Azione 25 del 17 giugno 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio La metrologia ha ridefinito quattro unità di misura fondamentali

Ambiente e Benessere «CAR-T cells», ovvero una novità terapeutica nella lotta contro il cancro; i maggiori esperti mondiali ne discutono a Lugano durante il XV Congresso internazionale sui linfomi maligni

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 17 giugno 2019

Azione 25 Politica e Economia Nei prossimi sette anni avranno accesso a Internet 700 milioni di nuovi utenti

Cultura e Spettacoli Tutto l’incredibile, ammaliante e ipnotico fascino del mare nei quadri di Piero Guccione

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Serendipity, isola del caso (o del destino?)

Othella e gli altri: musica dalle piazze d’estate

di Peter Schiesser

di Alessandro Zanoli

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«Vedi laggiù quello scoglio? È Galiola, dove si incagliò il sommergibile Giacinto Pullino, durante la Prima guerra mondiale. Che sfortuna a centrarlo, in mezzo al mare!». Il passeggero del volo Easy Jet per Atene seduto dietro di me conosce bene i luoghi, capisco che ha veleggiato più volte nel Golfo del Quarnero, al largo della Croazia. Il caso non fu benigno con il comandante di quel sommergibile: Nazario Sauro venne catturato e messo a morte il 10 agosto del 1916. Il mio breve soggiorno in Grecia era programmato da tempo, intendevo visitare un caro amico a Egina. Purtroppo un contrattempo gli ha impedito di accogliermi. Mi sono quindi deciso di visitare un’altra isola: Hydra. Cerco una sistemazione dell’ultima ora su internet e il sito trip.com mi offre un soggiorno all’hotel Hyppokampos. Mi imbarco fiducioso per Atene e al Pireo su un traghetto per l’isola resa famosa da Leonard Cohen, Henry Miller e Aristotele Onassis. Un’isola senza auto né motociclette, il luogo ideale per qualche giorno in tranquillità. Il traghetto ha i posti numerati, ma io mi siedo al posto sbagliato. Accanto siede una coppia di simpatici greci, la conversazione nasce spontanea. Dopo poco più di un’ora, sono ormai le otto di sera, eccoci sull’isola, colorata della luce del tramonto. Ci salutiamo con l’intenzione di trascorrere la giornata successiva insieme, con i famigliari di lui che si ritrovano per festeggiare i 50 anni di un cugino. Trovo facilmente l’albergo, ma al momento di mostrare la prenotazione mi informano che non vale per Hydra bensì per l’albergo Hyppokampos a Patmos, un’isola di fronte alla Turchia, che trip.com si è sbagliato. In quei giorni sono arrivati e arriveranno a decine all’albergo con la medesima prenotazione. Il direttore dell’albergo, Sotiris Saitis, è fuori di sé: chiama una volta di più trip.com e li minaccia di denunciarli alla polizia e di chiedere un indennizzo di un milione di dollari se non tolgono la pagina sul web con la proposta sbagliata. Devo calmarlo, temo che gli venga un infarto, quindi mi faccio aiutare a trovare un altro albergo e un ristorante dove finalmente cenare. L’albergo Greco ha una stanza per una sola notte, ma accanto c’è una guesthouse carina e con una stanza libera per due notti, il ristorante consigliato è eccellente. Passo la giornata successiva con i nuovi amici greci, la domenica faccio altri incontri interessanti (e rimedio un invito in Colombia), quindi lunedì me ne torno a casa. Atterrato a Malpensa, una giovane ticinese mi chiede un passaggio per tornare a casa. E mentre mi racconta che il giorno dopo avrebbe cominciato la stagione in una capanna alpina con la sua famigliola, mi accorgo che dietro a me c’è un’auto che mi sta incollata (a 120 all’ora), ma quando manovro per tornare sulla prima corsia un’altra auto all’improvviso mi supera sulla destra a piena velocità; per miracolo riesco ad evitare la collisione con l’una e con l’altra. Si vede che non era il momento di condividere il destino del povero comandante del sommergibile italiano, Nazario Sauro. Tornato a casa, cerco di farmi restituire quanto speso per l’albergo Hyppokampos da trip.com, ma ogni volta mi risponde un altro impiegato chiedendo gli stessi dettagli. Scopro che si tratta di un operatore cinese che non gode di grande reputazione. Chissà se rivedrò mai quei (pochi) soldi. Ma a Hydra ci tornerò.

Risultati della votazione generale 2019 21’167 soci hanno votato (partecipazione al voto del 21,7%)

SI: 19’991

97,5%

NO:

02,5%

514

Il Consiglio di amministrazione ringrazia per la fiducia accordatagli

2. Lei utilizza l’app Migros? SI:

6’609

33%

NO: 13’428

67%

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1. Approva i conti annuali 2018, dà scarico al Consiglio di amministrazione e accetta la proposta per l’impiego del risultato di bilancio?


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Società e Territorio Educazione e partecipazione culturale Gli allievi e le attività culturali all’interno della scuola: un tema attuale che ha animato un incontro voluto da TASI e Osservatorio culturale pagina 5

L’ideatorio trasloca Da settembre il servizio di promozione della cultura scientifica e del dialogo tra scienza e società dell’USI si sposterà a Palazzo Reali a Cadro. Intervista a Giovanni Pellegri pagina 6

Le misure del mondo

Metrologia Il 20 maggio è la giornata

mondiale dedicata alla scienza della misurazione, quest’anno ha visto la ridefinizione di quattro unità di misura fondamentali e il chilogrammo-campione è ora un pezzo da museo

Marco Martucci Il 20 maggio di ogni anno è il World Metrology Day, la Giornata mondiale della metrologia, la scienza della misurazione. Forse non sarà una ricorrenza particolarmente conosciuta ma quest’anno ha assunto un valore speciale perché ha coinciso con la ridefinizione di quattro unità di misura fondamentali, fra le quali il ben noto chilogrammo. Per la vita d’ogni giorno non cambierà nulla ma per la scienza e la tecnica si tratta di un’innovazione di non poco conto. È comunque per tutti una splendida occasione per avvicinarsi al mondo della misurazione che non interessa solo ingegneri e scienziati ma coinvolge ciascuno di noi, tutti i giorni: dal pesare la frutta al supermercato a misurare la temperatura in casa, dal provare una ricetta in cucina a controllare la pressione degli pneumatici della nostra auto. Ma anche se non misuriamo direttamente, ci serviamo senza saperlo di misurazioni eseguite nella progettazione, nella costruzione o per il funzionamento di moltissime applicazioni di scienza e tecnologia, come per esempio in un telefono cellulare, dove occorrono misurazioni precise di corrente elettrica, temperatura e, nel GPS, di tempo fino al miliardesimo di secondo. Da sempre la misura accompagna le attività umane. Misuravano gli antichi Egizi per costruire le piramidi, nel 240 a.C., il greco Eratostene misurando l’ombra di un bastone determinò la circonferenza della Terra, misuravano i grandi navigatori per trovare posizione e rotta. Misurava Galileo Galilei che diceva «il libro dell’Universo è scritto in lingua matematica» e dava così inizio, col metodo sperimentale, alla scienza moderna alla cui base sta la misurazione. L’essenza del misurare è il confronto: quanto è più alto, chi è più

veloce, cosa è meno caldo? Ma il confronto deve essere oggettivo, non basato su sensazioni, ma esprimibile con dei numeri. Ci sono due tipi di caratteristiche, di proprietà: quelle misurabili come la lunghezza, la velocità, il tempo e quelle non – o per lo meno non ancora – misurabili, come l’amore, la gioia o il dolore. Le proprietà misurabili sono dette grandezze fisiche o, semplicemente, grandezze. Misurare vuol dunque dire confrontare due grandezze che devono essere dello stesso tipo. Non si possono confrontare lunghezza e velocità ma è possibile confrontare due velocità e dire, per esempio, che una certa automobile è dieci volte più veloce di una certa bicicletta. Perché il confronto sia comprensibile da tutti occorre prendere una grandezza di riferimento, l’unità di misura. E qui cominciano le difficoltà perché bisogna sceglierne una che vada bene per tutti. Galileo misurava il tempo con il polso, le distanze si misuravano in miglia, stadi, verste e una stessa unità di misura come il piede o la libbra potevano avere valori diversi a seconda della regione. Capitava che un mercante di stoffe fiorentino misurasse il suo prodotto con unità diverse da quelle, per esempio, in uso a Milano per cui occorreva trasformarle e nei mercati delle città erano affisse le varie unità di misura. Con il progresso della scienza e della tecnica e l’espansione dei commerci, la presenza di tante unità differenti costituiva un ostacolo sempre maggiore. Un primo passo verso l’armonizzazione delle unità fu compiuto negli anni della Rivoluzione francese e per questo furono coinvolti grandi nomi della scienza come Lagrange, Laplace e Lavoisier che elaborarono il Sistema metrico. Si dovette attendere quasi un secolo per arrivare al primo vero trattato internazionale, la

Il chilogrammo prototipo numero 38 custodito all’Istituto federale di metrologia di Wabern. (METAS)

Convenzione del Metro, firmata da 17 Stati fra cui la Svizzera, a Parigi il 20 maggio del 1875, la data della Giornata mondiale della metrologia. Fino ad oggi hanno aderito alla Convenzione 60 Stati e altri 42 sono membri associati. Con la firma della Convenzione fu creato il Bureau International des poids et mesures BIPM (Ufficio internazionale dei pesi e delle misure) con sede a Sèvres presso Parigi, il «custode delle unità di misura». Il BIPM lavora sotto la supervisione del Comité international des poids et mesures e l’organo supremo della Convenzione del Metro è la Conférence générale des poids et mesures CGPM, nella quale sono rappresentati tutti gli Stati membri e che si riunisce di solito ogni quattro anni. La prima volta, nel 1889, dopo aver realizzato i campioni materiali delle unità di misura metro e chilogrammo, la CGPM ne distribuì delle copie agli Stati membri, estratte a sorte. La Svizzera ricevette il metro numero 2 e il chilogrammo numero 38, una barra e un cilindro fatti di una lega di platino e iridio. Inizialmente, il sistema si chiamava MKS perché comprendeva tre grandezze base, la lunghezza, la massa e il tempo, con le rispettive unità metro, chilogrammo e secondo. Con gli anni, il sistema si perfezionò, adeguandosi ai progressi di scienza e tecnica e, nel 1960, nacque l’attuale Sistema internazionale, il Système In-

ternational d’unités, noto come SI. L’SI si basa su sette grandezze fondamentali, ognuna con la sua unità di misura e con i loro simboli. Sono la massa con il chilogrammo kg, la lunghezza con il metro m, il tempo con il secondo s, l’intensità di corrente elettrica con l’ampère A, la temperatura con il kelvin K, la quantità di sostanza con la mole mol e l’intensità luminosa con la candela cd. L’SI è decimale e coerente. Multipli e sottomultipli delle unità sono tutti potenze di dieci: ad esempio il chilometro che corrisponde a 1000 metri e il nanosecondo a un miliardesimo di secondo. Coerente vuol dire che le unità di misura delle altre grandezze derivano dalle sette unità fondamentali moltiplicandole o dividendole fra loro. Per esempio, la velocità si ottiene dividendo la distanza per il tempo e la sua unità di misura è il metro diviso il secondo. L’SI è diffuso in tutto il mondo e in quasi ogni nazione, fra cui la Svizzera, è vincolante per la scienza, la tecnica e il commercio. Gli USA faticano un po’ ad abituarsi e altrove, come anche da noi, nel linguaggio comune stentano a scomparire certe unità non internazionali, come la caloria o il cavallo che correttamente, anche a livello legale, sono il joule e il watt. Per restare al passo con la rapida evoluzione tecnica e scientifica, anche l’SI deve adattarsi e il più recente cambiamento è stato deciso dalla CGPM

riunita a Versailles il 16 novembre dell’anno scorso. Tutte le unità fondamentali non sono più definite in base a un prototipo materiale ma attraverso una cosiddetta costante naturale. Già nel 1983 il metro prototipo fatto di metallo fu sostituito da una definizione non materiale basata sulla velocità della luce. Infatti, gli artefatti materiali, col tempo, possono seppur leggerissimamente, modificarsi. Così è successo anche per il cilindro di platino-iridio, il prototipo del chilogrammo che, durante gli anni, pur protetto, si era leggermente modificato. La decisione dello scorso anno è entrata in vigore il 20 maggio di quest’anno e anche il chilogrammo prototipo è stato messo da parte. Ora il chilogrammo è definito attraverso la costante di Planck che, come tutte le altre costanti naturali è universale. Il chilogrammo-campione è ormai in tutto il mondo un pezzo da museo. Anche da noi, dove è custodito al METAS, l’Istituto federale di metrologia con sede a Wabern presso Berna e che, con i suoi 230 dipendenti, è il centro di competenza della Confederazione per tutte le questioni inerenti alla metrologia, agli strumenti di misurazione e ai metodi di misura. Informazioni

www.metas.ch


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Gli allievi fra teatro, danza, arte e musica Scuola e cultura Le riflessioni scaturite in un incontro

organizzato da Teatri Associati Scena Indipendenti in collaborazione con l’Osservatorio culturale del Cantone Ticino

Guadagnarsi la fiducia dei lettori

Pubblicazioni Le riflessioni sul giornalismo

di Jill Abramson, ex direttrice del NYT Natascha Fioretti

Laura Di Corcia Quando si parla di cultura, è inevitabile finire sull’argomento fruizione. Di solito queste tematiche portano dritte alla questione della scuola: gli anni investiti nello studio obbligatorio e postobbligatorio, infatti, sono essenziali per sviluppare un gusto estetico e la curiosità dei ragazzi e delle ragazze attorno ad istituzioni come teatro e musei, luoghi che dovrebbero iniziare ad essere frequentati fin dalla più tenera età, per imparare a sviluppare non solo un senso critico, ma anche il piacere verso contenuti diversi rispetto a quelli cui vengono costantemente confrontati i più giovani. Ebbene, che sforzi vengono fatti in Ticino, in questo senso? Cosa si potrebbe migliorare o implementare? Questi sono stati i temi affrontati in occasione dell’incontro organizzato da TASI (Teatri Associati Scena Indipendente) in collaborazione con l’Osservatorio culturale del Cantone Ticino, che giovedì 9 maggio nella sede della Scuola Cantonale di Commercio ha avuto il merito di riunire attori importanti in questo ambito. Tra questi anche Beat Krebs, responsabile dell’ufficio di coordinamento e del settore danza di “Scuola & Cultura” del Canton Zurigo. Il servizio, voluto dalla Direzione scolastica di Zurigo, promuove l’educazione e la partecipazione culturale degli alunni. Con un lavoro di mediazione mirato consente loro di partecipare a eventi culturali, di avere contatti attivi con istituzioni e artisti e incoraggia gli studenti stessi ad «attivarsi» artisticamente (schuleundkultur.zh.ch). Una proposta seria per le scuole c’è anche in Ticino, diversi sono gli attori e gli artisti che incontrano studenti e studentesse nei vari ordini scolastici offerti dal Cantone, ma quello che manca, forse, affinché la proposta sia più incisiva, è una rete, un dialogo fra i diversi protagonisti che offra ai direttori scolastici e anche ai docenti una visione di insieme. «Quello che forse sfugge, o non sempre viene recepito fino in fondo, è che il LAC è un’opportunità per le scuole», spiega, per esempio, Isabella Lenzo Massei, responsabile del servizio di mediazione culturale del LAC.

«Quest’anno abbiamo fatto molto, siamo multidisciplinari e proponiamo attività che vanno dalla visita guidata alle mostre alla danza e allo yoga. Facciamo venire le scuole a teatro, sia per vedere opere di prosa che concerti. In occasione della presentazione delle nostre attività a inizio anno abbiamo registrato la presenza di 200 docenti, che non è male. Si potrebbe fare di più? Si potrebbe sfruttare meglio questa grande possibilità da parte dei diversi istituti? Sì. Ma le cose stanno già cambiando rispetto a un tempo». Fondamentale è portare i giovani a teatro, non solo proporlo nelle scuole, come sottolinea Vania Luraschi, che con il Teatro Pan ha una grande e lunga esperienza in questo senso. «Ho iniziato a lavorare nella allora Propedeutica – il Direttore mi aveva chiamato per offrirmi un posto come animatrice teatrale. Il corso è andato così bene che la scuola ha inserito il teatro proprio come materia, accanto a matematica, scienze e italiano, con tanto di nota finale. All’inizio ero scettica, perché mi sembrava un azzardo, un’imposizione ai giovani, ma mi sono dovuta ricredere: ai ragazzi piace fare teatro, ma non crediamo con questo di creare gli spettatori di domani. Fare venire i ragazzi a teatro era una fatica e tutt’ora raramente vedo i miei ex allievi agli spettacoli. Per ottenere un risultato del genere bisogna iniziare subito, sin dalla scuola materna, in modo che si crei un pubblico che possa accogliere il lavoro svolto dalle tante compagnie indipendenti presenti sul territorio. Probabilmente il problema del Ticino è che ci sono tante belle iniziative, ma tutte sparse». Anche Cinzia Morandi del Teatro Pan, reduce da una bella esperienza nelle scuole (ve ne abbiamo parlato nel numero dell’11 marzo), quando con il Teatro Forum ha portato fra gli allievi del Centro Professionale di Trevano uno spettacolo volto a sensibilizzare sulle tematiche legate ai social network, ritiene che sarebbe importante soprattutto coordinarsi. «Per sviluppare progetti ampi il dialogo con i direttori diventa fondamentale – specifica – Loro stessi mi dicono di essere completamente subissati dalle proposte. Per un’attività come quella che ab-

biamo proposto al CPT è importante anche la collaborazione con i docenti: se si lavora sia nella preparazione dello spettacolo che nell’approfondimento dello stesso, tramite schede didattiche e discussioni, il materiale che abbiamo portato può diventare una miniera». Stefania Mariani, artista indipendente e fondatrice di StagePhotography, insiste sulla qualità delle proposte. «Spesso nelle scuole in Ticino c’è questo rischio: che vengano portati progetti un po’ improvvisati, poco curati. Invece è importante non trascurare questi aspetti, in modo che gli allievi possano fruire al meglio di queste preziose possibilità. Ho come l’impressione che a volte, gli artisti locali vengano un po’ trascurati, ma noi che lavoriamo sul territorio abbiamo molto più interesse a lasciare un buon ricordo, in modo da avviare collaborazioni durature». In Ticino per farsi conoscere, da direttori e docenti, è ancora importante il contatto diretto, via telefono o di persona. E invece sarebbe bene creare un network in grado di informare gli insegnanti sulle diverse opportunità, in modo che le attività culturali diventino centrali nella scuola e non siano più percepite come corollari. Ne è convinto anche Hans-Henning Wulf, Responsabile del settore «Teatro Educazione» dell’Accademia Teatro Dimitri. «Quello che mi interessa del contatto fra scuola e teatro è la possibilità di trasformare la lezione, in modo che i bambini imparino attraverso il fare e che l’insegnamento torni ad essere organico. Per questo bisogna dare nuovi strumenti ai docenti e il mio progetto è quello di inaugurare una formazione di due anni rivolta proprio a chi insegna». Anche il DECS si sta accorgendo di quanto sia fondamentale approfondire il legame con il mondo della scuola. Lo ha sottolineato bene Roland Hochstrasser, dell’Osservatorio culturale del Canton Ticino, ricordando alcuni progetti fecondi che hanno visto la partecipazione degli allievi, come «Il patrimonio si racconta». Quando le classi partecipano a queste attività, di solito i risultati sono entusiasmanti. Resta da migliorare la comunicazione con i docenti, quella sorta di parete che a volte li separa ancora dalle attività proposte sul territorio.

Il LAC, con le sue attività multidisciplinari, è una grande opportunità per gli allievi delle scuole ticinesi. (Ti-Press)

Quello di Jill Abramson è un libro che in molti attendevano pensando ad una resa dei conti con chi cinque anni fa le diede il ben servito al «New York Times». Prima donna della storia a dirigerlo, criticata per essere troppo «bossy» e «pushy», tra le venti donne al mondo più potenti secondo Forbes, la sua è stata anche una direzione eccezionalmente breve. Sulle cause allora si speculò parecchio, disparità di salario con il suo predecessore Bill Keller, dissapori con l’editore Arthur Sulzberger Jr. e Dean Baquet, l’uomo che ha poi preso il suo posto. Fatto sta che Jill Abramson se ne andò sbattendo la porta e abbandonando la testata per la quale lavorava dal 1997. Come raccontò in un’intervista il NYT per lei non era solo un giornale ma un’istituzione da venerare in cui si era formata. Per questo la «T» tatuata sulla schiena. E credo sia qui il messaggio più potente che ci consegna il suo libro Merchants of Truth. The Business of News and the Fight for Facts (Mercanti di verità. Il business delle news e la lotta per i fatti): l’amore e la profonda stima per una testata che Jill Abramson definisce «la migliore organizzazione di news al mondo», la consapevolezza della necessità di un giornalismo inteso come faro della verità, agguerrito difensore dei fatti, indipendente e dagli elevati standard qualitativi. Soprattutto, riferendosi al NYT, un giornalismo che onori l’intelligenza dei lettori. Il racconto ha inizio in una notte d’inverno del 2016 al Newseum di Washington D.C, un luogo dal fascino dei tempi andati. L’occasione che vede riuniti «i malconci leoni del giornalismo» è speciale: i 100 anni del Premio Pulitzer. L’età d’oro del giornalismo che si intende festeggiare appartiene però al passato, gli invitati alla festa vivono uno stato di ansia perenne e di grande precarietà causate dalla chiusura delle testate, dai tagli, dalla sparizione delle redazioni estere, dalla dura crisi delle testate locali. Tra i presenti c’è anche lei, invitata da chi anni prima la buttò fuori dal giornale. Come una discreta osservatrice esterna, Jill Abramson studia gli invitati. È lo stesso sguardo che ritroviamo nel suo libro per il quale si è ispirata a David Halberstam e al suo testo del 1979 The Powers that Be. Giornalista del NYT, vincitore del Premio Pulitzer per le sue corrispondenze dal Vietnam, Halberstam esamina storie e percorsi di quattro autorevoli aziende mediatiche: the Post, The Los Angeles Times, CBS News e Time Inc. Halberstam racconta come nell’era del dopoguerra segnata dal Maccartismo, dalla lotta per i diritti civili, la guerra in Vietnam, il Watergate queste quattro istituzioni non solo raggiunsero il successo finanziario ma anche un’eccellenza giornalistica. Quando uscì il libro, il giornalismo era al suo apice. In tempi profondamente diversi Jill Abramson ripete l’esperimento occupandosi del «New York Times», del «Washington Post», di «Buzzfeed» e di «Vice». E questa è la parte meno interessante perché non racconta nulla di nuovo. Soprattutto, il suo sguardo è quello distaccato e diffidente di chi, da un lato, riconosce il successo dei nuovi attori digitali, dall’altro pensa che non saranno mai all’altezza della qualità

Jill Abramson.

e dell’autorevolezza giornalistica del NYT. Definisce Shan Smith, fondatore di «Vice», un ex festaiolo editore di un magazine per giovinastri vantatosi di recente di essere «il Time Warner delle strade». Descrive Jonah Peretti, fondatore di «BuzzFeed», come il conquistatore di cuori di milioni di millennials a suon di link e di adorabili gattini finché, un giorno, ha messo in piedi una redazione di giornalisti investigativi. Ripercorrendo gli ultimi trent’anni del giornalismo, non manca di riconoscere le responsabilità e gli errori della stampa che hanno portato ad un’erosione della fiducia dei lettori. Ricorda gli scandali più importanti, sulla copertura della guerra in Iraq e le armi di distruzione di massa e l’incapacità della stampa americana di prevedere il voto americano a Trump. Racconta gli anni di profonda crisi economica dei giornali, la corsa all’online e a modelli di business sostenibili. Non fa segreto della loro fragilità e dei loro errori. E, nell’era di Trump e delle fake news, si chiede: può la stampa, così indebolita, portare avanti la missione dei padri fondatori per una stampa libera? O, forse, la corsa all’intrattenimento ha offuscato il loro compito di informare? Può essere ristabilita la fiducia nei media d’informazione quando c’è un presidente che li accusa di diffondere fake news? Ai cittadini importa ancora essere informati? Secondo Jill Abramson finché ci saranno testate come il NYT che onorano il rapporto di rispetto e fiducia con i propri lettori, ci sarà vita per un giornalismo di qualità. Peccato, devo dirlo, che l’uscita del suo libro negli USA è stata offuscata da alcune accuse di plagio mosse ad esempio dal giornalista Matthew Ingram e da Michael Moynihan di «Vice». Alcune citazioni non sono state accuratamente o affatto documentate. Ma il libro è una dichiarazione d’amore per il giornalismo e per una testata, il NYT, che sotto la sua direzione ha ricevuto 24 Premi Pulitzer. Non porta rancore nei confronti di Arthur Sulzberger Jr. al quale attribuisce il merito di avere traghettato la testata fuori dalla crisi, di avere tenuto la luce accesa anche nelle ore più buie, di avere saputo difendere nell’epoca i principi e i valori che hanno reso grande il giornale di famiglia. In un’epoca dominata da Facebook dove non vi è garanzia che le notizie in circolazione siano corrette o vere, l’eccellenza giornalistica del NYT così come l’eredità di Sulzberger sono merce rara. Teniamocele strette.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Società e Territorio

Dove si mescolano i saperi

Intervista Giovanni Pellegri è il fondatore e il responsabile de L’ideatorio. Il servizio di promozione della cultura

scientifica e del dialogo tra scienza e società dell’USI da settembre avrà una nuova sede a Cadro

Guido Grilli Sale in altura, avvicinandosi per destino ancor più al cielo e alle stelle, la sede espositiva de L’ideatorio, il servizio di promozione della cultura scientifica e del dialogo tra scienza e società dell’Università della Svizzera italiana. Dopo Castagnola, e dopo aver superato nei suoi primi 14 anni di vita i 150mila visitatori, sabato 7 settembre il cuore pulsante dell’antenna ticinese di Science et Cité inaugurerà una nuova era insediandosi in uno spazio storico: Palazzo Reali a Cadro, nell’ex Casa comunale situata nel nucleo del quartiere di Lugano, dove riaprirà i battenti alle scuole e al pubblico.

L’ideatorio sarà ospitato nello storico Palazzo Reali, tra le novità un moderno planetario astronomico digitale Incontriamo Giovanni Pellegri, neurobiologo, fondatore e responsabile de L’ideatorio, nella sede operativa del centro a Villa Saroli dove sono già allineati i primi materiali destinati al trasloco. Giovanni Pellegri, ci illustra i contenuti di questa nuova iniziativa?

L’ideatorio occuperà due piani della casa di Cadro, al piano terra si trovano invece la biblioteca per bambini e ragazzi “La Cà-dro Libro” gestita dall’Assemblea dei genitori, un locale della polizia e uno per le associazioni. Con la popolazione del quartiere potremo trovare un luogo di incontro e di interattività. Un secondo spazio riguarda un moderno planetario astronomico digitale: ne avevamo già uno, mobile, che terremo per le visite nelle scuole. Poi ci sarà uno spazio di proiezioni con due grandi schermi, una sorta di anticamera al planetario dove faremo passare delle immagini sulla bellezza del mondo e dell’universo. Avremo inoltre uno spazio legato all’olfatto, denominato “L’officina dei ricordi”. La memoria di ogni visitatore sarà stimolata innanzitutto con l’olfatto, gli odori hanno infatti questa capacità incredibile: possono rievocare ricordi che hanno segnato la nostra vita, come il primo bacio o i ricordi d’infanzia. Ci sarà poi uno spazio-atelier, con laboratori creativi e di manualità. Vi sarà pure la digitalizzazione e la robotica e uno spazio denominato Dialogo, con

L’ideatorio vuole essere un luogo di idee per sperimentare e meravigliarsi. (ideatorio.usi.ch)

curiosità e letture predisposto al gioco per bambini, ragazzi e adulti. Ma come sarà strutturato il centro espositivo de L’ideatorio?

Il centro espositivo sarà aperto al pubblico il sabato e la domenica dalle 14 alle 18, mentre dal lunedì al venerdì sarà riservato alle scuole. Aggiungeremo per il pubblico tutta una serie di proposte: dal teatro alla scienza fino alla musica, ci saranno una trentina di proposte diverse.

Il dialogo attorno alla scienza e alla cultura costituiscono da sempre il fulcro de L’ideatorio. Come nasce la sua attrazione per la scienza e qual è il percorso che l’ha condotta a realizzare questa iniziativa?

La scienza ha sempre avuto per me un grande fascino. Dopo la nascita dell’Università della Svizzera italiana, mi sono occupato di promozione della ricerca scientifica all’interno dell’ateneo luganese. Nello stesso tempo a livello federale era nato un progetto voluto da Charles Kleiber, l’allora segretario di Stato per la formazione, la ricerca e l’educazione, il quale aveva lanciato un’iniziativa volta a creare maggiori punti di dialogo fra la scienza, l’innovazione, la tecnologia e la società, fondando Science et Cité, oggi un centro di competenza dell’Accademia svizzera delle scienze. Questa fondazione cercava un’antenna nella Svizzera italiana ed è lì che è nata la mia collaborazione: l’abbiamo portata all’interno dell’USI e gradualmente questa antenna ha suscitato l’interesse delle Scuole comunali della

Città di Lugano, soprattutto per un incontro informale della scienza, che è la modalità promulgata da L’ideatorio. Avevamo quindi realizzato a questo punto un piccolo trittico: c’era l’aspetto federale – Scienze et Cité voluta dal segretario di Stato; c’era una volontà locale, l’Istituto scolastico della Città di Lugano e c’era l’USI che oltre ai mandati della formazione e della ricerca, teneva molto a un terzo mandato: il dialogo con il territorio. Aspetto, questo, cui è molto attento l’attuale rettore, Boas Erez. La volontà cioè che quello che nasce all’interno dell’università abbia un impatto, un dialogo, uno scambio con i cittadini, le industrie, con tutto quanto costituisce la nostra realtà. Ecco che queste tre istituzioni hanno portato a una sinergia che ha prodotto L’ideatorio.

A suo parere manca oggi un’informazione scientifica?

Oggi quello che manca non è una spiegazione, non c’è una mancanza di informazione scientifica: non ce n’è mai stata così tanta come oggi. Quindi non è qui il problema. Esistono musei della scienza, giornali scientifici, trasmissioni televisive e radiofoniche. Forse mancano due aspetti: un maggior dialogo, anche critico, con la scienza e la tecnologia, e uno sforzo per aumentare la dimensione culturale della scienza. Il desiderio di comprensione di chi siamo noi, dell’evoluzione, della nostra posizione nel cosmo, di come funziona il nostro cervello ci pongono domande fondamentali sulle nostre origini, su come facciamo a esistere. Se

alziamo gli occhi al cielo, e intuiamo la nostra posizione cosmica, ci vengono i brividi: nasce il desiderio di conoscenza, ma anche il desiderio di scrivere poesie, di pregare o di interrogarsi sul senso del suo vivere. La scienza ha una grande forza culturale – culturale vuol dire che sta parlando della condizione dell’uomo – eppure l’abbiamo purtroppo trasformata, per motivi legati al suo sviluppo rapidissimo, in un insieme di nozioni decontestualizzate. Forse un approccio più umanistico, culturale, affascinerebbe maggiormente anche i giovani. Bisogna ripartire dal perché ci siamo messi a guardare il cielo. Poi potremo parlare anche di Teoria della Relatività. Dunque quali mete si prefigge L’ideatorio?

Vuol tentare di dare un’opportunità di incontrare il sapere in maniera non solo nozionistica. A L’ideatorio vorremmo creare sempre più un luogo, dove due o tre fattori siano fondamentali: uno riguarda la deframmentazione del sapere – perché se parlo di cielo posso parlare di fisica e di astronomia, ma anche di letteratura, di teologia, chimica e di biologia. Il secondo concetto riguarda il poter parlare della complessità: abbiamo fatto credere che ciò che è scientifico è qualcosa di certo e sicuro. Non è così. Assolutamente. La scienza sa che sta lavorando sull’incertezza, e che quello che sappiamo oggi sarà smentito da quello che sapremo domani. Questo è la scienza. Quindi è importante poter parlare di complessità e di incertezze. Vi è un altro aspetto

che ci interessa molto: parlare non solo di quello che si sa, ma anche di quel che non si sa. E oggi sono molte le cose che non sappiamo: di che cosa è costituito l’universo? Come fa un cervello a pensare? Da dove viene la vita? Cadro vorrebbe essere un luogo dove i saperi si mescolano per affrontare da più punti di vista quello che siamo noi. E noi siamo uno strano miscuglio: proteine e desideri, DNA e speranza, cellule e coscienza. A partire da settembre, tra le varie cose, un’esposizione proposta a Cadro parlerà proprio di questo miscuglio: il nostro cervello e l’imperfezione umana. Come si sostiene L’ideatorio?

Per tutte le scuole l’ingresso a L’ideatorio sarà gratuito fino a dicembre, poi la gratuità rimarrà per le scuole comunali della Città di Lugano; per il pubblico l’ingresso sarà a pagamento, con la possibilità di una carta abbonamento annuale. Grazie a un’iniziativa per la promozione della scienza della Confederazione usufruiamo di un budget attraverso il programma MINT Suisse: si tratta di un fondo voluto dal Consiglio federale per avvicinare maggiormente i giovani alla scienza. Infatti gli studenti iscritti alle facoltà scientifiche aumentano, ma non tanto quanto lo richieda il fabbisogno dell’economia e del mercato. In questo senso L’ideatorio contribuisce all’iniziativa MINT Suisse in quanto ci prefiggiamo quale obiettivo quello di mostrare ai giovani che la scienza è un luogo interessante dove investire le proprie idee e il proprio futuro.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Annalisa Strada, La gara di torte, San Paolo. Da 7 anni Una torta di pane può fare la differenza. Una torta di pane può cambiare la vita di molte persone. Una torta di pane può anche costituire un cimento non facile per due bambini senza esperienza di cucina e senza soldi. Di torte, amicizia e solidarietà condominiale racconta questo breve romanzo scritto con il consueto brio da Annalisa Strada, che invita ad avere il coraggio di «cimentarsi in nuove prove», vincendo paure e ritrosie. La nuova prova, per i piccoli Paride e Brigida, vicini di pianerottolo con le loro rispettive famiglie monogenitoriali (la mamma per Paride e il papà per Brigida), è, appunto, cimentarsi nella preparazione di una torta, per partecipare al concorso indetto dal Comitato di Quartiere. Bisogna dire che la motivazione, ossia il premio in palio, è forte: un weekend in un bel-

lissimo posto sul lago. I bambini però, nelle loro dispense, hanno solo pane vecchio, latte, uova, un po’ di zucchero e due limoni avvizziti. Ovviamente non hanno la possibilità di andare in autonomia a fare la spesa per procurarsi altri ingredienti, e allora? Allora un buon punto di partenza può essere l’impasto base della mitica torta di pane, ben conosciuta anche nelle nostre zone, e per il resto (in particolare il

cioccolato) si potrà ricorrere all’antico metodo del baratto. E quindi i due bambini solleciteranno i vari vicini, bussando letteralmente a tutte le porte, e ricevendo reazioni eterogenee; ma così è la vita, non si possono sempre trovare delle porte aperte, ed è salutare abituarsi anche a qualche porta chiusa in faccia. Gli aiutanti saranno comunque maggiori degli antagonisti e la collaborazione di questa variegata comunità di un condominio di periferia (le abitazioni di periferia sono un’ambientazione cara all’autrice) porterà a un finale allegro e non scontato. Daniela Kulot, Andiamo a scuola insieme, Zoolibri. Da 4 anni Si comincia a sfogliare questo bell’albo e si parte dalla pagina del titolo, sotto il quale troviamo oggetti di uso comune: una molletta per il bucato, un pezzo di spago, un fazzoletto stropicciato, un sasso... oggetti di uso «comune» per

gli adulti, ma non certo per lo sguardo infantile, capace di trovare inediti squarci verso l’altrove a partire da ciò che per gli altri è solo banale quotidianità. Nella prospettiva infantile tutto è meraviglia, di banale non c’è nulla, e un sasso può diventare un elefante, un fazzoletto un uccello, uno spago un serpente, una molletta un coccodrillo. Ecco che allora il tragitto verso la scuola può diventare un’«incredibile

avventura», come recita il sottotitolo: sì, perché ciò che trovano i tre animaletti protagonisti diventa, trasformato dalla loro immaginazione, il tramite verso mondi esotici e avventurosi: una giungla da attraversare a dorso di elefante, cieli sconfinati da ammirare a volo d’uccello, un pericoloso serpente a cui sfuggire, un coccodrillo con il quale, da provetti pirati, andare all’arrembaggio di una nave... per poi arrivare sani e salvi a scuola. Ma l’avventura non finisce qui, perché, dopo essere stata vissuta, può diventare un meraviglioso racconto per i compagni. Le illustrazioni dell’autrice/illustratrice tedesca Daniela Kulot (già apprezzata per il celebre Coccodrillo innamorato) sono coloratissime, piene, vivaci – un po’ alla Axel Scheffler per intenderci – e danno ampio respiro a questa storia che è un tenero omaggio al gioco del «facciamo che era», preziosa risorsa di ogni bambino.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Idee e acquisti per la settimana

Il festival delle delizie allo spiedo Attualità Grande varietà di proposte per i fan degli spiedini nelle macellerie Migros

*Azione 30%

Una gustosa grigliata senza spiedini? Assolutamente impensabile. I succulenti bocconcini sono una pietanza ideale per i banchetti estivi in giardino. Il bello di queste preparazioni è il fatto che si declinano in tante variazioni diverse e si possono gustare con le mani direttamente dallo spiedo, senza necessariamente munirsi di posate o piatti. Che si tratti di spiedini di carne, pesce o pollame, nella vostra macelleria Migros di fiducia la scelta è ampia e in grado di soddisfare i gusti e le esigenze di tutti i commensali. Se spesso e volentieri le donne e i piccoli buongustai prediligono gli spiedini a base di pollo o pesce, per gli uomini invece sullo spiedo non devono mai mancare i pezzi di carne più sostanziosi e saporiti. Gli specialisti del reparto non sono solo a vostra disposizione per consigli azzeccati per una preparazione sulla griglia pienamente riuscita, ma vi possono anche «personalizzare» gli spiedini secondo le vostre preferenze, per esempio marinandoli in anticipo oppure arricchendoli con delle verdurine di stagione.

su tutto l’assortimento di spiedini di carne, pollo, pesce al banco e a libero servizio dal 18 al 24 giugno

Il festival degli spiedini

Al momento nelle macellerie di Migros Ticino vi attende un ricco e variegato assortimento di spiedini, sia al banco che a libero servizio. Oltre alle varianti più classiche a base di carne di manzo, maiale e vitello, la selezione include anche specialità diverse dal solito come spiedini di canguro, zigani, kebab, oppure ancora i megaspiedi per i grandi appetiti o gli spiedini di salsiccia. Agli amanti del pollame, consigliamo invece di assaggiare gli spiedini di tacchino con peperoni o le differenti proposte a base di gustoso pollo svizzero Optigal da allevamenti particolarmente rispettosi degli animali. Infine, chi opta per il pesce, anche qui ha solo l’imbarazzo della scelta in fatto di spiedini pronti per la griglia: dalle varianti miste di salmone/merluzzo/pangasio a quelle di gamberi tail-on, fino a quelle più delicate a base di pregiate capesante.

Spiedini di filetto di maiale con pancetta TerraSuisse Svizzera, imballati 100 g Fr. 4.50* invece di 6.50

Spiedini di gamberetti, imballati 100 g Fr. 3.50* invece di 5.–

Spiedini zigani, prodotti in filiale con carne svizzera, al banco a servizio 100 g Fr. 3.55* invece di 5.10

Spiedini di salmone bio, Norvegia, imballati 100 g Fr. 4.40* invece di 6.30

Spiedini di tacchino con peperoni, Ungheria, imballati 100 g Fr. 1.95* invece di 2.80

Scegli le fragole svizzere!

Attualità Gli apprezzati frutti di produzione indigena sono da subito disponibili nei nostri supermercati Chi predilige e sostiene i prodotti nazionali, ha di che rallegrarsi: sono infatti ritornate le fragole di coltivazione svizzera. I trasporti brevi per la fornitura del prodotto ai punti vendita sono garanzia della massima freschezza. Secondo l’Associazione Svizzera Frutta le fragole rossocrociate sono coltivate su una superficie di 510 ettari, ciò che rappresenta una cifra costante. Per assicurare il fabbisogno interno in modo durevole, nel 2019 le superfici dotate di protezione contro le intemperie ammontano al 34.2 percento del totale, vale a dire 174.5 ettari. Quest’anno i produttori svizzeri si aspettano un raccolto medio. Inoltre sono aumentate le coltivazioni che applicano le norme della produzione biologica. Grazie a nuovi metodi di coltivazione la regina della bacche di produzione svizzera potrà essere apprezzata fino al prossimo autunno. All’incirca un terzo delle fragole consumate in Svizzera provengono dal nostro paese. Il resto viene importato, principalmente prima dell’inizio della stagione. Le fragole svizzere si distinguono dalla concor-

Gelato alla fragola e cioccolato bianco

Azione 33%

sulle fragole svizzere 500 g Fr. 3.95 invece di 5.90

Ingredienti per 8 persone 500 g di fragole 1 bustina di zucchero vanigliato 1 dl di latte condensato zuccherato 250 g di doppia panna 100 g di cioccolato bianco

dal 18 al 24 giugno

renza estera per il fatto che si possono trovare sugli scaffali dei negozi alla giusta maturazione a poche ore dalla raccolta e per la produzione particolarmente rispettosa dell’ambiente. Il con-

sumo indigeno pro-capite di fragole si situa sui 2.2 kg. In Svizzera le fragole rappresentano il terzo frutto da tavola indigeno più importante in termini di raccolto.

Preparazione Riducete la metà delle fragole a dadini e metteteli da parte. Dimezzate le fragole rimaste, mettetele in un recipiente alto con lo zucchero vanigliato e riducetele in purea con un frullatore a immersione. Incorporate il latte condensato e la doppia panna. Tritate il cioccolato, mescolatelo con i dadini di fragola messi da parte e unite il tutto alla purea di fragole. Trasferite il composto in un contenitore a chiusura ermetica per il freezer. Mettete in congelatore per almeno 4 ore, mescolando la massa ogni 30 minuti. Formate delle palline di gelato e servitele nei cornetti o in scodelline.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Idee e acquisti per la settimana

Grigliate sensazionali

Novità Un apparecchio grill tuttofare innovativo per sorprendere i tuoi ospiti

Stop alle zanzare! Fastidiose punture di zanzara addio con l’efficace Catambra, una pianta in grado di allontanare naturalmente gli insetti grazie al catalpolo, una sostanza repellente che contiene in grandissime quantità nelle sue foglie. La Catambra può essere tenuta in vaso, trasferendola in un recipiente più capiente una volta acquistata, oppure trapiantata in giardino: nel giro di pochi anni si otterrà un grazioso alberello antizanzare. È una pianta che non necessita di molte cure, fuorché delle annaffiature regolari per avere della terra sempre umida.

Grigliare, affumicare o cuocere una pizza è un giochetto da ragazzi con questo incredibile apparecchio grill con corpo in pregiata ceramica. Grazie al suo efficiente funzionamento con carbonella o bricchette ha bisogno di pochissima energia per raggiungere le temperature desiderate. Il riflettore di calore in due elementi permette di grigliare in modo diretto o indiretto. Inserendo le speciali chips per affumicare, potrai preparare degli aromatici manicaretti dal sapore caratteristico, mentre i fan della pizza saranno conquistati dalla loro pietanza preferita cotta su pietra. L’amicone dei griglietariani

Il tuo alleato perfetto per delle grigliate indimenticabili? Lo trovi sotto griglietariani.ch. Apri il sito con lo smartphone e avrai a disposizione in ogni momento un mondo di consigli, curiosità e ricette per prendere per la gola parenti e amici con tante bontà alla brace. Tra le altre cose, qui troverai anche l’originale timer da grill, uno strumento utilissimo per grigliare al punto giusto non solo carne, pesce o pollame, ma anche verdure, frutta, formaggi o prodotti vegani. Sul sito potrai anche partecipare ad un grande quiz con ricchi premi in palio.

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Foto: Fabian Biasio

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Un aiuto solidale e sostenibile Quasi la metà della popolazione del Ciad soffre di povertà estrema. Gli abitanti soffrono regolarmente di insicurezza alimentare, malgrado l’agricoltura occupi l’80 per cento della popolazione attiva. I programmi di Caritas Svizzera in Ciad mirano a diminuire la povertà di circa 675 000 persone attraverso lo sviluppo equo del settore agricolo e la gestione sostenibile delle risorse naturali. Si è inizialmente proceduto a professionalizzare e modernizzare le filiere del karité e delle arachidi, sostenendo in particolar modo le cooperative femminili. Le produttrici e i produttori acquisiscono così una migliore conoscenza dei reali prezzi praticati sul mercato, consolidando i loro diritti di fronte ai commercianti. Risultato: un aumento del ricavato delle aziende a conduzione famigliare, che permette alle donne di migliorare la condizione socio-economica della loro famiglia e aumentare il loro potere decisionale. Questo progetto è sostenuto dalla Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC).

La vendita del burro di karité permette alle donne come Marie (la prima a destra) di essere più autonome.

Marie (56 anni): «Il karité ha cambiato la mia vita.» La vita è molto ardua per le donne in Ciad. Spesso devono assumersi il carico famigliare da sole. Per completare il loro reddito, producono burro di karité. Caritas sostiene la professionalizzazione e la commercializzazione di questa attività tradizionale. Un aiuto efficace che ha cambiato la vita di Marie, 56 anni. Marie Bamounmanan è vedova. Ha dovuto lottare parecchio per assicurare la scolarizzazione dei suoi quattro figli. Ha tentato di cimentarsi nel piccolo commercio, con la vendita di una bevanda locale che produceva lei stessa, ma non era sufficiente per vivere. Il suo piccolo pezzo di terra non rendeva granché: «Impossibile far prosperare le nostre colture. Il raccolto veniva distrutto dagli animali degli allevatori.» Marie vive a Sarh, una città nel Sud del Ciad, molto vicina

alla frontiera con la Repubblica Centrafricana. Come altre donne della sua regione, Marie raccoglieva i semi degli alberi di karité che crescono sulla sua minuscola proprietà, producendo il burro di karité artigianalmente, a mano. Un lavoro molto faticoso. Le donne ricevono una formazione Eppure, questa attività tradizionale possiede un grande potenziale. Caritas ha dunque sviluppato delle piattaforme di lavorazione del karité, dotate di macchinari.

«È così che noi donne siamo entrate nella filiera del karité» racconta Marie. Un ingegnere locale ha concepito appositamente quattro macchinari: un frantumatore, un mulino, una macchina per la torrefazione e una per la produzione del burro. Marie ha seguito una formazione per l’uso corretto dei macchinari e ha in seguito trasmesso il suo sapere alle donne della piattaforma aperta nel 2017 a Balimba, una cittadina vicina a Sarh. Un’ulteriore formazione ha messo l’attenzione sulle misure di igiene e sulla necessità di utilizzare acqua potabile per la lavorazione del karité. «Prima usavamo acqua qualsiasi» precisa Marie «e vi erano molte impurità. Grazie a questa formazione, il nostro burro è di qualità migliore.» La produzione ha effettivamente fatto un salto di qualità, la commercializzazione dell’olio si è professionalizzata. Grazie alla vendita del burro di karité, usato nell’alimentazione e nella produzione di cosmetici, Marie ha potuto finanziare la scuola sanitaria di sua figlia. La sicurezza alimentare è ormai assicurata e quando si ammalano, tutti i membri della famiglia hanno accesso alle cure. «Lo sguardo su noi donne è cambiato» si rallegra Marie. Le donne sono diventate più autonome e tutta la comunità ne trae beneficio.

Per scoprire di più su Marie: farelacosagiusta.caritas.ch

Per permettere una crescita sostanziale della produzione, sono stati installati quattro macchinari.

Inoltre, gli agricoltori consolidano la loro sicurezza alimentare e la loro resilienza ai cambiamenti climatici. In Ciad, la produzione agricola è realizzata principalmente da piccole aziende famigliari molto vulnerabili e con mezzi molto limitati. Questo progetto rafforza le persone che vivono nella zona del Sahel in Ciad e migliora durevolmente l’accesso al cibo. Un aspetto importante di questo progetto è aumentare la resilienza di queste persone di fronte ai cambiamenti climatici e ai rischi di catastrofi naturali. I giovani, infine, ricevono una formazione professionale che risponde alle esigenze del mercato del lavoro. Con un tasso di analfabetismo stimato intorno al 78 per cento, sono pochissimi i giovani che seguono una formazione professionale. Questo progetto mira a garantire ai giovani una formazione professionale di qualità, rispondendo alla reale domanda del mercato del lavoro. Sviluppato su mandato della DSC, questo progetto contribuisce allo sviluppo socio-economico e alla sicurezza alimentare.

Per assicurare la sostenibilità del progetto, sono stati piantati nuovi alberi di karité.

Conto donazioni: 60-7000-4 Per le donazioni online: caritas.ch/ciad-donare


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi «Non tutti i Luigi nati in Francia sono re» La citazione che apre l’appuntamento odierno con il vostro Altropologo di riferimento è passata alla storia come un esempio di quell’arguzia propria della tradizione rabbinica che ha fatto scuola dalla letteratura e dalla tradizione orale in yiddish degli ebrei aschenaziti fino alle famose battute di un Woody Allen. Siamo a Parigi, nel 1240. Per la precisione è il 12 giugno quando Moses di Coucy, Yechiel di Parigi, Giuda di Melun e Samuel di Château-Thierry – quattro ovvero fra i rabbini più illustri di Francia – si siedono di fronte a Nicolas Donin, ebreo convertito al cristianesimo e divenuto teologo francescano. Scopo dell’incontro era dibattere e difendersi dalle accuse che Donin aveva portato contro gli ebrei in una lettera indirizzata a Papa Gregorio IX nella quale elaborava 35 capi d’accusa contro il Talmud in quanto, a suo avviso, questi recava affermazioni blasfeme ed oscene contro Cristo ed i Cristiani incitando gli ebrei ad ingannarli e farsi gioco di loro. Come è noto il Talmud è la raccolta di tradizioni rabbiniche – peraltro datate

a diverse epoche e imputabili a diversi autori e dunque prive della coerenza e cogenza dell’opera di un unico autore – che funge da base per l’interpretazione della Torah – ovvero del testo canonico della Bibbia. Si trattava anzitutto di una rivincita di carattere personale. Anni prima, quando era ancora fedele alla religione dei suoi padri, Nicolas Donin era stato espulso da una scuola rabbinica per aver espresso posizioni contrarie alla interpretazione rabbinica della Torah. Donin era infatti un affiliato di quella branca dell’ebraismo nota come Caraismo. Si tratta di una sorta di corrente fondamentalista dell’ebraismo che ammette come unica autorità in materia religiosa la Torah e rigetta la tradizione interpretativa del Talmud. Non a caso il Caraismo era nato in Mesopotamia, dove aveva assorbito gli aspetti più radicali del monoteismo islamico. Bene: ad espellere Donin dalla scuola per le sue idee «protestanti» era stato quello stesso rabbino Yachiel di Parigi. Erano quelli gli anni delicati di formazione dell’antisemitismo che

conosciamo oggi. Fino ad allora in campo cristiano erano sì maturate posizioni antiebraiche a volte violente e radicali. Tuttavia tale avversione non si rivolgeva tanto all’ebraismo in quanto tale, quanto al fatto che si accusavano gli ebrei di aver stravolto la sostanza del testo biblico per poter arrivare a negare la natura messianica del Cristo profetata nella Torah e, così facendo, di tradire in ultima analisi la loro stessa religione. Una conseguenza di questo tipo di atteggiamento era che molti, in campo cristiano, erano convinti che bastasse persuadere con argomenti razionali come la natura di Cristo in quanto Messia fosse iscritta in una corretta lettura del testo biblico e la conversione in massa degli ebrei sarebbe stata gioco facile. Nella fattispecie, la Chiesa del XIII sec. aveva approntato tutto l’armamentario teologico – ed affilato le armi retoriche necessarie a sostenerlo – per far rientrare l’argomentazione teologica nel campo della filosofia – e dunque della logica e del buon senso. Di contro a un Talmud che soffriva delle inevitabili va-

riazioni dovute alla molteplicità dei suoi «autori», della discrepanza cronologica e storica dei suoi contenuti – il tutto complicato dal fatto che la trascrizione di testi orali porta con sé comunque e sempre incongruenze e contraddizioni, la Chiesa aveva ora a disposizione quel carrarmato di dottrina filosofica finalmente in pace con la tradizione filosofica che era la monumentale Summa Teologica di Tommaso d’Aquino. Insomma, nei giorni di quella che divenne famosa come la Disputa di Parigi se ne sentirono delle belle. Si imparò che, secondo Donin, il Talmud accusava i cristiani di blasfemia, di adulterio e financo di zoofilia. In uno dei passaggi più folcloristici della lettera di Donin – diciamo così – si riportava che, secondo il Talmud Adamo avrebbe copulato con tutti gli animali prima della creazione di Eva, mentre altrove si faceva notare come Noè sarebbe stato castrato dal perfido Ham. Fu quando però i Rabbini furono chiamati a giustificare un passaggio del Talmud nel quale si diceva che un tale dal nome

Gesù era finito all’inferno per essere bollito negli escrementi per tutta l’eternità che i Rabbini chiamarono in causa il Re Luigi IX ricordando che non tutti i Luigi di Francia potessero essere re... Non ci è dato sapere se e in quanti risero all’arguzia dei rabbini, ma sappiamo che le argomentazioni di Donin avevano causato sensazione a Roma. Fino ad allora poco si sapeva in campo cristiano del Talmud: ora invece si veniva a conoscenza di un testo in sostanza segreto col quale gli Ebrei interpretavano la Bibbia in chiave anticristiana e anticristologica. Impia Judaeorum Perfidia: «L’empia perfidia dei Giudei». Con la lettera di Innocenzo IV a Luigi IX di Francia datata 9 maggio 1244 si sanciva la messa al rogo di diecimila volumi di testi ebraici trasportati da tutta la Francia su ventiquattro carri. Il 17 giugno dello stesso anno il rogo si accendeva su una pubblica piazza di Parigi. Fu un punto di non ritorno: da allora in poi lo stesso fato sarebbe toccato a chi quei libri li aveva scritti.

te invece che una moglie devota. Ho il sospetto che il vostro sia stato un matrimonio di «convenienza», nel senso di garantire a lei una vita comoda e a sua moglie una posizione sociale riconosciuta e invidiata. Di fatto vi sono molte coppie che si accontentano di esibire una felicità di facciata, rinunciando a costruire una storia familiare degna di essere vissuta. Ma può accadere, come nel suo caso, che a un certo punto il castello di carte crolli o per lo meno oscilli senza un apparente motivo. L’esperienza m’insegna che ogni matrimonio è sottoposto a un esaurimento inevitabile della spinta iniziale. E non giova certo seguire un rituale di gesti quotidiani che, proprio per essere perfetti, finiscono per diventare ossessivi. Un coniuge impeccabile sembra invidiabile ma a lungo andare, come lei dimostra, rischia di «venire a noia» e, ancor peggio, di risultare persecutorio. La perfezione altrui, oltre che risultare prevedibile e monotona, ci confronta di rimbalzo con le nostre imperfezioni,

con carenze ed errori che finiscono col minare la nostra autostima. A nessuno piace prendere atto in ogni momento della propria inferiorità materiale e morale. Inoltre non ho mai creduto alle coppie che funzionano a incastro, dove ciascuno risponde puntualmente ai bisogni dell’altro. La reciprocità facilita gli scambi, ammortizza i contraccolpi, fa procedere la convivenza in modo scorrevole, ma non basta. Come esseri umani, ci attendiamo che la nostra esistenza abbia senso, che ci ponga obiettivi da raggiungere, rapporti da allacciare, relazioni da conservare, desideri da appagare, non da soli ma insieme alla persona che amiamo. Il piccolo cabotaggio che lei descrive, fatto di cose quotidiane (la camicia, la colazione) e di gesti consueti (il bacio sulla porta), da solo non produce una storia, un «romanzo familiare». Un matrimonio non dura perché richiede pochi adattamenti. Anzi è spesso il contrario: le difficoltà lo mettono alla prova e i sacrifici lo rinsaldano. Alla lunga, si

sa, marito e moglie si assomigliano e l’entusiasmo sessuale tende a smorzarsi ma è sempre possibile ricominciare, ritrovare la voglia di desiderarsi, di toccarsi, di inventare nuovi modi per non rinunciare al piacere di piacere. Ma è anche importante mantenere una propria autonomia, pensieri che non coincidono necessariamente con quelli dell’altro. Non so, ma può darsi che quella gelida manina riesca nel prodigio di riscaldare la vostra unione, di rivitalizzare le esangui vene dei vostri corpi, di stabilire un dialogo che inauguri finalmente un rapporto vero, magari imperfetto ma diverso dagli spot pubblicitari che ci propongono ogni giorno l’ideale della prima colazione.

maggioranza dei luganesi non registra segni di vitalità, bensì l’opposto: niente visitatori, negozi senza clienti, vie dello shopping deserte, bar chiusi, sale di spettacolo non attraenti. Questo diffuso pessimismo, però, non è soltanto un prodotto dell’epoca che della protesta ha fatto un obbligo civico o una moda. Rappresenta invece una costante, di cui, per via dell’età, sono diretta testimone, da decenni: si tratta di una forma di prudenza nei confronti del futuro, che può riservare cattive sorprese. Meglio cautelarsi, prevedendo il peggio. Ecco, allora, per citare un caso ricorrente, albergatori e ristoratori che, soltanto l’anno dopo, parlano di una stagione che era stata soddisfacente. Come avviene, del resto, per i conti dello Stato, presentati agitando lo spettro di cifre rosse, in seguito smentite. È, insomma, un aspetto evidente del

costume locale, qualcosa che appartiene al nostro DNA e alimenta i malumori quotidiani. Ma al di là di questa tradizione ticinese e luganese, in particolare, si assiste oggi a un fenomeno che ha assunto dimensioni e connotati ben più ampi, persino sconcertanti. La città, in veste d’imputata, si trova sottoposta al processo intentato da riformatori, animati dallo zelo salvifico che concerne «un organismo moribondo». Si legge questa definizione nel primo volume della trilogia Meno Trenta, pubblicato recentemente da Stefano Artioli, imprenditore di successo, impegnato in un’operazione morale, destinata a «muovere le coscienze di tutta la società civile». Per farlo, ricorre ai mezzi forti, attraverso immagini che documentano le conseguenze di trent’anni perduti. Compare, così, una Lugano in preda

allo squallore, con periferie «oscene», dove imperversano i graffitari, dove si è concesso spazio a speculatori e a evasori fiscali, sottraendolo all’agricoltura e con «un verde urbano soltanto in funzione ornamentale». A scanso di equivoci, sono cose vere, purtroppo vizi dell’epoca, ma, in queste pagine sembrano la particolarità di una Lugano, in caduta libera. Artioli, comunque, non è solo in quest’operazione di risanamento e, soprattutto di cambiamento. Un apprezzato linguista, Alessio Petralli si è fatto avanti con una proposta inattesa: convertire il lungolago in spiaggia balneare. Suscitando reazioni di segno opposto. Da un lato, conservatori fedeli alla fisionomia del «quai belle époque». Dall’altro, gli innovativi, affascinati da una Lugano «marittima», cui anche i politici strizzano l’occhio.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Un coniuge impeccabile non basta Cara Silvia, pur essendo sposato da 27 anni con la stessa donna non mi ero mai stufato, almeno sinora. Invece qualche giorno fa, quando meno me l’aspettavo, mi è venuta a noia. Non so neanch’io perché. A dire il vero è sempre quella di prima: aspetto perfetto, modi impeccabili, organizzazione ineccepibile, umore stabile, salute ottima. I miei amici hanno sempre detto che me la invidiano in confronto a tante mogli sgarruppate, malumorose, poco affettuose e per niente premurose. Io invece non posso lamentarmi: trovo ogni mattina la camicia stirata, il caffè a letto, la spremuta pronta, il bacio al momento di uscire, e tutto il resto di cui potrei aver bisogno. Forse, ma non credo, tutto è precipitato perché sono rimasto turbato da una giovane molto carina e molto civetta, fidanzata con un ragazzo della nostra compagnia, che durante la cena per festeggiare la conclusione del torneo di tennis (che non ho vinto), mi ha allungato una gelida manina da sotto la tavola sussurrandomi: «scaldami!».

Da quel momento non faccio che pensare a lei, sogno come sarebbe bello corteggiarla, giocare con i suoi ricci, stringerla tra le braccia, esaudire i suoi capricci! Nello stesso tempo mi rendo conto di rischiare molto. Se mia moglie lo viene a sapere, intransigente com’è, per me è finita. Mi può aiutare a riflettere? Sa è la prima volta che perdo la testa. Grazie. / Corrado Caro Corrado, dopo una vita matrimoniale trascorsa in un clima di calma piatta, il mare piallato dalla bonaccia, si trova ora investito da una tempesta emotiva senza precedenti. Evidentemente qualche cosa si era già incrinato se è stata sufficiente una stretta di mano, per quanto malandrina, per mettere in crisi le più inossidabili certezze. Leggendo la lettera che mi ha inviato, sono rimasta stupita dal tono delle sue parole, dal fatto che lei non scriva «siamo sposati» ma egocentricamente «sono sposato», come se dall’altra parte ci fosse una zelante governan-

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Processo alla città S’intitolava così il film, diretto da Luigi Zampa nel 1952, in piena era neorealista, quando il cinema italiano diventò anche uno strumento di denuncia politica e sociale. La città in questione era Napoli nella morsa della camorra, allora come oggi. Tanto che quel titolo azzeccato conserva un’inesauribile attualità e definisce un fenomeno che continua a manifestarsi a tutte le latitudini. Luoghi per tradizione tranquilli, sicuri, accoglienti si trovano, a loro volta, sotto processo. È il caso, negli ultimi anni, di Lugano, diventata il bersaglio di critiche, anzi accuse sempre più insistenti e allarmanti. Altro che regina del Ceresio, incoronata da montagne e colline, ridenti, come si diceva un tempo, e bagnata da un lago, cosiddetto ameno. Adesso, le spettano ben altri attributi. Quelli di una località in declino, priva di nuove risorse, assediata da un traffi-

co incontrollabile, avvilita dalla noia e addirittura invasa dalla sporcizia. È una visione rovesciata, rispetto alla precedente: dall’idillio al disamore, sul filo del rimpianto. Questo voltafaccia fa tendenza e, del resto, rispecchia lo spirito «anti-sistema», tipico del momento. Ciò che viene dall’alto insospettisce. Da qui il crescente divario fra statistiche ufficiali e convinzioni popolari: mentre Lugano, dati alla mano, è la città svizzera più sicura della Confederazione, i suoi abitanti si sentono esposti a pericoli minimizzati dalle autorità, furti, vandalismi, brutti incontri. Alla stessa stregua si diffida delle cifre sulla disoccupazione, diffuse dalla SECO, ispirate a un ottimismo di facciata, fake news, come quelle concernenti il turismo, il commercio, la ristorazione. Proprio qui il contrasto di opinioni diventa abissale. Con buona pace delle statistiche, la



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Ambiente e Benessere Elettriche, ibride & co Le moderne tecnologie di cui si stanno dotando le auto creano nuovi acronimi da imparare

Da Abu Dhabi a Petra, in Giordania L’ambizioso Louvre Abu Dhabi e la bellezza naturale del Mar morto, sono solo un paio delle mete principali del viaggio autunnale organizzato da Hotelplan per i lettori di «Azione»

Raffinata e gustosa La cucina magiara è soprattutto piccante, grazie alla paprika pagina 17

L’uso degli antibiotici Il dottor Stefano D’Albena, veterinario specializzato in equini, ne spiega pregi e rischi

pagina 15

pagina 14

pagina 19 Il professor Franco Cavalli, fondatore dello IOSI. (EOC)

Una rivoluzione in corso?

Oncologia Dopo le recenti scoperte nell’ambito dell’immunoterapia che hanno segnato un cambio epocale, ci sono

molte aspettative per un’altra grande novità terapeutica nella lotta contro il cancro, denominata «CAR-T cells» Gabriele Lurati Il Ticino, centro dell’oncologia mondiale. Quando il professor Franco Cavalli ebbe nel 1981 l’idea di creare una conferenza internazionale sui tumori del sangue non si aspettava di ottenere un tale successo. Oggi questo evento – che si celebra a Lugano ogni due anni ed è in programma dal 18 al 22 giugno – è considerato dalla comunità scientifica il luogo d’incontro per fare il punto sullo «stato dell’arte» nella ricerca sui linfomi. Nelle sale del Palazzo dei Congressi e dell’Università, quattromila partecipanti (prevalentemente oncologi e ricercatori clinici ma anche manager di ditte farmaceutiche) presenteranno e discuteranno i risultati delle più recenti e innovative scoperte scientifiche del settore. Quest’anno ci sono molte aspettative in particolare per un argomento che viene considerato il tema del momento nell’oncologia mondiale: le cosiddette «CAR-T cells». L’uso di queste cellule del sistema immunitario (CAR-T è l’acronimo del termine inglese Chimeric Antigen Receptor cell-T) apre la via all’utilizzo della terapia genica, un nuovo e complesso approccio terapeutico ideato per sconfiggere il cancro. Attraverso questo metodo vi è infatti la possibilità di modifi-

care le cellule del sistema immunitario di un paziente con un tumore, per far sì che si moltiplichino e distruggano in modo selettivo solo le cellule malate, senza danneggiare i tessuti sani (come avviene con certi tipi di chemioterapia). Il procedimento consiste nell’ingegnerizzare il linfocita T (una sottopopolazione dei globuli bianchi) per armarlo a combattere contro il linfoma. Concretamente ciò avviene dapprima mediante il prelevamento di cellule del sistema immunitario dal paziente, in seguito queste vengono geneticamente modificate in laboratorio (vengono dotate di uno specifico antigene, una proteina che serve loro come una specie di «sonda» per poter riconoscere e quindi uccidere le cellule tumorali) e infine somministrate allo stesso paziente. Siamo quindi di fronte a un metodo terapeutico nuovo e innovatore, mai utilizzato prima contro la malattia. D’altronde si sta assistendo forse a una vera rivoluzione nel mondo dell’oncologia, iniziata già da alcuni anni con l’immunoterapia. Quest’ultimo è un approccio che punta a sfruttare e pilotare il sistema immunitario affinché possa rispondere in modo adeguato alla presenza di un agente estraneo come il cancro; il suo successo è stato suggellato nell’autunno scorso con l’assegnazione del premio Nobel per la me-

dicina ai «padri» dell’immunoterapia. «Se non si tratta di una vera e propria rivoluzione, sicuramente siamo a una svolta, una scoperta che cambia le possibilità terapeutiche», ci dice il professor Franco Cavalli, fondatore dello IOSI (Istituto oncologico della Svizzera italiana) e presidente del Comitato organizzatore del Congresso sui linfomi. «Le CAR-T sono un’arma potenzialmente molto efficace, la scommessa sarà vedere se questa possibilità potrà essere utilizzata su larga scala e non solo in centri specializzati, dati gli alti costi ad essa associati (circa 500mila franchi a paziente) e verificare le tossicità che essa presenta», precisa Cavalli. Proprio durante i giorni della conferenza questo tema verrà spiegato soprattutto da scienziati di Paesi all’avanguardia nella ricerca come gli Stati Uniti, dove si è già arrivati persino alla seconda generazione di «CAR-T cells». In Europa invece siamo ancora alla prima generazione, ma i risultati sembrano comunque essere buoni, tanto che un luminare come il professor Paolo Corradini, presidente della Società italiana di ematologia, si è dichiarato particolarmente ottimista per quanto riguarda i risultati ottenuti dall’ingegneria genica. «Attraverso le CAR-T abbiamo guarito il 35-40 per cento di alcuni

tipi di linfomi e leucemie di pazienti che non avevano nessuna possibilità di guarire con qualunque altro tipo di trattamento» ha affermato Corradini in un recente convegno tenutosi a Milano. Queste nuove scoperte fatte nel settore dei tumori del sangue stanno generando quindi molte speranze nei pazienti e hanno attirato l’attenzione dei media, visti i buoni risultati ottenuti. Sono però altrettanto importanti anche per la totalità della comunità scientifica perché storicamente i progressi fatti nell’ambito emato-oncologico sono stati anticipatori anche di quelli avvenuti nei tumori solidi. Da qui nasce il grande interesse nel mondo della ricerca per sapere quali risultati usciranno quest’anno dal Congresso di Lugano perché saranno rilevanti anche per il resto dell’oncologia. L’altro tema di questa edizione del simposio è legato alla speciale attenzione alla lotta contro il cambiamento climatico e all’inquinamento. «Si tratta di un messaggio politico in senso più ampio, un avvertimento che vogliamo dare perché è in diretta correlazione con l’aumento del numero di malattie oncologiche» spiega Franco Cavalli. La frequenza del numero dei linfomi è in effetti raddoppiata negli ultimi trent’anni nei Paesi più sviluppati e il

peggioramento delle condizioni ambientali è considerata la prima causa di questo aumento. «L’enorme incremento di questo tipo di malattia oncologica è in relazione con l’aumento delle sostanze nocive che provengono dall’ambiente, che penetrano nel nostro organismo provocando uno stress nelle cellule e un conseguente sovraccarico del nostro sistema immunitario», continua Cavalli. I linfomi sono un tumore del sistema linfatico, che costituisce la base del sistema immunitario. Quest’ultimo funziona «come un cane da guardia contro tutte le sostanze tossiche che mangiamo e respiriamo, ma negli ultimi decenni ha dovuto lavorare in continuazione affinché il nostro organismo non ne venisse contaminato. Il problema è che al giorno d’oggi il nostro sistema immunitario viene sottoposto a uno stress continuo. Se questa iperstimolazione che provoca uno stress dei tessuti del nostro organismo e una conseguente moltiplicazione di cellule in eccesso avviene di frequente, la probabilità di ammalarsi di tumore non potrà che aumentare in futuro» conclude il professor Cavalli. Informazioni

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Ambiente e Benessere

Cambiano i motori, ma anche il linguaggio Motori Più le auto si fanno elettriche e più abbiamo nuovi acronimi inglesi da imparare

Mario Alberto Cucchi Mhev, Hev e Phev. Sono acronimi con i quali gli automobilisti devono iniziare a familiarizzare. La prossima auto di famiglia potrebbe essere una di queste. Ma cosa significano queste sigle? Innanzitutto va detto che siamo nel mondo delle auto che godono di supporti elettrici alla trazione. Mhev sta per Mild Hybrid Electric Vehicle, ovvero veicolo ibrido elettrico leggero. È la porta di accesso all’elettrificazione e contribuisce già oggi alla crescita di veicoli ibridi sul mercato poiché si tratta di un sistema di dimensioni ridotte e poco complesso rispetto ai tradizionali sistemi ibridi. Con il Mild Hybrid viene montato un impianto elettrico parallelo alimentato da batterie a 12 o 48 volt che lavorano insieme a un motore elettrico di piccole dimensioni. Tra le sue caratteristiche, quella di recuperare energia durante le frenate. Questa energia viene utilizzata per aiutare l’auto durante le fasi di partenza, quelle in cui si consuma di più. E la marcia elettrica? La maggior parte dei Mhev possono al massimo percorrere uno, due chilometri in modalità totalmente elettrica, quel tanto che basta per utilizzare l’auto in alcune zone a traffico limitato in cui le auto con motore termico non possono entrare. Tipico di molti Mhev 48 volt è la

Tra gli ultimi Mild Hybrid a 48 volt che hanno debuttato sul mercato troviamo la Kia Sportage Mhev.

possibilità di veleggiare, il cosiddetto sailing. In pratica quando il conducente toglie il piede dall’acceleratore a una velocità compresa tra i 55 e i 160 km/h, l’auto può proseguire la marcia per inerzia fino a 40 secondi con il motore completamente spento, entrando nella cosiddetta modalità di veleggiamento. A velocità più basse, invece, la fase start/stop inizia già a 22 km/h. Il siste-

ma di gestione della trazione utilizza le informazioni provenienti dal navigatore e dai sensori di bordo per decidere quando è più conveniente spegnere il motore o recuperare energia. Una delle situazioni tipiche in cui viene attivato il recupero è quando viene rilevato un veicolo che precede: in questa fase il sistema fa decelerare l’auto mediante il BAS, generando energia per poi stoc-

carla nella batteria o usarla direttamente per alimentare i servizi elettrici accessori. Passiamo alla seconda sigla: Hev che sta per Hybrid Electric Vehicle ovvero semplicemente veicolo ibrido elettrico. Qui le dimensioni e la complessità del motore elettrico crescono, ma resta l’autonomia ridotta a pochissimi chilometri nella marcia total-

mente elettrica. I consumi si riducono ancor di più e migliorano anche le prestazioni proprio perché si tratta di un ausilio più importante. Questa tipologia di auto ricarica le batterie esclusivamente grazie all’utilizzo del motore termico. Eccoci infine ai Phev, Plug-In Hybrid Electric Vehicle. I famosi ibridi Plug-In in cui le batterie si possono ricaricare attaccandosi alle colonnine o anche tramite la corrente fornita dalla presa di casa. Questi ultimi permettono di viaggiare a zero emissioni con un’autonomia di circa 50 chilometri e a una velocità massima che può raggiungere i 130 chilometri orari. I tempi di ricarica attuali? Vanno dalle circa due ore e mezza della BMW 225 XE alle sette ore della Range Rover P400e. Con i Phev per ora aumentano, e di molto, i prezzi di acquisto a causa del costo maggiore di motore e batterie. Ecco perché quest’anno assisteremo a una piccola invasione di auto equipaggiate con il sistema ibrido Mhev che senza troppe complicazioni viene abbinato sia ai propulsori alimentati a benzina che a quelli a gasolio. Tra gli ultimi Mild Hybrid a 48 volt che hanno debuttato sul mercato troviamo la Kia Sportage Mhev: basata sul motore diesel 2.0 CRDi viene offerta con cambio automatico e trazione integrale nella ben accessoriata versione Style. Il prezzo? 43’950 franchi. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

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Un viaggio incantevole tra storia e ricchi paesi antichi. È quanto Hotelplan in collaborazione con «Azione» propone per l’autunno di quest’anno (dal 27.10 al 4.11.2019). Abu Dhabi è probabilmente l’ultimo posto al mondo in cui vi aspettereste di trovare i resti di un monastero

cristiano del 600 d.C. che testimonia il rapporto tra Abu Dhabi e il tempo: tra tutti gli emirati è quello con la storia più lunga alle spalle. È anche il più esteso, il più importante e il più ricco. Se Dubai ha una visione ipercinetica e scintillante di futuro, Abu Dhabi è ugualmente

contemporanea e ambiziosa; la Gran moschea dello Sceicco Zayed e il Louvre sono alcuni dei simboli di questa città in continua evoluzione. Il mistero dei Nabatei e la potenza di Roma; l’epica delle Crociate e l’arte bizantina, il bianco del sale del Mar morto e il rosso

Il programma di viaggio 27 ottobre: Ticino – Abu Dhabi Trasferimento per Milano Malpensa. Partenza per Abu Dhabi. 28 ottobre: Abu Dhabi Visita della città; la Grande Moschea di Sheikh Zayed, il lungo mare Corniche, l’Heritage Village e il centro commerciale Abu Dhabi Marina. 29 ottobre: Abu Dhabi Visita della «città bianca museo» del Louvre Abu Dhabi da 87mila mq.

30 ottobre: Abu Dhabi – Amman – Kerak – Petra Volo per Amman e partenza per Petra. Visita di Kerak e del suo castello crociato. 31 ottobre: Petra Visita della capitale nabatea considerata da tanti la città più scenografica del mondo, Petra: il Siq, il Tesoro e le Tombe Reali. 01 novembre: Petra – Little Petra – Wadi Rum – Amman Visita di Little Petra e Beidah; e partenza

per il deserto di Wadi Rum famoso per il suo paesaggio lunare. 02 novembre: Amman – Madaba – Monte Nebo – Mar Morto Visita della città. Si prosegue poi verso la città mosaico di Madaba e per il Monte Nebo, il presunto luogo di sepoltura di Mosé. Partenza per il Mar Morto. 03-04 novembre: Mar Morto – Amman – Ticino Volo di rientro in Italia con scalo ad Abu Dhabi.

Bellinzona

Lugano

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Viale Stazione 8a 6500 – Bellinzona T +41 91 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch

Via Pietro Peri 6 6900 – Lugano T +41 91 910 47 27 lugano@hotelplan.ch

Via Emilio Bossi 1 6900 – Lugano T +41 91 913 84 80 lugano-viabossi@hotelplan.ch

del deserto di Wadi Rum: dove siamo? Pochi sanno rispondere, pochi conoscono la Giordania. È uno dei paesi più stabili del Medio Oriente e la sua capitale, Amman, è una classica città araba capace di sorprendere il visitatore con vestigia romane in ottime condizioni. È attraversata dalla Strada dei Re, che 5mila anni or sono univa la Siria al Regno d’Egitto. Oggi è ancora possibile percorrerla per raggiungere l’epicentro della Giordania: Petra. La Giordania offre ai propri visitatori scenari naturali estremi come il Mar Morto e il deserto di Wadi Rum. Sul sito www.azione.ch, il dettaglio del calendario qui di fianco.

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italiana per tutta la durata del viaggio; pernottamenti in camera prescelta con servizi privati; trattamento di pensione completa; accompagnatore Hotelplan Ticino. La quota non comprende Adeguamento carburante; extra in genere; assicurazione viaggio da CHF 109.–; mance (circa 50 euro per persona da pagare in loco); spese agenzia. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Da Bergerac a Monbazillac, sino a Cahors

Scelto per voi

Bacco Giramondo I vini del sud-ovest francese – Seconda parte

Davide Comoli Il nostro viaggio nel sud-ovest della Francia ci porta a Bergerac, una città piena di storia e di charme, sulle ondulate colline che sono il naturale prolungamento del St. Émilion: la frontiera tra Bergerac e Bordeaux è puramente amministrativa. Il clima è simile a quello girondino, l’influenza atlantica rende gli inverni dolci con moderate piogge. Bisogna però stare all’erta per il pericolo di gelate primaverili, piuttosto frequenti, e non vanno sottovalutate nemmeno le violente grandinate. I suoli sono un misto d’argillocalcare-ciottoloso. Qui la vigna è coltivata dall’epoca della conquista romana e la viticoltura fu senz’altro l’attività principale dei monasteri in epoca medioevale. Fu solo dopo la guerra dei Cento anni che gli olandesi, alla ricerca di vini dolci per i mercati del nord, diedero inizio alla produzione di vini bianchi liquorosi, che ancora oggi rivaleggiano con i più bla-

sonati bianchi liquorosi di Bordeaux. Anche il vino di Monbazillac, il bianco più conosciuto della Dordogna, ha bisogno come i Sauternes della «Botrytis cinerea» per la sua produzione. Normalmente l’elaborazione di questo vino richiede il 73% di Semillon, 15% di Sauvignon Blanc e 12% di Muscadelle. Pressappoco le stesse proporzioni con una maggioranza di Semillon, le ritroviamo nei vini di Saussignac. I vini rossi più quotati della Dordogna sono senz’altro quelli di Pécharmant, più strutturati dei rossi di Bergerac, il terreno di questa zona è ideale per il Malbec, il Cabernet e il Merlot. Con le uve delle migliori annate si possono produrre vini che abbisognano di un lungo soggiorno in cantina, in modo da ammorbidire i tannini ed elegantizzare il bouquet dei profumi. Duras è una piccola città dominata da uno splendido castello che guarda verso l’ovest i vigneti del Bordolese. La zona produce dei rossi speziati e dei rosati; i vitigni sono principalmente quelli del Bordeaux, ma comprendono

pure i vitigni locali interessanti come il Fer, Gamay, Syraz, Malbec e l’autoctono Abouriou. Solo una parte dei 1800 ettari è piantato a vitigni bianchi, gli stessi che troviamo nelle Graves (Semillion, Sauvignon, Muscadelle), in più l’Ugni Blanc e l’autoctono Ondenc, molto raro. I vini rossi prodotti a Cahors sono considerati tra i migliori di Francia (lo confermiamo), e provengono dalla valle del fiume Lot e sono vini da bere dopo anni di riposo in cantina, magari con selvaggina. I vini di questa vallata conobbero momenti felici durante il dominio inglese sulla Guascogna (1300 circa). Attraverso il fiume Lot che si getta nella Garonna nei pressi di Aiguillon, i barili di vino potevano essere trasportati sino a Bordeaux per poi raggiungere l’Inghilterra. Nonostante le manovre sporche dei viticoltori Bordolesi (per questa ragione a Cahors non si coltiva il Cabernet, vitigno bordolese per eccellenza), nel 1720 il vino di Cahors raggiunse il suo apogeo. Il successo del black wine non aveva freno e in quel periodo intorno alla città c’erano più di 40mila ettari vitati, cifra enorme per quei tempi. Fu la filossera di fine 800 a distruggere il vigneto di Cahors, e la cosa più grave fu che i viticoltori di quel tempo commisero l’errore di rimpiazzare il vitigno principe, il Cot, chiamato anche Malbec o Auxerrois (e con almeno 150 nomi diversi in Francia) con vitigni più precoci e produttivi per sopravvivere, e alla fine della Prima Guerra Mondiale il grande Vin Noir cadde nell’oblio. Fu solo nel 1947 che qualcuno cominciò di nuovo a coltivare il Cot. Dieci anni più tardi si assistette alla rinascita del vino di Cahors, dagli aromi intensi di frutti rossi, liquirizia, spezie, dai tannini nobili e grande struttura, che gli permettono una grande longevità. La regione a sud di Cahors (dipartimenti du Tarn, Tarn-et-Garonne e

Panorama di vigneti di Cahors verso Trespoux. (Gilles Guil)

Lot-et-Garonne), danno origini a due A.O.C., Gaillac e Fronton. La giacitura di questi vigneti è la somma di diversi fattori, in primis l’influenza climatica: il Mediterraneo non troppo distante, porta calore e vento secco; l’Atlantico porta le piogge; il Massiccio centrale, inverni freddi e gelate primaverili. Anche i fiumi hanno la loro parte: non solo danno i nomi ai dipartimenti, ma generano una moltitudine di microclimi. Infine l’influenza del suolo è molto differente da zona a zona. Gaillac è il vigneto più antico del sud-ovest. Già sotto l’imperatore Domiziano (96 d.c.) si coltivava la vite. Gaillac possiede moltissimi e diversi vitigni. Questo spiega la grande diversità di stile nei vini: oltre ai bianchi bordolesi già citati, qui troviamo il Mouzac, che fornisce bianchi più o meno secchi, il Loin de l’Oeil in purezza o con il Sauvignon Blanc. Tra i rossi troviamo vini prodotti principalmente con il vitigno Duras, seguito dal Fer Servadou, chiamato in loco Braucol e i soliti Cabernet, Syraz e il Gamay, con il quale si producono discreti «primeurs». Curiosi gli spumanti chiamati «Perlé», elaborati con il méthode gaillacoise o méthode rurale in altre regioni. Una volta s’interrompeva la fermentazione immergendo le botti nell’acqua ghiacciata, oggi invece si usano dei moderni refrigeratori. Provatelo con le Crêpes-Suzette. Sul pianoro tra Tarn e la Garonna, la piccola regione di Fronton produce vini rossi e un po’ di rosati. La composizione del suolo delimita la zona. Troviamo un misto di suoli rossi, composti da ghiaia con una forte percentuale di ferro, mischiato ad argilla. Questo suolo è ideale per la coltivazione della Negrette, che produce un vino fruttato e debole di tannini: invecchia rapidamente, ecco perché nella composizione dei vini entrano per almeno il 30% i Cabernet Franc e Sauvignon, da bersi con il classico Magret de canard.

Arneis (Cascina Chicco)

Vitigno autoctono del Roero, l’Arneis matura sulle colline lungo la sponda sinistra del fiume Tanaro, dove la viticoltura è praticata da secoli. Fino a qualche decennio fa i filari dell’Arneis si alternavano a quelli del Nebbiolo, perché il profumo e la dolcezza di questo vitigno bianco attirava gli insetti e gli uccelli, risparmiando le uve rosse più importanti. Il successo di questo vino è dunque abbastanza recente, raggiungendo un alto grado di popolarità negli anni Ottanta, quando grazie alla lungimiranza di alcuni produttori, tra i quali i fratelli Faccenda (Cascina Chicco), viene prodotto un vino bianco secco, che incontra subito il gusto della gente. L’Arneis predilige i terreni leggermente sabbiosi, di colore giallo paglierino, ricorda al naso la cera d’api, fiori bianchi e miele d’acacia, molto persistente e fresco in bocca, lo consigliamo su piatti a base di uova e di pesce, ottimo su antipasti vari come il «vitello tonnato» e sui formaggi a pasta molle. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 15.90. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Ambiente e Benessere

La cucina magiara Avendo a inizio maggio parlato della cucina austriaca, oggi tocca a quella ungherese, anzi magiara. Che è una grandissima cucina, per quanto pochi lo sappiano. Quindi le dedicheremo 2 puntate: riassumerla è impossibile. Avviso per tempo che i termini suoneranno strani per noi, dato che l’ungherese non è una lingua indoeuropea. Una terra prevalentemente pianeggiante, ma a tratti stepposa (la così detta puszta), attraversata da due grandi fiumi, il Danubio e il Tibisco, l’Ungheria è prodiga di frutti: piccole angurie, albicocche, ciliegie, amarene, prugne, pomodori, cavoli, carote, rape, cetrioli e, soprattutto, peperoni dolci e piccanti, aglio e cipolla, veri e propri fondamenti della cucina magiara.

Zuppe e dolci, anzitutto, ma anche stufati di carne e la nota pasta pizzicata Altri prodotti tipici sono offerti dagli estesi allevamenti di mucche, oche, pecore e maiali: carne, latte e derivati (in particolare tejföl, la panna acida ungherese praticamente onnipresente), ma anche strutto di maiale e grasso d’oca, usati come condimento insieme all’olio di semi. Ne risulta una cucina variegata e gustosa, raffinata ma al contempo pastorale, indubbiamente piccante, aromatizzata da paprika, ingrediente tradizionale e caratteristico della cucina magiara, e da erbe quali cumino e maggiorana. Specialità tipiche della gastronomia ungherese sono le zuppe, i piatti di carne e i dolci. Tra le zuppe da gustare si ricorda innanzitutto il rinomato gulyás, a base di carne, cipolle, peperoni, aglio e patate, aromatizzato con paprika, cumino e abbondante aglio (lo so, è ben lontano dall’immaginario occidentale, che lo descrive

come uno spezzatino); tra le molte varianti di questo piatto, è famoso lo székelygulyás, stufato con i crauti. Altre zuppe prelibate sono la tyúkhúsleves, con pezzi di pollo, la bableves, a base di fagioli e salsiccia, la pacalleves, minestra di trippa: tutte, naturalmente, condite da paprika, erbe aromatiche e arricchite d’aglio. I piatti forti sono rappresentati principalmente da stufati di carne, spesso accompagnati dalla csipetke, cioè la «pasta pizzicata», un composto di acqua, farina e uova tagliato a pezzi minuti. Pietanza per eccellenza è il pörkölt: a base di carne tagliata a pezzi più o meno grossi e cotta a lungo con gli immancabili aglio, cipolla, peperoni e paprika. Sì, in pratica si tratta del classico spezzatino: chiamato gulasch nel mondo tedesco, può essere preparato con qualsiasi tipo di carne, dall’oca all’anatra, dal manzo al maiale, dal pollo all’agnello, se non addirittura con il pesce. La paprikas è uno stufato di pollo, manzo o altra carne, preparato come il pörkölt, ma condito con panna acida e servito con gnocchi di pane o di patate. È invece un assortimento di carne alla griglia (prevalentemente maiale, manzo, vitello) il fatanyeros o «piatto di legno» (cosiddetto perché un tempo consumato dai boscaioli, che appoggiavano le pietanze su un disco ricavato da un tronco). Patate, salsiccia, paprika e panna acida sono gli ingredienti di un piatto unico, il krumpli paprikas. Con la pancetta affumicata (ma anche con i fagioli o i piselli) si prepara invece uno stufato che si chiama recsó, mentre le verdure in umido, condite con lardo e panna acida e insaporite dall’immancabile paprika, danno vita al fözelek. La carne viene consumata anche impanata e fritta, oppure tritata in una preparazione particolarmente gustosa, la palacsinta (nella foto), una crespella tonda, ripiena di un trito di vitello e cipolla e condita con paprika e panna acida.

CSF (come si fa)

Haylei Wu

Allan Bay

Sun Cake Mom

Gastronomia Tra prodotti della terra, oche, pecore e maiali – Prima parte

Oggi, due ricette cinesi. Vediamo come si fanno. Un po’ lunghe da preparare, ma buone buone! Costine a ponte. Ingredienti per 16 costine: 16 costine di maiale, non troppo grasse, non troppo magre, 2 cucchiai di salsa di soia, 1 testa d’aglio, 500 g di zucchero bianco, 10 pezzi di anice stellato, 15 peperoncini rossi freschi, 1 radice di zenzero intera, 1 cucchiaio di sale, 1 cucchiaino di pepe nero, 1 gam-

bo intero di lemon grass, vino meglio se cinese altrimenti bianco aromatico, carote e piselli per decorare, olio di semi di arachide. Mettete le costine in una ciotola, tenetele sotto un filo di acqua corrente per un’intera notte. Asciugatele e poi friggetele brevemente in olio di arachidi bollente. Una volta sgocciolate, mettetele in una pentola acconcia, copritele a filo di vino, aggiungete la salsa di soia, gli spicchi d’aglio, lo zucchero, l’anice stellato, il peperoncino, lo zenzero e il gambo di lemon grass tagliato a fettine sottili, il sale e il pepe. Lasciar stufare per almeno 3 ore, coperto, aggiungendo acqua bollente se necessario. Togliere le costine, tenerle in caldo. Filtrate il brodo e riducetelo in salsa. Impiattate le costine, nappatele di sal-

sa e cospargetele di carote tagliate a dadini e piselli. Germogli saltati con polvere di baccalà. Ingredienti: germogli freschi a piacere, porro, carote, aceto di vino bianco, olio di semi di arachide, polvere di baccalà. Per ottenere la polvere di baccalà: prendete il baccalà già bagnato e sciacquatelo più volte con acqua corrente. Tagliatelo a bocconi, cuocetelo in forno a 140° per 8’, poi levatelo e sminuzzatelo. Ripetete altre 3 volte questa operazione: alla fine avrà la consistenza del pane biscottato. Sbriciolatelo con le mani o frullatelo. Nel wok, bagnato con olio e aceto, saltate velocemente i germogli di soia con le carote e il porro tagliati a julienne. Disponeteli sul piatto e cospargeteli con la polvere di baccalà.

Ballando coi gusti Oggi due robusti piatti ricchi e sapidi, basati su uno dei più grandi ingredienti della tradizione occidentale: la salsiccia.

Risotto alla monzese

Fagioli e salsiccia

Ingredienti per 4 persone: 300 g di riso da risotti · 200 g di salsiccia g 200 · 4 scalogni · zafferano in polvere · vino bianco secco · brodo di vitello · grana o sbrinz grattugiati · burro · sale.

Ingredienti per 4 persone: fagioli secchi a piacere · 200 g di salsiccia · 100 g di salsa di pomodoro · 1 cipolla · 1 foglia di alloro · brodo vegetale · olio di oliva · sale e peperoncino.

Mondate e tritate gli scalogni e fateli appassire su fuoco dolce in una casseruola con una piccola noce di burro e con la salsiccia spellata e tagliata a pezzetti. Tostate il riso in una casseruola antiaderente, sfumate con 1 bicchiere di vino, aggiungete gli scalogni con la salsiccia e portate a cottura unendo il brodo bollente necessario mestolo dopo mestolo. Alla fine, unite una presa di zafferano stemperata in poco brodo (ma se volete niente zafferano, va altrettanto bene), mescolate, regolate di sale. Spegnete il fuoco e mantecate il risotto con 40 g di burro e 2 cucchiai di formaggio. Coprite e lasciate riposare il risotto per 2 minuti prima di servirlo.

Ammollate i fagioli in acqua tiepida per una notte. Scolateli, metteteli in una casseruola, coprite a filo di brodo vegetale, unite l’alloro, portate al bollore e fateli sobbollire per il tempo previsto per quei fagioli. Spellate la salsiccia, tagliatela a rondelle e fatela rosolare in un tegame, con la cipolla affettata e un filo di olio. Unite i fagioli scolati e la passata di pomodoro. Lasciate addensare il sugo per pochi minuti, regolate di sale e di peperoncino e servite subito.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Ambiente e Benessere

Rose: tutti i segreti Anita Negretti Belle e capricciose, non possono mancare nei giardini, magari come accompagnamento di altre piante per creare rigogliose aiuole all’inglese o come bordure tappezzanti all’ingresso di viali assolati. Parlo delle rose, i fiori della Madonna e della bellezza per antonomasia.

Una buona pratica preventiva contro le malattie è quella di raccogliere e smaltire le foglie cadute in inverno Belle, s’è detto, ma non sempre facili. La loro fioritura, infatti, è spesso accompagnata da alcune criticità, ciò che le fa diventare croce e delizia di giardinieri, vivaisti e amanti del giardino. Rampicanti, tappezzanti, a forma di arbusto, botaniche, ibride o antiche, le rose, possiamo comunque coltivarle al meglio seguendo pochi ma efficaci consigli, che spaziano dalla preparazione della buca fino alla prevenzione delle malattie. Si trovano in vendita sia a radice nuda sia in vasi con pane di terra radicato. Le prime, quelle a radice nuda, si trovano in commercio durante l’inverno e si possono interrare da novembre fino alla fine di marzo, evitando i periodi di forte gelo o di terreno troppo bagnato. Una volta acquistate, solitamente si esegue una potatura leggera sia alle ra-

dici, eliminando quelle rotte o troppo lunghe, sia sui rami, raccorciandoli di qualche centimetro. Da marzo e per tutto il resto dell’anno è meglio optare invece per rose in contenitore che possono essere trapiantate in qualsiasi periodo. Controllate al momento dell’acquisto delle vostre piante che si presentino sane, con rami ben distanziati, potate, ricche di gemme e senza insetti dannosi sulle foglie o con muffe sul fusto. Una volta scelta la varietà che più vi piace, è necessario trapiantarle in piena terra o in un vaso più capiente. Per farlo in piena terra è necessario scavare una buca di circa 40x40 centimetri e profonda dai 40 ai 50 centimetri; a questo punto è importante collocare sul fondo uno strato di 5-10 centimetri di materiale drenante (ciottoli, ghiaia, argilla espansa). Il primo fondo va creato con una base di concime organico come letame maturo o stallatico pellettato o ancora come concime chimico granulare. Questo primo livello deve poi venir ricoperto con un velo di terriccio. La rosa va estratta dal vaso capovolgendo quest’ultimo ed evitando che si rompa il pane di radici. Si procede sistemando la pianta nella buca tenendo il punto di innesto 1-2 centimetri sotto al livello del terreno; finito il trasferimento in terra, andranno riempiti i lati con altro terriccio, pressandolo per eliminare bolle d’aria. Ma non finisce qui: per accertarsi di aver fatto un buon lavoro, è opportuno aggiungere un’accortezza. Alla distanza di circa venti centimetri dal colletto

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Mondoverde Sono belle ma richiedono cure e attenzioni durante tutto l’anno

va creato un piccolo argine di contenimento dell’acqua di irrigazione intorno alla pianta. Inoltre è molto importante bagnare abbondantemente all’inizio per eliminare le bolle d’aria e per aiutare le radici ad attecchire con facilità. Una posizione in pieno sole accompagnata a cicli di irrigazioni corrette (indicativamente 1-2 volte alla settimana nei periodi caldi e 1 volta ogni

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15 giorni durante gli inverni secchi) creano già delle condizioni tali da avere delle piante sane. Può succedere però che le nostre belle rose vengano colpite da malattie di origine animale, come afidi, argidi e acari, oppure di origine fungina come l’oidio e la ticchiolatura. L’oidio, chiamato anche mal bianco, crea prima una deformazione della lamina attribuendole un aspetto bolloso; successivamente si sviluppano delle chiazze bianche antiestetiche. L’agente patogeno di questo attacco fungino è Sphaerotheca pannosa rosae e il suo sviluppo è favorito da temperature elevate e umidità alta. Quando si manifesta, il micelio fungino ricopre la superficie di foglie e boccioli, ma si può intervenire in fase preventiva con prodotti a base di zolfo bagnabile con trattamenti a cadenza quindicinale, da effettuare su tutta la pianta irrorandola bene dopo il tramonto per evitare l’ustione delle foglie. Vi sono inoltre in commercio spray già pronti all’uso in grado di fermare l’attacco di oidio anche dopo che la malattia si è manifestata. Altra temibile malattia fungina è la ticchiolatura, il cui agente patogeno, Diplocarpon rosae, si espande velocemente creando prima piccole chiazze giallognole, brune e nere sulle foglie, portandole poi a cadere lasciando la pianta spoglia e avvizzita. La ticchiolatura è favorita dall’acqua che rimane sulle foglie durante la bagnatura (distrazione da evitare assolutamente durante la bagnatura manuale, ma che spesso può accadere se piove e poi repentinamente esce il sole). A scopo preventivo in inverno si possono raccogliere le foglie cadute, nelle quali i funghi svernano e eseguire un trattamento a base di rame, come la classica poltiglia bordolese, per l’appunto un fungicida rameico. Tra gli insetti, gli afidi sono i più temuti visto che si manifestano in co-

lonie numerose sugli apici dei germogli che pungono per nutrirsi, producendo inoltre un’abbondante melata appiccicosa su cui si forma una patina scura chiamata fumaggine. Coccinelle, sirfidi e crisope sono insetti utili e competitori naturali che ostacolano il proliferarsi di afidi e i trattamenti chimici vanno utilizzati solo in presenza di forti infestazioni, prediligendo preparati biologici, come macerati d’aglio o di sapone di Marsiglia. In condizioni di elevate temperature e scarsa umidità si manifesta la prolificazione del «ragnetto rosso», un acaro la cui presenza si manifesta con una decolorazione delle foglie e la comparsa di finissime ragnatele sulla pagina inferiore delle foglie; in questo caso si interviene con acaricidi specifici, da non confondere con insetticidi. Se invece vi ritrovate con la foglia rosicchiata ma con la nervatura intatta, siete molto probabilmente in presenza di un attacco di argidi, per combattere i quali si possono utilizzare prodotti a base di piretro; a maggior ragione in questa circostanza, è bene che ricordiate di raccogliere e smaltire le foglie cadute in inverno, che fungono da protezione per questi piccoli e affamati bruchi. E infine se le vostre rose sono sane ma dopo la prima fioritura di maggio non fioriscono più? Di solita per far fronte a questo problema basta una buona concimazione e una potatura dei fiori appassiti tagliandoli a tre foglie sotto il bocciolo ormai esausto. Per quanto riguarda la potatura invernale di febbraio, invece si devono tagliare alla base i rami secchi, malati, quelli che vanno all’interno o che sono accavallati tra loro, mentre gli altri vanno accorciati di circa un terzo praticando tagli leggermente al di sopra delle gemme con un’inclinazione obliqua e verso l’esterno, in maniera tale da far scorrere lontano l’acqua.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Ambiente e Benessere

L’uso corretto degli antibiotici Mondoanimale Si tratta di farmaci per i quali i batteri possono sviluppare una resistenza

Maria Grazia Buletti «Decidendo di somministrare un antibiotico, il veterinario si assume una grande responsabilità: nella guerra contro i batteri bisogna saper “sparare con armi importanti”, ma solo quando è necessario», così esordisce il dottor Stefano D’Albena (veterinario specializzato in equini) quotidianamente confrontato con questi «grossi pazienti» per i quali è chiamato a prendere decisioni talvolta vitali, come quella della prescrizione di un antibiotico. Egli è d’altronde perfettamente allineato con la perentoria campagna di sensibilizzazione lanciata quest’anno dall’Ufficio federale della sicurezza alimentare e di veterinaria (Usav): «Gli antibiotici salvano la vita, ma non sempre sono necessari». La ponderata scelta della somministrazione di questi farmaci particolari si gioca su due facce di una stessa medaglia. La prima riguarda la loro riconosciuta e preziosa efficacia, come spiega il nostro interlocutore: «L’antibiotico è certamente una medicina molto efficace che va scelta secondo una specifica indicazione individuale (per l’appunto, un po’ come le armi quando si va in guerra)». Secondo lo specialista: «Scegliere di dare un antibiotico nella “guerra della cura” equivale a “sparare con armi davvero potenti” ed è come mettere in campo un esercito di migliaia di uomini ben armati contro i batteri: un reggimento di soldati scelti che in poco tempo riesce a vincere la battaglia». I batteri sono dunque il «terribile nemico» che, se non combattuto con il giusto tempismo e la giusta terapia antibiotica, può portare l’animale persino

al decesso: «Se non si somministra un antibiotico che sarebbe necessario, la patologia batterica in corso progredisce inesorabilmente. Allora, nella migliore delle ipotesi, la situazione potrebbe peggiorare rovinando l’organo che l’infezione batterica sta intaccando (cornea, bronco, sottocute sulla ferita…), e i batteri potrebbero ben presto propagarsi con esito letale agli altri organi contigui a quello colpito». Nel dubbio, e visto il pericolo rappresentato dalle infezioni batteriche, sarebbe facile giungere alla sbagliatissima conclusione che l’antibiotico va sempre somministrato. Ma non è così e qui sta il rovescio della medaglia, quello da cui l’Usav mette in guardia con la sua campagna informativa sulla scelta di dare o meno un antibiotico: «Gli antibiotici devono mantenere la propria efficacia anche in futuro. Per questo è importante utilizzarli con attenzione sin da oggi; somministrarli quando non servono è una grossa sciocchezza e potrebbe condurre a una resistenza dei batteri verso il farmaco. Ciò significa che una eventuale volta successiva, quando sarà davvero in atto un’infezione batterica, gli antibiotici non avranno più l’effetto terapeutico auspicato». La resistenza dei batteri agli antibiotici è una questione molto delicata, anche nella medicina umana, e proprio per questo l’Usav promuove la campagna a favore di una prescrizione oculata, la cui decisione è strettamente di pertinenza medica e veterinaria. «Al proprietario dell’animale deve essere chiaro che l’antibiotico prescritto dal veterinario dovrà essere somministrato ad opera d’arte», spiega D’Albena che parla di «dosi corrette e non minime,

Giochi Cruciverba Per scoprire il proverbio nascosto nello schema, risolvete il cruciverba e leggete le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 6, 1, 4, 3, 8, 7).

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vinta, pena la recrudescenza della malattia con resistenza “del nemico batterio” che ci farebbe perdere la battaglia che stiamo combattendo», insiste il veterinario. Chiediamo allora al dottor D’Albena di elencarci, in concreto, le indicazioni che meritano la decisione del veteri-

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Sudoku Soluzione:

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30. Fissazione 31. Le iniziali del pittore Rosai 32. Perciò in poesia 34. Si dice a «Sette e mezzo» 35. Più piccola della rana 36. Ripudiato, emarginato 37. Termine liturgico VERTICALI 1. Un ingrediente del pinzimonio 2. Si è presa la libertà... 3. Viene in camera dopo me... 4. Parte della Commedia dantesca 5. È maggiore nel cielo 6. Posta alla fine... 7. Avveduti, accorti I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

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8. Arnese da taglio 9. Colpisce il naso 11. Capitale 14. Stretto passaggio 17. Nella costellazione del Toro 18. Un giardino d’inverno 20. L’economista e politico italiano Monti 21. Opposto allo Zenit 23. Strato che ricopre 24. Occhielli 26. Dietro al peritoneo 27. Un gruppo di attori 28. Stato del Medio Oriente 33. In piedi... dopo la prima 35. Le separa la «l»

Soluzione della settimana precedente

Partecipazione online: inserire la

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

calcolate individualmente», come pure di un «periodo sufficiente indicato dal veterinario»: «Non bisogna smettere di dare l’antibiotico perché i sintomi si attenuano, ma lo si deve somministrare dai sei ai dieci giorni come prescritto, perché in realtà in corso di terapia la guerra contro i batteri non è ancora

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

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ORIZZONTALI 1. Si raccolgono nel frutteto 4. Dispendiosa 10. Donna senza precedenti... 11. Unità di pressione atmosferica 12. Aspro in latino 13. Le iniziali di un noto Angela della TV 14. Fornisce pasti 15. Il Foscolo 16. Persona abile e competente in un settore 18. Voce del Bridge 19. Una razza canina 20. ... Culpa 22. L’avanzata... dei nonnini 23. La Marzotto stilista 25. Nome maschile 27. Al Bano 29. Signora dell’Olimpo

Il dottor Stefano D’Albena, veterinario. (Maria Grazia Buletti)

nario di prescrivere un antibiotico al cavallo: «Meritano certamente una terapia di questo tipo le ferite sporche che sono aperte da più di due o tre ore e non sono state disinfettate tempestivamente; le ulcere corneali dell’occhio o le ferite perioculari vanno pure trattate con una terapia a base di collirio e crema oculare antibiotica. Poi ci sono tutte le cosiddette affezioni bronco-polmonari per le quali la scelta del farmaco migliore apre un’ampia riflessione, perché in questo caso bisognerebbe effettuare un antibiogramma: un esame dell’aspirato bronchiale la cui analisi permetterebbe di stabilire esattamente con quale battere siamo confrontati e, di conseguenza, quali “armi sfoderare” per ucciderlo con successo e salvare l’animale». Disponiamo infatti di un ventaglio di antibiotici che sono più o meno specifici per certi batteri e D’Albena spiega la sua linea: «Spesso mi trovo a prescriverne uno fra i più comuni, che però ha un’efficacia terapeutica ad ampio spettro». Altre patologie che meritano sempre un antibiotico sono: «La cellulite interstiziale (gamba gonfia, cavallo zoppo, ferita invisibile perché il pelo la nasconde), rari casi di peritonite o quelli estremi in cui l’animale è in pericolo di morte». Una decisione che il nostro interlocutore ribadisce ancora una volta essere di unica pertinenza veterinaria: «Il fai da te è assolutamente vietato!». Infine, egli ci rende attenti sul fatto che ci stiamo concentrando sui cavalli da compagnia, per il tempo libero o sportivi: «Il discorso degli antibiotici per rapporto agli animali da reddito si fa molto più complesso perché entrano in gioco le dinamiche della catena alimentare».

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NATURA AMICA – Le foglie di aloe, grazie al loro gel, sono: …EFFICACI SULLE SCOTTATURE.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Politica e Economia Silenzio su Hong Kong La grande assenza dell’America e dell’Europa nei confronti di Pechino in tema di diritti umani ci indebolisce. Anche nell’ex colonia inglese pagina 22

Moro manipolava l’inchiesta? Il sito d’inchiesta The Intercept pubblica le intercettazioni tra procuratori e il ministro Moro che dimostrerebbero che tramarono per condannare l’ex presidente brasiliano Lula e far salire al potere Bolsonaro

La donna emersa dal nulla Smriti Irani, la donna che ha sconfitto (e spiega perché) Rahul Gandhi, racconta ad «Azione» l’India di domani

Negoziare o precisare? Botta e risposta fra Consiglio federale e Commissione europea sull’accordo istituzionale

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pagina 27 Nei prossimi sette anni sono previsti 700 milioni di nuovi utenti Internet. (Keystone)

La rete si apre al resto dell’umanità Web Stiamo per entrare nella seconda fase di Internet, quella in cui metà della popolazione globale

che oggi non è ancora collegata, sta per esserlo. Questo cambierà la rete, il business e le regole sui dati di questo si occuperà il G20 di Osaka Christian Rocca

Tenetevi forte perché la seconda metà dell’umanità, quella finora esclusa dalle gioie e dai dolori della Rete, sta per accedere a Internet. Immaginate che cosa potrebbe capitare alla società globale del nord e del sud del mondo quando altri due miliardi di persone che vivono in paesi poveri e poco sviluppati cominceranno a comunicare via chat, a divertirsi sui social media, a incontrarsi attraverso le piattaforme digitali. «Non abbiamo visto ancora niente», ha titolato l’«Economist». Sarà bene, dunque, non sottovalutare l’impatto degli oltre settecento milioni di nuovi utenti di Internet previsti nei prossimi sette anni, senza dimenticare le nuove e gigantesche opportunità di business che si creeranno sia per la Silicon Valley sia per chi costruisce infrastrutture tecnologiche sia per i produttori di smartphone. Ma è ancora più interessante, e preoccupante, iniziare a valutare l’effetto che

Internet avrà sulle comunità e sugli individui fin qui senza collegamento al World Wide Web. Questa seconda metà dell’umanità si affaccia alla Rete direttamente con il mobile, senza passare dai computer e senza alcuna cultura informatica, circostanza che cambierà in modo radicale la società, la politica e l’economia di paesi, comunità e culture. Le app e i social porteranno grandi vantaggi in termini di conoscenza e di informazione in vari campi, dalla coltivazione dei prodotti agricoli che beneficerà delle previsioni meteo, fino all’istruzione di base che nei posti più remoti della Terra potrà sopperire alla mancanza dei libri di testo. Intere regioni del pianeta che non parlano né inglese né cinese, in Asia e in Africa, saranno investite dalla rivoluzione digitale e tutto questo accade mentre le società avanzate affrontano timidamente gli effetti perversi dell’assenza di privacy e della manipolazione dei dati che Internet si porta con sé.

Per i paesi senza istituzioni politiche e sociali strutturate il rischio è di segno diverso, rispetto a quello nostrano: chi arriva a una connessione Internet soltanto adesso, senza corpi intermedi a fare da filtro e senza un minimo di cultura digitale, rischia seriamente di passare dalla sobrietà alla dipendenza in pochissimo tempo, con la concreta possibilità che gli aspetti ludici della Rete prevalgano su quelli legati alla comunicazione e al lavoro e contribuiscano a creare un sistema economico molto simile a un gigantesco passatempo globale. I paesi più sviluppati hanno capito che le sfide della società digitale non sono più un tema di esclusiva pertinenza degli addetti ai lavori, come si credeva fino a poco tempo fa, tanto che alla prossima riunione del G20, il 28 e il 29 giugno a Osaka, in Giappone, inizieranno a parlarne apertamente. In precedenza, le discussioni del G20 su questi temi si sono focalizzate su come l’innovazione digitale potesse

aiutare a guidare la crescita economica, ma per la prima volta, sotto la presidenza giapponese, al centro del dibattito ci sarà il ruolo dei dati non solo nel sistema economico del XXI secolo ma anche del benessere sociale dei cittadini. Il primo ministro giapponese Shinzo Abe ne aveva già fatto cenno al World Economic Forum di Davos, lo scorso gennaio, introducendo il concetto di «Data Free Flow with Trust», libera circolazione dei dati con responsabilità. Dati personali, intelligenza artificiale, Internet delle Cose e robotica sono gli elementi di quella che il leader giapponese chiama «società 5.0», fondata sulla centralità umana e sull’integrazione dello spazio virtuale, il cyberspace, con quello fisico e reale. L’Unione europea è stata la prima istituzione politica ad affrontare il tema dei dati, che ora dopo la turbolenta e non ancora risolta esperienza del 2016 comincia a diventare un argomento di dibattito anche nella campagna elet-

torale presidenziale 2020 degli Stati Uniti. Un report del Center for Strategic & International Studies (Csis) di Washington, elaborato in tempo per il G20, invita i soggetti internazionali a riscrivere le regole e la governance sui dati, giudicati inadeguati alle sfide del nostro tempo. I principi di azione, secondo il Csis, sono tre: dare ai cittadini il potere di compiere scelte informate sul modo in cui i dati sono generati, condivisi e usati; proteggere i diritti umani, compreso il diritto alla privacy, e utilizzare i dati e i sistemi digitali per promuovere i diritti dei cittadini; e, infine, salvaguardare la capacità degli innovatori, degli imprenditori e dei fornitori dei servizi di raccogliere, condividere e usare i dati a meno che non violino i due principi precedenti. Sono regole di buon senso e urgenti per la società digitale in cui viviamo, ma anche una protezione preventiva per la seconda metà dell’umanità che si appresta a raggiungerci online.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Politica e Economia

Silenzio su Hong Kong

Politiche cinesi Trump si prepara a incontrare Xi al G20 di Osaka in un clima di grande tensione ma riducendo

il rapporto bilaterale alla dimensione economica. E tacendo sulle drammatiche proteste esplose nell’ex colonia inglese Federico Rampini Prima di avviare il lungo negoziato diplomatico per il ritorno dell’isola alla Repubblica popolare, nel 1982 il leader cinese Deng Xiaoping aveva detto al premier britannico Margaret Thatcher: «Potrei entrare a Hong Kong e prendermela con la forza in un solo pomeriggio». La Lady di Ferro gli rispose: «E io non potrei impedirglielo, ma il mondo intero vedrebbe il vero volto della Cina». Questo scambio di battute fu raccontato dalla Thatcher nelle sue memorie. Colui che dirigeva la delegazione diplomatica cinese, Lu Ping, ha rivelato quanto quel dialogo fosse veritiero. In segreto Deng aveva dato ordine all’Esercito Popolare di Liberazione di preparare i piani di un’invasione. L’opzione militare fu presa seriamente in considerazione dal regime di Pechino anche se in parallelo trattava con gli inglesi una restituzione concordata. Alla fine però lo stesso leader comunista che nel 1989 non esitò a schiacciare nel sangue il movimento di Piazza Tienanmen, con Hong Kong preferì usare i guanti di velluto. Una delle mie numerose visite a Hong Kong, quando ero corrispondente a Pechino, avvenne nel decennale del passaggio dal Regno Unito alla Cina, cioè nell’estate 2007. Scrivevo allora: «Per la Cina quest’isola si rivelò negli anni un giocattolo prezioso. Insieme con le sue libertà, con il rispetto dei diritti umani e del dissenso, Hong Kong custodisce un sistema giudiziario indipendente, una certezza delle regole che la rendono credibile al mondo intero come piazza finanziaria. Le migliori multinazionali cinesi, se vogliono acquisire la fiducia dei grandi fondi pensione americani e attirare i loro investimenti, si quotano alla Borsa di Hong Kong anziché a Shanghai. È per questo che nei dieci anni dopo il fatidico ammainabandiera dell’Union Jack il regime cinese si è mostrato così fedele ai patti, conservando “due sistemi” di regole anche ora che l’ex colonia britannica fa parte di una sola nazione».

Il vero punto debole della Cina è la natura del suo regime. Aver cancellato la questione dei diritti umani dalle nostre agende indebolisce l’Occidente Ma è ancora vero oggi? Hong Kong non è cambiata poi tanto, nel senso che il livello di libertà e diritti umani, la certezza del diritto, vi rimangono molto superiori rispetto alla madrepatria cinese. È cambiato però il resto del mondo: la forza della Cina e la sua consapevolezza di sé sotto Xi Jinping, l’atteggiamento dell’America e dell’Occidente. Fra le tante proteste che hanno agitato Hong Kong in questi anni – nel 2003, nel 2012, nel 2014 – quella che è esplosa adesso è una delle più massicce. Si calcola che siano scesi in piazza un milione di cittadini: uno ogni sette residenti dell’isola. Potrebbe però essere una delle più disperate. Nel senso che a Pechino c’è un regime più determinato

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Fra le tante proteste esplose a Hong Kong in questi anni, quella attuale è la più massiccia. (AFP)

che mai a reprimerla. Mentre l’atteggiamento dell’Occidente è ancora più ambiguo che in passato. Con il tipico riflesso dei regimi autoritari, e un copione collaudato dai tempi delle «rivoluzioni arancioni», il complotto americano è una comoda teoria anche per spiegare la protesta di Hong Kong. I media governativi di Pechino alludono alla mano di Washington dietro la mobilitazione di massa. Sarebbe bello: se soltanto fosse vero. Al contrario, quel che accade a Hong Kong in questi giorni è drammatico anche per il silenzio di Donald Trump e di tutto l’Occidente. Negli ultimi vent’anni lo status di Hong Kong veniva considerato come un test per la Cina. Il rispetto dei «privilegi» (leggi: libertà di espressione, Stato di diritto, tribunali indipendenti, habeas corpus) concordati nel 1997 al momento del passaggio dell’isola dal Regno Unito alla Cina, è sempre stato osservato con vigilanza da Washington, Londra, e dalle altre capitali europee. Dalla capacità di Pechino di mantenere quelle promesse, e di seguire la massima «una nazione, due sistemi» (cioè tollerare un sistema politico e giuridico diverso a Hong Kong, pur essendo quel territorio tornato a far parte della Grande Cina) veniva misurata l’affidabilità dei dirigenti comunisti come interlocutori in un ordine mondiale basato su regole. In effetti Hong Kong è rimasta a lungo una felice eccezione, un’oasi dove i giornali e i cittadini possono criticare il proprio governo locale o quello nazionale senza temere di finire in carcere. Dietro il rispetto dei diritti c’era un calcolo: conveniva alla Cina mantenere lo status speciale di Hong Kong per il suo ruolo di piazza finanziaria globale, una piattaforma del business con ricadute positive sulla madrepatria. Con Xi la musica è cambiata. Già da qualche anno si fanno più frequenti le incursioni della polizia cinese contro i dissidenti

di Hong Kong. Alcuni sono stati letteralmente rapiti, scomparsi a lungo, per poi riapparire nelle mani delle autorità cinesi e magari pronunciare «auto-denunce» nello stile staliniano. La riforma della legge sull’estradizione renderebbe il compito ancora più facile per la polizia cinese: non avrebbe più bisogno di organizzare rapimenti, i dissidenti se li farebbe consegnare dalle autorità di Hong Kong. È questo il timore che ha scatenato le proteste di piazza. Trump si prepara a incontrare Xi al G20 di Osaka in un clima di tensione, ma ha ridotto tutto il rapporto bilaterale alla dimensione economica. Mentre il vero punto debole della Cina, in particolare in quell’area del mondo ancora affollata di liberaldemocrazie alleate degli Usa (da Taiwan al Giappone alla Corea del Sud) è proprio la natura del suo regime. Aver cancellato la questione dei diritti umani e delle libertà dalla sfera delle nostre «politiche cinesi» indebolisce l’Occidente intero. Compresa quell’Europa che sembra solo interessata alle Nuove Vie della Seta, sempre misurando i rapporti con la Cina nell’ottica mercantilista. Nell’estate del 2007, nel mio reportage sui dieci anni del «ritorno all’ovile», scrivevo: «Questo decennio non è stato facile per Hong Kong. Al contrario, la cronistoria di questo periodo è una serie di incidenti di percorso, di shock e di paure. Sono passate poche ore da quel primo luglio 1997, il Royal Yacht Britannia è appena salpato dal porto con a bordo il principe Carlo e l’ultimo governatore Chris Patten, quando all’orizzonte si profila una turbolenza drammatica. Il giorno dopo il passaggio delle consegne, i banchieri di Hong Kong apprendono che la Thailandia dissanguata dalla fuga dei capitali svaluta la sua moneta». È il detonatore iniziale della grande crisi asiatica. Uno dopo l’altro nell’autunno del ’97 i «dragoni» ven-

gono colpiti dalle ondate della speculazione internazionale, l’effetto domino abbatte le monete dell’area come tanti birilli. La banca centrale di Hong Kong si difende con la forza della disperazione, alzando i tassi d’interesse fino al 18,5% pur di mantenere il dollaro locale agganciato a quello americano. Non riesce a impedire una caduta del 60% della Borsa, il crollo del mercato immobiliare, la disoccupazione triplicata, una deflazione che durerà tre anni. Segno premonitore: l’unica àncora di stabilità in mezzo al panico del sud-est asiatico è Pechino, che nel ’97 resiste contro la svalutazione e impedisce un ulteriore allargamento della crisi. Poi è la volta dell’11 settembre 2001, con la lunga paralisi del trasporto aereo particolarmente deleteria per Hong Kong, città turistica e «hub» aeroportuale dell’Estremo Oriente. Infine il colpo di grazia: l’epidemìa della Sars nel 2003, regalo avvelenato della Repubblica popolare visto che l’incubazione è avvenuta nel Guangdong ed è stata nascosta dall’omertà delle autorità sanitarie locali. Ancora una volta per Hong Kong il colpo è più duro: l’isola vive di commercio e di congressi, per mesi il suo nuovissimo aeroporto intercontinentale è deserto (65% del traffico è sparito), gli hotel hanno il 90% delle camere vuote, gli shopping mall sono abbandonati dalla clientela internazionale. È a quel punto che il regime cinese capisce di dover lanciare una ciambella di salvataggio. Da Pechino arrivano aiuti insperati: il governo liberalizza il turismo dalla madrepatria, offre sgravi generosi per il commercio bilaterale (l’isola è rimasta infatti una regione amministrativa autonoma). Appena superato il terrore della Sars, l’affluenza dei nuovi ricchi cinesi esplode. Hong Kong è invasa da tutte le parti: il ceto medioalto di Pechino e Shanghai viene per i weekend di shopping, i più facoltosi investono anche nel

mercato immobiliare; gli occidentali puntano sulla Borsa dell’isola sperando di raccogliere lì i frutti dell’impetuosa ascesa della nuova Cina capitalista. In effetti sono i tycoon del capitalismo i veri interlocutori del leader di Pechino. È nell’aristocrazia del denaro che vengono reclutati gli 800 «grandi elettori», responsabili della nomina del chief executive, come si definisce il governatore locale. Manovrando gli interessi economici il regime cinese ha la certezza che l’amministrazione di Hong Kong resti docile. In quanto al Parlamento locale, solo la metà dei rappresentanti viene eletta dai cittadini, il rimanente è selezionato dalle corporazioni degli affari. Il primo luglio 2003 scesero in piazza cinquecentomila persone per chiedere una vera riforma politica. Pechino reagì con la diffidenza e la demonizzazione. Hu Jintao dichiarò che a Hong Kong erano al lavoro «forze anti-patriottiche, anti-cinesi, manovrate dall’estero, per fare dell’isola una base sovversiva contro l’intera nazione». Il regime ebbe il timore che da Hong Kong potesse partire una «rivoluzione arancione» come quelle che stavano agitando l’Ucraina e la Georgia. Fu licenziato il chief executive Tung Chee Hwa e sostituito con un nuovo governatore formato nel civil service britannico, Donald Tsang, altrettanto obbediente a Pechino. Oggi in quella posizione c’è una donna, Carrie Lam, al potere da due anni: sempre designata e controllata da Pechino. È lei che ha presentato nel Parlamento locale la proposta di legge sull’estradizione; è lei che gestisce con pugno di ferro la risposta della polizia alle manifestazioni. Le Cassandre che temevano la fine dell’anomalìa di Hong Kong finora sono state smentite. Ma per quanto tempo? Ha avuto torto chi si illudeva su un «contagio democratico» dall’isola verso il continente.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Politica e Economia

Complotto di magistrati contro Lula?

Brasile Il sito d’inchiesta The Intercept sostiene che il giudice Sergio Moro ha manipolato il processo contro Lula,

Angela Nocioni Non era imparziale il giudice che a ridosso delle presidenziali dell’ottobre 2008 ha spalancato le porte del carcere all’ex presidente brasiliano Lula da Silva, candidato favorito secondo tutti i sondaggi (di tutti gli istituti di indagine, anche di quelli considerati ostili al partito di Lula, il partito dei lavoratori al governo dal 2003 al 2011). Liberando così la strada per il Planalto all’allora candidato di estrema destra e attuale presidente Jair Bolsonaro. Questa è l’accusa che vien fuori dallo scoop clamoroso del sito Intercept Brasil, diretto dal giornalista statunitense Glenn Greenwald. È enorme e promette di crescere la tormenta destata dalla notizia perché l’accusa di parzialità riguarda Sergio Moro (foto), l’ex giudice noto in tutto il mondo per essersi costruito il personaggio mediatico di arcinemico dell’ex presidente Lula. Il sito d’inchiesta ha pubblicato il contenuto di parte dei messaggi audio scambiati tra il coordinatore della pubblica accusa nel principale processo a Lula, Deltan Dallagnol, e l’attuale ministro Moro ai tempi in cui era ancora giudice di prima istanza nella procura di repubblica di Curitiba. Moro, quale giudice di primo grado, era in quel processo chiamato a giudicare le prove portate dalla pubblica accusa contro Lula. La legge vieta ovviamente al magistrato giudicante di interferire nella acquisizione delle prove che poi sarà chiamato a giudicare. I due invece, si deduce con evidenza dal contenuto dei messaggi, si scambiavano infinite informazioni. Moro, risulta dalle conversazioni, consigliava passo passo i pm del pool. Spiegava cosa andava raccolto e cosa no. Suggeriva testimoni. Si diceva insoddisfatto dell’evidenza di alcune prove. Dettava mosse, indicava errori, guidava i passi dell’indagine. Nei messaggi lo si sente gioire col pm per il successo mediatico e per le ricadute politiche dell’inchiesta. Complimentarsi via chat con se stesso e con i pm per il gran terremoto politico provocato. «Complimenti a tutti noi» scriveva. Tutto ciò, in base se non altro all’articolo 254 del codice del processo penale

brasiliano che definisce esplicitamente «giudice sospetto» il magistrato che «consigli qualsiasi delle due parti» (accusa o difesa), consente ai legali dei condannati in quei processi di considerare il giudice «non imparziale». E di chiedere quindi l’annullamento del giudizio. Le chat finite nella redazione di The Intercept, essendo state probabilmente acquisite illegalmente anche se il sito dice di averle ricevute da fonte anonima ma non da un hacker, non sono utilizzabili contro i protagonisti delle conversazioni. Ma sono materiale prezioso per la difesa di Lula che è ricorsa davanti a tutti i tribunali internazionali possibili per denunciare, inascoltata finora, la violazione del diritto dell’imputato ad essere condannato da un giudice imparziale. Tutto questo inizia a risolvere i guai giudiziari Lula? No. Lula potrebbe accedere tra qualche tempo ai benefici del regime carcerario semiaperto, lo dovrebbe decidere a breve il Supremo tribunale. Ma l’aspetta tra poche settimane la sentenza di primo grado per un secondo processo (ne ha cinque in piedi) per corruzione. Le accuse di questo secondo processo, sempre passate al vaglio dell’allora giudice Moro, sono molto simili a quelle per cui l’ex presidente è stato condannato per corruzione passiva e riciclaggio di denaro. Si tratta sempre di una vicenda riguardante una casa vicino a San Paolo messagli a disposizione, secondo l’accusa, da una grande azienda in cambio di contratti di favore con imprese di Stato. Stavolta non un appartamento sulla costa, ma una casa di campagna. La denuncia della pubblica accusa accolta a suo tempo da Moro parla di una ristrutturazione del valore di 280 mila dollari pagata interamente dalle imprese di costruzione Odebrecht, Oas e Schahin, in cambio di contratti con l’impresa petrolifera statale Petrobras. La villa è stata frequentata dalla famiglia di Lula, ma non è di sua proprietà. Lo sarebbe «di fatto» secondo i pm. Secondo la difesa invece le accuse «si riferiscono a contratti firmati da Petrobras che lo stesso giudice ha riconosciuto, in un’altra sentenza, non aver portato nessun beneficio a Lula».

Fatto sta che la sentenza è imminente e la partita giudiziaria per Lula potrebbe ricominciare dall’inizio. Lula è in galera perché condannato per i lavori per la ristrutturazione di un attico, in una località balneare del litorale di San Paolo. Quella ristrutturazione, secondo i giudici di primo e secondo grado, nasconderebbe il pagamento di una tangente di circa un milione di euro, da parte di una impresa di costruzioni beneficiata dal sistema di tangenti di cui Lula è considerato essere stato a conoscenza. La difesa dell’ex presidente ha sempre contestato, tra altri moltissimi rilievi di scorrettezze e violazioni di norme, il fatto che la proprietà di quell’appartamento non può esser fatta risalire a Lula perché non esiste un documento di proprietà, nulla che somigli a un atto di compravendita. Moro disse in proposito che «nei reati di riciclaggio il giudice non può attenersi unicamente alla titolarità formale dei beni» sostenendo che quell’attico fosse di fatto a disposizione dell’ex presidente. Che, però, non l’ha mai abitato nemmeno per un giorno. Moro non ha negato la autenticità dei messaggi divulgati da The Intercept. Non ha fatto cenno alla gravissima violazione di legge che, in tutta evidenza, parlando in quei termini con i pm ha commesso. È apparso stordito, come se ritenesse una eventualità impossibile che le sue conversazioni potessero non restare eternamente segrete. A caldo ha solo detto che è del tutto normale che giudici e pm si parlino durante le inchieste. Gli addetti alla comunicazione della presidenza della repubblica appaiono tuttora imbarazzatissimi. Il presidente Bolsonaro, che di solito twitta freneticamente, ha taciuto per tre giorni. Poi mercoledì scorso è apparso in pubblico con Moro, gli ha conferito una onorificenza. Prima del pubblico incontro si sono riuniti a porte chiuse per un’ora. In tanti chiedono le dimissioni di Moro e l’allontanamento dei pm dalla inchiesta Lava Jato, la Mani Pulite brasiliana, finché non si chiarisce la vicenda. Anche alcuni giudici del Tribunale supremo si sono pubblicamente espressi con toni gravi sulla vicenda. Il giudi-

AFP

fino a quel momento in testa a tutti i sondaggi nelle elezioni presidenziali che poi hanno incoronato Bolsonaro

ce del Tribunale supremo Marco Aurelio de Mello è stato piuttosto esplicito al riguardo. Ha detto che il ministro della Giustizia è in una situazione di debolezza dopo la pubblicazione di quelle conversazioni. Ciò comprometterebbe, ha fatto chiaramente intendere, quanto meno la nomina di Moro a giudice del Tribunale supremo, già promessagli da Bolsonaro. A novembre del prossimo anno resterà vacante il posto (sono undici i supremi giudici e sono le persone più potenti del Brasile) del giudice Celso de Mello e la nomina di Moro era considerata ormai scontata. Il ministro non dà segni, per ora, di prendere in considerazione le dimissioni. Ma cominciano a farsi avanti critiche e richieste di farsi da parte anche da pulpiti che finora l’hanno osannato come il giustiziere al quale tutto è permesso. A nessuno è sfuggito, ad esempio, che il quotidiano «Estado de Sao Paulo», una delle voci più impegnate nel sostegno con tifo quasi da stadio alle inchieste della Mani Pulite di Moro, ha pubblicato subito dopo lo scoop di The Intercept un editoriale fitto di critiche al ministro in cui gli suggerisce di lasciare immediatamente l’incarico. Glenn Greenwald annuncia di ave-

re da parte messaggini audio privati di Moro ancor più clamorosi. Dice di aver pubblicato solo l’1 per cento delle conversazioni tra il giudice e i pm. Pare che alcuni di quei messaggi riguardino l’invito di Bolsonaro a Moro, prima del ballottaggio per le presidenziali, a diventare suo ministro. Dall’entourage del presidente venne fuori che il giudice aveva chiesto in cambio della sua disponibilità a entrare nel governo Bolsonaro la nomina a magistrato del Tribunale supremo, richiesta che Moro ha sempre smentito di aver fatto. The Intercept fa intendere che ha a disposizione materiale per chiarire la questione. Tutto ciò può forse riaprire i giochi per le presidenziali, visto che Lula ha dovuto ritirare la candidatura a causa della sentenza di condanna di secondo grado di un processo passibile di essere considerato nullo? No. La legge brasiliana è in materia molto simile a quella statunitense: il presidente può esser fatto fuori soltanto con una procedura di impeachment. Dovesse, però, saltar fuori che c’è stato un accordo per far condannare Lula in secondo grado, e renderlo così incandidabile, frenare la valanga politica generata dallo scoop diventerebbe per Moro impossibile.

Donne in Europa, più di prima ma non abbastanza Europarlamento Gli uomini rappresentano ancora il 60 per cento e hanno ruoli di maggiore potere

Quante sono le donne che siederanno all’Europarlamento dopo le elezioni del 2019? Sicuramente più di prima ma secondo alcuni non abbastanza, perché anche se la percentuale è passata dal 36% del 2014 al 39% di oggi, al Parlamento europeo gli uomini sono ancora più del 60% e hanno ruoli di maggior potere. Certo dal 1979, quando le donne erano il 15,2%, la situazione è cambiata, passando dal 15,7% del 1984 al 19,9% nel 1989, il 27,4% nel 1994, il 27,5% nel 1999, fino al 29,9% del 2004 e il 35,5% nel 2009. Numeri che quest’anno sono aumentati grazie a quegli Stati membri che hanno imposto quote di genere ai partiti, passando da 8 a 11 (Belgio, Francia, Slovenia, Spagna, Portogallo, Polonia, Romania, Croazia, Grecia e Lussemburgo), anche se quelli che hanno più contribuito all’equilibrio di genere in queste elezioni sono stati Svezia (55%), Finlandia (54%), Francia (50%), Slovenia (50%), Lussemburgo (50%) e Regno Unito (47%), seguiti da Irlanda (27%), Grecia (23,8%), Romania (22%) e Bulgaria (29%), mentre Cipro non ha eletto nessuna donna e la Slovacchia ne

AFP

Luisa Betti Dakli

ha elette solo due su 14 deputati (15%). Grazie alle quote di genere le deputate europee spedite dall’Italia saranno il 39,5%, circa 30 dei 76 eletti, e a portarcele sono il M5S con 8 elette su 14 (57%), seguito dalla Lega con 15 donne su 29 eletti (51%), mentre il Pd porterà solo 7 donne tra i 19 eurodeputati, e Forza Italia e Fratelli d’Italia manderanno soltanto uomini. Un Paese in cui le donne che non hanno votato sono state 13 milioni e chi è andata alle urne ha scelto in maggioranza un partito di

destra machista privo di politiche di genere come la Lega che è arrivata al 34,3%. Un risultato che in termini numerici significa 4,8 milioni di voti femminili, e un netto vantaggio rispetto alla sinistra del Pd che dalle donne ha preso 2,8 milioni di voti, seguito dal M5S con 2,2 milioni, Forza Italia con 1,1 milioni, e Fratelli d’Italia con 788 mila voti. In Europa non sono state poche le donne leader di partiti che hanno trionfato in queste elezioni, prima fra tutte Marine Le Pen che in Francia, con il suo Rassemblement National, ha superato En Marche dell’attuale presidente francese, ottenendo il 23,3% contro il 22,4% di Macron. Mentre in Germania quasi tutti i partiti che andranno a Bruxelles hanno donne alla loro guida: dalla Cdu di Angela Merkel, ora passata ad Annegret KrampKarrenbauer che andrà con il 28,9% dei voti, ai verdi capitanati da Annalena Baerbock (co-presidente con Robert Habeck) che ha incassato il 20,5%, fino ai Socialdemocratici di Andrea Nahles fermi al 15,8%, e Alternative für Deutschland, partito di estrema destra con a capo Alice Weidel (con Alexander Gauland), che ha ottenuto l’11%.

Accanto a loro ci sono i socialdemocratici danesi guidati da Mette Frederiksen con il 25,9%, Progresívne Slovensko, un partito social-liberale nato nel 2017 e fondato dall’attuale presidente slovacca, Zuzana Caputova, con il 20% dei voti, i verdi di Tilly Metz che in Lussemburgo hanno preso il 19%, e il Partito nazionale scozzese che con Nicola Sturgeon ha raggiunto il 38%. Mai come adesso, e per la prima volta dopo 40 anni, la frammentazione dei partiti dopo le elezioni di fine maggio, costringerà il Parlamento Europeo a scelte coraggiose in quanto è ormai chiara la fine dell’egemonia del Partito Popolare Europeo (centrodestra) e del Partito Socialista Europeo (centrosinistra) che avranno rispettivamente 180 e 150 seggi (meno 40 ciascuno). Partiti a cui seguono i Liberali con 102 (Alde), i Verdi con 71, i Conservatori a 58, l’Enf (gruppo di destra) con 57 seggi e l’Efdd (gruppo M5S e di Farage) a 56. Frammentazione che potrebbe dare non poche chance, come presidente della Commissione europea per sostituire Jean-Claude Juncker, a una figura di equilibrio come la liberale Margrethe Vestager (foto), ex ministra delle Finanze danese, già commissaria alla

concorrenza, nota per la sua battaglia per far pagare le tasse alle grandi aziende (da cui l’appellativo di Tax Lady dato da Trump): un ruolo conteso anche dalla giovane tedesca Ska Keller dei verdi, ma soprattutto dalla bulgara Kristalina Georgieva, amministratrice delegata della Banca Mondiale. Donne in lizza stavolta ci sono anche per il posto di commissario per gli affari economici in sostituzione di Pierre Moscovici, con l’attuale ministra dell’Economia spagnola, Nadia Calviño, ex direttrice del bilancio della Commissione europea, ma anche al vertice della Banca centrale europea dopo Mario Draghi che potrebbe toccare a Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale e tra le donne più potenti al mondo. Come dice Gwendoline Lefebvre, presidente dell’European Women’s Lobby (EWL): «Ora dobbiamo concentrarci sul futuro dell’Unione europea, e chiediamo agli Stati membri di proporre ciascuno due persone per il ruolo di commissario europeo indicando almeno una donna, che potrà offrire più diversità di esperienze, background e prospettive tra cui scegliere, con beneficio di tutti gli europei».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Politica e Economia

«Sono al servizio della gente» Intervista Parla Smriti Irani, la donna che ha sconfitto Rahul Gandhi ad Amethi, una delle roccaforti

di famiglia, facendo perdere al Congress il seggio dopo 40 anni. Ad «Azione» racconta la sua visione dell’India di domani

Francesca Marino «L’India ha votato contro il privilegio. La maggior parte del Paese è fatta di gente che lavora sodo, di gente che ha votato per uno di loro. Penso che il popolo indiano rispetti quelli che si sono fatti da soli, come si dice, e che voglia dei politici capaci finalmente di rispondere del loro operato. E Modi ne ha risposto ogni giorno per i passati cinque anni. L’India, i giovani soprattutto, ha superato ogni tentativo di divisione su base etnica, religiosa o di casta e ha votato per lo sviluppo, con l’affluenza più alta degli ultimi decenni. Mi sembra segno di una democrazia sana e vivace». Parla Smriti Irani, per Twitter «la sterminatrice di re». La donna che ha sconfitto Rahul Gandhi ad Amethi, una delle roccaforti di famiglia, facendo perdere al Congress il seggio dopo quaranta anni. Irani ha vinto sul candidato a premier dell’opposizione con una maggioranza schiacciante, lasciando increduli perfino i sostenitori del suo partito. La signora, che è stata ministro anche nel precedente governo Modi, è stata appena eletta ministro del Welfare e dell’Infanzia e transitoriamente funge anche da ministro per il Settore Tessile. La sua storia è una classica storia da sogno americano in versione indiana. La storia di una ragazza di provincia della classe media con molti sogni nella testa e molte ambizioni. Ha cominciato partecipando al concorso di Miss India, senza arrivare in posizioni di rilievo in classifica, ed è diventata in seguito un’attrice celebre partecipando a serie televisive molto popolari: diventando un volto notissimo e vincendo anche per cinque volte di seguito il Television Academy Award come miglior attrice. In seguito ha lavorato in televisione sia come produttrice che come autrice e «quando ero al culmine della carriera di scrittrice e produttrice» ha deciso di entrare in politica. «Sono sempre stata impegnata nel sociale, fin da ragazzina» racconta «e ho deciso di entrare in politica perché credo che l’unico vero modo di cambiare le cose sia cambiarle dall’interno, stare dalla parte in cui le politiche si fanno e non si subiscono. La mia carriera politica non è stata un ripiego, ho lasciato i media quando ero all’apice della carriera».

Dopo avere scalato i ranghi del Bjp, è entrata in Parlamento nel 2011 e già nel 2014 era candidata contro Gandhi che l’aveva sconfitta Dopo aver scalato i ranghi del Bjp, come presidente delle organizzazioni giovanili del partito in Maharashtra e poi come presidente nazionale delle sezioni femminili, è entrata in Parlamento nel 2011. Era stata candidata ad Amethi anche nel 2014, sempre contro Rahul Gandhi, ed era stata sconfitta: «Avevo avuto soltanto 23 giorni per fare campagna elettorale e prepararmi, ma sono stata sconfitta soltanto per qualche migliaio di voti. Così, ho realizzato che c’erano evidentemente delle aspettative che potevano e dovevano essere soddisfatte e mi sono rimboccata le maniche». Detto fatto, tra lo stupore di colleghi e oppositori, ha affittato una casa in città, si è trasferita e, come riconoscono anche i suoi più accesi detrattori, ha cominciato a lavorare misuran-

Smriti Irani: da celebre attrice a una carriera politica che oggi la vede protagonista. (AFP)

dosi giorno per giorno con i problemi della gente, viaggiando per tutto il collegio elettorale e rispondendo a bisogni e richieste sia delle comunità che degli individui. E la strategia ha pagato eccome, visti i risultati. L’unico scheletro nell’armadio che l’opposizione è riuscita a tirare fuori è stata la presunta falsificazione del suo curriculum scolastico. Troppo poco, evidentemente, per metterla fuori gioco. «L’India è cambiata» sostiene Irani «E credo che la mia vittoria ad Amethi sia un segno lampante di quel cambiamento. Un segno del fatto che per un politico, per un rappresentante del popolo, non è più sufficiente visitare la propria circoscrizione elettorale una volta l’anno: sorridere, agitare la mano in segno benedicente e andare via. Se rappresenti il popolo, devi essere al suo servizio ogni giorno per ventiquattro ore al giorno e, soprattutto, devi essere disponibile e accessibile. Essere disponibili, aperti alle richieste della gente è indispensabile. Bisogna essere presenti e lavorare in ogni villaggio, in ogni città. Per ogni comunità, per ogni credo e per ogni genere. Credo sia questa la ragione del risultato che ho ottenuto. Ma, e parlo da donna, secondo me quello che ha fatto davvero la differenza è stata la costruzione, da parte del governo, di servizi igienici gratuiti. Andare a fare i propri bisogni all’aperto era, per le donne di villaggi e quartieri disagiati, un’umiliazione quotidiana e costante. Questo problema, reale, concreto e quotidiano, non era mai stato una priorità sociale né politica fino all’insediamento del governo Modi. Da donna, e per le donne, penso che i servizi igienici e le bombole a gas gratuite che per molte hanno sostituito il carbone, abbiano avuto un peso fondamentale». Come un peso fondamentale ha avuto senz’altro il suo modo di proporsi e di rapportarsi sia alla stampa che alla gente comune. La signora è difatti un politico quantomeno anomalo che si fa fatica a inquadrare nella categoria: una che telefona di persona a un giornalista per concordare la data di un’intervista e annunciare la chiamata di un membro dello staff per fissare i dettagli. Una che si rapporta al prossimo senza formalità e senza prosopopea, che sorride spesso e ancora più spesso ride e che regala alla nazione l’immagine di una perfetta signora middle-class, una in cui i tre

quarti della nazione trova semplice identificarsi. Una donna che del suo background «misto» bengali-punjabi e del fatto di essere sposata a un uomo

di religione Parsi, una delle minoranze religiose più piccole del mondo, ha fatto un punto di forza e della cordialità nei rapporti umani una bandiera: «Di

cognome faccio Irani e appartengo per matrimonio a una minoranza, quella Parsi: forse la minoranza più piccola del mondo. La questione delle minoranze, del rispetto delle minoranze, così come viene posta dall’opposizione, è mal posta e posta in mala fede. La nostra è una società inclusiva: io ho studiato in una scuola cattolica, molti indiani lo fanno, e, come ho già detto, sono sposata a un Parsi. Questo fa di me che cosa? La gente, in una nazione, deve essere giudicata soltanto sulla base del contributo dato alla società, non per le sue convinzioni religiose. Le leggi devono essere promulgate per i cittadini nel loro insieme, e non su base religiosa o etnica. Per me l’ideologia, alla fine dei conti, importa poco» dice, «l’unica ideologia che davvero conta è quella costruita attorno ai bisogni delle persone: se prendi in considerazione questi, non c’è più differenza, non c’è più distanza fra te e la gente, non c’è più divario. E partendo da questo, dai bisogni delle persone, riesci a costruire anche una nazione. Il mio partito crede nel concetto di “servizio” e ci credo anche io. Sei al servizio della gente, e devi raggiungere anche l’ultimo della fila». Con questa ricetta, a quanto pare, un Davide paffuto in sari e bindi è riuscito a sconfiggere un Golia intellettuale con tutto il peso di una dinastia alle spalle. E questa, a quanto pare, è l’India di domani. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Politica e Economia

Dati elettronici: il nuovo oro

Nuove realtà La conservazione e la protezione delle informazioni in forma elettronica, che valgono milioni

di franchi, è diventata centrale per qualsiasi azienda

Marzio Minoli Gstaad, la cittadina incastonata nella splendida regione dell’Oberland bernese, è famosa in tutto il mondo per le sue piste da sci e per i VIP che la frequentano. Ma oggi il suo nome è legato anche a qualche cosa di particolare: nelle sue vicinanze si trova il più grande data center della Svizzera. Cos’è un data center? Un luogo dove si trovano decine, centinaia di potentissimi computer dentro i quali sono custoditi preziosi dati aziendali. E il tutto si trova in quello che una volta era un bunker militare, scavato nelle viscere delle Alpi, protetto da milioni di metri cubi di roccia. Il data center di Gstaad è solo uno dei due di proprietà di una società con sede a Zugo, la quale ne ha un altro, sempre nel Canton Berna, ma a Zweisimmen. In questo caso però è assolutamente vietato avvicinarsi alla struttura, con misure di sicurezza ad altissimo livello. E questo la dice lunga sull’importanza di quanto vi è al suo interno. Non a caso il nome di queste due strutture è Fort Knox 1 e Fort Knox 2. Ma perché tanta sicurezza e riservatezza nel custodire questi computer? Perché i dati elettronici sono diventati il nuovo oro. Tutti, dalle aziende ai semplici cittadini, ne producono in continuazione, anche in modo inconsapevole, ad esempio quando si usano i vari social, come Facebook o Instagram. Si forniscono informazioni preziose che vengono prese, elaborate e poi utilizzate a scopi di marketing, sia esso

per vendere un prodotto, ma anche per influenzare scelte politiche, come le cronache degli ultimi anni ci hanno mostrato in occasione delle elezioni statunitensi del 2016 e il voto sulla Brexit nel Regno Unito. Informazioni quindi che valgono molto, ed è per questo che devono essere conservate come fossero denaro. E il denaro lo si conserva in banca. Ecco, i data center sono le nuove banche. Laddove la perdita del segreto bancario ha ridimensionato il settore finanziario elvetico, questi nuovi «caveau» (il nome non potrebbe essere più consono) ne stanno prendendo il posto. E questo perché la Svizzera viene considerata uno dei posti più sicuri al mondo dove conservare le informazioni elettroniche. Stabilità politica, efficienza, riconosciuta serietà e competenza fanno della Svizzera il luogo ideale per questo genere di attività. Ma chi sono i clienti di questi centri? La Confederazione per esempio, così come l’Associazione Svizzera di Revisione, l’organo di controllo dei revisori, ma anche l’italiana Autogrill, così come l’Ospedale cantonale di Zugo passando attraverso i giocattoli. Sì perché anche Franz Karl Weber ha bisogno di conservare i suoi dati in un posto sicuro. Ma questi nomi non traggano in inganno. A necessitare di un luogo sicuro sono anche le piccole e medie imprese. Anzi, per loro è ancora più importante, visto che spesso non hanno le risorse necessarie per avere dei loro data center.

Ma non tutto viene custodito a Fort Knox. Infatti, si deve pensare che solo il 20% dei dati viene ritenuto strategico. E quando si parla di strategico si intende qualche cosa di fondamentale per il futuro dell’azienda «Proteggiamo il futuro dell’azienda» ama dire Critstoph Oschwald, uno dei responsabili di Fort Knox 2. La domanda che sorge spontanea è: ma come si può essere sicuri che questi dati non vengano rubati? Domanda legittima. I tentativi di furti da parte dei cosiddetti «hacker», persone altamente qualificate in campo informatico, non si contano. Si parla di decine al giorno. Da tutto il mondo. Non è sempre facile difendersi. Le cronache hanno spesso riferito di dati rubati e venduti, a volte a governi, a volte a chi è interessato per motivi commerciali a conoscere i segreti aziendali della concorrenza, oppure semplicemente per impadronirsi delle identità di migliaia di cittadini. Cosa si può fare quindi per impedire che questo accada? Praticamente è quasi impossibile. Ma un buon modo per limitare i danni è quello di essere consapevoli che questa è la nuova realtà e quindi ci si deve sempre e costantemente formare per combattere la criminalità informatica. E su questo le alte scuole specializzate sono molto attive nel formare quelle figure professionali necessarie allo scopo. Ma non solo. Non sono pochi gli allarmi lanciati da chi opera nel settore verso chi non ha ancora capito l’importanza della conservazione in luoghi sicuri dei propri dati aziendali.

Il Green Datacenter di Lupfig (i server di Fort Knox 1 e 2 sono segreti). (Keystone)

Uno studio della società di consulenza KPMG ha evidenziato che in Svizzera l’80% dei consigli di amministrazione delle aziende è consapevole del fatto che la sicurezza informatica è un tema importante, ma solo il 36% lo esplicita nei rapporti di gestione annuale. Come dire: è un problema, ma tocca gli altri. Un altro tema legato ai dati elettronici è il fatto che spesso il diritto non si è aggiornato per poter seguire l’evolversi delle nuove tecnologie. I tempi della politica sono lenti e articolati, soprattutto in Svizzera, dove l’alto livello di democrazia implica lunghe fasi affinché una legge possa diventare operativa. Non è sempre facile capire di quale reato si è macchiato chi ha rubato dei dati elettronici, per esempio da una banca. Ma non

solo. C’è anche chi i dati li ottiene legalmente ma ne fa un uso poco «etico». E qui è intervenuta l’Unione Europea, che nel maggio 2018 ha diramato la normativa sulla protezione dei dati, la GDPR. Oppure cosa succede se chi conserva questi dati, fallisce? A chi vanno i dati conservati? Tutte domande alle quali la legge deve dare risposte certe. Il diritto svizzero si sta adeguando. Passi avanti ne sono stati fatti, ma c’è ancora tanta strada da fare. I dati controllano le nostre vite, si vive con lo smartphone in mano. Indispensabile quindi la consapevolezza di quanto ognuno di noi fa, ma anche misure di sicurezza sempre maggiori e basi legali forti. Il futuro dovrà essere: dati, libertà, riservatezza. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Politica e Economia

Svizzera-UE, segnali contrastanti

Politica europea Il Consiglio federale ha preso posizione sull’accordo istituzionale negoziato con Bruxelles,

segnalando il suo assenso di fondo ma anche la necessità di ulteriori precisazioni – Bruxelles risponde di voler chiarire in tempi brevissimi ma senza rinegoziare l’accordo

Marzio Rigonalli I rapporti tra la Svizzera e l’Unione europea sono entrati in una fase che potrebbe risultare decisiva. Due sono i momenti forti che abbiamo vissuto negli ultimi giorni. Il primo è stata la decisione del Consiglio federale sul discusso accordo istituzionale con l’UE. Una decisione sofferta, arrivata dopo mesi di consultazioni ed un continuo accavallarsi di esitazioni. Il governo ha deciso di non firmare subito l’accordo, ma di farlo in futuro, dopo aver ottenuto dall’UE chiarimenti su tre questioni scottanti: la protezione dei salari con le misure di accompagnamento alla libera circolazione delle persone, la direttiva comunitaria sulla cittadinanza e gli aiuti statali. Sono questioni che provocano numerose apprensioni in Svizzera e che, a seconda delle soluzioni che verranno applicate, potrebbero avere conseguenze negative per il nostro paese. Nel primo caso, quello della protezione dei salari, le misure di accompagnamento in vigore potrebbero venir diluite al punto da rendere inefficace la lotta contro il dumping salariale, creando così una situazione inaccettabile per i sindacati. Nel secondo caso, quello della direttiva sulla cittadinanza, la Svizzera potrebbe ritrovarsi costretta ad assumerla, il che renderebbe più agevole l’accesso all’aiuto sociale per i cittadini europei residenti in Svizzera e più difficile la loro espulsione dal territorio elvetico. I costi sociali per la Svizzera potrebbero aumentare in modo non trascurabile. Nell’ultimo caso, si tratta di verificare la portata del divieto europeo degli aiuti statali, introdotto per impedire la distorsione della concorrenza, e le sue possibili conseguenze su determinate situazioni elvetiche, come per esempio quella che prevede le garanzie di Stato per le banche cantonali. Il secondo momento forte è stata la rapida risposta del presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, alla presa di posizione del governo elvetico. Juncker ha subito escluso la possibilità di riaprire il negoziato bilaterale per modificare l’accordo e si

è dichiarato aperto a discussioni complementari tese a dissipare i dubbi ed a raggiungere un’intesa sotto forma di dichiarazioni congiunte sui chiarimenti richiesti. Sempre secondo Juncker questa chiarificazione dovrebbe però avvenire in tempi brevi, praticamente in una settimana. Il 18 giugno, scrive l’ex premier lussemburghese, la Commissione europea intende fare una valutazione globale delle relazioni tra la Svizzera e l’UE. Le reazioni a queste due prese di posizione sono state numerose. Il Consiglio federale ha raccolto un plauso quasi generale. Partiti politici e partner sociali si sono espressi positivamente ed hanno sottolineato la volontà del governo di difendere la via bilaterale e di mantenere aperto il dialogo con l’Unione europea. Perfino l’UDC ha parlato di un parziale successo, perché l’accordo non è stato firmato. Le voci critiche più autorevoli si sono focalizzate sulla scelta di chiedere dei chiarimenti. Michael Ambühl, ex segretario di Stato per gli affari esteri, e Pierre-Yves Maillard, presidente dell’Unione sindacale svizzera, hanno dichiarato che non bisognerebbe accontentarsi di chiarimenti e che occorrerebbe riaprire il negoziato con la Commissione europea.

Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker vuole chiudere il negoziato finché è in carica, ossia entro la fine di ottobre Molto critiche, invece, sono state le reazioni all’atteggiamento del presidente della Commissione europea. Pur sottolineando l’offerta di riprendere il dialogo ed i toni cordiali usati da Juncker, tutti i partiti politici si sono dimostrati scettici sulla possibilità di giungere ad una soluzione in così poco tempo. In alcune reazioni non è mancato anche un po’ d’umorismo, come

Parmelin, Keller-Sutter e Cassis sembrano fiduciosi, ma il 18 giugno si capirà se l’UE intende venire incontro alla Svizzera: in quella data deciderà se prolungare o meno l’equivalenza della Borsa svizzera. (Keystone)

in quella del presidente dell’Unione sindacale svizzera, Pierre-Yves Maillard, secondo il quale in cinque giorni non si arriverebbe nemmeno a modificare gli statuti di una società calcistica. I punti sui quali sono stati richiesti chiarimenti sono complessi e, per di più, in Svizzera si è già aperta la campagna elettorale in vista delle elezioni di ottobre. Un periodo che, come è noto, non è favorevole per la conclusione di accordi internazionali. Che cosa potrà succedere ora? La partita si svolge su due fronti: in Europa e nella politica interna svizzera. Sul fronte europeo, è immaginabile che le due parti trovino rapidamente un’intesa sui due chiarimenti richiesti riguardanti la direttiva comunitaria e gli aiuti statali. Resta da vedere in che modo le rivendicazioni elvetiche verranno accolte e se saranno riconosciute, per esempio in protocolli aggiuntivi allegati all’accordo. Il fattore tempo spinge Jean-Claude Juncker ad agire in fretta e, anche se in misura meno importante si riflette anche sulla diplomazia elvetica. Juncker è diventato presidente della Commissione europea il 1. novembre 2014 e in quell’anno è iniziato il negoziato sull’accordo istituzionale con l’UE. Sono cinque anni, dunque, che si

sta negoziando ed è evidente che Juncker vorrebbe concludere prima della sua uscita di scena il prossimo 31 ottobre. Dal canto suo, senza un accordo, la Svizzera deve tener conto anche della possibilità di essere confrontata in futuro con una commissione più ostile di quella attuale. Sul fronte interno, il nodo centrale è la protezione del mercato del lavoro, con le misure di accompagnamento, che prevedono norme restrittive per le aziende estere come l’obbligo di notifica ed il versamento di cauzioni. È ancora vivo il ricordo della rottura, avvenuta l’anno scorso, tra Paul Rechsteiner, l’ex presidente dell’Unione sindacale svizzera, e Johann Schneider Ammann, l’allora capo del dipartimento dell’economia, proprio sulle misure contro il dumping sociale e salariale. Karin Keller-Sutter, capo del Dipartimento federale di giustizia e polizia, è riuscita a ristabilire il dialogo con i sindacati e ad associare alla trattativa con l’Europa, oltre ai Cantoni, anche i partner sociali. La nuova consigliera federale sembra essere la figura emergente nella trattativa con l’Europa. È apparsa così durante la conferenza stampa di presentazione della decisione del Consiglio federale e per

il modo deciso con il quale ha difeso la posizione del Consiglio federale contro l’iniziativa dell’UDC «Per un’immigrazione moderata», sulla quale saremo chiamati a votare l’anno prossimo. L’iniziativa vuole abolire la libera circolazione delle persone. Karin Keller-Sutter sa che un accordo tra i partner sociali sulle misure di accompagnamento è indispensabile sia per poter trattare con Bruxelles che per superare lo scoglio finale della votazione popolare. Un primo segnale su quello che potrà succedere adesso nei nostri rapporti con l’Europa, l’avremo presto. Il 30 giugno scade l’equivalenza della regolamentazione borsistica svizzera che l’UE aveva prolungato di sei mesi lo scorso 1. gennaio. Il rinnovo dell’equivalenza potrebbe essere un punto di partenza positivo. Il non rinnovo potrebbe indicare che nuove difficoltà si stanno profilando all’orizzonte. La posta in gioco è alta per la Svizzera. Si tratta di difendere la via bilaterale per garantire il benessere che offre l’attuale situazione economica e di sottoporre all’approvazione del popolo un accordo convincente, che non sia lesivo della nostra indipendenza e sovranità e che sia l’elemento portante di una strategia articolata e condivisibile. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Politica e Economia

Un controprogetto all’iniziativa «Per prezzi equi»

Consumi e concorrenza Il Consiglio federale chiede di respingere l’iniziativa, ma cerca di combattere i prezzi alti

per le merci importate con misure da adottare nell’ambito della legge sui cartelli. Con qualche difficoltà

Ignazio Bonoli Nell’articolo pubblicato il 23 luglio dello scorso anno segnalavamo che il Consiglio federale aveva l’intenzione di presentare un controprogetto all’iniziativa popolare detta «Per prezzi equi». L’iniziativa prendeva di mira un aspetto particolare tra quelli che concorrono a formare il mito di «isola dei prezzi elevati». Si tratta della prassi di produttori esteri di applicare in Svizzera un prezzo superiore a quello praticato in altri paesi. Tutti sono però concordi nel constatare che il nostro paese dispone di pochi mezzi – e anche poco efficaci – per combattere il fenomeno. La sorveglianza dei prezzi si limita in pratica alle grandi intese cartellistiche che possono dominare il mercato. L’iniziativa vorrebbe invece combattere il fenomeno del «sovrapprezzo svizzero» estendendo il concetto di dominanza del mercato a quello di «dominanza relativa» del mercato. Un concetto che si applicherebbe, per esempio, quando a un fornitore, o anche a un cliente, non restano alternative rispetto all’impresa che domina il mercato. Situazioni reali che si verificano per esempio nell’industria delle macchine o anche in quella alberghiera, nelle quali i clienti svizzeri pagano prezzi superiori a quelli pagati da altri paesi, il che ovviamente danneggia le

imprese svizzere nella concorrenza internazionale. L’iniziativa chiede inoltre misure contro il cosiddetto «geoblocking» nel commercio via internet. Si tratta dell’esclusione di un mercato dalle forniture dall’estero, oppure del passaggio attraverso un portale svizzero che pratica prezzi più elevati. Questo modo di fare è già vietato tra i membri dell’Unione Europea. In sostanza, anche la legge svizzera sui cartelli vieta questo sistema, ma solo per le imprese che hanno una posizione dominante sul mercato. Ora il Consiglio federale si trova davanti a una situazione molto difficile da regolare, ma ha già deciso di proporre al Parlamento di respingere l’iniziativa, riprendendone però alcuni punti centrali nel controprogetto, mediante una revisione della legge sui cartelli. Il Consiglio federale considera in primo luogo che certe discriminazioni sui prezzi o sulle forniture sono già vietate quando diventano un ostacolo alla concorrenza internazionale. Il controprogetto non prende in considerazione eventuali misure contro il potere della domanda (quelli che il professor Galbraith definiva negli anni Sessanta «counterwailing power») adducendo che queste pratiche si realizzano solo a livello internazionale e un’eventuale regolamentazione non potrebbe prendere in considerazione

Il controprogetto del Consiglio federale integra alcuni punti dell’iniziativa, ma senza troppe illusioni di poter di ottenere prezzi più bassi sui prodotti importati. (Keystone)

una clausola di protezione nazionale. Infine, si rinuncia anche a un divieto generale contro il blocco del commercio in internet, non praticabile all’estero, per cui colpirebbe solo aziende svizzere. Dalla procedura di consultazione si può dedurre che il progetto ha buone possibilità di essere accolto, nonostante una netta opposizione tanto all’iniziativa, quanto al controprogetto da parte del PLR e dell’UDC, ma non si esclu-

dono voti sparsi a favore. La Commissione della concorrenza non ha preso posizione sul tema. Tema che, secondo alcuni, necessiterebbe di ulteriori approfondimenti nel settore dei grandi cartelli dominanti. D’altro canto già oggi i tribunali civili sono in grado di decidere sulla dominanza relativa in casi concreti e provati. Restano comunque aperte molte questioni. Ci si chiede se la posizione di ogni fornitore debba essere esaminata, di volta in volta, per

vedere se ha una posizione relativamente dominante sul mercato. Si dovrebbe poi valutare fino a che punto un cliente svizzero potrebbe essere discriminato nel commercio internazionale, affinché la nuova legge possa ottenere qualche risultato. Il messaggio dice soltanto che non deve trattarsi di casi «bagatelle», il che lascia ancora un ampio spazio di interpretazione. Come si vede, se l’iniziativa per prezzi equi deve essere applicata tramite la legge sui cartelli e per di più trovare applicazione anche al di là dei confini nazionali, le possibilità di un intervento efficace sono molto ridotte. Del resto il Consiglio federale aggiunge che non potrà fare granché contro il fenomeno dei prezzi elevati in Svizzera. Tutt’al più potrebbe provocare riduzioni di prezzi in qualche caso particolare. Secondo il governo, gli effetti negativi in Svizzera non sarebbero così gravi, anche se difficili da valutare sul piano economico generale. La Svizzera è anche «un’isola di salari elevati» e per questo subisce le discriminazioni citate nell’iniziativa. Tuttavia, si potrebbe sostenere anche il contrario, ma entrambe le situazioni sarebbero da provare. Ci si può però chiedere se la differenza di potere d’acquisto tra la Svizzera e i suoi fornitori sia tale da giustificare prezzi del 30-50% superiori a quelli degli Stati vicini. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi E vissero felici e contenti! I bambini hanno bisogno di fiabe, soleva affermare lo psicologo Bruno Bettelheim. Hanno bisogno di stupirsi sentendosi raccontare vicende che non reggono alla prova dei fatti. Prova dei fatti offerta da chi, come l’adulto, non è più in grado di meravigliarsi. Il mondo degli adulti è un mondo dove uno più uno fa due, un mondo nel quale si cerca sempre di eliminare il rischio, di evitare l’imprevisto, non entrando nemmeno nel discorso quando le cose non si reggono sulle proprie gambe. Il mondo degli adulti può essere, di conseguenza, un mondo molto noioso dove quello che si può fare è già deciso in anticipo da criteri draconiani come, per esempio, la differenza tra costi e ricavi. Pensate un po’ come finirebbero molte fiabe se l’eroe o l’eroina, prima di buttarsi nella sua nuova avventura, facesse un calcolo dei suoi costi e dei suoi ricavi. La capacità di meravigliarsi

l’adulto la perde passando la porta che separa l’adolescenza dalla maggiore età. Nel Ticino di questi tempi, almeno per quel che riguarda certi investimenti dello Stato, sembra però che il bisogno di meravigliarsi stia diffondendosi anche tra gli adulti. Non è passato neanche un mese da quando l’elettorato ticinese ha dato prova di sostenere la strategia del governo nei riguardi del nuovo progetto dell’Officina FFS. Si tratterebbe di investire più di 300 milioni per salvaguardare un po’ più di 200 posti di lavoro. Cantone e comune di Bellinzona ci metterebbero 120 milioni, le FFS il resto. Personalmente non conosco nessun altro esempio di investimento, eseguito e diretto da privati (le FFS sono una società anonima con un contratto di prestazione con la Confederazione) che abbia potuto contare, praticamente senza garanzie, su un appoggio finanziario così generoso

da parte dell’ente pubblico. Chiusa la vicenda della rilocazione dell’Officina si apre ora la grande asta per il riuso dell’area abbandonata in pieno centro della capitale. È possibile che Cantone e Comune recuperino qualche milione in questa operazione, almeno in termini contabili. Ma, è anche possibile che restino con un piatto di lenticchie. La vicenda bellinzonese sembra stia per riprodursi, in scala più contenuta, nel Sottoceneri. Si tratta del finanziamento degli investimenti necessari per l’ennesimo rilancio dell’aeroporto di Agno. In questo caso dai privati non verrà nulla. Neanche dai pochi che potrebbero effettivamente approfittare delle nuove infrastrutture. Gli investimenti saranno a carico del comune di Lugano e del Cantone, proprietari dell’aeroporto. La partecipazione si divide tra contributi al capitale della società (anonima, quindi privata) che

gestisce l’aeroporto e sussidi per la realizzazione delle opere di rinnovo e ampliamento necessarie. Per giudicare come andranno le cose, si dispone di una valutazione, penso del tipo costibenefici, fatta da esperti dell’Università di San Gallo. Dalla stessa risulta che, fino al 2032, la gestione dell’aeroporto continuerà a segnare perdite per poi riprendersi e cominciare a produrre eccedenze. Ora sappiamo che quando si tratta del calcolo costi-ricavi di un investimento è abbastanza facile stimare i costi, perché intervengono subito, mentre le previsioni sul flusso dei ricavi sono sempre incerte, perché concernono un futuro lontano. I ricavi dell’aeroporto dovrebbero crescere in modo consistente, una volta attuato l’investimento, per effetto dell’espansione della domanda. La stessa dovrebbe più che raddoppiarsi, in parte per l’aumento delle frequenze

sulle linee ancora esistenti, in parte per la creazione di nuovi collegamenti. E se questo, a differenza di quanto capita nelle fiabe, dove tutto è possibile, non dovesse succedere? E se la domanda di passeggeri non dovesse per niente aumentare come non è aumentata nel corso degli ultimi venti anni? E se l’albero degli zecchini di zecchini non dovesse farne? Beh, in questo caso, ci dicono i sostenitori, assumendosi il rischio dell’investimento nell’aeroporto, Stato e città avranno comunque contribuito a mantenere, ancora per qualche anno, i posti di lavoro e l’indotto economico dell’aeroporto. Apparentemente questo tipo di decisioni non ha dunque nessuna alternativa se ci sono in gioco posti di lavoro. Come si è già detto a proposito dell’investimento nella nuova Officina FFS: purché tutti possano continuare a vivere felici e contenti!

Sachs. Che sarebbe Mario Monti. Quando arrivò a Strasburgo tutti si alzarono ad applaudire, come se fosse entrato il messia. Io rimasi seduto. Mi dicevo: l’Italia è un grande Paese, non può farsi trattare come una colonia tedesca. Infatti alle elezioni del 2013 Grillo è il primo partito. 2015: referendum in Grecia; il popolo vota no all’Europa, ma Tsipras si piega. Il 2016 è l’anno della svolta. Viviamo un momento cruciale della storia». Cioè, chiedo? «Grillo e io distruggeremo la vecchia Unione europea. Il 19 giugno i 5 Stelle eleggono il sindaco della capitale e cambiano l’Italia. Il 23 giugno la Gran Bretagna esce dall’Unione e cambia l’Europa. Ci sarà un effetto-domino: prima se ne andranno i Paesi del Nord, poi gli altri, uno a uno…Questo referendum è l’evento più importante dal 1957: l’Ue sta per crollare…». Esagerava; ma qualcosa l’ha azzeccata. Farage però non è un estremista di destra. Quando il suo partito di allora, l’Ukip – partito per l’indipendenza del Regno Unito – è finito in mano a fasci-

stoidi islamofobi, lui si è fatto il suo nuovo movimento, il Brexit Party. Farage è un nazionalista britannico. È cresciuto nelle file dei conservatori. In ufficio ha il ritratto di Margaret Thatcher. È convinto, forse a ragione, che la Lady di ferro non avrebbe mai firmato il trattato di Maastricht. Gli chiesi se il problema per il Regno Unito fossero gli immigrati dai Paesi del Sud e dell’Est dell’Europa. Mi rispose ovviamente di no: «I ragazzi italiani, spagnoli, polacchi che lavorano nella City come nei ristoranti sono meravigliosi. Non ho nulla contro di loro. Ma non reggiamo più: la sanità pubblica sta saltando, i nostri giovani non trovano casa e lavoro. Londra non è più una città inglese. Gli italiani, gli spagnoli, i polacchi in gamba potranno continuare a venire; ma con le nostre regole, non con quelle di Bruxelles». In realtà, Londra avrà sempre bisogno di manodopera straniera a basso costo. Ma non ha tutti i torti Farage quando dice che la capitale non è più una città inglese. È la capitale multiculturale del

mondo. Questo piace molto ai turisti e in genere agli stranieri, che possono sentirsi come a casa. Ma entusiasma molto meno i ceti popolari britannici, che non possono permettersi di affittare e men che meno di comprare una casa, che faticano a trovare lavoro, che si sentono esclusi dal sistema. Mentre aspettavo Farage a Folkestone, vidi in un pub la Bbc trasmettere le immagini degli sbarchi a Lampedusa. Non vorrei offendere nessuno, ma a Folkestone, dove a novembre è già inverno e a maggio lo è ancora, Lampedusa appare un luogo esotico. La sensazione che avevano gli avventori del pub è di non entrarci nulla con i problemi di Lampedusa, della Sicilia, dell’Italia. È vero che nessuno di quei migranti probabilmente è mai arrivato nel Regno Unito. Ma in quei giorni a Calais, dall’altra parte della Manica, si era creato un assembramento, detto non a caso Giungla, di africani e maghrebini pronti a tutto pur di salpare verso le bianche scogliere di Dover. Anche così si spiega la (per me triste) ascesa di Farage.

forme di diffusione delle informazioni. Trovarne il bandolo è divenuta questione da miliardi di dollari, ma l’approccio della ricerca del bandolo potrebbe non essere il più lungimirante: metti che non ci sia un bandolo?». Nel dicembre scorso Richard Gingras, vicepresidente di Google News – motore di ricerca informatico etichettato come il più micidiale veleno per giornali e stampa scritta – in un’intervista al quotidiano romando «Le Temps» ha criticato la stampa scritta perché continua a sprecare energie e soldi in battaglie inutili. Gingras ha ricordato che venti anni fa a Dallas come a Losanna, si leggevano giornali per ottenere informazioni, ma anche per avere recensioni dei film, consultare gli annunci pubblicitari, trovare ricette o consigli su escursioni per la domenica ecc. Poi ha puntualizzato: «Tutto questo ora avviene in internet, su siti specializzati (…) Trovo che i media storici stiano impiegando troppo tempo per capire questi cambiamenti. Non sto dicendo che è facile. Ma gli annunci non

torneranno mai più». Tra le soluzioni riuscite, il ceo di Google ha menzionato «The Daily», un podcast (files digitali con testi, video e audio facilmente scaricati e fruibili anche in condizioni di mobilità) creato dal «New York Times» e subito ascoltato da oltre un milione e mezzo di persone che viaggiano in auto, in treno o in aereo o mentre fanno jogging. È l’esempio di un nuovo prodotto giornalistico curato da una redazione della stampa scritta e «girato», grazie proprio alle moderne tecnologie, a chi ama e cerca l’approfondimento non necessariamente scritto, cioè su un giornale. Alle nostre latitudini un processo analogo l’ha compiuto Francesco Costa, vice direttore de «Il Post» (www.francescocosta.net): un pregevole podcast della Apple di sei puntate, ognuna di circa 45 minuti, sull’evoluzione sociourbanistica della città di Milano. Non sto propagandando la via o la soluzione del futuro, ma è assai significativo che un giornale online come il «Post. it» (approda ora al paywall, dopo aver

distribuito per anni e gratuitamente solo buon giornalismo) accetti di soddisfare una delle preferenze dei suoi lettori (l’approfondimento) accordando priorità all’audio, quindi «depurando» l’informazione digitale. Ritorno al piano inclinato della stampa scritta con una ricetta, interessante anche se un po’ criptica, di Jim Rutenberg, responsabile della sezione media del «New York Times» che presagisce un giornalismo capace di suddividersi in tre categorie di base: la categoria del «cosa», quella del «e quindi?», e la categoria del «e ora?». Nella categoria del «cosa» si prepara il racconto diretto degli eventi; quella del «e quindi?» propone poi ciò che risulta importante da un punto di vista giornalistico; infine, con la categoria dell’«e ora?» si racconta al lettore (o ascoltatore) dove può andare o portare la storia. Rutenberg azzarda anche una congettura, forse più chiara: le redazioni si salveranno quando smetteranno di aggrapparsi ai vecchi metodi. Coraggio, giovani colleghi.

In&outlet di Aldo Cazzullo L’ascesa di Nigel Farage Ma Nigel Farage (foto) diventerà mai primo ministro? Continuo a credere di no. Ma la crisi in cui si sono avvitati i conservatori inglesi può davvero aprire la strada a qualsiasi soluzione. Intervistai Nigel Farage alla vigilia del referendum sulla Brexit. Il mio amico Federico Bianchi dell’ambasciata italiana a Londra mi procurò il cellulare del suo portavoce, il quale mi disse di vederci al pub di fronte a

Westminster. Alla quarta birra biascicò che era inutile chiedere appuntamento a Farage: bisognava pararglisi di fronte e sperare che avesse voglia di parlare. Andai a Folkestone, il paese del Kent dove sbuca il tunnel sotto la Manica, in cui doveva tenere un comizio. Per fortuna – complice pure nel suo caso qualche pinta – aveva voglia di parlare. E mi spiegò quella che considerava la vera storia d’Europa: «Il Paese-chiave, l’anello debole della catena che imprigiona i popoli del continente, è l’Italia. Fine anni ’90: Prodi e Ciampi portano Roma nell’euro. Io tengo il mio primo discorso a Strasburgo e dico: l’euro è fatto per il Nord Europa, non per i Paesi mediterranei: li getterà in rovina. 2004: Prodi porta in Europa i Paesi ex comunisti, che non sono ancora diventati vere democrazie; e oggi la seconda lingua di Londra è il polacco. 2008: Berlusconi viene eletto in libere elezioni e prende le distanze da Bruxelles e da Berlino. 2011: un colpo di Stato destituisce Berlusconi e lo rimpiazza con un governo fantoccio, affidato a un uomo della Goldman

Zig-Zag di Ovidio Biffi Il giornalismo che (forse) verrà Conservo una vignetta che Giovanni Mosca aveva pubblicato su un «Corriere della Sera» di quaranta, forse cinquanta anni fa. Ritrae un impettito Dante Alighieri che passa davanti a una caverna dove un diavolo fa da guardiano e, avviandosi verso la porta dell’Inferno, pronuncia una sola parola: «Stampa». Mai avrei immaginato che un giorno quel Dante disegnato da Mosca più che la forza del quarto potere potesse richiamare il triste destino di una stampa scritta avviata verso gironi infernali. Avrete ormai capito: parlerò di giornalismo, convinto che anche il panorama editoriale di casa nostra – pur se ridotto a due quotidiani che amichevolmente si ignorano e a due domenicali che invece si graffiano – meriti attenzione, visto che non può sfuggire a capestri e tagliole che le nuove tecnologie da un decennio stanno seminando sulla via della carta stampata. Entro in questo scenario sospinto dalle notizie di un «Corriere del Ticino» costretto a ridimensionare il suo organico

per fronteggiare un incontestabile calo delle entrate pubblicitarie. Lo faccio anche, lo ammetto, con qualche preconcetto: da sempre diffido di chi si tuffa nei vasi capillari delle redazioni ed emerge dopo 40 pagine di rapporto con diagnosi e rimedi scontatissimi: arrocco di contenuti e, immancabile, restyling e immagine grafica in progress. Non che abbia dubbi sulle cause dell’improvviso stato di crisi del «Corriere»: i 7 licenziamenti e i due prepensionamenti sono riconducibili ai duri colpi che le nuove tecnologie continuano a portare alla stampa scritta e più direttamente al flusso pubblicitario. Ma sono del parere che nel giornalismo le cose sono più complicate di quello che è possibile dedurre dai conti economici o dai dati riguardanti abbonati e lettori. Lo aveva sintetizzato molto bene Luca Sofri qualche anno fa: «Per quello che riguarda i giornali, gli scenari mostrano una caotica nuvola di geniali fantasie, panico da catastrofe economica, terrore del domani e scoppiettìo continuo di nuove


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Cultura e Spettacoli Il fascino del selvaggio Trecento anni or sono il genio di Daniel Defoe scriveva una storia che sarebbe diventata un classico: Robinson Crusoe pagina 35

Sulle note della musica Ritorna per la sesta volta nel nucleo di Mendrisio la grande festa della musica

I mondi di Tasca e Chietera I due fotografi riuniti in un progetto – ora in mostra – che ci offre visioni inaspettate

Ticino, un’estate open air Durante i mesi estivi il nostro Cantone si trasforma in un gigantesco open air: una breve mappa degli eventi pagina 49

pagina 39

pagina 45 Piero Guccione La linea azzurra, 2006-2007, olio su tela cm 81 x 111. (Collezione privata)

Il mare e oltre

Mostre A Mendrisio una retrospettiva dedicata al pittore Piero Guccione Alessia Brughera L’incontro con il mare avveniva tutti i giorni: con indosso la sua tuta da lavoro blu, Piero Guccione si recava ogni mattina a contemplarlo, a coglierne la luce e la vastità. Lo ha scrutato con gli occhi e con l’anima per più di quarant’anni. A Scicli, dov’era nato nel 1935, guardare il mare era stata per lui un’esperienza meravigliosa fin da bambino, quando si dirigeva con il carretto dal paese verso la spiaggia e scopriva lentamente quell’immensa distesa d’acqua che con il suo dolce movimento gli appariva come una visione paradisiaca. Dal suo mare Guccione si era allontanato alla metà degli anni Cinquanta per trasferirsi a Roma; qui era entrato in contatto con i pittori neorealisti della Galleria del Pincio, aveva ammirato le opere degli espressionisti della Scuola di via Cavour e aveva frequentato Renato Guttuso, siciliano come lui, di cui era stato assistente per qualche anno all’Accademia di Belle Arti. Dopo sporadici ritorni, al suo mare Guccione si era ricongiunto definitivamente nel 1979, facendo della frazione modicana di Quartarella il luogo pri-

vilegiato da cui poterlo osservare per il resto della sua esistenza. Mai, l’artista, avrebbe potuto dar vita alle sue sconfinate marine se il rientro decisivo alla terra d’origine non fosse avvenuto. Forte era in lui il desiderio di riannodarsi alle proprie radici, di unirsi nuovamente, e totalmente, a quel mare che necessitava di avere sempre vicino per poter dar voce alla propria memoria. Dipingerlo era la sua splendida ossessione, l’unico modo di rappresentare la verità del proprio sentire. Pittore distante da ideologismi e provocazioni, mosso da una non convenzionale «purezza d’intenti», per usare le parole con cui Guttuso lo descriveva, Guccione, forse proprio per questo motivo, ha destato non pochi apprezzamenti da parte di grandi letterati e autorevoli critici (Sciascia, Moravia, Testori, Jean Clair, solo per citarne alcuni) ma è stato invece negligentemente dimenticato dalla storiografia nella ricostruzione dell’arte italiana novecentesca. A questo maestro delle distese d’acqua taciturne e solenni il Museo d’arte di Mendrisio dedica la prima retrospettiva dopo la sua scomparsa, documentando con oltre cinquanta opere,

tra oli e pastelli, la produzione dei decenni trascorsi in Sicilia dagli anni Settanta fino alla morte. Con la sua pittura, mirabile sintesi di figurazione e astrazione, indefinita eppur sempre saldamente vincolata alla realtà, Guccione dipingeva il mare come se nessuno lo avesse mai fatto prima, elevandolo a spazio senza confini e senza tempo, a luogo quieto e armonioso lontano dal caos del mondo. Su di lui esercitava un’attrazione senza pari l’impalpabile linea in lontananza che separa il mare dal cielo: «Inconsciamente mi adopero per farli incontrare», diceva, e con l’illimitata gamma di nitidi azzurri che utilizzava riusciva a restituire appieno quell’orizzonte sfuggente. Il senso d’infinito affiorante dalle sue marine gli era stato trasmesso dall’incontro con l’opera di Caspar David Friedrich in una mostra parigina del 1977; l’artista romantico gli aveva fatto capire quanto la pittura potesse interpretare l’inafferrabile potenza del creato. Sebbene epurata dall’angoscia e dallo smarrimento tipici del maestro tedesco, la visione della natura di Guccione, più misurata e serena, è sempre stata capace di mantenere il medesimo stupore per la grandiosità del paesaggio.

Allo sguardo meravigliato con cui osservava il mare, il pittore siciliano accostava la perizia della mano, che con fare sicuro e metodico dava corpo alle atmosfere impresse nella mente. Rigoroso, esigente, quasi maniacale nel suo lavoro, Guccione era convinto della necessità della pratica quotidiana condotta con inflessibile tenacia. Nelle prime vedute degli anni Settanta la distesa d’acqua viene resa dall’artista con un colore pastoso; le linee dei tralicci elettrici, i profili dei muretti e le traiettorie delle correnti ne cadenzano l’estensione, mentre ombre dai fluidi contorni ne offuscano talvolta parte della superficie. Belle, nella mostra mendrisiense, le opere Tramonto a Punta Corvo, del 1970, Il cavo, il muro e le linee del mare, del 1973, e Ombra sul mare, del 1973-74. Un mare increspato dalla brezza, intessuto di vibrazioni tanto sottili da riuscire a evocarne le innumerevoli sfumature, appare invece nei lavori degli anni Ottanta e Novanta, dove un orizzonte sempre più basso consegna ampio spazio a cieli cristallini, come avviene ad esempio in dipinti quali Dopo il tramonto, datato 1985-87, e La fine dell’estate, del 1987-89.

Diventano poi più limpide e rarefatte le marine degli ultimi anni: le stesure di azzurro sono ora piatte e luminose, animate timidamente da lievi variazioni tonali. Emblematica di questa nuova fase è la splendida opera intitolata Luna d’agosto, realizzata nel 2005, in cui il pittore raggiunge un alto grado di astrazione senza smarrire il contatto con il dato reale. Accanto agli oli la rassegna raccoglie una selezione di pastelli che testimoniano quanto questa tecnica, a cui Guccione si accosta verso la metà degli anni Settanta per poter esprimere in modo più immediato le proprie emozioni, abbia influito in maniera rilevante sulla produzione su tela. È proprio il pastello, difatti, a insegnare a Guccione a fondere luci e ombre e soprattutto a muoversi su quell’esile margine tra pienezza e vaghezza delle forme che gli ha permesso di dipingere il mare come eco di infiniti silenzi. Dove e quando

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PUNTI


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Cultura e Spettacoli

Robinson Crusoe, 300 anni e non sentirli

Anniversari Era il 1719 quando il grande scrittore inglese Daniel Defoe diede alle stampe

quello che sarebbe divenuto un classico mondiale della letteratura

Luciana Caglio Londra, 25 aprile 1719: William Taylor, libraio-editore, pubblica l’ultima opera di un autore già noto e discusso, sia come giornalista e polemista sia come protagonista di disavventure politiche e finanziarie, che gli erano valse condanne carcerarie. Si chiama Daniel Defoe, ha 59 anni, e questa volta si presenta con un romanzo, dal destino del tutto imprevedibile: La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe. Ottiene l’immediato successo che spetta a un’invenzione letteraria in grado di appagare le attese reali del pubblico, proprio in un particolare momento storico. Si era agli inizi del XVIII secolo, i viaggi verso mete ancora ignote andavano di moda, soprattutto in Inghilterra, patria di scopritori, da Dampier, a Cook, alla leggendaria Compagnia di navigazione dei Mari del Sud. Guidato da un esemplare fiuto giornalistico, Defoe aveva avvertito gli umori di un pubblico, sempre più affascinato dalle conquiste di luoghi esotici che implicano rischi da brivido e di cui il naufragio è il simbolo. E proprio il naufragio del marinaio britannico Alexander Selkirk, scaraventato dalla tempesta su un’isola disabitata di fronte alla costa cilena, dove trascorse quattro anni, fornisce a Defoe la materia prima: un fatto di cronaca da trasformare in narrazione letteraria. Affidata all’immaginazione dello scrittore, la vicenda del naufrago si carica di significati emblematici e allusivi, attribuendo a Robinson Crusoe le dimensioni dell’eroe senza tempo. La ricorrenza di questo trecentesimo si sta infatti prestando alla rilettura di un libro, su piani diversi. Quello, innanzi tutto, di un nuovo fenomeno editoriale che, in termini attuali, definisce il passaggio dal «bestseller» al «longseller». Avviene quando un successo iniziale si consolida ininterrottamente, nel corso dei secoli, superando giudizi e pregiudizi d’ordine critico o morale o politico per collocarsi fra i classici della letteratura mondiale, sia

pure nel controverso filone dei racconti d’avventura popolari. Sta di fatto che il fortunato romanzo di Defoe ha toccato un vertice forse imbattuto, paragonabile alla Bibbia, sia per il numero delle tirature e delle traduzioni e sia per quello delle imitazioni e interpretazioni. Fra quest’ultime va citato Il Robinson svizzero o un predicatore naufrago e la sua famiglia, manoscritto del parroco bernese Johan David Wyss, poi pubblicato dal figlio Rudolf, docente di filosofia, nel 1820: diventò un classico per l’infanzia, corredato da stupende illustrazioni, adottato come libro di testo nelle scuole e tradotto in una ventina di lingue. Il nostro Paese, del resto, vanta uno dei più importanti centri di ricerche e studi «robinsoniani»: si trova a Rapperswil, ospita una biblioteca di 4000 opere in oltre 50 lingue e, autentica rarità, la seconda edizione dell’originale pubblicata nel 1719. Inoltre contiene la vasta collezione di film, testi teatrali, dischi, giochi, puzzle, oggetti raccolti e catalogati da Peter Bosshard, figlio di un libraio e antiquario da cui aveva ereditato la passione per i romanzi d’avventura, quali L’isola del tesoro e La capanna dello zio Tom, per poi specializzarsi su Robinson Crusoe. A Rapperswil, ci si preparava a celebrare il trecentesimo con festeggiamenti di grande richiamo turistico, a cui si è dovuto rinunciare, in seguito all’improvvisa morte di Bosshard.

A Rapperswil si trova uno dei più importanti centri «robinsoniani» con 4000 opere in oltre cinquanta lingue È un filone inesauribile che, nel corso dei secoli, continuerà a esprimersi nelle più svariate forme. Nel 1779, Joachin Heinrich Campe racconta in Robinson der Junge, le vicende di un presunto figlio del naufrago e, nel 1818, il francese Mallès de Baulieu riprende il tema in

Le Robinson de douze ans. Non mancheranno neppure le versioni al femminile: Emma ou le Robinson des demoiselles, pubblicato a Parigi nel 1834. Agli albori del femminismo, nel 1902, a Londra esce Miss Robinson Crusoe: con una deliziosa copertina, che sembra anticipare l’integrazione. Vi compare, sotto lo stesso ombrello, una bionda Crusoe a fianco del nero Venerdì. In tempi più recenti, dalla pagina il racconto passa al suono e all’immagine: affidato a dischi, disegni animati, documentari, serie televisive e, naturalmente, al cinema. Si presta, persino, a una parodia umoristica con Laurel e Hardy. Nel 2005, il naufrago è Tom Hanks in Cast Away, che, comunque, non riscatta il film da una certa banalità hollywoodiana. In queste settimane, l’attenzione mediatica, suscitata dall’anniversario, si è concentrata soprattutto sulla figura di Crusoe che, proprio negli ultimi decenni, ha subito una sorta di riabilitazione. Nel passato, infatti, anche Robinson doveva fare i conti con gli umori morali e politici del momento. Visto da destra, durante il fascismo, rappresentava il tipico inglese colonialista e individualista mentre, da sinistra, non mancarono le accuse di razzismo, provocate dal comportamento paternalista nei confronti di Venerdì, indigeno ossequente. Oggi, si è voltata pagina. Nell’era del ritorno alla natura, della riscoperta della manualità, della rivalutazione della solitudine come antitesi al turismo di massa organizzato, il personaggio che parte per proprio conto, voltando le spalle al consumismo, magari rischiando, ha conquistato simpatie e va persino di moda. Per forza di cose, ha vissuto un’esperienza, adesso irripetibile sul piano materiale: il suo era un isolamento totale, che lo costrinse a inventarsi la sopravvivenza sfruttando ciò che aveva a disposizione: frutti selvatici, foglie, sassi, una caverna, pezzi di legno. Elementi naturali da cui riuscì a ricavare quanto gli serviva: per mangiare, vestirsi, difendersi mobilitando capacità manuali e mentali. Non soltanto coltiva il grano,

La copertina di Robinson, ein Lesebuch für Kinder, (Loewes Verlag), 1889. (Keystone)

intreccia cestini di paglia, costruisce utensili ma trasforma in calendario una tavoletta di legno, su cui incide il passare del tempo: 28 anni, 2 mesi e 19 giorni. E compie persino un’impresa eroica e poi educativa: salva un indigeno inseguito dai cannibali, quel Venerdì cui insegnerà alfabeto e numeri. Propone, insomma, l’esempio dell’uomo che, alle prese con le avversità, si mette alla prova, animato dalla

fiducia nelle sue risorse e, non da ultimo, nella buona stella. La vicenda di Robinson Crusoe è a lieto fine e, anche per questo, rimane un modello sempre attuale. A spingere i viaggiatori solitari di oggi, scalatori, velisti, esploratori sottomarini, parapendisti è lo spirito d’avventura, nutrito dalla curiosità, dal coraggio, dal piacere per l’imprevisto ma, in definitiva, dalla certezza di farcela.

Raboni e Belluno

Pubblicazioni Ultima, convincente e solida raccolta di poesie di Patrizia Valduga

dedicata a Giovanni Raboni e alla città di Belluno Stefano Vassere È un poema quasi tutto in quartine Certo è che leggendo il suo ultimo saggio Per sguardi e per parole dedicato alla caravaggesca Cena in Emmaus e probabilmente anche altre prove saggistiche non necessariamente di critica letteraria come un meno recente e solo in apparenza innocuo Italiani, imparate l’italiano!; o ancora pensando ad attività più antiche come la partecipazione alla fondazione della rivista «Poesia», o alle traduzioni, o alla limpida e appassionata esegesi dell’opera di Giovanni Raboni; certo è che davanti alla qualità di tutto questo (il saggio sullo sguardo del Cristo è semplicemente tra le cose più belle che possa capitare di leggere di questi tempi in Italia) si sarebbe tentati di azzardare un paragone di qualità tra, di Patrizia Valduga, l’attività saggistica e quella poetica e si rischierebbe l’impasse. Un imbarazzo che continua poi e più forte aprendo questo Belluno. Andantino e grande fuga, che arriva molto

tempo dopo l’ultima raccolta della poetessa veneta e dove si leggono cose nuove e di grande pregio. È un poema quasi tutto in quartine «stese» pagina per pagina, dedicato alla

città dove Patrizia Valduga passa regolarmente lunga parte delle estati, e della quale offre qui un campionario non prevedibile di simboli anche personali: le Dolomiti, viste da lontano e probabilmente mai frequentate direttamente, l’onomastica liturgica e tranquillizzante della tradizione dialettale locale, qualche accenno all’altra grande simbologia di quei posti, quella della guerra e dei martiri. «Questa piazza piaceva anche a Giovanni: / piazza dei Martiri, ex Campitello. / È stato qui quando avevo dieci anni… / Dio! che fitta mi tràpana il cervello». Il mondo di questa raccolta è – già – contornato e penetrato dalla figura di Raboni: oltre all’ampio saggio in appendice Per Giovanni Raboni, ci sono la diffusa variazione sul prenome (Giovanni, Don Giovanni, Johannes, «Dilla per me, Johannes, la Parola!»), le citazioni dirette, l’ultima serie di poesie dedicata all’idea promossa da un gran numero di intellettuali milanesi di intestare un Centro, un luogo nella zona del milanese Lazzaretto al Poeta e

alla sua opera («Raboni è fra i più grandi in ogni aspetto: / è un patrimonio dell’umanità. / Intitolategli il suo Lazzaretto / in nome di giustizia e verità!»). Il Bellunese e la sua città capoluogo è zona pregna di segni che non hanno, come si vede in questa raccolta, usi e interpretazioni unanimi. Il fiume Piave, la guerra, i suoi martiri e le montagne, variamente incrociati, entrano in modo obliquo nella poesia di Patrizia Valduga, e non solo da oggi. Lo Schiara di una bella poesia del Libro delle laudi che sta anche in questi testi è tra l’altro pure, visto da lontano, in un memorabile passo di Dino Buzzati, scorto in giornate limpide d’autunno fin dai tetti di Venezia («Dalle 11 del mattino a pomeriggio inoltrato una piccola macchia lucente risplende infatti all’orizzonte. È la faccia sud dello Schiara, una delle poche grandi pareti dolomitiche che guardano direttamente la pianura»). La morte dei cari e l’afflizione dei sopravvissuti abitano lo sfondo di luoghi che ne richiamano il soccorso e il sostegno.

Tutto quanto è retto, ma di Patrizia Valduga ormai lo sappiamo, da riconosciuta responsabilità metrica e strutturale. Insomma, alla fine, letto e riletto, consumato avanti e indietro con pause benedette alle pagine 60, 90, 34-35, questo libro finisce in luogo privilegiato, facile a essere reperito e riaperto nelle emergenze, accanto agli sguardi e alle parole del Caravaggio. E ci lascia il virtuoso ma come pacificato dubbio dell’inizio; saggista, poetessa, testimone del Poeta, custode di care ombre familiari, Patrizia Valduga è per il non sempre all’altezza mondo delle lettere italiane un approdo regolare. Di conforto e di consolazione. «Io dico a tutti i morti in fondo al mare: / perdonatemi di essere così… / La luna si nasconde e poi riappare. / Vorrei essere meglio di così». Bibliografia

Patrizia Valduga, Belluno. Andantino e grande fuga, Torino, Einaudi, 2019.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Idee e acquisti per la settimana

Le lasagne saranno d’ora in poi meno care Natalie Pedrocchi (50) di Oberengstringen è produttrice televisiva nel settore sportivo e mamma di due bambini. «Cucino spesso e volentieri», ci spiega questa entusiasta giocatrice di tennis. Una rilassante attività da affiancare allo sport e alla professione. «Sono abbastanza brava a preparare le lasagne e grazie al timer del forno sono pronte da portare in tavola al momento giusto». A partire da mercoledì prossimo Migros riduce il prezzo, tra gli altri, della carne macinata, ciò di cui Natalie si rallegra. Infatti, sul suo menu oltre alle lasagne ci sono spesso anche gli hamburger, naturalmente preparati con la carne macinata.

Ribasso permanente dei prodotti Migros preferiti Riduzione di prezzo Nei prossimi mesi i prodotti preferiti dai clienti Migros, vale a dire quelli acquistati con maggiore frequenza, saranno proposti a un prezzo più conveniente. Tra i primi prodotti interessati la carne macinata di manzo bio. Settimana dopo settimana faranno seguito altri prodotti. Grazie ai nuovi prezzi, l’acquisto sarà più conveniente non solo per la durata di un’azione, ma in modo permanente.

«Le lasagne cucinate non sono mai troppe. Sono deliziose anche riscaldate.»

Potenziamento di M-Classic Nel contempo, l’assortimento a marchio proprio M-Classic si amplia. In futuro i clienti potranno approfittare di un’offerta ancora più grande con un interessante rapporto qualità-prezzo. Anche il design delle confezioni M-Classic sarà rinnovato.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Cultura e Spettacoli

Tante musiche e una sola Festa per viverle tutte

Concerti Gabriele Merlo ci introduce all’edizione di quest’anno della Festa della musica di Mendrisio

Zeno Gabaglio In Ticino si è specialisti a nascere vecchi, con attitudini e mentalità spesso più antiche rispetto a quelle di chi ci ha messo al mondo. Intendiamoci: non che la novità e la giovinezza a qualunque costo siano valori fondamentali, ma necessario sarebbe almeno darci la possibilità di frequentare idee e gusti non adagiati sulle consuetudini del tempo che fu. Prendendo atto che il mondo cambia e con esso l’uomo, anche se può non farci tanto piacere. Una fatale consapevolezza, questa, che dovrebbe coinvolgere in primis le iniziative culturali, reiterando la conseguente e fatidica domanda sul proprio senso, sulla propria collocazione spazio-temporale, sui propri contenuti. Ma questo – va da sé – capita assai di rado. In ambito musicale un’eccezione recente e virtuosa è quella costituita dalla Festa della musica di Mendrisio. Manifestazione nata sei anni fa – adottando un modello in auge sin dagli anni Settanta in ambito francofono – e che nel breve volgere di un lustro ha saputo coinvolgere un numero sempre crescente di spettatori mantenendo saldi i principi caratterizzanti la propria formula: libero accesso, grande varietà di generi concomitanti, ricerca di contenuti sempre nuovi e originali. «L’idea è venuta a un gruppo di amici che, per motivi di studio, aveva

Un concerto dell’edizione 2018.

vissuto diverso tempo in Romandia» racconta Gabriele Merlo, responsabile programmazione, membro di comitato e cofondatore della Festa. «Una volta rientrati nel Mendrisiotto si era pensato di riproporre quel modello che avevamo visto funzionare bene a Losanna, Ginevra, Friborgo o Neuchâtel». Un’idea che da subito ha funzionato, restituendo l’ampiezza del concetto di «musica» in più spazi e con generi musicali diversi – dalla classica al folk, alla popular music – che coinvolgono inte-

ressanti realtà del territorio, e non solo. «All’inizio avevamo dei palchi attivi soprattutto di giorno mentre la parte serale si svolgeva negli esercizi pubblici di Mendrisio. Adesso la Festa è diventata quasi un festival, con una fitta programmazione serale su palchi ad hoc nelle vie del Borgo, con una media di 7-8000 persone che raggiungono Mendrisio per ascoltare i concerti, tutti offerti gratuitamente». Se la gratuità degli eventi musicali è spesso diseducativa – e sul lungo

termine anche deleteria – il caso della Festa della musica è forse l’unica eccezione tollerabile, in un senso educativo, perché con proposte molto diverse e concomitanti si offre davvero un’apertura universale sulla molteplicità di valori incarnati dall’espressione musicale. Come a dire: se questa non ti piace, gira l’angolo e vedrai che la prossima ti piacerà – c’è una musica per ognuno di noi. Un approccio emancipato e vario che regala agli organizzatori una rara libertà nelle scelte artistiche, e quindi

sorprendenti scoperte anche per il pubblico. «Quando abbiamo cominciato eravamo probabilmente i primi e gli unici, in Ticino, a dare così tanto spazio alla musica del resto della Svizzera. La formula dell’iscrizione ci ha inoltre spontaneamente portato a conoscere tante nuove proposte di grande valore, a noi vicine ma non solo. L’intero comitato – formato da undici persone, tutte attive su base volontaria – è inoltre composto da assidui frequentatori di concerti, per cui è l’esperienza di ciascuno a regalarci stimoli nuovi e continui». Per concludere, la domanda che a un organizzatore non si dovrebbe mai fare: quali le highlight della Festa 2019? «Comincerei dalla novità: l’anteprima serale del 21 giugno a LaFilanda con la sorprendente elettronica del beatmaker ticinese Lazy Marf ma pure la travolgente performer bernese-australiana Jessiquoi. Sabato non mi perderò le Velvet Two Stripes (pura energia rock’n’roll), lo spettacolo multicolore de I musicanti di Brahma e l’intensa voce di Animor». Dove e quando

Festa della musica, Mendrisio, 21-22 giugno 2019. festadellamusica.ch In collaborazione con

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Cultura e Spettacoli

Pronto, sono Arianna, con chi parlo?

Azione

Mostre Seguendo il filo di Arianna alla scoperta dell’antica mitologia

grazie a un’originale mostra al museo di Vallon Marco Horat Nel 1989 veniva alla luce uno dei due mosaici che decoravano un pavimento della grande villa gallo-romana, che si possono ammirare nel museo di Vallon, Canton Friborgo: quello detto di Bacco e Arianna, che prende il nome dal grande medaglione che, si diceva, li rappresentasse; ora sembra però, da alcuni elementi iconografici messi in evidenza dal Professor Michel Fuchs dell’Università di Losanna, che non di Bacco si tratti, bensì di un satiro del suo seguito. Ma la storia non cambia: la scena è quella della povera Arianna abbandonata sull’isola di Naxos nelle Cicladi. E qui si dovrebbero raccontare storie complicatissime che vedono protagonisti i capricciosi Dei dell’Olimpo, i semidei, gli eroi, le principesse e mostri vari, come solo nella mitologia greca si incontrano. Qui sono in ballo Bacco e Arianna, Teseo e il Minotauro con testa di toro e corpo umano, rinchiuso nel labirinto creato da Dedalo, padre di Icaro, per ordine di Minosse re di Creta... (per ragguagli navigare sui testi di storia greca o almeno in internet). Personaggi che si incontrano nella mostra aperta nel Museo romano di Vallon diretto da Clara Agustoni, organizzata in collaborazione con il Servizio archeologico cantonale, per ricordare appunto il trentesimo anniversario della scoperta del mosaico di Bacco e Arianna e intitolata Au bout du fil; appunto quello che Arianna diede a Teseo per uscire dal labirinto una volta ucciso il Minotauro. E in un antico labirinto tracciato col gesso bianco ci si imbatte nel prato davanti all’ingresso. Ma il cuore della mostra è racchiuso all’interno del museo, con un filo rosso che corre lungo le pareti e che unisce i due piani dell’esposizione. Al pianterreno viene trattato l’aspetto iconografico e mitologico par-

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Il mosaico Bacco e Arianna fu scoperto trent’anni or sono. (Musée Vallon)

tendo dal mosaico originale del II secolo, che si può ammirare dietro una grande vetrina, conservato in situ come il fratello maggiore detto della Venatio (la caccia), grazie all’impiego di tecnologie sofisticate messe a punto dal Servizio archeologico del Canton Friborgo, come pure dalla rappresentazione ortofotografica in scala 1:1 del medaglione che permette di osservare i minimi dettagli dell’opera. Accanto, una serie di vetrine con i reperti scoperti durante gli scavi e la successiva costruzione del museo: vasellame e oggetti di uso domestico, statuette provenienti dagli altari della villa, con un riguardo speciale per l’immagine di un Icaro alato alto una dozzina di centimetri, scoperto qualche anno fa a Vallon. Temi mitologici che troviamo anche in altri mosaici svizzeri, come quello di Avenches rinvenuto nel XVIII secolo e andato perduto, del quale però abbiamo un disegno acquarellato del 1752. Salendo al piano superiore vengono affrontati i temi del recupero, del restauro e della valorizzazione dei mo-

saici scoperti nei secoli nella regione romanda (come quelli di Avenches o di Orbe nel Canton Vaud) grazie a testi dei diversi specialisti e a materiale iconografico; un modo anche per ripercorrere i progressi dell’archeologia nello scavo e nel salvataggio dei fragili manufatti. Talvolta, come nel caso di Vallon, lasciandoli sul posto, più spesso dovendo asportarli per il restauro e la conservazione. Un filmato di alcuni minuti illustra ad esempio un prelievo avvenuto nell’autunno dello scorso anno ad Avenches lungo una via di comunicazione e la successiva messa in sicurezza del mosaico stesso. Il percorso termina con una sala ludica, con testi per i più giovani dedicati ai grandi personaggi della mitologia greca e con giochi nei quali il labirinto la fa da padrone.

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Dove e quando

Au bout du fil. Ariane, Bacchus et les autres, Friborgo, Musée Romain de Vallon. Fino a marzo 2020. museevallon.ch

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Auguri, Bauhaus!

In scena Al Teatro San Materno di Ascona si è voluta commemorare

la nascita del movimento culturale

A conferma del suo grande slancio innovatore, a cento anni dalla nascita il movimento Bauhaus ancora oggi riesce a lanciare messaggi di affascinante modernità. Oltre alla sua commemorazione, ricordare quel movimento rivoluzionario che ha modificato per sempre il volto dell’arte, del design e dell’architettura, offre molteplici occasioni per ripercorrerlo nella sua essenzialità. Non è dunque un caso se il Teatro San Materno di Ascona, un esempio di architettura in stile Bauhaus, si riproponga come la casa ideale per ospitarne gesta, umori, movimenti. È anche quanto è stato immaginato per contraddistinguere la sua stagione teatrale che dal 26 maggio all’8 giugno sono nati degli incontri di ricerca con giovani danzatori attorno al tema, recentemente proposto gratuitamente al pubblico. Tutto ciò è il risultato di un progetto sviluppato da Tiziana Arnaboldi ed Eleonora Chiocchini che hanno guidato sette artiste provenienti da Svizzera, Italia, Francia e Germania. Sull’arco di due settimane hanno lavorato nell’intento di scoprire le potenzialità di dialogo fra la danza, lo spazio e il concetto di un luogo che

La bellissima sede Bauhaus del Teatro San Materno. (teatrosanmaterno.ch)

racchiude molte prerogative stilistiche del Bauhaus, a cominciare da una delle sue idee fondamentali, dove la forma segue la funzione, piuttosto che dal suo fascino estetico e dai suoi ornamenti eccessivi. Ecco allora la scelta del cerchio come soggetto attorno al quale costruire un’improvvisazione collettiva, una performance dove i danzatori prendono coscienza di elementi come il volume, il peso, le linee, le forme, la direzione, il ritmo, l’energia, il respiro, il canto,

la parola, l’insieme e l’individualità. È anche la conferma della coerenza della visione editoriale voluta per le produzioni per raccontare la teatralità al San Materno. A ben vedere in perfetta sintonia con la filosofia dell’architetto e intellettuale Walter Gropius, fondatore del Bauhaus, il primo ad applicare la nozione di Gesamtkunstwerk, la sintesi delle arti. Un principio che combina molteplici linguaggi dell’arte ponendoli in costante dialogo, proprio come le proposte che si avvicendano nella storica sala di Ascona. Seguendo un percorso attorno all’edificio, la recente performance ha permesso allo sguardo dello spettatore di fotografare l’originalità degli scorci architettonici disegnati da Carl Waldemeyer, ma anche di ammirare oggetti concepiti con semplicità funzionale per l’attualità dell’evento. Come una gonna a cerchi concentrici in legno rinforzati con lamine di metallo, idea concretizzata da Carla Broggi con materiali semplici e di efficacia estetica: uno strumento decorativo amplificato da una danza sinuosa e dal fascino erotico minimalista. Brave le danzatrici: Ylenia Ambrosino, Giulia Anastasio, Veronica Dariol, Giulia Mancini, Clarissa Matter, Marie Ramsauer e Maude Rieder.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Idee e acquisti per la settimana

Pronto da sgranocchiare Voglia di un aperitivo senza carne o di un hamburger vegetariano? Cornatur Viva, la nuova linea vegi della Migros, offre tutto ciò. Melanie Dübendorfer, Category Field Manager, ci dice di più sul perché del costante ampliamento nell’assortimento e spiega l’emergere di una nuova tendenza, il flexitarismo Testo Melanie Michael, Foto Claudia Linsi, Styling Feride Dogum

Salsa di arachidi

Hamburger di funghi con barbabietola e insalata

Riscaldare in forno 4 panini precotti Vital seguendo le istruzioni e lasciarli raffreddare. Tagliare i panini a metà, per il lungo. Mescolare 200 g di barbabietola bollita e grattugiata con 3 cucchiai di Veganaise (maionese vegana). Distribuire 8 piccole foglie di lattuga sui panini, successivamente la maionese alla barbabietola. Disporre quindi un hamburger arrostito con alcune fettine di cetriolo e germogli rossi, quindi l’altra metà del pane.

In una ciotola mantecare 100 g di burro di arachidi Crunchy con 2 cucchiai di acqua, 1 cucchiaio di sciroppo d’acero, 1 cucchiaio di succo di limetta e ½ cucchiaio di salsa di soia. Tritare e aggiungere 1 peperoncino secco e 4 rametti di coriandolo. Decorare con un po’ di peperoncino e coriandolo e servire con le Coconut Rice Balls.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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sui Burger ai funghi e sulle Coconut Rice Balls Cornatur Viva dal 18.06 fino all’01.07

«Dobbiamo reagire con rapidità alle nuove tendenze alimentari» Salsa al mango

Tagliare 150 g di mango a cubetti e metterli in una ciotola. Tritare finemente ½ cipolla rossa e 2 rametti di menta piperita. Aggiungere 1 cucchiaio di salsa di soia leggera e ½ cucchiaio di olio di sesamo, mescolare e servire con le Coconut Rice Balls.

Melanie Dübendorfer, Catergory Field Managerin convenience ready to cook alla Federazione delle cooperative Migros.

Uno spuntino vegi che si prepara in un attimo: le nuove Coconut Rice Balls con le salse fatte in casa.

Qual è il lavoro del Catergory Field Manager convenience ready to cook? Sono responsabile della gestione degli assortimenti «convenience vegetariano» e «cucina facile». Tradotto, il termine inglese «convenience» significa praticità, comodità ed è utilizzato per quegli alimenti che possono essere preparati facilmente e velocemente, Tra questi figurano, fra gli altri, anche i prodotti Cornatur e della nuova linea Cornatur Viva. Quali compiti comprende la gestione di un assortimento? Io e il mio team analizziamo l’assortimento con particolare attenzione nei confronti delle cifre di vendita, i desideri dei clienti e le tendenze di mercato, così da soddisfare i bisogni dei consumatori. Sulla base di queste analisi definiamo le misure di miglioramento. In questo modo possiamo garantire un assortimento attrattivo e variato.

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Cosa risulta particolarmente impegnativo? Le aspettative nei confronti dell’assortimento «convenience vegetariano» sono alte. In tale settore i clienti si aspettano prodotti innovativi. Per noi ciò significa riconoscere velocemente le tendenze e reagire con prontezza, vale a dire sviluppare prodotti adeguati da proporre nei nostri negozi. Come si è sviluppata negli ultimi anni l’offerta vegetariana della Migros? Abbiamo ampliato notevolmente il nostro assortimento e attualmente proponiamo

una gamma molto diversificata di prodotti convenience vegetariani. Concretamente ciò significa che sempre più clienti Migros hanno eliminato la carne dalla loro alimentazione? Nei nostri clienti notiamo un interesse crescente rispetto all‘alimentazione vegana o vegetariana. Ciò però non significa che sulle loro tavole non ci sia più carne. Ci sono infatti sempre più flexitariani. Flexitariani, vale a dire? Sono persone che amano la cucina e che di tanto in tanto mangiano della carne. Detto in altro modo, sono flessibili nel loro modo di essere vegetariani. Quali altre abitudini alimentari avete notato tra gli acquirenti dei prodotti convenience? Sono più curiosi di quanto lo erano solo pochi anni fa. Sono molto apprezzati i gusti innovativi e gli abbinamenti di ingredienti insoliti, come succede in particolare con i prodotti della nuova linea Cornatur Viva.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Cultura e Spettacoli

Tasca e Chieteri, guardare insieme

Tutto da sentire, ma senza vedere

quello proposto dai due fotografi

e carta stagnola al Konzert Theater di Berna

Gian Franco Ragno

Marinella Polli

Entrambi fotografi di un territorio sempre più antropizzato, il locarnese Giuseppe Chietera (1966) e il comasco Fabio Tasca (1965), collaborano da alcuni anni sulla base di un’idea comune di paesaggio – antiretorica, attuale e di ricerca – traendo forza dal confronto diretto e sviluppando inedite dialettiche interne ai rispettivi lavori. Ad esempio ciò si è verificato nel 2012 nella ricognizione topografica parallela delle strade litoranee del lago di Como e del Verbano, oppure nelle zone periferiche del Locarnese e della Brianza (lavori esposti alla Fondazione Rolla e alla Camera di Commercio di Como nell’ambito del progetto di ProHelvetia, Viavai); due anni dopo hanno partecipato a un progetto condiviso su Berlino – con il videoartista Roberto Mucchiut e il fotografo Domenico Scarano – dal titolo, Berlin Moving Still. Nell’ultima prova esposta alla Limonaia di Palazzo Saroli, già sede del Dicastero delle Attività Culturali di Lugano e oggi sede dell’Istituto internazionale d’architettura i2a, vi sono delle novità: non si tratta di un progetto idealmente concluso. Esso nasce infatti dall’idea di riunire quel magmatico materiale prodotto nelle tante ricognizioni del territorio, pellegrinaggi senza una vera meta, appunti visivi di carnet di viaggio di forma contemporanea, che non hanno una precisa collocazione all’interno di una serie, e forse non l’avranno mai. Immagini più veloci e immediate rispetto a quelle più meditate prese a cavalletto (da cui il titolo The Point and Shoot Series, traducibile nell’imperativo «inquadra e scatta»). Nella mostra a Lugano e nel catalogo, la cui ideazione ha preceduto l’esposizione, l’impressione generale è quella di sostanziale uniformità tra i risultati dei due fotografi: ogni immagine potrebbe essere stata scattata dall’uno o dall’altro autore. Questa impressione – voluta e cercata – prende origine da alcune scelte di fondo: usare la stessa macchina fotografica tascabile non professionale (una piccola «compatta» Rollei 35mm con obiettivo fisso), stampare insieme tutte le immagini dallo stesso stampatore e, per quanto riguarda l’esposizione, incorniciarle in cornici simili di piccole dimensioni. Le zone indagate sono quelle periurbane: luoghi in cui non sembra succedere nulla, periferici e marginali pur all’interno di una città globale diffusa. La loro identità è imprecisa – se residenziale, industriale oppure commerciale non è chiaro – e rappresenta un rapporto squilibrato tra uomo e natura, o quello che ne rimane dopo una fase di feroce appropriazione del territorio da parte dell’uomo. Ma vi sono anche elementi di di-

Si è ormai al termine della stagione teatrale, operistica e concertistica in tutta la Svizzera, e Il Konzert Theater di Berna conclude la sua nel segno di Richard Wagner. Per la precisione con Tristan und Isolde, uno dei supremi capolavori dell’opera dell’Ottocento europeo: magniloquente, luminoso rifacimento di una delle più antiche, conosciute e sfruttate leggende celtiche, immortale espressione del dilemma fra bene e male, fra eros e thanatos, dell’estasi liberatrice, dell’amore alla massima potenza e assoluto che si realizza solo con la morte. La nuova e attesissima produzione bernese si avvale della direzione musicale di Kevin John Edusei e della regia di Ludger Engels. In occasione della première, lo diciamo subito, il maestro tedesco dirige con bacchetta ora attenta e leggera nei momenti più mistici, ora vigorosa e decisa nella resa degli esacerbati cromatismi wagneriani. Edusei, sempre perfettamente padrone di una smagliante Berner Symphonieorchester che lo asseconda con precisione e sensibilità, dimostra dai primi accordi all’ultima nota della morte di Isotta l’importante ruolo espressivo dell’orchestra, accompagnando comunque con grande tatto il fraseggio degli interpreti lungo tutta l’intensa partitura. Non vi sono parole sufficienti per elogiare il più che eccellente cast, dal te-

Fotografia Uno sguardo condiviso e insolito, Opera Tristan und Isolde in paillettes

La pubblicazione Point and Shoot, Artphilein Edizioni.

scontinuità rispetto a ciò che hanno prodotto finora Chietera e Tasca, sia a livello espositivo sia editoriale. Vi è, ad esempio, un leggero piacere nel riprendere situazioni inconsuete: sono assai presenti scritte di vario genere, cartelli e insegne, vetrine con elementi kitsch – tutti tratti pop costitutivi dello stile anche di molti autori di riferimento del duo, tra i quali ricordiamo Walker Evans, Ed Ruscha e Luigi Ghirri. Un esempio può essere quantomai emblematico: ad Arles, ogni estate capitale della fotografia e dell’arte contemporanea, invasa da turisti e artisti in cerca di visibilità e contatti, i due non trovano di meglio che fotografare un supermercato «Monoprix» degli anni Settanta – non certo una mèta abita dalla mondanità internazionale. Lanciando al contempo un ironico riferimento al mercato dell’arte. Come detto, inizialmente tutto nasce da un catalogo: in parte finanziato attraverso una piattaforma di crowdfunding e in parte edito dalle edizioni Artphilein di Lugano – da alcuni anni in prima linea nel sostenere giovani artisti – il volume contiene anche due contributi, il primo di Alberto Chollet e il secondo dell’architetto Luigi Trentin. Ognuna delle immagini del catalogo trova spazio nella suggestiva Limonaia di Villa Saroli, stagliandosi liberamente in tre registri sulla lunga parete in legno: più che un percorso, appare una partitura libera – meno rigida di quelle che siamo abituati a vedere nelle esposizioni – composta da immagini di piccolo formato dai colori saturi e celesti chiarissimi.

nore svedese Daniel Frank, vocalmente sempre a suo agio nel ruolo di Tristan, al soprano inglese Catherine Foster in quelli di Isolde, scenicamente impacciata, né carnale né trasfigurata, ma vocalmente grandiosa anche nella sempre coinvolgente Liebestod; dal basso tedesco Kai Wegner, imponente nel ruolo di Re Marke, al baritono Robin Adams, di grande presenza in quello di Kurwenal; dal nostro mezzosoprano Claude Eichenberger, davvero insuperabile nella parte di Brangäne, al baritono Todd Boyce in quella di Melot, dal baritono David Park nella parte dello Steuermann (il timoniere), al tenore Andries Cloete in quella doppia di artista – in questo allestimento di cui diremo, non si capisce bene se ricordi più un Puck un tantino psicopatico, un cupido controvoglia o un conférencier pasticcione – e pastore. Sgradevole (e assai sgradita) invece, e per dir tutto con poco, la parte visiva. La concezione del regista e musicista tedesco Ludger Engels, che se poteva anche sembrare interessante spiegata nel programma di sala, non regge in scena, anzi affoga inesorabilmente nel mare di una simbologia caotica e incomprensibile. Soprattutto a partire dal II Atto sono il kitsch, inutili effetti come paillettes, vernice gialla e plastica, insomma il brutto, a regnare. Non vi è purtroppo nulla nell’allestimento (scenografia di Volker Thiele, goffi costumi di Heide Kästler, luci di Bernhard Bie-

Glitter & paillettes hanno infastidito gli amanti di Wagner. (Christian Kleiner)

ri) che suggerisca passione amorosa ed erotica, desolazione e disperazione, ricerca dell’annullamento nella morte e trasfigurazione. Nulla che faccia intendere che questo Musikdrama in tre atti di Wagner è molto di più di una semplice, per quanto tragica, love story. Alla prima, da parte dell’attentissimo pubblico composto in prevalenza di wagneriani, gli applausi sono stati entusiastici e sfocianti in una vera e propria ovazione all’indirizzo del maestro e della Berner Symphonieorchester, della brava solista Catherine Kämper al corno inglese, del coro (Chor Konzert Theater Bern) preparato da Zsolt Czetner e agli interpreti; fiacchi e accompagnati da perentori buh per il team registico. Le repliche, sempre con pause molto lunghe fra i tre atti, si protrarranno sino al 30 giugno. Dove e quando

Tristan und Isolde, Berna, Konzert Theater. Fino al 30 giugno 2019. konzerttheater.ch Annuncio pubblicitario

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Dove e quando

Giuseppe Chietera, Fabio Tasca: The Point and Shoot Series. Lugano, Istituto i2a, Limonaia di Villa Saroli. Fino al 21 giugno 2019. Volume: Giuseppe Chietera, Fabio Tasca, The Point and Shoot Series, Lugano, Artphilein Editions, 2019.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Idee e acquisti per la settimana

Piedi curati in quattro passi L’arrivo dei primi caldi ci invoglia a scoprire nuovamente la pelle, anche quella dei piedi. Adesso è il momento giusto per prendersene cura, concedendosi per esempio un pediluvio oppure un peeling curativo. Ecco quattro consigli per curare, nutrire e rigenerare i piedi in estate.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Cultura e Spettacoli

Ilnvestire nella buona musica

Festival Blues a Bellinzona, jazz ad Ascona e giovani band emergenti a Monte Carasso: ecco una breve mappa

dei principali avvenimenti previsti per i prossimi finesettimana

Alessandro Zanoli Come tutti sanno, il mese di giugno nel nostro cantone è quello che registra un aumento esponenziale del PIM (Prodotto Interno Musicale). Qui di seguito, quindi, elenchiamo alcuni degli asset che contribuiscono al fenomeno, sperando che possiate anche voi approfittare dell’ondata rialzista e mettere a frutto i vostri interessi. Bellinzona Blues Sessions Dal 19 al 22 giugno

Il corso del blues sul mercato americano sta da tempo segnando una tendenza «bull» veramente degna di nota. In varie regioni degli States si sta registrando una diffusa corsa a questo bene rifugio che, è innegabile, ha offerto un enorme contributo all’economia musicale nazionale USA. Il fenomeno è del resto seguito con grande attenzione anche alle nostre latitudini. E il festival bellinzonese, una pietra miliare tra i fondi di investimento culturali ticinesi, approfitta oltretutto di una storica, sorprendente, sensibilità locale a questo genere musicale. Se le azioni del blues vanno molto bene a Bellinzona si deve naturalmente al fondamentale lavoro di sensibilizzazione compiuto per decenni da Piazza Blues, che ha portato in Ticino alcuni dei più importanti operatori del settore a livello planetario (ricordarli qui è persino superfluo). Il patrimonio di competenze accumulate in quegli anni ha prodotto un know-how organizzativo e artistico del tutto invidiabile, di livello internazionale. Le Blues Sessions bellinzonesi, quindi, sono un bene rifugio su cui vale senz’altro la pena di puntare, ben coscienti del fatto che forniscono ai loro estimatori un ricco portafoglio di proposte. Nell’arco di quattro giorni la capitale si animerà, e offrirà vari spunti di interesse. Saranno naturalmente centrali quelli previsti sul Palco principale di Piazza Governo, tra cui spicca (forse anche per la particolare sensibilità «di genere» che caratterizza l’attuale congiuntura) la figura della blues-girl Ana Popovic (sul palco venerdì 21 a mezzanotte). Ma tutti gli operatori musicali invitati alle Blues Sessions possiedono naturalmente una loro spiccata particolarità: va dato atto agli organizzatori di aver composto un listino davvero ben assortito, suggerendo percorsi di investimento musicale anche poco ortodossi (da non perdere la joint-venture afro-statunitense di sabato sera alle 20.30 «Griot Blues-From Mali to Mississippi»), ma puntando poi senza alcuna riserva su alcuni valori istituzionali tra i più solidi e affidabili, come Sugar Ray & The Bluetones (venerdì alle 22.15), Kenny Blues Boss Wayne (sabato alle 22.15) e Robert Randolph & The Family Band (la stessa sera a mezzanotte). Data l’assoluta solidità degli asset offerti è riduttivo stilarne qui un elenco dettagliato: più semplice e operativo invece indicare il sito web ufficiale www. bellinzonablues.ch, punto di riferimento d’obbligo per gli investitori.

Ana Popovic, un’anima serba del blues. (anapopovic.com) JazzAscona Swiss Jazz Award 23 giugno

Un indicatore molto autorevole delle tendenze in atto sul mercato musicale è lo SJA. Altrettanto solido quanto lo SMI, sicuramente più divertente di NASDAQ e Dow Jones messi insieme, lo Swiss Jazz Award ci informa annualmente sullo stato di salute dello swing a livello nazionale. La sua affidabilità è molto alta e verificata nel tempo: ormai dal 2007 raccoglie la valutazione di alcuni esperti e (fatto molto raro) la affianca a un sondaggio compiuto tra gli ascoltatori di Radio Swiss Jazz, opinion leader nel settore specifico. Per la sua edizione 2019 lo SJA mette in rilievo (di nuovo esercitando una lodevole scelta «di genere») la figura di una imprenditrice melodica dalla carriera straordinaria. Negli anni 60 del secolo scorso succedeva con una certa frequenza che artisti neroamericani attivi in campo jazz scegliessero di trasferirsi in Europa per continuarvi la loro attività professionale. In quel periodo anche Othella Dallas, cantante, ballerina e showgirl nata a Memphis nel 1925, varcò l’oceano, decidendo di fissare la sua dimora proprio in Svizzera. Qui ha fondato tra l’altro una sua specifica attività di insegnamento, continuando nel frattempo ad esibirsi e a passare la propria esperienza a varie schiere di giovani musicisti elvetici. Insomma, nel patrimonio nazionale dello swing rossocrociato, una parte del capitale accumulato si deve senza dubbio all’iniziativa di questa incredibile artista. Il premio che le sarà consegnato il 23 giugno è quindi più che meritato e soprattutto va celebrato con una folta partecipazione di pubblico. Per il resto la cerimonia si inserisce all’interno di uno dei principali motori economicoculturali ticinesi, il festival JazzAscona. In programma dal 20 al 29 giugno, è il Fort Knox della tradizione jazz, o, se preferite, la sua BNS: sempre attento all’evoluzione dei mercati, il suo profilo di operatore è anticiclico e oculatissimo. Tutte le info su www.jazzascona.ch.

Open Air Monte Carasso Dal 27 al 29 giugno

Il futuro dell’economia musicale ticinese è senza dubbio nelle mani delle Start-Up. Senza le nuove idee, senza gli entusiasmi di chi si affaccia sul mercato con la voglia di segnare nuovi percorsi, il PIM ticinese sarebbe destinato ad indebolirsi. A Monte Carasso, in particolare, un intraprendente gruppo di giovani investitori si sta impegnando da vari anni per mantenere attiva una delle più brillanti iniziative cultural-manageriali.

Si tratta di un piccolo ma seguitissimo festival in cui ogni anno gli organizzatori fanno convergere le energie sonore di giovani talenti locali, affiancandole a quelle di alcuni artisti più importanti, provenienti dal più ampio bacino musicale italo-elveticoeuropeo. Un vero progetto glocalista, quindi, la cui strategia d’investimento si è rivelata da tempo come molto apprezzata dal pubblico. Curioso notare come anche quest’anno alcuni dei musicisti

invitati (come Julie Meletta o i Make Plain) abbiano iniziato la loro carriera nell’ambito di Palco ai giovani, un altro incubatore di talenti attivo fino allo scorso anno sulla piazza luganese. Purtroppo quest’ultimo è ormai scomparso, ma la sua efficacia si dimostra a distanza di tempo. Per il resto, il progetto di Monte Carasso continua a evolvere e a cercare nuovi sbocchi. Tra le novità di quest’anno una massiccia campagna di presenza sui canali audio digitali. Assecondando l’onda che sta modificando le abitudini dei consumatori, gli organizzatori hanno predisposto una playlist specifica su Spotify, in cui è possibile ascoltare brani dei vari gruppi coinvolti nelle serate live degli scorsi anni. Il dinamismo dei giovani organizzatori si esprime a vari livelli di intervento. Non va trascurato in particolare quello centrato sull’offerta della ristorazione, fattore fondamentale per il successo economico di questo tipo di iniziative. L’Open Air di Monte Carasso è conosciuto anche per la sua ricca offerta di street-food. Buona musica e buona gastronomia sono ingredienti essenziali per il successo estivo. Info: www.openairmontecarasso.ch. In collaborazione con

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 giugno 2019 • N. 25

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Elementare, Watson A memoria ricordo tre romanzi italiani con una religiosa nel titolo. La suora giovane di Giovanni Arpino del 1959; Lettere di una novizia di Guido Piovene del 1941; Storia di una capinera di Giovanni Verga del 1871. Se ne aggiunge ora un quarto, La strategia della clarissa di Cristiano Governa. Questa suor Paola non ha nulla in comune con le tre consorelle che l’hanno preceduta negli scaffali. Lei ha un fratello, Carlo Vento, commissario di polizia a Bologna, e lo aiuta nelle indagini. Detto così sembra un mero espediente narrativo per introdurre un elemento di novità nel sempre più affollato panorama del giallo italiano. Ma, avendo avuto l’opportunità di leggere il libro in bozze, vi assicuro che non è così. Questa suor Paola, quarantenne, macina pensieri forti, usa parolacce altrettanto forti, è sorella di Carlo, quasi cinquantenne commissario e ogni tanto esce di nascosto dal convento per andare a cena da lui, ritornato single, nella sua casa di Bologna. E per seguirlo, in una

torrida estate, sulla riviera romagnola, per indagare sulla scomparsa di Martina, ragazza quindicenne. Suor Paola, grazie alla sua visione laterale del mondo, offre un apporto prezioso alla comprensione degli avvenimenti, non tanto sul piano razionale, tipico della collaudata tradizione investigativa, quanto di respiro metafisico. Usa il suo costante controcanto su un grande tema, l’osmosi fra la vita e la sua rappresentazione: «a furia di capirle le uccidi le cose». Questa clarissa, ultima arrivata sulla scena, mi serve come pretesto per allargare il discorso alla letteratura poliziesca, in particolare al filone della detective story. Uno dei capisaldi del genere è rappresentato da sir Arthur Conan Doyle il quale con Uno studio in rosso dà inizio alle investigazioni di Sherlock Holmes e del dottor Watson. Dimostrando, con il suo successo planetario che l’investigatore ha bisogno di avere al suo fianco una «spalla», per dirla in gergo teatrale. La spalla avrà nel tempo

molte funzioni e sovente, essendo di levatura intellettuale inferiore a quella del suo capo, avrà necessità di ricevere spiegazioni dal boss che, dandole a lui, in realtà le fornisce al lettore. Nel corso di un secolo e mezzo, partendo dal dottor Watson, siamo arrivati alla suora di clausura. E non finirà qui nella gara a mettere insieme coppie sempre più strane. Una richiesta sale dalla folta e agguerrita falange degli scrittori di gialli investigativi: trovare una «spalla» al loro investigatore che sia al contempo inedita e credibile. Regalo l’idea a chi la vuole raccogliere: dare il via a un ufficio di collocamento, chiamiamolo «start up» per essere aggiornati, per selezionare e segnalare candidati al ruolo. Prima o poi qualche assessore inventerà il premio «Dottor Watson». La narrativa poliziesca vive all’interno di un vistoso paradosso, dovendo seguire due precetti antitetici. Da un lato, per essere credibile, deve essere attentissima ai dettagli, anche ai più insignificanti: topografie delle

città dove sono ambientate le storie, marche e modelli di automobili e motociclette, vestiti, accessori, programmi televisivi, orari, mode, consumi alimentari. Un lettore del mio Torino, lungodora Napoli mi fece osservare che nel corso Agnelli di Torino avevo fatto passare il tram numero 12 mentre in realtà passava la linea 10. A mia volta ho contestato duramente un giallista che aveva fatto atterrare un aereo a Fiumicino due anni prima che l’aeroporto fosse inaugurato. Per contro, allo scopo di tenere l’attenzione del lettore dalla prima all’ultima pagina, il romanzo poliziesco deve disporre di un’indagine sviluppata in un ampio arco di tempo con radici in un lontano passato e soprattutto di criminali colti, intelligenti e astuti, in grado di tenere in scacco a lungo gli investigatori. In pratica deve celare sotto l’abito spietato e sanguinario la sua natura di favola. La realtà è ben diversa, nella vita vera i criminali sono capaci nello stesso tempo di elaborare

strategie complesse e di commettere errori grossolani, dovuti a una forma puerile di vanagloria. Nel 1972 il ministero degli Affari Interni propose alla Rai la realizzazione di una serie di telefilm che, ricostruendo in forma di fiction casi veri, mettessero in luce l’efficienza e l’umanità della polizia italiana. Nacquero così due serie di sei episodi l’una, Qui squadra mobile, con la regia di Anton Giulio Majano, in onda in prima serata su Rai 1. Nel mio ruolo di produttore, ho potuto, con gli autori della sceneggiatura, consultare i fascicoli dei casi risolti dalla squadra mobile di Roma. Che delusione! Gli autori della rapina a un furgone portavalori, preparata con mesi di appostamenti, per fuggire avevano usato una Porsche Carrera, posseduta a Roma da 12 titolari in tutto. Era bastata mezza giornata di controlli per trovare il bandolo della matassa. Seguite il mio consiglio: ai criminali veri preferite quelli finti, danno molta più soddisfazione.

dra che sta iniziando a palleggiare con energia. Questi poveri uomini hanno solo il piacere virtuale dell’apparenza di potere, non sopportano di essere spodestati da una «femmina», che tra l’altro oltre a partorire, gestire la casa, crescere i figli a volte pensa e molto bene. Ma intanto entriamo nella squadra di calcio, che vede schierata una grande amica di Ipazia, Mileva Marić: la prima signora Einstein che fu anche la prima donna che studiò fisica al Politecnico di Zurigo. Il suo nome è sconosciuto, per non dire del confronto con Albert, che la lasciò per una cugina e gli Stati Uniti. Però sembra, secondo studi di storici di genere maschile, che Mileva abbia forse aiutato non poco il marito, negato per la matematica. Sembrerebbe non volendo rendere pubblico questo aiuto, nella certezza di essere «ein Stein», un’unica pietra, un’unica cosa. Poi ciao, Albert va negli Stati Uniti e dopo anni regala alla prima moglie e al figliolo ammalato parte o tutto il denaro del Nobel. Però

Mileva non può giocare nella squadra di calcio, è nata come la sorella, con un’anca non simmetrica, quindi zoppica. Ma è un ottimo quarto uomo (o un’ottima quarta donna). Tra le più agguerrite ci sono le filosofe del Novecento. Prendiamo Hannah Arendt, innamorata di quel nanerottolo con la testa grossa di Martin Heidegger, ma mai ufficialmente entrata nella famiglia – dove tra l’altro anche la moglie Elfride non si fece mancare un figlio naturale spacciato per figlio di Heidegger fino a pochi anni fa. Si diceva di Hannah, ottima punta della squadra, mossa come da un rancore. Non ce l’ha con Martin, ma con tutti gli uomini che dopo aver letto La banalità del male l’avevano accomunata al maestro negli anni di appoggio al Nazismo. Per un libro che spiegava come Eichmann soprintendesse al traffico dei treni, che avrebbero dovuto contribuire alla soluzione finale deportando ebrei e uomini sgraditi, come un qualunque impiegato delle ferrovie. In panchina da

sempre, Simone Weil, dedita a digiuni e sofferente di emicranie, lanciata per le grandi cause ma pasticciona nella pratica, come quando andò a combattere i franchisti in Spagna e fu subito rimpatriata perché uno dei primi giorni si ustionò con un pentolone di minestra. In panchina, in panchina. Per fortuna gioca un elemento che non ha paura di niente e di nessuno, Ildegarda di Bingen. Avrà avuto una vocazione monastica, ma a quei tempi vivere in monastero era l’unica via per evitare matrimoni forzati e mariti spesso violenti. Ildegarda divenne la badessa del monastero di Bingen, e poté dedicarsi allo studio: della musica, della letteratura, dell’anatomia, argomento ancora visto con sospetto nell’XI secolo. D’altra parte Ildegarda raccontava di avere avuto delle visioni che le mostravano come fosse fatto il corpo umano. Chi poteva opporsi alle visioni? Quale miglior terzino si poteva mettere in difesa della squadra delle filosofe?

ventarci uno pseudonimo per firmare un appello civile, gli appelli civili non avrebbero più alcun valore, perché potrebbero essere sottoscritti da migliaia di persone inesistenti (ciascuno di noi potrebbe firmarsi Zorro, Mandrake o Elena Ferrante). Si tratterebbe dunque anche di una faccenda che da letteraria diventa giudiziaria. In rigoroso ossequio alle proprie intenzioni, l’autrice de L’amica geniale ci invita a leggere solo le sue opere considerando Ferrante un «puro nome» privo di spessore umano: «la mia è una piccola scommessa con me stessa, con le mie convinzioni. Io credo che i libri non abbiano alcun bisogno degli autori, una volta che siano stati scritti». Di Shakespeare, dice Ferrante, non sappiamo nulla, idem di Omero, ma nulla ci impedisce di apprezzare i loro capolavori. Al giornalista che le ha chiesto di spiegare perché rimane nell’ombra, ha risposto: «A chi vuole che interessi la mia piccola storia

personale, se possiamo fare a meno di quella di Omero e di Shakespeare?». Giusto. E allora perché mai dovrebbero interessarci le posizioni politiche di Elena Ferrante? Il cosiddetto «mistero Ferrante» è anche in questa ambiguità. Una scelta apparentemente radicale (il desiderio di scomparire dietro un nome e di morire sul piano fisico-anagrafico per rimanere viva sul piano esclusivamente letterario) viene smentita dalla pretesa di prendere parte alla vita civile del proprio paese e del mondo intervenendo con dichiarazioni, interviste (sempre più frequenti) e persino sottoscrivendo dei manifesti con il proprio «nickname». È chiaro che altri pseudonimi letterari, essendo finti pseudonimi dietro cui si conoscono benissimo le identità anagrafiche, non pongono il problema di legittimazione civile che pone Ferrante. Italo Svevo era l’impiegato Aron Hector Schmitz, nato a Trieste nel 1861 e morto a Motta di Livenza il 13

settembre 1928 in seguito a un incidente stradale. Anche il poeta Franco Fortini in realtà si chiamava Lattes, essendo nato da Dino Lattes, e Fortini era il cognome di sua madre Emma. Lo scrittore Luigi Malerba era Luigi Bonardi nato nel 1927 a Pietramogolana, in provincia di Parma, e morto a Roma nel 2008: rilasciava interviste de visu a casa sua e non solo via mail chiedendo la mediazione dell’editore come esige la complicata scelta «pura e dura» di Elena Ferrante. E Umberto Saba era in realtà Umberto Poli, ma se entravi nella sua libreria di Trieste lo trovavi dietro il bancone: non c’era alcuna scissione tra la persona fisica e la sua opera. E non risulta che il poeta Saba abbia mai tenuto una rubrica settimanale di varia umanità sul quotidiano inglese «The Guardian», come è capitato per un anno intero a Elena Ferrante, la scrittrice misteriosa o probabilmente lo scrittore misterioso e riservato più grillo-parlante del mondo.

Postille filosofiche di Maria Bettetini In porta c’era una donna Ecco, ci risiamo. È esplosa la mania del calcio. Finisce la Nations League, comincia il cuore degli Europei, e poi assistiamo al fervore sorto intorno alle nazionali femminili che combattono per la coppa del mondo. Nella comunità dei filosofi, vivi o morti, quest’ultima è la notizia che più li sconvolge, e li fa diventare quasi dei bulli. «Sì, e ora le donne vorranno partecipare magari alle Olimpiadi» e tutti giù a ridere, alle parole di Platone. «O magari comandare in casa anche se non sono grandi ereditiere», commenta Aristotele, tra le risate di tutti. Epicuro cerca di mediare, a me non importa se nel mio Giardino vengono a studiare maschi o femmine, ma questo non fa smettere le risate a crepapelle, perché qualcuno gli dice: sì infatti nel tuo Giardino ci sono donne, ma sono «quelle» donne, che tutti frequentano per ben altri motivi, a pagamento. Stanno per prendere la parola Montaigne e Kant, ma vengono interrotti da uno sciame di donne in-

diavolate (arrivano, arrivano, lo vedete come sono isteriche, afferma sottovoce Freud, non esagerando perché queste «isteriche» fanno un po’ paura). In difesa, le innominate, quelle che hanno potuto pensare, ma non esprimere il loro pensiero, fino al secolo scorso, quando qualcosina è cambiato. La prima belva che prende la parola è Ipazia, furente proprio perché intesa come filosofa martire da maschi pentiti. Certo, grida la ottima retore, facile fare di me una martire e chiudere così la vergogna di secoli di soprusi. Ma ascoltatemi bene: io sono una matematica, non una filosofa. Perché nel tardo Impero, noi ultimi platonici, così intendevamo la filosofia, una sorta di percorso matematico che ci portasse dai molti all’Uno, attraversando le idee e i numeri. Di me non sapete nulla, avete qualche paginetta in cui si racconta di come fui lapidata da uomini mandati da Cirillo di Alessandria, in difesa della dottrina cristiana. Macché dottrina e dottrina, e si volge alla squa-

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Lo pseudonimo Grilloparlante Lo pseudonimo di Elena Ferrante (5–) appare, negli ultimi tempi, in molti appelli civili e politici (contro la Brexit, contro la Turchia di Erdogan, sulla migrazione e contro Salvini, per l’insegnamento della storia eccetera). Ma a che titolo? Come può un nome falso ritenersi un portatore di diritti civili svincolato dalla responsabilità di dichiarare la propria identità? La persona che si firma Elena Ferrante ha scelto lo pseudonimo nel lodevolissimo proposito che il lettore legga la sua opera separandola dall’identità anagrafica: dunque ha deciso di cancellare tutto ciò che non riguarda strettamente i suoi libri. E allora perché utilizzare la firma per esprimere una posizione sociale, politica, civile? Ciascuno di noi sottoscrive un’idea, un appello, una rivendicazione pubblica mettendo in gioco la propria reputazione e la propria responsabilità. Mettendoci la faccia, si direbbe un po’ brutalmente. Se è così – a meno che la firmatrice

non sia anche disposta, firmando, a dichiarare i propri connotati – la firma di Elena Ferrante sotto un appello politico-civile non conta nulla. Per quanto ne sappiamo, Ferrante potrebbe essere Salvini o Erdogan in persona. Oppure potrebbe essere, come pare sia, lo scrittore napoletano Domenico Starnone, cui si devono romanzi molto belli, a cominciare da Via Gemito, che ha vinto un premio Strega anni fa. Starnone avrebbe così il privilegio, se volesse, di firmare un appello due volte, con il nome vero e con il nome finto... E se Elena Ferrante fosse insieme, come sostengono altri, lo stesso Starnone e sua moglie Anita Raja (traduttrice dal tedesco) che lavorano in tandem, sarebbe ancora più lecito nutrire delle perplessità su quell’atto pubblico. Fatto sta che Ferrante non solo non scompare dietro la sua opera, come vorrebbe, ma comparirebbe ben due volte a prescindere dai sui libri. Non lascia ma raddoppia. E se tutti noi potessimo in-


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