposta tutto in Giappone davanti alla perdurante incertezza e mette a rischio 6700 posti di lavoro. L’opposizione non si è presa la responsabilità di dire le cose come stavano e mettere in guardia chi della Brexit sarebbe stata la prima vittima: le fasce deboli. Ci sarà un posto all’inferno anche per loro? Bisognerebbe chiedere a Tusk. Come se ci fosse ancora tutta la vita davanti, i voti parlamentari continuano a slittare e la May e gli esponenti europei si danno appuntamento alla fine di febbraio. Con il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker, in maniera molto prevedibile, la discussione è stata «robusta ma costruttiva» e la premier non è riuscita a strappare nessuna promessa sulla possibilità di riaprire l’accordo di uscita dalla Ue firma-

to a fine novembre, anche se a Bruxelles c’è consapevolezza del fatto che occorre trovare qualcosa che possa superare le forche caudine di un voto parlamentare. Il fattore tempo, a questo punto, è essenziale: bisogna perderne il più possibile per arrivare proprio a ridosso dell’appuntamento del 29 marzo, dopo aver guardato in faccia l’inferno molto reale di un paese in cui si parla di applicare la legge marziale per contenere i disordini che si verificherebbero e di portare la regina in un posto segreto per trarla in salvo. Per chi pensa che un tale scenario sia inverosimile, basta pensare a quello che accadde nell’estate del 2011, quando Londra fu messa a ferro e fuoco dai riots. O al fatto che nella tarda primavera del 2016, poco prima del referendum, Jo Cox fu uccisa al grido di Britain first da uno squilibrato di estrema destra. Ce ne sono di passioni contrastanti che ardono sotto la cenere della compostezza britannica. La May lo sa e sa che l’unica soluzione per sanare queste contraddizioni si trova al momento nelle sue mani rese fragili da due anni e mezzo politicamente impossibili, gestiti senza verve e senza capacità di leadership. Chissà a cosa portano inettitudine e buona volontà: paradiso o inferno?

Dove le imprenditrici contano eccome Tycoon asiatici Due storie di successo: Hanifa Ambadar e Susi Pudjiastuti, simboli del business indonesiano Giulia Pompili «Pensare in grande non è facile quando ogni giorno si è costrette a pensare a banali faccende domestiche. Ma lo sapete che io ho dato il via alla mia azienda seduta al tavolo della mia cucina?». Hanifa Ambadar (foto) inizia quasi sempre così i suoi interventi alle conferenze per l’imprenditoria femminile. Non si tratta più di fatturato, per lei, ma anche di insegnare alle donne indonesiane a prendersi cura di loro stesse e dei loro obiettivi, nel Paese musulmano più popoloso del mondo ma anche uno dei migliori, secondo le classifiche internazionali, in quanto a gender equality. Hanifa Ambadar, trentanove anni, non indossa il velo e veste all’occidentale, ha un profilo Instagram che somiglia a quello dell’influencer Chiara Ferragni o della regina del beauty americano Cassandra Grey, pieno di foto di viaggi di famiglia e di prodotti per la cura di sé. È lei infatti la fondatrice e l’anima di Female Daily, un sito da due milioni di visitatori unici al mese, e la compagnia che dirige, la Female Daily Network, che ha sede sin dal 2009 nel sud di Giacarta, è un colosso del settore beauty del sud est asiatico. Secondo il «Jakarta Post» la sua è un’azienda unica non solo per essere uscita fuori dal nulla,

riempendo un settore inesplorato in Indonesia, ma anche per il management rivolto alle donne: Hanifa nel 2007 ha coinvolto nel suo progetto Afi Assegaf, che all’epoca lavorava nella multinazionale della cosmetica canadese Mac e oggi è direttrice del beauty, e nel 2011 Novita Imelda, che ha investito nel progetto. «Le tre si sono trasformate nelle poster girl delle donne indipendenti che si destreggiano tra la gestione degli affari familiari e il difficile mondo del business», si legge sul quotidiano indonesiano, «In un certo senso sono fonte d’ispirazione per

le ragazze di oggi, spinte a sognare in grande e a essere indipendenti in una società, però, dove la diseguaglianza esiste ancora forte». L’idea di fondare un network dedicato ai consigli di bellezza per le donne le è venuta molti anni fa, quando fare i blogger non era ancora una moda, ma era una possibilità: nel 2005 in Indonesia internet non era nemmeno diffuso, ma nel frattempo Hanifa Ambadar era in America a studiare marketing, e le sue amiche da Giacarta le domandavano quali fossero le tendenze di bellezza Oltreoceano. «Il mio primo lavoro dopo il college è stato quello di assistente manager in uno store di Gap nella città di Carbondale, in Illinois. Ma poi sono rimasta incinta e non potevo restare in piedi tutto il giorno», ha raccontato lei stessa al giornale online «The It Girl», «mi sono trovata meglio alla Islamic Foundation of Greater St. Louis» – un’associazione islamica del Missouri – «dove mi occupavo di sviluppo ed eventi. Ma dopo che è nato mio figlio, lavorare, studiare e gestire la casa era diventato troppo ambizioso, quindi ho lasciato e ho fondato il Female Daily non molto tempo dopo». Piano piano gli utenti che arrivavano sul suo portale per chiedere un consiglio, per scrivere recensioni e commenti sono diventati molti, moltissi-

mi, e con loro sono arrivati anche gli investitori pubblicitari internazionali, come Lenovo e Hp. Nel 2014 la compagnia ha ricevuto un milione di dollari da un gruppo di investitori indonesiani per sviluppare l’app dedicata agli smartphone, migliorare la comunicazione via social network e soprattutto implementare lo store online. Certo, oggi Female Daily non ha ancora i numeri per arrivare ai livelli di influenza di Go-Jek, la startup tecnologica che ha fatto del suo fondatore, Nadiem Makarim, il più giovane miliardario dell’Indonesia. E non ha nemmeno i numeri di Bukalapak, l’app per gli acquisti online che giorni fa ha ricevuto un investimento da un gruppo finanziario sudcoreano da cinquanta milioni di dollari. Ma Go-Jek e Bukalapak sono nate pochi anni fa, si ispirano a colossi internazionali come Uber e Amazon, e sono compagnie figlie dei tempi, della globalizzazione e dell’internet delle cose. L’ascesa nel mondo dell’imprenditoria di Hanifa Ambadar, invece, è più simile a quella di un’altra donna simbolo del business indonesiano, Susi Pudjiastuti. Ormai conosciuta da tutti come la Lady di ferro dell’Indonesia, Susi negli anni Ottanta ha iniziato la sua carriera di imprenditrice con la distribuzione del pesce. Il problema,

però, è che la distribuzione in Indonesia è un settore difficile, viste le enormi distanze tra le isole. È proprio così che è nata la Susi Air, compagnia aerea tra le più famose in Indonesia: con un primo piccolo aereo Cessna acquistato da Susi e che trasportava pesce fresco da Giacarta verso il Giappone, la Cina e Singapore. Grazie al suo contributo all’economia del Paese, nel 2014 è stata nominata a capo del ministero degli Affari marittimi e della Pesca di Giacarta nel governo di Joko Widodo, che voleva creare un governo meno politico e più orientato al business. Pochi mesi fa si è guadagnata la copertina del «New York Times» con una delle sue consuete fotografie a bordo dei pescherecci sottratti ai pescatori cinesi che invadono le acque territoriali indonesiane. Grazie alla sua politica dura contro la pesca illegale, le incursioni cinesi nel Mar cinese meridionale stanno diminuendo. E le risorse ittiche nei mari indonesiani stanno crescendo. Hanifa Ambadar e Susi Pudjiastuti, pur avendo quasi quindici anni di differenza e percorsi decisamente diversi (Susi è stata il primo ministro indonesiano a non avere il diploma di licenza superiore), hanno storie di successo simili perché raccontano l’Indonesia di oggi, molto più vicina all’occidente di quanto si creda.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 febbraio 2019 • N. 07

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Politica e Economia

La scheda online è sicura?

Voto elettronico Il progetto di introdurre la partecipazione alle tornate elettorali via web si scontra

con la preoccupazione di intrusioni esterne e di manipolazione dei risultati Marzio Rigonalli Avremo presto la possibilità di votare tramite smartphone, tablet o computer? Il voto elettronico diventerà presto la terza possibilità di dichiarare la nostra volontà in caso di votazioni ed elezioni, accanto al voto che possiamo già esprimere per corrispondenza, o recandoci alle urne? La questione è diventata d’attualità in seguito a due recenti fatti. Il primo risale a dicembre, quando il Consiglio federale ha mandato in consultazione un progetto di modifica della legge federale sui diritti politici. La modifica prevede l’introduzione dell’e-voting e la consultazione durerà fino alla fine del prossimo aprile. Il secondo fatto risale a gennaio ed è stato l’annuncio di un’iniziativa popolare che vuole contrastare il progetto e che chiede di proibire l’e-voting finché non sarà sicuro e protetto da possibili manipolazioni. L’iniziativa è denominata «Per una democrazia sicura ed affidabile» e prevede una moratoria di almeno cinque anni. La raccolta delle firme dovrebbe iniziare già questo mese. Il comitato promotore dell’iniziativa è presieduto dal consigliere nazionale lucernese Franz Grütter (UDC) e comprende politici di altri partiti, nonché professionisti attivi nel settore informatico. Che cosa si è fatto finora per favorire il voto elettronico? Gli esperimenti sono iniziati nel 2004 ed hanno coinvolto una quindicina di cantoni, per più di trecento votazioni ed elezioni. Oggi

dieci cantoni propongono l’e-voting ad una parte del loro elettorato. In cinque (FR, BS, SG, NE, GE) sono ammessi alle prove sia gli svizzeri all’estero che gli aventi diritto di voto domiciliati in Svizzera; in cinque cantoni (BE, LU, AG, TG, VD) possono votare per via elettronica soltanto i residenti all’estero. Alcuni cantoni hanno rinunciato a queste sperimentazioni, Uri e Soletta per esempio. L’ultimo in ordine di data è il canton Giura, il cui parlamento, pochi giorni prima di Natale, ha rifiutato d’introdurre questo nuovo strumento nella legge sui diritti politici. La coordinazione di tutte le sperimentazioni è assunta dalla Cancelleria federale. Il cancelliere Walter Thurnherr ha investito molte energie nel progetto ed è determinato a portarlo a buon fine. Per questo vien chiamato anche «Mister e-voting». I cantoni, però, rimangono autonomi. Spetta a loro decidere se e quando vogliono testare l’e-voting e attraverso quale sistema intendono proporlo. Sono due quelli che vengono utilizzati dai cantoni: quello del canton Ginevra e quello della Posta svizzera, ma in realtà presto uno solo rimarrà attivo. Lo scorso novembre, per ragioni apparentemente soltanto finanziarie, Ginevra ha deciso di non sviluppare più il suo sistema e di rinunciare, a partire da febbraio del 2020, a gestire un sistema proprio. I costi per lo sviluppo e la gestione sono elevati ed i cantoni che avevano adottato il sistema di Ginevra non hanno accettato di parteciparvi finanziariamente. La rinuncia di Ginevra

Un video esplicativo sull’e-voting è sul sito della Confederazione. (admin.ch)

ha costretto alcuni cantoni ad orientarsi verso il sistema della Posta svizzera ed ha sicuramente inferto un duro colpo a tutto il progetto dell’e-voting. Sulla base delle esperienze degli ultimi quindici anni, il Consiglio federale ha ritenuto che il voto elettronico abbia ormai raggiunto un livello di sicurezza tale da poter essere introdotto come terza possibilità di espressione della volontà popolare nelle votazioni e nelle elezioni, accanto al voto di persona ed al voto per corrispondenza. E come è ormai tradizione, ha messo il suo progetto in consultazione. Agendo così, il governo federale ha risposto ad un’esigenza legata allo sviluppo ed al divenire delle nuove tecnologie, nonché ad una storica rivendicazione degli svizzeri all’estero. Sono

anni che la Quinta Svizzera, per ovviare ai non pochi ostacoli di distanza e di tempo legati al voto tradizionale, chiede di poter votare elettronicamente. È una rivendicazione legittima, anche se, in realtà, tocca poco più di alcune decine di migliaia di persone. Le statistiche indicano che su 750 mila svizzeri all’estero soltanto il 5 per cento partecipa regolarmente alle votazioni ed alle elezioni. Le intenzioni del Consiglio federale si scontrano con un diffuso scetticismo nei confronti del voto elettronico. Partendo dalle notizie di attacchi informatici e di dati piratati, diffuse quasi quotidianamente, molti cittadini si chiedono se l’e-voting sia sufficientemente sicuro, ossia se l’espressione della volontà popolare venga protetta e garantita nello stesso modo come avviene con il voto tradizionale. Sono ancora ben presenti gli attacchi informatici subiti dal Dipartimento federale degli esteri e dalla Ruag, la società controllata dalla Confederazione e specializzata nell’industria delle armi. Tra i scettici, gli uni vorrebbero poter verificare le fasi principali del voto senza dover disporre di particolari competenze informatiche, e non sono certi di poterlo fare; gli altri sostengono che a contare i voti non saranno più i semplici cittadini come avviene ora, bensì un ristretto gruppo di esperti addetti alla conta, di cui ci dobbiamo fidare. I più pessimisti pensano che troppi sono i rischi che gravano sul voto elettronico, soprattutto per quanto riguarda l’affidabilità del risultato finale, e che pochi sono i vantaggi che ne de-

riverebbero. Ne approfitterebbe soltanto una minoranza di cittadini, soprattutto gli svizzeri residenti all’estero e le persone con disabilità. Infine, alla lista degli scettici conviene aggiungere anche chi sostiene che l’e-voting non aumenterebbe la partecipazione al voto e chi invita a guardare oltre le frontiere nazionali ed a ispirarsi a quei paesi, come per esempio la Francia e la Norvegia, che hanno sospeso i loro progetti o addirittura rinunciato al voto elettronico. La certezza che i nostri clic non verranno hackerati è fondamentale prima di poter introdurre il voto elettronico. È in gioco l’attendibilità dei risultati delle votazioni e delle elezioni e, in fin dei conti, la credibilità della democrazia attraverso il voto popolare. Manipolazioni accertate, o soltanto sospettate, minerebbero la legittimità di una decisione popolare e porterebbero un grande pregiudizio all’esercizio democratico. Il lancio dell’iniziativa «per una democrazia sicura ed affidabile» è opportuno e potrebbe rivelarsi molto utile per la formazione della volontà popolare. Se verranno raccolte le firme necessarie, fautori e scettici dell’e-voting avranno la possibilità di dibattere, di affrontare i numerosi problemi insiti in questa tematica e di rispondere alle tante domande che oggi vengono poste. Le nuove tecnologie non vanno rifiutate a priori; presentano agevolazioni e vantaggi accertati ed indiscussi. Devono però tener conto delle esigenze del convivere democratico e vanno adeguate ai valori su cui si fonda questo convivere. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 febbraio 2019 • N. 07

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Politica e Economia

Sussidi di cassa malati quasi per tutti Sanità Una sentenza del Tribunale federale chiede di estendere anche al ceto medio gli aiuti

sui premi, alzando parecchie delle attuali soglie fissate dai cantoni. Sorgono parecchi problemi tecnici, ma anche politici

Ignazio Bonoli Ha destato dapprima una certa sorpresa, ma anche qualche preoccupazione, la sentenza del Tribunale federale che chiedeva in sostanza al canton Lucerna di rivedere la sua politica di sostegno alle famiglie per il pagamento dei premi di cassa malati. Alle prese con problemi di contenimento delle spese, Lucerna decideva nel 2017 di ridurre il limite di reddito che dà diritto a sussidi sui premi di cassa malati. Contro la decisione insorgeva il partito socialista lucernese con un ricorso al Tribunale federale, ottenendo ragione. Il canton Lucerna aveva deciso di ridurre a 54’000 franchi il reddito massimo che dà diritto ai sussidi. Il Tribunale federale ha però sentenziato che tale soglia è troppo bassa, dato che soltanto il 20% delle famiglie lucernesi avrebbero diritto a questo sussidio, per cui non rispetterebbe la legge federale. Quest’ultima prevede che i cantoni dovrebbero sussidiare almeno per il 50% i premi per le famiglie, con i minori e giovani adulti in formazione, con un reddito medio e basso. La sentenza non definisce però il concetto di reddito medio e basso, per cui sono subito venuti alla luce due problemi: chi definisce e come un reddito basso o medio, e quale autonomia hanno i cantoni nel fissare i loro sussidi. Il Partito socialista svizzero ha subito approfittato della situazione per

chiedere a tutti i cantoni di rivedere i loro limiti di reddito per l’ottenimento di sussidi sui premi di cassa malati. Il PS ha dato un mese di tempo ai cantoni per mettersi in regola, minacciando di denunciare coloro che non lo fanno. Nel contempo offre un forte sostegno alla sua iniziativa che vuole lanciare in primavera, con lo scopo di limitare al massimo al 10% del reddito disponibile l’incidenza dei premi di cassa malati. Il perno della discussione è ancora una volta il limite del reddito per definire il livello basso e medio. Secondo il rapporto 2017 sull’efficacia della riduzione dei premi di cassa malati, chiesto dall’Ufficio federale della sanità, una famiglia con due figli, con un reddito fra i 97’000 e i 208’000 franchi annui, farebbe ancora parte del ceto medio e avrebbe diritto ai sussidi. Ben 14 cantoni non rispettano questi limiti. Tra i cantoni che rispettano il limite minimo di 97’300 franchi figurano il Grigioni (il più generoso), il Ticino, Nidvaldo e qualche altro appena al di sopra. Questo perché l’UFS definisce «ceto medio» (secondo la sentenza del TF) coloro che dispongono di un reddito lordo tra il 70 e il 150% del reddito mediano. In base ai calcoli, il reddito mediano si fissa a 139’000 franchi. La definizione suscita qualche perplessità. Veramente la metà delle famiglie svizzere con due figli dispone di oltre 139’000 franchi all’anno? Si tratta di reddito lordo, cioè prima delle dedu-

La Legge federale prevede che i cantoni sussidino al 50% i premi per le famiglie con minori e giovani in formazione, con un reddito medio e basso (Ti-Press)

zioni di contributi AVS, ma che comprende anche entrate da attività indipendenti o dalle assicurazioni sociali. Questi dati non sono dedotti da indagini empiriche, ma si tratta piuttosto di costruzioni teoriche. Per farle, L’UFS utilizza la scala OCSE, che calcola quanto dovrebbe disporre una fa-

miglia di quattro persone per garantirsi lo stesso livello di vita di una persona sola. Il risultato è che una famiglia dovrebbe disporre di un reddito 2,1 volte superiore a quello della persona sola. Il reddito mediano di quest’ultima, secondo indagini, sarebbe di 66’000 franchi.

Al di là delle considerazioni tecnico-statistiche – che dovrebbero definire chi è sopra, chi sotto e chi nel ceto medio- – restano alcuni problemi politici di fondo. Intanto, in molti si sono chiesti se una forza politica può imporre una sorta di ultimatum ai cantoni. Poi, ovviamente, fin dove la giustizia può analogamente pesare sull’autonomia dei cantoni, che poi sono chiamati a pagare e, infine, anche sul tipo di intervento, che in sostanza favorisce il rincaro dei costi della salute. Ma la sentenza del TF apre parecchie altre questioni. I cantoni devono pagare anche per il ceto medio: ma solo in quanto famiglie con due figli minori o in formazione? La sentenza mette però in evidenza anche quanto sia difficile gestire problemi in comune tra Confederazione e cantoni. E non sono bazzecole, poiché si tratta di 4,5 miliardi. Per i quali Berna stabilisce un ammontare totale, sul quale i cantoni sono liberi (?) di fissare i loro sussidi. Il problema è molto vasto, tanto che la Confederazione sta valutando un alleggerimento dei suoi compiti: dalle prestazioni complementari AVS, al traffico regionale e anche ai sussidi sui premi di cassa malati. In fondo sono da fare scelte quali una centralizzazione o una maggior autonomia cantonale, che è anche segno di un maggior controllo democratico, come dimostrano anche alcuni recenti referendum cantonali sul tema. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 febbraio 2019 • N. 07

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Una difesa dai robot: educazione e protezione sociale dei lavoratori La robotizzazione dei processi produttivi, intesa come l’attribuzione di attività di lavoro ai robot, è una delle tendenze che maggiormente preoccupano l’uomo della strada. Si dice che, nel giro di un paio di decenni, anche in Svizzera potrebbero andar persi per effetto di questa tendenza centinaia di migliaia di posti di lavoro. Seguiamo sempre con attenzione le ricerche che vengono fatte in questo campo. I risultati delle stesse, come abbiamo già avuto modo di sottolineare altrove, sono spesso contradditori. In particolare non esiste, per il momento, unanimità tra i ricercatori sull’effetto netto della robotizzazione. Non si sa insomma quale sarà il saldo tra i posti di lavoro che la robotizzazione farà sparire e quelli che, invece, creerà. Né c’è molta convergenza nelle previsioni sul tipo di posti di lavoro che potrebbero essere eliminati, oppure creati, dall’incremento del numero

di robot attivi nella nostra economia. Se sul futuro della robotizzazione le previsioni sono ancora incerte, sul presente ci si può invece pronunciare con qualche sicurezza. È quello che fa la Banca mondiale, in un recente rapporto, che esamina l’evoluzione del processo di robotizzazione negli anni più recenti. Dallo stesso si desume che, fino al 2019, la popolazione di robot in attività, a livello mondiale, raggiungerà i 2.6 milioni di unità. Per avere un’idea dell’importanza di questa popolazione, occorre metterla in relazione con l’effettivo degli addetti nel settore industriale. Ovviamente questo rapporto, che lo studio definisce come la «densità di robot», varia da un paese all’altro. Nelle economie nelle quali la densità in questione è più elevata, ossia in Corea del sud, Singapore e Germania, troviamo tassi che variano tra il 3 e il 6%. Non si tratta ancora di valori elevati,

tuttavia la robotizzazione dei processi di produzione in queste economie ha già assunto una certa importanza. Quanto alla questione dell’effetto complessivo sull’occupazione la risposta degli esperti della Banca mondiale è che esso varia da una nazione all’altra. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Australia, nei rami di produzione delle macchine, sono stati persi molti posti di lavoro, in Europa e nelle economie emergenti, invece, sembrerebbe che il saldo in materia di occupazione sia stato, sin qui, positivo. Quanto poi a sapere perché nei paesi anglosassoni l’effetto di sostituzione di lavoratori con robot sia stato maggiore che in Europa o nelle economia emergenti, la risposta degli esperti è abbastanza sorprendente. Probabilmente la robotizzazione ha inciso meno sull’occupazione nei paesi europei perché i lavoratori di questi paesi dispongono di una maggiore

protezione sociale, di una migliore formazione scolastica e di migliori possibilità di riconversione che quelli dei paesi anglosassoni. Queste affermazioni sono interessanti ma devono essere prese con le pinze. Il problema di questo rapporto è che i suoi autori hanno voluto offrire un’immagine globale di quanto sta succedendo a livello mondiale. Ma, a livello mondiale, le statistiche disponibili e comparabili sono poche. Di fatto l’effetto della robotizzazione sull’occupazione nel settore industriale è stato misurato solamente con l’importanza della diminuzione della quota dell’occupazione industriale nel totale dell’occupazione delle singole economie nazionali. Sembrerebbe che questa diminuzione, a livello mondiale, sia praticamente attribuibile solamente alla diminuzione realizzatasi nelle tre economie anglosassoni citate qui sopra. Nel resto delle economie del mondo,

invece, la quota del settore industriale nell’occupazione sarebbe rimasta più o meno costante nel corso dell’ultimo quarto di secolo. Che la diminuzione della quota dell’occupazione nel settore industriale, registrata nei paesi anglosassoni, sia da attribuire esclusivamente all’invadenza dei robot resta però ancora da dimostrare. La sostituzione dei lavoratori dell’industria in questi paesi potrebbe infatti essere dovuta allo spostamento di aziende in altri paesi del globo con salari più bassi. A nostro avviso, per ora, i robot ancora non hanno avuto un impatto significativo sull’evoluzione dell’occupazione, né nel settore industriale in complesso, né nei rami delle macchine e degli apparecchi, settori che maggiormente tendono a far ricorso ai robot. Il rapporto della Banca mondiale è certamente interessante, ma non dovrebbe turbare i sonni a nessuno.

offrire una visione alternativa a quella liberale di Macron, ma le loro voci sono state soffocate dagli altri, da quelli che evocano la guerra civile e la presa della Bastiglia, denunciando il governo al contempo tecnocrate e picchiatore (la legge antiteppisti ha tormentato il Parlamento in questi ultimi giorni). Questi ultimi stanno cercando alleanze in Europa nella speranza di presentare una lista spacca-tutto al voto per le europee di fine maggio – hanno trovato una porta aperta nell’Italia gialloverde, che continua la sua lotta contro Macron e il macronismo, che corteggia i ribelli, e che si è inventata un proprio movimento di gilet gialli, adattamento dei francesi, con un twist tutto italiano che va dall’Italexit allo stop della fattura elettronica all’assenza dell’obbligo vaccinale. Poiché tra le varie istanze dibattute c’è anche quella della democrazia diretta, Macron ha cercato di sottrarre l’arma fatale ai suoi oppositori e ha fatto sapere che potrebbe indire alcuni referendum nello stesso giorno delle

europee. Il referendum è diventato un martello da picchiare sui tavoli di ogni negoziato, l’esperienza britannica mostra che non è uno strumento, come dire, risolutivo, e che la volontà popolare può trasformarsi in un mostro indomabile. Ma è pur sempre la sintesi istituzionale della democrazia diretta, così Macron ha sventolato l’ipotesi, creando il panico nel suo stesso governo: non c’è tempo tecnico, dicono alcuni, non c’è nemmeno un quesito cui fare riferimento, dicono altri, e poi lo sappiamo – dicono in coro molti – che spesso i referendum non sono sulla domanda scritta sulla scheda elettorale bensì su chi pone la domanda (l’esperienza italiana del governo Renzi è in questo senso esplicativa). Non si sa insomma se poi sia una grande idea quella di unire il voto europeo al voto referendario, ma al momento a Macron è stato sufficiente porre la questione per ribaltare ulteriormente la polarità con i gilet gialli: non siete voi catarifrangenti ad avere il monopolio del popolo. Con il dialogo diretto con i francesi, il presi-

dente è anche riuscito a rimobilitare la sua base, che era stata molto attiva nel 2017 e che poi si è un po’ dispersa e che ora si rimette in mostra, con il foulard rosso. Soprattutto, come già era accaduto nel suo anno magico, Macron riesce ad approfittare delle divisioni della sua opposizione. La destra è sempre in crisi identitaria, e il «Monde» sta pubblicando in queste settimane dei dossier sul malessere gollista che deve risultare parecchio doloroso tra i Républicains: ci sono le liti e le debolezze dei loro leader, tutte messe in fila. I gilet gialli poi fanno gola sia a Marine Le Pen a destra sia a Jean-Luc Mélenchon, ma dopo un iniziale idillio, i due stanno cercando, almeno pubblicamente, di prendere le distanze l’uno dall’altro: ai loro elettorati l’alleanza sembra davvero innaturale, per quanto la realtà dimostri che mai come ora gli estremi abbiano punti di contatto sempre più evidenti. Per disinnescare entrambi, Macron li ha invitati all’Eliseo per un dialogo costruttivo: la trappola perfetta.

Anni fa, quando la Brexit muoveva i primi passi e Trump giungeva alla Casa Bianca, il settimanale «The Economist» bollò il populismo con questa sentenza: «If you elect a clown, expect a circus» (se eleggete un pagliaccio, aspettatevi uno spettacolo da circo). Il giudizio sarebbe piaciuto a Ennio Flaiano, lo scrittore del nostro terzetto, visto che oggi illustra perfettamente la situazione politica sempre più aggrovigliata e indecifrabile dell’Italia. L’alleanza tra Lega e M5s che governa il Bel Paese miscelando un bizzarro cocktail fatto di conquista del potere e di marcia verso una democrazia «digitale» propone ogni giorno nuovi clown nel suo circo: dai ministri sprovveduti o inebetiti; ai vice premier impegnati – mentre il premier balla con i grandi – a creare paraventi mediatici, incuranti del pericolo che i vuoti creati da illusioni e falsità favoriscano nostalgici ritorni. Fosse ancora vivo, Flaiano non esiterebbe ad allarmare i suoi connazionali con un caustico monito («Il fascismo conviene

agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odî, rassicura la loro inferiorità») e questo attualissimo auspicio: «Vorrei soltanto che Dio, o chi ne fa le veci, tenga lontano da questo paese un sistema politico che ci costringa daccapo a credere, a obbedire e a combattere, o a essere “migliori” di quello che siamo, che in altre parole ci conservi la libertà, anche se questa è una parola che ci fa ridere». L’ultimo personaggio del terzetto è l’ex-premier svedese Olof Palme. Gli affido la conclusione per contrastare il solito «j’accuse» giunto da un rapporto anti-Davos, cioè anti-Wef e antiliberista: «Sessantadue supermiliardari hanno accumulato la stessa ricchezza di 3,75 miliardi di persone, la metà più povera della popolazione mondiale». È la sintesi del comunicato con cui l’Oxfam, la Ong britannica legata all’Onu che propugna lo sviluppo equo e sostenibile, ha voluto monopolizzare l’attenzione mediatica prima e durante il summit di Davos. Come già l’anno

scorso, sono bastate poche verifiche per capire che le cose non stanno proprio così. Infatti, ballando con i dati pur di lanciare numeri sconvolgenti (otto individui contro 3,75 miliardi) l’Oxfam sorvola beatamente su evidenze che contrastano con le sue tesi pre-confezionate; nell’epoca della globalizzazione, quindi tra l’avvio nel 1990 e il 2016 (anno preso in esame dalle ultime statistiche), la quota delle persone in condizioni di povertà estrema, a livello globale, è crollata dal 43 ai 21 per cento. Il rapporto dell’Ong britannica mirava a rilanciare un’imposizione fiscale più elevata sulle ricchezze dei supermiliardari, una chimera che mi ha ricordato un famoso giudizio del premier svedese assassinato: «La sinistra non deve far piangere i ricchi, ma deve far sorridere i più poveri». Parole attualissime per spiegare non solo i bersagli errati dell’Oxfam, ma, indirettamente, anche la crisi delle sinistre e perché il populismo sia appannaggio solo (o quasi) delle destre.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Macron al contrattacco La polarità si è invertita di nuovo, nella Francia delle piazze catarifrangenti e dei foulard rossi, due visioni del mondo che si scontrano, con in mezzo il presidente, Emmanuel Macron, il dittatore secondo i gilet gialli (che detto da un gruppo tendenzialmente russofilo e madurista fa un po’ ridere), l’argine alla distruzione secondo gli altri.

Il Presidente in recupero di popolarità: la sua volontà di discutere piace.

Dopo aver subito l’arrembaggio della protesta che si è gonfiata a dismisura da dicembre a oggi – grazie a un coro internazionale indefesso e dall’identità chiarissima: i russi da una parte, l’alt right americana dall’altra, il populismo di destra e di sinistra nel cuore europeo – Macron sta recuperando popolarità: i grand débat, nati come una rincorsa ai gilet gialli dopo che l’Eliseo aveva perso la presa sul discours national, hanno segnato un cambiamento importante. In questi incontri con i cittadini, Macron dà il meglio di sé, ha ritrovato la grinta da candidato outsider delle presidenziali, è spigliato, diretto, convincente. Ha dalla sua la forza della ragionevolezza, che di questi tempi è merce rara nel dibattito europeo: la guerra per la normalità, per il buon senso, è tornata a essere prioritaria nel fronte antipopulista, e a chi si lamenta che è un po’ noiosa, Macron offre in cambio le dichiarazioni esagitate e poco edificanti dei gilet gialli. I quali come si sa non sono tutti uguali: ci sono quelli più moderati che vogliono

Zig-Zag di Ovidio Biffi Tre personaggi mandano a dire Una regina, uno scrittore e un leader politico. Gli ultimi due già defunti da tanto tempo, la regina invece se la spassa alla grande dall’alto delle sue 92 primavere. Idealmente convochiamo il terzetto per commentare alcuni degli argomenti politici più delicati e pregnanti che l’avvio dell’anno ha registrato. Il primo apporto è quello di Elisabetta Il, sovrana del popolo britannico. Era stata criticata, e non solo dai laburisti, per il suo discorso natalizio un po’ troppo blando, in particolare riguardo al problema più lacerante che i suoi sudditi stanno cercando di risolvere, cioè la Brexit. Non basta chiedere «comprensione reciproca» quando ci sono differenze molto profonde, non risolve nulla consigliare di «trattare le altre persone con rispetto, come esseri umani quanto noi, è sempre un primo passo per una comprensione più grande». Questa eccessiva neutralità della regina rinviava la risposta alla domanda di fondo: Elisabetta Il è pro o contro la Brexit? Tanto più che – come

rivelano i tabloids – in caso di «hard Brexit» e disordini civili, secondo piani segreti regina e reali verrebbero trasferiti in luoghi sicuri. Questo perché lei continua a incarnare, anche nel Terzo millennio, un ruolo essenziale nel processo legislativo britannico e idealmente rimane un riferimento, se non una consigliera, per tutte le forze politiche e i vari parlamenti che il Regno unito riunisce. Confermando una sempre viva osservanza dei suoi doveri, «The Queen» ha approfittato del discorso per il centenario della Womens’s lnstitute per aggiustare il tiro. Lo ha fatto dicendo che, anche nell’era moderna, per favorire nuove risposte, lei privilegia le ricette provate e sicure, come «rispettare i diversi punti di vista, cercare di trovare un terreno comune, e non perdere mai di vista lo scenario più ampio. Per me questo approccio è senza tempo, e lo raccomando a tutti». Forse è solo un caso, ma pochi giorni dopo Teresa May chiedeva aiuto al leader laburista Corbyn....


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 febbraio 2019 • N. 07

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Idee e acquisti per la settimana

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Cultura e Spettacoli Romanticismo a Milano Una mostra cerca di fare luce su quello che fu il fenomeno romantico in una chiave storica

L’amore sul grande schermo Quali sono i film imperdibili realizzati per dare voce al più nobile (così dicono) dei sentimenti? Una classifica per i nostri lettori

Tra teatro e danza Mirko D’Urso ci fa riflettere con le parole, Alessia Della Casa e Tiziana Arnaboldi danzando

Quel furbacchione di Wolfi Frasi tanto sconce da fare arrossire un trapper: Mozart non era solo delicatezza e genio pagina 42

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Scritte di natura amorosa sul muro della casa di Giulietta a Verona. (Keystone)

All you need is love

Amore/1 L’importanza dell’amore per sé stessi, poiché solo chi ama sé stesso può essere amato Maria Bettetini Tanto si dice e si è detto sull’amore. «O Romeo, Romeo, ma perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre, rinuncia al tuo nome; e se non vuoi farlo, basta che tu giuri di essere il mio amore perché io non sia più una Capuleti». Oppure: «Quando leggemmo il disiato riso / essere baciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi baciò tutto tremante». Ma anche «A me pare uguale agli dei / chi a te vicino così dolce / suono ascolta mentre tu parli / e ridi amorosamente». Saffo poi continua: «Subito a me / il cuore si agita nel petto / sol che appena ti veda, e la voce / si perde sulla lingua inerte. / Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle, / e ho buio negli occhi e il rombo / del sangue alle orecchie.» Shakespeare, Dante, Saffo (nella traduzione di Salvatore Quasimodo), poche parole immortali che descrivono e descriveranno sempre il sentire dell’amore. Amore per altri, Romeo, Paolo, l’amante di Saffo. È più difficile invece trovare parole così alte per una forma di amore necessaria a ogni altro amore. Parliamo dell’amore per se stessi, non certo inte-

so come narcisismo o egoismo. Esiste un amore per se stessi che innanzitutto significa accettazione. Amore per quello che si è, pacificazione con le circostanze che la vita ci propone. Credo sia impossibile amare altri se non ci si ama. Potranno presentarsi anche Romeo Montecchi e Paolo Malatesta, ma non li si riconoscerà come quei grandi amanti che furono se non si è in pace con se stessi. Si sarà tutte preoccupate di essere all’altezza, ci si considererà vincitrici alla lotteria dell’amore, si tenterà di incarnare la donna per loro ideale, forse. Esiste invece una forma di amore che apre a tutte le altre, che è quella che permette di vivere bene anche soli, o almeno quando ci si sente soli, indipendentemente dal dato oggettivo. È un amore che attraversa diversi campi. Amore per il tempo che passa, per il corpo che cambia, per la fragilità dei sentimenti e dei pensieri. Il tempo: scorre, inutile maledirlo. È un bene, non è solo avvicinarsi alla fine, quando aumentano gli anni ti chiamano sempre «signora», ti cedono il posto sugli autobus (e non è una vergogna), hai tanti sconti sulle ferrovie, ma soprattutto un’autorità morale che pote-

vi sognarti, prima. Per gentilezza o per opportunità ti fanno parlare, bastano due parole e le prendono in considerazione. Quando passano gli anni, sei libero di non dimostrarti sempre aggiornato. Siccome sei un – sia benevolmente detto – dinosauro, non importa che tu sappia ballare, conosca gli ultimi trapper, abbia in punta di lingua film e spettacoli recentissimi. A una certa età, puoi dichiarare che rileggi solo Shakespeare, e ne godi pure. Che non vai allo spettacolo delle ventidue, perché poi ti viene mal di testa. Che dei giornali guardi solo un paio di rubriche, che ti interessano, mentre il resto ti annoia, le news arrivano continuamente su tutti i media, e gli editorialisti sono così noiosi. Certo, non è più il tempo dei bagni di mezzanotte, di una maglietta, jeans e via, nemmeno di strafogarsi di salsicce. Prendere un autobus al volo è ormai un’acrobazia quasi impossibile, la prudenza consiglia di arrivare sempre in anticipo, non si sa mai gli imprevisti. Ma se amiamo e abbiamo amato i corpi faticosi dei nostri genitori, se non abbiamo imputato loro nessuna rovina fisica o mentale, se siamo pronti ad accettare le mancanze di chi ci vive

accanto, allora perché non dovremmo avere tenerezza anche per il nostro corpo che, come è normale nella vita, invecchia? Ci sono poi i vuoti di memoria: come abbiamo detto dei nonni, del papà e della mamma, si ricordano meglio i tempi lontani piuttosto che il menù della sera prima. Non è un problema grave, usare un’agenda, scrivere con la penna o su un pc, bastano per non perdere per strada le cose importanti. In cambio, finalmente la pace: i napoletani dicono chi ha dato, ha dato ha dato. Un mio professore, di Capri, diceva alla fine di ogni lezione di ebraico «Chi capisc capisc, chi non capisc pazienza». D’altra parte ogni minuto che passa ci avvicina alla «livella», come disse Esposito Gennaro netturbino, al nobile marchese (nella famosa poesia di Antonio de’ Curtis, Totò): «Ma chi ti credi d’essere, un dio? Qua dentro, vuoi capirlo che siamo uguali? Morto sei tu, e morto son pure io; ognuno come a un altro è tale e quale». Risponde il Marchese: «Lurido porco! Come ti permetti paragonarti a me ch’ebbi natali illustri, nobilissimi e perfetti, da fare invidia a Principi e Reali?».

«Ma quale Natale, Pasqua e Epifania! Te lo vuoi ficcare in testa, nel cervello che sei ancora malato di fantasia? La morte sai cos’è? è una livella. Un re, un magistrato, un grand’uomo, passando questo cancello, ha fatto il punto che ha perso tutto, la vita e pure il nome: non ti sei fatto ancora questo conto? Perciò, stammi a sentire, non fare il restio, sopportami vicino – che t’importa? Queste pagliacciate le fanno solo i vivi: noi semo seri, appartenemo a’ muorti». Non sono contraria alla chirurgia estetica, può risolvere molti problemi. Però. Però non si possono guardare capelli trapiantati e zigomi innalzati. Labbra gonfie e fronti spianate. Ragazzi, ragazze, non avete sedici anni, non li avrete mai più. Ma voletevi bene per come siete, amatevi e sarete amati, perché l’amore vero non guarda la ruga (che ognuno si è conquistato, come diceva Anna Magnani), ma vi ama per quello che siete. Non è così? Cercatene un altro. Un’altra, qualcuno che cerca voi di persona, che è disposto ad avere cura di voi, nel bene e nel male, e voi di lui, di lei, vi curerete sempre. Non sono parole fredde del rito matrimoniale, sono l’essenza di ogni amore. Vero.


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Cultura e Spettacoli

L’artista migrante Mostre Oskar Kokoschka al Kunsthaus di Zurigo

Gianluigi Bellei Oskar Kokoschka ha vissuto a lungo – è nato nel 1886 a Pöchlarn in Austria, ma è di origini ceche, ed è morto nel 1980 a Montreux – e per tutta la vita si è portato dietro la fama, o l’infamia, di artista degenerato. Ha viaggiato parecchio. O meglio, si è dovuto spostare molto, diciamo in cinque paesi diversi fra Vienna, Berlino, Dresda, il Maghreb, Praga, Londra, la Scozia, Salisburgo e infine Villeneuve, dove dal 1953 prende casa assieme alla moglie Olga. Perciò è un artista cosmopolita e per questo viene voglia di conoscerlo, o conoscerlo meglio. Anche solo per contraddire il sentimento generale di neonazionalismo e di chiusura che sta invadendo il mondo e l’Europa con questi sciagurati sovranisti che si impossessano dei gangli del potere. I suoi dipinti sono, comunque, un pugno nell’occhio e a raccontarli ci si può fare molti nemici. Ancor oggi. La Kunsthaus di Zurigo gli dedica un’intensa esposizione divisa per otto nuclei tematici che narrano le opere all’interno di questo continuo girovagare. Novanta dipinti e altrettante opere su carta con fotografie e documenti. Ci sono quasi tutte le opere basilari, a parte probabilmente la più emblematica: La sposa del vento (Tempesta) del 1914 ubicata al Kunstmuseum di Basilea. Dal Nudo di bambina del 1906 un po’ cezanniano (guardiamolo bene, perché oltre agli orridi sovranisti oggi vanno forte anche i neopuritani) per terminare con un luminoso Ecce Homines del 1972. Soffermiamoci solo su alcuni aspetti del suo percorso: l’amore, la visione libertaria e antimilitarista e gli ultimi splendidi trittici, ricomposti per la prima volta fuori dalla Gran Bretagna: La saga di Prometeo del 1950 e Le termopili del 1954. L’amore, dicevamo. Quello giovanile, a ventisei anni quando nel 1912 incontra Alma Mahler, la vedova del grande musicista morto l’anno prima

Oskar Kokoschka, La saga di Prometeo (part.), 1950. (The Samuel Courtauld Trust, The Courtauld Gallery, London © Fondation Oskar Kokoschka / 2018 ProLitteris, Zürich)

e sette anni più vecchia di lui. Alma è una donna volitiva, colta, affascinante, indipendente e dopo la relazione con Kokoschka si sposa altre due volte, prima con l’architetto Walter Gropius e poi con lo scrittore Franz Werfel. Kokoschka si innamora pazzamente di lei ma la loro focosa relazione dura solo tre anni. La stessa Alma scrive che «l’amore fra di noi fu un’unica, tumultuosa battaglia». L’ossessione per Alma dura anche nel decennio successivo e l’artista realizza per lei una ventina di dipinti, sei ventagli e una sorta di bambola a grandezza naturale, a sua immagine, ricoperta da una riccia peluria di lana. In mostra una serie di opere fra le quali il loro ritratto e

il dipinto a muro del 1914 situato in una parete della loro casa a Breitenstein am Semmering e ritrovato, recentemente, sotto vernici e carta da parati. La visione libertaria e antimilitarista. Dal 1931 l’artista vive tra Vienna e Parigi. Nel 1934 si trasferisce a Praga dove conosce la sua futura moglie Olga Palkovská. Nel 1938 di fronte alla minaccia nazista decidono di andare in esilio a Londra. In questo periodo i dipinti diventano esplicitamente politici. In mostra ne possiamo ammirare diversi. Osserviamone due in particolare. L’uovo rosso del 1940-41. I quattro grandi della Terra sono a tavola e stanno mangiando una gallina. Questa vola via lasciando

sul tavolo un uovo rosso. Mussolini in primo piano sembra terrorizzato, Hitler con un elmo di carta urla di paura, il gatto francese è sotto la tavola e in fondo troviamo il leone britannico con il segno della sterlina. In alto Praga che brucia. Un dipinto sovraeccitato, allegorico, dai colori violenti tipici dell’espressionismo. L’altra tela è Per che cosa combattiamo del 1943. Qui troviamo un condensato delle atrocità della guerra e i suoi protagonisti. Il vescovo che con una mano dà l’obolo alla Croce Rossa e con l’altra benedice le truppe militari, una madre che muore di stenti al centro, il governatore della Banca d’Inghilterra, Montague Norman, il presidente della Reichsbank,

Hjalmar Schacht. In basso a destra il busto di Voltaire con su scritto «Candide», il migliore dei mondi possibili. Nel 1942 l’artista scrive: «Non è stato questo a farmi venire al mondo al di là e al di qua di un certo confine politico: i confini sono artificiali». Alla fine della guerra Kokoschka ricomincia a viaggiare in Europa e in Nord America. Un periodo fecondo. La maturità coincide con l’interesse verso l’arte greca e il ritorno ai valori classici di spazio, movimento e storia come momento unificante dei valori universali. Sono di questi anni i trittici La saga di Prometeo e Le Termopili. Prometeo, come si sa, è il Titano che sfida gli dei e ruba il fuoco a Zeus per donarlo agli uomini. Zeus lo punisce incatenandolo e facendogli divorare il fegato da un’aquila. Il trittico di Kokoschka racconta questo mito con forza, enfasi, drammaticità. Le figure appaiono possenti e nodose; i colori si sfaldano, fluidi, lievi, aerei, accesi; le pennellate si fanno vibranti, guizzanti, sospese. La luce, nel dipinto centrale, diventa accecante e la forza delle immagini sublimi, nel vero senso della parola, cioè un’infuocata miscela di bellezza e terrore. Kokoschka scrive: «Grazie al carattere particolare dell’arte greca – che ha avuto un significato non meramente estetico, ma anche etico, coincidente con lo stato e con la comunità umana nel senso più vasto – noi troviamo… noi stessi». Oramai l’artista è diventato un mito e piace vederlo in una fotografia del 1969 ritratto assieme alla sua amata Olga nel giardino della loro casa di Villeneuve seduti con una tazza di the in mano a godersi una tranquilla e meritata vecchiaia. Dove e quando

Kokoschka, A cura di Cathérine Hug, Kunsthaus, Zurigo. Fino al 10 marzo 2019. Catalogo Kehrer-Verlag. www. kunsthaus.ch

L’arte di afferrare la realtà naturale Amore/2 A Milano si celebra lo spirito romantico che iniziò nella seconda metà del Settecento Ada Cattaneo Fra tutti i movimenti culturali dell’età moderna forse il Romanticismo è quello più difficile da definire. La confusione nasce, in qualche modo, dalla sua fortuna: più di altre correnti, è stato infatti assunto a concetto della vita quotidiana, con tutti i fraintendimenti che questo passaggio può comportare. Partiamo dal significato più diffuso del termine: romantico è colui che vive nelle suggestioni dell’amore, si compiace della propria malinconia e interpreta in base ai propri sentimenti la realtà che lo circonda.

Resterà deluso chi in questa mostra milanese cerca solamente immagini di amanti innamorati Ma da dove arriva questa concezione comune, che a tratti sfiora lo spregiativo e spesso si accompagna al melenso? A guardar bene si tratta della semplificazione di un complesso di esperienze culturali, che non ha in sé nulla di scontato o di banale. Il primo elemento che ci viene in aiuto è l’etimologia del termine Romanticismo, derivato dall’inglese «roman-

ce», che designa qualcosa di irreale, pittoresco e – per estensione – il sentimento che ne deriva. In particolare, la parola, a un certo punto, viene usata per riferirsi all’ambiente naturale, alle sue meraviglie e alle sensazioni che ne possono scaturire. Dalla seconda metà del Settecento, questo concetto comincia a viaggiare di pari passo con i moti che, in tutta Europa, porteranno a una presa di coscienza delle varie identità nazionali, del genius loci, spesso appiattito dalla dominazione straniera. Ma è sul concetto di «sublime» che serve soffermarsi per capire cosa inseguissero veramente letterati, pittori e scrittori, non solo europei, per alcuni decenni, sino a metà Ottocento. Sublime nell’arte è ciò che riesce a comunicare la potenza incontenibile della natura, spaventosa quanto irresistibile. Artefice e spettatore prendono coscienza di sé di fronte alla meraviglia ammirata e rappresentata, al contempo creatrice e distruttrice. Fra le dita abbiamo quindi concetti assai complicati che mal sembrano coniugarsi con le romanticherie degli innamorati. Ma in effetti è forse, come sempre, solo una questione di livelli di lettura. La mostra Romanticismo – presso le Gallerie d’Italia e il Museo Poldi Pezzoli di Milano – tenta di fare chiarezza su quello che fu il Romanticismo, nella sua accezione storica. Resterà quindi deluso il visitatore che cerchi solo immagini

di amanti innamorati, ma grande soddisfazione avrà invece chi voglia capire meglio il tentativo dell’arte di afferrare la realtà naturale, in tutte le sue manifestazioni, dalle tempestose vedute alpine ai concitati moti dell’animo. La mostra è una panoramica esauriente della produzione artistica italiana nella prima metà dell’Ottocento, con molti affondi nelle analoghe esperienze straniere, dalla Germania all’Inghilterra, dalla Russia alla Francia. È allestita nelle splendide sale di quella che già fu la sede della Banca Commerciale Italiana, nel salone principale e nelle salette radiali, originariamente progettate per ospitare gli sportelli bancari. La produzione di Francesco Hayez (1791-1882), emblema del «romantico a Milano», ha sicuramente il ruolo di protagonista, soprattutto con la sua Meditazione. La parte più nutrita è però quella dedicata alle vedute naturali, nelle loro innumerevoli declinazioni, dall’emblematico Caspar David Friedrich alle notturne scene di un sabba nella foresta. Anche i soggetti letterari furono frequente occasione d’ispirazione per i pittori romantici: qui nella mostra di Milano i soggetti tratti dai Promessi sposi prevalgono, ma non mancano neppure raffigurazioni dalle tragedie di Shakespeare. Un ruolo interessante è anche quello delle opere di scultura, tanto che il visitatore ticinese resterà sorpreso nel ritrovare in posizione d’onore, in prestito da Lugano, lo Spartaco di Vincenzo

Francesco Hayez, La Meditazione, 1851. (Verona, Galleria d’Arte Moderna «Achille Forti»)

Vela che solitamente accoglie i visitatori di Palazzo Civico. Per chi invece fosse in cerca di smancerie, il celebre Bacio di Hayez è sempre visibile alla vicina Pinacoteca di Brera.

Dove e quando

Romanticismo, Milano, Gallerie d’Italia di Piazza Scala e Museo Poldi Pezzoli (Via Manzoni 12). Fino al 17 marzo 2019. gallerieditalia.com


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Cultura e Spettacoli

Piccolo decalogo della cinematografia amorosa Amore/3 Dieci imperdibili film sul sentimento che, nel bene e nel male, muove il mondo

Daniele Bernardi Comizi d’amore (1965) di Pier Paolo Pasolini. Pasolini attraversa l’Italia raccogliendo testimonianze nei ceti più disparati della società: intervista contadini, ma anche intellettuali, studenti, semplici lavoratori. Passando da spiagge a treni regionali, da piazze a sale ballo, pone a tutti le stesse domande: che cos’è la sessualità? E l’omosessualità? È giusto poter divorziare? La donna deve essere inferiore all’uomo? Questi e altri gli interrogativi attraverso i quali l’intellettuale consegna un indimenticabile ritratto del suo Paese. Scene da un matrimonio (1973) di Ingmar Bergman. Concepito inizialmente come sceneggiato televisivo in sei episodi, questo capolavoro del regista di Il settimo sigillo racconta la crisi fra Johan e Marianne, coppia borghese apparentemente solida che, man mano, rivela la propria connaturata fragilità. Tutto comincia quando Johan confessa alla moglie di essersi innamorato di una sua studentessa, Paula. Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani. A poco più di dieci anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, Max e Lucia si ritrovano in un albergo a Vienna. Lui, ex ufficiale delle SS, svolge ora le mansioni di portiere di notte mentre lei, ebrea, è sposata a un direttore d’orchestra. Da questo incontro riemerge in entrambi il torbido ricordo del loro incontro all’epoca dello sterminio.

La paura mangia l’anima (1974) di Rainer Werner Fassbinder. Emmi è una donna delle pulizie sulla sessantina che, una sera, conosce Alì, immigrato marocchino molto più giovane di lei. Fra i due nasce un amore e la loro relazione desta stupore e incredulità sia in famiglia sia fra i vicini di casa. Una volta sposati, i due diventano vittime di un’ostilità imperante: figli, condomini e colleghi tagliano i ponti con Emmi e il rapporto con Alì attraversa difficoltà e sofferenze. D’amore si vive (1984) di Silvano Agosti. Una giovane madre, una donna che ha avuto un’educazione severa, un bambino di nove anni, una tossicodipendente, una prostituta di mezza età, un transessuale appassionato di lirica e un travestito che alleva colombi sono i protagonisti delle sette straordinarie interviste riunite da Silvano Agosti in un film-documentario che si interroga sulla natura dell’amore nelle sue molte declinazioni. Höhenfeuer (1985) di Fredi M. Murer. Belli e il fratello autistico e sordomuto crescono sulle sperdute Alpi svizzere in compagnia dei genitori contadini. Il ragazzo è problematico e manifesta il suo disagio attraverso comportamenti che mettono a dura prova i genitori. Adolescente, comincia a vivere le prime pulsioni sessuali e, inevitabilmente, si sente attratto da Belli, che lo accudisce come un bambino. Gli amanti del Pont-Neuf (1991) di Leos Carax. Michèle è una giovane pit-

Pier Paolo Pasolini mentre intervista una giovane in Comizi d’amore (1965). (lindiceonline.com)

trice malata a un occhio che fuggita di casa si ritrova a vivere da clochard sulle strade di Parigi. Sul Pont-Neuf incontra Alex, barbone mangiafuoco che, come lei, trascorre le sue giornate vagabondando senza meta. Fra i due nasce un affetto disperato, ma l’infermità di Michèle va aggravandosi. I racconti del cuscino (1996) di Peter Greenaway. Lettrice dell’opera di Sei Shōnagon, ossessionata dall’arte calligrafica, la giapponese Nagiko ricerca fra i suoi amanti chi sappia scrivere sul suo corpo come faceva il padre, con lei, quando era piccola. Un giorno incontra

Jerome, un giovane intellettuale inglese col quale intesse un profondo legame amoroso. Ma Jerome si toglie la vita e Nagiko scopre che questi era amante dell’editore che rovinò la vita al genitore. Lettere da uno sconosciuto (2014) di Zhang Yimou. Contrario al sistema negli anni della Rivoluzione culturale, Lu Yanshi vive in clandestinità senza poter vedere la famiglia. Quando decide di recarsi dalla moglie di nascosto, la figlia, osteggiata nella sua compagnia di danza perché figlia di un dissidente, decide di denunciarlo. Lu Yanshi viene incarcerato. Passati gli anni, una volta in libertà

corre dall’amata compagna, ma al suo arrivo la donna non è in grado di riconoscerlo: il trauma è stato troppo forte. Cold War (2018) di Pawel Pawlikowski. Selezionata per fare parte di una compagnia di balli e canti popolari nella Polonia dei primi anni Cinquanta, Zula si innamora del direttore d’orchestra e pianista Wiktor. I due lavorano insieme sotto l’ombra di Stalin quando, durante una tournée, lui le chiede di scappare con lei oltre il confine. Zula però non ha il coraggio di seguirlo. Si ritroveranno dopo alcuni anni a Parigi, dove Wiktor vive suonando e componendo. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Il dramma dei profughi e i motivi per nuove coreografie

Avvicinarsi alle note in allegria

si vede assegnati spazi sempre più significativi

Suisse al LAC con un concerto

In scena Mirko D’Urso spinge alla riflessione grazie al suo Mare Morto, mentre la danza

Che la musica sia un motore, un balsamo dell’anima, un linguaggio dalle molteplici pieghe espressive, è cosa nota a tutti. Avvicinarsi a essa sin da piccoli e in modo attivo, cioè suonando, cantando e ballando (addirittura costruendo il proprio strumento partendo da un pezzo di carta) è però un’altra cosa, forse addirittura una sfida. Questo è l’obiettivo dell’iniziativa Superar Suisse, nata nel 2012 nella Svizzera tedesca sulla scia di un progetto austriaco, a sua volta ispirato dall’incredibile successo del venezuelano «El sistema». Domenica 17 febbraio alle ore 11 al pubblico del LAC sarà data la possibilità di confrontarsi con un progetto che ha dell’incredibile, poiché coinvolge 200 fra bambini e ragazzi (130 giovani orchestrali e 70 coristi) che si esibiranno sotto la direzione dei Maestri Marco Castellini (Direttore artistico Superar Suisse), Pino Raduazzo (Direttore del Coro di Lugano) e Carlo Taffuri (Direttore dell’Orchestra di Lugano). Per chi fosse interessato ad avere maggiori informazioni sull’iniziativa, consigliamo di consultare il sito www.superarsuisse.org. Per la prevendita dei biglietti (gratuiti fino ai 16 anni, per tutti gli altri prezzo unitario di 20 CHF) ci si può rivolgere a www.luganomusica.ch

Giorgio Thoeni Battagliero, schietto e tenace, attualmente Mirko D’Urso è forse il teatrante più instancabile e socialmente impegnato della nostra regione. Diviso com’è fra la querelle luganese sullo sfratto della sede del MAT, il frequentato centro artistico sulle rive del Cassarate da lui diretto, e l’organizzazione di proposte per la rassegna Home in collaborazione con LuganoInScena, ecco che, in attesa di fare il suo ingresso nell’arena elettorale, D’Urso trova anche il tempo per produrre spettacoli con Officina Teatro. Recentemente lo abbiamo visto protagonista di Mare morto al Teatro Foce di Lugano, monologo scritto e diretto da Simone Gandolfo con l’assistenza di Ylenia Santo. Il testo nasce da un’esperienza dell’autore dopo due mesi passati a bordo di una nave della Guardia Costiera italiana per realizzare documentari sull’assistenza ai barconi carichi di emigranti provenienti dall’Africa. Dar voce al racconto di una tragedia di così grandi proporzioni e troppo spesso ostaggio della politica si è trasformato in un toccante diario di viaggio, quello di Malik con la sua figlioletta in braccio a bordo di un gommone alla deriva nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Un esodo narrato a tinte forti, simbolo della drammatica e straziante realtà di migliaia di altre persone in fuga da guerre e miseria nella disperata ricerca di un futuro. Le tre serate luganesi di Mare Morto hanno registrato il tutto esaurito e applausi per Mirko D’Urso nella sua solitaria, impegnativa e immobile sfida con la parola teatrale. Lettura danzata di fiaba e poesia

La scena ticinese si è espressa anche sul fronte della danza. Ma facciamo un passo indietro e partiamo da Non sono cappuccetto rosso, racconto autobiografico di Roberta Nicolò uscito nel 2015 (Libro Photo Ma.Ma.Edizioni). Dopo essere stato spunto nel 2016 per Cappuccetto infrarosso, affollata per-

Musica Superar

Alessia Della Casa è la protagonista di Al Lupo! (luganoinscena.ch)

formance diretta da Markus Zohner, nell’estate del 2018 quel racconto ha contagiato la danza di Alessia Della Casa che, per il Festival Ticino In Danza, ha creato AL LUPO! (Diventare cappuccetto rosso), esplorazione coreografica di un progetto che ha da poco debuttato sul palco bellinzonese. Della Casa, in scena con Francesca Lastella, recupera nel suo spettacolo uno dei temi portanti della fiaba di Perrault come metafora di iniziazione e sublimazione del racconto di Roberta elaborando una formula interrogativa sul tema del giudizio, del punto di vista. Lo propone con un taglio performativo affidando un ruolo attivo allo spettatore che può scegliere l’ascolto in cuffia fra due colonne sonore (musiche di Gioac-

chino Balistreri) in una prospettiva scenografica (video di Roberto Mucchiut) che riveste il fondale con una foresta riflessa sulla sua mediana come un test di Rorschach o con il profilo di una desolazione urbana. Un’opera aperta. Un altro sequel ha preso forma al Teatro S. Materno di Ascona con lo spettacolo Canto del corpo, nuova coreografia di Tiziana Arnaboldi per la sua compagnia di eccellenti danzatori con Marta Ciappina, Eleonora Chiocchini, Pierre-Yves Diacon, Maxime Freixas, David Labanca, le ricerche musicali di Mauro Casappa e le luci di Elia Albertella. Ma forse più che un sequel è meglio considerarlo come un ulteriore dipinto scaturito dall’incontro della ricerca della Arnaboldi con

la tavolozza poetica di Fabio Pusterla. Canto del corpo è infatti il risultato di un percorso iniziato tre anni fa con Il motivo di una danza, una sorta di reading che vedeva in scena i versi profondi di Pusterla dialogare con le studiate movenze di Valentina Moar. I quadri sono stati successivamente rivisti, prima con Il suono delle pietre fino a questo efficace, e intenso masterpiece dove la poesia è ormai interiorizzata, la trama della gestualità dei danzatori muove le pietre, presenze simboliche e terrene per il greto di un fiume in cui scorre la liquida simbiosi di corpi pulsanti emozioni primarie fra suoni liberi di viaggiare verso una nuova danza. Pienone e applausi per uno spettacolo importante e vibrante.

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Cultura e Spettacoli

Cantami l’amore

L’amore può fare davvero male

canzoni d’amore provenienti da un repertorio più contemporaneo

Amore/6 Nel doc

Amore/4 C inque dischi d’amore (anche fisico) «Old School» contrapposti ad altrettante

Alessandro Zanoli

Enza Di Santo

Nell’epoca in cui «il personale era politico» non era così facile cantare d’amore e, in ogni modo, la (presunta) liberazione sessuale apriva il l’espressione affettiva a forme anche più concrete, provocatorie. La scelta di brani d’amore di fine 900 quindi è forse più prosaica del necessario. Ma, alla luce di quanto successo dopo...

Noi, figli degli anni 90, ascoltiamo: Paracetamolo (Calcutta)

Per capirci, il titolo non fa il testo. Paracetamolo (e tutto l’album Evergreen) dello scorso anno, ha qualcosa di anacronistico, ma aderente al nostro tempo. Calcutta, cantautore di Latina definito come la voce di una generazione, ha uno stile indie e mediterraneo, che ricorda il romanticismo di Lucio Battisti e il non-sense di Rino Gaetano. Eppure, nonostante l’insensatezza, Paracetamolo è un brano chiarissimo «Ti prego vacci piano che se mi stringi così / Io sento il cuore a mille».

Je t’aime, moi non plus (Jane Birkin e Serge Gainsbourg)

Fine anni 60: disco censurato dalla radio italiana, che non poté fare a meno di inserirlo nella hit parade ma non doveva mandarlo in onda. Qui da noi girava liberamente ma non andava in onda lo stesso. Non era nemmeno presente nei Jukebox: era invece immancabile nelle collezioni di 45 giri dei ragazzi «svegli». Bel pezzo, ancora oggi: originale, geniale come Gainsbourg. Samba Pa Ti (Santana)

Per la generazione Woodstock, nonostante l’assenza di un testo, era un brano da apoteosi ormonale. Il ballabile per eccellenza, consentiva contatti fisici limitati ma sinceri. Grande canzone, immancabile nei repertori dei gruppi di dilettanti e alle feste studentesche. Volendo scherzare, si potrebbe pensare di inserirla nel repertorio della musica sacra, per la nascita di coppie che ha favorito. Piccolo grande amore (Baglioni)

Nell’epoca dei cantautori impegnati non tutti apprezzavano l’amore cantato da Baglioni. Qualcuno ancora oggi potrebbe opporgli Luci a San Siro o Buonanotte Fiorellino. Ma è indubbio che proprio Baglioni abbia messo l’amore al centro del suo repertorio, senza ipocrisia e con caparbietà. Bugiardo chiunque neghi di aver mai canticchiato «Quella tua maglietta fina».

di Christian Frei le conseguenze dell’amore Simona Sala

Tuyo (Rodrigo Amarante) Ah, l’amour: Jane Birkin e Serge Gainsbourg in un’immagine del 1977. (Keystone) Love to love you baby (Donna Summer)

Complice l’inizio dell’epoca dei videoclip, l’immagine conturbante dell’interprete arrivava anche in TV. Metà anni 70: da una parte il punk, dall’altra Donna Summer. Periodo di contraddizioni: si potevano ascoltare entrambi nei Jukebox dei bar. Qualcuno degli amici si era distinto per aver cronometrato l’orgasmo della cantante giungendo alla conclusione che, forse, era simulato. You can leave your hat on (Joe Cocker)

Se ne volete una versione stupenda cercate quella di Etta James. Il pezzo comunque è della persona meno sexy del mondo, Randy Newman. Alla fine degli anni 80 la cover che ne fece Joe Cocker era colonna sonora del film 9 settimane e 1/2: quello strip di Kim Basinger incise a lungo nell’immaginario (anche femminile) e il brano era perfettamente all’altezza (o viceversa?).

Un brano caldo, suadente e incredibilmente romantico, ma senza smielata sdolcinatezza, al contrario, è un bolero latinoamericano che racchiude una passione, un fuego e che con un buon ballerino può svoltare la serata... Ispirandosi a cosa avrebbe potuto ascoltare la madre di Pablo Escobar, mentre cresceva il figlio, Rodrigo Amarante, cantautore di Rio de Janeiro, nel 2015 ha composto questa ipnotica e seducente canzone appositamente per la serie di Netflix, Narcos. Baciami ancora (Jovanotti)

Jovanotti ha una musica che si rinnova in continuazione senza banalizzare la contemporaneità dei nuovi generi. Baciami ancora, del 2010, tra le sue tante canzoni romantiche e dolci, è sicuramente quella che meglio descrive l’amore, un po’ per tutte le stagioni, con una spensieratezza tenera, che alla fine porta al bacio. Baciarsi, baciarsi e baciarsi ancora, l’azione più semplice e istintiva dell’amarsi, che poi lo sanno tutti che fa molto bene alla salute finché non ti prendi la mononucleosi. Sì, poi ci sarebbe anche l’omonimo film di Muccino, se proprio...

Il vero nome di Calcutta, classe 1989, è Edoardo D’Erme. (youtube) If I ain’t got you (Alicia Keys)

«Alcune persone vogliono anelli di diamanti, alcune vogliono solo tutto... ma tutto vuol dire nulla se non ho te»: che altro dire. Alicia Keys, bellissima, voce eccezionale, con questo romanticissimo secondo singolo tratto dall’album The Diary of Alicia Keys, a metà strada tra soul e R&B, ha vinto il Grammy nel 2015 per la migliore performance vocale femminile R&B. Un brano che richiede una notevole capacità canora, tecnicamente difficile, ma eseguito sempre magistralmente dall’artista. I love you baby (Gloria Gaynor)

Potente Gloria Gaynor nell’esecuzione di questa canzone tutta disco music anni 90, una bomba di energia d’amore. Un brano che è tutto da ballare e che viene attribuito erroneamente alla Gaynor. La versione originale Can’t Take My Eyes Off of You fu scritta nel 1967 da Bob Crewe e Bob Gaudio ed eseguita da Frankie Valli con i Four Seasons. Questa canzone d’amore divenne un simbolo per i ragazzi partiti per il Vietnam.

Christian Frei (pluripremiato documentarista svizzero, addirittura nominato all’Oscar per il suo War Photographer del 2001) voleva sapere cosa si provasse dopo essere stati abbandonati dall’amore della propria vita. Ha dunque tappezzato la città di New York con una serie di locandine in cui chiedeva alle vittime dell’abbandono di farsi avanti. Per la realizzazione del film sono state scelte tre persone, la giovane fiorista Alley Scott, il traduttore Michael Hariton e la trasformista Rosey La Rouge: i tre protagonisti in comune probabilmente hanno ben poco, se non un dolore di difficile sopportazione, che sembra pesare come il mondo stesso e la mancanza più assoluta di prospettive. Alley è insonne e piange senza interruzione, contando i giorni dall’abbandono come farebbe un alcolista che ha lasciato il vizio; Michael tutte le sere passa sotto casa dell’amata per vedere se la luce è accesa, mentre Rosey è disorientata e incredula, incapace di dare una nuova direzione alla propria vita. A questo punto nel documentario entra in gioco la bioantropologa statunitense Helen Fisher, che da anni si occupa e studia i comportamenti psicologici e biologici dell’essere umano nei confronti del sentimento per antono-

Wolfgang Amadeus Mozart, quando l’amore diventa sesso Amore/5 L’eterno tabù dell’amor profano svelato da uno dei più grandi compositori classici Zeno Gabaglio Alcune delle più belle canzoni d’amore della cultura italiana sono state scritte da fieri e impenitenti puttanieri. Ecco una delle affermazioni più ricorrenti – e volutamente contraddittorie – a proposito dell’inesauribile tema dell’amore in musica. E siccome trattando di arte e di sentimenti eterni il rischio è sempre quello di idealizzare le opere e gli artisti, ci permettiamo qui di svolgere il compito opposto: nel binomio amor sacro/amor profano (citazione d’obbligo da Bocca di rosa, peraltro scritta da uno dei massimi indiziati del precedente paragrafo) isoliamo unicamente il secondo, l’amore erotico. A questo punto bisogna però compiere un ulteriore re-indirizzamento sul piano dei generi musicali. Se infatti si volesse indagare l’ambiguità dei riferimenti sessuali nella produzione popular si andrebbe ben poco lontano: a partire dal celeberrimo motto «sesso, droga e rock’n’roll» ci si scontrerebbe infatti con mezzo secolo di creazioni che hanno fatto dell’ammiccamento – quando non proprio dell’esplicito proclama sessuale – la ragione d’essere dei contenuti musicali e dei loro canali di marketing. No,

no: meglio allontanarsi dal rock almeno di qualche secolo, per riscoprire incarnazioni del tema erotico-amoroso che spesso ci piace dimenticare. «Già, già, mia amatissima leprotta ragazzotta, così va il mondo: uno ha la borsa e l’altro i soldi, Lei per cosa tiene? Hop pappà, batti mazza, tienimelo stretto, non me lo stringere, tienimelo stretto, non me lo stringere, leccami il culo, battimazza, sì, è vero, chi ci crede sarà beato, e chi non ci crede andrà in cielo; ma dritto come un fuso e non così come scrivo». Era il 3 dicembre 1777 e a vergare queste righe piuttosto scurrili era nientemeno che il sommo Wolfgang Amadeus Mozart, l’autore che come pochi altri ci ha aperto – e tutt’oggi continua ad aprirci – privilegiati accessi alla più alta trascendenza. «Le lettere alla cugina, di gusto certo discutibile, ma molto spiritose, meritano una menzione, ma non devono essere pubblicate». Forse quest’annotazione della moglie Constanze può valere da spiegazione (se non proprio da giustificazione, malgrado il desiderio di censura) su come fosse stato possibile che il grande spirito creatore si abbandonasse a simili bassezze carnali. Ma liquidando come peccati di gioventù le divertentissime lettere alla cugina Anna

Il sommo Wolfi in un ritratto realizzato intorno al 1770. (Wikipedia)

Maria si rischierebbe di oscurare uno dei messaggi fondamentali che attraversarono le opere di Mozart: capolavori settecenteschi in grado di illuminare il presente con una mappa di sentimenti ed eros singolarmente attuale. Attraverso la trilogia di opere creata col librettista Lorenzo Da Ponte – quel corpus miracoloso costituito da Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte – Wolfgang Amadeus Mozart riuscì infatti a scandagliare in modo quasi profetico ogni aspetto dell’amore, affrontando problemi come la violenza

sulla popolazione femminile e la trappola in cui cadono le «donne che amano troppo». E seppe anche prospettare temi avveniristici come la possibilità di amare più persone, il sesso in adolescenza e nella quarta età, la scelta di essere single, la propensione alla bisessualità. Assai raramente – per non dire mai – si affrontano la persona e l’opera di Mozart come degli spunti per parlare di amore e di sesso, o per cogliere l’evoluzione storica di temi così sempre e comunque attuali. E una delle rare occasioni utili a colmare questa triste lacuna è il libro – pubblicato pochi anni fa da Feltrinelli – E Susanna non vien. Amore e sesso in Mozart, scritto da Leonetta Bentivoglio e Lidia Bramani. Un’opera che svela il perfetto congegno musicale tripartito che collega i contenuti politici e sociali alla vita di Mozart (i suoi rapporti, le sue frequentazioni, le sue letture). Sottolineando pure il sorprendente anticonformismo e la preveggenza delle figure femminili in Mozart, per un universo di significati che oggi parla agli eterosessuali e agli omosessuali, a chi ha conquistato un’estasi monogamica non obbligata, ai poliamoristi in guerra con l’ipocrisia e agli amanti clandestini refrattari alla mistica della trasparenza.

Alley, in lacrime e insonne.

masia, quella pulsione dalla forza così dirompente da attraversare come un fil rouge la storia e le storie individuali, le arti e i vissuti di chiunque. Helen Fisher infatti, ricordandoci che per i greci l’amore non era che una «follia degli dei», giunge alla conclusione che la natura, dotandoci di un «sistema cerebrale» così potente abbia esagerato. Per dimostrare la sua tesi si appoggia nientemeno che alla scienza: attraverso delle TAC cerebrali riesce infatti a provare come dopo un abbandono amoroso entrino in gioco gli stessi meccanismi biochimici e siano interessate le stesse zone del cervello che caratterizzano l’astinenza dalla droga, in particolare dalla cocaina. Amare ed essere riamati può senza dubbio essere la migliore esperienza del mondo, quella in grado di farci andare avanti e di affrontare il futuro con forza. Essere abbandonati, specularmente, può essere la peggiore, perché in campo entra una dipendenza di difficile gestione che, come nel caso della disintossicazione da droga, per essere superata necessita di regole ferree, tra cui quella di cancellare ogni ricordo dell’amata o dell’amato e di portare pazienza. Un giorno questo dolore ti sarà utile, recita il titolo di un libro di Peter Cameron, dopo la visione di questo documentario però, non ne siamo più così certi, poiché, alla fine, è un dolore ingiusto.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 febbraio 2019 • N. 07

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta I censimenti possono essere pericolosi Ci lamentiamo per la lentezza nelle procedure degli uffici pubblici. La notifica di una multa per una sosta vietata commessa il 2 novembre dell’anno scorso mi è arrivata il 17 gennaio e non ho potuto fare altro che pagare, non essendo in grado di ricostruire i miei movimenti in quel lontano giorno. C’è stato un tempo in cui l’amministrazione del nostro Comune si muoveva rapida e implacabile come il fulmine. Una magnifica occasione per dare prova della sua perspicacia e del suo zelo le venne offerta su un piatto d’argento dalle leggi razziali del 1938. Arriva l’ordine di realizzare il censimento degli ebrei di Torino e gli impiegati, colpo di genio, iniziano dalle scuole. Vogliono «l’elenco degli alunni che durante l’anno scolastico 1937-38 hanno chiesto l’esonero dalla religione». Con la firma del Concordato nel 1929 il Cattolicesimo era diventato in Italia religione di Stato e obbligatoria la frequenza all’ora di religione. Abbiamo la sollecita risposta del Regio Liceo

Ginnasio Vittorio Alfieri, protocollata il 23 agosto 1938. Sono 50 nomi, per 15 dei quali «non si conosce a quale religione appartengano», uno è classificato apolide, un altro protestante. Dai nomi dei 33 allievi classificati ebrei è uno scherzo risalire alle famiglie e includerle nel censimento. Eccoli, dalla A di Avigdor alla S di Segre. Finita la guerra qualcuno ha tentato di giustificare tanto zelo: «da qualche parte dovevamo pur cominciare». Questo documento insieme a tanti altri è consultabile nella Mostra sul censimento degli Ebrei di Torino allestita presso l’Archivio Storico della città. Queste carte dall’apparenza modesta, a leggerle con attenzione, raccontano una storia di feroce discriminazione. Un altro capitolo della mostra riguarda la precettazione a scopo di lavoro obbligatorio. «Visto che questi ebrei non sono sotto le armi che almeno si rendano utili sgomberando le macerie delle case bombardate», omettendo di specificare che non combattevano perché in quanto

ebrei erano stati espulsi dall’esercito. Il provvedimento riguardava uomini e donne nell’età dai 18 ai 55 anni, ma a Torino a essere precettati furono solo uomini, 130 in tutto. Il Podestà si lamenta e fa il punto con una relazione indirizzata a Sua Eccellenza il Prefetto Presidente del Consiglio Provinciale delle Corporazioni, in data 12 marzo 1943. È un testo illuminante sulla reale situazione: «Gli ebrei precettati per essere adibiti a lavori manuali presso il Municipio di Torino furono 123. Tale numero si ridusse subito a 118 in quanto un ebreo venne dichiarato non di razza ebraica (sic!), tre erano emigrati in altre province anteriormente alla data di precettazione e uno fu riconosciuto precettato per errore. Successivamente furono esonerati dalla precettazione un laureato in medicina e chirurgia e 5 ebrei che erano tenuti per legge al mantenimento di prole non considerata di razza ebraica avuta dalla libera unione con ariane». (Se ne deduce che se la prole fosse nata da una

donna ebrea non avrebbe avuto diritto al mantenimento). Proseguiamo nella lettura: «Sui 110 ebrei rimasti ben 70 furono riconosciuti in prosieguo di tempo non idonei ai lavori cui erano destinati. (…) Sta di fatto che attualmente si può contare su una presenza giornaliera di una trentina di persone, in quanto l’Ufficiale sanitario sovente deve concedere licenze per malattia di alcuni giorni. (…) Si osserva che tutti indistintamente gli ebrei precettati prestarono opera di scarso rendimento, e ciò, principalmente a causa delle loro condizioni fisiche e non o scarsamente idonee a lavori manuali. Infatti i suddetti, anteriormente alla precettazione, non prestavano la loro opera in lavori manuali». Esposte nella mostra si trovano motivate richieste al Podestà, come la seguente, datata 10 dicembre 1942 – XXI: «Il sottoscritto, precettato di razza ebraica, Gallico Raffaele di Guido, abitante in via dei Mille N.26, Torino, avendo avuto, durante l’incursione verificatasi nella notte dall’8

al 9/12, colpita la propria abitazione e conseguentemente resa inabitabile, si permette chiedere alla S.V. Ill.ma un permesso di 5 giorni, onde provvedere alla sistemazione della famiglia. (…) Saluti fascisti». La sorveglianza era ferrea, lo si deduce dai provvedimenti disciplinari: «A sensi dell’art. 97 del regolamento generale per il personale è stata inflitta la multa di L.10 ai sottoelencati ebrei di servizio al Magazzino legna con la seguente motivazione: «Nel pomeriggio del 6 corr. mese interrompevano arbitrariamente il lavoro»: Algranti Sergio, Berga Ugo, Colombo Giuseppe, Levi Enzo». I documenti cartacei frutto dell’ordinaria e quotidiana amministrazione dicono molto di più delle reboanti affermazioni di principio e ci ricordano, come non si stancava di ripetere Primo Levi, che nessuno può garantire che quei tempi non ritornino. Non possiamo sapere dove può concludersi un’impresa iniziata con un ordinario e burocratico «censimento».

cia, ancora più a sud di Napoli. Per non dire della scuola pitagorica: se Pitagora è esistito – non si può esserne certi – era nato a Samo, ma presto aveva eretto la sua scuola a Crotone, nel sud del sud della Calabria. Poi lì, forse, aveva esagerato, pretendendo di ottenere un potere anche politico, grazie alla sua sapienza. I locali non gradirono, e assecondando quel caratterino che non perdona e non dimentica, ancora oggi appartenente ai calabresi: bruciarono la scuola con dentro alunni e maestro. Si apre infine la grande vicenda dei testi di Aristotele. Nessuno ad Atene se ne interessò, i papiri con i suoi appunti (forse ci siamo persi le opere di prima mano, ma già siamo soddisfatti così), le dispense della scuola, quindi, finirono nella cantina di un nipote, che non sapeva che farsene di quei testi. Nel I secolo d.C. ci fu chi li trovò e li catalogò, ma l’Impero romano era troppo occupato a conquistare il mondo per curarsene, e la Grecia era ormai una provincia di quell’Impero.

Ultimo tra gli antichi, Severino Boezio si rese conto della grande perdita, nonché della difficoltà di trasmettere opere in greco, in un mondo che parlava a stento lo stesso latino. Cercò quindi di tradurre le opere aristoteliche, ma fu troppo zelante: per farle comprendere meglio, le commentò, e le tradusse più di una volta. Il tempo non gli bastò, non solo perché fu decapitato dal geloso Teodorico nel 525 d.C., ma perché qualunque vita, per quanto lunga e tranquilla, non sarà mai sufficiente a tradurre e commentare tutte le opere dello Stagirita. Dopo Boezio, il silenzio. Però, proprio un secolo dopo Boezio, nacque l’Islam, nel 622. Non che all’inizio Maometto e Ali si preoccupassero della filosofia. Però, i califfi che seguirono conquistarono molto velocemente le sponde del Mediterraneo, stanco dei rimasugli dell’Impero Romano, delle tasse esagerate richieste da Costantinopoli, delle scorribande di Vandali e Goti. In Siria, gli islamici trovarono le

opere di Aristotele, come si è detto i suoi appunti o gli appunti dei suoi allievi, le ritennero interessanti e incominciarono a tradurle in siriaco. Alcune traduzioni furono anche in arabo, nella lingua del Corano. Le scuole di medicina e teologia, come quella del medico Avicenna, o quella, che poi fu proibita, di Averroè a Cordoba, presero possesso del pensiero aristotelico, che dopo il Mille venne ritradotto, paradossalmente, dall’arabo o dal siriaco al latino. E Aristotele arrivò in Europa, divenne il centro dei dibattiti delle prime università, come quella di Parigi, divenne l’ossatura di grandi costruzioni sistematiche, come la Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino, e di tanti altri. Poi la filosofia intraprese anche altre strade. D’altra parte, parliamo del contributo alla storia del pensiero di persone lontane dalla civiltà, arabi, siriani. È giusto che l’Europa si tuteli, non si sa mai che cosa potrebbe arrivare da questi migranti, africani come Agostino o turchi come Aristotele.

zione di un autore che non conoscevate e di essere interessati, persino rapiti dai suoi discorsi, rimanendo poi sconcertati nel momento della lettura. E per fortuna può capitare anche il contrario: rimanere delusi dall’incontro reale con l’autore di un’opera che invece vi ha entusiasmati: dico per fortuna, perché in definitiva quel che conta (e che resta in profondità) è il piacere del testo. Pensavo a tutto ciò, sfogliando un libro (abbastanza divertente, 5-) sulle Vite segrete dei grandi scrittori italiani, pubblicato qualche anno fa da Electa (autori Lorenzo Di Giovanni e Tommaso Guaita, che ha anche illustrato il volume con disegni satirici e caricaturali). Mi è capitato tra le mani avendo a che fare con Leopardi nel duecentesimo compleanno de L’infinito. E proprio in chiave di rapporto tra l’autore e la sua opera, ho scoperto cose che non conoscevo. Alcune spassose: per esempio, che Giacomo andava matto per i gelati e per i taralli dolci della pasticceria napoletana di Vito Pinto, dove lasciò parec-

chie delle esili finanze di cui disponeva. Alcune tristissime. Per esempio, questa: grazie ai resoconti lasciati dall’amico Antonio Ranieri, si viene a sapere che il poeta della luna, dell’infinito e del passero solitario era refrattario a lavarsi e a cambiarsi. Sicché quando la giovane giornalista-scrittrice Matilde Serao chiese alla nobildonna Fanny Targioni Tozzetti (vanamente amata e cantata da Leopardi con il nome di Aspasia) come avesse potuto resistere a un uomo tanto intelligente, si sentì rispondere: «Mia cara, puzzava». Siamo nell’aneddotica pettegola, è vero, sarebbe legittimo alzare le spalle e passare oltre, ma ciò non toglie che va compreso anche il naso della povera Aspasia. Basta aver scritto L’infinito per guadagnarsi l’attrazione sensuale di una donna? No, come non basta la simpatia irresistibile di un Noto Scrittore Italiano per apprezzarne i romanzi. E visto che ci avviciniamo a San Valentino, va segnalato che più spesso, a quanto pare, sono i grandi poeti a mietere vittime d’amore in virtù del

loro (presunto?) fascino letterario. Dicono che Giosue Carducci collezionò tante avventure erotiche ma ebbe un solo amore: non la moglie Elvira ma l’amante-pantera e musa ispiratrice Carolina Cristofori Piva. E fu un amore travolgente: «Io… io feci male a crearmi una famiglia, a legarmi alla vita di famiglia, che dà molti compensi, ma che a ogni modo inceppa gl’ingegni» arrivò a confessare il poeta in una lettera (pensierino banale da 3 in pagella). A proposito di lettere, il Carducci fu «sgamato» dalla povera Elvira perché aveva dimenticato sul tavolo la minuta di una epistola amorosa. Uno legge: «T’amo pio bove» e si fa un’immagine del Vate («solenne come un monumento») che non coincide per nulla con certe sue miserie biografiche. Anche Giosue era un noto scrittore italiano: e probabilmente se ai suoi tempi ci fosse stata la televisione, sarebbe stato scoppiettante come il Noto Scrittore Italiano. Che, me l’ha assicurato il mio amico, ha anche la fortuna sfacciata di non puzzare.

Postille filosofiche di Maria Bettetini Aristotele il turco, Agostino l’africano La fortuna del pensiero occidentale è stata avere ottimi migranti. Il primo pensiero va ad Aristotele, nato a Stagira, quindi quasi in Turchia, cresciuto a Pella, alla corte di Filippo II in Macedonia, dove ha avuto il compito di educare e crescere il piccolo Alessandro Magno e i suoi amici, per esempio Efestione. Morto vicino ad Atene, ma in verità in esilio, perché dopo la morte di Alessandro la Grecia guardò con sospetto ogni straniero, e bastava non essere nato a Sparta o Atene per essere ritenuto uno straniero. Oppure si pensi a Sant’Agostino, nato in Algeria, sui monti dell’Atlante. Studiò a Madaura, a Cartagine (la Tunisi di oggi), poi da buon provinciale pensò di raggiungere successo e denari a Roma e infine a Milano, la sede dell’imperatore. A Roma fallì, perché nonostante la protezione dei Manichei ancora suoi correligionari, otteneva incarichi di insegnamento, ma non veniva mai pagato. Che strano. A Milano le raccomandazioni di Simmaco, retore

romano che desiderava fermare il Cristianesimo, gli procurarono il posto di retore imperiale, quello che oggi sarebbe il portavoce del Presidente del Consiglio sommato al ruolo di ministro della cultura, dell’università, della scuola. Ma a quel punto si cacciò da solo nell’avventura della conversione al Cristianesimo, abbandonò l’insegnamento adducendo a scusa un dolore al petto o allo stomaco, e ritornò in Africa, a riparare i danni fatti con i dieci anni di adesione al Manicheismo e a combattere le diverse eresie, e a incitare il popolo africano alla conversione. A dorso di mulo, raramente di cavallo, Agostino vescovo di Ippona pose le basi di molta parte del pensiero «occidentale» frequentando Algeria, Tunisia, Marocco, Libia, le sue terre natali. Ma torniamo indietro: che cosa sarebbe della nostra cultura senza gli Eleati? Eleati sono i pensatori della scuola di Parmenide a Elea, oggi Ascea, a sud di Napoli. Meridionali, di origine estera, coloni le cui radici erano in Gre-

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Se a volte il genio puzza Un amico mi ha parlato di un Noto Scrittore Italiano descrivendolo come un tipo molto molto simpatico, ma davvero molto simpatico, brillante, sempre scoppiettante come lo spiedo di Carducci a San Martino con la nebbia agl’irti colli, un fuoco d’artificio di battute salaci, capace di far sorridere a ogni frase e a ogni sguardo: «Passare con lui una serata è divertimento assicurato». Non stento a crederlo, mi è capitato di incrociare il Noto Scrittore Italiano in una delle sue frequenti apparizioni televisive (ogni volta che esce un suo romanzo la Rai si mobilita) e mi è sembrato una persona piacevole che fa venir voglia di andare in libreria a comperare un suo libro: e in effetti i suoi titoli troneggiano sempre nelle classifiche di vendita. «Poi però – ha proseguito il mio amico – vai a prendere un suo libro e il risultato è deprimente». In seguito a questa suggestione critica, trovandomi in libreria, mi è bastato sfogliare l’ultimo romanzo del Noto Scrittore Italiano per condividere le ragioni del mio

amico: l’ultimo romanzo di quell’autore scoppiettante, che vorrebbe rinnovare in letteratura la tradizione della commedia all’italiana, non fa ridere, è un tentativo comico fallito, malinconicamente furbo, nel solco del più classico «spirito di patata». Eppure ero ben disposto, avendo appena letto il nuovo romanzo di Giuliano Scabia, Il lato oscuro di Nane Oca (Einaudi, 5½), spesso e volentieri ridendo di fronte a quell’epica sgangherata e bizzarra (purtroppo mai apparsa in classifica): specie nelle pagine in cui i dinosauri si riuniscono in assemblea per discutere della fine del mondo finché «tutto viene spiaccicato» da un meteorite e i dinosauri si estinguono. D’altra parte non c’è niente di più imbarazzante di un attore o di uno scrittore che vogliono far ridere a tutti i costi senza riuscirci. Non c’è niente di più deludente di uno scrittore che non mantiene le promesse che va sbandierando ai quattro venti (in televisione). Quante volte vi sarà capitato di assistere alla presenta-


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Tutto il caffè Exquisito, in chicchi e macinato, da 500 g e da 1 kg, UTZ per es. macinato, 500 g, 6.15 invece di 7.70

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Pasta bio in conf. da 3 per es. agnolotti all’arrabbiata, 3 x 250 g, 9.80 invece di 14.70

20% Tutte le spezie bio (prodotti Alnatura esclusi), per es. erbe per insalata, 58 g, 1.80 invece di 2.25

Arance sanguigne bio Italia, rete da 1,5 kg

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20% Bevande Bio non refrigerate (Alnatura, Alnavit, Biotta e Ice Tea escluse), per es. succo d'arancia, 1 l, 2.80 invece di 3.50

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13.30 invece di 16.70 Gamberetti tail-on cotti, bio, in conf. speciale d’allevamento, Ecuador, 250 g

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di riduzione Tutti i tipi di pane fresco bio per es. rombo scuro dal forno di pietra, 250 g, 2.– invece di 2.50

20% Tutto il riso bio da 1 kg (prodotti Alnatura esclusi), per es. Mister Rice Jasmin, 3.– invece di 3.80

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4.– invece di 5.05 Prosciutto cotto affumicato bio Svizzera, per 100 g

20% Tutti gli yogurt bio (yogurt di latte di pecora e di bufala esclusi), per es. alla fragola, 180 g, –.60 invece di –.80

20% Tutti i cereali in chicchi, i legumi, la quinoa e il couscous bio per es. quinoa bianca Fairtrade, aha!, 400 g, 3.95 invece di 4.95

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20% Burger di kale o fettine di kale bio in conf. da 2 per es. burger, 2 x 180 g, 7.20 invece di 9.–

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