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Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio L’apprendista cameriere, un tirocinio poco conosciuto
Ambiente e Benessere Nasce «L’ora blu», serie di conferenze in cui affrontare temi legati alla natalità: promotrici i medici Petra Donati Genet e Cari Platis R.
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 30 settembre 2019
Azione 40 Politica e Economia La Cina comunista si appresta a celebrare i 70 anni dalla nascita, ma Hong Kong resta una spina nel fianco
Cultura e Spettacoli A Zurigo una mostra celebra Matisse, uno dei protagonisti dell’arte del XX secolo
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pagina 5 pagina 31
di Federico Rampini pagina 32
AFP
Ipotesi impeachment
pagina 47
In nome dello stato di diritto di Peter Schiesser La battaglia per la messa in stato di accusa del presidente degli Stati Uniti è cominciata. Visto che è una battaglia politica, sulla quale deciderà in ultima istanza il Senato in salde mani repubblicane, alla fine è possibile che Donald Trump se la caverà (vedi Rampini a pagina 32). Per i democratici, che controllano la Camera dei rappresentanti, è una partita delicata, con enormi rischi. Ma potevano, i democratici, evitare di aprire la procedura che porta all’impeachment? La trascrizione della telefonata di Trump al neo-eletto presidente ucraino Zelenski e la pubblicazione della denuncia del whistleblower dei servizi segreti americani ai presidenti delle Commissioni di Camera e Senato che supervisionano l’operato dei servizi di informazione rivelano fatti così gravi – fatti, non supposizioni – che far finta di nulla avrebbe creato danni ancora maggiori alla credibilità istituzionale del ruolo di presidente degli Stati Uniti: ci sono limiti invalicabili, definiti dalla Costituzione, e fra questi c’è quello di non utilizzare la politica estera per scopi personali, anche da parte del presidente. Ed è quello che è successo.
Che all’interno della Casa Bianca e nella sua orbita ci siano molti funzionari che pongono al di sopra di tutto la lealtà ai principi della democrazia americana e dello stato di diritto, lo dimostra il fatto che alla base della denuncia del whistleblower ci sono le confidenze circostanziate, corrispondenti, che gli hanno fatto numerosi funzionari presenti all’ascolto della telefonata e informati degli atti e delle decisioni che nei mesi precedenti sono state prese in merito al Kievgate. E che quella telefonata non abbia precedenti per la sua gravità lo dimostra anche il fatto che il giorno dopo membri dell’Amministrazione Trump hanno ordinato che la registrazione venisse trasferita su un server inaccessibile per renderla segreta. Brevemente i fatti: il 25 luglio Trump e Zelenski (nella foto) si telefonano, il presidente americano gli chiede il favore di indagare sulle accuse di corruzione rivolte all’azienda ucraina Burisma, nel cui board era presente Hunter Biden, figlio del candidato democratico alle presidenziali Joe Biden, e lo invita a mettersi in contatto con il suo avvocato personale Rudolph Giuliani e con il ministro della giustizia William Barr. Una settimana prima della telefonata, Trump aveva ordinato di bloccare il credito di 391 milioni di dollari in aiuti
militari all’Ucraina, ciò che lo rende sospetto di aver voluto far pressione sul governo ucraino affinché cedesse alle sue richieste di indagare sui Biden. Come nascono questi sospetti sui Biden? In gennaio e febbraio, Giuliani incontra il procuratore generale ucraino Yurij Lutsenko, il quale a fine marzo dichiara che il suo predecessore era stato licenziato perché stava indagando sulla Burisma, e di essere in possesso di informazioni secondo cui nel 2016 i democratici statunitensi avevano interferito nelle presidenziali americane. Lutsenko farà poi marcia indietro e si rivelerà poco credibile, il caso si sgonfia. Ma l’Amministrazione Trump non demorde: esonera l’ambasciatrice americana a Kiev, che aveva smontato le accuse, porta avanti i contatti con l’entourage di Zelenski, fino alla fatidica telefonata. Tutti fatti certificati da dichiarazioni pubbliche e dalle rivelazioni dei funzionari coinvolti o a conoscenza dei fatti. L’impeachment di Trump, convinto di non aver fatto nulla di male, di diverso dal suo solito, è un atto dovuto a questo punto. Risultato? I seguaci di Trump e la maggioranza repubblicana al Senato faranno quadrato attorno al presidente, gli Stati Uniti si spaccheranno sui fondamenti del loro stato di diritto.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 settembre 2019 • N. 40
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Attualità Migros
M Principianti a scuola con lo chef
Una gara per sportivi con grinta
Gastronomia Sabato 19 ottobre il gastronomo Andrea Rapanaro, in collaborazione
con Migros Ticino, propone un corso di cucina per studenti
Generoso Trail
Il 20 ottobre al via la prima edizione: iscrizioni aperte
Eleonora Bertossa Andare a vivere da soli è un passo importante e per correre in aiuto agli studenti alle prime armi con i fornelli lo chef Andrea Rapanaro organizzerà un corso di cucina che permetterà ai giovani di imparare a preparare dei piatti semplici, veloci e soprattutto estremamente economici: il foodcost per portata a persona non supererà infatti i 2 franchi. L’incontro ha però come scopo anche quello di educare i ragazzi a mangiare in modo equilibrato, stagionale, sostenibile e limitando gli sprechi. Il corso sarà accompagnato da una piccola introduzione al vino organizzata da The Winery. In questo modo i ragazzi impareranno a scegliere un vino adatto alle loro ricette, senza però spendere troppo. Insomma, un’ottima idea regalo per i giovani in partenza per gli studi. Ma chi è Andrea Rapanaro? «Azione» lo ha intervistato per conoscerlo meglio e scoprire com’è nata l’idea di questo corso. Che ruolo ha la cucina nella tua vita?
La cucina in realtà per ora occupa solo il 20% della mia vita. Nei restanti 4 giorni infatti mi occupo di analisi e intelligenza artificiale. Ho iniziato a cucinare più per necessità che per passione, perché quando sono andato a studiare al politecnico di Losanna mi sono dovuto arrangiare. Prima che partissi mia madre mi ha dato un libro di ricette molto semplici, ed è da lì che è iniziato tutto. In effetti anche per decidere che piatti proporre durante il mio nuovo corso ho preso spunto proprio da quelle ricette. È anche vero però che deve comunque esserci un lato gastronomico nel mio DNA dato che dalla parte di mia mamma lo zio è chef, il nonno pasticcere e in generale tutti i fratelli e le sorelle di mia madre, lei inclusa, sono appassionati di cucina.
Le sue ricette sono pubblicate anche sul blog www.cucina.li. Sul Web sei molto seguito grazie al tuo blog CucinaLi. Come ti è venuta questa idea?
Fin da studente ho sempre avuto un sito, in cui però inizialmente pubblicavo solo foto e video divertenti. Solo più tardi si è trasformato in un blog, ma nel periodo postuniversitario l’ho lasciato da parte. Un giorno un’amica mi ha consigliato di ricominciare a scrivere e ho pensato di iniziare a postare le mie ricette in modo da proporre sempre contenuti nuovi. Quando ho capito che i miei piatti venivano apprezzati anche sul web mi sono concentrato su questo affinando sempre di più la tecnica anche per quel che concerne la fotografia. Ho iniziato ad impegnarmi seriamente con il mio blog a partire dalla fine del 2015: sono partito da qualche migliaio di visualizzazioni arrivando oggi ad avere circa 25mila visite al mese. Qual è lo scopo del tuo nuovo corso «CucinaLiSenzaMamma» ?
Quello che voglio fare con questo corso
non è solo insegnare ai ragazzi a cucinare, ma anche riuscire a trasmettere dei valori: l’importanza della stagionalità, del luogo di provenienza dei prodotti e di limitare gli sprechi alimentari. Durante il corso proporrò delle ricette semplici, non troppo care e veloci da fare, ma metterò sicuramente l’accento anche sull’importanza di mangiare bene. Partiremo da brodi, zuppe e vellutate, classici antipasti veloci che si possono riproporre in svariati modi in base alla stagione, ma anche giocando con gli abbinamenti. Cucineremo poi delle paste semplici cercando però di andare al di là della classica pasta al tonno. Ci sarà poi spazio per il risotto e per le ricette a base di carne e pesce. Infine, proporrò dei dessert che si possono preparare in pochissimi di minuti. Quali sono i punti di forza per i partecipanti?
L’aspetto sicuramente interessante per gli studenti è che ogni portata per persona avrà un costo medio di 1.50/2
franchi. I partecipanti al corso riceveranno naturalmente le ricette che prepareremo insieme, ma anche un libretto digitale in cui potranno trovare una serie di piatti simili a quelli presentati durante il corso, i cui ingredienti variano però in base alla stagionalità dei prodotti. Insomma lo scopo è quello di proporre un intero menù semplice, veloce ed estremamente economico per poter invitare a cena gli amici o semplicemente concedersi un pasto buono e equilibrato a casa. Le iscrizioni sono già aperte sul mio blog www.cucina.li !
Una sfida originale e impegnativa per mettere alla prova le capacità atletiche degli appassionati, in una disciplina sportiva che richiede una particolare preparazione. La Generoso Trail, che si terrà per la prima volta il prossimo 20 ottobre sul percorso che porta da Mendrisio alla Vetta del Monte Generoso, propone un tragitto di 10 km, da percorrere prevalentemente su sentieri sterrati e in mezzo al bosco. La gara prevede di superare un dislivello di 1350 m, partendo dai 353 m/sm del capoluogo del Mendrisiotto fino ai 1704 del cocuzzolo al vertice della montagna. Il percorso è certamente impegnativo ma attraversa un paesaggio splendido, con panorami e passaggi in mezzo a boschi, per culminare poi in una visuale a 360° sulle Prealpi meridionali del Ticino. L’arrivo della gara è previsto naturalmente in prossimità del Fiore di pietra, la costruzione dell’architetto Mario Botta che è ormai diventata emblema della montagna. La partenza è fissata alle ore 11.00 da Piazzale alla Valle a Mendrisio, dove verranno distribuiti i pettorali già da sabato 19. Per ciò che riguarda le iscrizioni, a questa prima edizione sono stati previsti al massimo 500 partecipanti. Con grande soddisfazione degli organizzatori è possibile misurare già da ora il successo della proposta: al momento
Qual è il ruolo di Migros Ticino nel tuo progetto?
Migros è un brand che rispecchia molto le idee di base di questo corso: ha dei prezzi molto competitivi, ma rispetto ad altri negozi ha anche una materia prima locale di qualità. Per questo motivo Migros, e in particolare anche la sua linea M-Budget, saranno un pilastro fondamentale del corso.
Un festival per allargare gli orizzonti
Diritti umani Dal 9 ottobre si tiene a Lugano, nei cinema Corso e Iride, la sesta edizione
della rassegna dedicata ai temi caldi del mondo contemporaneo Una riflessione ad ampio raggio, articolata su vari mezzi d’espressione; il Film festival dei diritti umani che si terrà a Lugano dal 9 al 13 ottobre, proporrà per il sesto anno consecutivo un’ampia proposta di contributi che permettono allo spettatore di prendere conoscenza con temi importanti e «caldi» legati all’attualità contemporanea. Diretto da Antonio Prata, sotto la presidenza di Roberto Pomari, il Film Festival seleziona ogni anno pellicole particolarmente significative che vogliono sensibilizzare l’opinione pubblica sulle molteplici emergenze legate al mancato rispetto dei diritti dell’uomo. Nell’edizione di quest’anno si segna-
lano in particolare la presenza del film sudanese Khartoum Offside di Marwa Zein e dalla Cina il documentario One Child Nation di Nanfu Wang e Lynn Zhang. Il tema dei cambiamenti climatici, argomento di grande attualità, sarà affrontato da varie pellicole, tra cui Aquarela, del regista Victor Kossakovsky. Tra gli altri 32 film in programma da segnalare l’Orso d’argento 2019 Grâce à dieu di François Ozon e On va tout péter di Lech Kowalski, già presentato a Cannes alla «Quinzaine des réalisateurs 2019». Come ogni anno, a fianco del programma cinematografico vero e proprio saranno proposte molte iniziative
Una rassegna sui temi dell’attualità.
destinate a creare un dibattito ampio e multidisciplinare attorno alle tematiche cardine del festival. Momenti fondamentali saranno quelli del Forum di approfondimento, a cui prenderanno parti numerosi esperti i quali commenteranno e contestualizzeranno le pellicole presentate, discutendone con gli autori. Ricco anche il programma di accompagnamento musicale alle giornate di proiezione. Saranno ben due gli appuntamenti previsti: il concerto con la band Atse Tewodros Project, una collaborazione italo-etiope, e quello con il duo Kala Jula, organizzato in collaborazione con Médecins sans Frontières. A proposito di quest’ultima collaborazione, il Film festival dei diritti umani di quest’anno ospiterà i rappresentanti di due importanti ONG: Médecins Sans Frontières, appunto, e Amnesty international. Da segnalare che è stato inoltre rinnovato anche per il 2019 l’importante partenariato con il Dipartimento federale degli Affari esteri. Infine, segnaliamo che sarà presentata al Centro San Giuseppe dal 1. al 20 ottobre 2019, una mostra fotografica, per dare ulteriore spazio alle tematiche dei diritti. La mostra, dal titolo Landless, proporrà una serie di fotogra-
fie scattate nel corso della sua attività quale operatore in seno a varie ONG da Davide Vignati. L’inaugurazione dell’esposizione è prevista per il 1. ottobre, alle ore 18,30. Il cartellone completo del festival può essere consultato sul sito ufficiale www.festivaldirittiumani.ch. Film festival dei diritti umani
Dal 9 al 13 ottobre. Cinema Corso e Cinema Iride, Lugano In collaborazione con
Biglietti a concorso
«Azione», in collaborazione con il Film festival dei diritti umani, mette in palio alcune coppie di biglietti per proiezioni e concerti e due abbonamenti generali per la rassegna 2019. Per partecipare seguire le istruzioni contenute nella pagina web www. azione.ch/concorsi. Buona fortuna!
attuale infatti le iscrizioni pervenute sono già oltre 440, ciò che testimonia della grande attesa da parte degli appassionati. Fino al 15 ottobre la tassa di iscrizione è fissata a Fr. 55.–: include pettorale con nome; pacco gara con diversi gadget; bibite al rilevamento del tempo intermedio; pranzo «runner» (con bibite e pasta) al Fiore di pietra; viaggio di rientro con il trenino della Ferrovia Monte Generoso. Dopo il 15 ottobre 2019 saranno possibili solo iscrizioni sul luogo della partenza (se i posti saranno disponibili) al costo di Fr. 65.– a persona. Accompagnatori e spettatori potranno seguire gli atleti lungo il percorso della gara e scegliere il posto di osservazione migliore. Per agevolare la loro salita sono state predisposte delle tariffe speciali sulla Ferrovia del Monte Generoso. Gli orari della partenza dei treni da Capolago per la vetta Fiore di pietra (con fermata alle stazioni intermedie di Bellavista e San Nicolao) sono consultabili sul sito www.generosotrail.ch. La manifestazione si terrà con qualsiasi tempo.
Generoso Trail, 20 ottobre 2019, Mendrisio
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 settembre 2019 • N. 40
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Società e Territorio L’imperfezione è utile Intervista a Telmo Pievani, filosofo della scienza ed evoluzionista
La Migros di domani Migros si trova confrontata a sfide sempre più grandi legate alle nuove tecnologie – se ne è parlato a Rüschlikon
La tv degli adolescenti La tv on demand ha reso serie e i film accessibili sempre e ovunque, è un bene?
Il futuro dei quotidiani I giornali cercano nuove strade per raggiungere i loro lettori e cercare di sopravvivere
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Apprendista cameriere
Formazione Difficoltà, opportunità e punti
Guido Grilli Luca è «indomabile», ha 15 anni e segue la formazione per diventare cameriere. Impara l’arte del servire. Ma non si conforma facilmente alle regole, al galateo. Quando dovrebbe stare attento alla lezione su come si regge un vassoio, lui chiacchiera, disturba i compagni e si fa richiamare continuamente. Convocato in direzione, resta in silenzio, fa scena muta. Poi torna al lavoro, tra i tavoli, bicchieri e portate. E fra dubbi, successi e insuccessi, sacrificando molta della sua libertà, s’intuisce, supererà la prova. Luca è il protagonista di un bel film, L’apprendistato, del regista italiano Davide Maldi, proiettato ad agosto al Festival di Locarno. La pellicola si ascrive al cinema del reale, documentario, un ritratto in profondità su cosa significhi, per un giovane, iniziare un mestiere, anzi il mestiere più conosciuto nel mondo, a noi noto soprattutto dal nostro osservatorio di abitudinari clienti, dal caffè al bar alla cena con gli amici. Ma loro – gli aspiranti camerieri – come possono tessere la loro trama, ottenere un diploma e affacciarsi a questa impegnativa professione? Christian Hofer, 21 anni, è apprendista cameriere al primo anno al Centro professionale di Trevano e si dice entusiasta. «Prima facevo l’orologiaio e ho conseguito il diploma, ma poi per mancanza di lavoro nel settore ho smesso e ho trovato un posto al Resort di Collina d’Oro ad Agra. Mi piace il contatto con le persone. In questo mestiere ci sono anche punti a sfavore, come quello di non avere week end liberi, ma io lo prendo più come un piacere. Servire la gente per me è gratificante. Ricordo che da bambino sognavo di fare il cameriere, ma poi non ci pensai più. E ora eccomi qui a servire fra i tavoli. Sono un tipo preciso. Non sarà un caso del resto se prima ho fatto l’orologiaio» – racconta Christian, luganese, che per il suo futuro guarda al diploma di cameriere e spera di trovare un lavoro stabile in Ticino. Ma come si inizia il percorso formativo? Valentina de Sena, responsabi-
le dell’Ufficio formazione professionale e del programma corsi di GastroTicino, la federazione degli esercenti e degli albergatori del Canton Ticino, e responsabile di Hotel & Gastro Formazione, illustra il percorso per ottenere l’attestato di capacità federale di cameriere. «Attualmente contiamo 8 apprendisti al primo anno, 6 al secondo e 4 al terzo. Molte delle informazioni utili sono contenute nel nostro portale, www. hotelgastro.ch che contempla a livello svizzero un’offerta di formazione e perfezionamento completa e flessibile per le varie funzioni del settore alberghiero e della ristorazione, con i nostri corsi interaziendali, fra cui appunto quelli riservati ai camerieri, meglio definiti impiegati di ristorazione. Tutti i ragazzi con un contratto in un’azienda formatrice per l’apprendistato vengono convocati ai corsi interaziendali che si svolgono o nella sede di GastroTicino o al centro professionale di Trevano: si tratta di corsi pratici obbligatori per la formazione di base. Gli esami sono invece di competenza della Divisione formazione professionale, l’organo di autorità cantonale competente che rilascia gli attestati. Per i giovani, dunque, tre sono i referenti: il datore di lavoro, la scuola e i corsi pratici». A che età si può iniziare la professione di cameriere? «A 15 anni. Una volta conclusa la scuola dell’obbligo occorre trovare posto di lavoro presso un’azienda formatrice. Che è lo scalino più difficile. Chiaramente deve nascere la passione per questa professione, non s’inizia dicendo “Sì, me l’hanno detto la mamma, il papà”. Dev’essere una scelta concreta, non un ripiego. Al terzo anno ci sono gli esami pratici, orali e scritti, superati i quali si ottiene l’Attestato federale di capacità (AFC), che rappresenta il primo traguardo della formazione di base in Svizzera. È poi possibile accedere a scuole superiori, come la Scuola specializzata superiore alberghiera e del turismo a Bellinzona (SSAT), o accumulare esperienza, anche all’estero. Oppure, dopo tre anni di pratica, accedere al corso di due anni per l’ottenimento dell’Attestato profes-
Keystone
di forza di una professione che in Ticino scelgono in pochi
sionale federale (APF) con cui si diviene responsabili della ristorazione. E, novità di quest’anno, si possono seguire i corsi per il diploma federale di capo della ristorazione». Ma ce la fanno tutti a ottenere l’attestato di capacità federale? «Qualcuno lascia perché scopre che non è la sua strada, qualcuno perde il lavoro. La percentuale degli insuccessi è piuttosto elevata rispetto ad altri apprendistati: si parla del 10% relativa a Ticino e Grigioni italiano» Ma quanto la professione di cameriere attrae i ticinesi? «Direi che la maggioranza dei camerieri è originaria di altri Paesi, dove la tradizione di que-
sta professione è più radicata: in testa, Italia, Portogallo, Spagna». Paolo Zanga, 60 anni da compiere, docente al Centro professionale di Trevano da oltre 30 anni, ha fatto carriera partendo dall’inizio: apprendistato di cameriere nel 1974, esperienza in più Paesi, il rientro in Ticino nell’84 dove è divenuto maître e proprietario d’hotel. «Quali sono le maggiori difficoltà nella professione di cameriere per i giovani? Il problema principale è il cambiamento abbastanza radicale al quale vengono confrontati: la giornata lavorativa. All’inizio il giovane deve mettere in conto che perde tutte le ami-
cizie di scuola. A dipendenza del posto di lavoro, il giovane cameriere dispone di un paio di ore pomeridiane di libero e poi la sera lavora fino alle 22-22.30. Quando i loro coetanei sono in giro a divertirsi il sabato sera o la domenica, il cameriere lavora. Bisogna tuttavia dire che se a un giovane piace veramente questa professione, allora tutto è più facile. La nostra professione è una vocazione. È il mettersi completamente a disposizione del cliente. È bello quando il cliente se ne va e dice “grazie, siamo stati bene, ritorniamo”. E ricordiamolo: in questa professione non esistono mai due giorni uguali».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 settembre 2019 • N. 40
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Società e Territorio
Il valore dell’imperfezione
Intervista Nel suo ultimo libro Telmo Pievani, filosofo della scienza ed evoluzionista, sostiene che la perfezione
non esista anzi sia un tranello della mente e che il segreto dell’evoluzione sia la diversità
Laura Di Corcia Che cos’è la perfezione? Esiste davvero? Secondo Telmo Pievani, la perfezione non esiste, anzi: è un tranello della mente. In realtà la vita per definizione è intrisa di diversità, continua a evolvere ed evolvendo cambia. Nel suo ultimo libro, Imperfezione. Una storia naturale (Raffaello Cortina Editore, 2019), il filosofo della scienza ed evoluzionista ripercorre la catena di eventi che ci ha portato ad essere come siamo, presentandola come una serie di errori, sbagli, smottamenti, che però hanno avuto come risultato la nostra presenza su questo Pianeta. Professor Pievani, partiamo da un dato semplice e piuttosto banale: noi esistiamo. Già questo ci porta spontaneamente a credere che l’universo si sia prodigato per fare in modo che questo miracolo potesse aver luogo. Scoprire che la nostra esistenza sulla Terra è in realtà il frutto di coincidenze improbabili rafforza questa opinione, ovvero l’idea che l’universo abbia un fine volto alla perfezione, che ci sia un disegno. In cosa sbagliamo?
In effetti è estremamente semplice arrivare a questa conclusione. Sono state fatte delle ricerche di psicologia che dimostrano che se si racconta una storia in cui sono successi eventi molto improbabili, come incidenti, coincidenze strane, che hanno portato a un esito di un certo tipo (per esempio il fatto che due persone si incontrino e si innamorino), il nostro cervello decodifica il tutto ancorandosi alla spiegazione del destino. «Doveva andare così». In realtà questo è un trucco del nostro cervello, una deviazione. L’universo che vediamo è l’unico che conosciamo. Ma la scienza ci permette di capire che noi homo sapiens non eravamo affatto necessari, siamo il frutto di una sequenza molto fortunata di eventi evolutivi che avrebbero potuto prendere un’altra direzione. Nel suo libro troviamo subito un elemento sorprendente: la selezione naturale. E ci stupiamo un po’.
L’imperfezione porta a un’esuberanza di forme di vita. (Marka) A scuola avevamo imparato che la selezione naturale è magari spietata, ma assolutamente perfetta.
La selezione naturale, avendo avuto tanto tempo a disposizione, per il tramite di inciampi ed errori, è riuscita a creare degli organismi obiettivamente meravigliosi. Le ali degli uccelli, il mimetismo degli animali: cose bellissime, tant’è vero che noi stessi li copiamo. Se andiamo a guardare bene come funzionano le cose, ci accorgiamo però che la selezione naturale non è un ingegnere che pianifica e ottiene dei risultati ottimali, quanto piuttosto un artigiano che utilizza il materiale a disposizione. Ovvero l’esistente, che è il risultato della storia, delle condizioni climatiche variate nel corso del tempo. Fa di necessità virtù: per questo il risultato non è perfetto, bensì funzionale. Un esempio?
Il fatto che camminiamo sulle gambe. Questo ci ha dato una serie di vantaggi indiscutibili. Ma siamo partiti da un quadrupede originario e quindi il nostro bipedismo è un mezzo disastro dal punto di vista meccanico: abbiamo la schiena che fa le curve, i nervi che si schiacciano, le ernie, lombalgie, sciatalgie, ecc. C’è un prezzo da pagare. E tante
persone che soffrono di dolori e mal di schiena lo sanno bene.
Va bene, il corpo è imperfetto. Ma il cervello è un capolavoro. Vero?
Il cervello è un capolavoro per quello che è capace di fare, ma questo non significa che sia perfetto da un punto di vista funzionale. Rita Levi Montalcini lo diceva chiaramente con il suo linguaggio ottocentesco: il cervello è un «accrocco», il lavoro di un artigiano che mette insieme alla bell’e meglio materiali eterogenei. Noi leggiamo e scriviamo, proprio perché il nostro cervello è stato in grado di riutilizzare elementi che avevano altre funzioni prima, di tipo motorio, al fine di creare e decodificare dei testi. A ben vedere è un mago del riuso, del riciclo: e questo è possibile perché è molto plastico. È imperfetto dal punto di vista funzionale, ma proprio in virtù di questa imperfezione riesce a essere così creativo. Mi sembra che il suo saggio sia incentrato sul tema dello sguardo. Il modo in cui guardiamo le cose ci porta a pensare che se esse hanno sortito un certo risultato, il merito è di un disegno preciso. Come si fa a rieducare lo sguardo?
Evitando il più possibile il senno di poi.
Anche a scuola questo errore non va mai fatto: procedere a ritroso, spiegare le varie tappe che hanno portato alla situazione attuale partendo da quest’ultima, al fine di giustificare il presente. Se si fa così, sapendo come va a finire la storia, si è automaticamente portati a considerare la storia come una serie di tappe avente come fine l’essere umano. È un errore: l’evoluzione va guardata dal punto di vista del passato di per sé. Bisogna capire quali sono le categorie con cui guardiamo il mondo: noi usiamo tantissimo, per esempio, la categoria della perfezione. Ragioniamo sulla base di modelli, di norme, e da lì cerchiamo di capire qual è la deviazione rispetto a quell’ideale. Ma questo è un modo di ragionare rischioso e molto gerarchico. Il segreto dell’evoluzione è invece basato sulla diversità. A ben guardare, questo è un libro sull’imperfezione, un testo che va contro la nostra idea di perfezione.
Il libro affronta anche temi complessi, come quello dello straniero. Lei dice che la riluttanza verso l’accettazione del diverso è il residuo di un modo di pensare tribale. Come combattere questi pregiudizi?
Il nostro cervello si è evoluto in passato
sulla base di un certo ambiente, il quale però col tempo è cambiato in modo significativo. Questo comporta un certo ritardo, e quindi talvolta accade che il nostro cervello sia sintonizzato ancora su adattamenti del passato e che fatichi ad aggiornarsi sulla situazione attuale, davvero molto diversa. Forse perché l’evoluzione neurologica è molto più lenta di quella culturale e di quella tecnologica. Sono stati fatti degli esperimenti che hanno dimostrato che il nostro cervello ha una predisposizione forte a prendere posizione molto velocemente sull’individuo che si trova di fronte. È come me o non è come me? È uno del mio gruppo o no? Queste sono le prime domande che il cervello si pone. Solo in un secondo luogo intervengono le aree corticali, che sono quelle più recenti e che tentano di modulare questa reazione. Questo conflitto neurale fa sì che a volte prevalga la prima istanza, a volte la seconda. Molto spesso, oggi, tristemente, vediamo una prevalenza di quelle parti meno mature e aggiornate. È un conflitto, la spia di un sistema imperfetto che non ha ancora trovato una risposta. E su questo conflitto giocano certi discorsi che si sentono fare sempre più spesso in politica.
Le azioni di propaganda contro il diverso e lo straniero sono molto pericolose proprio per questo, perché agiscono su una parte molto profonda del nostro cervello: la paura.
Un’ultima considerazione: taluni, considerando che noi non siamo il risultato di un progetto, ma il risultato di una serie casuale di fattori, potrebbero lasciarsi andare al più bieco nichilismo. E in questo momento, di importanti lotte ambientali, il ragionamento rischia di essere non poco pericoloso.
Lo è. Ed è impostato male. Si dice sempre che l’uomo sta uccidendo il suo Pianeta, ed è un modo impreciso di guardare al problema. Il Pianeta si salverà: saremo noi a sparire. Quindi il dispetto lo stiamo facendo a noi stessi. E non è un dispetto di poco conto.
Dai burattini ai Troll, ecco il nuovo catalogo di storie Festival delle Marionette È pronta per presentarsi al pubblico la nuova edizione di una rassegna di spettacoli
dedicata ai più piccoli, ma anche ai loro genitori Discutendo con Michel Poletti, il quale è in Ticino il maestro burattinaio per eccellenza, capita di ricordare che fino a qualche decina di anni fa gli spettacolo di marionette non erano soltanto dedicati al pubblico dei bambini. Chi ha assistito alle sue storiche mise en scène degli anni 70 ricorda come i suoi show fossero vere performance multimediali, che raccontavano anche storie «per
grandi», come quella di Faust, o della Mandragora. Il teatro dei burattini, del resto, è stato per secoli un mezzo di comunicazione diffuso, un’«Opera» in dimensioni ridotte, capace però di portare sulle piazze storie di grande impatto, mettendole alla portata delle classi sociali più popolari. Oggi, relegata un po’ nella dimensione dell’intrattenimento in-
fantile, l’esibizione dei pupazzi non ha perso però l’ambizione di parlare a un pubblico di tutte le età e lo fa in modo piacevolissimo, inventando soluzioni sceniche che cercano di sorprendere e colpire l’immaginazione in modo sempre nuovo. La rassegna marionettistica che Poletti promuove ormai da 37 anni a Lugano si conferma di volta in volta come uno dei più importanti appuntamenti a livello internazionale in questo settore. Anche quest’anno le compagnie invitate propongono esperienze e proposte diverse e affascinanti. Dai burattini tradizionali alle più moderne tecnologie dello spettacolo, tutto concorre a rinnovare un antico piacere.
Il programma del festival
Biglietti in palio
Domenica 20 ottobre, ore 11.00
«Azione» mette in palio per i suoi lettori alcune coppie di biglietti per gli spettacoli del festival. Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni nella pagina web www.azione.ch/ concorsi. Buona fortuna! In collaborazione con
La storia di Leonardo, raccontata dai pupazzi di Michel Poletti. (www.palco.ch)
Sabato 12 ottobre, ore 15.00
Sabato 26 ottobre, ore 15.00
La storia di buratti, ombre, marionette I burattini dei Ferrari Per tutti, dai 5 anni
Circo Polvere Circo Poeira Dai 4 anni
I vestiti nuovi dell’Imperatore Teatro Glug Dai 4 anni
La piccola talpa Bim Koekla Dai 2 anni e 1/2
Personaggi misteriosi Roberto White Per tutti, dai 5 anni
Cabaret delle marionette Ola Muchin e Mau Teatro Per tutti dai 4 anni
I segreti di Leonardo Compagnia Musicateatro Per tutti, dai 5 anni
Il piccolo teatro di Tartinovski Compagnia Musicateatro Dai 4 anni
Domenica 13 ottobre, ore 11.00
Domenica 13 ottobre, ore 16.00
Sabato 19 ottobre, ore 15.00
Domenica 27 ottobre, ore 11.00
Domenica 27 ottobre, ore 16.00
Mercoledì 30 ottobre
Sabato 2 novembre, ore 15.00
Ombre cinesi, Tarzan e compagni Valeria Guglietti Dai 4 anni
Heartbeat Claudio Cinelli Per tutti, dai 5 anni
Il Carnevale degli animali Compagnie Blin Per tutti, dai 5 anni
Il Mago di Oz Teatrino dell’Erba Matta Dai 3 anni
Lo strano pranzo di Hansel e Gretel La casa degli gnomi Dai 3 anni
Tomte il Troll e altre meraviglie Theater Van de Droom Per tutti, dai 5 anni
Domenica 20 ottobre, ore 16.00
Mercoledì 23 ottobre, ore 15.00
Domenica 3 novembre, ore 11.00
Domenica 3 novembre, ore 16.00
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 settembre 2019 • N. 40
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Idee e acquisti per la settimana
«Rollato» fresco ogni giorno Novità Nei due Sushi Corner di Locarno e
S. Antonino viene preparata quotidianamente la nota specialità giapponese davanti agli occhi dei clienti
Scoprire e assaporare i sapori del Sol Levante non è mai stato così facile. I due nuovi Sushi Corner, allestiti all’interno dei supermercati Migros di Locarno e S. Antonino, sono infatti pronti a deliziarvi ogni giorno con un vasto assortimento di piccole e freschissime prelibatezze da asporto a base di riso al vapore e pesce crudo. Qui sono attivi alcuni esperti di cucina asiatica che con passione, esperienza e artigianalità preparano sul momento differenti pietanze di sushi, ma anche altre specialità giapponesi come snack, insalate e menu, utilizzando solo i migliori ingredienti attentamente selezionati. Della gamma fanno parte anche alcune varianti dedicate ai vegetariani. Gli chef dei Sushi Corner sono stati appositamente formati dalla Sushi Mania, azienda svizzera specializzata fin dal 2002 nella gastronomia asiatica. Nella sua sede nel canton Friburgo l’azienda occupa 120 collaboratori, i quali producono
ogni giorno oltre 40’000 bocconcini di sushi per la Migros. Che si tratti di un aperitivo dai toni esotici, di un pranzo leggero ma nutriente in ufficio, di una cena in buona compagnia o semplicemente per soddisfare un languorino a metà giornata, i Sushi Corner di Locarno e S. Antonino sono l’indirizzo giusto a cui rivolgersi. A proposito: il Sushi Corner di S. Antonino produce la specialità anche per la filiale di Migros Biasca. Sushi che passione
Il sushi divenne popolare nei paesi occidentali solamente negli anni Sessanta. Si presume che il primo sushibar aprisse i battenti a Los Angeles, nel 1966. Non ci volle però molto affinché gli sfiziosi bocconcini giapponesi andassero alla conquista dei palati di tutto il mondo, diventando negli anni una delle preparazioni di maggior successo della cucina giapponese, anche nel nostro Paese.
Il Sushi Corner di Migros Locarno è pronto ad accogliervi con una miriade di delizie asiatiche. (Vincenzo Cammarata)
Almeno 12 mesi di stagionatura
Attualità Con i formaggi d’alpe ticinesi DOP, alla Migros non c’è che l’imbarazzo della scelta. Oltre a quelli stagionati
almeno 60 giorni, nelle filiali con banco casaro sono disponibili alcune chicche invecchiate per oltre 12 mesi
L’Alpe Fortunei è uno dei formaggi proposti con una stagionatura di almeno 12 mesi. (Giovanni Barberis)
I formaggi d’alpe DOP racchiudono tutto il sapore delle nostre montagne. Il loro segreto sta nella ricchezza aromatica del latte utilizzato, proveniente da mucche che durante l’estate brucano decine di erbe e fiori dei pascoli alpini situati tra i 1500 e 2400 metri di altitudine. Ed è proprio questo latte, utilizzato e trasformato a crudo da esperti casari, che conferisce ai formaggi d’alpe il loro caratteristico sapore intenso. Per potersi fregiare della denominazione DOP, gli stessi devono inoltre essere prodotti sull’alpeggio medesimo, come pure stagionati per almeno 60 giorni in quota. Per il piacere degli estimatori degli aromatici formaggi d’alpe ticinesi DOP, i supermercati Migros con banco casaro ne propongono alcune varietà con un invecchiamento di minimo 12 mesi in cantine con condizioni di temperatura e umidità costanti. La selezione di queste specialità ben maturate annovera i seguenti prodotti: Alpe Cristallina 12 mesi: dalla Vallemaggia un formaggio a pasta morbida ed elastica, con struttura compatta.
Colore giallo paglierino e sapore deciso con delicate sfumature aromatiche. Alpe Sorescia 12 mesi: su questo alpeggio nei pressi del Passo del San Gottardo a 2162 metri d’altezza viene prodotto un formaggio vaccino semiduro grasso molto richiesto dai consumatori. Alpe Grossalp 12 mesi: un formaggio valmaggese ottenuto con latte di mucca e con al massimo il 30% di latte di capra. Si produce in una casata unica al mattino unendo le due materie prime. Alpe Gorda 12 mesi: nella regione dell’Adula, in Valle di Blenio, a 1779 metri, nasce un formaggio semiduro, grasso, al 100% di latte crudo di mucca, ricco di qualità gustative. Alpe Fortunei 12 mesi: sull’alpeggio più alto del Cantone, con i suoi 2305 metri, sopra al Passo del San Gottardo, si produce un formaggio di solo latte di mucca gradevolmente aromatico. Alpe Piora 16 mesi: ben 16 mesi di invecchiamento in cantina regalano a questo formaggio leventinese un carattere deciso, inconfondibile, frutto della preziosa qualità del latte crudo e della biodiversità della regione.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 settembre 2019 • N. 40
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Idee e acquisti per la settimana
I colori dell’autunno Attualità Questa è la stagione giusta per godersi la casa
e portare in tavola gustosi manicaretti
La zucca a cubetti bell’e pronta da cuocere è la base perfetta per molte gustose ricette autunnali. Ideale per torte salate, zuppe, carni o piatti vegetariani. Zucca a cubetti Anna’s Best Bio 400 g Fr. 4.40 Questi pregiati funghi dalla polpa croccante posseggono un delicato aroma che richiama al contempo il pepe e le albicocche. Sono ottimi saltati brevemente nel burro. Gallinacci cestino da 400 g Fr. 8.95
Le carote sono tra le verdure più apprezzate in Svizzera. L’elevato contenuto di betacarotene, il pigmento naturale che le colora di un bell’arancio, protegge le nostre cellule. Carote svizzere 1 kg Fr. 1.10* invece di 1.90
L’uva bianca Italia della linea Sélection soddisfa i palati grazie alla sua seducente dolcezza e il leggero sapore di noce moscata. Un’autentica delizia acino dopo acino. Uva Italia Sélection al kg Fr. 3.90* invece di 4.90
Le patate bio svizzere resistenti alla cottura sono coltivate in armonia con la natura. Sono ideali per la preparazione di insalate, gratin, rösti o raclette. Patate Bio 2 kg Fr.3.35* invece di 5.60 *Azione dall’1. al 7.10
La tavola si veste dei colori autunnali grazie alla graziosa striscia centrotavola con motivo di foglie. Per una decorazione festosa aggiungete qualche mini zucca, delle foglie secche, delle mele o delle rose, in questo modo gli ospiti resteranno piacevolmente sorpresi. Striscia centrotavola Cucina & Tavola 35 x 200 cm Fr. 19.95
A base di legno svizzero non trattato di abete e faggio, questa cassetta è perfetta per conservare mele, pere, patate e altri prodotti per le scorte invernali casalinghe. Cassetta in legno Fr. 15.90 Da Do it + Garden Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Sfide e valori, il futuro della Migros
Assemblea Si è svolto recentemente il tradizionale convengo biennale al Gottlieb Duttweiler Institute di Rüschlikon:
sul tavolo delle discussioni un portfolio sempre più ricco ma insidiato dalla rivoluzione tecnologica
Simona Sala Dal 18 al 20 settembre ha avuto luogo il convegno biennale al Gottlieb Duttweiler Institute di Rüschlikon (Zuigo), «l’istituto di formazione e di ricerca internazionale» voluto dallo stesso fondatore dell’azienda nel 1962. Vi hanno partecipato membri delle amministrazioni e delle direzioni delle cooperative regionali Migros, delegati dell’Assemblea dei delegati della FCM e membri dei consigli di cooperativa delle cooperative regionali. Con la creazione di questo importante e pionieristico think tank, Gottlieb Duttweiler (1888-1962) completava un’operazione di avvicinamento alla cittadinanza iniziata nel 1946 quando – era il giorno di Natale – insieme alla moglie Adele, decise di trasformare in una fondazione la sua enorme tenuta di Rüschlikon «Langhalden». Tracciando in questo modo la strada per quella che sarebbe diventata la filosofia che contraddistingue ancora oggi l’azienda, e secondo la quale è importante «ridare qualcosa alla società». Sono molte e di natura diversa le sfide presentatesi negli ultimi anni alla FCM: se da una parte sono state individuate delle nicchie di mercato che hanno permesso un’espansione dell’azienda, come nel caso dell’aumento esponenziale della presenza sul territorio del convenience shop Migrolino (che, come ha spiegato Markus Länylinger, dopo la cooperazione con attori già presenti sul territorio, come la ticinese Piccadilly, si affaccia al secondo decennio di attività con oltre 200 punti vendita), dall’altra non mancano le incognite, rappresentate ad esempio dalla necessità di trovare un acquirente per Globus che abbia una visione sostenibile per il futuro, e sia disposto a investire, tutelando i dipendenti.
In un mondo che cambia quotidianamente Migros è confrontata con sfide sempre più grandi Il commercio al dettaglio si trova in una fase delicata, ma la FCM non è l’unica vittima di un cambiamento strutturale dalle dimensioni epocali come quello che stiamo attraversando, che prevede una diffusione sempre più capillare delle tecnologie digitali, applicate nei campi più disparati, con infiltrazioni commerciali globali (ossia con un’offerta ormai extracontinentale), la cui portata era inimmaginabile anche solo dieci anni or sono. Tutto ciò ha portato anche a un cambiamento di atteggiamento nei confronti della
La presidente dell’Amministrazione della Federazione delle cooperative Migros Ursula Nold durante il suo intervento a Rüschlikon. (Sabine Spring)
pubblicità, che oltre a esulare dai canali tradizionali (cartaceo), si propone sempre più come un evento vero e proprio. In altre parole, nella vendita di molti prodotti si ricorre spesso allo storytelling, enfatizzando l’esperienza commerciale dell’acquisto, dopo averla arricchita con una narrazione (storia dell’origine del prodotto, aneddotica, ecc.). Dopo i momenti di riflessione al Gottlieb Duttweiler Institute (GDI), il terzo giorno del convegno gli ospiti si sono spostati nei suggestivi spazi del think tank Kraftwerk di Zurigo (vedi box), dove nel corso di un contraddittorio il direttore generale della FCM Fabrice Zumbrunnen ha risposto con chiarezza e senza sottrarsi alle domande più scomode a quelli che sono gli interrogativi condivisi riguardanti la strategia di un’azienda che ha assistito a un calo della cifra d’affari soprattutto nel settore del non food, ma anche in altri. Forse è giunto il momento dell’accettazione, come ha sottolineato Zumbrunnen, poiché è «la prima volta che un cambiamento è legato principalmente al mondo che si sta trasformando, e non alla stessa Migros». Non
si deve dunque minimizzare più le difficoltà, ma occorre accettarle in quanto tali, trasformandole in un punto di partenza per una concezione aziendale che non veda più un orientamento unicamente interno, ossia quasi «Migroscentrico», ma che tenga conto anche delle mutazioni esterne. Molto si è parlato di digitalizzazione (agli invitati è stata offerta una visita alla Digitec Galaxus, azienda appartenente anch’essa al cosiddetto «portfolio Migros»), e Fabrice Zumbrunnen non è stato da meno, sottolineando come sia indispensabile permettere al cliente che è sempre più libero e si muove su più fronti, e tra offerte sempre più vaste, di scegliere la propria modalità di acquisto. Forte della propria esperienza e di una posizione di mercato che è comunque ragguardevole, la FCM ha dunque esteso l’offerta, permettendo al cliente di potere scegliere se ordinare online, in negozio e quali servizi supplementari ricevere. Piccoli passi per un mondo che si muove sempre più velocemente, ma che mettono in risalto l’attenzione che l’azienda ha sempre avuto per la società, e che si riverbera anche in iniziative
encomiabili ma soprattutto indispensabili come M Engagement, Percento culturale e Scuola Club. Proprio quest’ultima, dopo decenni contrassegnati da una posizione di leadership nel settore della formazione (anche continua) a tutti i livelli e nei campi più disparati, si trova a dovere fare i conti con la digitalizzazione, come ha ribadito Fabrice Zumbrunnen «oggigiorno online si trovano perfino corsi universitari gratuiti e lezioni di grandi professori». Come detto, il concetto di «ridare qualcosa alla società» è sempre stato particolarmente a cuore alla Migros, grazie al suo fondatore, uomo dalle straordinarie doti visionarie, accompagnate da un impareggiabile fiuto per gli affari. E in una fase di forte transizione come quella attuale, è certamente giusto parlare di quei valori che rendono unica la FCM (e in nome dei quali Zumbrunnen riceve molte lettere da persone ancora oggi affezionate alla figura del padre fondatore) senza però dimenticare che anche Duttweiler «era un imprenditore, e sapeva fare di calcolo», e che dunque, se da un lato vi è la necessità di tramandare i valori,
dall’altra vanno sviluppate le strategie aziendali che permettono alla FCM di attraversare con il minor danno possibile questa fase, densa di cambiamenti. È dunque questo spirito imprenditoriale che sta alla base di scelte recenti e a tratti anche controverse, come quella di espandersi nell’ambito sanitario, anche se, ha ribadito Zumbrunnen non c’è da stupirsi, poiché «la salute è negli statuti, e non può ridursi solamente alle prestazioni mediche, ma comprende anche una dimensione sociale, l’alimentazione e il movimento, ambiti in cui la Migros è forte da sempre: la salute diventa dunque un fattore di differenziazione e una modalità per profilarsi ulteriormente come azienda». Infine, fra le necessità più impellenti (e questa è stata sottolineata anche da alcuni presenti), vi è quella di coinvolgere maggiormente nei processi di crescita e sviluppo della FCM le fasce più giovani della società le quali, per motivi anagrafici non hanno conosciuto Gottlieb Duttweiler e i suoi ideali, e dunque non scelgono l’azienda per motivi personali, ma che rappresentano proprio il futuro, anche dell’azienda.
La forza di Kraftwerk
Impact Hub Uno spazio creativo nel cuore di Zurigo Difficile trovare un nome più congeniale per l’Impact Hub (lett. «centro di impatto») situato a pochi passi dalla stazione di Selnau, a Zurigo, e realizzato anche grazie all’impegno di Migros Engagement. Lo spazio Kraftwerk è evocativo sin dal nome, e al proprio interno non manca di suscitare stupore e ammirazione in chi per la prima volta vede il concetto di architettura (post)industriale associato a uno stile bohème. L’edificio in cui si
trova questo laboratorio del pensiero, composto da uffici, sale conferenze, caffè, ristorante e spazi per concerti nasce all’interno di quella che era una vecchia centrale elettrica. Una volta svuotato, l’edificio è stato avviato a una nuova e creativa vita, grazie al «semplice» impilamento di una serie di container che fanno da uffici per start up (operazione iniziata, sempre a Zurigo dai fratelli Freitag grazie al loro Flagship Store in Geroldststrasse)
cui si sono aggiunti degli spazi (sebbene i confini siano molto flou, o liquidi) aggregativi, professionali e di ristoro, estremamente curati e con un occhio di riguardo al design. Al Kraftwerk si lavora, ci si ritrova, si tengono riunioni, in un ambiente creativo che a sua volta ispira creatività, per un concetto professionale che è sempre più universale e al passo con le esigenze di chi, soprattutto giovane, si muove nel mondo del lavoro oggi.
Creatività e incontro, l’impact hub Kraftwerk di Zurigo. (Sabine Spring)
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Società e Territorio
La nuova tv degli adolescenti
Il caffè delle mamme Le serie e i film ora sono accessibili sempre, ovunque e su qualsiasi dispositivo, è un bene?
Simona Ravizza Il Beverly Hills 90210 di noi mamme 45enni con Brenda e Dylan, Kelly e Brandon è ormai davvero storia d’altri tempi. Il 4 marzo 2019 quando nella vita reale è morto Dylan (alias Luke Perry) per tutte è come se, almeno un po’, se ne fosse andato l’amico dell’adolescenza: il primo amore della generazione che il giovedì sera dei primi Anni Novanta restava incollata davanti alla tv per non perdere la nuova puntata attesa per una settimana. Oggi nelle abitudini dei giovanissimi la televisione ha divorziato dal televisore. L’attesa è sparita. Le serie si possono consumare tutte d’un fiato: 10 puntate di fila durante il fine settimana. Ognuno con il proprio tablet può guardare quel che vuole quando vuole. La fruizione di contenuti può essere più che mai individualistica. Al Caffè delle mamme allora, dopo un’occhiata all’inquietante, spaventoso e avvincente Stranger Things e una sbirciatina al fantasy Teen Woof, ci domandiamo: quali sono le conseguenze del consumo on demand che Netflix e Amazon Video stanno portando nella vita degli adolescenti? Per rispondere al meglio dobbiamo intanto capire che ci troviamo di fronte a una nuova rete televisiva globale su Internet che non possiamo ignorare. È da questa che i nostri figli dipendono. Quando il 6 gennaio 2016 l’amministratore delegato di Netflix Reed Hastings annuncia il lancio dello streaming globale in 130 paesi osserva: «D’ora in avanti i consumatori potranno godere di serie televisive e film senza dover aspettare.
Con l’aiuto di Internet mettiamo nelle mani dei consumatori il potere di vederli in qualunque momento, ovunque e su qualunque dispositivo. Niente più attese, niente più confini geografici». Ecco, la rivoluzione oggi è compiuta. Come ben sottolinea nel saggio Che cosa vogliono gli algoritmi (ed. Piccola biblioteca Einaudi. I Maverick, 2018) il docente americano Ed Finn, fondatore del Center for Science and the Imagination dell’Università dell’Arizona, le tre parole chiave sono proprio: «In qualunque momento, ovunque e su qualunque dispositivo». C’è di più. «Netflix (e gli altri a seguire, ndr) mette in pratica – sottolinea Finn – una miscela di produzione creativa hollywoodiana e di analisi alla Silicon Valley per creare un nuovo modello di impegno artistico basato su intense sedute di consumo di media, il cosiddetto binge-watching (ossia le maratone televisive, ndr)». In sintesi: i produttori televisivi creano prodotti in base ai risultati di algoritmi che permettono di identificare cosa piace a un determinato target e sono in grado di incollare lo spettatore al video per un’indigestione di contenuti. Così, come spiega ad «Azione» Massimo Scaglioni, responsabile delle attività di ricerca del Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi dell’Università Cattolica di Milano, le serie tv che i nostri figli guardano si possono inserire in due filoni ben definiti: il teen drama e il fantasy. In Stranger Things, arrivato alla terza serie lo scorso luglio e ambientato negli anni Ottanta nell’immaginaria cittadina di Hawkins nell’Indiana, i 12enni Mike, Dustin e Lucas si
Oggi le serie tv si guardano anche così. (Marka)
mettono sulle tracce del loro migliore amico, Will Byers, scomparso misteriosamente: per trovarlo si fanno aiutare da Eleven, una ragazzina con poteri soprannaturali scappata dal laboratorio segreto Hawkins National Laboratory. Il mistero insieme a sesso, amori, scuola e famiglia, è una costante. Il bel liceale Archie Andrews nella piccola città di Riverdale idealmente ubicata sulla costa Est degli Stati Uniti – e il cui nome dà il titolo a un’altra popolarissima serie Netflix – si trova invischiato nella tragica morte del compagno Jason insieme con gli amici High, Betty, Jughead e la nuova arrivata Veronica di cui s’innamora. E la vita dello studente Scott McCall della Beacon Hills High School, scarsa popolarità e poco successo nella squadra di Lacros-
se della scuola, cambia drasticamente quando, una notte, viene morso, come racconta Teen Wolf, da un lupo mannaro e lo diventa a sua volta. Thirteen - 13 anni invece, nato da una storia vera, racconta il bullismo e il tema del suicidio tramite le vicissitudini di Tracy, tredici anni da studentessa modello, trascinata in un baratro di sesso, droga e crimine dalla nuova amica per la pelle Evie, la più sexy e popolare della scuola. Così sono proprio i giovanissimi i principali consumatori della tv on demand, fino a spingersi, con Il trono di Spade, a guardare gli episodi in lingua originale pur di non aspettare: «Tra i 15 e i 24enni la composizione degli ascolti in inglese è stata al 78%», evidenza Scaglioni che ribadisce: «I contenuti televi-
sivi restano un importante orizzonte di consumo, ma molto più frequentemente secondo modalità differenti rispetto a quelle più tradizionali. L’incidenza dell’on demand è più marcata mentre avanza la disaffezione verso i palinsesti rigidi». Nell’epoca «allyoucanwatch», l’immagine della famiglia seduta a casa a guardare i programmi insieme sembra destinata a tramontare. Ma – ed è la domanda principale del Caffè delle mamme – tutto ciò è un bene per i nostri figli? «Le serie on demand sono impacchettate in modo straordinario ma, a parte rari esempi, rischiano di fornire modelli di visione omologati che ruotano intorno a un immaginario ben definito (gli anni Ottanta, il liceo, il noir, per esempio) che ingaggia gli adolescenti con tempi narrativi perfetti», riflette Simone Arcagni, esperto di cinema e nuovi media e professore all’Università di Palermo: «Ma demonizzare Netflix o Amazon Video non serve a nulla perché semplicemente mettono in evidenza un gap culturale che c’è sempre stato, ma che oggi si manifesta in modo diverso. Forse quel che possiamo fare come genitori è permettere loro di appassionarsi e poi sfruttare, nel senso buono del termine, questa passione anche per allargare i loro orizzonti con film meno omologati. In una sorta di contaminazione di generi». Un altro suggerimento di Arcagni: «La sfida può essere anche cercare di creare momenti di aggregazione intorno alla tv on demand in cui si guarda tutti insieme qualcosa, scelto magari di volta in volta secondo i gusti di ciascuno. Adulti e giovanissimi». Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Nuovi modi di fare notizia
Stampa Messi davanti ad una crisi di settore sensibile e grave, i giornali cercano di recuperare lettori e interesse verso
la professione giornalistica Roberto Porta Portare il giornalismo a teatro. Questa l’idea decisamente singolare della redazione di «Le Temps». In queste settimane il quotidiano romando ha dato il via ad una serie di rappresentazioni teatrali, sei in tutto, per portare il mestiere del giornalista a diretto contatto del pubblico. «Ci abbiamo pensato un bel po’ prima di lanciarci in questa avventura» ci dice Gaël Hürliman, uno dei due capi-redattori del giornale. «Vogliamo avvicinarci sempre di più ai nostri lettori, creare con loro una vera e propria comunità e con essa un senso di appartenenza alla nostra testata. E per farlo crediamo che sia essenziale far capire loro come si muove una redazione. Il lettore usufruisce quotidianamente di quello che i giornalisti scrivono, ma difficilmente riesce ad immaginarsi cosa davvero voglia dire fare questo particolare mestiere». E così una decina di redattori della testata, dopo aver seguito dei corsi di teatro, si è messa a fare anche l’attore, in uno spettacolo itinerante che sta percorrendo l’intera Svizzera romanda per presentare al pubblico la quotidianità della loro redazione. Uno spettacolo costruito ripercorrendo alcuni avvenimenti di cronaca, per capire come la redazione li abbia affrontati dal punto di vista giornalistico, per poi poterli raccontare e spiegare al pubblico. Incidenti, elezioni, scandali grandi e piccoli o semplici notizie curiose. Momenti di vita pubblica che il lettore ha già vissuto
Un momento dello spettacolo Le Temps monte sur scène.
attraverso gli articoli apparsi sul quotidiano, o grazie ad altri mezzi di informazione, e che ora con questo spettacolo teatrale può rivivere attraverso gli attori che interpretano la loro professione e la portano in scena. Un’iniziativa che «Le Temps» ha di fatto ripreso da altre testate straniere, che negli scorsi anni si sono anch’esse impegnate a far conoscere il giornalismo attraverso la recitazione teatrale. «Sentiamo il bisogno» ci dice ancora Gaël Hürliman «di rendere sempre più concreto il nostro lavoro, una visibilità oggi essenziale, visto che viviamo una fase storica ormai dominata dalla realtà
virtuale e dagli algoritmi». E qui arriviamo alla grande sfida con cui il giornalismo si trova ormai da diversi anni a dover fare i conti, quella imposta della grande rete di internet e dai social media. In tutti i Paesi le testate giornalistiche sono cadute, perlomeno in una prima fase iniziale, nella trappola dell’informazione gratuita. Nella rete e tra il pubblico si è così sempre più diffusa l’impressione che ci si potesse informare senza dover pagare nemmeno un centesimo. I contributi giornalistici messi in circolazione su internet però non cadono per nulla dal cielo e sono
prodotti da professionisti che ricevono, come è giusto che sia, una busta paga. Si tratta di costi reali a carico degli editori che la rete non permette ancora di coprire, e questo malgrado la successiva introduzione di abbonamenti, a geometria variabile, anche per i siti online di informazione. Non per nulla l’edizione 2018 dello studio annuale condotto dall’università di Zurigo sulla qualità dei media in Svizzera rileva tra le altre cose che la maggior parte del pubblico non è disposto a pagare per avere delle notizie online. Nel nostro Paese solo il 12% della popolazione dice di aver sottoscritto un abbonamento online nel corso del 2018. Giovani e anziani, si legge in questo documento, si sono ormai abituati alla gratuità delle notizie che si trovano su internet. Ci sono però delle eccezioni o, se volete, delle prime inversioni di tendenza. E qui su tutti spiccano i dati proprio di «Le Temps». Dal gennaio del 2018 la testata romanda ha visto aumentare del 50% il numero degli abbonati alla propria edizione online. «Non riusciamo a dare una sola spiegazione a questa crescita» fa notare Gaël Hürliman. «Possiamo soltanto dire che sta succedendo la stessa cosa ad altre testate molto più blasonate della nostra, “Le Monde” per esempio o il “New York Times”. Abbiamo però cercato di accrescere i nostri abbonati online proponendo diverse forme di pagamento. Dal gennaio di quest’anno siamo noi stessi a decidere quali contributi saranno gratuiti e quali
invece a pagamento. E non si tratta solo di articoli ma anche di piccoli video o di presentazioni grafiche». La redazione è convinta che il fatto di fornire ancora prodotti gratuiti possa essere un valido strumento di marketing per convincere il lettore ad abbonarsi. Con un risultato che la testata definisce storico: per la prima volta gli introiti principali arrivano dai lettori e dagli abbonati e non più dagli inserzionisti. Fino al termine del secolo scorso un quotidiano viveva nella misura del 60% circa grazie agli annunci pubblicitari, il resto era coperto dagli abbonamenti. Oggi, e si tratta di un fenomeno che si manifesta anche in Ticino, la proporzione si sta invertendo, il lettore assume un ruolo sempre più importante. Da qui l’esigenza per le testate di andare sempre più incontro al proprio pubblico. «Le Temps» lo sta facendo addirittura con uno spettacolo teatrale. Tra le redazioni sono inoltre in crescita quella che propongono invece le cosiddette «newsletter» mattutine o serali in cui si riassumono i fatti più significativi della giornata e si avvisa il lettore su ciò che lo aspetta il giorno dopo. Offerta a cui va aggiunta quella di conferenze tematiche o di concerti. È il giornalismo ai tempi di internet, in cui per rimanere a galla occorre accrescere sempre più il legame tra la testata e il lettore. In un contesto che rimane comunque estremamente fragile, perché il concetto di «informazione gratuita» è ancora troppo radicato nella maggior parte dei cittadini/lettori. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni «Chiare, fresche e dolci acque» Molti ricordano, dagli anni di scuola, questo inizio della canzone del Petrarca. Da studenti eravamo forse attirati maggiormente dal verso successivo, dove le «belle membra» di Laura scendono nelle limpide acque della fonte di Vaucluse; ma oggi, con le notizie di disastri ambientali che circolano ininterrottamente nei media e vengono documentate in rapporti mondiali e in pubblicazioni sempre più numerose, l’acqua attrae forse un’attenzione anche maggiore. Non a caso l’acqua viene sempre più spesso chiamata «l’oro blu»: finché se ne ha in abbondanza e la si può sprecare il suo valore è nullo, come per l’aria che respiriamo senza neppure accorgercene; ma ora che minaccia di mancare, diventa preziosa – «oro blu», appunto. Insomma, oro contro oro: perché è per la sete di oro, dei profitti indotti dalla produzione industriale, dallo sfruttamento sfrenato delle risorse naturali che emerge
quest’altro «oro», la cui sete rischia di essere ben più grande e drammatica di quella di denaro. Ora che le ferie estive sono alla fine, molti rientrano dopo aver contemplato l’acqua dei mari o degli oceani, distese immense che solo la linea d’orizzonte delimita. L’acqua è, in effetti, la sostanza più diffusa, occupa i tre quarti della superficie terrestre; ma l’acqua salata dei mari va bene solo per nuotate e crociere, mentre solamente il 2,8 per cento dell’intera massa è acqua dolce; peggio ancora, solo lo 0,3 per cento è potabile, perché la gran parte dell’acqua bevibile è congelata nei ghiacciai e nelle calotte polari, o rinchiusa in falde sotterranee; e comunque il 70 per cento dell’acqua dolce viene utilizzato per l’irrigazione dei campi. In più, sono da considerare i casi di inquinamento di falde idriche, che di tanto in tanto vengono denunciati anche in Europa.
È vero che sui cambiamenti climatici in atto si levano voci discordi: c’è chi ne attribuisce la colpa alle attività umane e chi relativizza o nega. I primi mi sembrano molto più numerosi dei secondi, ma questo non garantisce che abbiano ragione: molte «verità», anche in campo scientifico, sono state smentite nel corso del tempo. C’è però un dato di fatto che non va sottovalutato e del quale non si può dubitare: indipendentemente da responsabilità e colpe, la situazione va peggiorando e le conseguenze che ne derivano sono drammatiche. Già alcuni anni fa mi ero annotato una comunicazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: informava che più di un miliardo e ottocento milioni di persone non potevano usufruire di acqua potabile e che nel mondo, sul finire del Novecento, circa diecimila persone morivano ogni giorno per mancanza d’acqua. La scarsità di acqua potabile potrebbe poi provo-
care guerre locali, com’è già accaduto più volte nel corso degli ultimi cinquant’anni. L’economia africana è fondamentalmente agricola ed è quindi gravemente colpita dalle frequenti siccità (anche se vi si alternano talvolta improvvise e tremende inondazioni, che non risolvono il problema ma producono gravi danni). Vi sono rapporti che rilevano che dal ’68 le precipitazioni sono costantemente diminuite in seguito al riscaldamento atmosferico: il deserto del Sahel si estende progressivamente e il fenomeno rischia drammaticamente di avanzare in vasta parte dell’Africa. Occorre poi tener conto del fatto che l’Africa è il continente con la maggiore crescita demografica: nel 1950 la popolazione era di 230 milioni, ma già nel 1991 superava i 500 milioni; e oggi ha superato il miliardo. Pochi anni fa Giovanni Sartori osservava giustamente che se fossimo ancora un miliardo di persone (com’eravamo alla fine del Settecento) e
se vivessimo in società pre-industriali, il problema ecologico non esisterebbe; ma «in un secolo ci siamo moltiplicati per sei, siamo diventati 6 miliardi e mezzo, e il nostro mondo è tutto prodotto e sostenuto da un’energia che dobbiamo ricavare depauperando la natura». Studi recenti prevedono che nel 2050 la Terra sarà popolata da 9,3 miliardi di persone e che questo incremento sarà dovuto per il 55% ai Paesi in via di sviluppo. La sensibilità per il problema, è vero, aumenta costantemente: negli scorsi giorni abbiamo assistito a cortei di protesta e a sfilate di giovani in difesa della natura e del clima; forse qualcosa cambierà, si giungerà a nuovi accordi internazionali che magari saranno rispettati più di quanto è avvenuto con gli accordi precedenti, come quelli di Kyoto e di Durban. O forse continueremo a lavarcene le mani. Ma con che cosa, se saremo rimasti senz’acqua?
una gamma di altri colori come oro, rosa, rosso verde, giallo senape, con i quali, sono dipinte minuscole scenette cineseggianti. Qui una pagoda, là una palma. Mentre su una delle due pareti oblique che nascondono due armadi, c’è un albero fantastico dove a cavalcioni di un ramo vedo il primo cinese. Con un arco in mano, lì accanto vola un drago. Più in alto uno strano insetto svolazza attorno a curiose bacche e fiori inventati. Hugh Honour (1927-2016), uno dei massimi esperti del classicismo nato nel Sussex e morto nella campagna lucchese, nel libro citato prima, mette subito in chiaro che «la cineseria è uno stile europeo, e non un inesperto tentativo di imitare le arti cinesi, secondo l’ipotesi avanzata da qualche sinologo». Neanche a dirlo, la sinologa presente, oltre a interrompere le fantasticherie di ognuno, proprio adesso dice appunto qualcosa sull’imitazione ingenua della Cina. Conferma almeno la pista più probabile per il committente, verso il 1730, di questa meravigliosa stanza : Paul de Froment (1664-1737). Pigro
governatore di Neuchâtel per conto della Prussia. Tra ricami, ornamenti, uccelli esoticheggianti, nei medaglioni al centro delle pareti suddivise in otto riquadri, sfilano otto personaggi cinesi. Tra i quali un fumatore di pipa e uno che fa un kowtow, l’inchino reverenziale classico da mal di schiena. L’ultimo cinese stupisce: è un vendemmiatore. Strizzata d’occhio di uno degli ignoti ornamentisti. Il fumatore di pipa e quello che s’inchina sono stati rintracciati, identici, su un piatto in porcellana di Meissen del 1720. Su in alto, sopra le scenette dei cinesi, sfilano dei paesaggi non asiatici che ricordano molto le porcellane bianche e blu di Delft nate a metà Seicento ispirate dallo stile della dinastia Ming sbocciato nel 1368. Sul soffitto sono raffigurati i cinque sensi, sono sotto l’olfatto. Un principe annusa una rosa con per terra una specie di lampada di Aladino. Una scimmia seduta su un ricamo blu, lo scimmiotta stoppandosi il naso. Guardando fuori dalla finestra, la vista è pervasa dalle fronde lungimiranti del tiglio.
si pone domande di tipo etico e morale indagando quali sono nel campo dell’IA i confini tra scienza, storia, politica, pregiudizio e ideologia e chi ha il potere di costruire questi sistemi traendone i relativi benefici. Ancora una volta, guardando al prossimo futuro, vediamo su quale terreno paludoso ci muoviamo e iniziative come questa sono preziose per capire e creare consapevolezza. Ci rendiamo conto, ad esempio, di quale impatto sull’ambiente hanno l’IA e la raccolta dati? Ben Tarnoff qualche giorno fa sul «Guardian» diceva che la cosa migliore per comprendere la correlazione tra dati e clima è iniziare dall’apprendimento automatico. L’apprendimento automatico impara esercitandosi su un enorme quantitativo di dati, significa che per decifrare un volto deve prima guardare e immagazzinare un milione di immagini di facce umane. Questo enorme processo di acquisizione dati avviene all’interno di enormi data center consumando moltissima elettricità e bruciando grandi quantità di combusti-
bile fossile. Una recente ricerca dell’Università del Massachusetts ha rilevato che l’esercizio per l’apprendimento del linguaggio naturale – pensiamo agli assistenti virtuali come Alexa – produce una quantità di diossido di carbonio pari a 125 voli, andata e ritorno, New York - Pechino. Soltanto Google conta 19 data center sparsi in tutto il mondo ed è proprio di questi giorni la buona notizia che l’azienda investirà 2 miliardi in energia rinnovabile in un’iniziativa che prevede 18 accordi separati per fornire a Google elettricità da progetti eolici e solari in tutto il mondo. Pensate che il più grande data center in assoluto è quello di Switch in Nevada che occupa 3,5 milioni di piedi quadrati più o meno 60 campi di football americano. Fate i conti e stupitevi dell’impatto del digitale sull’ambiente. Di certo, se non saremo intelligenti abbastanza, la digitalizzazione ci fagociterà. Più grande diventerà il mondo dei dati più piccolo sarà il nostro spazio vitale.
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf La camera cinese di Cressier Il tiglio domina la scena, elevandosi maestoso e disinteressato al di sopra delle mura che cingono il giardino della casa Jeanneret a Cressier. Villaggio viticolo a nove minuti di treno da Neuchâtel confondibile con Crissier, comune vicino a Losanna noto per un ristorante reso famoso a metà degli anni settanta da Frédy Girardet. La tartaruga, per via di tutto questo trambusto inconsueto una domenica mattina di settembre, si è nascosta da qualche parte in fondo al giardino. Con la porta aperta del giardino concluso che dà sulla strada, i coniugi Martine Jeanneret e Lova Golovtchiner hanno paura che scappi e si smarrisca come succede spesso a tante tartarughe domestiche. Eccezionalmente il luogo del giorno è una casa privata, la cui gloria maggiore è il suo salon chinois: una rarità assoluta in Svizzera. Moda scoppiata nelle corti europee verso la metà del Settecento, la cineseria sembra non aver attecchito troppo in terra elvetica. L’unico posto, a sorpresa, è questa antica casa vinicola a ridosso del Giura neocastellano che
prende il nome dal pittore Gustave Jeanneret (1847-1927), visitabile oggi in occasione delle Giornate europee del patrimonio. «La più strana moda esotica che sia mai passata attraverso l’Europa» – come ho trovato scritto nel piacevolissimo libro intitolato L’arte della cineseria (1961) di Hugh Honour – ha lasciato così una considerevole traccia al primo piano di questa casa all’angolo di rue Gustave Jeanneret e rue Laurent Péroud. Dove alle dieci in punto si è già formata una bella coda. «Il y a tout Cressier» dice uno accanto a me alla moglie. L’ultima volta che si poteva visitare la camera cinese è stata infatti molti anni fa. «Nessuno è andato a messa stamattina» dice ancora il signore su di giri guardandosi intorno. «Gridalo ancora più forte» ribatte la moglie al marito spiritosone. Si entra in gruppi di venti. Un primo gruppo è già dentro, il secondo entra ora, entro di sicuro con il prossimo visto che sono nelle prime posizioni. Dal portone aperto, intanto, il tiglio ultracentenario cattura di nuovo tutta la mia attenzio-
ne. Emana una calma magistrale. Utile per la tiritera imparata a memoria della giovane guida comunque volonterosa. Scene di vendemmia con gesti antichi perduti, sono dipinte sulle mura al pianterreno. È la sala da pranzo, rivestita di legno tipo tinello, dipinta tutta da Gustave Jeanneret che con sua moglie Emma acquista questa casa nel 1888. Un tempo qui c’era il torchio per l’uva. Uva bianca viene rovesciata in un tino da due uomini che si piegano con la loro gerla, sullo sfondo il lago di Bienne. Distante solo tre chilometri da qui. Nonostante l’alta qualità di questi dipinti, la curiosità per la camera cinese cresce. Salgo la scala a chiocciola scricchiolante e al primo piano, dopo non molti passi, entriamo in un altro mondo. La camera cinese di Cressier (436 m), a un primo sguardo d’insieme, sembra fatta con le parti esterne, ingigantite e rimontate all’inverso, di una teiera di porcellana bianca ornamentata in blu. Avvicinandosi poi alle pareti di legno spennellato in color avorio, tra lambrecchini e arabeschi bluastri, si scopre
La società connessa di Natascha Fioretti Digitalizzazione e spazio vitale Alla Fondazione Prada di Milano fino a febbraio 2020 è in corso una mostra molto interessante dal titolo Training Humans concepita e realizzata da due figure impegnate a decifrare e a comprendere alcuni fenomeni chiave del nostro tempo. Kate Crawford, professoressa e ricercatrice, è molto attenta all’impatto sociale della gestione dati, dell’apprendimento automatico e dell’intelligenza artificiale ed è direttrice e confondatrice dell’AI Now Institute alla New York University.
Trevor Paglen è artista, geografo, autore e giornalista investigativo americano e si occupa di sorveglianza di massa e raccolta dati. Insieme hanno dato vita a una mostra dedicata a immagini di training: repertori di fotografie utilizzate dagli scienziati per insegnare ai sistemi di intelligenza artificiale come vedere e classificare il mondo. I due autori raccontano la storia delle immagini utilizzate per il riconoscimento di esseri umani nel settore della computer vision
I data center consumano enormi quantità di elettricità. (Wikimedia)
e dei sistemi di intelligenza artificiale analizzando due tematiche centrali. La prima riguarda la rappresentazione, l’interpretazione e la codificazione degli esseri umani attraverso dataset di training e le modalità con cui i sistemi tecnologici raccolgono, etichettano e utilizzano questi materiali. La seconda si concentra sui sistemi di classificazione basati sugli affetti e le emozioni supportati dalle teorie di Paul Ekman. Secondo lo psicologo la varietà dei sentimenti umani può essere ridotta a sei stati emotivi universali: paura, rabbia, tristezza, gioia, sorpresa e disgusto. Come è possibile? Stando ai risultati delle sue ricerche le modalità di espressione facciale delle emozioni non sono determinate dalla cultura di un luogo o dalle tradizioni ma sono universali perché di origine biologica. Capite anche voi quale rischio corriamo se dipendiamo e veniamo etichettati da una macchina secondo questi sei stati emotivi. La mostra non si limita a raccontare ma
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 settembre 2019 • N. 40
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Ambiente e Benessere Studiare i ghiacciai Questi biotopi naturali vedono la loro esistenza messa in crisi dai cambiamenti climatici
Ritorno alle origini Nascono guide e agenzie di viaggio per soddisfare il desiderio di visitare l’Africa da parte dei turisti di colore
Variazioni sul Sudoku Lo schema quadrato del famoso passatempo giapponese si presta a curiose varianti letterali pagina 27
Un miracolo del basket Anche un paese di 2500 abitanti può avere la squadra in serie A: succede a Riva San Vitale
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Il primo respiro
Sanità La medicina al servizio dell’intimità
individuale di maternità e nascita
Maria Grazia Buletti Quel particolare momento della giornata che si manifesta durante il crepuscolo, all’alba e al tramonto, è la congiunzione naturale dell’ora blu. Da qui prende spunto il Ciclo di conferenze pubbliche che si terranno a cadenza regolare alla Clinica Sant’Anna di Sorengo e ideato dalle dottoresse Petra Donati Genet e Cari Platis R. «L’ora blu: un altro modo per parlare di medicina» sono serate di incontro e dialogo aperte a tutti e, di volta in volta, toccheranno differenti temi medici con lo scopo di creare un punto di incontro fra popolazione, medici ed esperti di diverse specialità. «Vogliamo rispondere alle domande sempre più complesse del nostro tempo e desideriamo provare ad offrire possibili chiavi di interpretazione per avanzare in questo specifico momento storico», affermano entrambe le professioniste, che caratterizzano gli obiettivi delle conferenze a tema con l’intento di creare dialogo fra la medicina («che deve poggiare sulle evidenze scientifiche») e la popolazione: «L’intento è di creare un ponte i cui mattoni principali sono rappresentati dal dialogo e dalla fiducia reciproca». Con le nostre interlocutrici focalizziamo il primo di questi appuntamenti che sarà mercoledì 2 ottobre alla Clinica Sant’Anna di Sorengo. L’argomento in programma sarà: «Quello che nessuno vi ha mai detto sulla maternità». La serata sarà caratterizzata da una sorta di tavola rotonda che include la partecipazione del pubblico e sarà articolata dagli interventi dello specialista in ginecologia e ostetricia Jeffrey Pedrazzoli, dalla specialista in pediatria e neonatologia Petra Donati Genet, dalla specialista in anestesiologia Cari Platis R. e dalle ostetriche Maria Brovelli e Maria Calebasso. Queste sono d’altronde le figure professionali che i futuri genitori impareranno a conoscere, e dalle quali saranno accompagnati fino a quel momento indimenticabile che sarà la nascita del loro bambino. «Il ginecologo è colui che dall’inizio instaura il rapporto di fiducia con la donna, se-
guendola per i nove mesi», spiega la dottoressa Donati, alla quale si associa la dottoressa Platis che ci ricorda come durante tutta la gravidanza fra i compiti del ginecologo c’è quello di permettere alla donna di fare la conoscenza del bambino («attraverso l’ecografia, ad esempio»): «È dunque, in un certo senso, la figura maschile a cui si affiancano le ostetriche che, pur non disponendo di quel plusvalore dovuto all’ultrasuono, rappresentano la figura femminile che può mettere però a disposizione più tempo per accogliere e parlare con le future mamme. Mamme che poi conosceranno la pediatra neonatologa in occasione di uno di quegli incontri. Infine, l’anestesista arriverà in sala parto per quelle donne che sceglieranno di sottoporsi all’anestesia peridurale». Quante volte a un uomo può capitare nella vita di vedere venire al mondo suo figlio? Quale grado di consapevolezza di tutto quanto sta accadendo in quei nove mesi accompagna la futura madre lungo l’arco della gravidanza? Quali i dubbi? Le domande? Cosa succede davvero nel mettere al mondo un figlio? Si è consapevoli e si vive davvero il presente della verità di un evento così unico e reale come quello della nascita? «Sono tutte domande pertinenti che ci riportano alla dimensione del presente e perciò meritano attenzione. Non dimentichiamo che la nostra società sta fluttuando immersa in una realtà sempre più virtuale e non fanno eccezione i futuri genitori che faticano a trovare un aggancio fra l’idea, l’idealizzazione che si fanno del parto e del bambino e la realtà effettiva dell’evento», puntualizza la dottoressa Donati. Sono riflessioni e plausibili risposte a queste domande che si aprono a ventaglio sul «Primo respiro», un concetto dell’unicità della nascita che ci accomuna tutti quanti: «In ogni angolo della Terra, in tutte le culture, c’è un momento unico e universale: la nascita, la storia di tutti noi». Questo basta a comprendere che andrebbe vissuto nel presente e nella realtà del momento, ma non sempre accade così. «È importante creare un rapporto di fiducia fra noi e le future mamme che potrebbero aver idealizzato il par-
Le dottoresse Cari Platis R. (a sinistra) e Petra Donati Genet. (Vincenzo Cammarata)
to come un evento che poi le deluderà se non dovesse svolgersi come avevano immaginato», afferma Donati, mentre Platis ribadisce la sensazione di uno scollamento tra realtà e virtuale che impedisce alle future mamme di disporre degli strumenti necessari ad affrontare la situazione: «Ad esempio, in sala parto tutto avviene così in fretta che esse spesso pare non siano in grado di gestire il contesto reale, provando così maggiore fatica e disorientamento». Ed è qui che il creare quel ponte chiamato dialogo e fiducia con i medici assume un senso profondo. Emerge sempre più chiaramente la bontà dell’intento della serata pubblica che permetterà ai medici di porgere la mano e il sostegno necessario affinché
ciò non avvenga, e il parto sia vissuto anche nella sala parto di una struttura ospedaliera («che oggi assicura un rischio diminuito») nella sua pienezza e nell’intimità che merita. «Sia chiaro che non c’è ombra di giudizio, ma desideriamo creare un dialogo nell’interesse di tutti: abbiamo compreso il trend sociale al quale ci adattiamo mettendo a disposizione il ragionamento che sta dietro le nostre decisioni di competenza medica», affermano all’unisono. «Ciascuna donna merita di creare un rapporto con i medici in cui sia considerata individualmente e secondo le cure che necessita; a tutte vogliamo dire che interesse di tutti è quello di dare al mondo figli sani e via dicendo». Non mancheranno i punti di vista e
le esperienze riguardo alla ciclicità delle tendenze sul parto, al senso della presenza del padre in sala parto, al suo ruolo genitoriale e di sostegno alla donna, così come non potrà mancare la discussione sulla tecnologia sempre più presente in sala parto, spesso a fare da filtro ai momenti più reali e irripetibili della nascita di un figlio, in una situazione che vede tutti concentrati a fotografare gli attimi, a comunicare attraverso il telefonino, mentre il bambino emetterà il suo primo (questo sì reale) vagito. Quello che nessuno vi ha mai detto sulla maternità, per ascoltare e dire la vostra: medici e ostetriche vi aspettano mercoledì 2 ottobre, alle 18.30 alla Clinica Sant’Anna (Sala conferenze stabile Villa Anna 2), ingresso libero.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 settembre 2019 • N. 40
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Ambiente e Benessere
Anche i ghiacciai narrano la storia Glaciologia Le Alpi? Con 12 tunnel ferroviari, 6 tunnel stradali, 19 valichi stradali, oggi sono il sistema montuoso
più trafficato del Mondo, ma già alla fine del IV millennio a.C. non erano più una barriera insuperabile – 1. parte
Alessandro Focarile Le Alpi: 220mila chilometri quadrati, 11 milioni di abitanti ripartiti in 7 Stati: Francia, Svizzera, Liechtenstein, Italia, Germania (Baviera), Austria, Slovenia, da Nizza alle porte di Vienna. In passato, barriera e luoghi di guerre e di scontri; oggi, un attivo spazio di passaggio e di presenza umana. Con 12 tunnel ferroviari, 6 tunnel stradali, 19 valichi stradali, è il sistema montuoso più trafficato del Mondo.
È prevista la scomparsa dei ghiacciai alpini entro il 2100, solo le più alte calotte dei Monti Bianco e Rosa sopra i 3500 metri forse resisteranno Ma già in passato è stato molto utilizzato; solo che la storia si ripete, come capita spesso, in modo più amplificato. Durante l’ultima recrudescenza glaciale (Würm, 25mila anni or sono) il manto glaciale ricopre gran parte delle Alpi, lasciando scoperto un ampio reticolo di creste emergenti. Creste sufficientemente ampie alla periferia meridionale delle Alpi, dove sviluppano un sistema di «massicci di rifugio», e dove si conserva la flora e la fauna, dando origine all’attuale situazione ecologica e geografica. Durante il massimo della glaciazione würmiana, gli apparati glaciali raggiungono spesso la pianura padana con le loro fronti moreniche, dal Friuli al Piemonte. Per contro, durante la massima espansione della «piccola era glaciale», circa nel 1860, i ghiacciai alpini occupano una superficie di 4500 chilometri quadrati. Attualmente (Luca Mercalli, 24 luglio 2019) questa superficie si è ridotta a 1800 chilometri quadrati, cioè del 60 per cento. È prevista la scomparsa dei ghiacciai alpini entro il 2100. Resteranno soltanto le più alte calotte del Monte Bianco e del Monte Rosa oltre i 3500 metri. Il ghiacciaio è una dinamica entità geografica dipendente da favorevoli condizioni climatiche tributarie dell’altitudine e della latitudine. Ogni ghiacciaio ha una sua storia da raccontare, sia che esso esista tuttora, oppure sia scomparso più o meno totalmente mettendo allo scoperto preziose e spesso arcaiche testimonianze del passato, che risalgono talvolta a decine di milioni di anni fa, come le impronte di dinosauri scoperte a 3390 metri sul Piz Ela («Azione», 5 agosto 2019). Permettendo, grazie al suo dinamismo, il ritorno di vegetali e animali come i fiori al Colle del Teòdulo sul Monte Rosa, dopo diversi secoli di deserto glaciale.
Vista sul massiccio del Monte Bianco dal Monte Rutor, Valle d’Aosta. (Keystone)
La deglaciazione post-würmiana (15mila-10mila anni da oggi – Before Present = BP), a seconda delle regioni alpine, produce diverse conseguenze. In poche migliaia di anni tutti i ghiacciai alpini si sciolgono in gran parte fino a una certa quota, lasciando i territori in una caotica situazione ambientale. Il Lago Maggiore (Verbano) si estende fino a oltre Bellinzona. Sulla superficie delle sue acque galleggiano blocchi di ghiaccio staccatisi progressivamente dalla fronte glaciale. Le pendici delle montagne sono occupate da materiale morenico instabile e di differente calibro che per gravità precipita a valle, causando rovinose frane, sia in epoca storica (Anzonico, Buzza di Biasca), sia in epoca recente (Motto d’Arbigo, Vallegiun). Le masse di detriti modellano i fondivalle (pianure alluvionali), fino a raggiungere notevoli spessori (da 200 a 400 metri) in Valtellina, Riviera, Valle Maggia, la piana di Bellinzona, nella valle del Rodano e in Valle d’Aosta. Dopo la caotica deglaciazione, lentamente si instaura un lungo periodo climaticamente più caldo – fino a 16.5°C: questo periodo, detto Atlantico, dura tra 7500 e 5000 anni BP. Tra le testimonianze più interessanti, la scoperta della mummia di Oetzi, la cui età
è stata datata 5400 anni BP, nel Tirolo tra Austria e Italia: questo ritrovamento ha fatto molta sensazione all’epoca (1991), quando le nostre conoscenze sull’homo alpinus erano molto frammentarie e discutibili. «Già alla fine del quarto millennio avanti Cristo (ndr: cioè 6mila anni BP), la montagna non era più una barriera insuperabile. Essa attirava pastori, esploratori e pellegrini, i quali attraverso i colli transitavano da una regione all’altra» (Camanni, 2017). Oetzi è un uomo moderno. Ha un copricapo in pelo d’orso, ha un pugnale, e il necessario per accendere un focherello, prima di intraprendere il passaggio del periglioso ghiacciaio di Similaun, a quasi tremila metri di altezza. Verosimilmente, lo sviluppo dei ghiacciai a quell’epoca è diverso nelle Alpi orientali rispetto a quello nelle Alpi occidentali, secondo i climatologi. La mummia di Oetzi non avrebbe potuto conservarsi, poiché molto più tardi durante l’optimum termico medievale (800-1450) in quelle regioni alpine avrebbe comportato lo scioglimento del ghiacciaio di Similaun e la conseguente perdita di Oetzi. Evenienza che non si è realizzata, poiché, nelle Alpi orientali, mai i ghiacciai raggiungeranno la situazione attuale di massimo ritiro.
Successivamente (3500-2500 anni BP), le testimonianze sulla presenza umana nelle Alpi è documentata grazie ai ritrovamenti nelle Alpi vallesane (Zermatt), nell’Oberland bernese, e in Valle d’Aosta (Orgère, Mont-Fallère). Tra le alte montagne Graie della Valle d’Aosta spicca il Rutor; 3486 metri, ai confini con la Francia. Nella lingua della valle (il patois franco-provenzale) il toponimo significa ru = ruscello, corso d’acqua, e tor = il cui defluire è tortuoso, serpeggiante. Durante il mite periodo Atlantico, le regioni elevate del Rutor, fino a 3000 metri, sono ricoperte da una ubertosa prateria alpina, e il limite superiore del bosco giunge fino a 2400 metri rispetto a quello attuale. A 2530 metri verrà scoperto un banco di torba (parte di una torbiera di diversi ettari), contenente pollini analizzati e datati da Armando & Peretti (1972). È stato possibile documentare l’esistenza di un bosco di abete bianco (faggio), tiglio e ontano (non verde, giunto molto più tardivamente). Nei millenni successivi, come tratteremo nella seconda parte, e cioè durante la «piccola era glaciale» (14501860), la regione elevata del Rutor è ricoperta da un maestoso ghiacciaio a mantello che discende fino a 2200 metri. Dopo il periodo Atlantico, e cioè tra
5000 e 2500 anni BP, si instaura una fase che conosce temperature comprese tra 14,5°C e 14°C: fresco e umido, con aumento del glacialismo e formazione di numerose torbiere. Le analisi polliniche fatte a Piora-Cadagno nel Cantone Ticino documentano una regressione del bosco anche per cause antropiche. L’uomo scopre il ferro ottenuto per fusione. Questo fatto molto importante comporta un notevole disboscamento e distruzione del manto boschivo. Dopo il 2500 BP si ha un graduale aumento della temperatura, e il progressivo aumento che preannunzia «l’optimum termico di era romana» che vede il suo apogeo intorno a 2mila anni BP, ed entriamo nel periodo «Sub-atlantico» durante il quale si concretizza l’affermarsi del dominio romano anche nelle Alpi. I ghiacciai sono lontani e diffusi molto in alto. Annibale valica le Alpi piemontesi con i suoi elefanti, e in seguito a un viaggio di 1500 chilometri e dopo aver guadato 15 fiumi appenninici, sconfigge i Romani a Canne (218 avanti Cristo), in Puglia. A Turbie, a Nord di Nizza nella Francia meridionale, viene eretto un grandioso monumento alto 50 metri in onore dell’imperatore Augusto, alla cui base sono elencati 45 popoli alpini sottomessi ai Romani. Grazie alle analisi polliniche effettuate al Colle Gnifetti, 4550 metri sul Monte Rosa, apprendiamo che intorno al 536-540, e a seguito di una violenta eruzione vulcanica in Islanda, il cielo venne oscurato per 18 mesi a causa di una nube di ceneri vulcaniche, con una sensibile diminuzione della temperatura: 18 mesi senza sole! (McCormick & Majevski 2015). Bibliografia
Un laghetto alpino nella regione del Rutor, Valle d’Aosta. (Keystone)
Le Alpi come luogo di transito: la strada del Ploeckenpass, in Austria. (Keystone)
G. Armando & L. Peretti. Su taluni aspetti del clima e dell’ambiente naturale del Piemonte (recte Valle d’Aosta!) nord-occidentale nell’Olocene medio (Atlantico) alla luce del recente ritrovamento di torba entro la morena deposta alla fronte attuale del ghiacciaio del Rutor (Valle d’Aosta). Allionia (Torino), 1972 - 18:167-177
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Ambiente e Benessere
Per dimagrire davvero non basta una dieta La nutrizionista Perdere peso stabilmente implica un nuovo
atteggiamento mentale e un diverso rapporto con il cibo Cara Laura, leggo sempre con interesse, dunque so che consiglia spesso di ascoltare il proprio corpo e di non privarsi di cose che desideriamo ma di avere misura. Circa. Eppure le diete, e ce ne sono sempre una qualcuna di moda, a volte sembrano davvero miracolose, ad esempio mi chiedo quanto ci sia di vero in quella che elimina per un periodo di tempo tutti i carboidrati, poi tutti gli zuccheri, a rotazione, per mangiare solo proteine più spesso di quanto di solito non si debba fare per stare in salute. Insomma una dieta di sole proteine fa davvero dimagrire? O poi appena si ricomincia a mangiare carboidrati si ingrassa in un colpo solo, ad esempio? Cordiali saluti. / Sasha Caro Sasha, ti ringrazio molto per l’interesse, fa sempre piacere sapere che qualcuno apprezza i miei articoli. È vero e lo ribadisco: in una sana alimentazione e all’infuori di un contesto patologico (diabete, intolleranze, malattie renali ecc), non ci si deve privare di nulla, si può tutto, secondo i propri gusti, ma senza esagerare. Lo stesso discorso vale anche per la perdita di peso e funziona! Come possono funzionare le diete ad alto contenuto proteico e a basso contenuto di carboidrati tipo l’Atkins e la Zona…ma allora perché spesso, dopo aver perso del peso, lo si recupera? È colpa dei carboidrati? Un passo alla vol-
ta, inizio a spiegare il meccanismo dietro alle diete iperproteiche. Quando togliamo i carboidrati si nota effettivamente una perdita di peso, ma attenzione: non è grasso, è acqua. I carboidrati sono immagazzinati nel corpo sotto forma di glicogeno, ogni grammo accumula da tre a quattro volte il suo peso in acqua. Quando tagliamo i carboidrati, si inizia quindi a utilizzare il glicogeno con conseguente perdita di acqua con cui è legato. I carboidrati sono la principale fonte di energia per il corpo. Se non si consumano abbastanza carboidrati come fonte energetica il corpo scompone il grasso in chetoni. I chetoni diventano quindi la fonte primaria di carburante per il corpo e si può perdere peso. Quando i chetoni diventano la fonte primaria di carburante, questo mette il tuo corpo in uno stato chiamato chetosi. La chetosi può rendere la perdita di peso più facile perché ci si sente meno affamati ma può causare mal di testa temporanei, irritabilità, nausea, alito cattivo, problemi di sonno e stanchezza, debolezza e vertigini. Altri rischi per la salute di un alto consumo di proteine potrebbero essere un aumento del colesterolo cattivo (cf. il mio articolo su «Azione9», 25/2/19) soprattutto se ci si butta a capofitto su fonti di origini animali grassi, carni rosse, salumi, latticini da latte intero col pericolo pure che aumenti il rischio di malattie cardiache. Anche i reni ne potrebbero soffrire e
alcuni esperti ritengono che quando si segua una dieta ricca di proteine, si urini più calcio del normale col pericolo di osteoporosi e calcoli renali. Togliendo i carboidrati possono diminuire anche le quantità di fibre assunte con conseguenti problemi gastrointestinali. Un altro problema delle diete ristrette sta nel rapportarsi col mondo esterno, inviti da amici e parenti, cene fuori, come ci si comporta? Fino a che punto si è disposti magari a rinunciare? E quando si è stufi? Con diete così estreme quando si ricominciano a mangiare carboidrati la lunga astinenza può aumentare il rischio di un’abbuffata con forte probabilità di instaurare un effetto yo-yo. Come mantenere la perdita di peso se si ricade nelle vecchie e cattive abitudini? Dimagrire è molto più complesso di quanto si pensi perché si deve cambiare atteggiamento mentale nel rapporto col cibo. È un percorso che si deve intraprendere al 100% scegliendo la strada più corretta per se stessi e sempre accompagnati dal giusto professionista.
Mondoverde Provenienti dall’Asia, erano
piante utilizzate nelle funzioni religiose Anita Negretti I clerodendri sono piante originarie di Asia ed Africa, con grandi foglie e fiori con bacche dalla forma di stella. Alte fino a 9 metri, vengono utilizzati nei parchi e nei giardini ampi per creare zone ombrose sotto le quali fermarsi nelle calde giornate estive. Arrivate in Europa alla fine del 1700, devono il loro curioso e complicato nome a Linneo, che coniò per loro la nomenclatura legata a Kleros (clero) e dendron (albero), ovvero piante utilizzate durante le funzioni religiose e nello specifico nelle messe delle popolazioni cingalesi. Tra le varie specie in vendita si trova però una curiosa eccezione che ha
Informazioni
Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch
davesgarden.com
Laura Botticelli
Un clerodendro da casa
Ama posizioni luminose.
il pregio di avere un’ altezza modesta e soprattutto una bella fioritura invernale, da accompagnare a quella della arcinota Stella di Natale o ai sempre allegri ciclamini. Si tratta di Clerodendrum laevifolium «Prospero» (sinonimo di C. wallichii «Prospero»), di origine orticola, caratterizzato dal fatto di essere un sempreverde con foglie semplici, verdi intense e lucide. Alto non più di 40-50 cm, nel corso di vari anni può raggiungere il metro e si presenta con fiori bianchi disposti in lunghi grappoli cascanti, simili a quelli dei glicini che sbocciano in autunno fino alle festività natalizie. Amanti di posizioni luminose ma non di raggi diretti del sole, si sviluppano bene con temperature tra i 18 ed i 22°C, deperendo però sotto i 12°C. Bagnate un paio di volte alla settimana, queste belle e decorative piante si mantengono in ottima salute, soprattutto se da fine agosto e per tutto il periodo della fioritura vengono concimate regolarmente con prodotti liquidi dall’alto titolo di fosforo. Al termine dell’inverno, tra fine febbraio e marzo è utile accorciare i rami vecchi o che seguono crescite scomposte, in maniera tale da poter ottenere una chioma sempre compatta, mentre con l’arrivo delle prime giornate calde primaverili si possono trasferire all’esterno al riparo dal sole diretto.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 settembre 2019 • N. 40
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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana
Torrone Dessert Ingredienti per 4 persone: 130 g di mandorle · 130 g di nocciole · 40 g di albume ·
1 presa di sale · 250 g di zucchero · 120 g di miele liquido · 50 g d’acqua · 1 c di pasta di vaniglia · ¼ di c di cannella in polvere
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
1. Scaldate il forno a 160 °C e tostatevi le mandorle e le nocciole per ca. 10 minuti. Tritate grossolanamente 30 g sia di mandorle sia di nocciole e mettetele da parte. Montate gli albumi ben fermi. Unite a pioggia 20 g di zucchero e continuate a montare, finché la massa brilla. 2. Fate ridurre in sciroppo lo zucchero rimasto con il resto degli ingredienti a fuoco medio, finché il liquido, alla temperatura esatta di 145 °C, non diventa leggermente scuro. Incorporate a filo lo sciroppo caldo agli albumi e continuate a mescolare con uno sbattitore elettrico per ca. 3 minuti, finché la massa non diventa più densa. Incorporate la frutta secca. Distribuite subito la massa in una teglia foderata con carta da forno e appiattitela con il matterello. Distribuite sulla superficie il trito messo da parte. Lasciate indurire il torrone per tutta la notte in un luogo fresco. 3. Con un coltello affilato tagliate il torrone a pezzetti di ca. 2 × 3 cm. Avvolgeteli nel cellofan o nella carta cerata. In un luogo fresco e asciutto il torrone si conserva per più settimane.
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AMORE A PRIMO MORSO – IN CHE MODO LA CUCINA TAILANDESE ENTUSIASMIAMO DA 25 ANNI Da molto tempo non possiamo più fare a meno della cucina tailandese. Che siano dolci, acidi o piccanti, grazie a Thai Kitchen la Svizzera ha scoperto il gusto degli autentici piatti tailandesi. Un legame d’amore culinario che quest’anno festeggia i suoi 25 anni. Già da un quarto di secolo Thai Kitchen è sinonimo in Svizzera di cucina tailandese autentica e di alta qualità. Grazie ai prodotti Thai Kitchen è stato innanzitutto possibile portare profumo di Tailandia nelle nostre case, senza essere costretti a prendere alcun volo. La leggenda che la cucina tailandese sia limitata alla propria piccantezza è stata confutata da un’ampia gamma di prodotti, classificati secondo l’intensità. Tuttavia non è solamente l’offerta variegata che rende Thai Kitchen un marchio irresistibile e così di successo. In particolare, la scelta accurata degli ingredienti naturali riesce a portare nelle nostre cucine il vero sapore della Tailandia. In tal modo numerose ricette sono diventate tradizionali ricette di famiglia. Uno degli ingredienti principali della cucina tailandese è il latte di cocco, che conferisce al famoso curry tailandese il suo ben noto sapore cremoso. Il segreto è nell’unicità delle sue qualità: la noce di cocco è caratterizzata da una naturale
dolcezza e da un minore contenuto di zucchero, inoltre il suo latte è privo di lattosio. Proprio per questo motivo è spesso e volentieri utilizzato anche nella cucina vegana. Il latte di cocco ha un peso importante anche per Thai Kitchen; durante la sua produzione vengono utilizzati solo ingredienti naturali senza alcuna aggiunta. Una vera e genuina squisitezza! Per garantire una qualità di prodotto costante durante questi 25 anni, Thai Kitchen lavora anche in collaborazione con gli agricoltori in Tailandia. Tale cooperazione risulta molto fruttuosa, poiché Thai Kitchen supporta anche diversi progetti a sfondo sociale ed ecologico, come l’inserimento e la cura di nuove palme. Grazie a questo impegno, la popolazione locale ha la possibilità di produrre in modo sostenibile e di ricevere un reddito sicuro a lungo termine. In questo modo possiamo godere della cucina tailandese in Svizzera anche nei prossimi 25 anni.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 settembre 2019 • N. 40
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Ambiente e Benessere
L’anno del ritorno
Quando il destino spezza la rotta
Viaggiatori d’Occidente Dall’Alabama al Ghana, inseguendo le ombre del passato
Bussole Inviti a
Claudio Visentin Timothy Meaher, armatore e ricco proprietario terriero di Mobile, Alabama, era sicuro del fatto suo quando propose una scommessa da mille dollari: avrebbe fatto giungere un carico di schiavi dall’Africa, come si faceva una volta. Non era un’impresa da poco: se nell’Alabama del 1860 la schiavitù era ancora permessa, il commercio degli schiavi era però severamente proibito da oltre mezzo secolo, sin dal lontano 1808. Timothy Meaher affidò la sua veloce goletta «Clotilda» al capitano William Foster. Foster fece rotta verso il famoso porto degli schiavi di Ouidah, nel Regno del Dahomey (l’attuale Benin). In un suo affascinante libro (Il viceré di Ouidah, Adelphi) Bruce Chatwin ha raccontato le imprese di un negriero dell’Ottocento di origine brasiliana, Dom Francisco da Silva, ambientate proprio in quella città. Nel maggio 1860 il capitano Foster lasciò l’Africa occidentale con centodieci tra giovani uomini, donne e bambini. Riuscì astutamente a sfuggire ai controlli della flotta inglese, padrona dell’Atlantico, e a passare sotto il naso degli ufficiali federali, per poi approdare a Mobile. Una ragazza morì durante il viaggio di sei settimane per le dure condizioni di vita a bordo, ma il resto del carico, acquistato per novemila dollari in oro, fu venduto per venti volte tanto in Alabama. Timothy Meaher aveva vinto la sua scommessa. Dopo aver sbarcato gli schiavi, il capitano Foster incendiò e affondò la «Clotilda» per nascondere le prove dei suoi traffici criminali. Solo di recente, dopo estenuanti ricerche, i resti dell’ultima nave negriera degli Stati Uniti sono stati ritrovati sul fondale di un braccio remoto del fiume che sfocia nella baia. Nessuno poteva immaginarlo allora, ma quel piccolo gruppo di neri erano gli ultimi di circa quattrocentomila schiavi africani portati nelle piantagioni degli Stati Uniti dai primi anni del Seicento al 1860. Di lì a poco la Guerra di secessione americana (186165) liberò tutti gli schiavi. Non per questo tuttavia la loro condizione migliorò di molto sul piano materiale. Gli ex schiavi di Mobile, privi dei mezzi per
letture per viaggiare «Sto inseguendo un sogno sommerso … Il Golfo di Trieste questa mattina sembra un mare pieno di promesse. L’orizzonte è lontano, una linea azzurra continua, sfumata in un’impercettibile foschia, e la sua calma, lo scopriremo tra poco, nasconde un segreto … Il mare è pieno di storie. Le custodisce gelosamente, le tiene nascoste, celate alla vista e alla memoria. Ma se lo interroghi, il mare risponde…». Il monumento Point of no return, a Ouidah, nel Benin, dove gli schiavi venivano imbarcati verso le Americhe. (olaireland.ie)
tornare in Africa, si stabilirono in un nuovo quartiere verso nord, tra i boschi e le paludi, separato dal resto della città e presto conosciuto come Africatown. Qui continuarono per oltre mezzo secolo a praticare riti tribali e a parlare lo Yoruba, una lingua franca dell’Africa occidentale. Negli anni Sessanta del Novecento Africatown raggiunse i dodicimila abitanti con scuole, chiese e negozi; poi un rapido declino.
schiavitù per attirare turisti e sostenere questa piccola comunità in lotta contro catastrofi naturali (l’uragano Kathrina), abbandono e povertà. Gli schiavi trasportati dalla «Clotilda» erano stati catturati con spedizioni nel vicino Ghana, prima di essere venduti ai negrieri. E proprio il Ghana ha proclamato il 2019 Anno del ritorno. Quattrocento anni fa salpò da qui la prima nave carica di schiavi diretta verso Jamestown, Virginia. Ora la «tribù perduta» di quanti furono costretti a lasciare l’Africa senza poter tornare è invitata a ricongiungersi ai propri inizi, a ritrovare le proprie radici, dopo secoli di sfruttamento, miseria e umiliazioni. È un viaggio rivelatore. Ci si può commuovere davanti alla «porta senza ritorno», l’ultimo lembo d’Africa prima della partenza in catene. E magari si può anche scoprire per la prima volta che diversi capi e re africani furono complici dei bianchi e vendettero i loro fratelli. Non c’è poi solo il passato. Sia pure con tutti i suoi problemi (povertà, ambiente, demografia esplosiva ecc.), il Ghana è un Paese in rapidissima crescita economica. La convivenza tra gli oltre settanta gruppi etnici e le diverse
Nel 1860 in Alabama giunsero gli ultimi 110 schiavi, trasportati illegalmente dall’Africa dal capitano Foster Oggi, cinque generazioni dopo l’arrivo degli ultimi schiavi, solo duemila abitanti sono tenacemente attaccati a questa povere case circondate da grandi complessi industriali abbandonati, ma è ancora vivo lo sforzo di conservare la propria identità afroamericana. Lo scheletro della «Clotilda» è troppo malandato per essere esposto al pubblico, ma si spera in un memoriale della
religioni è buona, la democrazia stabile: il 70% dei cittadini adulti esercita il diritto di voto (contro il 55% degli Stati Uniti). Diverse centinaia di neri americani sono già partiti per il loro primo viaggio in Africa, anche superando antiche paure. Infatti questa facilità di viaggiare è una piacevole novità se solo pensiamo che ancora negli anni Sessanta, prima delle lotte per i diritti civili cominciate proprio in Alabama, la «Guida verde» (Negro Motorist Green Book) segnalava i pochi benzinai, ristoranti e hotel disposti ad accogliere viaggiatori di colore, nel clima infame della separazione razziale. Le «Guide verdi» sono diventate famose dopo che il film Green Book, con Viggo Mortensen e Mahershala Ali, ha vinto l’Oscar 2019. Oggi la situazione è migliore. «Siamo passati dall’essere letteralmente incatenati, a essere letteralmente in grado di volare, con un bel po’ di turbolenza nel mezzo» sostiene Evita Robinson, fondatrice di Nomadness Travel Tribe, la comunità dei viaggiatori di colore. Ma molto resta ancora da fare prima che il colore della pelle (o le inclinazioni sessuali) diventino finalmente irrilevanti nella società dei viaggiatori.
Ogni naufragio, come quello della «Clotilda», ha una storia da raccontare. Conosciamo tutti le vicende romanzesche dei relitti dei galeoni spagnoli, sparsi lungo la rotta atlantica e colmi di oro e d’argento provenienti dalle colonie americane. Ma in questo piccolo libro Pietro Spirito mostra efficacemente come relitti e storie di naufragi si possano trovare anche alle porte di casa, nel suo caso nel Golfo di Trieste. Qui durante una spedizione con minime attrezzature tecnologiche scopre sul fondale i resti di un vascello da guerra di epoca napoleonica. Non solo navi. Poco più a sud ci sono voluti sessant’anni per riconoscere lo scheletro di un gigantesco bombardiere americano, costretto a un drammatico ammaraggio durante la Seconda guerra mondiale, e identificare i resti dei giovani membri dell’equipaggio, restituendoli alle loro case e famiglie. I relitti sono autentiche macchine del tempo, capaci di riportarci ad altre epoche, quando il destino spezzò una rotta. E così ogni scoperta ci costringe a fare i conti col passato per dare un senso a esistenze che chiedono di compiere il loro viaggio, di essere ricollocate sulla mappa del mondo. E se ogni relitto nasconde la promessa di un tesoro, il vero tesoro è forse proprio una memoria riconciliata, pronta ad aprirsi a un’esistenza nuova. Bibliografia
Pietro Spirito, I custodi degli abissi. Piccolo trattato sui naufragi del tempo, Ediciclo, 2019, pp.96, € 9,50. Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
Oro per l’ugola Sia che si parli di mela, arancia o pompelmo, i succhi a marchio Gold vengono preparati con frutta della migliore qualità e il loro gusto è di conseguenza squisito. Le arance e i pompelmi provengono da coltivazioni ecologicamente e socialmente sostenibili, motivo per cui riportano il label Max Havelaar. Il marchio TerraSuisse attesta invece l’origine svizzera dei frutti, da agricoltori IP-Suisse, che con la loro produzione garantiscono la conservazione della biodiversità.
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Foto: studio fotografico FCM, styling: Miriam Vieli-Goll
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Ambiente e Benessere
Il Sudoku «bestiale»
Libri e giochi di un uomo speciale
Giochi 1 Un modo diverso per affrontare il classico gioco enigmistico giapponese
Giochi 2 Un ricordo
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Contrariamente a quanto molti credono, il Sudoku non può essere considerato un gioco matematico. Anche se nelle sue griglie devono essere inserite delle cifre numeriche, non è necessario svolgere alcuna operazione aritmetica per portare avanti il gioco. In teoria, si potrebbe prevedere di riempire le caselle anche facendo ricorso a un insieme qualsiasi di altri caratteri tipografici o di piccole figure. Però, la capacità di saper ordinare le cifre (posseduta da chiunque sappia contare almeno fino a 9...) consente di individuare velocemente quelle che ancora mancano, in particolari zone dello schema. La stessa operazione sarebbe meno immediata, se si ricorresse a delle lettere dell’alfabeto e risulterebbe ancora più lenta, se si utilizzassero dei simboli qualsiasi. Però, un Sudoku composto da lettere alfabetiche potrebbe risultare interessante, se nello schema completato apparissero alcune parole di senso compiuto. I seguenti quattro schemi di Sudoku sono stati composti partendo da tale considerazione. Completando ognuno di essi, in modo che ciascuna lettera compaia una sola volta in ogni riga, colonna e riquadro, nelle caselle evidenziate in azzurro comparirà il nome di un noto animale. Provate a individuarli tutti...
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Ennio Peres
«Scrivere di giochi o giocar scrivendo» è il bel titolo della mostra che rimarrà aperta fino al 5 ottobre alla Biblioteca statale di Cremona. Un omaggio al giocologo, giornalista e scrittore Giampaolo Dossena, che i lettori di «Azione» hanno conosciuto come collaboratore di lunga data delle nostre pagine. L’esposizione presenta alcuni volumi della sua biblioteca, tratti dal lascito che ha voluto legare all’istituto della sua città natale. Si tratta di edizioni rare di opere dei suoi autori preferiti, tra cui naturalmente Lewis Carrol ed Edward Lear. Ma nelle suggestive ed antiche bacheche della Biblioteca trovano spazio anche giochi da tavola tra i più pregiati e alcuni antichi mazzi di carte: lo scrittore cremonese ne era infatti un collezionista. Fra i materiali esposti, poi, alcuni libri e articoli pubblicati su varie riviste italiane e quelli, apprezzatissimi, del supplemento alla «Stampa», Tuttolibri. A chi volesse invece recuperare il meglio dei contributi pubblicati su «Azione» segnaliamo il volumetto Mangiare banane, ed. Il Mulino, 2007. Dove e quando
Scriver di giochi o giocar scrivendo. Dal 21.09.2019 al 05.10.2019. Biblioteca Statale, Via Ugolani Dati 4, Cremona. Orari: Lu-Ve 8.00-18.30; Sa 8.00-14.00 Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 settembre 2019 • N. 40
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Ambiente e Benessere
È una questione di passione e di amore Sport Le piccole realtà, a volte sanno fare miracoli. Il Riva Basket festeggia 40 anni di esistenza da protagonista
della pallacanestro femminile svizzera Giancarlo Dionisio In principio era la Rirì. Una vera e propria corazzata, che, a cavallo degli anni 60/70, dominò la scena del basket femminile svizzero. In pochi anni, le ragazze che si esibivano al Mercato Coperto, spesso gremitissimo, portarono a casa 4 titoli nazionali e 3 Coppe. Alla guida c’era Yoghi Bough, un’icona della pallacanestro. Dagli States si era trasferito in Italia e in Svizzera, dapprima come giocatore, quindi come allenatore, infine come predicatore per una chiesa battista. L’avventura della Rirì fu bruscamente interrotta nel 1972, a causa del ritiro improvviso dello sponsor.
Un comune di 2500 abitanti che riesce a mantenere una società sportiva ai massimi livelli è un miracolo Sette anni più tardi, a pochi km di distanza nacque, sempre nel Mendrisiotto, un nuovo polo cestistico: il Riva Basket, votato da subito al settore femminile. Di sponsor robusti non ce n’erano. C’erano molta passione e molto amore: per il territorio, e per i valori educativi dello sport. All’inizio furono alcune ragazze della regione a dare vita a quella che sarebbe diventata in seguito, un ’avventura solida ed esaltante. In un secondo momento la signora Anita Gilardoni diede nuovi impulsi economici e strutturali, consentendo alla squadra
di raggiungere in pochi anni la Lega Nazionale. Il 26 aprile del 2003 il Riva Basket conquista l’accesso alla massima categoria. Passano 363 giorni ed il primo trionfo è lì, ad un passo. Alla Sainte Croix di Friburgo la finale di Coppa Svizzera vede le ragazze Momò sfidare le vallesane del Troistorrents, a quei tempi la squadra faro del basket elvetico. È una finale combattuta ed equilibrata. Le Romande, più esperte e smaliziate, se la aggiudicano. Si tratta però di una giornata storica. Per la presenza di centinaia di persone, che avevano lasciato le rive del Ceresio per testimoniare il loro attaccamento al club, e per la consapevolezza di essere sempre più vicine ai vertici del movimento nazionale. I risultati non tardano ad arrivare. Nel 2008 il Riva conquista il Titolo svizzero. Per 3 anni raggiunge la finale della Coppa della Lega. Nel 2016, finalmente, prende la via del Ticino anche la Coppa Svizzera. Qualche profano, leggendo, immagina che si stia parlando di un autentico colosso del basket. Forse sul piano emotivo lo è. Un comune di circa 2500 abitanti, che riesce a mantenere saldamente una sua società nei quartieri alti dello sport, è una sorta di miracolo, che ricorda, sia pure con presupposti diversi, quello dell’Ambri Piotta. In realtà il Riva Basket è una struttura che si alimenta con un budget annuo di circa 150mila franchi. Gli spiccioli, derivanti dalle entrate alle partite, vanno interamente al settore giovanile. Un vivaio solido, che comprende 6 squadre, 7 allenatrici e allenatori che fanno crescere 130 ragazze. Le fanno crescere piuttosto bene.
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Il Riva Basket nella scorsa stagione ha vinto il titolo svizzero nelle Under 19, ed è giunto secondo nelle U17. Il pool degli sponsor contribuisce con 6070mila franchi. Ciò ci induce a pensare che difficilmente la società vivrà una fine repentina come la Rirì Mendrisio, poiché la sua solidità, pur riconoscendo l’importanza dei contributi privati, si basa anche su altri pilastri. Anzitutto il volontariato, un bene preziosissimo, impagabile. Nessuno, nello staff, è iscritto a libro paga. Walter Montini, l’allenatore, percepisce unicamente un rimborso spese. Ciò nonostante, oltre alle ore trascorse in palestra, accetta di investire moltissimo del suo tempo nel visionamento dei filmati provenienti
da oltre Oceano, per capire quali giocatrici straniere ingaggiare. «È una scelta fondamentale» ci dice Francesco Markesh, presidente dal 1995. «Oggi con YouTube è più difficile sbagliare, ma si tratta di un’operazione delicatissima che richiede un sacco di ore. Se peschi dal mazzo un’ala che ti garantisce punti, ed un pivot che ti spazza i tabelloni, sei a metà dell’opera». Se poi le due ragazze sanno anche fungere da chioccia per le ragazzine del vivaio, hai fatto un sei al lotto. Non pensate infatti che assorbano cifre esorbitanti. Il loro salario si aggira attorno ai 2000 dollari al mese, più vitto e alloggio. Qualcuno si chiederà: ci hai parlato di un budget di 150mila, e
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba Qual è il vero nome di Fedez? Trovalo leggendo, a cruciverba ultimato, nelle caselle evidenziate. (Frase: 8, 8, 5)
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Federica Ghidossi, del Riva, in una partita contro il Ginevra Elite Basket. (Ti-Press)
dagli sponsor ne entrano 65mila. Il resto? Il Riva Basket beneficia di un contributo di circa 15mila franchi da parte del Comune. Ancora non ci siamo. Per far quadrare i conti ci vogliono anche i tradizionali stratagemmi popolari: feste, grigliate, lotterie, sottoscrizioni, eccetera. Infine una voce importante si cela dietro la sigla GS. Gioventù e Sport sovvenziona tutte le attività giovanili strutturate, affidate a monitori qualificati. In questo senso il Riva è uno dei club-modello. Nella stagione che scatterà il prossimo WE, accanto alle straniere Agee Branndais e Tia Wooten, il coach Walter Montini potrà disporre di un «roster» di oltre 15 ragazzine cresciute nel vivaio. Molte sono delle diciottenni. Una è addirittura una Under 16, che beneficia di una licenza speciale della Lega per poter giocare nella massima categoria. Solo così si può sopperire alle regolari partenze delle ragazze che varcano le Alpi per ragioni di studio. Solo così si può dare continuità ad un progetto che dura da 40 anni , e che ha costruito i presupposti per andare oltre. Anche quest’anno il campionato non prevede retrocessioni, quindi le giovani del Riva avranno modo di crescere con tranquillità, senza pressioni. «Ma fra tre anni», sostiene il presidente, «saremo competitivi. Tuttavia, la soddisfazione maggiore va ben oltre i risultati sportivi. Alla festa del quarantesimo c’erano moltissime ex giocatrici, che si sono realizzate nella loro vita privata e professionale. La nostra fierezza sta soprattutto nei loro sorrisi e nella loro soddisfazione».
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
ORIZZONTALI 1. Imperfezioni 7. Divide 8. Le iniziali del cantante Ruggeri 9. Un vezzo da cicisbei 10. Un anagramma di già 11. A capo del nazismo 12. Stato africano 13. Fa parte dell’albero genealogico 17. Ha un letto senza materasso 18. Carico di elettricità 19. Utilizzate in tanti giochi 20. Vi discese Orfeo 21. Fra Manciuria e Giappone 23. Particella negativa 24. Epiteto di Mussolini 25. Malvagie d’altri tempi 27. Nome femminile 28. Scandalosa VERTICALI 1. Hanno una festa a marzo 2. Si può avere anche pallida 3. Si paga espiando 4. Due vocali 5. Si usa in cucina 6. Arcobaleno 10. Facilitare, agevolare 12. Cera in francese 13. Progetti, programmi 14. Gara per cow boys 15. Primo cardinale inglese 16. Le iniziali del noto Elkann 17. Le tariffe in Inghilterra 19. La stilista Chanel 21. Simbolo chimico del rame 22. Prima moglie di Giacobbe 24. Particella nobiliare 26. Una domenica alla RAI... Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
Sudoku Soluzione:
Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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Soluzione della settimana precedente
METEO E UMORISMO – «Arriverà un’ondata di venti freddi dalla Siberia!» «Mai che arrivasse un’ondata di…». Resto della frase: «…SOLDI DAGLI EMIRATI ARABI»
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DA GIOVEDÌ RACCOGLI PUNTI CUMULUS MOLTIPLICATI PER 5! SU TUTTO L’ASSORTIMENTO DEI SUPERMERCATI MIGROS UTILIZZA IL BUONO ENTRO IL 5.10.2019
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i e d o t n e m ti r o s s a Tutto l’ r os supermercati Mig al 5.10.2019
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 settembre 2019 • N. 40
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Politica e Economia Verso l’impeachment La Camera dei rappresentanti, in mano ai Democratici, avvia un’inchiesta su Trump per il Kiev-gate
Quarte elezioni in quattro anni In Spagna, dopo il mancato accordo fra le sinistre per un nuovo governo, il leader del Psoe Pedro Sánchez opta per nuove elezioni pagina 33
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Lauber rieletto L’Assemblea federale riconferma il procuratore generale della Confederazione per un terzo mandato
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La via solitaria della BNS Contrariamente a FED e BCE, la Banca Nazionale Svizzera non abbassa i tassi
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Hong Kong, la spina nel fianco
Cina Pechino si accinge a festeggiare i 70 anni dalla nascita della repubblica popolare, forte della sua posizione
di nuova superpotenza, ma le proteste per la libertà e la democrazia nell’ex colonia britannica rovinano la festa Giulia Pompili Durante l’assemblea delle Nazioni Unite, perfino il presidente americano Donald Trump, dopo settimane di risposte vaghe e prese di posizione diplomatiche, ha detto che Pechino «deve proteggere la libertà e il sistema democratico di Hong Kong». L’anniversario del 1. ottobre, quando una mastodontica parata per le vie del centro della capitale cinese celebrerà il settantesimo anno dalla fondazione della Repubblica popolare, è più che mai sensibile per il governo di Pechino. E la presa di posizione dell’Amministrazione americana rischia di essere un altro motivo di scontro tra i due modelli, tra occidente e oriente, tra un sistema legato all’influenza americana e un altro, di recente sviluppo, legato invece alla Cina. Ed è sul territorio di Hong Kong – su quelle decine di migliaia di persone che ormai da mesi ogni fine settimana sfidano i divieti e scendono in piazza– si sta configurando la divisione più evidente, e forse la più pericolosa. «Quella di Hong Kong è la linea del fronte della battaglia globale per la libertà», ha scritto a giugno la giornalista Feliz Solomon sul «Time»: un
titolo che riduce la questione a un’idea romantica di sistemi contrapposti, ma che pone un problema quanto mai attuale: «L’ascesa di Pechino è la storia internazionale più importante del nuovo secolo. Ma l’enormità di questa ascesa e le diverse aree in cui sta spingendo il suo predominio – il commercio, le infrastrutture, la finanza, la tecnologia– sono servite finora a mascherare la natura del sistema che la Cina porta con sé. Quel sistema è il controllo». Per Pechino Hong Kong è un «affare interno». In queste diciassette settimane di proteste, iniziate con i cortei contro la riforma della legge sull’estradizione poi ritirata dall’amministrazione locale di Hong Kong, il governo centrale di Pechino ha più volte accusato l’Occidente di intromettersi nei suoi affari interni. Tecnicamente Hong Kong è territorio cinese, ma sin dal 1997, quando la Gran Bretagna riconsegnò la colonia alla Cina, il modello di «un paese, due sistemi» avrebbe dovuto essere la barriera oltre la quale il Partito unico di Pechino non avrebbe potuto esercitare il proprio potere, garanzia dell’autonomia democratica della regione. Un’illusione, la definiscono i ragazzi che
oggi combattono contro quel sistema. Chiedono elezioni democratiche, cioè la possibilità di scegliere autonomamente il proprio governo locale. E invocano direttamente l’aiuto di Londra e di Washington. È anche per questo che ciò che sta succedendo al di là del Pacifico, per le strade dell’ex colonia inglese, va ben oltre la semplificazione di uno scontro di carattere locale, di una «guerriglia urbana» che non si riesce a domare. Lo dimostrano le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei «ragazzi di Hong Kong» che recentemente hanno coinvolto varie città nel mondo. Perché anche fuori dai confini nazionali il modello cinese divide: in Australia per esempio, dove l’immigrazione cinese è parte determinante della popolazione, ogni marcia di solidarietà è stata accompagnata da contromanifestazioni pro-Cina, da troll in carne e ossa che poi, come riportato da vari media internazionali, si trasformano in troll virtuali e insultano e minacciano. C’è quindi una generazione che ha vissuto sperimentando la democrazia, la libertà di espressione, la libertà di movimento, e vuole assicurarsela anche per il futuro – anche la popolazione di Hong Kong
è divisa al suo interno, con gli anziani più conservatori e i cittadini più giovani che temono la cancellazione definitiva dell’autonomia della regione. Ma quelli che si oppongono al modello occidentale e difendono il sistema cinese non sono soltanto gli anziani. Tutt’altro. Anche all’estero, e tra chi ha studiato, ha viaggiato e vissuto fuori dai confini nazionali, c’è chi vive il sogno del presidente Xi Jinping della Nuova Cina come l’unico modello capace di ristabilire l’ordine mondiale di un tempo, prima del cosiddetto «secolo delle umiliazioni»: l’ordine sinocentrico. Alla base di tutto c’è la rinnovata ideologia di un leader forte come Xi, che ha imposto la propaganda e il patriottismo sin dai primi anni di scuola e ha riabilitato una sorta di culto della personalità nei suoi confronti. Ma c’è anche l’idea, sempre più diffusa nei Palazzi del potere e nelle accademie internazionali, del fallimento del sistema americano, che spinge i paesi asiatici a riconsiderare la propria postura internazionale verso la Cina, soprattutto dopo l’elezione di Donald Trump. È anche questo il motivo per cui quelle di domani saranno le celebrazioni più imponenti della storia
della Repubblica popolare cinese: un messaggio di forza e potenza al mondo. Ma è possibile che la spina nel fianco di Pechino, Hong Kong, cercherà di rendergli indigeste le celebrazioni. «Un scontro di proporzioni monumentali sta per arrivare», ha detto al «Washington Post» Orville Schell dell’Asia Society. «È chiaro che accadrà qualcosa il 1. ottobre». «I funzionari cinesi hanno fatto di tutto per garantire la “stabilità” nella città di Pechino il giorno della sfilata», ha scritto Anna Fifield, corrispondente dalla capitale cinese. «Sono stati banditi i piccioni viaggiatori e gli aquiloni. Negli aeroporti e nelle stazioni ci saranno ulteriori controlli di sicurezza. Ai giornalisti cinesi è stato ordinato di scrivere solo cose positive, a quelli stranieri è stato detto di non affacciarsi dai balconi per evitare di essere colpiti dai cecchini. Al cielo è stato ordinato di essere blu. Ma le proteste a Hong Kong – e le simpatie che stanno suscitando a Taiwan, che Pechino considera una sua provincia ribelle – dimostrano che non tutti condividono il “Sogno cinese” di Xi Jinping». C’è un altro sogno, e altre persone disposte a combattere per renderlo realtà.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 settembre 2019 • N. 40
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Politica e Economia
L’ombra dell’impeachment
Kiev-gate Dopo la pubblicazione della trascrizione della telefonata fra Trump e il presidente ucraino Zelenski, in cui
il presidente americano gli ha chiesto di indagare sul figlio di Joe Biden, per i democratici la misura è colma Federico Rampini Dal fatidico martedì 24 settembre è cambiato tutto, la strada verso l’elezione presidenziale americana riparte da zero. Con l’avvio della procedura d’indagine preliminare che può sfociare nell’impeachment, annunciato dalla presidente della Camera Nancy Pelosi, siamo in una fase nuova. È chiaro che questa diventa la «campagna elettorale dell’impeachment». Salvo guerre in Medio Oriente o gravi recessioni economiche, il tema dell’impeachment dominerà il dibattito politico nei prossimi 14 mesi. Nel bene e nel male. Le conseguenze si faranno sentire non solo negli Stati Uniti ma anche nel resto del mondo: la politica estera americana, le scelte di Washington nei dossier più caldi dalla Cina all’Iran, verranno interpretate (a torto o a ragione) alla luce della delicatissima posizione in cui viene a trovarsi il presidente. A far precipitare gli eventi verso l’avvio della procedura d’indagine preliminare, c’è stata la pressione di Donald Trump sul nuovo presidente ucraino perché indagasse su Joe Biden e gli affari del figlio Hunter a Kiev. In una telefonata con il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelenski, Trump gli ha chiesto aiuto per inguaiare l’ex vicepresidente di Barack Obama. Quest’ultimo è in testa ai sondaggi tra i candidati democratici alla nomination, e al momento è ben piazzato per sfidare Trump nell’elezione del novembre 2020. Hunter Biden, un figlio di Joe, è stato membro del consiglio di amministrazione di una società ucraina, posseduta da un oligarca. In passato quella società e il figlio di Biden furono oggetto di inchieste a Kiev, senza conseguenze. Trump ha chiesto al presidente di quel paese di aiutarlo a trovare notizie compromettenti su Hunter, o la prova che Biden padre abbia tentato di proteggere il figlio da indagini. C’è perfino il sospetto che la Casa Bianca abbia temporaneamente bloccato alcuni aiuti militari all’Ucraina, per rafforzare la pressione. Quest’ultimo dettaglio viene smentito da Trump, che invece ammette di aver chiesto notizie sul «corrotto Biden». E aggiunge, in tono di sfida: che male c’è? Il presidente era già sospettato nel 2016 di aver ricevuto un aiuto da Vladimir Putin – sotto forma di campagne diffamatorie contro Hillary Clinton – ma nel Russiagate smentì sempre di averlo richiesto, quell’aiuto. E l’indagine di Robert Mueller su quella vicenda non è riuscita a trovare prove certe di una collusione, di un «do ut des». Stavolta invece è lo stesso Trump ad ammettere di aver chiesto l’aiuto in campagna elettorale ad un leader straniero. Quindi l’accusa è che il presidente abbia cercato l’aiuto di un governo straniero contro un proprio rivale politico. La Costituzione prevede l’impeachment in caso di «alto tradimento, corruzione, o altri crimini gravi». È abbastanza generica e in effetti lascia ampio margine decisionale alla Came-
Nancy Pelosi, speaker della Camera, annuncia l’avvio della procedura d’indagine preliminare contro Trump che potrà sfociare in un impeachment. (AFP)
ra dei deputati, che nel procedimento d’interdizione ha la responsabilità dell’istruttoria. Ricordo qui, semplificandole al massimo, le regole fondamentali della procedura d’interdizione. La Camera dei deputati (a maggioranza democratica) sostanzialmente ha il ruolo di un pubblico ministero, prepara l’istruttoria, decide o meno l’incriminazione e i capi d’imputazione. Votando sui risultati della propria inchiesta a maggioranza semplice, se la Camera decide l’impeachment passa la palla al Senato. Dove la Camera stessa presenta la sua istruttoria e diventa parte attiva nel procedimento. Il Senato si riunisce sotto la presidenza straordinaria del Chief Justice, cioè il giudice che presiede la Corte suprema (oggi è il repubblicano John Roberts). Lì si svolge il processo vero e proprio. Al termine del quale, per condannare il presidente occorre una maggioranza qualificata dei due terzi. Il Senato attualmente ha una maggioranza repubblicana. Qualora il presidente venga rimosso, gli subentra il suo vice, il repubblicano Mike Pence, fino alla fine del mandato cioè fino al gennaio 2020. Il gioco che comincia adesso è a dir poco complesso. L’impeachment, a parte le regole generali che ho descritto sopra, non ha tempi certi né procedure molto dettagliate. Essendo stato usato pochissimo nella storia americana, per certi aspetti è un libro bianco, tutto da scrivere. La Costituzione lascia ampia discrezionalità al Congresso nel deci-
dere i modi e le scadenze, su questioni non marginali: per esempio quanta parte del procedimento vada affidato alle commissioni parlamentari e quanto debba svolgersi in aula, quali e quanti testimoni vadano interrogati. È possibile che si trascini fino all’elezione del novembre 2020, oppure che bruci le tappe. Infine e soprattutto, la Costituzione lascia molta scelta al Congresso sulla definizione dei reati da impeachment. In effetti l’interdizione è un processo «politico» nel senso nobile della parola: il dettato dei padri costituenti vide l’impeachment come la massima espressione del dovere di vigilanza del Congresso sul presidente, perciò rimasero vaghi sulle fattispecie di reato. Vediamo i rischi e gli eventuali benefici politici per gli attori in campo. Cominciando da Trump. Ovviamente lui ha molto da perdere. Se dalla fondazione degli Stati Uniti ad oggi si sono verificati solo tre casi di (tentato) impeachment, una ragione c’è. La messa sotto stato di accusa è una svolta grave per l’immagine del presidente. E tuttavia la sensazione che lui l’abbia quasi voluto, genera ogni sorta di sospetti. Bisogna ricordare che questo è un presidente «di minoranza» fin dalle origini. Eletto con tre milioni di voti in meno rispetto a Hillary, non è mai riuscito ad avvicinare la soglia del 50% dei consensi. Caso unico nella storia, si presta quindi a una campagna per la rielezione anch’essa unica nella storia. Trump ha bisogno di ricorrere a mezzi estremi per conquistare il secon-
do mandato. Impostare la campagna elettorale come un lungo processo, gridare alla persecuzione, atteggiarsi a vittima, è un’opzione rischiosa ma non illogica. Il sospetto che lui abbia voluto andare al processo è stato alimentato dalla rapidità con cui ha proceduto alla pubblicazione della famosa telefonata col presidente ucraino, all’origine del Kiev-gate. In altre circostanze, durante l’indagine di Robert Mueller sul Russiagate, la squadra di Trump adottava tattiche dilatorie, rifiutava di fornire le informazioni al Congresso. Stavolta invece la trascrizione della telefonata – ancorché incompleta – è avvenuta in poco tempo. Ma può darsi semplicemente che Trump non concepisca l’illegalità potenziale di ciò che ha fatto. Nei suoi comportamenti traspare spesso la mancanza di senso delle istituzioni. Lui applica nella sua azione come capo di Stato delle tattiche che gli erano consuete nel mondo degli affari e si stupisce che gli vengano rinfacciate. Anche i democratici rischiano. Lo sanno, è questa la ragione per cui la presidente della Camera Nancy Pelosi fino all’ultimo aveva tentato di evitare l’avvio della procedura verso l’impeachment. Ci sono tre scenari in cui la vicenda prende una brutta piega per loro: A) Il Kiev-gate si sgonfia nel corso delle indagini preliminari; un po’ com’è accaduto dopo il Rapporto Mueller sul Russiagate, che elencò sospetti gravissimi ma non arrivò alle prove decisive. Questo scenario appare poco probabile vista la natura politica
dell’indagine. La richiesta d’interferenza ucraina c’è stata. B) La Camera vota sull’impeachment e ci sono defezioni nei ranghi dei democratici più moderati, tali da far mancare la maggioranza; va ricordato che ancora dopo il pronunciamento della Pelosi rimanevano alcune decine di deputati dem contrari all’impeachment; questo sarebbe uno smacco grave, si aprirebbe una lotta intestina al partito con regolamenti di conti che indebolirebbero qualsiasi candidato prescelto per affrontare Trump. C) La Camera vota a maggioranza la messa in stato di accusa, poi il processo vero e proprio passa come previsto al Senato; dove si arena perché manca la maggioranza qualificata dei due terzi; per condannare Trump ci vorrebbero defezioni massicce nel suo stesso partito, al momento improbabili. I democratici griderebbero che il processo è truccato, però il presidente sarebbe salvo. Si rischierebbe uno scenario alla Bill Clinton: dopo la mancata condanna al Senato, la sua popolarità addirittura ebbe un aumento. Non è un caso se nessuno dei tre impeachment della storia è giunto alla conclusione. Tra gli sviluppi più immediati: dovrebbe testimoniare alla Camera il «denunciatore segreto», il whistleblower, colui che dall’interno dell’intelligence lanciò per primo l’allarme sulle pressioni di Trump verso il presidente ucraino. Le due Americhe, quella democratica e quella repubblicana, si stanno già «armando» per un conflitto di lunga durata, da combattersi all’ultimo sangue. Il resto del mondo fa i suoi calcoli. Che impatto avrà questa storia sul negoziato commerciale con la Cina? E sullo scontro duro con l’Iran? Ricordo le date-chiave della marcia di avvicinamento al voto del 2020. Le primarie per selezionare il candidato democratico cominciano il 3 febbraio in Iowa, proseguono l’11 febbraio nel New Hampshire. L’appuntamento decisivo arriva il 3 marzo con un SuperMartedì dove votano gli Stati più grandi. I giochi dovrebbero essere fatti entro il 13 luglio 2020 quando si apre la convention dei democratici a Milwaukee, nel Wisconsin. Che impatto avrà la vicenda dell’impeachment su Biden, fin qui in testa nella corsa? Potrebbe rafforzarlo per il suo ruolo di vittima della congiura trumpiana; a meno che emergano nuovi dettagli compromettenti sugli affari del figlio in Ucraina o l’eventuale appoggio politico del padre quando era vice-presidente. Un prezzo politico rischia di pagarlo l’intero partito democratico: se passano in secondo piano i confronti sulle idee, sul programma politico, e l’intera campagna ruota attorno al processo contro Trump. Infine, non si può escludere che in campo repubblicano l’impeachment incoraggi le candidature alternative al presidente. La convention repubblicana è fissata per il 24-27 agosto a Charlotte, North Carolina. Il verdetto finale, degli elettori, il 3 novembre 2020. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 settembre 2019 • N. 40
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Politica e Economia Un Pedro Sánchez ottimista si avvia verso le quarte elezioni in quattro anni. (Keystone)
I Talebani più forti anche in Pakistan Legge marziale Assunti i pieni poteri
nel nord-ovest, l’esercito dà nuovamente via libera agli estremisti islamici Francesca Marino
Sánchez gioca col fuoco
Spagna Il leader socialista, forte dei sondaggi favorevoli, non ha voluto
formare un governo di coalizione con altri partiti, obbligando il Paese a tornare al voto dopo soli 5 mesi. Una decisione non priva di rischi
Gabriele Lurati Quattro elezioni generali in quattro anni. Il caso spagnolo è decisamente un unicum senza precedenti in Europa, in un Paese che non riesce ad uscire dall’impasse istituzionale creatasi nel 2015 con la fine del bipartitismo. Da allora regna l’instabilità politica, alla quale non ha saputo porre fine nemmeno Pedro Sánchez. Dopo essere stato bocciato durante l’investitura come primo ministro nel luglio scorso, il leader socialista non è riuscito a trovare un accordo in extremis né con la sinistra radicale di Podemos né con il partito di centro-destra Ciudadanos. Si tornerà quindi di nuovo alle urne il 10 novembre, ma con il peso della responsabilità per questa ennesima tornata elettorale tutto sulle spalle di Sánchez.
Il Psoe potrebbe dover andare all’opposizione se i tre partiti di destra raccoglieranno insieme più voti dei socialisti Dal voto di aprile era uscito vincitore il Partito socialista (Psoe), senza però i seggi sufficienti per formare un governo da solo (123 deputati su un totale di 350). Sánchez aveva quindi ricevuto l’incarico dal re Felipe VI e aveva il dovere istituzionale di provare a formare un governo. Ma, dopo aver fallito nel tentativo di creare un esecutivo di coalizione con Podemos finito tra accuse reciproche di colpevolezza, Sánchez e i suoi spin doctor hanno pensato che la migliore soluzione per il proprio partito sarebbe stata quella di un ritorno al voto. Il primo ministro facente funzioni e tutto il Psoe hanno sempre mal digerito in effetti l’idea di condividere il potere con il partito di Pablo Iglesias. La prova la si è avuta dieci giorni fa, quando dopo l’ultimo fallimento negoziale, Sánchez ha dichiarato un’intervista in tv che non avrebbe dormito la notte «se avesse ceduto ministeri a Podemos». La strategia di Sánchez è sempre stata quella di puntare principalmente su una ripetizione delle elezioni, dato che i sondaggi danno il Psoe nuovamente come vincitore (con un 30% dei voti), rafforzando la sua posizione egemone a detrimento di Podemos e Ciudadanos (entrambi attorno al 14%). Così facendo, Sánchez si assume però un rischio importante perché la probabilità di avere una forte astensione alle urne è alta. L’astensionismo si manifesterebbe principalmente nelle file dell’e-
lettorato di sinistra, stanco e disilluso, e poco propenso a tornare a votare. Ciò favorirebbe soprattutto i partiti di destra: il Partito popolare, in particolare, è dato in risalita fino al 20% dopo aver toccato il suo minimo storico nell’aprile scorso, mentre l’estrema destra di Vox rimarrebbe stabile attorno al 10%. D’altronde da un recente sondaggio si è appreso che il 90% degli spagnoli è stufo di questa paralisi istituzionale e non vede di buon occhio il fatto di dover tornare a votare. Sánchez quindi gioca col fuoco perché potrebbe aver buttato al vento l’occasione storica di formare il primo governo di coalizione delle sinistre e perdere il potere in favore delle tre destre (Pp, Ciudadanos e Vox). È uno scenario plausibile infatti la possibilità che il Psoe rimanga sì il primo partito di Spagna, ma che però debba passare all’opposizione. La somma dei deputati delle tre destre potrebbe avere i numeri per governare, come d’altronde è già avvenuto nelle recenti elezioni amministrative in varie regioni e grandi comuni spagnoli, come nella città di Madrid e nella sua regione metropolitana. Inoltre la volatilità del consenso dato a un leader (tanto più se poco carismatico come Sánchez) è una costante in tutte le democrazie liberali contemporanee e il futuro in politica è sempre pieno di incognite. A cominciare dall’imminente sentenza del processo contro i leader separatisti catalani, accusati di sedizione e ribellione contro lo Stato. Il verdetto è previsto per la prima metà di ottobre e avrà delle ripercussioni sia a livello politico che sociale. Il peso politico della Catalogna ha sempre giocato storicamente un ruolo importante nella formazione o nella caduta dei governi nazionali. La questione catalana sarà ancora una volta il tema centrale della campagna elettorale e il preoccupante clima di tensione che si sta vivendo in questi giorni per le strade di Barcellona aumenterà i toni del dibattito. La Guardia Civil ha infatti arrestato settimana scorsa nove persone appartenenti ai sedicenti CDR (Comitati di Difesa della Repubblica, un’organizzazione radicale composta perlopiù da giovani attivisti indipendentisti che ha già compiuto vari atti di sabotaggio alle infrastrutture catalane) accusati di «terrorismo secessionista». Secondo la Procura generale dello Stato, queste persone stavano preparando azioni violente con esplosivi che avrebbero potuto creare danni irreparabili. Se così fosse, saremmo di fronte a un salto di livello nella strategia di lotta in una parte del movimento indipendentista. Nel frattempo la polizia catalana ha rafforzato le misure di sicurezza per
bloccare sul nascere eventuali scontri nelle manifestazioni di protesta che si terranno domani in coincidenza con il secondo anniversario dell’autoproclamato referendum di indipendenza. Ci si aspetta una escalation della tensione almeno fino al giorno della sentenza, ma potrebbe continuare anche fino alle elezioni. In ogni caso, anche se dopo i risultati elettorali del 10 novembre si dovesse finalmente riuscire a formare un governo, quest’ultimo non entrerebbe in carica prima del 2020. Una situazione che ha dell’incredibile, se si pensa che due degli ultimi quattro anni sono stati vissuti con governi in carica solo «ad interim» (prima con Rajoy come primo ministro e poi attualmente con Sánchez), che si possono occupare solo del disbrigo degli affari correnti per non avere un vuoto di potere. Si è arrivati al punto che l’ultima legge finanziaria e di bilancio risale a più di tre anni fa e verrà prorogata per il terzo anno consecutivo almeno fino al 2020. Questo ha delle conseguenze pratiche anche sulla vita delle persone perché significa paralizzare i finanziamenti alle regioni, congelare l’adeguamento delle pensioni all’andamento dell’inflazione o bloccare l’aumento dei salari per i funzionari pubblici, misure che erano state approvate per decreto legge ma non hanno potuto avere una copertura economica. A questo si aggiunge il fatto che l’economia spagnola sta subendo una decelerazione (la crescita annuale del PIL è passata dal 3% al 2,2%) e che in Spagna gli effetti della Brexit preoccupano parecchio (in Spagna risiedono 400’000 britannici e l’industria turistica spagnola dipende in buona misura anche dall’afflusso di sette milioni di clienti anglosassoni che ogni anno visitano il Paese). Un esempio lo si è vissuto settimana scorsa con il fallimento del tour operator britannico Thomas Cook (avvenuto anche per effetto della Brexit e dell’indebolimento della sterlina) che ha portato al collasso gli aeroporti delle principali isole spagnole con migliaia di turisti britannici bloccati a terra. Ciò ha creato grande preoccupazione per il futuro in un settore che rappresenta il 15% del PIL spagnolo. Una preoccupazione che sembra però non avere Pedro Sánchez e il suo entourage, i quali ritengono che il Partito socialista continuerà ad essere il partito più votato il 10 novembre e sono convinti che il premier facente funzioni sia l’unica persona in grado di formare un governo dopo il voto. Se le certezze di Sánchez e del Psoe troveranno conferma anche nelle urne, lo potranno dire solo gli elettori.
Lo scorso 5 agosto, mentre il resto del mondo aveva gli occhi puntati sul Kashmir indiano e sull’ordinanza del governo Modi che lo integrava di fatto completamente nell’India, il governo della provincia pakistana del Khyber-Pakhtunkhwa passava un’ordinanza di cui il resto del paese si è reso conto soltanto molto più tardi: si tratta dell’Action Aid in Civil Power Ordinance, una legge in vigore anni fa in quelle che erano le cosiddette provincie di confine. La legge marziale, in pratica, indorata da un nome meno minaccioso. Questa ordinanza attribuisce di fatto poteri quasi illimitati all’esercito e ai servizi segreti in materia di «sicurezza». Definisce in modo molto vago i «miscredent» soggetti all’ordinanza e, soprattutto sgancia esercito e servizi segreti da qualunque controllo dell’autorità giudiziaria. Un membro del governo del KPK ha affermato: «Notificando l’ordinanza, il governo ha letteralmente dichiarato la legge marziale nella provincia. Una legislazione che aggira la Costituzione e reprime i diritti fondamentali è un duro colpo per la democrazia e lo stato di diritto». E purtroppo non è il solo. Da ormai molto tempo gli abitanti della provincia, riuniti sotto l’ombrello del Tahafuz Pashtun Movement, un movimento pacifico per i diritti umani e civili, protestano contro il governo centrale e denunciano una vera e propria guerra portata avanti dalle forze dell’ordine nei confronti della popolazione del KPK e del Waziristan. E le cose non fanno che peggiorare. A Peshawar è stata emanata un’ordinanza che imponeva a ragazze e bambine di recarsi a scuola indossando il burqa per prevenire «incidenti poco piacevoli». È stata ritirata due giorni dopo dal governo locale che si è scusato via media, ma è un segnale, l’ennesimo, di qualcosa che i rappresentanti del Ptm sostengono ormai da mesi: i Taliban sono tornati nella provincia. Anzi, non se ne sono mai andati. «Vi ricordiamo che dichiarazioni simili rilasciate dai Talebani più volte in passato erano rimaste inascoltate, ma questa volta ci assumeremo il compito di punire coloro che violano le nostre regole. Non ci sarà alcun uso di DJ, né dentro né fuori casa e coloro che ignorano l’avvertimento saranno responsabili delle conseguenze. Ai volontari delle campagne per le vaccinazioni antipolio è stato domandato di marcare a inchiostro il dito dei bambini già vaccinati: sappiano però che affronteranno conseguenze terribili se proveranno a somministrare i vaccini. Le donne
non dovrebbero uscire di casa da sole perché è dannoso per la nostra società». Manifesti del genere, firmati dai Talebani, sono comparsi tempo fa in tutta la regione. «L’esercito regolare ha dato di nuovo via libera ai Talebani, per ricattare di fatto gli Stati Uniti in modo che facciano pressione sull’India per il Kashmir. Sono state riassegnate a comandanti piuttosto famosi nuove aree di controllo e di gestione» sostiene un locale attivista dei diritti umani. Il Ptm accusa da molto tempo l’esercito di usare le regioni di confine come campi di addestramento per jihadi, come teatri di guerra per finte azioni contro i «cattivi» Talebani e come rifugi sicuri per i Talebani «buoni». Oltre che come fabbriche di documenti falsi per le spie da inviare in Afghanistan o in India. Sempre lo stesso attivista dichiara: «L’esercito pakistano, nonostante finga di sostenere le forze degli Stati Uniti e il processo di pace in Afghanistan, non ha catturato o ucciso nemmeno un singolo membro della Rete Haqqani: al contrario, hanno spostato membri del gruppo in aree più sicure ogni volta che fingevano di lanciare un’operazione contro i “terroristi”. I Talebani arruolano reclute, nascondono terroristi provenienti da altre parti del Pakistan e tutti lavorano sotto il patrocinio delll’esercito regolare». «L’esercito pakistano sta facendo il doppio gioco», afferma Manzoor Pashteen, fondatore del Ptm: «Da una parte ci dicono che sono contro i Talebani, ma in realtà danno ai terroristi l’opportunità di comandare sulla popolazione civile e consolidare così il loro potere». E la situazione, già disperata, è peggiorata nell’ultimo mese circa. Il Waziristan è praticamente sotto assedio da molto tempo. Giorni fa l’articolo 144 è stato nuovamente imposto per consentire all’esercito di arrestare i pacifici dimostranti del Ptm: lo stesso articolo 144, ancora una volta un nome meno sinistro per la legge marziale, che ha scandalizzato il mondo per essere stato imposto in Kashmir per meno di una settimana. Perfino le elezioni, tenutesi due mesi fa, si sono svolte in regime di coprifuoco. E il peggio è che, secondo la popolazione locale, non si tratta di una situazione transitoria e la situazione non è destinata a migliorare nel prossimo futuro. Anzi. Il governo della regione, come quello del paese, è di fatto in mano all’esercito. E l’esercito in Pakistan ha un modo standard di relazionarsi ai suoi cittadini: violenza, abusi, molestie, sparizioni, uccisioni extragiudiziali. Mentre KPK, Waziristan e altre zone di confine assomigliano sempre più, secondo ai suoi abitanti, a un paese occupato.
Soldati pakistani si esercitano a Peshawar, capitale del Khyber-Pakhtunkhwa. (Keystone)
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Politica e Economia
La nuova Guerra dell’oppio
USA-Cina Washington accusa Pechino di essere responsabile dei centomila morti all’anno per abuso di oppioidi,
la Cina risponde tagliando le esportazioni di Fentanyl ma ricorda che il problema sta soprattutto nella domanda
Una delle caratteristiche più discusse della politica del presidente americano Donald Trump è quella di porre tutte le questioni sullo stesso tavolo dei negoziati. Questo è particolarmente evidente con la Cina, che invece è addestrata più di ogni altro paese ai colloqui informali, alle fitte reti di trattative nell’ombra, alla fiducia costruita sulla base delle relazioni. Se la guerra commerciale tra America e Cina va avanti ormai da mesi, con periodici tentativi di riavvicinamento, tregue precarie, aperture che saltano con la velocità di un tweet di Trump, ci sono molti altri conflitti paralleli che riguardano il confronto tra le due culture e la competizione internazionale.
Il traffico illegale di Fentanyl è verosimilmente un altro tassello della guerra commerciale Quando Trump, a fine agosto, ha scritto su Twitter che la colpa dei centomila morti all’anno che gli oppioidi fanno in America è della Cina, Pechino ha risposto con l’ennesimo stallo nei negoziati commerciali. Perché la trade war è solo un pezzo del mastodontico scontro tra le prime due economie del mondo, tra i due leader forti, Donald Trump e Xi Jinping. Quando qualcuno azzarda l’espressione «scontro di civilità» non è del tutto lontano dalla realtà: di sicuro è
uno scontro tra modelli. Basti guardare American Factory, il documentario prodotto non a caso dagli Obama su una fabbrica in Ohio che diventa di proprietà cinese. Il «padrone» cambia, e cambiano le regole, i modelli. Con la «nuova guerra dell’oppio» non è molto diverso. All’inizio di maggio era arrivato il primo vero successo dell’Amministrazione Trump, dopo aver dichiarato gli oppioidi «un’emergenza nazionale»: Washington era arrivata a un accordo con la Cina sulle importazioni di Fentanyl, il più usato e famoso degli oppioidi, cinquanta volte più potente dell’eroina. Pechino ha rubricato le sostanze derivate dal Fentanyl come controllate, nel tentativo di limitarne il traffico illegale. Ma la stretta cinese non ha ridotto le morti in America. Tre mesi dopo Trump ha scritto su Twitter che «Xi sta facendo ancora poco» per il traffico illegale di droga, e gli ha risposto Liu Yuejin, vicecapo della Commissione nazionale cinese per il controllo dei narcotici, dicendo che dal primo maggio scorso non è stato intercettato un solo carico di Fentanyl verso gli Stati Uniti, e che se i morti ci sono ancora, forse l’America dovrebbe risolvere i suoi problemi limitando la domanda, non bloccando l’offerta. Quello americano infatti è un problema culturale, che arriva da lontano. Non è un caso se, pur essendo molto facile procurarsi via internet il Fentanyl, solo in America la dipendenza da oppioidi sia una vera emergenza. In Europa la formazione cristiana della mag-
Dosi di Fentanyl in preparazione in un ospedale negli Stati Uniti: l’abuso di oppioidi è anche frutto di una diversa cultura medica. (Keystone)
gior parte della classe medica, secondo diversi accademici, ha in un certo senso prevenuto l’uso diffuso degli oppioidi per il trattamento del dolore. L’antidolorifico che siamo abituati ad assumere agisce sulla causa del dolore, cioè se abbiamo male a una gamba riduce per esempio l’infiammazione che quindi ferma la reazione del cervello. Gli oppioidi, invece, lavorano direttamente sul cervello, che ingannato dal narcotico semplicemente smette di far percepire il dolore. La tradizione medica americana, a differenza di quel-
la europea e asiatica, ha un principio valido sempre, in tutte le circostanze, che è quello dell’assenza di dolore. È questo che ha portato, negli ultimi vent’anni, a medici che prescrivono gli oppioidi come il Fentanyl con molta facilità anche ai più giovani, che poi ne diventano dipendenti. E se lo procurano come possono, soprattutto per strada. Nel mondo globalizzato, la Cina è la prima a proporre un’offerta quando c’è una domanda. Secondo un’inchiesta del «Los Angeles Times» la piazza di spaccio di Fentanyl più grande al mondo era
un sito di proprietà della Zheng group – poi chiuso dalle autorità cinesi. Sede a Shanghai, e con un portale internet tradotto in 35 lingue, i trafficanti dello Zheng esportavano Fentanyl e altri narcotici sintentici praticamente ovunque. Secondo le indagini degli investigatori statunitensi il loro modello era infallibile: piccolissime quantità venivano consegnate direttamente agli spacciatori americani via posta. Le partite più grosse andavano invece ai trafficanti messicani, che poi tagliavano il Fentanyl con altre droghe pesanti, e poi facevano passare lo stupefacente attraverso il confine. Ora lo Zheng non esiste più, ma il modello evidentemente persiste. Nella prima metà dell’Ottocento, all’inizio della prima Guerra dell’Oppio, la situazione era rovesciata: «Ogni bambino in Cina e ogni persona che abbia avuto un’educazione conosce quel periodo come il “secolo dell’umiliazione”», ha detto al «New York Times» lo storico Stephen R. Platt. «La memoria persistente della storia del Diciannovesimo secolo spiega molto bene il desiderio odierno della Cina di avere un ordine commerciale globale che vada a suo favore». Qualcuno parla del traffico illegale di Fentanyl odierno come di una vendetta della Cina contro l’America per le Guerre dell’oppio. Ma la questione è più complessa, e più verosimilmente si tratta di un altro tassello della guerra commerciale – con la differenza che qui non si tratta soltanto di dazi, ma di vite umane. / G.P. Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
Più acquisti per meno soldi La consulente di moda zurighese Angelina Chieffo (37), cresce da sola quattro figli di età compresa tra i cinque e i 13 anni. Lavora a tempo parziale e quotidianamente la sua agenda è molto fitta di impegni: i bambini da preparare per la scuola, i pasti da portare in tavola, fare il bucato e la spesa. Oltre a ciò deve riuscire a far fronte a un lavoro al 60 per cento e gratificarsi con un po’ di sport. Una volta alla settimana è il turno delle grandi spese: «I prodotti freschi, come l’insalata e le verdure, li acquisto regolarmente nel corso della settimana». Così ha sempre pronti ingredienti freschissimi con cui preparare ottimi manicaretti.
«I prodotti freschi, come l’insalata e le verdure, li acquisto regolarmente nel corso della settimana» Angelina Chieffo di Zurigo
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Il prezzo del cestino della spesa Fr. 33.65 finora Fr. 40.30 Dopo le riduzioni di prezzo apportate, questo cestino della spesa costa Fr. 33.65. Il 4 giugno i clienti pagavano ancora Fr. 40.30. Il prezzo di singoli prodotti dipende dal peso.
Riduzioni di prezzo permanenti I prodotti preferiti sono più convenienti Recentemente il prezzo di molti dei prodotti preferiti dai clienti Migros, vale a dire i prodotti più venduti, è diventato più conveniente. Tra questi anche il pane proteico You, lo yogurt al cioccolato Farmer, gli spätzli Anna’s Best e lo sciroppo al lampone Sirup. L’aspetto più interessante: non si tratta semplicemente di promozioni, bensì di riduzioni di prezzo permanenti. Facilmente riconoscibili Grazie al logo sotto illustrato, è facile riconoscere a colpo d’occhio i prodotti che hanno beneficiato di una riduzione di prezzo permanente.
Alla Migros i soldi valgono ancora di più: per la nostra clientela ribassiamo in modo permanente i prezzi dei prodotti preferiti, continuando a investire nella comprovata qualità Migros.
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Politica e Economia
Rielezione sul filo del rasoio Camere federali Il procuratore generale della Confederazione Michael Lauber ottiene con una risicata
maggioranza un terzo mandato – Ma restano molte ombre, sia sull’operato dello stesso Lauber, sia sul Ministero pubblico della Confederazione
Marzio Rigonalli La rielezione del procuratore generale della Confederazione Michael Lauber, per un terzo mandato e per il periodo 2020-2023, costituisce lo sbocco di una vicenda che si è protratta per mesi, che spesso ha riempito le prime pagine di giornali, radio e televisioni, e che ha registrato un’impressionante quantità di fatti e soprattutto di dichiarazioni a favore o contro il procuratore generale. Sembrava di essere alle prese con l’elezione di un consigliere federale, con in gioco un complicato intreccio di interessi non sempre facile da decifrare, o con una scelta determinante per il futuro del nostro paese. In realtà, si trattava di dare ancora, o di negare, la fiducia ad una persona chiamata a svolgere una funzione di primo piano nell’ambito del potere giudiziario. E in questo compito conveniva limitarsi ad una valutazione del comportamento di Lauber e della sua idoneità a continuare il mandato, senza dar spazio a considerazioni politiche o ad argomenti di altra natura.
L’Assemblea federale non ha seguito la raccomandazione della Commissione giudiziaria: Lauber ha ottenuto in parlamento 129 voti su 243 Con 129 voti su 243, l’Assemblea federale ha dunque deciso di mantenere in carica Michael Lauber e di affidargli un terzo mandato. Non ha seguito la raccomandazione della Commissione giudiziaria, la cui maggioranza chiedeva di non rieleggere l’attuale procuratore generale. L’Assemblea federale ha optato per la continuità del Ministero pubblico della Confederazione ed ha messo in rilievo il buon lavoro svolto da Lauber negli ultimi otto anni, nell’ambito della cybercriminalità, della lotta al terrorismo e della sorveglianza delle telecomunicazioni. Ha sottolineato pure la stima di cui egli gode a livello nazionale ed internazionale, nonché la buona collaborazione ch’egli intrattiene sia con l’estero che con i cantoni. Poco tempo fa, la Conferenza dei procuratori pubblici cantonali si era espressa in favore della rielezione di Lauber ed appoggi analoghi sono arrivati anche da uffici federali che collaborano con il Ministero pubblico della Confederazione. L’Assemblea federale non ha ritenuto sufficientemente gravi i rimproveri che sono stati mossi contro il procuratore generale. In primo luogo i tre incontri che Lauber ha avuto con il presidente della FIFA Gianni Infantino, lontano dalla sede del Ministero pubblico. Il primo si è svolto in un ristorante di Zurigo, gli altri due nell’albergo Schweizerhof a Berna, tra il 2016 ed il 2017. Gli incontri non sono stati verbalizzati ed è noto che la FIFA è da anni al centro di numerose inchieste penali condotte dal Ministero pubblico della Confederazione. Sul terzo incontro, avvenuto il 16 giugno 2017, aleggia ancora un mistero.
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
I colleghi del Ministero pubblico della Confederazione si congratulano con Michael Lauber per una rielezione che non appariva affatto scontata. (Keystone)
Oltre a Lauber ed a Infantino, vi parteciparono anche André Marty, responsabile della comunicazione del Ministero pubblico della Confederazione, e Rinaldo Arnold, procuratore vallesano ed amico d’infanzia di Infantino. Quattro persone che hanno dichiarato di non ricordarsi più niente di quella riunione. A causa di questi incontri, il Tribunale penale federale ha ricusato Lauber nelle inchieste sulla corruzione nel mondo del calcio. Anche il comportamento del procuratore generale negli ultimi mesi non è stato ritenuto tale da negargli la fiducia. Lauber ha espresso pubblicamente critiche all’Autorità di sorveglianza del Ministero pubblico della Confederazione, che ha aperto un procedimento disciplinare nei suoi confronti, ed ha inoltrato, senza successo, una domanda di ricusazione contro un giudice del Tribunale penale federale. La rielezione di Lauber non pone però fine al forte disagio che è sorto negli ultimi mesi intorno al Ministero pubblico della Confederazione. L’immagine dominante è quella di un cantiere aperto, in cui non pochi sono i lavori di ripristino e di rinnovo che dovranno essere intrapresi. Quattro almeno sono le situazioni che richiedono interventi urgenti. La prima riguarda l’immagine del Ministero pubblico della Confedera-
zione. Non c’è dubbio che questa vicenda abbia inferto un duro colpo alla sua credibilità ed alla sua reputazione. La riparazione del danno causato sarà un lavoro di ampio respiro che richiederà molto tempo ed anche un buon numero di risultati concreti. Toccherà in primo luogo al procuratore generale operare in questa direzione. Gli errori di cui lui è stato fin ora autore, non inducono però all’ottimismo e lasciano sussistere un buon grado d’incertezza.
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Resta aperto il procedimento disciplinare per i tre incontri che il procuratore generale ha avuto con il presidente della FIFA La seconda situazione ricorda il procedimento disciplinare di cui è oggetto Michael Lauber. Il procedimento è stato avviato dall’autorità di vigilanza sul Ministero pubblico della Confederazione, presieduta da Hanspeter Uster, per i tre incontri che il procuratore generale ha avuto con il presidente della FIFA. Per mancanza di personale,
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l’autorità di vigilanza ha affidato la direzione dell’inchiesta ad una personalità esterna, ma il Tribunale amministrativo federale ha dichiarato illegale questo modo di procedere. In pratica ha bloccato l’inchiesta disciplinare. Poco tempo dopo, l’autorità di vigilanza ha inoltrato un ricorso al Tribunale federale contro la decisione del Tribunale amministrativo. L’esito di questo ricorso non è ancora noto. Una cosa però è sin d’ora certa: l’inchiesta disciplinare non è ancora cominciata e l’Assemblea federale ha deciso di rieleggere Lauber senza conoscere i risultati dell’indagine a suo carico. Sono carenze che invitano ad agire rapidamente per poter disporre un giorno di un’autorità di vigilanza con mezzi propri, capace di svolgere autonomamente la sua funzione. La terza situazione concerne i rapporti tesi che esistono tra il procuratore generale ed il presidente dell’autorità di vigilanza, ossia tra Lauber ed Uster. Il primo rimprovera al secondo di non concedergli la possibilità di esprimersi e di difendersi; Uster rimprovera a Lauber di non consentirgli di accedere a tutti i documenti utili ai fini dell’inchiesta e di non essere autorizzato ad interrogare tutte le persone che vorrebbe. È una situazione che intrattiene il sospetto e lo spirito di vendetta e che non lascia spazio a quel minimo di fiducia reciproca
che dovrebbe caratterizzare i rapporti interpersonali ad un così alto livello del potere giudiziario. Il ritorno alla normalità è più che auspicabile, ma è difficile immaginare come potrebbe avvenire senza che l’una o l’altra delle due persone coinvolte rinunci al suo mandato. Infine, Le Camere federali dovrebbero interrogarsi su chi deve eleggere il procuratore generale della Confederazione. È giusto che si continui con il sistema che vien applicato oggi, ossia con l’elezione da parte dell’Assemblea federale, oppure conviene ripristinare il sistema che affidava questa competenza al Consiglio federale? Fino al 2010 l’elezione spettava al governo federale. Dopo quella data ed in seguito al braccio di ferro tra l’allora ministro della giustizia Christoph Blocher e l’ex procuratore generale Valentin Roschacher, la competenza venne trasferita all’Assemblea federale, asserendo che così sarebbe stata meglio garantita l’indipendenza del procuratore generale. Una visione che certamente non è stata confermata dalla rielezione di Lauber. Il terzo mandato del procuratore generale non inizia, dunque, sotto i migliori auspici. Le incertezze che lo caratterizzano potrebbero generare sviluppi positivi, come molti auspicano, ma anche nuove tensioni e nuovi colpi di scena.
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Politica e Economia
Stretti fra la difesa del franco e accuse di «manipolazione» di divise Politica monetaria La BNS non riduce i tassi ma difende il franco da eccessivi rialzi, mettendosi contro gli USA
Ignazio Bonoli La Banca Nazionale Svizzera – contrariamente a quanto fatto da altri (per esempio la Riserva Federale americana) – non ha ritoccato i propri tassi direttori. Non lo ha fatto benché abbia riveduto al ribasso le proprie previsioni per la crescita economica e l’inflazione. Ha comunque alleggerito leggermente presso le banche l’onere degli interessi negativi che devono pagare per i depositi a vista presso la BNS. Nel senso che questi tassi verranno adeguati mese per mese, per cui le somme esenti dovrebbero aumentare. Nel contempo, le somme esenti aumentano dalle attuali 20 a 25 volte l’ammontare delle riserve minime. L’onere a carico delle banche dovrebbe quindi quasi dimezzarsi. Così facendo, la BNS tiene anche conto del fatto che il fenomeno dei tassi molto bassi o perfino negativi si è accentuato e dovrebbe prolungarsi nel tempo. Dovrebbero anche proseguire gli interventi sul mercato delle divise, in modo da contenere l’attrattiva degli investimenti in franchi svizzeri. Le cifre di questi interventi non sono state fornite, ma le statistiche settimanali dei conti giro presso la BNS indicano che, a partire da metà luglio, questi interventi sono di nuovo aumentati, raggiungendo a metà settembre oltre 12 miliardi di franchi.
La BNS non segue le politiche monetarie espansive di FED e BCE. (Keystone)
I recenti ribassi subiti dall’euro hanno allarmato i responsabili dei cambi, che – anche tenendo conto dei differenti tassi di inflazione – constatano che il tasso di cambio effettivo è leggermente al di sopra del trend di lungo periodo. Il franco svizzero continua quindi a essere sopravvalutato sul mercato delle divise. Si sa che questa situazione danneggia le esportazioni e il turismo svizzeri, tanto più che si prevede in tempi brevi un rallentamento della crescita, tanto a livello svizzero, quanto a livello internazionale. Per il 2019 le previsioni
di crescita sono state ridotte dalla BNS dall’1,5 allo 0,5% - 0,1%, con un tasso di inflazione sempre vicino a zero: lo 0,4%, che potrebbe scendere allo 0,2% nel 2020. Con questa sua politica, la Banca Nazionale Svizzera dimostra di potersi distanziare dalla politica della Banca Centrale Europea, che ha nuovamente deciso una riduzione dei tassi di interesse. La BNS indica così di voler mantenere una politica monetaria espansiva, ma entro i limiti attuali. Tuttavia anche questa prudente difesa del franco con-
tro un’eccessiva rivalutazione rischia di sollevare le ire degli americani. Come scrivevamo in un precedente articolo («Azione» del 15.7.19), gli Stati Uniti tengono un elenco dei paesi che definiscono «manipolatori di divise». Si tratta di una lista che prevede misure particolari per quei paesi che usano lo strumento valutario (per esempio mediante svalutazione) per favorire le loro esportazioni. Proprio per il fatto che, in luglio, si registrava una pausa degli interventi a difesa del franco, la Svizzera è stata tolta da questa lista. Ora, però, la situazione è cambiata e il franco è di nuovo sotto pressione. Come detto poco sopra, la Banca Nazionale Svizzera, da metà luglio, ha acquistato divise per oltre 12 miliardi di franchi, per cui per gli Stati Uniti potrebbe essere considerata un «manipolatore di divise». Secondo le regole americane, lo si diventa quando l’eccedenza delle esportazioni sulle importazioni con gli Stati Uniti supera i 20 miliardi di dollari; quando l’eccedenza della bilancia dei pagamenti supera il 3% del Prodotto interno lordo (PIL) e quando gli acquisti di divise della banca centrale raggiungono al minimo il 2% del PIL. In passato, l’eccedenza commerciale svizzera nei confronti degli Stati Uniti era ampiamente al di sotto della soglia dei 20 miliardi di dollari. Ma, dal 2009, le esportazioni svizzere negli USA sono
raddoppiate. Quest’anno, per la prima volta, si tocca il limite dei 20 miliardi. Lo speciale rapporto verrà però pubblicato solo la prossima primavera, per cui qualcosa potrebbe ancora cambiare. Per gli Stati Uniti un forte avanzo commerciale danneggia i paesi partner, che non possono continuare ad accumulare disavanzi. L’eccedenza della bilancia dei pagamenti è in gran parte dovuta alla bilancia commerciale, ma anche al fatto che la Svizzera esercita sempre una forte attrazione sui capitali esteri, soprattutto in periodi di incertezza. Le pressioni al rialzo sul franco sono quindi costanti e la Svizzera non può tollerare a lungo una forte rivalutazione senza compromettere le esportazioni e il turismo. Del resto, il tasso di cambio sull’euro si sta stabilizzando e quello sul dollaro può essere considerato equo. L’eventuale accusa di «manipolatore» potrebbe però avere pesanti conseguenze per la Svizzera, tanto più che le aziende svizzere hanno creato quasi mezzo milione di posti di lavoro negli Stati Uniti e investito oltre 300 miliardi di dollari, cioè più della Germania o della Francia. Dati di cui si dovrà tener conto prima di adottare eventuali sanzioni. Anche sotto questo aspetto, l’accordo di libero scambio in discussione con Washington assume un’importanza determinante per la Svizzera. Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
È la terra che fa la differenza
L’agricoltore e agronomo Jürg Moser produce per Migros patate di qualità bio. Affinché le entrate e la qualità siano adeguate, la produttività del suolo riveste una particolare importanza. Per questo promuove in modo naturale la varietà delle specie e la biodiversità nei diversi ecosistemi della fattoria Testo: Claudia Schmidt Foto: Paolo Dutto
Jürg Moser (32) coltiva su una superficie di due ettari patate bio in 35 varietà differenti.
Da cosa dipende la qualità di una patata?
Da una parte, dalla scelta della varietà. Ma anche la meteorologia gioca un ruolo importante. E naturalmente la concimazione e la qualità del terreno. Quest’ultimo è decisivo e deve essere idoneo, ossia leggero e idealmente a base di argilla sabbiosa. Perché il terreno è così importante?
Perché un terreno di qualità, sano e capace di una buona ritenzione idrica influisce sull’assimilazione delle sostanze nutritive da parte delle piante e sulla loro salute.
Cosa significa salute? E come la si sostiene?
Salute significa che tutti gli organismi del suolo abbiano buone condizioni di vita. Questa struttura formata da animali, funghi e batteri è estremamente complessa. Tutto questo io posso favorirlo lavorando il terreno in modo delicato, vale a dire con macchinari leggeri. Non posso passarvi sopra trop-
Settimane Bio
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po spesso e, soprattutto, non quando il suolo è troppo bagnato. Altrimenti esso verrebbe compresso e compattato, danneggiando gli spazi vitali di cui necessitano molti esseri viventi, quali lombrichi o coccinelle. Inoltre, senza questi spazi, l’acqua non potrebbe penetrare nel terreno e, nel peggiore dei casi, sarebbe compromesso. Se invece il suolo riesce a trattenere bene l’acqua, sarà più resistente in situazioni estreme quali caldo e siccità. La sua azienda è certificata Bio. Quali vantaggi ha il fatto di rinunciare a fertilizzanti chimici di sintesi e pesticidi?
Alcune sostanze disturbano la vita del terreno a tal punto che esso perde il suo equilibrio. Una struttura del suolo attiva è fondamentale per le piante. Gli importanti organismi del terreno che vivono in simbiosi con le piante non vengono disturbati dall’agricoltura bio. Quanto fertilizza?
In autunno sui campi si effettua il sove-
scio – come coltura di copertura – con leguminose, le quali immagazzinano azoto dall’aria e lo rilasciano nel terreno. Ciò fa bene alle patate. Alla terra aggiungiamo poi letame o composto organico, affinché gli organismi siano ben nutriti. In questo modo le piante ricevono il giusto apporto nutritivo. Diversamente dalle coltivazioni convenzionali ci interessa favorire in primo luogo il terreno, non le piante. Cosa fa ancora per promuovere la biodiversità?
Creiamo degli spazi ecologici di bilanciamento, come siepi, cataste di rami, fioriere e nidi artificiali per gli uccelli. Ogni misura influisce infine sul suolo, dove vivono anche la maggior parte degli esseri viventi. Quando tutto è ben bilanciato, si riscontrano anche meno problemi con parassiti e malattie. Qual è il suo piatto preferito a base di patate?
Maccheroni dell’alpigiano e rösti alla bernese.
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Migros si procura le sue materie prime bio svizzere esclusivamente da aziende certificate Bio-Suisse. Migros attribuisce molta importanza al rispetto delle severe direttive biologiche.
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Politica e Economia
L’inflazione in salsa italiana
Politica monetaria Le caratteristiche dei rialzi dei prezzi nell’Italia di qualche decennio fa non sono paragonabili –
nel bene e nel male – a quelle odierne
Edoardo Beretta Non smetterò di ripetere che il concetto di «inflazione», a cui le banche centrali da alcuni decenni ormai associano il mero rialzo dell’indice dei prezzi al consumo (calcolato come paniere di beni/servizi scelti), sia in realtà un fenomeno meramente monetario, cioè determinato dall’aumento dei volumi monetari rispetto ai beni reali.
I rincari degli anni 70 e 80 hanno comportato l’apprezzamenzo degli immobili, favorendo chi possedeva casa Per intenderci: in presenza di beni reali ad un livello immutato di 100 unità e mezzi di pagamento (ad es., cartamoneta, moneta elettronica ecc.) in aumento a 120 unità, ben 20 di queste sarebbero eccedenti. Per evitare che i quantitativi di beni/servizi (rimasti invariati a 100 unità) possano essere acquistati troppo facilmente, si rende dunque necessario un incremento generalizzato dei prezzi. Ecco perché l’«inflazione» è sempre stata associata ad una riduzione del potere d’acquisto. Ciò detto, il caso italiano degli anni 70 e 80 è di particolare interesse in quanto davvero unico per caratteristiche. Infatti, contrariamente alle
storie di insuccesso ed impoverimento economico (connesse appunto a forti rialzi dei prezzi come quelli subiti dall’economia italiana per ben due decenni), gli italiani risultano essere fra i maggiori detentori di ricchezza patrimoniale privata a livello mondiale. Come si spiegano, quindi, tali rincari perduranti ed un simile dato economico invece sintomatico di benessere? La chiave di volta risiede nell’atipicità delle modalità di investimento da parte dei soggetti economici italiani in quei decenni. Infatti, molti italiani hanno optato sin dal Secondo Dopoguerra per un immobile di proprietà ed, in epoche di boom (o «miracolo») economico, persino per seconde (o terze) case sparse sul territorio, che da un lato potevano essere acquistate con poche mensilità salariali e dall’altro alimentavano la crescita di settori ad alto valore aggiunto (altrettanto contribuenti al PIL) come l’edilizia. Avendo investito nel «mattone», i rincari degli anni 70 e 80 non soltanto hanno comportato l’apprezzamento dei beni di consumo, ma anche quello di tali asset immobiliari, il cui percorso di crescita nel corso degli anni sarebbe normalmente stato ben più graduale. Di colpo, quindi, gli italiani si sono visti detentori di maggiore ricchezza rispetto ai valori inizialmente acquisiti. Nel contempo, parti della società civile guadagnavano da meccanismi, che foraggiavano una vera e propria spirale inflazionistica fatta
Negli anni Settanta sono stati i salariati senza altre risorse a pagare il prezzo dell’inflazione. (Keystone)
di indicizzazioni salariali secondo il principio della «scala mobile» e rendimenti su conti correnti o deposito oltre che titoli di Stato oggi impensabili. Tale fenomeno – per caratteristiche, pervasività e quantitativi – è un unicum a livello internazionale e contrad-
dice l’idea (di norma, corretta), per cui l’inflazione comporti impoverimento economico. Rimane corrispondente a verità anche nel caso italiano che essa sia stata foriera di distorsioni economiche: si pensi, ad esempio, a quanto poco varrebbero i risparmi di chi aves-
se deciso di tenerli «sotto il cuscino» o tesaurizzarli in modo alternativo. Nel contempo, gli elevati tassi di interesse a contrasto di tali «fiammate» inflazionistiche hanno comportato un «effetto di spiazzamento» (crowding out effect), trattenendo il settore industriale da investimenti per mezzo di risorse a prestito in quanto troppo onerose da remunerare. Che ormai il mercato immobiliare italiano abbia raggiunto un livello di saturazione indotto anche dall’ipertassazione dei beni immobiliari (sebbene esplicitamente non esista un’imposta patrimoniale) è da osservare con preoccupazione, poiché per anni i passaggi di proprietà hanno costituito un «salvagente» per una classe lavorativa divenuta più precaria ed a basso reddito. Le lezioni, che si possono trarre dall’anomalia di tale casistica, sono svariate: certamente, lo scenario italiano è oggigiorno irreplicabile. Infatti, si sta vivendo in epoche di quasi assente indicizzazione dei salari ai tassi di inflazione che non includono voci di spesa quali cassa malati, attivi immobiliari o l’eventualità di shrinkflation, cioè che i prodotti siano di minor qualità, costino meno al produttore ma a parità di prezzo generino maggiore profitto, con tassi di interesse azzerati e prezzi immobiliari già elevati. La vera incertezza delle epoche odierne, forse, risiede proprio nell’assenza di opportunità di investimento remunerato e sicuro. Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
Raffinati nuovi aromi La stagione della fondue alla Migros inizia con due nuove gustose varianti: la fondue Mi-Chèvre della linea Sélection è composta nella stessa proporzione da Gruyère e aromatico formaggio di capra. La variante Piment d’Espellette con fruttato peperoncino dei Paesi Baschi conferisce alla tradizionale Moité-Moité un aroma particolare. Nell’assortimento Migros ognuno troverà velocemente la sua variante di Fondue preferita per un piacere senza compromessi.
Consiglio
Al posto del pane, per la fondue sono ideali anche delle piccole patate bollite o verdure sbollentate come cavoletti di Bruxelles, broccoli o zucca.
Fondue Piment d’Espelette 600 g Fr. 16.80
Sélection Fondue Mi-Chèvre 600 g Fr. 18.60 Disponibile dal 18.11 al 30.12
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Christian Vitta, il finanziere È un po’ di tempo che non tocchiamo il tema delle finanze del Cantone Ticino. Ce ne dà ora lo spunto per farlo la pubblicazione dei risultati del consuntivo del 2018 che si chiude in modo eccellente con un’eccedenza di esercizio di 137 milioni di franchi e un risultato totale, ossia dopo la presa in considerazione del conto investimenti, sempre ancora in positivo per 40 milioni. Sappiamo anche come questo saldo di esercizio sia stato raggiunto. Con una diminuzione di 26 milioni rispetto alla spesa preventivata e con un aumento di ricavi, rispetto al preventivo, di 104 milioni di franchi. Congratulazioni agli amministratori del Cantone e, in primis, al capo del Dipartimento finanze che si può proprio dire può, per il momento, dormire su un letto di piume. Più che il risultato finanziario in sé quello che ci interessa in questo
articolo è verificare se il Cantone sta seguendo una politica finanziaria ragionevole. Quando consideriamo quello che vien detto e scritto sull’andamento delle finanze cantonali ci scontriamo in generale con due scuole di pensiero. La prima, certamente maggioritaria, considera che il meglio che il Cantone possa fare è diminuire le imposte, tagliare la spesa e, nella misura del possibile, ridurre il debito pubblico. Chi ragiona in questo modo pensa, indipendentemente da quale sia la sua posizione nel ventaglio delle formazioni politiche, che un franco prelevato con le imposte e speso dallo Stato è un franco perso per l’economia. Tanto varrebbe buttare questi soldi in una fossa e ricoprirla di terra. L’effetto sull’economia sarebbe lo stesso. L’altra scuola reputa invece che, anche in un’economia di mercato, lo Stato svolge un
ruolo importante in quanto si assume il finanziamento di prestazioni, che il mercato di per sé non farebbe, come la sicurezza della popolazione o l’educazione della stessa al livello primario e secondario. Un altro campo nel quale lo Stato agisce in favore dell’economia è quello delle infrastrutture: dalla rete viaria ai numerosi e costosi manufatti di protezione contro possibili catastrofi naturali, dalle infrastrutture nel settore energetico a quelle che albergano le attività del tempo libero, culturali e sportive. Investendo nell’infrastruttura lo Stato contribuisce all’espansione della domanda globale e dunque anche alla crescita dell’economia. Anno sì, anno no, nell’economia ticinese vengono investiti da aziende, privati e amministrazioni pubbliche, circa 6 miliardi di franchi. Nel corso degli ultimi dieci anni gli investimenti del
Cantone si sono aggirati annualmente sui 350 milioni di franchi. Con quasi 6% del totale degli investimenti realizzati in Ticino, il Cantone è quindi uno dei maggiori investitori dell’economia cantonale. A questo punto il lettore si chiederà dov’è il problema. Il problema è rappresentato dal fatto che, nel corso di questo periodo, i gestori delle finanze cantonali hanno spesso utilizzato la spesa per gli investimenti come una specie di ammortizzatore del deficit di bilancio, tagliando gli investimenti ogni qualvolta si profilava all’orizzonte la possibilità di un deficit rilevante. Per l’importanza dell’attività di investimento del Cantone un taglio nella spesa di investimento si trasforma immediatamente in una riduzione del tasso di crescita del Pil cantonale. Se il Cantone, per fare un esempio, riduce di 60 milioni i
suoi investimenti, l’aggregato degli investimenti dell’economia ticinese si riduce dell’1% e il possibile tasso di crescita del Pil dello 0.2%. Dal 2009 al 2016, il Cantone ha utilizzato la spesa di investimento come ammortizzatore degli eventuali deficit di bilancio. Di conseguenza la spesa annuale per investimenti è restata costante o è diminuita. Solo negli ultimi due anni, ossia nel 2017 e nel 2018, gli investimenti hanno ripreso ad aumentare in modo significativo passando da 285 milioni nel 2016 a 420 milioni nel 2018. Si tratta di un aumento pari al 47% nel giro di due anni. Aiutato dagli interessi negativi, il direttore del Dipartimento delle Finanze, Christian Vitta, sta così profilandosi come uno dei più grandi finanzieri che il Cantone abbia mai avuto. E in questo incontra la nostra approvazione.
una scusa in più per non riunirsi. Ma il suo piano istituzional-politico è fallito, non soltanto perché la Corte ha rimandato i parlamentari al lavoro, ma perché i Comuni fino a ora hanno dato unicamente cornate al primo ministro. Al momento è stata votata una legge che impedisce il «no deal» – e che Johnson naturalmente non voleva perché il suo piano A era proprio andar dritto al 31 ottobre senza negoziare nulla – mentre la richiesta del primo ministro di indire elezioni subito è stata bocciata. Così la strada verso il 31 ottobre, deadline della Brexit, che a Johnson pareva larga e piena di opportunità è diventata strettina: il premier deve negoziare un altro accordo con l’Unione europea entro il vertice del 18 ottobre; oppure può rimettere ai voti l’accordo di Theresa May, che è già stato bocciato tre volte ai Comuni (e che rappresenta dal punto di vista politico uno smacco enorme per Johnson: la vedete la May seduta sul fiume, sì?); oppure deve chiedere un’ulteriore proroga dell’articolo 50, cioè tradire l’unica promessa fatta: l’uscita del Regno Unito dall’Ue a ogni costo entro la fine di ottobre. C’è sempre la scappatoia delle elezioni anticipate, ma a questo
punto i tempi sono molto stretti. Su questa strada strettina, non sta scomodo soltanto Johnson. Sta scomodo anche il suo guru, Dominic Cummings, l’ideatore di questa strategia ai confini della legalità che è riuscito a perdere tutti i voti in Parlamento, il sostegno della maggioranza e anche la battaglia legale. Persino Nigel Farage, leader del Brexit Party che fino a qualche giorno fa faceva disegni elettorali assieme ai Tory, oggi chiede le dimissioni di Cummings. Ma sta scomodo anche il Labour, che in questi tre anni di opposizione ha fatto il record delle occasioni mancate. L’ultima è stata perduta proprio in questi giorni, quando il leader del partito, Jeremy Corbyn, non soltanto ha confermato la sua ambiguità dicendo che, in un eventuale referendum sulla Brexit, rimarrà neutrale, ma ha anche imposto la sua linea al resto del partito che, grazie all’appoggio dei sindacati, ha bocciato una mozione che schierava il Labour inequivocabilmente per il «remain». Ora Corbyn si trova di fronte a un altro dilemma: Johnson gli sventola davanti l’opzione elettorale, e il leader del Labour vorrebbe molto afferrarla perché il suo obiettivo non è tanto fermare la Brexit quanto
andare al potere, ma nelle urne non è detto che poi riesca davvero a sconfiggere i conservatori. Facciamo prima un referendum e togliamoci il pensiero della Brexit, lo consigliano in molti, ma Corbyn sembra sordo a questo suggerimento, e Johnson lo sa: un’elezione voluta dal Labour e poi persa dal Labour sarebbe invero la più sconfortante delle occasioni mancate. Ma tra tutti gli scomodi ci sono anche i parlamentari stessi: è vero che nei pochi giorni di settembre il Parlamento ha bloccato di fatto l’azione del governo, ma in tutti i voti precedenti, non è riuscito a dare un indirizzo propositivo di alcun genere. Ai Comuni non c’è una maggioranza per un accordo, non c’è una maggioranza per un non accordo, non c’è una maggioranza per revocare l’articolo 50, non c’è una maggioranza per un’elezione, non c’è una maggioranza per il secondo referendum e non c’è una maggioranza per votare la sfiducia a Johnson. Ecco perché, ora che il Parlamento ha ricominciato a lavorare, nessuno si sente sollevato: c’è la vittoria sulla brutalità del premier, certo, ma dove si va, in questa strettissima strada, ancora nessuno lo sa dire per certo.
ro di perseguire il proposito di riannettere la regione all’Italia, già dominio dei duchi milanesi. Dopo Trento e Trieste, sarebbe toccato al Ticino ricongiungersi alla madrepatria, quella vera, dispensatrice di sangue e spirito italici. Le simpatie per le sorti dell’Italia, manifeste fin dagli anni del Risorgimento, riemersero tumultuosamente nel 1915, con l’entrata in guerra del Regno a fianco dell’Intesa. Scrittori come Francesco Chiesa e politici come Giuseppe Cattori seguirono le vicende con ardente trepidazione, sussultando ad ogni offensiva dell’esercito regio sull’Isonzo. A guerra terminata, gli ideali de «l’Adula», in sé lodevoli, iniziarono a scivolare verso il terreno della contesa politica. Le veementi proteste per l’esclusione di Fiume dai territori assegnati all’Italia (e che perciò si ritenne vittima di una «mutilazione»)
spinsero Gabriele D’Annunzio – il poeta guerriero, il vate, l’imaginifico – ad organizzare nel settembre del 1919 una spedizione armata verso la città adriatica, dove rimase fino al Natale del 1920, dando vita ad un esperimento di governo festosamente anarchico. Nella Carta del Carnaro, redatta dal poeta ricalcando una bozza del sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris, si precisò che «Fiume, libero comune italico da secoli, è l’estrema rocca della cultura latina, è l’ultima portatrice del segno dantesco… è pienamente compresa entro quel cerchio che la tradizione la storia e la scienza confermano confine sacro d’Italia». Erano parole e formule di grande suggestione, che non lasciarono indifferenti gli aduliani e gli irrequieti seguaci dell’araldo del riscatto italiano. Un’ammirazione che D’Annuncio ricambiò nel novembre del 1920 invian-
do ai «giovani ticinesi» un messaggio sottilmente ambiguo, e affacciando l’idea che l’ora della liberazione sarebbe presto arrivata: «Il mio pensiero è con voi e con la vostra Terra», e aggiungeva – riprendendo un verso di Dante – che «le più belle albe non sono ancora nate». D’Annunzio e i suoi legionari furono sloggiati da Fiume dallo stesso governo italiano a cannonate. Quella impresa rimase tuttavia impressa nella mente di Benito Mussolini, che infatti la replicò, con ben altri esiti, nel 1922 (marcia su Roma). Nel frattempo anche «l’Adula» abbracciava la causa del nascente fascismo, tutta protesa a rinverdire l’antica gloria della penisola e con questa il prestigio dell’italianità fuori d’Italia. Per quel piccolo gruppo fu un terribile abbaglio, che trasformò un’iniziativa coraggiosa in un veicolo di propaganda del regime littorio nella Svizzera italiana.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Strada stretta per Boris Il Parlamento inglese è tornato al lavoro, anche se il primo ministro Boris Johnson non voleva e anche se un suo ministro ha detto che i Comuni sono «morti» e «non hanno alcun diritto di riunirsi». La Corte suprema, questa istituzione che ha solo vent’anni di vita e che fino a ora era sconosciuta ai più, ha stabilito che la decisione di Johnson di sospendere i lavori parlamentari fino al 14 ottobre era «illegale, nulla e senza effetti»: il giudice che presiede
la Corte, Lady Brenda Hale, è diventata in un attimo l’incarnazione della democrazia britannica, con il rispetto dello stato di diritto e della divisione dei poteri (e pare che le sue spille vistose siano diventate il feticcio degli anti Brexit). Il premier non voleva troppi ostacoli e dibattiti sulla Brexit, così aveva pensato bene di eliminarli tout court mandando in vacanza i parlamentari, che sono anche impegnati nelle conferenze annuali dei partiti,
Brenda Hale, Baronessa Hale di Richmond, è la presidente della Corte suprema, che ha annullato la chiusura del Parlamento inglese.
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti D’Annunzio ai giovani ticinesi Per molti ticinesi impegnati nella diatriba sulla «preferenza indigena» parrà strano apprendere che un tempo, più o meno un secolo fa, le relazioni italo-svizzere non trasudavano reciproco astio. Anzi, un giovane filosofo veronese rifugiatosi a Lugano dopo i tumulti del 1898, Giuseppe Rensi, definì il Ticino «una repubblica italiana»: una terra incastonata nella Confederazione, su questo non era lecito nutrire dubbi, ma inconfondibilmente latina nella lingua, nei costumi e negli usi, nella mentalità, nelle pratiche devozionali cattoliche. L’elemento distintivo risiedeva nell’ordinamento politico-istituzionale: monarchico, seppur temperato dallo Statuto albertino, quello regnicolo; schiettamente repubblicano quello ticinese, in sintonia con la Costituzione elvetica. Era una differenza fondamentale, che tuttavia non intaccava il dato di fondo,
ossia il volto italico del cantone e della sua popolazione. Un altro aspetto meritevole di essere ricordato riguarda l’attività di un circolo d’intellettuali che nel 1912 dette vita ad una pubblicazione anomala nella pur rigogliosa selva cartacea del paese: «l’Adula», sottotitolo «organo ticinese di coltura italiana». Il gruppo, ispirato dal glottologo Carlo Salvioni, nazionalista e poi fervente interventista, si propose di tutelare l’italianità, sempre più insidiata dall’infiltrazione tedescofona, giunta al Sud delle Alpi a bordo delle carrozze ferroviarie. Diretto da due donne, Rosetta Colombi e Teresa Bontempi (altra stranezza, per l’epoca), «l’Adula» intendeva ergersi, al pari della montagna più alta del cantone, a vedetta e guardiana dell’indole latina, primo presidio lungo il crinale delle Alpi. Sulla testata cadde immediatamente l’accusa di «irredentismo», ovve-
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Cultura e Spettacoli Ridare o tenere? Abbiamo parlato con Andrea Bignasca del dovere di restituzione delle opere rubate pagina 48
Il tramonto dei Penan Dopo Bruno Manser, un altro svizzero, Thomas Wüthrich, nel Borneo per osservare i Penan
Quanto fa male la quotidianità Storie di relazioni, di fallimenti, di vita di tutti i giorni, ma raccontate con la maestria unica della giovane Sally Rooney
CoreLeoni, la grinta di Leo Leo Leoni non è solo Gotthard, ma anche la mente e il braccio del progetto CoreLeoni
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Metamorfosi
Mostre Le sculture di Matisse al Kunsthaus
di Zurigo
Gianluigi Bellei Bella mostra di Matisse scultore al Kunsthaus di Zurigo. Matisse, assieme a Picasso, è uno dei protagonisti dell’arte del XX secolo. Picasso è più giovane di undici anni. Si incontrano a Parigi nel 1907 nel salotto di Gertrude Stein. Caratterialmente sono uno all’opposto dell’altro. Picasso è istintivo, dinamico, energico. Matisse, al contrario, è calmo, riflessivo, sensuale. Per loro si è citato Nietzsche; individuando nell’uno lo spirito dionisiaco e nell’altro quello apollineo. Matisse nasce a Le Caveau nel 1869 e muore a Cimiez nel 1954. Ma Parigi è la sua città d’elezione. È famoso soprattutto per le sue tele colorate, poetiche, musicali. Fra il 1904 e il 1906 incrocia l’esperienza puntinista e in seguito dà vita al movimento Fauve, del quale è il più grande esponente, tutto luce e colore in contrasto con l’espressionismo tedesco che privilegia la linea. Il 1906 è l’anno decisivo per la sua arte. Espone al Salon des Indépendants di Parigi Le bonheur de vivre scatenando una querelle nella quale interviene Picasso con Les demoiselles d’Avignon. Il primo è colorato, curvilineo, il secondo monocromatico e spigoloso. In seguito le sue opere diventano leggermente cubiste in omaggio a Cézanne. Poi l’esplosione dei colori con La Danse. Prima nello studio preparatorio del 1909, oggi al MoMA di New York, poi con il dipinto dell’anno seguente, che si trova all’Ermitage di San Pietroburgo. Un vero e proprio cerchio apollineo con accordi di verde, rosso e blu, come sottolinea Anna Ottani Cavina. Il suo è un lento lavoro, di sottrazione. 40 sedute per dipingere un nudo, più di 100 per una natura morta. 500 pose per la scultura Le serf. Durante la maturità la tavolozza si fa via via più selettiva tendendo all’astrattismo. Gli ultimi decenni li trascorre in famiglia, «lontano dai clamori della vita mondana». Meno nota è la sua produzione scultorea. D’altronde nell’arco della sua vita realizza soltanto 80 bronzi, peraltro quasi tutti di piccole dimensioni. Mentre, per fare un paragone, Picasso ha al suo attivo 700 creazioni plastiche. Nel 1950 alla Maison de la Pensée di Parigi, in occasione dei suoi 80 anni, sono esposti 62 pitture e ben 51 bronzi. Come dicevamo, il Kunsthaus di Zurigo dedica la mostra autunnale alle sue sculture. Più di 70 opere, con disegni e dipinti, assieme a lavori di Rodin, Maillol e Bourdelle che all’inizio sono stati i suoi punti di riferimento. La realizzazione dei bronzi di Matisse segue
la stessa evoluzione dei dipinti: espressionisti all’inizio e sempre più essenziali con il trascorrere degli anni. La curatrice della mostra, Sandra Gianfreda, nell’introduzione al catalogo sottolinea che sono approssimativamente due le categorie con le quali si possono dividere i suoi bronzi. Da una parte la molteplicità dei punti di vista e la verticalità della costruzione e dall’altra un metodo di progressione formale che trasforma le figure da un aspetto naturalistico a uno autonomo e stilizzato. Accanto alle opere in mostra ci sono spesso delle fotografie di nudo femminile trovate sulle riviste a buon mercato come Mes Modèles o L’Etude academique o magari pseudo-scientifiche come l’Umanité féminine. Quest’ultima è una rivista fotografica che trasforma l’etnografia in un passatempo popolare. Ma soprattutto una ricca fonte di ispirazione per il voyeurismo finalizzato al turismo sessuale europeo. Le immagini di Juive algerienne e Juive d’Alger gli servono per Nu camp del 1906-07. Mentre Jeunes filles targui hanno esattamente riscontro nelle Deux femmes del 1907. Questa foto per Matisse ha il pregio di rappresentare due donne nude, una di fianco all’altra, viste sia da dietro che di fronte. Matisse a quell’epoca, tra il 1906 e il 1907, lavora a Collioure dove non riesce a trovare delle modelle; ma è anche vero che il bianco e nero delle immagini, i toni di grigio e i contrasti di chiaro e scuro danno un’immagine semplificata che rende meglio di quella di una modella vivente. La mostra si apre con la scandalosa Femme accroupie del 1881-1882 di Auguste Rodin del quale possiamo poi ammirare l’imponente Jean d’Aire del 1887 al centro della sala. Sulla stessa linea retta, uno di fronte all’altro, Le serf di Matisse del 1900-1903. Rodin realizza una scultura più alta del normale, levigata, naturalistica, accurata, con la figura tesa e il busto spostato in avanti. Matisse al contrario ha un tocco delle dita nervoso a tratti spigoloso e la figura ha il busto spostato all’indietro. In questo caso si avvale di un modello italiano soprannominato Bevilacqua. Seguono tante piccole sculture come la serie dei cinque ritratti di Jeannette attraverso i quali negli anni leggiamo il percorso di stilizzazione delle forme. La modella è Jeanne Vaderin che posa per i primi due. Nella terza versione Matisse lavora a memoria e si serve di questa per realizzare le ultime due. Alla fine del percorso troviamo un gigantesco kouros del VI secolo avanti Cristo attribuito a Polimede di Argo
Henri Matisse, Nu de dos I, 1908–1909 Bronzo, Kunsthaus Zürich, 1960 (© Succession Henri Matisse / 2019 ProLitteris, Zurich)
somigliante a quel Cléobis appartenuto a Matisse, che porta con sé nei suoi vari atelier per tutta la vita, e che sarà esposto il prossimo anno, dal 7 febbraio al 6 maggio, al Museo Matisse di Nizza. La verticalità della statua è certamente fonte di ispirazione per Nu de dos I, II, III e IV. Questi 4 bassorilievi costituiscono un aspetto a sé della sua produzione. Innanzitutto per le dimensioni (190 centimetri di altezza) e poi per la durata della realizzazione: dal 1908 al 1930. Eseguiti non per costituire un unico progetto ma che, visti
uno accanto all’altro, danno il senso della sua evoluzione artistica. Nel primo Matisse dà grande importanza alla resa anatomica. Nel secondo si assiste a una semplificazione delle forme, l’assialità si accentua e la colonna vertebrale scompare. Nel Nu de dos III, realizzato tra il 1913 e il 1916, la coda dei capelli diventa un cilindro che scorre lungo tutta la schiena sino alla fine dei glutei. Nell’ultimo la figura è maggiormente semplificata e il corpo forma quasi un blocco omogeneo con lo sfondo. Qui Matisse, fa notare Claudine
Grammont in catalogo, raggiunge la purezza, la tranquillità, l’equilibrio e la calma della statuaria arcaica egiziana e greca in opposizione ai corpi in movimento di Rodin. Dove e quando
Matisse - Metamorfosi. A cura di Sandra Gianfreda. Kunsthaus, Zurigo. Fino all’8 dicembre 2019. Orari: ve-do/ ma 10.00-18.00, me 10.00-20.00, lu chiuso. Catalogo Scheidegger & Spiess, F/D/E, CHF 49. www. kunsthaus.ch
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Cultura e Spettacoli
Restituzioni museali, una richiesta controversa
Incontri Il tema delle restituzioni di opere trafugate è sempre più attuale: ne abbiamo parlato con Andrea Bignasca,
direttore dell’Antikenmuseum di Basilea
Luciana Caglio Anche in questo dibattito, più che mai attuale nell’era delle code davanti ai musei, l’effetto «politically correct» ha lasciato un segno inconfondibile. L’ondata del revisionismo, che ha investito le istituzioni in generale, non ha risparmiato il museo, colonna portante della memoria storica: oggi, però, da adeguare alla «decolonizzazione culturale». Un’operazione che vede gli ex-imperi coloniali, Francia, Inghilterra, Germania, Olanda, impegnati a rifarsi una verginità morale, confessando gli errori e gli orrori commessi. Cioè saccheggi di oggetti, appartenenti al patrimonio delle culture e tradizioni locali, e strappati persino dalle sepolture nei cimiteri. Da qui la disponibilità a restituire questi beni ai legittimi proprietari. Una crociata riparatrice di cui si fece paladino Emmanuel Macron: con il discorso pronunciato all’università di Ouagadougou, Burkina Faso, in cui proclamava il doveroso rimpatrio delle opere trafugate. Era il 30 novembre 2017. Alle promesse, però, non seguirono i fatti. In realtà, le restituzioni si scontrano con ostacoli d’ordine pratico, sia logistico sia professionale. In molti casi, i musei africani non sono attrezzati per ospitare i pezzi da esporre e per certificarne l’identità. Ci si trova alle prese con un problema complesso, esposto al rischio di sbrigative strumentalizzazioni ideologiche. Da cui metteva in guardia un servizio apparso sulla «Neue Zürcher Zeitung» del 31 luglio scorso: dal titolo sorprendente: Nichts alles, was im kolonialen Kontext steht, muss zurückgegeben werden («Non tutto ciò che si trova nel contesto coloniale dev’essere restituito»). Il giudizio spetta a Hermann Parzinger, responsabile dei beni culturali in Prussia: sfidando gli umori del momento, racconta come sono andate le cose nel tortuoso corso della storia. Dai saccheggi che, non di rado, avvenivano con la complicità degli indigeni che, a partire dagli anni 60, con l’indipendenza nazionale maturarono la consapevolezza di aver subito un grave danno, la perdita di un pezzo di storia. E quindi l’esigenza di riavere, al più presto, oggetti che, nel frattempo, avevano trovato casa nei musei europei, protetti e valorizzati. Musei che, intanto, si trovano a fare i conti con la correttezza politica e le sue derive. Il discorso, infatti, si sta allargando. Considerato espressione d’immobili-
smo e di potere, il museo è nel mirino di una contestazione antisistema e revisionista, dalle motivazioni pretestuose ma dagli effetti rovinosi. Si pensi a quanto avviene nelle università americane, dove si abbatte la statua di Colombo, simbolo del colonialismo. In proposito, Parzinger parla di «emotivizzazione»: «Si punta il dito contro i musei dimenticando tutto quello che hanno fatto». Un evidente paradosso: istituzioni, dal British Museum di Londra alla Museumsinsel di Berlino, che avevano salvato opere, proponendole alla collettività, sono sotto processo. In attesa di una sentenza che potrebbe significare la restituzione a un proprietario, a suo tempo ignaro. Anche in Svizzera, paese senza passato coloniale, non estraneo però al traffico di reperti archeologici e di opere trafugate, l’interrogativo «restituzioni sì o no», fa discutere. L’abbiamo sottoposto alla competente attenzione di Andrea Bignasca, direttore dell’Antikenmuseum di Basilea.
UNESCO del 1970, codice dell’ICOM o i principi di Washington. Si tratta sempre di semplici codici di condotta morale non implicano l’obbligo di adottarli, non hanno insomma valore di legge. Quanto alla Svizzera, dal 2005 esiste la legge sul trasferimento dei beni culturali, non retroattiva, e regola solo in generale il rapporto tra la Confederazione e altri Stati. Ogni caso dipende dal volere dei singoli Paesi. In Europa mancano normative concernenti la restituzione di opere d’arte rubate sia durante la Seconda guerra mondiale sia in situazioni analoghe, come durante l’era coloniale. E poi perché fermarci a quel periodo? Sarebbe un discorso infinito.
Parzinger parla di «emotivizzazione» nei confronti del museo, istituzione e centro di potere: condivide questo giudizio?
Qual è la sua posizione in generale?
Il tema, molto complesso, va inserito in un contesto più ampio, rispetto a quello legato alla cultura, in generale, e ai musei, in particolare. Comporta aspetti storici, giuridici, politici e anche etici, in gran parte irrisolti, anche attraverso le restituzioni, e che solo adesso si comincia ad affrontare. Tutta la storia dell’umanità è un seguito di ingiustizie e soprusi. È giusto rifletterci, per non ripetere gli stessi errori. Ma è impossibile riparare veramente il male inflitto. Perché una giovane tedesca, oggi, dovrebbe pagare per ciò che ha fatto suo nonno, ufficiale delle SS, 80 anni fa? E gli italiani resi responsabili delle guerre di conquista condotte dalle legioni romane? Per eventi più vicini, è possibile pensare a riparazioni almeno a livello simbolico: per esempio, con restituzioni magari parziali, attraverso cooperazioni culturali o scambi di ricerca. Riguardo al passato lontano, non c’è rimedio sensato. E chi annuncia di voler intervenire, lo fa per interessi politici propri . Spesso hanno poco a che vedere con la tragedia originaria. In veste di responsabile dell’Antikenmuseum si è trovato confrontato con richieste di rimpatrio?
Senz’altro, in almeno tre o quattro situazioni diverse. Ogni caso merita una valutazione a sé. Il rimpatrio diventa un’opzione possibile se il richiedente
1945: un soldato americano fa la guardia a opere sottratte all’Italia dai nazisti e pronte a essere restituite grazie a un programma dell’esercito americano. (Keystone)
può dimostrare di essere stato derubato e se l’attuale proprietario ha acquistato in malafede. Sono fatti difficili da appurare: spesso sono passati molti anni, le persone coinvolte sono defunte, manca la documentazione o la si fa sparire. In simili casi, si cerca di far valere il buon senso, indipendentemente dalle leggi, con l’intento di stabilire cooperazioni utili per entrambe le parti. Nel 2008, in seguito a ricerche scientifiche in archeologia, condotte da un team internazionale, abbiamo restituito all’Italia 137 terrecotte figurate, finite da noi, tramite il commercio antiquario: si venne poi a sapere che provenivano da un tempietto arcaico di Cori nel Lazio. La restituzione è avvenuta in accordo con le autorità italiane e grazie a una collaborazione scientifica internazionale: risultato finale, la ricostruzione del tempietto che valorizza il territorio di Cori. Le sembra che, nel fenomeno restituzioni, la politica (o l’ideologia) abbia una parte rilevante?
Sono convinto che, purtroppo, l’aspetto
politico o ideologico sia forte. Il discorso di Macron è rivelatore: la promessa di un intervento immediato a favore dei «fratelli» africani, che i francesi considerano partner tradizionali. Il rapporto Felwine Sarr e Bénédicte Savoy dava indicazioni radicali: restituire tutto, senza se e senza ma. Impegno non rispettato, al contrario della Germania. Altri paesi, come il Belgio, sembrano vivere sulla luna. A Tervuren, nei dintorni di Bruxelles, si è allestito un museo, dove non solo si espongono tutti i reperti sottratti al Congo, colonia belga, ma si mette in buona luce Leopoldo II, che aveva autorizzato i saccheggi. Immediata la reazione del presidente congolese che vuole la restituzione. Nella diatriba Francia-Italia sul caso Leonardo, in cui Roma chiede il rimpatrio, perché l’artista era italiano, non credo che ci siano moventi politici. In questo dibattuto problema, mancano normative di legge. Esistono dichiarazioni di carattere etico, sottoscritte da quasi tutti gli Stati: convenzione
Pienamente. I musei, oggi al centro della discussione, stanno sul banco degli imputati e possono solo giustificarsi sulla difensiva. La reazione dell’opinione pubblica, emotivamente comprensibile, non è corretta. Si dimentica che tante opere sono arrivate in Europa da scavi regolari, secondo accordi conclusi alla luce del sole con le parti in causa. Si dimentica il lavoro di conservazione, presentazione, ricerca e pubblicazione svolto dai musei. Il nostro sapere attuale, inclusa la presa di coscienza, si basa su questo lavoro pionieristico. È giusto interrogarsi sul ruolo dei musei, ma tenendo conto che tutto è avvenuto con il consenso dell’intera società, consapevole della necessità di conoscere la sua evoluzione nel corso dei secoli.
Un’ultima domanda: in Svizzera, e in Ticino in particolare, vanno di moda i «minimusei» dedicati non solo alla civiltà contadina ma anche a oggetti, più o meno curiosi. Cosa ne pensa?
È uno sviluppo interessante e necessario per la cura delle traduzioni locali. Non va dimenticato, tuttavia, che anche in passato, queste tradizioni hanno subito i continui influssi di migrazioni, guerre, commerci e interessi che provenivano da fuori. Limitarsi alla sfera locale significa voler conoscere la Svizzera soltanto attraverso la sua arte popolare: sarebbe una restrizione fatale. La democrazia, che noi oggi pratichiamo, è nata 2500 anni fa e le nostre istituzioni politiche e giuridiche derivano dal mondo romano: tanto per fare un paio di esempi. Chi alza muri rischia di ritrovarsi, lui stesso, in carcere.
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Cultura e Spettacoli
Clara, la musa lavoratrice
Anniversari Il 13 settembre 1819 nasceva Clara Wieck, diventata poi moglie di Schumann,
amata intensamente anche da Brahms e depositaria della musica di Mendelssohn Giovanni Gavazzeni «Quanto bisogna faticare per ricavare un paio di talleri da una città. Quando alle 10 di sera te ne stai seduto da Poppe o vai a casa, io, poverina, devo ancora suonare in società e alla gente in cambio di due belle parole e di una tazza di acqua calda; verso le 11-12 torno a casa stanca morta, bevo un sorso d’acqua e penso: l’artista è considerato più di un mendicante?». La diciottenne pianista Clara Wieck così scriveva al suo innamorato, il compositore ventisettenne Robert Schumann. Questa lettera-diario risalente al dicembre 1837 è ora inclusa in Clara Schumann Wieck, Lettere, diari, ricordi, (introduzione, traduzione e note di Claudio Bolzan, edizione Zecchini, € 20). Un volume molto utile per conoscere in lingua italiana le scene della vita, pre e post-matrimoniale della pianista-compositrice, di cui quest’anno cade il bicentenario della nascita. Clara visse con Robert Schumann uno degli amori più travagliati della storia della musica romantica. Infatti per anni il padre-padrone, Friedrich Wieck, avversò i promessi sposi, negando il consenso alle nozze. Per questo egoistico proposito e con la scusa che lo sposo non guadagnava a sufficienza come compositore e critico, non esitò ad usare ogni mezzo: ricatti sentimentali, minacce, sequestri giudiziari, diffamazioni. La vita «mendica» da concertista errante di Clara, quella per cui il padre l’aveva così ben preparata e di cui voleva essere unico beneficiario, garantì però il sostentamento dei coniugi Schumann e della loro numerosa prole (ebbero otto figli, di cui sette sopravvissuti, in 16 anni di matrimonio). La vita della neo-sposa-madre cominciò a ritmi molto pesanti. Nel 1848, fuggiti in campagna dalla rivoluzione di Dresda, Clara scriveva alla migliore amica Emilie List: «il mio tempo è calcolato minuto per minuto; do ogni giorno 2-3 ore di lezione, inoltre suono anche un’ora, scrivo
La pianista Clara Schumann (1819-1896). (Keystone)
il diario, una volta arrangio questo, una volta quello per pianoforte, ogni giorno vado con Robert come minimo un’ora, provvedo ai miei figli, pratico l’inglese (con una mia allieva di Plymouth), per non ricordare le visite che devo fare e ricevere». Quando Robert si gettò nel Reno dal ponte di Düsseldorf e finì in clinica psichiatrica perseguitato da allucinazioni sonore di demoni e angeli, non era ancora nato l’ultimogenito che portava il nome di Felix, omaggio al venerato collega Mendelssohn, un giovane di
tante speranze che sarebbe diventato poeta. In questa situazione tragica Clara si fece carico di tutto e tutti, intensificando le tournée di concerti, appoggiata da alcuni fedelissimi di cui divenne partner storica: il grande violinista ungherese Joseph Joachim, il baritono Julius Stockhausen, e soprattutto colui che era stato indicato dal marito come il Predestinato, Johannes Brahms, l’uomo che la amò e la venerò per tutta la vita. Clara Schumann divenne nella seconda metà del XIX secolo l’indi-
scussa depositaria della musica di Schumann e di Mendelssohn, che con Beethoven e Chopin rappresentavano i suoi evangelisti musicali. Brahms, si può dire, fu una continuazione del rapporto col marito-compositore, senza vincolo di coniugio, essendo diventata apostola della sua musica (soprattutto del Primo concerto per pianoforte e orchestra), e sempre più spesso interlocutrice privilegiata nella fase di composizione e revisione delle opere pianistiche, cameristiche e sinfoniche. Clara ebbe il dolore indicibile di perdere la figlia Julie pochi mesi dopo sposata (fu desiderata in moglie anche da Brahms) a causa della tubercolosi, che portò via anche l’ultimogenito Felix, il figlioccio di Brahms, che i figli Schumann amavano «per il suo amore per nostra madre». Tra parti, reumatismi e concerti ogni dove, Clara vinse le incertezze anche come compositrice. Nel 1840 scriveva di non essere «in grado di comporre; a volte questo mi rende davvero molto infelice, tuttavia la cosa non va davvero, non ho alcun talento per questo. (…) Un Lied poi, non ci riuscirei proprio; comporre un Lied, comprendere totalmente un testo, per far questo ci vuole ingegno». Col marito in manicomio tornò a studiare («non c’è nulla al di sopra dell’auto-creazione, anche se viene solo per un’ora di svago, ove non si respira che suoni»), scrivendo pezzi e romanze più mendelssohniane che schumanniane (un recente cd Decca della pianista inglese Isata Kenneth Mason ci fa conoscere il suo Concerto per pianoforte – sistemato da Robert – e le eleganti romanze e le trascrizioni dai Lieder del marito). Suonare per lei era come respirare. D’altronde lo aveva scritto al Pigmalione-fidanzato-Robert: «l’arte è un bel dono! Cosa c’è di più bello che rivestire di suoni i propri sentimenti; quale consolazione nelle ore tristi, quale godimento, quale bella sensazione procurare a qualcuno un’ora serena! E che sensazione sublime praticare l’arte tanto da sacrificare per questo la propria vita!».
L’OSI e Pierre-Laurent Aimard a Locarno Settimane Musicali La 74ma edizione della rassegna asconese si chiude con un concerto
eccezionale dedicato a Messiaen, Bartok e Haydn: sul podio Markus Poschner
Le Settimane Musicali di Ascona sono una delle più prestigiose rassegne concertistiche del nostro cantone. Vantano una continuità storica assolutamente ineguagliabile. È infatti dal 1946 che si tengono ad Ascona, grazie a un’iniziativa dell’avvocato asconese Leone Ressiga Vacchini. Negli ultimi anni la rassegna ha voluto assumere una fisionomia più attuale e dinamica, con il proposito di sottolineare il valore della manifestazione per la promozione territoriale. In questo senso il suo obiettivo è coinvolgere un pubblico ampio e variato con
Concorso «Azione» in collaborazione con il Percento culturale di Migros Ticino, propone a i propri lettori la possibilità di aggiudicarsi alcuni biglietti per il concerto dell’11 ottobre 2019 alla Chiesa di San Francesco di Locarno. Per partecipare basta seguire le istruzioni contenute nella pagina web www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!
una scelta musicale in grado di suscitare interesse per la qualità del programma e per quella degli esecutori. In particolare, affidando la direzione artistica a Francesco Piemontesi si è cercato di sottolineare questo indirizzo moderno e con lo sguardo aperto alle proposte più interessanti e originali. Un apporto importante al Festival è stato poi dato dalla presenza costante dell’Orchestra della Svizzera italiana, attorno alla quale le Settimane Musicali sono nate e si sono sviluppate. Ancora oggi questo complesso partecipa regolarmente al Festival. Quale concerto conclusivo dell’edizione 2019, la 74esima della loro storia, le Settimane proporranno l’11 ottobre prossimo, alle ore 20.30, nella Chiesa di San Francesco a Locarno, un concerto che vedrà proprio l’Osi come protagonista. Il programma della serata prevede di Olivier Messiaen (1908 – 1992) Oiseaux Exotiques per pianoforte e orchestra da camera; di Béla Bartók (1881-1945) il Concerto n.3 in mi maggiore per pianoforte e orchestra, e infine di Franz Joseph Haydn (17321809) la Sinfonia in sol maggiore n.92, Oxford. L’OSI sarà diretta da Markus Po-
Invenzione e libertà per pianoforte Jazz Rete Due
A Lugano il 13 ottobre Frederic Rzewski
Riprende la nuova stagione della rassegna «Tra jazz e nuove musiche» proposta dalla Rete Due Rsi e coordinata da Paolo Keller. Di nuovo, il programma dei concerti previsti tra ottobre e dicembre 2019 offre un ampio ventaglio di proposte musicali, che spaziano dal jazz vero e proprio fino alla sperimentazione contemporanea, dalla chitarra spagnola di Yamandu Costa (17 ottobre) a quella elettrica e avveniristica di Elliot Sharp (25 ottobre). Momento chiave della rassegna sarà senz’altro la nuova edizione delle ECM Sessions, che per festeggiare i 50 anni della celebre etichetta tedesca porteranno a Lugano (il 9 novembre) il duo Trovesi-Coscia, una formazione diremmo quasi mitica della scena musicale italiana, e l’altrettanto prestigioso Trio Tapestry del sassofonista Joe Lovano. Per quello che riguarda gli aspetti «logistici», da segnalare che Rete Due continua la sua collaborazione con le varie realtà cantonali che si occupano di programmazione musicale nel settore jazz. Saranno quindi nuovamente previsti concerti negli spazi di Jazz in Bess, sede dell’Associazione Jazzy Jams (il 20 novembre), al Teatro del gatto di Ascona, sede del Jazz Cat Club (il 2 dicembre), Al Cinema Teatro di Chiasso (il 16 novembre) e al Cinema Lux di Massagno (il 25 ottobre). La rassegna musicale si aprirà il prossimo 13 ottobre con un concerto di grande interesse e sicuramente molto originale, quello del pianista americano Frederic Rzewski. In un’esibizione «in solo» Rzewski offrirà al pubblico una panoramica sulla sua ricca e complessa attività artistica, che spazia sull’arco di oltre 40 anni. Nato nel 1938, il pianista è esponente di un pensiero creativo sicuramente da collocare nell’ambito della sperimentazione contemporanea: dopo aver studiato con Milton Babbit a Princeton, negli anni 60 è stato anche allievo in Italia di Dallapiccola. Compositore ed esecutore delle proprie creazioni, Rzewski si è fatto conoscere in particolare per la sua vena ironica, libera e divertita (che si esprime in brani come Les Moutons de Panurge) e, in particolare, per una sua rivisitazione del brano popolare cileno El pueblo unido jamas sera vencido, costruito in analogia alle Lieder ohne Worte di Mendelssohn. Entrambi i brani sono su Youtube, e ciò può contribuire a prepararci a un concerto sicuramente sorprendente. /A.Z. Frederic Rzewski
Studio 2 Rsi Domenica 13 ottobre, ore 17.15
In collaborazione con
È nato nel 1957 a Lione. (pierrelaurent aimard.com)
schner, per un programma che avrà come punto forte il tema del canto degli uccelli, grazie alla presenza del pianista Pierre-Laurent Aimard e della composizione di Messiaen. Aimard è un personaggio chiave della musica contemporanea e come interprete unico del repertorio pianistico di tutti i tempi, sta conducendo una carriera di rinomanza internazionale. Nel 2017 ha ricevuto il premio internazionale Ernst von Siemens Musical Award che ricompensa una vita al
Concorso servizio della musica. La sua registrazione del Catalogue d’oiseaux del 2018 ha ricevuto il «Preis der deutschen Schallplattenkritik». Informazioni
www.settimane-musicali.ch In collaborazione con
«Azione» in collaborazione con il Percento culturale di Migros Ticino, propone ai propri lettori la possibilità di aggiudicarsi alcuni biglietti per il concerto di Frederic Rzewski che si terrà il 13 ottobre, ore 17.15, allo Studio 2 RSI. Per partecipare basta seguire le istruzioni contenute nella pagina web www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!
Un autunno succulento.
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di zucca a dadini d’aceto, ad es. di mele d’acqua di zucchero di cannella di senape, ad es. senape di Digione
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Preparazione Per la senape, versate i dadini di zucca in aceto e acqua, portate a ebollizione, coprite e lessate per ca. 10 minuti. Frullate, mescolate con lo zucchero e la cannella e lasciate raffreddare. In una pentola ampia, rosolate bene le salsicce nell’olio a fuoco medio per 10-12 minuti. Unite le cipolle tagliate ad anelli fini e continuate la cottura. Quando le cipolle saranno dorate, spolverizzatele con un po’ di farina. Mescolate la purea di zucca con la senape e regolate di sale. Servite la senape alla zucca con le salsicce.
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Idee e acquisti per la settimana
Settimane Bio
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Il miglior frumento per il pane bio
Da quest’estate il pane fresco bio venduto da Migros è esclusivamente a marchio «Migros Bio Svizzera». Roman Rüdemann è uno degli agricoltori che fornisce il nuovo grano Testo: Claudia Schmidt Foto: Justin Labhart, Jowa
Da quando otto anni fa ha rilevato l’azienda agricola di Ueberstorf (FR) e si è convertito alla produzione Bio Suisse, per Roman Rüdemann l’obiettivo dichiarato è stato produrre in modo naturale e sostenibile. Per Rüdemann il frumento rappresenta una componente essenziale dei cicli agricoli della sua azienda: «Dal letame dei nostri polli ricaviamo il fertilizzante per il frumento. Dopo il raccolto, utilizziamo quindi la paglia per gli animali», spiega il contadino. Deve essere flessibile nel reagire alle esigenze dell’azienda agricola: «Con la coltivazione biologica nulla avviene secondo uno schema preciso. Anche il fertilizzante prodotto in azienda agisce diversamente rispetto a quelli conven-
Nell’agricoltura biologica le sfide sono grandi: la rinuncia ai fertilizzanti chimici, ai pesticidi e agli erbicidi comporta un maggior carico di lavoro sul campo, in particolare nella lotta contro le erbe infestanti. «Sui terreni coltivati passiamo con l’estirpatore, ma per un lavoro di fino è necessaria la nostra presenza. Un lavoro molto faticoso, che richiede un bel po’ di tempo». Ma è uno sforzo che vale la pena fare: Rüdemann al mulino ha infatti ricevuto ottimi riscontri per quel che riguarda la qualità del suo frumento, e ciò rappresenta il miglior presupposto possibile per produrre un pane naturale.
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zionali, per il quali l’effetto può essere previsto con estrema precisione». Qualità e rinuncia alla chimica
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Renato Isella, agronomo e responsabile Category Management pane presso la Federazione delle cooperative Migros.
«Ora in Svizzera c’è più frumento biologico» Da luglio è disponibile pane fresco biologico prodotto con ingredienti svizzeri. Quanto tempo è trascorso dall’idea alla realizzazione? È un progetto che è durato anni. Nato nel 2011 da un’idea, abbiamo dato avvio alla sua realizzazione nel 2015.
Roman Rüdemann verifica il grado di maturazione del suo frumento. Non tutte le varietà di grano si prestano alla coltura biologica. Ogni anno l’agricoltore valuta quale varietà meglio si adatta alle sue esigenze. Bio Suisse e il mulino l’hanno supportato nella coltivazione, in particolare nel corso della fase di conversione.
Perché ci vuole così tanto tempo e quali sono le sfide da affrontare? Inizialmente il frumento biologico disponibile non era sufficiente, sebbene il settore bio fosse in crescita. Eravamo inoltre alla ricerca di una materia prima della qualità necessaria per produrre il pane. Una ricerca proattiva di contadini, cui è stato chiesto se potevano coltivare frumento biologico? Dovevamo chiaramente trovare degli agricoltori che potessero fornirci frumento della qualità richiesta. Alcuni di loro hanno deciso di convertire l’azienda alla produzione biologica. È così stato necessario un notevole impegno a livello di consulenza, anche per quanto riguarda la scelta delle varietà più idonee. Ma siamo orgogliosi del risultato, perché ora in Svizzera c’è più frumento biologico. In che modo è stato possibile convincere gli agricoltori? Abbiamo definito degli incentivi. Siccome gli agricoltori sono abituati a vendere sulla base di criteri quantitativi, abbiamo incluso il fattore qualitativo nella definizione del prezzo. Per questo settore si tratta di una novità assoluta.
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Cultura e Spettacoli
Il lento commiato dei Penan
Fotografia Il fotografo svizzero Thomas Wüthrich ha appena dato alle stampe il frutto del suo impressionante lavoro
nell’isola del Borneo sulle tracce dell’antropologo svizzero Bruno Manser
Gian Franco Ragno Dagli anni Settanta, molto prima che il suo nome diventasse una sorta di pericolo pubblico, la coltivazione intensiva per la produzione di olio di palma ha contribuito a distruggere le foreste pluviali nelle zone più povere del pianeta. Le popolazioni originarie, così come la fauna, già alle prese con il fragile equilibrio dei loro ecosistemi, vennero, nell’opzione migliore, allontanate e il loro ambiente distrutto da questa monocultura particolarmente redditizia. Tra queste popolazioni nella grande isola del Borneo, parte malaysiana, fra i massimi produttori al mondo della sostanza, e più precisamente nello Sarawak, troviamo i Penan, una delle ultime culture nomadi di cacciatori e raccoglitori, che quindi vivono di pesce, frutta e piante, spostandosi regolarmente nel territorio.
Thomas Wüthrich fa parte di quella corrente di fotografi elvetici impegnati a livello sociale Seguendo le orme di Bruno Manser (1954-2005?), eco-attivista basilese molto noto in Svizzera tra gli anni Ottanta e Novanta, che contribuì ad attirare l’attenzione pubblica sul problema delle
foreste pluviali e delle sue popolazioni, il fotografo Thomas Wütrich ha iniziato a delineare il suo progetto di testimonianza proprio intorno ai Penan. Wütrich, per cinque anni e in più viaggi, pienamente coinvolto nel progetto, non solo si è accostato alla popolazione, ma ha vissuto con una famiglia nella zona alta del fiume Limbang, sentendosi come uno di loro («La mia seconda famiglia» ha dichiarato). Il capo famiglia, Peng Megut, è infatti uno degli ultimi difensori della foresta contro le potenti ruspe degli speculatori. Negli ultimi mesi l’avventura umana e fotografica è approdata alla forma desiderata, ovvero un libro pubblicato per Scheidegger&Spiess, contenente una selezione di centoventi immagini e un’esposizione alla biblioteca pubblica Kornhaus di Berna. Nell’insieme, le immagini di Wütrich restituiscono con particolare efficacia l’ambiente impervio e umido, il verde intenso e scuro dell’immensa regione. Ogni immagine – sia un panorama sia un ritratto – si caratterizza per l’autonomia nel racconto complessivo, cercando di sintetizzare, di racchiudere un’immagine emblematica di un concetto a sua volta parte del discorso più ampio e articolato: una dialettica tra l’originario, assai fragile, e il nuovo, che si impone grazie alla potenza delle macchine e alla fascinazione del moderno, che fungono da parziale ricompensa della rapina della terra (un motorino, un frigorifero). Emblematiche in questo
Long Tevenga, Malaysia, 2016. Peng e il figlio Ulen ai piedi di un fico strangolatore. (© Tomas Wüthrich)
senso quindi alcune immagini di una fragile barriera di Peng Megut contro le ruspe, oppure, il ritratto delle generazioni più giovani della famiglia che guardano dei video sul cellulare – per intanto ancora senza campo. Nell’insieme si ha l’impressione tangibile di assistere al tramonto di un mondo arcaico, perché appare chiaro che ciò che verrà non permetterà di portare con sé tutto
ciò che fino a questo momento costituiva una solida identità. Il libro costituisce un esempio di quello che si può definire un reportage oggi: un progetto visivo a lungo termine, approfondito e documentato, che raggiunge la sua unità solo attraverso un lento e attento lavoro di riflessione e selezione. Risultato che, in ogni caso, non garantisce una sua fruizione o pubblica-
zione – in questo caso, raggiunta anche grazie a una campagna di crowdfunding. Il volume è altresì accompagnato, nella parte testuale, da due importanti saggi: il primo del linguista canadese Ian Mackenzie, profondo conoscitore della cultura in questione e il secondo da Lukas Straumann, personalità a capo della Bruno Manser Fonds, costituita dall’antropologo dichiarato scomparso proprio in queste zone, nel 2005. Concepito per far conoscere il dramma di questo gruppo di nativi, il libro non si limita all’intento didattico e divulgativo. Da un punto di vista formale, Wütrich ha la capacità di non essere meramente illustrativo: per idealismo e impegno, per vicinanza al soggetto ed empatia, Doomed Paradise prosegue con modestia ma altrettanta tenacia la lunga tradizione della fotografia di impegno svizzera – la cosiddetta «Concerned Photography», da Werner Bischof al meno conosciuto Peter W. Häberlin, fino agli autori di oggi. Una corrente in cui i protagonisti, consci della propria condizione di privilegiati essendo nati in un paese ricco, hanno il bisogno e la convinzione, superati i confini nazionali, di dover portare testimonianza di tutto ciò che succede al di là del cortile di casa. Bibliografia
Thomas Wütrich, Doomed Paradise. The Last Penan in the Rainforest of Borneo, Zürich, Scheidegger&Spiess, 2019 Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Sally e la quotidianità
Narrativa La giovane e brava irlandese Sally Rooney (uscita di recente con un secondo romanzo) mostra
come anche nella vita di tutti i giorni sia possibile cogliere attimi di straordinarietà Laura Marzi Per l’intero 2018 Sally Rooney è un nome che è stato sulla bocca di chi si occupa in un modo o nell’altro di letteratura, di chi scrive, ne scrive o semplicemente ama leggere e condividere le proprie impressioni. La giovanissima scrittrice irlandese, classe 1991, aveva infatti esordito nel 2017 e il suo romanzo Parlarne tra amici l’anno scorso è stato tradotto e pubblicato in italiano da Einaudi. Si tratta della storia di Frances e della sua amica Bobbi, del loro modo di essere ex-fidanzate, amiche, conviventi e poi di non stare più insieme. Dell’amore che nasce tra la protagonista, poetessa di ventun anni, e Nick, attore di trentadue con forti tendenze alla depressione. Si tratta di un libro allora, che ha una trama incentrata sull’amicizia tra due ragazze e l’amore tra una giovane e un uomo più grande di lei: pare non avere molto di speciale. Eppure, tutta l’attenzione che Sally Rooney ha attirato su di sé con quell’esordio era meritata, qualsiasi riconoscimento si possa tributare a questa autrice lo è. Cosa rende, se dovessimo chiedercelo, un libro degno di essere letto? Il fatto che ci racconti una storia, sì, questo è già un buon punto di partenza. Significa che per essere davanti a un buon testo non dobbiamo avere sotto gli occhi un manuale di psicologia camuffato da romanzo, cioè le elucubrazioni del suo autore o della sua autrice. Quando però ci si imbatte in un libro come quelli scritti da Sally Rooney improvvisamente ri-
Un dettaglio della copertina di Persone normali (Einaudi).
sulta chiaro che un buon romanzo deve sapere raccontare la realtà, ovviamente non nel senso che deve essere realistico. Leggendo entrambi i testi di Rooney si scopre scena per scena cosa succede a ogni atomo del corpo del personaggio in questione, cosa pensa e cosa sente a contatto con un sentimento o con una tazza di tè caldo sulla pelle e tutto questo, i particolari, la narrazione della realtà, non annoiano. La tendenza dell’umanità che tutti riconosciamo è l’istinto a ignorare il tra-
scorrere della vita quotidiana per balzare a quei momenti di essa in cui accade qualcosa di significativo, è l’irrisolvibile problema del cogliere l’attimo, e di perderlo. Questa autrice nei suoi romanzi fa incetta di attimi, uno dopo l’altro, mostrando al lettore, attraverso i suoi personaggi, tutto il vuoto di cui si compongono le esistenze e poi in fondo, sì, anche quanto sia meraviglioso l’amore. Anche nel secondo romanzo, infatti, Persone Normali, edito quest’anno da Einaudi, al cuore della storia c’è una
coppia di innamorati, Connell e Marianne. In questo caso Rooney decide di dare ancora più platealmente un carattere universale alla minuziosa narrazione delle storie dei due, attraverso una scansione temporale. I paragrafi hanno il titolo del tempo trascorso: qualche settimana, a volte un giorno, anche dei mesi. Nel tempo, nella vita, Connell e Marianne faticano a comprendersi, si feriscono facilmente, si pentono, si vogliono tantissimo e soffrono. Si trasformano parecchio, anche perché sono
entrambi molto giovani, e a partire da punti di vista unici e differenti giungono a conclusioni simili. Connell pensa che: «ha realmente voluto morire, ma non ha mai realmente voluto che Marianne lo dimenticasse. Questa è l’unica parte di sé che vuole salvare, la parte che esiste dentro di lei». Marianne realizza: «sentirsi così completamente in balia di un’altra persona era strano, ma anche molto normale. Nessuno può essere del tutto indipendente dagli altri, ha pensato, per cui forse valeva la pena smettere di provarci e lanciarsi nella direzione opposta, dipendere dagli altri per tutto, lasciare che loro dipendessero da noi, perché no». Attraverso lo sguardo di Sally Rooney, che crea bellezza affastellando dettagli su dettagli di realtà, l’amore esiste potente, come può accadere davvero, ma non salva. Seppure la relazione sia protagonista di entrambi i testi, Rooney non dimentica la differenza di classe, per esempio, che fa intervenire, come succede davvero, negli incontri e tra i sentimenti. Né tralascia il corpo. In tutti e due i romanzi domina la giovinezza e le malattie non sono mortali, ma condizionanti, però spesso, i corpi giovani sono sani e si spostano, si slacciano, per cercare nuove avventure. Bibliografia
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Cultura e Spettacoli
CoreLeoni II, lo spirito dei primi Gotthard continua Musica Il chitarrista Leo Leoni racconta il nuovo album della sua più recente creatura
perché non è scontato avere la risposta del pubblico.
Fabrizio Coli Se diciamo che questo è un gruppo unico al mondo la stiamo sparando grossa? Vediamo. Si tratta del progetto collaterale del fondatore di una band famosa: e fin qui niente di strano. Ci si aspetterebbe un repertorio tutto nuovo, un modo per esplorare altri universi artistici. Invece no. Il progetto collaterale ripropone i brani della band famosa. Una specie di tribute band allora? Sì, però di solito nelle tribute band di un gruppo non ci suonano i membri di quel gruppo. Qui invece ritroviamo non solo il fondatore e chitarrista della band famosa ma anche il batterista della stessa, un chitarrista che ne è stato parte, un bassista, questo sì, che non aveva legami con essa e un cantante pure lui al di fuori di questo giro ma che somiglia in maniera impressionante alla prima storica voce del gruppo famoso, tragicamente scomparsa nove anni fa. Tutto ciò mentre la band famosa rimane la più nota rockband elvetica e, dopo 27 anni di ininterrotta attività, continua a sfornare dischi, tenere concerti e riscuotere successo… Ecco, sta in questo particolarissimo rapporto con i Gotthard – aka «la band famosa» – l’unicità del progetto CoreLeoni dei quali è appena uscito il secondo album CoreLeoni II, pubblicato dall’etichetta tedesca AFM Records.
Grazie a questo disco alcuni celebri pezzi dei Gotthard hanno modo di ritornare a nuova vita Per farla più facile, alla base c’è la voglia di riprendere un bel po’ di canzoni che i Gotthard non frequentano più nei loro concerti. Brani che però sono nel cuore del chitarrista Leo Leoni, orgoglioso di riproporli dritti in faccia al pubblico con lo spirito e l’entusiasmo di quando sono stati concepiti, sostenuti dall’impatto del suono di oggi e da nuove energie. Puro e semplice hard rock, nato negli anni Novanta ma figlio degli anni Ottanta, fin dall’inizio immune a contaminazioni grunge o a tentazioni moderniste, fieramente sopravvissuto alle mode che sono andate e venute nei decenni e che ora assurge allo status di «classic rock». Chitarre prepotenti e graffianti, una sezione ritmica granitica, la voce di un cantante che riporta indietro i fan dei Gotthard ai tempi di Steve Lee. Questo si respira a pieni polmoni in CoreLeoni II, registrato nello studio ticinese di Leo, che anche stavolta è il produttore dell’album mixato dal fido Paul Lani. Mentre dalle casse esplodono i riff quadrati di Standing in the Light, Open Fire o Mountain Mama si parte per un viaggio nel tempo. Sono palpabili la gioia e l’energia che animano Leo
Questo è il secondo album della band.
Ma dividersi fra due gruppi e un repertorio comune non è una situazione un po’ schizofrenica?
(ride) No, schizofrenica no. È bella perché ho un repertorio più vasto di quello che faccio normalmente da una parte sola. Gran parte dei brani dei Gotthard che rifacciamo con i CoreLeoni infatti i Gotthard non li fanno più dal vivo. È una cosa che mi rimanda indietro di diversi anni e mi aiuta a mantenermi giovane!. Dopo quasi due anni di CoreLeoni qual è il tuo bilancio?
Leo Leoni (secondo da sin.) con la formazione dei CoreLeoni. (Alex Solca)
e i suoi compagni d’avventura: Hena Habegger, batterista dei Gotthard; Jgor Gianola, chitarrista forgiato da anni rock’n’roll prima nei Gotthard, poi con i tedeschi U.D.O.; il bassista Mila Merker già nei ticinesi Soulline e Vomitiors e il cantante cileno Ronnie Romero, scelto fra l’altro dal leggendario chitarrista Ritchie Blackmore come voce della più recente incarnazione dei Rainbow. Un entusiasmo che ci conferma anche Leo Leoni, mentre ci parla di questo secondo album. Leo, anche su CoreLeoni II la formula rimane la stessa: la maggior parte dei brani sono vecchi pezzi dei Gotthard che tornano a nuova vita. Come li avete scelti questa volta?
Nel primo album – The Greatest Hits Part 1 (uscito nel 2018, ndr) sono stato più che altro io a scegliere cosa fare. Stavolta, dopo tutto il tempo passato insieme in tour dove si era già delineata parte della scaletta del secondo lavoro, è stata più una decisione di gruppo. La scelta è stata fatta pensando anche ad alcuni pezzi che si sarebbero potuti riproporre in chiave diversa, come And Then Goodbye, Cheat and Hide (inclusi nella versione limited del disco, ndr.) o No Tomorrow che hanno cambiato faccia rispetto agli originali. E poi c’è la cover di John Lee Hooker Boom Boom (anch’essa una bonustrack, ndr.). È un pezzo divertente dove mi diverto ancora di più perché la canto io e questa è la novità del disco! (ride). Mi son tolto questo sfizio. In realtà non volevo neanche. Ma Ronnie la cantava troppo bene e perciò gli abbiamo proibito di farla!
Come nel primo lavoro comunque non manca qualcosa di inedito. Stavolta i brani nuovi di zecca sono due, Queen of Hearts e Don’t Get Me Wrong. Arriverà il momento di un disco solo con materiale dei CoreLeoni?
Probabilmente prima o poi arriverà, ma noi siamo partiti con l’idea di rivisitare il repertorio dei Gotthard e per ora ci stiamo divertendo a fare questo. Un disco di soli inediti dal mio punto di vista sarebbe un po’ ritornare a quello che faccio con i Gotthard. Un anno sì e un anno no usciamo con un disco nuovo, con dei pezzi nuovi che suoniamo sera dopo sera. Questo tipo di routine è stato uno dei motivi che mi hanno portato a lanciare il progetto CoreLeoni. Chi vivrà vedrà. Puoi ritrovarti alle prese con un brano come Mountain Mama sia con i Gotthard che con i CoreLeoni.
Vivi emozioni diverse suonando lo stesso pezzo con un gruppo o con l’altro?
Bella domanda… Se penso al tuo esempio, Mountain Mama è una pietra miliare del repertorio dei Gotthard. Quindi, quando la faccio con loro, la
reazione del pubblico me l’aspetto. Con i CoreLeoni invece in un certo senso siamo sempre allo sbaraglio, perché anche se ho dei compagni di band fantastici è il progetto stesso a essere una novità. In questo senso forse l’entusiasmo più grande ce l’ho con i CoreLeoni
L’entusiasmo continua e il progetto si solidifica sempre di più. Ora con noi c’è Alex Motta, che sostituisce Hena che si è preso un anno sabbatico. Si muove tutto in maniera divertente, positiva e costruttiva. In casa siamo stati accolti con grande entusiasmo e all’estero anche. Alla fine credo che CoreLeoni e Gotthard si rafforzino reciprocamente, ognuno porta all’altro una diversa energia.
E a proposito di Gotthard, state registrando, giusto?
Sì, stiamo lavorando al nuovo album: elettrico, rock, molto bello e colorato. Usciremo a febbraio se tutto va bene e l’anno prossimo si riparte. Con due gruppi e due tour! Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 settembre 2019 • N. 40
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Cultura e Spettacoli
Sguardo teatrale sulle inquietudini del presente
Teatro Fino al 6 ottobre a Lugano va in scena anche quest’anno il Festival internazionale del teatro e della scena
contemporanea
Giorgio Thoeni I temi della violenza e del potere sono al centro dell’attenzione non solo della triste attualità dei nostri giorni ma anche della linea editoriale della 28esima edizione del Festival Internazionale del Teatro e della scena contemporanea (FIT) sostenuto, fra gli altri, dal Percento culturale di Migros Ticino. In scena già da circa una settimana e fino al 6 ottobre il pubblico della rassegna ha iniziato a muoversi alla conquista dei posti messi a disposizione dagli spazi del LAC e del Teatro Foce. L’articolazione dell’offerta, come sempre, è intrigante con un pensiero dedicato a Vania Luraschi, instancabile e coraggiosa animatrice culturale da poco scomparsa. È a lei che si deve l’iniziativa di creare una manifestazione che, con il passare degli anni, ha assunto proporzioni importanti grazie a proposte spesso inedite sul piano della contemporaneità. Il nuovo corso dettato dall’avvicendamento alla direzione artistica di Paola Tripoli e dalla sua stretta e proficua intesa con Carmelo Rifici, ha trasformato la collaborazione tra FIT e LuganoInScena in una piattaforma interscambiabile di sorprese. Quest’anno, l’immagine di copertina del Festival vede un lupo accanto a un mucchio di macerie… una sorta di visione apocalittica, cupa e minacciosa
inquietudine verso un futuro poco promettente. Come i giorni del non amore descritti nell’editoriale: giorni senza poeti. Giorni in cui il sonno della ragione genera mostri. Il teatro, con le sue provocazioni, con il suo sguardo sul mondo e le sue domande esistenziali, per fortuna produce ancora poesia, offrendo vie di fuga e barlumi di speranza. Soprattutto momenti di confronto e riflessione attraverso le sue impressioni di realtà. Lo fa attraverso le proposte del FIT con prestigiosi ritorni e novità che altrimenti non sempre riusciremmo a scoprire nell’ambito dei cartelloni tradizionali. Da Renato Cuocolo e Roberta Bosetti (IRAA Theatre) con R.L., performance su un racconto di Alice Munro, al libanese Rabih Mroué con In Sand in the eyes che ci parla di Isis e della sua capacità di attrazione. Il collettivo Rimini Protokoll, innovatore del teatro contemporaneo, si occupa della Cuba di oggi con Granma. C’è anche spazio per due film, da The Congo Tribunal del regista svizzero Milo Rau, all’argentina Lola Arias con Teatro de Guerra, la conquista delle Malvinas/Falkland raccontata 35 anni dopo da ex nemici di guerra. Chro No Lo Gi Cal porta la danza della coreografa e danzatrice svizzera Yasmine Hugonnet mentre Attempt On Dying propone la difficile scelta del basilese Boris Nikitin nel raccontare in
Rudi Van der Merwe sarà in scena il 5 ottobre. (John Hogg)
scena la propria biografia, fra coming out e dramma famigliare. Destini e narrazioni si incrociano dunque fra eventi collaterali, incontri con gli artisti e… cene tematiche. Ovviamente l’elenco non si esaurisce ma continua con gli spettacoli dei prossimi giorni (fitfestival.ch) di cui fa parte anche Young & Kids, la sezione dedicata al giovane pubblico che ha preso il via con il talentuoso virtuosismo dell’ottimo Sacha Trapletti con il suo Girovago
alias il mio viaggio, una personale, fantasiosa e spesso geniale rilettura de Il Giro del Mondo in 80 giorni di Jules Verne. Quando il potere soffoca il dissenso
Noon, spettacolo in scena il 9 ottobre al Teatro Foce di Lugano (20.30) sembra una coda tematica del FIT. Frutto di un meticoloso lavoro di studio e ricerca del regista ceco Pavel Štourač con la sua compagnia internazionale Continuo Theater. Noon mette in scena una per-
formance che prende il nome dal titolo di un libro scritto da Natalia Gorbanevskaya, poetessa e attivista russa che racconta un episodio da lei condiviso con altri intellettuali nell’agosto del 1968 nel corso di una dimostrazione contro l’invasione della Cecoslovacchia dell’armata sovietica. Dopo appena cinque minuti i dimostranti sono stati fermati, poi interrogati, processati e puniti. Per quei pacifici dissidenti quella manciata di minuti di libertà è costata anni di prigione, esilio, campi di lavoro o internamento in ospedali psichiatrici. Noon lo racconta con il linguaggio del Physical Theater che combina il movimento degli attori con musiche eseguite dal vivo. Pavel Štourač, è anche docente di Master all’Accademia Teatro Dimitri. Ha curato la regia di Spettatori, Insomnia e Desire Caught by the Tail, spettacoli creati con gli studenti e presentati in Svizzera e in diversi festival internazionali. Dove e quando
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