Azione 38 del 16 settembre 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Gli eSport stanno vivendo un boom internazionale e sempre più gamer diventano professionisti

Ambiente e Benessere La dottoressa Sonia Lucini spiega l’importanza del medico di famiglia, ruolo che è rimasto sostanzialmente invariato nel tempo

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 16 settembre 2019

Azione 38 Politica e Economia Trump licenzia Bolton ma non è in grado di concretizzare la sua strategia in Afghanistan

Cultura e Spettacoli Ascona dedica una mostra a Lyonel Feininger, il primo maestro del Bauhaus

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di Alfredo Venturi pagina 31

Keystone

L’Italia volta pagina

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Sarà un parlamento diverso? di Peter Schiesser Ci siamo quasi: il 20 ottobre è alle porte, la campagna per le elezioni federali ha raggiunto l’apice (Marzio Rigonalli ce la descrive a pagina 37) e i barometri elettorali alimentano le aspettative. Come otto anni fa dopo Fukushima, il tema principe è dato: l’emergenza climatica. Secondo il più recente sondaggio della SSR-SRG, Verdi e Verdi liberali guadagnerebbero assieme oltre il 5 per cento di consensi. I Verdi supererebbero la soglia del 10 per cento (10,5) e al contempo il PPD, che scende al 10,2 per cento (–1,4 punti). Guadagnerebbe qualcosa il PLR (16,7 per cento, +0,3), pare stabile il PS al 18,7 per cento (–0,1), mentre questa volta chi rischia di perdere di più è l’UDC, in discesa al 26,8 per cento (–2,6). Resta poi alla ricerca di un senso e di un’identità il PBD dell’ex consigliera federale Eveline WidmerSchlumpf (2,6 per cento, –1,5), partito nato dalla scissione dall’UDC e posizionatosi a fatica nell’affollato centro dell’arco politico. I sondaggi restano sempre sondaggi, ma questi risultati sono corroborati dai risultati e dalle tendenze registrati nelle elezioni cantonali di questi anni. Per cui, in questo ultimo mese di campagna restano

determinanti. Tanto, che l’eventuale sorpasso dei Verdi sul PPD ha già sollevato l’interrogativo per eccellenza: spetterebbe ai primi il quinto seggio in Consiglio federale? E a spese di chi, del PPD o del secondo seggio del PLR? Considerato che la forza del PLR arriva vicino a quella del PS, sarebbe più logico che a perdere il seggio fosse il PPD. Lo sapremo solo in dicembre, quando verrà rieletto il Consiglio federale, ma è dubbio che possano crearsi maggioranze superiori a quella formata da UDC, PLR e PPD. Inoltre, la politica federale ha tempi solitamente lunghi: il risultato di un partito alle federali deve dapprima consolidarsi nelle elezioni successive – è stato così anche per l’UDC, che ha atteso otto anni prima di ottenere un secondo consigliere federale; oltre a ciò, il PPD resta una forza preponderante al Consiglio degli Stati, che nel sistema bicamerale svizzero ha un ruolo paritetico a quello del Nazionale, come pure nei governi cantonali. Se il PPD vive da un decennio un lento declino, è tuttora una forza che si guadagna un posto in Consiglio federale. L’attesa progressione dei Verdi unita alle perdite dell’UDC dovrebbe comunque bastare per cancellare la risicata maggioranza borghese che UDC e PLR hanno avuto al Nazionale in questa legislatura. Tut-

tavia, sappiamo per esperienza che una svolta, a destra o a sinistra, o in senso ecologico, assume peso e sostanza soltanto se trova maggioranze solide in Parlamento e poi in votazione popolare. Lo abbiamo visto in questi quattro anni. Ma oggi una svolta in senso progressista sembra essere in atto anche nella società nel suo complesso, in modo quasi trasversale. Un’analisi commissionata dalla «Neue Zürcher Zeitung», compiuta paragonando le posizioni dei candidati alle federali del 2019 e del 2015 (10.9.’19), indica che su alcuni temi di società c’è in atto un importante cambiamento. Una tassa sul CO2 troverebbe oggi una solida maggioranza (con PPD e PLR che compiono un enorme balzo in suo favore), così come la otterrebbe una effettiva parità per le coppie omosessuali (anche in seno al PPD e al PLR) e una legalizzazione della canapa (anche se UDC e PPD restano fra gli oppositori). Al di là dei guadagni e delle perdite elettorali del tale o tal altro partito, sarà dunque interessante osservare e capire se e quanto stia evolvendo la sensibilità politica all’interno dei singoli partiti e dell’elettorato (il riposizionamento del PLR sull’ambiente è un segnale). Una svolta per essere tale deve avere solide basi.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 settembre 2019 • N. 38

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Società e Territorio Videogiochi Fenomeni paranormali e agenzie segrete: convince Control nato dalla mente creativa di Sam Lake

Raccontare storie ballando Hawai’i Associazione Svizzera promuove una cultura di armonia attraverso i balli di gruppo. Incontro con Lorenza Manetti-Beltrami

A due passi Oliver Scharpf ci accompagna a Winterthur per ammirare le fontane di Judd pagina 11

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pagina 6 Grazie a una colletta online ora sono tre le Api che raccolgono e distribuiscono beni di prima necessità.

Un cuore a tre ruote

Solidarietà L’iniziativa l’«Ape del cuore» dell’oratorio di Lugano si estende ora a Balerna e Gordola Alessandra Ostini Sutto Per essere efficaci le idee non devono necessariamente essere complesse. Prova ne è l’«Ape del Cuore», un’iniziativa solidale lanciata da Don Emanuele Di Marco, direttore dell’Oratorio di Lugano. «Avevamo comprato questo veicolo a tre ruote da una gelateria di Riccione e l’usavamo, per esempio, per delle merende al di fuori dell’Oratorio», spiega Don Emanuele, classe 1982, «un giorno dei ragazzini mi hanno chiesto informazioni su di esso. Ho spiegato loro che è nato nel dopo guerra, quando degli artigiani cominciarono a mettere sulle loro Vespe un cassone per trasportare pane, pesce, ecc. da distribuire alle famiglie che avevano subito gli effetti del conflitto; la ruota nella parte posteriore venne aggiunta per bilanciare il peso. Come reazione, un bambino mi disse che anche noi avremmo potuto usare l’Ape per raggiungere le famiglie che avevano bisogno». Più che come risposta ad un bisogno, l’iniziativa nasce quindi dalla volontà di donare. Era gennaio del 2018: «L’avventura dell’Ape del Cuore cominciò nel periodo della Quaresima dello stesso anno, dopo aver coinvolto la Società di San Vincenzo di Lugano e la Parrocchia», commenta Don Emanuele. Il progetto – come detto – è semplice: in periodi

determinati, l’Apecar resta parcheggiata per tutto il giorno in Piazza San Rocco con il baule aperto, così che chi lo desidera può depositarvi beni di prima necessità – generi alimentari, prodotti per l’igiene ed articoli per la casa – che la sera stessa vengono portati a famiglie bisognose del Luganese e di parte del Mendrisiotto. «I bambini, con la loro freschezza, hanno trovato una formula geniale e simpatica per dare un senso alla nostra Ape», commenta il direttore dell’Oratorio. L’operazione funziona molto bene: da quando è partita fino a giugno, il «Cuore a tre ruote» ha percorso 2900 chilometri e consegnato 730 sacchi della spesa a oltre 200 famiglie. Essa, tra l’altro, è in corso proprio adesso: fino alla fine del mese, ogni mercoledì, l’Ape è infatti posteggiata in Piazza Dante. «Dopodiché riprenderemo il programma che vede l’Ape del Cuore attiva durante l’Avvento e la Quaresima, con la differenza che ora l’iniziativa coinvolge pure le parrocchie di Gordola e Balerna», afferma Don Emanuele. Visto il riscontro positivo di questa particolare forma di aiuto, qualche mese fa il prete aveva infatti espresso la volontà di estenderla ad altri Comuni. Nel mese di marzo è stata così organizzata una raccolta fondi online, che ha permesso di raccogliere 20 mila franchi in sole 36 ore. Con tale

somma sono stati acquistati due nuovi mezzi, destinati alle dette Parrocchie. Presentati a giugno nel corso di un «ApeHour» organizzato per ringraziare i donatori, i veicoli, cominceranno la loro attività probabilmente dal prossimo Avvento. «Successivamente l’idea è quella di mettere a punto un calendario comune», aggiunge il direttore dell’Oratorio luganese. Attualmente i volontari che aiutano nelle consegne sono una trentina; alcuni fanno capo all’Oratorio, altri fanno parte dell’Ordine di Malta. «Anche questo è un modo di dare, non soldi, ma tempo, un bene oggi quanto mai prezioso», aggiunge Don Emanuele. Questi «fattorini della provvidenza» – come amano definirsi – effettuano in genere tre consegne a sera. «Quando abbiamo merce in esubero, la consegniamo alla Società di San Vincenzo che ogni mercoledì la mette a disposizione di numerose famiglie del luganese». Parte dei nuclei cui recapitare la spesa sono segnalati dalla stessa Società. «Altri sono situazioni di cui siamo a conoscenza all’interno della Parrocchia o dell’Oratorio. Oltre a ciò, riceviamo delle segnalazioni da parte di chi conosce delle famiglie che attraversano un momento di difficoltà», afferma Don Emanuele, «in questi casi, in modo discreto, prendiamo contatto con loro, chiedendo se hanno piacere a

ricevere una spesa durante il particolare periodo che stanno attraversando». La discrezione è un elemento cui Don Emanuele tiene molto: «Bisogna fare attenzione a non offendere la sensibilità delle persone. Per questo motivo se una consegna concerne, per esempio, un bambino che frequenta l’Oratorio, essa sarà effettuata negli orari in cui il piccolo è a scuola». A volte un cambiamento improvviso – una separazione, una malattia, la perdita del posto di lavoro – può far sì che non si riescano più a sostenere le spese correnti. In una tale situazione, un piccolo aiuto, come la spesa, può dare respiro. «Questa è una delle caratteristiche che più apprezzo della nostra idea, che, nell’ambito delle azioni di solidarietà, non va a togliere la bellezza o la riuscita di tante altre esperienze. L’Ape del Cuore vuole proprio essere una mano sulla spalla a chi sta passando un momento di difficoltà: al di là del beneficio materiale, il destinatario, sa che qualcuno che non conosce, si è preso del tempo e ha speso dei soldi per lui e questo non può che fargli bene», commenta Don Emanuele. Ma chi sono le persone che lasciano la spesa nel baule dell’Ape del Cuore? «Alcuni mi chiamano per chiedermi informazioni, altri li conosco o li ho conosciuti, visto che l’Ape è parcheggiata davanti all’Oratorio, altri

non so chi siano», racconta Don Emanuele, «i sacchi della spesa che depositano comunque sono molto variati: c’è sia chi lascia beni di prima necessità, sia chi sceglie di comprare prodotti di primissima qualità. Ci sono stati dei cori che hanno fatto un concerto il cui ricavato è stato usato per fare una spesa, mentre c’è chi ha fatto una colletta all’interno dell’ufficio. Insomma, ognuno fa a suo modo, con grande spontaneità». In genere i «fattorini della provvidenza» distribuiscono i sacchetti così come li trovano nell’Ape. «Solo quando vi sono degli articoli mirati, come dei pannolini, scegliamo il destinatario adeguato», spiega il direttore dell’Oratorio, che continua: «Uno degli episodi più toccanti è quando un supermercato ci ha dato degli ottimi prodotti, tra cui una torta Saint Honoré. Quando l’ho consegnata, ad una famiglia con sette figli, il marito si è commosso, dicendomi che era il compleanno di sua moglie e che, vista la situazione, non aveva comprato la torta. Per storie come questa, mi sento di dire che si tratta di un’iniziativa che fa bene a me e alle persone che danno, oltre che ovviamente a quelle che ricevono». Per informazioni

www.oratoriolugano.ch


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 settembre 2019 • N. 38

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Gamer: i nuovi milionari

Tempi moderni Giocare ai videogiochi è diventato un lavoro e gli eSport sono un fenomeno che sta vivendo

un vero e proprio boom internazionale. E in Svizzera? Stefano Castelanelli Pottsgrove, Contea di Montgomery, Pennsylvania. Il sobborgo di 3200 anime a circa 40 miglia nord-ovest da Filadelfia era fino al 1940 una zona prevalentemente rurale. Il completamento della Pottstown Expressway nel 1985 ha accelerato la trasformazione dell’area agricola in zona suburbana. Il nome Pottsgrove deriva dal fabbro e commerciante John Potts, che nel 1752 acquistò dei terreni nella zona e costruì la sua dimora. Durante la Rivoluzione americana, parte della proprietà di Potts funse da accampamento per le truppe di George Washington. L’accampamento, noto come Camp Pottsgrove, durò solo circa due settimane fino a quando le truppe di Washington ripartirono, ma il nome Pottsgrove rimase. Un nome diventato famoso in tutto il mondo l’ultima domenica di luglio perché è il luogo in cui vive il teenager Kyle «Bugha» Giersdorf, il primo vincitore della Coppa del Mondo di Fortnite. Il videogioco sparatutto Fortnite ha avuto un successo enorme da quando è stato rilasciato nel 2017 e attualmente conta circa 250 milioni di utenti. Nella versione più popolare, la Fortnite Battle Royale, 100 giocatori si ritrovano su un’isola e devono combattere l’uno contro l’altro fino a quando non rimane un solo sopravvissuto, il vincitore. All’inizio del gioco i giocatori non posseggono altro che un piccone e devono vagare per l’isola in cerca di armi e veicoli nonché oggetti e risorse per costruire difese come mura e fortezze. Il gioco può essere scaricato gratuitamente, ma i giocatori possono spendere soldi durante il gioco per comprare vari oggetti come costumi e balli. La sola versione di Battle Royale genera entrate per circa 120 milioni di dollari ogni mese. Una somma considerevole.

Anche il settore finanziario ritiene gli eSport un investimento di tendenza per il loro forte tasso di crescita Ma Fortnite è molto di più di un videogioco di successo, è un fenomeno culturale: i balli dei personaggi hanno conquistato il mondo. Dopo aver ucciso un avversario, i giocatori possono ballare sul corpo del nemico per celebrare la vittoria. I giocatori possono scegliere tra dozzine di balli, la maggior parte dei quali deriva da balli eseguiti da persone reali e diventati cult in rete. Alcuni «inventori» dei balli usati da Fortnite hanno persino fatto causa al produttore del gioco perché sostengono che li abbia derubati delle loro «invenzioni». Questioni legali a parte, i balli sono diventati un fenomeno di

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

I giocatori del team Postfinance Helix durante la finale della Swisscom Hero League svoltasi lo scorso maggio. (Keystone)

massa l’anno passato. I video di persone che li imitano hanno fatto il giro del mondo. Anche le star dello sport hanno festeggiato i goal, canestri, home round e touch-down ballando come nel gioco. La stella del calcio francese Antoine Griezman ha persino celebrato il goal nella finale della Coppa del Mondo 2018 con un ballo di Fortnite. Non sorprende che la prima finale del torneo di Fortnite sia stata un successo. La fase finale si è svolta allo stadio Arthur Ashe di New York – sede degli US Open. L’impianto era tutto esaurito ed oltre un milione di fan ha seguito la sfida in streaming. Il sedicenne Kyle Giersdorf di Pottsgrove, noto online anche come «Bugha», è stato uno dei 100 finalisti che si sono imposti su 40 milioni di giocatori da tutto il mondo nella fase di qualificazione durata 10 settimane. In finale, dopo una battaglia di tre giorni, Bugha è uscito vincitore. Il teenager americano si è portato a casa la bellezza di 3 milioni di dollari, il più grande premio in denaro per un singolo giocatore nella storia degli eSport. Il termine eSport (o sport elettronici) indica una competizione giocata sui videogiochi. La prima competizione per i videogiochi si è svolta già alcuni decenni fa. Nel 1972 gli studenti dell’Università di Stanford hanno gareggiato al videogioco Spacewar. Il premio era un abbonamento di un anno alla rivista «Rolling Stone». Oggi, gli eSport sono giocati da giocatori (o ga-

mer) professionisti che partecipano ad eventi seguitissimi in tutto il mondo come la Coppa del Mondo di Fortnite e possono anche vincere ingenti somme di denaro. Il settore sta vivendo un vero e proprio boom. Sempre più aziende investono negli eSport, anche in Svizzera. Negli ultimi anni sono stati fondati club, messi sotto contratto giocatori e finanziati tornei. L’FC Basilea ad esempio ha una propria squadra di eSport professionista e attualmente ha sotto contratto uno dei migliore giocatori di FIFA, l’argentino Gonzalo Nicolás Villalba aka Nicolas99FC. Mentre la scuderia di formula 1 Sauber ha recentemente aperto un centro di allenamento per il suo team di eSport. Swisscom invece ha lanciato l’anno scorso una propria lega eSport per giocatori professionisti e amatoriali, la Swisscom Hero League. La prima stagione è stata un successo. Iniziata in autunno 2018 ha attirato più di 3000 gamer ed è culminata con la finale di maggio disputata nella Halle 622 a Zurigo di fronte a centinaia di fan. La seconda stagione è già in programma e partirà in autunno. UPC invece ha investito nei media. Nel 2016 la compagnia ha lanciato esports.ch, la prima e più grande piattaforma di notizie sportive legate agli eSport in Svizzera. La piattaforma offre ai giocatori e ai fan notizie e approfondimenti sulla scena svizzera degli eSport. Postfinance invece ha optato per il proprio team

esport di giocatori professionisti, il team Postfinance Helix. Tutte queste iniziative hanno fatto conoscere gli eSport in Svizzera. Secondo uno studio della Scuola universitaria professionale di Zurigo (ZHAW) pubblicato in aprile, poco meno di un terzo della popolazione svizzera sa esattamente cosa siano gli eSport. Il settore è giovane ma si sta professionalizzando. Nel settembre 2016 è stata fondata la Federazione Svizzera di Esports, che rappresenta gli interessi dei giocatori e delle organizzazioni svizzere a livello nazionale e internazionale. Nel gennaio 2018 è stata pure fondata la Swiss eSports League che mira ad offrire ai gamer svizzeri una piattaforma su cui scambiarsi idee e sfidarsi. E i fan svizzeri degli eSport hanno oggi diverse opzioni per seguire i loro beniamini. Oltre alla piattaforma online twitch dedicata interamente ai videogiochi, sia Swisscom che UPC offrono ai loro utenti premium canali eSport specializzati. Il boom degli eSport ha raggiunto anche il settore finanziario. Gli eSport sono un investimento di tendenza a causa del loro forte tasso di crescita. Fatturati, montepremi e spettatori sono tutti in aumento negli ultimi anni in tutto il mondo. Secondo lo studio della ZHAW, il mercato globale degli eSport ha quasi triplicato il suo valore negli ultimi 4 anni e raggiunto i 906 milioni di dollari nel 2018. E continuerà a crescere. Secondo le stime del

Credit Suisse, il mercato raggiungerà gli 1,6 miliardi di dollari entro il 2022. Anche il numero di spettatori è in aumento, sottolinea lo studio della ZHAW. Se nel 2018 gli eSport contavano 400 milioni di telespettatori, si prevede invece che nel 2021 saranno 600 milioni. Mentre per i montepremi, alcuni tornei possono già eguagliare o addirittura superare gli eventi sportivi tradizionali. La Coppa del Mondo di Fortnite ad esempio ha distribuito ai vincitori ben 30 milioni di dollari. Una cifra che è dodici volte superiore al montepremi del Tour de France 2019. Tutti questi soldi fanno gola ai giovani che sono attirati da una carriera negli eSport. In Svizzera siamo ancora agli albori. Il paese conta circa 10 club di eSport di caratura internazionale che partecipano a competizioni in tutto il mondo lottando per i primi posti. Per la maggior parte dei circa 200 gamer però i videogiochi sono un’occupazione secondaria. Solo 6 giocatori in Svizzera sono professionisti: il giocatore svizzero del team di eSport dell’FC Basilea e i 5 giocatori del team Postfinance Helix. Per loro giocare ai videogiochi è diventato una professione. Come Kyle Bugha Giersdorf ha dimostrato con i suoi 3 milioni di dollari vinti, questo lavoro può essere davvero redditizio. Un sogno, quello di diventare un gamer affermato coltivato da molti giovani, anche svizzeri. Ma come per gli sport tradizionali solo pochi riescono veramente a sfondare.

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel. 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

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Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 settembre 2019 • N. 38

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Idee e acquisti per la settimana

Fresche novità a Biasca Attualità La rinnovata filiale Migros di Biasca si è dotata

di un banco del pesce fresco e di uno spazio dedicato al manzo Dry Aged all’interno dell’Angolo del Buongustaio

La recente trasformazione del punto vendita Migros di Biasca, che di fatto ha reso il negozio più attrattivo e accogliente, ha permesso anche di allestire un invitante banco pescheria a fianco della macelleria con servizio, come pure di uno spazio dedicato alla carne di manzo frollata all’osso «Dry Aged». La proposta ittica andrà sicuramente a soddisfare al meglio i bisogni evidenziati dalla numerosa clientela della Riviera. Qui coloro che prediligono le prelibatezze del mare – ma non mancano nemmeno alcune proposte di lago – trovano una variata selezione di freschissime specialità. Naturalmente, nel rispetto della filosofia Migros, tutti i pesci e frutti di mare provengono rigorosamente da fonti sostenibili, per cui alcuni recano le certificazioni MSC (pesce selvatico responsabile), Bio (da allevamenti biologici) oppure ASC (allevamento responsabile). L’assortimento è stato attentamente pensato per garantire la massima freschezza e la migliore qualità. Il personale qualificato del reparto è a vostra completa disposizione per richieste culinarie particolari e personalizzate, affinché ogni giorno possiate portare in tavola sempre nuovi e appetitosi manicaretti. Dal filetto di passera alla sogliola, dal merluzzo alla pescatrice, dall’orata al filetto di tonno, passando per il salmone, le vongole veraci e fino al persico e al lucioperca… l’invitante offerta saprà incontrare i gusti e le esigenze di tutti.

costata. Questa carne matura fino a 6 settimane e viene selezionata con cura dai nostri specialisti. Vengono utilizzati solo tagli pregiati che rispecchino gli elevati requisiti di qualità. Questo speciale metodo di maturazione rende la carne maggiormente succosa e tenera, mentre il sapore risulta intenso e dall’aroma nocciolato. Il metodo più

semplice per preparare questa leccornia è quello rosolare brevemente la carne (2-4 minuti) e terminare la cottura in forno fino alla temperatura al cuore desiderata (ideale 50-55 gradi). Aromatizzare la carne solo con un poco di sale grosso e pepe macinato di fresco. Per questi e altri consigli venite a trovarci presso la Migros di Biasca!

La carne di manzo Dry Aged frollata all’osso.

Il nuovo banco pescheria di Migros Biasca offre molte prelibatezze. (Tresol Group/ Däwis Pulga)

La carne Dry Aged

Al banco macelleria di Migros Biasca è stata introdotta anche la carne di manzo frollata all’osso Dry Aged, sotto forma di nobili tagli quali l’entrecôte e la

Tutta l’estate in una mela

Novità La mela svizzera SweeTango promette

momenti di gusto unici

Treccia che bontà!

Attualità Questa settimana potrai scoprire come si prepara

uno dei prodotti di panetteria più gettonati Succosa, croccante e rinfrescante… la mela SweeTango è un’autentica esperienza gustativa morso dopo morso. Le sue proprietà uniche sono dovute ai suoi «genitori», le varietà Honeycrisp e Zestar. SweeTango è una mela precoce, di media grandezza, che viene raccolta tra metà agosto e inizio settembre. Possiede una buona attitudine alla conservazione. Di color rosso vivo, è succosa e rinfrescante come un’anguria. Le sue gradevoli note aromatiche ricordano

al contempo il limone e il miele, con un perfetto equilibro tra dolcezza e acidità. SweeTango trae le sue origini sulle sponde del Mississippi, a Minneapolis, dove venne sviluppata alla fine degli anni Ottanta. Dal 2013 viene coltivata con particolare attenzione per la qualità anche in Svizzera, da alcuni produttori dello Seeland e dei cantoni Turgovia, Vaud, Lucerna e Vallese. SweeTango si gusta al meglio cruda, ma è ideale anche per essere cotta al vapore o al forno.

Venerdì prossimo, 20 settembre, dalle ore 10.00 alle 12.00, presso la panetteria della casa del Centro S. Antonino, potrai scoprire come si produce l’apprezzata treccia al burro della Migros, nonché vedere come la intreccia un vero professionista. I panettieri del laboratorio artigianale situato all’interno del supermercato Migros mostreranno alla clientela come si prepara l’impasto per la treccia e saranno a disposizione per rispondere a

domande ed elargire consigli utili per una buona riuscita della specialità anche a casa propria. Gustata da sola, con della confettura, del burro extra, del miele, della crema da spalmare al cioccolato, ma anche con del formaggio, salumi misti e salmone affumicato, la treccia al burro fresca o leggermente tostata è per molti un must della colazione o del brunch domenicale. Secondo una leggenda la prima treccia fu sfornata nel 14° secolo nella città di Berna

– dov’è conosciuta con il nome dialettale di Züpfe – in occasione dell’Epifania e, come per molti prodotti a base di farina bianca dell’epoca, era considerata un prodotto di lusso. La treccia oggi seduce i palati di tutta la Svizzera grazie alla sua perfetta combinazione di note tostate e delicati aromi di lievito e burro. La crosta croccante e dorata al punto giusto nasconde una mollica morbida e umida a cui è impossibile resistere.


FORMULA PURA

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 settembre 2019 • N. 38

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Idee e acquisti per la settimana

SILICONI PETROLATI FRAGRANZE

Benessere tutto al naturale

Novità La nuova linea cosmetica Winni’s Naturel al melograno

e thè verde è realizzata con materie prime vegetali e bio. Venite a scoprirla nelle filiali Migros di Biasca e Locarno

La gamma Winni’s Naturel

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PERFORMANCE

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La nuova gamma di prodotti per la cura del corpo Winni’s Naturel propone diversi prodotti efficaci e sicuri per la pelle e per l’ambiente. La linea è stata sviluppata con formule innovative, selezionando le migliori materie prime di origine vegetale e biologica da fonti rinnovabili. Tutti i prodotti garantiscono igiene, morbidezza e cura della pelle per una sensazione di benessere duratura. Le speciali formulazioni limitano al massimo le possibili reazioni avverse. L’estrema tollerabilità cutanea è sostenuta dai più attuali test su nichel, cobalto, cromo

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 settembre 2019 • N. 38

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Società e Territorio

Tutti i segreti della Holdest House

Videogiochi Control, il nuovo titolo di Remedy Interactive scritto da Sam Lake, è un convincente gioco d’azione

che si muove tra agenzie segrete e fenomeni paranormali

Davide Canavesi Call of Duty, Fortnite, FIFA, Overwatch. Giochi tra loro molto diversi con una componente fondamentale in comune: sono giochi online. Da qualche anno ormai è più facile, per uno studio di sviluppo, creare giochi con forti componenti multigiocatore via internet e ottenere guadagni stellari e milioni di giocatori fedeli. Diverso invece il discorso quando si tratta di giochi narrativi per giocatore singolo: sono molto costosi ed impegnativi da produrre e tengono occupate le persone per qualche decina di ore nel migliore dei casi. Un gioco single player è un rischio, sia creativo che finanziario. Lo sanno bene i finlandesi di Remedy Interactive, reduci da un mezzo fallimento con Quantum Break e in cerca di riscatto col nuovo Control. Agenzie segrete, fenomeni paranormali e una donna determinata ad ottenere delle risposte sono solo alcuni degli ingredienti di questo nuovo gioco d’azione per console e PC. In Control il giocatore impersona Jesse Faden, la classica persona al posto giusto al momento giusto. La giovane donna è sulle tracce del fratello scomparso da anni: rapito da una misteriosa forza governativa in seguito ad un evento paranormale. I responsabili del rapimento sono uomini del Federal Bureau of Control, una sorta di FBI dedicato esclusivamente ad eventi fuori dall’ordinario. Il problema, per Jesse, è che il quartier generale del Bureau non è affatto semplice da trovare. Si trova

nel centro di New York, all’interno della Oldest House: un edificio introvabile a meno che non si sappia già dove si trovi. Jesse ha però un asso nella manica: è legata a un essere alquanto misterioso e taciturno che non solo le rivelerà la posizione dell’edificio ma che le permetterà anche di superare indenne i pericoli che la attendono. Appena entrati nella Oldest House raggiungiamo senza sforzi l’ufficio del direttore che però si è appena puntato la pistola alla tempia, suicidandosi. Nel giro di qualche minuto passeremo da semplice visitatrice a Direttore del Bureau. Un po’ strano, forse, ma le bizzarrie sono decisamente appena cominciate e le domande senza risposta sono davvero tante. Control è stato scritto da Sam Lake, autore molto noto nel mondo dei videogiochi perché mente creativa dietro titoli molto amati come Max Payne e Alan Wake, giochi che hanno conquistato pubblico e critica a più riprese. La sua nuova creatura non abbandona i temi del paranormale e soprannaturale, tingendosi come spesso accade di thriller e mistero. Ma Control è anche un titolo d’azione ben realizzato, in primis divertente da giocare, grazie alle sue meccaniche piuttosto peculiari. Jesse non solo avrà a disposizione un’Arma di Servizio in grado di modificare le sue proprietà fisiche per diventare pistola, fucile a pompa o fucile da cecchino ma anche diversi poteri speciali. A mano a mano che scopriremo i segreti della Oldest House e tenteremo di salvare le persone intrappolate al suo

La protagonista del gioco Jesse Faden nella sede del Federal Bureau of Control. (Remedygames)

interno, guadagneremo sempre maggiori poteri. La donna potrà fluttuare, usare la telecinesi per lanciare oggetti contundenti contro i nemici, creare scudi dal nulla e addirittura dirigere i nemici l’uno contro l’altro. Questa grande varietà di poteri, unita a un solido design delle ambientazioni, fa di Control un gioco godibile dal punto di vista del gameplay, un dettaglio che agli sviluppatori di Remedy era un tantino sfuggito nella loro ultima creatura, totalmente incentrata su un concetto ibrido tra videogioco e serie televisiva. Durante la nostra avventura in compagnia di Jesse ci ritroveremo a combattere contro esseri umani

totalmente irretiti dal Sibilo, ignota forza sfuggita da un diverso piano astrale rispetto al nostro mondo il cui scopo sembra quello di trasformare chiunque capiti a tiro. Per riuscire nel nostro intento sarà necessario visitare ogni angolo della Oldest House, tornando spesso sui nostri passi, al fine di portare a termine diverse missioni principali e secondarie. Al giocatore viene lasciato un certo grado di libertà per quanto riguarda l’ordine nel quale affrontare le minacce. Più decideremo di prenderci del tempo per esplorare e portare a termine incarichi secondari e più saremo ricompensati da nuovi poteri, migliorie per

le armi e potenziamenti passivi per la donna. Da un punto di vista tecnologico, su PC almeno, Control si avvale delle nuove tecnologie di ray tracing, che permettono riflessi e ombre davvero più realistiche rispetto alle tecniche tradizionali. La recitazione in gioco è riprodotta in modo più che convincente ma non esiste il doppiaggio in italiano, pertanto i giocatori dovranno accontentarsi di leggere i sottotitoli. Control è un gioco che ci ha convinto sia per quanto riguarda gli aspetti puramente tecnici che quelli narrativi e di gioco. Un grande ritorno di Remedy con un titolo appassionante, sebbene adatto solo ad un pubblico adulto. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 settembre 2019 • N. 38

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Idee e acquisti per la settimana

Ogni pane è unico

Fresco & fatto a mano nella panetteria della casa

Ben prima dell’apertura delle filiali Migros, nelle panetterie della casa i panettieri impastano, lavorano e cuociono il pane. Il forno non viene spento fino a sera, così che il pane fresco è disponibile anche quando i clienti hanno terminato di lavorare

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 settembre 2019 • N. 38

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Marco Ferreira nella panetteria della casa di Migros Limmatplatz a Zurigo. È uno dei circa 900 professionisti che nelle 130 panetterie della casa fanno in modo che il pane fresco sia sempre disponibile.

«Prepariamo il pane sotto lo sguardo dei nostri clienti» Cosa contraddistingue le panetterie della casa?

Siamo all’interno della filiale Migros e prepariamo il pane sotto lo sguardo dei nostri clienti: nella panetteria della casa produciamo il pane sul posto; un pane della migliore qualità grazie alle tradizionali attrezzature della panetteria. Tutti i pani prodotti nelle panetterie della casa sono ora riconoscibili grazie alla scritta «Fresco & fatto mano» presente sulla confezione. Quando iniziate a infornare i primi pani e quando gli ultimi giungono sugli scaffali?

Informazioni: www.fresco-e-fatto-a-mano.ch

Foto: Cyrill Krähenbühl

Al più tardi iniziamo a cuocere il pane alle cinque e un quarto del mattino; normalmente terminiamo la cottura dell’ultima infornata entro le sei e mezza di sera. Come è possibile preparare sull’arco dell’intera giornata pane che necessita di un lungo riposo?

Un impasto fresco necessita naturalmente del suo tempo: ci vogliono circa tre ore prima che un pane raggiunga lo scaffale. Per questo è fondamentale avere

una buona pianificazione. I nostri tempi di preparazione si orientano alla clientela e ai loro orari di acquisto preferiti: la mattina, il pomeriggio e soprattutto la sera, quando al termine del lavoro i clienti vanno a fare la spesa per la cena. È importante pianificare il nostro fabbisogno giornaliero, dividere l’impasto in base alla necessità e cuocere il pane al momento giusto. Cosa altro contraddistingue il pane «Fresco & fatto a mano»?

I nostri pani sono preparati con soli ingredienti naturali. Come deve essere: farina, lievito, acqua e sale. Per la maggior parte dei pani non è necessario altro. Molti clienti amano l’aroma del pane appena sfornato. Un altro vantaggio consiste nel fatto che il cliente può scegliere da sé alcuni dei pani al libero servizio. La panetteria della casa produce anche pani a lievitazione naturale?

Sì, il pane di segale a lievitazione naturale della panetteria della casa, anche questo disponibile con il label «Fresco & fatto a mano».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 settembre 2019 • N. 38

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Società e Territorio

Balla che ti passa

Movimento Hawai’i Associazione Svizzera promuove una cultura di armonia attraverso

i balli di gruppo e la saggezza dell’arcipelago polinesiano

Simona Sala

Lorenza Manetti-Beltrami con un gruppo di allievi della scuola Ohana hale ole di Lamone.

per raccontare storie, miti fondatori e onorare gli elementi come l’acqua, le piante, le montagne. Mimano la natura e richiedono concentrazione e dolcezza di movimento. Le movenze, il ritmo, i movimenti dei fianchi, delle mani e delle anche rappresentano gli elementi naturali, i personaggi, le vicende e le storie che fanno parte della cultura delle isole Hawaii. Si basano anche sul concetto che muovendosi a ritmo, il corpo è in grado di sprigionare il massimo della sua energia e potenza, risvegliare la voglia di vivere ed entrare in contatto con gli elementi naturali. «Hula è uno stile di vita», spiega. «Ballare, accordarsi su

una musica, stare insieme concentrati a fare la stessa cosa sono tutti modi per rimettere in circolo sangue, energia e buon umore. Quello che mi hanno sempre ripetuto i miei maestri è: quando hai un problema, balla che ti passa!». Per come viene usata nei centri di cultura hawaiana nel mondo, la danza Hula è un metodo che porta guarigione a tutti i livelli (mente, corpo e spirito), risveglia la voglia di vivere e porta positività e maggiore fiducia in se stessi. Con la danza Hula si impara a conoscere il proprio corpo, i propri ritmi, si prende consapevolezza di ogni movimento e concentrandosi su di esso si impara a vi-

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Cardiocentro si china sulle differenze tra uomo e donna

Sara Rossi Guidicelli Lorenza Manetti-Beltrami parla con il sorriso che le illumina tutto il volto: «Sono entrata in contatto con la cultura hawaiana 24 anni fa e ho iniziato un percorso per risolvere situazioni difficili della mia vita. C’era un gruppo in Ticino che mi ha dato il primo input per conoscere la cultura millenaria delle Hawaii. Ho poi viaggiato nell’arcipelago per approfondire queste pratiche che ti fanno amare di più la tua terra, qualunque essa sia, ti portano a onorare ogni piccola cosa della vita e a vivere nel momento presente». Alle Hawaii Lorenza Manetti-Beltrami ha conosciuto vari maestri, ognuno dei quali le ha insegnato una chiave diversa per trovare energia vitale dentro di sé: il massaggio, le danze, le saggezze Ho’oponopono. I maestri le hanno detto: «Questo è quello che puoi imparare da noi, ma le piante devi conoscere quelle di casa tua». Lorenza ha dunque anche seguito una scuola di naturopatia sul nostro continente, ha approfondito la cultura hawaiana e ne è diventata maestra. Oggi ha aperto la propria scuola (in cui si apprendono tutte le discipline) e in più dà corsi di danza Hula e saggezze hawaiane. Lavora con bambini, adulti e anziani in collaborazione con il Decs e una casa per anziani. Le danze si chiamano Hula, che significa letteralmente «accrescimento del fuoco interiore». Erano usate – e in parte lo sono ancora – dai nativi delle isole

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vere nel momento presente. Attraverso la danza, inoltre, si possono esprimere i propri sentimenti e l’amore profondo per la natura e per la creazione. Essa porta anche a sviluppare l’autostima, a vincere la timidezza, a rafforzare la volontà, la coerenza e la perseveranza, a sviluppare immaginazione e creatività, a condividere con altri e ad avere un contatto con gli altri. Ballando si raccontano storie, proprio come nella Hula tradizionale. «I nativi amano la vita attraverso le loro danze, onorano e narrano le vicende degli eroi umani e divini, prendono spunto dalla mitologia e parlano di montagne, vulcani, dell’oceano, del sacro fiore Lehua. Non si entra in un campo religioso ma si riconosce bellezza e sacralità in ogni elemento della natura». La forza che possiamo sprigionare lamentandoci, mettendoci in tensione, viene qui liberata e lasciata scorrere in modo positivo e armonico. Per i più piccoli, che iniziano a partecipare dai quattro anni, ci sono corsi in palestra e nella natura, colonie estive e una giornata di porte aperte. «Anche con gli anziani funziona molto bene – prosegue Lorenza Manetti-Beltrami – sebbene molti non siano in grado di stare in piedi, balliamo con le braccia e raccontiamo una storia; attiviamo la parte cognitiva, lavoriamo sulla memoria, la concentrazione, la circolazione, il respiro e il benessere muscolare. L’essere umano ha bisogno talvolta di stare in gruppo, di agire all’unisono, di confrontarsi con gli altri per trovare amicizia e motivazione personale. Questo naturalmente vale per ogni età». Le danze polinesiane sono anche benefiche per l’agilità che richiedono, l’uso dei muscoli e perché vengono praticate a piedi nudi, il che favorisce gli impulsi nervosi e migliora le capacità coordinative e della postura del piede. «Nel nostro centro non si diventa hawaiani, ci si scopre esseri umani, parte di un territorio universale, e si apprezza di più ciò che si ha, il luogo al quale si appartiene. La danza del sacro fiore Lehua è una delle più importanti», racconta l’insegnante. «Questo fiore, rappresentativo delle Hawaii, è una specie vegetale presente solo su queste isole. Si dice sia il fiore preferito della dea Pélé, la dea del Vulcano. Ha la caratteristica di nascere direttamente dalla lava, creando nuova vita e permettendo l’attecchimento delle altre specie vegetali. È un simbolo della vita, della forza che si può sviluppare, nonostante l’humus in cui si cresce non sia dei più morbidi...».

Già da qualche tempo in diverse specializzazioni mediche si è cominciato a fare ricerca con una prospettiva di gender. Altrimenti detto, con un occhio di riguardo nei confronti del sesso e del genere del paziente. Recenti studi e ricerche hanno, infatti, dimostrato come donne e uomini non reagiscano solo differentemente alla presenza di una stessa malattia, ma come anche i sintomi di determinate patologie possano cambiare a seconda del sesso. Il Cardiocentro non si sottrae a questo trend ma anzi, ha saputo farne un nuovo punto di forza, grazie anche all’enorme casistica – in un territorio abbastanza ben delimitato come quello ticinese – di cui dispone (v. intervista alla cardiologa Elena Pasotti, «Azione» 11 giugno 2019). Ora, in un’ottica di trasparenza e nell’intento di offrire alla popolazione un’informazione più capillare, il Cardiocentro ha organizzato un convegno aperto al pubblico nel corso del quale, attraverso l’intervento di diversi specialisti, alle partecipanti e ai partecipanti sarà data l’occasione di approfondire la definizione della medicina di sesso e genere e le patologie ad essa correlate. Il convegno avrà luogo il prossimo 26 settembre. Al termine di un momento introduttivo durante il quale sarà presentato il concetto di medicina di genere con le sue implicazioni, seguito dall’illustrazione della modalità di partecipazione dei due sessi agli studi clinici, si passerà a una serie di interventi atti a comprendere le differenze tra uomo e donna nell’ambito delle malattie coronariche, delle aritmie e dello scompenso cardiaco. Cosa succede quando c’è un’insufficienza cardiaca in una donna? E cosa è esattamente la sindrome di TakoTsubo, anche detta «sindrome del cuore spezzato», che colpisce soprattutto le donne, e spesso viene sminuita? Il pubblico avrà modo di comprendere i modi a volte diversi in cui si manifestano determinate patologie cardiache o di scoprire l’esistenza di patologie che insorgono più sovente in uno dei due sessi. Il convegno rappresenta un importante punto di partenza per una comprensione reciproca più articolata, e quindi per una medicina individualizzata in grado di prevenire e curare meglio in un’ottica di totale inclusività. Dove e quando

Uomo e donna in cardiologia. Per una medicina delle differenze. 26 settembre 2019, Lugano, Auditorium Università della Svizzera italiana. Orari: 14.00-18.00.

Informazioni

Domenica 22 settembre dalle 9.30 al circolo velico di Agno ci sarà una giornata organizzata dall’Hawai’i Associazione Svizzera. Alle 15.00 si terrà uno spettacolo per bambini a tema. Contatti: tel. 079 621 64 14.

Il Cardiocentro di Lugano ha deciso di investire nella medicina di genere.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 settembre 2019 • N. 38

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Instabilità e democrazia Sono molti, ormai, gli studiosi che denunciano un progressivo indebolimento della democrazia. A giudizio di Giorgio Bocca, ad esempio, da anni si assiste a una graduale degenerazione della democrazia, riconoscibile in tutto il mondo occidentale. E sempre più spesso mi capita di pensare che in queste visioni pessimistiche c’è almeno qualcosa di vero. Gli stessi partiti politici mettono in rilievo le tendenze negative del percorso democratico quando si scambiano reciprocamente accuse di demagogia e populismo. Populismo: che cos’è? Ne dà una buona definizione lo storico Nicola Tranfaglia quando spiega che il populismo è la capacità di coinvolgere le masse «dicendo loro esattamente quello che vogliono sentirsi dire». Dunque, si tratta di rincorrere le aspirazioni o le pretese delle masse, lusingare l’elettorato, adularlo, promettere soluzioni miracolose: pensandoci bene, è la

stessa strategia della pubblicità che oggi domina i mercati. E in effetti, anche la propaganda politica assume sempre di più le caratteristiche della pubblicità: gli slogan – che devono essere avvincenti ed efficaci, come gli annunci pubblicitari – spesso prendono il posto dei discorsi e dei programmi, e questo starebbe a indicare che buona parte degli elettori presta più attenzione alle battute brevi che alle argomentazioni dettagliate; i cartelloni pubblicitari, con i volti dei candidati ritratti nelle pose migliori; i gadget distribuiti generosamente – dalle magliette ai cioccolatini e biscottini, alle creme per le mani, ai «santini», in voga da tempo, ma ora più attraenti grazie al fotoritocco, come si è visto nelle elezioni dello scorso aprile. E poi, naturalmente, occorre che il politico sia sempre collegato in rete, che pubblichi le proprie opinioni nel blog e collezioni tanti «mi piace» dai visitatori del sito.

In fondo, non c’è nulla di assolutamente nuovo in questa prassi di allettamento dell’elettorato: in democrazia la propaganda è ovvia e necessaria. La novità, invece, è data dal tono sempre più pubblicitario delle campagne elettorali e dalla massa sterminata delle comunicazioni propagandistiche. Credo che a questo crescendo contribuisca, oltre al dilagare della pubblicità di mercato, anche un altro fattore. Sappiamo tutti che mai, in nessun’altra epoca della sua storia, l’Occidente ha goduto di un livello di benessere collettivo analogo al nostro; le potenzialità e le comodità offerte dalle tecnologie attuali erano inimmaginabili nella prima e anche nella seconda rivoluzione industriale. Eppure, su questa condizione straordinariamente fortunata aleggiano ombre scure che, mi pare, si vanno moltiplicando: la crescente preoccupazione per i cambiamenti climatici; il rischio d’esaurimento

delle risorse energetiche; le incognite sul lavoro di domani, minacciato dalle macchine; la costante impennata dei premi delle casse malati e dei costi della sanità; il crescente divario tra ricchi e poveri e la crescita del numero di persone in assistenza pubblica; l’aumento costante delle spese statali a fini assistenziali; il timore di possibili gravi recessioni economiche; il rallentamento della crescita industriale e la crescente concorrenza di nuove grandi potenze economiche emergenti, dalla Cina all’India; l’ondata migratoria che potrebbe modificare profondamente la cultura occidentale… Le incognite inquietanti relative al futuro sono molte e chi vi si soffermi prova l’impressione di oscillare fra la terraferma e un dirupo; e di fronte a questi timori è naturale che l’elettorato chieda protezione e sicurezza. È ovvio quindi che il populismo politico si rafforzi grazie a queste paure –

come infatti si vede accadere in Paesi europei a noi vicini. Ed è altrettanto ovvio che i media avranno un’influenza crescente sulla democrazia e sulle scelte dei cittadini: la comunicazione di massa può, con uguale facilità, suscitare inquietudini ed esaltare protettori. Ma c’è un’altra forma di difesa contro le paure, antica quanto la ricerca di un salvatore: il divertimento, la distrazione in cose piacevoli con le quali sia possibile evadere dal presente. Infatti le «industrie dell’intrattenimento» sono in costante aumento: cinema, televisione, musica, sport, teatro, turismo, feste, giochi e spazi di ritrovo tendono a diventare le industrie principali, le più ricercate per un tempo libero che va dilatandosi progressivamente. Come prevede il filosofo Jacques Attali, «tutte le nazioni si organizzeranno intorno a queste due esigenze: proteggere e distrarre».

ricolma fino all’orlo che si muove lenta verso un centro circolare cavo, mi riempie insperatamente di pace. Le facciate colorate delle antiche case e il cielo nuvoloso si riflettono sul pelo dell’acqua, ancorando così quest’opera di Judd – «senza dubbio la sua più importante per uno spazio pubblico» secondo la Landschaftarchitekturführer Schweiz (2002) di Udo Weilacher e Peter Wullschleger – alla città. Città che all’epoca, per via dei costi elevati, rifiuta di finanziare il progetto Judd. Andato in porto il quattordici giugno 1997 senza essere mai stato visto da Judd – autore tra l’altro di un testo-chiave, Specific objects (1964), per capire la minimal art – grazie ai fondi racimolati dall’associazione locale Judd Project e la Judd Foundation di Marfa, in Texas. Parto per la fontana centrale. «La medesima distanza fra i quattro corpi ellittici sottolinea lo spazio della strada» scrive Felix Wettstein in Donald Judd, l’artista e la sua architettura apparso nel 1998 sulla rivista «Archi». Infatti alle mie spalle, laggiù all’altezza della pizze-

ria Don Camillo, seminascosta da un’altra bancarella un po’ oplàopp di gnocchi notata solo ora, c’è la quarta fontana. La Fischmädchenbrunnen del 1938, preservata da Judd nel suo progetto e dalla quale parte, riprendendo la forma ellittica della vasca in pietra dove su un piedistallo vigila una scultura di Max Reinhold Weber: una ragazza nuda in bronzo con un pesce in mano. Il movimento dell’acqua, scaturisce qui, nella seconda fontana di Judd un primo pomeriggio a metà settembre, da un elemento rialzato circolare al centro, connettendosi così antiteticamente alla prima della sequenza. Lì ricadeva al centro cavo, qui dal centro cavo emerge creando un pozzo traboccante. Il viaggio dell’acqua prosegue scendendo lentissima, senza quasi che ce se ne accorga, in una ulteriore ellisse ritagliata all’interno dove trasborda poi ai lati. La sequenza si completa con la terza fontana che è un semplice specchio d’acqua, il cui movimento è identico alla seconda ma lascia senza emozioni per la mancanza forse di un vero

gioco d’acqua. Comunque raffinata, benché tanti a prima vista potrebbero storcere il naso o liquidare il tutto con un’alzata di spalle e di certo non amata da molti come quella di Tinguely a Basilea, è la relazione tra le tre – come a Piazza Navona – fontane. Diverse sono le tre altezze che mostrano la leggera pendenza della via, dove fino al 1830 scorreva un ruscello cittadino purtroppo interrato per guadagnare strada, però il livello dell’acqua è lo stesso. Un risultato sopraffino che richiama in parte, consapevolmente o meno, quel ruscello perduto. Nelle calde giornate d’estate, non avendo fiumi né laghi come la vicina Zurigo, tutte e tre le fontane di Judd vengono utilizzate allegramente, non solo da bambini e ragazzi, come minimali piscine. Un pensionato che chiamano Beo viene qui tutte le sere, mettendosi a mollo nella prima, in compagnia di una cassa di birra. Riuscendo poi a imitare quasi tutti i cinguettii degli uccellini esotici nelle voliere del Lindengutpark meglio noto come Vögelipark.

mesi verrà inaugurato il nuovo Castello di Berlino. Ma anche nel viaggiare lungo i viali grigi semideserti vedendo passare qualche Trabant o nel riconoscere edifici un tempo simbolo della vita politica e sociale che oggi non ci sono più, cancellati per assecondare il progetto di demolizione dell’Architettura della Repubblica Democratica Tedesca. Un altro esempio è l’edificio in calcestruzzo Ahornblatt, foglia d’acero, sulla Fischerinsel, demolito nonostante le proteste, considerato negli anni 70 un invidiabile esempio di architettura moderna e originariamente concepito come luogo di incontro sociale con ristoranti e negozi. Come è possibile tutto questo? Per nove mesi più di 7’000 oggetti sono stati ricostruiti tridimensionalmente al computer. La base di lavoro l’hanno fornita materiale fotografico e video

storici. Più di 500 edifici scomparsi hanno ripreso forma digitale insieme a 2000 automobili che si muovono per più di 2 km. Tutto è curato nel dettaglio fino alle piccole macchie di ruggine sulle lanterne. Se avete in progetto un viaggio a Berlino non perdete questa opportunità che, tra l’altro, non è unica nel suo genere. Nel programma ufficiale per i festeggiamenti c’è MauAR un’applicazione in realtà aumentata che tramite smartphone o tablet ricostruisce il muro di Berlino per 160 km. E ci sono due personaggi, un ragazzo di Berlino est e una ragazza di Berlino ovest, che raccontano della costruzione del muro e delle sue conseguenze, ognuno dalla sua prospettiva. Un bel modo di raccontare e rivivere la storia perché chi c’era non dimentichi e chi è venuto dopo possa conoscere.

A due passi di Oliver Scharpf Le fontane di Judd a Winterthur La prima cosa da fare, se vi capita di andare a Winterthur, è provare la Giraffentorte. Specialità della pasticceria-confiserie Vollenweider a un paio di minuti appena dalla stazione, dove vado adesso in una piovigginosa giornata di fine estate. Un tortino-giraffa versione monodose, sistemato con cura in una bella scatola nera a pois bianchi sulla quale appoggio sopra un espresso da portare via, m’incammino così equipaggiato nella città vecchia. A zig zag, in sette minuti neanche, sfocio nella Steinberggasse. Strada che dal vero è più che altro una piazza oblunga: qui in mezzo, dall’inizio dell’estate 1997, ci sono le tre fontane ellittiche di Donald Judd (1928-1994). Artista morto a Manhattan e nato in Missouri, molto noto per le decine di scatole rettangolari in acciaio e plexiglas appese equidistanti, incolonnate, al muro. Un morso, sulla panchina all’altezza della prima delle fontane di Judd a Winterthur (439 m) che da qui come minimo passa inosservata, rivela perché quel curioso nome da safari. Pezzetti abbondanti di cioc-

colato nero maculano la pasta soffice del mini-cake glassato, mimando la pelliccia delle giraffe. Di una bontà indicibile risalente al 1943, l’ho scoperta per caso in occasione della mia prima visita fallimentare alle fontane di Judd l’agosto di tre anni fa. Per via dei preparativi per una quarantennale festa della musica di una settimana, due delle fontane, funeree senza acqua, erano tristemente utilizzate come palco e bar-buvette. Poi ha incominciato a piovere a dirotto e tra teloni e assi da cantiere, in quel clima ripugnante da pre-sagra, impossibile una perlustrazione per un reportage serio. Oggi ci sono solo un’ape che vende tapioca e una bancarella dei soliti prodotti italiani con giovane venditore-macchietta che offre invano un assaggio a tutti i passanti. Molte biciclette – segno un po’ distintivo di Winti come è chiamata amichevolmente dai suoi abitanti questa piccola città dal glorioso passato industriale tipo fonderia Sulzer – passano di qui. Mi avvicino all’ellissi di beton bocciardato: la superficie d’acqua

La società connessa di Natascha Fioretti Viaggiatori del tempo a Berlino Berlino si prepara a festeggiare i 30 anni dalla caduta del muro. Tante le iniziative in programma ma una davvero speciale che da qualche settimana tiene banco tra i media e stimola l’interesse dei berlinesi. Si tratta dell’idea di un giovane originario di Dresda che all’epoca della caduta del muro aveva appena 3 anni. Jonas Roth, fondatore e ideatore della startup TimeRide, ha realizzato quello che è un sogno umano ricorrente che ci accompagna e ci affascina sin da bambini: viaggiare nel tempo. Da oggi al numero 91 di Zimmestrasse, vicino a Checkpoint Charlie, nel museo di TimeRide, sarà possibile tornare indietro al 1980 e rivivere in un’esperienza immersiva le atmosfere e i colori del tempo, passare il famoso posto di controllo di Friedrichstrasse con tanto di guardie di confine che

chiedono di vedere il passaporto. Simbolo della guerra fredda e una delle più visitate mete turistiche della città, da oggi Checkpoint Charlie ha un’attrazione in più e non da poco. Quante volte visitando la città con amici in visita per la prima volta mi sono sentita chiedere «qui, dove ci troviamo ora, era est o ovest?» oppure «il muro dove passava? Qui c’era?». Difficile per chi non è mai stato nella città di Wim Wenders orientarsi e immaginarla ai tempi della DDR. In particolare oggi che è un cantiere a cielo aperto mentre tanti angoli e edifici ricostruiti hanno già assunto le sembianze architettoniche uniformi della modernità occidentale. Il cuore della Germania segnato dalle cicatrici del passato e, al tempo stesso, riempito da un giovane e ambizioso spirito cosmopolita di riscatto, vive da

tempo una profonda trasformazione alla ricerca di una nuova identità. Difficile, dunque, scorgere tracce del passato, soprattutto nei punti più turistici, se non fosse per gli occhiali virtuali di TimeRide che per un attimo ci immergono nella realtà virtuale degli anni 80 rispondendo a tante domande e curiosità. Tra le tante proposte c’è quella di un viaggio in bus, fedelmente ricostruito, di quindici minuti. Preso il biglietto si prende posto vicino al finestrino, si indossano gli occhiali virtuali e si parte dalla Friedrichstrasse per poi raggiungere Gendarmenmarkt, proseguire sulla Leipziger Strasse con i suoi monumentali edifici della DDR fino ad arrivare al monumentale Palazzo della Repubblica tutto in acciaio e le vetrate di color bronzo. Un bel contrasto se si pensa che qui tra pochi


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 settembre 2019 • N. 38

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Idee e acquisti per la settimana

Il picnic è il momento più bello di un’escursione

La famiglia Köhn di Wallisellen ama trascorrere il tempo libero nella natura facendo escursioni. «È il modo ottimale per mantenere l’equilibrio nella quotidianità e inoltre i bambini hanno la possibilità di sfogare la loro energia», ci racconta Volker Köhn. Con sé hanno sempre un picnic equilibrato: panini, succhi e frullati della Migros sono sempre accompagnati da carote fresche, cetrioli o frutta. E per mamma Cornelia non può mancare un’insalata di lenticchie. Che bello, ora che il tutto è ancora più a buon mercato.

Il prezzo del cestino della spesa Fr. 24.50 finora Fr. 27.85 Dopo le riduzioni di prezzo apportate, questo cestino della spesa costa Fr. 24.50. Il 5 agosto i clienti pagavano ancora Fr. 27.85. Il prezzo di singoli prodotti dipende dal peso.

Riduzioni di prezzo permanenti I prodotti preferiti sono più convenienti Recentemente il prezzo di molti dei prodotti preferiti dai clienti Migros, vale a dire i prodotti più venduti, è diventato più conveniente. Tra questi anche il succo d’ananas, sandwich, le banane e l’insalata di lenticchie bio. Settimanalmente se ne aggiungono altri. L’aspetto più interessante: non si tratta semplicemente di promozioni, bensì di riduzioni di prezzo permanenti. Facilmente riconoscibili Grazie al logo sotto illustrato, nei prossimi mesi sarà facile riconoscere a colpo d’occhio i sempre più numerosi prodotti preferiti che hanno beneficiato di una riduzione di prezzo permanente.

«Oltre ai panini, con noi portiamo sempre della frutta fresca». Cornelia Köhn

D’ora in poi alla Migros i tuoi soldi valgono ancora di più: nei prossimi mesi ribasseremo settimana per settimana in modo permanente i prezzi dei prodotti preferiti dai nostri clienti, continuando a investire nella comprovata qualità Migros.


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Ambiente e Benessere Un tuffo a Magdalena Bay Nuotare con i marlin striati: reportage dalla costa occidentale della Baja California Sur

L’alta Valle Lavizzara e la sua gente Una visita al gigante di Vacarisc, personaggio-simbolo di un mondo in profonda trasformazione

È nato il popolo Vanlife Si può vivere in un furgone trasformato in casa su ruote in continuo movimento?

pagina 25

pagina 19

Hockey o calcio In Europa, la passione per l’hockey su ghiaccio è superata di molto da quella del calcio pagina 27

pagina 26

Medico di famiglia, un mestiere da rivalutare Salute Anche nel nostro Cantone

è allarmante la penuria di membri in questa categoria di curanti

Maria Grazia Buletti Il medico tradizionale è una figura storicamente collocabile dalla metà del XIX secolo. Secondo lo storico Edward Shorter, che molto bene ne definisce il profilo nel suo libro La tormentata storia del rapporto medico-paziente (Feltrinelli, Milano, 1986), egli dedicava molto tempo alle visite domiciliari: «Nel 1800 un medico poteva visitare lo stesso paziente anche tre o quattro volte al giorno, trattenendosi a lungo in casa a parlare coi parenti». L’esame del malato iniziava con l’anamnesi: «Cioè la storia delle condizioni di salute e di vita di un malato e dei suoi precedenti famigliari». Ma nel lavoro del medico tradizionale l’anamnesi poteva essere molto lunga e dettagliata, risalendo, se necessario, «alla fanciullezza del paziente». Infatti: «Essa era importante, più della visita diretta, per stimare con maggiore precisione il grado di morbidezza delle fibre o quello di irritabilità dei nervi, a seconda del sistema sanitario adottato dal medico in questione». Tutto ciò anche perché, all’epoca, sembra non avessero molta importanza, al contrario di oggi, la visita organica e gli esami di laboratorio: «Quindi l’anamnesi era considerata fondamentale per diagnosi e terapia». In buona sostanza la storia ci ha consegnato il medico di famiglia come una delle categorie da sempre più rappresentate in letteratura per la capacità di curare e di prendersi cura. Un professionista più vicino al demiurgo che si possa avere: non in grado di dare la vita, ma con la capacità di allontanare la morte, spesso confessore ancor più potente di un sacerdote perché si può mentire al confessionale, ma non conviene mentire al proprio medico. E in fondo non è davvero cambiato, oggi, come conferma la dottoressa Sonia Lucini ci accoglie nel suo studio medico di Caslano dove, da specialista in medicina interna, svolge il ruolo di medico di famiglia. «Il ruolo del medico di famiglia è rimasto sostanzialmente invariato nel tempo: ci prendiamo cura globalmen-

te del paziente dal punto di vista prettamente fisico e da quello psicologico, accogliamo la persona malata o quella sana con necessità sociali, professionali o legate al lavoro, che le arrecano disagio, conosciamo profondamente il nostro paziente e il suo contesto sociofamigliare». La dottoressa Lucini cerca di aiutarci a capire in cosa consiste il suo lavoro contestualizzato al giorno d’oggi, in risposta al nostro tentativo di dare un senso all’incipiente allarme di penuria di medici di famiglia che si riscontra in Ticino e nel resto della Svizzera. Di fatto, uno studio della Supsi del 2012 indica che nei prossimi 20 anni servirebbero 16 nuovi camici bianchi l’anno. Mentre il presidente dell’associazione che riunisce i medici di famiglia in Ticino, Alberto Chiesa, indica che «in realtà non arriviamo nemmeno alla metà, e tra qualche anno a farne le spese saranno soprattutto le valli, dove l’emergenza medici di famiglia si farà sentire». Una professione alla base della quale, ci racconta la dottoressa Lucini, deve esistere una profonda vocazione: «Il carico di lavoro è piuttosto pesante, le giornate lunghe e vissute intensamente: siamo sollecitati dall’inizio alla fine con urgenze, imprevisti, telefonate da evadere e molta (direi accresciuta) burocrazia». La nostra interlocutrice ammette che bisogna avere un’ottima resistenza fisica, psicologica e una certa flessibilità per gestire tutto ciò che capita durante la giornata, senza dimenticare il sacrificio di parte del proprio tempo libero dedicato inevitabilmente a quel carico burocratico che non ci si può esimere di evadere. Eppure il sorriso della dottoressa anticipa l’idea della grande soddisfazione che il suo lavoro comporta: «Senza passione questo lavoro non si può proprio pensare, ma d’altronde anche gli studi di medicina necessitano di profonda vocazione, costanza e perseveranza. Ti ripagano i pazienti con le loro storie, i rapporti interpersonali che si creano, gli scambi quotidiani umani e di vita che sono spesso molto belli e appaganti».

La dottoressa Sonia Lucini di Caslano, specialista in medicina interna, medico di famiglia. (Stefano Spinelli)

Chiediamo se dispone di una ricetta per tamponare l’emergenza e fare del medico di famiglia un mestiere rivalutato. La dottoressa Lucini ritiene che una soluzione potrebbe essere quella di «creare negli studi dei posti di stage per i giovani medici: di primo acchito la nostra professione potrebbe essere vista come un ruolo minore in relazione all’ospedale dove si pensa ci siano molti più stimoli, ma non è così. Permettere ai giovani laureati di praticare in uno studio medico sarebbe per loro una bella opportunità per comprendere la varietà di questa professione». E già si stanno cercando soluzioni per far sì che il medico di famiglia riesca a occuparsi del suo stagista: «Per seguire bene un giovane collega che desidera avvicinarsi alla professione, il medico di famiglia dovrebbe verosimilmente adattare la propria attività lavorativa in funzione del giovane collega. Ma sarebbe ripagato dall’esperienza molto gratificante e

da uno scambio di conoscenze: esperienza in cambio di nozioni fresche del giovane collega». Incrementare il numero di medici di famiglia sul territorio significherebbe anche fare capo al Pronto Soccorso dell’ospedale solo per le urgenze del caso, come pure, per il paziente, essere indirizzato dallo specialista adeguato alla sua situazione, senza dispendio economico, di tempo e di energie: «Diventiamo un po’ registi e coordinatori delle cure: siamo chi ha in mano il quadro completo dello stato psico-fisico del nostro paziente, e ne coordina il piano di cure». Il medico di famiglia aiuta nella scelta dello specialista: «Da qual è più indicato andare? Ortopedico? Reumatologo? Neurologo? Tutto questo permette ai pazienti di arrivare subito e in modo efficace alla diagnosi e alla terapia più indicate, per la conoscenza che abbiamo dei nostri pazienti e della loro storia personale». Anche la relazione tra paziente e medico di famiglia

assume sfumature positive: «Si arriva a discorsi molto personali, quasi intimi, e si parla di temi importanti come la fine della vita, le direttive anticipate. Il rapporto umano crea sensazioni che trascendono dalla nostra professione». Questo, ci racconta la dottoressa, lascia un segno anche al medico che beneficia del privilegio di alcuni discorsi: «Uno scambio che ci arricchisce, insieme alla palese soddisfazione del paziente: tutto ciò gratifica e controbilancia anche i lati faticosi che d’altronde si vivono in tutte le professioni». Il medico di famiglia, ancora oggi, tanto può nell’ascolto e nella presa di coscienza: «Dinanzi ad alcune scelte dobbiamo sapere che non è sempre nostro compito consigliare, ma al paziente dobbiamo accompagnamento e ascolto». Grandi i vantaggi offerti da questa figura professionale che deve tornare a riprendere la centralità forse un po’ dispersa nella nostra società e nella politica sanitaria cantonale.


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Ambiente e Benessere

Bello, veloce e fosforescente Mondo sommerso Reportage dal Pacifico, lungo la costa della Baja California Sur,

per scoprire l’imprendibile marlin striato

Sabrina Belloni Lasciarsi affascinare e incuriosire dagli ecosistemi sconosciuti è facile, e non sorprende infatti l’interesse che suscitano i documentari focalizzati su queste tematiche. Servizi televisivi che a un certo punto potrebbero non più essere sufficienti per soddisfare le nostre curiosità. Io stessa ho ceduto al desiderio impellente di vivere in prima persona il magnifico mondo sommerso che prima ero solita approfondire solo con ricerche documentali specifiche. Ho iniziato a viaggiare, selezionando le mete in base al loro potenziale. Uno di questi affascinanti viaggi mi ha portata al largo della costa occidentale della Baja California Sur, in Messico, nell’Oceano Pacifico. Magdalena Bay è una destinazione abbastanza remota, anche se decisamente facile da raggiungere. Il lungo percorso è disseminato di cactus colonnari che si ergono come sentinelle a guardia di un territorio con luce abbagliante e acque turchesi, dove le dune sabbiose si estendono all’infinito fino all’orizzonte e conducono all’oceano. Si può visitare il Messico migliaia di volte, praticare centinaia di sport diversi, visitare antiche rovine e le località più mondane, ma si resterà comunque ben lontani dall’emozione unica e totalizzante di nuotare fianco a fianco di un gruppo di marlin striati (Kajikia audax), di leoni di mare, di pesci vela, di pellicani, di fregate di mare e altra fauna selvatica, che cooperano per inseguire e radunare i pesci foraggio (prevalentemente sardine), impazziti dal terrore e dal pathos della frenesia alimentare. Osservare con i propri occhi e la propria sensibilità la pura legge della natura, la legge della sopravvivenza e della selezione dei membri più forti della specie, che culmina con il lauto banchetto dei predatori a discapito delle prede terrorizzate dall’impossibilità di mettersi in salvo è qualcosa di impressionante. Particolarmente affascinanti sono i pesci con la forma allungata, preludio di specie pelagiche, con il corpo adattato a nuotare grandi distanze. Soggetti difficili, pesci velocissimi, schivi, perennemente all’erta, abituati a evitare qualsiasi interazione tranne nel periodo riproduttivo oppure per esigenze alimentari. I marlin striati sono predatori al vertice della catena alimentare, e vivono nell’oceano aperto. È una specie migratoria distribuita negli oceani tropicali, subtropicali e in acque temperate. All’inizio possono incuriosire soprattutto per la loro abilità di cambiare, alla velocità di un battito di ciglia, i colori della livrea, composta da 12-16 sezioni verticali. La loro consueta colorazione, tendenzialmente grigio-blu per confondersi nell’ambiente pelagico in cui trascorrono la maggior parte della

Un marlin striato (Tetrapturus audax) che si alimenta di sardine (Sardinops sagax), Magdalena Bay, Costa occidentale della Bassa California, Oceano Pacifico, Messico. Su www.azione.ch si trova una galleria fotografica più ampia. (Franco Banfi)

vita, improvvisamente diventa fosforescente o color lavanda, tramite la contrazione ed espansione dei cromatofori (speciali cellule pigmentate). Un’altra caratteristica affascinante è l’abilità di percorrere distanze immense e di accelerare sino alla velocità di 80 km/h, grazie alle caratteristiche anatomiche del loro corpo: soprattutto alla pinna caudale allungata, che può sferzare l’acqua libera, distante dalle turbolenze delle masse d’acqua generate dal movimento del corpo stesso. È il terzo pesce più veloce dopo il marlin blu (130 km/h) e il pesce vela (110 km/h). A causa del grande valore economico, questa specie è studiata da molti ricercatori e università, tramite diverse tipologie di marcatori (tag): dai semplici tag che si staccano dal corpo ed emergono tramite un galleggiante (misurano la distanza percorsa dalla cattura ed evidenziano i luoghi frequentati), ai più sofisticati con sistemi telemetrici. Oltre a queste modalità, la pesca ricreativa è stata fonte sostanziale di informazioni scientifiche poiché alcune centinaia di esemplari taggati sono liberati in acque dove si svolge questa tipologia di pesca. La cattura e rilascio è un evento traumatizzante per la vita dei pesci e spesso ne determina la morte; tuttavia si è rivelata un elemento sostanziale per la documentazione dei ricercatori e consente di analizzare gli aspetti ecologici e biologici delle specie catturate.

Un banco di sardine (Sardinops sagax). (Franco Banfi)

La distribuzione dei marlin striati nella colonna d’acqua (dalla superficie ai fondali) è determinata prevalentemente da tre condizioni oceanografiche: temperatura alla superficie, saturazione dell’ossigeno nella colonna d’acqua (poiché l’acqua marina salata è più viscosa e povera di ossigeno dell’aria) e la penetrazione della luce, nella parte più superficiale dell’oceano e nella zona epipelagica (sino a 200 metri di profondità dalla superficie). In termini di volume, è il bioma più esteso e solitamente assomiglia a un deserto. In

superficie, luogo privo di nascondigli e possibilità di camuffarsi, non c’è mai la garanzia di trovare animali perché le condizioni ambientali li rendono esposti ai predatori. I marlin striati, trovandosi ai vertici della catena alimentare, vivono invece in prevalenza nelle acque superficiali. Sono animali selvatici, veloci, schivi e ipersensibili. L’evoluzione ha adattato il loro corpo a vivere in questo ambiente impegnativo ed elettrizzante, con una livrea che si confonde magnificamente nell’ambiente. Per riuscire

Il marlin è un pesce molto adattabile. (Franco Banfi)

Puerto Magdalena, villaggio di pescatori, Bassa California, Messico. (Franco Banfi)

a percepirli dobbiamo abituarci alle loro condizioni; dobbiamo percepirne istintivamente la presenza e anticipare il momento in cui si rendono visibili, tanto sono veloci e schivi. Talvolta nella zona epipelagica, la colonna d’acqua è densa di microparticelle, costituite in buona parte da micro-bolle di aria o di sostanze naturali oleose alle quali si aggrappa il plancton per restare in superficie. Microscopici organismi dominati da fitoplankton, diatomee e dinoflagellati. Quando siamo fortunati, questi micro animali riflettono semplicemente la luce, così che l’acqua sembra lattiginosa, inscrutabile, come se ci fosse una fitta nebbia che occulta ogni sagoma in lontananza. I ricercatori hanno scoperto che i marlin trascorrono circa il 54 per cento della loro vita soprattutto fra zero e dieci metri dalla superficie, e in particolare nelle ore notturne. Essi tollerano male le temperature fredde e la carenza di ossigeno delle profondità più elevate, pertanto la loro distribuzione è maggiore nell’area che precede il termoclino (lo strato d’acqua che separa quella superficiale più calda, luminosa e ossigenata da quella più profonda, buia, ipossica e fredda). Superano il termoclino e si avventurano nelle acque più profonde per brevi periodi di tempo, quando cacciano o per evitare i predatori. I marlin striati, così come molti pesci a struttura ossea, hanno un rapido tasso di crescita (soprattutto nei primi due anni di vita) e un eccezionale ricambio cellulare (le cellule dei loro tessuti sono sostituite rapidamente), grazie alla capacità di trasportare in fretta ossigeno e nutrienti. Questa caratteristica consente loro una grande adattabilità. Fossili di pesci dai quali sono derivati gli attuali marlin sono stati rinvenuti sia in Europa sia in America del Nord e Centrale, in stratificazioni risalenti al Miocene (circa 12 milioni di anni or sono), quando il livello dei mari era ben maggiore di quello odierno. Si ritiene pertanto che la grande elasticità di questa specie faciliterà il loro adattamento ai recenti cambiamenti ambientali indotti dalle attività umane. Quale conseguenza del riscaldamento globale, probabilmente gli attuali stock ittici si sposteranno verso nord, andando a colonizzare territori finora inospitali.


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Idee e acquisti per la settimana

Stefan Früh, responsabile della macelleria nella filiale Migros di Rüschlikon, serve un cliente. I suggerimenti per la preparazione dell’agnello dell’alpe sono compresi nel servizio.

Gigot di agnello dell’alpe senz’osso TerraSuisse al banco, per 100 g Fr. 4.90

Costolette di agnello dell’alpe TerraSuisse al banco, per 100 g Fr. 5.50


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Agnello dell’alpe Disponibile alla Migros da subito e fino a circa metà ottobre

Agnello dell’alpe e protezione della natura Il macellaio taglia la carne davanti al cliente in base alle sue richieste.

È tempo di agnello dell’alpe Da metà settembre e fino a metà ottobre alla Migros è disponibile la carne fresca di agnello dell’alpe. Al banco a servizio della filiale di Rüschlikon, ZH, il responsabile della macelleria Stefan Früh è sempre pronto a dare consigli sulla preparazione di questa gustosa specialità

Il progetto agnello dell’alpe è stato promosso da Migros. Al progetto lavorano Micarna, IPSuisse e la Federazione svizzera d’allevamento ovino. L’estivazione sulle alpi viene controllata da IPSuisse. Ogni agnello dell’alpe è dotato di un marchio auricolare, affinché sia rintracciabile per quanto tempo e su quale alpe ha trascorso l’estate. L’allevamento degli agnelli dell’alpe sottostà all’Ordinanza federale sui prodotti di montagna e dell’alpe e si impegna a favore di una gestione rispettosa della natura e delle alpi.

Testo: Claudia Schmidt Foto: Paolo Dutto

«Costolette», è la risposta di Stefen Früh alla domanda sul suo taglio preferito di agnello dell’alpe. Cuoco diplomato, è responsabile della macelleria della filiale Migros Parkside a Rüschlikon. «Durante le giornate estive preparo volentieri le costolette di agnello dell’alpe al grill. Prima le marino con aglio, menta, prezzemolo, timo e olio di oliva», ci svela. Stefan Früh ha una formazione come

cuoco. Gli risulta dunque facile dare suggerimenti sulla preparazione della carne ai clienti del banco a servizio. Pochi sforzi per un manicaretto grandioso

«Per preparare l’Irish stew c’è bisogno di parecchio tempo, però non è necessario restare davanti ai fornelli mentre la carne cuoce», spiega Früh. Cosa rende

speciale la carne? «Si sente che gli animali hanno mangiato quotidianamente le molte e tenere erbe alpine». Al banco a servizio il macellaio propone gigot e costolette. «Nelle filiali che non hanno il banco macelleria si trova comunque una buona scelta al libero sevizio», rassicura. Così tutti hanno l’opportunità di gustare il piacere di questa carne.

Cosa rende così delicato il gusto della carne di agnello dell’alpe

Spezzatino di agnello dell’alpe senz’osso TerraSuisse imballato, per 100 g Fr. 3.30

Gigot di agnello dell’alpe senz’osso TerraSuisse imballato, per 100 g Fr. 4.80

Hamburger di agnello dell’alpe TerraSuisse imballato, per 100 g Fr. 1.80

Durante l’estivazione gli agnelli dell’alpe IP-Suisse si nutrono a discrezione di erbe di montagna e possono muoversi liberamente. L’allevamento all’aperto, adeguato alla specie e rispettoso della natura, consente di ottenere una carne di alta qualità. Un vantaggio per tutti: per gli animali, per gli allevatori e per i clienti.

Parte di

L’impegno Migros a favore della sostenibilità è da generazioni in anticipo sui tempi.


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Idee e acquisti per la settimana

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Ambiente e Benessere

Insalata di pasta con tacchino

Migusto La ricetta della settimana

Piatto unico Ingredienti per 4 persone: 400 g di pasta, ad es. trivelli · sale · 300 g di scaloppine di tacchino · sale alle erbe · 6 c d’olio di colza · 100 g di fagioli kidney in scatola · 150 g di champignon piccoli · 3 c di noci, ad es. noci di pecan · 3 c di capperi · 1 c di senape granulosa · 3 c d’aceto, ad es. di mele · 1 mazzetto di ravanelli · 2 rametti di basilico.

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

1. Lessate la pasta in abbondante acqua salata e scolatela al dente. Passatela sotto l’acqua fredda. 2. Condite le scaloppine di tacchino con sale alle erbe e rosolatele da entrambi i lati in poco olio per circa 7 minuti. 3. Estraetele dalla padella e mettetele da parte. Sciacquate i fagioli. Dimezzate gli champignon. Tritate grossolanamente le noci. Rosolate per alcuni minuti i fagioli, le noci e i funghi nel fondo di cottura della carne e mescolate tutto con la pasta. 4. Per la salsa, sciacquate i capperi con acqua fredda. Mescolateli con la senape, l’aceto e l’olio rimasto. Condite con sale alle erbe e condite la pasta con la salsa. 5. Tagliate le scaloppine a striscioline. Dimezzate i ravanelli, staccate le foglie di basilico dai rametti e distribuite tutto sull’insalata. Preparazione: circa 30 minuti. Per persona: circa 38 g di proteine, 25 g di grassi, 73 g di carboidrati, 690

kcal/2900 kJ.

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Ambiente e Benessere L’acquedotto di Canàa. Su www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica.

Il gigante di Vacarisc Itinerari Un’escursione tra storia e natura in alta Valle Lavizzara

Romano Venziani, testo e foto La pila frontale risveglia la notte. Ne penetra l’inquietante profondità con un cono di luce bianca che danza al ritmo dei passi, sorprendendo nuvole d’insetti storditi, subito inghiottiti dal buio tutt’attorno. Mi arrampico a fatica sul sentiero. Inciampo. «Maledetti tutti questi sassi» borbotto, pur sapendo che la colpa non è loro, ma di quel bicchierino di troppo, trangugiato nella cascina là sotto. «Però ne è valsa la pena» penso, aggiungendo alla cieca passi ai passi, mentre la cupola nera sopra di me è tutto un formicolare di stelle. Agosto 2001, alpe di Vacarisc, sopra Fusio, alta valle Lavizzara. Questa dovrebbe essere l’ultima stagione in cui, quassù, l’attività alpestre si affida ancora a pratiche tradizionali: mungitura a mano, latte trasportato a dorso di mulo, transumanza di corte in corte di uomini, animali e tutto l’armamentario necessario a fabbricare il formaggio. Norme più rigide e nuove esigenze in materia di produzione e lavorazione delle derrate alimentari non lasciano via d’uscita, o ci si adatta, rinnovando, o si chiude. A dire il vero trascorreranno ancora alcuni anni, prima che i Patriziati di Fusio e di Broglio, comproprietari dell’alpe, portino poi a termine i lavori: ristrutturazione dei fabbricati, nuovo caseificio, realizzazione dei lattodotti, acquisto del carro mobile di mungitura… Comunque, noi siamo qui, per documentare, in immagini, un modo di lavorare e di vivere secolare in via d’estinzione programmata. Rimarremo sul posto tre giorni, condividendo attimo dopo attimo le lunghe giornate dell’alpigiano, della sua famiglia e dei suoi pastori, immersi in una sorta di microcosmo in cui il tempo sembra essersi cristallizzato. Ci siamo sistemati per la prima notte. Luciano Paltenghi, il cameraman, dormirà nel vecchio cascinale di Corte di Canàa, ma quel rifugio fatiscente mi evoca visioni di vipere in agguato, per cui, con Luca Maccanetti, il tecnico del suono, montiamo una tenda su un dosso che guarda il tramonto avvolto in un gorgogliare di acque. Ed è lassù che stiamo salendo, dopo aver trascorso la serata nella cascina di Corte del Sasso, con Lino Tocalli, l’alpigiano, sua moglie Lorena e i loro figli. C’inerpichiamo su quest’oscura scala d’isoipse, tallonati dal profumo di polenta e formaggio, che ancora aleggia sull’erba umida dei pascoli. Ci aspettano poche ore di sonno, perché sull’alpe si alzano all’alba, quando nel cielo color di

seppia, che incomincia appena a schiarirsi in un viola-blu oltremare, indugiano ancora una miriade di stelle erranti e la falce esitante e nebulosa della luna. Agosto 2019. Non è la prima volta che ritorno su queste montagne e rivedo Lino. Camminare su quel sentiero ad anello tra Fusio e il lago Mognola, che occhieggia nel verde oltre i duemila metri di quota, è una boccata d’ossigeno per il corpo e per la mente. Lui, il «gigante buono di Vacarisc», come amo chiamarlo, mi aspetta a Corte del Sasso. Ho salutato Lorena, che passa l’estate giù in basso, a Vacarisc di Fuori, dove c’è il nuovo caseificio. «Non faticare a portar su il vino – mi dice – ne ha abbastanza». E mi riempie lo zaino con luganighe, formaggio e Mascarpìn, quello che c’è solo il Lino a farlo così, qui da noi, tenendo viva una tradizione del suo paese d’origine, la Valtellina. È un po’ come il Zincarlin della Valle di Muggio o il Mascarplin (o Mascarpel) della Val Bregaglia, che è però prodotto con il siero di latte vaccino e caprino, e ha un gusto delicato: meriterebbe anch’esso il riconoscimento di un presidio Slow Food. Da Vacarisc di Fuori, il sentiero si arrampica attorcigliandosi lungo un ripido pendio. Si devono superare cinquecento metri di dislivello, salendo dapprima in un bosco di larici diradato dal taglio degli alberi abbattuti o spezzati da una tempesta, e poi, da Corte di Mezzo, si continua attraverso pascoli frammisti a rocce e pianticelle tenaci. Dal costone che scende dal Piattello mi arriva un cling-clang metallico e diffuso di campanacci e, poco dopo, un branco di capre esce dalla boscaglia. Mi guardano di sottecchi e, fingendosi intente a brucare, mi seguono mostrando indifferenza, per poi ritrovarmele attorno annusanti e curiose quando raggiungo Corte del Sasso. Arrivano anche

i pastori, due ragazzotti valtellinesi e un altro giovane, che mi racconta della sua terra, la Moldavia romena, della sua storia, dei suoi splendidi monasteri dipinti, lamentandosi della scarsa considerazione che la sua popolazione gode nel resto del paese. Lino è sempre lo stesso. Uno spilungone con un cespuglio arruffato di capelli e un accenno di barba, che gl’incornicia il viso. Ricordo quando l’avevamo conosciuto, quell’estate della transumanza di tanti anni fa. Lo avevamo seguito mentre saliva verso l’ultimo corte, quello del Lago, incastonato tra le rocce e i pascoli che digradano specchiandosi nell’acqua scura del Mognola. Camminava sicuro a grandi falcate, reggendo sulle spalle, senza apparente fatica, la grande caldaia del formaggio, ancora calda dell’ultima casata, che, colpita dai raggi del primo sole, spargeva tutt’attorno sfavillanti guizzi di rame. Mi faceva pensare, divertito, ad Atlante, il titano gabbato da Ercole, costretto a trasportare al posto suo l’enorme peso della volta celeste. Lo seguivano i suoi aiutanti con le càdole straripanti di scar, spesùre, blètz, sarvìs, gli altri attrezzi del mestiere. Faceva una strana impressione, nella luce appena tiepida del mattino, quella curiosa processione, arcano rito di passaggio, che scandiva a intervalli regolari la vita dell’alpe e della sua gente. In cima all’erta si arriva a Corte di Canàa, che si distende a duemila metri in un’ampia conca glaciale coperta di fiori ed erbe palustri. Il Ri di Vacarisc vi disegna un intrico di rivoli trasparenti, le cui acque vengono raccolte in parte e convogliate a valle dal vecchio canale scolpito nella pietra, che porta il prezioso liquido ai corti più bassi, dove serviva, fino al 1957, ad abbeverare il bestiame e a irrigare i pascoli. È un’opera unica e sor-

prendente, oggi in parte restaurata, che gli alpigiani di quasi due secoli fa sono riusciti a realizzare cavando i blocchi dalle pareti sovrastanti con l’antica tecnica dei cunei di legno ed escogitando soluzioni ingegnose per superare con quei manufatti i passaggi più ripidi del pendio. A questo punto, il sentiero verso i corti di Sassina e del Lago scorre su un falsopiano di rocce levigate dai ghiacciai, da dove la vista si allarga su tutta la Lavizzara e un susseguirsi di cime lontane. Un paesaggio straordinario, sollevato a tratti dalle gibbosità dei grossi massi erratici, che galleggiano tra le macchie dei rododendri. E poi, ecco l’occhio cobalto del Mognola, che riflette un caleidoscopio d’immagini, cancellate di tanto in tanto dall’incresparsi della superficie accarezzata da un alito di vento. Poco più in alto, la cascina di Corte di Lago, un minuscolo rifugio addossato a uno splui. Lo distinguo appena, da lontano, confuso com’è nel mezzo di un’accozzaglia di massi grigi. Se non l’avessi visto con i miei occhi, farei fatica a immaginare che, fino a una decina di anni fa, Lino e coloro che l’hanno preceduto vivevano e facevano il formaggio, per un paio di settimane, dentro quell’antro buio. Ricordo la perplessità con cui mi ero guardato attorno la prima volta. Davanti all’entrata, la processione aveva deposto le sue reliquie, risciacquato gli attrezzi e la caldaia, che subito aveva trovato posto in un angolo, appesa alla catena del focolare. Le mucche si erano sparpagliate tra i sassi, brucando avidamente l’erba dei pascoli ancora intonsi, le capre si erano radunate ruminando, in attesa di essere munte. Più tardi, quando il mondo stava già tingendosi di rosso, erano arrivati lemme-lemme anche i maiali, che si erano messi a grufolare nei ristagni di fango in cerca di chissà quali ghiottonerie. Dopo la mungitura, Lino aveva dato inizio a quella misteriosa alchimia da cui prende vita il formaggio. Maneggiava con fare calmo e sicuro i suoi vecchi utensili, con l’occhio fisso alla caldaia, curvo sopra il fuoco che rischiarava la cascina popolando il buio di tremuli fantasmi, mentre il fumo danzava avvitandosi in volute soffici e luminescenti. Quando fu il momento, immerse le braccia fino al gomito nel liquido caldo e ne estrasse la cagliata, la ripose nelle forme, pigiandole con le sue manone da montanaro. Poi le sistemò sull’asse appeso alle travi e le lasciò lì a sgocciolare. «Ogni tanto penso che questo sia il secondo lavoro più vecchio del mondo – mi confessò il gigante di Vacarisc, mentre ce ne stavamo seduti di fuori – e un

po’ mi dispiace abbandonare questi gesti che mi legano alle origini. Ma ci dovremo adeguare… O si cambia o si chiude» aveva concluso, dopo un lungo silenzio, ed eravamo rimasti lì, con la schiena appoggiata alla cascina, a contemplare la notte che pascolava greggi di stelle nel buio sopra le montagne e il lago. Quel lago che oggi è tranquillo e silenzioso. Non un volo di libellula, non un guizzo di trota intaccano lo specchio immobile dell’acqua, che lo abbandona lentamente, per poi accarezzare i sassi affrettandosi e, infine, prendere vigore e buttarsi di sotto a capofitto a formare, con sbuffi vaporosi, una splendida cascata. Il sentiero l’accompagna, stordito dal suo scrosciare, scendendo ripido lungo il gradone roccioso fino a un ampio pianoro ricoperto di pascoli, quelli di Corte Mognola. Gli edifici sono stati riattati, mentre una piccola baita, cui è stato unicamente rifatto il tetto in piode, ha conservato il suo aspetto più primitivo. È la cascina della memoria, come informa la scritta su un’insegna rossa inchiodata alle travi. Con la ristrutturazione, una quindicina di anni fa, dell’alpe di VacariscMognola, i Patriziati di Fusio e di Broglio, oltre le migliorie apportate agli aspetti puramente produttivi, hanno voluto valorizzarne le componenti storico, culturali e turistiche, creando il sentiero didattico e questa cascina museo. La vecchia caldaia appesa al torn, qualche semplice attrezzo di lavoro e pochi oggetti della quotidianità, nella loro sconcertante (agli occhi di oggi) essenzialità, sono lì a testimoniare secoli di operosità e di vita, che hanno dato forma e sostanza all’esistenza delle comunità vissute nelle nostre vallate alpine. E poi ci sono le parole degli scrittori, Giuseppe Zoppi e Plinio Martini. Quest’ultimo, accanto al ricordo delle tribolazioni di quegli uomini e di quelle donne, dei cui sentimenti la nostra società ben poco conosce, concede uno spiraglio anche ai momenti di gioia. «La pioggia incessante, la tempesta e i fulmini, il freddo, la comparsa improvvisa della neve, la temuta siccità prolungata, la febbre che colpiva la mandria e guastava il latte, la caduta di una vacca nel burrone, la perdita e l’affannosa ricerca di un gruppo di capre indisciplinate, erano tutte disgrazie temute. Ma quando andava tutto bene, quella vita aveva pure i suoi angoli idillici». E tra questi, la condivisione, fosse anche inconsapevole, della straordinaria bellezza e della pace di questo sorprendente scenario racchiuso tra le nostre montagne.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 settembre 2019 • N. 38

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Ambiente e Benessere

Vanlife, più che una moda uno stile di vita

Leggende e cavalieri

Bussole Inviti a

letture per viaggiare

Viaggiatori d’Occidente È (ri)nata la cultura del viaggio «on the road»

Claudio Visentin Si può vivere in un furgone trasformato in una casa su ruote? Qualcuno ha cominciato a usarlo durante i weekend e le vacanze, per poi scoprire che può anche essere una soluzione permanente, semplificando radicalmente la propria vita e sbarazzandosi in un colpo solo di mutui e affitti. Da lì a sciogliere gli ormeggi poi il passo è breve, lasciando il lavoro e la propria città per abbracciare una vita di viaggi e libertà. Le storie di questi appassionati vanlifer si moltiplicano in rete (un’ampia scelta in www.mangiaviviviaggia. com), dove si cercano motivazioni e si scambiano consigli pratici. Ne volete ascoltare qualcuna? Eamon e Bec erano colleghi in una grande azienda di marketing di Toronto. Si conobbero lavorando a un progetto comune, ma solo la scelta di viaggiare insieme nel sud-est asiatico mise davvero le ali alla loro relazione. Al ritorno si resero subito conto che rientrare nella routine era impossibile. Da qui il licenziamento e una nuova partenza per Australia, India e Nepal, dove hanno scoperto una comune passione per il tè e hanno creato una piccola azienda in tema, gestita da remoto. Anna invece era una sedicenne americana che, a differenza dei suoi coetanei, non aveva nessuna voglia di indebitarsi per frequentare un college prestigioso. Il suo sogno ricorrente era girare il mondo con un van. Volere è potere: in due anni di lavori occasionali Anna ha risparmiato quasi quindicimila dollari. Con cinquemila dollari ha comprato un Chevy Gladiator del 1997, con altri tremila lo ha sistemato con le sue mani; appena compiuti diciott’anni, è partita per il suo primo lungo viaggio. Corey ed Emily invece volevano soprattutto fuggire dalle mura di un ufficio: da quattro anni viaggiano senza sosta in America con un van Volkswagen Westfalia del 1987, lavorando a di-

stanza come programmatori o autori di guide (wheresmyofficenow.com). Infine, Felix e Selma, una giovane coppia tedesca, nel 2016 hanno investito tutti i loro soldi nell’acquisto di uno scuolabus trasformato nella loro casa su ruote. Insieme al loro cane Rudi sono partiti dall’Alaska diretti in Argentina, attraverso tutto il continente americano. E anche se hanno dovuto fermarsi a Panama, a metà strada, è stato un grande viaggio. In seguito hanno venduto lo scuolabus e sono tornati in Germania. Hanno raccontato la loro esperienza nel documentario «Expedition Happiness» (disponibile su Netflix). Qualcuno si chiederà: perché un van? Perché non semplicemente un camper? Ovviamente il camper è più comodo, perché è stato progettato da professionisti con un utilizzo ottimale degli spazi; per esempio è possibile stare in piedi al suo interno e ha un bagno piccolo, ma degno di questo nome. Il camper si apprezza soprattutto quando ci si ferma per un periodo abbastanza lungo. Inoltre, è una scelta quasi obbligata se si lavora da remoto e quindi serve anche come ufficio. Ma anche il furgone ha le sue carte da giocare, soprattutto in movimento: costa meno, consuma meno, è più piccolo e quindi più facile da guidare. Permette di tenere una velocità media più elevata, si possono percorrere strade strette o ripide e con un po’ di fortuna si riesce a parcheggiare in città. Non da ultimo, può essere usato anche nella vita di tutti i giorni. La preferenza per il van viene naturale dove il clima mite permette di trascorrere buona parte della giornata all’aperto e poi dormire su un’amaca tesa tra due alberi. È quello che devono aver pensato due fotografi, Giulia e Giordano (in arte Giuli&Giordi), quando dopo anni di lavoro hanno deciso di partire con le loro due bambine, Agnese e Frida (meno di cinque anni in due) per un lungo viaggio nel sud

«Tintagel: ovvero dove la storia incontra la leggenda. Io di solito con le parole ci vado un po’ più cauto, però lo dice quell’insegna, prima della scalinata che si arrampica sulle scogliere, fino al castello. Dove la storia incontra la leggenda… Peccato non poterlo ripetere nella lingua degli antichi celti. Suonerebbe ancora meglio, sotto questo cielo del Nord, col vento che scompiglia i capelli e pare portare con sé le voci di chi non c’è più. Dove la storia incontra la leggenda: per questo sono a Tintagel…».

Viaggiare con il van non è come stare in camper. (Santiago Garza)

dell’Europa (Sardegna, Provenza, Spagna e Portogallo). Trascorrendo molte ore all’aperto, nonostante fossero in quattro (anzi in cinque al ritorno…), è bastato un vecchio Volkswagen attrezzato: quattro letti, un microbagno, un pannello solare per luce e ricarica dei telefoni, un serbatoio di acqua per cucinare. Ma dietro alla scelta di un van non ci sono solo motivazioni razionali. Certo la scelta di un vecchio furgone riduce il costo dell’acquisto e semplifica le riparazioni, in assenza di elettronica, ma esprime anche una chiara preferenza estetica vintage. Ovviamente il sogno è il leggendario Volkswagen Combi e non a caso l’utilizzo di un van è particolarmente diffuso in Germania; ma è perfetto anche un vecchio scuolabus americano simile al Magic Bus psichedelico guidato da Neal Cassady attraverso gli Stati Uniti nel 1964. Siste-

marlo da soli poi, in lunghe settimane di lavoro, è già parte dell’esperienza del viaggio. Vanlife è anche una moda, uno stile di vita e di viaggio, le cui radici affondano negli anni Sessanta, nel tempo degli hippie, quando una carovana di improbabili veicoli si spingeva verso Kathmandu e l’Oriente via terra, lungo l’Hippie Trail, in cerca di divertimento e illuminazione. Una volta conclusa quell’esperienza, alla fine degli anni Settanta, il testimone della vanlife passò ai surfisti, sempre in viaggio alla ricerca dell’estate senza fine e dell’onda perfetta, dalla California all’Australia, con le loro lunghe tavole infilate nei furgoni dopo aver rimosso il vetro posteriore. Poi il recente risveglio d’interesse. Perché c’è sempre qualcuno che si sente imprigionato nel posto fisso e nella vita quotidiana, c’è sempre qualcuno che chiama casa la strada.

Tintagel… Vi sembra di aver già sentito questo nome? In effetti il viaggio del nostro collaboratore Paolo Ciampi fu dapprima raccontato sulle pagine di «Azione» (edizione del 17 dicembre 2018), qualche mese fa; poi il passaggio a un libro, senza sforzo, quasi per naturale sviluppo. Si tratta del resto di una delle più grandi storie mai raccontate. Ci riporta a secoli oscuri, seguiti alla caduta dell’Impero romano, ma i suoi protagonisti brillano di una purissima luce interiore. Parla di un bambino cresciuto da un mago e destinato a diventare un re potente; del suo seguito di straordinari cavalieri, raccolti intorno a una Tavola rotonda; di come alcuni di loro partirono per trovare il Santo Graal, il calice usato da Gesù nell’Ultima cena. È soprattutto la storia di un’età di pace e di giustizia eternamente cercata, perduta, rimpianta, perché nulla dura davvero nel tempo. O forse invece qualcosa rimane: restano i racconti, diversi ogni volta che vengono ripetuti. E soprattutto restano i luoghi, tra Galles e Cornovaglia, battuti da vento e pioggia, avvolti dalla nebbia, trasformati dai secoli, ma ancora capaci di evocare quelle vicende smisurate, di soggiogare i cuori… / CV Bibliografia

Paolo Ciampi, In compagnia di Re Artù. In viaggio per Galles e Cornovaglia con leggende e cavalieri, Mursia, 2019, pp. 222, € 17.–. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Povero grande hockey

Sport Da disciplina di culto a Cenerentola, in particolare per ciò che riguarda i tornei internazionali

Giancarlo Dionisio È tornato l’hockey su ghiaccio. Quello che fa vibrare gli appassionati. Quello delle partite vere. Quello del campionato. Con i suoi derby, e le sue sfide storiche. Quello delle rinnovate speranze. Del Lugano, che vuole riscattare una stagione tribolata e mediocre. Dell’Ambrì-Piotta che, nonostante la partenza della stella Dominik Kubalik, desidera respirare ancora l’atmosfera dei play off. È finito il periodo delle pinocchiesche amichevoli, che difficilmente raccontano la verità. Messa da parte anche la Champions League, sia per chi, come ad esempio lo Zugo, può ancora guardare lontano, sia per chi, vedi i leventinesi, solo con un miracolo potrebbe proseguire nel cammino europeo. Da osservatore esterno si ha l’impressione che la Champions League abbia un’importanza ridotta, rispetto a quella del campionato. Ciò capitava con le formule precedenti dei vari tornei europei. Idem oggi col nuovo formato inaugurato nella stagione 2014-2015. Sono convinto che ad Ambrì baratterebbero volentieri uno dei tre trofei europei in bacheca (due Continental Cup e una Supercoppa), con un trionfo in campionato. Questo perché, al di là del pathos che trasmette il nostro massimo torneo nazionale, la Hockey Champions League è distante mille miglia, per prestigio e per monte premi, da quella del calcio. Per questa ragione mi sento di affermare che, al contrario, in casa Juventus venderebbero un paio degli ultimi otto scudetti conquistati consecutivamente, pur di avere un paio di coppe dalle grandi orecchie. Che dico un paio! Basterebbe una. Un trofeo che

Emoziona molto più un derby di una partita europea. (CdT - Putzu)

a Villar Perosa, sede della Vecchia Signora, manca dal 1996. Certo, il prestigio conta. Entrare nel Club delle squadre capaci di salire sul tetto d’Europa dà lustro alla società, e fa esplodere l’adrenalina dei tifosi. Ma oltre a ciò, a fregarsi le mani sono soprattutto i tesorieri. Nel calcio, la Champions League propone, per il prossimo triennio, cifre da sballo: un budget di 3,9 miliardi di franchi, 2,1 dei quali ridistribuiti come montepremi alle squadre. Chi vincerà l’atto conclusivo incasserà circa 90 milioni, oltre ovviamente agli introiti per le partite casalinghe e per il merchandising, che, più un club vince, più diventa lucrativo. In modo tutto sommato

«democratico» l’UEFA Champions League elargisce cifre interessanti anche alle squadre che non vincono. Ad esempio, lo Young Boys, eliminato nei cosiddetti play off, ha beneficiato di un premio di oltre 5 milioni di franchi. Se fosse approdato alla fase a gironi ne avrebbe ricevuti altri 17, oltre a 3 milioni per ogni vittoria, e 1 milione per ogni pareggio. Pensate quindi a quanto può aver guadagnato lo scorso anno la società bernese, grazie alla sua presenza in Europa, contrappuntata anche dal successo casalingo contro la Juventus. Accennavo sopra a una ridistribuzione democratica. Evidentemente tutto va relativizzato. Si tratta di una democrazia fra grandi, fra ricchi. Di

una spartizione che amplifica il divario economico fra i grandi club che calcano i palcoscenici europei, e tutti gli altri che ne sono esclusi. In Svizzera abbiamo assistito per un decennio, al ciclo del Basilea, che pur vendendo ogni anno le sue pedine migliori, riusciva a ricostituire una rosa molto forte per il campionato svizzero, proprio grazie al denaro guadagnato, oltre che con la vendita dei Big, con i premi elargiti dall’UEFA, con gli incassi al botteghino, e col merchandising. Sion, Lugano, Lucerna, Servette, eccetera, mettetevi il cuore in pace. Secondo questi presupposti, molto difficilmente riuscirete ad allestire una rosa in grado di farvi vincere il campionato,

come è capitato in passato. L’unica speranza è credere che, come si suol dire, la palla sia rotonda, e che, come è toccato al Leicester City tre anni fa in Premier League, l’Angelo del pallone possa magari baciare anche voi. Tutto ciò non accade, e non accadrà nell’immediato futuro, nell’hockey europeo, anche se dal 2022 sono previsti dei ritocchi verso l’alto. Come detto, il montepremi della Hockey Champions League è di 2,1 milioni di franchi. La squadra vincitrice incassa circa 350mila franchi, oltre agli introiti delle partite sul proprio ghiaccio. Se però aggiungiamo le spese di trasferta, volo e soggiorno, spesso in luoghi cari come la Scandinavia, o discosti, come l’Europa dell’Est, se ne deduce che, a conti fatti, in cassa rimangono gli spiccioli. Quanto al prestigio… beh, chi mi sa dire chi ha vinto l’ultima edizione, oppure qual è la squadra che si è imposta più volte? In compenso, ne sono certo, molti mi saprebbero citare il successo di quest’anno del Liverpool, o la tripletta del Real Madrid nel triennio precedente. E non vado oltre. Lecito quindi interrogarsi sui benefici ottenuti dal Lugano, lo scorso anno, e dall’Ambrì Piotta quest’anno. In Leventina, i conti sono ancora aperti. In casa bianconera, nonostante il superamento della fase a gironi e l’approdo agli ottavi di finale, si è usciti alla pari. Resta, forse, un unico beneficio. Le sfide europee sono partite vere, in cui ritmo, intensità e fisicità non mancano. L’ideale per preparare al meglio il campionato. Ma ciò vale, forse, per la primissima fase, poi sull’arco della lunga ed estenuante Regular Season, serviranno altri argomenti, altre munizioni.

Giochi

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Come si chiama questa farfalla e con quale altro nome è nota? Trova le risposte al termine del cruciverba, leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 7, 8, 7)

ORIZZONTALI 1. Un Roberto stilista 7. Un quinto di five 8. Elettroencefalogramma abbreviato 9. L’incitazionepersollevareungrossopeso 11. Rendono parenti i preti... 12. Isolotto tipico dell’Oceano Pacifico e Indiano 14. Il trasteverino... 15. Stato europeo 20. Simbolo chimico del sodio 22. Un pizzico di tabacco 24. Ricoveri per capre 25. Un rettile 28. Lo spagnolo... 29. Si ripete in un famoso ballo 30. Suono di campana 32. Il letto dei wagons 34. Altro nome di Cupido 35. Il famoso Carrisi VERTICALI 1. Preposizione articolata 2. Porzione arcuata di un organo 3. Abito in genere 4. Articolo 5. Incapaci di tradire 6. Sconosciuto 10. Parte dal ventricolo sinistro del cuore 13. Pianta aromatica 16. Le nonne di una volta 17. Un colore 18. È sbagliato metterlo prima di zero... 19. Assistente 21. Famosa schiava biblica 23. Congiunzione inglese 26. Primo cardinale italiano... 27. Spiazzo per polli 31. Gemelle in gonnella 33. Preposizione

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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PER RIFLETTERE – Frase di Benjamin Franklin: «I guai bussano alla porta ma…» Resto della frase: «… SENTENDO RIDERE SE LA DANNO A GAMBE». S E N S I O G G I D O P I E T A G C A R O S A T I R A R T O N E O S A N M E A B I T

T E N D O N I E N O L I F O V I E A R M A R M I R I A R A R O S E

U E R R E A S D I I E O G O I N N

I S E O N A S O

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Politica e Economia Impasse in politica estera Trump non riesce a impostare la strategia di disimpegno militare in Afghanistan che aveva promesso ai suoi elettori pagina 30

Conte ci riprova In Italia, la coalizione di governo fra M5S e PD ottiene la fiducia alla Camera e al Senato. Si inaugura una nuova stagione, sotto lo stesso presidente del Consiglio

Federali alle porte Manca un mese alle elezioni per il rinnovo delle Camere federali, la campagna è al culmine

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Al lavoro soddisfatti Secondo uno studio, in Svizzera la maggioranza lavora con piacere. E non è solo una questione di salario

pagina 38 Lo scambio di prigionieri è più che un successo d’immagine per il presidente ucraino Zelensky, nella foto a sinistra. (AFP)

Una Russia isolata apre all’Ucraina

Geopolitica Poco prima delle elezioni municipali in Russia, in cui le forze leali al presidente Putin hanno perso

molti seggi e consensi a Mosca, Zelensky e Putin si mettono d’accordo per un primo scambio di prigionieri

Anna Zafesova Due aerei partiti contemporaneamente da Kiev e da Mosca – i primi voli diretti in anni – con a bordo di ciascuno 35 prigionieri liberati dalle prigioni dei rispettivi Paesi: il primo grande scambio di ostaggi tra russi e ucraini in cinque anni di guerra avvenuto il 7 settembre scorso, ha assunto i contorni di un’operazione da spy story, accentuata dal fatto che le poche foto dei russi rientrati li mostravano con i volti coperti dalla sgranatura, che metteva ancora più in risalto i loro fisici scolpiti, da militari delle forze speciali. Il rimpatrio degli ucraini invece è diventato una festa nazionale, con il presidente Vladimir Zelensky che, dopo aver twittato «I nostri sono a casa!» è corso all’aeroporto ad abbracciarli. La liberazione dei 24 marinai militari ucraini sequestri dai russi nell’incidente dello stretto di Kerch, nel novembre scorso, del regista crimeano Oleg Sentsov – riconosciuto un detenuto politico e insignito dal Parlamento Europeo del Premio Sakharov – e di altri prigionieri era stata una promessa elettorale del nuovo presidente, e il loro ritorno a casa consolida ulteriormente la posizione di Zelensky, che in poco più di 100 giorni ha già conqui-

stato la maggioranza assoluta nella nuova Rada e nominato un nuovo governo senza concedere nulla all’opposizione. Resta da capire perché il Cremlino ha concesso a Zelensky una tale apertura di credito, considerando che il nuovo leader ucraino non sembra, nonostante le accuse dei suoi critici, incline a concedere qualcosa a Mosca: «Questo è il primo passo, poi proseguiremo a tracciare la linea di divisione tra le truppe nel Donbass, pezzo dopo pezzo, fino alla restituzione completa dei territori occupati dalla Russia», ha promesso. Un gesto di buona volontà per far ripartire il processo negoziale di Minsk con un partner meno ostile di Petro Poroshenko, è la spiegazione ufficiale dei portavoce del Cremlino. I giornali indipendenti hanno però indicato un altro aspetto della lunga e tormentata trattativa sullo scambio di prigionieri: Kiev è stata costretta a liberare Vladimir Zemakh, un guerrigliero separatista del Donbass considerato testimone chiave dell’abbattimento del Boeing malese nel luglio 2014, quando comandava un distaccamento missilistico russo. La magistratura olandese (la maggior parte delle 298 vittime sull’aereo partito da Amsterdam alla volta di Kuala-Lumpur era

dei Paesi Bassi) ha chiesto a Kiev di non estradare un testimone così prezioso, ma lo stesso Zelensky ha ammesso che senza Zemakh Mosca avrebbe cancellato lo scambio. Un’altra chiave di lettura dell’improvviso «favore» fatto da Vladimir Putin a Zelensky è da cercare nei risultati delle elezioni amministrative di domenica 8 settembre a Mosca, Pietroburgo e altre città russe. Nella capitale, gli oppositori hanno conquistato 22 seggi su 45, una maggioranza mancata per poche decine di voti nella Duma di Mosca: formalmente, una mancata vittoria che però i liberali e il loro leader Alexey Navalny festeggiano come un trionfo, dopo mesi di arresti, manifestazioni con centinaia di fermi, manganelli, perquisizioni e minacce agli attivisti. I candidati più forti di Navalny non hanno potuto nemmeno registrarsi nelle liste elettorali, espulsi con pretesti di vario genere. I brogli e i trucchi per manipolare il voto sono stati numerosi e documentati, ma nonostante questo i candidati del potere hanno subito in metà delle circoscrizioni una sonora sconfitta. A Pietroburgo il candidato governatore putiniano Beglov ha vinto per il rotto della cuffia, tra manipolazioni elettorali palesi, ma alcuni candidati liberali

sono riusciti a entrare nel parlamento cittadino. Merito della campagna di Navalny, svolta quasi interamente in Internet, feroce, chiara e ben organizzata, che alternava rivelazioni sulla corruzione dei candidati governativi – il capo del partito Russia Unita della capitale, Metelskij, ha perso dopo le rivelazioni sulla sua catena di alberghi di lusso in Austria – al cosiddetto «voto intelligente», un’invenzione di Navalny per convogliare lo scontento sull’oppositore con più chance. Una tattica che gli ha attirato molte critiche in quanto la maggioranza dei candidati indicati erano comunisti, ma che si è trasformata in un attacco senza precedenti alle istituzioni del regime. L’affluenza al voto è stata bassissima, intorno a un quinto degli aventi diritto quasi ovunque. La maggior parte dei russi ha votato con i piedi e, considerato che i sondaggi da mesi ormai registrano una caduta a picco della popolarità del Cremlino, gli spin-doctor governativi non hanno incitato a recarsi alle urne, preferendo manipolare lo zoccolo duro dei loro sostenitori, soprattutto dipendenti pubblici come insegnanti e burocrati. Gli esponenti di Russia Unita non hanno presentato nemmeno una lista, candidandosi tutti

come «indipendenti» per non mostrare nelle schede un logo che avrebbe suscitato solo odio. La risposta positiva degli elettori al «voto intelligente» di Navalny però ha mostrato che lo scontento da diffuso può diventare organizzato e guidato, e che il regime è vulnerabile agli strumenti della democrazia, nonostante sia limitata da censura e repressione poliziesca. E questo potrebbe spiegare anche l’improvvisa apertura verso l’Ucraina. La situazione domestica, con la crisi economica e uno scontento ormai a malapena gestibile, non permette a Putin di mantenere aperto un fronte di guerra. La retorica bellicosa, che negli anni precedenti aveva pagato elettoralmente, ora sembra suscitare soltanto rabbia, e le gesta «geopolitiche» appaiono un lusso. La riapertura del negoziato di Minsk con Zelensky, Macron e Merkel, con la possibile cooptazione di Trump come chiesto dal leader di Kiev, permetterebbe al Cremlino di concentrarsi sul fronte interno. Più che di nuove guerre Mosca ha oggi un bisogno disperato di uscire dall’isolamento internazionale, alleviare le sanzioni, attirare gli investimenti e riconquistare un consenso che permetta al regime di porsi degli obiettivi e non soltanto di lavorare per la propria sopravvivenza.


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Politica e Economia

L’Afghanistan non è un reality

Politica estera USA Trump cerca di mantenere le sue promesse di ritiro dai conflitti orientali ma la sua strategia

non ha successo e il disaccordo con il Consigliere per la sicurezza nazionale Bolton lo spinge a licenziarlo

Federico Rampini Non andavano più d’accordo su nulla, Donald Trump e il suo superfalco John Bolton. Afghanistan, Iran, Corea del Nord, Venezuela: ovunque Bolton avrebbe voluto un’America «imperiale», aggressiva e determinata, fino all’uso delle armi se necessario. Trump è fedele allo slogan America First che incarna l’anima di un’altra destra: isolazionista, ripiegata sui propri interessi materiali, protezionista, stufa di fare il gendarme del mondo, pronta a voltare le spalle anche ai propri alleati. Bolton appartiene all’era unipolare dopo la caduta del Muro di Berlino, l’atteggiamento di Trump ci rinvia alla memoria della destra che nel 1914 e nel 1940 si opponeva all’ingresso dell’America nei conflitti altrui. Due destre lontane un secolo fra loro. Bolton divenne una celebrity ai tempi in cui i neoconservatori ispiravano la politica estera di George W. Bush, progettavano l’invasione dell’Iraq (2003) e poi sognavano anche quella dell’Iran. Falchi sì ma globalisti. Bolton, molto più del pittoresco Steve Bannon, poteva fare da punto di riferimento per i sovranisti del mondo intero, da Salvini a Orban a Bolsonaro. Unilateralista ma capace di pensiero strategico, Bolton aveva conquistato alleanze tattiche con alcuni dei vertici del Pentagono. Per esempio nell’ostacolare il ritiro totale delle truppe Usa dall’Afghanistan. Oppure nel resistere alla tentazione di altri summit-burla fra Trump e Kim Jong Un, col nordcoreano che continua imperterrito i suoi test missilistici e dà zero garanzie sul nucleare. Su altri temi i militari sono decisamente più cauti, Bolton è l’uomo delle fughe in avanti come ai tempi di Dick Cheney e Donald Rumsfeld: voleva usare maniere forti contro l’Iran e contro Maduro in Venezuela. Quest’estate il presidente ci scherzava sopra: «Se fosse per Bolton avrei già dichiarato almeno un paio di guerre». Poi la voglia di scherzare gli è passata. Gli scontri più recenti fra i due sono stati furibondi sull’Afghanistan. Trump ha sperato fino a due settimane fa di orchestrare un clamoroso colpo di scena, un vertice a Camp David per siglare l’accordo coi talebani, e poi annunciare il ritiro di tutti i 14’000 soldati americani prima dell’anniversario dell’11 settembre. Bolton giocava d’intesa coi generali per dissuaderlo, 18 anni di guerra non gli sono bastati, la missione afghana resta incompiuta. È stato il disaccordo fatale, preludio al divorzio tra i due. Che hanno continuato a litigare a distanza, «you are fired!», «non mi hai licenziato tu, mi sono dimesso io». La cacciata del collaboratore caduto in disgrazia è ormai un classico di questa Amministrazione, è uno dei massimi godimenti per Trump. Gli ricorda il suo successo più bello, il reality-show The Apprentice, l’unico vero trionfo nella sua controversa carriera di businessman. La lista dei licenziati da questa Casa Bianca è impressionante, il ritmo delle porte girevoli è vortico-

so. Prima di Bolton sono spariti dalla scena ben tre generali, Kelly Mattis e McMaster. Segretari di Stato, ministri di Giustizia, capi della Cia, a tutti è toccato l’urlo «you are fired!». Il paradosso è che Trump si libera di un uomo considerato come pericoloso da gran parte dei governi mondiali, alleati o nemici. Sospiri di sollievo si sono sentiti ovunque. L’avventuriero Bolton disprezzava gli europei come pusillanimi. Non ebbe mai tentazioni russofile come il suo capo, anzi ne condannava i flirt con Putin. Puntava alla resa dei conti con la Cina prima che quest’ultima abbia superato il punto di non ritorno nella corsa al sorpasso sull’America. Trump si muove in un universo parallelo, da businessman che vuole solo portare a casa l’affare più redditizio, in tempi rapidi, e gloriarsene con gli elettori. Trump è felice di aumentare il budget della Difesa ma preferisce che i militari restino a casa, non li vuole in giro a rischiare la vita e sprecare i soldi del contribuente. Resta la domanda da un milione di dollari. Perché Trump scelse Bolton per un ruolo di primissima importanza, a dirigere quel National Security Council dove ci fu Henry Kissinger ai tempi della guerra del Vietnam e del disgelo Nixon-Mao? Perché, come già accadde coi tre generali, o con Rex Tillerson segretario di Stato, questo presidente così bravo a licenziare è un disastro al momento di assumere? La risposta è chiara. Trump continua a scegliere gli uomini sbagliati perché quelli che la pensano come lui scarseggiano, nelle alte sfere. L’establishment di destra storicamente si forma ai piani alti del capitalismo, o nelle accademie militari, o nei think tank sovvenzionati dai miliardari. Esiste un establishment di destra, ma è una destra globalista. I chief executive, i generali, i teorici della deregulation economica, affondano le radici nella rivoluzione neoliberista di Ronald Reagan, nell’escalation del riarmo con l’Unione sovietica. È tutta gente che pensa in grande, vuole un mondo soggetto alla Pax Americana, alle priorità di Washington. La ritirata strategica di Trump è popolare nella pancia di un’America profonda che non esprime élite, e deve fidarsi dell’istinto dello showman. Donald Trump voleva celebrare il 18esimo anniversario dell’11 settembre 2001 con un annuncio clamoroso, e una sceneggiatura spettacolare. Avrebbe fatto volare in gran segreto il presidente afghano e i capi talebani nel ritiro «strategico» di Camp David, per siglare la pace tra di loro. E quindi regalare agli americani il ritiro totale e definitivo delle loro truppe: 14’000 soldati a casa in 16 mesi, di cui 5000 rimpatriati subito. Lui stesso ha dovuto ripensarci, e in un solo tweet ha offerto due scoop clamorosi. Primo, annunciando quel summit di cui non si sapeva nulla. Secondo, cancellandolo. Mancano le condizioni, ha spiegato, dopo la recrudescenza di attentati, le stragi di civili, e l’uccisione di un militare Usa. Era una scommessa azzardata,

John Bolton, sostenitore di un atteggiamento più aggressivo in politica estera. (Keystone)

la sua. Trump aveva deciso di fidarsi dell’ottimismo dell’inviato speciale Usa, Zalmay Khalilzad, che conduceva i negoziati sul terreno neutrale di Doha (Qatar) con la delegazione talebana. Khalilzad aveva detto che ormai era stato raggiunto «un accordo di principio». Ivi compreso sull’elemento decisivo per gli americani: la garanzia da parte dei talebani che mai più sosterranno attentati sul territorio degli Stati Uniti; che cioè non ci sarà un bis dell’11 settembre quando il capo di Al Qaeda Osama Bin Laden organizzò l’attacco proprio dalla sua base afghana. Ma evidentemente quella garanzia non si estendeva all’Afghanistan stesso, dove al contrario i talebani hanno scatenato una nuova escalation di violenze. Remava contro anche il governo di Kabul, refrattario soprattutto alla concessione sulla liberazione di migliaia di ex terroristi o guerriglieri detenuti. Infine c’era lo scetticismo del Pentagono. I generali Usa continuano a pensare che andarsene dall’Afghanistan oggi significherà doverci ritornare in futuro: quando i talebani lo avranno riconquistato in toto, in una delle loro continue rivincite, e torneranno a minacciare gli interessi vitali degli Stati Uniti. Dopo Barack Obama anche Trump dunque viene colpito dalla maledizione afghana. La guerra più lunga

nella storia degli Stati Uniti, ormai durata 18 anni (più del Vietnam e della seconda guerra mondiale messe assieme), rischia di non concludersi neanche sotto la sua Amministrazione. Obama aveva promesso un ritiro quasi totale delle truppe ma dovette piegarsi alle pressioni del Pentagono che gli impose un «surge», un potenziamento dell’intervento: che comunque non bastò a sconfiggere i talebani. Trump ne aveva fatto un impegno della campagna elettorale nel 2016: via dall’Afghanistan. Ha creduto di riuscirci. Ancora poche settimane fa i colloqui bilaterali tra la delegazione americana e i rappresentanti dei talebani sembravano avviati a una conclusione positiva. C’erano ostacoli grossi, anzitutto l’opposizione del governo in carica a Kabul contrario a condividere il potere con i suoi nemici storici, ma anche troppo debole nel controllo del territorio. Washington sperava di imporre l’accordo al presidente Ghani con la sua forza di pressione e un po’ di aiuti supplementari. Poi sono intervenute le stragi a ripetizione, rivendicate dagli stessi talebani. Per Trump è un punto d’onore chiudere le guerre straniere, ritirando truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan. America First è uno slogan che non esprime soltanto il protezionismo eco-

nomico e il nazionalismo unilaterale, Trump ha sempre rifiutato il ruolo di «gendarme mondiale». Questo spiega il suo atteggiamento anche in Siria, nonché la riluttanza a interventi militari in Venezuela o in Iran. Il ritiro totale dall’Afghanistan non piaceva ai suoi generali ma neppure a una parte della sinistra, per ragioni umanitarie: il timore che una coalizione di governo fra Ghani e i talebani ricacci indietro molte conquiste, riguardo ai diritti delle donne e alla scolarità delle ragazze. Trump sognava un colpo di scena clamoroso, sul modello dei suoi vertici con Kim Jong un. (Anche quelli, peraltro, forieri di molte delusioni). Ora deve rassegnarsi: l’Afghanistan probabilmente sarà una delle sue promesse mancate, un argomento in meno da presentare agli elettori nella campagna per un secondo mandato. La tomba degli imperi, è stato definito l’Afghanistan, per le difficoltà incontrate da quello arabo nell’ottavo secolo, da quello britannico nell’Ottocento, e dall’Unione sovietica dopo l’invasione del 1979. Per la verità altri invasori ebbero più successo, in particolare i mongoli. Gli americani si trovano impantanati in un conflitto molto ridimensionato come numero di soldati sul terreno rispetto al 2001-2014, però «open ended»: non se ne vede la fine. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

L’abbraccio degli ex nemici

Conte 2 Supera lo scoglio della fiducia in Parlamento il nuovo governo italiano di coalizione con Movimento 5 Stelle

e Partito Democratico, guidato dal primo ministro uscente

Alfredo Venturi Prima di tutto Giuseppe Conte ci tiene a correggere lo stile, prendendo le distanze dagli eccessi verbali di Matteo Salvini: il nostro linguaggio sarà mite, assicura, perché «l’azione non si misura con l’arroganza delle parole». Scrollandosi di dosso la livrea giallo-verde nella Camera dei deputati assordata dai clamori leghisti, il presidente del Consiglio offre della sua reincarnazione giallo-rossa un’immagine pacatamente riformista. La sua metamorfosi passa attraverso le puntualizzazioni sulla politica estera del governo nascente, non più filorusso ma euro-atlantico, sui temi nevralgici della sicurezza e dei migranti, con l’impegno a correggere il famigerato decreto bis, sul delicato rapporto fra sovranità e sovranismo: «difendere l’interesse nazionale non significa abbandonarsi a sterili ripiegamenti isolazionistici». Il giorno dopo, rispondendo in Senato a un duro attacco di Salvini in un’atmosfera sovreccitata, usa un linguaggio un po’ meno mite di quello promesso. Ci si accusa di tradimento e attaccamento alle poltrone? Traditori siete voi, che avete fato saltare il tavolo per andare a votare, e a che scopo, se non per ottenere più poltrone? Traditore è chi chiede pieni poteri e pretende di dettare l’agenda della politica! Durante la seduta alla Camera un’affollata manifestazione riempie la piazza antistante, con Giorgia Meloni leader dei Fratelli d’Italia che accusa il «governo dei perdenti» (il Partito democratico sconfitto alle elezioni e il Movimento cinque stelle crollato nei sondaggi), e Matteo Salvini con l’immancabile rosario fra le dita che proclama: siamo noi la vera Italia, non voi che avete ribaltato il governo perché avevate paura del giudizio degli elettori... La folla rumoreggia e applaude, qualcuno leva il braccio nel saluto fascista. Salvini è visibilmente furioso per l’involontario harakiri nato dalla sopravvalutazione di se stesso e dal delirio di onnipotenza ispirato dai bagni di folla sulle spiagge d’Italia. Aveva aperto la crisi convinto che si sarebbero anticipate le elezioni e la Lega avrebbe fatto incetta di voti, ma non è andata così. Sa di avere commesso alcuni errori imperdonabili per un politico, dimenticando che nel parlamento in carica il rapporto di forze fra Lega e Cinquestelle avvantaggia questi ultimi, e che un Pd in astinenza da potere poteva facilmente cedere all’inopinata alleanza con i grillini. Infine che molti

Da sinistra, il nuovo ministro degli interni Luciana Lamorgese (tecnico), Paola de Micheli (infrastrutture e trasporti, PD), il premier Giuseppe Conte e Luigi Di Maio (Esteri, M5S), durante il dibattito al Senato. (Keystone)

aspettavano un’occasione per liberarsi di lui. E così, con il sapiente pilotaggio del presidente della repubblica Sergio Mattarella, che non se la sentiva di sciogliere anticipatamente le Camere, ha preso il via il governo che rilancerà i legami con la Nato e l’Unione europea. A Bruxelles, dove l’uscita di scena di Salvini è stata salutata con sollievo, spira un’aria nuova, forse è finita la stagione dell’austerità fine a se stessa, le istituzioni comunitarie sembrano disposte a concedere alle felpate sollecitazioni di Conte quella flessibilità che avevano negato alle minacce del capo leghista. Il presidente parla di un europeismo convinto ma critico, volto a fare evolvere l’Unione, per esempio migliorando il patto di stabilità. Questa nuova fase dei rapporti fra Roma e Bruxelles è concretizzata dalla nomina di Paolo Gentiloni, l’ex capo del governo scelto a rappresentare l’Italia nella

Commissione europea, responsabile per gli affari economici. La nuova presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha superato le perplessità dei paesi del nord, scettici di fronte alla prospettiva di un italiano al timone della politica finanziaria, dunque Gentiloni succede al commissario francese Pierre Moscovici nel ruolo più delicato in seno all’esecutivo europeo. Ma dovrà vedersela con il «rigorista» lettone Valdis Dombrovskis, vicepresidente esecutivo con delega all’economia. Tutto questo secondo i critici del Conte due, soprattutto i leghisti inferociti per il «voltafaccia» del presidente e dei Cinquestelle, non è che vassallaggio nei confronti dell’Europa e dei poteri forti. Intanto i mercati salutano la novità: in borsa la domanda supera l’offerta e lo spread, il differenziale fra il rendimento dei titoli di Stato italiani e i tedeschi, scende a livelli accettabili,

rendendo un po’ meglio governabile l’immenso debito pubblico che grava sui destini del paese. Ci sono anche altri indici in movimento, sono quelli che misurano per via demoscopica l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti dei partiti. La Lega rimane in testa, ma paga l’infortunio di Salvini invertendo la tendenza progressiva e perdendo in un mese tre punti percentuali. I Cinquestelle recuperano qualche punto rispetto al calo costante che si registrava da tempo, preceduti di poco dal Pd. Altro elemento di spicco, il gradimento personale di Conte ha superato quello di Salvini, ed è secondo soltanto alla straripante popolarità del capo dello Stato Mattarella. È naturale chiedersi, come sempre quando un nuovo governo nasce sui colli di Roma, quanto durerà. È fuori discussione che i due soci della nuova maggioranza (anzi tre, c’è anche la formazione di sinistra Liberi e uguali)

hanno fatto un matrimonio d’interesse, non certo d’amore. Infatti sono tante e profonde le differenze di visione e di approccio ai problemi, anche se il veterano Silvio Berlusconi li accomuna sotto l’etichetta di «comunisti». Non si può dimenticare che Nicola Zingaretti, segretario del Pd, fino a pochi giorni prima della laboriosa trattativa con i Cinquestelle si dichiarava contrario a questa possibilità, optando per il voto anticipato. Né che Matteo Renzi, l’ex presidente che ha voluto il Conte due per evitare le elezioni e il conseguente inevitabile ridimensionamento della pattuglia di parlamentari a lui fedeli, proclamava a suo tempo che mai e poi mai avrebbe accettato di governare in compagnia dei grillini. Molti prevedono che Renzi cercherà di consolidare il suo gruppo, magari fondando un partito con una sorta di separazione consensuale dal Pd resa praticabile da una correzione in senso proporzionale della normativa sul voto, e una volta pronto ad affrontare le elezioni staccherà la spina al governo. Contro la prospettiva di una legge elettorale fondata sul sistema proporzionale si scaglia Salvini, le cui fortune si fondano sul maggioritario: la progettata riforma secondo lui è un ulteriore complotto anti-Lega dei «traditori». Mentre in Senato volano parole pesanti fra il capo leghista e il riciclato presidente del consiglio, accanto a Conte siede Luigi Di Maio, altra fonte di grattacapi per il presidente. Nel proposito di risalire la china dopo avere registrato una crescente impopolarità nella base grillina, il nuovo titolare degli esteri ha convocato i ministri Cinquestelle alla Farnesina. L’iniziativa è apparsa come l’avvio di una prassi di coordinamento in palese contrasto con le prerogative del presidente. A proposito di Di Maio, che ha dovuto rinunciare a succedere a se stesso come vicepresidente e a Salvini come ministro dell’interno, la sua nomina agli esteri ha suscitato qualche commento ironico. Non è forse l’uomo che provocò l’incidente diplomatico con la Francia incontrando, lui vicepresidente del Consiglio di un paese alleato e amico, il più esagitato fra i capi dei gilets jaunes e suscitando l’ira del presidente Emmanuel Macron? Per tacere di alcune memorabili gaffes in materia di conoscenze geopolitiche, o dell’avventuroso sostegno all’iniziativa cinese, implicitamente anti-occidentale e anti-europea, denominata nuova via della seta. Annuncio pubblicitario


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Politica e Economia

Il pugno alzato di Israele

Florentin Il quartiere ribelle di Tel Aviv, dove ogni stereotipo sullo Stato ebraico si infrange sui muri

cosparsi di graffiti – Una visita alla vigilia delle elezioni parlamentari di martedì 17 settembre

Jonas Marti Tel Aviv è una bolla, dicono. Perché tutto quello che accade qui è diverso da ciò che succede nel resto di Israele. Ma se Tel Aviv è «The Bubble», allora il suo quartiere Florentin è molto di più. Tra le sue strade sgargianti di graffiti può addirittura accadere che le cose accadano al contrario. Un esempio? Nelle ultime elezioni israeliane di aprile, Florentin è stata l’unica circoscrizione del Paese in cui i partiti di sinistra hanno preso più del 70% dei voti. Un caso unico e in netta controtendenza nella complicata geografia politica dello Stato ebraico, che ha visto invece crescere quasi ovunque il blocco delle destre nazionaliste e religiose. Florentin il quartiere ribelle. Florentin il quartiere bohémien. Florentin il quartiere più hipster del mondo. Dove si guarda con sfiducia alle politiche del governo di Benjamin Netanyahu e dove le tensioni mediorientali, a differenza del resto del Paese, risuonano come un’eco lontana. Qui può addirittura sembrare di non essere nemmeno nello Stato ebraico, quando appiccicato a un muro vedi il manifesto di un dj-set in discoteca, intitolato «The Arabs do it better», «gli arabi lo fanno meglio». Quella di Florentin è la storia di un quartiere da sempre abitato dalle classi più emarginate della società israeliana, cresciuto negli anni 50 dopo la creazione di Israele, grazie all’arrivo di operai dalla Grecia e dalla Bulgaria. Braccia,

e mani abituate a stringersi in pugno, lavoratori tradizionalmente socialisti, se non addirittura comunisti. Un retaggio politico che è rimasto. Su alcuni balconi oggi sventola la bandiera rossa e nera dell’Antifaschistische Aktion, il collettivo antifascista internazionale. Un simbolo legato anche alla squadra di calcio locale, l’Hapoel Tel Aviv, di cui Florentin è da sempre la roccaforte. I suoi tifosi, schierati politicamente a sinistra, sono conosciuti per i loro cori in favore della pace tra israeliani e palestinesi. «Love Israel, hate racism» è lo slogan più famoso. Al bar Kiosko, in una delle strade centrali del quartiere, ci sono tanti piccoli Benjamin Netanyahu appesi a testa in giù sopra il bancone. Per Yetam Cohen, architetto di 46 anni e proprietario del locale, è un modo per resistere. Il suo locale, spremute d’arancia e musica a tutto volume del chitarrista nigerino Bombino, è «una casa per tutti coloro che credono che si possa ancora cambiare questo Paese». Nel suo bar, Yetam organizza dibattiti, invitando politici sia arabi che israeliani, propone conferenze, allestisce mostre denunciando i problemi concreti della società israeliana. «L’ultima la abbiamo smantellata proprio oggi: una esibizione fotografica sulla carenza di alloggi a bassa pigione. Florentin è sempre stata così: un luogo di speranza e di denuncia». Del resto il carattere battagliero del quartiere è su ogni muro, ad ogni angolo di strada. A Florentin ci sono migliaia e migliaia di graffiti. The Stre-

Su www.azione. ch una più ampia galleria fotografica. (Jonas Marti)

et Art of Tel Aviv, un’esposizione a cielo aperto, che oggi anche le guide turistiche invitano a visitare, con tanto di tour organizzati due sere a settimana. Graffiti che invitano a riflettere sulla contemporaneità israeliana: dalla giustizia sociale, alle divisioni tra arabi ed ebrei, al capitalismo, alla povertà. A fine anni 90 la televisione israeliana cominciò a trasmettere una serie televisiva dedicata a Florentin, che raccontava le difficoltà quotidiane di un gruppo di giovani del quartiere. La serie divenne ben presto un cult in Israele, e la fama di Florentin cambiò. Da quartiere dubbio e malfamato, oggi

Florentin è diventato un quartiere alla moda, dove fa tendenza vivere. Così negli ultimi anni i prezzi immobiliari hanno cominciato a crescere, e oggi Florentin è a rischio gentrificazione: si demoliscono e si ristrutturano le vecchie case, e si costruiscono nuovi appartamenti di alto standing, che pochi, qui, possono permettersi. Ma tra i marciapiedi sovrastati da coreografie multicolore, ai tavolini dei bar alternativi, tra negozi vegan e monopattini elettrici, il fascino di Florentin attira ancora giovani da tutto il Paese. Come Yael, 30 anni, fotografa di matrimoni, che due anni fa si è trasferi-

ta qui fa da Bet Shemesh, una cittadina nel centro di Israele. Nel quartiere ha trovato un’atmosfera più rilassata e un modo di vivere più aperto e inclusivo. «Noi israeliani vogliamo solo appartenere a un paese normale, e qui ci riusciamo meglio che nel resto di Israele». Una Israele dentro Israele è Florentin. Un luogo prezioso, perché mostra l’esistenza di un altro paese, ben lontano dalle tensioni che si percepiscono sulle aspre colline degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e dagli stereotipi forgiati da decenni di conflitto israelo-palestinese. Forse, sperano tutti qui, si può ancora cambiare qualcosa.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 settembre 2019 • N. 38

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Politica e Economia

Tra slogan, manifesti e congiunzioni

Elezioni federali La campagna per il voto di rinnovo delle Camere federali del 20 ottobre raggiunge il suo culmine –

Questa volta i temi cari all’UDC, Europa e migrazione, non sono quelli più dibattuti

Marzio Rigonalli Manca poco più di un mese alle elezioni federali del 20 ottobre e la lotta tra i partiti politici per accaparrarsi le preferenze degli elettori si è intensificata. Ogni formazione ha definito una propria strategia, con slogan più o meno felici, con manifesti, alcuni simpatici, altri incuranti anche del buon gusto, con riunioni ed assemblee destinate a galvanizzare i propri sostenitori e simpatizzanti, e con tutta una serie di altre piccole iniziative, lanciate con l’intento di incidere sulla futura scelta elettorale. È un momento importante per la nostra democrazia. È un rituale che si ripete ogni 4 anni, arricchendosi ogni volta di nuove pensate e proposte. Un primo dato importante riguarda tutti coloro che hanno deciso di candidarsi. Rispetto a 4 anni fa, il numero dei candidati è aumentato in quasi tutti i cantoni. Sono più di 4000 gli uomini e le donne che gareggiano per i 200 posti che offre il Consiglio nazionale. Soltanto Ginevra e Neuchâtel non seguono questa tendenza e registrano una leggera flessione del numero di candidati. Anche il numero delle liste è in aumento in tutti i cantoni, con una sola eccezione, quella di Zurigo. Un secondo dato significativo è l’aumento della presenza femminile sulle liste elettorali. Rispetto al 2015 si è passati dal 35% al 43%. Siamo ancora lontani dalla parità, ma la direzione presa è quella giusta. Soltanto il canton Svitto registra una leggera flessione della presenza femminile. Questi dati rivelano un sicuro interesse per la politica nazionale ed i suoi riflessi sulle realtà regionali, un interesse che contrasta con le difficoltà che incontrano alcuni comuni a trovare volontari disposti ad assumere cariche pubbliche. Ogni partito è libero di stabilire il numero delle liste che intende presentare. Accanto alla lista principale si ritrovano le liste dei giovani, le liste degli oltre 60 anni e tante altre liste con svariate denominazioni. L’obiettivo ricercato è di raggiungere il maggior numero possibile di potenziali elettori. Un altro obiettivo è quello di guadagnare qualche voto in più, che talvolta può ri-

sultare determinante per l’assegnazione di un seggio, e che vien perseguito con le congiunzioni di liste e le sottocongiunzioni di liste. È un modo di procedere cui fanno ricorso soprattutto i piccoli partiti, ma che può rivelarsi interessante anche per i partiti maggiori. Numerose congiunzioni di liste sono state annunciate tra i partiti del centro e tra i partiti della sinistra. Poche, invece, sono le congiunzioni a destra. L’UDC ed il PLR vi hanno ricorso soltanto in tre cantoni, Argovia, Basilea Campagna e Turgovia, e non hanno trovato un accordo in altri casi, da ultimo nel canton Sciaffusa. I rapporti tra i due partiti che, con l’apporto della Lega, hanno detenuto la maggioranza nel Consiglio nazionale durante la legislatura che sta per concludersi, non sono per niente cordiali. Lo ha dimostrato anche il discusso manifesto dell’UDC, che ritrae una mela mangiata da diversi vermi e la scritta: «Lasciamo distruggere la Svizzera da sinistroidi e europeisti?» Tra i vermi c’è anche il PLR, che ha reagito, come d’altronde tutti gli altri partiti, criticando questo tipo di comunicazione e giudicandolo non degno di un partito democratico. I cambiamenti climatici, le loro cause ed i possibili rimedi, sono al centro della campagna elettorale. Il tema è in primo piano ormai da parecchio tempo ed ha influito sulle elezioni cantonali svoltesi in primavera, aumentando i consensi soprattutto per i verdi ed i verdi liberali. Poche settimane or sono il tema si è riproposto con forza dopo gli incendi nella foresta amazzonica e dopo la conclusione dell’accordo tra l’AELS (Svizzera, Islanda, Norvegia e Liechtenstein) ed il Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay). Gli incendi hanno evidenziato quanto importante siano la difesa e la protezione dell’ambiente. L’accordo con il Mercosur ha subito suscitato le opposizioni dei partiti di sinistra e dei contadini, che temono la concorrenza sleale di prodotti provenienti da paesi che operano in condizioni più vantaggiose e che non rispettano tutte le norme di protezione dell’ambiente in vigore in Europa. L’accordo verrà firmato fra qualche mese ed è ormai sicuro che la

Questo dell’UDC è senza dubbio il cartellone che più ha fatto discutere. (Keystone)

battaglia contro la sua ratificazione sarà molto accesa. Tutti i partiti politici, ad eccezione dell’UDC, cercano di dare alle questioni ambientali ampio spazio nei loro programmi, talvolta anche relegando in secondo piano temi importanti come i premi delle casse malati od il futuro dell’AVS. Gli uni, come i verdi ed i verdi liberali, lo fanno ormai da parecchi anni e godono di una certa credibilità; gli altri, come il PLR, hanno una storia attiva più recente e la loro svolta ecologica richiede di essere confermata da fatti concreti. L’orientamento dei partiti verso scelte che proteggano l’ambiente vien sollecitato fortemente dall’opinione pubblica, sia attraverso le pressioni che vengono esercitate da numerose associazioni, sia ricorrendo a metodi innovativi. Il quotidiano ginevrino «Le Temps», per esempio, ha inviato una carta ecologica a tutti i candidati romandi, chiedendo loro quali impegni sono disposti a prendere in difesa dell’ambiente. Le loro risposte

verranno conservate e saranno confrontate con le decisioni che i candidati di oggi prenderanno nella futura legislatura come consiglieri nazionali. L’UDC si distingue dagli altri partiti e punta sui nostri rapporti con l’Unione europea e sull’immigrazione, due temi sui quali il partito ha sempre centrato le sue campagne elettorali. Questa volta, però, i due temi non sono di stretta attualità, nonostante gli sforzi che Blocher e gli altri dirigenti stanno facendo con l’intento di ricreare l’atmosfera che regnava nel 1992, durante la campagna elettorale che portò alla votazione del 6 dicembre ed al rifiuto dell’accordo sullo Spazio economico europeo. Ed il vertice dell’UDC viene aiutato dai loro due consiglieri federali, Maurer e Parmelin, che in due diverse interviste hanno dichiarato ormai in fin di vita, se non per sempre almeno per quest’anno, l’accordo quadro con l’Ue, provocando numerose proteste in seno a diversi partiti. Le elezioni del 20 ottobre sono importanti per varie ragioni. Basta pen-

sare al possibile spostamento di voti dalla destra alla sinistra, all’annunciata avanzata dei verdi ed alle conseguenze che questa avanzata potrebbe avere sulla composizione del Consiglio federale, o ancora alla sopravvivenza dei partiti minori. Le elezioni sono importanti anche in considerazione del contesto internazionale instabile in cui avvengono. In tre paesi confinanti con la Svizzera, Italia, Austria e Germania, la situazione politica presenta molte incertezze, tra governi che stanno nascendo, governi che verranno definiti da elezioni imminenti e governi che escono indeboliti da elezioni regionali. E poi c’è la grossa incognita della Brexit, del modo in cui avverrà e delle sue conseguenze, che ancora oggi non sono valutabili. È uno scenario nel quale non sarà facile muoversi e per il quale ci vorrebbe un parlamento conscio delle difficoltà e della necessità di affrontarle in modo aperto e costruttivo, e non isolandosi e rifugiandosi dietro le frontiere nazionali. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 settembre 2019 • N. 38

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Politica e Economia

Quanto remunerare il capitale di vecchiaia?

Secondo pilastro La Commissione federale per la previdenza professionale suggerisce un tasso dell’1%, ma in realtà

dovrebbe essere più basso. Il Consiglio federale, che deve decidere, ha finora preferito applicare un tasso «politico»

Ignazio Bonoli Alla storia (quasi) infinita della rimunerazione dei capitali di vecchiaia (in pratica il capitale accumulato da ogni assicurato in una cassa pensione), si aggiunge la proposta della Commissione federale per la previdenza professionale. Quest’ultima ha, infatti, deciso di chiedere al Consiglio federale di mantenere il tasso di rimunerazione del capitale di vecchiaia all’1%. Questo tasso si applica ovviamente per le pensioni della parte obbligatoria prevista dalla legge, che attualmente copre comunque solo il 40% del capitale di vecchiaia delle persone attive. Già in passato le decisioni della Commissione avevano sollevato parecchie discussioni, soprattutto perché il Consiglio federale aveva preferito applicare un tasso politico piuttosto che quello tecnico elaborato dalla Commissione. Il governo ha comunque ancora qualche mese di tempo prima di decidere, ma si presume che se già la Commissione propone l’1%, anche il Consiglio federale si adeguerà, decidendo un tasso come quello dello scorso anno. Questi tassi di rimunerazione riflettono ovviamente la generale tendenza al ribasso dei tassi di interesse e la stessa Commissione è apparsa divisa nel proporre una rimunerazione dell’1%. Alcuni membri avrebbero, infatti, preferito tassi situati fra lo 0,25% e l’1%. La scelta dell’1% si basa comunque sul fatto che, nel primo semestre di quest’anno, le finanze delle casse

pensioni hanno avuto un’evoluzione positiva. La scelta della Commissione si basa su una formula tecnica, che è stata comunque rielaborata lo scorso anno per tener meglio conto dell’evoluzione finanziaria. In precedenza, veniva attribuito un peso maggiore alle rimunerazioni dei prestiti a lunga scadenza della Confederazione, il che avrebbe portato – ai livelli attuali – a proporre un tasso ufficiale molto vicino allo 0%. La nuova formula attribuisce un peso leggermente maggiore sia agli investimenti in azioni, sia a quelli in immobili. Il nuovo concetto è ovviamente soggetto a maggiori oscillazioni, ma mediamente dovrebbe portare a risultati leggermente migliori. Paradossalmente, però, un confronto con le formule precedenti rivela risultati non molto lontani da quelli di quest’anno, cioè lo 0,5% e, per i due anni precedenti, lo 0,5% e rispettivamente lo 0,6%. Per finire, una leggera maggioranza ha fatto pendere la decisione per l’1%, da raccomandare al Consiglio federale per il 2020. Questo perché la Commissione tiene conto anche di fattori come l’evoluzione dei salari e dei prezzi. L’inflazione prevista per quest’anno è di circa lo 0,5% e quella per il prossimo anno di una cifra che dovrebbe ancora essere inferiore all’1%. Questi dati hanno comunque destato l’impressione che ancora una volta la decisione del Consiglio federale sarà più politica che tecnica, o in qualche caso anche cosmetica, con il risultato che sicuramente non scen-

Già l’anno scorso il Consiglio federale si era distanziato dalla posizione della Commissione federale per la previdenza professionale. (Keystone)

derà sotto l’1%. Già lo scorso anno la Commissione aveva proposto lo 0,75%. Proprio in questa occasione il governo si era distanziato dalla Commissione, contrariamente a quanto fatto fino a quel momento, fissando l’1%. Le organizzazioni padronali e le stesse casse pensioni preferirebbero un tasso inferiore ricordando che si tratta di un tasso minimo, che eviterebbe difficoltà alle casse più deboli e non impedirebbe alle altre di applicare un tasso superiore. Infatti, lo scorso anno, la media delle rimunerazioni applicate da tutte

le casse pensioni era dell’1,5%. Si tratta a prima vista di cifre irrisorie, ma che assumono tutt’altro significato, se si considera che il livello medio delle garanzie di rendita del capitale di vecchiaia variava lo scorso anno tra il 4 e il 4,5%. In pratica, la rimunerazione media significherebbe dai 6 ai 7 miliardi di franchi in più che affluirebbero nelle casse pensioni. Ma il rapporto tra il tasso di rimunerazione del capitale e il tasso di conversione dello stesso in rendite (oggi 6,8%, con tendenza a scendere al 6%)

è piuttosto altalenante: più le rendite sono alte, più la rimunerazione del capitale per le persone attive è bassa. Però la politica decide ogni anno anche questa rimunerazione minima, benché il tasso di interesse non sia fissato dalla legge. Si tratta tuttavia di un segnale importante sul piano politico, mentre sul piano tecnico può contribuire ad aumentare il finanziamento da parte delle giovani generazioni a favore di quelle anziane. Finanziamento al quale le casse pensioni continuano a ricorrere con frequenza.

Felici sul posto di lavoro

Inchiesta Secondo uno studio della società di consulenza EX, l’87% di chi lavora in Svizzera è soddisfatto

della sua posizione professionale. E non è una mera questione di soldi Marzio Minoli È recente la notizia dell’Ufficio Federale di statistica che indica come l’occupazione in Svizzera, nel secondo trimestre del 2019, sia cresciuta dell’1,1%. In cifre assolute ci sono 5 milioni e 100 mila lavoratori. Siamo ai livelli massimi. Ora, di questi cinque milioni di lavoratori, secondo un sondaggio della società di consulenza internazionale EY, la stragrande maggioranza è soddisfatta del proprio posto di lavoro e non ha intenzione di cambiarlo nel prossimo anno. Il sondaggio viene effettuato due volte l’anno su un campione di 1501 persone, quindi statisticamente rappresentativo. La percentuale di soddisfatti non si è scostata dal sondaggio precedente, anzi è migliorata.

Lo studio mette in evidenza anche in quali settori ci sono i collaboratori maggiormente soddisfatti, e, forse a sorpresa, si nota come il settore delle costruzioni e quello industriale abbiano evidenziato il maggior aumento di persone contente, mentre è peggiorato il sentimento degli impiegati di banca e di quello degli assicuratori. Dopo qualche dato quantitativo, passiamo ad analizzare quali sono i motivi per i quali una persona si dichiara contenta del suo posto di lavoro. Di primo acchito il pensiero va allo stipendio. In fondo è anche normale, più guadagno, più sono felice. Invece no, le motivazioni sono ben diverse. I motivi principali che portano ad alzarsi il mattino con entusiasmo all’idea di andare al lavoro sono fondamen-

I settori con la maggiore soddisfazione sono l’industria e l’edilizia. (Keystone)

talmente tre. Nell’ordine: le buone relazioni con i colleghi, il riconoscimento del lavoro ben fatto e i buoni rapporti con i superiori. A questi elementi vanno aggiunti anche quelli più strettamente legati all’attività professionale vera e propria, oltre che alle relazioni personale. Infatti, sono tenute in grande considerazione anche la possibilità di essere autonomi, la flessibilità concessa e un lavoro diversificato. Insomma, lo stipendio, i bonus e altri vantaggi economici sono in secondo piano e sono elementi considerati importanti soprattutto dagli uomini, piuttosto che dalle donne. Naturalmente vi sono delle differenze generazionali che vengono evidenziate dagli esperti di EY. I più infelici sono gli appartenenti alla Generazione X, compresa tra i 45 e i 54 anni. Mentre i più giovani, più avvezzi alle nuove tecnologie e maggiormente sensibili alle relazioni sociali, e i più anziani, più vicini alla pensione, si dichiarano soddisfatti. E per quel che concerne la paura di perdere il posto, magari sostituiti dalle macchine? Il tema è sicuramente di quelli ben presenti nelle teste dei lavoratori. Ma anche qui è una questione di generazioni. I giovani, soprattutto maschi, laureati, che vivono nelle città ritengono che le opportunità che il futuro offrirà loro saranno molte e che gli esseri umani saranno sempre più importanti delle macchine. Una convinzione che trova invece meno spazio ad esempio tra le donne

che vivono in zone rurali e che hanno un’educazione di base, le quali temono fortemente di essere sostituite nei loro compiti. Molto interessante infine è l’approccio alla vita professionale. Come detto, i motivi di soddisfazione sul posto di lavoro dipendono non tanto da elementi economici, ma piuttosto dal clima che regna dettato dai rapporti personali. Ebbene, per i giovani è importante avere la giusta attitudine per mantenere questo status quo. E in che modo? Dando molta importanza ad uno stile di vita sano, che comprenda il riposo e lo sport, il tutto naturalmente accompagnato da una formazione. Diametralmente opposto invece il rapporto delle generazioni più anziane, per le quali alla base della vita professionale ci devono essere una solida formazione, molte conoscenze e l’assimilazione della cultura aziendale. Abbiamo dunque parlato dei lavoratori, di quanto sono soddisfatti e di quali sono le loro aspettative sul posto di lavoro. Ma in questo contesto ci sono due attori: dall’altra parte ci sono i datori di lavoro. E come reagiscono di fronte ad una sostanziale modifica dei parametri di giudizio sulla soddisfazione dei propri collaboratori, che da prettamente economici sono diventati più…sociali? Presto detto. Si cambia il modo con il quale viene valutato e premiato il collaboratore. In concreto, da qualche tempo, alcune aziende hanno per esempio eliminato il bonus. Una vera e

propria istituzione, nata negli anni 90, come conseguenza dell’introduzione sistematica delle valutazioni individuali. Da quando insomma si sono cominciate a fare le cosiddette qualifiche di fine anno. Ora questo sembra essere superato, l’individuo viene ancora valutato, ma come elemento di un gruppo, di un contesto. In Svizzera ci sono aziende del calibro di Basilese, di Tamedia e, prima nel suo settore ad applicare questa pratica, Banca Migros che hanno abbandonato il paradigma secondo il quale tutto fosse misurabile in denaro. Per compensare il mancato introito derivante dal bonus, verrà aumentato il salario fisso. Di quanto, verrà determinato individualmente. Il portavoce di Banca Migros, Urs Aeberli, lo scorso mese di novembre si è espresso così: «Nel mercato del lavoro si intravvede un cambiamento di valori: esercitare un lavoro motivante diventa sempre più importante, oltre ai motivi puramente finanziari che spingono all’attività lucrativa». Insomma, affermazioni che calzano a pennello con lo studio sulla felicità sul posto di lavoro elaborato da EY. Lavoratori soddisfatti e datori di lavoro che hanno capito cosa cercano i collaboratori. Come detto i paradigmi di un tempo stanno mutando e se addirittura anche negli Stati Uniti 200 aziende tra le più grandi del paese hanno deciso di dare maggior peso all’ambiente di lavoro rinunciando anche in parte ai profitti, qualche cosa vorrà pur dire.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 settembre 2019 • N. 38

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Non ci sarà recessione. Davvero? A inizio settembre sono stati pubblicati i dati sulla crescita del prodotto interno lordo reale della Svizzera nel secondo trimestre di quest’anno. Come annunciato da quasi tutti gli istituti che si dedicano alla previsione congiunturale, il tasso di crescita di questo aggregato si è ridotto non solo rispetto al valore che aveva raggiunto nel secondo trimestre del 2018, ma anche rispetto al valore del primo trimestre di quest’anno. La crescita del Pil della Svizzera, nel secondo trimestre del 2019, è stata infatti solo dello 0,3%, la più bassa da 6 anni a questa parte. Non si tratta di un dato inatteso. All’inizio della primavera, le previsioni per il 2019 davano un tasso di crescita del Pil per l’intero anno attorno all’1,51,6%. Ora, se sommiamo i tassi di crescita che il nostro Pil ha raggiunto nei primi due trimestri di quest’anno

arriviamo allo 0,9%, ossia un decimo di più della metà della crescita prevista per l’intero 2019, in primavera. È tuttavia molto probabile che la crescita dell’1,6% non verrà raggiunta e che nella seconda metà dell’anno, i tassi di crescita trimestrali si assesteranno su valori molto bassi, senza tuttavia scendere sotto lo zero. L’economia svizzera non conoscerà la recessione né quest’anno, né l’anno venturo. Questo è quanto ci assicurano il presidente del direttorio della Banca nazionale svizzera, Jordan, come pure la Segreteria di Stato per l’economia. In effetti, il tasso di crescita del Pil per il 2020 dovrebbe risultare leggermente superiore al 2%. Confrontata con gli scenari negativi che si stanno dipingendo a livello internazionale, queste dichiarazioni ufficiali risultano alquanto sorprendenti. Né per gli Stati Uniti, né

per l’Unione Europea, né per la Cina le previsioni per il prossimo futuro sono tranquillizzanti. Il KOF, istituto per le ricerche economiche del Politecnico di Zurigo, stima per esempio che il tasso di crescita del Pil dell’UE si assesterà nel 2019 e nel 2020 sull’1,5%, mentre quello degli Stati Uniti scenderà dal 2,7% del 2019 all’1,8% nel 2020 e quello per l’economia cinese dal 6,2 al 6%. Una cosa quindi è sicura: nel 2020 la domanda internazionale si ridurrà e il contributo delle esportazioni alla crescita del Pil svizzero altrettanto. Anche perché la nostra divisa si trova in un periodo di rivalutazione e quindi corrode la competitività dell’industria a livello internazionale. Da dove dovrebbe quindi venire la spinta che dovrebbe far ritornare il tasso di crescita della nostra economia al di sopra del 2% il prossimo anno?

Per il KOF la crescita del 2020 sarà sostenuta in Svizzera dagli investimenti delle aziende. Il tasso di crescita di questo aggregato, particolarmente basso quest’anno, salirà nel 2020 al 3,5% e questo dovrebbe bastare a fare la differenza a livello di crescita del Pil reale. Se fosse così andrebbe tutto bene. Il problema però è dato dal fatto che gli investimenti delle aziende dipendono dalle aspettative degli imprenditori sull’evoluzione della domanda nei prossimi anni. E le aspettative degli investitori non sono ottimiste. L’indice di insicurezza, che misura la frequenza con la quale le parole insicurezza e economia appaiono nei media è attualmente tornato ai valori che aveva nel gennaio del 2008, ossia prima dell’ultima grande crisi economica mondiale. In altre parole, in presenza di una rivalutazione del franco, di una tendenza al

declino della crescita come quella che si è manifestata nel secondo trimestre, di previsioni molto prudenti sulla prossima evoluzione della congiuntura, nonché di un clima generale di insicurezza è difficile spiegare perché il tasso di crescita degli investimenti delle aziende dovrebbe riprendere in modo così robusto nel 2020. Un raffronto con il Ticino non si può fare perché per il nostro cantone le previsioni congiunturali vengono fatte da un altro istituto. Se ci riferiamo però solo alle ultime stime, rese note in giugno da questo istituto, nel 2019 avremmo, per la Svizzera, una crescita del Pil dell’1,2% e, nel 2020, dell’1,7%. Per l’economia ticinese, le cui prestazioni poggiano meno sulle esportazioni dell’industria che a livello nazionale, le stime sono più rosee: crescita del Pil pari all’1,9% nel 2019 e dell’1,7% nel 2020.

un ringraziamento al patrocinio di Emmanuel Macron a questa commissione: il presidente francese ha fatto il nome della von der Leyen e ha creato consenso attorno a lei; il suo piano B era la Vestager; la Goulard è una macroniana di ferro. Meglio di così, insomma, per Parigi non poteva andare. Con lo slogan «una nuova spinta alla democrazia europea», la presidente tedesca ha nominato altri cinque vicepresidenti (non esecutivi) lasciandosi andare a eccessiva creatività linguistica nella definizione dei diversi portafogli: in particolare ha fatto molto discutere la denominazione dell’incarico del greco Margaritis Schinas che sarà quello di «proteggere lo stile di vita europeo». Si tratta del commissario per l’Immigrazione, e per quanto si cerchi di interpretare senza troppi pregiudizi il riferimento alla protezione e allo stile di vita europeo, non ci si riesce: non suona né bene né accogliente, per di più ora che l’immigrazione è uno dei temi più rilevanti per questa nuova Commissione, dopo che quella precedente non è riuscita a creare una politica migratoria coerente e duratura. Un altro sopracciglio s’è alzato quando è stato fatto il nome dell’ungherese Laszlo Trocsanyi

come commissario per l’Allargamento, per una serie di motivi che ancora una volta ha a che fare con i dibattiti e gli scontri che scandiscono da tempo la quotidianità europea: Trocsanyi è stato ministro della Giustizia nel governo di Viktor Orbán e quindi ha supervisionato gran parte di quelle norme che hanno portato il Parlamento europeo a votare a favore di una procedura disciplinare nei confronti dell’Ungheria; Trocsanyi è stato indicato come un esponente del Partito popolare europeo, anche se Fidesz, il partito di governo a Budapest, è formalmente sospeso dalla famiglia conservatrice dell’Ue; infine l’allargamento dell’Ue che già era scivolato in basso nelle priorità di Bruxelles non pare destinato a tornare cruciale, considerando l’approccio storico dell’Ungheria alla questione (e l’ostilità nei confronti dell’Ungheria). Sulle questioni economiche, infine, il commissario designato è l’italiano Paolo Gentiloni, invitato a «collaborare» con il vicepresidente esecutivo Valdis Dombrovskis e con il commissario al Budget, l’austriaco Johannes Hahn, entrambi considerati molto rigidi sui conti e sospettosi nei confronti delle richieste di flessibilità che vengono dal

sud dell’Europa: il dibattito sull’austerità, che era stato appannato dagli scontri sull’immigrazione, sulla tenuta dell’Europa e finanche dell’euro, tornerà di grande attualità. I commissari devono ora essere ascoltati e confermati dal Parlamento europeo: le audizioni inizieranno a fine settembre e c’è già chi scommette su chi sarà il bersaglio prescelto dall’aula di Strasburgo (ce n’è sempre uno) per mostrarsi forte davanti alla von der Leyen, che già ha dovuto digerire a luglio una conferma risicata. I gruppi all’Europarlamento si stanno già organizzando, alcuni intonano anche canti di guerra perché i compromessi da raggiungere non saranno pochi, visto che la maggioranza è garantita dai popolari, dai socialdemocratici e dai liberali (ora Renew Europe), tutti con qualcosa da rimproverare alla von der Leyen: i primi pensano di non aver abbastanza rappresentanza; i secondi sono delusi dal fatto che il loro asso, Frans Timmermans, è uno dei vicepresidenti parificato agli altri; i terzi temono che sullo stato di diritto non si parta col piede giusto. Lo spettacolo potrebbe non essere del tutto edificante, ma un equilibrio infine si troverà: vedremo in che punto.

Guerra del 14-18 furono poste le basi per cementare l’unità interna, ritenendo esiziale per la sopravvivenza stessa della Confederazione l’ideologia marxista che faceva leva sulla lotta di classe. Sodalizi come la Nuova Società Elvetica perseguirono con determinazione l’esigenza di superare la visione classista della società. L’accusa di voler consegnare il paese nelle mani dei bolscevichi divenne corrente nella pubblicistica all’indomani dello sciopero generale del 1918. Negli anni 30, dopo l’ascesa di Hitler al potere, la politica imperniata sulla concordia e sulla collaborazione tra le parti sociali raccolse il consenso delle maggiori forze politiche, dalla socialdemocrazia al centro-destra. Da questa costellazione rimasero fuori le ali estreme, i frontisti filo-fascisti e i comunisti. Uno dei momenti più alti della ritro-

vata armonia tra le classi sociali, tra il proletariato di fabbrica e i contadini, fu raggiunto e celebrato ottant’anni fa, in occasione dell’esposizione nazionale di Zurigo. Inaugurata il 6 maggio sotto un cielo di pace e chiusa il 29 ottobre nell’eco della guerra, la «Landi» riscosse un successo immenso: dieci milioni di visitatori per una manifestazione che si voleva ecumenica sul piano sociale e religioso, e granitica sui suoi capisaldi storici. Ecco come il fondatore delle cooperative Migros Gottlieb Duttweiler compendiò lo spirito di quella impresa corale nel libro commemorativo Liberi e Svizzeri: «Tre alti valori abbiamo fatto risaltare con fierezza: l’unione delle diverse stirpi, la pace delle confessioni religiose e la concordia sociale. Noi ne siamo debitori in primo luogo alla grazia divina e quindi alla nostra sagacia». Seguiva una lunga galleria di immagini e di commenti illustranti le mille facce

del paese, le sue componenti etniche, gli usi e costumi, le attività, il retaggio delle generazioni, l’incrollabile volontà di difesa con al centro il «federalismo vivente»: «La vita culturale propria dei Cantoni, l’autonomia dei Comuni, l’uomo lasciato al suo spirito d’iniziativa; ecco i fattori della forza vitale e di resistenza della plurisecolare Svizzera». Affonda dunque in questo passato il conservatorismo elvetico. Certo, pochi amano dirsi tali, proclamarsi conservatori schietti e coerenti, tanto meno i partiti (ricordiamo che l’ultima formazione a definirsi tale, ossia il Partito cattolico-conservatore, cambiò nome nel 1971). E tuttavia spesso nasce il sospetto che il conservatorismo alligni un po’ ovunque, perfino nei gruppi più combattivi e moralmente intransigenti, e accompagni come un’ombra beffardamente sorridente gli appelli più infuocati.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Una Commissione europeista Ursula von der Leyen (nella foto) ha presentato la sua Commissione, ben più europeista di quel che si poteva immaginare soltanto poche settimane fa: lo slancio distruttore dei movimenti sovranisti si è ridotto e le candidature presentate dai 27 paesi europei (il Regno Unito dovrà indicare il suo commissario soltanto se rinvia l’uscita dall’Ue, a oggi prevista per il 31 ottobre) sono considerate «eurocompatibili» dalla maggior parte dei commentatori. La von der Leyen ha scelto tre vicepre-

sidenti esecutivi che si occuperanno di economia, di concorrenza e innovazione e dell’ambiente: tra questi, la più rafforzata è Margrethe Vestager, la danese che già si occupava di anti trust nella commissione Juncker e che oggi, come ha scritto il «New York Times», «ha più poteri che mai» – l’Amministrazione Trump non sarà contenta. Un portafoglio extralarge – industria e mercato interno – è stato riservato anche alla francese Sylvie Goulard, e proprio questa scelta è stata interpretata come

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Conservatori, nonostante tutto Tra comizi, dibattiti, raduni e sollecitazioni via web, la Svizzera si appresta a rinnovare le Camere federali. I sondaggi prefigurano uno scenario sostanzialmente stabile, con variazioni minime, fatta eccezione per la progressione dei verdi, universalmente data per scontata, e per la flessione dei cristiani democratici. Nell’attuale panorama europeo, squassato da contrasti che paiono insanabili, da visioni antitetiche, da incertezze non solo economiche, il nostro paese si distingue per la saldezza del quadro istituzionale e per la prudenza delle scelte. In fondo il numero dei Consiglieri federali non è mai mutato: erano sette nel 1848, e sette sono rimasti fino ad oggi. I tentativi di allargare la compagine governativa per dare maggiore rappresentanza alle minoranze sono sempre naufragati. Ci si può chiedere quale sia la fonte di questo conservatorismo, di questo

pertinace attaccamento alla tradizione. Un atteggiamento, va detto, che ritroviamo anche là dove meno te lo aspetti, ossia nelle file della sinistra. A metà Ottocento la fazione più avanzata era quella radicale, eppure agli occhi di un profugo tedesco anche questo movimento appariva «erzkonservativ», ossa conservatore fino al midollo. Ma le cause erano remote: andavano individuate nel carattere rurale dei territori, nell’influenza delle due principali confessioni (la cattolica e la protestante) e nella difficoltà ad assimilare i princìpi della Rivoluzione francese. Un insieme di fattori rafforzato infine dalla consapevolezza di rappresentare in Europa un’eccezione, un ordinamento repubblicano circondato da monarchie ed aristocrazie di antico lignaggio. I condizionamenti esterni svolsero una funzione decisiva anche nel corso del XX secolo. Già durante la Grande


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Idee e acquisti per la settimana

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Cultura e Spettacoli Cultura romanda Nella Svizzera romanda è andata in scena la straordinaria 43esima edizione de La Bâtie

Da una mucca a storie ticinesi Sempre più ticinesi si impegnano nell’arte della scrittura, dedicandosi a narrativa e poesia – questa settimana Margherita Coldesina e Carlo Silini

La musica di Lugano Presentato nei giorni scorsi l’imperdibile programma di Lugano Musica pagina 53

pagine 51 e 52

pagina 47

Santa Maria e l’arte Calanca Exhibit propone una serie di appuntamenti capaci di gettare una luce nuova sulla Val Calanca

pagina 55

Per mare con Lyonel Feininger

Mostre Nel centesimo anniversario

del Bauhaus, Ascona dedica una mostra al primo artista che vi ha insegnato

Alessia Brughera Un secolo fa, a Weimar, capitale provvisoria dello Stato federale scaturito dal crollo dell’impero tedesco, nacque il Bauhaus, scuola di architettura, arte e design fondata da Walter Gropius. Gli obiettivi di questa istituzione rivoluzionaria furono fin da subito molto chiari: «riunificare in una nuova architettura, come sue parti inscindibili, tutte le discipline pratico-artistiche». L’idea era quella di abolire la distinzione classista tra artigiani e artisti per formare una categoria capace di coniugare lo studio della forma estetica con la funzionalità pratica, arrivando così a costruire «l’edificio del futuro». Nei suoi quattordici anni di vita (cessò di esistere nel 1933, a Berlino, perché inviso al regime nazista), il Bauhaus accolse più di mille studenti istruiti dal fior fiore dei docenti europei, e con loro molte delle idee che avrebbero contribuito all’affermazione del Movimento Moderno, corrente d’innovazione nei campi del design e dell’architettura basata sullo stretto rapporto tra arte, industria e tecnologia. Primo fra tutti a essere chiamato da Gropius a insegnare a Weimar fu Lyonel Feininger, tra le figure maggiormente legate agli esordi del Bauhaus anche per aver realizzato la xilografia della copertina del manifesto dell’istituzione, opera in cui campeggiava l’immagine simbolica di una cattedrale sormontata da una torre sulla quale confluivano tre raggi luminosi a rappresentare le tre arti maggiori. Al Bauhaus Feininger avrebbe insegnato fino al 1926 ma sarebbe stato vicino alla scuola fino alla sua chiusura. Illustratore, pittore e grafico, nato nel 1871 a New York da genitori tedeschi, entrambi musicisti, Feininger si trasferì appena sedicenne in Germania per rimanervi per oltre cinquant’anni, sino a che, con l’ascesa al potere dei nazionalsocialisti, venne bollato come artista «degenerato» (con la rimozione dai musei di quasi quattrocento dei suoi lavori) e costretto a fare ritorno negli Stati Uniti.

Nell’anno in cui si celebra il centenario del Bauhaus, il Museo Castello San Materno di Ascona dedica a Feininger, l’americano divenuto europeo che nella scuola trascorse uno dei momenti più stimolanti e prolifici della sua carriera, una mostra incentrata su due soggetti a lui particolarmente cari, ovvero il mare e le navi. Le opere selezionate per la rassegna, tutti prestiti provenienti da collezioni private di Europa e Stati Uniti, documentano difatti come questi temi siano stati una presenza costante nella produzione di Feininger e siano stati proposti nel tempo in immagini sempre più incisive, trasformandosi in visioni cariche di sentimento puro verso la natura e la vita che pulsa al suo interno. I paesaggi marini e le imbarcazioni conquistarono l’artista fin dalla sua tenera età, osservati sullo stretto marittimo dell’East River di New York con occhi fanciulleschi carichi di stupore per il vivace mondo che ruotava loro attorno. Per questo l’universo figurativo legato al mare comparve già nelle opere degli esordi di Feininger, quando, dopo gli studi d’arte ad Amburgo, Berlino e Parigi e dopo i primi lavori di caricaturista, nel 1906 diede vita in qualità di illustratore al fumetto per il «Chicago Sunday Tribune» dal titolo The Kinder-Kids (di cui la rassegna asconese espone alcuni pastelli), incentrato sulle vicende di tre esuberanti ragazzini che navigavano per il mondo dentro una vasca da bagno. La decisione di diventare pittore fu corroborata in modo determinante dalla frequentazione della capitale francese, dove l’artista si recò, sempre nel 1906, per studiare all’Académie Colarossi e trarre stimolo dalle opere di Cézanne e Van Gogh, e dove scoprì, con la partecipazione nel 1911 al Salon des Indépendants, il cubismo di Braque e Picasso. Fu allora che Feininger incominciò a fare del mare e delle navi i soggetti prediletti dei suoi acquarelli, delle sue stampe e dei suoi dipinti. E li rappresentò con quel linguaggio che proprio i cubisti gli avevano insegnato, uno stile sintetico e semplificato che

Lyonel Feininger, Marina con veliero (Mar Rosso con veliero blu) (part.), 1912, Collezione privata, Germania. (© 2019, ProLitteris)

aveva saputo rielaborare in maniera autonoma, rendendo essenziali le figure nello spazio senza però mai distaccarsi completamente dal dato reale. Grazie ai frequenti viaggi sulle spiagge del Mar Baltico, soprattutto sull’isola di Usedom, che dal 1911 fu la meta preferita dei suoi soggiorni estivi, Feininger immortalò imbarcazioni di ogni sorta, dai grandi velieri ai piccoli pescherecci, e poi i litorali e gli scogli, i fari e le banchine, i tramonti e la vastità del mare: pretesti per catturare il vero, scomporlo in forme cristalline e restituirlo nella sua essenzialità. Nel frattempo l’artista conobbe i pittori del gruppo Die Brücke, entrò in contatto con quelli del Der Blaue Reiter e divenne, come si è detto, insegnante al Bauhaus, tutte esperienze che arricchirono e portarono a maturazione la sua arte. Il legame con la tematica del mare

si fece poi ancora più forte quando, nel 1924, Feininger scoprì sulle coste baltiche della Pomerania un piccolo villaggio di pescatori chiamato Deep, che amava esplorare in bicicletta portando sempre con sé un blocco su cui schizzava ciò che più colpiva il suo sguardo, annotazioni strappate alla natura che gli servivano come spunti da cui desumere nuovi soggetti per le sue opere. Nel percorso della mostra di Ascona bella è la selezione di xilografie, tecnica a cui Feininger si dedicò a partire dal 1918, e quella di acquarelli, lavori eseguiti soprattutto nella stagione estiva in cui l’artista raffigurò vedute marine con grande immediatezza espressiva (si veda ad esempio l’opera La nave arenata, del 1922). Negli oli su tela, poi, Feininger riuscì a trasfigurare il mare in immagini dove al sentimento mistico della natura si accompagnava un’intonazione visionaria di matrice

nordica: nel dipinto Musicista cieco sulla spiaggia la figura del suonatore, di un vivido arancione, sembra quasi fondersi con le agitate acque grigie solcate da due imbarcazioni appena abbozzate sullo sfondo. Anche quando Feininger fece ritorno negli Stati Uniti i paesaggi marittimi e le navi continuarono a essere un tema fondamentale della sua arte: il ricordo delle coste baltiche non si era minimamente affievolito, e il mare permetteva ancora all’artista di trasporre nelle sue opere la propria anima. Dove e quando

Lyonel Feininger. A vele spiegate. Museo Castello San Materno, Ascona. Fino al 29 settembre 2019. Orari: gio-sa 10.00-12.00/14.00-17.00; do e festivi 14.00-16.00; lu-me chiuso. www.museoascona.ch


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Cultura e Spettacoli

Quella spiaggia con Einstein

Spettacoli L’Avanguardia del Novecento apre la Stagione operistica del Grand Théâtre di Ginevra

Francesco Hoch È un avvenimento eccezionale aprire una stagione d’opera con un lavoro proveniente dall’avanguardia musicale del Novecento. Il grande coraggio è dovuto al nuovo direttore artistico del Grand Théâtre di Ginevra, Aviel Cahn, che ha presentato un nuovo programma cosparso di novità assolutamente interessanti. La scelta iniziale è caduta sull’opera di Philip Glass e Robert Wilson, intitolata Einstein on the Beach, composta dal 1974 al 1976, in un’epoca dove le avanguardie musicali hanno prodotto lavori creativi tendenti alla radicalità del pensiero compositivo.

Un pensiero dedicato a esperienze estreme oltre le quali non era possibile proseguire. Ci riferiamo ai lavori musicali di John Cage sul silenzio o alle composizioni di Earle Brown con un unico cluster fermo, corrispondenti anche all’arte visiva: basti pensare a Rauschenberg con il suo quadro interamente bianco. Philip Glass, che riteniamo uno degli ultimi avanguardisti, elabora in quegli anni una musica ripetitiva di cellule musicali minimali di poche note e pochi ritmi. La sua, è stata definita minimale, assieme alla musica di compositori americani, Steve Reich e Terry Riley, quest’ultimo presente più volte nel Ticino, invitato a tenere

concerti da OGGImusica a Lugano, insieme anche a Philip Glass stesso che nel 1978 si è presentato con un recital all’organo Hammond nell’Aula magna di Trevano. L’opera presentata mercoledì a Ginevra incarna proprio questo spirito dell’epoca, dopo il quale il compositore americano si dedica a sensibilità più restaurative, riprendendo autori classici occidentali in una decina di sinfonie per grandi orchestre. Nella versione del Grand Théâtre possiamo salutare un’altra interessante e sintomatica novità: la collaborazione con la Haute Ecole de Musique de Genève che ha fornito l’intero cast di musicisti, dai cantanti agli strumenti-

L’inconfondibile traccia poetica di Daniele Finzi Pasca in Einstein on the Beach. (La Bâtie)

sti. Si tratta di una tendenza che testimonia gli ottimi risultati ottenuti dai nuovi programmi nei Conservatori che hanno inserito anche lo studio obbligatorio della musica contemporanea. L’entusiasmo dei giovani può inoltre contribuire a sostituire la professionalità tradizionale delle orchestre stabili. Un fatto che sta iniziando anche nel nostro Ticino: presto al LAC, in un concerto di Musica di «Novecento e Presente», l’Orchestra del Conservatorio della Svizzera italiana ha invitato l’OSI a partecipare all’esecuzione di capolavori dell’avanguardia musicale del dopoguerra. La nuova produzione scenica svizzera di Einstein on the Beach a Ginevra, possiede inoltre un’altra caratteristica importante per la Svizzera italiana: la coproduzione con la Compagnia Finzi Pasca, reduce da quella magniloquente esperienza della Fête des Vignerons svoltasi per quasi un mese a Vevey. La musica di Einstein on the Beach è basata su una struttura in sezioni precomposte da Glass in collaborazione con Bob Wilson, e si sviluppa in articolazioni ripetitive di cellule musicali che portano a un ascolto quasi ipnotico, fermando quasi l’esperienza del tempo. L’opera, che dura quasi 4 ore senza pausa, vuole in effetti possedere queste qualità. Nella magnifica interpretazione sia delle parti vocali – corali e solistiche – che delle parti strumentali (un gruppo ristretto di strumenti, vicini alla versione originale) vi è stato un equilibrio magico e una grande precisione, dovuti all’esperto direttore d’orchestra, Titus Engel, che ha saputo mantenere una concentrazione da vero mara-

toneta per tutte le quattro ore di fila. A questa falsa semplicità e questo rigore musicali si è contrapposta la sapiente messa in scena di Daniele Finzi Pasca, il quale, con la sua intera Compagnia ha sfoderato la notevole esperienza creativa, riprendendo, ma estendendo idee già sperimentate per portarle a un grande livello comunicativo. Al rigore musicale è stata aggiunta una ricchezza di situazioni sceniche che ha portato a mettere in evidenza una contraddizione insita nel desiderio originale di Philip Glass, che permetteva al pubblico di lasciare la sala e ritornarvi quando lo desiderava. Questo, per evidenziare l’indifferenza nei confronti di un racconto che non c’è. In realtà, gli aspetti narrativi esistono, per cui non è indifferente se lasciare o no la sala: delle relazioni tra le situazioni musicali e tra quelle sceniche ci sono. Qualcosa di importante si sarebbe quindi potuto perdere. Daniele Finzi Pasca ha voluto mettere in scena sia la figura di Einstein che di altri riferimenti visivi, come toreri, uccelli volanti, ruote, biciclette, cavalli, eccetera, mentre le voci cantavano solo i nomi delle note o le parole delle cifre. Tutto si è svolto in un sogno come avrebbe fatto Einstein stesso in una spiaggia libera. Non si può non accennare alla grande riuscita della assoluta complessità tecnica necessaria per creare scene di notevole fascino. Il pubblico, rimasto per tutte le 4 ore per la maggior parte in sala, ha conferito calorosissimi applausi a tutti. Il successo, non scontato, è stato grande e la sfida è stata vittoriosa.

La Bâtie, per un abbattimento delle frontiere

Festival Nella Svizzera romanda è andata in scena la 43esima edizione di un appuntamento che ogni anno

diventa più sorprendente e apprezzato Muriel e Giorgia Del Don Come ogni anno la stagione culturale ginevrina si apre con il botto grazie all’ormai imperdibile Festival La Bâtie. Per più di due settimane e ricco di una cinquantina di progetti, il mitico festival sul Lemano solletica i sensi di un pubblico variegato grazie a una programmazione audace che propone una panoramica a 360 gradi del meglio delle arti della scena. Un progetto ambizioso capitanato da Claude Ratzé, direttore artistico della manifestazione, che non indietreggia di fronte a nulla, tanto meno alle critiche che fanno parte del gioco quando si decide di prendere le redini di un festival come La Bâtie. Per la sua seconda edizione (e la 43esima del festival), Ratzé ha deciso di stupire il pubblico con un programma che dà spazio alla musicalità (in senso lato), alle storie famigliari e al vagabondaggio. Temi importanti e attuali che diventano uno specchio della nostra società sempre più frenetica e friabile. Il vagabondaggio non rappresenta per quest’ultima edizione solo uno spunto tematico ma anche una realtà legata alle innumerevoli sale che hanno accolto e che hanno fatto viaggiare gli spettatori. Da un lato all’altro del Canton Ginevra, nella vicina Francia ma anche a Nyon e a Losanna, La Bâtie ha come sempre colonizzato sale di spettacolo insolite e sorprendenti. Gli spettatori più temerari sono stati accolti nell’opulento e nuovamente ristrutturato Grand Théâtre de Genève per Einstein on the Beach (v. articolo sopra, NdR), in piena natura grazie allo spettacolo Life in the Universe del

collettivo danese hello!earth o ancora trasportati in bus dal lago Lemano fino a un metaforico mare (Rémi Dufay con il suo D’amour et d’eau fraîche). Insomma, La Bâtie riesce anche quest’anno ad abbattere le frontiere e a farci viaggiare, mostrandoci che le arti della scena possono ancora inventare nuovi linguaggi e nuovi codici spingendoci verso luoghi inesplorati che non credevamo nemmeno esistessero. Grazie a teatro, danza, musica (spettacolare il concerto di Kap Bambino), serate clubbing, performances ma anche luoghi di ristoro decisamente arty e mercati bio 2.0 proposti dal collettivo Karibou, la 43esima edizione de La Bâtie ha permesso al pubblico di immergersi in un universo artisticamente pantagruelico dai sapori inattesi. Quest’anno il QG del festival si è annidato tra le mura della sempre vibrante Maison communale di Plainpalais dove un sorprendente ristorante effimero capitanato da Cédric Riffaud e allestito dalla creatrice Anne-Cécile Espinach ha deliziato i palati dei festivalieri. Da segnalare anche i banchetti performativi organizzati la domenica dal collettivo Domingo composto da quattro giovani artiste interessate al legame tra cibo e arti visive. Le frontiere fra le discipline e le generazioni sono abbattute, come a volerci ricordare che dietro ogni grande artista si nasconde il giovane talento che è stato. La programmazione della 43esima edizione rispecchia questo credo proponendo creazioni di artisti emergenti come Anna Lemonaki, Marie-Caroline Hominal e Marion Siefert e talenti già confermati del calibro di

Peeping Tom, Philip Glass, Cindy Van Acker o la compagnia Marius che ha stordito (nel senso positivo del termine) gli spettatori con la trilogia di Pagnol (Marius, Fanny, César) di ben 250 minuti. La resistenza del pubblico è stata nuovamente messa alla prova in un altro attesissimo spettacolo, Tous les oiseaux del regista teatrale libano-canadese Wajdi Mouaward. Il suo spettacolo è un viaggio incandescente tra le lingue e le culture e attraverso il tempo. Altro grande momento di questa edizione è stato il monologo Perdre son sac di Pascal Rambert, messo in scena da Denis Maillefer (codirettore della Comédie di Ginevra) e interpretato con un’intensità rara dalla giovane attrice Lola Giouse per la quale il regista ha scritto il testo. Il potente testo di Rambert ci confronta con brutale sincerità all’assurdità e alle ingiustizie della nostra società liberale, ma anche all’amore inteso come grido doloroso impossibile da condividere. Sorprendenti ed esilaranti anche i sempre grandiosi Jerôme Bel, con il suo Rétrospective, lavoro che unisce brevi sequenze filmate dei suoi spettacoli passati, e la compagnia belga Peeping Tom che ha presentato sulla scena dell’Esplanade du lac di Divonne-les-Bains Kind, ultima parte della loro impressionante trilogia che comprende Vaeder e Moeder. Kind è un viaggio misterioso tra sogno e realtà nei meandri della mente di un essere in piena mutazione, dall’adolescenza all’età adulta. Molti anche i giovani talenti che hanno saputo stupire il pubblico della Bâtie grazie a spettacoli innovativi che rompono con i codici formali della sce-

La formazione Kap Bambino. (© François Quillacq)

na. Tra questi David Marton, ungherese ma berlinese d’adozione, che con il suo Narcisse et Echo mescola sorprendentemente repertorio musicale e teatro, sorta di opera moderna e disinibita abitata da cinque interpreti al contempo attori, cantanti e musicisti. In un registro più volutamente DIY ritroviamo la greca Anna Lemonaki con Blue e Fuchsia Saignant, prime due parti di una trilogia autobiografica tra schizofrenia sentimentale e umorismo nero. Sorprendente e fresco anche Rémi Dufay con il suo D’amour et d’eau fraîche, uno spettacolo al quale assistere seduti in un bus mentre due attrici discutono della loro vita e dei cambiamenti che le allontaneranno inevitabilmente. Scoppiettante e spiazzante Le Grand Sommeil della francese Marion Siéfert che mette in scena un’a-

dolescente di undici anni interpretata dalla ballerina e performer Helena de Laurentis. Con il suo lavoro, Marion Siéfert scruta con coraggio le ambiguità dell’infanzia. Tra le proposte improbabili ma decisamente riuscite impossibile non citare anche François Chaignaud e Marie-Pierre Brébant che nel loro Symphonia Harmoniae Caelestium Revelationum hanno interpretato in diretta, e nella loro integralità, le 69 melodie composte da Ildegarda di Bingen, badessa, guaritrice, profetessa e poetessa del XII secolo. Insomma, una 43esima edizione potente e rigenerante che abbatte le frontiere: delle arti della scena ma anche di genere e geografiche spingendoci a riflettere sul significato della parola «normalità» in un mondo che ci vorrebbe tutti tristemente uguali.


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Sublimate le vostre zuppe Le minestre pronte possono essere personalizzate a piacimento. Grazie all’abbinamento con ingredienti freschi e croccanti le influencer Claudia e Scarlett hanno trasformato una semplicissima minestra pronta Knorr in raffinate delizie

«Più la guarnitura di una minestra è gustosa, meglio è» Su Fork & Flower la blogger di lifestyle Scarlett racconta da oltre 10 anni la sua quotidianità, le sue ricette preferite, classiche o recenti, così come i prodotti che apprezza e che ha già provato. Alle minestre pronte è approdata quando è venuta una fame da lupi alla sua figlioletta Elma, «a cui talvolta succede di saltare il pasto. La vita di un bambino è semplicemente troppo avvincente per dedicare un pensiero al cibo», è l’opinione della mamma. Ha così affinato la crema di boleti della Knorr secondo la seguente ricetta: preparare la zuppa seguendo le istruzioni. Per i crostini soffriggere dei cubetti di pane bianco in olio di oliva e burro, fino a doratura, quindi aggiungere nella padella due spicchi di aglio tritati finemente e condire con sale e pepe. In un tegame separato soffriggere a fuoco vivo i funghi puliti e tagliati a dadini o a strisce, a seconda della varietà, fino a quando non sono dorati. Aggiungere l’aglio e il peperoncino tritati finemente e condire con alcune gocce di limone, sale, pepe e erbe aromatiche fresche tritate, per esempio prezzemolo. Servire la zuppa con i crostini all’aglio, i funghi e un po’ di crème fraîche.

Crema di boleti con crostini all’aglio e funghi trifolati

Nome Scarlett Steiner Blog forkandflower.com Età 36 anni Temi trattati La famiglia, la cucina e la gastronomia, così come le sue avventure a Zurigo Soggetto fotografico preferito Sua figlia Elma


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Nome Claudia Schöttli Blog claudiasmovement.com Età 27 anni Temi trattati Fitness, alimentazione e salute, consapevolezza e viaggi

«Mi piace quando è croccante»

Soggetto fotografico preferito «Niente è più bello di un sorriso sincero».

Claudia è influencer, personal trainer indipendente, istruttrice diplomata di spinning, consulente alimentare e autrice di e-book. Tutto ciò comporta giornate lavorative talvolta lunghe, durante le quali il pasto deve poter essere preparato velocemente. In queste situazioni sceglie volentieri una minestra pronta. Per una «zuppa ABC deluxe» suggerisce questa sua ricetta: preparare la minestra seguendo le indicazioni. Tagliare a piccoli pezzetti un cipollotto, un pak-choi e una carota, portare brevemente a ebollizione e aggiungere alla minestra. Tagliare del tofu setoso a piccoli pezzetti e aggiungere delicatamente alla zuppa. Condire con microgreen e alcuni semi.

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Cultura e Spettacoli

Coi soldati nel cervello

Poesia La Vita Felice pubblica la seconda raccolta poetica di Margherita Coldesina

Daniele Bernardi «Poi sono matta». Con questa breve formula si chiudeva il primo componimento dell’esordio poetico di Margherita Coldesina (Il gioco era dirsi, LietoColle, 2012), attrice, doppiatrice, speaker ma, anche, conduttrice radiofonica e giornalista culturale che, negli anni, ha saputo portare avanti un percorso artistico personale e libero (proprio recentemente le è stato conferito il Premio Poestate 2019). Con la raccolta Povera mucca (La Vita Felice, 2019), ecco che oggi la Coldesina consegna il secondo tassello del proprio guizzante percorso in versi: una breve silloge in cui, credo, le promesse larvate nel suo «debutto» fioriscono con decisione e autonomia. E qui occorre fare una piccola premessa. Il caso di Margherita Coldesina rappresenta bene una felice peculiarità che contraddistingue diverse poetesse della Svizzera italiana – penso a Prisca Agustoni, come pure a voci «nuove» come Laura Di Corcia, Lia Galli e Carlotta Silini. Rispetto ai colleghi maschi (salvo casi quali Bianchetti, Miladinovic o, ancora, Mercure Martini), queste risultano, a mio avviso, estremamente più libere. Mentre le voci dei poeti delle ultime generazioni sembrano, in qualche modo, maggiormente legate a modelli riconoscibili e «consolidati», quelle delle donne paiono invece guidate dalla propria personale intuizione. Intendiamoci: lungi da me il parlare di scrittura al maschile e al femminile. Si tratta, piuttosto, di una semplice constatazione. Ma torniamo alla Coldesina che, fedele a se stessa, già dalla copertina del

Margherita Coldesina è alla sua seconda prova letteraria.

volume – la radiografia di una scatola cranica in cui, al centro di un annebbiato cervello, fa capolino un ciuffo d’erba – non smentisce il suo «poi sono matta» e, un poco come in Il gioco era dirsi, suddivide la silloge in due tronconi in cui, rispettivamente, sono riuniti testi lunghi e altri fulmineamente brevi (questi rac-

OSI e Lac, partenza con il botto Concorso L’OSI e il violoncellista Johannes

Moser diretti da Alexander Vedernikov Un debutto atteso quanto elettrizzante. Mancano pochi giorni all’inaugurazione della nuova stagione di concerti OSI al LAC, offerta dall’Orchestra della Svizzera italiana, per l’occasione diretta dal Maestro russo Alexander Vedernikov, attualmente direttore musicale dell’Opera nazionale danese di Copenhagen. Il concerto nella prima parte vedrà protagonista il talentuoso violoncellista tedesco-canadese Johannes Moser, che si esibirà dapprima in un classico del tardo romanticismo, ossia il Primo concerto di Camille Saint-Saëns, per poi passare a un brano contemporaneo, eseguendo in prima svizzera un pezzo per violoncello elettrico del compositore messicano Enrico Chapela Barba, Magnetar. Il pezzo (in cui si mescolano influenze rock, metal, reggae, progressive e jazz) è ispirato dall’omonima stella di neutroni dall’enorme campo magnetico. La seconda parte del concerto sarà dedicata alla grande Sinfonia in re minore di César Franck, assente dai pro-

grammi dell’OSI da oltre dieci anni e considerata la più importante dopo la Fantastique di Berlioz. Il concerto ha il sostegno di BancaStato e si svolge nell’ambito dei Concerti RSI, in diretta radiofonica sulle frequenze di Rete Due (rsi.ch/ rete-due). / Red.

Concorso «Azione» mette in palio alcuni biglietti omaggio per il concerto dell’Orchestra della Svizzera italiana, diretta dal Maestro Alexander Vedernikov e con l’esibizione del violoncellista Johannes Moser che si terrà al LAC di Lugano il 26 settembre 2019. Per partecipare all’estrazione basta seguire le indicazioni sulla pagina web www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!

colti sotto l’azzeccatissimo titolo Polpette). Protagonisti incontestati, qui, sono lo sguardo di chi scrive e un privatissimo modo di vivere il mondo a cavallo della scatenata giostra del linguaggio. Infatti è evidente, in questo senso, quanto la voce di Margherita sia sua, riconoscibile, scoppiettante e tragica, far-

sesca e mesta (quasi un baule da teatro), pronta allo sproloquio come al canto – un canto, si intende, fatto di note sghembe, colorate, dalle gambe mozze ma in perfetta armonia col caos che abita il poeta al momento dello «scoppio». Non a caso, nella sua nota introduttiva Fabiano Alborghetti parla di Patafisica, Dada e Surrealismo. Povera mucca è un libro che, volutamente, non ha strutture «programmate». La Coldesina vive la poesia abbandonandosi a tale pratica con la semplicità (si fa per dire) di chi scrive come se respirasse. «Le mie poesie», afferma in Io uguale Ottanta, anni, «si staccano dal tronco come / licheni o se vuoi come pelle già scartata / Si sciolgono in processione / e di paura non ne fanno / Una mia poesia non ha i peli / Cade nella neve / apre la mela dei timorati / (e non a bella posta) / confonde i liquami loro con la mia sete / Ed escono Principi / Indovina (chi)». Ma se Margherita Coldesina, nel suo esordio, si era soprattutto dimostrata incline alla concentrazione e all’uso di formule-lampo, ora si rivela anche capace di governare componimenti di più ampio respiro in cui, sovente, è una dimensione interiore lacerata a prendere corpo sulla pagina. Si veda, in questo senso, il bellissimo testo a pagina 28 di cui qui si cita solo un estratto: «Ho i soldati nel cervello / ho la guerra mondiale a portata di mano – nel corpo / risale le gambe, si ferma a fare un tuffo al lago / chiama benzina a soccorso dei disidratati / partorisce sui fianchi sinistri / Mi arrivano in bocca le bombe / ho occhi di bambini per tutti i morti dietro ai pavi-

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Il violoncellista tedesco Johannes Moser, classe 1979.

menti / «Facile impiccarsi» / tra i pavimenti e le troie / Li ho nel cuore / li porto in spalla / mi curo di loro». Passando in rassegna i testi che, come brani di uno specchio in pezzi, compongono il curioso scheletro del libro, ci si rende conto che è la capacità di creare immagini con elementi quotidiani e, al contempo, stranianti o assurdi a lasciare il segno in chi legge; trovate come «Non sapevo / si potesse finire / di vivere / Come una coca / che piano si svuota», «Ero incinta di mille albicocche» o «Al posto del petto / io ho una ringhiera» rivelano la dote naturale dell’autrice nel dare una forma non banale al suo universo interiore-emotivo (indole che, come ebbe a segnalare Gilberto Isella in una nota a Il gioco era dirsi, trova alcune affinità con quella di una nota autrice italiana: Vivian Lamarque). Particolarmente belle sono, anche, le poesie a tema amoroso, dove, con piglio crudo e dolce, l’eros e la sua oscurità affiorano sulla pagina come dal fondo di un pozzo: «Il mio culo bagnato / sporco di amore / Ne vuoi / Il mio sonno / rumore di mondi / Ne vuoi / Ti sento che spalmi / dinamite alle spalle / Butti gli anni per me / Ti sento che tutto ti seghi via». Un altro esempio, in questo senso, lo si trova nella poesia Gli orli si accorciano, si alzano in volo. Se è vero, come credo sostenesse Amelia Rosselli, che si diventa poeti a partire dal proprio secondo libro, con Povera mucca Margherita Coldesina sembra ora confermare tale tesi. Pertanto, da lettori, ci si augura che a questo passo ne seguano altri ugualmente felici, genuini e guidati dall’istinto.


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Cultura e Spettacoli

Una storia di colpe declinata al plurale

Un trio antico per gli Amici dell’organo Concerto Serata

Recensioni La seconda parte della saga di Silini ambientata nel Seicento ticinese

Pietro Montorfani Da qualche tempo il panorama letterario svizzero di lingua italiana si è andato arricchendo di un elemento nuovo, un fenomeno in realtà notissimo in Italia e molto frequente altrove, soprattutto nel mondo anglosassone: la narrativa mainstream. Il termine è intenzionalmente ambiguo perché vorrebbe comprendere il maggior numero possibile di prosatori che abbiano scommesso non tanto sulla letterarietà, sull’espressionismo, sulla ricerca linguistica, sull’introspezione autobiografica o su questioni

Silini dimostra di sapere affrontare un tema complesso come quello della stregoneria di natura identitaria (era stata sin qui la via maestra della prosa svizzero-italiana: Piero Bianconi, Felice Filippini, Plinio Martini, Giovanni Orelli), quanto su un rapporto piano e semplice con i propri lettori, cui offrono storie piacevoli, ben congeniate, più o meno giocate sull’emotività e concepite in genere attorno a una trama gialla, senza troppi patemi né ambizioni. Nulla impedisce naturalmente che si diano anche sane commistioni tra questi due poli, ma è pur vero che il secondo finisce per pesare assai più del primo. È la vittoria della trama sul linguaggio, del format di successo sull’eccezione della poesia, volendo semplificare al massimo gli elementi dell’equazione. Un filone a parte, inscritto però in queste dinamiche, è quello dei romanzi storici, che hanno sì ampie zone di sovrapposizione con il poliziesco, ma permettono in più uno scavo documentario, un «forse non tutti sanno che…», capace di intercettare la curiosità di quei lettori più attenti al paesaggio, alla toponomastica, ai beni culturali, ai segreti che riemergono pian piano dalle nebbie del tempo. Carlo Silini, capo-

Carlo Silini, giornalista e scrittore ticinese. (CdT - Reguzzi)

redattore del «Corriere del Ticino» e giornalista di approfondimento molto stimato, è il migliore rappresentante di questo nuovo corso: lo si era intuito già nel 2015 con l’uscita del suo primo romanzo (Il ladro di ragazze) e se ne è avuta conferma recentemente con il secondo capitolo di quello che sta oramai diventando un ampio affresco storico, Latte e sangue, quasi del tutto indipendente dal primo e preludio forse, chissà, a un terzo tempo ancora di là da venire.

Una trama ricca di colpi di scena porterà il lettore ad attraversare più volte il confine, dentro e fuori i baliaggi svizzeri di Mendrisio e Lugano, con puntate fino a Roma e Civitavecchia, in un’epoca cui gli studiosi di storia locale hanno dedicato ben poche energie ed era, forse anche per questo, narrativamente vergine. Seguendo i più saggi consigli del genere, Silini alterna figure storicamente attestate (la famiglia Fontana di Brusata, il balivo Hans Ulrich Ulrich, l’inquisi-

musicale a Sessa il 21 settembre, alle 20.30

tore Camillo Campeggi) a personaggi d’invenzione suggeriti però da nomi e documenti reali, senza allontanarsi troppo cioè da un’intuizione, e da un’atmosfera, che indubbiamente funzionano. Non esente da qualche inevitabile stereotipo, specie quando si parli di cose d’amore, o nel frequente ricorso a scene cruente, il libro ha impennate notevoli negli interrogatori e nei dibattiti del processo per stregoneria cui è sottoposta la protagonista Maddalena de Buziis. È tale il procedere serrato delle argomentazioni, il coraggio della verità contrapposto alla vigliaccheria di delazioni e menzogne, da ricordare le sceneggiature di un Robert Bolt (Un uomo per tutte le stagioni, Lawrence d’Arabia, Mission). Si sarebbe quasi tentati di consigliare a Silini, data questa sua peculiare abilità, la stesura di qualche pagina teatrale, una casella ancora tristemente vuota a queste latitudini. Dire processi e dire Seicento fa pensare subito a Manzoni, cui l’autore guarda per l’ambientazione lombarda e per l’alternarsi di storia e invenzione, sebbene siano forse altri gli archetipi più prossimi alla sua scrittura, da Umberto Eco al Vassalli della Chimera, non per nulla una rivisitazione iperrealistica favorita proprio da una lettura (aproblematica e sostanzialmente sbagliata) dei Promessi sposi. Pur dovendo molto a Vassalli, Silini se ne smarca grazie all’equilibrio con cui sa affrontare un tema complesso come quello della stregoneria, che ha molti piani di lettura e colpe equamente condivise tra giustizia ecclesiastica, giustizia laica e società civile, con le paure e le invidie che sempre la caratterizzano. Lontanissima da queste pagine è insomma la banalità scandalistica di un Dan Brown: nessuna leggenda nera attraversa le terre ticinesi, soltanto una grande pietà per le vicende sempre intricate e sofferte di ogni consorzio di essere umani.

L’associazione «Amici dell’organo di Sessa – Monteggio» è un sodalizio creato nel 2014 per raccogliere fondi destinati al mantenimento del prezioso organo costruito nel 1930 dagli specialisti dell’azienda famigliare Mascioni di Azzo, in Valcuvia e collocato nella Chiesa prepositurale di San Martino a Sessa. L’associazione, inoltre, organizza annualmente un ciclo di concerti. Nel 2019, dopo aver invitato il celebre organista Francesco Filotti, gli Amici dell’organo hanno proposto un concerto per corali con i Cantori di Pregassona e con il Coro Contrappunti di SessaMonteggio, e in seguito due serate con il Quintetto Andersen. Il prossimo sabato 21 settembre nella Chiesa di Sessa è prevista invece l’esibizione di un raffinatissimo trio, «Il Ricercar Continuo», formazione composta da Giulia Genini, flauti dolci e dulciane, Alessandro Palmeri, violoncello e Michele Pasotti, tiorba. Il programma prevede musiche di Philipp Friederich Buchner, Pietro Paolo Raimodo, Bartolomé Selma y Salaverde, Tarquinio Merula, Girolamo Frescobaldi e altri compositori del XVII secolo. L’entrata è a offerta libera. In collaborazione con

Bibliografia

Carlo Silini, Latte e sangue. Gabriele Capelli 2019, 478 pagine.

Il gruppo «Il Ricercar Continuo». Annuncio pubblicitario

Fare la cosa giusta

Quando la povertà mostra il suo volto Per saperne di più su Lilian: farelacosagiusta.caritas.ch

Lilian Ariokot (24 anni), contadina in Uganda, supera la fame


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Cultura e Spettacoli

Fuochi d’artificio al LAC

Musica La nuova stagione musicale, presentata nei giorni scorsi, promette appuntamenti

Dimmi come lo sventoli, ti dirò chi sei

Enrico Parola

Il ventaglio vive un (gradito) comeback

imperdibili con la grande musica internazionale

Dopo un cartellone in cui campeggiavano Wiener e Berliner Philharmoniker, giganti del podio come Petrenko e Haitink, solisti sommi quali Trifonov e la prima opera lirica al Lac, Il barbiere di Siviglia rossiniano nell’estroso allestimento firmato da Rifici, era difficile pensare che l’edizione 2019-20 di Lugano Musica potesse anche solo rimanere allo stesso livello di qualità artistica della precedente. Una sorta di missione impossibile che però il direttore artistico Etienne Reymond sembra aver vinto in partenza: anche quest’anno Lugano si conferma uno dei nuovi grandi porti cui approda il gotha del concertismo mondiale, e proprio per questo ormai meta appetita non solo da ticinesi e appassionati della Svizzera interna, ma da una sempre più folta platea internazionale. Alla sontuosa teoria di stelle che sfileranno sul palco del Lac si aggiungono le scelte di contenuto: Reymond non ama acquistare «pacchetti preconfezionati», discute con ogni orchestra, ensemble cameristico o solista il programma da affrontare a Lugano, così da offrire al proprio pubblico percorsi organici, varietà di proposte e un equilibrato connubio tra brani celebri e rarità, repertorio antico e contemporaneo oltre ovviamente agli immancabili capolavori dei periodi classico e romantico. L’inaugurazione è stasera, con la Filarmonica di San Pietroburgo diretta da Ion Marin; il maestro romeno, ormai da anni residente in Ticino e artisticamente di casa a New York come nella stessa San Pietroburgo, sostituisce l’annunciato Jurij Temirkanov, che ha dovuto dare forfait per un’indisposizione. Invariato invece il programma, con la curiosità di ascoltare gli straordinari professori pietroburghesi non nei loro grandi classici (Ciajkovskij, Rachmaninov, Prokof’ev…), bensì con Mahler, con la sua prima sinfonia, Il Titano, affiancata al quarto Concerto per pianoforte di Beethoven, solista il brasiliano

Maria Bettetini

L’OSI sta preparando la Traviata, che andrà in scena a giugno. (CdT - Putzu)

Nelson Freire. Il secondo appuntamento segna già una ripresa e un superamento del passato: il 9 ottobre Diego Fasolis guiderà ne La finta giardiniera i suoi Barocchisti e l’orchestra della Scala che lui stesso ha istruito sull’esecuzione filologica con strumenti originali. Ha già diretto l’opera mozartiana a Milano e la porterà, dopo la tappa luganese, in tournée in Cina. Il cartellone propone altre due opere: a marzo Il piccolo spazzacamino di Britten, allestito dal Conservatorio della Svizzera Italiana e dal Coro Clairière, e a giugno l’attesissima Traviata di Verdi con Markus Poschner sul podio dell’Orchestra della Svizzera Italiana e la regia, tutta giocata sugli specchi, di Henning Brockhaus. Quest’anno Reymond ha voluto omaggiare Mendelssohn dedicandogli sei appuntamenti; non poteva dunque mancare l’orchestra che fu diretta per lunghi anni dal compositore amburghese, e che oltre a essere una delle più antiche al mondo (venne fondata nel 1743) è oggi annoverata tra le migliori del pianeta. Il pubblico del Lac potrà applaudirla in due serate, il 21 e il 23 ottobre, guidata dal suo direttore principale Andries Nelsons nelle sinfonie La

grande di Schubert e Scozzese di Mendelssohn, accostate all’ouverture da L’olandese volante di Wagner e al Concerto per violoncello di Schumann con Gautier Capuçon (che a marzo duetterà con Jerome Ducros nelle Sonate di Chopin e Franck e a giugno tornerà col fratello violinista Renaud e il pianista Frank Braley per i Trii di Beethoven). Tornerà Antonio Pappano con l’Accademia di Santa Cecilia che tanto aveva impressionato due stagioni fa (Beatrice Rana, allora solista nel primo Concerto di Ciajkovskij, stavolta porterà a novembre, in un recital di estremo virtuosismo, gli Studi op. 25 di Chopin e il Pétrouchka di Stravinskij). Tornerà soprattutto Riccardo Muti: era già stato a Lugano due anni fa con l’orchestra giovanile Cherubini, stavolta (23 gennaio) sbarcherà con la più celebrata corazzata americana, la Chicago Symphony di cui è guida stabile. Per lui e i suoi formidabili professori statunitensi un programma spettacolare: l’omaggio a Mendelssohn (Calma di mare e felice viaggio) e la sinfonia Dal nuovo mondo di Dvorak. A marzo per la prima volta salirà sul podio del Lac una donna: la ventinovenne lituana Mirga Grazinyte-

Tyla ha attirato su di sé le attenzioni del mondo concertistico soprattutto dopo il suo debutto nel 2015 con la City of Birmingham Symphony Orchestra, di cui è divenuta direttrice musicale succedendo a Nelsons; per lei la terza Sinfonia di Brahms e un primo Concerto di Ciajkoskij tutto al femminile, con Gabriela Montero al pianoforte. È ormai una tradizione irrinunciabile la Pasqua con l’Orchestra Mozart; questa volta non potrà esserci Bernard Haitink, che con i recenti, memorabili concerti a Lucerna ha dato l’addio alle scene, a prenderne il testimone sarà Daniele Gatti. I due appuntamenti di Pasqua e del mercoledì successivo accosteranno due corone classiche a due russi: la domenica Beethoven, con il Triplo Concerto e le ouverture da Leonore e da Le rovine di Atene, alla sinfonia Classica di Prokof’ev, tre giorni dopo Mozart (ouverture dal Don Giovanni e sinfonia Praga) a Stravinskij (Sinfonia in do). Da non dimenticare l’omaggio a ottobre per gli ottant’anni di Heinz Holliger (presente come oboista e compositore), Jordi Savall con la musica del Re Sole e Simone Rubino, percussionista dotato di tecnica e fantasia clamorose.

The King is back

Cd Di nuovo sulla breccia: un nuovo, corposo box set restituisce infine tutta l’emozione

del ritorno sulle scene di Elvis Presley e della sua riconquista dell’universo rock Benedicta Froelich Per quanto, a tanti anni di distanza, alcuni puristi della musica «colta» possano storcere il naso all’idea, una valutazione di Elvis Presley come forza motrice dell’avvento del rock statunitense resta a tutt’oggi imprescindibile per qualsiasi serio studioso della musica popolare angloamericana; soprattutto considerando come, per noi, sia ormai quasi impossibile comprendere l’effetto sismico che l’arrivo di Elvis – e le sue prime apparizioni televisive, nel lontano 1956 – ebbero sull’intera scena musicale dell’epoca. Un impatto che, nel corso degli anni 60, venne purtroppo offuscato da anni di filmetti insulsi e di sfruttamento quasi criminale da parte del cinico Colonnello Parker. Tuttavia, la potenza e il carisma dell’artista Elvis ne rimasero miracolosamente intoccati, conducendolo, nel 1968, a una sorta di determinata «resurrezione» grazie al leggendario Comeback Special trasmesso dalla NBC – evento presto seguito da un tour che, in barba agli sconvolgimenti dell’epoca beat e alla cosiddetta British invasion, avrebbe finalmente riportato il nome di Presley alla ribalta mondiale. Così, secondo una tradizione squisitamente americana, il primo approccio live del redivivo «Re» del rock’n’roll si sarebbe svolto nell’ambito di una

Cosa mi metto?

Undici CD di concerti live registrati a Las Vegas nel 1969.

cosiddetta «concert residency» nella solita Las Vegas, in cui i grandi alberghi offrono a cantanti ed entertainer la possibilità di esibirsi sera dopo sera nel medesimo locale. Oggi, un gustoso cofanetto di ben undici CD, dal semplice titolo di Live 1969, ripercorre parte di questa prima, quasi esitante tournée di Elvis, il quale si trovava infine nuovamente confrontato a un pubblico in carne e ossa; e in effetti, secondo l’opinione di molti, i concerti tenuti presso l’International Hotel di Las Vegas nell’agosto di quell’anno avrebbero segnato uno degli apici della carriera live di Elvis, prima che i quintali di pillole e junk food e le persecuzioni della corte di sicofanti al soldo di Parker ne minassero irrime-

diabilmente il fisico e il morale. Di fatto, quello che questo dettagliato box set ci restituisce è un performer maturo, misurato ma generoso, pieno di energia e voglia di mostrare al mondo ciò di cui è ancora capace – cosa che gli riesce perfettamente, a giudicare dalla sicurezza mostrata nell’affrontare un pubblico che, tra tavoli apparecchiati per la cena e un’età media certo non bassa, gli deve essere apparso per molti versi come quasi sconosciuto. Certo, qua e là Elvis rivela un certo imbarazzo e la struttura dei set tradisce la necessità, da parte sua, di prendere tempo tra un brano e l’altro per riacclimatarsi con le necessità del palco e dell’intera orchestra ora al suo fianco; tuttavia, l’istinto da showman nato prende sempre il sopravvento, permettendo a Presley di mostrare la propria tempra con versioni a dir poco travolgenti di pezzi quali Hound Dog, All Shook Up e I Got a Woman. E nonostante i ripetuti, goffi tentativi di umorismo nati dalle vaghe esitazioni formali l’artista si ritrova palesemente nel suo elemento naturale, inanellando una vigorosa serie di classici del proprio repertorio e perfino di impeccabili cover (tra cui le beatlesiane Yesterday e Hey Jude); per poi presentare in anteprima novità come In the Ghetto e, soprattutto, l’eccelso Suspicious Minds – hit che di lì a

poco avrebbero scalato le classifiche. Ma più di ogni altra cosa, da questi CD traspare come la voce di Elvis fosse ancora incredibilmente fresca e avvolgente; per non parlare dell’immutata energia e sensualità che ogni sillaba da lui scandita riesce a trasmettere, perfino quando l’abitualmente riservato performer si lascia andare a preziosi racconti autobiografici sulla propria carriera, illustrando ai presenti, con umiltà ed autoironia, come si sia infine reso conto di avvertire la mancanza del pubblico. Paradossalmente, il rimpianto che si legge nella sua voce appare come la vera forza motrice in grado di spingerlo ad affrontare nuovamente il palco con la forza di un leone finalmente sfuggito all’odiata gabbia; è anche per questo che, nonostante le inevitabili ripetizioni nelle setlist, gli undici concerti inclusi in Live 1969 sono qui presentati nella loro interezza – oltre che, naturalmente, rimasterizzati in alta qualità e accompagnati da un corposo libretto ricco di immagini e testimonianze. In tal senso, questo box set rappresenta una testimonianza preziosa, al cui indubbio valore artistico si aggiunge quello di documento storico di cruciale importanza non solo per i fan di Elvis, ma anche per qualsiasi vero melomane desideroso di assistere a un momento irripetibile nella storia del rock.

Fino a qualche anno fa, si vedeva solo nei film d’epoca o in mano alle signore «d’epoca», come nonne e zie fasciate da camicie di seta con colletto e fiocchetto, portatrici sane di caldo. Oggi invece, anche in nome della sostenibilità ecologica, il ventaglio spunta dalle borsette delle giovani, delle medie, delle signore e signorine di ogni età. Costituito dal pavese e da una base rigida, cambia di continente in continente, pur avendo lo stesso scopo: quando si suda, permette di ricambiare più rapidamente l’aria satura di umidità in prossimità della pelle, quindi facilita la dissipazione di calore per evaporazione, dando come risultato una confortevole sensazione di freschezza. Si tratta insomma di un ventilatore portatile e del tutto innocuo per chi lo usa e per l’ambiente. Il pavese è di carta in Asia, ricamato o decorato da pizzo in Europa. Recentemente ho trovato ventagli della nonna e della mamma, molto grandi, in pizzo nero: non ho ancora osato utilizzarli (poi il pizzo, non essendo di poliestere ma di seta, ha qualche slabbratura), mentre volentieri porto con me un orrore in plastica, decorato dalla stampa delle eccellenze milanesi, Duomo, Castello, Teatro alla Scala, è un utile regalo, funziona e nella sua pacchianeria non mi verrà chiesto in prestito, quindi rubato, da nessuno. Qualcosa di più prezioso è stato invece ritrovato nella tomba di Tuthankhamon, un ventaglio dal lungo manico composto da piume e palmette. Anche i cinesi usavano ventagli rigidi in bambù, mentre solo secoli dopo i giapponesi, forse studiando le ali dei pipistrelli, inventarono il pratico ventaglio pieghevole. Introdotto in Francia da Caterina De’ Medici, diventò l’oggetto favorito di Elisabetta I d’Inghilterra. Non era troppo di difficile manifattura, dal momento che si diffuse per tutta Europa: prodotto essenzialmente in Francia, Inghilterra, Paesi Bassi e Italia, divenne all’inizio un oggetto aristocratico ed artistico. Successivamente il suo uso si estese a tutti gli strati sociali, da una parte divenne sempre più elaborato, destinato a essere esibito in grandi feste oppure appeso alle pareti come oggetto decorativo, dall’altra divenne più standardizzato, leggero e resistente per l’uso estivo quotidiano. Per secoli il ventaglio venne utilizzato sia da donne che da uomini, che portavano piccoli modelli nelle tasche. Dall’Ottocento, quando le donne cercavano disperatamente dei mezzi di espressione, fino ai primi decenni del Novecento, si è creata poi una sorta di lingua del ventaglio, da cui estrapoliamo alcuni esempi: sostenere il ventaglio con la mano destra di fronte al viso significa seguimi; muoverlo con la mano sinistra: ci osservano; cambiarlo alla mano destra: ma come osi?; lasciarlo scivolare sulle guance: ti voglio bene; sventagliarsi lentamente: sono sposata; sventagliarsi rapidamente: sono fidanzata. Sms in versione rococò.

Un ventaglio giapponese. (Wikipedia)


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Cultura e Spettacoli

Calanca valle d’artisti

Mostre Dopo la Swiss House e le cappelle di Tremlett, la Calanca è di nuovo protagonista

con un percorso espositivo multimediale

Gian Franco Ragno Coordinata da Adria Nabekle, già ideatrice del progetto, e guidata dal direttore artistico Egon Dejori, Calanca Exhibit è una rassegna estiva che si sviluppa su diversi piani, con diversi media e in diverse forme e spazi all’interno del nucleo storico di Santa Maria Calanca, presentando un percorso espositivo che si estende dal cimitero, intorno alla chiesa e al castello sino alle sale interne alla Torre, recuperata per l’occasione. In primo piano, sul terreno dell’antica necropoli, siamo accolti dalle statue di Franz Canins, scultore di Ortisei e quindi anch’egli trilingue, che opera con materiali del legno e acciaio non senza riferimenti in forme ruvide e arcaiche della plastica alpina. Tra le opere in visione, nella quasi totalità situate all’esterno, troviamo anche fotografi. Per primo il fotoreporter ginevrino Guillaume Briquet, il quale fornisce due immagini emblematiche, provenienti da zone sensibili del mondo; la prima di una bambina africana alle porte del deserto e un’altra di una ragazza nelle tende dell’Onu, a seguito del terremoto ad Haiti nel gennaio del 2010. Sulla superficie esterna della chiesa di Santa Maria, la pietra a vista viene ricoperta da alcune immagine del brasiliano Tadeo Vilani che presenta il suo progetto sugli uomini della Pampa in un bianco e nero che ricorda il suo celebre conterraneo Sebastião Salgado. Nella torre del castello, infine, un

Il paese di Santa Maria si trasforma in un’opera d’arte.

autore apparentemente insolito per il luogo, attivo soprattutto nel campo della moda, l’australiano Nino Ellison; la struttura porta inoltre i segni luminosi dell’intervento del giovane graficdesigner iraniano Reza Mousavi. Oltre alle istallazioni, vi sono stati in questi mesi anche altri interventi artistici sotto forma di performance, come quello progettato e condotto dai due land artist Renato Tagli e Sabina Oberholzer – già autori della progettazione e della realizzazione dell’imma-

gine coordinata. Essi infatti il 2 giugno hanno liberato quattrocento farfalle «Vanessa», nell’intento di far loro sorvolare le Alpi, simboleggiando un percorso e la speranza di un approdo sicuro ai migranti che, negli stessi mesi, hanno cercato di attraversare il Mediterraneo. Nella cornice della Val Calanca l’iniziativa, sostenuta da molti attori locali e dal Percento Culturale di Migros Ticino, riesce senza dubbio in uno degli intenti, ovvero quello di recuperare un

dialogo con il territorio, anche sul piano strettamente fisico. Si sono infatti riaperti, resi nuovamente accessibili e recuperati spazi che erano dismessi e abbandonati – oltre a utilizzare quelli preesistenti. Come se, sia per gli abitanti sia per i visitatori, si fossero inaugurate nuove possibilità di lettura del territorio. Ciò è avvenuto in contemporanea anche a poca distanza: nel paese di Rossa, la Swiss House di Davide Macullo decorata all’esterno da un intervento a

bande colorate di Daniel Buren è stata raggiunta a luglio dal restauro e decorazione della chiesa e delle due cappelle seicentesche decorate dalle suggestive forme geometriche dal noto artista britannico David Tremlett (v. «Azione» 2 settembre 2019). Si legge da più parti che queste iniziative potranno aumentare il turismo culturale della regione. Ma forse varrebbe la pena pensare in senso più ampio. D’altronde, in un’epoca come quella attuale, iperconnessa e in cui si confondono il tempo di lavoro e quello del tempo libero, ha ancora senso parlare di centro e periferia in termini di semplice contrapposizione? Oppure, serenamente, si potrebbe sottolineare il valore rigenerativo della frequentazione di tali iniziative culturali, l’arricchimento fornito da alcune esperienze visive il cui merito è, sul territorio e in misure che non possono essere frutto di un mero calcolo economico, quello di riattivare un tessuto sociale e relazionale che la velocità della modernità – in meno di un secolo – ha in parte disperso. Dove quando

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