Un’arzilla, genuina e giovanile veterana.
L’8 agosto del 1933 in Piazza Collegiata a Bellinzona è stato aperto il primo supermercato di Migros Ticino, la più anziana delle dieci cooperative regionali che formano la Federazione delle Cooperative Migros.
In questi primi novant’anni Migros Ticino è cresciuta molto e si è fortemente radicata nel nostro territorio, perseguendo costantemente l’obiettivo di offrire alla popolazione del Ticino e Moesano beni e servizi di qualità al giusto prezzo e contribuendo allo stesso tempo al benessere del tessuto economico e sociale dell’intera regione. In ottica di prossimità, tra supermercati, mercati specializzati come Do it + Garden Migros, melectronics, Micasa, OBI, SportXX, Ristoranti Migros e Take Away Migros, centri fitness e nuovi negozi di prossimità VOI Migros Partner, sono ormai più di 60 le filiali sparse sull’intero territorio cantonale, esercizi che servono giornalmente più di 50 mila avventori.
Migros Ticino per il raggiungimento di questo straordinario risultato deve però ringraziare la propria clientela e questo vuole essere un piccolo gesto per esprimere concretamente tutta la nostra riconoscenza.
In sostanza: 90 anni, tanti auguri a noi. E il regalo lo scartate voi!
Grazie di cuore per la vostra fedeltà da parte di Migros Ticino.
edizione 40
MONDO MIGROS
Pagine 6 – 7
SOCIETÀ
Il dialogo è centrale nella relazione educativa tra genitori e figli, ma con l’adolescenza tutto cambia
Pagina 5
TEMPO LIBERO
La ginevrina Celine van Till, sportiva da sempre, punta alle paralimpiadi con la sua tre ruote
Pagina 15
L’ennesima stangata dei premi delle casse malati ci avvicina a una medicina a tre velocità
ATTUALITÀ Pagina 23
La fragilità dei camosci del Generoso
Le casse malati, gli allocchi e i furbastri
Da martedì scorso, funereo giorno dell’annuncio da parte del ministro Berset sull’aumento sconsolante dei premi delle casse malati (vedi il servizio di Roberto Porta a pag. 23 con tutte le considerazioni tecniche e politiche del caso), il telefono di molte case trilla senza sosta. Dall’altra parte della cornetta si susseguono, a mezz’ore alterne, le voci di persone cordialissime che con tono flautato cercano di convincere l’interlocutore a organizzare un incontro «senza impegno» con un esperto, col quale valutare il passaggio ad una compagnia assicurativa più conveniente.
Non so quante siano queste persone e i relativi esperti, ma immagino un esercito di individui molto agguerrito con mandato di rastrellare gli elenchi telefonici per strapparsi a vicenda i più appetibili candidati «voltamarsina» in campo assicurativo. Saranno onesti, indipendenti nei
loro giudizi o cercheranno di fregarti? Dipende da chi ti capita. Certo che se non hai un minimo di competenza e avvedutezza c’è rischio che ti trovi a firmare contratti assicurativi forse più convenienti a livello di «premi» da sborsare, ma in cambio di prestazioni così risicate che, nel malaugurato caso di aver bisogno di ricovero e cure, potresti pentirti amaramente. Un anno ho dato retta alla terza o alla quarta chiamata, ho accolto «senza impegno» l’esperto suggerito, ho accettato di passare ad un altro fornitore di servizi assicurativi per sentirmi dire, a cena, da un amico apparentemente bene informato: «Sarai mica passato alla … (e mi dice il nome della compagnia assicurativa che effettivamente avevo scelto)?» E via una serie di indicazioni tecniche supplementari tra lo sfottò e lo scandalizzato per la mia pochezza e ingenuità in materia.
Secondo lui mi avevano intortato. Secondo me no, ma in ogni caso – riflettendo – ho dovuto ammettere con me stesso che molti dei colloqui avuti in diverse occasioni della vita con esperti dei più disparati settori, sono in realtà giochini mentali studiati metodicamente per convincerti che hai bisogno di un oggetto o di una prestazione di cui non cogli un’infinità di sfumature, a parte il costo finale, che – a sentir loro – è sempre un affare eccezionale. È così che negli anni si accumulano imperdibili enciclopedie, batterie di pentole in inox a prova di esplosione atomica, aspirapolveri senza filo affamati di acari, micidiali allarmi anti-ladro che neanche Fort Knox. Salvo poi sospettare tardivamente che il più delle volte, anche solo parlando con gli amici o i parenti stretti, l’affare, il «premio» (ecco perché si chiama così), lo vincono sempre i venditori. In quei casi non è difficile sentirsi come quello sprovve-
Intervista a Marie Therese Bätschmann e Simona Ostinelli, co-curatrici di due mostre al Vela
CULTURA Pagina 35
duto turista italo-americano a cui con la sua verve affabulatoria tutta partenopea Totò vendette la Fontana di Trevi nel film del 1961 Totòtruffa L’impennata dei premi assicurativi è una spina nel fianco per numerose economie domestiche soprattutto in Ticino, il cantone più penalizzato dagli aumenti: +10,5%.
È quindi una gran bella opportunità che il cittadino dalle tasche più o meno vuote possa cambiare assicuratore come e quando vuole. Ed è consolante sapere che molti, destreggiandosi nel campo alieno dei calcoli e delle tabelle, lo facciano con scienza e coscienza risparmiando di anno in anno significativi gruzzoletti. Ma per quanto mi riguarda, per questa mandata, lascerò squillare il telefono a vuoto. E ripiegherò su un film in bianco e nero di allocchi e furbastri d’altri tempi, così simili a quelli di oggi. Almeno, seppur amaramente, potrò riderci sopra.
Il nuovo
Perfetto per la quotidianità
Il nuovo ID. Buzz apre le porte a una nuova dimensione della mobilità elettrica. Versatile, completamente connesso e rivisitato da cima a fondo, è il compagno ideale per famiglie, amanti dell’avventura e per la vita quotidiana moderna. Scoprite la mobilità sostenibile abbinata a un design futuristico, una sensazione di spazio tutta nuova e tecnologie innovative. Fate subito un giro di prova e approfittatene!
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SOCIETÀ
Una ricerca su come si nutrono i ragazzi
L’Ufficio federale della sicurezza alimentare ha dato il via allo studio MenuCH-Kids che indagherà cosa, come, quando e dove mangiano i ragazzi tra i 6 e i 17 anni
La truffa dietro le telefonate shock
I raggiri telefonici ai danni delle persone anziane sono in forte crescita in tutta la Svizzera: per arginare il fenomeno parte oggi una campagna nazionale di prevenzione
L’importanza del dialogo nell’educazione
Il caffè delle mamme ◆ Parlare con i figli adolescenti è davvero impossibile? E i genitori come devono comportarsi?
Con i figli teenager non esistono ricette semplici né universali, bisogna coltivare la capacità di adattarsi alle richieste e alle necessità dell’adolescente. (Pexels)
«I genitori devono sapere che la loro parola è significativa fino a 12 anni. Punto. Poi si interrompe la relazione verticale genitore-figlio e comincia quella orizzontale con gli amici». Qualche tempo fa un video rilanciato su Instagram mi sottopone un’intervista dello psicoanalista e filosofo Umberto Galimberti, 81 anni. Le sue parole diventano un tarlo nella mia testa: parlare con i figli adolescenti, argomento che peraltro alimenta un filone ultra-florido della saggistica per boomers, è una partita persa in partenza? Decido di portare la questione all’attenzione de Il caffè delle mamme: c’è davvero un’età del dialogo e poi il rischio di tenebre? Per rispondere all’interrogativo chiamo in causa Tomaso Vecchi, professore ordinario di Psicologia cognitiva e sperimentale e vicerettore dell’Università di Pavia, che ribadisce: «L’adolescenza rappresenta un passaggio di distacco dalla famiglia e di maggior importanza delle amicizie, ossia di legami tra pari. È un passaggio naturale e ovvio in cui giocoforza le parole dei genitori contano meno».
I motivi li sperimentiamo quotidianamente sulla nostra pelle: con l’adolescenza il ruolo dei genitori è mes-
so in discussione e quegli occhi che ci guardavano con amore infinito ora rilanciano spesso uno sguardo critico. «Del modello genitoriale – sottolinea Vecchi – viene copiato ciò che piace o è ritenuto giusto; mentre ciò che non piace dei nostri comportamenti viene allontanato». Ed è inutile illudersi: di solito risaltano di più i nostri difetti che i nostri pregi. «Siamo ormai verso la fine del processo educativo e formativo primario – spiega Vecchi –. Da un lato c’è quello che la famiglia ha dato e dall’altro ciò che propone il mondo esterno. Senza dimenticare che l’adolescenza è un periodo di grande forza emotiva. È una sorta di “innamoramento” nei confronti della vita che, come ogni innamoramento, porta con sé una forte spinta verso il cambiamento».
Che cosa fare, allora? Come è meglio comportarsi?
La sfida a Il caffè delle mamme è di provare, per una volta, a rifletterci ribaltando la questione: non concentriamoci su come possiamo avere un buon dialogo con i figli adolescenti, ma su cosa possiamo fare prima. Nell’età in cui è più facile gettare le basi. Galimberti, sempre nel video L’importanza del dialogo e dell’esempio
nell’educazione dei figli, dà un consiglio che consideriamo prezioso: «Bisogna parlare tanto con i figli fino a 12 anni, a iniziare da quando sono piccoli. Quando hai parlato tanto con i figli devi sapere che a 12 anni loro non parleranno più con te, però tu sarai il punto di riferimento di un dialogo possibile che ricomincerà dopo, intorno ai vent’anni». Leggere storie insieme, giocare insieme, passare del tempo insieme senza altre distrazioni. Un giorno Dante, protagonista del film di Alessandro Aronadio Era ora (2023), a cui una giornata non basta mai, che arriva sempre in ritardo e si barcamena a fatica tra i mille impegni quotidiani di lavoro e vita privata, chiede alla figlia Galadriel: «C’è qualcosa che io non faccio e che invece tu vorresti da me?». La 10enne risponde: «Più tempo». «Cioè – domanda il padre –, nel senso di passare più tempo insieme?». «No, è solo che quando stiamo insieme stai sempre con il computer o il telefono. Voglio stare con te, proprio con te». «A fare cosa?». «Niente, però insieme». Ragiona Galimberti in un’intervista per TgPoste: «Molti padri si annoiano a parlare con i figli piccoli, molte madri si concentrano troppo sul li-
vello fisico, sulla salute e sul non farsi male. Non che sia sbagliato, ma ogni tanto bisognerebbe chiedere anche a un bambino “sei felice?”. Se non si fa da subito, quando i ragazzi diventano grandi le parole dei genitori diventano parole vane». E fin da quando sono piccoli è bene anche parlare di qualsiasi argomento. Ricordiamoci quanto discusso al Caffè nell’agosto 2022 sulle «Parole giuste»: piacere, sesso, eiaculazione, mestruazioni, baci, innamoramento e amore sono tutti temi che si possono affrontare senza tabù e che vanno affrontati sempre prima, altrimenti siamo battuti sul tempo da TikTok.
Dopo, quando arriva l’adolescenza, al Caffè ci siamo convinte che più che le parole a contare siano almeno due cose: l’esempio e la capacità di ascoltare. «Nell’adolescenza in quanto periodo di passaggio sicuramente critico in cui non è più solo il genitore a definire cosa è giusto, ma entra nella relazione anche il giudizio del giovane, più che le parole, diventa davvero importante l’esempio», conferma Vecchi. Sull’importanza della capacità di ascoltare mi ha fatto riflettere la moltitudine di WhatsApp audio che mi ha inviato Clotilde, la mia 14enne,
mentre faceva la prima liceo in Baviera: il suo desiderio spesso non era sapere come la pensavo io, ma semplicemente essere ascoltata. Di qui, anche nella vita quotidiana, l’importanza di ascoltare i teen senza continuare a interromperli per dare giudizi o tempestarli di domande.
Resta, poi, forte la convinzione che per comprendere gli adolescenti sia necessario conoscere i loro stili di vita, cosa piace, le parole che usano di cui è utile sapere il significato. Per rispondere a questa esigenza, e autodenuncio subito il mio conflitto d’interessi, è nata la rubrica di «Azione» Le parole dei figli. Attenzione, però: «Non esistono ricette semplici né universali, ma capacità di adattarsi alle richieste e alle necessità dell’adolescente. Le differenze individuali sono fortissime e giocano un ruolo prioritario nel definire la “strada da seguire”. Non possono esistere regole universali, neanche all’interno della stessa famiglia: il processo educativo va rapportato allo stile relazionale e affettivo che l’adolescente ha sviluppato e che può essere diverso anche tra fratelli».
Rassicurazione consolatoria: con l’adolescenza non cambia la profondità della relazione, ma la sua modalità.
Un piccolo cavolo dal grande gusto
Attualità ◆ I cavoletti di Bruxelles conquistano non solo per la loro bontà, ma anche per i benefici che apportano al nostro organismo. Nella settimana corrente questo ortaggio stagionale è in offerta speciale alla Migros
Gratin di cavoletti di Bruxelles e castagne
La famiglia dei cavoli si compone di diverse varietà di ortaggi, tra cui per esempio la verza, le cime di rapa, il cavolfiore, i broccoli, il cavolo rosso e bianco e i cavolini di Bruxelles. Quest’ultimi, rispetto agli altri ortaggi, sono relativamente recenti e sono stati coltivati per la prima volta proprio nella regione della capitale belga, nel 18esimo secolo. Oggi sono coltivati con successo anche nel nostro Paese. I cavolini si sviluppano sul fusto
principale della pianta. Ogni rosetta è composta da tante piccole foglie disposte l’una sull’altra e somiglia a una piccola verza. Di colore che va dal verde chiaro al verde scuro, le sfere hanno una dimensione di ca. 3-4 centimetri.
Grazie al loro elevato tenore di vitamine e sali minerali, i cavoletti di Bruxelles sono dei preziosi alleati per la nostra salute. Contengono anche olio di senape, che aiuta in caso di malattie delle vie respiratorie. Il lo-
ro particolare sapore amarognolo non è apprezzato da tutti, ma viene attenuato quando la pianta è stata esposta al freddo. I cavoletti di Bruxelles sono un delizioso contorno per molti tradizionali piatti della stagione fredda, come selvaggina, arrosti, spezzatini, ma anche come piatto principale abbinati per esempio a spätzli, riso e pasta. Si gustano prevalentemente cotti, bolliti o saltati in padella. Si possono con-
sumare anche crudi, ma risultano più difficili da digerire. Si prestano bene al congelamento.
All’acquisto fare attenzione che gli ortaggi siano sodi e abbiano le foglioline compatte e di un verde brillante. Per stuzzicare il vostro appetito, in questa pagina vi proponiamo un’invitante ricetta per un piatto unico dal sapore autunnale, ideale anche per coloro che seguono una dieta vegetariana. Buon appetito!
Biscotti e merendine Mulino Bianco
Ingredienti per 4 persone
• 6 00 g di cavoletti di Bruxelles
• sale
• 250 g di castagne con la buccia
• 4 uova
• 4 dl di latte
• pepe
• 100 g di formaggio, ad es. Emmentaler
Come procedere Mondate i cavoletti e cuoceteli al dente in abbondante acqua salata per ca. 10 minuti. Scolateli, passateli sotto l’acqua fredda e fateli sgocciolare bene.
Con un coltello affilato, praticate un’incisione a croce sulla buccia delle castagne. Immergetele in acqua bollente e lasciatele cuocere per 5 minuti. Scolatele e immergetele in acqua fredda. Pelatele e distribuitele in una pirofila con i cavoletti.
Scaldate il forno statico a 200 °C. Sbattete le uova con il latte e condite con sale e pepe. Versate la miscela sui cavoletti e le castagne. Grattugiatevi il formaggio e gratinate al centro del forno per ca. 20 minuti. Servite il gratin con un’insalata di carote o un’insalata a foglie.
Novità ◆ Diversi prodotti del celebre marchio italiano entrano a far parte dell’assortimento di Migros Ticino
1. Pan di Stelle
Mulino Bianco
350 g Fr 3.10
2. Flauti Cioccolato
Mulino Bianco
280 g Fr. 4.90
3. Molinetti
Mulino Bianco
350 g Fr. 3.45
4. Plumcake Mulino Bianco
330 g Fr. 4.90
Nella frenesia di tutti i giorni, è importante ritagliarsi qualche momento di relax, per esempio concedendosi una pausa e gustando l’irresistibile bontà della pasticceria italiana a firma Mulino Bianco, che offre diverse golose varianti di biscotti e merendine.
Le ricette dei prodotti Mulino Bian-
co regalano un piacere senza compromessi, grazie anche all’assenza di olio di palma, coloranti, conservanti, grassi idrogenati e OGM. Per la gioia di grandi e piccini, Migros Ticino ha introdotto nel suo assortimento cinque prodotti del noto marchio italiano. I biscotti Pan di Stelle sono un
grande classico che conquista i palati grazie alla perfetta combinazione di cacao, nocciole e latte fresco italiano. Gusto intenso e aromatico caratterizza i frollini Molinetti con grano saraceno e zucchero di canna. Morbidi e profumati, i Cuor di Mela sono fatti con fragrante pasta frolla e con-
fettura e pezzetti di mele golden delicious 100% italiane. Per una merenda dal sapore unico, ecco i Plumcake con delizioso yogurt italiano accuratamente selezionato, oppure i sofficissimi Flauti di pasta lievitata naturalmente e prelibata crema di cioccolato.
5. Cuor di Mela Mulino Bianco
300 g Fr. 3.45
Risparmiare acqua e costi con Neoperl e OBI
Attualità ◆ Venerdì 6 e sabato 7 ottobre un esperto dell’azienda leader Neoperl sarà ospite del centro OBI S. Antonino per una consulenza alla clientela sul tema del risparmio idrico
Risparmiare acqua è oggi più che mai un tema fondamentale, non solo per la salvaguardia del nostro prezioso pianeta, ma anche perché permette di economizzare sulla bolletta dell’acqua. A tale scopo, gli innovativi regolatori di getto Neoperl sono la soluzione ideale. Facili e semplici da installare sulla maggior parte dei rubinetti esistenti, consentono di risparmiare fino al 60% di acqua. Presso il centro OBI
S. Antonino la clientela può trovare un’ampia gamma di dispositivi per il risparmio idrico casalingo di questo marchio leader mondiale nel settore idraulico. Coloro che desiderano approfondire la tematica dei sistemi volti a ridurre efficacemente il consumo d’acqua e scoprire le ultime novità in questo settore, potranno far capo a una consulenza personalizzata da parte di un esperto Neoperl, che sarà a disposizione della clientela durante il prossimo finesettimana.
Il gruppo Neoperl nasce oltre 60 anni fa in Svizzera e in Germania. Oggi la sede principale per le vendite è situata a Reinach, vicino a Basilea, mentre produzione, ricerca, sviluppo e logistica sono a Müllheim in Germania. L’azienda si è specializzata nello sviluppo e nella produzione di soluzioni sostenibili per l’acqua potabile. I prodotti Neoperl forniscono un prezioso contributo nell’ambito della riduzione dei consumi e nella protezione del clima e dell’ambiente.
I giovani e il cibo sotto la lente
Studio nazionale ◆ MenuCH-Kids indagherà su come, cosa, quando e dove mangiano i ragazzi svizzeri
Guido GrilliChi mangia sano campa cent’anni. Uno studio nazionale – il primo in assoluto nel suo genere ed esteso anche al Ticino – si propone di scoprire come si cibano giovani e adolescenti. Cosa, quanto, quando e dove si rifocillano i giovani tra i 6 e i 17 anni? È racchiusa in questa articolata domanda l’indagine sul comportamento alimentare denominata MenuCH-Kids.
Il campione è stato scelto in modo casuale e, a breve, si metterà all’opera per rispondere alle esigenze dei ricercatori: 1800 i partecipanti, su base volontaria, che hanno aderito all’appello e saranno così chiamati a tenere un diario alimentare, annotando con precisione (i più piccoli con l’aiuto dei genitori) il loro consumo di cibo e bevande quotidiano. Di più: verranno intervistati una volta di persona da uno specialista in un centro studi e in un secondo momento interpellati nuovamente per telefono. Alla ricerca partecipano anche l’Università della Svizzera italiana, l’Istituto pediatrico della Svizzera italiana e l’Ente ospedaliero cantonale. Vicedirettrice e responsabile per il Ticino è la professoressa Suzanne Suggs. Siamo andati «dietro le quinte» dello studio e abbiamo interpellato i committenti dell’indagine, l’Ufficio federale della sicurezza alimentare e di veterinaria (USAV). A offrirci la
loro voce, la portavoce, Sara Camenisch. Quali sono le principali questioni che l’USAV intende portare alla luce? «Lo studio ci consentirà di ottenere una comprensione completa dell’assunzione di cibo, energia e sostanze nutritive da parte dei bambini e degli adolescenti in Svizzera. I risultati ci aiuteranno a sapere se i giovani consumano una dieta coerente o meno con le linee dietetiche svizzere. Inoltre, ci permetteranno di ricavare valori di riferimento nazionali per micronutrienti e vitamine selezionati per bambini e adolescenti. I risultati ci aiuteranno anche a determinare i valori massimi di assunzione alimentare per contaminanti e pesticidi».
L’indagine affronterà anche problematiche diffuse tra i giovani, come bulimia, anoressia e sovrappeso?
«Al momento non possiamo dire se questi problemi siano “diffusi” in tutto il Paese, perché non disponiamo ancora di dati demografici di qualità sui giovani in Svizzera. Attraverso MenuCH-Kids saremo in grado di ricavare informazioni aggiornate su sovrappeso, obesità e salute metabolica nei bambini, nonché sulla percezione soggettiva del proprio corpo. Inoltre, poiché lo studio fornirà una comprensione completa di cosa, dove e quando mangiano i giovani, ciò ci aiuterà senz’altro a trarre conclusioni
Scatena la tua passione per le verdure.
anche sui loro modelli di stile di vita». Uno studio simile sull’alimentazione era già stato effettuato nel 2015, ma rivolto esclusivamente agli adulti. Quali sono stati, in sintesi, i risultati di quel target? «Dall’indagine nazionale sull’alimentazione degli adulti (MenuCH) emerge che in Svizzera sono pochissime le persone che seguono un’alimentazione equilibrata. Appena il 10% degli intervistati consuma quotidianamente le cinque porzioni raccomandate di frutta e verdura. Il consumo di carne è tre volte superiore a quello raccomandato. Le persone consumano anche troppi cibi dolci, salati e grassi. La percentuale di oli vegetali e noci è invece troppo bassa. I risultati nel dettaglio si possono consultare sotto la voce Lebensmittelkonsum in der Schweiz (admin.ch)». Ora, insomma, non resta che attendere quanto riveleranno i risultati relativi all’alimentazione dei più giovani, dai bambini in età scolastica fino agli adolescenti in prossimità dell’età adulta, che rappresentano una significativa porzione della popolazione. Un’alimentazione equilibrata è decisamente importante per un sano sviluppo fisico e psichico di piccoli e adolescenti. Le conclusioni di MenuCh-Kids sono particolarmente attese perché daranno una bussola per le scelte strategiche nel campo della sa-
nità e per individuare i possibili rischi legati alle derrate alimentari, nonché per approntare misure d’intervento nel campo delle scienze nutrizionali, alimentari e comportamentali. Già, perché in Svizzera – come indicano le premesse dei ricercatori – si sa poco del comportamento alimentare delle fasce di età che riguardano bambini e adolescenti. Un target decisivo, dal momento che è noto che le abitudini alimentari sviluppate in giovane età nella maggior parte dei casi vengono mantenute anche da adulti. E di fronte a un’alimentazione malsana i rischi sulla salute possono aumentare: obesità, diabete, carie dentali, malattie cardiovascolari, cancro. Il sondaggio commissionato dall’USAV si propone di andare in profondità di numerose tematiche e di seguire una ricerca meticolosa: compilazione di un diario alimentare, interviste nonché registrazione di altri indicatori, quali l’altezza, il peso corporeo, la circonferenza dei fianchi e della vita dei partecipanti.
Le informazioni ottenute servi-
ranno a fornire in particolare risposte preziose sui seguenti quattro punti: caratterizzare le abitudini alimentari e i comportamenti sanitari; determinare lo stato nutrizionale, l’apporto energetico e di sostanze nutritive; stimare l’assunzione giornaliera e stabilire i valori massimi di contaminanti e pesticidi innocui per la salute; ricavare valori standard nazionali per determinati biomarcatori del sangue e delle urine. Lo studio richiede tempo perché considererà con oculatezza anche le influenze stagionali sul consumo delle diverse pietanze. Sei sono le sedi dei centri di studio distribuite in tre regioni linguistiche: Bellinzona, Losanna, Berna, Lucerna, Zurigo e San Gallo. Lo svolgimento dello studio principale dell’indagine durerà un anno e si protrarrà fino al settembre 2024. Le valutazioni dei risultati saranno invece eseguite a partire dall’ottobre 2024. Cosicché gli autori di MenuCH-Kids potranno finalmente servire… sul piatto gli attesi riscontri il 31 maggio 2025.
Riappendete subito per evitare la truffa
Anziani ◆ I raggiri telefonici fatti con chiamate shock sono un fenomeno in crescita, al via una campagna nazionale di prevenzione
Stefania HubmannNotizia scioccante con richiesta di denaro uguale truffa. È questa la formula che bisogna tenere presente quando si risponde a una chiamata telefonica che comunica una situazione di emergenza in cui si trova un familiare, situazione risolvibile pagando. Questo anche quando l’interlocutore si presenta come un agente di polizia o un medico. La nota «truffa del falso nipote», che colpisce nell’intera Svizzera soprattutto le persone anziane, è in rapida crescita con continua evoluzione dei contenuti, ma non della sostanza. Attualmente le sue varianti sono appunto quelle del poliziotto, del primario, dell’avvocato. Per insistere sulla prevenzione parte oggi la campagna nazionale Niente panico! Riappendete subito! lanciata dalla Prevenzione svizzera della criminalità e dai Corpi di polizia cantonali e comunali (chiamate-shock.ch). L’iniziativa – comprendente uno spot televisivo, manifesti, volantini ed espositori da tavolo – è sostenuta dalla Conferenza delle direttrici e dei direttori dei dipartimenti cantonali di giustizia e polizia (CDDGP) e da Pro Senectute Svizzera. Quest’ultima presenta pure i risultati di uno studio sugli abusi finanziari ai danni degli over 55 realizzato negli scorsi mesi. Dati che, per la principale organizzazione nazionale di servizi e prestazioni per le persone anziane e i loro familiari, evidenziano «tendenze allarmanti».
Shock è la parola chiave di queste chiamate il cui schema è sempre il medesimo. Una presunta figura autorevole comunica, senza accento e con un linguaggio appropriato alla sua presunta funzione, una notizia scioccante (falsa) che provoca nella vittima uno stato di stress: indotto dall’interlocutore proprio perché in preda a forti emozioni, è più difficile agire razionalmente e la disponibilità ad aiutare con il denaro è di conseguenza più elevata. «Lo shock è di regola doppio al momento in cui si comprende di essere stati raggirati», spiega il sergente maggiore Patrick Cruchon del Servizio comunicazione media e prevenzione della Polizia cantonale che ha già
Viale dei ciliegi
Dopo Wonder, clamoroso successo internazionale (riverberato anche sul film, del 2017, con Julia Roberts), ecco un nuovo romanzo della Palacio, ben tradotto in italiano da Mario Sala Gallini. Stavolta l’autrice ci porta nel Far West, nel 1860. Si parla di schiavisti e abolizionisti, si parla di cercatori d’oro, ma più ancora si parla di storia della fotografia, che proprio in quegli anni si affermava a livello popolare, con i meravigliosi dagherrotipi, e tutto il fascino di una scienza che sembrava magia. Ma soprattutto si parla di un ragazzo, Silas Bird, alla ricerca avventurosa, tra boschi, rocce, paludi, cascate e caverne, di suo padre, Martin Bird, calzolaio di professione ma fotografo per passione. Un fotografo geniale, profondo conoscitore delle scienze chimiche, e un padre amorevole, in grado di crescere al meglio il suo bambino, dopo la morte della moglie. Questa figura materna assente è però molto presente, nei pensieri di Silas, che ha una specia-
condotto quest’anno una serie di incontri informativi in collaborazione con Pro Senectute Ticino e Moesano e altre associazioni attive sul territorio.
«Il sentimento di vergogna non deve impedire di parlare dell’accaduto e di sporgere denuncia – prosegue Patrick Cruchon – perché alla Polizia serve ogni possibile informazione per cercare di intervenire con tempestività».
Alle notizie delle truffe messe a segno si aggiungono infatti sempre più anche quelle di arresti connessi a queste fattispecie, come avvenuto ancora il 13 settembre scorso a Maggia.
«Riappendete subito!» è quindi quanto invita a fare la campagna di prevenzione che punta a consigliare la popolazione su come agire in questi casi. Suggerimenti che passano attraverso uno spot televisivo nel quale è messa in scena una chiamata shock (trasmesso da oggi sui canali RSI, SRF e RTS), manifesti, volantini ed espositori da tavolo. Questi ultimi riassumono sul retro le principali raccomandazioni: non fatevi mettere sotto pressione, interrompete subito la chiamata, contattate la persona indicata come vittima (per vedere se va tutto bene), non consegnate mai contanti o altri oggetti di valore (gioielli, orologi) a una persona che non conoscete, segnalate la truffa in polizia. «Il materiale della campagna e in particolare l’espositore da tavolo – aggiunge il rappresentante della Polizia cantonale – è disponibile agli sportelli dei posti di polizia, ma può venire richiesto anche per essere esposto in luoghi sensibili, penso ad esempio a banche, farmacie, negozi di paese». Da parte sua Pro Senectute – precisa Laura Tarchini, responsabile della comunicazione di Pro Senectute Ticino e Moesano –«finanzia una campagna di affissione a livello nazionale, oltre a distribuire il materiale attraverso i propri canali di consulenza».
Il problema delle chiamate shock ai danni degli anziani è per gli addetti ai lavori di grande attualità e va affrontato rapidamente. I dati danno loro ragione. Ancora Patrick Cruchon per quanto riguarda il Ticino: «L’an-
no scorso abbiamo registrato 22 truffe consumate per un danno complessivo di 800mila franchi. La media matematica di circa 36mila franchi a truffa è indicativa dell’ingente importo che viene chiesto alla singola vittima, appartenente a una fascia di popolazione vulnerabile». A spingere per una campagna di prevenzione di carattere nazionale sono i dati a livello svizzero di quest’anno che indicano come nel 2023 siano già state registrate oltre 2800 chiamate shock il cui danno economico ammonta a 8 milioni di franchi. Il numero di casi risulta essere tre volte superiore a quello dell’anno scorso.
Una conferma sul fenomeno degli abusi finanziari nel loro insieme ai danni degli anziani giunge dai risultati dello studio realizzato quest’estate dall’Institut de lutte contre la criminalité économique della Scuola universitaria di Neuchâtel per conto di Pro Senectute Svizzera. L’indagine stima le perdite economiche a circa 675 milioni di franchi all’anno, con un aumento di due terzi rispetto a cinque anni fa, quando venne commissionato un primo studio sul tema. In crescita anche la frequenza con la quale gli anziani vengono in contatto con attività criminali. Negli ultimi cinque anni infatti quasi quattro per-
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le capacità di vedere l’invisibile: infatti, nel suo periglioso viaggio alla ricerca del padre sarà accompagnato da un ragazzo, suo amico da sempre, il quale però è un fantasma. Non un amico immaginario, ma proprio un fantasma, così come fantasmi – persone non ancore pronte a congedarsi del tutto da questo mondo – sono altri intensi personaggi del libro.
E la scienza fotografica in fondo è una metafora di tutto questo, ed è lo stesso Silas, io narrante a posteriori della sua intensa avventura infantile, ad affermarlo: «Ancora oggi, e sono
passati tanti anni, non posso sentirmi troppo triste per il passaggio delle anime tra i mondi, perché so com’è, come vanno e vengono per noi attraverso i secoli, nelle nostre esistenze. Non è molto diverso dai ferrotipi di papà, questo ho capito. Non vediamo le immagini finché la luce del sole, o qualche altro misterioso fattore, non dà forma all’invisibile. Ma sono lì».
E c’è molto altro, ancora, in questo così denso romanzo: Fénelon, l’Odissea, banditi, sceriffi, crimini, violini, libri antichi, cavalli, soprattutto il Pony del titolo, creatura misteriosa, forse un po’ ibrida tra i mondi, il quale, come il giovane fantasma, accompagnerà Silas, novello Telemaco, alla ricerca del padre.
Landis Blair
La coperta di stelle
Feltrinelli (Da 4 anni)
È sicuramente un omaggio al Paese dei mostri selvaggi di Maurice Sendak, celebratissimo classico che ora compie sessant’anni, ma là al centro c’era la rabbia di Max, quel furore di bimbo «sopra le righe» che finiva
sone su cinque (il 78,2%), hanno subito un tentativo di frode. La maggior parte di loro ha riconosciuto l’imbroglio, ma quasi il 20% è comunque caduto nel tranello. Peter Burri Follath, responsabile della comunicazione di Pro Senectute Svizzera, sottolinea che dallo studio emerge anche, quale dato principale, il netto aumento della criminalità informatica. «I tentativi di arricchirsi sfruttando questi mez-
Incontri informativi
Monte Ceneri – 4 ottobre, 14.30, Centro diurno Rivera Osogna – 5 ottobre, 14.00, Sala polivalente Istituto scolastico
Gambarogno – 12 ottobre, 14.00, Municipio Chiasso – 13 ottobre, 14.00, Sala del Consiglio Comunale Carena, Val Morobbia – 25 ottobre, 14.00, Protezione civile
Besso – 6 novembre, 17.00, Sala multiuso scuola elementare Massagno – 8 novembre, 14.00, Salone Cosmo Monte Carasso – 30 novembre, 14.00, Centro incontro anziani.
per scatenare la ridda fantastica con i mostri, qui invece siamo nell’ambito di una storia della buonanotte, e il fulcro è piuttosto il mondo fantastico che si cela sotto la coperta del lettino di Watson. Una normale coperta a quadrettoni può diventare un portale verso mondi meravigliosi, e in questo senso viene in mente piuttosto un bel libriccino di Cecco Mariniello, La tana in fondo al letto, edito più di vent’anni fa da Emme e ora purtroppo fuori catalogo, anche se la sua freschezza sarebbe tuttora vividissima. Landis Blair è un giova-
zi sono quasi raddoppiati negli ultimi cinque anni, raggiungendo un totale pari al 52,3% delle persone intervistate. Come indica l’analisi dei dati, fra le possibili cause figura la pandemia, che ha contribuito a promuovere la digitalizzazione. Quest’ultima ha inoltre favorito una maggiore dipendenza degli anziani dalle relazioni di fiducia con terze persone, relazioni sfruttate per abusi finanziari che risultano i più ingenti dal punto di vista economico». «È quindi importante che le forme di prevenzione siano variate e sempre adattate alla realtà, come suggerisce il direttore di Pro Senectute Svizzera Alain Huber», conclude Peter Burri Follath, aggiungendo che è necessario promuovere anche maggiori discussioni in famiglia su queste problematiche. I risultati complessivi dello studio indicano che il numero di persone danneggiate è diminuito, ma i tentativi di abusi finanziari di vario genere aumentati, così come gli importi sottratti. Puntare sulla prevenzione è pertanto sempre attuale.
In Ticino la Polizia cantonale, insieme a Pro Senectute, ATTE e altre associazioni attive a favore degli anziani, ha promosso quest’anno con un successo crescente anche un’azione mirata. Fra gennaio e giugno 2023 sono stati organizzati dodici incontri informativi, raggiungendo circa 500 anziani. A settembre è già iniziato un nuovo ciclo di appuntamenti (vedi calendario a lato). Gli incontri, grazie anche alla possibilità di interazione in presenza, permettono di accrescere la consapevolezza dei partecipanti rispetto a varie tipologie di reato, dai borseggi ai furti nelle abitazioni, dalle vendite ingannevoli a domicilio alle frodi legate all’utilizzo di Internet e del telefono, sia esso fisso o cellulare. Di fronte a truffatori sempre più scaltri e privi di scrupolo, la prevenzione tramite campagne e incontri, frutto della stretta collaborazione fra enti che operano a favore degli anziani e forze dell’ordine, resta un importante strumento di azione per evitare alle persone vulnerabili, oltre alla perdita finanziaria, una grande sofferenza.
ne autore/illustratore americano noto finora per le sue storie dark, ma questo è il suo primo albo illustrato e qui di dark c’è solo l’ambientazione notturna, espressa anche dai colori scuri, tra la cameretta di Watson e il mondo fantastico che si dipana ai suoi occhi, man mano che si inoltra sotto la coperta, guidato da un manto di stelle che brillano per lui, indicandogli il sentiero da percorrere. Watson non riesce a dormire, pensa ai mostri che potrebbero nascondersi nel buio, ma quando arriva nella foresta, sotto le stelle, incontrerà tanti mostri gentili, che giocheranno con lui, e lo inviteranno a proseguire il suo viaggio. Ogni tappa è scandita dal refrain «e dato che Watson non aveva sonno…», ironicamente contraddetto dal suo faccino sempre più assonnato, finché finalmente egli riemergerà dalla coperta (insieme al suo gattino di pezza, fedele e rassicurante compagno del mondo di Qua in tutta l’avventura di Là) e potrà addormentarsi tranquillamente, mentre i simpatici mostri lo saluteranno, avviandosi pian piano a tornare verso il loro Altrove.
La conservazione dei camosci del
Mondoanimale ◆ Procede lo studio di monitoraggio dell’ultima popolazione di Rupicapra rupicapra a sud delle Alpi; un progetto che
Maria Grazia BulettiParliamo dei camosci alpini (Rupicapra rupicapra): una specie di ungulati presente nell’intero arco alpino, dove si registra tuttavia un’importante diminuzione di esemplari. Più precisamente, in alcune regioni, il numero degli individui è andato riducendosi fino della metà negli ultimi quindici anni.
«La popolazione di camosci del Monte Generoso è molto particolare perché si tratta della popolazione più a Sud dell’arco alpino Svizzero». È la premessa di Norman Polli, presidente del Comitato distrettuale cacciatori del Mendrisiotto, con cui facciamo mente locale su questo gruppo di ungulati: «È una popolazione chiusa e isolata in seguito alla perdita di habitat e alla sua frammentazione, insediatasi in una zona non protetta e dalla grande valenza turistica».
I camosci del Monte Generoso sono protetti da una ventennale bandita di caccia che tuttavia non basta a salvarli
Sottolineando che sono «protetti, dunque non cacciati», egli porta comunque l’attenzione sul fatto che, allo stato attuale delle cose «Il rischio legato a questa situazione è dato dalla possibile importante consanguineità degli individui, che può portare a una loro diminuzione e, in caso estremo, all’estinzione».
Il loro benessere sta a cuore oggi così come nel 2004, quando furono soggetti di un’importante campagna politica che mobilitò la popolazione del Cantone per la loro protezione. Sono passati circa vent’anni dal periodo in cui i camosci del Monte Generoso si ritrovarono di colpo al centro di un acceso dibattito sull’opportunità o meno di aprire la caccia contro di loro. Ma poi,
afferma Polli: «L’attenzione mediatica si è affievolita col tempo e al giorno d’oggi si sa davvero poco sul loro stato di salute, sulle abitudini e su come si evolve la genetica di questi ungulati». Da qui l’importanza di investigare nel dettaglio il loro stato di benessere: «Negli ultimi anni, sul Generoso si è assistito a una diminuzione notevole del numero di individui. Ma ci dobbiamo ricordare bene che, se vogliamo tutelare e conservare questi animali, è importante investigare la loro salute generale, individuo per individuo, in modo da capire quale sia lo stato effettivo della popolazione». E ribadisce il concetto secondo cui «la sopravvivenza e la salute dei camosci del Genero-
so sono fondamentali per il mantenimento della biodiversità e di tutta la fauna della montagna». Per affrontare quanto auspicato è stato lanciato uno studio dal Comitato distrettuale dei cacciatori del Mendrisiotto (presieduto da Polli) col sostegno della Consiglio di Cooperativa di Migros Ticino, oltre che dell’Ufficio cantonale della caccia e della pesca, dal WWF e da altri enti, il cui comune intento è esplicitato all’unisono da Polli e da Federico Tettamanti, responsabile del progetto per la conservazione della popolazione dei camosci alpini del Generoso: «Tale conservazione parte da qui, da uno studio dettagliato della situazione attuale del loro stato fisico ora sconosciuto.
La sua importanza sta nel dare piena priorità agli animali selvatici, cercando di capire cosa si può fare per i loro veri problemi. Non si può intervenire per conservare una popolazione di animali selvatici senza informazioni circostanziate sul loro stato in sé, perché si potrebbero creare problemi aggiuntivi».
Il progetto ha la durata di un paio d’anni (dal 2023 al 2025), e Tettamanti ne riassume i contenuti: «Studieremo la conservazione del camoscio del Monte Generoso, descrivendo la popolazione di questi ungulati dal punto di vista fisico e genetico in modo da ampliare le nostre conoscenze». L’intento comune a promotori e studiosi sta dunque nel giungere alla caratterizzazione dei camosci del Generoso per sviluppare una conoscenza necessaria alla sua futura gestione. Tutti (cacciatori, Cantone ed esperti) per uno, e uno (lo studio) per tutti i camosci del Monte Generoso.
Le posizioni dei nostri interlocutori – sugli interessi della caccia e quelli di chi vuole preservare questi ungulati – si rivelano molto più convergenti di quanto non lascino presagire i luoghi comuni che spesso permeano questi temi. «Per prima cosa, è importante ricordare che su questo territorio la caccia al camoscio è chiusa da circa vent’anni e più», afferma Polli a cui fa eco Tettamanti che puntualizza: «In realtà, la caccia al camoscio è stata aperta per un anno ma in seguito fu chiusa immediatamente (pur lasciando cacciabili gli altri ungulati). A tale chiusura fu corrisposta la promozione di una grossa bandita di caccia sul
Descrizione delle attività del progetto
Questo studio vuole raccogliere dati quantitativi e qualitativi sulla popolazione dei camosci del Generoso. Le catture degli animali sono effettuate con l’utilizzo di fucile narcotico e/o gabbia di cattura. Il lavoro di cattura viene svolto dal responsabile del progetto coadiuvato dai suoi assistenti di terreno. L’animale viene addormentato con il narcotico utilizzato per tali scopi. A questo punto, si raccolgono i campioni biologici necessari alle analisi, e i dati biometrici utili per conoscere meglio la popolazione. I capi catturati sono identificati singolarmente con l’applicazione di un collare univoco e molto leggero per non disturbare gli animali nella loro vita quotidiana, creato secondo le normative di protezione degli animali e/o con marche auricolari. Dopo il primo anno di raccolta dei dati, si procederà a consegnare i campioni ai laboratori
specializzati per le analisi genetiche, le analisi delle malattie e quelle dello stress ossidativo. I dati così raccolti dagli individui catturati saranno analizzati e i risultati riportati in un articolo scientifico per la pubblicazione su una rivista internazionale.
Le campagne di catture permetteranno di esaminare tutti gli individui necessari per lo studio approfondito della popolazione. Parallelamente, il documentario che sarà girato dalla televisione della Svizzera Italiana fornirà una visione dettagliata al lavoro e sarà ulteriore veicolo di promozione della conservazione dei camosci del Monte Generoso. I risultati ottenuti dalle analisi di laboratorio permetteranno di capire come conservare al meglio questa particolare ed emblematica popolazione e forniranno informazioni utili a implementare misure di conservazione mirate e accurate.
Monte Generoso è in atto
prevede il recupero di fondamentali informazioni sullo stato di salute di ogni singolo esemplare
Monte San Giorgio dove era stata osservata una crescita esponenziale degli ungulati (anche in questo caso, tranne il camoscio)».
Polli ritiene comunque essenziale parlare dello scopo della caccia: «L’abbattimento dei capi avviene su base legale (Legge federale sulla caccia) e scientifica, in modo tale che la popolazione della specie resti sana e prosperosa. E questo è pure l’obiettivo dei cacciatori che hanno a cuore habitat e fauna del nostro territorio, al punto tale che il nostro Comitato distrettuale non solo ha sostenuto, ma pure proposto questo studio in corso».
Tettamanti si allinea: «Grazie all’attività venatoria – ricordiamo sempre legalmente regolata e modulata secondo la preservazione del benessere degli animali stessi e del loro habitat – i cacciatori producono progetti per la conservazione della specie e aiutano ad accendere l’interesse generale attorno a questi animali». Luce che, afferma, si affievolisce proprio nel momento in cui si spengono i riflettori mediatici delle discussioni, e por-
ta ad esempio il caso della Coturnice:
«Si tratta della Gallina di montagna, la cui caccia è in moratoria dal 1986. Così, è successo che è stata lasciata nel dimenticatoio: nessuno si occupa più del suo monitoraggio, né indaga sullo stato e la dinamica della popolazione». Entrambi concordano sui delicati
equilibri che caratterizzano la fauna e il loro habitat, e sul fatto che essi siano monitorati, evidenziati e corretti laddove questi vadano a minare in qualche modo il benessere e la popolazione: «La popolazione dei camosci, di fatto, è diminuita anche nei parchi nazionali. Ad esempio, sullo Stelvio si
La caccia? Questione di «equilibri»
«La caccia è una questione culturale radicata nelle tradizioni. Ma l’obiettivo della Legge federale della Caccia è chiaro: di principio, si parla di gestione della selvaggina che deve tenere conto dell’esigenza (non preponderante) del cacciatore, le cui desiderata possono o meno essere accolte previa valutazione della loro compatibilità con la realtà scientifica». Andrea Stampanoni, collaboratore scientifico e guardiacaccia dell’Ufficio caccia e pesca del Canton Ticino, porta ad esempio
gli adattamenti nazionali della pressione venatoria sul camoscio (ndr: sul Generoso la caccia al camoscio è bandita) che «hanno prodotto una lenta ripresa di queste popolazioni, localmente buona».
Stampanoni distingue la «caccia necessaria» alla regolazione della fauna (come per cervo e cinghiale), da quella «che si può fare» come nel caso del camoscio: «Non dobbiamo dimenticare che, localmente, alcune popolazioni di camosci possono contribuire al danneggiamento del
è notato che da quando la popolazione di cervi aumenta, quella di camosci diminuisce a causa di una competizione interspecifica». Informazioni fondamentali che ci permettono dunque di apprendere che «diversi fattori possono concorrere alla diminuzione di una specie che va quindi atten-
tamente monitorata: la loro “scomparsa” può essere data dal deterioramento dell’habitat, dalla presenza di altre specie, dal cambiamento climatico, oppure semplicemente i camosci non si vedono perché restano nascosti nei boschi».
bosco, così come succede col cervo. Inoltre, anche se la caccia non è l’ago della bilancia, il benessere delle popolazioni di camosci va comunque tutelato perché minato da fattori genetici, malattie, rapporto fra i sessi e delle classi d’età».
La salute degli ungulati, quindi pure dei camosci, è una «questione di equilibri votata a mantenere la popolazione più prossima allo stato naturale, cosa a cui anche la caccia può contribuire, sempre regolata e modulata dalla Legge federale».
Preservarne la sopravvivenza diventa l’obiettivo preponderante, conclude Norman Polli: «Lo scopo di progetti come questo è giungere a un parere scientifico che determini, con valori oggettivi, la reale situazione. Un punto di vista a favore degli animali, in questo caso i camosci, libero da pensieri emotivi, o da visioni che si schierano “a favore” o “contro”. Una visione che si avvale dell’obiettivo della conservazione di una specie sana: è il fine comune a tutti».
Un progetto sostenuto dalla Commissione culturale del Consiglio di cooperativa di Migros Ticino.
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L’altropologo
L’invenzione delle casalinghe
Se si dovesse fare un rapido sondaggio su quale libro nel 1861 sia riuscito a vendere 68’000 copie in un solo anno per poi passare attraverso innumerevoli edizioni fino a essere in print ancor oggi, la Bibbia stessa farebbe – credo – una magra figura, così come le saghe di Tolkien o Harry Potter, entrambe ben lontane dall’essere concepite.
Mrs Beeton’s Book of Household Management, noto anche come Mrs Beeton’s Cookery Book – nell’edizione italiana corrente Il libro di Mrs Beeton. Saggi consigli domestici per la perfetta gentildonna fu pubblicato a Londra il primo ottobre 1861. Non era il primo libro del suo genere. Intendiamoci, che anzi molte ricette derivate da pubblicazioni precedenti ma meno fortunate vi trovarono zitte zitte rifugio e gloria imperitura (a chi gridò al plagio fu risposto che un cavolo bollito è ohibò un cavolo bollito anche senza diritti
d’autore). Fu però il primo a rendere il suo editore – nella persona del Samuel consorte della Signora Beeton – ricco all’istante. Oltre le 68’000 copie del primo anno, nel 1868 le vendite furono due milioni di copie. L’autrice morì nel 1865, ma il volume continuò ad arricchirsi di nuovi capitoli che a loro volta producevano nuove edizioni. Nel 1907 contava 74 capitoli, tutti più o meno riccamente illustrati nel corso di più di duemila pagine. Insomma, un autentico mattone la solidità del quale ha permesso – grazie anche a una miriade di imitazioni nazionali –la crescita di una vera e propria «civilizzazione borghese delle casalinghe» in tutta Europa. Non ridano pertanto coloro che sostengono che il libro più breve del mondo sarebbe proprio quello della cucina inglese. Pregiudizio puro: l’edizione del 1906, con le sue 2056 pagine (al netto della pubblicità) riportava 3931 ricette e qualcosa al di
La stanza del dialogo
Oltre
di Cesare Poppilà del record dovrà pur salvarsi – o no?
L’interesse antropologico di un siffatto volume si estende ben al di là di un’etnografia del gusto e della crapula. Questo perché attorno a patate bollite a morte, cavoli insipidi e innumerevoli tiepide salsine a base di dado, cresce un’enciclopedia di maniere, usi e costumi dello stare a tavola allineati e coperti conversando senza accavallarsi (e senza – orrore! – ubriacarsi) che si lascia leggere come un regolamento di disciplina del crescente/possente esercito imperiale laico e borghese.
Le prime cento pagine dell’editio princeps del 1907 esordiscono con la descrizione di doveri e maniere della Padrona di Casa in quanto ospite e cuoca. Seguono suggerimenti relativi all’armamentario della cucina, la scelta dei prodotti al mercato e i primi rudimenti della cucina. Dal capitolo 7 al 38 troviamo ordinate per tema e ingredienti mille pagine di ricette inglesi segui-
gli spazi vuoti di ogni biografia
Cara Silvia, ho cinquant’anni e un’ottima posizione lavorativa in un Istituto internazionale di ricerca scientifica. Prima delle vacanze mi sono recata a un incontro con le mie ex compagne di Liceo. Era la prima volta e tutte avevamo qualcosa di bello da raccontare. C’era chi presentava innanzitutto le sue realizzazioni familiari (matrimoni, figli, animali domestici che spesso prendono il posto dei bambini mai nati) e chi privilegiava i successi professionali. Io sono tra queste perché la passione per il mio lavoro mi ha sequestrato tutte le risorse impedendomi di approfondire i vari approcci amorosi. Non nutro, in proposito, né rimorsi né rimpianti e devo dire che quella sera mi sono sentita stimata e apprezzata da tutte. Eppure, non so perché, a un certo punto mi ha preso una sorta di tristezza, di malinconia, come se la scena avesse perso colore, le voci si fossero appannate, e mi trovassi lì senza essere davvero nella realtà
che pure mi circondava. Tornata a casa, mi sono chiesta il perché di quell’improvviso mutamento d’umore e, non sapendo rispondere, lo domando a lei. Seguo da anni questa Rubrica, oggi però mi sono messa davanti al computer e ho trovato la voglia di parlare con lei e con i lettori della «Stanza del dialogo». Grazie se vorrà pubblicarmi. / Valeria
Cara Valeria, e perché non dovrei? Il senso di questo spazio è proprio di proporre un dialogo dove tutti possano riconoscersi nella vita degli altri. Siamo convinti che le nostre esperienze, le nostre emozioni, siano uniche e inconfrontabili ma, in realtà, le parti in comune, fattuali e mentali, sono molte di più di quelle strettamente personali.
Per la maggior parte delle donne circostanze analoghe accadono nelle Feste comandate quando la famiglia allargata si ritrova intorno alla tavola
La nutrizionista
te come in una carica di cavalleria da un capitolo sull’arte di tagliare al tavolo le carni con la descrizione dell’armamentario necessario a non spargere eccessivo sangue/sugo nella foga del momento decisivo del pranzo/cena (compito che peraltro ancor oggi nelle ultime case inglesi dove ancora si osserva il bon ton Beetoniano spetta al Padrone di Casa il quale volteggia sciabola e acciarino rigorosamente coram populo che spesso applaude discreto: si fa così). Seguono poi, proprio come al termine di una battaglia, ricette per la cucina degli ammalati e istruzioni sulla produzione di dolciumi, marmellate e confits. Negli otto capitoli dedicati alla gastronomia esotica troviamo financo la cucina canadese accanto a quella australiana e sudafricana – e altre più nobili istanze. Tutto tace per quanto riguarda la cucina italiana, forse allora ancora tramandata oralmente da nonne anal-
fabete e gelose. Non un accenno ai grandi trattati dei cuochi italiani del Rinascimento (l’Artusi era uscito solo nel 1891 e con le sue sole 790 ricette avrebbe sofferto digiuno di vendite prima di affermarsi).
Insomma, l’opera di Mrs Beeton va letta come un manuale di antropologia applicata. Nelle sue stesse parole lo scopo era quello di consolidare la famiglia coniugale delle nascenti classi medie attorno al desco domestico. Una buona qualità del cibo salvaguardia non solo la salute e lo stipendio del marito, del quale la Madre di Famiglia stava divenendo almeno in parte l’Amministratrice delegata, ma qualifica anche lo status del nucleo famigliare sul borsino del decoro sociale. Richiama anche il marito al desco domestico evitando gli eccessi dei pasti al club o in taverna: la pacchia della cena per soli gentlemen servita da cameriere rassegnate/generose è finita.
imbandita per un tempo che a molti sembra interminabile. Le confesso che nella mia lunga esperienza di corrispondenza con i lettori ho ricevuto decine di lettere che lamentano i tormenti di quelle conversazioni. I successi scolastici dei figli, le carriere professionali di ognuno, l’ammontare del patrimonio immobiliare, malattie, lutti e litigi diventano pagelle della vita, attestati di successo o di sconfitta, mentre sappiamo che il senso della nostra storia è soprattutto nel modo con cui la viviamo, nel senso che le attribuiamo, nel modo con cui la raccontiamo a noi stessi e agli altri. Le chiamiamo «Feste» e le consideriamo occasioni di allegria e di felicità. In parte lo sono, e così le ricordiamo. Ma ogni luce ha le sue ombre e i confronti non sono mai neutri. Nel suo caso, mettendo in comune tante vicende sono emersi, com’è inevitabile, i più e i meno di ogni vi-
ta. Non esiste un’esistenza completamente realizzata. Ciascuna di voi ha compiuto delle scelte e ogni opzione genera rinunce. Se imbocco una via, ne escludo altre. Ed è proprio paragonandole che emergono gli spazi vuoti di ogni biografia. Noi siamo fatti dalle nostre realizzazioni ma anche di sentieri interrotti oppure mai percorsi. Molte persone sfuggono i confronti esistenziali perché li temono. Ma i 50 anni sono comunque tempo di bilanci: la giovinezza è finita e, per noi donne, si sta concludendo la stagione della fertilità, per cui ci troviamo di fronte a un «mai più» da accettare ed elaborare. Per fortuna non ci mancano le capacità di creare alternative rispetto alle scadenze biologiche. Se evitiamo rimorsi e rimpianti, ci troviamo tra le mani un patrimonio inestimabile di energie fisiche e di risorse morali da investire in relazioni affettive, associazioni sociali, progetti culturali.
Nessuna conferma circa l’effetto dimagrante dell’aceto di mele
Buongiorno Laura, ho letto su internet che bere tutti i giorni aceto di mele biologico, non pastorizzato, non filtrato e non trattato e con madre aiuta a perdere peso bruciando i grassi e aumentando il metabolismo. Lo bevo tutte le mattine diluito in acqua, cosa ne pensa, mi può aiutare veramente? / Maria
Buongiorno Maria, sinceramente non avevo mai sentito parlare del binomio «aceto di mele e dimagrimento» ma ammetto che mi è molto difficile stare dietro a tutte le novità… la ringrazio quindi per lo stimolo che mi ha dato. Ho fatto delle ricerche in merito e le riporto qui i risultati.
Inizio con una piccola parentesi sull’aceto di mele: esso viene prodotto attraverso un processo chiamato fermentazione che prevede due fasi. Innanzitutto le mele vengono schiacciate e viene aggiunto lievito per accelerare il processo di fermentazione,
in modo che lo zucchero si trasformi in alcol dopo alcune settimane. In seguito, i batteri naturali scompongono l’alcol in acido acetico, che conferisce all’aceto il suo sapore e odore pungenti. La maggior parte degli aceti che si trovano in commercio è di tipo chiaro, pastorizzato e filtrato. Ma si possono anche acquistare in versione grezzo e non filtrato, ovvero che contengono ancora un sedimento torbido chiamato «la madre», questa sostanza è costituita da batteri e lieviti sedimentati. Per tornare alla sua domanda: la tesi sulla quale si basa la teoria del dimagrimento è la presenza dell’acido acetico, poiché pare (o meglio, si vuole credere) che questa sostanza sia in grado di bruciare i grassi e di cambiare gli ormoni che stimolano l’appetito. Peccato però che non esistano studi scientifici che lo provino con sicurezza.
Le ricerche sull’uomo, in questo ambito, si sono concentrate sull’aggiunta
di aceto di mele a una dieta ipocalorica. Nel 2018, per esempio, i ricercatori hanno assegnato a 39 soggetti, in modo casuale, una dieta ipocalorica con aceto di mele o una dieta ipocalorica senza aceto di mele per un tempo di 12 settimane. Il risultato è stato che entrambi i gruppi hanno perso peso, il gruppo dell’aceto di mele ne ha perso di più. Non si sa però se la modesta perdita di peso sia dovuta alla riduzione delle calorie, all’aceto di mele o a entrambi.
Per quel che concerne l’altro argomento (il favorire un certo senso di sazietà che a sua volta potrebbe ridurre l’apporto calorico), le prove degli studi sono incoerenti e, per sostenere questa affermazione, sono necessarie ulteriori ricerche. In una meta-analisi del 2022 che ha esaminato sette studi, solo quattro tra quelli a breve termine su sei hanno infatti mostrato che l’aceto di mele riduca l’appetito. Nessuno
degli studi a lungo termine è arrivato a questo risultato. Inoltre, gli studi a breve termine che hanno mostrato un effetto di soppressione dell’appetito hanno utilizzato aceto contenente almeno 24,6 millimoli per litro (mmol/L) di acido acetico. Non esiste una garanzia che l’aceto che acquistiamo avrà quella concentrazione esatta, né esiste una garanzia che l’effetto sarà lo stesso ad altre concentrazioni. Nel complesso, posso concludere dicendo che le prove scientifiche che il consumo di aceto (della varietà di sidro di mele o meno) sia un mezzo affidabile e a lungo termine per perdere peso in eccesso non sono convincenti. Anche tra i sostenitori stessi non è chiaro neppure quando bere aceto di mele (ad esempio, se c’è un momento particolare della giornata che potrebbe essere migliore) o quanto aceto di mele al giorno sarebbe ideale. Ci sono però alcune buone notizie sul
La politica contemporanea è talmente impegnata nell’affrontare emergenza climatica, guerre, crisi economica che non trova tempo e spazio per evocare speranze e proporre modi nuovi di fare società. Di conseguenza un impegno «al femminile», una voce di donna, non sono mai stati così opportuni e necessari. In questa prospettiva ogni incontro, come quello che tanto l’ha turbata, rappresenta un’occasione per uscire dall’egemonia dell’Io e cominciare a pensare nei termini solidali del Noi, atto preliminare alla sopravvivenza stessa dell’umanità.
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
suo consumo: è stato dimostrato che apporta dei benefici nella diminuzione dello zucchero nel sangue e dei trigliceridi. Consiglierei comunque di fare attenzione a non consumarlo puro, meglio allungarlo con acqua perché c’è il rischio che possa erodere lo smalto dei denti; inoltre può anche interagire con alcuni farmaci, come diuretici, lassativi e insulina. Altra controindicazione si ha in caso di bassi livelli di potassio (ipokaliemia); troppo aceto di mele potrebbe peggiorare la condizione anche a chi soffre di malattie renali, poiché i reni potrebbero non essere in grado di gestire alti livelli di acido.
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Sul confine delle cascate del Reno
Una gita tra Neuhausen am Rheinfall, nel Canton Sciaffusa e il piccolo villaggio di Laufen-Uhwiesen, nel canton Zurigo
Pagina 17
Un dolce di pasta lievitata Farcito con purea di castagne, mandorle pralinate e cannella, è una delizia, ma gustato tiepido è ancora meglio
Pagina 19
Stessa formula, anima diversa
EA Sports FC (ex FIFA) offre nuove dinamiche di gioco, tra cui il calcio femminile, integrato ora nella modalità «Ultimate Team»
Pagina 21
Dall’equitazione alla tre ruote agonistica, passando per l’atletica
Altri campioni ◆ Celine van Till è alla sua terza carriera come sportiva d’élite e ora sogna l’oro paralimpico
Il lago Lemano da una parte, i vigneti dall’altra. Lo stesso scenario, tutto l’anno, ritoccato soltanto nei suoi colori, al passo con le stagioni. Sul palcoscenico la protagonista è sempre lei, Celine van Till, giovane 32enne ginevrina.
Quei sentieri, quelle strade, e quelle colline che fanno da sfondo alla città di Calvino, lei, van Till, le conosce bene. Le ha percorse e attraversate dapprima a cavallo, poi a corsa e ora in bicicletta. Un buon passatempo, certo, ma non solo, non per van Till, che sta vivendo la sua terza vita come sportiva d’élite.
«Da piccola ero molto attratta dall’equitazione» ci racconta van Till. «Ero una bambina introversa e poco affine agli sport di squadra. Eccomi quindi approdare all’ippica». Celine van Till inizia a cavalcare all’età di sei anni e qualche anno dopo riceve il suo primo pony. Grazie al grande talento, entra prestissimo nel mondo delle competizioni.
«Fin dall’inizio il mio pony mi ha motivata a dare sempre il massimo e a superare me stessa. Negli anni ho raggiunto quell’armonia uomo-animale necessaria per avere successo nel dressage e nel salto ostacoli». I risultati si susseguono e all’età di 12 anni entra a far parte della squadra nazionale juniores. «Il mio obiettivo era andare alle Olimpiadi! Era un periodo bellissimo, stavo “vivendo la vita al massimo” ignara di cosa mi avrebbe riservato il futuro», ci racconta Celine van Till.
Poi, l’incidente, avvenuto durante un allenamento in Germania, quando la ginevrina puntava a partecipare per la prima volta ai Campionati europei. Il cavallo si impenna e la fa cadere violentemente al suolo. Il cavallo le cade addosso e van Till rimane intrappolata sotto il suo peso. La diagnosi è severa: grave trauma cranico. Subito viene operata per fermare l’emorragia. Celine van Till rimane in coma per un mese.
«Al mio risveglio, mi sono sentita imprigionata nel mio corpo. Non potevo camminare e non riuscivo a parlare – ci spiega Celine van Till. L’equilibrio era precario e vedevo male. Grazie alla riabilitazione, molto intensa soprattutto durante il primo anno, e attraverso lo sport e all’equitazione, ho potuto riapprendere e recuperare una buona parte delle mie capacità. Ancora oggi vedo nello sport un grande strumento per il continuo recupero delle mie capacità motorie. E più la mia salute migliora, più mi sento motivata. Più mi alleno, più cammino con sicurezza e meglio gestisco le mie energie».
Celine van Till si rialza e rimonta di nuovo in sella. Per sette anni fa parte della squadra paralimpica svizzera
di equitazione e partecipa ai Giochi paralimpici di Rio del 2016. Poi decide di affrontare una nuova sfida: imparare di nuovo a correre. Passa quindi all’atletica leggera (100 e 200 metri). «Ho dovuto imparare da zero i movimenti della corsa, che avevo dimenticato dopo l’incidente» spiega van Till. «Quello che invece era rimasto quasi come prima dell’incidente erano le fibre muscolari veloci, che mi hanno permesso di correre i 100 metri in meno di 15 secondi». Poi però van Till cade proprio durante uno sprint, rimane ferma per alcuni mesi e decide di mettere fine alla sua carriera agonistica. Ma solo per poco tempo. È l’inizio della sua terza vita agonistica. Il ciclismo. Da più di un anno e mezzo il suo rituale giornaliero è lo stesso: preparazione delle bevande, controllo della pressione delle ruote, regolazione dei freni e del cambio. Ogni dettaglio conta per migliorare la prestazione. Questa mattina è in programma un allenamento di resistenza. Celine van Till si allena con una bicicletta a tre ruote. «Appena pochi mesi dopo l’inizio di questa mia nuova passione, il tecnico della nazionale di paraciclismo è venuto a cercarmi; aveva individuato il mio talento per questa disciplina. La bicicletta a tre ruote mi ha conquistata: non mi sono mai sentita insicura per le mie difficoltà di equilibrio e di coordinazione. Al contrario, il mio tre ruote mi dà li-
bertà! Apprezzo la possibilità di “dare il massimo” e di andare “al limite delle mie capacità”, cosa che nessun’altra disciplina mi ha mai permesso di fare, ed è questo che mi ha sedotto».
Lo strumento che le permette di rinascere la terza volta, sportivamente parlando, è un triciclo: «Nel mondo paralimpico, nella disciplina del ciclismo – spiega van Till – esistono diverse categorie in cui gli atleti si confrontano utilizzando biciclette adattate in modo diverso a dipendenza del tipo di disabilità. Ad esempio le persone con una paraplegia gareggiano con le han-
dbike, mentre le persone con difficoltà di equilibrio, come nel mio caso, utilizzano una bicicletta a tre ruote. La categoria in cui gareggio si chiama WT2 ed è composta principalmente da donne con patologie neurologiche».
Vigneti con salite e altrettante discese. Percorsi invece più pianeggianti e dolci che costeggiano il lungolago. La campagna ginevrina rimane la palestra a cielo aperto di Celine van Till. «Attraverso il ciclismo ho avuto la possibilità di conoscere meglio la regione. Ho scoperto molti posti bellissimi e questo è stato un ulteriore incenti-
vo molto importante per continuare ad allenarmi con determinazione. Spesso vado a pedalare a Le Salève, la bellissima montagna vicino a casa mia. Altre sessioni, le svolgo invece sull’home-trainer, in sala pesi o al velodromo, soprattutto in inverno. Complessivamente, trascorro circa quindici ore alla settimana di allenamento in sella alla mia bicicletta, senza dimenticare le terapie e i trattamenti per il recupero dopo l’attività sportiva». Un grande impegno, dunque, quello di Celine van Till. Ma anche tanta soddisfazione. In occasione dei recenti
Campionati di ciclismo svoltisi a Glasgow, in Scozia, dal 3 al 13 agosto, la ginevrina ha conquistato la medaglia d’oro nella cronometro, e nella gara su strada si è messa al collo la medaglia di argento. Un risultato che è stato preceduto dal titolo di vincitrice della Coppa del mondo nel 2022 e 2023 e dal doppio oro ai Campionati europei nel 2022 e 2023.
E ora si fa strada il prossimo obiettivo, ovvero le Paralimpiadi di Parigi 2024. Quattro stagioni per affinare la preparazione, e un solo traguardo. L’oro!
Erbe alpine in confezione tripla
La forza spumeggiante delle cascate del Reno
Itinerario ◆
Il «grande padre Reno», cantato dai poeti, è il terzo fiume d’Europa dopo il Danubio e il Volga. Congiunge le Alpi con il mare del Nord: seguirlo è conoscere e attraversare l’Europa. Passa il confine di sei Stati: Svizzera, Liechtenstein, Austria, Francia, Germania e Paesi Bassi; è frontiera naturale, punto di demarcazione e confine politico strategico.
Dai tempi di Augusto, il controllo e il possesso delle sue rive (destra e sinistra) sono sempre stati contesi; grandi città e aree industriali sono fiorite sulle sue sponde. Origina sul massiccio del San Gottardo; alla sua sorgente sono due piccoli corsi d’acqua – indicati dai geografi come Vorderrhein, Reno Anteriore (che sgorga nei pressi dell’Oberalppass), e Reno Posteriore, Hinterrhein, (presso il ghiacciaio dell’Adula) – che scendono rapidi e si uniscono per formare il Reno Alpino. Qui inizia il suo grande cammino. Navigabile dalla notte dei tempi, costeggia il Liechtenstein e attraversa un breve tratto di territorio austriaco, entra ed esce nel lago di Costanza, e prosegue a Ovest. La navigazione è poi costretta a interrompersi fra il lago di Costanza e Basilea, siamo tra Neuhausen am Rheinfall, nel canton Sciaffusa e il piccolo villaggio di Laufen-Uhwiesen, nel canton Zurigo.
Le cascate
È qui che incontriamo le celebri cascate (Rheinfall). Sciaffusa sta a due passi, con la sua allegria, gli incantevoli affreschi medioevali della città vecchia, le graziose piccole fontane.
La roccia calcarea del fondale dove il fiume scorre si spezza, si scioglie in un pietrisco, il Reno, reso impetuoso dai molti affluenti che ha raccolto.
Ha ormai un bacino di almeno 150 metri cubi quando incontra un enorme dislivello, soprattutto in estate quando i ghiacciai si sciolgono, centinaia di metri cubi d’acqua al secondo precipitano nel vuoto per 23 metri, infrangendosi sulle rocce.
Le due sponde delle sue cascate appartengono a cantoni diversi, una riva sciaffusana e una riva zurighese. Una grande roccia millenaria al centro delle stesse segna questo confine. Qui, ogni giorno i ragazzi di un cantone attraversano a piedi una lunga passerella sul Reno per frequentare la scuola nel cantone vicino.
Castelli e fortezze
Sulla riva sciaffusana si trova il piccolo castello-fortezza di Wörth, un tempo dogana e scarico per le imbarcazioni che dovevano interrompere percorso e navigazione; i battellieri del Reno scaricavano qui le merci che avrebbero poi ripreso. Dal lato opposto, sulla riva zurighese, sopraelevato sulle cascate sorge il grande
medioevale castello di Laufen. Opportunamente ingrandito e restaurato nell’Ottocento, ospitava i nobili e i grandi ricchi per soggiorni e prestigiose feste con vista sulle cascate. In quell’epoca era nascente il settore alberghiero ma solo per le classi nobiliari, ancora doveva nascere il turismo di massa che ogni anno porta qui due
milioni di persone a inquadrare beatamente le cascate con il telefonino.
Gite e battelli
Sono molti i mezzi per avvicinarle: vi è la fermata della linea ferroviaria che passa su un ponte vicino; dal castello
di Laufen un sentiero e degli ascensori portano a delle piattaforme panoramiche che dall’alto guardano direttamente sulle acque, dove le persone si affacciano rapite e sembrano non volersi mai ritirare; ci sono gite in battello lunghe e brevi da Sciaffusa, e, per i coraggiosi ed esperti – quando è consentito – vi è anche il noleggio di barche o canoe. Piccoli battelli con brevi traghetti aggirano il bacino, con abili mosse ti portano sotto le cascate, a un passo dalle impetuose acque che compiono tre giganteschi balzi mentre precipitano, facendoti arrivare addosso gli spruzzi dell’acqua che ti impediscono di guardare come vorresti, mentre una fresca nebbia ti avvolge, nuvole bianche si sollevano attorno, la temperatura si abbassa rapidamente e il battello che ti ha portato a un metro dalla cascata con una sapiente manovra, purtroppo, indietreggia subito e gira altrove. La massa delle acque ha un suono che non hai mai ascoltato prima. Dal battello ti accorgi di grossi cavedani che navigano vicino a riva, la forza dell’acqua impedisce loro di avvicinarsi alle cascate e superarle; solo le anguille, che vengono da lontano, le risalgono ai lati.
Nell’Ottocento, in questo bacino, la pesca ai salmoni era ricchissima. Sarà un caso ma al ristorante di Sciaffusa hai l’impressione che ti offrano subito il salmone. Se invece osservi la superficie ti accorgi che l’acqua è schiumosa e con larghe bolle bianche che fanno sospettare un certo tipo di inquinamento, mentre è solo il prodotto dell’erba saponina (Saponaria officinalis) – un tempo componente principale dei detersivi – che qui cresce in gran quantità.
Superate le cascate, il grande Reno prosegue il suo maestoso corso, passa cinque ponti, attraversa e divide Basilea, da tempi lontani un grande sbocco delle merci verso i principali porti del mondo, segna il confine tra Francia e Svizzera e Francia e Germania, percorre la valle del Reno e la meravigliosa Foresta Nera, passa Bonn, Strasburgo, Rotterdam; sempre diretto a Nord, raggiunge il confine olandese e finalmente sfocia nel mare.
Arcobaleni e leggende
Raccontano che le ore migliori per ammirare le cascate siano quelle del primo mattino o del crepuscolo, quando i raggi del sole creano fantastici arcobaleni cangianti fra gli zampilli d’acqua. Goethe, che le amava molto, le aveva paragonate alle vicissitudini della vita; anche la luna piena sembra creare magici effetti. Non manca una leggenda: nelle notti di tempesta, pare si senta risuonare fra i flutti un grido. Pare che un pescatore aveva raccontato di essersi addormentato sulla barca al di sopra della cascata e di essersi risvegliato più in basso, in preda a sogni angosciosi. Tale racconto aveva incuriosito uno straniero che in seguito aveva chiesto al pescatore di ripetere l’esperienza, che finì però in tragedia giacché naufragarono.
Nel periodo natalizio le cascate sono gioiosamente illuminate.
Sopra le acque la bandiera rossocrociata sventola sempre, in ogni momento le protegge, protegge il Reno e il suo percorso.
Attirano ogni anno oltre due milioni di turisti provenienti da tutto il mondo, nascono dal massiccio del San Gottardo e continuano il proprio percorso attraversando ben sei Stati europei
Eliana Bernasconi, testo e fotoDi fianco, Schlössli Wörth; sotto, uno dei battelletti turistici in prossimità delle cascate.
IL POTERE DELLA VITAMINA C PER LA TUA PELLE
COMBATTI LE MACCHIE SCURE PER 24H, GIORNO E NOTTE, CON IL DUO VITAMIN C GLOW BOOSTER GARNIER
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Combatti le macchie scure con il siero Glow Booster al 3,5% (niacinamide + derivato della vitamina C + acido salicilico) ed estratto di limone. La combinazione di questi potenti ingredienti previene la comparsa di macchie scure e migliora la luminosità della pelle.
Fase 2: NUOVO SIERO DA NOTTE
La più alta concentrazione di vitamina C pura al 10% di origine naturale in un siero da notte per rigenerare la carna-
gione spenta e stanca durante la notte. La vitamina C pura è nota per i suoi molteplici effetti contro i processi ossidativi, come ad esempio i raggi UV, l’inquinamento e lo stile di vita. Inoltre aiuta a rallentare la degradazione del collagene e mantiene la struttura cutanea soda e levigata. La formula del nostro nuovo siero da notte Vitamin C Glow Booster è particolarmente leggera e piacevole da applicare.
I danni causati alla pelle dai raggi UV agiscono anche di notte. Per quale motivo i radicali liberi vengono
combattuti meglio durante il sonno?
Di notte il nostro organismo è sottoposto a un processo di riparazione naturale e gli antiossidanti come la vitamina C sono più efficaci durante la notte. Così, i danni causati durante il giorno vengono corretti e riparati. Dobbiamo immaginarcelo così: i trattamenti da giorno aiutano a prevenire e a minimizzare i danni, mentre quelli da notte provvedono a ripararli. Pertanto, è importante applicare i prodotti contenenti antiossidanti sia al mattino sia alla sera per garantire una routine completa di cura della pelle.
Ricetta della settimana - Girelle alle castagne e alla cannella
Ingredienti
Ingredienti per circa 9 pezzi
o una 1 teglia apribile quadrata di 24x24 centimetri
50 g di mandorle pralinate
1 manciata di farina per spianare
la pasta
300 g di vermicelles
1 cc circa di cannella in polvere
1 uovo
1 c di granella di zucchero
Pasta lievitata
20 g di lievito fresco
2 dl di latte
420 g di farina bianca
60 g di zucchero
1 cc di sale
1 uovo
50 g di burro, morbido
Preparazione
1. Per la pasta lievitata, fate sciogliere il lievito nel latte. Versate la farina, lo zucchero e il sale in una scodella e disponete a fontana. Versate al centro della fontana il latte con il lievito e l’uovo, poi con l’ausilio di un robot da cucina impastate il tutto per circa 5 minuti fino a ottenere una pasta morbida. Incorporate il burro a pezzetti e impastate fino a ottenere una pasta liscia. Se necessario aggiungete un po’ di farina. Coprite l’impasto e lasciatelo lievitare per circa 2 ore in un luogo caldo.
2. Foderate la teglia (o una placca) con carta da forno. Tritate grossolanamente le mandorle. Spianate la pasta sulla superficie infarinata in un rettangolo di circa 40×60 cm. Spalmate i vermicelles sul rettangolo di pasta. Spolverizzate di cannella e cospargete di mandorle.
3. Arrotolate la pasta sul lato più lungo. Tagliate il rotolo a rondelle di 4–5 cm di larghezza e accomodatele nella teglia, lasciando un po’ di spazio tra una e l’altra. Coprite e lasciate lievitare per 30 minuti in un luogo caldo.
4. Preriscaldate il forno statico a 180 °C. Sbattete l’uovo e spennellatelo sulle girelle, quindi cospargetele con la granella di zucchero. Cuocete al centro del forno per circa 25 minuti. Sfornate e lasciate intiepidire un po’.
Consigli utili
Le girelle gustate tiepide sono ancora più buone.
Preparazione: circa 20 minuti; lievitazione: circa 150 minuti; cottura in forno: circa 25 minuti
Per persona: circa 10 g di proteine, 10 g di grassi, 60 g di carboidrati, 380 kcal
NOLEGGIO SCI E SNOWBOARD
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7 giornistagione 1 giorno2 giorni3 giorni 7 giornistagione
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EA Sports FC 24 si tinge di rosa
Videogiochi ◆ Nuova stagione, nuovo titolo e addirittura nuovo nome, per il game calcistico prodotto da Electronic Arts
Kevin SmeraldiEbbene sì, dopo trent’anni, il rapporto tra Electronic Arts (EA) Sports e la Football Association si è bruscamente interrotto, portando così la divisione sportiva di EA a dover cambiare il nome del proprio videogioco che ha letteralmente trascinato EA Sports FC 24 in vetta ai videogiochi di calcio più venduti e giocati di sempre.
È così che Fifa diventa ufficialmente EA Sports FC!
Ogni fan della saga si sarà chiesto come sarebbe potuto cambiare il gioco, quali rivoluzioni ed evoluzioni EA ha portato avrebbe portato a un titolo che ormai è in stallo da diversi anni. La risposta è: nessuna!
Il gameplay è stato chiaramente rispolverato rispetto all’anno preceden-
te, proprio per non portare lo stesso identico prodotto, ma in buona sostanza parliamo sempre dello stesso gioco di calcio. Ed è forse un peccato che Electronic Arts non abbia sfruttato questa opportunità. Malgrado ciò, EA Sports FC rimane un titolo calcistico molto valido che si distingue dalla concorrenza grazie alle modalità di gioco. Il titolo ne offre così tante da permettere all’utente di intrattenersi ore e ore senza nemmeno rendersene conto.
Per chi ama giocare online, c’è sempre la modalità «stagioni», dove l’utente potrà scendere in campo con la propria squadra del cuore scalando le classifiche online. E nonostante non sia uno dei suoi punti forti,
Giochi e passatempi
Cruciverba
La guerra più breve della storia è stata quella anglo-zanzibariana che… Termina la frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate.
anche quest’anno rimane la modalità «Volta», una sorta di calcio di strada a cinque, dove è possibile giocare anche solo con utenti online casuali. Mentre chi ama giocare con i propri amici, potrà divertirsi nella modalità «Pro Club», che prevede la creazione di un proprio avatar, da schierare in campo nel ruolo desiderato, portando la vostra squadra composta da un numero variabile fino a 11 amici a scontrarsi con altre compagini online in un 11 versus 11.
Chi gioca invece offline, deve farlo in modalità «carriera», che è stata ulteriormente arricchita con più opzioni di gestione, fornendo ai giocatori un senso più profondo di responsabilità per il successo della loro squadra. Parliamo ora del cavallo di battaglia di EA Sports FC, ovvero di «Ultimate Team». Questa è la modalità più giocata dalla community da molti anni ormai: qui, l’utente ha sempre potuto realizzare una rosa con i giocatori che più preferisce, creando la propria squadra dei sogni. La grande novità introdotta da EA Sports FC è la comparsa del calcio femminile. Se da un lato la presenza di queste atlete è un considerevole passo avanti in direzione di una più equa rappresentazione del calcio di genere, dall’altro – sul piano del videogioco – questa introduzione non ha poi chissà quale impatto, dato che in termini di meccaniche, le atlete non sono caratterizzate
I giochi più attesi entro la fine dell’anno
MARVEL’S SPIDER-MAN 2
(Playstation 5)
Il 20 ottobre ritornano le avventure del nostro amichevole Spiderman di quartiere. Questa volta, però, insieme a Peter Parker, troveremo anche Miles Morales al suo fianco, protagonista dell’ultimo prodotto targato Insomniac Games.
CALL OF DUTY: MODERN
WARFARE 3
(Multi piattaforma)
Il 2 novembre uscirà il terzo titolo della saga di Call of Duty: Modern Warfare. Activision vuole fare «all in» quest’anno, avendo stanziato il più grande budget finora per un videogioco. Le premesse sono buone!
ALAN WAKE 2 (Multi piattaforma)
Annunciato inaspettatamente durante i «The Game Awards 2021», il sequel del capolavoro pubblicato da Remedy Entertainment nel 2010 arriverà nelle nostre case il 27 ottobre, pronto a spaventarci come non mai.
da particolari specifiche, e fanno intesa con i loro colleghi maschi come il resto dei calciatori: si tratta in pratica «solo» di una questione di identificazione del giocatore o giocatrice alla console.
EA Sports FC porta con sé solo un leggero miglioramento dell’esperienza di gioco, ma l’attenzione ai dettagli grafici e al realismo visivo rimangono notevoli, con giocatori, stadi e ambientazioni che appaiono sempre più fedeli alla realtà. Le animazioni pre e post gara sono molto realistiche, e rendono ogni gara coinvolgente e immersiva. Per contro, resta un gioco di calcio molto lontano dalla simulazione calcistica che ci si aspetta: la sua velocità di gioco, i calciatori che sembrano pattinare più che correre e i repentini movimenti nello stretto sono tutt’altro che reali. Ciononostante, nel complesso, EA Sports FC ci ha divertiti parecchio: le innumerevoli modalità e il suo gameplay dinamico e veloce sono riusciti a conquistarci di nuovo, regalandoci un senso d’appagamento ogni volta che una bella azione ci ha portato in gol.
Consigliamo l’acquisto a ogni fan della serie, mentre manteniamo un po’ di riserve per i neofiti: inizialmente sarà abbastanza frustrante riuscire a imparare la fase difensiva, che richiede l’investimento di diverse ore di «gioco» prima di poter realmente divertirsi. VOTO: 7/10
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
ORIZZONTALI
1. Morti
7. Non si dà alle quisquilie
8. Due di cuori
9. La si fa a un corteo
10. Ripetuto nel nome di una pericolosa mosca
11. Riposa senza posa
12. L’attore Connery
13. Vanno e vengono
17. Non si fanno mai amare...
18. Un anagramma di tori
19. Superlativo di grandi
20. Contrapposta all’altra
21. Indumenti da spiaggia
23. La giornalista Giacobini (Iniz)
24. Uno spumante
25. Una sigla per 13 orizzontale ad alta velocità
27. È impegnativo leggerlo...
28. Coerenza nel ragionamento
VERTICALI
1. Rumori di guerra
2. Formazioni cornee
3. Isabella per gli amici
4. Astro al tramonto...
5. Privati del 2 verticale
6. La cantante Grandi
10. Insetti simili alle formiche
12. Carichi per muli
13. La fiducia dei londinesi
14. Lo Starr dei Beatles
15. L’avanzata... dei vecchietti
16. Fino in fondo...
17. Si subisce
19. Gli successe Davide
21. Le separa la «q»
22. Passa in cucina...
24. Un Carlo scrittore
26. Le iniziali dello scrittore Camilleri
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
Soluzione della settimana precedente
INCREDIBILE! – I vertebrati più longevi del mondo sono: GLI SQUALI
DELLA GROENLANDIA – Anni di vita fino a: QUATTROCENTO
I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Viva la stagione del bricolage!
5.95 Set di ciondoli con animali a punto croce fai da te con 3 motivi di animali, il set
8.95 Set di animali di feltro fai da te con 7 soggetti, il set
5.95 Quadretto di pompon fai da te disponibile in 2 motivi di animali, al pezzo
ATTUALITÀ
Se ritorna la Guerra fredda Russia e Cina tolgono la maschera, riverendo e omaggiando di nuovo la Corea del Nord. Cosa ci aspetta?
È stretta sui migranti
Il nuovo decreto Meloni in Italia, la furia di Salvini, gli aiuti tedeschi alle Ong e gli scambi con Parigi
Pagina 27
La prigione di Turi in Puglia Nella struttura al centro del paese, oggi sovraffollata, Gramsci scrisse Quaderni del carcere
Pagina 29
Tra le miliardarie d’India Sono diverse le donne con patrimoni da capogiro impegnate in settori di alta tecnologia
Pagina 31
Tre categorie di cittadini davanti alle casse malati
Socialità ◆ L’ennesima stangata ci avvicina a una medicina a tre velocità – Una sfida immensa per il successore di Alain Berset
Il salasso è di quelli da primato, val così la pena di iniziare con un pizzico di leggerezza e con un ipotetico trasferimento ad Appenzello Interno. Potrebbe essere questo uno dei rimedi contro la «stangata» dei premi di cassa malati per l’anno prossimo. In questo piccolo semi-cantone della Svizzera orientale il premio medio per una persona adulta ammonterà l’anno prossimo a 295 franchi al mese, il più conveniente di tutta la Svizzera, oltre 200 franchi in meno rispetto a quanto si pagherà in Ticino. Seppur non priva di fascino, l’opzione appenzellese appare però poco praticabile, e così tra gli antidoti antistangata rimane pure sempre un altro tipo di trasferimento, quello in una nuova cassa malati. Nel nostro Paese ce n’è pur sempre una quarantina, in attesa, chissà, di una cassa malati unica e pubblica, un’opzione su cui in questi anni il popolo si è comunque già espresso due volte, in modo negativo.
Il 30% della popolazione ticinese riesce a pagare i premi e ad accedere alle cure solo grazie ai sussidi pubblici
Quest’anno però ci viene anche detto che questa migrazione autunnale – c’è tempo fino al 30 novembre per portarla a termine – causa pure una serie di costi amministrativi che le casse non riescono più ad assorbire e che vengono poi fatti ricadere sugli assicurati. Per rimediare a questa nuova impennata, altro rimedio noto da tempo, c’è anche l’opzione della franchigia. Un’analisi di Santésuisse, una delle due organizzazioni mantello degli assicuratori malattia, ha rilevato che ben il 35% della popolazione elvetica ha ormai scelto la franchigia massima di 2500 franchi. In altri termini i cittadini svizzeri sono ormai divisi in tre categorie: quelli che possono permettersi la franchigia minima di 300 franchi e la libera scelta del medico, chi è passato a una franchigia più elevata e ha optato per modelli di cura alternativi, come il medico di famiglia o la telemedicina, e infine chi riesce a pagare i premi e ad avere accesso alle cure ma solo grazie ai sussidi pubblici. In quest’ultima categoria troviamo ben il 30% della popolazione ticinese. Non è (ancora) una medicina a tre velocità ma di certo quanto sta capitando non era tra gli obiettivi di chi negli anni ’90 aveva ideato la Lamal, la legge federale sull’assicurazione malattia. Una normativa dapprima impostata dall’allora consigliere federale ticinese Flavio Cotti e poi portata a compimento da Ruth Dreifuss, che aveva ereditato dal ministro ticinese il Dipartimento dell’interno e il ruolo di ministra della sanità.
La nuova legge fu approvata di misura a livello popolare con il 51,8 di voti favorevoli, in Ticino il sostegno delle urne andò ben oltre, e raggiunse il 66%. La Lamal entrò in vigore nel 1996, con la consapevolezza che fosse incompleta nonostante introducesse per la prima volta alcuni principi ritenuti fondamentali: quello della copertura medica garantita a tutta la popolazione e quello della solidarietà, le persone sane pagano anche per quelle che hanno bisogno di cure.
C’erano però delle migliorie da apportare, e anche velocemente, anche per tenere a bada gli appetiti dei diversi settori che ruotano attorno alla sanità elvetica. Basti pensare ad esempio ai costi dei medicinali, nel nostro Paese molto più elevati rispetto all’estero. Ma proprio questo è stato finora il tallone d’Achille del sistema, la sua incapacità di riformarsi e di trovare soluzioni per frenare l’incremento dei costi. Non per nulla in una recente intervista a «Le Matin Dimanche» la stessa Ruth Dreifuss ha ricordato che «da trent’anni stiamo facendo delle raffazzonature. Lo Stato ha poche possibilità di intervenire e così i diversi interessi in gioco si annullano a vicenda. Non c’è un pilota in questo aereo, o meglio ce ne sono troppi e ognuno vuole andare in una direzione
diversa. Si può dire che questo velivolo non vola molto dritto». E visto che si tratta di gestire una spesa sanitaria di circa 90 miliardi all’anno, di cui una trentina coperti dell’assicurazione malattia, la constatazione dell’ex ministra è tutt’altro che rallegrante.
Lo si vede anche dalle cifre previste per il 2024, con un aumento medio dei premi pari all’8,7% a livello nazionale e del 10,5% per quanto riguarda il Ticino, cantone che negli ultimi due anni deve fare i conti con un incremento complessivo del 20% circa, un primato svizzero di cui la popolazione ticinese avrebbe fatto volentieri a meno. Alla fine dell’anno Alain Berset lascerà il Governo dopo dodici anni alla guida del Dipartimento federale dell’interno, la cabina di regia della sanità elvetica. Per lui è tempo di bilanci, davanti alla stampa si è detto sicuro di aver fatto tutto il possibile per contenere i costi, citando per esempio alcune misure che hanno permesso di risparmiare un miliardo di franchi ogni anno sui prezzi dei medicamenti.
«La competenza sanitaria però – ha ricordato Berset – è nelle mani dei cantoni, le possibilità d’azione del Consiglio federale sono limitate». Va pure detto che tra il 2019 e il 2022 gli aumenti annuali dei premi sono stati contenuti, anche facendo leva sulle
riserve delle casse malati. Uno strumento che non può più essere utilizzato, visto che in alcuni casi le riserve sono ora ben inferiori al limite legale. Per i suoi detrattori invece Berset non ha fatto abbastanza in questi dodici anni. Lui, il Governo e il Parlamento hanno proceduto a revisioni di portata limitata e così «il sistema è arrivato al suo limite estremo, occorre una riforma totale», come ha affermato la settimana scorsa Raffaele De Rosa, il ministro della sanità ticinese.
I cantieri aperti
Facile a dirsi, molto più complesso a farsi. Tra i tanti cantieri aperti prendiamo quello degli ospedali. Nel nostro Paese ce ne sono all’incirca 280, un numero troppo elevato a detta di molti specialisti del settore, anche perché almeno il 30% di queste strutture è circondato dai debiti. Non per nulla proprio giovedì scorso San Gallo ha annunciato il licenziamento di ben 440 dipendenti dei quattro ospedali pubblici del cantone, con l’obiettivo di risparmiare 60 milioni all’anno. Ma come ridurre il numero degli ospedali? Come portare a termine una pianificazione capace di superare eventuali votazio-
ni popolari? Spetterebbe ai cantoni farlo, Ticino compreso, ma in questo ambito finora si è mosso ben poco. In ogni caso dal primo gennaio il nostro Paese avrà un nuovo o una nuova ministra della sanità, con il compito di ridare una rotta all’aereo di cui parlava Ruth Dreifuss. I nodi da sciogliere sono davvero parecchi: più generici e medicinali meno cari; una cassa malati unica; premi calcolati in base al reddito e non più uguali per tutti; l’eventuale riduzione delle prestazioni mediche rimborsate; modelli assicurativi a più velocità; la numerosa presenza dei lobbisti sanitari a Palazzo federale e diverse iniziative popolari da affrontare… La scrivania del neo-ministro o neo-ministra è già sommersa ancora prima di cominciare. Difficile al momento immaginare chi potrà essere il successore di Berset e anche capire se tra i ministri in carica ci possa essere qualcuno pronto a raccogliere questa pesante eredità, chissà magari sarà il turno di Ignazio Cassis, che è pur sempre medico di formazione. Le parole di Berset su questo punto ci fanno comunque capire che in questo ruolo ci vuole una certa predisposizione al sacrificio, «quella del ministro della sanità non è di certo una carica ambita». Avanti il prossimo, poi si vedrà…
«Un viaggio da incubo con la Deutsche Bahn»
Reportage ◆ Le difficoltà incontrate cercando di spostarsi in treno tra Germania, Svizzera e Italia
Stefano VastanoRaggiungere le varie tappe delle nostre vacanze si è rivelato complicato. Questo il programma: la prima tratta, il 24 agosto, da Berlino a Bonn in treno. Da lì, il 30 agosto, intendevamo ripartire, sempre in treno, cioè con la Deutsche Bahn, verso la Svizzera. Per sbarcare – via Basilea e Zurigo – in quel di Sankt Moritz (dove si svolgeva lo Smaff, il festival di video-art engadinese). Un piano «ambizioso» che alla fine ha messo alla prova ben tre reti nazionali: le ferrovie tedesche, quelle svizzere e le ferrovie italiane. Dalle montagne e valli di Sankt Moritz e Sils-Maria, infatti, accompagnati in auto da un amico, volevamo arrivare alla Stazione Centrale di Milano (ricordiamo comunque che settimana scorsa singoli treni passeggeri hanno ricominciato a circolare nel tunnel del San Gottardo, dopo lo stop dovuto al deragliamento). E da qui ripartire alla massima velocità, il primo settembre, con un Freccia Rossa che nel giro di tre ore ci avrebbe catapultati a Roma Termini.
Siamo arrivati a Bonn con oltre 2 ore di ritardo. Quelle che consentono al passeggero di richiedere il rimborso parziale del biglietto
Ancora oggi, ripensando a questa rotta e all’intreccio di reti ferroviarie, non ci è chiaro perché abbiamo osato il giro di mezza Europa in treno. Sì, certo, per motivi «ecologici»… Di fatto però il viaggio in treno dalla capitale tedesca a Sankt Moritz si è rivelata un’esperienza a tratti traumatica. E un vero fallimento per i treni, le locomotive e il personale della «benemerita» DB, la Deutsche Bahn. La prima parte del viaggio infatti, da Berlino a Bonn, è stata a dir poco scandalosa. Siamo partiti speranzosi, e puntuali, dalla Stazione centrale di Berlino il 24 agosto con l’ICE 577, alle 11.05, dal binario
2. Circa 4 ore dopo sarebbe dovuto arrivare al binario 6 della Stazione Centrale di Francoforte sul Meno. Dove, in teoria, 17 minuti dopo saremmo dovuti salire sull’ICE 818 che in un’ora esatta ci avrebbe portati alla stazione di Bonn. Costo del biglietto per persona (abbiamo viaggiato sempre e solo in seconda classe): 98 euro e 15 centesimi. Più altri 4 euro e 90 per riservare i posti, per un totale di 103,05 euro a persona. Peccato solo che l’ICE 818 allo snodo di Francoforte non l’abbiamo mai visto. Né siamo arrivati come previsto alle 16 e 17 a Bonn, dato che il nostro ICE 577 è rimasto fermo per 45 minuti all’altezza di Halle. A Francoforte avevamo solo 17 minuti per cambiare sull’altro ICE per Bonn, potete immaginare il nervosismo provato da noi e dagli altri viaggiatori. Il personale della DB ci ha spiegato il motivo del ritardo: «Un’operazione di polizia». A quel punto abbiamo cercato un’alternativa sulla App della DB e siamo quindi scesi a Frankfurt Flughafen e, dall’aeroporto, abbiamo preso un treno per Köln-Deutz. E da lì con l’ultimo trenino per l’agognata meta di Bonn, dove siamo giunti alle 18 e 20. Quindi con oltre 2 ore di ritardo. Quelle che consentono al passeggero di richiedere il rimborso (parziale) del biglietto. Che in effetti, a causa del ritardo sulla linea Berlino/Bonn, ci è stato restituito al 50%.
Quello che però, il 30 agosto, è successo sulla linea Bonn/Basilea da dove, una volta giunti a Zurigo, volevamo proseguire per Coira, ha dell’incredibile. Il nostro ICE 105 delle ore 11.09, che sarebbe dovuto arrivare a Basilea alle 14.47, è partito dal binario 6 con 10 minuti di ritardo. E va bene, ci siamo detti. Il problema è che poi, all’altezza di Mannheim, è rimasto fermo per 140 minuti! Per oltre due ore bloccati nel nulla. Solo dopo un’ora che eravamo fermi i microfoni comunicano che al ristorante di bordo potevamo rifornirci, gratis, di acqua. L’estremo ritardo, a quanto pare, si doveva a una «riparazione»
alla locomotiva. E l’incubo non finisce qui. Una volta ripartiti, la vocina sconsolata del capo-treno avverte che il viaggio del treno non terminava a Basilea (dove alle 15.06 avremmo dovuto prendere il diretto per Zurigo, e da qui ripartire alle 16.07 per Landquart e poi arrivare, alle 19.09, a Sankt Moritz), ma solo a Karlsruhe. Il panico: da Karlsruhe come saremmo arrivati alla stazione di Basilea? Inutile chiedere lumi allo stressatissimo personale. Via DB-App abbiamo trovato l’ennesimo ICE, numero 371, che da Karlsruhe Hauptbahnhof, alle
16, sarebbe dovuto arrivare a Basilea alle 17 e 47. Anche questo treno della D-Bahn ha poi accumulato 15 minuti di ritardo ma, per fortuna, a Basilea siamo riusciti ad acciuffare alle
18.33 l’IC 583 per Coira. Una volta in Svizzera i treni delle ferrovie elvetiche si sono comportati da veri orologi svizzeri. Stracotti ma puntuali siamo giunti a Coira, alle 22.48; dopo 2 minuti esatti ripartiti col trenino per Samedan, e da qui il R 1175 ci ha portati finalmente in quel di Sankt Moritz. Vi saremmo dovuti arrivare, senza l’odissea della D-Bahn, alle
Infrastrutture in decadenza e ritardi
La Deutsche Bahn, che appartiene allo Stato tedesco, monopolizza i servizi ferroviari a lunga distanza e gestisce l’infrastruttura ferroviaria tedesca. Quest’ultima – afferma il nono Rapporto sul settore ferroviario preparato dalla Commissione dei monopoli di Berlino – è in cattive condizioni. Viene definita «limitata, antiquata e soggetta a guasti e i deficit esistenti si riflettono soprattutto nei ritardi dei treni su vasta scala» (che tra le altre cose non per-
mettono di rispettare le coincidenze). Per quel che riguarda la situazione in Svizzera, nel 2022 il 92,5% dei treni delle FFS è arrivato con un ritardo inferiore ai tre minuti. Ma l'ex regia federale ritiene che in Ticino la puntualità sia insoddisfacente: un treno su dieci ha infatti raggiunto la destinazione con oltre tre minuti di ritardo. I convogli in orario erano l'89,1%, un dato in peggioramento rispetto ai due anni precedenti. / Red.
19.09. Di fatto siamo giunti, sfatti ed allibiti, alle 22.58.
Cosa dirvi del Freccia Rossa che, il primo settembre, è partito con puntualità da Milano Centrale alle 12.10? È arrivato puntuale – con internet e aria condizionata funzionanti – alle 15 e 49 a Roma Termini. Dove abbiamo deciso di affittare un’auto per proseguire per Gaeta. Dopo l’esperienza catastrofica degli ICE in Germania abbiamo preferito percorrere i 165 Km per le coste di Gaeta in auto, e non affidarci ai treni regionali delle ferrovie italiane. Risultato del nostro viaggio estivo per le stazioni di mezza Europa (che naturalmente non è la prova che le cose funzionino sempre così)? Per quanto riguarda i collegamenti tra Milano e Roma: i servizi Trenitalia delle Frecce (come di Italo) sono eccellenti. Anche i collegamenti da Basilea a Zurigo e i regionali svizzeri hanno tutti spaccato il minuto (per non parlare poi della bellezza mozzafiato dei paesaggi in treno per le valli dell’Engadina). Solo le ferrovie e i treni della Deutsche Bahn ci hanno profondamente deluso. A quanto pare il mito delle ferrovie tedesche, efficienti e puntuali, è un luogo comune ormai tramontato.
20% su tutte le birre
Il ritorno della Guerra fredda
di «congelamento» del conflitto in Ucraina all’insegna del «meno peggio»
Federico RampiniLa «riabilitazione totale» della Corea del Nord da parte di Xi Jinping e Vladimir Putin. Il suo ruolo come fornitore di armi indispensabili alla Russia per rimpolpare i suoi arsenali. Lo «scenario coreano» come ipotesi per raggiungere una tregua in Ucraina. Sono tre buone ragioni per dedicare attenzione alla dittatura rossa di Pyongyang. Ancora fino alla presidenza di Barack Obama, l’America si era illusa di poter contare sui buoni uffici di Pechino e Mosca per disinnescare la pericolosità del regime comunista di Kim Jong-un. Poi Donald Trump s’illuse a sua volta di addomesticare il despota nordcoreano lusingandolo con l’onore di un vertice bilaterale (Singapore, giugno 2018).
Ora la Corea del Nord è tornata ad essere riverita e omaggiata dai suoi amici e protettori di sempre. È un altro segnale che viviamo un remake della prima Guerra fredda.
La Corea del Nord rimane una dittatura feroce, sottopone il suo popolo ad abusi, privazioni e sofferenze enormi
In America viene discussa un’ipotesi di «congelamento» della guerra in Ucraina, all’insegna del «meno peggio» (se l’alternativa è continuare i combattimenti a tempo indefinito). Il precedente più citato è quello della guerra di Corea 1950-53, tuttora irrisolta visto che non esiste un trattato di pace tra i belligeranti. Il «modello coreano» per porre fine a un conflitto non è certo esemplare: la Corea del Nord rimane una dittatura feroce, sottopone il suo popolo ad abusi, privazioni e sofferenze enormi. Inoltre Pyongyang è una minaccia per il mondo, a cominciare dai suoi vicini (Corea del Sud e Giappone) che sottopone a lanci missilistici, mentre persegue il suo programma di armamento nucleare. Però è un modello del «meno peggio», visto che in 70 anni una nuova guerra lì non c’è stata, e a Seul è fiorita una delle economie più avanzate del pianeta nonché una democrazia rispettosa dei diritti umani.
Anche nel 1950-53 tutto ebbe inizio con una brutale aggressione, l’invasione della Corea del Sud voluta dal dittatore nordcoreano Kim IlSong (il nonno dell’attuale despota).
Fu decisivo il via libera dato dal leader sovietico Iosif Stalin, che a sua volta si garantì l’appoggio del fondatore della Repubblica popolare cinese, Mao Zedong. L’Unione Sovietica forniva il grosso degli armamenti, la Cina fece molto di più, mobilitando in appoggio ai nordcoreani fino a un milione di «volontari», in realtà soldati del suo Esercito popolare di liberazione. In quel caso non ci fu una
guerra per procura ma un conflitto diretto, l’unico (finora) nella storia ad aver opposto cinesi e americani. Anche in Corea vi erano un aggressore e un aggredito. L’Onu condannò l’invasione del sud. Gli americani vennero chiamati in soccorso da Seul ma non da soli, accanto alle loro truppe intervenne un corpo multinazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite. Una fine giusta di quel conflitto avrebbe dovuto infliggere sanzioni ai colpevoli. Ma prevalse in Occidente la stanchezza, gli americani erano freschi reduci della Seconda guerra mondiale. Le forze del blocco comunista sembravano disposte a combattere a oltranza, fino a che morì Sta-
Verso un disastro nucleare?
Settimana scorsa, durante l’Assemblea generale dell’Onu, la Corea del Nord ha dichiarato – per bocca del suo ambasciatore Kim Song – che la penisola coreana è «sull’orlo di una guerra nucleare» a causa, in particolare, delle «azioni sconsiderate» degli Stati Uniti.
Dal canto suo la Cina ha riferito che è stato raggiunto un accordo con il Giappone e la Corea del Sud per tenere un summit trilaterale «il prima possibile».
Intanto il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha
lin e la nuova leadership sovietica nel 1953 cambiò atteggiamento. La frontiera tra le due Coree fu ristabilita dov’era stata fissata dopo la Seconda guerra mondiale, lungo il 38esimo parallelo. Né la Corea del Nord, né la Cina né l’Urss pagarono per l’aggressione. Non ci fu alcun trattato di pace e il confine coreano rimane una zona ad altissima tensione, dove un conflitto potrebbe riesplodere in qualsiasi momento.
Però in questi settant’anni la Corea del Sud ha operato due transizioni che hanno del miracoloso (se viste alla luce della situazione nel 1953). Seul è passata da una dittatura di destra a una liberaldemocrazia. Al
affermato di essersi impegnato «a fare tutto ciò che è in mio potere per mobilitare i Paesi intorno alla necessità di rimuovere questi dispositivi distruttivi (le armi nucleari, ndr.) dalla faccia della Terra». La situazione è urgente, ha spiegato. «Con la modernizzazione degli arsenali nucleari, queste armi stanno diventando più veloci e più precise. Ancora una volta la minaccia delle armi atomiche viene brandita. Questa è pura follia. Dobbiamo invertire la rotta». / Red.
tempo stesso è passata dall’essere un Paese poverissimo – negli anni Cinquanta era meno sviluppata di molte Nazioni del Nordafrica o del Medio Oriente – al rango di superpotenza tecnologica. Ha superato il Pil dell’Italia pur avendo una popolazione più piccola (51 milioni). È un laboratorio di modernità per tanti aspetti fra cui la qualità dell’istruzione, è diventata un’esportatrice di soft power, dal cinema alla musica K-Pop alla letteratura. Il precedente coreano ricorda che a volte la storia costringe ad accontentarsi del «meno peggio».
Al tempo stesso la riabilitazione della Corea del Nord lungo l’asse Mosca-Pechino è spettacolare. L’incontro Putin-Kim di metà settembre è denso di insegnamenti. L’aspetto più immediato riguarda le forniture militari. La Corea del Nord, per il regime di sanzioni a cui è sottoposta e la miseria estrema della sua economia, non si può considerare una potenza tecnologica. Riesce a fare miracoli, pur nelle ristrettezze di cui soffre, per poter minacciare la Corea del Sud, il Giappone e perfino gli Stati Uniti con i suoi missili e la costruzione di un arsenale nucleare. Ma deve concentrare su quei programmi le poche risorse di cui dispone. Per il resto ha un’industria militare primitiva. Nel campo delle munizioni gli esperti considerano che la Corea del Nord sia rimasta ferma allo sta-
dio tecnologico degli anni Sessanta e Settanta, quando i suoi arsenali venivano dall’Unione Sovietica. Che la Russia del 2023 possa aver bisogno di attingere a questo tipo di forniture conferma che Putin è arrivato impreparato a questa guerra di lunga durata, non aveva predisposto piani di produzione industriale per reggere un conflitto che compie 19 mesi e chissà quanto durerà ancora. Poiché non sono molti i Paesi disposti ad aggirare le sanzioni addirittura sul terreno delle armi (l’Iran è fra questi, la Cina lo fa di nascosto e con molte cautele), Putin non può fare lo schizzinoso sulla qualità di queste armi. Inoltre è la conferma che questa guerra è in buona parte combattuta in modo arcaico: si ha un bel parlare del ruolo dei droni, molto di questo conflitto si continua a combattere come la Prima o la Seconda guerra mondiale, con scambi di artiglieria pesante, pioggia di proiettili, mine antiuomo. Un’altra rivelazione dall’incontro Putin-Kim si potrebbe riassumere così: l’isolamento della Corea del Nord era una finta. Negli anni in cui l’America e l’Occidente volevano illudersi di vivere in un mondo pacificato, presero per buone le rassicurazioni di Mosca e Pechino sull’adesione russa e cinese alle sanzioni contro la «monarchia rossa» di Pyongyang. Ora hanno gettato la maschera. Di recente le delegazioni ufficiali dei Governi di Mosca e Pechino hanno celebrato insieme con Kim l’anniversario della loro comune «vittoria contro l’America» nella guerra di Corea del 1950-53. È possibile che la guerra in Ucraina «tracimi» in qualche conflitto all’altra estremità della massa continentale eurasiatica
L’ultima rivelazione dall’incontro Putin-Kim riguarda la possibilità che la guerra in Ucraina «tracimi» in qualche conflitto all’altra estremità della massa continentale eurasiatica. Si è spesso discusso su quanto Xi Jinping stia osservando il conflitto ucraino per estrarne degli insegnamenti sull’eventuale invasione cinese di Taiwan. Meno visibile in Occidente, ma assai presente nei pensieri di Tokyo e Seul, c’è la possibilità che Kim Jong-un voglia portare il suo contributo allo scontro fra Oriente e Occidente, infilandosi in una «finestra di opportunità» con una sua aggressione contro la Corea del Sud, o perfino allargandola contro il Giappone, Paesi che ospitano anche basi militari americane. Il recente avvicinamento fra Giappone e Corea del Sud sancito nel summit di Camp David con Joe Biden, è figlio anche di questo allarme.
L’analisi ◆ Russia e Cina tolgono la maschera, riverendo e omaggiando di nuovo la Corea del Nord Mentre in America viene discussa un’ipotesiA metà del settembre scorso Kim Jong-un (a destra) ha incontrato Vladimir Putin in Russia. (Keystone)
Quella stretta sui migranti
Italia ◆ Espulsioni più facili e controlli sull’età, ecco il nuovo decreto Meloni
Ogni volta è uno spettacolo appassionante: un leader celebre per i suoi discorsi incendiari si ritrova al Governo e inizia un brusco percorso di apprendimento in cui scopre, tutt’a un tratto, i fasti della complessità. Restare radicali è impossibile, tocca imparare l’arte del compromesso. L’ultima interprete di questo copione è Giorgia Meloni, premier italiana che per anni ha fatto uno sforzo erculeo per essere più abrasiva del suo rivale e (a volte) sodale Matteo Salvini, finendo per arrivarci lei, a Palazzo Chigi. Ora, sul tema-feticcio dell’immigrazione, su cui in passato invocava il «blocco navale» nel Mediterraneo, la leader di Fratelli d’Italia si ritrova a dover fare la parte della «moderata», mentre Salvini urla dal palco di Pontida con accanto la vecchia amica Marine Le Pen e ha nel partito personaggi come il vicesegretario Andrea Crippa, che si lascia andare a commenti da osteria sui tedeschi. «Ottant’anni fa invasero gli Stati con l’esercito, ora finanziano l’invasione dei clandestini», ha detto Crippa, con una di quelle frasi poco adatte a migliorare i rapporti con Berlino «colpevole» di elargire soldi alle Ong che si occupano di migranti, come sottolineato da Meloni stessa in una lettera al cancelliere tedesco Olaf Scholz, dura ma scritta in una lingua obbligatoria, quella della diplomazia.
Aiuti di Berlino alle Ong
Si vota a giugno per le elezioni europee e non si parla d’altro che d’immigrazione: con i numeri attuali appare quasi inevitabile. Dall’inizio dell’anno sono arrivate in Italia oltre 130mila persone, ossia il doppio dell’anno passato, e con il clima estivo che sembra voler proseguire a oltranza, il ritmo delle partenze non sembra destinato a diminuire, visto che, come riconosciuto anche da Frontex, le belle giornate e le buone condizioni del mare sono il primo fattore che spinge i migranti a imbarcarsi. Che le centinaia di migliaia di euro dati da Berlino alle Ong siano invece in grado di oliare quel fattore di attrazione di cui si favoleggia, ossia di incoraggiare le persone a partire sapendo che ci saranno delle organizzazioni in grado di salvarli, è tutto da dimostrare. Ma l’elettorato di Meloni non è favorevole a gesti umanitari e la sua linea dura ha contribuito molto a farla eleggere, come se salvare la
Visioni inconciliabili
gente che rischia di affogare fosse un optional e non un obbligo iscritto nella legge del mare. Lei stessa ha dovuto riconoscere di non aver ancora realizzato i risultati promessi, nonostante il duro lavoro: «Speravo meglio».
Non che la questione abbia risposte semplici, sia chiaro. Per evitare di doversi mostrare debole, Meloni aveva puntato molto sull’accordo con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, a partire dalla Tunisia, sperando così di dare una risposta muscolare e rapida rispetto ai traccheggiamenti e ai disaccordi europei. È stato un prevedibile fallimento, anche perché, volendo tralasciare il lato umanitario, il Governo di Kais Saied è ben felice di fare promesse e di strumentalizzare al massimo la questione in modo da fare pressione sull’Ue senza dare garanzie in un momento in cui la crisi economica sta mettendo in ginocchio il suo Paese. E quindi alla fine il Governo si è affidato a un decreto d’urgenza, il terzo in un anno e il secondo nel giro di poche settimane, in cui annuncia una stretta sui finti minori e su chi attenta all’ordine pubblico. Come se i controlli radiometrici per verificare l’età dei giovani migranti non fossero già una realtà, sebbene avvengano in un contesto diverso da quello della polizia, e come se i numeri del fenomeno fossero così determinanti rispetto all’insieme. Le espulsioni saranno più facili per chi si comporta male e minaccia l’ordine pubblico (anche se ha un permesso di soggiorno a tempo indeterminato) o dichiara il falso, mentre alle donne verrà offerto il livello più alto di aiuto, anche se non sono incinte o con figli minori, un elemento di novità se si considera che le richieste di protezione internazionale da parte di donne sono aumentate del 73% rispetto all’anno scorso.
Aumenterà il personale diplomatico e consolare per gestire le richieste nei Paesi di provenienza, nonché il numero di agenti in servizio nelle aree dove gli arrivi sono più importanti, come Lampedusa. E le richieste di asilo verranno automaticamente annullate per chi non si presenterà all’appuntamento fissato, cosa che avviene a 4 migranti su 10 spesso per ragioni pratiche, di difficoltà a trovare il posto o di ritardi. Le nuove misure arrivano in un momento in cui Meloni sta facendo il possibile per mostrarsi determinata ma anche per elevare il livello del discorso al di sopra di quel-
lo di Salvini, anche se misure come i 5000 euro che i richiedenti asilo provenienti da Paesi definiti «sicuri» (tra questi Tunisia e Nigeria, dove gli abusi non mancano) devono versare per evitare di dover aspettare l’esito della loro domanda in centri di detenzione amministrativa hanno suscitato perplessità e indignazione.
L’incontro
con Macron
Dopo che la sua passeggiata a Lampedusa con Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione europea, è stata oscurata dalle immagini di Pontida, tra salamelle e base leghista in visibilio davanti a Salvini, Meloni è andata avanti sulla strada della diplomazia, pur consapevole di quanto la sua vecchia parrocchia ultrasovranista rappresenti una minaccia. Con un elegante doppiopetto scuro con i bottoni dorati, a margine del funerale di Giorgio Napolitano, la premier, che parla bene le lingue, non poteva apparire più istituzionale al fianco del presidente francese Emmanuel Macron, con cui ha dato un’immagine di unità e concordia e con cui ha parlato fitto per un’ora e mezza dei temi d’interesse comune, della Tunisia e della necessità di chiudere accordi per i rimpatri e di stanziare risorse europee per l’Africa.
D’altra parte, come dimostra il caso britannico, dove il problema degli arrivi dei migranti nel canale della Manica dalla Francia è molto sentito dall’Esecutivo, il rischio che la retorica governativa vada fuori controllo non fa bene a nessuno. Suella Braverman, la ministra dell’Interno britannica di origine indiana, va parlando di «minaccia esistenziale» per l’Occidente legata alla portata dei flussi migratori. In un discorso negli Stati Uniti ha dichiarato che «l’immigrazione incontrollata, l’integrazione inadeguata e un dogma fuorviante del multiculturalismo si sono dimostrate una combinazione tossica per l’Europa».
E davanti alla platea dell’American Enterprise Institute di Washington ha dichiarato anche che non è razzista o «anti-rifugiati» volere una riforma della Convenzione europea dei diritti umani e la Corte di Strasburgo per portare a termine il suo personalissimo, discutibilissimo piano: mandare i richiedenti asilo in Ruanda per sbrigare lì le pratiche in cambio di generosi finanziamenti al Governo locale.
Nagorno Karabakh ◆
Dentro il conflitto tra azeri e armeni con lo storico Francesco Mazzucotelli
Romina BorlaSettimana scorsa l’autoproclamata Repubblica separatista del Nagorno Karabakh ha annunciato la sua dissoluzione, mentre la sua gente si riversava in massa in Armenia. Giovedì, quando il giornale è andato in stampa, si parlava di almeno 65mila rifugiati, oltre la metà della popolazione della regione situata nel territorio dell’Azerbaigian, ma abitata in maggioranza da persone di etnia armena. L’esodo, lo ricordiamo, è scaturito dall’offensiva lampo con cui l’esercito azero ha preso il controllo dell’area e costretto le autorità locali alla resa. Ma quali sono le radici storiche del conflitto? «Il Nagorno Karabakh – spiega Francesco Mazzucotelli che insegna Storia del Vicino Oriente all’Università di Pavia – è una regione storicamente abitata sia da armeni sia da azeri. Quando negli anni Venti del Novecento furono tracciate le frontiere interne all’Urss, la zona fu assegnata alla Repubblica sovietica dell’Azerbaigian. Come è noto, l’Unione sovietica fu un sistema centralizzato che contenne anche le aspirazioni delle due fazioni. Ma già nel 1988 gli armeni chiesero di essere divisi dall’Azerbaigian per ricongiungersi con l’Armenia. Questo innescò scontri e violenze che sfociarono in ostilità aperte dopo il crollo dell’Urss (1991). Gli armeni del Nagorno Karabakh organizzarono un referendum per l’indipendenza: scoppiò una guerra che si protrasse fino al 1994». In un primo tempo sembrava avesse la meglio l’Azerbaigian ma alla fine prevalsero le milizie armene che realizzarono una sorta di indipendenza di fatto (Repubblica dell’Artsakh). Indipendenza mai riconosciuta da alcun Paese. Il conflitto – continua l’esperto – rimase «congelato» fino al 2020, quando l’Azerbaigian lanciò una grossa offensiva militare che portò – almeno secondo il punto di vista azero – alla riconquista di una parte dei «territori occupati». Ma facciamo un passo indietro. Negli ultimi anni l’Azerbaigian ha investito molto sia per modernizzare le sue forze armate, sia per allacciare legami più stretti con l’Occidente. Rivelandosi prezioso nel campo della fornitura di gas naturale (pensiamo a quando l’Europa ha dovuto diversificare le fonti di energia per diminuire la dipendenza da Mosca). Baku inoltre coltiva legami storici sia con la Turchia sia con Israele; dispone insomma di un quadro di alleanze con Paesi occidentali legati agli Usa. «Per contro l’Armenia si è ritrovata in una situazione di isolamento. Si è come detto rivolta prima alla Russia. Dal 2018 ha tentato di riavvicinarsi al campo atlantico ma con grandi difficoltà: molti Paesi occidentali non sono disposti a sacrificare i legami con l’Azerbaigian». Tornando all’offensiva: è scattata nell’autunno del 2020, sfruttando anche la situazione internazionale (Covid e altre sfide impellenti). Poi è giunto il cessate-il-fuoco, con le forze russe schierate in un’o-
perazione di peacekeeping. Ancora una volta i colloqui tra le parti in conflitto, i Paesi Ue, la Russia e gli Usa sono stati inconcludenti. «L’Azerbaigian – afferma il nostro interlocutore – insisteva sul porre fine alla secessione illegale. La Repubblica autoproclamata non voleva essere reintegrata. I tentativi di compromesso, che vertevano sulla creazione di una sorta di autonomia regionale (dentro l’Azerbaigian) non sono andati a buon fine». La tregua era basata su un compromesso tra la Russia (che parteggiava per gli armeni) e Turchia (con gli azeri).
Si arriva così alla stretta attualità. Nel corso degli ultimi mesi la pressione da parte dell’Azerbaigian è aumentata. Da un lato perché la Russia, indebolita e impelagata in Ucraina, non può svolgere la funzione di garante della pace nella regione. Così Baku ha posto un embargo nei confronti del Nagorno Karabakh: ha chiuso vie di accesso e di transito, quasi un assedio non dichiarato. La situazione andava peggiorando e la tensione aumentava. Fino all’attacco che ha portato alla débâcle della parte armena. Quali sono ora le ambizioni del Governo azero? «Dopo la fine della Repubblica autoproclamata – afferma Mazzucotelli – una delle ulteriori richieste da parte di Baku è quella di disporre di un corridoio di transito verso la regione del Nakhchivan che confina con la Turchia e l’Iran (territorio azero staccato dal resto del Paese da una striscia di Armenia). Una richiesta problematica da tutti i punti di vista. Né l’Armenia né l’Iran sono, a questo punto, disposti a cedere».
Punti interrogativi
Le prospettive non sono rosee. L’incertezza regna sovrana, sottolinea l’esperto. «Quale il destino degli sfollati? L’Armenia è un Paese dall’economia fragile. L’arrivo in massa di rifugiati non fa altro che aumentare la rabbia della popolazione. La capitale Yerevan è già stata scossa da una serie di manifestazioni contro il Governo, accusato di passività nei confronti dell’Azerbaigian». Che tipo di regime verrà instaurato nella regione dell’ex Nagorno Karabakh? Sarà concessa una sorta di autonomia regionale o il territorio verrà assimilato? Come verranno trattati i cittadini armeni? «I primi segnali non sono buoni», osserva l’esperto. «Uno dei primi gesti simbolici è stato quello di cancellare i nomi armeni delle località e ristabilire quelli azeri. La classe politica del Nagorno Karabakh ha dal canto suo invitato la popolazione a fuggire». Il primo ministro armeno ha accusato l’Azerbaigian di portare avanti una «pulizia etnica» nel territorio. Mentre quello azero rimane un sistema politico autoritario, che non favorisce di sicuro il pluralismo e le autonomie.
Armeni in fuga dal NagornoKarabakh il 28 settembre scorso. (Keystone)
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Dove Gramsci scrisse Quaderni del carcere
Puglia ◆ La prigione di Turi è oggi sovraffollata e nessuno controlla che le condizioni di detenzione siano conformi alla legalità
Angela Nocioni, testo e fotoTuri, bianco paesino pugliese di vecchie case a due piani nella campagna a sud di Bari. Venerdì, giorno di mercato. Sui banchi in fila con il cartello «tutto a 1 euro» s’allunga l’ombra cupa di una garitta armata. Il gabbiotto blindato è al centro del paese, appeso a tre metri da terra all’angolo di un antico convento. Tutto qui è cresciuto attorno a quell’edificio di pietra. La piazza, i giardini con le panchine, le altalene e lo scivolo. Finito di costruire nel 1850 come ritiro delle Clarisse, il palazzo fu requisito trent’anni dopo per farne un carcere. Il grande portone di legno sul marciapiede si apre. E un attimo dopo si richiude. Ufficio del controllo di polizia, altre due porte blindate. La guardia carceraria fa scattare la serratura dell’alto cancello di ferro sotto la lunga scala stretta che sale alla prima sezione. Una cella con un letto solo, vuota, più grande delle altre. Qui fu rinchiuso per oltre 5 anni Antonio Gramsci, matricola 7047. Qui, il fondatore e dirigente del Partito comunista, scrisse i suoi Quaderni del carcere. Tutto è rimasto intonso: il suo letto, la sua coperta, la sua scrivania. E di fronte a questo spazio da pellegrinaggio laico, tenuto come una stanza di museo, una cella quadrata con luce elettrica, gabinetto senza soffitto né bidet, acqua solo fredda. Ci vivono in tre. Il più anziano si affaccia, ha le gambe gonfie, viola, coperte di cicatrici, è chiaramente malato. «Me ne hanno messo un altro stamattina», ci dice. «Ho detto alle guardie che io non posso arrampicarmi sul letto a castello e loro mi hanno messo la brandina a terra quindi qua non ci si muove più. Non c’entriamo. Ho chiesto di mandarmi giù in cella di isolamento, lontano da qui: siamo troppi! Ma la guardia mi ha risposto: “Sì, ora ti ci mando davvero e ti faccio pure rapporto disciplinare”». Dietro di lui un ragazzo sulla trentina sta accucciato, zitto e guarda serio, ha l’aria di essere appena arrivato. Cerca un angolino per poggiare una maglietta piegata e non lo trova. In fondo al corridoio, nella cella 5, fu detenuto l’ex presidente della Repubblica Sandro Pertini (iscritto al Partito socialista unitario dal 1924, venne incarcerato e confinato durante il fascismo). Anche lì ora stanno in tre. Condannati per furto e spaccio.
Le leggi «fascistissime»
ll 5 novembre del 1926 il regime fascista di Mussolini emise le norme «per la sicurezza e la difesa dello Stato», parte delle leggi «fascistissime», ossatura normativa dello Stato totalitario approvata in blocchi a partire dal dicembre 1925. Sciolti d’imperio tutti i partiti, le associazioni e le organizzazioni contrarie al regime; cancellati tutti i giornali d’opposizione e il diritto di sciopero; istituito il confino di polizia per i dissidenti, introdotta la pena di morte per chi avesse attentato alla vita dei reali e del duce; istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato; Mussolini si autoproclamò ministro dell’Interno. Tre giorni dopo, nonostante l’immunità parlamentare, Antonio Gramsci venne arrestato insieme a tutti gli altri parlamentari del gruppo comunista. Lo portarono prima a Regina Coeli, prigione romana, poi al confino di Ustica, a San Vittore a Milano, poi a Porto Longone (Isola d’Elba) e infine a Turi perché le sue condizioni di
salute erano gravi e lì c’era una stanzina adibita a infermeria che dava al carcere la fama di lazzaretto. A causa di un aggravamento delle sue condizioni di salute, nel 1933 venne trasferito in una clinica a Formia, sul Tirreno, a nord di Napoli. Il 25 ottobre 1934 ottenne la libertà condizionale, che al contrario di oggi non chiedeva il «ravvedimento» da parte del detenuto. Gramsci non si piegò mai a chiedere la grazia a Mussolini pur sapendo che l’avrebbe avuta. Mussolini era ossessionato da quell’intellettuale sardo, gli sarebbe bastato un segno di riconoscimento per graziarlo. Non lo ebbe mai.
Nel braccio dei «Politici»
Gramsci fu assegnato al penitenziario di Porto Longone per scontare una pena di oltre 20 anni di reclusione. Alla richiesta del pm Michele Isgrò – «il cervello per vent’anni non gli deve funzionare» – il presidente del tribunale speciale, Alessandro Luigi Saporiti, aggiunse una pena accessoria in denaro e 3 anni di vigilanza. Alla fine, per timore che morisse in cella, mandarono Gramsci a Turi. Arrivò nell’agosto del 1928 insieme a due detenuti comuni lombardi. Nel 1979 Sandro Pertini, divenuto presidente della Repubblica italiana, volle entrare in carcere a Turi e visitare la cella del suo amico. Disse: «Ci vado da solo». Il suo segretario d’allora, Antonio Ghirelli, disse poi di aver violato il dovere di discrezione e di aver sbirciato: «Ho visto il presidente Pertini che accarezzava il letto vuoto». I detenuti politici avevano un cortile tutto per loro, diviso da quello dei detenuti comuni a mezzo di un doppio muro. Lì Gramsci andava nelle ore stabilite dal regolamento e s’incontrava con gli altri compagni che allora erano una cinquantina. L’ergastolano Faedda vedeva tutti i giorni Gramsci. Faedda nel 1928 faceva pulizia nelle celle, portava il vitto giornaliero ai detenuti e così lasciava pacchi, libri, riviste. Per questi servizi riceveva dall’Amministrazione 14 lire al mese. Quando al mattino entrava nella cella di Gramsci faceva spesso con lui una chiacchierata in dialetto sardo. Delle testimonianze d’allora le ha lasciate la guardia scelta Vito Semerano che faceva il turno nel braccio dei «Politici», al primo piano. Ha detto di Gramsci: «Copiava sempre dai libri e mi chiedeva i quaderni per scrivere. Quando ne aveva riempito uno, me lo consegnava e io lo passavo al direttore. Una volta bollate le pagine, veniva depositato in magazzino». Gramsci preferiva depositare i suoi quaderni per evitare che nelle perquisizioni venissero sciupati. Qualche volta si faceva comprare dell’inchiostro fuori dal carcere perché migliore. Chiedeva dieci quaderni al mese. Semerano ricorda ancora che alla partenza da Turi furono riempite quattro casse di libri e manoscritti.
Tutto nella prima sezione è rimasto come allora, ma le celle sono ora sovraffollate – 113 posti, 153 detenuti – e rese semibuie da lastre smerigliate messe tra le due file di grate e la rete alle finestre. Entra poca aria e pochissima luce. Si tratta però di una delle prigioni italiane considerate «meno afflittive». Casa di reclusione, dovrebbero starci solo persone condannate a più di cinque anni. Invece mandano dalla prigione di Bari anche detenuti in attesa di giudizio
o condannati a un paio d’anni. Che qui vengono dimenticati fino a chiamata del giudice. Non lavorano, non studiano. «Non possiamo fare niente, ci tengono qui ad aspettare, solo aspettare», dice uno dei più giovani, barese. Di magistrati di sorveglianza qui non se ne vedono da anni. I funzionari del penitenziario, a occhi bas-
si, confermano: «Non vengono mai, il tribunale non li manda, non se ne occupano proprio». Ci sono quindi magistrati pagati dallo Stato italiano per svolgere tra i loro compiti quello fondamentale di verificare che le condizioni di detenzione siano conformi alla legalità che qui non hanno mai messo piede. I detenuti lo sanno e non
Azione
Una facciata del carcere di Turi, immerso nel villaggio pugliese.
possono protestare per questo altrimenti rischiano la punizione, il rapporto disciplinare. Lo Stato italiano rinchiude nel carcere di Turi persone condannate per aver violato la legge. Legge che, in prigione, loro vedono tutti i giorni violata. Con tanti saluti alla Costituzione e allo scopo rieducativo della pena.
Cattura
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Nel club delle miliardarie indiane
Nuova Delhi ◆
Francesca MarinoSono diverse le donne con patrimoni da capogiro impegnate in settori di alta tecnologia. Il ritratto di alcune di loro
Nel 2017 il «MIT Technology Review» l’ha inserita nell’elenco degli innovatori under 35. L’anno successivo è stata citata da «Forbes» tra le cinquanta donne più importanti d’America, e del mondo, nel settore tecnologico e ha vinto l’Oracle Groundbreaker Award alla conferenza Oracle Code One di San Francisco. Nell’ottobre 2020 è stata inclusa nella lista delle America’s Self Made Women («Forbes») e nel 2022 ha ricevuto l’Abie Award per l’imprenditorialità tecnologica in occasione della Grace Hopper Celebration of Women in Computing. Oltre a essere inserita, sempre da «Forbes», all’ottavo posto nella classifica delle donne più ricche dell’India. Lei è Neha Narkhede, ingegnere elettronica, cofondatrice ed ex direttrice tecnica di Confluent, un’azienda di tecnologia per lo streaming dei dati valutata 2,5 miliardi di dollari. Ha co-creato la piattaforma software open source Apache Kafka e sta elaborando quello che definisce un «sistema nervoso centrale» per i dati delle aziende. Compirà quarant’anni l’anno prossimo Neha Narkhede, la ragazza di Pune dalla faccia pulita, la classica ragazza della porta accanto che dall’India dello sviluppo tecnologico è arrivata in America per entrare direttamente nelle classifiche di celebrità e miliardari.
E non è la sola. Perché l’India, sempre secondo «Forbes», ospita il
quinto maggior numero di donne miliardarie al mondo (strano ma vero, l’Italia è al quarto posto) con una decina di loro che possiedono patrimoni da capogiro. Non solo, almeno metà di queste imprenditrici, ad esempio Neha Narkhede, non sono figlie, mogli o eredi di patrimoni ma si sono «fatte da sole». Come Falguni Nayar: ex banchiera di investimenti che, nel 2012, ha lasciato il suo lavoro per fondare l’azienda di vendita al dettaglio di prodotti di bellezza e lifestyle Nykaa. Nykaa, che significa letteralmente «quella sotto i riflettori», vende oltre 4500 marchi online e in più di 100 negozi in India.
L’azienda, che annovera tra i suoi investitori il gigante statunitense del private equity TPG Growth e i miliardari Harsh Mariwala e Harry Banga, è stata quotata in Borsa nel 2021 facendo schizzare Falguni Nayar al secondo posto nella classifica delle donne più ricche dell’India. Posto da cui ha scalzato Kiran Mazumdar-Shaw, inserita nel 2011 dal «Financial Times» nella lista delle 50 donne più importanti del mondo degli affari, e nel 2019 collocata da «Forbes» tra le 68 donne più potenti del mondo. È stata inserita nella Worldview 100 List dei visionari più influenti dalla rivista «Scientific American» e nominata tra i 100 Leading Global Thinkers dalla rivista «Foreign Policy». Mazumdar-Shaw, che
Pura bontà italiana
ha compiuto 70 anni, ha difatti praticamente inventato un settore, quello delle biotecnologie, che produce oggi un volume d’affari di circa 92 miliardi di dollari. Una lunga strada dal garage dei suoi genitori a Bangalore dove, nel 1978, una giovanissima Kiran fondava la prima azienda di biotecnologie farmaceutiche dell’India e apriva le porte a un settore che, seppure nato formalmente soltanto nel 1986 con l’istituzione del Dipartimento di biotecnologia (DBT) da parte del Ministero della scienza e della tecnologia, ha collocato l’India tra le prime dodici destinazioni per le biotecnolo-
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Kiran Mazumdar-Shaw ha inventato un settore, quello delle biotecnologie, che produce oggi un volume d’affari di circa 92 miliardi di dollari. (Keystone)
gie a livello mondiale e al terzo posto per le biotecnologie in Asia, rendendo il Paese uno dei maggiori fornitori del mondo di farmaci e vaccini a basso costo.
Mazumdar-Shaw è oggi presidente esecutiva di Biocon Limited e Biocon Biologics Limited, un’azienda di biotecnologie con sede a Bangalore, ed ex presidente dell’Indian Institute of Management. Una pioniera che ha aperto la strada a ragazze come Neha Narkhede ma anche alla generazione precedente di imprenditrici miliardarie come Falguni Nayar o Radha Vembu: al quinto posto tra
le dieci miliardarie indiane, laureata in gestione industriale presso l’elitario IIT Madras, ha fondato assieme a suo fratello Sridhar la Zoho Corp, società che offre software aziendale su Cloud.
A guidare la classifica delle imprenditrici di successo è però Savitri Jindal, presidente del gruppo OP Jindal: la donna più ricca non soltanto dell’India ma di tutta l’Asia, con un patrimonio netto di diciassette miliardi di dollari. La settantatreenne Savitri, che a vederla sembra una semplice casalinga della classe media indiana e che ha ben nove figli, ha preso le redini del conglomerato siderurgico ed energetico di famiglia dopo l’improvvisa morte di suo marito Om Prakash Jindal in un incidente aereo nel 2005 e da allora presiede agli affari di famiglia con indiscusso talento e pugno di ferro. Savitri è stata anche ministra dello Stato dell’Haryana. Non è un caso che tra le miliardarie indiane si trovino quasi esclusivamente donne impegnate in settori di altissima tecnologia. Secondo i dati della Banca mondiale, le donne rappresentano il 43% del totale dei laureati in materie scientifiche in India, una delle percentuali più alte al mondo. E, secondo gli esperti, sempre più ragazze indiane entreranno a far parte delle liste dell’élite economica mondiale. Perché il «sogno indiano», in fondo, è appena cominciato.
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NIENTE … DI NON PORTARE QUANDO TI DICONO
L’amore di Cla e Baran
Al Festival Lettere dalla Svizzera alla Valposchiavo Angelika Overath racconta il suo romanzo
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Il ritorno di Ken Follett
Il 26 settembre è uscito nelle librerie Le armi della luce, il nuovo romanzo del grande autore inglese
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Marco D’Anna a Villa Arconati
Una location d’eccellenza ospita la mostra fotografica dal titolo Oltrereale, la realtà immaginata
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Crisi degli artisti indipendenti Sguardi poliedrici sulla scena italiana e i suoi protagonisti, creativi anche senza finanziamenti
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Vela e Albisetti, viaggio tra il disegno e la scultura
Mostre ◆ Intervista a Marie Therese Bätschmann e Simona Ostinelli, co-curatrici di due rassegne diverse a Ligornetto
Al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto sono in corso due rassegne aperte al pubblico fino al 5 novembre 2023. La prima, intitolata Disegna come scolpisce. Fogli scelti dalla collezione del Museo Vincenzo Vela, è un’esposizione inaugurata in occasione del convegno «Vincenzo Vela. Temi e studi a confronto» (25 e 26 agosto 2023) e curata dalla direttrice del museo Gianna A. Mina insieme alla storica dell’arte bernese Marie Therese Bätschmann; la seconda, intitolata Natale Albisetti (1863–1923) scultore. Dai successi parigini ai grandi cantieri svizzeri, è una mostra curata dalla direttrice Mina e dalla storica dell’arte Simona Ostinelli, autrice di uno studio approfondito sullo scultore ticinese del quale ricorre quest’anno il centenario della morte.
Proprio alle due co-curatrici, Marie Therese Bätschmann e Simona Ostinelli, abbiamo chiesto di raccontarci le rassegne allestite a Ligornetto.
Signora Bätschmann, la mostra sulla produzione grafica di Vela prende vita dal nucleo di fogli a lui attribuiti conservati al museo di Ligornetto. Quanto disegnava Vincenzo Vela?
È difficile dire quanto disegnasse
Vela. Quello che possiamo notare è che se contiamo i suoi disegni a nostra disposizione arriviamo a circa trecentottanta fogli. L’artista ticinese ha lavorato per cinquant’anni: facendo un rapido calcolo risultano circa sette disegni all’anno. Molto pochi… C’è da dire però che lui era uno scultore, non un pittore, e non aveva la necessità di disegnare troppo. Vela si rapportava più alle forme tridimensionali, lavorando con la terracotta, il gesso e la pietra.
Quale funzione aveva affidato
Vela all’opera grafica?
Per Vela i disegni sono delle prime idee. Sono la tappa iniziale di un progetto o qualcosa che utilizza quando vuole approfondire e chiarire meglio nella sua mente una situazione, un problema. Sono un aiuto, un supporto al suo processo creativo. Osservando i suoi fogli notiamo che spesso l’artista non si sofferma sui dettagli perché il tutto si sviluppa poi nella tridimensionalità della forma plastica. Eppure questi disegni testimoniano come Vela utilizzasse un metodo di lavoro diversificato per poter giungere a una soluzione definitiva. Tra le opere che abbiamo selezionato per la rassegna, quelle a mio parere più interessanti per comprendere il modo di disegnare di Vela sono quelle che mostrano la figura umana colta frontalmente. Qui l’artista traccia solo i profili, i contorni. Le sue sembrano figure senza corpo. Quando Vela scolpisce, il corpo
ha la sua forma ben esibita, quando invece disegna, il corpo si fa quasi impalpabile.
I disegni di Vela sono tuttora oggetto di analisi da parte di eminenti studiosi. Per questa mostra lei è partita da un punto di vista diverso…
Questa mostra è stata per me molto stimolante perché mi ha dato la possibilità di combinare i miei due principali ambiti di ricerca: la grafica e la scultura. Gli studiosi che si sono occupati dei disegni di Vela li hanno sempre interpretati come un mezzo espressivo funzionale al risultato plastico finale. Ben consapevole del fatto che in Vela la produzione grafica e quella scultorea sono strettamente legate, io ho adottato invece un approccio alla lettura di questi disegni che li considerasse come lavori a sé stanti, autonomi, focalizzandomi sulle questioni relative alla maniera caratteristica dell’artista.
Come vediamo anche nell’immagine (Giuseppe e la moglie di Putifarre, 1855-65, inchiostro di china su carta) Vela si concentra sulla figura umana. Come viene rappresentata?
Vela rappresenta la figura umana da sola o in relazione a un monumento.
Spesso la troviamo su un piedistallo o inserita in una nicchia. Talora c’è una semplice silhouette stante, talatra ci sono figure in movimento o sedute. La cosa interessante è che Vela studia la postura dei corpi riuscendo a dare espressione a una grande varietà di sentimenti e di sfumature dell’animo.
Signora Ostinelli, abbiamo visto come per Vela il lavoro grafico avesse una grande valenza. Lo stesso Albisetti si è formato alla Scuola di Disegno di Clivio. Anche per lui era importante il disegno?
Quanto il disegno fosse rilevante per Albisetti possiamo soltanto supporlo. Purtroppo non è pervenuto un corpus di sue opere grafiche. Recentemente sono comparsi sul mercato antiquario quattro disegni dell’artista che il Comune di Stabio ha acquisito. Si tratta di opere servite per realizzare dei ritratti. Nonostante ci siano pochi esempi a nostra disposizione, si può certamente affermare che per Albisetti il disegno fosse qualcosa di basilare per il suo lavoro.
Albisetti è stato un artista di talento eppure è oggi una figura pressoché sconosciuta. Come mai?
Le ragioni sono diverse. Albisetti vive nel periodo storico che prece-
de le avanguardie. È un artista figlio del proprio tempo legato agli stilemi dell’epoca. Quando arrivano le avanguardie, che spazzano via tutto quello che c’è, è come se lo scultore rimanesse impigliato nella maglie della storia, con un linguaggio che ormai non è più attuale. Il fatto poi di aver effettuato un’importante donazione al proprio paese di origine, Stabio, se da una parte ha preservato la sua opera dalla dispersione, dall’altra ha reso più ardua la sua conoscenza perché i suoi lavori sono rimasti nascosti, di difficile accesso. Un’altra ragione è l’aver vissuto per tanto tempo in Francia, poiché, pur mantenendo i contatti con il Ticino e con la Confederazione, l’artista è stato considerato come una sorta di espatriato. Ultimo elemento è che Albisetti non ha avuto eredi diretti e questo ha fatto sì che la trasmissione della sua conoscenza sia stata limitata.
Qual è stato il suo rapporto con Vincenzo Vela e in che modo è stato da lui influenzato?
Non abbiamo evidenze di un rapporto diretto tra i due. Non ci sono lettere o cartoline. La figura del grande scultore ligornettese, però, ha contato moltissimo per la formazione del giovane Albisetti. Molti sono gli omaggi dell’artista all’opera di
Vela: in un ritratto della madre, ad esempio, c’è un crocifisso che è una citazione della Preghiera del mattino e nella sua scultura più famosa, l’Arnoldo di Melchtal, il pugno è una citazione dello Spartaco
Com’è stata pensata e allestita la mostra di Ligornetto?
L’allestimento è stato curato dalla direttrice Mina, che ha privilegiato un percorso tematico. Ho segnalato alcune opere che mi sembravano rappresentative della produzione di Albisetti, come ad esempio i gessi per i concorsi pubblici, lavori, questi, particolarmente importanti per uno scultore perché costituiscono delle occasioni eccezionali per confrontarsi con i colleghi e con lo spirito del tempo. Ci sono poi alcune sculture di genere e una sezione dedicata agli affetti, con ritratti dei nipoti, della madre e della moglie dell’artista, Fortunata, una figura molto interessante, anche biograficamente: veniva dal Lazio e apparteneva a quella schiera di persone che lasciavano la loro terra per recarsi a Parigi per intraprendere la professione di modelli. Fortunata diventa la modella principale di Albisetti e tra i due si instaura uno stretto rapporto di arte e vita.
Pur vivendo all’estero Albisetti mantiene un forte legame con il Ticino e la Svizzera… Ai suoi tempi, nella Confederazione, Albisetti faceva parte della Commissione federale di belle arti ed era uno degli scultori di primo piano. L’artista ticinese era stimato in Svizzera perché viveva a Parigi, e aveva quindi uno sguardo privilegiato su quella che all’epoca veniva considerata la capitale dell’arte, ed era stimato a Parigi perché era un autore che arrivava dalla Confederazione, portando con sé un bagaglio di conoscenze e di frequentazioni che nella città francese avevano trovato un solido impianto. Il rapporto con Stabio, poi, è sempre stato molto profondo. Qui Albisetti aveva acquistato una grande abitazione di nove locali dove soggiornava e lavorava in alcuni mesi dell’anno. Alla sua morte, nel 1923, l’artista dona alla città una gipsoteca composta da circa ottanta gessi e da un parte documentaria.
Dove e quando Disegna come scolpisce. Fogli scelti dalla collezione del Museo Vincenzo Vela e Natale Albisetti (1863–1923) scultore. Dai successi parigini ai grandi cantieri svizzeri. Museo Vincenzo Vela, fino al 5 novembre 2023. Orari: ma-ve 10.00-17.00; sa e do 10.00-18.00. www.museo-vela.ch
Per una notte armoniosa
L’amore nato a Istanbul sulle danze dervisce
Festival ◆ Questa settimana inizia una nuova edizione di Lettere dalla Svizzera alla Valposchiavo, tra gli ospiti Angelika Overath
Classe 1957, critica letteraria, giornalista e docente, nata a Karlsruhe, oggi di casa a Sent nei Grigioni, sabato 7 ottobre alle 16.00 Angelika Overath dialogherà con Flurina Badel, artista, autrice e mediatrice culturale, nell’ambito del Festival Lettere dalla Svizzera alla Valposchiavo. In programma dal 5 all’8 ottobre, il Festival sarà l’occasione per la scrittrice tedesca che ama le coste della Grecia e in particolare il mare di Salonicco per parlare di Un inverno a Istanbul, romanzo uscito in italiano per Dadò con la traduzione di Laura Bortot.
«Si tratta del primo volume di una trilogia – racconta l’autrice conosciuta per il suo bestseller Alle Farben des Schnees (Tutti i colori della neve) –che si sviluppa tra Istanbul, Coira e il viaggio in mezzo per raggiungerle». In tedesco è già uscito il secondo volume Unschärfen der Liebe (Imprecisioni dell’amore) in cui continua la storia d’amore tra Cla – insegnante grigionese e il cameriere turco Baran in un viaggio attraverso i Balcani. Se l’autrice vi incuriosisce, in italiano sono già usciti Giorni vicini (Keller, 2012), Pesci d’aeroporto (Keller, 2013).
Nel romanzo di Angelika
Overath l’aria mistica dell’Oriente danza con la modernità dell’Occidente
In Un inverno a Istanbul non solo vediamo, visualizziamo la città, ma la respiriamo a pieni polmoni in tutte le sue sfaccettature, vicoli e colori che sfavillano e si alternano sul Bosforo, specchio per i gabbiani che volano dispettosi e divertiti.
«Quanto grandi erano i gabbiani…Come uccelli predatori allungavano i becchi ricurvi, mentre le piume sfumate di grigio delle ali tese rimanevano quiete. Veleggiavano quasi a rallentare il tempo. Cla seguì con lo sguardo il dorso di quel fluttuare. Si trovava al quarto, quinto piano o sesto piano di un ristorante la cui sola vista delle vetrate era di per sé nutrimento per gli occhi. Il Corno d’Oro, il Bosforo e uno scorcio del Mar di Marmara. Anche Eminönü sulla punta dove confluivano tre vie d’acqua. Gli albori di Bisanzio. Il cuore dell’antica Costantinopoli».
Nel romanzo di Angelika Overath l’aria mistica dell’Oriente danza con la modernità dell’Occidente senza che una delle due perda la sua peculiarità, la sua essenza.
Vien da chiederle come faccia a conoscere così bene Istanbul (nella foto in basso). «Grazie a una borsa di studio sono stata dieci mesi all’Accademia culturale di Tarabya ma ci torno sempre di tanto in tanto. Vado
a trovare una cara amica, una storica dell’arte con la quale ho tradotto delle poesie d’amore dal turco».
Già l’amore, tutto gira intorno all’amore, quello distante per Alva, insegnante di educazione fisica e di romancio alla scuola Cantonale di Coira – che ha promesso di venirlo a trovare – e quello magico, inaspettato per il cameriere Baran. Lui, Cla, il protagonista, è professore di tedesco, religione ed etica in un liceo internazionale in Engadina. è a Istanbul presso il collegio di Tabaya grazie a una borsa di studio.
Tra incontri e sguardi fugaci l’intenistà della storia raggiunge il picco quando Cla e Baran vivono insieme un’esperienza mistica, un passaggio iniziatico, preludio della loro prima notte d’amore. Baran lo conduce a Karagümrük il più antico quartiere ottomano della città: «Cla era ancora in quella sala, ammaliato dai dervisci rotanti (come nella foto), dall’estasi controllata di quegli uomini in bilico sulla loro esperienza con Dio. Tutto gli era apparso cosi straniante, eppure lo aveva rapito».
Racconta Angelika Overath che «nel cuore di Istanbul esiste ancora il vecchio monastero della confraternita dei dervisci rotanti anche se oggi è un museo. Qui si possono ancora ammirare le danze tradizionali originali».
A tratti, in particolare nelle descrizioni, la mano dell’autrice è poetica e attenta ai dettagli, alle minuzie d’atmosfera «La tazza era una fantasia di tulipani intorno a un cuore nero. Simile a una pralina di cioccolato. Sul piattino, a sublimare la delizia di quella visione, un cubetto di melassa con frammenti di pistacchio, un bocconcino rosa e verde tiglio ricoperto di zucchero».
Il tempo è l’altro elemento determinante, la scrittrice nei suoi romanzi ama dilatare, rallentare i tempi come ci dice anche questo passaggio: «Le chiese bizantine, le mura di terra e le mura di mare, le fortezze, le case mercantili, i conventi sufi abbandonati. Anche gli spazi che non dovevano nulla alla mano dell’uomo, le colline, le acque, i cieli sopra le acque. Spazio e tempo erano in conflitto. Nell’epoca dell’accelerazione il tempo si aggiudicava la vittoria. Ma il passato era realmente passato? Mari, rive, nuvole, o la luce del Bosforo, non raccontavano ancora, al di là del trascorrere e dello sfiorire del tempo, come fossero una volta quei luoghi? Seicento anni sono un lungo tratto di storia. E un batter di ciglia».
«Con l’idea di una lettura lenta voglio portare il lettore a prestare attenzione ai dettagli – sottolinea An-
gelika Overath – a renderlo più consapevole». .
A tenere insieme tutto, la trilogia, la storia d’amore di Cla e Baran con Istabul sullo sfondo, il viaggio da Coira sul Bosforo e ritorno è il sentimento di tolleranza e gratitudine. Sullo sfondo compaiono anche le questioni più critiche che riguardano la Turchia, ad esempio l’attacco del regime ai giornalisti indipen-
denti. «Ne faccio un accenno perché è giusto farlo, non si può tacere. D’altro canto i miei libri sono testi silenziosi nei quali parlo anche di politica, esprimo la mia posizione ma senza clamore. Sono attenta alle questioni del nostro tempo e sto sempre dalla parte dei perdenti».
Se volete saperne di più non vi resta che andare al Festival, si inizia questo giovedi alle 17.30 con l’inau-
gurazione della mostra personale di Frédéric Pajak alla Galleria Pgi.
Dove e quando Lettere dalla Svizzera alla Valposchiavo, Casatorre, Poschiavo dal 5 all’8 ottobre. www.lettereallavalposchiavo.ch
La battaglia di Waterloo tra luce e tenebre
Editoria ◆ La settimana scorsa a Londra Ken Follett ha lanciato il suo nuovo romanzo approdato nelle librerie il 26 settembre
«La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce», recita il versetto 12 del tredicesimo capitolo della Lettera ai Romani, dal quale trae ispirazione il titolo del nuovo libro di Ken Follett (nella foto). Prende spunto ancora una volta dalla Bibbia, l’ultimo d atteso romanzo dell’autore britannico dal titolo Le Armi della Luce, dove le tenebre rappresentano l’ignoranza e la luce simboleggia la sua sconfitta attraverso l’istruzione. E ha già tutti gli ingredienti del bestseller.
«Le Armi della Luce presenta diversi parallelismi con il mondo di oggi. Come l’aumento del costo della vita che pur non avendo ancora causato sommosse analoghe a quelle descritte nel libro, vede molta gente faticare ad arrivare alla fine del mese»
Lo scrittore, che ha venduto oltre 190 milioni di libri tradotti in 40 lingue in più di 80 Paesi in tutto il mondo, ritorna a Kingsbridge – fittizia cittadina inglese dove aveva già ambientato quattro precedenti romanzi di successo come I Pilastri della Terra (1989), Mondo senza Fine (2007), La Colonna di Fuoco (2017) e Fu sera e Fu mattina (2020) – per raccontare una storia che, seppure in un contesto storico diverso, ha nuovamente per oggetto un tema a lui caro: la lotta per la libertà e per un futuro libero dall’oppressione in una società ingiusta.
La società è quella della Gran Bretagna a cavallo fra il XVIII ed il XIX secolo, sullo sfondo della Rivoluzione Industriale e dell’ultraventennale guerra contro la Francia di Napoleone Bonaparte, sfociata nella sconfitta di quest’ultimo a Waterloo nel 1815. «Il conflitto è sempre uno spunto magnifico per un romanzo e nel corso di questo periodo, vi furono rivolte per il pane, scioperi e disordini fra gli operai, che temevano di perdere il lavoro a causa dall’avvento di nuovi macchinari», ha spiegato Follett all’evento di lancio internazionale del libro edito in lingua italiana da Mondadori e in vendita dal 26 settembre.
«I problemi furono aggravati dalla guerra con la Francia, che durò 23 anni e portò a un aumento della tas-
se e al reclutamento militare forzato degli uomini per combattere contro Napoleone», ha puntualizzato l’autore che – per garantire la massima accuratezza del contesto narrativo – ha svolto come di consueto approfondite ricerche.
Oltre a leggere diversi libri sulla Rivoluzione Industriale e a visitare musei su quel periodo storico, lo scrittore ha studiato i macchinari utilizzati nelle fabbriche a quel tempo. «Per quanto non siano complicati come i computer, ci ho messo un po’ a capire anche solamente in che cosa consista la filatura: come un bozzolo di cotone grezzo si tramuti in un filo è piuttosto difficile da comprendere» ha raccontato Follett, che sviluppa la storia in un immaginario distretto manifatturiero tessile.
In secondo luogo, l’autore de La cruna dell’ago ha trascorso una settimana sul campo di battaglia di Waterloo, dove alcuni personaggi del romanzo perdono la vita. «Dovevo capire nel dettaglio come si era svolto il combattimento. La battaglia è confusione, così descrisse abilmen-
te Tolstoj la battaglia di Austerlitz in Guerra e Pace per i lettori del XIX secolo. Tuttavia, non penso che questo possa ancora soddisfare i lettori del XXI secolo», ha detto, precisando di avere voluto raccontare con dovizia di particolari, anche se in termini semplici, perché una parte vinse e l’altra perse. «Noi celebriamo questa battaglia, poiché il Duca di Wellington sconfisse Napoleone, il grande dittatore. Poi arrivarono i prussiani ed il loro aiuto fu decisivo per la vittoria della battaglia», ha sottolineato l’autore, che ha addirittura rifatto a piedi il percorso seguito dai soldati prussiani per giungere a Waterloo, attraversando un ponte molto stretto che erano stati costretti a varcare con 88 cannoni al seguito, ognuno dei quali trainato da sei cavalli, e passando per le stradine anguste di Wavres, dove fra l’altro divampò pure un incendio quel giorno, costringendoli a una deviazione e rendendo l’avanzata ancora più difficoltosa.
Il resoconto delle vicende storiche che fanno da sfondo alla trama
del romanzo non si discosta in alcun modo da come andarono realmente i fatti. «La storia è esatta. Molti autori non sono d’accordo con questo approccio e non li critico per questo», ha sottolineato citando l’esempio del «bellissimo» romanzo L’Aiuto, ambientato negli anni 50 nel profondo Sud degli Stati Uniti, dove l’eroe a un certo punto sente alla radio la canzone di Bob Dylan The Times They are A-Changin’ L’autrice Kathryn Stockett sapeva che a quell’epoca il brano non era ancora uscito e neanche scritto, ma disse che era così adatto, che doveva inserirlo in ogni caso. «Io non lo farei, anche se non la biasimo per questo», ha commentato, descrivendo il suo metodo di lavoro. «Faccio le mie ricerche da solo, ma dopo aver scritto la prima stesura, la invio a storici di professione per un controllo a pagamento. Dopo due settimane mi mandano un rapporto con le loro osservazioni e provvedo agli eventuali cambiamenti suggeriti», ha raccontato l’autore, che in media impiega tre anni a scrivere ogni suo libro.
Le armi della luce presenta diversi parallelismi con il mondo di oggi. Come l’aumento del costo della vita che pur non avendo ancora causato in Gran Bretagna e in Europa sommosse analoghe a quelle descritte nel libro, vede ancora molta gente faticare ad arrivare alla fine del mese. Il romanzo inoltre parla di una rivoluzione tecnologica comparabile a quella cui stiamo assistendo attualmente con l’avvento dell’intelligenza artificiale. Secondo alcuni, L’IA potrebbe scrivere testi per la TV o addirittura romanzi, ma Follett non teme questo scenario.
«Ho chiesto a ChatGPT di scrivermi il capitolo di un romanzo nello stile di Ken Follett e devo confessare che deve reputarmi davvero uno scrittore pessimo. Tanto per cominciare, ha titolato il capitolo The Gathering Storm, come un libro di Winston Churchill sulla Seconda guerra mondiale», ha raccontato l’autore. «Quanto alla scrittura che ne è venuta fuori, era un’accozzaglia di cliché», ha proseguito, sottolineando che «questa esercitazione ha dunque dimostrato che magari l’Intelligenza Artificiale può scrivere un romanzo, ma sarà un romanzo da buttare nella spazzatura e pertanto direi che per ora il mio lavoro è al sicuro».
Il romanziere resta un inguaribile ottimista, come del resto traspare dalle sue opere che sono unite da un fil rouge: la battaglia per la libertà. «Mi fanno arrabbiare il bullismo, le dittature, il razzismo, la guerra, l’ingiustizia e provo ammirazione per chi li combatte», ha detto citando le suffragette, gli attivisti per i diritti umani, i sindacalisti e i ribelli. «Ho trascorso la mia vita ricreando le loro lotte nelle mie storie, ma se guardiamo sul lungo periodo e pensiamo al progresso che abbiamo compiuto negli ultimi 1000 anni, una cosa è chiara: stiamo vincendo». La più grande battaglia che abbiamo davanti? «La rinascita delle politiche di destra», ha dichiarato lo scrittore, da sempre laburista, anti-nazionalista e fervente oppositore di Brexit. «Non c’è nulla di nuovo nell’avere persone che vogliono essere leader autoritari senza restrizioni. Quello che è nuovo è che la gente li voti».
Un futuro di raccolti abbondanti grazie a metodi di coltivazione innovativi
Shokirjon Shamirov produce patate nella valle di Rasht nel Tagikistan, ma a causa delle mutazioni meteorologiche estreme nella sua regione montuosa, il raccolto è sempre più esiguo. Ora però questo contadino sta testando con successo nuovi metodi insieme a Caritas.
Il sessantenne Shokirjon Shamirov e la sua famiglia vivono in una semplice casa a Shirinob, un piccolo villaggio all’estremità della valle di Rasht nel Tagikistan. La vita di un agricoltore a circa 2000 metri di altitudine non è certo delle più semplici.
Il Tagikistan è uno dei Paesi più colpiti al mondo dai pesanti cambiamenti climatici, e le comunità montane ne soffrono in particolar modo. Qui le condizioni meteo cambiano spesso e velocemente. Le variazioni di precipitazioni e temperature sono sempre più forti e portano spesso alla siccità o ad alluvioni.
Calano i raccolti, cresce l’insicurezza
In queste condizioni, i metodi di coltivazione tradizionali conosciuti da Shokirjon e dagli altri contadini della valle di Rasht sono sempre più inadeguati.
«Il nostro problema principale è l’approvvigionamento idrico», afferma Shokirjon Shamirov. L’acqua non basta mai per tutti ed è diventato sempre più difficile lavorare il terreno. Prima pioveva cinque o sei volte l’anno, ma oggi le precipitazioni sono rare. Una volta che è
Insieme contro la povertà e per la giustizia climatica
L’obiettivo supremo di Caritas è combattere la povertà e assistere le persone colpite. Ciò ha direttamente a che fare con la crisi climatica che è la causa dello stato di bisogno di milioni di persone in tutto il mondo, che vengono private dei loro mezzi di sostentamento e spinte a fuggire. Si tratta di un’ingiustizia, perché le persone nel Sud del mondo sono quelle che contribuiscono meno al riscaldamento globale, ma anche quelle che ne patiscono maggiormente le conseguenze.
Inoltre non dispongono delle capacità e dei mezzi necessari per proteggersi da siccità, alluvioni o uragani, né possono fare affidamente su un sistema sociale statale, assicurazioni o altre risorse.
I progetti di Caritas a favore del clima sono focalizzati sulle persone e sulla lotta alla povertà. Contribuiscono a far sì che le popolazioni possano adattarsi meglio alle mutazioni climatiche, mostrano soluzioni per il futuro e promuovono la giustizia climatica.
disponibile acqua a sufficienza, gli agricoltori irrigano i loro campi con una generosità tale da causare grossi danni.
Per loro stava ormai diventando impossibile prendere le decisioni giuste al momento giusto. Una coltivazione tanto esigente in termini d’acqua come quella della patata pone le famiglie dei contadini di fronte a sfide particolarmente ardue. Le patate sono un’importante fonte di alimentazione e guadagno, ma da anni ormai il raccolto si fa sempre più esiguo.
Aumentare il raccolto grazie ai dati meteorologici Ma ora un innovativo sistema idrometeorologico, introdotto nella regione da Caritas nella primavera del 2021, consente alle famiglie della valle di Rasht di ambire a un raccolto migliore. Da allora Caritas ha installato nella regione molte altre stazioni meteo, che forniscono preziosi dati sulla temperatura dell’aria e del terreno e sull’umidità. Grazie a questo nuovo sistema, ad esempio, gli agricoltori ricevono un SMS che comunica loro quando la
temperatura del suolo è ideale per la semina oppure quanta acqua serve per irrigare i campi.
Caritas Svizzera ha già installato 64 stazioni meteo nel distretto di Lakhsh e in altre otto regioni del Tagikistan. Attualmente il progetto si estende su tutto il Paese. Al momento sono in corso di installazione altre 100 stazioni. I contadini e le contadine direttamente coinvolti nel progetto forniscono i dati meteo anche ad altri. In questo modo circa 700 000 persone possono beneficiare di queste attività.
Un risultato positivo dopo l’altro In collaborazione con Caritas Svizzera, gli agricoltori hanno installato anche un serbatoio e un nuovo sistema di irrigazione. Inoltre hanno riservato un appezzamento per compiere dei test. Questo viene irrigato solo in base all’umidità del suolo e allo stadio di crescita delle piante, vale a dire unicamente quando ce n’è davvero bisogno. L’operazione si sta rivelando un successo, poiché i raccolti sono migliorati notevolmente.
Le esperienze accumulate negli ultimi mesi fanno una differenza sostanziale nella vita quotidiana delle famiglie di contadini di montagna della valle di Rasht. «Il progetto ha cambiato la nostra vita in meglio. Oggi sappiamo come produrre addirittura di più con meno acqua», racconta Shokirjon Shamirov pieno d’orgoglio. «Inoltre ora siamo in grado di coltivare anche altri prodotti, come ceci, mais e fagioli mungo.»
La sua donazione per una maggiore giustizia climatica
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Oltre il reale a cavallo tra fotografia e pittura
Mostra ◆ Il fotografo svizzero Marco D’Anna in esposizione a Villa Arconati fino al 29 ottobre
Giovanni MedolagoVilla Arconati, a Castellazzo di Bollate nella periferia nord di Milano, è definita «la Versailles meneghina»: pregevole testimonianza di barocco lombardo edificata a partire dal XVI secolo e da lì restaurata più volte, conta oltre 70 ambienti (definirli camere è riduttivo) con 365 finestre da cui si possono ammirare i dodici ettari di giardino, a loro volta circondati da altri mille ettari di campi coltivati. Ha tenuto a battesimo l’esordio del futuro premio Oscar Gabriele Salvatores (con lo shakespeariano Sogno di una notte d’estate, 1983), e ha sentito il «ciak» gridato da registi come Dino Risi o Marco Tullio Giordana.
Una fotografia, quella di D’Anna, che si stacca dal reale e ci interroga, rimettendo in gioco quello che diamo per acquisito
Una location d’eccellenza dunque per la mostra di Marco D’Anna, intitolata Oltrereale, la realtà immaginata. Tanto per mettere subito le cose in chiaro, il catalogo della mostra presenta Villa Arconati (che per la prima volta in IV secoli ospita la fotografia!) sovrastata da una montagna innevata, qualcosa di davvero oltre il reale! Un progetto che l’artista luganese ha realizzato durante i lunghi mesi del lockdown. Da sempre innamorato dell’Engadi-
na, D’Anna vi è tornato seguendo il ritmo delle stagioni e dunque sull’arco di parecchi mesi, cogliendovi la potenza e la spettacolarità delle vette che affascinarono R.M. Rilke e tra gli altri F. Nietzsche. Per superare il reale, è ricorso naturalmente alla tecnica digitale: «Sovrapponendo strutture di carta d’acquarello Fabriano – spiega – ho dato vita a immagini contemporanee che richiamano la tecnica pittorica del Divisionismo, ma in una nuova quanto composita e inedita visione di qualche luogo iconico dell’Alta Engadina. I paesaggi sono reali, ma allo stesso tempo immaginari: si tratta, come dire, di innesti. Siamo sì in Engadina, ma le vette sono immaginazione realistica, pura costruzione che cerca di avvicinarsi al Mito. La mia fotografia, come la memoria, è composta da frammenti in continuo mutamento. Ho cercato di fermare un’immagine composta da molti ricordi dello stesso luogo, apparentemente sempre uguali epperò, in fondo, sempre diversi. Immagini della montagna che rappresentano pure il vano tentativo di fermare il tempo per creare una memoria indissolubile». L’immagine che abbiamo scelto ne è un chiaro esempio.
Divisionismo fa quasi rima con Giovanni Segantini, l’esponente forse più importante dell’omonima corrente artistica. E non a caso la Mostra di Bollate si apre con Primavera, un trit-
Ora in azione
che si stacca dal reale e ci interroga, rimettendo in gioco quello che diamo per acquisito, accentuando nel contempo il limite tra oggettivo e soggettivo: «Un modo per entrare nell’immaginario/fantastico della memoria e della visione, con un moto di gratitudine verso l’Arte che ci ha consentito di vedere il passato prima della scoperta della fotografia: la pittura».
tico che non può che ricordare quello celeberrimo (Trittico delle Alpi: natura, vita e morte, riunito ed esposto per la prima volta a sud delle Alpi al LAC nel 2019) del pittore trentino che a St. Moritz e dintorni trovò la sua immortale fortuna artistica. Scenari immaginari tratti dal reale, che trasformano altresì una natura che dapprima accompagna benevolmente gli esseri umani, ma è tuttavia a volte in grado di farsi minacciosamente spettrale. Un excursus che D’Anna ci presenta con sbalzi di luce e cromatici, insoliti punti di vista (dal basso le vette sembrano ancora più imponenti), senza rinunciare talvolta a quel punctum
tanto caro a Roland Barthes: un raggio di sole che raggiunge la cima della montagna squarciando la nuvolaglia; oppure le macchie rosse tra il biancore di un branco di pecore, dove il Divisionismo sembra lasciar spazio al Pointillisme, movimento pittorico che ebbe Georges Seurat quale suo profeta, ma affascinò anche il già citato Segantini. «Accanto a quest’ultimo – ci illumina Marco – non dobbiamo però dimenticare Arnold Böcklin, Caspar Wolf o Ferdinand Hodler: grazie alla loro poetica, ma chiamiamola pure mistica, hanno creato il mito della Montagna».
Una fotografia, quella di D’Anna,
Con le sue 34 immagini – sovente di grande formato – Marco D’Anna sembra rispolverare la vexata quaestio del rapporto tra arti figurative e fotografia mentre l’occhio del visitatore sarà appagato dalla bellezza e dal fascino estetico delle sue immagini, «che non conferiscono una valenza simbolica a questi paesaggi – scrive la curatrice Valeria Foglia nel catalogo che accompagna l’esposizione – e rinunciando a scopi narrativi e/o semantici sembra voler chiaramente estromettere tutti quegli elementi che potrebbero distogliere l’attenzione dello spettatore dalla potenza e dalla spettacolarità della Natura».
Dove e quando Oltrereale. La realtà immaginata. Frammenti di memoria infinitamente mutabili, Villa Arconati, Castellazzo di Bollate (via Madonna Fametta 1). Orari: domenica 11.0019.00. Fino al 29 ottobre 2023. www.villaarconati-far.it
«Quanto vale il lavoro di un artista?»
Arti ◆ Viaggio nella scena indipendente italiana che soffre per la mancanza di finanziamenti adeguati
Muriel Del Don
Måneskin e le loro sfavillanti tenute da rock star, la vita apparentemente perfetta di Chiara Ferragni o ancora l’incredibile successo della misteriosa Elena Ferrante, ecco alcuni esempi di quello che l’Italia rappresenta per molti, una sorta di oasi dove il sole sembra splendere sempre, un luogo al contempo famigliare ed esotico che negli ultimi anni ha sfornato fenomeni pop planetari. Cosa si nasconde però dietro le apparenze, dietro questa facciata tutto sommato liscia e consensuale? O, meglio, cosa si cela dietro il mainstream, cosa pulsa nelle arterie di una cultura underground che si oppone con forza ai discorsi dominanti?
Come sottolinea Sara
Manente, coreografa, performer e ricercatrice italiana di casa a Bruxelles, in Italia i sostegni alla scena artistica, in particolare quella alternativa, sono decisamente scarsi per non dire assenti
Malgrado il governo Meloni tenti con tutte le forze di farci credere che ogni moto sovversivo, culturale ma non solo, sia definitivamente addomesticato (il ridicolo decreto anti-rave e i pericolosi discorsi anti abortisti e discriminatori nei confronti della comunità Lgbtiq+ ne sono esempi lampanti), l’Italia brucia sotto pelle, lotta per esistere al di fuori dei dettami di una società sempre più stereotipata.
Come sottolinea Sara Manente, coreografa, performer e ricercatrice italiana di casa a Bruxelles, in Italia i sostegni alla scena artistica, in particolare quella alternativa, sono decisamente scarsi per non dire assenti. Questa mancanza di mezzi non è però sempre negativa perché permette ad artisti e artiste di sviluppare la propria creatività liberi da qualsiasi limitazione istituzionale. A differenza del Belgio dove, anche grazie ai sostegni pubblici e ai numerosi festival dedicati alle arti sceniche, le opportunità lavorative per i danzatori e le danzatrici sono numerose e qualitative, in Italia chi sceglie di restare deve lottare con tutte le forze per far vivere la propria arte, per sviluppare dei progetti spesso autofinanziati.
Come sottolineato da Anahì Tra-
versi, attrice ticinese membro del collettivo Treppenwitz che si è formata al Teatro Piccolo di Milano, in Italia la sopravvivenza di artisti e compagnie è messa costantemente alla prova. La voglia di esprimere la propria diversità, di far sentire la propria voce dissidente spinge però molti a cercare delle strade alternative. «In Italia i bandi e i premi destinati alle compagnie indipendenti sono più morali che economici e spesso gli artisti si trovano a dover ridurre tutto ai minimi termini per poter ricavare anche solo dei minimi guadagni. Negli ultimi anni stanno però emergendo dalla scena teatrale degli artisti poliedrici che si cimentano sia nella regia sia nella scrittura. Penso per esempio a Liv Ferracchiati, Francesca Garolla, Davide Carnevali, Caterina Fiolgrano, Maria Vittoria Bellingeri o Alice Redini», sottolinea Anahì ricordandoci che l’arte riesce spesso a imporsi anche nelle situazioni più disperate. L’artista sottolinea inoltre che (troppo) spesso il prodotto artistico non è considerato nel suo giusto valore ma inteso piuttosto come risultato di un passatempo e non come culmine di un lungo processo di ricerca: «Quanto vale il lavoro di un artista? Que-
sto purtroppo è un tema caldo dappertutto, e credo che tutti gli artisti vogliano non solo sbarcare il lunario ma ottenere un riconoscimento professionale e un potere contrattuale tali da permettergli una continuità progettuale».
In Italia quest’insicurezza, il non poter contare su sostegni finanziari adeguati, ha spinto molti artisti a percorrere strade alternative, a creare collettivi indipendenti che si nutrono di esperienze collettive. Fra questi ritroviamo per esempio Amleta, associazione femminista intersezionale che promuove la presenza di donne nel mondo dello spettacolo e che si pone in quanto osservatorio per combattere violenza e molestie sul lavoro o, ancora, Il Corpo innocente, blog che si occupa delle questioni legate alla violenza, al sessismo e alla precarietà nel mondo dell’arte. Insomma, in Italia, malgrado un’insicurezza finanziaria sempre più grande, la voglia di creare sfidando il perbenismo non si è certo placata.
Sara Leghissa è un’artista indipendente attiva nel campo delle arti performative che trasforma lo spazio pubblico in una sorta di parco divertimenti dove sperimentare nuovi le-
gami sociali, nuovi modi di vivere e agire insieme all’interno di comunità alternative che hanno scelto l’autodeterminazione come via di fuga da logiche produttive che non riconoscono come proprie. Leghissa rivendica con fierezza il suo statuto di artista indipendente anche attraverso progetti di curatela che sperimentano differenti pratiche di coabitazione. Lo spazio
Una Sauna ne è un esempio emblematico, luogo comunitario all’interno del quale l’accettazione di ogni forma di diversità rappresenta la colonna di sostegno di tutta una comunità. Sviluppata nel 2021 da Eva Melisse per gli spazi de Il Colorificio di Milano, Una Sauna accoglie incontri ed eventi grazie ai quali evolvere insieme al di fuori dei dettami di una società che si sta sempre più ripiegando su sé stessa. Grazie a iniziative come questa, il corpo individuale diventa collettivo, un corpo autogestito che si nutre di scambi, di cura e rispetto reciproco. Il corpo dissidente, decisamente politico, è anche al centro dei lavori della performer e autrice italiana Chiara Bersani che rivendica con forza una diversità non più stigmatizzata ma valorizzata e mostrata in tutta la sua splendente poesia.
Trasferitesi all’estero ma legate all’Italia da un punto di vista culturale e personale Agnes Questionmark e SAGG Napoli hanno invece deciso di valorizzare le proprie origini trasformandole grazie al potere catartico dell’arte. Attraverso le sue maestose performance (Transgenesis in primis), Agnes Questionmark esplora il concetto di corpo postumano, un corpo fluttuante e fluido che rifiuta ogni categorizzazione, un involucro vulnerabile ed effimero in costante trasformazione che travalica non solo il binarismo di genere ma anche quello tra specie. SAGG Napoli, all’anagrafe Sofia Ginevra Gianni, esplora invece le sue origini culturali napoletane, e più in generale quelle legate al Sud dell’Europa, sfruttandone ed enfatizzandone il potenziale trashy ed eccessivo. Anziché nasconderne le peculiarità, SAGG Napoli ci incoraggia a ripensare e rivalutare l’estetica del Sud, ad apprezzarne gli eccessi ma anche le poetiche e stralunate manifestazioni culturali. Il suo video che ritrae una coreografia di scooter guidati dai ragazzini di Napoli ne è un esempio emblematico.
«Credo che si stia pian piano lavorando il terreno per nuove trasformazioni che avverranno.
Ci vuole fiducia»
L’artista e performer veneziano ma zurighese d’adozione Nicola Genovese sviluppa anche lui il tema dell’identità focalizzandosi però sulla decostruzione del concetto di mascolinità. Le relazioni di potere e la fabbricazione delle identità sono tematiche che Genovese affronta di petto attraverso creazioni artistiche pluridisciplinari che intersecano performance, arti visive e artigianato.
Poco importa il supporto, quello che conta per questi artisti indipendenti è l’utilizzo dell’arte in quanto vettore di trasformazioni individuali che si ripercuotono sulla collettività. Le loro opere diventano così un grido primordiale che ambisce a stravolgere e decostruire gli stereotipi, i preconcetti e le piccole grandi violenze del quotidiano. Conclude però Anahì Traversi «Credo che si stia pian piano lavorando il terreno per nuove trasformazioni che avverranno. Ci vuole fiducia»
In fin della fiera
Dal dizionario Treccani alla voce «coccodrillo»: in senso giornalistico, necrologio di una persona illustre, preparato quando è ancora in vita con il proposito di pubblicarlo appena giunge la notizia della sua morte. Eugenio Montale, al suo primo giorno di lavoro presso il «Corriere della Sera», andò a leggere il suo coccodrillo. Sarei tentato di chiedere a ChatGPT di scrivere il mio, ma ho paura di scoprire dettagli imbarazzanti sul mio conto che nemmeno più ricordavo. Ne ho scritto uno molti anni fa, sollecitato da un’amica che raccoglieva auto-coccodrilli per farne un libro che non è mai uscito. L’ho ritrovato, eccolo.
«Una cosa è certa: Bruno Gambarotta ci mancherà. Per noi presenzialisti, frequentatori assidui di conferenze stampa, anteprime, inaugurazioni, la sua presenza, quell’inconfondibile sagoma di boiler sormontato da un ciuffo di capelli bianchi, era il segnale che
Voti d’aria
lì ci sarebbe stato almeno un rinfresco, ma più sovente un buffet. Non ha mai sbagliato un colpo, il nostro amico. Nessuno può dire di aver notato la sua presenza a un evento “asciutto”. Quando la giunta comunale, per un sussulto di moralismo, abolì i rinfreschi nelle conferenze stampa, il nostro amico scomparve dagli schermi del loro radar. Preoccupati, gli mandarono a casa i vigili per assicurarsi che fosse ancora vivo. Bruno Gambarotta è stato per noi una guida infallibile; non lo perdevamo mai di vista perché si sistemava in un luogo strategico per arrivare primo ai tavoli dove servivano cibi e bevande. I suoi saluti più calorosi e amichevoli non andavano ai padroni di casa ma ai responsabili del catering che, in cambio, gli spoileravano il ricevimento, in modo che non gli capitasse di mangiare il dolce e scoprire poi che stava arrivando il risotto fumante. Se poi, nonostante tutte le precau-
Peter Handke e i rinunciatari
Un romanzo da 6 in pagella? Un breve libro del premio Nobel Peter Handke uscito nel 1972 e riproposto adesso da Guanda (traduzione di Bruna Bianchi: 5+). Si intitola Infelicità senza desideri e parte da una notizia che lo scrittore austriaco, non ancora trentenne, legge nel novembre 1971 sull’edizione domenicale della «Volkszeitung», un giornale locale della Carinzia: «Nella notte tra venerdì e sabato una casalinga cinquantunenne di A. (comune di G.) si è suicidata con una dose eccessiva di sonnifero». Quella donna è sua madre. Così comincia il libro: «Sono passate quasi sette settimane da quando mia madre è morta, e voglio mettermi al lavoro prima che il bisogno di scrivere di lei, così forte al funerale, si ritrasformi nell’ottuso mutismo con cui ho reagito alla notizia del suicidio». Il bisogno di scrivere di sua madre, violento e insieme vago, richiede allo scrittore uno
sforzo immane contro l’apatia e l’inerzia che nascono dal dolore e dallo stordimento. La vita della madre è la vita di tante ragazze nate negli anni Venti, in Austria come in Italia o come in Svizzera, donne che crescevano «senza desideri e un poco infelici». Dopo aver mendicato da suo padre il permesso di studiare ed essere stata liquidata con un semplice gesto del braccio, a quindici anni comincia a lavorare in un albergo sul lago: sguattera, cameriera, aiuto-cuoca, cuoca. Infine, sotto il regime hitleriano, l’incontro con un uomo sposato e molto più anziano di lei, la vita inevitabile di casalinga: «Oggi era ieri, ieri era tutto come sempre. (…). Mettere in tavola. Sparecchiare; “Tutti serviti?”; tendine aperte, tendine chiuse; luce accesa, luce spenta; “Non lasciare sempre la luce accesa in bagno!”; ripiegare; spiegare; vuotare; riempire; spina dentro, spina fuori. “Bene, per oggi è fatta”». Notare
A video spento
La crisi dello streaming
«L’età dell’oro dell’intrattenimento in streaming potrebbe essere finita. Probabilmente non ci piacerà quello che succederà dopo. Presto potremmo pagare di più per scelte meno buone e rimpiangere l’era delle abbuffate gratis su internet», ha scritto il «New York Times». Un’industria che aveva creato posti di lavoro a più non posso, ora li sta distruggendo. E non si tratta di difficoltà passeggere.
L’ultima ricerca della Nielsen mostra che negli Stati Uniti il tempo trascorso nell’intrattenimento e nell’informazione via computer o telefonino è pari solo al 36%, rispetto al 31 via cavo e al 22,8 via etere. «La spesa totale per i contenuti dei servizi streaming in abbonamento, da Hbo Max, a Disney Plus e Netflix, continuerà ad aumentare, ma a un tasso dell’8% invece della crescita vertiginosa del 25 per cento», scrive una ricerca di Ampere Analysis. I titani di Hollywood pian-
zioni, succedeva, lui, con fare paterno, ci rincuorava: “Nessuna legge vieta di spazzolare prima un vassoio di chantilly e poi una cofana di penne all’arrabbiata”. Sui dolci dava il meglio di sé, era conosciuto nell’ambiente come “la volpe del dessert”.
Detestava le cene in piedi, ma non per questo rinunciava ad andarci, semplicemente si portava da casa un tavolino pieghevole (una sedia si trova sempre). È rimasta famosa quella volta che al buffet in piedi per l’inaugurazione della nuova ala del Cimitero Monumentale il Nostro si accomodò a cavalcioni di una bara che non poté essere inumata fino al dessert.
Bruno Gambarotta, anche se non era più un bambino, cercava in tutti i modi di restare al passo con i tempi e aveva accettato senza protestare la moda delle cosiddette “degustazioni” che avevano sostituito le abbuffate pantagrueliche di una volta. Con le degu-
di Bruno Gambarottastazioni a ogni portata bisogna sorbirsi una dotta conferenza di qualcuno che pretende di spiegarti la filiera, il terroir, la tipicità. Era uno spettacolo osservare il nostro Amico in quei momenti; non appena l’anfitrione afferrava il microfono e iniziava a parlare, lui appoggiava gli avambracci sul tavolo, incassava la testa nelle spalle, abbassava lo sguardo sul piatto ed entrava in un universo parallelo. Le nostre orecchie non hanno palpebre, non si chiudono a comando, ma le sue sì. La sua capacità di spegnere il sonoro era frutto di un allenamento iniziato fin da bambino, quando doveva studiare e fare i compiti in cucina, l’unica stanza riscaldata della casa, con tutta la famiglia riunita e la radio sempre accesa.
In compenso era capace di dormire in piedi e a occhi aperti, aveva scoperto questa sua dote durante il servizio militare, quando era di turno come sentinella. I teatranti lo amavano perché
non ha mai parlato male di uno spettacolo: il sipario non aveva ancora finito di aprirsi che lui cadeva addormentato, risvegliandosi con gli applausi. Lui sosteneva che dormiva per recuperare le ore da dedicare alla lettura, la grande passione della sua vita. Proprio in quanto lettore aveva preparato una trappola che secondo lui gli avrebbe sicuramente concesso una proroga. Infatti quando l’autista del bus che raccoglieva i partenti per l’Ultima Gita ha suonato al suo citofono, lui ha risposto: “Verrei volentieri ma non sono pronto, devo ancora leggere la Pamela di Samuel Richardson”. “Non fa niente – gli ha replicato l’autista –. Di là ti daranno un televisore e potrai vedere tutte le puntate di Elisa di Rivombrosa che è stato ricavato dalla Pamela che non hai avuto tempo di leggere”. A quel punto il nostro Amico ha realizzato che gli era toccato in sorte il Purgatorio».
le pause ansiogene dei punti e virgola. A un certo punto, nel raccontare la parabola di sua madre, Handke scrive: «Fu; divenne; divenne un niente». Il primo elettrodomestico, un ferro da stiro elettrico, poi il frullatore, il frigorifero, la lavatrice: «Sempre più tempo per sé», scrive Handke. Tempo liberato anche per leggere qualche libro. Che cosa leggeva? Hans Fallada, Knut Hamsun, Dostoevskij, Gorkij, Thomas Wolfe e William Faulkner. La vita e la morte di sua madre sono per Handke un’occasione per riflettere sulla letteratura, ma fermiamoci qui. A noi basta pensare che grandi autori leggeva sua madre (6+), pur essendo incolta. E immaginare che cosa leggerebbe al tempo dei cosiddetti booktoker (4+), banditori di libri per lo più banali, ai quali tocca affidarsi per la promozione della letteratura. Ai booktoker (che determinano sempre più le classifiche dei bestseller)
si è allineato da un paio di settimane Robinson, il rinnovato supplemento culturale della «Repubblica», che vorrebbe parlare ai giovani social-dipendenti lontanissimi dai capolavori di Faulkner e di Handke. Sulla rivista online Pangea (5++) Paolo Ferrucci accenna ironicamente a una nuova collaboratrice di Robinson che, con il nome di Petunia Ollister, ha ottenuto molto successo mettendo ogni giorno su Facebook e su Instagram fotografie di libri su tovagliette da colazione, vicino a tazze da caffè, brioche, cucchiaini e piattini, e piccole zuccheriere di peltro… Atmosfera molto vintage e niente di spregevole, anzi, ma Ferrucci spera che tutto questo sparisca al più presto, poiché contribuisce al rimbecillimento generale di un’intera generazione. Non so se abbia torto o ragione (4 –a me stesso), ma ritengo che un quotidiano come «Repubblica», nato
all’insegna del grande confronto politico-culturale nella sinistra, debba andare in un’altra direzione rispetto alla Petunia: per rinnovarsi non è necessario rinunciare alla propria personalità. A ciascuno la sua funzione, a ciascuno il suo linguaggio. Questa rincorsa disarmata (e disperata) verso il pubblico mi ricorda quando i giornali cominciarono a inseguire il pettegolezzo televisivo per catturare più lettori, decretando per sé l’inizio della fine. Qualche giorno fa ho sentito su Radio Rai3 questa frase (6+++) del filosofo tedesco Ernst Bloch, teorico del principio-speranza: «La vita di tutti gli esseri umani è attraversata da sogni a occhi aperti, una parte dei quali è solo fuga insipida, anche snervante, anche bottino per imbroglioni; ma un’altra parte stimola, non permette che ci si accontenti del cattivo presente, appunto non permette di essere rinunciatari».
gono calde lacrime. Secondo il «Wall Street Journal», i media tradizionali hanno perduto 20 miliardi di dollari dal 2020 a oggi. I consumatori sono rimasti soddisfatti (almeno finché non hanno dovuto pagare), i lavoratori molto meno, in tanti hanno perso il lavoro. Lo sciopero degli sceneggiatori (ora terminato) ha preso a bersaglio l’intelligenza artificiale ma è in realtà la manifestazione di un disagio più lontano e profondo. Anche i potenti signori degli studi cinematografici e televisivi hanno visto crollare i loro profitti. Parliamo di Paramount, Warner Bros. Discovery, Comcast e persino Disney.
E dire che lo streaming sembrava il futuro inarrestabile. Per anni le nostre abitudini casalinghe sono state regolate dal palinsesto televisivo. Persino la cena veniva a coincidere con il tg, giusto per condividere le notizie della giornata a tavola. Per anni il nostro
rapporto con la tv è stato regolato da una specie di orario dei treni: a volte impreciso, a volte ballerino, ma pur sempre orario. Poi le cose sono cambiate in maniera radicale. Con lo streaming, appunto. Streaming significa anche che da un ambiente televisivo organizzato secondo un ordine verticale siamo passati a un ambiente internet di tipo orizzontale. La TV del futuro, si diceva, sarà un grande serbatoio da cui ognuno di noi potrà attingere quello che più desidera. Invece si è registrato un calo fisiologico dovuto anche all’inflazione che ha inciso sui conti familiari e spinto gli utenti a orientarsi su forme di visione come quelle con la pubblicità che ormai tutti gli operatori stanno, gradualmente, attivando.
Il mercato, inoltre, è sempre più condizionato dai contenuti di richiamo, che rendono più volatile il parco abbonati e spingono gli spettatori a spo-
starsi su una piattaforma, piuttosto che un’altra, a seconda dell’offerta. Disney+, ad esempio, ha continuato a crescere rispetto alla concorrenza, ma con l’esaurirsi delle grandi serie Marvel la tendenza appare destinata a invertirsi. C’è poi l’aspetto delle mode e delle abitudini, in particolare dei giovani, che condizionano in maniera decisiva il mercato. Da questo punto di vista la fruizione sembra premiare sempre più i social media –come testimonia ancora It Media – , da TikTok a Twitch, ma anche YouTube e Facebook.
L’Italia rispecchia la tendenza e gli ultimi dati diffusi da Agcom non fanno che confermarlo. Diminuiscono gli abbonati ma anche le ore passate nella visione di contenuti a pagamento: meno 12,8% in totale. In caduta anche Netflix che perde 9 milioni di ore e il 3,6% degli abbonati.
«Non vuol dire che un giorno non ci
saranno più piattaforme – o che a dominare il mercato sarà un unico servizio o al massimo un paio – ha detto Angela Watercutter su «Wired Us» – ma che alla fine di tutte le fusioni, i consolidamenti e gli scorpori, gli spettatori avranno la possibilità di abbonarsi solo alla manciata di opzioni che desiderano davvero. Tutte le reti si contenderanno i contenuti più visti, e non gli show di nicchia. Forse gli scioperi di Hollywood finiranno e gli streamer, che stanno contrattando a fianco degli studios, inizieranno a pagare i diritti residui come le reti televisive. Forse Apple comprerà Disney. Ma di offerte vincenti ce ne saranno davvero poche». Se proprio vogliamo parlare di crisi, diciamo che è una crisi di crescenza generata dalla novità e da un successo insperato: una buona riuscita raggiunta molto in fretta si consuma ancor più in fretta.
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