Azione 15 del 12 aprile 2021

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Cooperativa Migros Ticino

società e territorio A colloquio con Nicoletta NoiTogni, sindaca di San Vittore e granconsigliera grigionese

ambiente e Benessere Covid: risultati sempre più incoraggianti da Israele, Inghilterra e dagli Usa dimostrano l’efficacia e la sicurezza dei vaccini

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 12 aprile 2021

azione 15 Politica e economia Occhi puntati ad Est, gli Stati uniti vogliono riaffermare il ruolo guida su Cina e Russia

cultura e spettacoli Grazie ai tipi di Interlinea è uscito un doveroso omaggio a Giovanni Orelli

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Keystone

le ambizioni spaziali della cina

di Giulia Pompili pagina 25

nuovi approcci per la terza ondata di Peter Schiesser La Pasqua è stata una boccata d’ossigeno per i settori legati al turismo in Ticino, con l’eccezione della ristorazione; ora tutti gli occhi sono puntati sul Consiglio federale, che questa settimana rivaluterà la situazione pandemica. Non credo che si possa prevedere nuovi allentamenti: le ospedalizzazioni sono in aumento, anche nelle cure intense, e il Ticino ha di nuovo un’incidenza che supera i 160 casi per 100mila abitanti (per molto meno la Germania è chiusa da mesi, con forti restrizioni nei contatti interpersonali). La crescita dei contagi è di nuovo esponenziale, si dovrà inoltre ancora analizzare se la voglia di vacanza pasquale l’avrà aggravata, ma la percezione è che siamo all’inizio di una terza ondata. Lo conferma anche la task force scientifica nazionale, secondo cui il picco verrebbe raggiunto in giugno o luglio. La task force traccia oggi i suoi scenari basandosi su un nuovo modello epidemiologico elaborato dall’Università di Basilea, che tiene conto delle misure di contenimento, delle varianti del virus, della velocità con cui si vaccina la popolazione, dell’impatto che più favorevoli condizioni climatiche hanno sulla trasmissione del virus,

sulle ospedalizzazioni e sui decessi – e secondo questo modello e i dati di febbraio i contagi continueranno a crescere. Una volta di più, la situazione è delicata. Ad ogni ondata le condizioni sono diverse. Oggi abbiamo una campagna di vaccinazione in corso ed entro fine luglio (non più fine giugno, causa ritardi nelle forniture) chi lo vorrà potrà farsi vaccinare almeno la prima dose, ciò che ci avvicinerà all’immunizzazione di massa. Ma ci vorrà tempo, anche oltre fine luglio, prima di poter tirare un respiro di sollievo, poiché si è davvero protetti dal vaccino, perlomeno da un decorso grave della malattia, solo due settimane dopo la seconda dose. Al contempo è impossibile non percepire che il rispetto delle misure di contenimento viene meno nella popolazione, ciò che facilita la trasmissione del virus, tanto più quando c’è una variante come quella inglese che risulta più infettiva. Ci sono elementi di ottimismo (vedi Maria Grazia Buletti a pagina 13), lo stesso Consiglio federale è tuttora dell’opinione che in estate si possa tornare ad una vita con molte meno restrizioni, ma ci sono anche ragioni per preoccuparsi, perché se è vero che le ospedalizzazioni e i decessi delle persone più anziane sono in netto calo, ora negli ospedali ci finiscono comunque persone più giovani.

Come durante la seconda ondata, anche nella terza serve una prospettiva, eventualmente nuove forme di controllo della pandemia (che non siano restrittive), perché molte persone hanno raggiunto il limite di sopportazione. Non solo, ma soprattutto i giovani, per la maggior parte in paziente e frustrante attesa della fine del distanziamento fisico e sociale. Forse fra qualche giorno il Consiglio federale ci presenterà qualche prospettiva, in vista dell’estate, ma di certo non mancherà un ulteriore appello a far uso dei test rapidi per il Covid. Fino a poco tempo fa erano considerati inaffidabili e il loro uso controproducente, per il falso senso di sicurezza che possono dare – ma questo veniva detto anche delle mascherine, all’inizio della pandemia –, ora possono diventare un importante strumento di controllo dell’epidemia: offrirne 5 al mese a ognuno indurrà, si spera, le persone, a testarsi prima di una cena con amici, per esempio. Persino il nostro medico cantonale Merlani li ritiene utili, oggi, e oltre ai test di massa in scuole e aziende sta valutando la possibilità di chiedere alla popolazione di farsi tutti un test lo stesso giorno, da ripetere dopo alcuni giorni. L’esempio dei Grigioni è incoraggiante. La strategia oggi è: testare, testare, testare e vaccinare.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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attualità Migros

«la Migros fa molto di più di quanto pubblicamente noto» Impegno Migros L’impegno sociale è parte della Migros almeno quanto il mitico Ice Tea. In qualità di responsabile

principale, Sarah Kreienbühl spiega in quali ambiti la Migros vuole porre l’accento in futuro

alla vita lavorativa e in questo modo contribuire concretamente alla loro integrazione. I singoli progetti vanno già avanti con successo e vogliamo ampliare ulteriormente questo impegno.

Kian Ramezani sarah Kreienbühl, molte aziende si impegnano nel sociale. cosa fa la Migros di diverso?

La Migros si impegna per la società sin dai tempi in cui fu fondata e ciò è straordinario. Nel 1957, Gottlieb e Adele Duttweiler con il Percento culturale hanno ancorato negli statuti due aspetti molto coraggiosi: innanzitutto, l’impegno sociale viene finanziato con una percentuale del fatturato e questo indipendentemente dal profitto realizzato. Secondariamente, questo tipo di impegno è un obiettivo a sé stante, alla pari delle attività commerciali della Migros. Entrambi i punti erano già allora incredibilmente lungimiranti e tuttora dimostrano la serietà dell’idea. Dal 1957 sono stati investiti all’incirca cinque miliardi di franchi nell’impegno sociale. Si può dire che questo fa della Migros un unicum a livello mondiale. la responsabilità sociale è un concetto molto ampio. la Migros cosa intende e cosa può fare in merito?

Al centro di tutto c’è sempre la volontà di fornire prestazioni e offerte per tutti, con l’obiettivo di rafforzare la coesione nella nostra società, sempre più frammentata. La personalizzazione aumenta e con essa anche il pericolo di perdere il contatto con le realtà di chi ci sta intorno, finché poi la comprensione reciproca svanisce. È qui che vorremmo agire e colmare le lacune che sorgono tra Stato ed economia privata. Per esempio in ambito sociale, aiutando a creare delle cosiddette Caring Communities all’interno delle quali le persone si sostengano a vicenda nella quotidianità. tenendo conto che il Percento culturale esiste da oltre sessant’anni, le sue offerte non dovrebbero essere più conosciute tra la popolazione?

I sondaggi confermano che, in effetti, molte persone non si rendono conto di quanto l’impegno della Migros sia presente in moltissimi ambiti. Quando poi lo scoprono, ne sono entusiaste. Dato che si rischia di perdere facilmente la visione generale di fronte all’enorme varietà di offerte, stiamo creando una nuova casa digitale all’indirizzo www. migros-engagement.ch per l’impegno sociale della Migros. Inoltre, stiamo lanciando un segno di riconoscimento visuale che consente di individuare a colpo d’occhio se si tratta di un impegno Migros. Ma il Percento culturale continuerà a esistere?

Il Percento culturale, il Fondo pionieristico e il Fondo di sviluppo rimangono immutati. La novità è che i tre canali di promozione vengono riuniti sotto il cappello dell’Impegno Migros e lanciati su una piattaforma comune online. La migliore visione d’insieme dovrà quindi permettere alla clientela di trovare più facilmente le offerte rilevanti e interessanti secondo i bisogni. Contemporaneamente, in questo modo aumentiamo anche la trasparenza, mostrando dove confluiscono ogni anno gli ingenti fondi a disposizione.

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settimanale edito da Migros ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

lei non è responsabile solo dei temi engagement, ma anche del personale del Gruppo Migros. cosa può motivare i giovani a diventare dipendenti della Migros?

In qualità di maggior azienda formatrice privata della Svizzera, il Gruppo Migros offre interessanti possibilità di carriera. La Migros è molto più che una commerciante al dettaglio. Il Gruppo Migros si compone di nove settori e non sempre ci si ricorda di questo aspetto. Da noi sono possibili dei percorsi di carriera trasversali e intersettoriali, come per esempio «da apprendista nel settore della logistica a membro della direzione Jowa, la panetteria più grande della Svizzera» oppure «da responsabile di filiale Migros a responsabile supermercati Denner». Constatiamo che i posti di apprendistato alla Migros sono molto ambiti.

Sarah Kreienbühl è membro della Direzione generale della Federazione delle Cooperative Migros e a capo del Dipartimento risorse umane, comunicazione, cultura e tempo libero. (Jorma müller) talvolta viene mossa un’accusa: non si potrebbe semplicemente diminuire il prezzo del pane?

Con il suo impegno, la Migros investe una parte del suo fatturato nella società. La nostra clientela quindi non paga di più per il pane, poiché la Migros come cooperativa restituisce una parte di quel valore ai clienti e di conseguenza alla comunità. Siamo convinti del nostro impegno, anche durante la pandemia. Per sostenere gli operatori culturali, in questo periodo molto difficile, abbiamo pagato i compensi per le manifestazioni già in programma, anche se queste ultime non hanno potuto svolgersi regolarmente. Il Percento culturale ha un piccolo fratello minore un po’ meno noto, il Fondo pionieristico. Qual è la differenza tra i due?

Il Percento culturale viene finanziato attraverso il fatturato della Migros, il Fondo pionieristico rappresenta invece l’impegno sociale di Banca Migros, Denner, Migrol e Migrolino. Il Fondo pionieristico promuove in modo mirato delle idee innovative che hanno il potenziale di far progredire la società. E non è poi così piccolo. Dal 2012 abbiamo investito, in totale, l’impressionante somma di 100 milioni di franchi nell’ambito di 100 progetti.

ci sono progetti pionieristici che la entusiasmano particolarmente?

Mi sta molto a cuore l’iniziativa «Stop Hate Speech». Purtroppo in internet le ostilità e gli insulti sono ampiamente diffusi. Grazie all’intelligenza artificiale, «Stop Hate Speech» rintraccia i commenti offensivi e rende sensibili a un approccio rispettoso e consapevole anche in rete. Un altro progetto, che sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

ci sono posizioni aperte, attualmente, alle quali candidarsi?

sviluppa idee di riciclaggio per mobili, si trova a un punto di svolta. Se per altri prodotti il concetto di riciclaggio è ormai assodato, nel settore dei mobili c’è invece ancora del potenziale. Micasa, affiliata della Migros, ha già mostrato il suo interesse e lavora alacremente a un progetto per il riciclaggio dei materassi. Se tutto va bene, il lancio avverrà ancora quest’anno. come funziona il terzo canale di promozione, il Fondo di sviluppo?

Dal 1979, il Fondo di sviluppo sostiene progetti sociali ed ecologici della cooperazione allo sviluppo in Svizzera e nel mondo. Tramite questa risorsa negli anni la Migros ha stanziato 41 milioni di franchi. Un gruppo di lavoro dell’assemblea dei delegati della Federazione delle cooperative Migros decide da tre a quattro volte all’anno in merito alle richieste ricevute. Quali sono le sue proposte preferite tra le tante offerte del Percento culturale?

Posso dire che, finora, ogni offerta con la quale ho avuto a che fare mi ha arricchito a suo modo e mi ha aperto ad altre prospettive. Per esempio, l’esposizione «United by AIDS» al Museo d’arte contemporanea della Migros mi ha fatto riflettere. O ancora, al nostro festival della danza «Steps» ho potuto assistere a rappresentazioni così incredibili e innovative che resteranno indelebili nella mia memoria. Ho poi vissuto l’esperienza di ascoltare concerti di talenti allora poco conosciuti, che ancora mi entusiasmano quando ci ripenso. Anche la Tavolata o lo Jass tra generazioni sono stati una fantastica trovata. Non da ultimo, ho bellissimi ricordi di piacevoli momenti in famiglia e con editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

gli amici, legati al Monte Generoso in Ticino o al Gurten a Berna. Le nostre offerte sono davvero molto variate e si trovano in tutta la Svizzera.

come fa la Migros a decidere in che modo impiegare ogni anno i 159 milioni di franchi?

In effetti, questa domanda si ripresenta con regolarità. La società evolve e con lei anche i suoi bisogni. La cultura e l’istruzione rimangono dei pilastri importanti del nostro impegno. Nell’anno passato, solo la formazione ha richiesto quasi 62 milioni: ognuno dei 40’000 corsi e percorsi formativi, ai quali è possibile iscriversi privatamente presso la Scuola Club, viene sovvenzionato dal Percento culturale. In questo modo intendiamo rendere l’istruzione finanziariamente accessibile a tutti. In futuro miriamo ad ampliare ulteriormente il nostro impegno nel settore dell’integrazione sociale. A tal proposito vogliamo creare una piattaforma grazie alla quale la nostra clientela possa decidere insieme a noi come utilizzare i fondi. Un sistema analogo a Migipedia, dove la clientela può votare i prodotti da introdurre in assortimento. cosa significa per lei il concetto di integrazione sociale?

Anche nel settore sociale vorremmo colmare le lacune e in questo modo rafforzare la coesione sociale. Per esempio con un’offerta per quei giovani che si ritrovano svantaggiati sul mercato del lavoro e che manifestano delle difficoltà a causa di gravi problemi familiari, affinché possano soddisfare i normali criteri per un posto di apprendistato. Questa iniziativa mi sta molto a cuore. Grazie a dei programmi speciali vorremmo consentire loro l’accesso tiratura 101’262 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Nel Gruppo Migros ci sono ogni anno 800 posizioni aperte. Inoltre possiamo occupare attualmente 500 posti da apprendista. Ci fa piacere che l’anno scorso siamo riusciti a creare diverse centinaia di nuovi posti di lavoro in Svizzera, in particolare nel commercio online, un settore in cui durante la pandemia la crescita si è accelerata ulteriormente.

di recente i salari minimi nel commercio al dettaglio sono stati un tema ricorrente. la Migros manterrà fede alla sua reputazione di datrice di lavoro orientata al sociale?

Assolutamente. Alla fine conta il pacchetto completo, che include prestazioni complementari e previdenza. Allo stesso modo, fa stato quanto velocemente si possa procedere nella scala salariale, dal salario minimo in avanti. A tal proposito noi offriamo interessanti opportunità. Infatti, in proporzione, solo una piccola parte del nostro personale percepisce un salario minimo, mentre la maggioranza dei collaboratori ha già compiuto più scatti sulla scala salariale. Il salario medio delle nostre cassiere e dei nostri cassieri, per esempio, si attesta nettamente al di sopra della norma per la categoria. Anche la nostra soluzione di previdenza è sopra la media. Per il 2020, oltre agli adeguamenti salariali, abbiamo potuto corrispondere ai nostri collaboratori circa 50 milioni di franchi in premi, indennità per lavoro ridotto, ulteriori prestazioni assicurative, maggiori compensi e riduzioni. Il tutto in segno di riconoscenza e apprezzamento per il loro grande impegno, specialmente in questo anno di crisi. La Migros fa molto di più di quanto pubblicamente noto e per questo nel complesso è un’apprezzata datrice di lavoro. I risultati molto positivi dei sondaggi in merito alla soddisfazione del personale confermano questo aspetto. Ci stiamo adoperando al massimo, affinché anche in futuro rimanga così. abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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società e territorio la politica, affare di donna A colloquio con Nicoletta NoiTogni, sindaca di San Vittore e granconsigliera grigionese

a piedi lungo la Melezza Le Centovalli offrono occasioni escursionistiche molto originali, tra monumenti unici e natura

I basilischi di Basilea Una passeggiata nella città renana a caccia delle numerose immagini di questo animale favoloso pagina 11

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la sindrome dell’impostore Psicologia C’è chi pensa di non meritare

successi e riconoscimenti e si sente un imbroglione. Succede a personaggi famosi come Tom Hanks e Jodie Foster ma non solo. E con i social media la situazione è peggiorata

Stefania Prandi Molti condividono un segreto del quale si vergognano: pensano che i successi e i riconoscimenti che ottengono siano una truffa, frutto di un bluff, o, nella migliore delle ipotesi, di un colpo di fortuna. Credono che presto o tardi verranno smascherati. Provano la cosiddetta «sindrome dell’impostore» che, nonostante il nome, non c’entra con un disturbo mentale, ma è un’esperienza emotiva piuttosto comune. A soffrirne anche personaggi insospettabili come il premio Oscar Tom Hanks. In un’intervista rilasciata a un periodico nel 2016, si chiedeva: «Quando scopriranno che, in realtà, sono un imbroglione e mi porteranno via tutto?». Come lui anche l’attrice e regista Jodie Foster che, dopo aver vinto l’Oscar, temeva di doverlo restituire. Pensava che sarebbero andati a casa e le avrebbero detto: ci scusi, in realtà intendevamo darlo a un’altra, a Meryl Streep. Alla lista si uniscono la stessa Meryl Street, Kate Winslet e molti altri. Con i social media la «sindrome dell’impostore» sta diventando sempre più diffusa; non riguarda soltanto i luoghi di lavoro ma colpisce bambini, adolescenti, madri e padri. Se ne è occupata Sandi Mann, docente di Psicologia all’Università di Central Lancashire e direttrice della clinica Mind Training di Manchester, nel Regno Unito, nel suo libro, appena pubblicato in italiano, intitolato La sindrome dell’impostore. Perché pensi che gli altri ti sopravvalutino. (Feltrinelli). Professoressa sandi Mann, che cos’è la sindrome dell’impostore?

È la sensazione che si prova quando le persone pensano che tu sia formidabile e tu invece pensi il contrario. chi ne è colpito?

Si è visto che può affliggere in pari misura uomini e donne. Dalle ricerche si desume che circa l’ottanta per cento di noi sperimenti questa sensazione in almeno

un periodo della vita, anche se è comune soprattutto fra chi raggiunge i traguardi più alti. Succede a chi, nonostante i successi evidenti, non crede di meritarsi ciò che ha ottenuto e pensa sia frutto della fortuna oppure di altri fattori. Quali sono le cause?

La sindrome dell’impostore è una condizione probabilmente collegata anche a bassi livelli di autostima, autoconvinzione e fiducia in sé stessi. Una delle cause principali tende ad essere l’avere successo in qualcosa. La sindrome colpisce le persone che raggiungono traguardi importanti senza aspettarselo. Può accadere a chi vede arrivare i risultati all’improvviso, senza averlo messo in conto, e pensa che siano dovuti alla fortuna. Succede anche a chi ha lavorato duro e quindi crede che i successi non siano frutto di una particolare intelligenza. Altre cause riguardano il modo in cui si è trascorsa l’infanzia. Può, infatti, colpire chi da bambino è stato messo su un piedistallo dai genitori, con la pressione di diventare il migliore, ed è cresciuto con il timore di non essere mai all’altezza. Capita a chi viene da famiglie dove si è gli unici a scegliere certi percorsi, come andare all’università, col peso delle aspettative di tutti i parenti. Chi vive queste situazioni, quando raggiunge obiettivi anche importanti, è sempre come se non ci credesse.

Quali sono le caratteristiche di chi sente un impostore?

Chi si sente un impostore sminuisce in continuazione i propri successi, cercando giustificazioni che non c’entrano con le reali ragioni per cui li ha ottenuti e cioè la bravura e il duro lavoro. Attribuisce eccessivo valore alla fortuna ed è convinto che presto verrà scoperto e perderà tutto. Cerca sempre un modo per ridimensionare il giudizio degli altri che invece ribadiscono quanto sia bravo e in gamba. C’è una discrepanza evidente tra ciò che percepisce chi si sente un impostore e ciò che gli viene rimandato dall’esterno.

Nemmeno le attestazioni di stima più evidenti riescono a rassicurare. (shutterstock) la sindrome non si manifesta soltanto in ambito lavorativo?

Gli studi tradizionali si sono concentrati sull’ambito lavorativo, mentre il mio libro è il primo che cerca di offrire altre prospettive. E questo perché nella mia attività clinica ho incontrato persone che manifestavano la sindrome dell’impostore senza che avesse a che fare con il lavoro. In particolare, ci sono madri sempre in affanno, insicure del loro ruolo, nonostante si sentano dire dagli altri che sono mamme meravigliose e che stanno facendo un lavoro incredibile con i figli. Qualche volta mi è capitato anche con i padri: non si riconoscono nella visione di chi li circonda e li considera dei bravi papà e degli ottimi modelli. E ci sono bambini e adolescenti con grande talento che non pensano di averlo. Io credo che

sia proprio una dimensione dovuta a questo periodo storico, all’influenza dei social media. che influenza hanno i social media?

Il problema con i social media è che presentano la versione migliore delle persone, «photoshoppata», soltanto con i punti di forza, senza mostrare gli sforzi. Quindi, quando paragoniamo le nostre vite a quelle degli altri siamo destinati a non sentirci mai all’altezza. Con i social media la sindrome dell’impostore si enfatizza attraverso confronti dettagliati con persone di tutto il mondo. In passato questo non accadeva perché, in genere, ci paragonavamo soltanto a chi conoscevamo. come si può superare la sindrome dell’impostore?

Cercando di essere il più possibile

obiettivi rispetto ai propri successi. Un modo è scrivere su un foglio quali sono i fatti che provano che si è bravi in qualcosa e quelli che invece indicano il contrario. Si può chiedere agli altri di esprimere un parere sincero. Si può analizzare come si giudicano gli altri che sono nella propria stessa condizione. E non va dimenticato che in una certa misura – senza chiaramente perdere il senso della realtà e affliggersi – la sindrome dell’impostore può rivelarsi utile perché permette di essere onesti, di perfezionarsi, di migliorarsi sempre. È un modo per avere una spinta a fare sempre di più. * L’intervista è stata tradotta e in alcuni passaggi adattata dalla giornalista.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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Idee e acquisti per la settimana

tempo di asparagi

attualità Sono tra gli ortaggi protagonisti

della primavera e si possono gustare in tanti modi diversi, sia cotti che crudi

Diuretici, depurativi e rinfrescanti, gli asparagi sono attualmente protagonisti nei reparti verdura dei supermercati Migros. Ce ne sono di verdi, bianchi, bio e anche, molto appetitose, sotto forma di punte di asparagi, anch’esse verdi o bianche, particolarmente tenere e utilizzate in molte ricette che richiedono solo la parte estrema delle punte. In genere se ne calcolano circa 300 g a persona, se consumati come piatto principale. La cottura degli asparagi deve essere al dente, onde evitare che diventino acquosi e perdano il loro sapore naturale caratteristico e le preziose proprietà nutritive. Gli asparagi verdi o bianchi sono sostanzialmente la stessa pianta, la differenza sta nel fatto che i primi crescono in superficie esposti alla luce solare, assumendo la loro bella colorazione grazie alla fotosintesi clorofilliana, mentre gli asparagi bianchi si sviluppano sottoterra e non possono quindi compiere questo processo naturale. Esiste inoltre una varietà di

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colore violetto. Gli asparagi bianchi hanno un sapore più dolce e delicato rispetto ai loro cugini. Solo i turioni bianchi necessitano di essere pelati prima di essere cucinati, altrimenti risulterebbero duri e legnosi. Grazie al loro aroma leggermente nocciolato, gli asparagi si accostano bene a ingredienti quali parmigiano, uova, aglio, menta, anice e limone. Quelli più teneri si possono tranquillamente consumare anche crudi, per esempio tagliati a fettine e aggiunti a un’insalata, come rinfrescante carpaccio oppure, da provare, abbinati alle fragole. Gli asparagi appena acquistati possono essere conservati in frigorifero alcuni giorni senza che perdano il loro aroma, meglio se avvolti in un panno umido per evitare che raggrinziscano. Infine, segnaliamo che dalla settimana prossima arriveranno nell’assortimento anche gli asparagi di produzione ticinese, coltivati da alcuni orticoltori sul Piano di Magadino. Un vero piacere a km zero.

una salsa vegana versatile

sapori di Puglia

attualità La burrata è una delle tipicità pugliesi

più conosciute al mondo

attualità Una saporita specialità locale

Formaggio fresco a pasta filata, la burrata è un prodotto caseario tipico della Murgia, la celebre regione che occupa gran parte della bellissima Puglia. Da gustare da sola al naturale o con un pizzico di sale e pepe e un filo di olio extravergine, abbinata a verdure e salumi, oppure impiegata nella preparazione di condimenti per la pasta o per arricchire la pizza, questa morbida specialità di latte vaccino è conosciuta fin dagli inizi del Novecento. Anche se nell’aspetto potrebbe ricordare la mozzarella, presenta tuttavia una consistenza più cremosa e filamentosa, con un sapore ricco e gustoso che ricorda appunto il burro, anche se non ne con-

tiene. L’esterno della burrata si presenta tondeggiante, a mo’ di sacchetto, con una caratteristica chiusura apicale. Il colore è di un bel bianco porcellaneo. L’interno è costituito da una farcitura di pasta di mozzarella sfilacciata a mano e impastata sapientemente con della panna. Gli amanti dei genuini sapori della terra pugliese, nei maggiori supermercati Migros trovano la burrata Murgella, un prodotto di eccellenza autentico ottenuto nel rispetto dei più elevati standard qualitativi, già vincitrice nel 2010 della medaglia d’oro al prestigioso «World Cheese Award» nella categoria formaggi freschi.

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Tra i numerosi prodotti vegani disponibili alla Migros, spicca anche una specialità della nostra regione: la salsa scura vegana biologica, della Tigusto SA di Cugnasco-Gerra. È ideale per insaporire le pietanze più disparate, dalle verdure al tofu, dal seitan ai legumi, dai cereali alle minestre, ma si presta bene anche per dare quel tocco in più a patate arrosto, carni, pesci e formaggi. La salsa non contiene glutine, né sedano, né grassi o glutammati, ed è prodotta artigianalmente miscelando a crudo ingredienti quali salsa di soia fermentata 3 anni, spezie, erbette aromatiche, lievito di melassa e farina di castagne. La salsa deve essere agitata bene prima dell’uso e una volta aperta va conservata in frigorifero. Essendo un condimento concentrato, può sostituire in parte o totalmente il sale. Un saporito dressing per una croccante insalata di stagione? Miscelare in parti uguali qualche cucchiaio di salsa scura vegana e olio extravergine di oliva. Unire qualche goccia di limone o aceto, ed erbette aromatiche a piacimento come rosmarino, basilico, origano o timo. Mescolare bene e aggiungere all’insalata solo poco prima di servire. salsa scura vegana bio 250 g Fr. 9.90 In vendita nelle maggiori filiali

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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Idee e acquisti per la settimana

Bontà e freschezza dove vuoi tu attualità L’assortimento Migros Daily

offre un’ampia selezione di cibi e bevande d’asporto per il piacere quotidiano

Che sia a casa in telelavoro, in ufficio, in viaggio o durante il tempo libero, con i prodotti Migros Daily una pausa ristoratrice all’insegna della freschezza e del piacere è garantita. Questi cibi pronti da asporto, preparati ogni giorno con ingredienti di prima scelta, sono perfetti da gustare in modo semplice e veloce dove lo desideri. Dalle insalate croccanti ai panini, dai piatti caldi ai müesli per la colazione, dalle macedonie di frutta agli snack fino alle bevande rinfrescanti, l’ampia e variegata offerta ti permette di rendere le tue giornate ricche di

gusto. Le proposte variano a seconda della stagione e del supermercato Migros e non mancano pietanze dedicate ai vegetariani e ai vegani. Attualmente, vi consigliamo per esempio di provare le insalate miste preparate ogni giorno direttamente nel laboratorio di Migros Ticino, nella fattispecie salmone, tonno, greca, riso, pasta al tonno e insalata giardiniera. Bontà perfette per essere accompagnate da una rinfrescante limonata a base di zenzero o sambuco, oppure un tè freddo alla frutta o pesca, anch’esse firmate Migros Daily. annuncio pubblicitario

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società e territorio

un ritratto alla «pasionaria» della Mesolcina

notizie brevi

Personaggi Incontriamo Nicoletta Noi-Togni, 80 anni, sindaca di San Vittore

e parlamentare a Coira, che ci parla della sua vita privata e pubblica. «Le donne se credono in loro stesse possono essere più incisive degli uomini. Perché sono altro»

Anche grazie a lei il Municipio del suo paese è l’unico in Svizzera a maggioranza femminile. (m. Giacometti)

Mauro Giacometti Ha passato metà della sua vita a lottare contro discriminazioni, ingiustizie, poteri forti e precostituiti. E anche oggi che ha superato gli 80 anni non ha nessuna intenzione di fermarsi. Nicoletta Noi-Togni, classe 1940, per la sua vita privata e pubblica si può definire la «pasionaria» della Mesolcina. Nasce a San Vittore da famiglia patrizia e benestante: suo padre è Renato Togni, per anni figura politica carismatica della valle e gestore della Locanda mesolcinese, ora «La Brasera». Nonostante la professione prima e la politica poi l’abbiano portata per diverso tempo lontana dalla Torre di Pala, Nicoletta ha mantenuto con la sua terra d’origine un filo diretto e un senso d’appartenenza che non si sono mai smarriti. Tant’è che dal 2017 è sindaca di San Vittore e lo sarà fino al 2024. «La passione e l’impegno per la politica sono arrivati tardi e quasi per caso. A metà degli anni 80 vivevo a Coira, dove insegnavo alla Scuola cantonale femminile per infermiere e levatrici. La nomina per raccomandazione, anziché per concorso, della direttrice della mia scuola, che era un istituto pubblico, mi mandò su tutte le furie. Insieme ad alcune colleghe iniziammo una battaglia – poi vinta – che destabilizzò l’ordine precostituito, tant’è che mi avvicinò Martin Jäger, l’allora presidente

del Partito Socialista grigionese. Mi iscrissi e fui «catapultata» alle elezioni cantonali e subito eletta, nel 1987, come parlamentare supplente. Poi, nel 1989, l’ingresso in Gran Consiglio come deputata «titolare». Ma la mia indipendenza di pensiero non piaceva tanto agli allora vertici del PS, così nel 1996 uscii dal partito e da allora sono rimasta indipendente», racconta seduta sulla terrazza della sua casa di San Vittore da dove si domina il paese e la valle.

Infermiera e poi insegnante, è entrata in politica nel 1987: l’impegno sociale ha guidato la sua azione Come detto, il «gene» della politica era già in famiglia. Suo padre e suo fratello Reto erano stati diversi anni parlamentari a Coira, difendendo le istanze e gli interessi di un grigionitaliano poco considerato dai vertici del potere retico. Nicoletta, pur documentandosi e leggendo molto, doveva però occuparsi del marito e dei figli, della sua professione di infermiera prima e insegnante pediatrica poi, dunque non c’era molto spazio per comizi e riunioni di partito. «Fino al 1987 non pensavo alla politica.

l’indipendenza su più fronti Nicoletta Noi-Togni è nata a San Vittore il 29 agosto del 1940. Dopo una formazione infermieristica e di pedagogia e diversi soggiorni nella Svizzera tedesca, trascorre trent’anni a Coira. Entra nel Parlamento retico nel 1987 e vi rimane, con un’interruzione di sei anni, fino ad oggi. Dal 1997 risiede nuovamente a San Vittore dove, oltre a ricoprire la carica di deputata in Gran Consiglio per il Circolo di Roveredo, assume altri mandati politici a livello

regionale. Dal 2017 è sindaca del Comune di San Vittore, rieletta tacitamente per la legislatura 2021-2024. È presidente della Scuola di Musica del Moesano, cofondatrice del Grottino filosofico e presidente dell’Associazione bambini senza mondo. Ha scritto due libri (Anna-Lisa, 1995 / Sofia è Sofia, 2017) e molti articoli d’informazione e d’opinione. Ha inoltre vinto un premio Balint, fuori concorso, per una ricerca sulla relazione tra malattia e psiche.

È vero però che da adolescente mi lanciavo in crociate contro quelle che mi sembravano ingiustizie o prevaricazioni, stando sempre dalla parte degli ultimi. Credo sia stato l’amore per la filosofia, coltivato sin da piccola grazie agli insegnamenti e alle letture di mio padre, a caratterizzarmi per un profondo senso del dovere e della giustizia sociale», spiega. Riannodiamo il filo della memoria. Dopo le scuole dell’obbligo e il ginnasio, studia da infermiera all’Ospedale San Giovanni di Bellinzona e si diploma. Siamo agli inizi degli anni 60, quelli del boom delle nascite, così comincia a specializzarsi in ginecologia e ostetricia. Conosce un imprenditore edile del suo paese, Ferdinando «Ferdi» Noi, se ne innamora e lo sposa. Ha 23 anni e poco dopo nascono i due figli. A 26 anni, però, il clima bucolico che sin qui aveva caratterizzato la sua vita si infrange su una perfida malattia che colpisce il marito. «Ad un tratto tutto diventò molto difficile, l’avvenire insicuro. Cosi ci trasferimmo a Lugano affinché mio marito si potesse curare e in effetti per qualche tempo la sua salute psichica migliorò. Malgrado le difficoltà derivanti dalla malattia rimanemmo sempre uniti fino alla sua scomparsa, nel 2005. Una durissima esperienza di vita che mi ha insegnato molto e resa forte», racconta. Anche per volontà del marito, che voleva che i suoi figli imparassero un’altra lingua nazionale, la famiglia NoiTogni si trasferisce prima a Soletta e poi a Sursee. Lei continua nel suo lavoro di infermiera e levatrice, mentre il marito si inventa una nuova professione «attingendo» alla sua esperienza personale: con successo e dedizione farà per anni l’aiuto infermiere in strutture psichiatriche della Svizzera interna. Nel 1974 la famiglia Noi-Togni si trasferisce a Coira e Nicoletta lavora e per diversi anni insegna nelle scuole infermieristiche della capitale grigionese; quindi negli istituti ospedalieri di Ilanz e, in seguito, anche di Zurigo. Nel 1997, con i figli già grandi e auto-

nomi, la «pasionaria» mesolcinese, pur lavorando ancora a Zurigo e a Coira, torna con il marito a San Vittore: viene infatti eletta nel Circolo di Roveredo come indipendente alle elezioni cantonali per il Gran Consiglio. Un’elezione del tutto inaspettata – fu decisiva una modifica statutaria che determinò un secondo turno elettorale – ma ottenuta con un brillantissimo risultato, oltretutto sfidando, quale unica donna, i candidati dei partiti borghesi. Le donne della sua famiglia e della sua terra furono determinanti per quel successo e da quel giugno 1997 Nicoletta Noi-Togni continua ininterrottamente a rappresentare il Circolo di Roveredo nel Parlamento retico. Ciò significa prendere molte volte la strada per Coira dove la deputata va a difendere, prevalentemente in tedesco, l’italianità e la sua Mesolcina. Anche in battaglie scomode come quella contro le cosiddette società bucalettere – imprese che celano attività ai limiti e oltre la legalità – che per essere affrontate richiedono una buona dose di coraggio. Ma lei non si piega e non si ferma, nemmeno nella sua amata San Vittore. È proprio da un’altra battaglia, quella che l’ha vista scendere in campo contro la conversione dell’intero sedime dell’ex aerodromo in area industriale, che vince le elezioni comunali del 2017, sconfiggendo il Municipio uscente con una lista peraltro tutta al femminile. Così grazie a lei, il centro della bassa Mesolcina può vantare un primato: quello di essere l’unico comune svizzero a maggioranza rosa. «Le donne se credono in loro stesse possono essere di più. Perché sono altro», dice convinta che la differenza di genere sia un valore. Non paga dei successi politici e di una vita movimentata e densa di soddisfazioni, nel 2013, quindi a 73 anni suonati, riesce ad ottenere il Bachelor in Storia della filosofia alla Facoltà di Teologia di Lugano; nello stesso ateneo è tuttora impegnata a concludere un Master in Scienza, filosofia e storia delle religioni con una tesi dedicata a Jeanne Hersch. Che dire: chapeau!

concorso fotografico «obiettivo agricoltura» Anche quest’anno, dopo le prime due edizioni del 2019 e del 2020, torna il concorso fotografico «Obiettivo Agricoltura», promosso dalla Sezione dell’agricoltura del Dipartimento delle finanze e dell’economia (DFE) in collaborazione con l’Unione Contadini Ticinesi (UCT). L’obiettivo è quello di continuare ad avvicinare le famiglie ticinesi al mondo dell’agricoltura, coinvolgendole a promuoverlo attivamente attraverso immagini originali e rappresentative del settore. Un obiettivo che ben si sposa con il periodo d’incertezza che stiamo attraversando, durante il quale le attività all’aperto sono predilette, e che si presenta inoltre come un’opportunità per il turismo locale. Le immagini vanno inviate, entro il 31 luglio 2021, all’indirizzo di posta elettronica obiettivoagricoltura@ ti.ch. Possono inoltre essere condivise su Facebook, taggando l’UCT, e su Instagram, utilizzando l’hashtag #obiettivoagricolturaticino. Ciascun partecipante può presentare al massimo cinque fotografie in ambito agricolo, una per categoria. Le categorie sono: Agricoltori, Visitatori, Animali (sull’alpe o al pascolo), Paesaggi e Macchinari/utensili agricoli. Rispetto alla scorsa edizione è stata aggiunta una categoria dedicata alle persone che si recano a visitare le fattorie o gli alpeggi (Visitatori) mentre la categoria in cui viene dato risalto agli animali è limitata agli animali sull’alpe o al pascolo. Le immagini, sia che vengano trasmesse per email sia che vengano condivise su Facebook o Instagram, devono essere comprensive di titolo, data e luogo esatto in cui sono state scattate, e categoria. La partecipazione è aperta a tutti, tranne ai professionisti della fotografia. Un’apposita giuria, costituita dalla Sezione dell’agricoltura, si occuperà di selezionare un vincitore per categoria: i primi classificati di ognuna delle cinque categorie vinceranno un pranzo, accompagnati dal partner o da un amico/a e dai propri figli, presso l’alpe Giumello (luogo di estivazione dell’azienda agraria cantonale di Mezzana), con la possibilità di osservare l’attività casearia qui svolta, oltre a un abbonamento annuale al settimanale del settore primario cantonale «Agricoltore Ticinese». Il regolamento del concorso fotografico è consultabile alla pagina www. ti.ch/agricoltura. torna la Festa danzante La FESTA DANZANTE è nata 16 anni fa con lo scopo di celebrare la danza in tutte le sue forme. Un appuntamento che vede la partecipazione nel 2021 di 30 città e comuni in tutta la Svizzera dal 5 al 9 maggio prossimi e che mai come quest’anno riveste un’importanza particolare cercando di portare una ventata di gioia e di allegria dopo i difficili mesi di pandemia. Nella Svizzera italiana in particolare ci saranno eventi e performance sia online che in presenza (ove possibile) a Lugano, Mendrisio, Ligornetto, Bellinzona, Locarno e Poschiavo. Si inizierà con un’ anteprima giovedì 29 aprile, in occasione della Giornata mondiale della danza, con la proiezione di un film a sorpresa a Lugano (sempre se le norme antiCovid del Consiglio federale lo permetteranno). La FESTA DANZANTE vera e propria (sostenuta dal Percento culturale di Migros Ticino) si svolgerà nella Svizzera italiana dal 5 al 9 maggio secondo un ricchissimo programma che proporrà incontri, workshop, tour, corsi di danza, esibizioni, proiezioni di film e tanto altro ancora. www.festadanzante.ch


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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società e territorio

Intragna, il ponte che è resistito alla buzza escursioni Nelle Centovalli per scoprire il campanile più alto del Ticino, un ponte romanico

e per poi risalire il fiume Melezza Elia Stampanoni La torre campanaria più alta del Ticino e un ponte risalente al 1500 potrebbero essere da sole due motivazioni sufficienti per visitare le Centovalli percorrendo un sentiero pedestre che conduce fino alla piccola frazione di Rasa o oltre. Il percorso offre però anche molto altro e viene pure proposto dall’edizione Locarnese e valli di «Le vie del Passato, Itinerari storici del cantone Ticino», una serie di opuscoli a cura dell’Associazione archeologica ticinese in collaborazione con l’Ufficio beni culturali. Lungo il tragitto s’incontrano di fatto, oltre al citato ponte anche diverse costruzioni storiche e culturali d’indubbio interesse, quali cappelle, chiese, case settecentesche, oratori. La gita può partire dai 260 metri circa d’altitudine di Golino, la prima frazione del comune di Centovalli provenendo da Locarno. Il sentiero risale quindi il fiume Melezza e presto sarà necessario superare un primo impegnativo gradino per raggiungere Intragna, a 376 metri d’altitudine. Qui una sosta è raccomandata, prima o dopo l’escursione, oppure in un’altra

la natura che sorprende Lanciata nel 2020 in sinergia con l’iniziativa «Vivi il tuo Ticino» promossa da Ticino Turismo, la campagna «Natura che sorprende» torna a proporre la riscoperta del territorio delle Centovalli in treno e funivia. Una promozione che prosegue grazie alla cooperazione tra la Ferrovia Vigezzina – Centovalli, il Comune delle Centovalli e la Funivia del Monte Comino, uniti per rilanciare il turismo sostenibile nella regione, offrendo dei biglietti risparmio che abbinano il viaggio in treno alle risalite con le funivie Intragna – Pila – Costa, Verdasio – Rasa e Verdasio – Monte Comino. Maggiori informazioni disponibili su vigezzinacentovalli.com

occasione. Passeggiare e magari anche «perdersi» tra le anguste vie del piccolo nucleo può essere un’esperienza divertente, mentre i 165 scalini che portano in cima al campanile della chiesa sono una fatica appagante. Costruito tra il 1765 e il 1775, il campanile d’Intragna con i suoi 65 metri è la torre campanaria più alta del Ticino e s’innalza proprio nel nucleo del borgo, a pochi metri dalla Chiesa parrocchiale dedicata a San Gottardo e dal Museo regionale delle Centovalli e del Pedemonte. La torre, come leggiamo sulla presentazione, fu edificata da muratori del paese con materiali del luogo e, secondo il progetto iniziale, doveva addirittura essere nove metri più alta. Ma quali sono i motivi che portarono ad innalzare un così alto campanile all’imbocco delle Centovalli? Lo abbiamo chiesto a Mattia Dellagana, curatore del Museo regionale Centovalli e Pedemonte: «Non si sa perché, ma si può ipotizzare che la conformazione orografica del territorio portò a questa edificazione. La punta del campanile è di fatto visibile da tutta la campagna d’Intragna, oggi in parte imboscata o edificata, ma dove in passato le persone trascorrevano molte giornate al lavoro nei campi e da dove potevano quindi avere un contatto visivo con un punto di riferimento come il campanile del villaggio, costruito su un piccolo poggio». Una torre campanaria a cui è possibile accedere dal 2006 e da dove godere, attorniati dalle imponenti sei campane, di una vista a 360 gradi su montagne, cime e vette, sulle Terre di Pedemonte mentre, più vicino, si scorge la citata campagna d’Intragna con vigneti, boschi, prati e monti. Sguardo che verso le Centovalli lascia intravedere il prosieguo dell’escursione verso un’ulteriore interessante tappa: poco dopo il paese d’Intragna quando, deviando sulla sinistra e seguendo l’indicazione «Ponte romano», si scende lungo un’impervia mulattiera fino al fiume Melezza. Seppur denominato «romano», il ponte venne costruito «solo» nel 1578, per opera dei fratelli Giuseppe e Pietro Beretta di Brissago. Il manufatto è lungo 36 metri e permetteva in

Il cosiddetto «ponte romano» in realtà è stato costruito nel 1578. (e. stampanoni)

passato il transito delle persone e degli animali che salivano verso i numerosi monti situati sulla sponda destra della valle. Un’epoca in cui ancora si chiamava «Ponte nuovo» e quindi si presume abbia sostituito dei passaggi più precari esistenti sul fondovalle, che venivano però regolarmente danneggiati o distrutti dal fiume durante alluvioni o ingrossamenti. L’appellativo popolare di «Ponte romano» venne invece adoperato solo in seguito, come ci spiega Mattia Dellagana: «Nel secondo dopoguerra venne adottata la denominazione di Ponte romano, forse per dare più risalto a un’opera divenuta simbolo della valle e la cui costruzione, avvenuta oltre 440 anni fa, fu un’impresa maestosa. Il ponte è inoltre l’unico tra i passaggi principali delle Centovalli ad aver superato indenne la buzza della Melezza dell’agosto del 1978. Forse sarebbe più corretto dire ponte romanico dato che, seppure costruito dopo l’era romana, ne ricalca comunque le caratteristiche architettoniche». Il ponte è di fatto la costruzione originale del 1578 che si presenta in un ottimo stato, anche grazie al restauro avvenuto nel 1989 su iniziativa della Pro Centovalli e Pedemonte. Intera-

mente costruito in pietra impressiona per la sua maestosità con una volta che sovrasta di 26 metri il fiume Melezza. Al suo culmine s’incontra una cappelletta dedicata alla Madonna e a San Giovanni Nepomuceno, un protettore, oltre che della Boemia, anche di tutte le persone in pericolo di annegamento. Mentre il fiume scorre limpido, il sentiero risale brevemente il versante sulla suggestiva mulattiera di pietre e sassi per proseguire sul versante destro delle Centovalli in direzione di Rasa. All’inizio piacevolmente pianeggiante, la via affascina anche solo per la sua costruzione, ricca di gradoni, scalini, curve e saliscendi che portano dapprima a Remagliasco, dove grazie a un altro ponte, si supera una delle tante valli laterali che caratterizzano il territorio. Un’altra mulattiera permetterebbe qui di accorciare l’escursione deviando per Corcapolo per raggiungere quindi la ferrovia della Centovallina e rientrare al punto di partenza. Un’opzione, quella del ritorno con il treno, di cui si potrà approfittare anche in seguito, rientrando a Intragna dalle fermate di Camedo, Palagnedra o Verdasio. Il sentiero proposto prosegue invece affrontando una lunga e impegna-

tiva ascesa verso Corte di sotto, dove s’attraversano prati e pascoli tuttora utilizzati, grazie alla presenza di un’azienda agricola. Lungo il tragitto non mancano alcune cappelle e luoghi di sosta, mentre più rare sono le fontane, tra cui quella della Ciaparia posta a poche centinaia di metri dalla piccola frazione di Rasa e dove un pannello didattico della Pro Rasa del 2005 ricorda come l’approvvigionamento d’acqua non fu facile in passato. Giunti a Rasa, paese adagiato a 896 metri d’altitudine (e meta d’escursione proposta anche da Famigros), una pausa permette di gustarsi la tranquillità tra le vie del piccolo borgo che, ben conservato e esclusivamente pedonale, dal 1958 è pure raggiungibile con la funivia da Verdasio. Il panorama apre la vista anche su alcune delle altre numerose frazioni che compongono il comune di Centovalli e l’escursione può proseguire verso Bordei, Palagnedra e Camedo, transitando prima da Terra Vecchia, che era l’antico abitato di Rasa ed è in seguito stato abbandonato per poi essere recuperato e rivalorizzato da un’omonima fondazione, la cui attività è stata ripresa dal 2016 dalla Fondazione Terra Vecchia Villaggio.

neonati di contrabbando

storia locale Uno studio condotto sui registri dell’orfanotrofio di Como riporta alla luce un fenomeno

molto particolare che interessava il rapporto tra Ticino e Lombardia Alessandro Zanoli Hanno proprio un fascino particolare quei libri di storia che ci aiutano ad ampliare l’orizzonte delle nostre abitudini mentali, fuori dalla rigidità dei limiti quotidiani, sempre così «nazionali». Libri che portano indietro le lancette degli orologi e ci descrivono la nostra regione in una prospettiva più complessa, sfumata: non tutelata, nel nostro immaginario, dal moderno concetto asettico e fiscale di «confine». Questo volume, che si occupa di un tema di rilevanza sociale per certi versi molto cruda e drammatica, ha proprio il merito di mostrarci come le nostre terre, in particolare il Sottoceneri, fossero in passato molto legate alla loro matrice culturale, sociale, economica e religiosa lombarda. I confini esistevano anche in passato, senza dubbio: a partire dall’inizio del 500 era chiara quale fosse la regione lombarda dominata dagli Svizzeri e quella appannaggio del Ducato di Milano. Ma i rapporti di vicinato erano

La copertina della recente pubblicazione.

del tutto diversi da quelli a cui siamo abituati oggi. Non c’era nessuna «ramina»: anzi, c’erano secoli di consuetudini, di scambi, di promiscuità che

condizionavano i comportamenti reciproci. Per venire al tema di questo agile e interessante studio, in un ambito così particolare come quello dell’abbandono dei neonati, si vede chiaramente come tale triste fenomeno sociale, effetto della povertà in una società rurale e arcaica, avesse come riscontro tutto un movimento, un traffico «umano» che faceva confluire i piccoli abbandonati della nostra regione verso i brefotrofi di Como, Milano e Novara. Il ricercatore Rolando Fasana ha avuto modo di accedere a fonti statistiche che risalgono addirittura al XVIII secolo: le liste degli accoglimenti nel «Pio luogo degli esposti» di Como riportano tra i vari dati registrati la menzione del luogo di abbandono. Si scopre così che in alcuni comuni a ridosso del confine con il Mendrisiotto attuale, si erano stabiliti quasi dei punti di raccolta riconosciuti e ben frequentati. Le cifre degli abbandoni sono veramente significative e sono segnale di un disagio sociale che nel corso degli anni vari

studiosi hanno diversamente giustificato: chi era a sud del confine li riteneva chiari frutti di relazioni adulterine o di gravidanze inattese dei vicini del nord; per quelli del nord (forse toccati nel vivo della propria moralità) si trattava invece di abbandoni, volutamente dissimulati oltre il confine per motivi di privacy, da parte dei più numerosi e prolifici vicini del sud. Quel che è certo è che in quei secoli Como e il suo ospedale erano punto di riferimento obbligato per gli abitanti del Mendrisiotto (si pensi soltanto, ad esempio, al settore dell’intervento psichiatrico, fino alla fine dell’800). Sembra quindi abbastanza normale pensare che, in presenza di un’istituzione pia dedicata all’accoglimento dei piccoli, chi non riusciva per vari motivi a garantire un futuro alla propria prole pensasse di affidarla a un’istituzione conosciuta e benevola. Per definire il fenomeno alcuni storici si sono serviti del termine «contrabbando» di bambini. Una definizione certo ambigua,

inesatta, ma che secondo Fasana ha il merito di mostrare perlomeno come il passaggio illegale di merci e quello di poveri infelici percorresse le stesse tratte, implicasse persino, probabilmente, le stesse persone. In conclusione lo studio si occupa poi di un fenomeno collaterale e si potrebbe dire compensatorio a quello dell’abbandono dei neonati: il loro affidamento, da parte dell’istituto comasco, a balie ticinesi. In un percorso di ritorno verso nord, molti dei piccoli ospiti dell’istituto comasco venivano in Ticino per essere allattati e nutriti, creando una sorta di un circolo virtuoso che, in un certo modo, rendeva giustizia ai poveri abbandonati. Bibliografia

Rolando Fasana, Bambini Abbandonati, confini e perdute identità. Esposti e trovatelli tra Comasco e Svizzera italiana: abbandono, assistenza, balie nei secoli XVIII e XIX, Nodo Libri, 2020.


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società e territorio rubriche

approdi e derive di lina bertola anche la normalità non era innocua Forse era inevitabile che ciò accadesse, ma il fatto che ogni descrizione della realtà continui a ruotare, comunque e sempre, attorno al tema della pandemia potrebbe alla lunga rendere più difficile la comprensione di ciò che stiamo vivendo. Ogni aspetto problematico del nostro vivere e convivere tende ad essere interpretato alla luce di questa persistente emergenza, trascurando così il fatto che tante fragilità, seppur esasperate dalla difficile situazione, abbiano avuto origine proprio in quella normalità oggi tanto rimpianta ed invocata. Non mi riferisco alle forzature con cui le reazioni violente alle restrizioni vengono ricondotte alla pandemia. È evidente, ed è stato già opportunamente osservato, che il problema della violenza, giovanile e non, pesca molto più in profondità, oltre i confini della situazione contingente. Meno evidente, mi pare, è il fatto che la pandemia abbia fatto affiorare, a volte

esasperandole, molte altre fragilità già presenti nella nostra società cosiddetta normale. La nostra normalità, che oggi appare tristemente perduta, non è quasi mai messa in discussione. Al contrario, spesso viene idealizzata con nostalgia: tornare alla normalità sembra ormai un bellissimo miraggio. È vero, alcune esperienze dolorose derivano direttamente da ciò che sta accadendo da più di un anno. Le sofferenze per la malattia o per la perdita di persone care, innanzitutto. Poi le sofferenze e le preoccupazioni legate ai problemi economici che hanno investito molte categorie di lavoratori. Mi si dirà che anche il malessere per la mancanza di momenti di condivisione, nella scuola in primis, e nelle attività sportive e culturali, può essere direttamente ricondotto alle forme di confinamento. Vero, tuttavia queste esperienze, vissute nell’ordine della mancanza di relazioni, hanno fatto affiorare fragilità già latenti. Il modo in

cui abbiamo reagito alle difficoltà racconta il nostro modo di stare al mondo, con o senza virus, già prima insomma che tutto ciò ci arrivasse addosso. L’insofferenza di molte persone che si sono sentite private delle loro libertà, ad esempio, la dice lunga sul modo di percepire la libertà: una proprietà privata di permessi garantiti, a cui nessun potere dovrebbe avere il diritto di farmi rinunciare. E che cosa racconta il presunto bisogno di socializzazione in grandi assembramenti se non l’incontro di tante solitudini, monadi isolate ma connesse, proprio come quelle stesse solitudini tristi che mettono un mi piace in Facebook. Alla fine si tratta solo di poter continuare ad esistere sulla scena del mondo. Questi esempi vogliono solo essere un invito a riflettere sulla normalità perduta. A non rimpiangerla semplicemente come l’alter ego di questo momento difficile, ma a considerarla anche come il luogo di origine di molte

fragilità che oggi si manifestano in modo a volte molto doloroso. D’altra parte, questo periodo così strano e inatteso ha lasciato e continua a lasciar emergere anche potenzialità assai positive del nostro vivere e convivere. Anche queste risorse hanno radici nella cosiddetta normalità. Qualcuno ha saputo resistere all’insofferenza verso le privazioni di alcune libertà, ad esempio, proprio perché più capace di entrare in contatto con la propria libertà interiore. Ci sono persone che il sapore della libertà hanno saputo percepirlo dentro di sé, più che nei permessi che vengono garantiti dall’esterno. La vulnerabilità di ciascuno di noi, inoltre, ha saputo essere accolta anche come un dono inatteso che ha incoraggiato forme bellissime di solidarietà, nella consapevolezza di una comune appartenenza. Così come la capacità di vivere la solitudine e l’isolamento ha saputo essere, in molti casi, un’occasione per entrare in contatto con gli strati

più profondi della propria umanità. Nuove aperture, insomma, qualcuno lo ha detto: «ci siamo reinventati». Proprio sulla scia delle esperienze più o meno dolorose o più o meno creative vissute in questo tempo della sospensione, credo sia giunto il momento di andare oltre la narrazione della pandemia e capire che non può essere lei l’unico luogo da cui pensare ogni nostro pensiero. È giunto il momento, a me pare, di guardare in faccia a quella vita normale che si è improvvisamente interrotta, di esaminarla e interrogarla anche nelle sue ombre. Andare oltre questo brutto periodo significa avere il coraggio di riconoscere anche nelle nostre vite normali le disarmonie e le contraddizioni nei confronti di noi stessi, degli altri e dell’ambiente cui apparteniamo. Andare oltre la normalità perduta significa impegnarsi a rinnovarla e a nutrirla di nuovi valori e significati.

di un rosso mattone intenso. Qui, tra cani a pois, pappagalli, salamandre, è uno zoo. Caccia grossa: aggrappato sotto una mensola trovo il basiliscouroboro che si morde la coda ed è, lo sanno anche i polli, simbolo di tutto ciò che tende all’infinito. Vagabondando con gli occhi ne scopro due, speculari, accucciati agli angoli dell’orologio. In realtà, guardando meglio, uno è un drago tradizionale, sboccia così l’antagonismo drago-basilisco. Salendo le scale acciuffo un basilisco intarsiato su in alto, verso il soffitto, si volta come i gechi visti di notte in camera sulle isole. Da questa posizione, un po’ come una morchella che si rivela di colpo nel sottobosco, ecco il minibasilisco tutto d’oro, finora mimetizzato sopra l’elmo della statua di Lucio Munazio Planco. Tardocinquecentesco, vanta la postura più originale di tutti i diciassette cacciati fin qui: da sfinge. D’oro, con le sembianze quasi da pollo, è anche quello del Les Trois Rois, prestigioso hotel cinquestelle affacciato sul Reno. Oltre il ponte, in ghisa verniciata di verde Wimbledon e verdino Kermit,

si trovano i basilischi sulla casetta meteorologica. In Claraplatz dal 1892, l’artefice è Josef Schetty, fondatore della più grande tintoria di Basilea, ai tempi. Il mercurio segna sedici gradi. Potremmo ora andare a trovare i miei preferiti forse, sulla fontana del tridente, però è in restauro. Ci sarebbero i basilischi dell’Augustinerbrunnen, una delle tre più papabili, oltre alla Dreizackbrunnen citata e la Gerberbrunnen, come suo nascondiglio. Oppure quelli che sputano acqua delle ventotto fontantelle seriali, sempre in verde Wimbledon, ideate a fine Ottocento da Wilhelm Bubeck – morto giovane in un incidente ferroviario – ancora sparse per la città. Eppure ora c’è una necessità di Reno. E in riva al Reno, mangiando fragole, mi accorgo che anche in mezzo al Mittlere Brücke, c’è scolpito l’ennesimo basilisco, simbolo alchemico dell’amalgama. Rilascio la mia erranza cacciatrice dello sguardo – rapito di recente, per mesi, dalle figure del fantastico presenti nel paesaggio – nella corrente del Reno che da sempre, senza dire un bel niente, risolve.

oggettuali. In particolare studia i teorici Ronald Fairbairn, David Balint e Donald Winnicott per i quali la nostra relazione con gli oggetti e quella con le persone si equivalgono. Le accomuna ad esempio l’esperienza della perdita: quando li perdiamo li introiettiamo. Nell’esperienza del lutto ciò che perdiamo ci entra dentro e prende una nuova vita. Così Sherry nella credenza del cuore, simbolo di quella vera nella cucina della nonna, porta con sé tutti gli oggetti della sua memoria. E da quel momento in avanti nella tradizione psicoanalitica sente di aver trovato un suo fondamento esistenziale. Trova nella psicanalisi gli strumenti per indagare il tema dell’identità e la cura per i problemi della sua vita giovanile. Decide di diventare lei stessa una psicoanalista coniugando prospettive psicologiche e sociologiche in quello che concepisce come un percorso olistico. Tanti sono

i mentori che incontra lungo il suo percorso, Victor Turner, l’antropologo sociale inglese, è uno di questi. La sprona ad essere ambiziosa, a diventare l’etnografa psicologicamente astuta che sogna di essere indagando quel suo speciale campo d’interesse: in che modo le persone pensano al pensiero. Con i grandi classici – dalla letteratura alla filosofia all’antropologia – getta le fondamenta. Legge Proust, Joyce, Shakespeare; Kant, Wittgenstein Freud; Lévi-Strauss e Mary Douglas. Turner però le dice che non conta quanto lunga e autorevole sia la lista delle sue letture. Conta come e quanto Sherry riesca a farle sue sviluppando una maggiore consapevolezza dei tratti che la rendono unica. La straordinaria storia di Sherry Turkle naturalmente non finisce qui, vi aspetto tra due settimane per l’ultima puntata. Intanto spero che vi sia di ispirazione…

Passeggiate svizzere di oliver scharpf I basilischi di Basilea «Il basilisco di Basilea è uscito dal Reno» disse uno, una notte, in una bettola della zona nota ai santi bevitori come Triangolo delle Bermuda, tagliando corto riguardo alle diverse leggende in giro. A proposito dell’origine del forte legame, già contenuto nel nome, tra Basilea e questo essere da bestiario fantastico medievale: metà drago metà gallo, uccide con lo sguardo. Sbarcato un bel giorno in città, attraverso le scale in pietra che salgono dai bastioni sotto la cattedrale, si è poi nascosto in una fontana. In quale, le opinioni divergono e le storie fioriscono. Ad ogni modo, i primi basilischi di Basilea (371 m), color verderame stinto, si possono catturare con lo sguardo appena fuori dalla stazione ferroviaria neobarocca, su in alto. Agli angoli delle cupole, sopra l’orologio delle due torri a fianco della grande vetrata ad arco Tudor. Sei in tutto, risalenti al 1907. Alle nove in punto di una bella mattina ai primi di aprile, aguzzando bene la vista, acchiappo così il mio primo basilisco della giornata: appollaiato lassù con lo stemma cittadino come scudo. Camminando lungo

Elisabethenstrasse, ne becco un altro, impossibile da vedere se non si sa dove guardare. Nascosto ai passanti, si trova sulla fontana, alle spalle della graziosa Santa Elisabetta di Turingia, scolpita da Heinrich Rudolf Meili nel 1863. In bronzo, cresta punk, bargigli pendenti come payot degli ebrei ortodossi, lingua fuori, collo lungo da cigno, ali da acquila, e tra le grinfie, lo stemma di Basilea: qui da vicino si vede il bastone pastorale stilizzato che a me incomprensibilmente ricorda sempre l’alfiere degli scacchi. Come pendant della bestiaccia-mascotte della città, ai due lati, sotto la statua della santa con la brocca in mano e il pane sotto il grembiule – protettrice di panettieri e mendicanti – ci sono due cigni che sputano acqua. Il basilisco guarda in direzione dell’Atlantis. Locale nato nel 1947 dove, tra leggende del jazz e viaggi lisergici, vivevano due alligatori – Hector e Hulda – e la cui insegna, da qui, sembra raffigurare proprio due basilischi simmetrici in oro. Lo sguardo assassino del basilisco è ben rappresentato da quello monumentale all’inizio del Wettsteinbrücke. Opera

del 1880 di Lukas Ferdinand Schlöth, è l’unico superstite dei quattro che facevano la guardia al ponte fino al 1936. Anno della diaspora: uno finisce a Meggen, su un piedistallo di roccia che guarda il lago dei Quattro Cantoni, un altro è stato rintracciato nel giardino di una casa di vacanza nella Foresta Nera, il terzo è dentro un’aiuola di una palazzina in Schützenmattstrasse numero trentacinque. Cinquanta tonnellate, color verde vomito, ali da pipistrello, l’aria cattiva. L’aria di primavera, almeno, con le prime magnolie e i cinguettii, rallegra un po’. Cesellati nell’arenaria rossa, cerco quelli della cattedrale. Millenari si arrampicano su uno spicchio del portale di San Gallo. Il muso sembra però più drago, draghesche anche le bestioline su un capitello di un’arcata dentro, mordono una figura allarmata. Dalla bocca di un altro, sul capitello del coro, un personaggio viene salvato per un braccio dall’eroe con la spada di una saga norrena. Forgiati, si scovano altri basilischi ancora, tra i ghirigori e altre figure grottesche dell’inferriata sopra l’entrata del municipio fantasista

la società connessa di natascha Fioretti una Boston bag per i sogni di sherry turkle Ci ritroviamo dove ci siamo lasciati la volta scorsa, nella Parigi di fine anni Sessanta. La giovane Sherry Turkle si è innamorata di una Boston bag modello Speedy di Dior. Una borsa bella e al tempo stesso pratica. Un oggetto che ai suoi occhi rappresenta i traguardi raggiunti con tanta fatica e premia un momento di crescita importante della sua esistenza. Nel sognare la sua Speedy si immagina mentre gira il mondo ispirata dai suoi idoli, donne di sostanza come Susan Sontag, Joan Didion, Lillian Hellman. Sogna, insomma, una borsa per la vita nella quale portare i libri che un giorno scriverà e i suoi successi accademici. Qualche settimana dopo viene in visita zia Mildred. Si dice preoccupata per il suo stato di salute, ha messo su qualche chilo, la vede triste. Sherry la rassicura, si dice soddisfatta del percorso intrapreso e della sua scelta di studiare a Parigi. Ha idee più

chiare sul futuro, un giorno scriverà dei libri, ha già un’idea per il tema della sua tesi e pensa ad una carriera in ambito accademico sebbene non conosca altre donne con lo stesso percorso alle quali ispirarsi. Mildred fa un’alzata di spalle e le dice di puntare più in alto possibile e di non arrendersi mai. Lo dice con amore e, soprattutto, con cognizione di causa, lei che per vent’anni ha lavorato nel dipartimento legale della Twentieth Century Fox Television ma in famiglia è sempre stata considerata la meno attraente e la meno brillante. E se per questo non ha mai avuto fiducia in se stessa ne ha invece molta in Sherry il cui compleanno si avvicina. Vuole farle un regalo per i suoi ventun’anni. Sherry le parla della Boston Bag e poco dopo si ritrovano in rue de Rennes con i nasi schiacchiati sulla vetrina del negozio e gli occhi pieni di ammirazione. Mildred ha un piano. Nei prossimi

giorni mangeranno soltanto pâté sandwiches e croque monsieurs. Lascerà la sua stanza d’albergo e dormiranno insieme a casa di Sherry. Dice di non preoccuparsi del costo da capogiro, una borsa così è senza tempo. In effetti, venticinque anni dopo, in aeroporto in Arizona per una vacanza insieme l’avrà con se. Mildred però non c’è, la notte prima è morta nel suo appartamento. Nel frattempo, in quegli anni, la giovane Sherry Turkle ne ha fatta di strada. Un dottorato in sociologia e psicologia della personalità all’Università di Harvard. Soprannominata l’antropologa dello cyberspazio, considerata una delle massime teoriche di Internet, è psicologa clinica, membro della società psicoanalitica e docente di sociologia della scienza al Massachussets Institute of Technology (MIT). Gli ambiti nei quali si muove inizialmente sono la psicoanalisi e la teoria delle relazioni


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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ambiente e Benessere «Binari» da biotopo Lungo le vie ferrate cresce una vegetazione ricca di diversità e anche di vita

sui sette colli d’america La Seattle di oggi, ancora un po’ grunge, sede della Big A di Bezos ma anche molto altro pagina 15

alla ricerca della bontà Quando un cuoco mescola ingredienti diversi e insapora con fondi e salse pagina 17

pagina 14

dalla casa di Göteborg Recharge: la nuova linea di elettriche e ibride plug-in firmata Volvo

pagina 21

vaccini, test di depistaggio, e poi…? covid Ricerca, vaccini e igiene di vita sotto

Maria Grazia Buletti «Se a maggio 2021 avremo un solo vaccino con un’efficacia almeno del 60 percento sarebbe un miracolo!», oggi un soddisfatto Alessandro Diana, vaccinologo, ci ricorda quel nostro colloquio di settembre 2020, quando emergeva una realtà pandemica permeata dal desiderio di sviluppare un vaccino sicuro ed efficace contro il Coronavirus. «Disegno di un mondo ideale», come allora lo definì egli stesso. «Oggi, in un mondo parallelo al nostro presente, potremmo ancora trovarci nel pieno dello sviluppo di un vaccino. E invece ne abbiamo già più di uno, fra i quali quelli a tecnologia mRNA efficaci addirittura al 95 per cento. Nessuna nostra previsione era stata così ottimistica!». Guido Silvestri (immunologo, esperto di AIDS e membro dell’Emory Vaccine Center) – professore al Dipartimento di medicina, Divisione di malattie infettive, Emory University School of Medicine di Atlanta (Georgia, USA) – rafforza le osservazioni del dottor Diana: vivendo la realtà americana egli permette di avere uno sguardo più completo sulla situazione e sui dati scientifici comprovati e, a cominciare dalla capacità del vaccino di fermare la trasmissione del Covid, afferma che «a questo proposito, Israele è una fonte immensa di notizie perché la maggioranza degli over 60 si è già vaccinata e si è visto come siano drasticamente calati i casi gravi e le relative ospedalizzazioni. Ciò permette di pensare che ci siano alte probabilità che la trasmissione del virus si freni proprio mediante la vaccinazione». Secondo Silvestri neppure le varianti (inglese, sudafricana e brasiliana) del virus dovrebbero ostacolare il vaccino: «Anche in presenza di varianti abbiamo osservato come il vaccino eviti ospedalizzazione, polmonite e casi più gravi; inoltre il Covid non muta moltissimo (meno dell’influenza) ma si trasmette di più. E comunque molte case farmaceutiche stanno studiando eventuali modifiche del vaccino presente per renderlo più efficace contro le varianti: un lavoro non complicato». Chi si è già ammalato di Covid dovrebbe comunque vaccinarsi: «L’immunità non è permanente e si sta studiando la possibilità di inoculare una sola dose a chi è già stato ammalato». Vista la situazione incoraggiante

su efficacia e sicurezza del vaccino, rimane la questione di come convincere i titubanti. «Bisogna continuare a dimostrare la loro totale sicurezza», afferma Silvestri che porta ad esempio gli USA dove oltre 42 milioni di persone hanno già ricevuto la prima dose e 15 milioni la seconda: «Ci sono stati zero morti per il vaccino, solo sintomi lievi o moderati, e qualche reazione. È importante capire che il vaccino è l’unica arma di prevenzione di cui disponiamo». In linea pure Diana che ricorda come la corretta informazione stia alla base del buonsenso decisionale della popolazione: «In una situazione come questa, di crisi, di cose che non si sanno e di evidenze scientifiche acquisite sul campo in tempo reale, è importante saper comunicare onestamente cosa non ci è ancora noto e cosa possiamo invece affermare come evidenza scientifica. Ogni strategia va spiegata fino in fondo per permettere alla maggioranza delle persone di aderirvi proprio perché ha ben capito». Entrambi invitano a confidare nella scienza i cui «trial», afferma Silvestri, «sono stati estesi e molto precisi, nonostante i vaccini siano stati approvati in emergenza, e non ci sono reali motivi per avere paura o per non vaccinarsi». In quest’ottica, i pochi casi di reinfezione post vaccino che sono stati osservati esigono però una spiegazione che chiediamo al dottor Diana: «Dopo due settimane dalla prima dose di vaccino, sappiamo che la protezione dovrebbe essere circa del 50 per cento. Mentre sale al 95 percento dopo il decimo giorno dalla seconda dose. C’è dunque una finestra di tempo in cui posso essere infettato, e la percentuale globale di persone a cui è successo, malgrado il vaccino, è del quattro per cento circa». Le sue considerazioni poggiano sulle ottime percentuali di efficacia: «Abbiamo osservato che le persone reinfettate dopo la prima o la seconda dose non hanno sviluppato complicazioni e non necessitano di ospedalizzazione. L’impressione è che le persone vaccinate, se si ammalano, lo fanno in forma più lieve e sono protette quasi al cento per cento dalle complicazioni (che innescano decorsi seri o addirittura infausti) dovute alla malattia. Questo è d’altronde il primo scopo della nostra campagna vaccinale». Ci ricorda l’analogia col vaccino influenzale: «È noto che l’in-

Pixabay.com

la lente a un anno dall’inizio della pandemia

fluenza si possa contrarre malgrado la vaccinazione, ma dobbiamo sapere che l’obiettivo del vaccino influenzale non è di evitare infezioni, bensì le relative complicazioni. Chi è vaccinato contro l’influenza, così come stiamo osservando per il Covid, può sviluppare comunque blandi sintomi influenzali ma senza le temute complicazioni». Alla luce di tutto ciò chiediamo ai due interlocutori cosa pensano della gestione pandemica, dalla linea di emergenza adottata all’inizio della pandemia (compresi i lockdown a cui le persone sono sempre più insofferenti) al prosieguo che potrebbe forse lasciare il passo a una gestione che tenga conto delle conoscenze mediche e scientifiche acquisite. «Il lockdwon iniziale, a marzo scorso, aveva un senso perché non si sapeva nulla del virus, aveva-

mo pochi strumenti per capire contro cosa stavamo combattendo e le terapie intensive degli ospedali erano invase. Ora abbiamo molte più armi contro il virus e penso che un lockdown totale possa essere solo deleterio», afferma il professor Silvestri a cui fa eco Diana che chiarisce anche la strategia dei test a tappeto in atto in Svizzera: «Già lo scorso luglio, in una riunione zoom fra professionisti, l’epidemiologo di Harvard professor Michael Mina disse che pensare di fare molti auto-test a domicilio avrebbe permesso di evitare il lockdown. Ammetto di aver pensato che fosse azzardato, allora, in ragione della sensibilità molto più bassa di questi test per rapporto a quello molecolare a cui si devono sottoporre tutti coloro che presentano sintomi. Da ottobre sto però divulgando questo nuovo princi-

pio che ora ho ben compreso: questi test fai da te sono l’unico modo per uscire dal macro-lockdown perché si tratta di un depistaggio di tutti quegli asintomatici (40-50 per cento dei test positivi sono asintomatici) che così potranno osservare un micro-lockdown con la propria famiglia». Egli invoca le conoscenze acquisite sul virus («ne conosciamo la trasmissione, sappiamo che il domicilio è un focolaio, così come i posti chiusi, che il virus necessita della vicinanza di esseri umani per propagarsi») per invitare tutti a sottoporsi individualmente a questi auto-test domiciliari («2 o 3 volte a settimana») nell’ottica di una strategia di depistaggio che, insieme all’avanzamento della campagna vaccinale, permetterà alla società e all’economia di riguadagnare salute e vita.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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ambiente e Benessere

linea verde e flora ferroviaria

Biodiversità Le piante che s’insediano spontaneamente fra i binari, il controllo della vegetazione per la sicurezza

e gli spazi di natura realizzati fra e lungo le rotaie Marco Martucci Camminare lungo i binari della ferrovia o, peggio ancora, attraversarli è decisamente sconsigliabile: può essere molto rischioso e solitamente è vietato. Ma ci sono binari poco frequentati dai treni, magari in qualche stazioncina di campagna, binari morti dove i treni non passano più e che, con prudenza, si lasciano avvicinare. E ne può valer la pena perché si entra in un mondo a sé dove non mancano scoperte anche entusiasmanti. I binari, infatti, non sono solo la via ferrata su cui viaggiano i treni: diventano un biotopo particolare dove vivono soprattutto piante ma anche piccoli animali. Oltre a essere pittoresco e romantico, il paesaggio ferroviario può rivelarsi di grande interesse anche per l’appassionato naturalista. Quando viaggiamo in treno a grande velocità non ci accorgiamo della natura fra i binari perché non facciamo in tempo a vederla ma soprattutto perché da questi binari molto frequentati la natura viene tenuta fuori per comprensibili ragioni di sicurezza. Ma pure qui, neppure troppo lontano dalla massicciata, ci sono angoli di natura, spontanei o creati appositamente. L’espressione «flora ferroviaria» compare nell’omonimo titolo d’un bel libricino stampato nel 1980, opera di Ernesto Schick (1925-1991), attivo pro-

Lavori di manutenzione per il controllo della vegetazione. (FFs)

fessionalmente a Chiasso nel settore delle spedizioni, agronomo di formazione e, soprattutto, botanico amatoriale, appassionato e competente, con uno spiccato talento per il disegno. A Chiasso, Schick aveva vissuto la grande trasformazione d’un territorio in parte agricolo e fatto di prati e paludi in un

paesaggio di 120 chilometri di binari, che vide nascere la grande stazione di smistamento, grazie a lavori iniziati nel 1957 e durati per dieci anni. In seguito, accortosi che la vegetazione stava ritornando in mezzo ai binari, Schick iniziò le sue escursioni alla ricerca delle piante di questa flora

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spontanea. Ne trovò decine e decine, che raccolse, descritte e illustrate, nel suo libro cui mise il sottotitolo La rivincita della natura sull’uomo. Nascevano da semi arrivati dai dintorni o anche, clandestini sui vagoni, da più lontano. Ecco, dalle pagine del libro, immagini di papaveri scarlatti, di gialle primule, del dente di leone, di trifogli, salici, lino. Ma le piante, per belle e interessanti che siano, sono in conflitto con la gestione sicura del traffico ferroviario. C’è la necessità di contenere, in parte o del tutto, l’esuberanza della vegetazione ferroviaria. Le nostre ferrovie lo fanno non solo a Chiasso ma lungo gli oltre 7600 chilometri di binari delle FFS. Le piante, con le loro radici, possono compromettere la stabilità della massicciata su cui posano i binari ed essere di ostacolo al passaggio del personale di manutenzione e dei passeggeri che dovessero abbandonare il treno fuori dalle stazioni. Segnali e avvisi rischierebbero di non essere più visibili. Rami di arbusti o alberi potrebbero cadere sui binari. Insomma, la sicurezza è prioritaria. Fra le piante più problematiche, perché di non facile contenimento, figurano l’equiseto (Equisetum arvense) che cresce sottoterra e si propaga attraverso radici e germogli, il poligono del Giappone (Reynoutria japonica), neofita invasiva alta fino a tre metri e che si diffonde con le radici fino a due metri all’anno e il rovo (Rubus sp.), ben nota pianta infestante e munita di spine. Per il controllo della vegetazione si distinguono due zone. La prima, a manutenzione intensiva, circa cinque metri dal centro del binario, comprende la zona dei binari con massicciata e banchina, un passaggio per il personale e per le emergenze, dove non è tollerata alcuna vegetazione, seguita da una striscia intermedia, nella quale può svilupparsi dell’erba tenuta bassa. La seconda zona, a manutenzione estensiva, la cosiddetta scarpata, si estende oltre la prima per circa dieci metri e in essa possono crescere piante erbacee e legnose. Mantenere la vegetazione sotto controllo richiede una strategia che tenga conto dell’efficacia, dei costi e dell’impatto ambientale. Per questo è a disposizione una varietà di metodi, applicati in combinazione e scelti secondo il luogo e il tipo di vegetazione. La posa di un manto di asfalto sotto la massicciata tiene lontana l’umidità ed è realizzabile soprattutto al momento della costruzione di un nuovo percorso ferroviario. I canaletti per il passaggio dei cavi a fianco della massicciata sono un ostacolo alla penetrazione della vegetazione. Per tenere sotto controllo la

crescita delle piante si presta bene il taglio, manuale o con macchine. Esistono poi diversi mezzi per tenere pulita la massicciata. Strappare le piante a mano richiede tempo ma è molto selettivo. L’unica sostanza autorizzata in Svizzera per il controllo chimico delle piante infestanti in ferrovia è il glifosato, vietato comunque al di fuori della zona dei binari e in tante altre situazioni, come nei pressi di corsi d’acqua, acque ferme o zone di captazione della falda freatica. Le FFS impiegano il glifosato con grande moderazione e intendono, entro il 2025, rinunciare del tutto al suo uso. Si stanno ricercando per questo diversi metodi alternativi, oltre a quelli già in uso. Fra le novità allo studio, l’impiego di acqua bollente, di robot e di erbicidi biologici. Ma fra ferrovia e natura non c’è solo conflitto. Anzi, lo spazio attorno ai binari può diventare prezioso per la biodiversità, senza compromettere la sicurezza. Le FFS possiedono 13mila ettari di terreno, l’ottanta per cento sono aree verdi, boschi ma anche scarpate, prati e biotopi aridi e caldi, condizioni ottimali per piante, piccoli animali, insetti anche di specie rare e minacciate. Le nostre ferrovie promuovono questi ambienti e ne creano di nuovi, anche come compensazione ecologica. Famosa è la tratta fra Zurigo HB e Zurigo Altstetten, un paesaggio naturale premiato, realizzato in sicurezza e a basso costo fra i binari, dove vivono 500 specie di piante, farfalle e api selvatiche e la più grande popolazione di lucertola muraiola dell’Altopiano. Esempi importanti e significativi non mancano anche a sud delle Alpi. Ce li presenta, da noi intervistato, Giancarlo Tognolatti, capo progetto ambiente presso FFS Infrastruttura. Si tratta di due interventi di compensazione ambientale, recentemente eseguiti da FFS, entrambi sul Piano di Magadino, dove è stata ampliata la linea ferroviaria. Il primo riguarda il torrente Trodo, la cui foce alla confluenza con il fiume Ticino, in territorio di Quartino, è stata completamente rinaturata. Il secondo è stato la creazione del nuovo stagno Barage, a Contone, adiacente alla linea ferroviaria, dove, oltre a eliminare le piante invasive, si è provveduto all’inserimento di piante tipiche delle zone umide, di arbusti autoctoni e di un biotopo per piccoli animali. Questi e altri esempi dimostrano efficacemente come il rapporto fra ferrovia e natura, se ben gestito in modo equilibrato, possa essere benefico per quest’ultima, a vantaggio della biodiversità e dell’ambiente.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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l’altra faccia di seattle

valeria avesani

ambiente e Benessere

Reportage Una città rinata dalle proprie macerie più e più volte

Valeria Sgarella Per cominciare bisognerebbe evitare di confondere Washington D.C. con lo Stato di Washington, di cui Seattle è la capitale, nel freddo nord-ovest Pacifico, al confine con l’Oregon e a un tiro di schioppo dal Canada. Insomma esattamente dall’altra parte degli Stati Uniti. Per inquadrare meglio il contesto, tra le lande desolate di Twin Peaks. Forse ha origine proprio da qui, da questo frequente equivoco di geolocalizzazione, il fatto che Seattle sia la più ignorata tra le grandi metropoli americane, di rado menzionata come località turistica. E a torto, come vedremo. È come se a Seattle non succedesse niente dal 1994, l’anno in cui morì Kurt Cobain; certo, lo strascico del grunge, la più grande rivoluzione musicale che il mondo abbia visto negli ultimi trent’anni, è ancora evidente. Ma Seattle, per molti, è ancora quella cosa lì: la mecca del rock decadente, le camicie di flanella, le rockstar morte anzitempo. Eppure molto è accaduto da allora, complice il fatto che questa città è rinata dalle proprie macerie più e più volte. Macerie nel vero senso del termine. Il suo destino è stato plasmato da una serie di calamità naturali − terremoti, inondazioni, grandi incendi − ma soprattutto da colline in frantumi. Attraverso un lungo processo denominato regrade, a cavallo tra Ottocento e Novecento, alcuni dei colli sui quali sorge la città furono letteral-

mente abbattuti, attraverso un’allora innovativa tecnica a idrogetto. Da qui presero vita alcuni degli attuali quartieri centrali della città e i detriti furono utilizzati per realizzare il Waterfront (nell’immagine sopra, il Seattle Waterfront visto da Elliott Bay; su www. azione.ch si trova una galleria fotografica più ampia), diciamo il lungomare, anche se il Puget Sound non è esattamente un mare, bensì un complesso sistema di vie fluviali e Oceano Pacifico. Seattle si vanta di sorgere su sette colli come Roma. Che la collina sia l’elemento predominante è evidente già camminando nell’area centrale (Downtown). Risalendo dal Pier 67 su Wall Street, fino a incontrare la 1st Avenue, e poi ancora su fino alla 2nd e alla 3rd Avenue, nel pittoresco quartiere di Belltown, la fatica si sente. La salita è ripida, bisogna avere gambe buone. I Seattleite però ci sono abituati. La città è servitissima dai mezzi pubblici e l’opzione macchina nel centro di Seattle è poco conveniente oltre che decisamente meno divertente, specie se resti bloccato per ore sulla Interstate 5. Da quei maledetti anni Novanta, tuttora cinicamente sfruttati con varie operazioni nostalgia sulla cultura grunge, Seattle ha attraversato varie vite. L’ultima è cominciata verso la seconda metà degli anni Zero e ha la forma di una gigantesca «A»: quella di Amazon. C’è un detto secondo cui «quel che succede a Seattle succede in tutto il mondo» e la ragione sta proprio

Il tram turistico della Emerald City. (valeria avesani)

in quella Big A di Jeff Bezos che, da piccola startup con una decina di dipendenti, si è espansa fino a raggiungere dimensioni monumentali. Un’espansione che ha avuto inizio a livello locale, con una vera e propria colonizzazione di un’intera area: il quartiere di South Lake Union, ribattezzato oggi Amazonland. Un quartiere bigio, dominato da capannoni e parcheggi, su cui nessuno avrebbe scommesso un quarto di dollaro prima del dicembre 2007, quando Bezos annunciò il suo piano di trasferimento dalla vicina Bellevue. Oggi percorrendo l’intera area tra Eastlake e Aurora Avenue North, ogni torre, ogni grat-

tacielo dal design accattivante ha il marchio Amazon. Ed è impossibile imbattersi in un essere umano che non indossi il caratteristico badge blu o giallo. Ma Jeff Bezos, a Seattle, Amazon l’aveva già inaugurata nel 1995. Era una microimpresa di e-commerce di libri. E c’era un motivo per cui Bezos aveva scelto Seattle: questa era la città di Microsoft, l’altro grande colosso tecnologico che, a sua volta, ci ha cambiato la vita, portando un personal computer in ogni casa. Bill Gates e Paul Allen, allievi della stessa scuola a nord di Seattle − la Lakeside School − verso la fine degli anni Sessanta saltavano le lezioni di educa-

Le case galleggianti sul Lago Union. (valeria avesani)

Il faro di Sand Point, a Discovery Park. (valeria avesani)

zione fisica per trascorrere più tempo nell’aula computer. Qui, tra queste mura, posero le basi di quella che poi sarebbe diventata la Microsoft Inc. Ancora oggi l’azienda occupa l’area di Redmond, nell’area metropolitana di Seattle, e qui ovviamente la prima proposta ai turisti è un tour del Microsoft Campus. Bill Gates com’è noto lasciò la posizione di amministratore delegato Microsoft nel 2000. Ora è a capo, con sua moglie Melinda, della Bill and Melinda Gates Foundation, il colosso no profit spesso coinvolto nei grandi dibattiti internazionali, pandemia compresa. La fondazione ha sede nell’elegante e poliedrico quartiere di Queen Anne, a un passo da Space Needle, detto altresì «il fungo spaziale», e dal Seattle Center, il centro multifunzionale, principale attrazione della città. Il cuore tecnologico di Seattle dunque pulsa forte e richiama ogni anno migliaia di lavoratori stranieri da tutto il mondo. Ma non si dimentichi che Seattle è anche la città delle caffetterie. Di nuovo qualcosa che poi ha avuto conseguenze nel resto del mondo: Starbucks. Nello storico Pike Place Market, il grande e pittoresco mercato alimentare all’aperto, sorge la primissima bottega di Starbucks. Il suo amministratore delegato di allora, Howard Schultz, decise che il rito del caffè doveva essere legato alla socialità, sul modello delle caffetterie milanesi (sì, avete letto bene). Fino a quel momento il caffè era prevalentemente to-go, da passeggio, comprato dai carretti ambulanti in bicchieri di carta. Schultz volle che le sue caffetterie fossero invece luoghi di ritrovo accoglienti dove si potesse anche sostare e chiacchierare. Un progetto che gli riuscì benissimo. Ora ci vorrebbe troppo tempo per spiegare che in realtà quello di Pike Place non è il primo bensì il secondo punto vendita dell’originale Starbucks, ma poco importa. Anche per chi rifugge i classici riti turistici, agguantare un caffè fumante e sorseggiarlo passeggiando su Pike Street, fino ad arrivare al piccolo parco di Steinbrueck, è un’esperienza raccomandata, magari come ultima tappa dell’itinerario urbano. Anche perché da qui, proprio da qui, si staglia davanti agli occhi uno degli scorci più belli del Puget Sound: che, come dicevamo, non è un mare, ma molto gli somiglia.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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ambiente e Benessere

l’antica Roma, tra divieti e trasformazioni

scelto per voi

vino nella storia Nell’Urbe, dove la donna per molti anni avrà la proibizione di bere il

nettare di Bacco, il ruolo di questa bevanda si trasforma da scioglilingua a piacere per il palato – Prima parte Davide Comoli Racconta Catone il Censore (234-149 a.C.) autore di Liber de agri cultura, che nella Roma dei tempi di Romolo, i mariti potevano far valere sulle mogli il cosiddetto «ius osculi», il diritto del bacio. Il singolare privilegio aveva ben poco di romantico e non era di certo il preliminare di una qualsivoglia forma di approccio a scopo sessuale. In modo molto più prosaico si trattava di un controllo sul contenuto della cantina, dal momento che un bacio sulla bocca della moglie costituiva il modo più semplice per accertarsi se ci fosse stata violazione di uno dei divieti più rigorosi imposti dalla legge di Roma alle sole donne: vietato bere vino. Oggi ci scappa un sorriso pensando a quell’usanza, ma la cosa è più seria di quanto potrebbe sembrare, perché accertata la violazione le conseguenze erano molto spiacevoli. Plinio, il Vecchio, nel suo Naturalis Historia (Liber XIV – 1313) riporta: «La moglie di Egnatius Metellus, per aver bevuto vino da una botte, fu uccisa a basto-

nate dal marito, che Romolo assolse dall’imputazione di assassinio». E ancora Plinio ci informa che in tempi meno sanguinari «il giudice Gneo Domizio (192 a.C.) sentenziò che una donna aveva bevuto, all’insaputa del marito, più di quanto richiedesse il suo stato di salute e la condannò all’ammenda della sua dote». Che era pur sempre una grande legnata per la poveretta. Per assurdo che possa sembrare ai giorni nostri, quella legge era stata suggerita da problemi reali, facili peraltro da decifrare. Ai tempi della fondazione di Roma (754 o 753 a.C.), i luoghi in cui sarebbe sorta l’Urbe, erano una zona popolata da pastori, con un’agricoltura quasi inesistente. Per questo la vite, nel suo lungo cammino verso il nord della Penisola, aveva «saltato» la regione, installandosi invece in Etruria. Quando più tardi l’insediamento fondato da Romolo si era sviluppato lungo il corso del Tevere e aveva assunto l’aspetto di una città, il vino era considerato un bene che poteva, tramite l’importazione, essere usato con parsimonia. Così ci informa Plinio: «che

Festa romana. (dipinto di roberto bompiani, esposto al Paul Getty museum)

Romolo libasse con il latte e non con il vino». Il vino nell’Urbe, come bene corrente arrivò solo in un secondo tempo nei bagagli di Numa Pompilio, etrusco e secondo re di Roma (715-672 a.C.) che oltre i campi volle che una vite, un fico e un olivo, fossero piantati come gesto simbolico nella piccola piazza che sarebbe diventata il Foro. Peraltro al frutto della vite, la Roma delle origini, dovette qualche dispiacere, infatti in poco più di cent’anni, l’area dei sette colli era stata occupata con grande facilità almeno due volte. La prima dalle armate dell’etrusco Porsenna e poi dai Galli di Brenno, il quale ai romani che timidamente mercanteggiavano, oppose il ferro della sua spada e l’inesorabile: «Vae victis!» (Guai ai vinti!). Quella volta gli dèi dell’Olimpo chiusero un occhio mandando Furio Camillo, che sopraggiunse mentre i Romani stavano pagando i tributi e che «con il ferro e non con l’oro» riuscì a salvare la patria. Ma torniamo al vino: con l’andar del tempo perfezionarono i loro sistemi di viticoltura e diventarono maestri anche nella sua produzione. Tutto è narrato con meticolosità dai vari Catone, Varrone, Columella, Plinio, solo per citarne qualcuno. Da notare però che anche in momenti più tecnicamente avanzati, la vendemmia e la pigiatura mantennero sempre il carattere di una solennità religiosa, dove il mistero della fermentazione conferiva sacralità al vino. Alla vite e alla viticoltura, erano preposti alcuni «dèi minori»: la dea Puta presiedeva alla potatura e il dio Termine presiedeva ai paletti che delimitavano le vigne, mentre ovviamente Bacco (Dioniso) per i latini, era a capo di tutto. Il vino incominciò a circolare in abbondanza sulle mense di Roma, al punto che la città arrivò a dotarsi di un «portus vinarius» (visitate Ostia antica) per l’arrivo e lo stoccaggio dei vini e di un

«forum vinarium» per le contrattazioni. Da notare comunque che il commercio di vini restò in mano a quegli abili commercianti che erano gli Etruschi, come testimonia un’iscrizione del 102 a.C., la quale ha consentito di identificare i resti di un «magazzino del vino», in prossimità del Lungotevere della Farnesina, denominato «Cellae Vinariae Nova et Arruntiana»: il termine «Arruntiana» indica il nome Arrunte, di un certo etrusco che ne era il proprietario. Si andava affinando anche il palato dei consumatori e di conseguenza i vini venivano collocati in una graduatoria che ne riflettevano le qualità e più ancora i dettami della moda. Così pur avendo vigne sulle porte di casa, e cioè lungo le pendici dei Colli Albani, i gusti di Roma si orientavano piuttosto su vini prodotti e provenienti dalle isole dell’Egeo o dalle campagne della Magna Grecia. Questo, senza ombra di dubbio dimostra ancora una volta l’importanza che ebbe il vino nella società romana e greca. Anche la copiosità di vasi, anfore, brocche, crateri, mestoli, colini, coppe e ciotole, mantengono le stesse funzioni con gli stessi nomi greci. I musei ne sono pieni, testimoni del culto per la tavola. Quello che però ci colpisce è che a Roma sparisce il «symposion» inteso come incontro finalizzato al piacere di bere e conservare. Il vino non è più considerato soltanto come un mezzo per meglio stimolare la lingua e il cervello e neanche la conversazione libera e disinvolta. Nell’Urbe si mangia e si beve (come si fa oggi) senza secondi fini, per il solo piacere della gola e il poter partecipare a un rito collettivo. Il vino scorre a fiumi, ma non è più con una finalità «parafilosofica», ma alimentare, dove la figura del «simposiarca» a Roma si chiamerà «magister bibendi».

triade

Sulla sponda del fiume Ticino, sulle prime pendici del Ceneri che sovrastano la piana di Magadino, Davide Ghidossi, laureato a Changins, continua l’opera iniziata dal padre Gianfranco. Con grande passione, con uve provenienti da Cadenazzo, ha prodotto l’ottimo vino che vi presentiamo questa settimana. Triade è un vino affinato in barriques di secondo passaggio per 16 mesi. Tre sono i vitigni vinificati separatamente che lo compongono (da qui il nome), il Merlot, principe dei nostri vigneti, il Diolinoir (Robin Noir x Pinot Noir) e Gamaret (Gamay x Reichensteiner). L’unione dei tre vini ci dona un prodotto ricco di colore e di corpo, mentre i ricchi profumi di bacche rosse arricchiscono il Triade, con note speziate che restano a lungo nelle narici: caldo e piacevolmente fresco, dai tannini presenti e setosi. Lungo è il suo finale in bocca e per la sua struttura può rimanere qualche anno nella vostra cantina. Noi però lo vogliamo bere in questo periodo, come accompagnamento al «capretto nostrano» al forno o con delle costolette d’agnello al timo e rosmarino. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 37.–. annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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ambiente e Benessere

che cos’è la cucina? Che cos’è la cucina? La risposta la scrivo sotto ma per un attimo provate a rispondere. Provato? Va bene. Allora, la mia definizione, condivisa con tanti altri, si riassume in tre concetti: anzitutto significa rendere commestibili cibi che altrimenti non lo sono: una patata cruda non serve a niente. In secondo luogo, è sinonimo di sanificazione: nei secoli c’è stata la giusta percezione che il cotto fosse più sano del crudo; dati alla mano, le infezioni alimentari sono nella storia la prima causa di morte, più della guerra, più della peste, per cui si ritiene ormai più che verificata questa percezione. Il terzo principio fondamentale che definisce la «cucina» infine è: rendere buoni i piatti.

Il buono è: mescolare ingredienti diversi e arricchirli con fondi È inutile disquisire qui cosa voglia dire buono, è un concetto figlio di mille parametri sociali e culturali. Però tutti noi diciamo, a volte: ma come è buono questo piatto. Altre volte no. Quando nasce la ricerca della bontà? Di certo il crudo degli antenati, mammut incluso, non era classificabile come buono. E gli spiedi e la brace, successiva, neanche: sanificava bene ma via, come poter godere di una pietanza senza che ci si metta almeno un pizzico di sale? Eccezioni a parte, come sempre. Allora quando nasce? Nel libro di un grande antropologo, Marcel Detienne, Dioniso e la pantera profumata è scritto: «Tra l’arrosto e il bollito, entrambi modalità del cotto, corre la stessa distanza che tra il crudo e il cotto. Allo stesso modo in cui il cotto distingue l’uomo dall’animale che mangia cibi crudi, il bollito separa il vero “civilizzato” dal villano, condannato alle pietanze alla griglia. Il bollito viene sempre dopo l’arrosto». Il buon Marcel aveva ragione, ma

fino a un certo punto. In fondo, cuocere farina in acqua per fare una polenta (per millenni, alimentazione base in mezzo mondo), oppure bollire un pollo in acqua (sospetto, inizialmente e per lungo tempo, senza l’aggiunta di cipolla, carota e sedano), non può essere definita «cucina buona», anche se ci avviciniamo. No, per me la cucina diventa buona quando i cuochi impararono due cose: a mescolare ingredienti diversi nello stesso piatto e ad arricchirlo con fondi e salse. Allora nasce la cucina come la si intende oggi. Definire fondi e salse è virtualmente impossibile ma proviamoci. I fondi, termine generico, sono delle preparazioni base, che servono poi ad arricchire i piatti. In linea di massima sono i brodi, i fondi di carni varie e di pesci e crostacei, ma anche essenze varie. Servono a una cosa: dare profondità e spessore a una preparazione. «Fondo» significa due cose. La prima è il liquido denso che si forma in una casseruola con il succo della carne e dei condimenti che vi si fanno cuocere; e serve per lo più, opportunamente lavorato, come accompagnamento del piatto. La seconda, da conserva, sono carni o pesci (il fondo di pesce si chiama fumetto) fatti, si noti, con gli scarti della preparazione che si sta cucinando, ossi inclusi, e verdure rosolate e tostate in forno e poi cotte a lungo, anche 8 ore, in acqua per essere poi filtrate, sgrassate e addensate. Cos’è poi una salsa? È una preparazione, evoluzione del fondo, che serve a dare valore a un piatto, che viene nobilitato anche se è aggiunta una dose piccola. Si fa in mille modi diversi, che ovviamente devono essere coerenti con la preparazione dove sarà aggiunta. Questo detto, di una cosa sono certo: senza buoni fondi e buone salse, la buona cucina non c’è. Sia dato onore al primo cuciniere o cuciniera della storia che, cuocendo l’onnipresente polenta di cereali misti, aggiunse una manciata di erbe cotte e pestate.

csF (come si fa)

ristorantebaracca.it

Allan Bay

Wallpaperflare.com

Gastronomia La triade di principi dell’arte culinaria passa dalla salute al piacere

La sopa coada è una tradizionale preparazione di Treviso: così mi risulta, tanto che mi pare assente nelle altre province venete, se così non fosse chiedo scusa in anticipo. È una saporita zuppa «covata», cioè cotta lungamente a fuoco basso, prima sul fornello e poi in forno, a base di piccione disossato cucinato in umido con fegatini e pane casereccio fritto nel burro. Vediamo come si fa.

Gli ingredienti sono per 4 persone. In una casseruola rosolate 2 piccioni, puliti e tagliati in quarti, con una noce di burro, poi bagnateli, a poco a poco, con 1 bicchiere di vino bianco secco sobbollito per 3 minuti lasciandolo sfumare ogni volta: meglio se è sobbollito, in modo che la parte alcolica del vino, che è acida, sia parzialmente evaporata. Aggiungete 1 mestolo di brodo vegetale, 4 cucchiai di soffritto di cipolla, carota e sedano, regolate di sale e di pepe, coprite e cuocete a fuoco basso per 40 minuti bagnando la carne, di tanto in tanto, con brodo bollente. A 2 minuti dal termine della cottura unite i fegatini dei piccioni, mondati e lavati. Scolate la carne e disossatela, tagliate a metà i fegatini e versate nel fondo di cottura 1 litro di brodo bollente. Friggete nel burro

delle fette sottili di pane casereccio, ponetele sul fondo di una teglia ben imburrata, cospargete con abbondante grana grattugiato (in totale circa 150 g) e bagnate con 1 mestolo del fondo di cottura allungato con il brodo. Formate degli strati alternando la carne di piccione e i fegatini con le fette di pane cosparse con il formaggio grattugiato e bagnate di fondo di cottura. Terminate con uno strato di pane e versatevi sopra il fondo di cottura rimasto unendo ulteriore brodo per coprire completamente il pane. Cuocete in forno a 160° per 1 ora e servite la zuppa accompagnandola con brodo bollente per ammorbidirla. A piacere, sostituite i piccioni con pollo o trippa. Esiste anche una versione di magro preparata con verze, spinaci e uova.

Ballando coi gusti Oggi due piatti di pasta, molto classici, a base di pesce azzurro: per di più conservato, facile da gestire.

Pasta con polpettine di tonno

Pasta ammollicata con bottarga

Ingredienti per 4 persone: 320 g di pasta a piacere · 300 g di tonno sott’olio · 200 g di salsa di pomodoro · 50 g di olive nere · capperi dissalati · aglio tritato · prezzemolo tritato · origano fresco · 1 uovo · 60 g di grana grattugiato · 50 g di mollica di pane · olio di semi · olio di oliva · sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: 320 g di pasta a piacere · 200 g di alici già pulite · 150

Sminuzzate il tonno scolato dall’olio di governo. Bagnate la mollica con poca acqua e strizzatela. In una ciotola unite il pane, il tonno, ½ spicchio di aglio tritato, il grana, il prezzemolo, l’uovo, il pepe e poco sale. Mescolate e ricavate delle polpettine grandi come nocciole. Friggete le polpettine in olio di semi, scolatele su carta per fritti e tenetele da parte. Per il sugo: rosolate l’aglio rimasto nell’olio, unite le olive e i capperi e fate saltare per 3 minuti. Aggiungete la salsa di pomodoro e cuocete per 10 minuti, unendo acqua se necessario. Regolate di sale e di pepe. Cuocete la pasta e scolatela al dente, calatela nel sugo e saltatela brevemente, unendo poca acqua di cottura se necessario. Guarnite con le polpettine, profumate con l’origano e servite.

g di pomodorini · aglio · prezzemolo · pangrattato tostato · olio di oliva · sale e pepe.

In una padella versate 2 cucchiai di olio, rosolatevi le alici e sminuzzatele. Pepate, salate leggermente, profumate con il prezzemolo, scolate e tenete da parte. Scaldate nella padella altro olio e rosolatevi a fuoco vivace l’aglio. Aggiungete i pomodorini tagliati a metà e saltateli, salate e portate a cottura per 4 minuti. Lessate la pasta in abbondante acqua, scolatela al dente, calatela nella padella e saltate a fuoco vivace, unendo acqua di cottura se necessario, alla fine aggiungete le alici e cospargete con 4 cucchiai di pangrattato tostato. Servite con una grattugiata di bottarga.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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ambiente e Benessere

volvo ricaricabili

Motori Dalle vetture elettriche a quelle ibride plug-in, presentata la nuova linea Recharge,

tra i cui modelli spicca la XC 40 T5

Mario Alberto Cucchi Recharge. Con questo termine il costruttore svedese Volvo identifica la nuova linea di vetture elettriche e ibride plug-in. Vale a dire la linea di tutti i modelli della Casa di Göteborg che si ricaricano con il cavo attaccato a una presa. Automobili che in alcuni casi possono viaggiare sempre a zero emissioni mentre in altri hanno la capacità di muoversi senza usare il tradizionale propulsore termico «solo» per qualche decina di chilometri.

XC 40 Recharge si conferma una vera Volvo anche per quanto riguarda la sicurezza attiva e passiva Tra queste ultime troviamo la XC 40 T5 Recharge. Si tratta del SUV di accesso alla famiglia Volvo ma non è certo piccolo. In 4,43 metri di lunghezza concentra tecnologia, sicurezza e potenza grazie all’accoppiata tra motore benzina ed elettrico. Il propulsore termico a tre cilindri da 1477 cc eroga 180 cavalli e l’unità elettrica ne eroga 82, per una potenza combinata di 262 cavalli e una coppia di ben 425 NewtonMetro. Il cambio è un automatico a doppia frizione a 7 marce e la trazione è sempre sulle ruote anteriori. Buone le prestazioni, con un’accelerazione nello scatto da fermo a cento orari che blocca il cronometro in 7,3 secondi. La velocità massima è autolimitata a 180 chilome-

Un motore a tre cilindri da 1477 cc e uno elettrico, per un totale di 262 CV. (volvo)

tri orari per una scelta di Volvo, volta a rendere più sicure le strade. Nel ciclo di omologazione WLTP, le emissioni medie di CO2 sono comprese tra 45 e 55 grammi per chilometro e il consumo medio su 100 km, partendo con le batterie cariche, è tra i 42 e i 50 km con un solo litro di benzina. Attenzione però si tratta di un dato che lascia il tempo che trova. La media reale, con la batteria scarica e sfruttando il solo recupero dell’energia in frenata è molto più bassa. Si tratta comunque di

un buon valore che si attesta su oltre 16 chilometri con un litro di carburante. XC 40 Recharge può percorrere sino a 45 km in modalità totalmente elettrica. In pratica nell’utilizzo quotidiano ci si potrebbe scordare di usare il motore a benzina. Il pieno di corrente si può fare o in 3 ore alle colonnine di ricarica dedicate o durante la notte nel garage di casa collegati a una semplice presa domestica. Ci sono poi i 48 litri di benzina nel serbatoio per avere autonomia sufficiente nei lunghi viaggi.

XC 40 Recharge si conferma una vera Volvo anche per quanto riguarda la sicurezza attiva e passiva. Gli accumulatori agli ioni di litio si trovano sotto il pavimento, nel tunnel centrale, accessibili solo dall’esterno e protetti da una gabbia ad alta resistenza. Una soluzione che tra i vantaggi ha quello di mantenere inalterate le misure dell’abitacolo e la capacità del bagagliaio (460/1336 litri), che restano quelle delle versioni con il solo motore termico. Insomma una tecnologia propulsiva tutta

nuova per una XC40 che nonostante sia sul mercato da qualche anno risulta ancora attuale e moderna nelle linee e nei dettagli come la firma luminosa dei fari anteriori. L’ormai noto martello di Thor. I prezzi della XC40 Recharge partono da 54’700 franchi svizzeri per la meno potente (T4 da 211 cv). Mentre per portarsi a casa la T5 da 262 cavalli basta aggiungere 2000 franchi. Cinquantuno cavalli in più non sono mai costati così poco.

Giochi

vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

cruciverba

oRIzzontalI 1.Pendicidelmonte 5.Diventerannofarfalle 9.Profetadell’AnticoTestamento 10. Èmorto...conicappotti 11.Malvagiainpoesia 12.L’attriceValle 13.Leseparala«S» 14.Profondecavitànellaroccia 16.Grupposportivo 19.Unnumero 20.IlJohndiSylvesterStallone 21.Nomefemminile 23.Finisconoildolce... 24.Sispingeconundito 25.Abbreviazioneintrigonometria 26.CentrodellaBulgaria 27.Neititolidicodadelfilm 28.Regionedell’Africaorientale

In Arabia Saudita, spesso si trovano sugli aerei degli strani passeggeri, sono i…? Trova il resto della frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 6, 5, 3, 2, 6)

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

veRtIcalI 1. Per a Londra 2. L’attrice Argento 3. Amò Ero 4. Le iniziali dell’attore Abatantuono 5. Capo tunisino... di fronte alla Sicilia 6. Vicina al cuore 7. Li seguono in bilico... 8. Famoso quello di Suez 10. Si associa agli altri 12. Desinenza verbale 13. Isola dell’Adriatico 15. Aggettivo possessivo 17. Le iniziali dell’attore Murphy 18. Spiaggia francese 20. Treccia d’agli 22. Diede un figlio ad Abramo 23. Oggetti 25. Auto… inglese 27. Le iniziali dell’attrice Theron Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

sudoku soluzione:

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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CURIOSITÀ SUL KOALA – Il koala ama stare abbracciato agli alberi per… Resto della frase: …ABBASSARE LA TEMPERATURA CORPOREA.

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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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Politica e economia la fase due di Biden Sembrano buone le prospettive per l’economia Usa, anche se i correttivi fiscali non convincono

Guerra di propaganda Cina e Pakistan inventano delle giornaliste occidentali (inesistenti) per contrastare le notizie critiche su quel che avviene nello Xinjiang e nel Balochistan

la nuova frontiera cinese Pechino moltiplica le missioni sulla Luna, sia per orgoglio nazionale, sia per accaparrarsi i suoi metalli preziosi pagina 27

un accordo in stallo Il Consiglio federale resta indeciso sull’accordo istituzionale con l’UE, intanto si pensa a come salvare il possibile

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pagina 31 Manovre navali congiunte fra Stati Uniti, Giappone, India e Australia nel novembre del 2020 . (Keystone)

liquidare la Russia e isolare la cina

Big Game Gli Stati Uniti definiscono le priorità del decennio sullo scacchiere internazionale, rafforzando le alleanze

nel Pacifico e in Europa per aver ragione delle due altre potenze mondiali

Lucio Caracciolo Gli Stati Uniti hanno deciso di buttare fuori pista la Cina entro questo decennio. La Cina ha giocato la carta russa per impedirlo, stringendo una quasi inedita intesa con la Russia. Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale gli americani si trovano quindi a fronteggiare due grandi potenze, la seconda e la terza del pianeta, in una partita che segue ormai la logica di guerra. Somma zero. In questo schema triangolare, Washington ha due opzioni per evitare il possibile scontro contemporaneo con entrambe le rivali. La prima, elementare secondo la grammatica della potenza, è di giocare la più debole contro la più forte: Mosca contro Pechino. La seconda, più rischiosa, sta nel liquidare prima la Russia per poi chiudere il match con la Cina ormai isolata. Soffocandola nel suo angolo di mondo dove, senza più il vincolo con i russi, Pechino sarebbe completamente circondata: lungo i mari dalla linea India-Australia-Giappone teleguidata da Washing-

ton. Per terra da quasi tutti i vicini, India e Russia in testa. È questa seconda ipotesi che comincia a circolare a Washington. E che Biden sta illustrando ai soci atlantici ed asiatici, perché certo da sola l’America non ce la può fare. Le risposte finora avute dai possibili o effettivi alleati sono abbastanza promettenti. Su tutti e prima di tutti, ovviamente i cugini britannici. Global Britain vive in simbiosi con gli Stati Uniti. La strategia geopolitica di Boris Johnson, appena licenziata, presenta quindi un profilo smaccatamente antirusso prima ancora che anticinese. Nella linea della tradizionale, atavica russofobia britannica. Ma con quel pepe in più che il Brexit e il conseguente allineamento totale a Washington impongono. Il «brillante secondo» ha risposto sì all’appello del Numero Uno: pronti a far fuori la Russia, con le buone o con le cattive. Siccome lo scontro antirusso sarebbe tutto giocato in Europa, e più specificamente in quella parte mediana del continente che separa la Germania dalla Russia – sicché nella storia è stata spesso

spartita fra i due imperi – il sì di polacchi, baltici e romeni è particolarmente squillante. Dopo aver inflitto nel 2014 una sconfitta storica a Putin, trovato con la guardia bassa in Ucraina e quindi ormai costretto nel ridotto crimeano e nel Donbas – dove le truppe di Mosca sostengono discretamente i ribelli antiKiev – i paesi della Nato baltica e russofoba sentono prossima la vittoria. Che per loro, come per gli americani, significa la disintegrazione della Russia. Sulle orme del collasso sovietico del 1991. La pressione atlantica, diretta dagli americani e sostenuta dai britannici, si concentra su tre quadranti: Baltico, Nero e Caucaso. Nel Baltico le basi americane e atlantiche sono rafforzate e ancor più lo saranno nel prossimo futuro. Per esempio in Polonia, dove non ci sarà più «Fort Trump» – una base avanzata americana intitolata all’allora presidente della Casa Bianca – ma ci saranno certamente dei «Fort Biden», di nome e/o di fatto. Intanto, per chiarire come stanno le cose, Washington è decisa a interrompere in un modo o

nell’altro il progetto di raddoppio del gasdotto Nordstream, ormai quasi completato. Simbolo della cooperazione sotterranea – nel caso, sottomarina – fra Berlino e Mosca che ogni tanto emerge dai suoi percorsi carsici, e che per Washington come per Varsavia è il Male assoluto. La definizione che l’ex ministro degli Esteri polacco Radek Sikorski diede di quel tubo subacqueo – «gasdotto Molotov-Ribbentrop» – fotografa questo punto di vista. Non per caso Washington ha inviato navi da guerra a pattugliare le acque dove quel vincolo energetico fra Russia e Germania sta finendo di materializzarsi. Sul fronte del Mar Nero, gli ucraini stanno spostando armi e truppe verso il Donbas, mentre i russi stanno facendo lo stesso in direzione opposta e contraria. La tensione attorno alla Crimea ma anche nell’area di Odessa sta salendo. Per terra e/o per mare potrebbero accadere «incidenti» dagli effetti imprevedibili. Con i romeni pronti a farsi valere, e ad accogliere eventuali contingenti Nato (anche per risolvere la loro questione moldova-transnistriana, un

pezzo di Romania che Bucarest considera intimamente proprio, solo provvisoriamente indipendente). Tra Nero e Caucaso, dopo gli scontri per il Nagorno-Karabakh rischia di riesplodere anche la polveriera georgiana. Qui, fra l’altro, la filiera jihadista resta un fattore non trascurabile. Se necessario, americani e altri occidentali potrebbero eccitarla contro Mosca, sulla falsariga dell’Afghanistan negli anni Ottanta. E la Russia? Non va troppo per il sottile. In caso fosse alle strette, Mosca sarebbe pronta alla guerra. Perché ne andrebbe della sua stessa sopravvivenza. Nel frattempo, come da antico costume, si preoccupa di allacciare o riallacciare relazioni proficue con Germania, Francia e Italia, i tre principali paesi continentali, che non hanno mai condiviso la passione antirussa degli ex satelliti dell’Urss. I prossimi mesi ci diranno se questa crescente pressione americana, via Nato, sulla Russia, sarà contenuta o se, magari inavvertitamente, produrrà la scintilla di un conflitto dalle imponderabili conseguenze.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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Politica e economia

Il nuovo paradigma fiscale economia usa Il maxi piano di investimenti stimolerà una crescita che supererà quella cinese,

attualmente surriscaldata – Ma per finanziarli l’Amministrazione Biden intende aumentare le imposte per i ricchi Federico Rampini L’America di Joe Biden è pronta a sottrarre alla Cina il ruolo di locomotiva mondiale, trainando anche la crescita degli altri. Il sorpasso è favorito da una frenata recente nella politica economica cinese: Xi Jinping vuole raffreddare una crescita surriscaldata e ordina alle banche di ridurre il credito all’economia, soprattutto in settori sovra-indebitati come l’immobiliare. È una geografia globale inedita, con un improvviso rovesciamento di ruoli fra le due superpotenze. E la ministra del Tesoro americana Janet Yellen rilancia l’idea di una minimum global tax sulle multinazionali, alla vigilia del G20: oltre alla lotta contro l’elusione fiscale, l’obiettivo è trovare la copertura fiscale per il maxi-piano d’investimenti da duemila miliardi di dollari che Biden sottoporrà al Congresso. È la direttrice generale del Fondo monetario internazionale, Kristalina Georgieva, ad annunciare che il 2021 sarà un anno di «riprese a velocità differenziate». In testa spicca proprio l’America, per la quale si prevede una crescita del Pil del 6,5% cioè superiore perfino a quella cinese. La Repubblica Popolare dovrebbe arrivare seconda, con il +6%, mentre in coda alle grandi economie arranca l’Unione europea con +3,9%. Il segreto dell’eccezionale performance americana sta in diversi fattori: il dinamismo

È la prima volta dal 2005 che il contributo americano alla crescita mondiale supera quello della Cina di un capitalismo che con Big Tech aveva vinto la scommessa dei lockdown nel 2020; l’ottimo andamento delle vaccinazioni (che hanno già raggiunto un terzo della popolazione); infine uno sforzo senza precedenti nella spesa pubblica combinato con la politica monetaria eccezionalmente espansiva. È la prima volta dal 2005, che il contributo americano alla crescita mondiale supera quello cinese. Grazie alle due ultime manovre di spesa (900 miliardi con Trump a Natale e 1900 con Biden il mese scorso) gli Stati Uniti aggiungono 1,5% alla crescita globale. Secondo l’Ocse alla fine dell’anno prossimo l’economia del pianeta avrà 3000 miliardi di dollari di reddito in più solo per effetto delle manovre di spesa pubblica americana, «il che equivale ad aggiungere al mondo una nuova economia delle dimensioni della Francia». I benefici per gli americani sono evidenti nell’ultimo dato dell’occupazione, +917’000 posti di lavoro a marzo. Però dalla crescita americana ci sarà una «fuoriuscita» – sotto forma di importazioni – che arricchirà anche Cina, Unione europea, Giappone. Lo scambio di ruoli fra Stati Uniti e Cina è tanto più significativo se si confronta con quel che accadde dopo la crisi economica precedente, 2008-2009. Allora fu la Cina ad evitare la recessione, e a trainare la ripresa mondiale, grazie ai suoi giganteschi investimenti pubblici in infrastrutture: ferrovie ad alta velocità, aeroporti e porti, rete autostradale, edilizia popolare. È proprio l’eredità di quella crescita trainata dagli investimenti pubblici, che oggi induce Pechino alla prudenza. La banca centrale cinese ha diramato direttive agli istituti di credito perché il volume di nuovi prestiti erogati nel primo trimestre di quest’anno sia eguale o inferiore allo stesso periodo del 2020. Poiché nel mese di gennaio il credito bancario

era aumentato del 16%, per rispettare le direttive dell’autorità monetaria le banche dovranno operare una netta riduzione. La preoccupazione è quella di avere accumulato insolvenze, situazioni aziendali ad alto rischio di bancarotta, soprattutto in quei settori che furono al centro del boom di investimenti dal 2009 in poi. A Washington, al contrario, la parola d’ordine è diventata «emulare la Cina». Biden vorrebbe realizzare un salto di qualità nelle reti infrastrutturali americane, dopo decenni di abbandono e decadimento. Sogna un’alta velocità ferroviaria sul modello della Cina, che ne ha costruita così tanta da fare otto volte il tragitto da New York a Los Angeles. Sogna di fare politica industriale come Xi Jinping, aiutando i campioni nazionali a vincere la gara in settori come l’auto elettrica, i semiconduttori, il 5G. Alla ricerca della copertura fiscale per i duemila miliardi di investimenti, la Yellen punta ad alzare la tassa sugli utili societari dal 21% al 28%. Una global minimum tax servirebbe a impedire quella concorrenza al ribasso fra Stati, che ha fatto il gioco delle multinazionali e ha spinto molte nazioni occidentali a compensare il mancato gettito tartassando il ceto medio. Applausi dal mondo intero, ma anche forti resistenze: le più esplicite proprio negli Stati Uniti. È l’accoglienza riservata alla sua global minimum tax. Fondo Monetario, Commissione europea, e tanti governi dalla Germania alla Francia, hanno subito manifestato appoggio all’idea. La Yellen infatti si unisce ad un’antica battaglia di (alcuni) paesi europei, e di tutte le organizzazioni internazionali (Onu, Fmi, Ocse). «L’economia globale – ha detto la ministra del Tesoro – ha bisogno di condizioni competitive più eque per stimolare innovazione, crescita, benessere». L’obiettivo dell’armonizzazione fiscale è porre fine a quella concorrenza fiscale tra Stati in atto da decenni, con effetti distruttivi: molti cercano di attirare gli investimenti delle multinazionali offrendo regimi fiscali agevolati, alla fine quasi tutti perdono gettito fiscale. Non a caso la Yellen ha rilanciato quest’idea antica proprio quando Biden deve presentare al Congresso una copertura fiscale per il suo piano di duemila dollari d’investimenti in infrastrutture. Le obiezioni più forti vengono all’interno degli Stati Uniti dove è già cominciato il dibattito sulle nuove tasse di Biden. «Vi racconto come va a finire – dice il senatore dell’opposizione Pat Toomey – appena noi repubblicani riconquistiamo la maggioranza al Congresso aboliremo questi aumenti di tasse distruttivi». C’è anche un senatore democratico, il moderato Joe Manchin, contrario ad aumentare il prelievo sulle imprese. Biden non può permettersi defezioni visto che la sua maggioranza al Senato è appesa a un solo voto. Altrove ci sono le resistenze nascoste, che verranno alla luce strada facendo. L’Unione europea include paesi come l’Irlanda e l’Olanda che hanno ampiamente usato la concorrenza fiscale, offrendo aliquote molto basse pur di attirare multinazionali. Non a caso l’aliquota di global minimum tax che si affaccia nelle proposte tecniche dell’Ocse di solito si aggira attorno al 12,5% cioè molto più bassa della proposta americana (21%). Il Regno Unito post-Brexit, che quest’anno presiede il G7, è più vicino alle posizioni dei paesi a basso prelievo fiscale. Intanto uno studio sull’elusione fiscale delle grandi aziende americane rivela che l’anno scorso 55 tra le maggiori imprese non hanno pagato nessuna tassa su 40 miliardi di dollari di profitti. Una novità pericolosa per Biden è

Joe Biden firma il decreto esecutivo sull’economia, che autorizza il piano d’investimenti. (Keystone)

l’annuncio del senatore Manchin, che si opporrà ad abolire il «filibustering». Manchin rappresenta la West Virginia ed è uno dei più moderati nel partito di Biden. Il «filibustering» è un ostruzionismo, consentito dai regolamenti del Senato. Se quei regolamenti non vengono cambiati, le prossime leggi di bilancio richiederanno una maggioranza qualificata di 60 senatori su 100. Poiché i democratici hanno una maggioranza di 50+1, questo li obbligherà a cercare consensi tra i repubblicani, facendo concessioni sul piano di duemila miliardi d’investimenti in infrastrutture e soprattutto sulla sua copertura fiscale a base di tasse sui ricchi e sulle imprese. È in salita la Fase Due di Biden, quel New New Deal che vorrebbe ripercorrere le gesta di Franklin Roosevelt.

Il Fondo monetario internazionale propone una tassa di solidarietà per i più ricchi e per le imprese che hanno tratto profitti eccezionali durante la pandemia Eppure la questione redistributiva resta all’ordine del giorno. Per qualcuno pandemia e lockdown sono stati una

manna dal cielo: i miliardari. La classifica annua dei miliardari mondiali realizzata dalla rivista americana Forbes conferma questo bilancio: gli ultimi dodici mesi sono stati generosi con gli immensamente ricchi, i vincitori che dalla crisi hanno tratto maggiori guadagni. I loro ranghi sono aumentati del 30% aggiungendo 660 nuovi ingressi nel club che ora annovera 2755 membri. Il loro patrimonio complessivo nel marzo 2021 ha raggiunto 13’100 miliardi di dollari ed è aumentato di ben 5000 miliardi di dollari solo nei dodici mesi precedenti, in un periodo che per la maggioranza della popolazione è stato segnato da morti e malattie, disoccupazione e impoverimento. Al primo posto nell’elenco si conferma Jeff Bezos, fondatore e azionista di maggioranza relativa di Amazon. La sua azienda ha stravinto la sfida dei lockdown aumentando al 42% la sua quota del commercio digitale. Al secondo posto Elon Musk di Tesla, seguito da Bernard Arnault (Lvmh), Bill Gates, Mark Zuckerberg (Facebook). L’andamento eccellente di molte Borse tra cui Wall Street, ha contribuito in modo decisivo al loro ulteriore arricchimento. Solo negli Stati Uniti i 400 più ricchi hanno visto la loro porzione del Pil raddoppiare in dieci anni, dal 9% nel 2010 al 18% nel 2020. Di fronte all’ulteriore aumento delle diseguaglianze e alla formidabi-

le accelerazione nella concentrazione di ricchezza, il Fondo monetario internazionale lancia la proposta di una «tassa di solidarietà»: dovrebbe colpire i più ricchi e quelle imprese che dalla pandemia e lockdown hanno tratto profitti eccezionali. Vitor Gaspar, capo della sezione fiscale al Fmi, lancia la proposta ai governi perché «i cittadini percepiscano che tutti contribuiscono allo sforzo della ripresa». Il dirigente del Fmi sottolinea che il 2020 ha impoverito in modo particolare i più giovani e le fasce deboli della manodopera; ricorda il precedente della Germania che aumentò l’aliquota sullo scaglione più elevato di reddito come tassa di solidarietà per finanziare la sua riunificazione. A questa sovraimposta temporanea sui redditi dei più ricchi, secondo l’esperto del Fondo dovrebbe aggiungersene una sui sovraprofitti accumulati nel 2020 da molte aziende. La proposta del Fmi è allineata con i cambiamenti della politica fiscale americana proposti Biden. Qualcosa di simile sta accadendo a livello locale, almeno in quegli Stati Usa che sono governati dai democratici. È il caso di New York, dove il governatore Andrew Cuomo ha concordato con l’assemblea legislativa locale un aumento della tassazione locale sulle imprese e le persone fisiche ad alto reddito, che dovrebbe fruttare 4,3 miliardi aggiuntivi di gettito.


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Idee e acquisti per la settimana

Quando le perdite sono continue...

Superati i 35 anni, una donna su tre ha già esperienza della debolezza vescicale e per la maggior parte di loro il problema si presenta durante o dopo una gravidanza. Ma anche gli uomini conoscono il tema. Le cause della perdita involontaria di urina possono essere diverse. Durante la menopausa sono spesso i cambiamenti ormonali che causano una perdita di tonicità della muscolatura del pavimento pelvico. Per gli uomini la causa più frequente è l’ingrossamento della prostata, che impedisce il normale flusso di urina.

dallo sgocciolamento a un forte stimolo

L’incontinenza può manifestarsi in maniere diverse. Si va da un fastidioso sgocciolamento dopo aver orinato, alle perdite durante sforzi fisici, fino alla vescica iperattiva, dove il bisogno di orinare si manifesta all’improvviso e con forte impellenza. Incontinenza da sforzo

Quando la perdita di urina si verifica al momento in cui si tossisce, si starnutisce o si solleva un peso, si parla di incontinenza da sforzo. Le donne ne sono toccate in maggior numero rispetto agli uomini. La causa è spesso da ricondurre alla debolezza dei muscoli del pavimento pelvico. Sovente questo tipo di incontinenza può anche essere conseguenza di una gravidanza o del parto. Incontinenza da urgenza

L’incontinenza da urgenza è più comune negli uomini. Le persone interessate

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Foto Getty Images

Chi soffre di perdite involontarie continue, il più delle volte non ne parla. E sono in molti a pensare che si tratti di un fenomeno che si presenta con il passare degli anni. Ma non è così

sperimentano ripetutamente un improvviso e particolarmente intenso bisogno di urinare, anche se la vescica non è ancora piena e spesso non fanno in tempo ad arrivare in bagno. Questo bisogno improvviso può manifestarsi con una grande frequenza, anche più volte in un’ora. Incontinenza da sovraccarico

Nel caso di incontinenza da sovraccarico o da sovrariempimento la vescica non può svuotarsi correttamente a causa di un’ostruzione – per esempio la prostata ingrossata, il prolasso dell’utero o la presenza di uno o più fibromi – o di un danno nervoso a seguito del quale rimane eccessivamente piena per un tempo troppo lungo. A ciò fa seguito uno sgocciolamento continuo di urina. consulenza (non sui prodotti; in lingua tedesca) può essere richiesta all’Associazione svizzera incontinenza: inkontinex.ch; tel. 044 994 74 30

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Cosa fare?

4 Suggerimenti

Le perdite urinarie non riguardano solo le persone anziane. La domanda che tacitamente accomuna tutti gli interessati è: e adesso cosa devo fare? Il primo passo dovrebbe essere parlarne con un medico, l’unico che può chiarire le cause delle perdite urinarie e suggerire un trattamento adeguato. Finché le perdite perdurano è consigliabile utilizzare gli appositi prodotti, che garantiscono protezione, di conseguenza sicurezza e benessere. Sono disponibili in una grande varietà, con modelli adatti a tutti i tipi di incontinenza, sia lieve che più grave.

Rafforzare il pavimento pelvico: tramite esercizi mirati della muscolatura del pavimento pelvico è possibile contrastare la debolezza vescicale. Il pilates è tra i generi di attività che offrono tra l’altro un allenamento ottimale anche per i muscoli del pavimento pelvico.

Bere a sufficienza: se i reni non ricevono liquidi a sufficienza, l’urina risulta più concentrata, ciò che irrita la vescica. È quindi necessario bere molto, vale a dire almeno due litri al giorno, anche se si soffre di incontinenza.

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Mangiare sano: alcuni alimenti possono avere un effetto negativo in caso di debolezza della vescica, come per esempio i cibi piccanti, che causano urina piccante, che può irritare la vescica, lo stesso vale per le pietanze acide. Chi ne è sensibile dovrebbe evitarli.

Mantenersi attivi: in caso di incontinenza sono adatti gli sport che rafforzano o almeno rilassano il pavimento pelvico, come per esempio camminare, andare in bicicletta o nuotare. E va considerato che già solo qualche chilo in meno di peso corporeo riduce la pressione sulla vescica.

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Politica e economia

Fake news e false giornaliste

disinformazione Per contrastare le informazioni che in Occidente arrivano sullo Xinjiang e sul Balochistan, i cinesi

e i loro alleati pakistani veicolano notizie false attraverso sedicenti giornaliste occidentali, in realtà inesistenti

Francesca Marino «Il “mio” Xinjiang: fermate la tirannia delle fake news». Il titolo a effetto, spinto con gran rilievo sul sito francese del China Global Television Network, si riferiva a un’intervista rilasciata a CGTN da Laurène Beaumond, una «giornalista freelance con base in Francia». Beaumond, che secondo il network è francese, ha preso due lauree alla Sorbonne e ha «colloborato con tutti i maggiori media francesi», ha vissuto sette anni in Cina, in particolare a Urumqi, capitale dello Xinjiang. E sostiene di non riconoscere affatto, nello Xinjiang descritto dai media occidentali, in cui avvengono persecuzioni ed è in atto un vero e proprio genocidio culturale e fisico, lo Xinjiang da lei sperimentato. «Il mondo è impazzito?» si domanda Beumond, «Campi di concentramento, sterilizzazione delle donne, lavoro forzato, annullamento culturale, genocidio.... Da dove arrivano queste definizioni, riferibili soltanto ai momenti più bui della storia dell’umanità? Che vuol dire questa farsa di processo intentato a distanza contro la Cina, senza alcuna prova concreta, senza alcuna testimonianza valida, da individui che non hanno mai messo piede in questa regione del mondo?». E prosegue descrivendo il suo personale paese dei campanelli in cui «Le persone sembravano felici e sbrigavano le loro piccole incombenze, in silenzio. I musulmani celebrano il loro culto come vogliono e si vestono come vogliono. Le moschee, il Gran Bazar, i mestieri tradizionali musulmani, tutto viene preservato e valorizzato». Assomiglia molto, troppo alla propaganda ufficiale di Pechino e ai tweet di Liljian Zhao, l’attuale portavoce del Ministero degli esteri cinesi quando era all’Ambasciata cinese di Islamabad? Certo, e in effetti di propaganda si tratta. Perché Madame Beaumond, in realtà, non esiste. Di lei non c’è traccia in nessuna redazione francese, all’ordine dei giornalisti locale o sui social media. Madame Beaumond è difatti parte

dell’ultima trovata propagandistica di Pechino: i falsi giornalisti. Anzi, le false giornaliste. Meglio se bionde e occidentali. Negli stessi giorni in cui in Francia, difatti, scoppiava lo scandalo Beaumond, i giornali pakistani erano pieni delle polemiche scatenata dall’account Twitter di una certa Katherine George, di professione: «sportiva, turista, eReader-dipendente e blogger». La bionda signorina George, postando foto entusiastiche di un suo viaggio in Pakistan, lodava la cortesia e il rispetto degli uomini pakistani verso le viaggiatrici in solitaria. La cosa ha scatenato un putiferio a mezzo stampa, in un paese in cui lo stupro e le violenze di genere sono un serio problema. Non c’è voluto molto, al popolo dei social media, per scoprire che le foto postate da «Katherine George» erano false e che la ragazza in posa con la bandiera pakistana è in realtà l’impiegata polacca di un’agenzia di viaggi di Islamabad. Katherine George, come Laurène Beaumond, di nome fa probabilmente Zhao o Li. Perché, al netto delle polemiche sugli uomini pakistani, in pochi hanno notato la cosa più interessante: «#YearOfTheOx Buon anno cinese! Possa quest’anno del BUE portarti un prospero e sano 2021. Kiong Hee Huat Tsai! #China», un tweet, datato 12/02/21 che è uno dei primi tweet dell’account di «Katherine», creato all’inizio dello scorso febbraio guadagnando in pochi minuti 11.9k lettori. Scorrendo la sua timeline si scopre che, oltre agli auguri per il capodanno cinese e alle lodi all’esercito pakistano, tre quarti dei suoi tweet riguardano in realtà il Balochistan e Gwadar, e sono per lo più retweet di un account chiamato Gwadar Pro. Gwadar Pro è un’app, disponibile sia per Google che per Apple, lanciata a marzo 2019 durante il «Gwadar Expo» allo scopo di «collegare Gwadar al resto del mondo» (dopo averlo separato dal resto del Balochistan, ovviamente). L’app offre una serie di utili strumenti: un traduttore inglese-cinese-urdu, un servizio

Il complesso di detenzione per Uiguri di Artux, a nord di Kasghar, Xinjiang. (Keystone)

di biglietti aerei, prenotazione di hotel, tassi di cambio. Ma, soprattutto, offre un servizio di notizie in cui è possibile trovare capolavori come: «Il premier Imran Khan loda la Cina per aver ottenuto una completa vittoria sulla povertà» o «Il popolo pakistano si inietta la speranza con vaccini cinesi». L’app è gestita e sviluppata da China Economic Net e possiede anche account Twitter e Instagram. Gwadar Pro, China Economic Net e Xinhua Service che completa il quadro, sono tutti focalizzati principalmente su Gwadar e sul China-Pakistan Economic Corridor e citano costantemente i reciproci rapporti. Sono tutti gestiti da Pechino, direttamente o indirettamente, così come CGTN, il China Global Television Network. Che ha avuto solo di recente il permesso di trasmettere in Francia dopo essere stata cacciata in malo modo dall’Inghilterra per aver violato le regole dell’editoria locale. Il network, finito nell’occhio del ciclone più di una volta per aver dato voce alla propaganda ufficiale, è famoso per ave-

re trasmesso confessioni forzate a altre amenità del genere. È interessante notare che l’unico altro sito ad avere ripreso e pubblicato integralmente l’intervista alla Beaumond è stato Defence.pk, gestito dall’esercito pakistano. Il principio è in realtà molto semplice: fai ripetere la stessa affermazione falsa da fonti multiple, disparate e «autorevoli» e diventa automaticamente una quasi-verità. Così, mentre la Cina inventa nuove donne occidentali, più credibili di quelle asiatiche a quanto pare, per diffondere le loro bugie sui media e sui social media, i ragazzi «grandi» giocano su di un altro fronte. E sono impegnati in un’offensiva (non tanto) diplomatica in Francia e in tutta Europa. Dopo che l’UE ha approvato sanzioni (anche se molto lievi) contro la Cina per il trattamento degli Uiguri, difatti, il governo francese ha dovuto convocare ufficialmente l’ambasciatore cinese in Francia Lu Shaye perché, via social media, ha insultato e minacciato Antoine Bondaz, l’esperto di Cina della Strategic Research

Foundation a Parigi. E non era la prima volta che sua Eccellenza veniva rimproverato per il suo comportamento. Secondo fonti diplomatiche, inoltre, l’omologo di Lu Shaye a Bruxelles presso l’Unione Europea, avvicinava uno per uno gli ambasciatori di molti Stati con un opportuno mix di velate minacce e di promesse, andando poi a dire in giro che l’Unione è solo apparentemente un fronte unico e che molti Stati, in privato, sostengono la Cina. A cominciare dall’Italia. Un comportamento non proprio da diplomatico di alto livello? Il fatto è che il «guerriero lupo» inventato da Xi Jinping si sta trasformando, visto il fallimento di molte delle sue strategie, giorno dopo giorno in lupo mannaro. Un lupo mannaro convinto a quanto pare che l’Occidente sia il Pakistan e che governo e media occidentali possono essere manipolati con le stesse tecniche adoperate a Islamabad per convincere cittadini e politici della bontà della «pax-cinese». La guerra delle fake news, a quanto pare, è appena cominciata.

alla conquista della luna

cina Mentre la missione americana Artemis è più che altro di facciata, quelle cinesi hanno lo scopo di sfruttare

le risorse del terreno lunare, ricco di metalli rari che servono ai dispositivi elettronici Giulia Pompili Fei Fei è una ragazzina che perde la madre per una malattia. Decide di arrivare sulla luna, dove risiede la dea di cui la mamma le parlava sempre: Chang’e. Inizia un’avventura spaziale in cui si canta e si trova l’amore. Over the Moon – Il fantastico mondo di Lunaria, distribuito cinque mesi fa da Netflix, quest’anno è addirittura candidato agli Oscar come miglior film d’animazione.

Sabbia lunare raccolta da Chang’e 5, esposta al Museo Nazionale. (Keystone)

La trama è semplice e immediata, ma questo film ha qualcosa di simbolico. Anzitutto perché è tra le poche coproduzioni tra America e Cina, e fa parte di quel tentativo di Hollywood di lavorare con la Cina per inserirsi nel mercato cinematografico del Dragone. Ma soprattutto perché è la prima volta che l’America produce un film di celebrazione e di propaganda di Pechino. Da anni il Partito comunista cinese sta cercando di fare quello che ormai parecchio tempo fa faceva la Nasa in America: trasformare le ambizioni spaziali del governo in orgoglio nazionale. Per decenni isolata dalla cooperazione spaziale a guida occidentale, negli ultimi dieci anni la Cina ha accelerato su tutti i suoi progetti al di là dell’orbita terrestre, con enormi investimenti e con l’obiettivo di dimostrarsi una potenza che può fare concorrenza agli Stati Uniti anche nello spazio. Da un lato c’è la capacità tecnologica e di deterrenza, soprattutto su quei componenti definiti dual use, che possono essere usati per scopi civili ma anche di Difesa – per esempio, quando un paese ha la capacità di lanciare un satellite, vuol dire che ha anche un arsenale missilistico adeguato Dall’altro lato, sin dalla Corsa allo spazio durante il pe-

riodo della Guerra fredda, i programmi spaziali hanno assunto significati più estesi: le missioni esplorative ultraterrene vengono accompagnate da retorica trionfalistica e propagandistica e sono l’espressione della competizione tra potenze, ma aiutano anche ad aumentare il nazionalismo interno. In Over the moon la dea della Luna è Chang’e, cioè lo stesso nome che è stato assegnato anche alle missioni sulla Luna dell’Agenzia nazionale cinese per lo spazio (abbreviata in Cnsa). Ma c’è di più. È vero che la comunicazione al grande pubblico passa per il grande schermo, ma a volte sembra quasi che i programmi scientifici cinesi prendano ispirazione dai romanzi di fantascienza. La capacità di Pechino di pensare in grande e in modo visionario è legata al fatto che la leadership autoritaria di Xi Jinping non conosce dissenso ed è il governo a decidere le priorità, senza bisogno dell’approvazione dei cittadini – per fare un paragone, sin dal disastro del Challenger, nel 1986, il budget della Nasa è stato progressivamente ridotto, proprio perché è iniziato a mancare il supporto della popolazione alle costosissime missioni spaziali. Per la Cina ormai non si tratta più di esplorazione dello spazio, ma di co-

lonizzazione. Neanche un mese fa l’agenzia spaziale cinese ha annunciato un accordo strategico con l’agenzia spaziale russa, la potente Roscosmos, che a differenza di quella di Pechino ha un posto nella Stazione spaziale internazionale, il grande progetto post-Guerra fredda di coinvolgimento dell’ex Unione Sovietica negli affari internazionali. La cittadella internazionale per la ricerca scientifica, abitata ininterrottamente sin dal 1998, sta per andare in pensione, e nessuno dei paesi coinvolti (America, Canada, Unione Europea, Russia, Giappone) riesce ad allocare nuovi investimenti per rinnovarla. Al contrario, dal 2013 Pechino lavora al suo «Programma Tiangon», che consiste nell’assemblaggio in orbita bassa di una nuova stazione spaziale a guida cinese che dovrebbe essere operativa entro il 2022. Tiangon è il primo passo verso il vero obiettivo di Cina e Russia: creare una stazione intermedia che permetta di costruire una base operativa permanente sulla Luna. L’International Scientific Lunar Station sarà «aperta alla cooperazione di altri paesi», hanno spiegato in un comunicato congiunto le agenzie spaziali di Cina e Russia, ma la pianificazione, la progettazione, lo sviluppo e il funzionamento

della stazione sarà responsabilità di Pechino. Finora la Cina ha dato prova di grande determinazione nel progetto: nel gennaio del 2019 Chang’e numero 4 ha esplorato il «lato oscuro» della Luna, cioè il lato del satellite che non era mai stato osservato dall’uomo. Neanche due anni dopo, Chang’e numero 5 ha fatto camminare un robot sulla superficie lunare e ha riportato per la prima volta dal 1976 circa due chilogrammi di campioni di suolo lunare. Un passo avanti particolarmente significativo rispetto alla missione Artemis lanciata dall’Amministrazione Trump, che vorrebbe riportare l’uomo sulla luna entro il 2024. Il progetto americano è più un’operazione d’immagine che di sostanza. Mentre per Pechino l’interesse per le missioni lunari ha un obiettivo specifico: le risorse naturali di cui dispone la Luna. In questo momento la Cina ha un sostanziale monopolio della produzione delle cosiddette terre rare, cioè quegli elementi che servono alla costruzione dei dispositivi elettronici. Pechino produce circa il 95 per cento del fabbisogno mondiale. Ma secondo diversi studi scientifici, gli elementi che potrebbero essere estratti dal suolo lunare hanno proprietà molto più vantaggiose rispetto a quelle terrestri.


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Idee e acquisti per la settimana

Dall’alto l’insieme di edifici della Feldschlösschen Bibite SA di Rheinfelden si presenta come un monumentale castello.

non più solo di nicchia La birra senz’alcol soddisfa la tendenza di bibite leggere prive di alcol. Fondato nel 1876, il Birrificio Feldschlösschen di Rheinfelden propone nuove specialità di birra grazie a processi di produzione innovativi Testo Angela Obrist

Chi con l’automobile o il treno passa da Rheinfelden non può non notare il Birrificio Feldschlösschen. L’imponente edificio in mattoni con le sue innumerevoli merlature ricorda subito un fiero castello. Tuttavia, in questo pomeriggio due moderni vagoni ferroviari rovinano un po’ questa immagine idilliaca. Corrono sui binari dell’azienda, che si snodano attraverso il perimetro del birrificio. «È la fornitura odierna di malto», spiega Rüdiger Galm, da 13 anni responsabile dello sviluppo dei prodotti. Con questo tradizionale ingrediente usato da tempo per la fabbricazione della birra qui nella Fricktal si produce anche qualcosa di nuovo: «Le birre senz’alcol sono l’ultima

tendenza, sia a livello nazionale che internazionale», afferma Galm. Il tecnologo alimentarista individua le tendenze e crea nuove bevande per l’azienda. Questo birrificio tradizionale negli ultimi anni si è concentrato sempre di più sui prodotti senz’alcol e oggi propone otto specialità di birra. la domanda continua a crescere

In Svizzera negli ultimi dieci anni la domanda di birre senz’alcol è quasi raddoppiata. Nel 2020, rispetto all’anno precedente, nel nostro paese si è bevuto l’undici percento in più di birra senz’alcol. Una spiegazione per questa tendenza è uno stile di vita più sano e attivo

della popolazione. I prodotti senz’alcol contengono la metà delle calorie rispetto alla birra alcolica convenzionale. «Oggi possiede pure un sapore migliore rispetto a una volta», spiega Galm. «Un tempo la si beveva soltanto se si doveva guidare. Oggi i consumatori scelgono invece in maniera consapevole una variante senz’alcol». Il sapore pieno è dato da ricette e metodi di produzione speciali. Gli ingredienti di origine naturale rimangono tuttavia gli stessi nella birra normale: acqua, luppolo, malto e lievito. E anche la birra senz’alcol è creata nella «Sudhaus», la sala di cottura costruita nel 1908 sull’areale della Feldschlösschen. Qui l’aria è umida, ha un

odore dolce e zuccherino di birra calda. Tra colonne e finestre di vetro colorato alte fino al soffitto, le caldaie per il mosto e i tini di ammostamento sembrano dodici tartarughe giganti che brillano di rame. Il locale è vuoto, ma un ronzio e un brontolio rivelano che sta succedendo qualcosa nei tini da 40’000 litri: il malto sminuzzato viene cotto nell’acqua per la birra (1). Questo fa sì che l’amido si scomponga in zucchero, che più tardi potrà essere fermentato. Il cosiddetto mosto di birra è pronto. «Dentro questo tradizionale involucro di rame si nasconde una tecnica moderna», precisa Rüdiger Galm mentre da una finestrella

guarda all’interno. I mastri birrai non controllano più il processo di birrificazione tramite le decine di rubinetti allineati sulla parete, ma elettronicamente: nella stanza accanto il collega responsabile è seduto davanti a diversi monitor ed ha una panoramica di tutti i valori in tempo reale. Più sapore grazie a nuovi processi

Il mosto di birra passa attraverso le altre caldaie e tini, dove continua a cuocere, viene filtrato e guadagna in aroma. A seconda del tipo di malto scelto per una birra, l’infuso si arricchisce di diverse note gustative. Per esempio, possono ricordare il pane scuro, noci, caramello,


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Foto Daniel Winkler / zVg

L’arte della fabbricazione della birra con cui il birrificio Feldschlösschen produce i suoi prodotti è sia tradizionale che innovativo. Il processo per tutti i tipi di birra, comprese quelle analcoliche, inizia nella «Sudhaus», la sala di cottura. Nelle imponenti caldaie il malto viene cotto con acqua di infusione, fino a produrre il mosto di birra. La dealcolizzazione avviene tradizionalmente in una terza fase, dopo la fermentazione nell’impianto di evaporazione.

ecco come si crea la birra senz’alcol tramite la distillazione sottovuoto Cantina di fermentazione Fermentazione 2

1

caffè o miele. Rüdiger Galm spiega che attualmente il mosto non contiene ancora alcol. Questo si sviluppa solamente nei serbatoi di fermentazione (2). Se si vuole produrre una birra senz’alcol dal mosto, i mastri birrai ricorrono a vari processi: possono ad esempio fermare prima la fermentazione oppure, dopo che essa è avvenuta, rimuovere di nuovo l’alcol dalla birra. «Negli ultimi anni abbiamo potuto ottimizzare il processo, ciò che ha avuto un enorme influsso sul sapore delle birre senz’alcol», commenta Galm. A dipendenza del tipo di birra e del gusto desiderato, viene usato un altro metodo, oppure ne vengono combinati diversi.

Impianto di vaporizzazione Dealcolizzazione 3

Sala di cottura Processo di produzione Cantina di conservazione Conservazione

Alcool*

7 4 6

Impianto di imbottigliamento Imbottigliamento

5 Serbatoio a pressione Conservazione

Linea di filtraggio Filtrazione

*Il Birrificio Feldschlösschen utilizza l’alcool per riscaldare la sala di cottura, risparmiando così 9 910’000 litri di olio combustibile all’anno.


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Idee e acquisti per la settimana

novità senz’alcol 2021 I drink gustosi, naturali e dissetanti del birrificio Feldschlösschen come alternativa alle bevande rinfrescanti convenzionali

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Come responsabile dello sviluppo dei prodotti, Rüdiger Galm conosce tutti i segreti delle ricette per creare le bevande di tendenza a base di birra dell’azienda Feldschlösschen – con o senza alcol.

Nella procedura di contatto a freddo, il mosto di birra viene fermentato a basse temperature, fino al raggiungimento del massimo consentito dello 0.5 percento di volume della birra senz’alcol. Successivamente il mastro birraio rimuove il lievito, e non può più formarsi dell’alcol. «Questo ci permette di ottenere un gusto leggermente dolce, come quello della nostra Feldschlösschen Bianca senz’alcol», spiega Galm. dove l’alcol evapora Feldschlösschen Limone 0.0%, senz’alcol 6 x 50 cl Fr. 10.50

La distillazione sottovuoto è invece adatta alle birre lager. La birra con un normale contenuto di alcol viene messa in un impianto di evaporazione. Essa rimane in un locale che per

motivi di sicurezza rimane chiuso al pubblico. «La birra viene pompata attraverso colonne alte circa undici metri», precisa Galm. Qui viene riscaldata sottovuoto e l’alcol evapora (3). «Grazie al sottovuoto possiamo distillare già a ca. 40 gradi. In questo modo le sostanze aromatiche e il carattere della birra vengono mantenuti», spiega l’esperto che, alla domanda cosa succede con l’alcol estratto, dà una risposta sorprendente: viene impiegato per riscaldare la «Sudhaus». Nel 2020 si sono così risparmiati ca. 910’000 litri di olio di riscaldamento. La birra senz’alcol è ora pronta per la cantina di maturazione (4), dove rimane da due a tre settimane. Dopodiché viene filtrata (5), an-

cora una volta stoccata in un serbatoio a pressione (6) e infine imbottigliata (7), sia in lattina che in bottiglia. Alla fine del processo la birra viene degustata. Sul suo tavolo, Rüdiger Galm ha raccolto le sue creazioni e le fa assaggiare in piccoli bicchieri agli ospiti. Ci sono bevande miste rinfrescanti di birra bianca senz’alcol con aroma di mela o limone, la luppolata e ambrata «Brooklyn Special Effects», oppure ancora la variante senz’alcol per aperitivi «Eve Litchi». «Questa abbondanza di specialità di birra senz’alcol sarebbe stata inimmaginabile solo qualche anno fa», conclude Galm. Il suo sorriso espressivo rivela il desiderio di continuare a sperimentare.

«Una volta le beveva solo chi doveva guidare». Rüdiger Galm responsabile sviluppo prodotti presso la Feldschlösschen Bibite SA


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Politica e economia

accordo quadro con l’unione europea, il governo non riesce a decidere ch-ue Di fronte all’impossibilità di ottenere nuove concessioni a Bruxelles non si prospettano altre vie,

se non quella di conservare ed eventualmente migliorare gli attuali accordi bilaterali

Ignazio Bonoli Chi pensava che il Consiglio federale precisasse, ancora prima di Pasqua, le sue posizioni sui rapporti con l’UE è rimasto deluso. Deluse sono rimaste anche le speranze che aveva suscitato l’intenzione di Ignazio Cassis di spostare le discussioni dal piano tecnico a quello politico. Perciò la Conferenza stampa tenuta dopo la seduta del governo non ha aggiunto nulla a quanto già si sapeva. Si è quindi potuto dedurre che le trattative proseguono, ma che sostanziali progressi sull’avvicinamento alle posizioni svizzere non sono stati fatti. Quindi anche le posizioni di Berna sui tre temi «irrinunciabili», e cioè protezione dei salari svizzeri, aiuti statali alle aziende e questioni istituzionali non sono cambiate. La situazione non manca di sollevare perplessità anche sul piano politico interno. Lo ha precisato anche il presidente della Commissione esteri del Nazionale, il quale ha poi aggiunto che i membri del governo devono smettere di passarsi la «patata bollente», ma sulla base delle richieste devono decidere modifiche all’accordo quadro, oppure – se del caso – avviare le trattative per nuovi accordi bilaterali. Ad ogni modo bisogna ora evitare un’eventuale «escalation» che porti a un peggioramento

dei rapporti con il nostro principale «partner» commerciale. Per questo, da parte di parecchi politici si teme che Bruxelles resterà inamovibile sulle sue proposte, per cui la Svizzera, magari anche con uno sforzo da parte di una maggioranza parlamentare, non supererà in seguito l’ostacolo della votazione popolare. Però, quale alternativa a una rottura degli attuali rapporti con l’UE, Berna non è ancora in chiaro su un eventuale «piano B». In genere si parte dal presupposto che gli attuali accordi bilaterali resteranno in vigore, ma non si sa quale potrebbe essere l’atteggiamento dell’UE di fronte a posizioni svizzere, come ad esempio quella che non voglia più applicare la libera circolazione delle persone. Due motivi potrebbero determinare la posizione svizzera: gli accordi commerciali non favoriscono solo la Svizzera, ma anche la stessa UE. Inoltre l’asse dei grandi scambi commerciali si sta sempre più spostando verso l’America e l’Asia. Quello che però resta ancora un tema importante per la Svizzera è quello degli scambi finanziari con i paesi dell’UE. Qui la Svizzera non ha digerito la discriminazione subìta dalla borsa, dopo un inutile periodo di attesa. Comunque ha confermato la sua voglia di bilaterali nella votazione dello scorso anno sulla libera circolazione delle persone. Ma un’altra piccola arma in

Non sono bastate le doti diplomatiche della Segretaria di Stato Livia Leu per sbloccare i negoziati sull’accordo istituzionale con l’UE. (Keystone)

mano elvetica potrebbe essere quella del miliardo di coesione per i paesi dell’Est, che Berna tiene in sospeso. Il tema di fondo resta però la ricerca di un vasto accordo generale. Tema sul quale si esprimono politici, economisti e anche qualche ex-funzionario federale. Tra questi raccoglie un certo consenso Michael Ambühl, già segretario di Stato e incaricato proprio delle trattative per i bilaterali II. Secondo Ambühl, la Svizzera non potrà più contare sugli attuali accordi bilaterali che subiranno inevitabilmente degli aggiornamenti. In vista di questa «dinamicizzazio-

ne» degli accordi con l’UE appare inevitabile un progressivo avvicinamento al diritto comunitario, con eccezioni per i settori vitali, come la protezione dei salari e anche per taluni aspetti del diritto comunitario. In particolare Ambühl propone di non accettare un’istanza giudiziaria come la Corte europea. In caso di contrasti verrebbe però concesso a Bruxelles il ricorso a misure di compensazione, che sarebbero soggette al giudizio di un tribunale arbitrale. Infine c’è anche chi pensa a un rilancio dell’idea dello Spazio economico europeo (SEE), idea comunque già

bocciata nel 1992 in votazione popolare. Era la soluzione proposta allora a quegli Stati che non volevano un’integrazione politica in Europa. Eviterebbe la ripresa del diritto europeo, ma necessita dell’accordo di tutti i paesi dell’UE. Esigerebbe però una totale integrazione del mercato europeo e quindi potrebbe essere più vincolante dell’assunzione del diritto europeo, poiché prevede già l’accettazione di un’autorità di sorveglianza sovranazionale. Oggi l’idea non incontrerebbe molti favori in Svizzera e forse anche tra i membri dell’AELS, di cui la Svizzera è membro. Un’altra idea, che per il momento sembra però utopica, è quella di un vasto accordo di libero scambio, sul tipo di quello concluso dalla Gran Bretagna. Anche in questo caso è esclusa l’assunzione del diritto europeo. È più moderno di quello concluso dalla Svizzera già nel 1972. Ma la Svizzera è più strettamente legata da altri accordi che la Gran Bretagna (libera circolazione, Schengen/Dublino) che completano gli accordi bilaterali. Qualora un accordo sui punti controversi dell’accordo quadro non fosse possibile, l’alternativa migliore per la Svizzera sarebbe un aggiornamento e un approfondimento degli accordi bilaterali, che non escludano comunque una certa ripresa del diritto europeo, per evitare eccessivi ostacoli commerciali. annuncio pubblicitario

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Politica e economia

l’oro ha perso il suo splendore la consulenza della Banca Migros

Thomas Pentsy

oro penalizzato

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Thomas Pentsy è analista di mercato presso la Banca Migros

Non tutte le classi di asset hanno reagito positivamente ai progressi compiuti nell’affrontare la pandemia dovuta al coronavirus e alle prospettive economiche in via di miglioramento. A differenza dei metalli industriali, l’oro ha perso il suo splendore come investimento sicuro. Ciò si riflette nella domanda del mercato proveniente dal settore degli investimenti. Dopo la svolta nei vaccini, gli ETF sull’oro hanno registrato deflussi in tre dei quattro mesi tra novembre e febbraio. Nel solo mese di febbraio sono defluiti 4,6 miliardi di dollari. Anche se le restrizioni legate al coronavirus continuano a pesare sull’economia, la politica monetaria ultraespansiva delle banche centrali insieme agli immensi pacchetti fiscali sta mantenendo la congiuntura mondiale sulla strada della ripresa. Sulla scia di ulteriori progressi nell’ambito delle vaccinazioni e dell’allentamento delle restrizioni, il pacchetto di stimoli ancora una volta enorme dovrebbe fornire nuovi impulsi all’economia, in primo luogo negli Stati Uniti. In previsione di una forte ripresa economica, i rendimenti obbligazionari a lungo termine sono quindi aumentati, in particolar modo negli Stati Uniti. In combinazione con il rafforzamento del dollaro, questo sta esercitando pressioni sul prezzo dell’oro. Non ci attendiamo alcuna spinta

Oncia troy d’oro in dollari USA Rendimento Treasury Inflation Protected Securites decennale in percentuale (asse destro)

inflazionistica destabilizzante a lungo termine e, di conseguenza, nessuna inversione di tendenza verso tassi d’interesse in forte aumento. La crescita dei tassi reali limiterà il potenziale di rialzo dell’oro. Tuttavia, visti gli alti livelli di debito pubblico, le banche centrali non hanno fretta di aumentare i tassi d’interesse. È probabile che

mantengano la loro posizione espansiva fino a quando la pandemia da Covid-19 non sarà stabilmente sotto controllo. I venti contrari del dollaro si stanno rafforzando sensibilmente, considerati i deficit gemelli degli Stati Uniti. L’aumento della domanda di oro da parte dell’industria gioielliera dovrebbe fornire un sostegno a parti-

re dalla seconda metà dell’anno. Tuttavia, tenendo conto della correzione dei prezzi e del nostro scenario di base aggiustato per i titoli di Stato USA decennali, stiamo abbassando leggermente le nostre previsioni sull’oro. Vediamo l’oro in una fase di consolidamento e ci aspettiamo un prezzo per oncia di 1750 dollari a dodici mesi. annuncio pubblicitario

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Politica e economia rubriche

Il Mercato e la Piazza di angelo rossi diminuzione della popolazione: analisi e ricette Sottolineiamolo d’entrata: che un partito o un’organizzazione economica prenda posizione su una tendenza del medio termine (ossia di un periodo che vada oltre l’anno) è raro. Che lo faccia in un annuncio pagato sul maggiore quotidiano del Cantone è addirittura un caso unico. Fosse solo per questo carattere di straordinarietà il comunicato che la Camera di Commercio e dell’Industria del Canton Ticino ha pubblicato di recente, nel «Corriere del Ticino», per attirare l’attenzione del lettore sui problemi che potrebbe

La pandemia ha avuto un influsso demografico positivo in Ticino.

soluzioni «non sono ottenibili con una bacchetta magica» e men che meno con una legge. Secondo noi per queste ragioni il fenomeno andrebbe analizzato da vicino. Ci si accorgerebbe allora che la diminuzione della popolazione non è una tendenza generale e non ha dappertutto le medesime cause. Vi sono, in Svizzera, Cantoni che, come il Ticino, hanno conosciuto nel corso degli ultimi anni una diminuzione della popolazione. Per esempio il Canton Neuchâtel (si veda il grafico). Ma vi sono anche Cantoni in piena espansione demografica come il Canton Vallese che, guarda caso, confina proprio con il Ticino. Siccome, data l’esiguità del saldo naturale, la popolazione dei Cantoni aumenta, o diminuisce, a seconda del segno del saldo migratorio è sui flussi migratori che deve portare l’attenzione di chi vuole arrestare la diminuzione demografica. A livello dei Cantoni il saldo migratorio, lo si voglia o no, è direttamente collegato con l’evoluzione dell’economia. Se l’economia segna il passo, o è in continua ristrut-

turazione, come è il caso del Canton Neuchâtel, il saldo migratorio è negativo e la sua popolazione diminuisce. Se invece l’economia cresce in modo vigoroso, come nel Canton Vallese, il saldo migratorio sarà positivo e la popolazione crescerà. Nel grafico questa relazione è illustrata dall’evoluzione della popolazione di quei Cantoni tra il 2016 e il 2020. Rispetto alla correlazione tra andamento dell’economia e variazione della popolazione il Ticino costituisce però un’eccezione. Si tratta infatti, come sottolinea l’incipit del comunicato della CCI, di un Cantone a economia fiorente (almeno prima della pandemia) che però, dal punto di vista demografico, si comporta come i Cantoni che hanno perso aziende e posti di lavoro. La spiegazione di questa contraddizione è data dalla continua espansione di quello che il vostro servitore ha definito recentemente, proprio in questa rubrica, come il mercato del lavoro «hors sol». Si tratta di una specificità che, in Svizzera, conoscono solo il Ticino e, forse, il Canton Basilea-città,

ossia quella di soddisfare l’aumento di domanda di lavoro proveniente dall’economia sostanzialmente solo con manodopera non residente nel Cantone, vale a dire con i frontalieri. Con il passare del tempo una pratica del genere non può che portare alla diminuzione della popolazione residente perché non solo il saldo naturale ma anche quello migratorio diventano negativi. Questa evoluzione sembra però essersi rallentata nel 2020. In seguito alla pandemia il numero degli emigranti deve essere diminuito e il saldo negativo del movimento migratorio deve essersi ridotto. Questo spiega perché la diminuzione della popolazione in Ticino si sia ridotta. Nel suo comunicato la CCI propone al Ticino, per combattere lo spopolamento, di adottare le misure con le quali il Canton Neuchâtel lotta contro la perdita di popolazione. Siccome le cause di questo fenomeno in Ticino sono diverse, dubito che le misure che vengono suggerite possano effettivamente contribuire a risolvere il problema.

Marco Follini, l’autore dei migliori libri degli ultimi anni sulla politica italiana, in Enrico Letta vede un misto di Beniamino Andreatta (il suo maestro), Giulio Andreotti (il simbolo della Democrazia cristiana, il partito-Stato della Prima Repubblica) e Gianni Letta, lo zio, da sempre «eminenza azzurrina» di Silvio Berlusconi. Una metafora brillante, quella di Follini; ma un po’ ingenerosa. La Dc era il partito conservatore italiano. In tutte le elezioni politiche cui ha partecipato, dal 1948 al 1992, è sempre stato il primo partito. Il secondo, il Pci, non poteva governare neppure se l’avesse superato: perché in Italia nel 1943 erano arrivati gli americani, i quali non avrebbero mai consentito che un Paese liberato con il loro sangue e i loro dollari finisse nell’orbita dell’Unione Sovietica. Berlinguer lo sapeva benissimo. Essendo condannata a governare, la Dc era diventata un partito-Stato in cui c’era un po’ di tutto, da ex fascisti a sindacalisti della Fim-Cisl molto più radicali dei

comunisti della Cgil. In mezzo c’era una maggioranza dorotea, quindi moderata, e una solida corrente di sinistra. Quando il sistema è crollato, la sinistra Dc si unì a quel che restava del Pci-Pds-Ds, per creare un partito riformista che non fosse unito solo dall’antiberlusconismo. Finora la segreteria è andata come un pendolo da esponenti formatisi nel Pci – Veltroni, Bersani, Zingaretti – ad altri formatisi nella Dc: Franceschini, Renzi, adesso Enrico Letta. Che non è un conservatore; è un centrista con una forte vocazione al governo. Se fosse stato conservatore – come lo era Andreotti – , con zio Gianni in famiglia avrebbe potuto avere tutto lo spazio che voleva in Forza Italia; ma a suo tempo ha fatto una scelta diversa, e non l’ha mai cambiata. In questi sette anni non si è lasciato andare al risentimento, ma essere considerato il nemico di Renzi è diventato paradossalmente per lui un vantaggio dentro quello stesso Pd che l’aveva sloggiato da Palazzo Chigi, e ora l’ha richiamato.

Nel centrodestra, il duello tra Giorgia Meloni – rimasta all’opposizione – e Matteo Salvini – entrato nella maggioranza di governo – si sta facendo sempre più aspro. Il leader della Lega aveva, e avrebbe ancora, un’occasione d’oro per occupare una posizione non centrista ma centrale nello schieramento politico italiano: sostenendo con convinzione l’esecutivo Draghi, abbracciando un’idea di Europa diversa da quella attuale e proiettata nel futuro, isolando all’estrema destra la Meloni; in una parola, entrando nel partito popolare europeo, che bene o male governa l’Europa da decenni. Invece Salvini che fa? Annuncia che si vuole unire ai Conservatori europei. Cioè va a chiudersi nel recinto ungherese e polacco, alleandosi con leader illiberali, xenofobi, irrispettosi delle minoranze, che dal Ppe sono appena usciti o non sono mai entrati. Non capisco perché Salvini lo faccia. Richiamo della foresta? Paura di

perdere voti a destra? La destra vincerà comunque le prossime elezioni, se non altro per la legge dell’alternanza (a parte l’anno del governo gialloverde, è dal novembre 2011 che la destra è fuori da Palazzo Chigi). Ma, come ha teorizzato per primo Giancarlo Giorgetti – ora ministro per le Attività Produttive nel governo Draghi – , la destra difficilmente potrebbe restare al governo su una linea antieuropea e antitedesca. Perché un Paese indebitato fino al collo come l’Italia, che da trent’anni a questa parte cresce poco e male, dell’Europa ha fatalmente bisogno. Quanto a Mario Draghi, vive le sue prime difficoltà. Le vaccinazioni vanno a rilento. Il Recovery Plan ancora non è noto nei dettagli. L’impressione è che debba organizzare riaperture, nel commercio, nella ristorazione, nel turismo: caute, prudenti, ma pur sempre riaperture. Non si può campare per anni di ristori; che oltretutto aggravano il tremendo debito pubblico.

solo di ibridare scuole e tradizioni diverse, ma anche di veicolare una migliore conoscenza della Svizzera italiana: della sua cultura non solo linguistica, dei suoi rovelli e delle sue rivendicazioni, dei dibattiti che la percorrevano e la agitavano. Si riteneva imprescindibile che i futuri insegnanti delle scuole superiori nei cantoni svizzero-tedeschi e romandi potessero toccare con mano la vita agra dei loro «amici del sud», «fratelli» non sempre sereni e spensierati come volevano certi quadretti oleografici. Ad alimentare tale sollecitudine concorreva certamente il clima che si era creato negli anni Trenta e durante la guerra, la difesa spirituale e la mobilitazione delle truppe alle frontiere, fatti che avevano comportato scambi e trasferimenti da un cantone all’altro (da leggere, o rileggere, in proposito i taccuini del soldato Max Frisch). Ora invece sembra che tutto questo, questo bisogno di conoscere l’Altro,

l’esponente di una minoranza, stia venendo meno e che la Svizzera italiana ricada nello stereotipo che l’ha accompagnata per decenni, ossia quella di una terra popolata da un «popolo gaio» ma che non ha molto da offrire oltre al sole mediterraneo che la riscalda. Le notizie provenienti dalla cattedra di italiano da Basilea (pesante decurtazione del monte-ore) annunciano ulteriori sventure per la terza lingua nazionale. Nel frattempo la cattedra di Neuchâtel è sparita nell’indifferenza delle autorità cittadine. Ma la disaffezione inizia già nei ginnasi-licei, anello fondamentale dell’insegnamento e tappa propedeutica per gli studi successivi. Escludere l’italiano già a questo stadio vuol dire eliminare dall’orizzonte culturale del paese una parte costitutiva della sua personalità, scolpita nel tempo dagli svizzero-italiani ma anche dall’ancora numerosa e vivace comunità di origine italiana.

porre la diminuzione continua della popolazione, merita di essere presentato e commentato. Il titolo Una popolazione che spopola lascia un pochino interdetti. Sembrerebbe che gli autori del comunicato vogliano attribuire alla popolazione attualmente residente nel Cantone la colpa della diminuzione della popolazione in atto. Leggendo però il testo del comunicato ci si accorge rapidamente che non è così. I suoi autori riconoscono infatti che il fenomeno in atto è determinato da «dinamiche complesse» e che le

variazione annuale della popolazione nei cantoni ticino, neuchâtel e vallese 4000 3000 2000 Canton Ticino

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Canton Neuchâtel Canton Vallese

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In&outlet di aldo cazzullo contorsionismi politici Dopo i mesi concitati della caduta di Giuseppe Conte e dell’avvento di Mario Draghi, la politica italiana è entrata all’apparenza in una fase relativamente tranquilla, in cui si parla soprattutto di pandemia, vaccini, chiusure e riaperture. In realtà nei partiti, o in quel che ne resta, sta accadendo di tutto. Le due principali forze politiche che avevano sostenuto il governo Conte, i Cinque Stelle e il Partito democratico, hanno entrambe cambiato leader. I grillini hanno assunto come capo appunto «Giuseppi» Conte, come lo chiamava Trump. Più sorprendente è stato il cambio della guardia al vertice del Pd. Le dimissioni di Nicola Zingaretti sono giunte inattese. Già Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna, tramava per prenderne il posto, con l’appoggio esterno di Matteo Renzi. Così i notabili del Pd, con in testa Dario Franceschini, hanno giocato d’anticipo, richiamando dall’esilio parigino l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta.

cantoni e spigoli di orazio martinetti Il destino dell’italiano: la lotta continua Se l’Italia è, come diceva Eco negli anni Sessanta, la «periferia dell’Impero» (americano), noi siamo la provincia, anzi una minuscola marca di confine, di tale periferia. Alcuni preferiscono ignorare questa nostra condizione, di italiani transitati cinque secoli fa nella Lega confederata, come se fosse un’eredità da consegnare agli archivi. Però poi, quando l’Italia si fa promotrice di iniziative originali, che fanno vibrare le corde più profonde – com’è successo nelle scorse settimane con il «Dantedì» – ecco levarsi un coro di lodi, accompagnato da un numero cospicuo di manifestazioni collaterali; ecco che si ritorna a parlare di «italianità», termine da tempo caduto in disuso, scalzato nel dibattito politico dalla «identità», nozione che vanta una miglior presa nel campo della comunicazione e della propaganda. Prima che si facesse strada questo nazionalismo cantonale, appariva naturale considerarsi un ramo della

gran pianta italica. Per rimanere alla letteratura italiana dei primordi, basterà ricordare il contributo agli studi danteschi del bregagliotto Giovanni Andrea Scartazzini. Nato a Bondo nel 1837, morto a Fahrwangen (Argovia) nel 1901, fu considerato nella seconda metà dell’Ottocento uno dei maggiori interpreti dell’opera del sommo poeta, in particolare della Divina Commedia, della quale curò – sia in italiano che in tedesco – diverse edizioni commentate. Pastore protestante in alcune località della Svizzera tedesca, Scartazzini vestì anche i panni del cronista, presenziando al processo sui fatti di Stabio del 1876, lo scontro a fucilate tra liberali e conservatori (il resoconto, redatto in tedesco per la NZZ, è disponibile anche in italiano nelle edizioni Giampiero Casagrande). Scartazzini è tuttora menzionato in tutte le maggiori bibliografie sul poema. E certamente gli va riconosciuto il non piccolo merito di

aver fatto conoscere la Commedia oltre la catena alpina. C’è stato infatti un tempo, non breve, in cui le università elvetiche – tutte, senza eccezioni – dedicavano un notevole spazio all’insegnamento della lingua e della letteratura italiane. Nei confronti di questa componente fondamentale del paese (la «terza Svizzera») c’era premura e si manifestava attenzione, anche chiamando dal Ticino e dal Grigioni italiano docenti qualificati. Ne ricordiamo alcuni del passato: Bonalumi e Lurati a Basilea, Zoppi, Calgari e Besomi al Politecnico di Zurigo, Jenni e Conti a Berna, padre Pozzi a Friburgo, Fasani a Neuchâtel, Roedel, Fontana e Martinoni a San Gallo. I rettorati e i consessi accademici erano consapevoli che ai più bei nomi dell’italianistica provenienti dagli atenei della penisola (De Sanctis, Contini, Isella…) occorreva affiancare alcuni colleghi confederati della minoranza italofona. Il che avrebbe permesso non


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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cultura e spettacoli le introspezioni di ciabatti Nel suo romanzo più recente Teresa Ciabatti si confronta con le proprie insicurezze

la genesi della cappella sistina Il fascino di una delle più importante opere d’arte mai realizzate dall’uomo in un libro che ne svela i retroscena pagina 39

una finestra sulla realtà Visions du Réel, che andrà in scena dal 15 al 25 aprile in versione ibrida, presenta il meglio della cinematografia documentaria pagina 43

pagina 37

Il gioco di orelli

Pubblicazioni Le conferenze di un convegno

dedicato a Giovanni Orelli e tenutosi a Berna alla fine del 2018 raccolte ora in un ricchissimo volume

Stefano Vassere «A pochi giorni dalla scomparsa di Giovanni Orelli, il 12 dicembre 2016 la prima pagina del settimanale “Azione” ricordava colui che per quarant’anni ne era stato il critico letterario più assiduo e prestigioso: un’immagine sorridente dello scrittore, contornato dai libri del suo studio, e un breve saluto (“Professore, grazie”) a celebrare una fedeltà che ha pochi eguali nella cultura letteraria di lingua italiana». Sono le prime parole di un testo di Pietro Montorfani che descrive la lunga collaborazione di Giovanni Orelli a questo settimanale, quantificabile in quasi mille articoli e più di duemila libri recensiti. L’attività pubblica e giornalistica rappresenta uno dei numerosi punti di vista forniti da questo generoso Gioco e impegno dello «scriba». L’opera di Giovanni Orelli: nuove ricerche e prospettive, che trascrive due giornate di riflessione tenutesi tre anni fa nell’edificio storico della Biblioteca nazionale svizzera. Frutto dell’intesa tra l’Università di Berna e l’Archivio svizzero di letteratura, che della Biblioteca nazionale è settore importante, il convegno e il libro accolgono più di venticinque contributi disposti in quattro sezioni dedicate alla letteratura di Orelli, alle traduzioni, a omaggi di amici e colleghi, a uno scrupoloso inventario di una settantina di pagine delle collaborazioni giornalistiche. Si potrebbe dire che la serie di voci di questa raccolta configura una prima complessiva sede di ragionamento sull’opera e sulle opere di Orelli. E certo non si sbaglierebbe, a patto però di prendere in considerazione anche un’altra significativa uscita, e cioè il grosso volume della rivista «Il Cantonetto» stampato in quello stesso 2018 con titolo d’occasione Un insonne della letteratura. Compagni di via in memoria di Giovanni Orelli (qui citato a pagina 219). In questo Gioco e impegno dello «scriba», la strada degli interventi pubblici è una delle non poche novità nell’indagine sullo scrittore. In questo senso, il fondo d’archivio di Orelli anticipa tra l’altro direzioni ancora ampia-

mente tracciabili, che emergono qua e là nel volume: per esempio dalle occasioni fornite da una conferenza tenuta alla fine degli anni Novanta alla Buchmesse di Francoforte su letteratura ed editoria nella Svizzera italiana; o dalle osservazioni sulle tensioni di quell’«angolo di terra, triangolo, cuneo di Svizzera che si inserisce in Lombardia» eppure «frammento di Lombardia andato poi ad agglutinarsi alla Svizzera» (siamo nel 1988, alle Giornate letterarie di Soletta). Ancora, un testo di Daniele Cuffaro ricorda di Orelli la promozione «morale» del progetto universitario ticinese, che, in mezzo a quelle finanziarie e di stretta politica locale, prese la forma di una sacrosanta sezione del «rapporto» al Parlamento cantonale (il numero 4308) in un ormai lontanissimo agosto del 1995. Gli atti portano ovviamente e con scansione sistematica capitoli dedicati alle singole prove letterarie, e atteggiamenti di lettura che altrettanto naturalmente finiscono per toccarne gran parte. Così torna spesso il celebre programma-destino nelle parole dell’Anno della valanga: «giura: non scrivere mai patetiche elegie sul tuo paese che verrà deturpato». Ma, a un livello più attento, chi legge potrà apprezzare, ordinato nel contributo di Massimo Migliorati sul Treno delle italiane, l’elenco degli spunti narrativi principali e la loro distribuzione nei vari romanzi: sono nuclei tematici come la discussione in un bar, il sogno, la vendita delle castagne, la ferrovia, la neve, le donne emigrate, la relazione tra padri e figli. È abitudine di chi sia invitato a rendere conto di rassegne di questa inusuale dimensione invocare, quasi a dare l’impressione di una scappatoia, l’abbondanza degli argomenti e la conseguente impossibilità pratica di richiamarli tutti. È dunque certamente parziale ma anche un po’ risolutivo il rinvio sommario a qualche elemento di novità: l’analisi delle schede elaborate da Orelli nel contesto della giuria del Premio Bagutta curata da Paolo Di Stefano; lo studio di Giovanna Cordibella sulla stesura di radiodrammi e sul rapporto con la radiotelevisione; temi minori ma così insistentemente mani-

Giovanni Orelli (1928-2016) in una foto scatta a Cioss Prato. (ti-Press)

festati nelle varie modalità comunicative come quello esemplare dei nomi di luogo («Un segreto/hanno i nomi di luogo e quelli che per primi il nome han detto»); la lettura filologica, con la quale Rossana Dedola descrive le varianti successive dell’incipit del Sogno di Walacek. Nel quadro della resa disciplinata dei documenti d’archivio inediti rientra in questo libro la restituzione da parte di Fabio Soldini, con tutti i ferri del mestiere («Dattiloscritto di 12 facciate (numerate le pp. 2-12) su fogli bianchi di formato A4, senza titolo né data…»), della conferenza di Vittorio Sereni alla presentazione dell’Anno della valanga, il 29 marzo 1966. Fu «affollata serata pubblica al Liceo di Lugano, come riferirono i quotidiani ticinesi», e «alla fine l’autore intervenne a ringraziare e poi a firmare le copie del libro». Dirà Sereni in conclusione e

prima degli applausi che «libri come questi arrivano un po’ come una sorpresa», soprattutto perché inquadrano una situazione circoscritta, «la propria visione del mondo», risuonando nello stile l’attività della scrittura e le sue necessità. Si è detto dell’imbarazzo nel dovere trascegliere tra temi e piste e della volontà di raccoglierne qualcuno che scarti in un qualche modo dai modi canonici con i quali di Giovanni Orelli si è parlato nei decenni, indicando materie dove sarebbe utile ricercare ancora. Tra queste ultime, due sono dichiarate nel titolo e nella prima pagina dell’introduzione a questi atti: da una parte la «razionale opposizione politica» che informa l’agire nel Paese e dall’altra i punti fermi del gioco e dell’ironia nella produzione letteraria (e forse non solo). Infine, ai molti che abbiano avuto il privilegio di conoscere Giovanni

Orelli, questo libro conferma in numerose pagine due abilità essenziali, che ne arricchirono la produzione e la vita: la formidabile memoria e la capacità di governare un registro linguistico e testuale nel quale, a fronte della continua apertura di finestre tematiche di contorno, ascoltatori e lettori sono con periodicità riportati verso un confortante filo del discorso, recuperato per loro da chi parla o scrive. Una disposizione comunicativa che rivela insomma, tra le molte virtù di Giovanni, un sapiente, civile e vigile rispetto del prossimo. Bibliografia

Giovanna Cordibella e Annetta Ganzoni, Gioco e impegno dello «scriba». L’opera di Giovanni Orelli: nuove ricerche e prospettive, con la collaborazione di Alessandro Moro, Novara, Interlinea edizioni, 2020.



Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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cultura e spettacoli

con la giusta distanza narrativa Nel più recente romanzo di Teresa Ciabatti di nuovo

la questione estetica narrata attraverso le esperienze autobiografiche Laura Marzi Era molto atteso il nuovo romanzo di Teresa Ciabatti che con La più amata (Mondadori, 2017) si è classificata seconda al premio Strega, suscitando però una tale curiosità, da risultare quella che si dice la vincitrice morale nella gara per il riconoscimento letterario più importante d’Italia. In questo suo ultimo cimento Sembrava Bellezza, edito da Mondadori, Ciabatti decide di portare all’interno della narrazione una parte della sua verità. La voce narrante nonché protagonista del romanzo è infatti una scrittrice che ha ottenuto molto successo, almeno così sembra per buona parte del testo, con il suo ultimo libro. Si tratta di una donna che, come l’autrice stessa, dalla provincia è approdata a Roma ragazzina, diventando immediatamente vittima di emarginazione. Con sua madre e suo fratello – abbandonati dal padre – si è infatti trasferita nel quartiere Parioli, famoso per essere la zona di Roma in cui dorme l’alta borghesia. La famiglia della protagonista, però, non può stare al passo con le abitudini parioline, così lei inizia a ingurgitare un senso di inadeguatezza che aumenta proporzionalmente al suo peso corporeo. Ritroviamo allora in questa donna i tratti della protagonista del romanzo La più amata: si tratta in effetti di esperienze che Teresa Ciabatti ha vissuto e che sono dunque autobiografiche. Qui l’insistenza rispetto all’emarginazione classista di cui è stata vittima si sposta su un particolare del corpo interessante, che non è quello del solo sovrappeso: la protagonista di Sembrava bellezza ha un seno decisamente più piccolo dell’altro, tanto che fin dall’insorgere della pubertà, i medici hanno consigliato l’operazione per correggere un’anomalia che sarebbe solo peggiorata col tempo. Già dal titolo, infatti, si comprende come la questione estetica sia centrale nel romanzo e Ciabatti è molto brava a presentarla attraverso un prisma che non illumina solo il corpo, che pure è fondamentale. Infatti, la bellezza che manca alla protagonista del romanzo manca anche alla sua migliore amica dei tempi dell’adolescenza: Federica. La storia prende le mosse proprio da questo incontro che avviene a distanza di trent’anni, quando Federica la ri-

tra i ghiacci dell’Islanda

editoria Un libro originale che obbliga

il lettore a fare delle riflessioni Marco Horat

Teresa Ciabatti è nata a Orbetello nel 1972. (Wikipedia)

contatta per congratularsi del suo successo come autrice e le due ricuciono il loro rapporto che si era interrotto molti anni prima. Federica, appunto, ai tempi del liceo non era affatto bella, anche lei era grassa, però a differenza della protagonista la sua casa e i suoi genitori lo erano, soprattutto a incarnare la perfezione era la sorella di Federica: Livia. Bionda, magra, bellissima, scostante e dispotica: Livia è la regina, senza dover fare alcuno sforzo e suo malgrado. Ciabatti è molto brava a raccontare come tale perfezione non metta al sicuro neanche Livia dal dolore del mondo, dal male che le persone agiscono e subiscono inevitabilmente, qualsiasi sia la loro condizione sociale ed estetica. Nel romanzo a fare da sfondo è proprio questo sentimento di malignità che la protagonista genera intorno a sé, a causa di una meschinità profonda. Non sappiamo se questo tratto della personalità derivi dalla sua esperienza tragica al liceo Mameli di Roma, famoso per essere uno dei più prestigiosi della capitale o se invece, come la protagonista suggerisce, sia da imputare a una tara genetica. Sicuramente Teresa Ciabatti sa raccontare questa banale

bassezza umana, come era già risultato evidente nel romanzo La più amata. La donna protagonista è una persona arrivista, che dichiara apertamente di fingere sempre, soprattutto quando si tratta della sua carriera di scrittrice, che viene descritta come una messinscena totale. A svelare, a porre un limite invalicabile al suo tentativo costante di usare le persone, di costruire rapporti basati sull’assenza di sentimento e verità, però c’è la figlia Anita. È la sua ossessione: vorrebbe ricucire un rapporto devastato dalla violenza che lei ha usato nei confronti della sua bambina, fin da quando era piccolissima. La ragazza, però, a differenza degli altri personaggi, è davvero giovane e non è corruttibile. La grande abilità di Ciabatti è quella di costruire una personaggia protagonista così ripugnante da permettere a lettrici e lettori di mantenere la giusta distanza per osservarla come se fosse una freak, intuendo allo stesso tempo la verità di tutto ciò che racconta. Bibliografia

Teresa Ciabatti, Sembrava bellezza, Mondadori, pp. 201.

Ho cominciato ad amare l’Islanda attraverso la sua letteratura moderna, tradotta anche in italiano: Halldór Laxness (Premio Nobel 1995), Gunnar Gunnarsson, Jón Kalman Stefánsson, Arnaldur Indriðason, per dire di alcuni eredi delle antiche saghe islandesi. Poi c’è stato un viaggio per incontrare di persona quegli immensi paesaggi straordinari raccontati dagli autori, tra ghiacciai, vulcani, geyser, laghi, cascate, aurore boreali, pianure e colline laviche sulle quali si sono allenati i primi astronauti in vista dello sbarco sulla luna; il suo mare declinato in mille fiordi e in sconfinati orizzonti dentro i quali nuotano foche e megattere. Un mondo davvero speciale che si può scoprire anche solo con un giro sull’isola di una decina di giorni. Il paese è piccolo, coi suoi 103’000 chilometri quadrati sui quali vivono poco più di 320’000 abitanti (la metà dei quali concentrati a Reykjavik) ma soprattutto 600’000 pecore e 50’000 cavalli sparsi per le estese campagne disseminate di fattorie! L’Islanda può vantare una lunga storia fatta di lotte con l’ambiente estremo e con gli ingombranti vicini: Danimarca e Norvegia. Il suo Parlamento ha mille anni ed è il più antico al mondo, mentre i coloni guidati da Ingólfur Arnarson, arrivati dal continente nel IX secolo, furono i primi a toccare la costa americana grazie alle loro navi vichinghe. Di Islanda si è parlato quando ci fu il crack finanziario nel 2008 e per la famosa eruzione dell’Eyjafjöll del 2010. Ora arriva questo libro intitolato Il tempo e l’acqua, il cui eclettico autore è Andri Snær Magnason, da tempo impegnato nelle tematiche ambientaliste e nella divulgazione scientifica: «Nel 2019 l’Okjökull è stato il primo

ghiacciaio islandese a perdere il titolo di ghiacciaio. Nel giro di 200 anni tutti i nostri ghiacciai potrebbero seguire la stessa sorte». Questo il suo grido disperato. E se lo dice un islandese possiamo crederci visto che sull’isola vive una delle più ampie superfici ghiacciate della Terra, il Vatnajökull con i suoi 8100 chilometri quadrati, unitamente ad altre decine di ghiacciai. Il tempo delle parole è finito, dice in sintesi Magnason, ora bisogna agire senza perdere nemmeno un giorno: l’aumento delle temperature, l’innalzamento e l’acidificazione dei mari, i fenomeni estremi che vediamo ogni giorno stanno trasformando il mondo come non è mai successo nei millenni precedenti. Nel frastuono generale di informazioni c’è il rischio che queste voci si perdano in un ronzio di fondo che l’autore vuole cancellare lungo una serie di capitoli nei quali si mescolano ricerche scientifiche di attualità, ricordi familiari, dialoghi immaginari con gli antenati; ma anche le saghe islandesi tramandate da generazioni, alcuni incontri con il Dalai Lama e con le antiche culture orientali che scopriamo utili a risolvere anche i problemi moderni, almeno quanto a sensibilità, ricerca dell’equilibrio e rispetto per la natura (vedi la storia di Auðhumla, la mucca universale). Per l’edizione italiana, Magnason ha aggiunto una postfazione di attualità nella quale ricorda tra l’altro come il Covid ci abbia dimostrato che la salute non è una questione individuale bensì collettiva e soprattutto un fatto universale che riguarda anche la salute degli ecosistemi della Terra. Bibliografia

Andri Snær Magnason, Il tempo e l’acqua, Milano, Iperborea, 2020.

Un particolare della copertina di Il tempo e l’acqua.

la tenacia del trapassato remoto

la lingua batte Questo tempo verbale è ormai un oggetto d’antiquariato linguistico. Tuttavia nelle grammatiche

fa sempre e ancora bella mostra di sé Laila Meroni Petrantoni Vogliamo occuparci oggi del trapassato remoto? Per eccellenza il tempo verbale dell’indicativo più carico di polvere e ragnatele? Lo sapete bene anche voi che qui c’è odore di soffitta e di muffa. E sapete già bene che la conclusione è ovvia in partenza, ossia la fine del protagonista, o forse dovremmo dire il suo trapasso. Lascio a voi il primo passo in questo breve testo e vi pongo una domanda: chi di voi, esaurite le lezioni di grammatica italiana ed entrati nel mondo adulto, si è mai trovato a utilizzare volontariamente il trapassato remoto? In classe – almeno fino a pochi anni or sono – durante le interrogazioni con cui il professore usava testare gli allievi sulla coniugazione dei verbi, immancabilmente qualcuno si ritrovava a recitare, tra inciampi di lin-

gua e balbettamenti, il classico «io ebbi mangiato, tu avesti mangiato», eccetera eccetera. Poi nella vita reale? Il trapassato remoto ha la stessa probabilità di entrare nei nostri discorsi quanto l’elettrolisi o il vero ruolo della sala di pallacorda nella Rivoluzione francese. Pazienza, ogni cosa insegnataci con impegno a scuola doveva servire a non farci crescere come bruti, «ma per seguir virtute a conoscenza» (chiedo perdono se la citazione dantesca viene relegata qui a scopi didascalici, non me ne voglia il Sommo Poeta). Diciamocelo, abbiamo recitato il trapassato remoto a comando. Magari abbiamo anche qualche reminiscenza delle regole grammaticali che lo governano: «utilizzato per indicare fatti che si sono svolti immediatamente prima di un momento indicato dal passato remoto», «esprime un’azione avvenuta nel passato, senza più relazione di effetti con il presente», non intercam-

biabile con il più elastico (e simpatico) trapassato prossimo. Ma non perdiamoci fra le regole, oggi. Piuttosto soffermiamoci sull’ef-

Il trapassato remoto, un cimelio da relegare in soffitta? (shutterstock)

fettivo uso che oggi si fa (ancora?!) del trapassato remoto. Anzitutto ormai sopravvive solo nell’italiano scritto, e pure italiano parecchio elevato; inoltre è praticamente sempre relegato alle proposizioni secondarie, quella temporale per essere precisi, come in «quando ebbe capito di aver sbagliato, chiese scusa a tutti e se ne andò». Tuttavia l’impressione è che il trapassato remoto non abbia nessuna intenzione di chiedere scusa per la sua complessità e nemmeno di andarsene del tutto. C’è chi lo ha già liquidato, questo sì. Qualche anno fa il noto linguista Giuseppe Antonelli ha etichettato il trapassato remoto come «fossile grammaticale a tutti gli effetti», definendo irreversibile la sua scomparsa (o meglio, giocando in tipico stile antonelliano, «il suo trapasso») che nessuno piange. Come descrivere meglio di così il destino di questo tempo verbale? Eppure lui, quel trapassato, che

essendo remoto immaginiamo curvo sotto il peso degli anni, non demorde e continua a occupare saldamente il suo posto nelle grammatiche scolastiche (e negli incubi degli studenti), quasi fosse immortale. Quando se ne andrà? Malgrado si guardi al trapassato remoto come a una forma verbale in estinzione, di lui si parla ancora oggi, anche se con lui non si parla più. Certo che a ben guardare il suo destino sembrava scritto fin dalle sue origini, se è vero che il primo significato di trapassato è «trafitto» e pure «defunto». Tremi allora anche il trapassato prossimo? No, lui ce la farà, fosse solo perché molto più malleabile e sempre a suo agio nei nostri discorsi. Non c’è invece più spazio oggi per il trapassato remoto: la nostra è l’epoca del futuro, o almeno del presente. Tutto ciò che è stato – e soprattutto se lo è stato molto tempo fa – interessa forse solo a pochi nostalgici.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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cultura e spettacoli

la rivoluzione della sistina storia dell’arte I retroscena del capolavoro della Cappella Sistina raccontati

difficile tenere testa a Ma Rainey

Emanuela Burgazzoli

Chicago, Blues e conflitti artistici

in un saggio di Antonio Forcellino

La storia raccontata da Antonio Forcellino, restauratore e grande studioso dell’arte del Rinascimento, nel saggio Storia di un capolavoro, comincia a Otranto, la mattina del 28 luglio del 1480. Quel giorno una flotta turca sbarca sulle spiagge degli Alimini con tanto di cavalli e cannoni; su uno dei vascelli Gedik Pascià in persona, uomo di fiducia di Maometto II, conquistatore della seconda Roma autoproclamatosi imperatore ed erede dei romani che ora presentava il conto all’Occidente. Quell’assedio, che si conclude con un massacro, mette di fronte gli stati italiani, in quel momento intenti a farsi la guerra fra loro, alla necessità di allearsi per neutralizzare quella che è una reale minaccia all’integralità territoriale della penisola, ma anche al primato spirituale del papato e quindi della legittimità del cristianesimo come erede della civiltà romana. Questo è lo sfondo storico-politico alla grande impresa artistica della Cappella Sistina, i cui lavori di ristrutturazione ex novo sulle fondamenta della Cappella Magna, erano cominciati tre anni prima, nel 1477 e s’inserivano nel programma di ricostruzione avviato da Sisto IV, fine teologo e dotato di grande energia politica. Proprio nel 1480 – ultimata la decorazione della volta con un cielo stellato – si andava cercando una soluzione per decorare rapidamente le grandi pareti; i documenti attestano la furia e la fretta di Sisto IV che voleva affermare così anche il proprio programma politico e religioso. Inoltre c’era la necessità di sfruttare l’enorme impalcatura utilizzata per decorare la volta. Una prima grande novità sarà quella di affidarsi non a un singolo pittore, ma a un consorzio di pittori reclutati in quello che era il centro dell’arte più avanzato dell’epoca: Firenze. I grandi affreschi alle pareti laterali saranno affidati quindi a quattro grandi nomi: Botticelli, Ghirlandaio, Perugino e

Alessandro Panelli

Cappella Sistina, Creazione di Adamo. (shutterstock)

Cosimo Rosselli. A questo punto il racconto di Forcellino, che attinge sempre direttamente alle fonti, scende nei dettagli svelando i retroscena del cantiere, documentando le logiche economicofinanziarie che stavano dietro a una tale impresa; il compenso degli artisti dipendeva per esempio anche dal numero delle figure affrescate in una singola scena, e sul preventivo incidevano i materiali pregiati, come oro e lapislazzuli, che davano prestigio a un’opera che si voleva propagandistica. Le scelte artistiche erano infatti condizionate anche da aspetti tecnici e materiali come la struttura delle impalcature, la necessità di lavorare senza ostacolare le funzioni religiose, la rapidità di esecuzione richiesta dalla tecnica dell’affresco, che vedrà l’affiancamento di altri pittori – fra i quali Pinturicchio e Luca Signorelli – per garantire anche l’omogeneità stilistica e la continuità narrativa delle «storie». Tutto è teso a razionalizzare l’intero processo produttivo. Il racconto si fa ancora più appassionante con l’entrata in scena di un altro gigante del Rinascimento, Michelangelo: scelto da Giulio II Della Rovere

– papa dal 1503 – per portare a termine un progetto ambizioso, la decorazione della volta della Sistina. Anche in questo caso alla base c’è un preciso intento politico: liberare lo Stato Vaticano dalle mire di eserciti stranieri e glorificare il proprio pontificato. Il papa intuisce che quell’intemperante artista fiorentino «sarebbe stato un alter ego capace di comprenderne le passioni e di tradurle in immagini». La nuova impresa prende avvio fra il 1507 e il 1508, anno in cui Raffaello, che di lì a poco ruberà la scena pubblica all’artista divino, già alle prese con la decorazione delle Stanze Vaticane con la così detta Scuola d’Atene, firma il manifesto della rinascita intellettuale e culturale voluta da Giulio II nel segno di un recupero della mitica età dell’oro. Quando Forcellino svela i retroscena della pittura di Michelangelo, quasi fossimo lì insieme a lui sui ponteggi a qualche centimetro dalle pareti, emerge la sua anima di esperto restauratore che ha lavorato anche al Mosé michelangiolesco. Le forzature anatomiche espressive di quel grandioso racconto di corpi si spiegano con la sfida di dipingere su una

superficie curva e il fatto di dover essere visibili a venti metri dal suolo: elementi che rendevano necessario l’uso dello scorcio prospettivo. Michelangelo rivoluziona il linguaggio pittorico, con una nuova rappresentazione della fisicità corporea, ma anche il rapporto fra committente e artista, ormai divenuto intellettuale conscio del proprio ruolo, anche politico (esige compensi sostanziosi). Raffaello dal canto suo rinnova la tradizione di bottega rinascimentale; la sicurezza del suo genio gli consente di riorganizzare il lavoro dell’atelier puntando sul lavoro collettivo, mantenendo comunque il controllo grazie alla minuziosa progettazione dei disegni preparatori, come nel caso dei fastosi arazzi intessuti d’oro commissionatigli da Leone X per ornare le pareti della Cappella Magna, «diventata ormai luogo di celebrazione della grandezza dei papi moderni ma anche della stessa civiltà cristiana». Bibliografia

Antonio Forcellino, Cappella Sistina, Storia di un capolavoro, Roma, Laterza, 2020.

stiamo tutti con shulem shtisel

netflix È finalmente arrivata la terza stagione della potente serie israeliana Simona Sala «Una dichiarazione d’amore agli esseri umani, ovunque si trovino», così ha definito la terza stagione di Shtisel il suo regista Ori Elon, spiegando che la fortunata serie non vuole di certo essere giornalismo investigativo, opinione politica o studio antropologico. Parole non casuali, se si pensa alle sfide con cui ci si deve naturalmente confrontare nel momento in cui si decide di girare un’intera serie intorno alle vite dei componenti di una famiglia haredi gerosolimitana. Gli ultraortodossi israeliani infatti, per il fatto di rappresentare circa il 12% della popolazione globale del Paese, hanno un peso politico sempre più grande e, agli occhi dei più, controverso, come hanno messo in luce le recenti diatribe relative alle norme restrittive dovute alla situazione sanitaria – particolarmente acuta proprio all’interno delle comunità religiose. Shtisel, appunto, queste questioni le ha lasciate fuori anche nei nove nuovi episodi, realizzati nel vero senso della parola a furor di pubblico, cedendo alle richieste sempre più pressanti di un enorme numero di spettatori in tutto il mondo che, per lo più con il passaparola, avevano imparato ad amare i protagonisti della serie, a partire dal patriarca Shulem (interpretato da un Doval’e Glickman ormai immenso, ca-

netflix Anni 20,

La serie Shtisel nasce dalla creatività di Ori Elon e Yehonatan Indursky.

pace di brillare di luce propria per tutti e 33 gli episodi). A distanza di cinque anni li ritroviamo tutti, o quasi, i protagonisti delle prime due stagioni, compresi il Luftmensch Akiva, ora vedovo e padre, Giti, le cui forza e durezza di carattere sono nel frattempo cresciute e Ruchama, reduce dal successo planetario di un’altra serie dedicata all’ortodossia ebraica, Unorthodox. Nel frattempo il mondo è diventato ancora più veloce, e anche se quello ultraortodosso ebraico resta fedele ai propri principi e alla propria scala di valori, non è più del tutto impermeabile, come dimostra tutta una serie di minu-

scole concessioni che spaziano dall’utilizzo dello smartphone alla scoperta, da parte di Shulem, dell’omosessualità del proprio cardiologo. La grande novità però, che dimostra come grazie alla globalizzazione le rivoluzioni sociali della nostra epoca tocchino indistintamente, sebbene in misura diversa, anche le frange più tradizionaliste del genere umano, è data dal ruolo delle donne, in queste nuove puntate decisamente fondamentale e in un certo senso imprescindibile. Le donne si sono emancipate per quanto loro possibile, e grazie a questo processo prendono la patente di guida, si rivolgono a centri per la fecondazione assistita, lavorano

in radio e gestiscono tavole calde. L’ultima parola è sempre la loro, anche se ai mariti, in una forma di rispetto alla tradizione, lasciano credere il contrario. Per nove puntate si alternano così gustose risate (come quando Zvi Arye viene dimenticato in macchina dalla moglie) e lacrime di tenerezza (soprattutto al cospetto del dolce Akiva, che si aggira di notte per i vicoli della città spingendo la carrozzina, alle prese con una paternità complicata), in un plot capace di catturare dalla prima inquadratura, e grazie a dialoghi che a tratti hanno il potenziale di rimanere impressi per sempre. Sebbene a un certo punto Giti dica al marito, riferendosi a un’amica che le chiede aiuto, «La sua storia è la sua storia. Noi abbiamo la nostra», la storia di questi ultraortodossi haredi è universale, perché le loro difficoltà sono le stesse, e non riguardano tanto la religione, e l’ordinamento del mondo che ne deriva per chi la pratica, quanto il desiderio (reso bene dalla parola inglese longing) di appartenenza che accomuna ogni essere umano. E poco importa la natura di quell’appartenenza (religiosa, familiare, amicale), quanto più la grazia e la profondità con cui in questa serie viene affrontata. La sensazione che ne deriva per lo spettatore è ben espressa dal fantastico Michael Aloni (Akiva), che alla notizia del ritorno sul set di Shtisel ha parlato di un «ritorno a casa».

Ma Rainey’s Black Bottom è un film biografico, drammatico e musicale diretto da George C. Wolfe e prodotto da Denzel Washington. La pellicola è tratta dall’omonima opera teatrale del 1984 di August Wilson e ne mantiene i caratteri estetici e stilistici. La storia parla di Ma Rainey (Viola Davis), la talentuosa e temuta madre del blues degli anni 20, che insieme alla sua band si reca a Chicago per registrare le tracce del suo ultimo album. L’incontro nella città del nord suscita varie diatribe e conflitti artistici tra i membri del gruppo musicale e i tirannici produttori «bianchi» proprietari dello studio di registrazione. Ma Rainey e la sua band non si erano mai spinti tanto a Nord: l’aria nuova che si respira a inizio film pone le basi per i conflitti artistici che si svilupperanno in futuro. Rappresentato da una messa in scena che privilegia una scenografia volutamente «plasticosa» e artificiale, così come una scelta cromatica che trova agio in colori caldi e saturati, Ma Rainey’s Black Bottom è ambientato per quasi tutta la sua durata all’interno dello studio di registrazione, dove monologhi e dibattiti dominano lo sviluppo narrativo lasciando poco spazio ad azioni e virtuosismi tecnici. Questo non significa che sia un film privo di momenti al cardiopalma. Al contrario, Wolfe è stato in grado di immergere lo spettatore in un intrigo tragico riuscendo a sfruttare al meglio il linguaggio cinematografico senza snaturare l’affascinante opera teatrale. Una nota di merito va senz’altro alla performance del cast. Grandi interpreti quali Chadwick Boseman nel ruolo di Levee, tra l’altro nella sua ultima interpretazione prima della precoce scomparsa, e Viola Devis sono i precursori di monologhi eccezionali in grado di innescare nello spettatore momenti di forte coinvolgimento emotivo. Ma Rainey’s Black Bottom, oltre a svelare i meccanismi non sempre trasparenti dell’industria musicale, si prende la libertà di dipingere anche la realtà post-schiavista americana, senza tuttavia cadere in scontatezze e moralismi futili. Al contrario, la constestualizzazione storica è sottile e ben implementata all’interno dell’intrigo. Il vero conflitto che regge l’intero film si basa sulle divergenze artistiche tra Ma Rainey e Levee. Quest’ultimo, molto ambizioso e fortemente intenzionato a modernizzare il genere musicale, entra in aperto contrasto con la rigida volontà della madre del blues e della sua band di mantenerne inalterato il classicismo. In questo scontro entrano in campo anche i produttori «bianchi» che, affamati di ascolti e orientati all’esaudire le esigenze del grande pubblico, tendono a snaturare la cultura afro-americana. La pellicola di George C. Wolfe è senza dubbio uno dei prodotti più interessanti che hanno caratterizzato la scorsa stagione cinematografica.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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Idee e acquisti per la settimana

FResche e attIve In oGnI sItuazIone Dopo aver sofferto in silenzio per molto tempo, ora le donne hanno maggiore facilità a parlare di quello che è il fenomeno più naturale del mondo. Secondo la ginecologa Regula Widmer, ciò permette anche un atteggiamento più positivo nei confronti delle mestruazioni Testo Andrea Söldi

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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Il flusso mensile diventa visibile

Per la cura intima

Quando le donne hanno le mestruazioni si infilano furtivamente un assobente in tasca e spariscono in bagno. Se non possono lavorare a causa dei crampi, danno la colpa all’influenza intestinale. E una piccola macchia rossa diventa per molte una situazione estremamente imbarazzante. Ancora nel 2021 parlare di mestruazioni è inusuale, nonostante le numerose campagne delle attiviste per infrangere il tabù che circonda l’argomento. Come per esempio l’americana Kiran Gandhi, che nel 2015 durante una maratona ha fatto scalpore non curandosi del sangue che fluiva in modo visibile. Così come ha fatto il giro del mondo la fotografia di sei donne spagnole in pantaloncini bianchi dal cavallo intriso di rosso.

Le donne rivendicano

«Lentamente le cose cominciano a cambiare», racconta Regina Widmer, una ginecologa con formazione complementare in fitoterapia, sessuologia e agopuntura. La ginecologa, che lavora nel centro medico Runa a Soletta, è contenta quando le donne chiedono l’abolizione dell’IVA sugli articoli igienici, la possibilità di beneficiare di un congedo malattia o di poter lavorare da casa quando hanno le mestruazioni. «La società, caratterizzata da una visione maschile, deve finalmente riconoscere che le donne hanno un ciclo mensile e rispettare il fatto che il loro rendimento non è sempre uguale», ritiene la dottoressa. È importante che le donne che provano forti dolori possano essere prese sul serio e vengano sostenute.

Una cura intima naturale è importante per prevenire le infezioni vaginali. Questo perché un ambiente acido con un valore pH ottimale minimizza la possibilità di contrarre infezioni. I gel vaginali con acido lattico possono contribuire a ripristinare e mantenere l’ambiente naturale. · Contribuire a ripristinare il valore ottimale del pH nelle parti intime. · Indossare biancheria che può essere lavata a 60 gradi. · Cambiare frequentemente asciugamani e lavette, da lavare a 60 gradi. · Privilegiare assorbenti e salvaslip in materiali naturali. · Quando si va in bagno, pulirsi da davanti a dietro. · Evitare di fare docce vaginali.

Vivere con il ciclo

Infrangere il tabù potrebbe aiutare le donne a trovare una maggiore positività nell’affrontare le mestruazioni, ritiene la 64enne. «Il ciclo mestruale è parte dell’essere donna». Per molte in quei giorni è di aiuto potersi ritirare per prendersi cura di sé stesse, per esempio con una borsa di acqua calda sul ventre e assumendo gocce e tisane contro i crampi.

Prendersi cura delle parti intime

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«La società, caratterizzata da una visione maschile, deve finalmente rispettare il fatto che il rendimento delle donne non è sempre uguale». Regula Widmer (64) Ginecologa


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 aprile 2021 • N. 15

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cultura e spettacoli

l’uomo al centro

un vangelo per i nuovi schiavi

visions du Réel Les guérisseurs, documentario sostenuto

dal Percento culturale Migros, inaugurerà l’attesa kermesse

cinema Le ultime ore di Cristo

e il caporalato nel nuovo film di Milo Rau Muriel Del Don Fino all’ultimo Visions du Réel ha sperato nell’impossibile. Il destino però sembra a volte accanirsi sulle sue vittime (e la cultura ne fa decisamente parte) e anche l’edizione di quest’anno si è dovuta piegare alla situazione sanitaria. La 52esima edizione di Visions du Réel (1525 aprile) sarà ibrida: i film selezionati potranno essere visionati in streaming mentre alcuni ospiti, accolti in uno studio televisivo creato appositamente per l’occasione, si sposteranno fino a Nyon prestandosi al gioco delle interviste e dei dibattiti. Un’edizione ancora amputata del suo pubblico che non ha però intenzione di abbassare il suo livello qualitativo. Visions du Reél continua in effetti a stupire grazie a una programmazione audace che apre gli occhi del pubblico su verità spesso scomode, inaspettate o brucianti, ma necessarie poiché fanno parte del «reale». Numerosi i film svizzeri selezionati, una prova in più della forza di una cinematografia documentaria che non indietreggia di fronte a nulla. Tra questi spiccano, nella Competizione internazionale, The Bubble della giovane regista austriaca ma zurighese d’adozione Valerie Blankenbyl che mette in scena le eccentricità e le incoerenze di una comunità di pensionati in Florida pronti a tutto pur di vivere il loro sogno edonistico e Ostrov – Lost Island di Svetlana Rodina e Laurent Stoop, ritratto poetico ma senza concessioni di una famiglia obbligata a immaginare un futuro tra le rovine di una cittadina sul Mar Caspio. Selezionati nella sezione competitiva Burning Lights ritroviamo invece Way Beyond di Pauline Julier che ci imbarca in un’avventura scientifica tra le mura imponenti del CERN e Dida di Nikola Ilić e Corina Schwingruber Ilić, coraggiosa testimonianza del regista costretto a occuparsi della madre con problemi di apprendimento, mentre Dreaming an

Island del giovane regista ticinese Andrea Pellerani, selezionato nella Competizione nazionale, ci fa viaggiare fino in Giappone, sulla minuscola isola di Ikeshima per assistere a rituali pieni di poesia. Sorprendente e decisamente in sintonia con la crisi sanitaria mondiale che stiamo vivendo, la scelta di proporre come film di apertura Les guérisseurs della regista losannese Marie-Eve Hildbrand. Il lungometraggio, prodotto da Jean-Stéphane Born e Agnieszka Ramu di Bande à part, è interamente sostenuto dal Percento culturale Migros (in collaborazione con la SRG SSR). Les guérisseurs è infatti il laureato 2018 del prestigioso concorso Documentaire-CH che ambisce a sostenere la produzione di documentari svizzeri basati su grandi temi legati alla società. È la prima volta che un film sostenuto dal Percento culturale Migros non solo è selezionato nella Competizione nazionale, ma è anche scelto come film di apertura di un festival prestigioso come Visions du Réel. A questo proposito la regista ci confessa che «quando si è giovani si fanno film a ogni costo, ma crescendo ci si rende conto che avere un sostegno finanziario forte permette di affrontare con più serenità certe tappe cruciali del processo filmico. Ho appena finito il mixaggio e la calibrazione e avere a disposizione una somma come quella ricevuta dal Percento culturale Migros mi ha permesso di occuparmi di dettagli importanti che avrei purtroppo dovuto trascurare se i finanziamenti non fossero stati sufficienti». Il primo lungometraggio di MarieEve Hildbrand colpisce grazie alla forza e alla poesia delle sue immagini, un condensato (deliziosamente) destabilizzante di scienza e umanità, certezze e misteri legati al corpo umano nella sua globalità. Les guérisseurs parla di medicina ma non solo. Il legame tra gli esseri umani filmati dalla regista – saggi, guaritori, medici e pazienti – è valorizzato

Fotogramma dal documentario Les guérisseurs. (visionsdureel.ch)

perché parte integrante del processo di guarigione. La trasmissione di un sapere da una generazione all’altra si trova al centro del film, viaggio a tratti magico nei meandri di quel vasto e indecifrabile mondo chiamato medicina. Les gérisseurs sembra funzionare su tre livelli narrativi: la storia del padre della regista che sta per andare in pensione lasciando il suo studio medico dopo quarant’anni di carriera, quella di alcuni studenti di medicina dell’università di Losanna, divisi tra dubbi e momenti di esaltazione estrema e quella dei guaritori, alternativa a una medicina occidentale che sembra non accettare concorrenti. Ricordando con emozione il lavoro di suo padre e la sua dedizione, la regista confessa: «Mio padre era prima di tutto qualcuno che si occupava degli altri. Mi sono resa conto che il mestiere di medico è uno dei rari mestieri in cui si lavora a diretto contatto con l’umano, con le sue vulnerabilità, le sue fragilità, e questo in una società che basa tutto sulla performance. Il mestiere di medico era una vera vocazione per lui. Nei miei ricordi era un uomo molto occupato. Penso che fare questo film sia stato un modo per esplorare un aspetto di lui che non conoscevo, per osservare il suo quotidiano di medico generalista di campagna». La regista sapeva di tenere tra le mani una pepita: «Per il mio cortometraggio La petite photo des seins de ma mère faite par mon père avevo già collaborato con mio padre quindi sapevo che era un “personaggio da film” estremamente interessante, allo stesso tempo preciso nel suo modo di parlare ma anche abitato da un pudore toccante». A proposito del rapporto fondamentale tra medico e paziente, che con gli anni e i ritmi di lavoro sempre più intensi sembra affievolirsi, Hildbrand afferma: «Quando mio padre è andato in pensione ho dovuto cercare un altro medico generalista e questo mi ha spinto a pormi delle domande sulla medicina. Il rapporto che instauriamo con il nostro medico è molto importante e spesso mi sono trovata di fronte a professionisti che avevano l’aria più stanca di me. È questa constatazione che mi ha spinta a girare Les guérisseurs». Aggiungendo poi: «Penso che il film esplori il mondo della medicina ma che alla fine questo sia un pretesto per capire cosa ci lega gli uni agli altri e in cosa questa relazione può essere benefica o nefasta. Una delle domande che ha sorretto il film è stata capire cosa significhi curare». Attraverso personaggi toccanti e luminosi, il film ci permette di osservare un sistema sanitario che non smette di rigenerarsi, confrontato con un’umanità sempre più complessa e multisfaccettata.

Simona Sala Che Milo Rau, giornalista, saggista e regista bernese, classe 1977, non temesse le sfide, è cosa nota da tempo. Che solitamente ne esca vincente, anche, come dimostrano l’adorazione di pubblico e critica – la lista dei premi vinti per le sue produzioni è ormai impressionante tanto quanto l’elenco delle città che l’hanno invitato a rappresentare le sue controverse opere. Questa volta però, con il suo Das Neue Evangelium, si ha quasi l’impressione che Rau abbia voluto spingersi ancora un po’ più in là, costringendo spettatrici e spettatori a specchiarsi nel proprio concetto di religione e nella sua rappresentazione. Il risultato è una docu-fiction difficile da raccontare, per la complessità che la contraddistingue, ma anche per l’intimità e la connotazione politica dei temi tirati in ballo. Il film si apre a Matera, dove sul tetto di un edificio Milo Rau spiega a Yvan Sagnet le particolarità della città, che con le sue pietre bianche e quel promontorio ricorda tanto Gerusalemme e il Golgota: luoghi che, non a caso, prima di lui ispirarono Pier Paolo Pasolini nel 1964, che vi girò Il Vangelo secondo Matteo, e Mel Gibson nel 2004, che scelse la location per La Passione di Cristo. È dunque chiaro da subito che si cercherà, anche se con modalità a quel punto non ancora svelate, di raccontare una nuova Passione, al passo con quelli che sono i nostri, di tempi, e di conseguenza i nostri nodi irrisolti. Poco più avanti si viene infatti catapultati in un mondo parallelo, eppure tutto italiano, in cui pullulano e sopravvivono nel vero senso della parola gli ultimi degli ultimi, i reietti senza voce, coloro che la società ignora e respinge, ma che Cristo apertamente prediligeva. Con sensibilità e attenzione, Rau ci proietta infatti all’interno della realtà del caporalato, dove la manodopera (quasi esclusivamente di provenienza africana) costa appena 4,20 euro lordi all’ora, e dove assistenza sanitaria, dignità e umanità, non sono che un concetto lontano, quantité assolutamente négligeable. Yvan Sagnet, attivista e scrittore camerunense, assurto agli onori della cronaca per il suo impegno nella lotta al caporalato nelle regioni meridionali d’Italia e per la fondazione dell’Associazione NoCap, non poteva, a questo punto, essere un Gesù Cristo più ideale, non da ultimo proprio in virtù di quella sua provenienza dal continente

africano. Sagnet-Cristo girerà di baracca in baracca e di campo di pomodori in campo di pomodori, raccogliendo, oltre a un gruppo di discepoli da portarsi appresso, anche i racconti di fatica e disperazione di chi passa la vita chino sui campi altrui, spinto dalla mera necessità di sopravvivenza, obbligato a rinunciare alle speranze lungamente coltivate e nutrite fino al momento dell’approdo in Italia, finta Terra Promessa. Parallelamente (e spesso in un intreccio inestricabile) procede la ricostruzione delle ultime ore di Cristo, narrata con tristezza quasi ironica dall’inconfondibile voce di Vinicio Capossela (interprete anche delle canzoni che accompagnano il film) e contrappuntata da personaggi che sarebbero molto piaciuti a Pasolini, primo fra tutti Marcello Fonte, che avevamo imparato ad amare in Dogman di Matteo Garrone e che qui interpreta Ponzio Pilato, ma anche Enrique Irazoqui, attore, attivista e intellettuale, che nel Vangelo Secondo Matteo interpretava Gesù Cristo, e che purtroppo è scomparso lo scorso mese di settembre. A Rau riesce la sorprendente operazione di chiamarci in causa tutte e tutti, indistintamente, da una parte come portatori dei valori cristiani, dall’altra come consumatori di quei pomodori che sono il vergognoso frutto di sudore e sangue. come vedere il film

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20% 5.75 invece di 7.20

Tutti i gelati con la foca e affini surgelati, in coppette e confezioni multiple, per es. gelati da passeggio alla panna alla vaniglia, 12 x 57 ml

LO SAPEVI? Il baklava è un dolce formato da tanti strati sottilissimi di pasta che vengono impregnati di sciroppo di zucchero e farciti con una miscela di noci. Nel sud-est dell'Europa e nel Medio Oriente se ne trovano tantissime versioni: ogni cultura ha la sua ricetta tradizionale. I baklava d’isponibili alla Migros contengono solo noci (nella confezione da 600 g) o noci, pistacchi e nocciole (nella confezione da 800 g).

20% Baklava Bujrum con noci e pistacchi, per es. noci, 600 g, 4.75 invece di 5.95

Migros Ticino

20x PUNTI

Novità

1.95

50% 12.– invece di 24.–

Frozen Yo Nature M-Classic prodotto surgelato, 170 ml

Hit 5.–

Millefoglie con glassa di zucchero bianca in conf. speciale, 6 pezzi, 471 g

conf. da 3

Branches Milk Frey, UTZ in conf. speciale, 50 x 27 g

33% 5.– invece di 7.50

Petit Beurre con cioccolato al latte o fondente, per es. al latte, 3 x 150 g


Con deliziosi pezzet ti di me ringa e sal sa all'albic occ a

PUNTI

PUNTI

Novità

Novità Crème de la Gruyère, meringues & abricot Crème d’Or

3.70

prodotto surgelato, 200 ml

Gelato alla vaniglia Crème d'Or bio prodotto surgelato, 180 ml

Novità

Novità

Novità Gelato al cioccolato Crème d'Or bio prodotto surgelato, 180 ml

20x

3.50

Espresso doppio Crème d'Or prodotto surgelato, 200 ml

Cookies & Cream Crème d'Or prodotto surgelato, 200 ml

PUNTI

conf. da 3

Novità Biscotti prussiani di spelta con burro bio 100 g, confezionato

–.60 di riduzione

Tutti i biscotti Tradition per es. cuoricini al limone, 200 g, 2.70 invece di 3.30

Migros Ticino

3.50

20x

PUNTI

2.40

okie sc uri

PUNTI

PUNTI

PUNTI

Con pe zzet tini di co

20x

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3.70

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3.50

Con aut entica vaniglia Bourbon bi

30% 5.75 invece di 8.25

25% 4.95 invece di 6.60

Novità

Gomme da masticare M-Classic disponibili in diverse varietà, per es. Spearmint, 3 x 80 g

3.50

Almond Salted Caramel Crème d'Or prodotto surgelato, 200 ml

50% Graneo Zweifel

Chips M-Classic

in conf. XXL Big Pack, Original e Mild Chili, per es. Original, 225 g

alla paprica e al naturale, in conf. speciale, per es. alla paprica, 400 g, 3.– invece di 6.–

Offerte valide solo dal 13.4 al 19.4.2021, fino a esaurimento dello stock


Scorta

Per l’appetito che sorge all’orario di chiusura Pe r g raaaa una ndi ss fame! ima

Hit 5.95

20% Tutta la pasta, i sughi per pasta e le conserve di pomodoro bio

Mezzelune M-Classic Ricotta e spinaci o con manzo, in conf. speciale, per es. ricotta e spinaci, 800 g

(prodotti Alnatura esclusi), per es. cornetti fini, 500 g, 1.55 invece di 1.95

20%

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Tutti i cereali in chicchi, i legumi, la quinoa e il couscous bio

Noci e noci di anacardi Sun Queen

(prodotti Alnatura esclusi), per es. lenticchie rosse, 500 g, 2.– invece di 2.50

in conf. speciale, per es. noci, 400 g, 9.30 invece di 11.65

Fonte di prote ine con 7 v itamine e fe rr o

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conf. da 2

31% 8.95 invece di 13.–

Migros Ticino

conf. da 2

30% Sofficini M-Classic

Caffè La Semeuse Mocca

surgelati, al formaggio, agli spinaci o ai funghi, per es. al formaggio, 2 x 10 pezzi, 2 x 600 g

in chicchi o macinato, per es. in chicchi, Fairtrade, 2 x 500 g, 16.70 invece di 23.90

Novità

5.20

Kellogg's Special K Protein Berries, Clusters & Seeds 320 g


Bevande cc o di 3 1% di su cc he bio ba f rut ta da

G us t o i

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20% Tutti i tipi di senape e di maionese nonché tutte le salse per grigliate e i ketchup M-Classic per es. maionese Original, 265 g, 1.20 invece di 1.55

20% Tutte le bevande Biotta non refrigerate per es. mirtilli rossi Plus, 500 ml, 3.80 invece di 4.80

20% Tutti i tipi di olio e aceto bio (prodotti Alnatura esclusi), per es. olio d’oliva greco, 500 ml, 6.– invece di 7.50

conf. da 4

20% Conserve di verdura svizzera o purea di mele svizzere M-Classic disponibili in diverse varietà, per es. insalata russa, 4 x 260 g, 4.80 invece di 6.–

a partire da 2 pezzi

20%

20% Tutte le minestre Bon Chef per es. zuppa con vermicelli e pollo, in busta da 65 g, 1.20 invece di 1.50

Tutti i succhi freschi bio refrigerati

31%

per es. arancia, 750 ml, 2.70 invece di 3.40

Tutto l’assortimento di zuppe Dimmidisì per es. minestrone di verdure, 620 g, 3.40 invece di 4.95

conf. da 4

30% 2.80 invece di 4.–

Migros Ticino

20% Zucchero fino cristallizzato Cristal

Tutto l'assortimento di confetture Favorit

4 x 1 kg

per es. bacche di bosco, 350 g, 2.95 invece di 3.70

20% 1.80 invece di 2.25

Tutto l'assortimento Vitamin Well per es. Reload, 500 ml

Offerte valide solo dal 13.4 al 19.4.2021, fino a esaurimento dello stock


Bellezza e cura del corpo

Affaroni per pelle e capelli quot idiana ia z i l u p a l Pe r se n si b i l i de l le pe l li

20x PUNTI

Novità

Tutti i prodotti per la rasatura e la cura del viso Bulldog per es. crema idratante Sensitive, 100 ml, 8.90 a partire da 2 pezzi

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Tutto l'assortimento pH balance

Prodotti per la cura dei capelli Syoss

(confezioni multiple e confezioni da viaggio escluse), per es. gel doccia, 250 ml, 2.60 invece di 3.20

per es. shampoo Volume, 2 x 440 ml, 6.75 invece di 9.–

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20% Sun Look per es. Ultra Sensitive Face Cream IP 50, 2 x 50 ml, 14.70 invece di 18.40

conf. da 2

25% Prodotti per la cura dei capelli Gliss Kur Total Repair balsamo o shampoo express, per es. balsamo express, 2 x 200 ml, 8.70 invece di 11.60

conf. da 2

25% Prodotti per lo styling Taft per es. spray per capelli Ultra, 2 x 250 ml, 5.40 invece di 7.20

orig inale a l e c s i m a ol Cont e ng oni di Bac h Re sc ue ® di fior

20% Tutto l'assortimento Sun Look (confezioni multiple escluse), per es. Light & Invisible IP 30, 200 ml, 10.55 invece di 13.20

a partire da 2 pezzi

20% Tutto l'assortimento per l'igiene intima femminile e l'incontinenza (sacchetti igienici esclusi), per es. Molfina Bodyform Air, confezione, 46 pezzi, 1.35 invece di 1.65 Migros Ticino

15%

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Tutto l'assortimento Rescue®

Tutte le mascherine in tessuto

per es. pastiglie arancia, 50 g, 5.85 invece di 6.90

per es. Community Mask grigia, con motivi decorativi, il pezzo, 3.45 invece di 6.90


Fiori e giardino

Colore, gioia e gusto

CONSIGLIO DEGLI ESPERTI

Hit 9.95

Hit 7.95 Migros Ticino

Meraviglia di tulipani M-Classic mazzo da 20, disponibili in diversi colori, per es. gialli, gialli e rossi, rossi, il mazzo

Phalaenopsis, 2 steli vaso, Ø 12 cm, disponibile in diversi colori, per es. rosa, il vaso

Annaffia le erbe aromatiche regolarmente, ma evita i ristagni. Le foglie secche vanno eliminate con costanza. Se le erbe formano fiori si può lasciarli come nutrimento per insetti, o tagliarli, dato che la fioritura può ridurre la crescita.

20% 3.95 invece di 4.95

Erbe aromatiche bio vaso, Ø 13-14 cm, per es. basilico, il vaso

Offerte valide solo dal 13.4 al 19.4.2021, fino a esaurimento dello stock


Varie

Scorte di prelibatezze Hit 6.95

Hit 3.95

Vaschette di alluminio Tangan n. 54 28 x 22 cm, 16 pezzi

set da 2

42% Tazza in porcellana con soggetto limone, 400 ml, il pezzo

20x

59.95 invece di 104.90

set da 10

Padelle Titan Cucina & Tavola a bordo basso Ø 20 cm e 28 cm

Hit 3.95

Clip di chiusura grandi motivo con frutta

PUNTI

Novità

Latte Mibébé bio latte di proseguimento 2 o 3, per es. 2, 500 g, 11.95

Hit

Hit 12.95

Una die ta variata pe r gatti adult i

Lanterna solare con pile, argento/blu, il pezzo

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20% Alimenti per gatti Exelcat in confezioni multiple, per es. top mix teneri bocconcini, 24 x 85 g, 11.95 invece di 15.–

disponibili in blu o verde, numeri 36-45, per es. blu, n. 43, il paio

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Novità

7.95

Clogs unisex

20x

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conf. da 24

14.95

Novità

Terrina classica Cesar 8 x 150 g

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Snack Oskar con pollo o con manzo, per es. manzo, 400 g


e r t at t o p i l n Ide aci a c o nt i r f i a l i me e p u l e s c on g l i

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40% Carta igienica Soft, FSC Supreme alla camomilla, Comfort Pure und Deluxe Sensitive, in confezioni speciali, per es. Supreme alla camomilla, 32 rotoli, 15.– invece di 25.05

Salviettine igieniche umide Soft

Assortimento di prodotti disinfettanti e detergenti Dettol

Deluxe, camomilla o aha! Sensitive, per es. Deluxe, 3 x 50 pezzi, 4.55 invece di 5.70

per es. salviette disinfettanti, conf. da 60 pezzi, 5.95

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a partire da 2 pezzi

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Tutto l'assortimento Handymatic Supreme (sale rigeneratore escluso), per es. All in 1 in polvere, 1 kg, 3.95 invece di 7.90

conf. da 7

Hit 9.95

Novità

11.95

invece di 16.40

Potz Power System detergente per griglie e forno, 2 x 500 ml

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12.95

in conf. multipla, per es. Florence, 2 x 1,5 l

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Hit disponibili in bianco, turchese o grigio chiaro e in diverse misure, per es. turchese, numeri 23–26

invece di 13.–

Ammorbidenti Exelia in busta di ricarica

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Fantasmini per bebè

23% 10.–

Calzini da uomo John Adams disponibili in diversi colori e numeri, per es. neri, numeri 43–46

14.90 invece di 19.80

Calzini per il tempo libero Puma nero, n. 35–46, per es. n. 39-42

PUNTI

set da 6

Novità

7.95

Snack al pollo per cani adulti Oskar 8 x 20 g

Hit 5.95

Cartoline di auguri, FSC disponibili in diversi motivi, 12 x 12 cm

33% 6.85 invece di 10.25

Tipp-Ex Mini Pocket Mouse 3 pezzi

Offerte valide solo dal 13.4 al 19.4.2021, fino a esaurimento dello stock


Bontà d’Italia a prezzi seducenti.

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Novità

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Fettine di pollo M-Classic Svizzera, per 100 g, offerta valida dal 15.4 al 18.4.2021, in self-service

Aperitivo Crocchette di Mozzarella olive Galbani 200 g a partire da 2 pezzi

italiana ’ l l a o t s u Il g a! raddoppi

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Tutta la pasta Garofalo non refrigerata e i sughi per la pasta Garofalo per es. fusilloni, 500 g, 2.35 invece di 2.90

30% Tutto l’assortimento di barrette ai cereali Farmer per es. Soft Mora & Mela, 9 pezzi, 234 g, 3.– invece di 4.30, offerta valida dal 15.4 al 18.4.2021

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25% La Pizza 4 stagioni o Margherita, per es. 4 stagioni, 2 x 420 g, 11.50 invece di 15.40

20% –.95

invece di 1.20

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Tutto l'assortimento Terme di Crodo per es. Mojito Soda, 330 ml

50% Aproz 6 x 1,5 l o 6 x 1 l, per es. Classic, 6 x 1,5 l, 2.85 invece di 5.70, offerta valida dal 15.4 al 18.4.2021

Offerte valide solo dal 13.4 al 19.4.2021, fino a esaurimento dello stock


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