Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Il DNA dei Neanderthal svelerà che cosa rende unici gli esseri umani: le ricerche del biologo molecolare Svante Pääbo
Ambiente e Benessere Ogni anno si registrano avvelenamenti causati da erbe selvatiche: Tox Info Suisse riceve in media 2800 chiamate all’anno per le sole piante e, di queste, oltre 2mila riguardano bambini
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 8 aprile 2019
Azione 15 Politica e Economia Sparizioni forzate nel Pakistan di Imran Khan: la denuncia di Amnesty
Cultura e Spettacoli Un ricordo dell’intellettuale Plinio Martini nel 40esimo anniversario dalla morte
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Sconfitte passeggere o qualcosa di più?
Brexit, psicodramma in molti atti
di Peter Schiesser
di Cristina Marconi
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Keystone
All’indomani delle elezioni cantonali di Lucerna e Basilea Campagna, precedute dalle cantonali di Zurigo, la situazione è chiara: l’Unione democratica di centro è in crisi. Lo riconoscono anche personalità di spicco del partito. Quando si scende dal 30 al 25 per cento (circa) in un colpo in tre cantoni, è più che logico interrogarsi sulle possibili cause e suonare il campanello d’allarme. Perché, anche se l’UDC resta il principale partito in Svizzera e in numerosi cantoni, simpatizzanti e avversari una domanda se la pongono: è cominciato il declino del partito politico che negli ultimi 30-40 anni più di altri ha determinato la politica nazionale e i nostri rapporti con il resto dell’Europa? All’indomani delle elezioni a Zurigo, vista la consistente crescita di Verdi e Verdi liberali, si è posto l’accento soprattutto sul tema «clima». E le elezioni a Lucerna e Basilea Campagna hanno rafforzato questa ipotesi, avendo premiato anch’esse i partiti ecologisti. Tuttavia, non basta la rilevanza di questo tema a spiegare interamente la crisi in cui è scivolato il partito di Blocher. Innanzitutto, perché non c’è o è molto lieve il travaso di voti dall’UDC ai Verdi o Verdi liberali, quindi se gli uni guadagnano percentuali di voto e seggi e gli altri ne perdono è perché i primi riescono a mobilitare più dei secondi il proprio elettorato di riferimento (ricordo che in tutt’e tre i cantoni citati la partecipazione al voto è stata fra il 33 e il 40 per cento, quindi ogni voto pesava di più). E questa è una notizia negativa per un partito che della capacità di mobilitare e di saper parlare alla gente ha fatto la sua caratteristica. Seconda notizia negativa, che deriva dalla prima: se i propri elettori non sono andati a votare, vuol dire che l’UDC non ha saputo determinare il dibattito pubblico, ciò in cui da decenni è maestra; questa volta l’insistenza sui temi Europa, stranieri, rifugiati, libertà, autodeterminazione, non ha scaldato gli animi, il tema principe – i cambiamenti climatici, anche in Svizzera – era un altro, e chi dirigeva il coro qualcun altro. La reazione del capo supremo, Christoph Blocher, è stata rapidissima, forse troppo. A riprova che pur senza cariche istituzionali la sua parola continua a dettare legge, è bastato un suo intervento al comitato cantonale all’indomani delle elezioni zurighesi per spingere alle dimissioni collettive l’intero ufficio presidenziale dell’UDC zurighese. Al posto del moderato Konrad Langhart è stato eletto il giovane e semi-sconosciuto Patrick Walder, soldato di partito di solida fede blocheriana, affiancato da qualche vice-presidente con maggiore esperienza politica. I pesi massimi del partito zurighese hanno declinato, e già questo dimostra che questa volta la risposta di Blocher è stata un po’ troppo rapida. E troppo frettolosa è anche la conclusione secondo cui la causa delle sconfitte elettorali sta nell’assenza di personalità e posizioni «profilate» (un tempo si diceva aggressive), in un rammollimento del partito. Logico quindi che nella corsa per un seggio zurighese al Consiglio degli Stati alle federali di ottobre venisse nominato il pirotecnico Roger Köppel, consigliere nazionale e soprattutto direttore del settimanale «Weltwoche» e non il più posato Alfred Heer. Eppure, alle cantonali zurighesi sono stati eletti soprattutto gli esponenti moderati. E se poi a Lucerna e a Basilea Campagna perdi voti non solo nei centri ma pure in campagna, vuol dire che stai perdendo appeal presso la tua base tradizionale, quella contadina – che non riguadagni con un intellettuale di destra come Köppel. Nel 1977 Christoph Blocher assunse la presidenza della sezione zurighese dell’UDC (la mantenne fino al 2003), trasformando un sonnecchiante partito borghese-contadino in un’agguerrita macchina di consensi che spaziava dall’area contadina a quella neoliberale-conservatrice, Cucinare influenzando fortemente gli equilibri con ispirazione politici nazionali. Se la crisi dell’UDC diventasse strutturale, vorrebbe dire Sette ricette raffinate per una che Christoph Blocher sta diventando Pasqua colorata troppo vecchio per la Svizzera di oggi e di domani.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Attualità Migros
Una scuola su misura per te Formazione L’offerta personalizzata della Scuola Club di Migros Ticino
C’è stato un tempo in cui i prodotti – dall’utilitaria al frigorifero, a cui accedevano per la prima volta nuove fasce di popolazione – erano pensati e realizzati «in serie». Uscivano in grandi quantità da quel luogo di omologazione che era la fabbrica, beni tutti uguali per raccontare di una nuova uguaglianza. Quel mondo è ormai alle nostre spalle. Oggi ciò che cerchiamo è la differenza, l’originalità. Vogliamo prodotti e servizi pensati su misura per noi, proprio come vestiti di alta sartoria. Questa grande rivoluzione ha investito inevitabilmente anche il mondo della formazione. La Scuola Club di Migros Ticino ha tradotto questo grande cambiamento con il criterio della «personalizzazione»: è la persona, con le sue esigenze e i suoi bisogni, il metro e la bussola per l’ideazione e l’erogazione di ogni proposta formativa. La personalizzazione alla Scuola Club si realizza anzitutto attraverso la pluralità delle formule – a cui corrispondono obiettivi e tempi differenziati di apprendimento – che consentono di poter scegliere tra tantissime soluzioni quella che si adatta meglio alle disponibilità di ciascuno. Un secondo aspetto non meno significativo ha a che fare con l’approccio didattico scelto che in aula si traduce con un’attenzione speciale – da parte di docenti appositamente formati – alle diverse modalità di apprendimento di ciascun partecipante. L’attenzione ai bisogni del singolo raggiunge il suo apice nelle lezioni one-to-one. Qui il formatore è a completa disposizione del suo interlocutore per disegnare per lui e con lui una road-map di apprendimento personalizzata. I risultati ottenuti confermano
che questa opzione risulta particolarmente efficace nei percorsi di preparazione agli esami di lingue, così come
nello sviluppo di competenze nel campo dell’IT, dal primo approccio all’uso del tablet ai programmi più sofisticati.
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Fitness Last Minute in 3 Step
1. Verifica la disponibilità sul nostro sito o chiama la sede più vicina a te. 2. Iscriviti alla lezione che desideri. 3. Vieni e divertiti! Entrata singola: Fr. 18.–.
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Aule, Aule IT, Fitness, Cucina, Event room, Atelier Rivolgiti alle nostre segreterie per un preventivo personalizzato o consulta il nostro sito www.scuola-club.ch Bellinzona 091 821 78 50 Locarno 091 821 77 10 Lugano 091 821 71 50 Mendrisio 091 821 75 60
Vivi una giornata senz’auto
slowUp Ticino La manifestazione dedicata alla mobilità sostenibile
torna domenica 14 aprile: Migros Ticino propone vari spazi speciali Dopo il grande successo dello scorso anno (con 42’000 partecipanti), slowUp Ticino torna domenica 14 aprile 2019. Dalle 10.00 fino alle 17.00 un circuito di 50 km tra Locarno e Bellinzona verrà interamente chiuso al traffico motorizzato per permettere ai partecipanti di spostarsi tranquillamente in bicicletta, coi pattini, a piedi o con altri mezzi senza motore. Lungo il tracciato saranno presenti 16 punti di animazione (due in
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
più dello scorso anno), la maggior parte dei quali gestiti da associazioni ricreative locali che proporranno anche servizi di ristoro. Oltre a questi non mancheranno le aziende agricole presenti sul percorso, che apriranno le loro porte ai partecipanti e organizzeranno attività per i più piccoli. Il percorso resta simile a quello dello scorso anno e attraverserà i comuni di Locarno, Muralto, Minusio,
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Tenero-Contra, Gordola, CugnascoGerra, Cadenazzo, S. Antonino e Bellinzona. Migros Ticino provvede a divertenti soste lungo il percorso: nella zona Famigros, l’area dedicata al Club per famiglie Famigros, delle sedie a sdraio permettono di rilassarsi mentre i bambini giocano sul maxi scivolo e con i cestini per la spesa. Tutta la famiglia può mettersi in posa nella borsa gigante della Migros per una foto. Vale la pena fare una sosta anche nella zona Generazione M. Ci sono fantastici premi immediati in palio per chi partecipa al gioco M-Check e abbina rapidamente i marchi e le informazioni sulla sostenibilità ai giusti prodotti e per chi pesca quanti più pesci sostenibili nel divertente gioco a tema. Non perdete il concorso! Il primo premio consiste in un volo in mongolfiera per 4 persone. Nelle officine SportXX ci sono i palloncini, i premi immediati della ruota della fortuna. In caso di guasti a biciclette, rimorchi o pattini in linea, i professionisti di SportXX vi rimettono in pista. Per informazioni: www.slowUp.ch. Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
Oggi la vita è complicata. Tenere insieme i tempi del lavoro o di studio, della famiglia, della mobilità non è gioco facile. Obiettivo della Scuola Club è rendere la formazione il più possibile accessibile a tutti. Questo vale anche per la salute. Da qui la nascita di una formula particolarmente smart per incentivare il movimento e il benessere: l’entrata singola. Hai scoperto di avere un’ora libera? Raggiungici in palestra! Basta una telefonata per annunciarti. La logica della personalizzazione ha infine portato la Scuola Club a mettere a disposizione anche la sua dotazione strutturale attraverso le possibilità dell’affitto. La disponibilità di aule ampie, luminose, moderne
e ben attrezzate e il supporto di segreterie attente e disponibili consentono di rispondere in modo flessibile ed efficiente a quelle organizzazioni che necessitano di appoggiarsi a spazi centrali e ben serviti per la realizzazione di propri eventi e meeting. Se pensiamo alla crescente mobilità e originalità dei percorsi di vita e di lavoro c’è da aspettarsi una tendenziale crescita della individualizzazione dell’offerta formativa. Tuttavia sarà la capacità di mettersi davvero in dialogo con la persona, con le persone, oltre ogni strumentalità, a fare la differenza. Una competenza che la Scuola Club di Migros Ticino raffina ogni giorno.
Nel labirinto di stoffe colorate
Installazione Allo Spazio Lampo di Chiasso
un intervento artistico di Stéphanie Baechler, fino al 15 aprile L’associazione Grande Velocità di Chiasso organizza ogni anno delle attività espositive nello Spazio Lampo, un atelier di coworking situato in Via Livio 16 a Chiasso. I progetti sono tenuti in concomitanza con i grandi eventi culturali organizzati a Chiasso. In particolare, in occasione del recente Festival di cultura e musica jazz, è stata inaugurata allo Spazio Lampo l’installazione Striated space di Stéphanie Baechler, un’artista romanda che si ispira per le sue creazioni a materiali e tecniche legati al mondo della confezione sartoriale e dell’industria tessile. L’artista ha realizzato all’interno dell’atelier una sorta di labirinto, usando tessuti recuperati da una fabbrica di camicie e «avviluppando» il locale di Chiasso. I visitatori quindi sono invitati ad immergersi in questa proposta giocosa e ad interagire con lo spazio modificato in questo modo. L’installazione, realizzata con il sostegno del Tiratura 102’022 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
L’artista all’interno della sua creazione. (Aline d’Auria)
Percento culturale di Migros Ticino sarà visitabile fino al 15 aprile. Orari di apertura ogni martedì dalle 9.30-12.30 / 13.30-15.30 o su appuntamento chiamando il +41 76 679 80 03. Per informazioni: spaziolampo.tumblr.com. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Società e Territorio Escursionismo 45 anni fa mosse i primi passi l’Associazione Sentiero Alpino Calanca
Più fiducia, migliore protezione Autorità di protezione: in Svizzera da alcuni anni è attivo KESCHA, il Centro svizzero di ascolto e assistenza del minore e dell’adulto pagine 12-13
Archiviare, ma come? Il riordino dei documenti conservati da associazioni locali richiede nozioni di base a livello archivistico, un corso aiuta ora ad orientarsi pagina 15
pagina 7 I ricercatori Richard Roberts, Vladimir Ulianov e Maxim Kozlikin pianificano la campionatura dei sedimenti in una camera della grotta dei Denisova, Russia. (IAET SB RAS / Sergei Zelensky)
L’antropologia dei genomi perduti
Evoluzione Che cos’è che rende unici gli esseri umani? La risposta nel DNA dei Neanderthal e dei Denisova Lorenzo De Carli Cinquantamila anni fa non eravamo i soli umani sulla Terra, con noi c’erano i Neanderthal, l’Homo di Denisova e probabilmente un’altra specie. L’età della nostra specie è di circa 200’000 anni. Siccome l’uomo di Neanderthal apparve più o meno 400’000 anni fa e si estinse circa 30’000 anni fa, è chiaro che – dal punto di vista dell’evoluzione – siamo una specie relativamente giovane. L’uomo di Denisova (dal nome di alcune grotte dei Monti Altaj in Siberia), anch’esso più longevo di noi, si separò dall’uomo di Neanderthal circa 300’000 anni, e ci fu anch’esso accanto per varie migliaia di anni. La svolta negli studi sulle specie umane è stata data nella metà degli anni Novanta dal biologo molecolare svedese Svante Pääbo, che per primo si dedicò all’esame sistematico del DNA antico, allo scopo di ricostruire genomi di specie estinte. Direttore del dipartimento di Genetica evoluzionistica del Max Planck Institute di Lipsia, fu nel 2006 che Pääbo annunciò di avere in programma la ricostruzione dell’intero patrimonio genetico dell’uomo di Neanderthal. Sulla rivista «Science», nel maggio di nove anni fa, Pääbo e i suoi colleghi pubblicarono una sequenza sperimentale del genoma dell’uomo di Neanderthal.
Il racconto della lunga ricerca che ha condotto Pääbo a sequenziare il DNA dei Neanderthal e dei Denisova è narrato nel suo libro intitolato L’uomo di Neanderthal. Alla ricerca dei genomi perduti. È sulla base di questo lavoro d’indagine condotto tra la metà degli anni Novanta e il decennio successivo che gli studi sui genomi antichi hanno potuto conoscere l’accelerazione che caratterizza l’odierna ricerca in questo campo. La prospettiva che guida la ricerca di Svante Pääbo è antropologica. Fondando il suo dipartimento presso il nascente Max Planck Institute di Lipsia, il biologo svedese voleva rispondere a una sola domanda: «che cos’è che rende unici gli esseri umani?». Rispetto ad altri studiosi di specie umane estinte, Pääbo, però, non va alla ricerca di manufatti, di sepolture, di iscrizioni o altro, bensì alla ricerca delle differenze del nostro genoma rispetto a quello di altri ominini, con il duplice scopo di ricostruire l’albero delle specie umane, e di individuare quelle mutazioni genetiche che hanno permesso alla nostra specie di sviluppare le abilità adattative che le hanno consentito, in soli 50’000 anni, di lasciare l’Africa e raggiungere ogni angolo della Terra. Quando cominciò le sue ricerche sul genoma dell’uomo di Neanderthal, Pääbo non era affatto convinto che
questo avesse lasciato traccia nel nostro DNA, nutrendo il forte sospetto che, nonostante la stretta convivenza per alcune migliaia di anni, esemplari di Sapiens Sapiens non si erano mai accoppiati con i Neanderthal – o comunque non con quella frequenza che avrebbe potuto causare un flusso di geni fra le due specie. I risultati del sequenziamento del DNA mitocondriale estratto da ossa di Neanderthal nel 1997, avevano rafforzato Pääbo nel suo scetticismo: il DNA degli organelli (i mitocondri) delle nostre cellule dimostrava che il comune antenato a tutte le popolazioni umane oggi sul pianeta, risalente ad un periodo compreso tra i 200’000 e i 100’000 anni fa (la cosiddetta Eva mitocondriale), è più recente dell’antenato che abbiamo in comune con l’uomo di Neanderthal, il quale, quindi, si trova su una differente diramazione dell’albero evolutivo degli ominini. Sennonché, Pääbo sapeva che la sua analisi non poteva limitarsi al DNA mitocondriale: occorreva sequenziare il DNA contenuto nel nucleo delle cellule. Mentre il Progetto Genoma umano stava giungendo a compimento, producendo con regolarità nuove mappe del nostro genoma, il problema che Pääbo e il suo gruppo dovettero affrontare era l’estrema fragilità del DNA antico. Il Progetto Genoma studiava il corredo genetico di una specie vivente;
ben altra questione era poter accedere al DNA di una specie estinta. Negli anni Novanta c’era chi favoleggiava sul DNA dei dinosauri o su quello degli insetti conservati nell’ambra: il riesame di quelle indagini, invariabilmente, dimostrò che i ricercatori stavano studiando DNA contaminato e non quello di specie estinte. Il problema è che, dopo la morte di un organismo, il DNA si deteriora rapidissimamente. Il gruppo di Pääbo giunse a produrre la prova di un flusso di geni dai Neanderthal alla nostra specie alla fine del 2009, sequenziando DNA nucleare. Il risultato lasciò senza parole l’intera comunità scientifica: i Neanderthal avevano, sì, dato un contributo genetico agli esseri umani moderni, ma solo a quelli fuori dell’Africa. Secondo l’ipotesi di Pääbo, ciò era stato possibile perché, avendoci i Neanderthal preceduti nell’uscita dall’Africa, li incontrammo nel Medio Oriente in un periodo fra i 100’000 e i 50’000 anni fa. In quelle zone, fummo a lungo in contatto con loro, permettendo in tal modo uno scambio di geni tra le due specie di ominini e ottenendo il risultato che, oggi, il 2,5% del DNA delle popolazioni che vivono fuori dell’Africa è neandertaliano. In questa parte di DNA, per esempio, ci sono i geni che codificano per rendere bianca la pelle e quindi più efficiente nella produzione di vitamina D nelle
zone lontane dall’equatore. Nella migrazione lungo le coste orientali per raggiungere la Melanesia incontrammo poi i Denisova, i geni dei quali sono presenti in una misura che varia dall’1,9% al 3,4% nei melanesiani di oggi. Negli ultimi cinque anni, da quando cioè lo studio dei genomi antichi ha conosciuto una forte accelerazione, alla domanda «che cosa ci rende umani?» non sta solo rispondendo la paleontologia genetica di Svante Pääbo ma anche una nuova antropologia che non ha ancora un nome e che, provvisoriamente, potremmo chiamare «antropologia genetica», la quale si prefigge lo scopo di descrivere le peculiarità della nostra specie, non solo studiandone il genoma rispetto a quello di altri ominini o di altri primati, ma anche di riprodurre in laboratorio tessuti di specie estinte. Si sviluppa in questa direzione il più recente lavoro di ricerca di Svante Pääbo, il quale ha annunciato che intende produrre organoidi, partendo da cellule staminali contenenti geni neandertaliani, con l’obiettivo di creare piccole reti neurali: «vedremo se possiamo trovare delle differenze nel funzionamento delle cellule nervose che possano costituire la base delle capacità cognitive “speciali” degli esseri umani» – e, forse, comprendere che cosa, nel nostro cervello, ha fatto di noi la specie dei «soppiantatori».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Idee e acquisti per la settimana
La colomba ai marroni
Attualità Una specialità artigianale della Mesolcina che con la sua avvolgente dolcezza regala
una Pasqua all’insegna dell’originalità
I buongustai non vedevano l’ora che tornasse e ora eccoli finalmente accontentati: la colomba ai marroni canditi è nuovamente disponibile per il periodo pasquale sugli scaffali dei negozi di Migros Ticino. Il dolce è prodotto a Lostallo, nel laboratorio artigianale del panettiere-pasticcere Gianfranco Cuoco. Ma cosa rende questo prodotto particolare? «Innanzitutto l’utilizzo di ingredienti attentamente selezionati, ciò che permette di ottenere il migliore risultato finale», spiega Gianfranco, che ha fondato la sua azienda nel 1997 e oggi, tra laboratorio a Lostallo e negozio a Mesocco, impiega una decina di collaboratori. «Fondamentale è poi il “savoir-faire” artigianale dei miei colleghi panettieri-pasticceri che assicura un prodotto di una qualità costantemente elevata». Prima di poter godere della sua bontà, la colomba ai marroni necessita tuttavia di almeno 36 ore di lavorazione. «La parte iniziale della preparazione – continua Gianfranco – prevede il rinfresco del nostro lievito madre naturale, operazione che avviene in quattro fasi distinte. Dopo aver ag-
Giovanni Barberis
Il panettiere-pasticcere Gianfranco Cuoco.
Colomba ai marroni 500 g Fr. 20.–
giunto a quest’ultimo una parte degli ingredienti, l’impasto così ottenuto subisce una prima lievitazione della durata di circa tredici ore. Passato questo lasso di tempo, si aggiungono i restanti ingredienti. Infine, dopo aver pesato e riempito gli stampi, dovrà lievitare ancora 3-4 ore. Le colombe
verranno poi infornate a 180-200 gradi per circa quaranta minuti, affinché i marroni possano sviluppare tutta la loro dolcezza». Un’altra importante particolarità della colomba ai marroni è l’impiego di burro d’alpeggio, un pregiato prodotto a base di latte di montagna che contribuisce al suo
aroma caratteristico. Per gustare appieno la particolare delicatezza della colomba ai marroni, Gianfranco Cuoco consiglia di conservarla in un luogo fresco e portarla a temperatura ambiente almeno un’ora prima di assaggiarla. Oltre alla colomba ai marroni, ricor-
diamo che nei supermercati Migros Ticino sono disponibili anche altre specialità artigianali della Svizzera italiana, nella fattispecie la colomba classica da 500 g e 1 kg della Buletti di Airolo, la colomba al gianduia Dolce Monaco di Losone e la colomba classica Poncini di Maggia.
Puro salmone alpino
Novità Il salmone fresco Swiss Lachs allevato in Mesolcina è ora disponibile ai banchi del pesce delle filiali Migros
di Locarno, Serfontana, Lugano, Agno e S. Antonino
Filetto di salmone svizzero fresco con pelle 100 g Fr. 5.20
Che ne direste, per il Venerdì Santo (ma non solo), di portare in tavola una pietanza a base di una specialità ittica locale? Per soddisfare i desideri dei buongustai che cercano qualcosa di esclusivo, ai banchi del pesce è stato introdotto il filetto di salmone fresco da allevamento svizzero. È a Lostallo, piccolo villaggio del Grigioni italiano, che da qualche anno si è insediata la Swiss Alpine Fish, dinamica azienda attiva nell’allevamento di salmoni. I più rigorosi standard qualitativi svizzeri in materia di allevamento e i trasporti brevi assicurano una freschezza impareggiabile e un basso impatto ambientale. Il sistema di allevamento a circuito chiuso e le tecnologie più avanzate permettono di avere acque della migliore qualità. Il 95% dell’acqua viene trattata, filtrata e riutilizzata. Nell’allevamento non si utilizzano antibiotici o altri medicamenti. L’alimentazione dei salmoni è composta da mangimi vegetali e farine e olio di pesce sostenibili. Nella vasche a flusso continuo i pesci di-
spongono di ampio spazio per nuotare. Ci vogliono circa due anni affinché i salmoni abbiano raggiunto il peso ottimale di 2,5-4 kg e possano essere catturati. Vi proponiamo una sfiziosa e delicata ricetta, ideale come antipasto oppure come piatto principale accompagnata da un’insalatina di stagione:la terrina di salmone. Per 6 persone servono 400 g di filetto di salmone senza pelle (fatevela togliere dal vostro pescivendolo Migros), 400 g di panna, 1 albume, burro, timo, maggiorana, sale e pepe q.b. Mettete il salmone nel mixer insieme alla panna, all’albume, al timo e alla maggiorana. Salate e pepate a piacimento. Frullate bene il tutto fino ad ottenere una crema densa e omogenea. Imburrate uno stampo da plumcake e versatevi il composto. Preriscaldare il forno a 200 gradi. Trasferite lo stampo in una teglia riempita d’acqua e cuocete il tutto in forno a bagnomaria per circa 45 minuti. Prima di tagliare la terrina lasciate raffreddare bene. Decorate con un rametto di aneto e servite.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Idee e acquisti per la settimana
Piatti con un certo non so che
Attualità Alcune gustose idee facili da cucinare per la tavola di Pasqua. Potete prenotarle in anticipo
utilizzando il tagliando di ordinazione qui sotto
Il nostro vasto assortimento di prelibatezze gastronomiche tipicamente pasquali permette a ognuno di allestire invitanti menu in grado di stuzzicare l’appetito a tutti gli invitati. Per chi ha poca dimestichezza con i fornelli, o semplicemente ha poco tempo per «spadellare» o desidera sperimentare nuovi sapori, abbiamo introdotto alcune specialità pronte da infornare che lasciano… «più tempo per gli ospiti». La faraona farcita è un grande classico dei banchetti festivi. Rispetto al pollo, possiede una carne soda, con un sapore al contempo pronunciato ma anche delicato, che ricorda la selvaggina. La faraona è ottima arrostita o brasata, e si sposa molto bene con le spezie e i sapori dolci della frutta, sia fresca che secca. La nostra faraona viene accuratamente preparata con una farcitura composta da pistacchi, noci, uvetta, vitello, maiale, uova, pane, formaggio, amaretti e castagne e, una volta avvolta nella pancetta, deve solo essere cotta nel forno tradizionale preriscaldato a 160-190 gradi per ca. 90 minuti. Un’altra preparazione che accontenta i palati più esigenti grazie alla sua sapidità, è il filetto di maiale avvolto in una friabile crosta di pasta sfoglia. Il filetto è il taglio più pregiato del maiale e richie-
de tempi di cottura relativamente brevi per poterne apprezzare tutta la sua tenerezza e succosità. Preparata con carne di origine svizzera, questa pietanza può essere riservata presso il banco macelleria di fiducia ed è pronta in una mezz’oretta, cuocendola nel forno casalingo a 180 gradi. Infine, ecco uno dei piatti di alto livello più gettonati dai commensali durante le ricorrenze più importanti: il filetto di manzo alla Wellington. Preparato con cura dal Salumificio Angelo Valsangiacomo di Mendrisio nel rispetto della ricetta originale, con l’utilizzo di tenerissimo filetto di manzo di provenienza svizzera, il Wellington pronto è sufficiente per sei persone e necessita solamente di essere infornato alla temperatura di 180 gradi per ca. 25 minuti. Esistono pochi piatti tanto succulenti quanto il manzo alla Wellington. Questo succoso taglio di carne cotto al sangue, ricoperto di una farcia di funghi, senape, prosciutto crudo e avvolto in una crosta di sfoglia dorata al punto giusto, è da sempre amato da grandi e piccoli buongustai. La ricetta fu creata in onore del duca di Wellington, eroe della battaglia di Waterloo, dove duecento anni fa sconfisse Napoleone Bonaparte.
Il filetto alla Wellington sottolinea con gusto le occasioni più importanti.
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Gentile cliente, la informiamo che i dati trasmessi saranno trattati in conformità alle disposizioni della vigente normativa sulla protezione dati. Per maggiori informazioni la invitiamo a consultare la nostra «Dichiarazione sulla protezione dati» pubblicata sul nostro sito web (www.migrosticino.ch) oppure messa a disposizione in forma cartacea in tutti i nostri punti vendita. Cordiali saluti.
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Grazie per la fiducia
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Idee e acquisti per la settimana
Naturalmente biologici
Attualità Gli asparagi verdi bio vengono coltivati con amore e passione sotto il sole della Puglia
Gratin di asparagi Questo delizioso gratin di asparagi verdi e bianchi è un piatto ideale per un menu vegetariano o è il contorno perfetto che accompagna un succulento pezzo di carne.
Azione 30%
Asparagi verdi bio, Italia 500 g Fr. 6.90 invece di 9.90
Ingredienti per 4 persone
burro per la pirofila · 500 g d’asparagi verdi e 750 g d’asparagi bianchi · 1 spicchio d’aglio · 1 mazzetto d’erba cipollina · 3 dl di panna intera · 2 cucchiai d’amido di mais · 1 cucchiaino di sale · pepe · 120 g di gruyère grattugiato
dal 9.4 al 15.4
Preparazione
Scaldate il forno a 200 °C. Imburrate una pirofila. Pelate gli asparagi bianchi dalla punta, quelli verdi nella parte ultima del gambo e spuntateli tutti. Distribuite gli asparagi bianchi sul fondo della pirofila, quelli verdi sopra i bianchi. Tritate l’aglio e sminuzzate finemente l’erba cipollina. Mescolate entrambi con la panna e l’amido di mais. Condite con sale e pepe e versate la panna sugli asparagi. Distribuite il formaggio grattugiato e cuocete il gratin per ca. 35 minuti al centro del forno. Sfornate e servite.
I terreni dell’azienda BioOrto sono situati ai piedi del Parco Nazionale del Gargano.
Coltivati sulle fertili terre pugliesi, nel territorio di Apricena, in provincia di Foggia, gli asparagi biologici sono un prodotto dell’azienda famigliare BioOrto. I diversi ortaggi di questa dinamica realtà imprenditoriale vengono coltivati seguendo metodi biologici certificati in condizioni pedoclimatiche ideali: i terreni sono situati ai piedi del Parco Nazionale del Gargano, dove possono godere di una buona ventilazione e vengono irrorati naturalmente con acqua minerale drenata dalle pendici del promontorio garganico. Il terreno viene lavorato in modo ben
mirato e non troppo intensivo, applicando rotazioni molto ampie che sappiano preservarne al meglio la fertilità. Tutte queste condizioni particolari hanno permesso all’azienda BioOrto di distinguersi per le sue coltivazioni, esclusivamente in campo, capaci di rispettare la stagionalità di ogni prodotto. Dopo il raccolto, con l’ausilio delle più moderne tecnologie, BioOrto è in grado di portare i suoi pregiati prodotti sui mercati italiani e europei in tempi brevi, affinché ognuno possa godere pienamente di ortaggi di qualità assoluta cresciuti al ritmo della natura.
Per gli amanti del pesce
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La colomba senza lattosio firmata Maina Prodotta con burro selezionato a basso contenuto di lattosio – ciò che determina un risultato finale corrispondente a meno dello 0,01% di lattosio – la colomba Maina dedicata espressamente alle persone intolleranti a questo zucchero non ha nulla da invidiare alle colombe più classiche. È preparata nel pieno rispetto della tradizione e arricchita con profumati canditi. Avvolta da una croccante glassa di nocciole, lavorata artigianalmente, e infine decorata con mandorle intere e granella di zucchero. Il risultato è una colomba delicata e appetitosa che farà felici tutti gli ospiti della tavola pasquale.
L’insalata di mare, fresca e sana, oltre ad essere buona, fa ricordare le vacanze estive al mare. I tipici ingredienti per l’insalata di mare sono polpi, calamari, gamberetti, seppie e cozze. Per rendere più gustosa la pietanza, si può aggiungere del prezzemolo, delle carote e condire il tutto con olio, sale, pepe, aceto e, a chi piace, un po’ di limone. È un piatto ideale da consumare freddo, un’ottima scelta per chi cerca qualcosa di appetitoso, fresco e sano. Infatti contiene molte proteine ma anche carboidrati.
Gli anelli di calamari sono tipici nella cucina italiana ma anche in altre nazioni come la Grecia, la Spagna e la Turchia. Esistono varie ricette per prepararli, ma tra le più conosciute ci sono gli anelli di calamari fritti. Quest’ultimi infatti solitamente piacciono sia a ai grandi che ai bambini, sono facili da preparare e non ci si impiega molto a cucinarli. Semplicemente basta passarli in una panatura di farina e poi friggerli brevemente nell’olio bollente. Si servono come antipasto oppure come secondo.
Una ricetta che si può preparare in modo semplice e con pochi ingredienti è il «Polpo alla Luciana»: ricetta napoletana che viene servita come secondo piatto. Gli ingredienti principali sono del polpo, pomodoro, aglio, olive e capperi. Il modo tradizionale per prepararlo è quello di cuocerlo in una casseruola di terracotta assieme al resto degli ingredienti. Una volta pronto solitamente viene condito con pepe e prezzemolo fresco tritati. Un’ottima scelta per sorprendere i propri cari a cena.
Le seppie sono una varietà di mollusco tra le più apprezzate. Contengono molte proteine e pochi grassi. Per un saporito sugo per la pasta rosolate nell’olio una cipolla e due carote tritate. Aggiungete le seppie a pezzetti e un po’ di vino, lasciate evaporare per qualche minuto, dopodiché unite della passata di pomodoro. Salate e cuocete per 20 minuti. Cospargete con del prezzemolo e dell’aglio tritato. Cuocete degli spaghetti in acqua salata e, una volta pronti, conditeli con il sugo di seppie e insaporiteli con un po’ di pepe e olio di oliva.
Insalata di mare 200 g Fr. 6.90
Anelli di calamari 200 g Fr. 4.90
Tentacoli di polpo 200 g Fr. 10.80
Seppie marinate 200 g Fr. 8.90
Colomba Maina senza lattosio 750 g Fr. 9.90
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Società e Territorio
A spasso in Val Calanca
ASAC Nata 45 anni fa, l’Associazione Sentiero Alpino Calanca ha ideato e costruito l’omonimo sentiero di montagna
e oggi si occupa di mantenerlo congiuntamente alla capanna Buffalora e ai rifugi lungo il tracciato Elia Stampanoni La Val Calanca si conosce sovente solo di nome perché, pur essendo a due passi da Bellinzona e dalla trafficata autostrada A13, è «solo» una valle laterale della più conosciuta Mesolcina, con la quale va a formare il Moesano, una fetta importante del Grigioni italiano. Il suo sviluppo segue quello del torrente Calancasca, che sfocia nella Moesa in territorio di Roveredo. La Calanca è una valle discosta e affascinante che si sviluppa dai circa 800 metri di quota fino alle vette più alte che superano i 3000 metri. Risalendola si ha forse l’impressione di andare a finire nel nulla, ma i luoghi che la caratterizzano accompagnano il viaggiatore verso territori, regioni e paesi tutti da scoprire: da Grono presto si entra nella Calanca con la prima località di Buseno e incontrando poi gli altri comuni e le frazioni che la compongono: Molina, Calanca, Arvigo, Landarenca, Braggio, Cauco, Bodio, Selma, Castaneda, Rossa, Augio, Santa Domenica, Valbella e Santa Maria. A nord la valle sembra non avere sbocchi e difatti la strada carrozzabile prima o poi si ferma. Ma non le vie pedestri che grazie al Sentiero alpino Calanca permettono di percorrere l’intera valle in un paesaggio naturale, in parte selvaggio. La realizzazione del sentiero si deve all’omonima associazione, ASAC, che 45 anni fa mosse i suoi primi passi per la creazione di quest’asse
di collegamento tra sud e nord su territorio calanchino. L’idea nacque nel 1973, quando il basilese Wilfried Graf acquistò una casa di vacanza a Selma e cominciò a perlustrare la zona montuosa della Val Calanca assieme alla sua famiglia. Osservando e considerando come i sentieri indicati sulla mappa si rivelassero introvabili, Graf dedicò il suo tempo libero al ripristino di alcuni tratti con l’aiuto di pala e piccone. Grazie anche al supporto di alcuni giovani arrivati in Calanca tramite scambi internazionali di studenti e ad altri ragazzi della scuola media, l’impegno s’estese a ulteriori sentieri e nel 1978 a Selma venne fondata l’associazione ASAC, inizialmente chiamata «Strade Alte della Calanca», che si impegnò a trovare i fondi e i volontari per la realizzazione dell’ambizioso progetto di un sentiero che percorresse l’intera Calanca fino al San Bernardino. Ogni anno, fino al 1983, giovani volontari, apprendisti e classi di studenti si sono ritrovati per lavorare alla realizzazione del sentiero sulle tracce di alcuni sporadici tratti non curati e non comunicanti fra loro. Gli interventi furono sostenuti principalmente dai contributi dei soci dell’ASAC, mentre per la realizzazione della capanna Buffalora, nel 1981, l’associazione ottenne rilevanti offerte. Negli anni successivi, l’ASAC fece quindi costruire anche i rifugi di Ganan nel 1983 e di Pian Grand nel 1985, anno in cui una valanga distrusse la capanna Buffalora. Soltanto nella tarda estate del
1987 fu inaugurata la seconda capanna in legno (costruita in un settore sicuro) e oggi l’associazione ASAC si occupa principalmente del mantenimento e del miglioramento della segnaletica e dei punti di alloggio o rifugio. Il cammino alpino non è una passeggiata adatta a tutti e lo si capisce subito leggendo la descrizione del percorso o guardando alcune fotografie. Il sentiero è infatti classificato come T3, richiede quindi un passo sicuro, resistenza fisica, buoni scarponi da montagna e anche discrete capacità d’orientamento e conoscenze di base dell’ambiente alpino. Di regola la traccia è ben visibile sul terreno a alcuni passaggi esposti possono essere assicurati con corde o catene, come racconta Paolo Foa, socio dell’ASAC che il sentiero l’ha già percorso diverse volte: «Sì, il sentiero è segnalato con i tratti rosso-bianco-rosso ed è riservato agli escursionisti esperti e in forma. La via è in buono stato e munita di dispositivi di sicurezza dove necessario, per esempio lungo il Fil de Nomnom che rientra tra i punti più suggestivi del Sentiero Alpino». All’inizio dell’estate e in autunno il sentiero può essere innevato e alcuni tratti possono essere gelati, rendendo quindi indispensabile, oltre all’attrezzatura idonea per la montagna e scarpe robuste, ricorrere a ramponi e piccozza. Il periodo ideale è di certo l’estate, quando ci si può tuffare in un ambiente naturale in completa tranquillità: «Anche durante l’alta stagione, per lunghi
La capanna Buffalora. (Paolo Foa-Associazione sentieri alpini Calanca)
tratti di questo sentiero spesso non si incontrano altri escursionisti e il cellulare non sempre prende», commenta Foa. Tra i punti caratteristici della traversata ci sono di sicuro i laghetti alpini, come il Lago Cuore o Lagh de Calvaresc, le pareti rocciose come quella nei pressi della Gola Auriglia, oppure gli innumerevoli passaggi con panorami mozzafiato, come il Pass di Passit, Pass de la Cruseta o la Bocca de Rogna solo per fare alcuni esempi. Il sentiero tocca il punto più alto ai 2515 metri della Cresta Bedoletta e si sviluppa su una distanza di circa 50 km, a dipendenza delle varianti d’accesso scelte dell’escursionista che, durante il cammino, troverà la capanna
Buffalora e i tre rifugi come valido punto d’appoggio. «La capanna Buffalora è di certo una tappa centrale del sentiero e prima o poi, tutti gli itinerari scelti transitano in questo punto a 2078 metri di altitudine, dove una comoda e ben arredata struttura dispone di 30 letti con coperte di lana e cuscini, riscaldata e custodita da giugno fino a ottobre con servizio di mezza pensione», conclude Paolo Foa. Informazioni
Associazione Sentiero Alpino Calanca. Casella postale, CH-6548 Rossa. Tel. 091 828 14 67 / 079 772 45 13. www.sentiero-calanca.ch Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Società e Territorio
La protezione delle persone fragili richiede fiducia verso le Autorità
Socialità L’Autorità di protezione degli adulti e dei minori fa discutere in Svizzera e in Ticino. Nel nostro Cantone
si attende una riforma del settore, nella Confederazione è nata una nuova associazione che favorisce la mediazione tra Autorità e vittime
Fabio Dozio «Tra moglie e marito non mettere il dito», un vecchio proverbio che invita a non impicciarsi in affari coniugali altrui. La realtà è un’altra: negli ultimi anni la conflittualità, all’interno delle coppie, è in aumento. Il numero dei divorzi o delle separazioni è altissimo, la gestione e l’educazione dei figli diventano motivo di litigi e tensioni. Quando i conflitti di coppia generano negligenza e sfociano in violenza, psichica o fisica, o in molestie e abusi sessuali, il bambino è a rischio, o in pericolo, e può intervenire l’Autorità di protezione. Stessa cosa può valere per un altro anello fragile della società, gli anziani. In questi casi il Codice civile svizzero prevede un intervento statale per la protezione dei minori e degli adulti. Nel nostro Cantone tale funzione è esercitata dall’Autorità regionale di protezione. Le ARP fanno discutere, perché il campo in cui agiscono è molto sensibile e anche perché in questi anni non sono mancate le lacune nel loro funzionamento. In Ticino nei mesi scorsi hanno sollevato polemiche due fatti. La scoperta a Pregassona di un appartamento in cui una coppia con due figli viveva in uno stato di degrado, in mezzo a
Guido Fluri, presidente di KESCHA durante la conferenza stampa tenutasi in gennaio a Zurigo. (Keystone) Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Società e Territorio montagne di rifiuti e in compagnia di 18 cani. Come mai le Autorità di protezione non sono intervenute, visto che la famiglia era già stata segnalata come problematica? L’altra storia è quella di una ragazzina di undici anni prelevata da scuola dall’ARP del Locarnese per una valutazione psicosociale. I genitori sono separati, la mamma ha avuto un burnout e ha abusato di alcol in un paio di occasioni. Il padre segnala all’ARP la situazione e la madre viene osservata per mesi, finché a dicembre l’Autorità interviene sottraendole la figlia, che viene affidata a un istituto di Mendrisio. La vicenda si risolve con la decisione del giudice, dopo una settimana, di far rientrare la piccola a domicilio. Ma si giustifica un simile intervento? Casi delicati: la protezione, di adulti o di minorenni, mette in gioco la libertà individuale delle persone coinvolte: a volte si tratta di un atto indipensabile, ma può accadere che una valutazione sbagliata determini interventi ingiustificati. «Se la comunicazione con le Autorità è difficile e disturbata, cosa che accade sempre più spesso, è importante che ci sia assistenza da parte di terzi per evitare uno sviluppo dei conflitti». È quanto afferma Guido Fluri, promotore di KESCHA, il nuovo Centro svizzero di ascolto e di assistenza del minore e dell’adulto. Fluri, imprenditore di successo svizzero tedesco, è conosciuto per aver lanciato l’iniziativa per la riparazione che ha permesso alla Confederazione di risarcire le vittime di misure coercitive a scopo assistenziale e di collocamenti coatti. «Quattro anni fa, nell’estate del 2015 – ci dice Pascal Krauthammer, coordinatore di KESCHA – abbiamo notato un cambiamento fra coloro che ci hanno contattato. Oltre alle vittime di misure coercitive si sono fatti avanti giovani madri e padri che ci hanno
segnalato problemi con le Autorità di protezione e che ci chiedevano assistenza e aiuto. Il tema è poi stato trattato anche in Parlamento, in occasione della discussione sull’iniziativa di riparazione. Si è sottolineato che non si poteva affrontare solo il passato, ma anche il presente».
Da alcuni anni in Svizzera è attivo KESCHA, il Centro svizzero di ascolto e di assistenza del minore e dell’adulto: il servizio di consulenza nel 2018 ha trattato 1093 casi Nella Svizzera tedesca, negli ultimi anni non sono mancate le critiche alle Autorità (in tedesco KESB: Kindes – und Erwachsenenschutzrecht) e la Fondazione Fluri si è data da fare per pensare a un nuovo approccio in questo ambito. «Le KESB – afferma Pascal Krauthammer – dipendono dalla fiducia della società e soprattutto dalla fiducia delle persone coinvolte. Senza questa fiducia, la protezione dei bambini e degli adulti non funziona. Nel dicembre del 2015 abbiamo radunato 150 esperti del settore della protezione dell’infanzia e degli adulti per valutare come rafforzare la comunicazione fra gli interessati. Così è nata KESCHA, come punto di contatto per le persone che chiedono protezione e per migliorare la fiducia nei confronti delle Autorità. Siamo convinti che le Autorità professionali ed empatiche siano indispensabili per una buona protezione di bambini e adulti». Anche in Ticino non mancano le critiche alle ARP e il giudice Franco Lardelli, presidente della Camera di protezione del Tribunale d’appel-
lo, ammette: «C’è probabilmente una mancanza di fiducia nelle istituzioni. – ha dichiarato alla RSI – Però bisogna stare attenti perché noi possiamo magari fare degli errori, ma è importante che non ci sia una contrapposizione. Se il sistema non funziona, va migliorato. Quindi dobbiamo unire le forze per migliorarlo, non per distruggerlo o eliminarlo». In Ticino siamo in attesa di una nuova legge per riorganizzare il settore delle ARP, dopo la riforma che ha portato all’abolizione delle Commissioni tutorie. Entro il prossimo anno si dovrà decidere se e come cantonalizzare il servizio, una ristrutturazione necessaria che richiederà anche nuovi investimenti da parte del Cantone. Sul tavolo ci sono due opzioni: organizzare le ARP secondo un modello giudiziario oppure amministrativo. Il giudice Lardelli si è già espresso a favore del giudiziario, ritenuto più affidabile perché ci sarebbe una sola autorità che gestisce tutto. In ogni caso toccherà al Consiglio di Stato proporre, nei prossimi mesi, e al Gran Consiglio decidere. KESCHA, da parte sua, insiste nell’invitare i Cantoni a lavorare più proattivamente con le Autorità per migliorare la comunicazione, in modo da avere un effetto positivo sulla cooperazione tra autorità e persona interessata alla protezione. Va intensificata l’informazione sul territorio con incontri pubblici che illustrino con trasparenza il ruolo dell’Autorità. La maggioranza di coloro che si rivolgono a KESCHA chiede di migliorare la comunicazione con l’Autorità e quasi tutti pretendono informazioni legali e sulle procedure. «Tutto ciò dimostra che il lavoro del KESB è talvolta giudicato criticamente dal grande pubblico – afferma Pascal Krauthammer – e che l’intervento delle Autorità e dei rappresentanti eletti è visto con diffidenza. Perciò è cruciale il ruolo di mediazione da parte di terzi,
come KESCHA. Non si tratta di sostituire la famiglia con lo Stato, ma di fornire sostegno e assistenza temporanea». Il Centro di ascolto e assistenza del minore e dell’adulto sottolinea che la richiesta di sostegno indipendente non accenna a diminuire in Svizzera. Nel 2018 KESCHA ha trattato 1093 casi e per la grande maggioranza (77,8%) si tratta di conflitti con i curatori. Spesso le persone in cerca di aiuto si lamentano del fatto che i curatori professionali non hanno tempo a sufficienza, sono difficilmente raggiungibili, rimangono inoperosi o sono oberati di lavoro. Di fronte a queste critiche, l’Università di Friburgo, che collabora con KESCHA, consiglia di impiegare, quando possibile, curatori privati con molto tempo a disposizione e vicini alle persone coinvolte. «I consulenti professionali sono importanti – spiega Pascal Krauthammer – soprattutto nel settore della protezione dell’infanzia. Ma poi ci sono molti casi in cui sarebbe meglio ricorrere all’assistenza privata, perché il titolare del mandato privato è più vicino alla persona bisognosa e quindi può instaurare un rapporto più stretto». La consigliera nazionale Ursula Schneider Schüttel ha inoltrato un postulato per proporre che la legge preveda, al momento di impiegare un curatore professionale, che l’Autorità spieghi per quali motivi non è stato possibile incaricare un curatore privato. Anche la Conferenza per la protezione dei minori e degli adulti (COPMA), che riunisce tutti i responsabili cantonali in materia di protezione, sostiene questa raccomandazione. La qualità delle misure di protezione è in discussione in Svizzera come in Ticino. Il nostro Cantone dovrà mettere a punto urgentemente la riforma delle ARP e non potrà fare a meno di riflettere su questi aspetti per il bene delle persone fragili che necessitano di protezione.
Torna Storie controvento
Festival Letteratura
per ragazzi protagonista a Bellinzona
Si rivolge agli allievi di terza e quarta media e ai ragazzi delle scuole post-obbligatorie con l’intento di promuovere la lettura. È il festival Storie controvento che quest’anno si terrà a Bellinzona dal 10 al 13 aprile. Ad organizzarlo è l’Associazione Culturale Albatros convinta che «la miglior promozione alla lettura consista nel percepire che le storie che ci vengono narrate hanno a che fare con la vita e con i grandi interrogativi che ci poniamo». Il festival, che ogni anno coinvolge dai 700 ai 900 ragazzi, funziona così: gli organizzatori selezionano 5-6 libri tra le novità editoriali internazionali per la gioventù, le sottopongono ai docenti che a loro volta le propongono agli allievi. Viene scelto un libro, se ne discute in classe e ci si prepara a conoscere l’autore per porgli le domande che più stanno a cuore. In aprile la classe va a Bellinzona dove, dopo un laboratorio introduttivo, partecipa all’incontro con lo scrittore. Il programma del festival prevede anche incontri aperti al pubblico: si inizia il 10 aprile alle 20.00 alla Biblioteca cantonale con lo scrittore Hamid Sulaiman, ci sarà poi l’occasione per riflettere sulla scrittura per ragazzi, giovedì 11 (ore 18.15), con Guido Sgardoli e Sjoerd Kuyper, mentre alla libreria Casagrande dalle 10.15 di sabato 13 si potranno incontrare gli scrittori Allan Stratton e Gabriele del Grande. Il programma completo su www.storiecontrovento.ch Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Società e Territorio
Selezionare, ordinare e conservare
Archivi Il riordino dei documenti conservati da associazioni o organismi locali richiede non solo tempo
ma anche nozioni di base a livello archivistico, un corso aiuta ora ad orientarsi
Stefania Hubmann Ogni ente pubblico o privato, anche di dimensioni ridotte, produce una crescente quantità di documenti, oggi per lo più in forma elettronica. Come selezionarli, ordinarli e conservarli a fini storici e culturali, ma anche sociali e politici? Come affrontare il riordino della documentazione passata, magari accumulata in polverosi scatoloni? L’approccio all’archiviazione non può essere lasciato all’intuizione. Esiste un metodo professionale applicabile in forma semplificata anche a livello di associazioni e organismi locali. L’interesse per questo tipo di approfondimento è assai vivo, come dimostra il corso di introduzione all’archiviazione organizzato dall’Associazione Archivi Riuniti delle Donne Ticino (AARDT) e dalla Società Storica Locarnese.
L’Associazione Archivi Riuniti delle Donne Ticino e la Società Storica Locarnese organizzano i corsi di introduzione all’archiviazione A una prima sessione lo scorso autunno è appena seguito un nuovo ciclo che ancora non è riuscito a soddisfare tutte le richieste. Richieste che puntano pure a un ulteriore approfondimento della materia, già programmato per il prossimo autunno. Tutte le lezioni sono tenute da Rodolfo Huber, presidente della Società Storica Locarnese e archivista della Città di Locarno. Con lui, figura di riferimento in Ticino nell’ambito archivistico, abbiamo chiarito i principi chiave di questa attività e le sfide che è chiamata a raccogliere di fronte alla digitalizzazione. «Il corso che si è appena concluso non mira a formare archivisti, quanto piuttosto a sensibilizzare sulla pratica professionale secondo criteri attuali», spiega in apertura Rodolfo Huber. Come numerose altre professioni anche quella dell’archivista ha conosciuto una profonda evoluzione. «Rispetto alle biblioteche, l’introduzione di criteri di lavoro standardizzati e delle nuove tecnologie è stata più lenta e tardiva. Oggi gli archivi istituzionali svolgono in gran parte un’attività pre-archivistica. Ciò significa gestire il documento da quando viene prodotto fino alla sua
archiviazione o distruzione. Non bisogna infatti dimenticare che da un lato l’archiviazione è il risultato secondario di un’attività principale (come la gestione di un Comune) e dall’altro che non tutto il materiale prodotto merita di essere conservato. Oggi in media solo il 5% della documentazione ha un valore a lungo termine». Vediamo allora nel concreto quale approccio è necessario adottare quando si mette mano ad un archivio. Rodolfo Huber richiama dapprima l’attenzione sui criteri che guidano l’archivista e per i quali oggi esistono standard di riferimento. «Un principio fondamentale dell’archiviazione – precisa il nostro interlocutore – consiste nel passaggio dal generale al particolare. Tempo e mezzi da dedicare a questa attività, soprattutto per le piccole associazioni, sono limitati. Bisogna pertanto valutare dapprima il materiale nel suo insieme, per poi procedere secondo un principio gerarchico. Si scheda quindi nell’ordine per serie di documenti (ad esempio contabilità, verbali, corrispondenza) e poi a seconda delle possibilità per fascicoli e singoli documenti». Particolare cura è necessaria anche nella conservazione di tali documenti. La plastica è da evitare perché blocca il passaggio dell’aria e le graffette metalliche perché arrugginiscono. Negli archivi istituzionali vengono impiegate scatole in cartone neutro, in modo da evitare un influsso delle componenti chimiche. Un’altra questione d’attualità è la digitalizzazione. È necessario digitalizzare tutto? Anche a questo livello, risponde l’esperto, è indispensabile determinare in primo luogo il valore del documento. Lo scopo degli archivi è innazitutto quello di conservare gli originali. Per preservarli si realizzano copie di consultazione e di sicurezza. «Fino alla fine degli anni Novanta – spiega l’archivista – si utilizzavano a questo scopo i microfilm, poi si è passati al supporto digitale. Da rilevare, che la forma digitale, sia essa relativa a documenti originali o copie, necessita una continua gestione definita da standard internazionali e legata sia alle modalità di presentazione (per le banche dati dei portali di ricerca) sia all’aggiornamento dei formati». La professione dell’archivista è quindi in continuo sviluppo con formazioni mirate e possibilità di perfezionamento. Rodolfo Huber si è avvicinato all’archivistica negli anni Novanta dopo un dottorato in storia. All’epoca per approfondire la mate-
Una collaboratrice di AARDT mentre si occupa dell’archiviazione di fondi depositati presso la sede dell’associazione a Massagno. (AARDT)
ria ha dovuto recarsi oltre Gottardo e seguire i corsi promossi dall’Associazione archivisti svizzeri della quale in seguito è diventato membro di comitato. Con alcuni colleghi confederati ha inoltre ridato vita al Gruppo di lavoro degli archivi comunali svizzeri, assumendone per alcuni anni la presidenza. L’impegno di Huber nel valorizzare questa attività si è tradotto anche in diversi anni di insegnamento alla scuola universitaria professionale di Coira. Per i giovani attirati da questo lavoro esiste oggi nel nostro cantone una formazione professionale di base quale gestore/gestrice dell’informazione e della documentazione che permette di lavorare in biblioteche, centri di documentazione e archivi. A livello superiore è possibile conseguire un bachelor e successivamente un master SUP nelle scuole universitarie professionali di Ginevra e Coira. Il corso proposto dalle due associazioni culturali ticinesi riassume
i principi della formazione di base. L’interesse suscitato è una piacevole sorpresa e dimostra l’esigenza di formazione di chi gestisce piccoli archivi. Anche AARDT, costituita nel 2001, ha beneficiato una decina di anni or sono di un analogo corso di Rodolfo Huber. «Nell’ambito della sua missione volta a cercare, conservare e valorizzare documentazione sulle esperienze e la vita delle donne in Ticino, come pure a sensibilizzare i privati sull’importanza di conservare tali testimonianze, l’associazione si è impegnata a diventare sempre più professionale», spiega la vice-presidente Nicoletta Solcà. «Oggi è considerata un centro di competenza sulla storia delle donne, depositaria di un centinaio di fondi privati dalla seconda metà dell’Ottocento ai giorni nostri». L’ultimo archivio depositato è quello di Casa Santa Elisabetta a Lugano. Storica e archivista presso l’Archivio amministrativo comunale di Lugano, Nicoletta Solcà, così come
Rodolfo Huber, ritiene importante sottolineare la professionalità del settore archivistico e la possibilità per gli interessati di informarsi e approfondire il tema. Il corso di introduzione all’archiviazione vede riunite una società locarnese di lunga tradizione, alla quale si deve a partire dagli anni Cinquanta la costituzione di un archivio e di una biblioteca di storia regionale, e un’associazione volta a portare alla luce l’operosità femminile. Grazie a questa iniziativa congiunta promotori e partecipanti hanno l’opportunità di entrare in contatto con diverse realtà culturali del territorio e di tessere proficui legami, sempre con l’obiettivo di valorizzare il patrimonio che giace magari un po’ dimenticato e di sensibilizzare la popolazione sul suo valore. Informazioni
www.archividonneticino.ch www.societastoricalocarnese.ch
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Andrew Clover-Ralph Lazar, Rory Branagan detective, HarperCollins. Da 8 anni Uno scoppiettante giallo per bambini, scritto e illustrato con quell’umorismo iperbolico e un po’ demenziale che di solito incontra il favore del giovane pubblico (prevalentemente maschile) non particolarmente amante della lettura: qui, un po’ per le illustrazioni che la fanno da padrone, un po’ per le risate che suscita, un po’ perché è comunque una storia di investigazione, con un colpevole da scoprire, la fatica di leggere è ampiamente alleggerita. Rory Branagan è un ragazzino di dieci anni che vive con la mamma (una tipa tosta) e il fratello maggiore (che lo tratta con superiorità, dall’alto della sua veneranda adolescenza). Il papà di Rory è scomparso quando lui aveva tre anni e nessuno gli dice nulla. Né dove, né perché, né che cosa ne è stato. Non voglio fare spoiling, ma mi sento
di avvertire i lettori che a queste domande il libro non darà una risposta, anche perché è il primo di una serie, e vorrà fidelizzare il lettore. Però alle altre domande, inerenti al mistero su cui indagare in questo episodio, si risponde e quindi la detective story è in sé conclusa. Si tratta di indagare sull’avvelenamento del vicino di casa, e per risolvere il caso, Rory potrà contare sull’amicizia di una coraggiosa e determinata ragazzina, Cassidy. Le immagini non si limitano ad illustrare il testo, ma lo ampliano, collaboran-
do autonomamente alla narrazione. Spesso, inoltre, danno vita anche ai pensieri e all’immaginario di Rory: alle sue ansie, ai suoi sogni, alle similitudini e alle colorite metafore che usa per raccontare. Se Rory ad esempio dice che «le domande nella mia testa si aggirano come squali», l’illustratore Ralph Lazar riempie davvero la pagina di squali che pongono domande. Questa interrelazione anche simbolica tra testo e immagini è uno dei pregi del libro. Francesca Sanna, Io e la mia paura, Emme Edizioni. Da 3 anni Francesca Sanna è un’illustratrice e autrice di origini sarde ma da molti anni residente a Zurigo. Dopo un percorso di tutto rispetto (ha studiato illustrazione a Lucerna e a New York), ha iniziato una carriera che sta diventando sempre più brillante. In italiano sono usciti, da Emme Edizioni, due
albi: tre anni fa Il viaggio, su una famiglia costretta a migrare per cercare una vita migliore, e ora questo, ancor più convincente, Io e la mia paura, dove la prospettiva è quella di una bambina e la paura è personificata in una creatura bianca, dal testone espressivo e dal corpo avvolgente, tra le cui braccia può essere anche molto comodo rifugiarsi. L’idea di un’emozione personificata in un «altro da sé», in un vero e proprio personaggio, non è certo nuova nella letteratura per l’infanzia, ma qui è comunque trattata con originalità e
efficacia, in particolare nell’espressività conferita a Paura, nel suo sguardo a volte complice con la bambina (perché rifugiarsi nella paura è una facile scappatoia che fa sentire al sicuro), altre volte abitato da risolutezza e da un po’ di opposizione (perché la bambina vorrebbe provare ad aprirsi al mondo ma Paura si oppone). Inoltre Paura cambia dimensione, ed è diventata molto grande da quando la bambina si è trasferita con la famiglia in un altro paese (torna il tema, caro all’autrice de Il viaggio, del lasciare le proprie radici e del senso di straniamento nel nuovo mondo di approdo); ma è pronta a rimpicciolirsi non appena la bimba si sente sostenuta dall’affetto di un nuovo amico. Il finale è incantevole, con tutti i bambini della classe seduti nei banchi con le loro piccole e grandi paure, ognuna di esse con il suo faccino simpatico perché accettata, tenuta a bada, e non subita.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Il massacro dei latini Le quattro giornate che vanno dall’8 al 12 aprile hanno segnato un momento nero nei rapporti fra Oriente ed Occidente almeno per quanto riguarda le due metà storicamente forgiatesi attorno alla conversione alla religione cristiana. Siamo oggi usi a pensare che le differenze di approccio ai fondamentali della modernità siano dovuti agli sviluppi recenti che hanno visto il blocco dell’Est ad egemonia sovietica contrapporsi ad un Blocco Occidentale bene o male egemonizzato da quell’invenzione del modernismo illuminista che sono stati (in passato, deliberatamente) gli Stati Uniti, compresi fra il radicalismo di un Payne ed il genio militare di un Lafayette. Ma le cose, per la memoria storica che comunque forgia la nostra percezione del divenuto anche senza il nostro consenso, stanno in maniera diversa. Lo iato, il gap, la differenza fra Europa Orientale ed Europa Occidentale ha radici più profonde di quanto venne ad affermarsi nel Secolo Breve.
Siamo nel 1204: la Quarta Crociata è inchiodata ai Dardanelli incapace di attraversare lo stretto sulla via per Gerusalemme per mancanza di navi e traghetti. La situazione è resa ancora più drammatica dalla mancanza di rifornimenti per uomini e cavalli: il bottino estorto alle popolazioni dell’Impero bizantino durante la lunga marcia verso il Sud della Dalmazia sono alla fine ed indugiare oltre vorrebbe dire inasprire ulteriormente i rapporti fra i gelosi, gelosissimi Capitani crociati con le loro truppe assetate chi di reliquie e santità e chi di meno nobili, indicibili obiettivi – ma tutte affamate. Ma, soprattutto, ogni ulteriore indugio voleva dire inimicarsi i bizantini oltremisura. Fino ad allora questi si erano limitati ad azioni di contenimento dell’irruenza (chiamiamola così) della truppaglia crociata in bisogno di polli, agnelli e giovani fanciulle, incerti peraltro se tollerare gli ospiti ingombranti o suonarle ai contadini che non erano certo contenti di vedersi
rubare l’ultimo maiale in cambio di un rosario – e tutto questo in mancanza di direttive certe ed inquivocabili da Costantinopoli. Qui, infatti, il caos regnava sovrano da un bel pezzo. Alessio IV Comneno era riuscito in qualche modo a farsi eleggere imperatore dopo una lotta per l’affermazione dinastica che costituiva – ed ha costituito da sempre e per sempre – la debolezza dell’erede orientale dell’Impero Romano. Se nell’Europa dei Barbari convertiti alla Romanità-cum-Cristianesimo e ormai aspiranti al titolo di Imperatore del Sacro Romano Impero con papale benedizione, l’imposizione della Legge Salica, culturalmente universale a Nord delle Alpi, statuiva chiaramente che il bastone di comando passava da Padre a Figlio Maggiore, a Costantinopoli si pagavano da sempre i velenosi dividendi storici che erano lascito dello statuto storicamente ibrido ed ambiguo perché mai digerito – certo, ma non solo, per quanto riguarda la successione al titolo
imperiale – della «tradizione» romana che scontava correnti storiche sotterranee repubblicane. Che «tradizione» non erano mai divenute col trionfo dell’Imperialismo come forma di governo, ma in qualche modo continuavano a livello culturale. Così, se Roma era finita (anche) per la crisi di un sistema di successione fuori linea con la Storia per il quale uno psicopatico dava fuoco all’Urbe ed un altro umiliava la classe senatoriale nominando il suo cavallo, a Costantinopoli ad ogni tre per quattro la successione al trono supremo comportava avvelenamenti quando non annegamenti in un susseguirsi di colpi di (o)scena che in confronto Dinasty fu roba da educande. Insomma, per tornare all’8 febbraio 1204 il rivale di Alessio IV Comneno – alleato dei Crociati che lo sostenevano nella lotta per il trono – decide di farla finita col contendente al trono che pure aveva mantenuto in vita come ostaggio tanto per vedere come si sarebbero com-
portati i Crociati stessi una volta arrivati coi piedi a bagno a Dardanelli. Assassinato il Quarto dal Quinto i crociati decidono di rivoltarsi contro Alessio V e prendere Costantinopoli: ricco, ricchissimo, megabottino assicurato e leali alleati del povero Alessio IV onore salvato. I conti tornavano. La mattina del 12 aprile 1204 si svolge l’attacco finale. Ventimila crociati, fra i quali spiccano diecimila truppe veneziane scelte, si scontrano con quindicimila difensori bizantini in quella che restarà fra le battaglie più infami della Storia. Quello che successe quando le difese costantinopolitane caddero per esaustione militare e morale è passato alla Storia e alla Memoria. Nel 2004, in occasione della visita del Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo II in Vaticano, Giovanni Paolo II ebbe a dire: «Come non possiamo accumunarci da fratelli per la pena ed il disgusto per quanto accadde nel 1204?». La Storia ha una memoria lunga.
impossibile e, se viene perseguita a tutti i costi, può diventare persecutoria e aggravare la nostra insicurezza. La prima mossa è ammettere la propria fragilità, volersi bene e accettare con un sorriso di essere quello che si è. I film comici di Paolo Villaggio ci invitano, esasperando le situazioni, a ridere dell’imbarazzo in cui viene a trovarsi il protagonista, del tutto ignaro delle conseguenze che possono provocare i suoi impulsivi comportamenti. Il suo disagio, cara Melany, probabilmente la rende simpatica agli altri perché fa sì che, di riflesso, accettino il proprio e, identificandosi con lei, riconoscano come inevitabile, in certi momenti, sentirsi delusi e umiliati. Erving Goffman, nel suo libro più noto, La vita quotidiana come rappresentazione, propone una teoria della vita sociale che può aiutarla. Se, come dice Shakespeare, la vita è teatro, recitiamo tutti su un palcoscenico, dinanzi a spettatori che ci guardano, ci valutano e ci giudicano. Come ogni attore, anche noi vorrem-
mo essere apprezzati dal pubblico, corrispondere alle aspettative, ma è inevitabile che sopravvengano piccole dimenticanze, lapsus e inesattezze che ci fanno, non solo temere l’insuccesso, ma anche vergognarci di noi. Magari il pubblico non si è accorto di niente o è disposto all’indulgenza, siamo noi i giudici più inesorabili di noi stessi. In quel momento, la ribalta entra in contrasto con il retroscena, lo spazio dove ci sentiamo al sicuro, dove non abbiamo bisogno di recitare perché non ci proponiamo di piacere. Ma i fischi che ci risuonano nella testa rompono il silenzio obbligandoci a diventare consapevoli della nostra inadeguatezza. Non sono tanto gli altri, quanto il nostro specchio a provocare il disagio che ci attanaglia ogni volta che non ci consideriamo all’altezza dell’Io ideale. In questi casi non c’è colpa, la gaffe è sempre involontaria, eppure il rimorso non ci abbandona. La vergogna è più indelebile della colpa e nella nostra memoria permangono,
con particolare vivezza, le emozioni suscitate dall’esserci vergognati. È vero che ci sono persone che si sentono imbarazzate più spesso di altre, ma esistono anche situazioni che fanno sentire in imbarazzo la maggior parte delle persone. In questo senso la stagione della vita in cui ci riveliamo più goffi è proprio, come lei racconta, l’adolescenza, quando i ragazzi si espongono più che mai al riconoscimento della loro debole identità. In ogni caso consiglio a lei, e a tutti quelli che soffrono per sentirsi, più o meno frequentemente, a disagio, goffi o ridicoli, di leggere il bel libro di Melissa Dahl, appena edito da Feltrinelli col titolo Che figura, vi farà sentire più sicuri e meno soli.
dalla facilità del viaggio. Tanto da creare, come succede nei confronti di ogni conquista tecnologica, una dipendenza: quando cioè il piacere diventa bisogno e mania. Un rischio che non correremo più? La domanda è attuale. Infatti, su questo stile di vita incombe, adesso, il «Flight Shame», la vergogna di volare, che, per intenderci, non ha niente da spartire con la paura di volare, malattia ormai rara. Non si tratta più di una modesta preoccupazione, di tipo fisico e individuale, qual è salvare la propria pelle da un eventuale incidente. Il nuovo rifiuto di salire a bordo di un velivolo fa capo a un disagio d’ordine morale e collettivo: la consapevolezza che, volando magari per divertimento, si mettono in pericolo le sorti del mondo e il futuro delle nuove generazioni. Tutto ciò per via delle emissioni di CO2. Per il momento, a compiere questa
scelta, e a esibirla nei media, sono le avanguardie che contano. Un po’ come avvenne nel ’68, prendono la parola scrittori, campioni sportivi, artisti, docenti universitari. Alcuni, come Niko Paech, economista all’università di Siegen che, sulla NZZ, illustrava un piano di vita all’insegna di rinunce da affrontare col sorriso. Perché aprono la via verso la felicità: raggiungibile camminando con scarpe vecchie più volte risuolate, abbassando le luci in casa, mangiando verdure, usando l’agenda dell’anno prima (basta ritoccare le date). E naturalmente elettrodomestici ridotti al minimo e possibilmente condivisi con i vicini, niente auto e figurarsi l’aereo. L’ha preso una volta sola, in un caso di urgenza familiare. Sin qui, perché no? Questo professore, come altri, fra cui il campione olimpionico Björn Ferry, sono liberi di vivere all’insegna del poco piuttosto che
del troppo. Il guaio è che questi loro personalissimi sfizi sono proposti alla stregua di soluzioni salvifiche, vagamente religiose. In definitiva ricompare il mantra della «decrescita felice», che ispira il partito del «vaff…», a noi ben noto. E si precipita così in uno stato confusionario che, in nome dei massimi sistemi, condanna conquiste sociali ed economiche legate, in particolare all’uso dell’aereo. Una censura che, però, ignora un fattore non trascurabile, il tempo che passa. Arriva con quasi mezzo secolo di ritardo: quando a salire a bordo sono sempre più famiglie numerose, giovani giramondo, gruppi aziendali, salariati. La gente qualsiasi, insomma, che appartiene a un grande e diversificato ceto medio, che ha strappato un privilegio, un tempo riservato al «jetset». Come dire che anche la scelta virtuosa del «Flight Shame» ha un rovescio della medaglia.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Siamo tutti imbranati Cara signora, la leggo da poco e non avrei mi pensato di scriverle, invece eccomi qui. Sono venuta a lavorare in Ticino due mesi fa, da Vicenza dove abitavo, e la mia pronuncia è così diversa da quella dei colleghi che mi capita di vergognarmi della mia voce. Ma anche di tante altre cose. Domenica mattina, per esempio, stavo facendo jogging lungo il lago quando un collega, che ancora non conosco bene, mi ha invitata ad andare, nel pomeriggio, al cinema con lui. E io gli ho risposto: «va bene, piuttosto che stare in casa!». Mentre pronunciavo questa frase mi sono resa conto che diceva il contrario di quello che avrei voluto dire. Il mio intento era di sottolineare il valore dell’opportunità che mi offriva ma lui avrà pensato che la consideravo solo un rimedio. Più tardi, alla fine dello spettacolo, gli porgo la mano e lo accomiato con un secco «a domani», ma subito mi viene in mente che dovevamo ancora andare insieme alla macchina. Un’altra volta, domando all’architetta
che mi aiuta ad arredare l’appartamento: «è suo padre?» E lei: «no, è mio marito». Insomma, come avrà capito, sono un’imbranata. E lo sono sempre stata, soprattutto alle medie. Durante le interrogazioni mi sudavano le mani, balbettavo, rispondevo troppo presto o troppo tardi. E mi sentivo mortificata. Quanto darei per diventare sicura e adeguata come le colleghe! Ma non so cosa fare. Mi può aiutare? / Melany Cara Melany, credo che tu sia in grado di aiutarti da sola. Tutti siamo più o meno imbranati perché «è imbarazzante essere umani». Chi non si è mai sentito a disagio? Chi in certi momenti non avrebbe voluto scomparire? Addirittura morire, come esprime il termine «mortificata». Sono lampi di forzata autoconsapevolezza, durante i quali guardiamo a noi senza indulgenza, in modo spietato. Ed è questo atteggiamento che dobbiamo cambiare, senza pretendere di essere perfetti. La perfezione è sempre
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Niente voli: scelta virtuosa? Nel linguaggio corrente, a uso globale, è entrato, da qualche mese , un neologismo che va forte, ovviamente anglosassone: è «Flight Shame», nato però in Svezia, e diffuso su scala mondiale da Greta Thunberg, attivista sedicenne, impegnata a salvare il nostro malandato pianeta. E, per farlo, ha dato personalmente il buon esempio: è arrivata al summit di Davos, dopo 17 ore di treno, rifiutando l’aereo che, da Stoccolma a Zurigo, impiega poco più di un paio d’ore. La mossa era, in pari tempo, simbolica e abile: una disarmante sedicenne contrapposta agli arroganti potenti della politica e dell’economia. Insomma, da che parte stare? Domanda retorica. Gli effetti erano scontati. Quindi, non hanno sorpreso, più di tanto, le piazze piene di ragazzi che inneggiavano all’aria pulita e a città più verdi, aspirazioni legittime anche se vaghe. Ora l’episodio Greta, che poteva
sembrare soltanto folcloristico e circoscritto ai giovanissimi, sta avendo anche conseguenze inattese e persistenti, su piani allargati. A cominciare da quello politico, dove ha risvegliato una sensibilità ambientale che si traduce in voti verdi. Ma è soprattutto su quello della nostra quotidianità che si registrano gli effetti più sconvolgenti. L’urto di quest’onda verde ha, infatti, investito il bastione di abitudini e comportamenti, ormai consolidati, che appartengono all’«homo turisticus»: figura in cui tutti quanti, sia pure a gradi diversi, dobbiamo identificarci, godendone i vantaggi. Fra i quali, la possibilità di partire verso lontane e svariate destinazioni, rese accessibili grazie a voli d’ogni tipo e prezzo, proposti da compagnie di bandiera e da società private, in stretta concorrenza. In altre parole, il distante, lo sconosciuto, l’esotico sono a portata di mano, quasi banalizzati
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Ambiente e Benessere Volvo al servizio di tutti La casa automobilistica svedese ha deciso di condividere i suoi progetti di sicurezza pagina 21
Da Abu Dhabi a Petra, in Giordania L’ambizione del Louvre Abu Dhabi e la bellezza naturale del Mar morto, sono solo un paio delle mete principali del viaggio autunnale organizzato da Hotelplan per i lettori di«Azione»
Un’India inedita Terra di immigrazione di popoli semi mongolici, l’Assam è terra ancora poco esplorata
Non solo per minestre L’orzo torna a suscitare interesse come degno sostituto del riso
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Il veleno nascosto nella natura
Botanica La primavera porta a passeggiare
tra i boschi e magari anche a raccogliere qualche pianta selvatica, ma attenzione a quelle nocive
Marco Martucci, testo e foto È bello andare per prati e boschi alla ricerca di piante selvatiche, preparare fresche e variopinte insalate, gustosi contorni, dolci, marmellate e originali condimenti. È anche un modo per fare del sano movimento e soddisfare, rispettando le leggi di protezione della natura, il nostro atavico istinto di raccoglitori. Ma la natura, si sa, non è solo buona: nasconde non poche insidie e, fra queste, le piante dalle quali è meglio stare alla larga. È vero che le piante velenose non mietono molte vittime e che i casi mortali sono rarissimi, ma ogni anno si registrano avvelenamenti e Tox Info Suisse, il centro svizzero di riferimento per domande sulle intossicazioni, riceve in media 2800 chiamate all’anno per le sole piante e, di queste, oltre 2mila riguardano bambini. Già agli inizi del Cinquecento Paracelso disse che è la dose a fare il veleno. Ma talvolta le quantità pericolose sono molto piccole. Ci vuole dunque prudenza e buona conoscenza delle piante pericolose, da non mangiare e, in certi casi, da neppure toccare. È impossibile passarle ora tutte in rassegna e una scelta s’impone. Fra le più apprezzate piante selvatiche di primavera, subito dopo il dente di leone o tarassaco (Taraxacum officinale), che non è tossico, troviamo l’aglio ursino (Allium ursinum) che qualche problema invece lo pone. Le foglie dell’aglio ursino, dal tipico odore e dal delicato sapore di aglio, sono confondibili con quelle di due piante parecchio velenose, il colchico (Colchicum autumnale) e il mughetto (Convallaria majalis) che talora crescono negli stessi ambienti. Il colchico fiorisce in autunno e i suoi fiori somigliano a quelli del crocus. In inverno sparisce e in primavera, da un bulbo sotterraneo, si sviluppano lunghe foglie verdi e il frutto. Tutte le parti della pianta contengono un potente veleno, la colchicina. La confusione delle foglie con quelle dell’aglio ursino ha già provocato in passato gravi avvelenamenti, alcuni anche mortali. Distinguerle non è difficilissimo: le foglie del colchico sono più lunghe e strette e soprattutto non odorano di aglio. Quelle del mughetto somigliano forse un po’ di più a quelle dell’aglio ursino ma sono
meno tenere e neppure loro odorano di aglio. Anche il mughetto contiene pericolosi veleni, fra cui alcuni glicosidi che agiscono sul cuore. È noto il caso d’un bambino di cinque anni, morto per aver bevuto l’acqua da un vaso contenente un mazzo di mughetti. Si conoscono anche avvelenamenti dovuti all’ingestione dei rossi frutti del mughetto. Fra i tanti frutti rossi e colorati, molti sono ottimi e innocui, mentre alcuni sono invece velenosi. Un esempio: i frutti del cosiddetto «fior di stecco» (Daphne mezereum) curiosa pianticella legnosa dai sottili ramoscelli che, a fine inverno, prima di metter foglie, si decorano d’una bella fioritura profumatissima. Dai fiori, in estate, si formeranno gruppi di piccoli frutti rotondi, d’un bel rosso brillante che possono attrarre specialmente i bambini. Per fortuna hanno sapore amaro e bruciano in bocca per cui non se ne mangiano tanti. Ma anche il solo contatto con la pelle può essere pericoloso. Rossi e attraenti sono anche i frutti, (erroneamente chiamati «bacche», perché si tratta di una conifera) del tasso (Taxus baccata), un bell’albero che troviamo anche nei nostri boschi e che viene spesso piantato nei parchi e nei cimiteri. Confusioni potrebbero avvenire fra i suoi germogli e quelli di abete rosso, innocui e raccolti per farne sciroppi. Il tasso può diventare un albero imponente ed è parecchio longevo. Tutte le sue parti sono molto velenose, tant’è che lo si è chiamato anche «albero della morte» ed è velenoso non solo per l’uomo ma, come non raramente succede per altre piante tossiche, anche per molti animali. Si raccontano aneddoti di cavalli legati all’ombra di un tasso durante un funerale e che, alla fine della cerimonia, sono stati ritrovati morti. Fece notizia, non molti anni or sono, la morte di uno degli orsi dell’allora Fossa degli orsi di Berna, cui un ignaro e incauto turista aveva offerto qualche ramoscello strappato da un tasso che cresceva lì attorno. Risultato: il tasso fu abbattuto e, comunque, anni dopo, gli orsi furono trasferiti non molto lontano in luogo più adatto. L’unica parte del tasso che si può mangiare senza pericolo è il rosso e dolcissimo arillo, il nome tecnico della polpa del frutto. I semi sono tossici ed è meglio sputarli, in nessun caso masticarli. Gli uccelli se ne cibano contribuendo così alla diffu-
I fiori di Allium ursinum.
Un esemplare di Colchicum autumnale flores.
sione dell’albero: la polpa viene digerita e i semi attraversano indenni il tubo digerente uscendo poi con gli escrementi. Molto decorativi per la loro colorazione autunnale, sono anche i frutti del «cappel di prete» (Euonymus europaea), arbusto o alberello alto fino a sei metri, tossico in tutte le sue parti. Non sempre il pericolo è rappresentato dall’ingestione di foglie, frutti o semi. Talvolta basta il contatto con la pelle. Tutti conoscono le ortiche e ne apprezzano l’impiego in svariate ricette primaverili. L’effetto della loro «puntura» non è nulla se paragonato a quello di due altre piante che è meglio non toccare se non con la pelle ben protetta. Si tratta delle euforbie, soprattutto della più diffusa, l’euforbia cipressina (Euphorbia cyparissias), una non particolarmente vistosa piantina erbacea alta fino a 30 centimetri. Come tutte le euforbie contiene un latice aggressivo che, al contatto con la pelle provoca
forte infiammazione e formazione di vesciche. Da temere in particolare il contatto con le mucose e gli occhi. Le euforbie coltivate sono piante che sarebbe prudente non tenere nei giardini dove ci sono bambini, nota che vale per tutte le piante velenose. L’altra pianta pericolosa per la pelle è il Pánace di Mantegazzi (Heracleum mantegazzianum), alta fino a tre metri con grandi fiori a ombrella molto decorativi, originaria del Caucaso, introdotta da noi in parchi e giardini e sfuggita fino a diventare una vera e propria specie invasiva, spesso in vicinanze di corsi d’acqua. È pianta fototossica: il contatto con la pelle seguito da esposizione al sole causa una grave infiammazione con formazione di vesciche, una vera e propria ustione difficile da guarire. I casi di adulti, bambini, e anche di animali, vittime di queste ustioni, si ripresentano ogni estate. La lista delle piante velenose è ancora molto lunga.
Ricordiamo per concludere il ben noto oleandro (Nerium oleander) che provocò la morte di un gruppo di soldati di Napoleone che ne avevano adoperato i rami come spiedini. E, per le piante di montagna, l’acónito (Aconitum napellus) dai fiori blu che ricordano un elmo, una delle piante più velenose delle Alpi. Ma anche la bella e tipica «Rosa delle Alpi» (Rhododendron ferrugineum) è tossica. Non il suo miele, mentre è tossico quello di un altro rododendro che non vive da noi, il Rhododendron ponticum. Vasta è poi la schiera delle piante della famiglia delle Solanacee, cui appartengono patate, melanzane, pomodori e peperoni ma anche le pericolose e «magiche» mandragora, stramonio e belladonna. Informazioni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Ambiente e Benessere
Sarà EVA a salvare la nostra vita
Motori Volvo progetta un concetto di sicurezza che possa essere adottato da tutte le auto di qualsiasi marca,
come già all’epoca fece inventando le cinture di sicurezza – Oggi inizia da Care Key Mario Alberto Cucchi Le usiamo davvero tutti. D’altronde si trovano su ogni auto. Dalla velocissima Ferrari alla piccola Cinquecento. Dall’ultima moderna versione elettrica della Tesla allo spartano Land Rover Defender. Stiamo parlando delle cinture di sicurezza a tre punti di attacco. Ma chi le ha inventate? Le ha inventate il marchio Volvo, sessant’anni or sono.
Volvo ha pure comunicato l’intenzione di limitare la velocità massima di tutte le sue automobili a 180 chilometri orari a partire dal 2020 Correva il 1959, quando il costruttore svedese decise di mettere la sua scoperta al servizio di tutte le Case automobilistiche. Non la brevettò. Un’azione frutto del senso di responsabilità civile tipico della cultura svedese. Si calcola che in questi sessant’anni oltre un milione di vite siano state salvate grazie proprio alle cinture di sicurezza. Volvo anche oggi sceglie di condividere le proprie conoscenze maturate negli ultimi quarant’anni dedicati alla ricerca nell’ambito della sicurezza.
E.V.A. Questo il nome del progetto appena lanciato. Acronimo di «Equal Vehicles for All». Ovvero «veicoli uguali per tutti». L’obiettivo è ambizioso: eliminare gli incidenti mortali causati dalle auto, di qualsiasi marca esse siano. Una sicurezza condivisa per arrivare a vetture che siano sicure allo stesso
modo per ogni occupante. Un esempio? Secondo gli studi condotti da Volvo le donne sono esposte a rischi maggiori di subire lesioni in caso d’impatto. Il motivo? I sistemi di sicurezza sono stati spesso sviluppati senza tenere conto che siamo diversi l’uno dall’altro. Volvo lavora per proteggere con la stessa efficacia il
singolo occupante delle sue auto. Indipendentemente dal sesso, dall’altezza, dalla corporatura o dal peso, non limitandosi quindi alla persona media. Già oggi su molte automobili, non solo Volvo, si può regolare l’altezza dell’attacco delle cinture. Ma la maggior parte degli automobilisti che ne hanno
la possibilità non lo fa per una mancanza di consapevolezza. Ecco che Volvo vuole condividere tutti i suoi studi privilegiando il progresso sociale all’aspetto finanziario. Come? Attraverso l’apertura di una biblioteca digitale dedicata agli studi effettuati sulla sicurezza e accessibile a tutti i costruttori automobilistici. Proprio in questi giorni Volvo ha presentato il suo ultimo sistema dedicato alla sicurezza delle automobili. Si chiama Care Key e consente di impostare un limite di velocità massima sulla vettura prima di farla utilizzare ad altri membri della famiglia. Una tecnologia pensata per gli automobilisti più giovani e inesperti come i neopatentati. Dal 2021 questo sistema sarà di serie su tutte le vetture della Casa svedese. Ma non finisce qui. Dal 2020 il Costruttore inizierà a installare a bordo telecamere e sensori. L’obiettivo è monitorare il guidatore per consentire all’automobile di intervenire in caso di alterazione psicofisica del pilota, o anche semplicemente di stanchezza o distrazione. Volvo ha inoltre comunicato l’intenzione di limitare la velocità massima di tutte le sue automobili a 180 chilometri orari a partire dal 2020. Alla base c’è la necessità di maggiore sicurezza sulle strade. In molti però si fanno una domanda: è giusto che i costruttori installino tecnologie il cui obiettivo è ridurre gli incidenti anche a costo di limitare l’autonomia dell’automobilista? Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Ambiente e Benessere
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Un viaggio incantevole tra storia e ricchi paesi antichi. È quanto Hotelplan in collaborazione con «Azione» propone per l’autunno di quest’anno (dal 27.10 al 4.11.2019). Abu Dhabi è probabilmente l’ultimo posto al mondo in cui vi aspettereste di trovare i resti di un monastero
cristiano del 600 d.C. che testimonia il rapporto tra Abu Dhabi e il tempo: tra tutti gli emirati è quello con la storia più lunga alle spalle. È anche il più esteso, il più importante e il più ricco. Se Dubai ha una visione ipercinetica e scintillante di futuro, Abu Dhabi è ugualmente
contemporanea e ambiziosa; la Gran moschea dello Sceicco Zayed e il Louvre sono alcuni dei simboli di questa città in continua evoluzione. Il mistero dei Nabatei e la potenza di Roma; l’epica delle Crociate e l’arte bizantina, il bianco del sale del Mar morto e il rosso
Il programma di viaggio 27 ottobre: Ticino – Abu Dhabi Trasferimento per Milano Malpensa. Partenza per Abu Dhabi. 28 ottobre: Abu Dhabi Visita della città; la Grande Moschea di Sheikh Zayed, il lungo mare Corniche, l’Heritage Village e il centro commerciale Abu Dhabi Marina. 29 ottobre: Abu Dhabi Visita della «città bianca museo» del Louvre Abu Dhabi da 87mila mq.
30 ottobre: Abu Dhabi – Amman – Kerak – Petra Volo per Amman e partenza per Petra. Visita di Kerak e del suo castello crociato. 31 ottobre: Petra Visita della capitale nabatea considerata da tanti la città più scenografica del mondo, Petra: il Siq, il Tesoro e le Tombe Reali. 01 novembre: Petra – Little Petra – Wadi Rum – Amman Visita di Little Petra e Beidah; e partenza
per il deserto di Wadi Rum famoso per il suo paesaggio lunare. 02 novembre: Amman – Madaba – Monte Nebo – Mar Morto Visita della città. Si prosegue poi verso la città mosaico di Madama e per il Monte Nebo, il presunto luogo di sepoltura di Mosé. Partenza per il Mar Morto. 03-04 novembre: Mar Morto – Amman – Ticino Volo di rientro in Italia con scalo ad Abu Dhabi.
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del deserto di Wadi Rum: dove siamo? Pochi sanno rispondere, pochi conoscono la Giordania. È uno dei paesi più stabili del Medio Oriente e la sua capitale, Amman, è una classica città araba capace di sorprendere il visitatore con vestigia romane in ottime condizioni. È attraversata dalla Strada dei Re, che 5mila anni or sono univa la Siria al Regno d’Egitto. Oggi è ancora possibile percorrerla per raggiungere l’epicentro della Giordania: Petra. La Giordania offre ai propri visitatori scenari naturali estremi come il Mar Morto e il deserto di Wadi Rum. Sul sito www.azione.ch, il dettaglio del calendario qui di fianco.
NAP Località Telefono e-mail Sarò accompagnato da … adulti e … bambini (0-17 anni). Sistemazione desiderata (cerchiare ciò che fa al caso). Variante singola: SI NO
Prezzo a persona In camera doppia (a): CHF 3780.– Supplemento camera singola (b): CHF 495.– Spese agenzia Hotelplan: CHF 70.– La quota comprende Trasferta in pullman all’aeroporto di Milano e ritorno, voli di linea in classe economica da Milano; tasse aeroportuali; tutti i trasferimenti privati e ingressi menzionati; guida locale di lingua
italiana per tutta la durata del viaggio; pernottamenti in camera prescelta con servizi privati; trattamento di pensione completa; accompagnatore Hotelplan Ticino. La quota non comprende Adeguamento carburante; extra in genere; assicurazione viaggio da CHF 109.–; mance (circa 50 euro per persona da pagare in loco); spese agenzia. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Ai confini dell’India
Ambiente e Benessere
Viaggiatori d’Occidente L’Assam è la cerniera tra India, Tibet e Sud-est asiatico Marco Moretti, testo e foto Uomini vestiti di bianco suonano tamburi e cantano, seduti per terra nel salone spoglio di un grande tempio, al centro di un giardino circondato da portici con le celle dei monaci. È un satra, uno dei 28 monasteri induisti di Majuli, la grande isola al centro della bassa valle del Brahmaputra, in Assam. Il tempio è aperto sui due lati più lunghi, in fondo un’edicola con il fuoco perenne e una copia del Bhagavad Gita (il testo sacro con l’insegnamento di Krishna); non ci sono idoli, né bramini a officiare il culto. È una singolare forma di induismo – senza caste, né idoli, né abitudini vegetariane – codificata nel XV secolo dal filosofo assamese Sankardev. Un culto che mutua dal buddhismo la vita monastica ma è votato a Vishnu (il dio conservatore indù) attraverso il suo avatar Krishna, per mezzo di musica, danza e teatro. Anche questi monasteri ribadiscono la diversità dell’Assam dal resto dell’India e mostrano quanto questo Stato all’estremo oriente del subcontinente indiano sia la vera cerniera con il Tibet e il Sud-est asiatico. Qui una miriade di etnie semi mongoloidi di ceppo soprattutto Burmo-tibetano ma anche Thai sono migrate nell’ultimo millennio da Tibet, Bhutan, Nepal, Cina e Birmania, mescolandosi agli Assamesi veri e propri, la più orientale popolazione di lingua sanscrita, modificandone dieta, costumi e fede. In Assam la gente è timida e discreta (rarissimo in India) e non annuisce dondolando la testa come gli altri indiani. Qui i vegetariani sono rari. In cucina non si usano spezie e i dhal indiani si mescolano a chowmein cinesi e a momo tibetani. Come in tutto il Sud-est asiatico si usano i bilancieri per trasportare le merci sulle spalle. Si raggiungono i satra in rickshaw sobbalzando su strade sconnesse. Il maggiore è quello di Aouniati, vicino alla cittadina mercato di Kamalabari, visitato da molti pellegrini: qui il tempio ospita preziose pitture murali, una grande statua di Garuda (veicolo di Vishnu, non idolo da adorare) ed
India, Assam, Majuli, grande isola al centro della bassa valle del Brahmaputra. Su www.azione. ch, si trovano altre immagini.
eccezionalmente una piccola statua di Krishna che suona il flauto. A stupire di più è però quello di Samugari, il satra delle maschere, perché qui da cinque secoli una famiglia di monaci, liberi di sposarsi, tramanda di padre in figlio, l’arte di fabbricare maschere di divinità e animali mitici, impastando argilla ed escrementi di vacca su un’intelaiatura di bambù poi coperta di cotone e dipinta. Sono maschere coloratissime usate per danza, teatro e per il Ras Mahotsav Festival, nella terza settimana di novembre. Camminando tra risaie e paesaggi bucolici popolati da infinite varietà di uccelli tropicali, a mezz’ora da Garamur si raggiunge un villaggio Mishing, una minoranza linguistica sino-tibetana giunta qui in tempi remoti dal nord
della Cina. Hanno uno stile di vita molto simile a quello dei villaggi del Laos settentrionale: allevano maiali, pescano e coltivano riso e patate (i principali
alimenti dell’Assam insieme al pesce di fiume), fanno fermentare il riso per produrre una bevanda alcolica, vivono in case a palafitta con strutture di bam-
Il fiume sacro Brahmaputra che nasce in Tibet e sfocia nel Golfo del Bengala.
Lungo la strada dentro il parco nazionale di Kaziranga, patrimonio Unesco.
L’isola tempio Umananda.
Interno di un tempio, Assam, Majuli.
Maschere a Majuli.
bù e pareti di rattan, tessono su telai sistemati all’ombra sotto le loro case. Ospitali, invitano i rari visitatori nelle loro abitazioni offrendo birra di riso e spartendo il loro cibo. Chiuso tra il tibetano Arunachal Pradesh e gli Stati al confine con la Birmania, l’Assam si estende nella bassa valle del Brahmaputra (significa Il figlio di Brahma, il dio creatore degli indù), il fiume sacro che nasce in Tibet e dopo 2900 chilometri raggiunge il Golfo del Bengala dopo essersi unito al Gange nell’infinito delta dei Sundarban. Con le piatte coste sabbiose, in Assam il Brahmaputra si presenta come un’immensa distesa d’acqua senza orizzonte. Lo si attraversa più volte col traghetto per raggiungere Majuli e per visitare l’isola tempio di Umananda. La capitale Guwahati è invece una città caotica, rumorosa e inquinata, dove il primo istinto è fuggire; vicino al tempio nepalese, una delle rare attrazioni cittadine, il tè è venduto in una miriade di botteghe. Le piantagioni di tè, piantate dagli inglesi nell’Ottocento, si estendono su un’ampia parte del territorio. La varietà assamica, con una pianta più bassa della tradizionale Camellia sinensis, è coltivata in pianura, e dà un tè nero esportato in Europa soprattutto per preparare la miscela breakfast. Immense piantagioni di tè costeggiano l’unica strada che da Guwahati attraversa l’intero Assam verso nord-ovest. Il tè è alternato all’altra grande coltura locale, il riso, del quale si contano 220 varietà. Poche ore a nord di Guwahati si trova il parco nazionale di Kaziranga, il maggiore santuario del rinoceronte asiatico, dichiarato patrimonio dell’Unesco perché ospita i due terzi della varietà unicorno (2450 esemplari). Li si vede in quantità – insieme a bufali d’acqua, elefanti e cervi di palude – partecipando a un safari a bordo di fuoristrada o a dorso di elefante. Rarissimo invece l’avvistamento dei pochi esemplari di tigre presente nel parco. Kaziranga è l’unica destinazione dell’Assam ad attirare i turisti dei viaggi organizzati. Questo Stato ha eliminato da alcuni anni permessi e limitazioni per i viaggiatori indipendenti, ma la sua posizione remota e la carenza di infrastrutture (le strade a nord di Kaziranga sono pessime) limitano il loro afflusso. In tre settimane di viaggio ho incontrato appena otto visitatori occidentali: anche nel mondo del turismo di massa c’è ancora spazio per incontri e scoperte.
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Ambiente e Benessere
Nel 1850 la tecnologia entra in cantina
Scelto per voi
Vino nella storia Durante il XIX secolo molte innovazioni hanno modificato
la pratica della viticoltura e della vinificazione
Davide Comoli Alla fine del 1800 la viticoltura e l’enologia ricevettero un forte slancio. Si pubblicarono articoli, si fondarono Stazioni enologiche sperimentali e Scuole di enologia, e non da ultimo furono dati alle stampe molti volumi inerenti a queste materie. Nel 1875 fu pubblicato a Casale Monferrato il primo settimanale nazionale di viticoltura ed enologia: «Il Giornale Vinicolo Italiano». E ancora nel febbraio dello stesso anno, si tenne a Torino il primo Congresso enologico: fu l’occasione per un confronto di opinioni sul futuro dell’enologia, sia da un punto di vista tecnico sia da quello commerciale. Il Congresso sostenne una precisa divisione del lavoro. Si auspicava una separazione dei ruoli e una forte specializzazione. I vignaioli dovevano occuparsi delle vigne e vendere le uve a vinificatori professionisti, che a loro volta dovevano essere organizzati in
importanti aziende dirette da enologi competenti, affiancati da esperti di mercato. Inoltre, in futuro, si sarebbero studiati i gusti dei consumatori stranieri, in modo tale da poter fornire prodotti atti a soddisfarli. Anche il settore della tecnologia enologica registrò in quel periodo un forte impulso, a partire dalla pigiatura e pressatura delle uve. Già nel 1823 l’ingegnere Ignazio Lomeni aveva presentato all’Istituto di Scienze di Milano un prototipo di macchina per la pigiatura, la quale, attraverso due cilindri di legno scanalati che la componevano, non lasciava passare acini non pigiati né schiacciava in modo indiscriminato i vinaccioli e i raspi insieme agli acini. In quel periodo, si stava infatti affermando nella vinificazione in rosso la diraspatura. Interessante, si dice, fu il dibattito sulla macerazione, svolta in contenitori di legno o in muratura, a tino co-
perto o scoperto, a vinaccia sommersa e sul contatto tra mosto e parti solide, temperatura e rimontaggio. Si procedette a sperimentare coadiuvanti per l’illimpidimento e la stabilizzazione, perché il mercato continuava a richiedere una maggiore quantità di vino in bottiglia per i quali stabilità e limpidezza erano di primaria importanza. Anche la filtrazione vede, a fine 1800, una significativa evoluzione passando ai filtri di carta o cellulosa come i filtri di Siegel, Krauss o l’Albach. Nel 1881 a Conegliano, in una mostra di meccanica enologica, fu presentato «un misuratore di vino» e due anni dopo lo stesso inventore, Giuseppe Garolla, presentò la celeberrima pompa irroratrice, innovativa per la lotta antiperonosporica che porta il suo nome. Grandissimo successo riscosse anche la sua pigiatrice-diraspatrice, alla quale seguirono l’enofollatore e un nuovo torchio continuo.
Un esempio di viti alberate a forma di pergola. (Roberto Fiadone)
L’avanzata tecnologica portò anche studi innovativi sulla produzione dei vini spumanti. All’ideazione di apparecchi che servissero a realizzare questa tipologia di vini, si applicarono personaggi famosi nel mondo enologico come il francese Charmat, Antonio Carpenè e Federico Martinotti. Le prime autoclavi, realizzate in acciaio smaltato e ghisa per la fermentazione degli spumanti, furono introdotte solo nel 1920, dopo la Prima Guerra Mondiale. Questo recipiente portava una grande novità: la rifermentazione del vino non in un recipiente piccolo come una bottiglia, ma in un grande recipiente (250 l circa) chiuso, a tenuta di pressione. Anche la storia dei recipienti da vino e dei loro materiali subì nuove svolte. A metà del 1800 nuovi materiali entrarono in cantina: intorno al 1860 il cemento cominciò ad affermarsi. Nel 1883 Giacomo Borsani brevettò un sistema di rivestimento interno delle vasche di cemento con lastre di vetro. Per quasi cent’anni il cemento diventò il principale materiale con cui erano realizzate le grandi vasche per il vino. Queste restarono in auge fino alla fine degli anni Sessanta, quando pur senza scomparire da molte cantine, cedettero il posto a un innovativo materiale, l’acciaio inossidabile, che cominciò a trovare molte utilizzazioni in cantina; sino ai grandi serbatoi delle autobotti adibite al trasporto dei vini. All’inizio del XX secolo, come già era stato preconizzato da Jules Guyot, si ebbe un passaggio dalle viti alberate a forme di pergole, alberelli a ventagli e a contro spalliere. La necessità di ricorrere al portinnesto e l’esigenza di difesa anticrittogamica e di una minima meccanizzazione spinsero verso l’allevamento in filari, con forme in grado di adattarsi, grazie a piccoli cambiamenti, a vitigni e situazioni diverse.
Malbec-Terrazas de los Andes
Senza dubbio originario del sudovest della Francia, il Malbec è il vitigno dominante a Cahors, ma è in Argentina che ormai è considerato il più coltivato, soprattutto nei vigneti terrazzati delle Ande, a un’altitudine che varia dai 700 ai 1100 m sul livello del mare, sopra la città di Mendoza. È uno spettacolo pittoresco quello che appare ai nostri occhi alle spalle di vigneti coltivati a Malbec, dove si stagliano coperte di neve le cime del Cordón de Plata e del Tupungato. Vinificato in purezza, il Malbec argentino ci regala un ventaglio di profumi caldi e avvolgenti, confetture di bacche rosse e nere, note affumicate, liquirizia, molto speziato, legato all’uso delle barriques. In bocca, il frutto maturo e l’alto contenuto alcolico contribuiscono a regalarci sensazioni morbide che addolciscono i tannini di cui è ricco il vitigno. Questo vino possente e generoso, può essere consumato (a differenza del Malbec di Cahors) abbastanza giovane. Lo consigliamo quindi in questa settimana che precede i riti di Pasqua, con i piatti tipici di questo periodo, capretto e agnello. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 22.90. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Ambiente e Benessere
Il ritorno dell’orzo Non abbiamo mai parlato dell’orzo: rimediamo. È un cereale antichissimo, le prime tracce di coltivazione risalgono a 9-10mila anni or sono. Oggi resta una coltivazione importante, anche se gli altri cereali l’hanno surclassato. Soprattutto per un problema: è molto soggetto all’allettamento (cioè nel ripiegamento fino a terra, per l’azione del vento o della pioggia) cosa che danneggia la pianta. Credo che siano allo studio cultivar più bassi e robusti, ma non sono ancora in essere.
Di solito lo si impiegava solo per zuppe e minestre, ma sta avendo una nuova vita anche in insalate e orzotti Orzo è un termine che identifica il cereale: ma anche un formato piccolo di pasta secca (in granelli, chiamati anche risoni) di produzione industriale, ideale per tutte le preparazioni in brodo e anche per una diversa insalata di «riso», poiché la pasta – al contrario del riso – raffredda senza problemi mantenendo una consistenza più che accettabile. Il cereale è coltivato a tutte le latitudini. Oltre che per numerosissime preparazioni gastronomiche, l’orzo è utilizzato anche per la produzione di birra e whisky (si usa il chicco germogliato, da cui si ottiene il malto) e di un surrogato del caffè (si usa il chicco tostato e macinato). Nel Medioriente se ne ricava una semola per il cuscus; con la farina si preparano pani e focacce molto nutrienti, ma poco lievitati per la scarsezza di glutine; dall’orzo bollito si ottiene anche una bevanda di gusto gradevole. È commercializzato in due tipologie: orzo mondo o decorticato, che è semplicemente privato delle glumelle ed è quindi integrale, e orzo perla-
to, che viene raffinato e sbiancato. In Italia il consumo di orzo è limitato soltanto ad alcune preparazioni regionali, essenzialmente minestre e zuppe, tipiche soprattutto di Friuli, Trentino e Val d’Aosta; ultimamente, però, questo cereale ha conosciuto un certo ritorno d’interesse e viene a volte preparato come un risotto (orzotto, nella foto: orzo risottato), oppure lessato, mescolato con ingredienti diversi e consumato come il riso, per l’appunto, in insalata. È sicuramente un fatto positivo perché l’orzo, oltre ad essere un cereale gustoso, è anche nutriente e benefico (quello mondo in particolare ha proprietà rinfrescanti, emollienti, toniche e ricostituenti, e contiene buone quantità di vitamine e sali minerali), infine si prepara facilmente. In pratica. Prima dell’uso l’orzo mondo deve essere messo a bagno per una notte. Dopo averlo bene sciacquato si procede alla cottura: in brodo se si vuole cucinare una minestra, oppure per assorbimento se lo si vuole asciutto, un po’ come si fa con il riso. In questo caso è meglio tostare il cereale in una casseruola e unire acqua o brodo bollenti nella proporzione di 1:3 (1 parte di orzo e 3 di liquido). Il piatto base con l’orzo, almeno per me, non è una zuppa ma un orzotto, fatto così. Tagliate a dadini, per 4 persone, 100 g di pancetta. Mondate 400 g (peso netto) di verdure di stagione, tagliatele a dadini. Poi sbollentatele per 1 minuto, fermandone subito dopo la cottura in acqua ghiacciata per 5 minuti. Sciacquate 300 g di orzo perlato. Mettete in una casseruola la pancetta e rosolatela per 3 minuti, aggiungete l’orzo e rosolare per 3 minuti. Cuocetelo per 40 minuti circa (ma controllate sulla confezione), unendo brodo vegetale bollente necessario mestolo dopo mestolo. 2 minuti prima che sia pronto unite le verdure, 1 minuto prima che sia pronto regolate di sale e di peperoncino. Servite irrorando con 1 giro di olio o con 1 noce di burro.
CSF (come si fa)
WordRidden
Allan Bay
Bruno Cordioli
Gastronomia Surclassato da altri cereali, resta un cereale importante anche per la produzione di birra e whisky
Il sukiyaki è un piatto tipico della cucina giapponese. È uno dei nabe (letteralmente «pentola»), ossia piatti a base di carne, pesce o verdure che si cuociono sul fornelletto da tavola. Un po’ come noi facciamo con la fonduta, con la differenza che per la fonduta si utilizza una pentola cilindrica o anche troncoconica, per il sukiyaki si utilizza una «pentola» – fra virgolette, perché con pentola in italiano si intende sia
qualsiasi contenitore atto a cuocere sia il contenitore in cui l’altezza è maggiore del diametro – con i bordi bassi, quasi una padella. Ecco una ricetta, è un po’ complessa da preparare, semplificatela a piacer vostro. Per 4 persone. Tagliate a fettine sottili 800 g di filetto di manzo; mondate e affettate 200 g di germogli di bambù, mezzo cavolo cinese, 2 carote e 2 porri. Pulite e spezzettate 200 g di spinaci, quindi mondate 8 funghi shiitake – o altri funghi, i porcini vanno benissimo. Cuocete 100 g di vermicelli cinesi, scolateli e teneteli in caldo, poi preparate 200 g di gohan, il riso bollito – va bene anche riso bianco nostrano. Dividete in 4 porzioni la carne, i vermicelli e le verdure e disponete il tutto in 4 piatti individuali, ai quali
aggiungerete 40 g a testa di dofu yaki (tofu grigliato). Suddividete anche il riso in 4 ciotole, quindi prendete 4 coppette e rompeteci 1 uovo a testa. Preparate la salsa emulsionando 1 dl di brodo vegetale con 6 cucchiai di salsa di soia, 2 cucchiai di sakè, 2 cucchiai di zucchero e 4 cucchiai di olio di semi di soia. Scaldate 2 cucchiai di olio di semi di soia in un recipiente acconcio per fonduta sul fornelletto, versate metà della salsa e, servendovi di bacchette, di molle da cucina o degli appositi spiedi, cuocete rapidamente i vari ingredienti (salvo il riso che si mangia tiepido); prima di cuocere la carne, passatela nella coppetta con l’uovo sbattuto. Aggiungete altra salsa quando necessario. A piacere, accompagnate il piatto con verdure marinate in aceto di riso.
Ballando coi gusti Oggi due dolci: il primo, la torta sbrisolona, semplicissimo, il secondo, i tozzetti, anche più semplice.
Sbrisolona
Tozzetti
Ingredienti per 8 persone: 250 g di mandorle spellate · 250 g di farina bianca ·
250 g di farina di mais · 250 g di zucchero semolato · 3 tuorli · 150 g di burro · 1 bustina di vanillina · la scorza grattugiata di 1 limone.
Ingredienti: 300 g di nocciole sgusciate · 3 uova · 300 g di zucchero semolato · 1 cucchiaio di semi di anice · 500 g di farina · mezza bustina di lievito per dolci · latte · 1 dl di olio di semi.
Tritate le mandorle, tutte meno una manciata, e mettetele in un’ampia ciotola, aggiungete la farina bianca e quelle di mais, lo zucchero, i tuorli, il burro ammorbidito e ridotto a pezzetti, la vanillina e la scorza di limone. Impastate bene ma senza esagerare. Imburrate una tortiera a bordi bassi da 24 cm e versate l’impasto, livellando. Sopra aggiungete la manciata di mandorle. Cuocete la torta in forno a 180° per circa 45’. Sfornate e lasciate raffreddare la torta prima di servirla.
Tostate brevemente in forno le nocciole, quindi spellatele. Sbattete con una frusta i tuorli e lo zucchero, fino a renderle spumose. Aggiungete i semi di anice, le nocciole, l’olio e la farina setacciata con il lievito, poca per volta, amalgamando. Dovrà essere morbido: se troppo sodo, stemperatelo con poco latte. Distribuite l’impasto su una placca unta e infarinata, formando dei filoni spessi circa 2 cm e larghi 10 cm. Cuocete in forno a 180° per 20 minuti, sfornate e tagliate i filoni ancora caldi in fettine. Passate ancora i tozzetti in forno a 160° per 10 minuti. Sfornateli e lasciateli raffreddare prima di gustarli.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Ambiente e Benessere
Giochi
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba L’aquila fino a che distanza riesce a vedere? Troverai la risposta risolvendo il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 5, 3, 10, 1, 5)
ORIZZONTALI 1. Festività cristiana 6. La patria di Vittorio Alfieri 7. Le iniziali del pittore Dalì 9. Si sente nella gola... 10. Avvezzi 11. Mi seguono in miseria... 12. Gabbia per polli 13. Sono un’unità di misura 17. Avverbio di tempo 18. La città eterna 19. Isola della Croazia 20. Prefisso che vuol dire orecchio 21. Gareggia nel palio 22. Pronome personale 23. Lo Spirito della trinità 24. Consonanti dell’ultima consonante... 25. Regione storica della Francia 26. Le figlie di Zeus VERTICALI 1. Piccoli centri 2. Attrezzi da carpentiere 3. Una storia lasciata a metà 4. Quindici meno undici 5. Campioni nelle carte da gioco... 8. Le nozze del sessantesimo anniversario 10. Il margine di un affare 12. Si può realizzare... dormendo 13. Si legge sul pentagramma 14. Si utilizza per soggiorni brevi 15. Posto in basso 16. Le iniziali dell’Ariosto 17. Barca veneziana usata anticamente per le regate 19. Sono più apprezzati da vecchi 21. Il famoso Degan 23. Le iniziali dell’attore Accorsi 24. Simbolo dello zirconio
Sudoku
Partecipazione online: inserire la
luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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UN SINGOLARE ALBERO – L’albero della foto si trova in: SICILIA e si chiama: CASTAGNO DEI CENTO CAVALLI.
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Pubbliredazionale Pubblidirezionale
Il biogas è un’energia rinnovabile
In oltre 35 impianti in tutta la Svizzera si ottiene biogas da rifiuti organici come scarti vegetali o fanghi di depurazione, che viene in seguito direttamente convogliato nella rete del gas. Così potete riscaldare, cucinare o fare il pieno nel rispetto del clima e producendo soltanto ridotte emissioni di CO2. Il gas naturale e il biogas immesso nella rete sono identici come composizione e sono costituiti per la maggior parte da metano (CH4). La grande differenza risiede nell’estrazione/nella produzione del gas: il gas naturale è un gas presente in natura, che viene estratto da giacimenti naturali. Il biogas è prodotto dalla fermentazione di rifiuti organici delle abitazioni, delle aziende agricole o degli impianti di trattamento delle acque reflue e costituisce pertanto un’energia rinnovabile.
I distributori di gas svizzeri sono pionieri
Più di 20 anni fa in Svizzera per la prima volta al mondo venne immesso del biogas nella rete del gas. Oggi il biogas e il gas naturale vengono comunemente mischiati nella rete del gas. Per i consumatori è irrilevante che esca biogas o gas naturale dalle condutture di casa: in Svizzera un servizio di clearing, su mandato della Direzione generale delle dogane, monitorizza i quantitativi di biogas immessi nella rete e quelli venduti. Ai consumatori è così possibile garantire che il biogas acquistato è stato effettivamente immesso nella rete. Anche il biogas che viene importato in Svizzera è soggetto a elevati requisiti qualitativi: grazie ai certificati di origine è possibile tenere traccia del processo di produzione in qualsiasi momento, anche all’estero.
Il gas naturale e il biogas sono sempre più diffusi
Che cosa c’entra una mela con il nostro futuro energetico? Più lo conoscete, più vi convince.
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Attraverso uno speciale programma, il settore svizzero del gas incentiva la produzione e l’immissione di biogas nella rete del gas con circa CHF 3 milioni l’anno. Viene incentivato solo il biogas che soddisfa gli elevati requisiti qualitativi della Confederazione e del settore del gas, vale a dire solo biogas ecologico ed eticamente impeccabile proveniente da rifiuti e materiali residui, ma non da alimenti o piante appositamente coltivate per la produzione di energia. Circa un terzo di tutte le economie domestiche svizzere alimentate a gas sceglie un prodotto a biogas o un prodotto a gas naturale con una percentuale di biogas. È il risultato di un’indagine condotta nel gennaio 2019 fra le aziende svizzere di approvvigionamento energetico su incarico dell’Ufficio federale dell’energia.
Al volante senza imposte con il biogas come carburante
Il biogas può essere utilizzato non solo come combustibile per riscaldare, cucinare o per impieghi industriali, ma anche come carburante. La percentuale minima di biogas nel gas carburante che è possibile acquistare è del 10 per cento. In alcune stazioni di rifornimento a gas decidete voi stessi se e di quanto aumentare questa quota, fino ad arrivare al 100 per cento di biogas. Se guidate un’auto alimentata con il 100 per cento da biogas viaggiate con ridotte emissioni di CO2 e una produzione pressoché nulla di polveri fini o di ossidi d’azoto, come avviene con tutte le vetture a gas naturale. Inoltre, come carburante il biogas è esonerato dalle imposte sugli oli minerali, il che si ripercuote positivamente sui costi complessivi. Trovate maggiori informazioni sul tema del biogas e del futuro energetico su gazenergie.ch
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Politica e Economia I 70 anni della Nato Nata nel 1949 all’inizio della Guerra Fredda, ci si interroga ora sul suo ruolo nel mondo di oggi
Casa Bianca 2020 Chi sono gli sfidanti di Donald Trump alle urne e per quali ragioni gli uomini del presidente li temono di più pagina 33
Ultimo colpo di scena Il Regno Unito non può lasciare l’Europa senza un accordo: anche se questo vorrà dire chiedere a Bruxelles un ulteriore rinvio della Brexit pagina 35
pagina 32
Perequazione da ripensare Un errore costato alcuni milioni al Canton Zurigo riapre il dibattito sui meccanismi della compensazione finanziaria federale
pagina 37 A Quetta, Balochistan, manifestazione a favore dei diritti umani. (AFP)
Un popolo di fantasmi
Scomparsi e tombe di massa Secondo un rapporto appena pubblicato da Amnesty le sparizioni di persone
a opera dei servizi segreti e dell’esercito pakistano stanno diventando la norma non soltanto in Balochistan
Francesca Marino Era il 27 marzo, quando i volontari della Fondazione Edhi si sono ritrovati per l’ennesima volta, a Quetta, a seppellire dodici corpi ritrovati nelle strade e nei campi del Balochistan: dodici corpi decomposti e mutilati in modo da essere irriconoscibili, seppelliti senza nome e senza che le autorità effettuassero un test del DNA per tentare almeno di scoprire a chi appartenevano quei poveri resti. Gli ennesimi, secondo i volontari, a essere sepolti in fretta e senza nome in una tomba comune. La cosiddetta politica del «kill and dump», uccidere e abbandonare nelle strade è difatti ormai da anni una pratica consolidata in Balochistan. Uomini, donne, vecchi e bambini vengono prelevati dall’intelligence e dai corpi paramilitari e scompaiono. Pochi ritornano recando segni di tortura, altri vengono ritrovati cadavere ai bordi delle strade. La maggior parte, scompare. Le prime tombe di massa sono state ritrovate nel 2014 a Turbat, e da allora ogni anno se ne ritrova una: l’ultima a Dera Bugti. Ma il copione è sempre lo stesso: l’esercito circonda
l’area impedendo alla popolazione di avvicinarsi e ricopre in tutta fretta le tombe. Nessuno conosce il numero esatto di quelli seppelliti in tombe senza nome, così come nessuno conosce il numero esatto di coloro che si sono volatilizzati senza lasciare traccia. Secondo le organizzazioni umanitarie si tratta di migliaia e migliaia, secondo il governo, che a un certo punto non è più riuscito a negare il fenomeno ed è stato costretto dalla comunità internazionale a formare una Commissione ad hoc, si tratta di qualche centinaio. Ma il fenomeno non è ormai limitato, come in passato, al solo Balochistan. Secondo un rapporto pubblicato giorni fa da Amnesty International, difatti: «I gruppi e gli individui presi di mira dalla pratica delle sparizioni forzate in Pakistan includono persone provenienti dal Sindh, dal Balochistan, individui di etnia Pashtun, membri della comunità sciita, attivisti politici, difensori dei diritti umani, membri e sostenitori di gruppi religiosi e nazionalisti, sospetti membri di gruppi armati e religiosi banditi dal governo e organizzazioni politiche. In alcuni casi, le persone sono aperta-
mente prese in custodia dalla polizia o dai servizi segreti e alle famiglie che cercano di scoprire dove sono imprigionate viene negata dalle autorità ogni genere di informazione. Alcune vittime vengono rilasciate o alle famiglie vengono fornite informazioni sulla prigione in cui si trovano, ma le vittime continuano a essere in stato di detenzione arbitraria o addirittura internate in campi di prigionia. Gli “scomparsi” sono a rischio di morte e di tortura». E, aggiunge la Defense of Human Rights: «Ci sono circa cinquemila casi irrisolti di sparizioni forzate in Pakistan. La maggior parte di questi è stata registrata nelle Federally Administered Tribal Areas (FATA), nelle Provincially Administered Tribal Areas (PATA), nel Khyber Pakhtunkhwa (KP), in Balochistan e nel Sindh. Amnesty chiede formalmente al Pakistan di «intraprendere immediatamente ogni azione per porre fine immediatamente alla pratica delle sparizioni forzate», ma la richiesta, come molte altre, è destinata a rimanere lettera morta. Secondo la International Commission of Jurists, difatti, la Commissione formata dal governo pakistano
per indagare sulle sparizioni forzate non ha compiuto alcun progresso, anzi: «La pratica è diventata ormai un fenomeno di portata nazionale»: un modo per il governo pakistano per eliminare attivisti, giornalisti, liberi pensatori e oppositori politici in tutto il Paese. D’altro canto, a far parte della Commissione sulle sparizioni forzate sono chiamati quegli stessi che delle sparizioni forzate sono colpevoli; membri dell’intelligence e dell’esercito. In Balochistan, secondo la Voice of Baloch Missing People, sarebbero circa diciottomila le persone scomparse negli ultimi anni. Mentre, secondo il Pashtun Tahafuz Movement (il movimento per la liberazione dei Pashtun) gli scomparsi in KP sarebbero più di ottomila e le sparizioni sono all’ordine del giorno. Gli attivisti del PTM, che si riversano in piazza a migliaia per protestare pacificamente, vengono prelevati dalla polizia e scompaiono. Nessuno sa dove si trovano, non c’è nessuna accusa formale a loro carico. E, sempre secondo il rapporto di Amnesty: «Se e quando gli scomparsi vengono rilasciati, vengono minac-
ciati di ritorsioni se parleranno con i media o se inoltreranno una denuncia... Chiedere giustizia non è un opzione, né per le vittime né per le loro famiglie.... Le famiglie degli scomparsi sono spesso minacciate, intimidite e abusate, specialmente le donne e coloro che hanno reso pubblica la loro protesta». Questo è il Naya Pakistan, il «nuovo» Pakistan di Imran Khan: che, è interessante notare, da candidato tuonava contro le sparizioni forzate e aveva promesso di sanare la situazione. Nei mesi del suo governo, la situazione è semmai peggiorata. Prigioniero di fatto dei generali di cui Imran è soltanto un portavoce, il premier fa finta di non vedere e non sentire. Mentre il Pakistan diventa sempre più una terra di fantasmi né morti né vivi, che esistono soltanto nel ricordo dei loro cari e nelle liste degli scomparsi. Una terra dove non esistono più il diritto né la legge, e dove tre quarti delle province sono costrette a subire un giogo molto più pesante di quello di ogni dittatura passata. E il fantasma più pauroso, quello che si aggira dentro ai sogni di tutti è diventato difatti quello della democrazia.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Politica e Economia
Serve ancora la Nato?
70 anni Le celebrazioni dell’Alleanza atlantica, nata per opporsi agli attacchi dell’Unione Sovietica, sono sembrate
più simili a un funerale che a una ricorrenza da festeggiare Federico Rampini Pochi vertici internazionali saranno passati inosservati come quello che si è tenuto la scorsa settimana a Washington. L’occasione: la North Atlantic Treaty Organization, più conosciuta con l’acronimo Nato, compiva 70 anni. Era stata creata nel 1949 all’inizio della Guerra fredda; un po’ di tempo prima il premier Winston Churchill uscito vincitore dalla Seconda guerra mondiale aveva lanciato l’allarme sulla «cortina di ferro» che stava dividendo in due l’Europa: a Est le nazioni occupate dalle truppe sovietiche, dove Stalin insediava governi «amici» (o vassalli); a Ovest i paesi liberati dagli angloamericani. A Est il dissenso veniva schiacciato; a Ovest le sinistre erano libere di manifestare la propria opposizione alla nascente alleanza atlantica, di chiaro stampo anticomunista. Alcuni paesi come la Svizzera, pur appartenendo alla schiera delle liberaldemocrazie e delle economie di mercato, decisero di rimanerne fuori, in omaggio alla tradizione di neutralità. Ma nei 70 anni dalla nascita il perimetro dell’Alleanza si è allargato molto, finendo per includere – su loro pressante richiesta – alcuni paesi dell’Est usciti dall’orbita di Mosca. Se si dovesse giudicare solo dalle apparenze «geografiche», cioè dalla sua estensione, la Nato è molto più forte oggi rispetto alle sue origini. Apparenze ingannevoli.
Brexit, indebolendo la Gran Bretagna e allentando i suoi legami con l’Europa, è un ulteriore colpo alla coesione e solidità della Nato La festa del settantesimo compleanno rischia di assomigliare alla mesta celebrazione di un funerale. Se ancora è prematuro parlare di un decesso vero e proprio, lo stato di salute dell’organizzazione è assai precario. Rimpiangeremo gli anni in cui l’Alleanza atlantica era contestata nelle piazze, segno che era davvero importante? Non è un caso se la scorsa settimana a Washington invece dei capi di Stato e di governo sono andati solo i ministri degli Esteri, una scelta volutamente di basso profilo. Donald Trump aveva aperto il vertice alternando trionfalismi e recriminazioni: si vanta di avere già costretto gli europei a pagare di più per sostenere la propria sicurezza; lamenta che ancora non facciano abbastanza; promette di costringerli a maggiori sforzi. Non è nuova questa lamentela: molti presidenti Usa, anche democratici, criticavano il «parassitismo» militare dei loro alleati. L’obiettivo di una spesa per la difesa pari al 2% del Pil, ufficialmente sottoscritto dai governi dei paesi membri, non viene affatto rispettato dalla maggioranza degli europei. Trump
A Copenaghen la cerimonia per i 70 anni della Nato. (AFP)
dunque dice cose già dette da Obama, Bush, e altri prima di loro, anche se lui ci aggiunge la sua consueta virulenza. E soprattutto: a differenza dei suoi predecessori, lui parla quasi solo di quello. L’attenzione esclusiva, ossessiva, alla dimensione contabile, già sottolinea che qualcosa si è perso. L’Alleanza atlantica nacque quasi contemporaneamente al Piano Marshall che erogava aiuti economici ai paesi alleati, i cui apparati produttivi erano usciti devastati dal conflitto. Nato e Piano Marshall erano due «figli» sia della guerra appena conclusa (e delle lezioni che gli americani ne avevano tratto), sia della Guerra fredda che era cominciata. Erano cose molto diverse, ma nel patto di mutuo soccorso militare in caso di aggressione, e nel finanziamento americano della ricostruzione post-bellica, c’erano dei punti in comune. Un’idea di Occidente, come un’area di valori condivisi. Un’idea di Europa unita, sia pure per la sola parte occidentale, di qua dalla cortina di ferro. L’impulso americano infatti fu decisivo perché – alcuni anni dopo – nascessero la Ceca del carbone e dell’acciaio, poi la Cee detta anche mercato comune: gli embrioni dell’Unione europea. La contabilità del do ut des passava in secondo piano, per dei leader americani che da Roosevelt a Truman a Eisenhower consideravano la rinascita dell’Europa come un interesse strategico. Nel contempo, dalla presidenza Roosevelt con le conferenze di Bretton Woods (1944) e di San Francisco era cominciato un ordine internazionale (Onu, Fmi, Banca mondiale, Gatt), che avrebbe retto durante e dopo la Guerra fredda, fino a gestire addirittura la cooptazione della Cina nell’economia globale. Tutto questo ci appare lontano anni luce. Quell’insieme di istituzioni appartengono all’era del multilateralismo. Oggi prevalgono le tendenze na-
zionaliste, sovraniste, che proprio nelle istituzioni multilaterali vedono il non plus ultra del globalismo, dell’élitismo tecnocratico, accusato di calpestare la volontà dei popoli. Per la Nato si aggiunge un problema specifico: molti, per diverse ragioni, hanno perso fiducia nella sua utilità. Naturalmente la tentazione è di appiattire tutto sul presente, dando la colpa al «Grande Satana» che è Trump. Facile, comodo, e sbagliato. Così come dopo l’11 settembre 2001 in un effimero slancio di solidarietà «Le Monde» scrisse «siamo tutti americani», dall’elezione di Trump in poi si direbbe che lo slogan prevalente sia quello opposto, «siamo tutti antiamericani». Ma la deriva dei continenti, l’allontanamento delle due sponde dell’Atlantico, iniziò molto prima. Intanto è bene ricordare che l’Alleanza atlantica è vissuta passando da una crisi all’altra. L’elenco è lungo. Il blitz militare anglo-francese-israeliano di Suez bloccato da Washington (1956), la tensione sui missili sovietici a Cuba quando si sfiorò la guerra nucleare (1962), la vicenda degli euromissili sovietici puntati contro l’Europa occidentale alterando l’equilibrio della deterrenza (1977-83); le tante avventure militari americane disapprovate dagli europei, in Vietnam o in Iraq: più volte è stato diagnosticato un peggioramento irreversibile e incurabile della relazione euro-americana. I problemi più seri cominciano trent’anni fa con la caduta del Muro di Berlino (1989, altro anniversario) e poi la disintegrazione dell’Urss, il «liberi tutti» che ne seguì, la dissoluzione di quel blocco sovietico che aveva avuto la sua alleanza militare nel Patto di Varsavia. Che futuro poteva avere un patto di mutua difesa, ora che l’aggressore potenziale era scomparso? Per la verità, non tutti credettero alla favola di un’Eu-
ropa pacificata per sempre. Anzi, negli ex-satelliti dell’Urss scattò il riflesso di chiedere l’adesione alla Nato perché «non si sa mai». La loro esperienza, non solo dell’Urss ma anche della politica estera zarista nei secoli precedenti, li rendeva sospettosi. Scattò quella dinamica di ampliamento della Nato a Est che Putin oggi descrive come un accerchiamento: tutta la narrazione degli ultimi anni a Mosca dipinge il comportamento della Nato e soprattutto quello americano come aggressivo, tale da alimentare un senso d’insicurezza da parte della Russia. È una narrazione che ha avuto proseliti anche in Occidente, soprattutto in Europa. Prescinde da due dati, però. Anzitutto, l’allargamento della Nato è stato richiesto democraticamente dai popoli dell’Europa dell’est, chiudergli la porta in faccia sarebbe stato come prolungare quella dottrina della «sovranità limitata» che li aveva oppressi nel periodo sovietico. In secondo luogo, è la tradizione dell’espansionismo russo ad avere inculcato paura nei vicini. Comunque l’allargamento della Nato a Polonia, Paesi baltici, Ungheria, Repubblica cèca, Slovacchia, poi altri ancora, fece emergere una «nuova Europa» filo-americana, nella definizione data da Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa di George W. Bush. Nella «vecchia Europa», soprattutto a Berlino dopo la riunificazione tedesca, la dinamica fu molto diversa. Prese forza il mito di un’Europa «superpotenza erbivora» (leggi: pacifista, quasi smilitarizzata), che avrebbe conquistato il mondo con il soft power del suo modello sociale avanzato, la sua cultura delle regole e dei diritti, la sua forza economica. La profezia di Fukuyama sulla «fine della storia», in fondo, influenzò più gli europei degli americani: fu il Vecchio continente a vedere un mondo senza più pericoli né nemici. L’esercito
comune europeo non è mai decollato, sabotato dai nazionalismi francese e inglese. La Germania si è consegnata al ricatto energetico del nuovo Zar di Mosca, con scelte come il gasdotto Nord Stream 2, mentre l’ex cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder viene stipendiato dall’ente energetico russo. Con la Cina ciascuno ha trafficato accordi bilaterali, e ha venduto pezzi pregiati di argenteria di famiglia molto prima che l’incauto governo Conte firmasse il recente Memorandum per aderire alla Nuova Via della Seta. La crisi economica del 2008 – mai superata veramente dagli europei – ha accentuato il disincanto verso il modello americano; proprio mentre Xi Jinping ne deduceva la superiorità del suo sistema autoritario. L’Alleanza atlantica non fu mai solo militare. Come molti tasselli dell’egemonia americana, essa generava consenso perché i risultati c’erano: crescita, lavoro, benessere. Il fascino dell’Occidente liberaldemocratico non era solo ideale, culturale, valoriale: marciava anche su una superiorità materiale. In questo senso forse oggi la crisi dell’Alleanza è diversa da tutte le altre: Trump e gli altri sovranisti vengono dopo il fallimento di un modello, i troppi esclusi, il vasto disagio sociale, e la nostalgia di un’epoca in cui si poteva investire di più sia sulla sicurezza sia sulla scuola. Serve ancora la Nato? Gli unici che oggi rispondono di sì senza esitazione sono i Paesi Baltici, la Polonia, ed anche alcuni ex-neutrali come la Svezia che subiscono sconfinamenti e provocazioni da parte delle forze armate russe sui loro cieli o nei loro mari. Gli altri, cioè proprio gli Stati membri del primo nucleo Nato, sono i più scettici. Brexit, comunque vada a finire, indebolendo la Gran Bretagna e allentando i suoi legami sull’Europa, è un ulteriore colpo alla coesione e solidità della Nato. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Politica e Economia
Chi sono gli sfidanti di Trump Casa Bianca 2020 Tre sono i candidati che impensieriscono per ragioni diverse gli uomini
del presidente americano: Joe Biden, Kamala Harris e Beto O’Rourke
elezione a sindaco di una città profondamente colpita dalla crisi e ora rinata, un anno di aspettativa dalla carica elettiva per arruolarsi volontario in Afghanistan, rielezione plebiscitaria al suo ritorno. Buttigieg, infine, è gay, sposato con un uomo in chiesa, parla sette lingue, tra cui l’italiano, l’arabo e il norvegese. Nell’ultima settimana, dopo un tour ben organizzato in televisione, i suoi numeri nei sondaggi sono schizzati in alto, ora è terzo in Iowa e in poche ore ha raccolto sette milioni di dollari. La sua improvvisa crescita è stato «il momento più ènata-una-stella da quando Lady Gaga ha iniziato a cantare Shallow», ha scritto David Brooks sul «New York Times». Buttigieg è un progressista come gli altri, ma a differenza dei concorrenti è un politico di nuova generazione: in caso di elezione sarebbe il primo presidente millennial, oltre che il primo presidente omosessuale. La sua forza è che non si presenta come un rivoluzionario arrabbiato e anche la sua omosessualità non appare minacciosa o trasgressiva. Buttigieg parla della sua fede e dei suoi valori familiari in un modo che non allarma per niente i conservatori sociali. Sembra un antidoto al melodramma delle guerre culturali del passato, e questo rassicura. Mayor Pete è ancora molto lontano dal dimostrare di essere all’altezza del compito, ma non è detto che le antiche certezze della politica americana valgano ancora. Del resto, due anni fa, nessuno pensava che Trump fosse uno statista.
Christian Rocca
L’ex vicepresidente Joe Biden potrebbe rinunciare a candidarsi. (Keystone)
considerano Bernie Sanders, battuto da Hillary alle primarie del 2016, come un serio contendente al prossimo ciclo. Ma l’organizzazione di Sanders è certamente migliore rispetto a quella degli avversari, quindi sarebbe un errore sottovalutarlo. Così come sarebbe un errore non prendere in considerazione la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren, paladina dei diritti dei consumatori, il suo collega del New Jersey Cory Booker, un Obama populista, e la loro collega del Minnesota, Amy Klobuchar che, con la senatrice di New York Kirsten Gilli-
brand, è la meno progressista del gruppo, la più clintoniana e, secondo gli antichi schemi, la più eleggibile. Lo sfidante di cui si parla di più in questi giorni è il sindaco di South Bend, una cittadina di centomila abitanti dell’Indiana. Si chiama Pete Buttigieg, un cognome di origine maltese quasi impronunciabile al punto che il sindaco preferisce presentarsi come Mayor Pete. Buttigieg ha un curriculum e una storia personale notevoli, 37 anni, laureato ad Harvard, Rhodes scholar come Bill Clinton a Oxford, impiego a McKinsey,
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tacciato di razzismo (Harris è per metà indiana e per metà giamaicana) e di sessismo. L’incognita di Kamala Harris al momento è quella di non avere l’esperienza necessaria ad affrontare una battaglia di questa portata e di essere poco credibile, rispetto a Biden e ovviamente a Trump, per gli elettori della Rust Belt che amano Dio e le armi. L’altro candidato competitivo è Beto O’Rourke, postura e retorica obamiano-kennediana ma meno accademica e aristocratica dei due presidentiicona del Partito democratico. Il fatto di essere del Texas, zona di frontiera meridionale, e non delle città o delle coste elitarie, è un grande vantaggio narrativo. Anche O’Rourke ha poca esperienza nazionale, come Harris: è stato deputato e l’anno scorso ha perso contro Ted Cruz al Senato. Ma ancor più di Kamala Harris, Beto è una formidabile calamita di finanziamenti e militanti. È molto carismatico, è dotato di un’innata capacità di attirare l’attenzione dei media e ha la naturalezza del predestinato di generare mobilitazione popolare. Inoltre, Beto farebbe diventare contendibile il Texas, uno Stato solidamente repubblicano su cui Trump preferirebbe non sprecare denaro e tempo. Le differenze politiche tra Beto e Kamala sono sottili, quasi inesistenti: sono entrambi seguaci della nuova tendenza vagamente socialdemocratica del mondo liberal americano, cioè sono favorevoli alla copertura sanitaria universale, all’ampliamento del sistema di welfare, alla tutela dell’ambiente, alla lotta alle diseguaglianze e all’integrazione degli immigrati. La retorica immaginifica e aspirazionale di Beto, però, lo fa apparire più moderato, da un lato più adatto a conquistare i voti degli indipendenti e dall’altro meno convincente per l’ala rivoluzionaria del fronte anti Trump. C’è da aspettare Biden, o Bloomberg, anche perché pare che Trump rispetti l’ex vicepresidente; a modo suo ovviamente. Gli uomini di Trump sanno che Biden è l’unico del gruppo democratico a non poter essere attaccato per inesperienza, credibilità nel comandare le forze armate e capacità di trovare una connessione con la working class bianca. Altri consiglieri trumpiani, invece, hanno detto ad Axios che il presidente non è affatto preoccupato di Biden, perché pensa che non abbia l’energia necessaria ad affrontare una campagna di questo tipo e anzi crede che possa far evaporare l’entusiasmo che in questo momento si avverte nelle file democratiche. Secondo Steve Bannon, che fino all’anno scorso giurava che Trump non si sarebbe ricandidato, nel 2020 il presidente sarà rieletto e gli unici due che potrebbero impedire il secondo mandato sono Harris e O’Rourke. Sono pochi, poi, gli analisti di destra e sinistra che
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La vita politica degli aspiranti successori di Donald Trump è diventata molto complicata dopo il rapporto Mueller o, per la precisione, dopo quello che l’Amministrazione Trump ha fatto trapelare dell’inchiesta condotta dall’ex direttore dell’FBI per accertare se ci sono state interferenze russe sulle elezioni americane del 2016 (sì, ci sono state) e se c’è stato un coordinamento tra il team Trump e gli apparati ufficiali di Mosca (no, non c’è stato). In attesa di conoscere il contenuto delle circa 400 pagine redatte da Mueller, che potrebbero comunque riservare sorprese, la grande speranza liberal di disfarsi del presidente per via giudiziaria è stata accantonata (anche se restano in piedi le inchieste ordinarie avviate dalle procure distrettuali di New York). I candidati del Partito democratico hanno appena iniziato la lunga corsa delle primarie che sceglieranno l’uomo o la donna che nel novembre 2020 sfiderà il presidente in carica, ma sono stati presi alla sprovvista perché erano tutti convinti che Robert Mueller avrebbe accertato i reati del presidente, se non la complicità con Mosca almeno il tentativo di affossare l’inchiesta, cosa che in verità potrebbe ancora fare il Congresso. Ma il dato politico è che Trump, per ora, è uscito indenne dalla minaccia più grave alla sua presidenza e i suoi potenziali avversari ora sono costretti a rimodulare la strategia e ad abbandonare la fantasia di ormai improbabili dimissioni. Al contrario, chi pare potrebbe rinunciare a candidarsi è l’ex vicepresidente Joe Biden, eterno indeciso ma ora impelagato in una grottesca storia di «atteggiamenti inopportuni», un bacio sulla nuca a un’ex deputata e un abbraccio affettuoso a un’altra donna, che non sono state considerate molestie sessuali nemmeno da chi le ha denunciate, ma che nell’epoca del #metoo sono comunque ritenute indecenti. L’inciampo a causa degli «atteggiamenti inopportuni» ha convinto Biden a rinviare la decisione, ma le richieste di restare fuori dalla corsa aumentano giorno dopo giorno nonostante molti consiglieri di Trump considerino l’ex vice presidente lo sfidante più pericoloso perché ben posizionato per riconquistare gli elettori bianchi delle ex zone industriali del Paese che nel 2016 assicurarono la vittoria dell’immobiliarista di New York. Finché Biden non scioglierà la riserva è difficile immaginare chi possa essere l’avversario peggiore per Trump, anche perché la possibile rinuncia dell’ex vice di Obama pare abbia riaperto la porta alla candidatura a sorpresa di Mike Bloomberg, l’ex sindaco di New York e magnate dei media economicofinanziari che qualche mese fa aveva detto che anche questa volta non sarebbe sceso in campo per evitare di dividere il fronte anti Trump. Bloomberg pensava che Biden fosse il candidato nelle condizioni migliori di battere Trump. Il presidente è convinto che nessuno della dozzina di candidati democratici possa disarcionarlo, almeno così dice pubblicamente. Privatamente, secondo quanto riportato dal sito Axios, i suoi consiglieri ne intravedono alcuni che potrebbero dargli filo da torcere: Biden, Kamala Harris e Beto O’Rourke. La senatrice della California Kamala Harris ha raccolto molti soldi, segno che piace a elettori e finanziatori democratici. Alla Casa Bianca sono rimasti colpiti dalla gran folla presente ai suoi comizi, in particolare a quello di lancio della candidatura. Trump, soprattutto, non ha ancora trovato il modo giusto ed efficace per parlare di lei, non le ha affibbiato un soprannome anche perché è consapevole che sarà un problema attaccarla senza essere
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Politica e Economia
L’ultimo colpo di scena (fra mille)
Brexit Svolta nella notte di mercoledì scorso: in parlamento passa per 1 voto la legge che esclude il no deal,
il divorzio senza accordo, e impone a Theresa May di chiedere all’Ue una ulteriore proroga
Cristina Marconi Le maggioranze a Westminster ormai si fanno con un solo voto: e infatti proprio uno in più ne ha preso la proposta della laburista Yvette Cooper e del conservatore Oliver Letwin di escludere il no deal e costringere per legge il governo a chiedere a Bruxelles un rinvio lungo della Brexit e a consultarsi con il Parlamento sulla durata del rinvio. Un colpo di scena tra i mille, tutti a salve, che stanno scuotendo la vita politica britannica in questa stagione apocalittica. Giunto in tarda serata, il sì alla proposta ha come principale risultato quello di mettere i bastoni tra le ruote alla strategia che stava portando avanti la premier Theresa May da circa ventiquattr’ore e che aveva finalmente il sapore di una mossa da vera statista: tendere una mano al leader dell’opposizione Jeremy Corbyn e cercare di trovare una soluzione consensuale per uscire dal pantano in cui la Brexit si è arenata. Corbyn, vestendo anch’egli per un attimo i panni da aspirante uomo di Stato, ha accettato volentieri la proposta e si è seduto al tavolo con la May, sebbene quest’ultima avesse messo una condizione importante alla sua apertura, ossia il fatto che il testo principale negoziato con Bruxelles, ossia quel trattato di recesso da 585 pagine contenente i punti più importanti come il conto di uscita, i diritti dei cittadini europei e soprattutto quella clausola di salvaguardia per evitare il confine fisico tra Irlanda e Irlanda del Nord diventata il centro di un dibattito in cui si è urlato molto e deciso ben poco.
Si può guardare alla Brexit come a una stravaganza britannica, però c’è qualcosa di sinistro nel modo in cui i populisti sono riusciti a immobilizzare un Paese Questa proposta di larghe intese nasce male, arriva tardi, quando i pozzi sono ormai troppo avvelenati per pensare di creare qualcosa di costruttivo e tutti hanno in mente una strategia da perseguire per arrivare alla loro situazione ideale, che sia il no deal, la no Brexit, il brivido del secondo referendum, l’utopia norvegese o la noiosa
solida concretezza dell’accordo della May. Nessuno dei due leader in questione è riuscito a preparare il terreno in questi anni e, in una strategia speculare e sterile, entrambi hanno lavorato sull’ambiguità delle loro posizioni nella speranza che una soluzione emergesse da sé. Entrambi hanno molto da guadagnare dall’approvazione dell’accordo. La May perché potrebbe chiudere con una nota di gloria un percorso che l’ha vista arrivare politica rampante dagli slogan assertivi e dalla reputazione impeccabile di dura e che nel giro di quasi tre anni l’ha ridotta a martire, bramosa di approvazione da parte degli oltranzisti dell’Erg, corrente che non ha mai fatto onore al suo nome di «European Research Group» proponendo qualcosa di più argomentato e ricercato che qualche dichiarazione biliosa e distruttiva. Ma la mossa della Cooper ha tolto alla premier l’unico strumento ancora funzionante che aveva in mano, ossia la fretta, la possibilità di dire «il burrone è lì, restate con me». A Corbyn converrebbe perché potrebbe andare alle urne come sogna da anni senza il peso di un dossier tossico e divisivo come quello europeo, che ha rovinato più di una carriera politica nel Regno Unito. Si può guardare la Brexit come una stravaganza britannica, e sicuramente nella caratteristica riservatezza degli inglesi e nel talento nazionale nell’ignorare gli elefanti nella stanza o gli elementi di disturbo si possono trovare molte radici della situazione attuale. Però c’è qualcosa di sinistro nel modo in cui i populisti sono riusciti a tenere sotto scacco un Paese pur essendo minoranza e pur senza essere eletti, e questa è la lezione che il resto d’Europa, se non del mondo, dovrebbe guardare con preoccupazione. Perché non c’è un populista a Downing Street, ma una donna di principi saldi che dal luglio del 2016 cerca di domare i populisti dando una risposta quasi tecnocratica alle loro preoccupazioni, invece di scegliere la via della leadership, «potere legittimato sulla base delle eccezionali qualità personali di un capo o la dimostrazione di straordinario acume e successo, che ispirano lealtà ed obbedienza tra i seguaci» secondo la definizione di Max Weber. Il risultato di questa sudditanza è davanti agli occhi di tutti: lo stallo, la paralisi interrotta solo dai sinistri rumori di una piazza pronta ad esplodere rivendicando le promesse che le sono
James Corbyn e Theresa May cercano di trovare una soluzione consensuale al pantano della Brexit. (AFP)
state fatte in una direzione o nell’altra. Pare che nel caso della May sia stato un viaggio in Irlanda fatto a fine febbraio a farle capire quanto fosse importante cercare di mantenere l’equilibrio dell’isola basato sugli accordi di Venerdì Santo. Il principio di realtà, che a tanti deputati britannici manca anche per via di un sistema basato su un contatto stretto con l’elettorato e le sue preoccupazioni quotidiane, le hanno imposto di fare una scelta a lungo ritardata, ossia quella tra il rischio di far precipitare il suo Paese nel no deal e quello di vedere il suo partito spaccarsi. Da decenni nei Tories convivono un animo liberale, internazionalista, progressista e corsaro, favorevole a uno Stato piccolo e a una grande libertà personale, e uno più chiuso, isolazionista, conservatore nel senso più proprio del termine, avverso a passi avanti come il matrimonio gay voluto da David Cameron e profondamente euroscettico. Il secondo gruppo è in grado di corteggiare e coinvolgere le classi popolari grazie a un discorso protezionista che fa una forte concorrenza ai laburisti. Il rapporto con la Ue è la linea tratteggiata lungo la quale è più facile che tutto si spezzi, come sta effettivamente avvenendo. Nel momento in cui nella cles-
sidra scendono gli ultimi granelli di sabbia prima che si debba uscire senza accordo con la Ue, la May ha scelto di guardare all’interesse nazionale, anche perché sono anni che cerca di lusingare gli euroscettici senza ottenere altro che tradimenti, rivolte, attacchi.
Prima che si debba uscire senza accordo con la Ue, la May ha scelto di tenere conto dell’interesse nazionale Anche lo spettacolo ormai ricorrente delle dimissioni di membri del governo, un paio in questo caso, si è ripetuto in questi giorni. Due le critiche principali mosse alla scelta della premier: una vede nel compromesso un inaccettabile annacquamento della Brexit, visto che con ogni probabilità il punto di accordo si troverebbe sull’unione doganale, soluzione che impedisce di stringere patti commerciali indipendenti ma che ha l’enorme vantaggio di non porre alcun problema di frontiere tra Irlanda e Irlanda del Nord; l’altra vede nel ruolo di
salvatore dato a Corbyn qualcosa di inaccettabile in uno scenario politico molto tribale. Anche se la May, con il suo tentativo estremo di evitare il no deal, costringe di fatto l’oppositore laburista a scoprire le sue carte dopo anni di tentennamenti e l’ammissione recente che la fine dell’immigrazione europea è un’esigenza anche per il Labour. In una lettera ai deputati Tories, la premier ha spiegato che avrebbe «preferito» che il Parlamento ratificasse il suo accordo raggiunto con Bruxelles il 25 novembre scorso, ma «dopo aver provato tre volte è improbabile che avvenga». Il problema è che tutti pensano al futuro ma nessuno osa prendersi la responsabilità di dargli forma. A Westminster i deputati sanno che i voti sulla Brexit li accompagneranno per sempre e quindi, invece di guardare al bene del Paese, pensano a costruirsi un curriculum a prova di futuro grazie a molto virtue signalling, che potremmo tradurre come «autocertificazione di virtù». La May ha proposto a Corbyn di parlare di futuro, di qualcosa che eventualmente si potrebbe anche disfare o riformare o cambiare un giorno, ma tutto sembra indicare che non succederà. Resta da capire come ci si arriverà, a questo futuro. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Un errore riapre il dibattito
Perequazione finanziaria Per due anni il Canton Zurigo ha pagato alcuni milioni di troppo ma la restituzione
è stata negata, ciò che dà fiato a chi vorrebbe correggere alcuni meccanismi della compensazione finanziaria federale Ignazio Bonoli Mentre si riaccendono le discussioni sulla ripartizione dei compiti tra Confederazione e Cantoni, un malaugurato errore di calcolo per il Canton Zurigo ha ulteriormente complicato i rapporti fra Cantoni paganti, Cantoni beneficiari e Confederazione. La recente sentenza del Tribunale federale (vedi «Azione» dell’11.1.19) ha rimesso il dito su una piaga che potrebbe estendersi a tutto il paese. I giudici di Losanna hanno sollevato parecchi problemi e non solo nel settore dell’aiuto cantonale al pagamento dei premi di cassa malati, ma nientemeno che nel campo dell’autonomia dei Cantoni, che è garantita dalla Costituzione federale. Ma vediamo di che errore si tratta. In seguito a un’indagine dell’Amministrazione delle finanze del Canton Zurigo, si è scoperto che, a causa di un errore nel programma informatico, nell’utilizzare i dati cantonali per la compensazione finanziaria, è stato tenuto conto delle sostanze nette di persone già decedute o che avevano già lasciato il cantone. Questo ha provocato un aumento di 10,6 miliardi di franchi nel 2013 e perfino di 10,8 miliardi nel 2014. Questo errore ha avuto conseguenze finanziarie nel senso che l’aumento delle sostanze nette ha provocato un aumento nel calcolo del potenziale di risorse cantonali. A sua volta, questo aumento ha avuto ripercussioni sui versamenti del Canton Zurigo alla compensazione finanziaria
Secondo l’Amministrazione federale delle finanze, 4,3 milioni di franchi non sono un cifra insopportabile per Zurigo. (Keystone)
per gli anni 2017 e 2018. Di conseguenza, Zurigo ha dovuto versare circa 4,3 milioni di franchi in più a favore degli altri Cantoni. Diviso per il numero di abitanti, significa 3 franchi in più per abitante. Nel complesso, Zurigo ha versato nel 2018, al netto, 461 milioni di franchi alla compensazione finanziaria nazionale. Ovviamente, alla scoperta dell’errore, il Canton Zurigo ha chiesto la restituzione di questi soldi, tenendone conto nei futuri conteggi. Ma l’Amministrazione federale delle finanze non ha voluto saperne, argomentando che non si tratta di cifre insopportabili per il Canton Zurigo. La tesi è poi stata confermata anche dal Controllo federale delle finanze e, per finire, pure dalla Conferenza dei direttori cantonali delle finanze.
Il pomo della discordia è costituito dal limite minimo stabilito in un’ordinanza, oltre il quale si può dar luogo a una restituzione. Questo minimo viene dedotto di caso in caso dall’ammontare della compensazione cantonale. Zurigo chiede invece che il calcolo venga riferito al potenziale finanziario cantonale. Il fatto che l’errore non venga corretto e l’ammontare restituito, secondo Zurigo, è contro il principio della buona fede. Effettivamente una simile procedura potrebbe essere vista come un ulteriore aggravio verso i Cantoni paganti, dal momento che il trattamento è diverso per i piccoli Cantoni, per i quali l’ammontare versato verrebbe corretto nei calcoli successivi, poiché l’ammontare minimo per la correzione dipende dal numero di abitanti. Ma
esiste un certo numero di precedenti. All’inizio della nuova compensazione finanziaria si sono spesso verificati errori, che la Confederazione non ha ritenuto necessario correggere. Così, nel 2008, un controllo dei conti della Nuova compensazione finanziaria da parte della Confederazione ha permesso di constatare che il canton San Gallo ha ricevuto 85 milioni in meno di quanto gli sarebbe spettato. E questo non per colpa sua, ma perché la Confederazione stessa aveva sbagliato il calcolo della compensazione. Dal momento che l’errore è stato scoperto dopo che il Consiglio federale aveva approvato definitivamente i conti, i beneficiari dell’errore hanno potuto rifiutare di restituire i soldi ricevuti in eccesso. Per finire però la Confederazione ha obbligato
i Cantoni a restituire i soldi ricevuti in eccesso. Resta comunque in vigore la cifra minima sotto la quale la restituzione non è necessaria in entrambi i casi. Di errore in errore, forse si spera in una «compensazione della compensazione». Giova forse ricordare che la Nuova compensazione finanziaria è un’enorme macchina ridistributiva, il cui scopo è quello di eliminare divari eccessivi fra i potenziali finanziari dei vari Cantoni. A titolo di compensazione, Confederazione e Cantoni verseranno nel 2019 non meno di 5,2 miliardi di franchi, con un aumento del 2,6% rispetto all’anno precedente. Da tempo i Cantoni più ricchi chiedono una revisione del sistema, e un accordo dovrebbe essere vicino. Uno stimolo in più dall’errore per Zurigo? Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Idee e acquisti per la settimana
Una buona colazione A Pasqua il primo pasto della giornata è un momento al quale amiamo dedicare del tempo, sia che ci si ritrovi per partecipare a un generoso brunch, sia che si faccia colazione a casa. Qui da noi le fette di pane con la marmellata e il bircher sono classici irrinunciabili della colazione. Burro, latte e panna svizzeri non devono mancare. Elsa, impresa di produzione Migros, propone con il marchio Valflora un vasto assortimento di gustosi prodotti lattierocaseari… elaborati in Svizzera, naturalmente!
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi I salari non salgono Ogni tanto i commentatori della nostra congiuntura escono dalla routine che caratterizza i loro rapporti trimestrali per occuparsi di qualche problema collaterale che sollecita il loro interesse. Così recentemente uno degli istituti di ricerca economica che va per la maggiore si è chiesto perché, nel corso degli ultimi anni, si è manifestata una divergenza tra il tasso di crescita dell’economia e quello con il quale sono aumentati i salari. Mentre il prodotto interno lordo è cresciuto a un tasso superiore alla media degli ultimi due decenni, i salari non si sono praticamente mossi: anzi in diversi casi sono diminuiti. Se andiamo a cercare dati, per cercare di informarci meglio, non troviamo molto. La statistica dei salari che, è bene ricordarlo, nei tempi moderni è quella che, con il censimento della popolazione e
l’indice dei prezzi al consumo, ha fatto nascere gli uffici di statistica pubblici, è sempre stata considerata come un documento da trattare con grande discrezione. Prima di essere preparata dall’Ufficio federale di statistica, la statistica dei salari veniva elaborata dalla Seco. Per tanti anni la Seco non pubblicò dati sul livello salariale ma solo sulle variazioni del salario, da un anno all’altro. Una volta che, per caso, ebbi l’occasione di pranzare con il responsabile di allora di questa statistica gli chiesi il perché di tanta discrezione. Mi spiegò che fino all’inizio degli anni Cinquanta dello scorso secolo la Seco pubblicava anche dati per i livelli salariali. Ma poi era stata avvertita, dalla Germania, che i sindacati tedeschi, in mancanza di dati sulla loro economia, si servivano della statistica svizzera per giustificare le loro richieste di au-
mento dei salari. E allora Berna aveva pensato che era meglio pubblicare solo il dato concernente la variazione annuale e non i livelli. Ma torniamo al quesito che si sono posti i ricercatori. Perché dunque i salari non sono saliti, in modo parallelo alla crescita del Pil, in un periodo di buona congiuntura come è stato quello degli ultimi anni (2015 escluso)? Rispondendo a questa domanda i ricercatori indicano tre possibili ragioni. In primo luogo il fatto che i salari vengono negoziati solo una volta all’anno e quindi possono riflettere solo con ritardo l’evoluzione della congiuntura. La seconda ragione è rappresentata dalla relativa inflessibilità dei salari verso il basso. Quando la congiuntura rallenta o, addirittura, l’economia conosce una recessione i salari non vengono ridotti. Di conseguenza i profitti si riducono. Quando
la congiuntura riprende si osserva che, quasi per compensazione, sono i profitti ad aumentare più rapidamente dei salari. Infine i ricercatori osservano che il potere d’acquisto (ossia il salario reale) può, in seguito alle variazioni del franco sul mercato delle divise, ma anche per effetto del rincaro o della diminuzione dei prezzi, muoversi in modo diverso dal salario nominale e, per esempio, aumentare anche quando il salario nominale ristagna. Queste tre ipotesi attendono naturalmente di essere verificate. A nostro modesto avviso la prima non dovrebbe essere molto importante. Anche i sindacati si sono dotati oggi di unità che sanno analizzare l’andamento e le previsioni congiunturali. Nell’anno in cui la congiuntura cambia, dall’espansione alla recessione, o viceversa, è possibile che la negoziazione salariale sia in ritardo
rispetto all’andamento congiunturale. Ma solo in quell’anno. Un ritardo dei salari che continua a manifestarsi e, magari, cresce con il tempo deve essere spiegato piuttosto con modifiche nella distribuzione, come fa per l’appunto l’argomento che oppone l’evoluzione dei salari a quella dei profitti. Anche l’evoluzione del rapporto tra salario reale e salario nominale può, in un periodo di inflazione bassa come l’attuale, servire a spiegare il perché del ritardo dei salari anche se, personalmente, non reputiamo che il potere d’acquisto sia, negli ultimi anni, cresciuto più rapidamente del salario nominale. Infine crediamo che, a questi argomenti, andrebbe però aggiunto anche l’effetto frenante sui salari dovuto alla presenza di una sempre abbondante domanda di lavoro.
comunque fare. Alla fine dello scorso anno, Raphaël Glucksmann (foto), figlio dell’intellettuale André scomparso nel 2015 e intellettuale a sua volta, ha fondato un movimento che si chiama Place Publique. La storia recente di Glucksmann racconta un pezzetto della politica francese: di sinistra, cautamente macroniano in quanto europeista, Glucksmann ha diretto per qualche tempo il «Nouveau Magazine Littéraire» («nuovo» perché è stato acquisito al 40 per cento dall’imprenditore-editore Xavier Niel, già dentro al «Monde», nel 2017), storica rivista di critica letteraria fondata negli anni Sessanta. La direzione non è durata molto perché, dice Glucksmann, ci sono state interferenze macroniane tanto intense che il giovane intellò ha deciso di lasciare l’incarico. Da quel momento è diventato un critico di Macron «da sinistra», come si dice (e anche con un certo livore personale), e, con libri e poi con iniziative politiche, ha cercato di rianimare la sinistra. Così è nato il patto tra Place Publique e il Partito socialista
in vista delle europee: Glucksmann è il capolista. Ma da quel momento, da questa nomina, sono iniziati i guai. Molti socialisti non sono affatto contenti di questa alleanza, voluta dal leader (semisconosciuto) del Ps Olivier Faure, più per ragioni di potere che di idee, ma spartirsi un misero sei per cento in liste e comizi è difficile e a tratti umiliante. Questo non ha impedito ad alcune correnti di distanziarsi e ad altre di accusare Glucksmann di essere un egoista che pensa soltanto al suo seggio da europarlamentare. Ma siccome il potere negoziale sta a zero, Glucksmann è stato maldigerito ma in qualche modo accettato. Il problema è che il rassemblement sembra impossibile: i Verdi non vogliono collaborare con il Ps (ancora una volta: questioni personali), mentre l’ex socialista Benoît Hamon – la faccia della sconfitta del 2017 era la sua – che ha un suo partito non vuole collaborare né con i Verdi né tantomeno con Glucksmann. Resta Jean-Luc Mélenchon, il radicale di sinistra, che per sua natura, e anche
dall’alto di una posizione elettorale più forte, non vuole aver niente a che fare con tutti questi galletti nel pollaio. Anzi, va dicendo che il leader della sinistra è soltanto lui. Il risultato è evidente: una frammentazione del voto di sinistra che già da anni non è particolarmente solido. Secondo i sondaggi, se tutti, da Mélenchon al Ps, si unissero, supererebbero anche la République en marche del presidente e il Rassemblement national di Marine le Pen che ora sono in testa. Assumendo che l’alleanza con Mélenchon sia impossibile – lui è contro l’Europa, vuole rifondarla rivedendo tutti i trattati, cioè distruggerla – la somma degli altri partiti permetterebbe di superare la destra gollista: non un successone, ma almeno sarebbe il segnale di una presenza. Invece no. I giornali sono pieni di pettegolezzi sugli insulti reciproci dei vari leader, che invece che investire sulle idee in comune – che sono molte, per quanto non nuovissime – si litigano una coperta tanto corta che a volta sembra che non ci sia proprio.
cantoni. Cinque effettuano le prove coinvolgendo soltanto aventi diritto di voto residenti all’estero, mentre nei rimanenti possono scegliere di votare elettronicamente tutti gli elettori. Le prove vengono effettuate e seguite sulla base di due sistemi: uno elaborato dal Canton Ginevra e l’altro dalla Posta. L’ente parastatale ha infatti ricevuto dall’amministrazione federale il mandato di approntare un sistema (lo ha fatto con la collaborazione di Scytl, ditta specializzata spagnola) sottoposto lo scorso mese a un severo test pubblico d’intrusione, cioè a un vero assalto perpetrato da oltre 3000 hacker (motivati da un cospicuo premio per chi scopriva falle). Purtroppo il «modello svizzero» per il voto elettronico non ha retto l’urto: i «pirati» hanno trovato alcune falle, tra cui una proprio nel suo codice sorgente. Come ha confermato all’ats/ Keystone René Lenzin, vicedirettore della comunicazione alla Cancelleria federale, a non funzionare è «il cuore del sistema» che deve garantire all’elettore di poter controllare che il suo voto
sia stato registrato correttamente. Quarantena per l’e-voting della Posta, esperti al lavoro per valutare i danni e progettare contromisure. Nessun dramma: anche in altri paesi il voto elettronico incontra problemi, tanto che alcuni governi hanno sospeso i progetti che stavano conducendo e addirittura hanno già deciso di lasciar perdere l’elettronica (forse perché convocano i cittadini alle urne solo ogni 4 anni). Avremo ripensamenti anche da noi? A fomentare perplessità c’è anche il successo del voto per corrispondenza, sistema sempre più gradito che consente al cittadino di votare in tranquillità e in un contesto privato. Sta di fatto che dopo 20 anni di sogni, studi, prove e spese, quello che sembrava un passo inevitabile e spedito, incontra problemi e dubbi. Chi pensava a un «e-voting made in Switzerland» in grado di digitalizzare l’unicità del nostro sistema elettorale, per ora ha una sola certezza: soppiantare carta e matita anche per la Posta non è come spedire una lettera alla posta...
Affari Esteri di Paola Peduzzi Dove è la sinistra in Francia?
Keystone
Alle elezioni europee le due grandi famiglie tradizionali che governano l’Ue – i conservatori e i socialdemocratici – continueranno a essere protagoniste ma con grandi perdite in termini di seggi, al punto che per la prima volta potrebbero perdere la maggioranza e
dovranno fare patti – tanti patti – con altri gruppi, liberali in testa. A patire di più sono i socialdemocratici perché i partiti di sinistra in molti paesi membri non godono di grande consensi, in particolare nei due paesi del motore europeo, la Germania e la Francia. A Berlino l’Spd viene da brutti risultati elettorali ed è ancora indecisa sulla propria identità – come ovunque: ci si radicalizza o si sta al centro? – tanto che i Verdi, con la loro aria irresistibile da «comeback kids», stanno rosicchiando ai socialdemocratici l’elettorato giovane e urbano (la classe lavoratrice era già scivolata via, rimane poco). Ma peggio di come sta la sinistra francese nessuno. Come si sa, alle presidenziali del 2017, il Partito socialista francese è sostanzialmente scomparso: prese poco più del 6 per cento al primo turno, molti suoi leader si unirono al progetto di Emmanuel Macron, persino la sede – visto che i simboli contano – di via Solférino è stata dismessa. Così da tempo si pensa a come resuscitare questa gauche, con l’unica certezza che peggio non si possa
Zig-Zag di Ovidio Biffi E-voting? Carta e matita resistono Chi ama sfogliare «Azione» appena lo riceve, in queste ore sarà probabilmente alle prese con il vortice delle cifre, delle percentuali e dei commenti scaturiti dalle elezioni cantonali del fine settimana. Per qualche giorno il vortice muoverà ancora la girandola dei candidati, assegnerà le etichette per poltrone e strapuntini, per poi concludere il suo ciclo. Tra qualche settimana, rientrato negli argini il fiume della retorica politica, finiremo per convincerci che, in fondo, la realtà cantonticinese purtroppo è ancora tale e quale. Non avendo proprietà divinatorie (già ho corso rischi nell’ultima rubrica, seguendo l’ipotetico «statu quo» dei sondaggisti) non posso ovviamente conoscere e commentare i risultati. Mi preme però restare in tema e posso farlo grazie a una notizia giunta da Berna mentre eravamo in piena campagna elettorale: il Consiglio federale ha annunciato che, a seguito di riscontri negativi sulla sua affidabilità, il sistema di voto elettronico che la Posta sta cercando di mettere a punto viene posto in quarantena. Esso
ha infatti presentato difetti tali da consigliare il rinvio dei test previsti in quattro cantoni per ulteriormente provare il sistema in occasione delle prossime votazioni federali del 19 maggio. Altri sei cantoni che utilizzano un sistema di e-voting gestito dal Canton Ginevra, potranno invece proseguire i loro test. È dal 2000 che il Consiglio federale sta progettando di introdurre il voto elettronico. L’avvento e i successi delle tecnologie digitali avevano lasciato credere che anche la democrazia potesse in qualche modo beneficiare degli effetti pratici dell’elettronica e contribuire a interrompere la disaffezione alla cosa pubblica delle nuove generazioni, in particolare dei «millennials» cresciuti a pane e smartphone. I siti delle amministrazioni della Confederazione e dei Cantoni hanno seguito la fase di sperimentazione e sinora tutto lasciava credere che il programma funzionasse senza intoppi. La prova più evidente l’aveva data il Consiglio federale con l’avvio della procedura di consultazione di un avanprogetto destinato a
chiedere al parlamento di accettare il voto elettronico come terza modalità di voto. Il testo in consultazione (scadrà il 30 aprile) ribadisce le principali misure indispensabili per creare un’ampia base legale: una verificabilità completa, la trasparenza dei sistemi di voto e dei processi operativi (in particolare del codice sorgente), nonché la certificazione e l’obbligo di controllo dei sistemi di voto da parte dei Cantoni. Come spiega il sito dell’amministrazione federale (segnalandola a parte) la completa verificabilità è «requisito centrale delle procedure di voto elettronico. Verificabilità completa significa che dal momento del voto fino alla determinazione dei risultati possono essere individuati grazie a mezzi indipendenti i malfunzionamenti sistematici dovuti a errori di software, errori umani o tentativi di manipolazione. Le prove crittografiche garantiscono che tutti i voti rimangano verificabili senza tuttavia violare il segreto del voto». Come già detto attualmente il voto elettronico viene sperimentato in dieci
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Cultura e Spettacoli Chi ha paura dell’aspirina? La rivista satirica «Aspirina» ha dovuto chiudere i battenti a causa di forti pressioni esterne
Il nuovo Dumbo Il regista cult Tim Burton ci racconta i retroscena e la nascita del suo ultimo lavoro, dedicato all’elefante più celebre e dolce del mondo
Un thriller a teatro In scena a Milano Il ragazzo dell’ultimo banco, affascinante pièce di Juan Mayorga, con la regia di Jacopo Gassman pagina 45
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Il ribelle devoto
Anniversari Plinio Martini quarant’anni
più tardi
Orazio Martinetti Mancano ancora alcuni mesi al giorno esatto in cui Plinio Martini morì dopo una vita segnata da tribolazioni e da vari ricoveri ospedalieri. Accadde il 6 agosto del 1979, un addio prematuro, a 56 anni. Era nato nel 1923 a Cavergno, paesino di poche centinaia di anime all’imbocco della val Bavona, appena sopra Bignasco. Una terra ingrata, che succhiava agli abitanti sudore e sangue dall’alba al tramonto, e pure oltre. Per ricordare i quarant’anni dalla scomparsa alcune associazioni locali hanno allestito un fitto calendario di manifestazioni che ha già preso avvio e che si concluderà nel mese di novembre. La sua principale opera narrativa, Il fondo del sacco, pubblicata nel 1970, figura tuttora tra i romanzi più letti e amati del Novecento ticinese. È trascorso quasi mezzo secolo, ma quelle pagine continuano a secernere linfa vitale, che va al di là delle scelte stilistiche dell’autore, gremite di espressioni idiomatiche. I critici individuarono subito le fonti che avevano ispirato la scrittura di Martini: Pavese e Fenoglio su tutti. Ma ciò che importava al lettore era la finestra che l’autore era riuscito ad aprire su quel «piccolo mondo antico», il bacino valmaggese a cavallo del secondo conflitto mondiale, con all’orizzonte i primi lampi del «miracolo economico». La generazione cresciuta nel dopoguerra all’ombra delle «tre corone» (Zoppi con il Libro dell’alpe, Chiesa con Tempo di marzo e Bertolini con Marco) chiedeva a gran voce un’apertura sull’universo letterario che in Italia era sorto sulle ceneri del fascismo: Montale, Vittorini, Moravia, Pasolini, Calvino, e poi il cinema neorealista, il vivace panorama delle riviste letterarie… Aneliti che indicavano un cambio di umore erano già emersi in precedenza, con i racconti di Guido Calgari, Piero Bianconi e Felice Filippini, o con le poesie di Giorgio Orelli. Ma la vera svolta ebbe luogo negli anni ’60: fu in quella stagione che la generazione nata negli anni ’20 (il citato Giorgio Orelli, il cugino Giovanni, Remo Beretta, Amleto Pedroli, Giovanni Bonalumi, Mario Agliati) decise di allontanarsi dalla tradizione: chi timidamente, badando a non farsi risucchiare dalle più rumorose correnti votate all’«engagement», chi platealmente, come appunto Plinio Martini. Solo uno spirito insofferente come il suo poteva mettere in bocca al giudice Venanzio, personaggio-cardine del romanzo, una filippica come questa:
«…siamo un paese che va in tòcchi, diceva; il Canton Ticino, chiuso al nord dalle Alpi e al sud dal confine, è come una forma di formaggio che non prende aria e fa i vermi; i vermi sono gli avvocati, i consiglieri, i galoppini dei consiglieri, i galoppini dei galoppini e dietro i capimafia…». I lettori che negli anni ’70 si avvicinarono al Fondo del sacco e poi al Requiem per zia Domenica (1976) riconobbero subito all’autore il dono della genuinità e della schiettezza. Quella del formaggio verminoso era un’immagine rustica, còlta nei ritrovi pubblici del paese; ma il resto proveniva dall’incontro con Virgilio Gilardoni, lo storico locarnese che nel 1960 aveva promosso, in piena solitudine, l’Archivio Storico Ticinese. Le umili origini e il clima bellico non avevano permesso al giovane Martini di iscriversi all’università; dovette quindi ripiegare sulla formazione magistrale. La stragrande maggioranza dei letterati sopra citati poterono invece proseguire gli studi negli atenei, chi a Friburgo, chi a Milano. Di qui un rammarico costante, accentuato dalla sensazione di vivere ai margini della vita culturale, in una sperduta valle, un microcosmo incastonato nel passato rurale: scarsi gli stimoli e i contatti, rari gli interlocutori con cui intavolare un discorso impegnativo. L’orizzonte si esauriva ai bordi dei boschi e dei dirupi sovrastanti, all’interno del circuito famiglia-scuola-parrocchia-osteria. L’eccezione era data dagli uomini di Chiesa, dal parroco del villaggio don Giuseppe Fiscalini e dal direttore del «Giornale del Popolo», don Alfredo Leber, al quale Martini aveva inviato le sue prime liriche, per un giudizio e per un’eventuale pubblicazione sul quotidiano diocesano. I rapporti con Leber (ch’era nel contempo guida spirituale dell’Azione cattolica) furono agli inizi sereni, fondati sull’ammirazione e sulla fiducia, ma poi si guastarono, per infine interrompersi. Martini scorgeva nella figura del monsignore l’incarnazione del conservatorismo cattolico di matrice tridentina, una religiosità tanto intransigente quanto bigotta, incapace di cogliere i veri affanni del suo gregge. Nel frattempo l’alto Ticino iniziava a cambiare volto. Le valli, prima sinonimo di miseria, fatiche ed emigrazione, divennero la nuova terra di conquista delle imprese idroelettriche. La ricchezza aveva un nome preciso: acqua, l’oro blu da catturare, incanalare e convogliare verso le centrali poste a valle. In Martini questa trasforma-
Plinio Martini in un’immagine del 1941.
zione assunse i tratti di una spoliazione irresponsabile, che riduceva fiumi e torrenti in rigagnoli morenti, simboli di una civiltà prima smembrata e poi schiavizzata. Tuttavia la modernità predatrice non era anonima; aveva un nome, poteva contare sulla complicità della politica e sull’assenza di un tessuto civile in grado di contrastarne l’avanzata. Di qui la ribellione dello scrittore, la sua invettiva, la sua indignazione, che alla fine si tradurrà anche in apostasia politica: il passaggio dal partito cattolico-conservatore al neonato Partito socialista autonomo. Invitato a spiegarsi, Martini dirà: «ho fatto il salto e sono diventato marxista per restare cristiano. Perché cristiano mi sento ancora». Su questo itinerario bisognerà un giorno tornare, appoggiandosi alle carte di famiglia, ai volumi presenti nella biblioteca domestica, ai rapporti
epistolari con amici e colleghi. Negli anni ’60 si apre infatti una stagione che scuote e interroga le coscienze: le riforme promesse dal Concilio Vaticano II, l’emersione del dissenso cattolico, la nascita della nuova sinistra, il femminismo, la contestazione studentesca, l’avvento della televisione. Si provi ad immaginare quali sussulti deve aver provocato quest’ondata di novità nell’animo del nostro scrittore, per decenni rimasto appartato nella sua valle, quasi isolato. Una ricerca che val la pena di intraprendere. Nove appuntamenti fino a novembre: è quanto propongono gli enti promotori (Fondazione Valle Bavona, Associazione Leggere e Scrivere e Museo di Valmaggia) per ricordare la figura e l’opera dello scrittore di Cavergno a quarant’anni dalla scomparsa. Il calendario, consultabile online (www. pliniomartini.ch), comprende spet-
tacoli teatrali, conferenze pubbliche, passeggiate letterarie ed escursioni, letture e lezioni, e alla fine un concorso internazionale sotto il titolo «Salviamo la montagna». L’interesse per Martini negli anni non è mai venuto meno; anzi, la pubblicazione di inediti (articoli, diari e lettere ad opera di Ilario Domenighetti e del figlio Alessandro) ha permesso di aprire nuovi varchi d’accesso alla sua produzione letteraria e al suo mondo interiore: uno spazio tormentato, come furono tormentati gli anni in cui visse, e che videro il declino della civiltà rurale in cui era immerso. Non solo i lettori, ma anche la critica non ha mai distolto l’attenzione dalle sue pagine, come provano il saggio di Roberto Buffi (L’anima del Ticino, Dadò editore) e l’edizione commentata del Fondo del sacco a cura di Matteo Ferrari e Mattia Pini (Casagrande).
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Cultura e Spettacoli
Requiem per Aspirina
Riviste La rivista satirica «Aspirina» ha dovuto cedere alle pressioni
di una multinazionale e ha chiuso i battenti – resta il blog erbacce
Katja Snozzi, il mondo in casa
Fotografia La fotografa offre una lettura
insolita della propria (ex) casa di Verscio
Laura Marzi Una rivista di satira femminista che nasce a Milano nel 1987 e che viene chiamata «Aspirina», perché la sua redattrice di allora, la scrittrice Bibi Tomasi, prendeva la famosa pillolina effervescente per curarsi dai dolori cervicali causati dalle ore trascorse sulla macchina da scrivere. Il mese scorso «Aspirina» è stata bandita dal web perché il colosso farmaceutico Bayer ha ritenuto che una rivista satirica traesse in inganno coloro che, costipati, cercassero sul web il farmaco. Indomite, seppur attonite, le donne della redazione di «Aspirina» e le collaboratrici della rivista hanno creato un blog: www.erbacce.org in cui si racconta la storia surreale di una multinazionale che se la prende con una rivista di satira femminista. Su erbacce.org è possibile consultare anche l’esilarante archivio storico di «Aspirina». Aspirina, edita dalla Libreria delle donne di Milano, è stata pubblicata su carta per anni, prima in forma autonoma e poi nel mensile Noi Donne. Tra le sue fumettiste e autrici Bibi Tomasi, appunto, Pat Carra, Piera Bosotti, Fiorella Cagnoni, Sylvie Coyaud, Margherita Giacobino, Giuliana Maldini, Isia Osuchovska, Ketty Frost. Nel 2013 «Aspirina» va online e acquisisce il sottotitolo di «rivista acetilsatirica», si arricchisce della collaborazione di illustratrici come Liza Donnelly, fumettista satirica per il «New Yorker» e del lavoro di donne geniali come Loretta Borrelli, Anna Ciammitti, Manuela De Falco, Dalia Del Bue, Livia Lepetit, Elena Leoni e molte altre. Il lavoro della redazione e quello delle collaboratrici è sempre stato gratuito e volontario perché c’era un piacere, una sorta di ritorno innegabile e immediato a fare della satira con la libertà che «Aspirina» garantiva. Le istruzioni erano: parla, racconta, disegna di ciò che in questo momento costituisce il tuo assillo, una preoccupazione, anche una angoscia, perché cercare di fare dell’ironia e dell’autoironia non solo aiuta davvero, ma talvolta è l’unica cosa bella che resta possibile in determinate situazioni. Poi, il femminismo, come altri luoghi della politica, ha davvero
Giovanni Medolago «La s’è purtada fö!» Così ha esordito Pierre Casè presentando la mostra di Katja Snozzi, attualmente in corso al Canvetto Luganese a cura della Fondazione Diamante. La battuta ben si spiega. Dopo anni (leggi: decenni) dedicati dalla fotografa locarnese a documentare i drammi – della fame, della guerra, della povertà – puntando il suo obiettivo soprattutto sulle vittime di tali sciagure, spesso, se non sempre, innocenti; lei che in mezzo a tante tragedie è riuscita a cogliere un sorridente, quasi
La presentazione della casa di Katja Snozzi è una sorta di addio per la fotografa, che si è trasferita Oltralpe Una vignetta satirica di Pat Carra.
bisogno di umorismo e le femministe simpatiche questo lo sanno, e lo fanno. Anche il neoliberismo ne avrebbe bisogno, ma ovviamente questa è una contraddizione in termini: il potere che si moderasse attraverso i confini salubri dell’ironia non sarebbe potere, certo non lo sarebbe nella forma devastante che acquisisce quando si tratta di mostri come quelli che si sono scagliati contro «Aspirina». Già, perché nonostante «Aspirina» la rivista fosse un marchio per l’editoria regolarmente registrato, nell’autunno del 2017, in piena fusione con la Monsanto, l’industria farmaceutica Bayer ha pensato bene, attraverso la voce di studi legali agguerriti e potenti, di scagliarsi contro la rivista di satira femminista. «Aspirina» doveva sparire dal web, perché la sua presenza avrebbe confuso coloro che online cercavano notizie dell’acido salicilico per un raffreddore e trovando la meravigliosa grafica della rivista, oltre ai fumetti, e alla satira, si sarebbero fatti convincere che è meglio farsi una risa-
ta che prendersi una pasticca. Ora, si sa che il potere deve mentire, ma non esistono neanche più i confini della logica? Come si fa a confondere un farmaco effervescente con una rivista satirica? Impossibile, però, per «Aspirina» sopportare una causa che sarebbe durata decenni in tribunale: come affrontare le spese legali? Come confrontarsi contro quella che sarebbe diventata la più grande multinazionale del mondo: il mostro a due teste, farmaci da una parte e diserbanti dall’altra, la BayerMonsanto? Così, «Aspirina» la rivista esce di scena, per lasciare il posto al blog erbacce: le erbacce, si sa, nascono più rigogliose proprio sulle rovine e nessuno, davvero nessuno, riesce mai a estirparle del tutto. Adesso, poi, da quando Bayer nelle ultime settimane ha perso la causa per il glifosato e le sue azioni sono crollate, con emorragie di cifre esorbitanti in borsa, le erbacce sono ancora più rigogliose. E pensare che crescono così, da sole, senza l’aiuto di nessuna sostanza chimica…
serafico Dalai Lama; lei che ha visto un suo altrettanto intenso ritratto diventare un manifesto della Croce Rossa… Insomma dopo che la figura umana è stata sempre al centro del suo interesse di fotografa/reporter, improvvisamente Katja Snozzi propone un lavoro (Cà méa, con tanto di sottotitolo che recita latitudine e longitudine esatte della sua casa di Verscio) dove di figure umane non vi è traccia alcuna. Nella sua casa, Katja ha colto non solo oggetti d’uso quotidiano, bensì pure simmetrie, composizioni grafiche e accostamenti cromatici accattivanti; tutto visto con l’occhio del fotografo e la sensibilità dell’artista. Il bello è che, ironica rispo-
sta alla battuta di Casè, in una di queste foto casalinghe si legge bene quanto sta scritto sul dorso di un libro: Goethe, Dir selbst sei treu (Sii fedele a te stesso)! Prevalgono dittici e trittici, ma la fotografa sa ricavare da una comune lampada di carta di riso una lunga serie d’immagini che ricordano i futuribili fumetti di riviste come Métal Hurlant o Frigidaire, con tratti grafici decisi e le sfumature ocra che fanno pensare alle foto d’antan virate in seppia. È possibile riconoscere una tapparella dalle lamelle non chiuse abbastanza da impedire l’irrompere di luci e ombre, o ancora un ripiano della libreria. Altre volte siamo di fronte a immagini così astratte (batuffoli bianchi che volteggiano su uno sfondo assolutamente nero) che persino lo spettatore più curioso rinuncerà a chiedersi «E questo cos’è?» per lasciarsi trasportare e fantasticare su che cosa potrebbe esserci al di là dell’inquadratura, da quale ricordo, esperienza o emozione sia nato quel click. Katja Snozzi nel frattempo ha lasciato la sua casa di Verscio e si è trasferita Oltralpe. Le immagini della mostra Cà méa (e il bel catalogo con le testimonianze dello stesso Casè e di Ingeborg Lüscher) costituiscono dunque il suo affettuoso addio a quelle quattro mura dove ha saputo cogliere anche lo scorrere del tempo. Dove e quando
Katja Snozzi, Cà méa, Lugano, Canvetto Luganese (Via R. Simen 4b). Orari: ma-sa 9.00-22.00; apertura straordinaria: dom. 21 aprile. Fino al 4 maggio 2019.
Un trittico di Cà méa, in mostra al Canvetto. (Katja Snozzi) Annuncio pubblicitario
Fare la cosa giusta
Quando la povertà mostra il suo volto Per saperne di più su Aïcha: www.farelacosagiusta.caritas.ch
Aïcha (11 anni), Siria, ha perso la mamma in un bombardamento
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Cultura e Spettacoli
Alla ricerca della verità
Cinema In occasione de L’immagine e la parola, a Locarno hanno raccontato il loro lavoro
e le loro visioni il regista Béla Tarr e il montatore Jacopo Quadri Nicola Mazzi C’è chi cerca la verità attraverso lunghi piani-sequenza e chi invece usa le forbici (ora metaforiche, ma un tempo concrete) per suddividere la scena e trasformarla in altro, in una nuova verità, diversa da quella originaria. Due modi agli antipodi di fare cinema che hanno trovato spazio a L’immagine e la parola, la costola primaverile del Locarno Film Festival. Il primo è quello del regista ungherese Béla Tarr che ha parlato del suo modo di intendere il cinema. L’altro è quello del montatore italiano Jacopo Quadri, che ha lavorato per registi importanti come Bernardo Bertolucci e Gianfranco Rosi. Tarr ha evidenziato come nel corso del tempo «il mio stile e il linguaggio sono diventati sempre più semplici, più puri». Ha pure affinato la propria sensibilità sociale e in questo senso spera «di avere acquisito una buona empatia con la gente». Ha ricordato, infatti, che cosa lo ha spinto inizialmente a fare cinema: «Quando avevo 16 anni andavo tutti
i giorni a vedere un film, e tutti i giorni uscivo pensando che quello che vedevo era tutto falso, finto. Ora posso dirlo: non mi piace quando una persona recita, non mi interessa se un attore è un professionista o no, ho bisogno della presenza di una persona, di una personalità. Quando faccio i casting cerco una persona e non un personaggio, e se la persona che trovo è diversa da quella che avevo immaginato, allora modifico la storia. Ciò a conferma della sua costante ricerca di una verità estrema, che ha molto che fare con l’arte e ancora di più con la vita, ma non necessariamente con l’estetica della recitazione, anzi. Infatti non è il regista che dall’alto elargisce la lezione di cinema agli spettatori». No, lui non ama definirsi cineasta, «sono un essere umano che ha osservato il mondo e ha reagito di conseguenza». Con il suo modo diretto, e non privo di ironia, di spiegare il cinema ha rivelato di non amare per niente le sceneggiature. «In realtà io credo servano solo ai finanziatori per raccogliere soldi e poi realizzare il film. Trovo
Il regista ungherese Béla Tarr, durante il workshop. (©CISA / Solange Baumeister)
noioso leggerle. Ciò non significa che nei miei film non esista una struttura drammaturgica, ma essa è scandita da appunti di poche parole su cartoncini che lasciano molta libertà a chi deve interpretare la scena». Il regista ungherese si affida più che alla storia, ai luoghi e, come detto, ai personaggi che sono perlopiù attori non professionisti. E lo fa perché vuole far emergere la loro verità, che è data dalla spontaneità: provano infatti pochissime volte per mantenere, «l’attore vivo: se comincia ad annoiarsi, gli si spegne la luce negli occhi, e allora è finita». Diversa, ma non meno interessante, l’esperienza professionale di Jacopo Quadri. Montatore di professione ha preferito usare il taglio per mutare la realtà e la continuità spazio-temporale dei piani-sequenza, che a lui – come dice – piace «fare a pezzi». Durante la sua masterclass Quadri ha ricordato come il lavoro del montatore, in origine, fosse soprattutto molto artigianale: forbici e la colla avevano un ruolo fondamentale. «Il punto di taglio, quel preciso momento in cui decidi di cambiare immagine, era quasi sacro all’epoca della pellicola. Non potevi sbagliare sennò perdevi tempo e sprecavi fotogrammi. Bisognava essere sicuri di che cosa si tagliava. In altre parole bisognava essere certi dell’idea che si aveva di quella scena e, in generale, del film». Cosa ben diversa oggi con la rivoluzione digitale, dove le possibilità di tagliare e ricucire sono infinite e questo fatto ti può anche far perdere la bussola. Un cambiamento tecnologico che ha quindi portato dentro di sé anche un mutamento ontologico. Alcune sequenze di film montati da Quadri per registi importanti gli sono servite per spiegare il lavoro del montatore. Ha per esempio parlato di
una scena de L’Assedio di Bertolucci. E ha spiegato come – partendo da alcuni piani-sequenza e godendo della massima libertà da parte del regista – lui abbia voluto spezzare la continuità narrativa per creare altri spazi. Aggiungendo, alla fine, un nuovo significato a quella scena e all’opera intera. Attraverso un altro documentario, Boatman di Gianfranco Rosi, Quadri ha evidenziato il lavoro fatto partendo da materiale girato dal regista (premiato con l’Orso d’oro a Berlino per Fuocoammare) in diversi anni. Quadri ha ricostruito la giornata tipo di un barcaiolo indiano. E lo ha fatto grazie quasi solo al lavoro sul montaggio e mescolando immagini di anni diversi. Sempre in quel film c’è stato un importante lavoro di collegamento, grazie alla creazione di rime interne. Immagini, suoni, musiche che tornano nel corso della pellicola e che aiutano lo spettatore ad ambientarsi meglio e a percepirne l’atmosfera. In altre parole ad affezionarsi. «Per me è sempre stato importante prendere per mano lo spettatore e accompagnarlo lungo il film» ha spiegato. Altri due film come Garage Olimpo di Bechis e El sicario – Room 164 (sempre di Rosi) gli sono poi serviti per evidenziare l’importanza di un ulteriore concetto: quello della pausa dalla narrazione, lo stacco. «Sono momenti in cui lo spettatore respira, si stacca dalla storia e fa sedimentare quello che ha appena visto. Sono attimi fondamentali e che possono anche acquisire significati profondi, dando al film ancora più forza». Insomma due modi di vedere il cinema quasi in antitesi tra loro. Eppure carichi di significati, di storia e di ricerca. Perché, alla fine, tutti si pongono le medesime domande: Che cosa è il cinema? A che cosa serve?
Dumbo, la metafora perfetta Incontri A colloquio con il regista statunitense Tim Burton,
in Italia per ritirare il David alla carriera Blanche Greco «Dumbo è una delle cose preziose della mia infanzia, uno di quegli incontri che non dimentichi perché è un esempio positivo, la metafora perfetta per chi si sente diverso dagli altri per qualsiasi ragione. Quell’elefantino disprezzato e deriso che, grazie proprio alle sue orecchie mostruose riesce a volare e diventa leggiadro e bellissimo, ci ridà la speranza e la gioia. Quante volte mi sono sentito un po’ Dumbo!», ci ha detto Tim Burton, a Roma per presentare il suo ultimo film e ritirare il David di Donatello alla carriera. Sorridendo con quella sua imbarazzata timidezza da teenager, malgrado i sessant’anni, il genio e la fama planetaria, ha continuato, «Amo tutti i miei film, anche se alcuni più di altri, ma Dumbo è troppo recente per giudicarlo! Era una sfida mettere le mani su un classico tanto amato da gente di tutte le età, ma ho accettato di farlo perché lo spirito e la potenza simbolica di questo personaggio sono tali che era importante farlo volare di nuovo in questi tempi difficili dove, troppo spesso si dimentica il rispetto per chi non corrisponde ai canoni correnti». Alto, magro, una testa di capelli ricci brizzolati, occhiali a mascherina dalle lenti bluastre, vestito come sempre di nero, Tim Burton, amabile e gentile, parla muovendo le mani come fossero farfalle. Ci sembra sempre più somigliante al pallido Viktor, il protagonista
di La sposa cadavere (2005), una delle sue più belle commedie «nere» con Nightmare Before Christmas e Edward Mani di Forbice, i film della vena più creativa e originale di Burton, lontana anni luce dai colori pastello e dai tramonti rosati di Dumbo, versione liveaction riveduta e reinventata della storia narrata dal famoso cartoon di Walt Disney del 1941. Un nuovo film, non un remake quello di Tim Burton, ambientato nel 1919, alla fine della Prima Guerra Mondiale nel Circo, un tempo famoso, di Max Medici, un saltellante Danny DeVito, dove nasce un elefantino dalle orecchie talmente grandi che quasi non riesce a camminare senza inciamparvi, Dumbo. «La sceneggiatura di Ehren Kruger mi è piaciuta perché mostra come nel piccolo universo circense non ci sia solo l’elefantino alle prese con la diversità e la solitudine» ha raccontato Burton, «Holt Farrier, interpretato da Colin Farrell, una volta grande cavallerizzo, è tornato dalla guerra senza un braccio, sua moglie è morta e i suoi figli, Milly e Joe sembrano sperduti senza la loro mamma, proprio come Dumbo e saranno loro a prendersi cura di lui. Due storie parallele che s’intrecciano, personaggi che diventano una famiglia in grado di affrontare le difficoltà della vita». Spariscono così gli animali parlanti del cartoon di Walt Disney, e questa volta sono gli esseri umani a rendere la vita grama a Dumbo, soprattutto
Michael Keaton, gaglioffo impresario di Dreamland, che vuole a tutti i costi mettere le mani sul «cucciolo speciale» che, grazie alle tecniche digitali, ci appare come un vero elefantino, non fosse per le orecchie spropositate e gli occhi simili a due laghetti. «Qualcuno ha avuto da ridire sull’azzurro degli occhi di Dumbo, che anche per noi sono stati la preoccupazione maggiore», ci ha confessato Burton, «Dumbo è una creatura candida e semplice che non parla, perciò i suoi occhi dovevano essere lo specchio di sentimenti ed emozioni. Non credo di aver mai speso tanto tempo sugli occhi di nessuno dei miei personaggi, anche perché spesso non li avevano!». Anche l’imponente ricostruzione, sul set, del Circo e quella ancora più sfarzosa di Dreamland, hanno richiesto molta cura: «Avevo a disposizione grandi attori come Keaton, DeVito ed Eva Green, cui si è aggiunto Colin Farrell, e infine il protagonista Dumbo, l’unico che però non c’era, perché sarebbe stato una creazione digitale. Era quindi importante che il cast sentisse di essere concretamente nel luogo dove tutto sarebbe successo, in modo da poter sviluppare dei legami da vera famiglia circense». Burton ha aggiunto, «Le tecniche cambiano continuamente e ti permettono di realizzare film straordinari, tuttavia io amo le tecniche di una volta, l’animazione, la stop motion». Dumbo ha avuto a disposizione
La locandina del nuovo Dumbo, che è arrivato anche nelle nostre sale.
un set enorme, popolato da migliaia di comparse tra spettatori in costume, artisti circensi, bande musicali e ballerini e se il Circo di Max Medici ci appare un po’ scalcagnato e malinconico, simile a quelli dell’infanzia di Tim Burton, Dreamland è un’orgia di opulenza e di fantasia dove emergono, tramutati in bolle di sapone, gli elefanti rosa del Dumbo di Walt Disney, ma anche gli omaggi al cinema: dalle Ziegfeld Follies, al Più grande spettacolo del mondo, colossal di Cecile B. De Mille, che secondo Burton è stato «i dieci comandamenti e la Bibbia del circo di ogni tempo». E in questa seconda parte di Dumbo, che non esisteva nell’originale, Burton si lascia andare e realizza alcune delle sequenze da brivido più spettacolari del film, che non è più la caustica e divertente commedia di Walt Disney, ma un melò con «happy end» che piacerà sicuramente ai bambini adepti di Disneyland.
Mariani, dal cuore di ogni cosa In scena La poesia
raccontata diventa spettacolo
Giorgio Thoeni Stefania Mariani al clamore preferisce il lavoro in solitaria. Ci ha infatti abituati ad assistere a spettacoli in cui primeggia la parola, concepita senza l’appoggio di effetti particolari, facendo leva soprattutto sulla fantasia e l’evocazione generata dalle parole. Un’operazione che non è sempre di facile attuazione, soprattutto quando ci si confronta con le naturali euforie di un pubblico più piccino, non abituato al rigore dell’ascolto.
Stefania Mariani durante un momento del coinvolgente spettacolo.
La più recente produzione della Mariani (un progetto di StagePhotography) l’abbiamo vista in una stanza della Casa Serodine di Ascona, approfittando di una rappresentazione prevista nel quadro di Asconosc(i)enza. Il titolo POETICA-MenteCuore si preannuncia come un’installazione teatrale per la poesia che l’artista ha voluto declinare in un’offerta destinata ad adulti e bambini (dagli 8 anni). Abbiamo assistito a una pomeridiana con una dozzina di bambini. Stefania Mariani conduce il pubblico attraverso un viaggio poetico in cui le parole si rispecchiano e si intrecciano con fotografie e spunti decorativi distribuiti lungo le pareti della stanza. Il cuore del progetto consiste nell’incontro con la forza e la bellezza della poesia. La Mariani accompagna il pubblico con dolcezza alla scoperta di poeti italiani, ticinesi e grigionesi scegliendo testi brevi dal repertorio di autori come Antonella Anedda, Franco Loi, Vivian Lamarque, Remo Fasani, Giorgio Orelli, Fabio Pusterla, Ida Travi, Giovanni Orelli e altri. Lo fa utilizzando un registro lieve su cui predomina l’intenzione di generare stupore attraverso l’uso della parola, una porta aperta a immagini fantasiose. La scenografia composta dalle fotografie di Simone Casetta, s’incontra con le parole raccontate, danzate, mosse dal corpo e dalla voce dell’attrice accanto a disegni e alcuni innocenti coinvolgimenti del pubblico. Ne nasce un viaggio poetico dove le parole si confrontano, si abbracciano e si manifestano in un percorso che aiuta a comprenderne la forza evocativa e spesso straniante. POETICA-Mente-Cuore non è uno spettacolo tradizionale. Si muove all’interno di una cornice informale, in un’empatia che agisce fuori dal teatro, in una stanza che diventa il regno di oggetti sensibili, di simboli e di luci per un coinvolgente happening di ascolto teatrale. Una partitura di azioni vocali e fisiche fra poesie e aneddoti che catturano l’attenzione, con l’obiettivo di dare alla parola quell’importanza empatica che aiuta a comprendere noi stessi, gli altri, la vita, le vicende dell’uomo, la storia del mondo. Per questa produzione Stefania Mariani si è avvalsa della regia di Jean-Martin Roy e della collaborazione di Antonella Astolfi per il lavoro sulla voce.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 aprile 2019 • N. 15
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Cultura e Spettacoli
In casa d’altri, per scrivere una storia Teatro Un thriller di Juan Mayorga, regia di Jacopo Gassman
Giovanni Fattorini Germán e Juana, entrambi sui 55 anni, sono sposati da 30 e non hanno figli. Lui insegna letteratura in un liceo; lei dirige una galleria d’arte contemporanea le cui proprietarie (che l’hanno ereditata) minacciano di licenziarla e di cedere il locale se non dimostrerà entro breve tempo di farla fruttare. È in casa loro che ha inizio Il ragazzo dell’ultimo banco (El chico de la última fila, 2006), un lungo atto unico di Juan Mayorga (Madrid, 1957), sicuramente il più importante drammaturgo della Spagna di oggi. Germán sta leggendo dei compiti in classe. La pochezza di ciò che gli allievi hanno scritto sul tema da lui proposto («raccontate cosa avete fatto nell’ultimo fine settimana») lo riempie di rabbia e di sconforto. I voti che assegna vanno dallo zero al tre. All’improvviso smette di lamentarsi. Prima in silenzio, poi ad alta voce, perché possa valutarlo anche Juana, legge l’elaborato di uno studente che in aula siede all’ultimo banco: il diciassettenne Claudio García. Il ragazzo racconta che il sabato precedente è stato in una casa dove da tempo desiderava entrare: quella del compagno di classe Rafael Artola. Come ci è arrivato? Proponendo uno scambio: «Tu aiuti me in filosofia e io te in matematica». Mentre Rafa era occupato a risolvere un problema di trigonometria, con la scusa di cercare una Coca-Cola Claudio ha dato un’occhiata alla casa. Era sul punto di
tornare da Rafa quando ha avvertito «l’inconfondibile odore della donna di classe media». Guidato da quell’odore è arrivato al salone, dove, seduta sul sofà, ha incontrato «la signora della casa», intenta a sfogliare una rivista di arredamento. Dopo alcune righe, il racconto di Claudio s’interrompe con la parola (Continua). Rispettando il divieto di spoiler, io interrompo il riassunto della trama, perché Il ragazzo dell’ultimo banco è un raffinatissimo thriller, in cui la realtà che si rispecchia nelle pagine iniziali del racconto di Claudio viene via via parzialmente orientata (complici il professore e lo studente) allo scopo di poterne ricavare una storia che abbia uno sviluppo coinvolgente e un finale – come dice Germán – «necessario e imprevedibile». Dei temi presenti nella pièce di Mayorga, ecco quelli che mi sembrano di maggior rilievo. 1) Il ruolo parentale (la madre di Claudio se n’è andata di casa quando lui era ancora piccolo, sicché il ragazzo sembra alla ricerca di figure genitoriali vicarie, e in particolare di una figura materna più che di un’amante). 2) La famiglia medioborghese benestante e all’apparenza felice (qui rappresentata dagli Artola, che accolgono tra le pareti domestiche un giovane e insidioso osservatore di estrazione sociale modesta). 3) Il rapporto pedagogico tra docente e discente. 4) Le arti visive contemporanee e il legame (che Germán giudica perverso) fra critica e mercato. 5) I procedimenti
Fabrizio Falco (Claudio) e Danilo Nigrelli (Germán). (Masiar Pasquali)
di elaborazione di un’opera narrativa (Germán è un narratore mancato, crede fermamente nella necessità di una trama, e si considera in parte coautore dello work in progress di Claudio, in cui vede un potenziale realizzatore di ciò che lui non ha saputo realizzare). 6) Il rapporto fra lettore e opera letteraria e le implicazioni morali di quello fra arte e vita. 7) L’artista-narratore come
individuo che scruta le vite degli altri per farne matière à style (non è certo un caso che il film di Ozon tratto dalla pièce di Mayorga s’intitoli Dans la maison e che il professore interpretato da Fabrice Luchini insegni presso il liceo Flaubert). Che leggendo il testo di Mayorga non venga mai meno la suspense, lo si deve in misura determinante a una
scrittura drammaturgica di grande asciuttezza e ricca di transizioni spazio-temporali (a tratti molto ravvicinate) che alternano narrazione scritta, narrazione drammatizzata, e dialoghi che fanno parte della cornice scolastica. La suspense non viene mai meno anche assistendo allo spettacolo firmato da Jacopo Gassman, qui al suo terzo incontro – dopo Animali notturni e La pace perpetua – col teatro dello scrittore madrileno. La fluidità della scrittura drammaturgica si ritrova nell’andamento di una rappresentazione, ammirevole (non disturbano certe suggestioni ronconiane) sia per la scenografia di Guido Buganza (della quale si ricordano in modo particolare il lunghissimo tavolo che divide lo spazio ellissoidale del Teatro Studio e i velari incorniciati che scorrendo in silenzio servono principalmente ad articolare l’interno di casa Artola), sia per le luci di Gianni Staropoli, sia per la recitazione ottimamente concertata, l’impiego studiatissimo dell’intera superficie scenica, il ritmo senza cedimenti dell’azione. Danilo Nigrelli (Germán) e Fabrizio Falco (Claudio) sono straordinariamente bravi. Bravi Pierluigi Corallo (Rafa padre), Mariángeles Torres (Juana), Pia Lanciotti (Ester Artola), Alfonso De Vreese (Rafa). Dove e quando
Il ragazzo dell’ultimo banco, Milano, Piccolo Teatro Studio Melato, fino al 18 aprile. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Non solo canzonette Carlo Alberto, re di Sardegna fino al 1849, aveva l’abitudine di cantare quando era immerso nella vasca da bagno? La curiosità è legittima poiché a lui è dovuta la nascita nel 1832 della Società Promotrice delle Belle Arti che troverà la sua sede definitiva solo nel 1915, nei giorni in cui l’Italia entra nella Prima guerra mondiale. Ebbene quell’edificio di Torino ospita a partire dal 22 marzo e fino al 7 luglio una mostra dedicata alle canzoni italiane. Racchiusa fra l’abbraccio di Domenico Modugno sul palco del Festival di Sanremo il primo febbraio del 1958 quando vince cantando Volare, conosciuta in seguito con il titolo Nel blu dipinto di blu e l’esultanza di Paolo Rossi nella notte di Madrid, l’11 luglio del 1982 quando l’Italia diventa campione del mondo nella finale contro la Germania, ha l’ambizione di raccontare 24 anni di storia d’Italia attraverso 100 canzoni, usate come chiavi di lettura e di memoria. Sono gli anni del cosiddetto «miracolo economico italiano», con
percentuali di crescita del PIL «cinesi». Nel 1947 la Candy produceva una lavabiancheria al giorno, nel 1963 una ogni 15 secondi. Meditando su certi aspetti del nostro passato sperimentiamo un capovolgimento di prospettiva che dà le vertigini. Nel 1963 lo scienziato Giulio Natta vince il premio Nobel per le sue scoperte nel campo della plastica e la Montecatini con il suo Moplen invade le nostre case. È di questi giorni l’emanazione di direttive europee per mettere al bando piatti, bicchieri e stoviglie di una plastica che inquina fiumi e mari. Quando un corso d’acqua per l’abbondanza di pioggia esonda e poi in seguito rientra nel suo alveo, i rami degli alberi lungo le sue sponde fioriscono di sacchetti di plastica rimasti impigliati. In quegli anni tutti volevamo inurbarci, la mia famiglia si trasferì da una sonnolenta cittadina di provincia dove ci conoscevamo tutti ma dove «non succedeva mai niente», in una metropoli, andando ad abitare nell’estrema periferia dove i palazzi
condominiali crescevano come funghi, per raggiungere il centro bisognava prendere due tram che quando mancava un quarto d’ora a mezzanotte smettevano di circolare. Ma Giorgio Gaber nel 1969 cantava «Com’è viva la città / com’è allegra la città / piena di strade e di negozi / e di vetrine piene di luce / con tanta gente che lavora / con tanta gente che produce». D’estate, nei fine settimana, chi poteva andava al mare, anche a costo di sorbirsi lunghe code. Lo struggimento di chi restava in città è ben rappresentato da Azzurro, cantata da Adriano Celentano nel 1968: «Sembra, quand’ero all’oratorio con tanto sole, tanti anni fa / quelle domeniche da solo in un cortile a passeggiar». La Rai era ancora monopolista ed esercitava un’attenta censura sui testi delle canzoni, talvolta con esiti paradossali. Nel 1967 Francesco Guccini realizza Dio è morto e il direttore della Rai Ettore Bernabei ritiene sufficiente il titolo per proibirne la messa in onda. Senonché Radio Vaticana che
fa lo sforzo di leggere anche i versi che dicono che Dio dopo tre giorni è risorto, la trasmette, costringendo la Rai a compiere un’imbarazzante retromarcia. Anche qui i parametri di giudizio non stavano fermi ma, sia pure con grande fatica e progressivi strappi, evolvevano, tal che Edoardo Bennato può cantare nel 1975 Affacciati affacciati, con evidente allusione al Papa: «Affacciati, affacciati, / Benedici, guardaci! / Tanto sono quasi due millenni / che stai a guardare». La mostra, allestita con gusto e sapienza, è organizzata per successive stanze. La penultima, intitolata la «Febbre del sabato sera», nelle intenzioni degli autori «rappresenta il gigantesco esorcismo collettivo andato in scena nell’Italia del finale degli anni ’70. Il 13 marzo la prima italiana del film di Travolta e, tre giorni dopo, il rapimento di Aldo Moro e l’assassinio di tutta la scorta. Un rituale che si ripete in tutto quel periodo, da un lato stragi e lutti e, dall’altro, la voglia di pensare ad altro, di evasione». E annotano:
«Nel 1979, l’anno con il maggior numero di eventi terroristici, la Siae registra oltre 5000 “locali da ballo” con un aumento pari al 50% rispetto all’anno precedente». Se gli autori della mostra fossero vissuti durante gli anni di guerra non avrebbero trovato motivo di stupore e di scandalo nel registrare questi dati. Nel 1943 ero un bambino di sei anni, la nostra famiglia ospitava una sorella di mia madre, più giovane di dieci anni, nata nel 1921. Non era colpa sua se, quando aveva 22 anni, c’erano i bombardamenti e il coprifuoco a partire dalle 6 di sera. Il nostro appartamento era nel vecchio ghetto ma gli ebrei non c’erano più, o riparati all’estero o deportati. Anche per loro, fino al 1848, vigeva il coprifuoco, così le case erano provviste di passaggi sotterranei per spostarsi dopo il tramonto. Che ora servivano a mia zia e ai suoi amici per spostarsi di sera in vista di festicciole nelle case, dopo aver tappezzato i vetri con la carta da zucchero blu per non far trapelare la luce.
del festeggiamento crescano in maniera inversamente proporzionale alla durata e alla difficoltà dei corsi di studio, ma non è questo l’argomento di oggi. Infatti quel che ci preoccupa non sono i canti goliardici (raffinatissimi) e nemmeno le bottiglie di Prosecco abbandonate nel campus dell’università. Stiamo parlando della quantità di foto che verranno fatte all’eroe del giorno, il neolaureato. Ogni parente, ogni fidanzata scatterà le sue. E poi, il nulla. Nessuno confronterà le foto, sceglierà le migliori, le farà stampare o – Dio non voglia – le incornicerà. Rimarranno lì, sepolte nei cellulari o tumulate in una chiavetta. Le conseguenze dell’incongruo scattare sono evidenti, per esempio la distrazione e la non attivazione della memoria, se fotografo non occorre applicarmi a ciò che sto guardando. Tanto è tutto fotografato. Inoltre posso disattivare anche l’empatia, devo scattare, non ho tempo per capire come si senta l’oggetto della mia attenzione. Non riesco nemmeno
ad ascoltarlo, se per caso parla, sono troppo occupato, via facciamogli anche un video. Neanche per sogno, quelle immagini non solo si cannibalizzano tra loro, ma perdono senso una per una. Sono tante, sono troppe. Non riescono a immortalare, quindi a rendere in un certo senso immortale, nessuno. Scorrono e non rimangono, come l’acqua di Eraclito, che non è mai la stessa: non ci si bagna mai nello stesso fiume, che è vero, ma è anche metafora del correre di tutte le cose, che mutano di continuo senza lasciare tracce. Il fuoco, per Eraclito, è l’elemento che dà vita al mondo. Ma anche il fuoco è metafora di un continuo cambiamento, un mutamento che non ha sosta. Così sono le immagini che ci vengono incontro a migliaia, è difficile che una si fermi, che una ci impressioni davvero. E anche quando accade, per la forza e la bellezza e forse l’orrore che richiama, dura poco, un’altra immagine prenderà presto il suo posto, lasciando vuota la mente e la fantasia.
ultime opere di Charlie Chaplin il cui intento «grossolanamente politico» a volte «incide sulla bellezza, sull’oggettività». Si dice «grato» ai figli che l’hanno convinto a sedersi davanti alla tv, per esempio per guardare i documentari di Piero Angela. Altri personaggi televisivi, dice, gli danno «repulsione»: non vuole citarli ma sono quelli «particolarmente applauditi dal pubblico». E anche certi ritratti di amici, disegnati in velocità un po’ balbettando, sono fulminei e abbaglianti. Per esempio su Giorgio Morandi, che considera «il maggior pittore italiano di questo secolo» (il Novecento): «un uomo fisicamente straordinario (…). Altissimo, ossuto, con una frangetta canuta, sdentato, nuotante in abiti troppo larghi, era allora semplice, ascetico, ingenuo…». E un altro pittore amico, Filippo De Pisis: «uomo finissimo e di grande bontà sotto la specie di un corpo triviale e vizioso». E un terzo pittore, ma meno amico, Ottone Rosai: «Un corpaccione violento dalle mani e unghie terrificanti
(…) terminava in un bel volto malinconico». (Rosai aveva un «pollice da strozzatore», diceva quella malalingua di Leo Longanesi). Poi ovviamente c’è anche la letteratura, ma finisce per essere l’aspetto meno interessante. Per esempio l’Ortis di Ugo Foscolo, definito senza mezzi termini «uno dei libri che detesto di più al mondo» (idiosincrasia che Contini condivideva con il suo amico Gadda). O Ignazio Silone, considerato «un galantuomo straordinario» ma «uno scrittore inesistente». Il libro preferito? Contini non ha alcun dubbio: «è Port-Royal (di Charles Augustin Sainte-Beuve). Secondo me, incomparabilmente. È, per me, il più gran libro che sia stato scritto, il più nutriente per qualunque momento della mia vita». Il buon lettore? «Secondo me, è chi è disponibile a lasciarsi invadere dall’animo altrui (…). Il buon lettore deve poter giocare su molte tastiere. È nettamente poligamo. Assolutamente». E la letteratura? «Un modo di vivere».
Postille filosofiche di Maria Bettetini Immagini Macché civiltà delle immagini. Sono così tante quelle che ci circondano, quelle che si impongono, che ci rincorrono, così tante che non significano più nulla. Si dice, molto correttamente, che mille anni fa un uomo potesse vedere nel corso della sua vita non più di dieci, forse quindici immagini dipinte: qualcuna nella chiesa del paese, qualcuna – all’epoca dei comuni – sui muri del broletto, il palazzo comunale; infine, se si era fortunati, magari un’occhiata nel castello, mentre si pagavano le imposte o si portavano in omaggio ai signori i prodotti della terra e degli animali. Non tutti, anzi molto pochi, potevano avere in casa un quadretto devozionale. Fino alla diffusione, non solo all’invenzione, della fotografia le cose non sono cambiate, non credo che nella Parigi del Settecento, pur illuminista, il cittadino avesse altre immagini disponibili oltre a quelle in chiesa e nei palazzi. Che peraltro la Rivoluzione del 1789 distrusse senza porsi il problema dell’arte, del bel-
lo, della storia. Lo stesso si può dire di gran parte dell’Europa, dove la Riforma dal Cinquecento rifiutava le immagini sacre, o le eliminava direttamente col fuoco, come fece Calvino a Ginevra. Oggi invece noi vediamo ogni giorno decine di migliaia di immagini, e non, o non solo, per scelta personale. Da un lato fotografiamo e filmiamo di tutto, subiamo le centinaia di finestre di pubblicità non richiesta mentre cerchiamo notizie, programmi televisivi, il meteo, insomma un salto nel web e finiamo presi a pugni da immagini e video non richiesti. Dall’altro lato, veniamo filmati e fotografati che lo vogliamo o no. Basta metter piede dietro a una cattedra o su un palcoscenico, per parlare anche di cose serissime, e scattano i cellulari che fotografano o riprendono in video. È decisamente imbarazzante, fino a pochi anni fa vi ricordate quanta cura mettevamo per un ritratto fotografico? Mi ricordo l’anno della maturità: allora bisognava allegare una fototessera alla
domanda per sostenere l’esame. Tutta la mia classe si recò da un fotografo che truccava le foto! Niente a che vedere con il ritocchino praticato oggi, aggiungeva colore alle guance, rossore alle labbra. In sostanza, una ventina di studenti ebbero la loro foto degna delle ceramiche cimiteriali, che solo a pensarci mi vergogno. Ma oggi è diverso, oggi sei nel telefono di un personaggio sconosciuto anche se hai lo sguardo spento, se ti stai sistemando i capelli, se – orrore – ti stai distrattamente mettendo le dita nel naso. E mentre per trasmettere una tua immagine in televisione ti fanno firmare mille liberatorie piene di commi e cavilli, chiunque si porta a casa quello che ha ripreso senza chiedere permesso o perché. Così, anche voi diverrete insignificanti: tante immagini, è come nessuna immagine. Vi state laureando, è pronta la corona di alloro, pronti i fiori rossi, forse anche le bomboniere con i confetti rossi. Si potrebbe riflettere su come gli apparati
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Com’è strano Contini da bambino! Sono passati trent’anni dall’uscita di un libro-intervista rimasto nella memoria di tanti addetti ai lavori degli studi letterari. Quel libro, intitolato Diligenza e voluttà (5½), viene ora riproposto da Garzanti: è un colloquio tra la giornalista-scrittrice Ludovica Ripa di Meana e il re della filologia, Gianfranco Contini, che nel 1989 aveva 77 anni e avrebbe avuto ancora un anno di vita, colpito come fu nel 1970 da un ictus che pur lasciando intatte le sue facoltà intellettuali ne rese quasi incomprensibile l’eloquio. Concettualmente chiarissimo e increspato qua e là da un’ironia a tratti inquietante. Per esempio, quando gli si chiede del suo amore per i laghi (a lui che era di Domodossola), il grande studioso risponde: «Dunque, guardi: io i laghi li amo… li amo inizialmente e poi, un po’ per volta, mi si sfanno tra le mani, non resistono. Resistono, forse, dei laghetti, così, reconditi, minuziosi, ma i grandi laghi che impressionano, che vorrebbero catturare… li sfuggo, li sfuggo. E del resto, ho fatto esperienza di vita su
un lago, e è stata una vita sciapa, non saporita: non salata, appunto». Il mare? E già, il mare: «Il mare è, credo, lo stato di natura che mi mette fisicamente in euforia. Questo, specialmente se l’aria è molto jodata». Domanda: le piace guardare il mare? Risposta: «Certo, certo. Sia quando il mare è solo, sia quando è arricchito, non so, di Cinque Terre». Ripa di Meana sa come far parlare un grande. Con tutta la calma, conoscendolo bene e ponendo le domande giuste. Un’altra sua intervista-ritratto indimenticabile è quella televisiva, realizzata con Gian Carlo Roscioni nel 1971, a Carlo Emilio Gadda: dove il vecchio scrittore, a proposito del suo sentimento verso i brianzoli, diceva che «non tutti sono condannati a essere intelligenti». Tornando a Contini, fa tenerezza sentire la totale riconoscenza del grande luminare per i suoi genitori: «Io sono stato benedetto nei genitori. Non credo di aver conosciuto altri che abbiano avuto genitori altrettanti amabili». E d’altra parte fa la stessa tenerezza sentirgli
dire che teme di «non averli ripagati». Pensate, uno studioso come Contini, riconosciuto nel mondo come l’apice della critica letteraria, cresciuto con il rimorso di «non essere stato un buon figlio». Fa tenerezza pensare a Contini che a tre anni proclamava: «Sono il bambino più felice del mondo» e a sette anni scopriva l’infelicità sotto forma di angoscia che non lo lascerà più. È un libro sorprendente per chi considera Contini il Maestro di generazioni di letterati, il massimo dopo Croce. Non perché questa intervista deluda. Tutt’altro. Perché ne mette a nudo le debolezze umane, ma dichiarate con la precisione del filologo. Fa effetto sentirlo confessare: «la più grande emozione estetica me l’ha data il Bernina, la discesa del Bernina fino a Poschiavo. È forse la cosa più bella in assoluto che abbia visto nella mia vita». Com’è possibile? Non Dante, non Petrarca, non Montale né Gadda? Sempre, comunque, Contini ha la parola giusta anche sulle cose che non gli competono: definisce «delusive» le
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