Azione 41 del 9 ottobre 2023

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edizione 41

MONDO MIGROS

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SOCIETÀ

Screening mammografico e diagnosi precoce sono i migliori alleati contro il tumore al seno

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TEMPO LIBERO

Fra sonorità cosmiche e ritmi ipnotici, si è svolto a Locarno lo Swiss Synthesizer Meeting

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Il Giappone riprende in mano il suo destino mentre la crisi degli Stati Uniti continua

ATTUALITÀ Pagina 25

Daubenhorn, una scalata vertiginosa

La fiera tribù dei cripto cavernicoli

Carlo Silini

Conoscete la tribù dei cripto cavernicoli? Spiegazione del termine: cavernicolo è sinonimo di anacronistico, superato dai tempi; cripto, viene dal greco che significa «nascosto, coperto». Un cripto cavernicolo, quindi, è una persona «moderna», anzi «contemporanea», con uno stile di vita e abitudini in linea con l’evoluzione scientifica e dei costumi attuali, ma che nel profondo di sé, resta «vecchio». Non tanto dal punto di vista anagrafico (in parte anche), quanto soprattutto perché legato a usanze e abitudini obsolete. Al netto di questa definizione e pur essendo entusiasta del progresso scientifico, credo di appartenere a questa corposa tribù. Per esempio, pur riconoscendo l’infinita maggior comodità del navigatore, che in realtà uso a man bassa, mi piace trovare un itinerario di viaggio squadernando sul cofano una classica mappa delle strade e autostrade della regione in

cui mi avventuro. Non lo faccio in pubblico solo per evitare che mi scambino per un transfuga degli anni Ottanta o di essere rapito da un’équipe di antropologi interessati alle specie rare. Altro esempio. Durante le riunioni di lavoro e le conferenze stampa, i colleghi che si presentano senza un pc portatile o un tablet su cui prendere appunti sono autentiche mosche bianche. In un sottofondo di polpastrelli che battono lettere e segni grafici, tu estrai dalla cartelletta un vecchio bloc notes e sfili dal taschino la fedele penna biro e d’improvviso cala il silenzio. Tutt’attorno, con le dita paralizzate a mezz’aria sopra la tastiera, gli altri ti studiano perplessi, o al massimo con simpatica commiserazione, quasi a dire: ma da che epoca salta fuori questo qui? Da molti anni, poi, chi lavora nei media sente ripetere il mantra secondo il quale l’epoca della carta stampata è al tramonto: il mondo dell’in-

formazione starebbe vivendo una fase di transizione dal supporto cartaceo a quello elettronico e – in tempi rapidissimi – nessuno leggerà più giornali o libri di carta, ma tutti lo faranno (se lo faranno) da smartphone, PC, tablet e affini.

Un altro segnale di questa evoluzione è la quasi sparizione delle lettere con timbro e francobollo e delle cartoline dalle vacanze, soppiantate da selfie e video selfie inviati da distanze transcontinentali in tempo reale.

È un prodigio. Ed è un fatto che meno carta gira, meno alberi vengono abbattuti, con gran vantaggio per l’uomo e per l’equilibrio ambientale. Ma senza dimenticare che anche le nuove tecnologie consumano una quantità mostruosa di energia e hanno un potente impatto eco ambientale (basti pensare all’impiego delle terre rare per gli smartphone).

La cosa più preoccupante però è un’altra: una

L’Avanguardia parigina di inizio Novecento con Matisse, Derain e gli altri al Kunstmuseum di Basilea

CULTURA Pagina 35

condanna troppo frettolosa del «vecchio» modo di assimilare conoscenze, la lettura su carta. Su un inserto (cartaceo) che circolava nei giorni scorsi nelle case dei ticinesi c’era un’intervista illuminante alla neuropsicologa Barbara Studer, ricercatrice nelle università di Berna, Zurigo e Basilea. «Chi desidera comprendere e imparare in modo efficace – spiegava – dovrebbe preferire la lettura su carta stampata (…) la carta fornisce un feed-back tattile, che può portare a una maggiore capacità di memorizzazione e a una comprensione più profonda (…) quando leggiamo in formato digitale il cervello passa in modalità “scorrimento” mentre quando leggiamo testi stampati passa in modalità “approfondimento”». Mi è scappata una lacrimuccia per gli amati libri e i ritagli di giornali che non riesco a buttare. E ho sentito un palpito di fierezza per la singolare tribù alla quale appartengo.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
Jacek Pulawski Pagina 17 pagina
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MONDO MIGROS

A bordo della Nostalgia

Speciale 90esimo ◆ Grande successo per il tour del camion vendita Migros

Chi sulla scia dei ricordi di quella che in passato era un’amata (e spesso necessaria) consuetudine, chi alla scoperta per la prima volta dell’esistenza di un camion preposto alla vendita di prodotti Migros, tutti hanno apprezzato il Nostalgia Tour, che sull’arco di sei giorni ha fatto ventiquattro tappe sparse tra Ticino e Moesano. Sulle piazze in cui ha sostato il camion, completamente rinnovato (vedi «Azione» del 18 settembre 2023), si sono così date appuntamento per-

sone anziane desiderose di rivivere un’esperienza che le ha accompagnate per molti anni, scolaresche curiose e vocianti, ma anche giovani famiglie, stuzzicate da un’iniziativa originale e che ne prevedeva numerose collaterali, come i rinfreschi offerti e le dirette su Rete Uno e Radio3i. Una soddisfazione anche per il team, composto dall’autista Fabio Ferrarese e dalla commessa Katia, che hanno avuto modo di rivedere vecchie conoscenze e rifare i percorsi di un tempo.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 2 azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00 –11.00 / 14.00 –16.00 registro.soci@migrosticino.ch
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Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89 Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano Posta elettronica info@azione.ch societa@azione.ch tempolibero@azione.ch attualita@azione.ch cultura@azione.ch Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria - 6933 Muzzano Tiratura 101’177 copie ●
Redazione Carlo Silini (redattore
responsabile)
Simona Sala Barbara Manzoni Manuela Mazzi
Ivan Leoni
(In senso orario) L’autista Fabio Ferrarese; la tappa di Caslano; arrivo del camion ad Auressio; Piazzale Migros Mendrisio Campagna Adorna; interno del camionnegozio. (DMG Agency)

Programmi occupazionali di SOS Ticino Da anni sono un punto di riferimento per il reinserimento professionale puntando sul recupero dell’autostima e della motivazione

I Sacri Monti locarnesi ci riprovano Una delegazione ticinese è stata di nuovo a Berna con lo scopo di ripresentare la candidatura per il riconoscimento UNESCO

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In Val Bregaglia muoiono i castagni Basta una passeggiata tra sentieri e strade agricole, immersi in un magnifico paesaggio per rendersi conto della loro sofferenza

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Tumore al seno, teniamo alta l’attenzione

Salute ◆ Screening mammografico: il programma di prevenzione cantonale può suscitare timori ma permette la diagnosi precoce

Nel 2016 Anna (nome noto alla redazione) compie 50 anni. Fino ad allora, racconta, non aveva mai visto regolarmente un medico, e neppure il suo ginecologo se non per le tre gravidanze: «La spinta a fare la prima vera visita di controllo al seno l’ho avuta quando ho ricevuto la lettera del Programma cantonale di screening mammografico nel quale mi si invitava a prendere un appuntamento per una mammografia in uno dei centri specializzati». Vuole parlarne con noi: «Spero che il mio racconto possa essere da stimolo». E si rivolge alle donne che stanno leggendo: «Hai 50 anni? Hai fatto il controllo al seno?».

A partire dal 2015, per tutte le circa 50mila donne dai 50 ai 69 anni residenti, il canton Ticino ha introdotto la possibilità di sottoporsi a una mammografia di screening ogni due anni, con partecipazione volontaria. Un esame i cui costi sono in gran parte sostenuti dall’Assicurazione malattia di base e sono esenti da franchigia, risultando in tal modo completamente gratuito per la donna. D’altra parte, il suo elevato livello qualitativo nell’ambito del programma di screening trova piena raccomandazione presso la Federazione svizzera dei programmi di screening del cancro Swiss Cancer Screening, la Lega svizzera contro il cancro e l’OMS che concordano: «Rappresenta il metodo scientificamente più appropriato per l’individuazione precoce del tumore al seno».

Al Centro di senologia della Clinica Moncucco di Lugano incontriamo il senologo Francesco Meani: «La mammografia è uno strumento utile alla diagnosi precoce, sinonimo di prevenzione secondaria: dobbiamo chiarire che non si tratta di prevenzione primaria, la cui strategia ha lo scopo di evitare o ridurre la probabilità di ammalarsi; siamo invece nell’ambito della prevenzione secondaria, anch’essa strategica, che si attua con il diverso obiettivo di riuscire ad accorgersi prima possibile se, di fatto, ci si è ammalati».

In risposta ai vari dibattiti sullo screening mammografico, «seppur leciti», dice: «Se mi chiedessero: Francesco, se proprio ti devi ammalare di un tumore, preferisci scoprirlo di 5 millimetri con linfonodi sani, oppure di 3 centimetri con linfonodi malati?», tutti sceglierebbero la prima opzione. E lo specialista mette sul piatto della bilancia quella che definisce «una sorta di tabù, di scaramanzia» che spesso limita anche solo il pensiero di sottoporsi a un esame di screening, per timore di favorire in qualche modo la scoperta di un tumore: «Ottobre (ndr : “rosa” perché eletto a mese di prevenzione del tumore al seno) non deve essere il mese dello struzzo: comprendo che l’atteggiamento scaramantico, ancora oggi

molto presente, sia un meccanismo innato di difesa: nego, non ci penso, non sto male, se non ci penso non mi succederà».

Dottor Meani: «È fondamentale ricordare che la diagnosi precoce salva la vita e spesso salva anche il seno»

Ma evitare i controlli può avere un prezzo, talvolta molto alto: «Una diagnosi precoce può salvare la vita, preserva molto di più il seno, comprende un percorso terapeutico meno invasivo e pesante». Le conferme giungono dal prosieguo del racconto di Anna: «Ho aderito all’invito dello screening e sono andata a fare la mammografia a cui è seguita l’ecografia. Poi, la scoperta del tumore, piccolo che palpandomi nemmeno sentivo, l’esame con l’ago (ndr : biopsia del tessuto) e la conferma: un tumore maligno sotto il centimetro di grandezza, non aggressivo e per il 98 per cento sensibile agli ormoni. Avevo allattato tutti e tre i miei figli, cosciente anche del fatto che l’allattamento mi avrebbe aiutata a non incontrare un tumore sulla

mia strada, ma ognuno di noi è fatto diversamente e c’è sempre il fattore sfortuna. Invece, poi ho capito la mia fortuna di aver risposto alla chiamata dello screening: l’importante è riuscire a trovarlo nel momento giusto, all’insorgere, e questo si può fare solo attraverso i controlli».

Dal canto suo, il dottor Meani ribadisce: «È fondamentale ricordare che la diagnosi precoce salva la vita e spesso salva anche il seno», ricordando che: «Oggi non vale più solo l’equazione “più grosso è il tumore e più è difficile curarlo”, perché conosciamo le differenze di biologia dei tumori dove l’aggressività, a parità di dimensioni e stadio, può differire da donna a donna e dipende da molti fattori individuali come la salute generale, l’età, la familiarità, e via dicendo». Ne consegue che la scelta dei trattamenti e le probabilità di guarigione sono estremamente individuali e vanno presi a carico in modo personalizzato: «Dopo la diagnosi di un tumore al seno, la personalizzazione delle cure e l’ascolto della storia di ciascuna paziente sono due fattori imprescindibili nel rapporto che questa instaura con i propri curanti. Dico pure alle pazienti che non bisogna confrontare la propria

situazione con quella di altre donne, perché ciascuna presenta fattori differenti e individuali, che possono modificare la situazione».

Al confronto fra ciascuna esperienza personale, spiega il nostro interlocutore, bisogna prediligere la scelta di un centro specializzato che: «Oltre al percorso terapeutico sappia offrire a ciascuna paziente quelle attenzioni e quel tempo di cui lei necessita, anche se non sempre è facile». Di fatto, egli sottolinea che: «L’impostazione della consultazione è parte imprescindibile dell’atto terapeutico: se fossi seduto io al posto della paziente, cosa vorrei mi fosse offerto? Se ciascuno di noi curanti si cimentasse in questo esercizio, ogni paziente si sentirà accolta adeguatamente. Senza dimenticare l’importanza di farsi comprendere con un’adeguata traduzione del linguaggio “medichese” che sia ben recepito dalla paziente».

Paziente che oscilla fra paure e razionalità, spiega Anna: «Il periodo che ricordo con più timore era quello in cui ero più preoccupata perché non sapevo, non conoscevo bene la situazione che poi il medico mi ha spiegato con cura e molto chiaramente: quando mi hanno detto che cosa era e

mi hanno dato il suo nome e cognome, allora mi sono detta: va bene, anche io ho un nome e cognome e ora so chi è il mio nemico, combattiamo. E la battaglia l’ho vinta io!». Ribadisce l’importanza di «riuscire a trovarlo nel momento giusto, al suo insorgere, e questo si può fare solo attraverso i controlli come quello dello screening mammografico cantonale a cui ho aderito senza pensarci due volte. Ho trovato un tumore ancora davvero molto piccolo, mi è stata chiaramente spiegata la situazione, mi è stata proposta la terapia, mi sono sentita davvero seguita e ho trovato la forza. Alla fine la forza la trovi. E tutto questo mi ha salvato la vita».

Da questa esperienza Anna ha sentito il bisogno di testimoniare alle altre donne il proprio percorso, per incoraggiare e sostenere le donne ancora indecise sul fare gli esami per la prevenzione del tumore al seno: «Non dovrebbe essere un’opzione, dovrebbe essere un dovere verso noi stesse e verso i nostri famigliari che non vogliamo veder soffrire». Anna oggi è una splendida cinquantasettenne. Quando ha scoperto il tumore ne aveva 50: «È successo proprio all’inizio del mio percorso di prevenzione».

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
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Maria Grazia Buletti Pagina 7

Scorte invernali a portata di mano

Attualità ◆ I maggiori supermercati Migros offrono al momento mele e patate in confezioni grandi, ideali per lo stoccaggio in cantina

Le mele

Le mele sono il frutto da tavola più consumato in Svizzera, basti pensare che il consumo pro-capite annuale si aggira sui 16 kg. Disponibili tutto l’anno, mondialmente ne esistono qualcosa come oltre 20’000 varietà. Grazie a una conservazione adeguata – in un luogo fresco, buio e umido – possono mantenere le loro proprietà qualitative per diversi mesi. Tenute in un luogo secco e caldo si deteriorano invece velocemente. Le mele Golden Delicious, Gala e Braeburn sono le varietà più amate in Svizzera. Per evitare che diventino velocemente marroni una volta tagliate, si consiglia di spruzzare le fette con del succo di limone. La Migros ogni anno vende qualcosa come 30’000 tonnellate di mele, di cui il 90% proveniente dalla Svizzera. Come mai si possono acquistare mele tutto l’anno, anche al di fuori del periodo di raccolta? I frutti appena raccolti vengono conservati in apposite celle frigorifere a basse temperature e con poco ossigeno, dove l’umidità è portata fino al 95%.

Le patate

Le patate rappresentano uno degli alimenti base più importanti al mondo. Sono facili da digerire e contengono zuccheri, amido, proteine e una buona quantità di vitamina C. Inoltre, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, sono relativamente povere di calorie, ovvero ca. 80 ogni 100 g. In Svizzera vengono coltivate molteplici varietà di patate. Esistono migliaia di ricette a base di patate, ma è importante scegliere la patata giusta tra farinose e resistenti alla cottura per non compromettere la riuscita del piatto. La differenza tra patate farinose e resistenti dipende dal tenore di amido, che corrisponde a ca. il 16% per le prime e ca. 13% per le altre. I tuberi andrebbero conservati in un luogo fresco e al buio. Esposte alla luce, le patate producono una sostanza potenzialmente tossica, la solanina. Per questo non vanno consumate quelle che presentano parti di color verde.

Bintje

La patata Bintje è una varietà farinosa, ideale per la preparazione di patate fritte, gratin, rösti, purè, patate arrosto e gnocchi. Ha una buona conservazione.

Laura

Varietà di patata a buccia rossa, farinosa, ottima per patate al forno, gratin, patate lesse con la buccia, patate fritte, vellutate e gnocchi. Eccellenti qualità di conservazione.

Charlotte

La Charlotte è una patata resistente alla cottura molto indicata per patate lesse, con la buccia e per insalate. Non si sfalda nemmeno dopo una cottura prolungata. Ottima per la conservazione.

Golden Succosa, dolce, croccante e poco acida, non è un caso se la Golden è la mela più diffusa e apprezzata al mondo. Oltre al consumo fresco, è ideale per ricette sia dolci sia salate.

Boskoop

Varietà di mela dal gusto piacevolmente asprigno che si presta bene per una lunga conservazione. Tiene bene la cottura. Di grosse dimensioni con buccia di colore rosso dorato.

Gala

Una mela dal bel colore rosso vivo, molto dolce e particolarmente amata dai bambini. Ha una polpa gialla soda e croccante che non si sfalda durante la cottura.

Starking

Zuccherina e aromatica, questa mela possiede una buccia rosso striata e polpa soda e consistente. È ideale per il consumo crudo ma si presta bene anche alla preparazione di dolci.

L’autunno da gustare

La ricetta Tortino di patate con mele e pancetta

Ingredienti per 4 persone

• 8 00 g di patate resistenti alla cottura

• sale

• 1 punta di coltello di chiodi di garofano macinati

• 2 tuorli

• 2 cucchiai di pangrattato

• 4 cucchiai d’olio di colza

• 2 mele , ad es. Gala

• 200 g di salsiccia affumicata

• 8 fette di pancetta da arrostire

• 150 g di panna acidula semigrassa

• 1 cucchiaino di harissa

Preparazione

Pelate le patate e grattugiatele con la grattugia per rösti. Tuffatele in acqua fredda per eliminare l’amido. Scolatele, fatele sgocciolare su carta da cucina e asciugatele tamponando. Condite con sale e chiodi di garofano. Unite i tuorli e il pangrattato.

Scaldate una padella antiaderente bella grande, unta d’olio. Versate 2 cucchiai d’impasto di patate in padella e formate un tortino. Rosolate i tortini a fuoco medio da entrambi i lati per ca. 4 minuti. Teneteli caldi in forno a 80 °C. Tagliate le mele a spicchi con la buccia. Rosolatele brevemente in padella in un po’ d’olio. Tagliate la salsiccia a fettine e aggiungetele alle mele insieme con le fette di pancetta. Rosolate il tutto brevemente e servitelo con i tortini di patate. Mescolate la panna acidula con l’harissa e servitela come salsa. A piacere guarnite con rametti di timo.

Attualità ◆ Per portare in tavola i sapori stagionali non bisogna fare troppa strada. Migros offre infatti diverse specialità di selvaggina, tra cui i tradizionali salametti di cervo

Oltre alle macellerie, anche i reparti salumeria Migros celebrano la stagione della selvaggina con un’ampia selezione di aromatiche specialità a base di questa delicata carne. Tra le diverse proposte, possiamo per esempio citare i tipici salametti di cervo, prodotti artigianalmente dalla Rapelli di Stabio. La materia prima utilizzata viene attentamente selezionata dai mastri macellai del salumificio. Magra, tenera e aromatica, questa carne costituisce un’ottima fonte di ferro e vitamine essenziali. Gli animali sono allevati in modo naturale sui verdi pascoli della Nuova Zelanda, alimentandosi di

erba fresca e beneficiando di un clima ideale e abbondante acqua durante tutto l’anno.

Le fasi di lavorazione prevedono la macinatura a grana grossa della carne di cervo, così come avviene nella produzione nostrana. La carne viene in seguito miscelata con delle spezie tradizionali, tra cui delle note delicate di aglio, pepe e noce moscata. L’impasto così ottenuto viene insaccato in un budello naturale, ciò che permette alla carne di asciugare lentamente ed esprimere al meglio le sue caratteristiche organolettiche durante la fase di stagionatura. Quest’ultima dura almeno 16 giorni.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
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La colazione dei campioni

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Domenica 15 ottobre

I seguenti punti vendita Migros saranno aperti

dalle ore 10.00 alle 18.00:

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(esclusi SportX, Micasa e OBI)

L’attività pratica per recuperare l’autostima

Disoccupazione ◆ Il Soccorso operaio svizzero in Ticino con i suoi programmi occupazionali registra buoni risultati di reinserimento professionale. Ne parliamo con il responsabile Alessandro Lucchini

«Insomma, che il lavoro nobilita l’uomo, rimane una gran verità». Lo dice sorridendo Alessandro Lucchini, responsabile del settore disoccupazione del Soccorso operaio svizzero (SOS) del Ticino, forse perché si tratta di un detto ormai un po’ desueto. È attribuito al grande naturalista Charles Darwin, risale quindi all’Ottocento e ha un padre nobile.

Qui, a Rivera, dove hanno sede due atelier riservati ai programmi occupazionali gestiti dal SOS, si fa riferimento ai disoccupati che aspettano di potersi reintegrare nel mondo del lavoro. «Prima di addentrarmi nel settore, – ci dice il giovane direttore –potevo avere dei dubbi sui programmi occupazionali. Chissà che attività fanno, forse sono inutili, o perfino una perdita di tempo. Lo pensavo io e lo pensa forse anche la popolazione, c’è un po’ questa idea che i disoccupati fanno scatolette di cartone inutili, solo per far passare il tempo. In realtà ho visto come le mansioni pratiche, se si concentrano su attività utili, organizzate come nel mercato del lavoro e che permettono a chi le svolge di entrare in contatto con aziende del territorio e con la clientela, danno senso di responsabilità e autostima che permettono di andare alla ricerca del lavoro con altro spirito e con più motivazione. Non è una perdita di tempo, anzi: è quello che serve per rafforzare la persona. L’attività pratica è un mezzo, non un fine. È una cosa che bisogna vedere da vicino per capirne l’importanza e l’utilità».

Tre atelier, tre mesi, un unico scopo

Il SOS Ticino propone tre programmi occupazionali. Ri-ciclette, che ha una tradizione pluridecennale, dà nuova vita a biciclette usate, famose quelle decorate con i colori del Pardo del Locarno Film Festival, ma tante altre, per adulti o per bambini, vengono messe a nuovo e rivendute. Quelle meno belle, ma ancora utili, sono spedite in Africa. Ri-taglio è un atelier che si occupa di attività di sartoria dove si fanno rinascere capi di abbigliamento che poi vengono venduti in negozio a Giubiasco. Ri-sostegno impegna i disoccupati nello sgombero di appartamenti, solai e cantine, riciclando gli oggetti ancora funzionanti. A Rivera c’è un grande magazzino, aperto al pubblico, in cui si trova e si può comperare di tutto, dai bicchieri di cristallo delle nonne ai mobili più disparati, dagli impianti stereo vintage ai giocattoli: c’è anche uno zaino militare di pelo di cavallo risalente alla seconda guerra mondiale.

«Noi lavoriamo anche con il sussidio dell’Ufficio misure attive del Canton Ticino. – spiega Alessandro Lucchini – I partecipanti sono persone in disoccupazione iscritte agli Uffici regionali di collocamento. Il consulente dell’Ufficio, che gestisce diverse decine di persone in cerca di lavoro, iscrive il disoccupato ai nostri programmi. Il partecipante rimane da noi per un massimo di tre mesi e in questo periodo si svolge il programma occupazionale che è strutturato su due piani: da una parte la pratica di lavoro nei tre atelier, che richiede un’attività giornaliera, e dall’altra il vero e proprio so-

stegno in vista del collocamento, con un aiuto personalizzato che prepara le strategie per la ricerca di un nuovo impiego. Il partecipante, assieme al nostro collaboratore, discute e valuta le sue competenze, rispetto alla sua formazione professionale e alle sue esperienze, e costruisce un piano di azione allo scopo di trovare un lavoro entro i tre mesi. Si affrontano i compiti amministrativi, come l’elaborazione dei dossier di candidatura o la preparazione di un curriculum vitae.

L’anno scorso, alla fine dei tre mesi, il 51% dei nostri partecipanti ha trovato lavoro e, a volte, il percorso dura anche meno».

Il risultato del reinserimento professionale dei programmi del SOS è più che significativo. In merito, il direttore del SOS Ticino Mario Amato non nasconde un certo orgoglio: «Ogni anno sempre più persone raggiungono questo importante traguardo all’interno delle nostre misure. Siamo molto soddisfatti perché è la dimostrazione che grande impegno, innovazione e sostegno mirato sono gli ingredienti giusti per sostenere al meglio la nostra utenza».

Il risultato del reinserimento professionale dei programmi del SOS è più che significativo. In merito, il direttore del SOS Ticino Mario Amato non nasconde un certo orgoglio: «Da notare che l’obiettivo posto dall’Ufficio delle misure attive fissa al 35% il tasso di collocamento e pertanto quello da noi raggiunto va molto oltre questo obiettivo minimo».

Chi non trova lavoro dopo i tre mesi ritorna a far capo all’Ufficio di collocamento, dove il consulente valuterà se ci sono altri percorsi possibili o altri programmi occupazionali. In alcuni casi, anche i programmi del SOS possono essere prolungati.

«Per i nostri atelier non sono necessarie una predisposizione o una formazione particolari, i lavori sono semplici, quindi i partecipanti possono avere esperienze molto diverse. Noi non poniamo nessun requisito d’entrata e quindi il nostro sostegno va a tutti, anche a chi è più debole e più in difficoltà».

In aumento chi ha più di 50 anni e i giovanissimi Alessandro Lucchini è responsabile del settore disoccupazione del SOS da tre anni. Un ottimo punto di osservazione per valutare lo stato della disoccupazione in Ticino. Qual è il profilo di chi cerca lavoro e segue i vostri programmi? «L’età media nei tre atelier si situa attorno ai 43 anni. Più di un terzo, il 34%, ha più di 50 anni ed è un dato in crescita. Negli ultimi due anni l’età media è aumentata di due anni e mezzo. Circa il 20% ha meno di 30, altro dato in crescita. Aumenta il numero dei più anziani e dei giovanissimi. Alla fine dell’anno, nelle tre strutture, avremo seguito circa 700 persone. La metà sono donne. Buona parte di loro non ha una formazione professionale e la scolarizzazione è abbastanza bassa. Sono spesso persone che non hanno fatto esperienze lavorative continuative: magari hanno lavorato tre anni in un’azienda e poi un anno e mezzo in un’altra, cambiando settore. La maggioranza dei nostri partecipanti ha un profilo che denuncia una certa fragilità professionale. Gli svizzeri sono circa il 45%, la metà sono europei e solo il 5% proviene da Paesi extraeuropei».

Fa specie che, oltre agli ultracinquantenni, aumenti il numero dei

tre iscrizioni. Il consulente apprezza il lavoro che stiamo facendo, magari ha meno disoccupati in lista d’attesa, ma a noi continua a mandarne».

Il contatto con le aziende e con altre associazioni

Un altro punto chiave per reintegrare i disoccupati nel mondo del lavoro è il rapporto con le aziende. Il SOS cerca di sviluppare buone relazioni con le aziende attive sul territorio. Ci sono ditte amiche del SOS, spiega il direttore, con cui c’è un’ottima collaborazione, che permette di inserire i disoccupati oppure consente loro di seguire stage o prove di lavoro. I partecipanti ai corsi beneficiano di queste relazioni.

Abbiamo visto che i dati sui giovani disoccupati sono in crescita. La disoccupazione giovanile è un aspetto che deve preoccupare tutta la società. In questo campo Il Soccorso operaio svizzero si è attivato mettendo a punto un progetto di intervento particolare indirizzato ai giovani dai 18 ai 30 anni. Si tratta del programma Coaching Transfair 2 (CT2), anche in questo caso i risultati sono incoraggianti con un tasso di collocamento nel 2022 pari al 68%.

disoccupati giovanissimi, cosa che preoccupa anche Angela Monhart, responsabile dell’atelier Ri-taglio di Giubiasco: «Negli ultimi due anni abbiamo riscontrato una forte crescita di giovani che stanno cercando lavoro da lungo tempo. Emergono spesso difficoltà di adattamento, scarsa costanza e poca resistenza a situazioni di stress. Oltre all’evidente inesperienza lavorativa data dall’età, a volte abbiamo riscontrato poco interesse nell’apprendere nuove competenze e ad aprirsi a nuove sfide lavorative, insicurezza e sfiducia di poter trovare lavoro in un mercato complicato».

Non c’è dubbio che il mercato del lavoro, oggi, sia sempre più difficile, soprattutto per le fasce più deboli della società. I dati ufficiali della Segreteria di stato per l’economia (SECO) indicano un tasso di disoccupazione del 2% in Svizzera. Sono dati indicativi, che si basano sul numero di persone iscritte agli Uffici di collocamento, quasi 90mila lo scorso mese. Ma il numero di chi cerca lavoro è maggiore, poco più di 152mila nella Confederazione in agosto.

Il tasso di disoccupazione piuttosto basso si ripercuote sull’attività del SOS? «Sì e no. Per un verso dovremmo avere una ricaduta, perché si tratta dei dati che fanno riferimento agli Uffici di collocamento ma, in effetti, le nostre misure sono sempre ben occupate, perché da una parte coloro che restano in disoccupazione sono i profili più fragili con cui noi principalmente entriamo in contatto, e dall’altra parte diversi consulenti degli Uffici di collocamento continuano ad affidarsi a noi, perché conoscono la qualità del servizio di sostegno che offriamo alle persone in disoccupazione. Quando comunichiamo di avere posti liberi riceviamo subito al-

«Il nostro progetto CT2 è inserito nella rete associativa Check your chance. – precisa Lucchini – Si tratta di un’associazione nazionale che racchiude le varie organizzazioni che offrono servizi di prevenzione della disoccupazione. Ci siamo noi, e altre organizzazioni, ed è una misura promossa dalla SECO». In Ticino le associazioni coinvolte oltre al SOS sono: LIFT, Rock Your Life! Svizzera italiana, Young Enterprise Switzerland e le Fondazioni IPT e Pro Juventute, che collaborano per raggiungere nel lungo periodo una maggiore efficienza, massimizzando la quantità e la qualità delle soluzioni proposte ai giovani dai 13 ai 30 anni. Lo scopo è evitare che i giovani, una volta concluso un percorso presso un’organizzazione, escano dalla rete di sostegno. Inoltre, ci sono scambi di buone pratiche ed esperienze, atte a migliorare il servizio offerto da tutte le organizzazioni coinvolte. «La filosofia di questo lavoro coordinato si fonda sulla condivisione e non sulla concorrenza fra le associazioni, un bel risultato», dice Lucchini. Prima di lasciare l’ufficio, l’atelier e l’officina di Rivera, un vecchio stabile industriale che in passato ospitava una tipografia, Alessandro Lucchini lancia un messaggio: «Ci tengo a sottolineare che tutta la nostra attività, realizzata assieme ai nostri partecipanti disoccupati, rientra in quella che si definisce economia circolare. Recuperiamo oggetti che potrebbero andar distrutti, dalle biciclette ai vestiti, dai mobili alle suppellettili, li aggiustiamo e li facciamo rinascere a nuova vita, per poi venderli nei nostri negozi a prezzi contenuti. Questo è un aspetto importante, che qualifica ulteriormente la nostra attività». Informazioni

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ
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Nell’atelier Ri-taglio di SOS Ticino sono proposte attività sartoriali per ridare vita a capi di abbigliamento venduti poi nel negozio di Giubiasco. (Pexels.com)
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I Sacri Monti locarnesi ritentano con l’UNESCO

Territorio

◆ Una delegazione ticinese di nuovo a Berna per perorare l’inserimento

nel patrimonio mondiale della Madonna del Sasso di Orselina e dell’Addolorata di Brissago

Mauro Giacometti

«I santuari arditamente innalzati sugli speroni rocciosi e i percorsi devozionali sono segni di un patrimonio che riconosciamo come fondamento stesso della nostra identità cristiano-occidentale. Nei percorsi che si snodano lungo i territori delle orografie alpine, le comunità popolari hanno trovato conforto e nuove speranze con partecipazioni e preghiere: per questo si può affermare che nei Sacri Monti la preghiera si è trasformata in un vero e proprio paesaggio architettonico, modellato in ragione della devozione praticata dalle genti». Con queste parole l’architetto Mario Botta firmò la prefazione al dossier di candidatura dei Sacri Monti locarnesi a Patrimonio UNESCO. Era la primavera del 2015 e un po’ inaspettatamente le due strutture di Orselina e Brissago furono «accompagnate alla porta» dal Consiglio federale, in favore degli antichi faggeti della Valle di Lodano.

Alla fine dello scorso mese di agosto, però, la Madonna del Sasso di Orselina e il Sacro Monte dell’Addolorata di Brissago hanno messo in atto il primo tentativo di «rientrare dalla finestra» dei beni culturali svizzeri da inserire nel Patrimonio UNESCO. Una «task force» di ticinesi, coadiuvata dalla Pro Restauro della Madonna del Sasso e dal suo presidente, Stefano Gilardi, coordinata da Francesco Quattrini, delegato cantonale per le relazioni esterne, ha incontrato la direttrice dell’Ufficio federale della cultura, Carine Bachmann. Sul tavolo il nuovo dossier per avviare formalmente la candidatura del Santuario di Orselina e di quello di Brissago e inserirli nella futura lista di monumenti «papabili» per ottenere il «label» UNESCO. Lista svizzera di candidature che dovrà essere completata entro il 2027 per poi essere sottoposta all’approvazione del Comitato del Patrimonio mondiale dell’agenzia specializzata delle Nazioni Unite.

«È stato un incontro interlocutorio – commenta Stefano Gilardi – per conoscere la direttrice dell’Ufficio federale di cultura, insieme al suo staff e presentare le nostre motivazioni. Che sono state bene accolte, anche se ci è stato spiegato che il percorso è tutto in salita. L’UNESCO, considerando la quantità di candidature, sta ponendo condizioni più restrittive per esaminare i vari dossier». L’incontro a Berna è servito alla delegazione ticinese per illustrare ancora più in dettaglio le motivazioni che stanno alla base della richiesta di riconoscimento internazionale dei due Sacri Monti e che non sono sostanzialmente cambiate dal 2015. I due santuari mariani locarnesi sono infatti legati da un

filo storico e religioso con quelli piemontesi e lombardi che già dal 2003 possono fregiarsi del riconoscimento UNESCO. Si tratterebbe, insomma, di «chiudere il cerchio» dei luoghi di culto presenti e collegati sull’arco alpino e prealpino.

I Sacri Monti sono gruppi di cappelle e altri complessi architettonici eretti nell’arco alpino tra la fine del XIV e il XVIII secolo destinati al pellegrinaggio o ad altri aspetti della vita di fede cattolica. Gestiti dai frati francescani, sono uniti da un «fil rouge» monumentale, culturale e spirituale, oltre che geografico. I nove Sacri Monti in Lombardia e Piemonte, sono infatti considerati un sito seriale dall’UNESCO poiché «oltre al loro

significato simbolico religioso, offrono uno splendido esempio di integrazione degli elementi architettonici dei paesaggi circostanti, disseminati di colline, foreste e laghi, racchiudendo un notevole patrimonio artistico in forma di scultura e affreschi», così si leggeva nella motivazione che certificò l’ingresso dei nove santuari lombardi e piemontesi tra i beni materiali da valorizzare. Il Sacro Monte della Madonna del Sasso, fondato nel 1487 dal frate francescano Bartolomeo Piatti d’Ivrea, fu il primo a sorgere nell’arco alpino, pochi anni prima di quello di Varallo. Il santuario di Brissago fu invece l’ultimo, con la particolarità che non furono i religiosi a costruirlo, bensì i Branca, una famiglia locale.

«Amate chiese del Ticino, amate cappelle e cappellette, quante ore gradite ho trascorso come vostro ospite. Voi fate parte di questa terra come i monti e i laghi, come le valli profonde e selvagge, come i rintocchi gai e bizzarri dei vostri campanili. È bello vivere nella vostra ombra, anche per uomini di un’altra fede» osservava la lucida penna di Hermann Hesse. Mentre lo scrittore e giornalista britannico Samuel Butler annota nel suo diario, nel 1880, che «la grande attrazione di Locarno è il Sacro Monte che s’alza sopra la città». Fulcro del Sacro Monte di Orselina è naturalmente la chiesa dell’Assunta, principale santuario mariano del Canton Ticino. Il primo edificio, costruito nel 1485 e consacrato nel 1487, è stato ampliato e trasformato nel corso dei secoli fino a raggiungere la sua forma attuale con gli ultimi interventi degli anni 2009-2015. Il complesso architettonico e religioso, affidato ai frati cappuccini, dal 1848 è di proprietà del Canton Ticino.

Poco lontano da Locarno, a Brissago, nella seconda metà del Settecento sorse un complesso sacromontano voluto da un ricco mercante del

luogo, Antonio Francesco Branca, detto il «Moscovita», commerciante di sete e marmi fra Toscana e Russia, dove aveva fatto fortuna. Il Branca, coinvolto dalla predicazione religiosa – anche per via di un fratello frate cappuccino, Francesco Maria – decide di realizzare nella sua terra un Sacro Monte e ne finanzia la costruzione fra 1767 e 1773. Il Branca individua il centro del percorso devozionale nella chiesetta dell’Addolorata, eretta nel 1709 dal capomastro Girolamo Tirinanzi. L’edificio originario, a pianta quadrata sormontato da una cupola, fu ampliato con due nuove campate e la sagrestia. Il complesso religioso è oggi di proprietà della Parrocchia di Brissago ed è raggiungibile a piedi seguendo i percorsi indicati in circa 20 minuti. Due sono i sentieri, con un’ottima manutenzione, per accedere al santuario brissaghese: la «Salita del Calvario», che segue le cappelle della Via Crucis, oppure il percorso alternativo – assai suggestivo – che arriva alla cappella dei Giudei passando, per l’altro lato della valle, accanto agli antichi mulini.

«Il patrimonio culturale dei Sacri Monti della Madonna del Sasso a Orselina e dell’Addolorata a Brissago merita di essere conosciuto e vissuto dal maggior numero di persone e culture possibili. Il turismo religioso può essere un potente strumento per creare consapevolezza sull’importanza di salvaguardare l’eredità naturale e culturale – nella sua autenticità e integrità – della nostra regione. La Svizzera, l’Europa e il mondo intero potrebbero, grazie all’iscrizione dei due siti nel Patrimonio mondiale dell’UNESCO, apprezzare l’originalità culturale e l’unicità naturale dei complessi sacromontani ticinesi, mete di indubitabile fascino e richiamo, che riguardano le radici di ognuno e l’eredità di tutti», conclude il dossier riportato all’attenzione dell’Ufficio federale della cultura.

A spasso per Lugano, passando per il Mondo

Il Ticino nel cybermondo – 1 ◆ Le fotografie di Prokudin-Gorsky nel catalogo della Biblioteca del Congresso di Washington

Per iniziare la serie dedicata ai patrimoni culturali ticinesi disseminati nel cybermondo, una passeggiata nella Lugano d’inizio Novecento si presta bene. Il fotografo russo Sergey Mikhaylovich Prokudin-Gorsky ci offre alcuni panorami e scorci di una Città, ritratta a colori, molto diversa da come si presenta oggi. Ma dove sono archiviate queste immagini?

A Bellinzona? O a San Pietroburgo?

Nel 2014 ho avuto l’occasione di presentare il progetto Sàmara, il patrimonio culturale del Cantone Ticino al Congresso nazionale Bibliothèque Information Suisse (BIS), che si è svolto a Lugano. Nella prima diapositiva, in modo un po’ provocatorio, ho proiettato un’immagine della Città sul Ceresio scattata tra il 1905 e il 1915 dal fotografo russo Sergey Mikhaylovich Prokudin-Gorsky (1863-1944), chiedendo all’auditorio da quale archivio potesse provenire quella bellissima fotografia d’epoca che illuminava la parete alle mie spalle.

Evidentemente le risposte più immediate e logiche erano rivolte agli istituti culturali che curano la memoria del territorio: Archivio di Stato in primis, o al limite un’organizzazione legata all’origine russa del fotografo. Ma non è il caso. Si tratta, infatti, di un’immagine liberamente fruibile dal catalogo della Libreria del Congresso di Washington, un’origine certamente inaspettata.

In principio si direbbe che non sia facile trovare un’immagine di Lugano a Washington, non essendoci un collegamento esplicito tra le due realtà. Ma parafrasando Malraux, la creazione degli archivi è anche frutto del caso o meglio di hasards heureux. Capita così di trovare immagini di Lugano nei depositi d’Oltreoceano, così come, analogamente, nei nostri archivi sono presenti documenti di diversa natura che ritraggono o descrivono le città americane. Scambi aleatori che rendono il lavoro di ricercatrici e ricercatori complicato ma forse ancor più stimolante.

Nel caso specifico il compito è reso più arduo da una curiosità legata alla catalogazione delle immagini, dovuta – diciamolo – alla bellezza del paesaggio ritratto. L’autore russo ha infatti intitolato questo scatto Sull’isola di Capri, lasciandosi evidentemente tradire dai sapori mediterranei così ben delineati nei colori e nelle forme del San Salvatore, del lago e delle vie sotto la stazione.

Il cyberspazio presenta difficoltà e potenzialità proprie: qui la geografia sembra perdere il suo significato originario e creare nuovi flussi e incroci; nel contempo e forse in antitesi, i nomi di luogo mantengono la loro autorevolezza, diventando punti fissi di spazi sovrapposti.

In collaborazione con l’Ufficio dell’analisi e del patrimonio culturale digitale, Divisione della cultura e degli studi universitari, Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 9 SOCIETÀ
Roland Hochstrasser
Lugano tra il 1905 e il 1915, fotografia di Sergej Mikhajlovich Prokudin-Gorskij (1863-1944) (Library of Congress, Prints and Photographs Division)
Il Santuario della Madonna del Sasso di Orselina. (Raffaele Pagani)

UNA GEMMA PER HAMBURGER SUCCULENTI

Quest’immagine farà battere il cuore di chi ama gli hamburger: succosa pancetta, anelli di cipolla freschi e aromatici cardoncelli, al centro uno strato di pollo svizzero bio in salsa piccante (ricetta a sinistra). La Migros offre ora l’hamburger di pollo in una pregiata qualità bio con il marchio della Gemma. Chi acquista alimenti prodotti in modo sostenibile con la Gemma consuma consapevolmente. Questo è quanto garantisce Bio Suisse con una produzione ecologica, equa ed economica dal campo al piatto.

Hamburger di pollo bio con funghi, pancetta e cipolle

Uno spuntino per 4 persone

• 1 peperoncino

• 1 mazzetto di coriandolo

• 100 g di crème fraîche

• 5 0 g di maionese

• sale, pepe

• 1 cipolla rossa grande

• 8 fette di pancetta

• 4 panini, per es. panini di patate bio

• 150 g di cardoncelli

• 4 cucchiai di olio

• 4 hamburger di pollo bio

Preparazione

1. Togliere i semi dal peperoncino e tritare. Mettere da parte metà del coriandolo, tritare il resto. Frullare peperoncino, crème fraîche e maionese. Aggiustare la salsa di sale e pepe. Affettare la cipolla a rondelle sottili.

2. Disporre la pancetta su una teglia da forno. Impostare il forno a 200 °C, parte inferiore e superiore. Rosolare la pancetta a temperatura crescente per circa 12 minuti. Tagliare i panini a metà e aggiungerli per gli ultimi 4 minuti.

3. Nel frattempo affettare i funghi. Rosolarli in metà dell’olio per circa 3 minuti, salare e tenere in caldo. Scaldare l’olio rimanente, cuocere gli hamburger da entrambi i lati. Impiattare i panini con la salsa, i funghi, la cipolla e il coriandolo messo da parte.

Lo sapevi?

Il pollo bio con la gemma fa la differenza. Proviene da fattorie biologiche svizzere dove viene allevato secondo le specie. Gli animali hanno un pascolo garantito, vivono in piccoli gruppi e mangiano mangimi biologici al 100%. Nell’allevamento con la gemma, la qualità viene prima della quantità.

Altre novità a base di pollo con la Gemma Bio Suisse:

Ragout di pollo Migros Bio

100 g Fr. 3.95

Bistecca di coscia di pollo marinata Migros Bio

100 g

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 10
200 g Fr. 8.95
Hamburger di pollo Migros Bio
CHF 2.95
Ricetta: Migusto Immagine: Claudia Linsi

Il clima minaccia anche la castagna della Bregaglia

Sfide ambientali ◆ Il frutto della valle risplende nelle selve curate, ma per salvarlo serve altro, intanto lo si festeggia

A Castasegna inizia la Bregaglia (Canton Grigioni); valle ricca di odori di montagna, natura e castagne. Un frutto entrato tra i simboli della regione e al quale è pure dedicato un festival che, giunto alla sua 19esima edizione, è in corso dal 30 settembre e finirà il 22 ottobre 2023, coinvolgendo l’intera popolazione e buona parte delle frazioni di Bregaglia, con degustazioni, corsi di cucina, letture, conferenze, atelier, passeggiate, corse e yoga. Ma anche molte visite guidate, ai villaggi, alle stalle e alle produzioni annesse, al mulino di Promontogno o alla fortezza di Maloja, al sentiero Segantini, alla diga dell’Albigna, alla centrale idroelettrica di Löbbia o alla manifattura dei prodotti Soglio a Castasegna. Sempre a Castasegna, si susseguono poi le visite all’imponente selva castanile, che sovrasta il villaggio e s’estende fino a Soglio e Bondo.

Selva che può essere visitata tutto l’anno e che, nell’agglomerato Brentan (nei pressi di Castasegna) vanta anche un percorso didattico di circa due chilometri, percorribile dal 2001 senza troppe difficoltà. Lungo questo cammino, una quindicina di pannelli informativi presentano alcuni degli aspetti legati al castagno, dalle cure necessarie alle minacce presenti, e le varietà che si trovano in Bregaglia: lüina, vescuv, ensat o marun. Ci sono poi informazioni riguardanti la flora e la fauna correlati alla coltivazione, un’attività sempre attuale e ben radicata in questo territorio.

Situata tra i 700 e gli 800 mslm, la selva di Brentan si estende su quasi 30 ettari e, assieme alle altre presenti in tutta la valle, porta a circa 54 ettari la loro superficie totale. Le selve sono gestite dai numerosi castanicoltori, i quali da anni si dedicano a questo frutto, tanto importante nel passato rurale e ancora oggi, come ci racconta Manuela Filli, presidente dell’Associazione castanicoltori Bregaglia, la quale organizza e collabora in diverse manifestazioni volte a far conoscere la storia, la cultura e i metodi di coltivazione: «In Bregaglia, a differenza di altre valli o

regioni, le selve non sono mai state abbandonate e solo quelle ai bordi o le più impervie sono inselvatichite. La tradizione è sempre stata viva e come associazione abbiamo ridato importanza e

La minaccia è nel terreno

Il Mal dell’inchiostro del castagno è causato principalmente da due specie di funghi, due oomiceti del genere Phytophthora, entrambi sensibili al freddo e che quindi approfittano del riscaldamento globale dovuto ai cambiamenti climatici. Questa potrebbe essere una delle cause per la recrudescenza della malattia, che nelle ultime stagioni è apparsa in modo più importante in Bregaglia. Infatti, l’assenza di inverni freddi e di gelate, accompagnati da periodi caldi e siccitosi facilitano la sopravvivenza del fungo, mentre i terreni umidi facilitano la diffusione delle spore, come per esempio dopo forti precipitazioni di pioggia.

Una volta che il suolo è contaminato dai patogeni, essi non possono più es-

slancio al frutto, valorizzandolo ulteriormente. Negli ultimi anni abbiamo avuto un grande aumento di adesioni e oggi superiamo i cento membri, tra i quali si trovano sia persone che ge-

sere eradicati, per cui l’unica strategia consiste nel limitarne la propagazione. Dei canali di drenaggio potrebbero aiutare a contenere la diffusione, ma bisogna anche evitare di trasportare le spore del fungo (per esempio tramite scarpe, strumenti, veicoli o substrato di piantagione) in luoghi non ancora infetti. In Svizzera, il Mal dell’inchiostro del castagno è stato segnalato per la prima volta nel 1943 nel Canton Ticino, vicino al Monte Ceneri.

Fonte informazioni

Auf der Maur, B.; Gross, A.; Queloz, V.; Prospero S., Scheda informativa neomiceti. Il mal dell’inchiostro del castagno, Birmensdorf, Istituto federale di ricerca WSL. 5 S., 2022.

stiscono delle selve, sia consumatori o simpatizzanti».

Una crescita che può solo rallegrare l’associazione, la quale si occupa anche di smerciare le castagne fresche, secche (essiccate nelle 15 cascine ancora attive in Bregaglia, simili alle costruzioni che in Ticino vengono chiamate grà) o trasformate in farina (con la macinatura che avviene al Mulino di Promontogno). Inoltre, l’associazione coordina la sbucciatura, per la quale chi vuole può sfruttare un macchinario professionale, mentre altri la eseguono tuttora in modo tradizionale (con i sacchi).

Da ciò si ricavano anche i vari prodotti a base di castagna o conditi con essa, come tagliatelle, pani o torte.

Mediamente sono circa 26 le tonnellate ricavate ogni anno dalle selve castanili della Bregaglia, frutti raccolti ai piedi dei numerosi alberi presenti, che sono però oggi minacciati dai mutevoli fattori ambientali. Il riscaldamento climatico sta infatti mettendo in difficoltà anche questa specie che, come osservato nelle ultime stagioni, fatica sempre di più a sopportare i prolungati periodi di siccità e le conseguenze degli inverni miti.

Inoltre, nelle ultime stagioni, c’è

stata una forte recrudescenza del Mal dell’inchiostro, una malattia che colpisce il castagno (vedi box), come ci conferma con una certa apprensione Manuela Filli: «La malattia c’è già da diversi anni, ma solo ultimamente è divenuta un grande problema, espandendosi in modo preoccupante. Rattrista vedere le piante che seccano in poco tempo, mettendo in pericolo tutti gli sforzi profusi nei tanti progetti. L’ultimo ha portato alla certificazione dei frutti con la neonata Marca Bregaglia».

Se finora l’incidenza di piante colpite dal fungo era tra l’1 e il 2%, nel 2023 la cifra stimata dall’associazione è salita al 5-6%, con molti alberi seccati durante quest’estate. «A Brentan si notano molte piante che non stanno bene: inizialmente hanno delle foglie chiare e una chioma poco densa, poi seccano quasi integralmente e solo con la prossima primavera vedremo se sopravviveranno e se germoglieranno di nuovo». La produzione non dovrebbe per ora essere in pericolo, dato che si dovrebbe ancora riuscire a garantire i quantitativi necessari (e dato che la malattia non incide sulla qualità delle castagne), ma l’annata sarà mediocre e il futuro è pieno di incognite: «Alcuni castanicoltori ci stanno confermando che il 2023 porterà meno frutti rispetto ad altri anni. Con il supporto del Comune e del Cantone, che studiano il contesto, si stanno cercando delle possibili soluzioni per frenare la diffusione del fungo e quindi salvare gli alberi, preservando nel contempo un patrimonio d’indubbio valore per tutta la Bregaglia e non solo», conclude la presidente dell’associazione. Per ora si può «solo» osservare, per capire se ci siano tecniche colturali adatte, varietà resistenti o se, come avvenuto per il Cinipide, la natura regalerà delle alternative per ritrovare un suo equilibrio, senza dover sacrificare delle intere coltivazioni.

Link utile e informazioni www.bregaglia.ch/it/ la-castagna-il-frutto-della-valle

Grazie alla vitamina C, che contribuisce al suo normale funzionamento.

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Il costoso ed esclusivo club dei sintetizzatori

Tra il ludico e il dilettevole ◆ Esiste un modo per creare i propri mondi sonori grazie a strumenti elettronici che aiutano a sperimentare senza dover studiare musica

In Pelle di serpente (The Fugitive Kind, film di Sidney Lumet del 1960), Marlon Brando è un musicista folk che, coinvolto in una rissa che mette a soqquadro un intero locale, finisce in prigione. Liberato dal giudice a condizione che abbandoni la città, Val (questo il nome del personaggio interpretato da Brando) decide che è giunta l’ora di condurre un’esistenza più regolare. Ma, nonostante i buoni propositi, i guai lo seguono nella contea di campagna dove si rifugia per rifarsi una vita. Oltre ai guai, a seguirlo ovunque è la sua chitarra classica, alla quale il musicista è molto legato: tanto che, ogni volta che fa conoscenza con qualcuno, la presenta come la sua «compagna di vita».

Molti sintetizzatori vintage degli anni

Settanta e Ottanta hanno caratteristiche tecniche uniche

Ogni strumento è legato a un immaginario particolare e la chitarra, forse perché maneggevole, ben si adatta a un personaggio vagabondo e senza radici come quello interpretato da Brando in Pelle di serpente. Altri strumenti – pensate a un violoncello, o a un piano a coda –, sono decisamente più ingombranti, magari necessitano di un’alimentazione elettrica, oppure di un supporto tecnologico più raffinato.

È il caso, per esempio, dei sintetizzatori, protagonisti assoluti del recente Swiss Synthesizer Meeting, un evento di musica elettronica tenutosi negli scorsi giorni al Gran Rex di Locarno. Per otto ore, sul palco della grande sala, una decina di musicisti hanno dato vita a una jam session di sonorità cosmiche, bassi liquidi, e ritmi ipnotici.

L’edizione 2023 è stata organizzata da Flavio Boniforti (ingegnere informatico e musicista elettronico) e Roberto Raineri-Seith (transmedia artist) in collaborazione con La Boite Visual Arts, responsabile per la parte Image & Sound del Locarno Film Festival. A dar man forte ai due organizzatori, ci hanno pensato Adriano Capizzi – curatore della parte tecnica e responsabile della pubblicazione online del materiale sonoro –, e Theo Bloderer, musicista e collezionista.

A Locarno, per l’occasione, c’eravamo anche noi. Ne abbiamo approfittato per fare due chiacchiere con i protagonisti dell’evento, e conoscerli meglio. Flavio Boniforti, per esempio, ha origini italiane, ma vive nella Svizzera interna. Gli abbiamo chiesto come ha vissuto il ruolo di coordinatore dell’edizione 2023: «È stata una

prima sotto molti aspetti» ci ha detto Boniforti. «La prima volta in Ticino, la prima volta con un pubblico e la prima volta (che io sappia) in una location professionale sotto il profilo dell’infrastruttura audio-video. Il tutto è stato molto bello e coinvolgente, sia sul palco, ma anche sul piano delle interazioni col pubblico. In quanto a coordinatore, assieme a Roberto, mi sono impegnato a fare due chiacchiere con gli interessati e i curiosi che stavano in sala». Lo Swiss Synthesizer Meeting, ci spiega Flavio, «è nato nel 2006 dall’incontro tra Adriano Capizzi e Martin Gnägi, che hanno dato vita a quest’incontro che si ripete annualmente». Nel corso degli anni «i musicisti che prendono parte a questo evento sono cambiati, ma molti ormai vi partecipano da molto tempo. Per partecipare a una di queste jam session bisogna conoscere qualcuno degli attuali membri ed essere invitato. Fortunatamente a me è successo nel 2017, e da allora cerco di presenziare ogni anno».

Mentre i musicisti si esibiscono sul palco, nel foyer adiacente, grazie a

Theo Bloderer, i partecipanti all’evento possono toccare con mano l’affascinante mondo dei sintetizzatori, assaporandone le sonorità eteree. Theo è un importante collezionista di sintetizzatori che, per l’occasione, ha messo a disposizione alcuni pezzi pregiati della sua collezione. «Colleziono sintetizzatori da 30 anni» ci racconta. «La motivazione iniziale è stata la musica elettronica. Intorno al 1985 sono entrato in contatto con i primi album di Jean-Michel Jarre, e sono rimasto affascinato dagli strumenti che suonava. Molti di questi sintetizzatori vintage degli anni Settanta e Ottanta hanno caratteristiche tecniche uniche. Hanno una propria architettura sonora e un suono caratteristico. Sono molto ricercati, perché il loro suono non può essere duplicato dai dispositivi moderni».

A rendere unici questi apparecchi è il fatto che, secondo Theo, «non è necessario imparare la teoria musicale per suonare un sintetizzatore». Theo ha studiato musica e questo lo aiuta a organizzarsi meglio. Ma per lui la cosa fondamentale è che «ognu-

no è libero di fare musica elettronica a modo suo. Il punto è di avere la possibilità di creare i propri mondi sonori con strumenti dal suono moderno che possono essere usati e programmati in modo sperimentale. Oggi, chiunque possieda un notebook può creare musica elettronica gratuitamente con i sintetizzatori software. Anche i moderni sintetizzatori hardware sono spesso molto economici, rendendo la produzione di musica elettronica alla portata di quasi tutti».

Ciononostante, ci confessa Theo, «collezionare sintetizzatori vintage è un hobby costoso». Theo ha avuto la fortuna di inaugurare la sua collezione intorno al 1990, quando i prezzi erano ancora moderati. Tuttavia, ci racconta, «negli ultimi due decenni, gli strumenti sono diventati davvero costosi. È come per le vecchie chitarre o le auto d’epoca! Molti sintetizzatori d’epoca oggi sono delle rarità e portano collezionisti e rivenditori a chiedere prezzi ridicolmente alti per i loro strumenti».

Nel foyer, mentre discuto con Flavio e Theo, arriva anche Adriano, che

ci aiuta a capire meglio come ci si sente a vivere questo evento musicale in prima persona. «Suonare insieme è sempre una sfida e una benedizione» ci dice. «Bisogna cercare il varco, lo spazio libero nel pezzo già in esecuzione e completarlo in modo appropriato. L’armonia e il ritmo si adattano? È questa la domanda a cui noi musicisti siamo chiamati a rispondere, in tempo reale, con i nostri strumenti».

Per Adriano il momento più bello è quando ci si rende conto che tutto si incastra spontaneamente. Naturalmente «in una jam session così lunga capita anche il contrario, che i suoni non si adattino. Ma questo fa parte dell’improvvisazione». Anche lui, come i suoi compagni di viaggio Flavio, Roberto, e Theo – membri di questo itinerante club dei sintetizzatori – si ritiene particolarmente soddisfatto della location locarnese: «Questa edizione ha un’atmosfera meravigliosa, sono felice di essere venuto in Ticino», ci dice.

E chissà che per l’anno prossimo lo Swiss Synthesizer Meeting non decida di rimanerci, in Ticino…

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 15
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Sebastiano Caroni Pagina 19 Pagina 17

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È vertiginosa la via ferrata del Daubenhorn

Alpinismo ◆ Con i suoi 1000 m di dislivello, 2000 m di cavo d’acciaio, 216 m complessivi di scalette, l’ascesa dura circa 6 ore

Fino all’inizio degli anni Novanta, la Svizzera era praticamente sprovvista di vie ferrate, alpinisticamente parlando. La svolta è arrivata solo nel 1993, con l’apertura del primo tracciato, messo in sicurezza con funi metalliche, sopra la capanna Tällihütte, nell’Oberland Bernese. Da allora nel nostro Paese sono state realizzate circa quaranta vie che, secondo il Soccorso Alpino Svizzero, sono scalate da più di 35mila persone ogni anno.

Affidandomi alle numerose recensioni di alpinismo che circolano in rete, ho deciso di arrampicarmi su quella più lunga e impegnativa, ovvero la grande via ferrata Gemmi-Daubenhorn situata a Leukerbad.

Poco dopo essere arrivato nella famosa località termale, capisco che il tempo non promette niente di buono. Le fitte nuvole grigie e la nebbia oscurano la grande parete sud-orientale. Mi sdraio sull’argine del piccolo fiume per scorgere maggiori dettagli: intravedo qualche roccia aguzza che spunta verso Valle del Dala. Col passare dei minuti riesco a vedere con molta più nitidezza quello che mi aspetta domani mattina.

«In pochi minuti ci si trasforma da funamboli equilibristi a speleologhi in cerca di un attacco per riposare le braccia»

Il muro è ormai a poche centinaia di metri e si presenta in tutta la sua altezza. Fisso la vetta talvolta ripercorrendo il tragitto dall’alto verso il basso e viceversa. Sono attimi importanti per rendere omaggio alla montagna e per «programmare» la mente a perseverare fino al traguardo. Rientro in albergo e chiedo informazioni inerenti al percorso ed eventuali insidie alle quali dovrei essere preparato, e mi si presenta l’occasione per chiacchierare con il figlio del proprietario: un giovane di buone maniere e con l’esperienza adatta al caso. Mi tornerà utile, questo scambio.

Mi metto in cammino alle 05.30 per la via meno consigliata in quanto risulta essere la più faticosa. La funicolare del passo della Gemmi, di cui la prima corsa era da prenotare, apre soltanto alle 7.30. È il mezzo più veloce per accedere alla via ferrata ed è usata della stragrande maggioranza delle persone. Un po’ per la paura di non trovare un posto libero, un po’ per lo «spirito alpinistico» che mi porta a non voler ingannare la montagna usando i mezzi di trasporto, decido di andare a piedi.

Il sentiero del Gemmiweg dura circa un’ora e mezza e presenta un dislivello di 700 m. Si tratta di una strada sterrata che diventa sempre più stretta e ripida per scomparire tra i precipizi delle umide gole della parete rocciosa. In un altro giorno sarebbe stato un trekking d’allenamento, ma oggi è so-

lo l’inizio di un arrampicata verticale, un cosiddetto «spaccafiato» che precede la mia colazione a base di miele e cioccolato.

Con ben 45 minuti di anticipo sui primi alpinisti, sono pronto a iniziare la mia avventura imboccando uno stretto sentiero blu. A ridosso della parete sud orientale il primo tratto è inclinato verso il burrone. Da vicino appare come un ammasso di tegole di granito prodotte dall’erosione che finiscono nell’abisso a strapiombo. È uno di quei tratti in cui la montagna sembra avere un proprio sistema vascolare, dando vita a sottili cascate che rammentano larghe scie di sudore. Mi muovo con cautela, concentrandomi sul baricentro.

Comincio con molta esitazione la grande via ferrata, la Leukerbadner, in un posto chiamato la «Untere Schmitte» situata a un’altitudine di 2031 m

s.l.m. Mi ci vogliono pochi minuti per abituarmi alla vista di questo umido e scivoloso sentiero che diventa sempre più domabile con l’apparire dei primi raggi del sole. La stretta via conduce a un passaggio chiamato il «Naso», primo vero assaggio di quella che sarà l’intera scalata. Benché non necessiti di una grande tecnica, il tratto appare molto esposto, tanto da diventare una sorta di campanello d’allarme per i meno esperti.

Secondo una guida locale sono molte le persone che «gettano la spugna» dinanzi a questa larga colonna rocciosa. Mi fermo a metà e, con il supporto di un cordino mi lascio pendere nel vuoto. Non è un esercizio che mi riesce facile ma è inevitabile per abituarmi alla lunga arrampicata che mi attende. Con i suoi 1000 m di dislivello, 2000 m di cavo d’acciaio, 216 m complessivi di scalette, la scalata ha

una durata stimata di 6 ore durante le quali è indispensabile sapersi riposare in verticale. Poco dopo sono completamente rilassato e disteso nel vuoto del «Naso».

Al di là della mia schiena, con la coda degli occhi, vedo Leukerbad, la mia macchina e le rive del fiume dalle quali prendevo le misure del tracciato. Sulla mia destra i primi alpinisti arrivati con la funicolare stanno per superare il deposito di detriti di granito. Mi rimetto in cammino. La salita verticale comincia alla Grasrücken, è qui che viene dato il via allo spettacolare alternarsi di pareti di roccia sulle quali è un piacere aggrapparsi.

Da qui in avanti si è sempre esposti e ogni metro costa sempre più fatica.

Dopo quattro ore dalla mia partenza giungo alla serie di scalette in acciaio; queste mi conducono alla famosa bandiera svizzera fissata sulla pare-

te. Quella che dal fiume mi sembrava minuscola e difficilmente raggiungibile, ora appare gigantesca e a portata di mano. Chissà se quando è stato festeggiato il primo agosto qualche temerario si è concesso una «scappata» notturna per vedere i fuochi d’artificio da questa prospettiva.

Nonostante la sua posizione verticale, la parete nei pressi della bandiera elvetica propone un piccolo balcone in ferro, adatto per ammirare il panorama. Se fossi un abitante di Leukerbad, io, ci farei più di un pensiero. La prima vera pausa arriva a un punto chiamato Obere Freiheit situato a 2303 m s.l.m. Da qui si può scendere in paese per una via alternativa o procedere per la vetta. Si trova a un terzo della salita e rappresenta un vero ultimatum rivolto a coloro che optano per una vita più facile. Da qui in avanti si fa sul serio e i punti di soccorso sono veramente pochi, talvolta distanti tra di loro.

Con quasi 650 m di dislivello, per la maggioranza in verticale, questa parte della ferrata è pubblicizzata sul sito della Redbull quale una delle più dispendiose di energia a livello mondiale. Poco importa visto che proprio in questo tratto si hanno le emozioni migliori. Ormai raggiunto da un gruppo di escursionisti slovacchi, procedo lungo la colonna della seconda variante. Davanti a noi un ponte costruito con due lunghi cavi d’acciaio unisce le due estremità della bocca di una grande grotta. Un’esperienza astratta, surreale, e contrastante allo stesso tempo. In pochi minuti ci si trasforma da funamboli equilibristi a speleologhi in cerca di un attacco per riposare le braccia.

Mi spingo lungo la parete ovest, nelle profondità della grotta, dove trovo sollievo sotto una piccola cascata. È la miglior doccia fredda che io abbia mai vissuto. Il getto d’acqua gelida mi avvolge di brividi che per la prima volta non sono causati della vertiginosa arrampicata: un rinfrescante toccasana. Fuori dalle viscere delle montagna continuo lungo un pilastro interminabile e stancante. Va detto che non mancano punti in cui si può riposare, facendosi superare dagli altri scalatori pur non essendo di alcun impiccio.

Giungo al secondo posto del ristoro solo poco prima di mezzogiorno. È il momento di sdraiarsi sulla roccia e rilassarsi completamente prima di fronteggiare la via più esposta del tragitto, la «via Konst». Anche se dalle vie ferrate non si cade, perdere la presa in quel frangente equivarrebbe a bucare un qualche tetto di Leukerbad, tale è il grado di esposizione di quel passaggio. Dedicato a Konstantin «Konst» Grichting, uno dei costruttori della ferrata, morto in un incidente sul lavoro nel 2006, questo passaggio offre una vista spettacolare su tutta la Valle del Dala.

Nonostante sia tecnicamente facile, esso richiede un impiego di forza delle braccia che, dopo cinque ore di costante lavoro, possono rifiutare obbedienza. Nel mio caso questo si traduce in atroci crampi alle dita della mano sinistra che mi porterò fino in vetta. Per i più stanchi esiste un passaggio alternativo che conduce alla parete finale con la grande scala. Come da copione già rivisto in tutte le mie avventure di montagna, si stratta di un ultimo sforzo che ogni escursionista sostiene con passi lenti e calmi. Alle 14 raggiungo il crocifisso che marca i 2941 m s.l.m: la tanto ambita vetta del Daubenhorn.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 17
Informazioni
Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
Jacek Pulawski, testo e foto

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La moderna cottura a bassa temperatura

Gastronomia ◆ Un metodo utile a evitare la perdita di liquidi del cibo, preservandone colore, consistenze e sapore originale

Premessa. Sono uno sfegatato fan della cbt, ovvero della cottura a bassa temperatura. Da fan potrei essere forse poco obiettivo, ma sono certo che di vantaggi questo tipo di cottura ne abbia parecchi, e oggi ve li riassumerò: che girano troppe leggende metropolitane in proposito. Lo spazio è tiranno, quindi inizio con i vantaggi, mentre in seguito parlerò delle attrezzature necessarie.

La cottura a bassa temperatura è un metodo di cottura oggi molto valutato e considerato moderno, che proprio di più non si può, ma in verità il metodo in sé è antichissimo; moderni sono solo i metodi e le tecniche di applicazione contemporanea. Basti pensare alle lunghe cotture in terracotta che le nostre nonne facevano nel camino di casa, una zuppa di fagioli cuoceva otto-dieci ore a fuoco dolcissimo, per non parlare delle vecchie cucine a legna chiamate «economiche», dove non mancava mai il paiolo di rame con intingoli o sughi.

In sintesi oggi la cottura a bassa temperatura vuol dire cuocere carne, pesce e verdure con diverse attrezzature, come il forno a vapore o il roner, per lungo tempo a temperatura controllata tra 50°C e 85°C, in modo da rendere il processo delicato ed evitare la perdita di liquidi del cibo, preservando colore, consistenze e il sapore originale senza che sia necessario aggiungere grasso in eccesso; ed è proprio quest’ultimo un punto fondamentale, data la grassofobia che domina, e giustamente, e dato che i grassi dovrebbero essere aggiunti a crudo a fine cottura, non utilizzati per cuocere (salvo tante eccezioni, tipo i fritti; sia chiaro, io non sono grassofobo ma non mi piace quando i grassi, e tutto il resto, vengono utilizzati male), e arricchire troppo le pietanze di sale.

La cottura a bassa temperatura si può definire come un metodo di cottura prolungato e delicato in cui la

temperatura controllata è vicina alla temperatura al cuore del prodotto desiderata. L’unico vero accorgimento è disporre di tecnologia che garantisca un controllo preciso della temperatura di cottura.

I vantaggi sono: cottura uniforme e conservazione della struttura cellulare del prodotto all’origine; mantenimento di succhi e liquidi (infatti la perdita di liquidi e la disidratazione è il primo problema che eliminiamo rispetto alle cotture tradizionali); promessa di consistenze più morbide (i metodi tradizionali a volte prevedono una temperatura maggiore e tempo inferiore non garantendo sempre il risultato ottimale). La scarsa perdita di liquidi garantisce una perdita di peso inferiore, si arriva anche al 50 per cento generando quindi un notevole risparmio economico. Inoltre, rende facile l’esecuzione di cottura e ricette: noterete che con poca applicazione potrete creare piatti complessi e facili da realizzare, basta un po’ di pratica e applicazione.

La cottura a bassa temperatura combinata con il sottovuoto garantiscono il completo mantenimento di tutte le caratteristiche organolettiche del cibo preservandone i principi nutritivi. Alimenti con sapori più definiti e decisi tipo aromi, profumi e sapori si mantengono più a lungo nel tempo, anche considerando la rigenerazione differita dalla preparazione.

Alcuni studi considerano la bassa temperatura un metodo per migliorare la digeribilità del cibo.

Le verdure, il pesce e la carne sono costituiti da fibre, acqua, proteine e tessuti duri, l’acqua evapora a partire da 100°C, e i tessuti duri si dissolvono a partire da 55°C. Temperatura bassa e tempi di cottura più lunghi permettono una cottura perfetta, perché l’acqua rimane negli alimenti e la lunga cottura sopra i 55°C permette l’idrolisi dei tessuti duri.

Quanti piatti si possono fare usando una sola casseruola o padella o pentola? Tantissimi. Vediamo come se ne fanno due.

Carbonata di manzo al vino rosso. In casseruola. Ingredienti per 4 persone: 400 g di polpa di manzo a cubetti, 2 cipolle, 1 rametto di rosmarino,

Ballando coi gusti

farina, burro, 1 bicchiere di vino rosso corposo, olio di oliva, sale, pepe. Infarinate leggermente la carne. Tagliate le cipolle al velo e fatele appassire in un filo di olio e una noce di burro, unendo poca acqua. Levatele dalla casseruola e tenetele da parte. Unite un filo di olio e rosolate i cubetti di manzo uniformemente. Rimettete la cipolla, mescolate e sfumate con il vino. Aggiungete il rametto di rosmarino legato e cuocete per 40 minuti, unendo acqua calda quando necessario. Regolate di sale e di pepe. Servite ben caldo. Straccetti di agnello in agrodolce. In padella. Ingredienti per 4 persone: 400 g di spalla di agnello tagliata a

fette, 100 g di misto per soffritto, 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro, basilico, 2 cucchiai di aceto, 1 cucchiaino di zucchero meglio se di canna, olio di oliva, sale, pepe. Battete le fette di agnello sottili e tagliatele a straccetti. Rosolatele in un filo di olio per 4 minuti. Aggiungete il misto per soffritto e il concentrato di pomodoro stemperato in poca acqua; quindi mescolate e cuocete coperto per 5 minuti. Scoprite, versate sulla carne l’aceto e spolverate con lo zucchero. Profumate con il basilico e mescolate per insaporire. Cuocete ancora per qualche minuto per restringere il sugo, regolate di sale e pepe, e servite.

Oggi due piatti a base di riso ma non «nostrani»: uno è giapponese e uno indiano (e oramai anche britannico)

Riso alla piastra con tofu, pinoli e menta Kedgeree

Ingredienti per 4 persone: 250 g di riso bianco tondo orientale – 200 g di tofu a cubetti piccoli – 100 g di pinoli – 1 cipollotto – foglie di menta –1 cucchiaio di zucchero – salsa di soia – 4 cucchiai di olio di semi – sale e pepe nero.

Lavorate e cuocete in bianco il riso come indicato sulla confezione. Scaldate una padella, ungetela con un cucchiaio di olio, unite il tofu a cubetti e i pinoli. Lasciate dorare per 1 minuto e unite il riso. Mescolate per farlo insaporire e, dopo 1 minuto, aggiungete un cucchiaio di zucchero, sfumate con la salsa di soia, aggiustate di sale, pepate, aggiungete il cipollotto a rondelle e foglie di menta; quindi servite.

Ingredienti per 4 persone: 250 g di riso lungo – 240 g di filetti di pesce bianco – 1 cipolla – 3 uova – prezzemolo – curry in polvere – panna o latte, olio di semi – sale e pepe.

Cuocete il riso pilaf. Sodate le uova per 10 minuti, raffreddatele sotto l’acqua corrente e sgusciatele. Dividete i bianchi dai tuorli e tritate entrambi. Spezzettate il pesce. In una casseruola scaldate 1 filo di olio e fate appassire la cipolla tritata molto fine. Aggiungete il pesce, rosolate per 1 minuto, unite il riso, spolverizzate con curry e cuocete per 1 minuto rigirando delicatamente. Regolate di sale e di pepe, bagnate con sufficiente panna o latte fino a ottenere un composto soffice, quindi unite gli albumi tritati. Disponete il pesce su un piatto da portata caldo e servitelo spolverizzando con i tuorli tritati e prezzemolo tritato.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 19 Come si fa?
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Le scatole decorate con la zucca

Crea con noi ◆

Un progetto di primo cucito che può essere realizzato anche dai bambini per salutare l’arrivo dell’autunno

Materiale

Con l’arrivo dell’autunno perché non creare una decorazione a tema, realizzando delle scatole con delle belle zucche dall’aspetto un po’ rustico? Un progetto di primo cucito, per il quale servono pochissimi materiali e che prende ispirazione dalla natura. Vista la sua semplicità, potrà essere realizzato anche dai bambini in età scolare.

Procedimento

Definite i colori delle zucche che realizzerete e decorate le scatole di conseguenza. Ad esempio potreste dipingere di arancione i coperchi

delle scatole su cui poserete le zucche di colore neutro e lasciare al contrario neutri quelli che accoglieranno le zucche arancioni. Ritagliate dai tessuti con colori autunnali dei cerchi. Io ho optato per cerchi di 2 misure: 24 e 20 cm di diametro. Con un filo dello stesso colore, usando il punto filza, cucite tutta la circonferenza. Tirate leggermente entrambi i lembi del filo per far arricciare la vostra zucca, poi imbottite con dell’ovatta sintetica prima di chiudere l’apertura annodando bene il filo.

Giochi e passatempi

Cruciverba

I gufi non possono muovere gli occhi perché…

Termina la frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate.

(Frase: 3, 5, 1, 5, 7, 7)

ORIZZONTALI

1. Ventisei in Svizzera

7. Il maggiore gruppo etnico cinese

9. Si rendono agli eroi

10. Non ci si mette davanti

il carro

12. Un’imposta

13. La più grande città dei Paesi Baschi

15. Pronome dimostrativo

16. Monte e maggiore cima dell’Appennino reggiano

17. Sudicia

Utilizzando lo stesso filo, partendo dal centro della zucca, create 6-8 spicchi. Da resti di panno e cartoncino realizzate delle foglie da sovrapporre tra loro. Con un punteruolo a molla o una forbice forate le foglie al centro in modo da poter inserire un legnetto.

Annodate quindi dello spago marrone attorno a degli stuzzichini e passateli con una pennellata di colla vinilica.

Lasciateli asciugare, quindi sfilateli. Si saranno formati dei «ricci»

Posizionate le foglie sulle zucche e fissatele con la colla. Infilate un legnetto per creare il picciolo e decorate con i ricci di spago e un piccolo fiocco. Fissate le zucche al coperchio delle scatole e decorate quest’ultime a piacere con dei nastri in tinta. Buon autunno!

• Scatole rotonde in cartone di diverse misure

• Scampoli di tessuto nei colori arancio/marrone/beige

• Filo da ricamo arancio e ago

• Ovatta per imbottire (in alternativa resti di stoffa)

• Forbici

• Pittura acrilica bianca e arancione, pennello piatto

• Qualche legnetto

• Spago e colla vinilica

• Punteruolo a molla (facoltativo)

• Resti di nastri in tinta, cartoncino craft

• Pistola colla a caldo

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

18. Nei cerchi e nei triangoli

19. Se ne fanno vere

20. Una «carta» per cellulari

21. Riceve una Dora a Torino

22. Insuccesso, fallimento

23. Parti di opere musicali

24. Voce poco gradevole

25. Come finisce comincia...

VERTICALI

1. Allenatore

2. Cicli di stagioni

3. Conoscenti di Cicerone

4. In posizione intermedia

5. Due vocali

6. Pianta con fiori a campanula

7. Il più grande meteorite trovato sulla Terra

8. Il cortile della fattoria

11. Osso del corpo umano

13. Ingrediente di molti dolci

14. Nome femminile

16. L’attore Bradley

18. Gareggiano nel Palio

20. Sclerosi latente amiotrofica

22. Preposizione

23. Le iniziali dell’attore Cosby

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

Soluzione della settimana precedente

La guerra più breve della storia è stata quella anglo-zanzibariana. Resto della frase: …SI RISOLSE IN TRENTOTTO MINUTI

SP I RAT I

PE S O OR

A LA T S E

R I SEA N

T R E NI T OR TE

RI T O SOM M I

U NA PAREI U SG BRU T TAV TOMO LOG ICA

I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

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Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate. 638 15 9 7 4 7 9 3 4 9 3 5 87 5 7 2 26 9 2
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Viaggiatori d’Occidente

A passo d’uomo

Nel tempo del cambiamento climatico l’autunno è la nuova estate. Ma i viaggiatori più esperti conoscono da tempo le dolcezze di questa stagione: la luce radente, il vento fresco, i profumi della frutta matura, i colori delle foglie ( foliage) nell’estate indiana. L’autunno per me è soprattutto tempo di sentieri nei boschi, a mezza quota tra pascoli e boschi di castagni, faggi e tigli: sentieri conosciuti e sentieri da scoprire.

Un sentiero in sé è men di niente. Spesso nasce per caso: un uomo attraversa un prato e per qualche tempo nell’erba resta un segno appena percettibile del suo passaggio. «Viandante, sono le tue orme / la strada, nient’altro; / viandante, non sei su una strada, / la strada la fai tu andando» ha scritto il poeta Antonio Machado. Ma ecco che un altro uomo ricalca le orme del primo, rafforzando quell’incerta traccia.

E poi un altro e un altro ancora… Ci sono sentieri che fanno fortuna perché rispondono a un bisogno della comunità locale o dei viandanti e allora, prima o poi, qualcuno li consolida tagliando l’erba, selciandoli o proteggendoli con uno steccato. Giorno dopo giorno, i sentieri si differenziano dal paesaggio circostante, per esempio con alberi nati da un seme di mela sputato da un viaggiatore o da una nocciola caduta per errore dalla sua tasca. Se il terreno è arrendevole, e se sono continuamente utilizzati per una lunga serie di secoli, alcuni sentieri erodono il suolo in profondità, creando affascinanti vie incassate. A volte le fronde degli alberi ai lati si congiungono sopra queste vie cave, lasciando il percorso in ombra e creando un tetto verde attraverso il quale filtrano i raggi del sole, con suggestivi giochi di luce. Ma ogni sentiero, anche quelli

Passeggiate svizzere

Abbastanza una rarità, in Svizzera, i cromlech. L’unico gruppo di pietre poste in circolo nella notte dei tempi, segnato sulla carta topografica nazionale con questo termine di origine bretone, si trova in mezzo a un bosco del Giura vodese. Scoperto nel 1871 da Paul Vionnet (1830-1914), pastore protestante appassionato di fotografia, il monumento megalitico di cui vado in cerca ora partendo a piedi da Romainmôtier, viene catturato attraverso una foto stampata su carta albuminata. Guardando bene questa foto, tra le pagine di Les monuments préhistoriques de la Suisse occidentale et de la Savoie (1872) dove Vionnet repertoria altri trentatré megaliti, si vede anche, nella radura, mimetizzato, una figura seduta a mani incrociate su uno degli enigmatici massi muschiati. Non è un elfo né un fantasma come sembra, ma un uomo elegante che appare, a malapena, con lo scopo

di donare una scala di grandezza al cromlech, sul cui sfondo si stagliano chiome di querce. L’uomo quasi invisibile seduto con il cappello sulle ventitré, immortalato su uno dei blocchi erratici misteriosamente riposizionati, dovrebbe essere Benjamin Dumur (1838-1915), avvocato e storico che accompagnava Vionnet nei suoi giri. Tra campi, prati, boschi – senza passare dal paesino di centosessantotto anime la cui curiosa omonimia con l’anglista Mario Praz è la prima cosa che mi è venuta in mente e sul cui territorio, si trova, il cromlech – dopo un’ora abbondante entro adesso nel bosco conclusivo. Querce, faggi, conifere, cespugli di biancospino ricolmi di bacche cardiotoniche. E così, sul sentiero, di primo pomeriggio ai primi di un ottobre più che tiepido, m’imbatto nel cromlech di La Praz (772 m): otto massi erratici, ricoperti in parte minore da mu-

Sport in Azione

più recenti, ha una storia da raccontare intorno alla sua nascita, un mito di fondazione. Forse per questo il poeta israeliano Yehuda Amichai ha scritto che «le parole sono cammini» (e viceversa).

Negli ultimi anni purtroppo, a causa dello spopolamento dei paesi, molti sentieri rischiano di scomparire. E come sempre accade, quando una parte della nostra vita sta per svanire, improvvisamente ne cogliamo tutta l’importanza. Questa sensibilità, al tempo stesso ambientale e culturale, è massima dove la Rivoluzione industriale ha lasciato segni particolarmente profondi sul territorio. Per esempio nel Regno Unito la protezione dei sentieri va in due direzioni.

Da un lato i più importanti dal punto di vista storico vengono registrati al pari dei monumenti tradizionali, anche se sono assai diversi da una cattedrale o un castello: i sentieri so-

no lunghi, lineari, distribuiti lungo le proprietà di persone diverse. Poi si invitano i camminatori a percorrerli, anche per il solo piacere di farlo, ricongiungendo la propria esperienza personale a quella degli infiniti precursori. Come ha scritto Jim Leary sull’autorevole quotidiano britannico «The Guardian»: «Con il sentiero avevo un rapporto speciale. Che si tratti di sollevare la polvere dall’argilla cotta dal sole o di sguazzare nel fango bagnato dalla pioggia, i miei piedi hanno lasciato un segno e il sentiero, a sua volta, è entrato profondamente dentro di me». Tutti gli scrittori di viaggio che ho amato hanno scritto di sentieri. Bruce Chatwin (In Patagonia, Le vie dei canti, L’alternativa nomade eccetera, tutti per Adelphi) raccontava che il suo stesso cognome veniva da lì: suo zio Robin, suonatore di fagotto, sosteneva infatti che in anglosassone

chette-wynde significa «sentiero tortuoso». E il prediletto Sylvain Tesson, il più originale tra gli scrittori di viaggio francesi, una sera precipitò rovinosamente dal tetto di uno chalet di montagna, sul quale era salito in preda all’ubriachezza. «Se me la cavo, traverso la Francia a piedi» promise a sé stesso risvegliandosi dal coma dopo mesi di ospedale, appena sufficienti per ricomporre al meglio cranio, ossa e vertebre.

Tesson ha compiuto il suo voto, percorrendo faticosamente la grande diagonale dalla Provenza alla Normandia lungo i sentieri neri, ovvero i percorsi rurali dimenticati dalla civiltà dell’asfalto e del motore, sino a ritrovare le forze fisiche e morali. Il racconto di quell’impresa – Sentieri neri (Sellerio), trasposto nel film A passo d’uomo di prossima uscita – è una celebrazione della bellezza dei sentieri e del cammino.

schi, vicino ai quali ci sono i resti di un fuoco. Il masso che colpisce subito lo sguardo è quello un po’ trapezoidale, costellato da circa centosettanta coppelle e vari rigagnoli incisi. Un cloritoscisto magnetico con un incavo dove mi accovaccio a meraviglia per un agile picnic. Sandwich al volo con pumpernickel imbottiti di salmone, crema di rafano, spruzzo di limone. Dopo pranzo salto giù, indietreggio: da una certa distanza si vedono meglio i rigagnoli, alcuni mi sembrano, di colpo, autentici petroglifi. Le braccia a penzoloni di figure stilizzate al massimo, esseri un po’ fatati o strafatti di Amanita muscaria Un disegno preciso è stato fatto da Jean-Christian Spahni (1923-1992), venticinquenne archeologo e futuro etnologo tra discendenti maya, pubblicato a corredo della sua descrizione intitolata proprio Le cromlech de La Praz (1948), sul trentanovesimo «Ja-

Una lunga storia d’amore e di passione

Federale Lugano, Pregassona, Viganello, Molino Nuovo, Bellinzona, Momò Basket, Sav Vacallo, Sam Massagno. Nella serie A maschile di pallacanestro sono rimasti I Lugano Tigers e la Sam Massagno. Club tradizionalmente vincente il primo. Club formatore in corsia di sorpasso il secondo. Società accomunate da due caratteristiche fondamentali. La straordinaria passione di chi da decenni tira il carro, e l’eterna lotta per far quadrare i conti. Ai tempi del boom del basket cantonale, nel pieno degli anni Settanta, c’erano soldi ed entusiasmo. Me lo hanno ricordato i due presidenti. Quello dei Tigers, Alessandro Cedraschi, a quei tempi era protagonista sui parquet. Il suo omologo della Sam Massagno, Fabio Regazzi, era semplicemente un appassionato che ricorda le grandi firme che giocavano accanto o contro il suo collega-rivale. Chuck Ju-

ra, Manuel Raga, Charlie Yelverton, John Fultz. Sono solo alcuni esempi di chi aveva lasciato i palazzetti più prestigiosi d’Italia per venire a giocare da noi. «Ma allora, ricorda Cedraschi, giravano ingaggi da 30 a 50mila franchi al mese. Oggi giungono prevalentemente americani di seconda o terza fascia che non trovano una sistemazione migliore e che si accontentano di cifre attorno ai 2500 franchi mensili». Eppure, in città e in collina, si guarda avanti, cercando di aggrapparsi alla risorsa più importante e più salvifica: il settore giovanile. I due club, insieme, possono vantare un movimento di oltre 700 ragazzi. Per i Tigers, che attualmente navigano in acque finanziariamente meno quiete, si tratta di una conditio sine qua non «Manca l’entusiasmo di un tempo» confessa Cedraschi. «Quando c’erano quattro squadre luganesi in serie

A, l’hockey non aveva l’appeal degli ultimi decenni. E il calcio era sceso nella hit parade del gradimento, dopo i fasti del Grande Lugano dell’era Prosperi-Luttrop-Brenna. Per noi non fu difficile costruire un clima di incredibile entusiasmo».

Se è difficile immaginare un ritorno all’Eldorado di un tempo, è addirittura impossibile ipotizzare una pallacanestro dalla chiara connotazione professionistica. Il bacino d’utenza è scarso. Le risorse pure. Il richiamo delle altre discipline sportive è incantatorio. Quei pochi giovani che riescono a emergere lasciano il Cantone. Per studiare. Oppure, se ci sanno fare, anche per giocare a basket. «Nonostante tutto ciò – sottolinea Regazzi – non riuscirei a immaginare oggi una serie A con una sola squadra ticinese. So che la penuria di mezzi è una spada di Damocle che pende costantemente su noi dirigenti. Non è

hrbuch der Schweizerischen Gesellschaft für Urgeschichte». Lì, le coppelle e rivoli scolpiti, mi sembrano molto spore germinate in ife. Inoltre c’è un piano d’insieme più fedele di quello di Vionnet che però aveva il pregio, benché imperfetto, di ricordare un arcipelago. «Non ricrea la forma di un cerchio ma piuttosto un pentagono irregolare» scrive l’autore di Itinéraire sud-américain (1968). E infatti, aggirandomi tra i blocchi di scisto cloritico, quarzite, eclogite, mi rendo conto con i miei occhi che la disposizione non è per niente circolare, forse però il percorso potrebbe pure riguardare qualcosa di ovale, legato magari all’energia ctonia. Mah, chissà, mistero. Sul significato dell’orientamento, riti, fasi lunari, equinozio, altari, sacrifici, celti, geobiologia, bovis, blablabla, possiamo stare qui fino a domani senza venirne a capo. Co-

munque, esplorando, qui vicino, tra altri massi muschiati del tutto e una specie di recinto di sassi, c’è di sicuro un bosco sacro di sole querce. E se un masso è ideale per il picnic, uno è perfetto per la siesta. Mentre individuo quello per sedersi e credo sia quello dove sulla foto è ritratto l’amico di Vionnier. Vari verdastri argentei si ammirano, osservando da vicinissimo, questi massi erratici riuniti a cui do amichevoli pacche. Mica di certo Stonehenge dove non sono mai stato o i menhir di Carnac visitati secoli fa durante un viaggio interrail con un amico perso di vista, ma «il loro insieme, nel mezzo del bosco, è molto imponente» scrive ancora Spahni. Il quale, nella sua vita erratica, si è occupato anche di paleontologia a Vienna, arte rupestre a Granada, musica folk andalusa, disotterrare oggetti precolombiani nel deserto di Atacama.

un caso che con regolarità disarmante, ogni anno c’è una società che getta la spugna. Recentemente è capitato al Boncourt, già campione svizzero, e allo Swiss Central. Ma il Derby con i Lugano Tigers ci offre quantomeno l’illusione che l’interesse possa essere rilanciato».

Ma è storia di poche sfide di campanile. Nelle altre partite, pare impossibile riempire dei palazzetti, che di per sé non sono enormi. E questo nonostante la Sam si sia consolidata come seconda forza del campionato alle spalle dell’Olympic Friburgo.

In riva alla Sarine, il calcio è una cosiddetta quantité négligeable. Il basket convive amorevolmente con l’hockey, al punto che Olympic e Gottéron sono amati e considerati come un vanto cittadino. Cedraschi si aggrappa al progetto del Polo luganese dello sport e degli eventi, che prevede anche la costru-

zione di un impianto multifunzionale da 4mila spettatori. Non è facile ipotizzare cambiamenti epocali. C’è il rischio che si possa arrivare a percepire chiaramente l’urlo di ogni singolo spettatore con il classico effetto-cattedrale. Facciamo gli scongiuri. E soprattutto gli auguri, affinché la passione sorregga i due presidenti, e li induca a non mollare, nonostante le difficoltà finanziarie, nonostante la fragilità dei vertici federali, nonostante la consapevolezza dei passi enormi che anche la classe arbitrale dovrà intraprendere per essere all’altezza di uno sport veloce e difficile da interpretare nelle sue finezze. A beneficiare del loro amore, della loro passione e di coloro che camminano accanto a loro, saranno soprattutto le centinaia di ragazzini coinvolte nel movimento. Il riuscire a garantire continuità in questo senso sarà già una vittoria.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 23 TEMPO LIBERO / RUBRICHE ◆ ●
di Giancarlo Dionisio
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di Oliver Scharpf
Il cromlech di La Praz

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ATTUALITÀ

Focus su Riad

Svolta storica in Medio Oriente con la nascita di un rapporto diplomatico fra Israele e Arabia Saudita, un Paese investito dal cambiamento

Tra i miliardari d’Italia

La scomparsa di Agnelli, Del Vecchio, Berlusconi e altri ricchissimi ha fatto emergere una nuova generazione di Paperoni

Previdenza: otto errori da evitare

Per non avere difficoltà economiche in età avanzata è meglio pianificare per tempo ed evitare le insidie più comuni

Il Giappone riprende in mano il suo destino

Prospettive ◆ L’onda geopolitica anomala alzata dalla crisi americana e dall’ascesa cinese sta riscrivendo le gerarchie delle potenze

Il mondo di oggi, ma soprattutto di domani, riscopre un antico protagonista: il Giappone. L’onda geopolitica anomala alzata dalla crisi americana e rivelata dall’aggressione russa all’Ucraina sta infatti riscrivendo le gerarchie delle potenze. Alcune finiscono o finiranno sommerse perché incapaci di adattarsi al trauma della sfida Stati Uniti-Cina-Russia e alle sue ripercussioni mondiali. Altre ne profitteranno o contano di profittarne. Sapendo di giocarsi l’osso del collo. Fra queste la più importante è il Giappone.

L’impero nipponico è entrato nella storia universale nel 1868 – durante la cosiddetta restaurazione Meiji – vi si è affermato decisivo negli anni Trenta e primi Quaranta del Novecento, grande guerra d’Asia prima contro la Cina poi contro gli Stati Uniti e alleati – ne è stato espulso via doppio olocausto nucleare (Hiroshima e Nagasaki) nel 1945. Negli ultimi anni ha accelerato il passo del rientro nel grande gioco delle potenze. Proprio in concomitanza con la crisi americana e con l’ascesa cinese, oggi peraltro in arenamento.

Dopo oltre mezzo secolo di formidabile crescita economica e tecnologica all’ombra della protezione strategica americana, il semiprotettorato giapponese si è gradualmente evoluto verso il ritorno a un notevole grado di sovranità. E al conseguente riarmo non solo materiale, anche se la mentalità pacifista resta prevalente fra i cittadini. L’idea è che l’ombrello a stelle e strisce non sia così assoluto e perfetto come poteva sembrare e che gli interessi nipponici non siano sempre e necessariamente quelli americani. Il timore, insomma, era ed è di finire stritolati nella sfida sino-americana.

Tokyo non ha alcun interesse a uno scontro armato fra Stati Uniti e Cina, nel quale sarebbe subito coinvolta

Per il Giappone la Cina resta un rivale strategico ma anche un vitale partner economico e commerciale. Tokyo non ha alcun interesse a uno scontro armato fra Stati Uniti e Cina, nel

quale sarebbe subito coinvolta. Infatti il grosso delle truppe e dei mezzi militari americani in Asia è stanziato nell’arcipelago nipponico, inquadrato nel Comando Usa per l’Indo-Pacifico con sede alle Hawaii. Un attacco americano alla Cina o cinese all’America implicherebbe immediatamente il Giappone in una guerra per la propria sopravvivenza, che avrebbe in potenza anche una dimensione atomica. Incubo.

La parte più disinibita e nazionalistica delle élite giapponesi prepara da tempo questo scenario, che verte sul concetto stesso di Indo-Pacifico. L’idea della «convergenza dei due mari» non è infatti americana ma giapponese. Esposta per la prima volta da Abe Shinzo in un discorso del 2007 a Delhi, essa postula la necessità di considerare i due oceani come unico teatro strategico, in funzione anticinese. Associando sotto la guida americana anzitutto India e Giappone, più Filippine, Vietnam e quanti altri Paesi dell’area indocinese e indonesiana, oltre all’Australia, la strategia dei due mari delinea un’alleanza larga deputata a contenere le ambizioni

oceaniche di Pechino, premessa della sua espansione su scala mondiale. Decisiva in questa visione è Taiwan. Collocata allo snodo fra Mar Cinese Orientale e Meridionale, più vicina alle isole meridionali del Giappone e a quelle settentrionali delle Filippine di quanto lo sia alla costa della Cina, Taiwan è la massima posta in gioco nella sfida Pechino-Washington. Intorno all’isola e ai suoi arcipelaghi incrociano i mezzi aerei e navali cinesi e quelli americani, giapponesi e di altre potenze non solo regionali. Di più: per Tokyo, Formosa (antico nome di Taiwan) profuma di casa. Per mezzo secolo, tra 1895 e 1945, è stata la sua prima colonia, strappata alla Cina. Qui ha sviluppato un suo esperimento di peculiare assimilazione in chiave imperiale, che ha avuto un certo successo. Soprattutto questo processo ha coinciso con l’apertura del Giappone alla scienza, alla tecnologia e (meno) alla cultura occidentale.

L’attuale apertura dei taiwanesi all’Occidente è stata frutto anche di questo mezzo secolo di colonizzazione giapponese. Risultato: oggi il 60%

dei taiwanesi considera il Giappone come migliore amico. L’influenza cinese tende invece a restringersi. Oggi Taiwan è di fatto Nazione a sé, in attesa di stabilire se questa realtà sarà sanzionata dall’evoluzione dell’attuale indipendenza di fatto in status di diritto, possibile solo in caso di sconfitta della Cina o almeno del suo attuale regime nella competizione con gli Usa. Improbabile ma non impossibile.

In prospettiva di medio-lungo periodo, il Giappone potrebbe assumere il rango di competitore della Cina per il primato regionale, assumendo che gli Stati Uniti siano sconfitti o si ritraggano sempre più nella loro fortezza nordamericana. Altrettanto improbabile ma non impossibile. Di sicuro Tokyo tende a riprendere il proprio destino fra le sue mani. Come tutti gli attori, non solo nella regione. Riflesso della transizione egemonica avviata dal declino americano. Purché questa crisi non trascenda in conflitto fuori tutto, perciò mondiale. Restare in equilibrio fra le onde dello tsunami indopacifico sarà esercizio di altissima acrobazia.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 25
Il premier giapponese Fumio Kishida al vertice dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico, in Indonesia, a inizio settembre. (Keystone) Pagina 29 Pagina 31 Pagina 27

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Un ponte tra Oriente e Occidente

L’analisi ◆ Svolta storica in Medio Oriente con la nascita di un rapporto diplomatico fra Israele e Arabia Saudita, benedetto dagli Stati Uniti. Focus sul crescente ruolo di Riad come potenza regionale e non solo

Si chiude, cinquant’anni dopo, un capitolo tragico della nostra storia: quello che venne aperto il 6 ottobre 1973 dalla guerra israelo-araba dello Yom Kippur. Il nuovo corso politico impresso all’Arabia Saudita dal suo giovane principe Mohammad bin Salman, detto MbS, è il segnale più forte che siamo entrati in un nuovo capitolo di storia per il Medio Oriente. Se l’economia saudita è stata a lungo una «monocultura petrolifera», oggi la parola d’ordine è la diversificazione: Riad vuole diventare una potenza leader nello sviluppo dell’idrogeno verde e di altre fonti rinnovabili. La nuova Arabia si prefigge di diventare una potenza manifatturiera, e in cima alle proprie ambizioni mette la produzione di batterie per auto elettriche.

L’ingresso nei Brics

La logica geopolitica del nuovo corso guidato dal principe MbS lui l’ha definita così: l’Arabia punta a essere un ponte tra Oriente e Occidente, così come tra il Nord e il Sud del pianeta. In questa luce bisogna vedere l’attivismo diplomatico più recente: il disgelo con l’acerrimo nemico Iran (favorito dalla diplomazia cinese), l’ingresso nei Brics che la Cina vuole trasformare nel contro-G7 in chiave anti-americana, ma al tempo stesso i preparativi sotterranei per il riconoscimento diplomatico di Israele, che chiuderebbe l’operazione sponsorizzata dallo stesso Trump con gli «accordi di Abramo» fra gli Emirati e Israele. Se accadrà, l’apertura di relazioni diplomatiche fra l’Arabia e Israele sarà un sisma, con implicazioni enormi per tutti il mondo islamico. E questi sono solo gli ultimi capitoli di un protagonismo geopolitico dell’Arabia Saudita che l’ha portata a mantenere buoni rapporti con la Russia ignorando le nostre sanzioni; a sviluppare quelli con la Cina e l’India di cui è il principale fornitore di energie fossili; ad allargare il proprio ruolo economico e strategico in Africa (dove per esempio un Paese come l’Egitto viene letteralmente colonizzato dai capitali sauditi).

L’assassinio di Khashoggi

L’Occidente ora «rincorre» MbS, dopo averlo demonizzato. Per molti l’evento chiave in cui si guastarono i rapporti rimane il feroce assassinio del giornalista d’opposizione Jamal Khashoggi. Dal punto di vista saudita l’Occidente applica due pesi e due misure, perché gli stessi che hanno preteso di tagliare i rapporti con Riad per condannare quell’atrocità, non si sognano di chiudere le relazioni con la Cina per gli abusi contro i diritti umani in Tibet, Xinjiang, Hong Kong. Inoltre a Riad molti – anche tra gli occidentali che vi lavorano –ritengono che fissandosi sull’orribile omicidio di Khasogghi l’Occidente abbia sottovalutato i progressi compiuti anche nel campo di certi diritti: la condizione della donna in Arabia sta migliorando; l’alleanza con il clero wahabita più reazionario e oscurantista è stata abbandonata da MbS; sembra si stia chiudendo quel ciclo terribile che dal 1979 aveva portato i sauditi a esportare versioni fanatiche dell’Islam nelle moschee e madrase di tutto il mondo, inclusi terroristi jiha-

disti come Osama bin Laden e ben 15 dirottatori dell’11 settembre 2001.

Il risentimento saudita si allarga fino a includere il discorso ambientalista. Da anni i sauditi ascoltano i discorsi ufficiali dei leader occidentali che condannano gas e petrolio e ne preannunciano l’abbandono il più presto possibile. Poi però quando Putin ha invaso l’Ucraina e le vendite di energie fossili dalla Russia all’Europa sono cessate, l’Occidente è corso a chiedere maggiori forniture ai sauditi.

L’estremismo ambientalista in voga in Occidente li irrita, perché mentre Riad investe nelle rinnovabili, al tempo stesso sa che il mondo intero avrà bisogno di energie fossili ancora a lungo, e una transizione fulminea non è realistica.

Per tutte queste ragioni, l’emergere di una visione geopolitica sempre più autonoma da parte di MbS, è in parte il frutto della storia (la memoria dell’impero arabo nella sua proiezione su tre Continenti), in parte la presa d’atto che l’Occidente è diventato un partner ondivago e inaffidabile, in parte la conseguenza di oggettive convergenze d’interessi con la Russia e con il più grande importatore mondiale di energie fossili che è la Cina.

Ma questa Arabia non vuole apparire allineata con nessuno, non vuole finire catalogata come membro di questo o quel blocco. Ambisce a giocare su tutte le scacchiere conquistandosi un ruolo che la renda indispensabile a tutti.

L’intesa con Mosca

Il petrolio che sembra puntare verso i 100 dollari al barile, in un certo senso, è il modo in cui i mercati celebrano il cinquantesimo anniversario della guerra dello Yom Kippur, quella che provocò il primo grave shock energetico. C’è l’intesa tra Arabia Saudita e Russia dietro i tagli di produzione che spiegano i recenti rialzi dei prezzi. È un paradosso, perché mentre sul terreno economico Riad se la intende con Mosca, su un altro terreno invece torna a valutare le offerte di assistenza militare dagli Stati Uniti, come incentivo al primo allacciamento di rapporti diplomatici con Israele. È quindi un buon momento per riflettere sul mezzo secolo che si chiude, su quello che abbiamo imparato (oppure no) dalla guerra dello Yom Kippur in poi.

Intanto sale la tensione in Turchia

La settimana scorsa le forze dell’ordine turche hanno arrestato un migliaio di persone in diverse province del Paese, tra cui molte accusate di avere legami o di far parte delle «strutture di intelligence» del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), gruppo politico curdo che sia Ankara sia buona parte dei suoi alleati occidentali riconoscono come organizzazione terroristica internazionale.

Le operazioni sono legate all’attenta -

La guerra dello Yom Kippur

Il conflitto arabo-israeliano combattuto dal 6 al 25 ottobre del 1973 prese il nome dalla festività ebraica durante la quale ebbe inizio, non a caso. Gli eserciti della coalizione araba guidata da Egitto e Siria (cui parteciparono contingenti da Arabia, Algeria, Marocco, Tunisia, Libia, Giordania, Iraq, Sudan, e perfino da Cuba) inizialmente ebbero la meglio anche grazie all’effetto-sorpresa legato alla festa religiosa.

In seguito le forze israeliane riuscirono a recuperare. Sul piano strettamente militare non ci fu una netta vittoria di uno dei due campi, ma la guerra fu vissuta come un riscatto da parte del mondo arabo dopo l’umiliazione subita in quella del 1967.

Il Medio Oriente si confermò come un epicentro della guerra fredda, con la tensione ai massimi fra Stati Uniti e Unione Sovietica (quest’ultima appoggiava la coalizione araba).

Il rincaro dei carburanti

to di domenica 1 ottobre ad Ankara, in cui erano morti due attentatori ed erano stati feriti alcuni poliziotti. L’azione – che era appunto stata rivendicata dal PKK – è stata eseguita nel giorno in cui il Parlamento turco ha aperto i lavori dopo la pausa estiva. L’attentato ha concesso al presidente turco Recep Tayyip Erdogan la giustificazione necessaria per lanciare un attacco contro le postazioni militari curde nel nord dell’Iraq. / Red

L’Opec usò con successo le sanzioni economiche razionando il greggio a diversi Paesi occidentali accusati di avere armato Israele. Il rincaro dei carburanti creò gravi difficoltà alle economie avanzate. Fu l’inizio di un consistente trasferimento di risorse finanziarie dai vecchi Paesi industrializzati alle Nazioni emergenti che detengono le maggiori riserve di energie fossili. Un trasferimento di ricchezze da Nord a Sud, quindi. Con risultati, a posteriori, peggio che deludenti. Il fiume di petro-dollari arricchì le classi dirigenti del mondo arabo che si rivelarono incapaci di investire nella modernizzazione dei loro Paesi, nell’istruzione, nel benessere. Sei anni dopo il primo shock energe-

tico arrivò il secondo con la rivoluzione iraniana, una nuova impennata dei prezzi petroliferi, un ulteriore trasferimento di ricchezze da Nord a Sud. Per timore di fare la stessa fine dello scià di Persia, la monarchia saudita (che aveva subito attentati terroristici in casa sua) strinse un patto scellerato con il clero wahabita. Cominciò una gara tra Iran e Arabia a chi si distingueva nel più virulento odio verso l’Occidente. I petrodollari finanziarono in tutto il mondo moschee e madrase dove si predicava la jihad. L’anti-occidentalismo dilagava anche per dirottare verso nemici esterni la crescente frustrazione delle popolazioni musulmane, derubate dei benefici della rendita petrolifera dai loro governanti.

Oltre l’odio e la violenza?

Mezzo secolo di stragi terroristiche e di sangue forse si sta chiudendo sotto i nostri occhi? Dietro il disgelo diplomatico tra Arabia e Israele c’è anche questo: il principe MbS sembra impegnato a liberarsi dall’influenza del clero. I fiumi di petrodollari sauditi che finanziavano la jihad tendono a inaridirsi. In questo senso il cinquantesimo anniversario della guerra dello Yom Kippur ci rivela che qualcuno ha imparato qualcosa: dopo aver sprecato buona parte di questo mezzo secolo a diffondere odio e a versare sangue, c’è una classe dirigente araba che appare intenzionata a cambiare strada. La distruzione dello Stato d’Israele, a quanto pare, finisce negli archivi della storia. Tra i perdenti si reputa che ci siano i palestinesi. I quali però avevano già perso: si erano dati un’Autorità di governo inetta e corrotta; poi si sono affidati a milizie armate legate all’Iran sciita; di conseguenza l’Arabia aveva già perso da tempo ogni entusiasmo per la causa palestinese.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 27
Il principe Mohammad bin Salman. (Keystone)
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Re di denari: la nuova generazione

Venticinque anni addietro c’erano Gianni Agnelli (Fiat), Leonardo Del Vecchio (Luxottica), Bernardo Caprotti (Esselunga Supermercati), Silvio Berlusconi (Fininvest, assicurazioni e banche), Ennio Doris (Mediolanum Banca), Michele Ferrero (Nutella), Alberto Aleotti (Menarini gruppo farmaceutico), Carlo De Benedetti (CIR holding fra stampa, energia, componentistica), Giorgio Armani (moda), Gianmarco Moratti (Saras, petrolio), Luciano Benetton (Edizione holding con 6 mila punti vendita nel mondo). Ognuno di essi aveva creato un impero. Le eccezioni erano Gianni Agnelli, che l’azienda di automobili l’aveva ereditata contribuendo a solidificarla, e Gianmarco Moratti, il quale gestiva le considerevoli fortune create dal padre Angelo, leggendario presidente dell’Inter, la società di calcio, che proprio in quel periodo era tornata nell’ambito familiare con il fratello Massimo. Erano i re di denari di un Paese dal considerevole debito pubblico, ma dall’enorme ricchezza privata. Per ciascuno di essi la regola era di tenersi ben lontani dal potere, al massimo d’ingraziarselo. Anche in questo caso con un’eccezione, Berlusconi, che nel 1994 l’aveva buttata in politica. In parte, secondo molti osservatori, anche per risolvere la propria intricata situazione finanziaria. Il banchiere Enrico Cuccia, dominus di Mediobanca considerata l’architrave del capitalismo italiano, gli aveva consigliato di portare i libri in tribunale, quando era stato richiesto di un parere.

La regola era di tenersi ben lontani dal potere politico, al massimo d’ingraziarselo.

Con un’eccezione:

Silvio Berlusconi

La scomparsa di Agnelli, di Del Vecchio, di Aleotti, di Berlusconi, di Doris, di Caprotti, di Moratti, di un paio di fratelli Benetton, con i propri beni divisi fra gli eredi, ha contribuito a far aumentare il numero dei Paperoni, benché un po’ meno ricchi. Sono 69 le persone con un patrimonio oltre il miliardo di dollari (circa 900 milioni di franchi), 5 in più rispetto alla scorsa primavera e 20 nuovi dai 49 in lista nel 2021. Sono spariti i De Benedetti, vi figurano i cinque figli di Berlusconi, con patrimonio valutato fra il miliardo e il miliardo 900mila; e vi figurano soprattutto gli otto

eredi di Del Vecchio: i sei figli, l’ultima moglie e il figliolo avuto in un precedente matrimonio. Ciascuno di essi vanta una fortuna di 4,2 miliardi. E questa ha fruttato al diciannovenne Clemente il titolo di junior più ricco del pianeta. Ma lui è in affari da quando aveva 16 anni: con un gruppo di amici rilevò la catena di negozi Sears negli Stati Uniti. In seguito ha investito in alcune attività innovative, tra cui la società tedesca FlixBus, la piattaforma per le videoconferenze Zoom e quella per l’apprendimento online Udacity. Infine ha fondato una società di venture capital (ovvero specializzata nella concessione di capitale di rischio) chiamata Ardian, focalizzata su startup di impatto positivo sociale e ambientale.

Stando alla classifica, il giovanissimo Clemente è ricco il doppio di John Elkann l’erede della Fiat ormai sparita e a capo della Exor, l’antica società d’investimenti della famiglia Agnelli. Il giro d’interessi finanziari è di poco inferiore ai 40 miliardi di dollari e forse l’unica nota dolente sono le sconfitte e i bilanci in rosso della Juve, che il bisnonno Edoardo acqui-

stò nel 1923. Il quarantasettenne John regna con un pacchetto azionario di circa 31 milioni. Sul suo trono incombe però la madre Margherita Agnelli, l’unica figlia in vita di Gianni. Da parecchi anni è in lite giudiziaria con John: lo accusa di averla estromessa da gran parte del capitale paterno con la complicità della defunta nonna Marella. Per avere giustizia, e soprattutto una parte rilevante di Exor, si è rivolta ai tribunali italiani e svizzeri, che ancora non si sono espressi in maniera definitiva, ma le cui decisioni interlocutorie sono state fin qui favorevoli a Elkann.

Rendono bene la moda e il lusso. Giorgio Armani con un patrimonio di 12,7 miliardi è il secondo italiano più ricco. Fra gli stilisti lo seguono Miuccia Prada e il marito Patrizio Bertelli (entrambi accreditati di 5,8 miliardi); se la cavano anche i due fratelli di Miuccia, Marina e Alberto (2,5) gestori dell’impresa di famiglia creata nel 1913. Giubbotti, cachemire, maglioni colorati, jeans hanno fruttato 3,4 miliardi alla famiglia di Remo Ruffini (Moncler), a quella di Brunello Cucinelli, a quello di Renzo Rosso e a quelle di Luciano e Giuliana Benetton (a parte c’è Sabina Benetton, 1,8). A 2,3 miliardi si fermano Domenico Dolce e Stefano Gabbana. I discendenti dell’argentiere greco Sotirio Bulgari (primo negozio aperto a Roma nel 1884) sono rappresentati da Nicola (2,1) e da Paolo (1,7). Le scarpe Tod’s di Diego Della Valle si attestano a 1,4.

Il primo posto in classifica continua a essere occupato da un Ferrero. Al padre Michele, inventore, della famosissima Nutella, è subentrato il figlio Giovanni, che magari avrebbe preferito coltivare a tempo pieno la sua vena di scrittore. Invece si è dedicato ad allargare i confini dolciari con ottimi esiti: patrimonio superiore ai 40 miliardi di dollari. Detto di Armani, al terzo posto – occupato fino allo scorso aprile da Berlusconi con circa 7 miliardi – è avanzato Ser-

similiana Landini Aleotti, la figlia di Alberto, proprietaria dell’azienda farmaceutica Menarini, 6,9 miliardi. Quinta posizione per Piero Ferrari (6,7 miliardi), figlio di Enzo, che va molto meglio delle leggendarie auto da corsa progettate dal padre. È proprietario del 10,2% della scuderia e guadagna un botto con le straordinarie vendite annuali delle rosse, richiestissime malgrado i pessimi risultati in F1. Piero è anche presidente della Ferretti, colosso degli yacht di super lusso.

Quarto posto per la prima donna della classifica, Massimiliana Landini Aleotti, proprietaria dell’azienda farmaceutica Menarini

gio Stevanato, presidente dell’omonimo gruppo, quotato a Wall Street (7,6 miliardi). È uno dei principali produttori mondiali di fiale di vetro per medicinali, soprattutto quelle utilizzate per i vaccini, che durante l’emergenza Covid hanno avuto un boom di richieste. Quarto posto per la prima donna della classifica, Mas-

Gli otto eredi Del Vecchio, uniti nella Delfin, la finanziaria di Leonardo, sono al centro di un’operazione che potrebbe cambiare la geografia del potere nella vicina Penisola, se smetteranno di battibeccare al loro interno. Con l’antico alleato paterno, l’editore e finanziere Francesco Gaetano Caltagirone (beni per 4 miliardi), hanno acquisito una fetta azionaria di Mediobanca superiore al 20 per cento. Gli attuali amministratori, espressione di un patto di sindacato assai indebolito da numerose uscite, hanno invano cercato di trovare un’intesa. È ormai chiaro che Delfin punta al controllo dello strategico istituto di credito. Significherebbe mettere le mani anche sulle Assicurazioni Generali, con attività per 775 miliardi di euro, motore delle principali intraprese nazionali.

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Contratto Data d’inizio Indeterminato 80/100% Da concordare Mansioni principali Sviluppare una strategia di social media stabilendo KPI in base agli obiettivi aziendali;

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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 29
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Italia ◆ La scomparsa di Agnelli, Del Vecchio, Berlusconi e altri miliardari – con i propri beni divisi fra gli eredi – ha contribuito a far aumentare il numero dei Paperoni, benché un po’ meno ricchi
Giovanni Ferrero, l’uomo più ricco d’Italia, e sotto Giorgio Armani. (AFP/Keystone)
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Gli otto errori da evitare nella previdenza per la vecchiaia

La consulenza della Banca Migros ◆ Per non avere difficoltà economiche in età avanzata, è meglio pianificare per tempo ed evitare le insidie più comuni

1. Sottovalutare il fabbisogno finanziario dopo il pensionamento

Una volta in pensione bisogna fare i conti con entrate minori: la rendita statale e quella professionale coprono infatti solo circa il 60% dell’ultimo stipendio. Molti non lo realizzano o immaginano che in età avanzata le spese diminuiscano. Spesso, così, si dimentica che il potere d’acquisto della rendita diminuisce di anno in anno. Inoltre si sottovaluta la portata dell’onere fiscale durante la vecchiaia, quando vengono meno le deduzioni per l’attività professionale. Conviene pertanto elaborare per tempo un budget delle spese che riguarda il periodo successivo al pensionamento e determinare il fabbisogno finanziario mensile. Alle spese bisogna poi contrapporre le entrate che si riceveranno dall’AVS e dalla cassa pensioni. Se il fabbisogno finanziario supera le entrate, si ha una lacuna di copertura.

2. Attendere troppo prima di creare un patrimonio

Il patrimonio privato consente di integrare opportunamente la previdenza statale e professionale. Rispetto agli investimenti finanziari di carattere conservativo come l’oro o le obbligazioni, le azioni offrono opportunità di rendimento nettamente più elevate, ma questo tipo d’investimento richiede tempo. Per avere successo con i propri investimenti in borsa, infatti, è decisivo l’effetto degli interessi composti che si manifesta quando si reinvestono i proventi di un investimento, ossia gli interessi e i dividendi. Più è lungo l’orizzonte temporale dell’investimento, maggiore sarà tale effetto. È meglio investire in azioni dai 40 anni in poi, con importi regolari anche di modesta entità. Investendo 50 franchi al mese, tra dieci anni –considerando un rendimento medio dell’8% – questi saranno diventati 9068 franchi.

3. Non effettuare versamenti

nel pilastro 3a

Il terzo pilastro è una soluzione di previdenza privata per la vecchiaia con cui si beneficia di agevolazioni fiscali. Questo vuol dire che tutti gli importi versati sono deducibili dal reddito imponibile. Nel 2023 tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici che aderiscono a una cassa pensioni possono versare nel pilastro 3a fino a 7056 franchi. Questo capitale è vincolato. Ciò significa che, salvo poche eccezioni (ad esempio l’acquisto di una proprietà abitativa), vi si può accedere solo cinque anni prima del raggiungimento dell’età ordinaria di pensionamento AVS. Se invece si vogliono aumentare le possibilità di guadagno a lungo termine, conviene investire il denaro del conto di previdenza in un fondo previdenziale. La quota azionaria può essere scelta in base al profilo di rischio personale.

4. Non effettuare riscatti nella cassa pensioni

Alcune circostanze quali una pausa lavorativa per occuparsi dei figli o un lavoro a tempo parziale, potrebbero determinare una lacuna previdenziale, vale a dire una differenza tra la somma che avrebbe potuto essere versata nella cassa pensioni e quella che si è effettivamente versata finora. Tale lacuna può essere colmata versando volontariamente contributi nella cassa pensioni. In questo modo, non soltanto si migliora la situazione finanziaria nella terza età, ma si risparmia anche sulle imposte: i versamenti effettuati sono deducibili dal reddito imponibile nella dichiarazione delle imposte. L’importo del riscatto è determinato dall’ammontare della lacuna di copertura. Se e in quale misura è opportuno effettuare

riscatti nella cassa pensioni, va valutato in base allo stato di salute della cassa pensioni e alla situazione finanziaria personale. L’importo massimo possibile per i riscatti è indicato sul certificato della cassa pensioni che si riceve ogni anno. Se le lacune previdenziali sono ingenti, è consigliabile effettuare un riscatto scaglionato su diversi periodi fiscali, per interrompere la progressione fiscale. In ogni caso l’imposizione aggiuntiva in caso di prelievo del capitale dalla cassa pensioni non dovrebbe superare il risparmio fiscale derivante dai versamenti.

5. Ignorare le lacune contributive nell’AVS

Per poter percepire una rendita intera non devono esserci lacune contributive nell’AVS. In sostanza, le donne devono pagare costantemente i contributi AVS dal 21esimo al 64esimo anno di età (fino al 65esimo anno di età dal 2024) e gli uomini dal 21esimo al 65esimo anno di età, anche nei periodi in cui non dovessero esercitare un’attività lucrativa. Per ogni anno mancante, la pensione viene ridotta del 2,3%. Una lacuna può insorgere ad es. per studi che si protraggono per vari anni o un lungo soggiorno all’estero. In tal caso è possibile versare successivamente i contributi AVS mancanti, ma solo entro cinque anni. Per mantenere la visione d’insieme dell’AVS e di eventuali lacune, sarebbe bene richiedere ogni quattro-cinque anni un estratto gratuito

del conto individuale (estratto CI), che riporta tutti i contributi rilevanti per il calcolo della rendita AVS.

6. Aprire un solo conto 3a

Il ritiro degli averi previdenziali dal pilastro 3a è soggetto al pagamento di imposte: quanto più si è risparmiato, tanto più alta sarà l’aliquota d’imposta applicata (anche se alcuni Cantoni applicano un’aliquota forfettaria). Per evitare tale aumento, è consigliabile prelevare i capitali del pilastro 3a scaglionati su diversi anni fiscali e per poterlo fare occorrono diversi conti 3a. Infatti non è possibile prelevare solo importi parziali (tranne se il prelievo anticipato serve a finanziare la proprietà abitativa). Se il patrimonio risparmiato ammonta a circa 50’000 franchi vale la pena aprire un secondo conto. È possibile aprire più conti poiché non vi è un numero massimo stabilito per legge. Alcuni Cantoni tuttavia limitano il prelievo scaglionato a un determinato numero di conti e tassano gli ulteriori prelievi dalla previdenza vincolata sommandoli ai primi.

7. Sottovalutare i costi immobiliari

Chi ha un appartamento o una casa di proprietà deve chiedersi se potrà continuare a finanziare l’ipoteca dopo il pensionamento o se, eventualmente, dovrà vendere l’immobile. Per questo motivo è necessario chiarire per

tempo la sostenibilità e l’ammontare massimo dell’anticipo dell’immobile in questione. I costi fissi regolari (interessi debitori, eventuali ammortamenti, spese accessorie) non dovrebbero costituire più di un terzo del reddito disponibile. Con un ammortamento (parziale) è possibile ridurre in modo permanente il debito ipotecario. Importante: l’ipoteca andrebbe possibilmente ammortizzata in modo indiretto, compensandola con il capitale del pilastro 3a alla scadenza. Così si possono dedurre integralmente dalle imposte gli interessi debitori. Ogni cinque anni è consentito rimborsare l’ipoteca dai fondi del pilastro 3a.

8. Non allestire un piano finanziario

Con il pensionamento cambia la situazione personale, di conseguenza sono diversi anche gli obiettivi e le esigenze finanziarie. Allestire un piano finanziario individuale può costituire un’ottima base per la previdenza per la vecchiaia. Solo gettando le basi per tempo è possibile sfruttare appieno il potenziale di ottimizzazione. A tale scopo è consigliabile rivolgersi alla propria banca di fiducia per elaborare insieme un piano finanziario.

Domande sulla previdenza?

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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 31
Getty Images/Westend61
Isabelle von der Weid è consulente ed esperta in previdenza presso la Banca Migros.

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Il Mercato e la Piazza

Lo scarto salariale tra Ticino e Svizzera

Sul ritardo salariale del Ticino rispetto al resto della Svizzera si sentono sempre commenti, in generale negativi. Gli stessi tendono a intensificarsi nei periodi pre-elettorali come quello che stiamo vivendo. Poiché, stando ai pochi dati statistici disponibili, i salari pagati nel nostro Cantone sono inferiori a quelli medi svizzeri e i lavoratori ticinesi si sentono discriminati.

È sicuro che, se all’elettorato svizzero fosse proposta un’iniziativa per introdurre a livello nazionale la parità di salario secondo la funzione, la stessa sarebbe sicuramente accolta con larga maggioranza in Ticino. L’esistenza di questo scarto salariale pone una serie di quesiti ai quali non è sempre facile trovare una risposta. Quanto è larga la differenza nei salari medi mensili tra Svizzera e Ticino? Stando ai dati del 2020, che sono gli ultimi a disposizione, il salario medio pagato mensilmente nelle attività del settore

Affari Esteri

privato in Svizzera era del 18,2% superiore a quello pagato in Ticino. Se poi dallo scarto con la media svizzera passiamo a quello con il salario medio della regione con i salari più elevati, Zurigo, lo scarto sale al 32,7%.

Il Ticino, quindi, sarà un Cantone attrattivo ma certamente non per i lavoratori residenti negli altri Cantoni. La statistica sui salari, pubblicata annualmente dal nostro Ufficio cantonale di statistica, ci informa anche sulle differenze di remunerazione a seconda della posizione nella professione. Veniamo così a sapere che, sempre nel 2020, lo scarto salariale maggiore lo si riscontrava, con un 23%, nella categoria dei quadri inferiori mentre lo scarto minore lo si trovava nella categoria dei quadri superiori con un 15,5%. Si potrebbe pensare che questi risultati siano casuali. Vale quindi la pena di controllare quali erano gli scarti salariali secondo la posizio-

ne nella professione per l’anno in cui la statistica in questione fu introdotta, ossia il 2012. Nel 2012 le categorie nelle quali lo scarto era maggiore, rispettivamente minore, erano sempre quella dei quadri inferiori e quella dei quadri medi e superiori. Tra queste due categorie si inseriscono gli scarti salariali delle altre due categorie di dipendenti, ossia quella dei responsabili dell’esecuzione dei lavori e quella dei senza funzione di quadro. Quest’ultima deve essere quella che conta l’effettivo maggiore di lavoratori poiché il suo scarto salariale è quello che maggiormente influisce sulla media. Dunque lo scarto salariale con il resto della Svizzera esiste ed è particolarmente largo per la categoria dei quadri inferiori: la categoria di lavoratori che è la colonna portante della nostra classe media. La statistica dei salari ci consente anche di accertare come lo scarto salariale si sia

McCarthy e l’implosione dei repubblicani

Kevin McCarthy, speaker repubblicano del Congresso americano, ha perso il posto a causa di una rivolta interna al suo stesso partito. Il deputato della Florida Matt Gaetz ha presentato una mozione di sfiducia nei confronti del suo capo e, grazie al voto di tutti i democratici e di 8 repubblicani suoi alleati, è riuscito a spodestarlo. La faida tra il trumpiano Gaetz e il semi trumpiano McCarthy è iniziata subito, nel gennaio di quest’anno quando si doveva scegliere lo speaker e il Partito repubblicano voleva McCarthy ma voleva anche fargli sudare l’elezione. Ci sono volute 15 votazioni e molti compromessi per completare la nomina e Gaetz ha deciso che la pressione non si sarebbe mai allentata: definiva McCarthy uno «squatter», uno che occupava abusivamente il posto da speaker, e non ha mai smesso di trattarlo così, come un ostaggio. Poiché McCarthy ha cercato di liberarsi e ha coltivato l’illusione di poter maneggia-

Zig-Zag

re l’ala minoritaria ma invadente dei trumpiani, ma ha finito per assecondarla perdendo credibilità presso tutti. Tant’è vero che ogni suo tentativo di dialogare con i democratici – questo fa il presidente di un Parlamento, cerca terreno comune, compromessi, accordi – si è trasformato in un conflitto coi trumpiani: sei troppo tenero – gli dicevano – sei debole, sei un traditore. Nella visione incendiaria che anima il trumpismo, ogni dialogo è un’impostura da punire, fare politica è un cedimento, le trattative sono collaborazionismo. Da parte sua McCarthy rappresenta il problema di tutto il Partito repubblicano che non vuole fare i conti con Donald Trump, che non ha mai voluto farli nonostante l’assalto del 6 gennaio e i tanti processi in corso. Trump è popolare, vince le elezioni e quindi garantisce il potere al Partito repubblicano e soprattutto Trump è vendicativo: molti hanno paura a mettersi contro di lui. Così tutti i cosid-

detti «ponti» tra trumpiani ed establishment tradizionale, come lo stesso McCarthy, finiscono sotto ricatto dei trumpiani.

L’ultimo confronto che ha portato all’estromissione di McCarthy si è consumato sui soldi. Da settimane al Congresso si negozia il budget che è da sempre un momento di conflitto perché, come è normale, le priorità dei repubblicani e quelle dei democratici sono differenti. Se non ci si accorda, le spese per la pubblica amministrazione vengono sospese: è lo shutdown, il fallimento della politica. Sembrava inevitabile, quando McCarthy ha presentato all’ultimo minuto un budget negoziato con i democratici – che dura 45 giorni, non eterno, non risolutivo – in cui sono saltate alcune spese, la più evidente sono i 6 miliardi di aiuti alla Difesa ucraina. Si è creato il cortocircuito: pur avendo i trumpiani ottenuto lo stralcio del sostegno a Kiev – al quale sono attaccati, è un ali-

Troppo malato per essere salvato?

Subito mi scuso se anch’io affronto questo tema che altri già hanno commentato anche sul nostro giornale. Mi preme soffermarmi su alcuni aspetti che a mio parere (non di competente o di addetto ai lavori, ma di giornalista e prima ancora di persona anziana) meritano attenzione. Ognuno di noi, e non solo in questi giorni, avverte preoccupazione per gli aumenti che anche l’anno prossimo avranno i premi delle casse malati, lame di coltelli che confermano l’inevitabile esito di un sempre più brutale rituale. Lungi da me l’idea di proporre la pletora di prese di posizione e di lamenti scattati con l’annuncio dei nuovi numeri. Mi limito a un distinguo, molto semplice, che però continua a sfuggire all’attenzione dei più: a colpire noi tutti non sono gli aumenti dei premi per assicurarci contro le malattie, bensì

i rialzi dei costi generati dalle regole di partecipazione ai costi della sanità pubblica. Provo a spiegarmi partendo da un altro campo d’azione e ricordando un detto ormai famoso, «too big to fail», cioè «troppo grande per (essere lasciato) fallire», con cui vengono designate le grandi imprese che non possono fallire e che alla fine i Governi accettano sempre di aiutare (basti citare il caso Credit Suisse o le successive apprensioni rivolte a eventuali future difficoltà del colosso bancario UBS). Ecco: l’onorevole Berset, invece di ribadire la difesa di un convoglio che sta facendo deragliare i conti della sanità pubblica, avrebbe dovuto ammettere che la Lamal è ormai «too sick to be treated», cioè «troppo malata per essere salvata». Tentando una prima lettura di questo concetto occorre purtroppo par-

tire dal sempre più insopportabile e sovente ipocrita coro delle prefiche che va in scena ormai ogni inizio autunno, quest’anno rafforzato dalla concomitanza con la campagna per le elezioni federali. Il lamento è «filo conduttore» valido per tutti: per una classe politica che così maschera la sua ignavia ormai decennale e per la privilegiata categoria professionale, la cui élite lentamente ma inesorabilmente si sta adoperando per realizzare una medicina a più velocità. Credo di poter aggiungere che serve anche ai media, perlomeno per dare continuità a una sempre più distratta loro forza critica, spesso adagiati a tollerare i copioni di chi da decenni annuncia riforme e poi a lasciare che spariscano nei gorghi creati dai giochi lobbistici. Tempo allora per cambiamenti radicali: i politici per primi, convocando quantomeno

evoluto nel corso degli ultimi anni. A livello di salario medio generale, dal 2014 al 2020, lo scarto è aumentato di quasi due punti, passando dal 16,3 al 18,2%. L’aumento maggiore si è avuto nella categoria dei quadri medi e superiori, con più di 5,2 punti, mentre l’inferiore si è manifestato nella categoria dei responsabili dell’esecuzione dei lavori, con uno 0,2 di punto. Quali sono i fattori che fanno crescere lo scarto salariale, non solo a livello generale, ma anche ai singoli livelli della scala salariale definita dalla posizione dei lavoratori nella professione? Difficile pensare che siano differenze nella portata o nella qualità delle mansioni affidate alle singole categorie. È probabile che un quadro superiore di una ditta della Svizzera tedesca abbia le stesse responsabilità e un quaderno di impegni simile a quello del quadro superiore che lavora in una ditta ticinese della medesima dimensione. E lo

stesso potremmo dire dei compiti dei lavoratori che si trovano in altre posizioni della professione. Secondo noi le differenze di salario, tra il Ticino e il resto della Svizzera, sono probabilmente dovute alla struttura dell’occupazione per rami di attività e alla struttura dell’occupazione per nazionalità dei lavoratori. Si sa che in ambedue i casi esistono differenze salariali. Tra uomini e donne occupate la differenza salariale è invece uguale: 22% a livello nazionale come in Ticino. Vi sono rami di attività che pagano salari superiori di altri rami. In Ticino questi rami non abbondano e perciò nella struttura della produzione ticinese si ritrovano più rami con produttività e con salari inferiori alla media. L’altro fattore che potrebbe incidere negativamente sull’evoluzione dei salari in Ticino è la larga presenza di lavoratori stranieri.

bi perfetto per non parlare dello stallo sistemico della politica Usa – hanno attaccato McCarthy perché ha negoziato con i democratici mentre avrebbe dovuto tirare dritto fino allo shutdown negoziando poi la resa su altri capitoli di spesa. McCarthy invece ha scelto la via della stabilità, come gli ha indicato anche la Casa Bianca che ha pensato: se andiamo allo shutdown «per colpa dell’Ucraina» è un disastro, meglio votare gli aiuti a Kiev separatamente (finora tutti i pacchetti sono passati con un voto bipartisan). McCarthy ha deciso di fare la cosa giusta ma il coraggio c’entra poco nelle sue vicende, il calcolo invece c’entra tantissimo e questa volta non gli è riuscito perché si è ritrovato nella posizione di dover prendere le distanze dai democratici per non sembrare il «traditore» e allo stesso tempo di aver bisogno di loro per salvarsi. I democratici hanno deciso di non aiutare McCarthy: consumatevi tra di voi,

cari repubblicani. Ora c’è uno speaker pro tempore; McCarthy ha detto che non si ricandida perché considera il Congresso e in particolare il suo partito ingovernabili, e i repubblicani devono trovare un nome su cui accordarsi. Uno dei più chiacchierati è Jim Jordan, deputato dell’Ohio che è considerato un mastino del trumpismo, lavora nelle commissioni Giustizia e si occupa delle accuse a Hunter Biden e dell’impeachment di Joe Biden, del quale non riconosce nemmeno la legittimità visto che nel 2021, il giorno dell’assalto al Congresso, Jordan non ha votato per la certificazione dei risultati elettorali delle presidenziali del 2022. Poiché però è difficile ammettere che il Partito repubblicano è imploso, il dibattito resta impantanato sugli aiuti a Kiev in bilico. In bilico per ora ci sono gli stipendi della pubblica amministrazione americana e il funzionamento del Congresso, senza il quale stanno male «the americans first».

una sessione straordinaria in novembre, cioè per i loro ranghi rinnovati; a rimorchio le casse malati, magari annunciando che gli aumenti rimangono congelati fino a febbraio o marzo, in attesa che Governo e camere prendano decisioni. E anche qui non dimenticherei i media: chissà se riescono a lasciare un po’ in disparte le rincorse a delitti, processi, gossip e social glob, e a vigilare perché l’interesse pubblico e politico resti su questo problema, con l’obbligo per il nostro Cantone di ridurre i costi della sanità pubblica?

Va da sé che le riforme si fanno a Berna. Non credo però che il nostro Cantone lanci qualche segnale, ad esempio accogliendo fra le deduzioni fiscali per l’anno in corso l’intero importo dei premi assicurativi; oppure di mostrare vera intransigenza verso certi abusi, come pure cir-

cospezione verso le sempre più palpabili manovre di privatizzazione di certe specializzazioni mediche. Occorrono insomma segnali da cui derivi concertazione e non sconcerto, dimostrando che si passa decisi al concreto e che Governo, Parlamento e partiti non resteranno in attesa che un futuro o una futura Berset annunci fra 12 mesi gli stessi aumenti a due cifre per il Ticino. Termino cercando di ribadire il concetto esposto: se per il «too big to fail» del Credit Suisse sono giunti in poche ore garanzie e sostegni miliardari, forse è opportuno agire allo stesso modo anche per un sistema «troppo malato per essere salvato». Prima però occorrerà che le lobby siano imbavagliate e che chi oserà proporre ancora emendamenti alla Lamal, o attese per riforme di là a venire, venga fischiato come ostruzionista.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 33 ATTUALITÀ / RUBRICHE ◆ ●
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di Paola Peduzzi
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di Ovidio Biffi

Sostieni ora il sistema immunitario con Aktifit di Emmi

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L’intestino ha un ruolo importante in tal senso. In esso si trova infatti la flora intestinale, un ecosistema complesso e dinamico. Questo contiene batteri, funghi e virus benigni che si compongono individualmente in ogni persona e che cambiano nel corso della vita. La flora intestinale, grazie a una mucosa sana, tiene lontani i germi nocivi e contribuisce in modo significativo alla nostra salute.

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Il sistema di difesa del nostro corpo ha bisogno di un sostegno soprattutto nella stagione fredda. In autunno, quando la luce splende dorata e le basse temperature iniziano a farsi sentire, possiamo già prepararci ai mesi a venire. Bisognerebbe ora concentrarsi su uno stile di vita equilibrato che preveda molto esercizio fisico, relax, aria fresca e una buona alimentazione. Perché non iniziare la giornata con un mini drink Aktifit fresco e fruttato di Emmi? Aktifit – È buono. Fa bene.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 34
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La voce intensa di Jon Fosse

Lo scrittore e drammaturgo norvegese non ama la punteggiatura e ha vinto il Nobel

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Una famiglia moderna

La scrittrice norvegese Helga

Flatland in un’intervista racconta il suo nuovo romanzo uscito per Fazi

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Rockstar inedita

Intervista a Steven Wilson, fondatore dei Porcupine Tree, che riflette sul rapporto tra musica e IA

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And Just Like That

Delude la seconda stagione del sequel di Sex & The City, le protagoniste hanno perso lo smalto

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Le belve e il loro uso selvaggio del colore

Mostra ◆ Matisse, Derain e gli amici dell’Avanguardia parigina di inizio Novecento sono protagonisti al Kunstmuseum di Basilea

Per noi, oggi, dopo un secolo e più di continue ondate avanguardiste, di ripetute rotture con il passato e con la tradizione, di incessanti trasgressioni e scardinamenti linguistici che hanno portato l’arte attuale a un «tana libera tutti» dove non solo non vi sono più né regole né canoni normativi ma nemmeno il senso, seppur vago, di un’appartenenza a una koinè comune, è estremamente difficile capire l’impatto dirompente che l’arte dei fauves ha avuto nella Parigi dei primi anni del Novecento.

Per entrare nello spirito di un tempo ormai così lontano ci può però venire in aiuto una piccola fotografia esposta, assieme a ben altri capolavori, in una bacheca della grande mostra che il Kunstmuseum di Basilea dedica al movimento che costituisce il corrispettivo francese delle tendenze espressioniste emerse in area tedesca nello stesso giro d’anni. Si tratta di una fotografia in bianco e nero del 1903 in cui, accanto ai commessi incaricati di movimentare e appendere i dipinti, riconoscibili per i berretti a visiera e i grembiuli bianchi, sono ritratti i membri, tutti maschili, ovviamente, della giuria del primo Salon d’Automne, un’esposizione nata proprio quell’anno per accogliere anche quegli artisti a cui i salon ufficiali non concedevano spazio.

Appare chiaro che il critico Louise de Vauxcelles aveva visto giusto scegliendo di utilizzare una metafora zoologica, quella dei «fauves » (le belve), per descrivere il gruppo di pittori raccolti attorno a Matisse e Derain

L’immagine di questo gruppo di uomini abbigliati di scuro secondo il rigido formalismo della moda di quel periodo, i volti incorniciati da barbe e baffi solenni, risulta difficilmente conciliabile con quell’esplosione di colori puri accostati senza preoccupazione per le dissonanze che due anni dopo nella sala numero VII del Grand Palais in occasione della terza edizione del Salon d’Automne fece da detonatore a uno scandalo senza precedenti nella storia della pittura moderna, tanto che il presidente della Repubblica si rifiutò di partecipare all’inaugurazione della mostra.

Osservando questa fotografia ci riesce difficile resistere alla tentazione di confrontare mentalmente le bombette e i cappelli a cilindro corvini di questi giurati con un altro cappello, quello indossato da Madame Matisse nel quadro La Femme au chapeau, straordinario brano di pittura (purtroppo non in mostra, ma è una delle poche lacune) che di quello scandalo parigi-

no fu il vero e proprio epicentro e che fu subito acquistato da due che avevano l’occhio lungo: i fratelli Leo e Gertrude Stein.

Proprio da questo confronto, appare chiaro che, a dispetto di un suo innegabile conservatorismo di fondo, il critico Louise de Vauxcelles, con la consueta arguzia e capacità di sintesi icastica che caratterizzava la sua scrittura (sarà sempre lui a utilizzare per primo la parola «cubo» in relazione alla pittura di Picasso e Braque alcuni anni dopo), aveva visto giusto scegliendo di utilizzare una metafora zo-

ologica, quella dei «fauves » (le belve), per descrivere il gruppo di pittori raccolti attorno a Matisse e Derain, nella recensione del Salon pubblicata su Gil Blas del 17 ottobre 1905.

Belve. Indubbiamente potevano essere definiti così gli autori di questi quadri per l’uso violento e selvaggio che facevano dei colori, ma più che altro, ci verrebbe da dire, erano belve in gabbia. La pittura di questo gruppo di artisti che accanto a Matisse e Derain comprendeva De Vlaminck, Camoin, Manguin e Marquet, e a cui si aggiungeranno successivamente Bra-

que, Dufy e Friesz, apriva un campo di libertà finora mai sperimentato in ambito artistico, rifiutando ogni principio compositivo tradizionale e ogni sottomissione del colore ai principi naturalistici della fedeltà ottica. Per loro, i colori dovevano rimanere puri così come uscivano dai tubetti; la loro forza e la loro luce non dovevano essere spente mescolandoli fra di loro per ottenere le infinite e estenuanti gradazioni dei grigi e dei marroni tipici della pittura accademica. E questo anche a costo della totale innaturalezza della rappresentazione. Tutta-

via, questa rivendicazione di libertà assoluta sul piano del linguaggio artistico, non si traduceva nella quotidianità in un rifiuto delle norme, delle convenzioni e dei costumi di una società ancora in gran parte ottocentesca. In questo sta probabilmente una delle grandi differenze con l’espressionismo tedesco, movimento all’interno del quale la consapevolezza e la critica radicale delle condizioni politiche e sociali dentro le quali gli artisti si trovavano a operare sono strettamente impastate alla pratica artistica. Nel caso dei fauves in gran parte usciti dalla scuola di Gustave Moreau, e poi maturati sugli esempi neo e post-impressionisti di Seurat, Van Gogh, Cezanne e Gauguin, ma anche attingendo a fonti disparate come l’arte extra-europea, medievale e popolare, all’estrema libertà espressiva dei dipinti fa da contraltare la tranquillità borghese delle esistenze dei loro autori, basti pensare a Matisse. Del resto il fauvismo, si rivelò una breve, ancorché intensa, fiammata avanguardista, da cui partirono ben altri e più radicali incendi artistici; e i metaforici «barattoli di vernice gettati in faccia al pubblico», a cui alcuni loro detrattori avevano paragonato i dipinti esposti al Salon del 1905, acquistarono ben presto consistenza concreta nelle serate futuriste e dadaiste.

A sottrarre i fauves dal tranquillo milieu borghese del loro tempo ci hanno però pensato i curatori della mostra di Basilea. Accanto alla vicenda artistica, ampiamente nota, ma raccontata attraverso una selezione di opere di grande qualità, l’esposizione, in linea con le preoccupazioni sempre più presenti in ambito museale in questi anni, ha il merito di ampliare lo sguardo dello spettatore verso campi in parte ancora inesplorati, come il ruolo delle donne all’interno di un movimento che appare sostanzialmente maschile, recuperando così figure come Émilie Charmy e Marie Laurencin oltre alla già ricordata Amélie Parayre-Matisse. Allo stesso modo, per contestualizzare storicamente le scene di vita notturna che spesso ritroviamo nei dipinti degli artisti, la mostra include una sezione documentaria affidata alla storica francese Gabrielle Houbre che illustra la realtà delle migliaia di persone (donne ma anche uomini) attive nell’ambito della prostituzione, che in quegli anni affollavano le vie di Parigi.

Dove e quando Matisse, Derain und ihre Freunde. Die Pariser Avantgarde 1904-1908, Kunstmuseum Basel, fino al 21.1.2024. Me 10.00-20.00, ma, gio, ve, sa e do 10.00-18.00. www.kunstmuseumbasel.ch

CULTURA ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 35
André Derain, Femme en chemise, 1906, Statens Museum for Kunst. (© 2023, ProLitteris, Zurich) Elio Schenini

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Jon Fosse, cantore della quotidianità

Nobel per la Letteratura ◆ Ritratto di una delle voci più affascinanti della drammaturgia e della scrittura europea contemporanea

Teatro, romanzi, saggi, poesia, racconti per l’infanzia… non è semplice raccontare il mondo di Jon Fosse (nella foto), così frastagliato e ricco, né tantomeno ridurlo ai suoi aspetti più evidenti.

Certo è che dal momento che ha da poco conquistato gli allori del Premio Nobel per la Letteratura adesso avrà un bel daffare nel rispondere alle mille domande che scaturiscono con la conoscenza dei suoi lavori. Che non sono pochi.

I suoi lavori, soprattutto teatrali, sono ormai tradotti in una quarantina di lingue, un successo che gli viene riconosciuto in gran parte a livello europeo

Nato nel 1959 sulla costa ovest della Norvegia a Hausgesund, una cittadina affacciata sul fiordo, fra le più popolose e culturalmente vivaci, Jon Fosse ha presto manifestato interesse per la scrittura prendendo la penna in mano già a 12 anni. Debutta nel 1985 con un primo romanzo ma la sua notorietà la si deve principalmente al teatro. Nel 1994 va in scena al Teatro Nazionale di Bergen E non ci separeremo mai, la sua prima opera. Due anni dopo vince il Premio Ibsen. Nel 2002 è il miglior autore straniero per Theater Heute e nel 2004 conquista il Premio Ubu. I suoi lavori, soprattutto teatrali, sono ormai tradotti in una quarantina di lingue, un successo che gli viene riconosciuto in gran parte a livello europeo. Un po’ meno oltre Atlantico e, spiace ammetterlo, in Italia dove la sua drammaturgia è poco pubblicata e la scena gli deve ancora molto, eccezion fatta per qualche coraggioso allestimento.

Ricordiamo Inverno realizzato in occasione del Festival di Asti del 2004 con la regia di Valter Malosti fino al più recente La ragazza sul divano dello Stabile di Torino per la regia di Valerio Binasco. Non a caso due fra i più curiosi e innovativi registi del panorama teatrale italiano.

Jon Fosse, una delle voci più affascinanti e intense della drammaturgia europea contemporanea, è ormai considerato il maggiore scrittore norvegese contemporaneo. Testimone di un mondo letterario che esploriamo brevemente limitandoci alla sua cifra drammaturgica nonostante abbia prodotto romanzi, saggi e molta poesia.

Se nella letteratura è giovane protagonista con un primo romanzo, al teatro ci arriva quasi controvoglia. Su istigazione di un amico regista scrive Non ci separeremo mai, una commedia che si inserisce nel filone tematico del disagio, del disincanto, della malattia, della solitudine. Un’emarginazione che vive una quotidianità cristallizzata, con una meticolosa attenzione ai comportamenti dei personaggi. Caratteristiche che lo hanno inizialmente inquadrato, non senza qualche ingenua precipitazione, a un nuovo Ibsen, suo conterraneo.

I lavori di Fosse, quasi sempre atti unici, sono contraddistinti da una scrittura scarna, veloce, uno stile in cui prevale una vena minimalista sviluppata con una struttura densa tra il realismo e l’assurdo, fatto di silenzi e lunghe pause. Ma più che a Ibsen per le tematiche intimiste, per lo stile andrebbe avvicinato a Beckett o a Pinter.

La sua è infatti una sorta di chirurgia radicale del linguaggio con uno stile influenzato dalla musica,

culla delle sue prime passioni come chitarrista rock. «È da lì che proviene l’aspetto ripetitivo della mia scrittura» ha dichiarato per poi aggiungere: «Voglio conservare questa sensazione quando scrivo per il teatro e dunque nessuna punteggiatura. La forma in letteratura è una forma musicale».

Nel teatro di Fosse, sebbene prevalga un senso di vuoto e di cupa rassegnazione, la scena appare con una luminosità simile a una tela di Mun-

ch: una luce strana, come il riflesso di un’eclissi di sole che mette in risalto i contorni degli oggetti e dei personaggi. E talvolta l’assenza della luce, l’isolamento nello spazio e il tempo vissuto al rallentatore, creano dei momenti in cui «sembra che un angelo stia attraversando la scena».

Il suo universo drammatico è costituito da personaggi che non hanno nulla di spettacolare ma da cui si sviluppa una tensione particolare fino

Thomas l’Oscuro ci porta alla deriva

a trasformare un fatto di per sé abitudinario oppure un banale incidente quotidiano in un’azione fortemente drammatica.

Non sono personaggi speciali quelli che animano le sue opere. Anzi, sono persino banali e si fanno raramente notare per azioni spettacolari. Tuttavia riescono a creare una tensione speciale, dove l’autore sembra suggerire che tutti possiamo diventare protagonisti (o spettatori) della nostra esistenza e dove le parole, i gesti, i comportamenti diventano l’involucro necessario di un farsi e disfarsi teatrale.

Fosse riflette sulla fragilità delle giovani generazioni, sulla contrapposizione delle energie vitali agli stati depressivi

Ne è un esempio E la notte canta, dove Fosse affronta il tema della sofferenza. Al centro della trama c’è una giovane coppia con un bambino: un nucleo familiare perfetto, all’apparenza normale. La donna dice in una battuta: «Sempre accade o non voglio che accada nulla. E poi accade qualcosa comunque; cos’è che fa accadere tutto? Sono io o qualcun altro?» Un esempio che ci fa dire quanto i fatti che accadono possono indurre a reazioni, posizioni, sentimenti e scelte spesso irreversibili.

Ma è anche il modo con cui Fosse riflette sulla fragilità delle giovani generazioni, sulla contrapposizione delle energie vitali agli stati depressivi, del successo all’insuccesso, della vita sulla morte. Sempre immersi in un quotidiano che semplicemente scorre. Proprio come uno sviluppo musicale.

Pubblicazioni/2 ◆ Esce per Il Saggiatore il romanzo d’esordio del filosofo e critico letterario francese Maurice Blanchot

L’angoscia e l’impossibilità, nella relazione, di «fare uno» (cioè di fondersi all’altro in una sorta di dissoluzione di sé) sono alcuni aspetti chiave di Thomas l’Oscuro di Maurice Blanchot (Quain, 1907 – Le Mesnil-Saint-Denis, 2003), che Il Saggiatore pubblica per la prima volta in lingua italiana. Inoltre, come sottolineato da Carmelo Colangelo in una recente recensione apparsa su «Alias», è la «capacità del reale – “ciò a cui non manca nulla”, come lo definisce Lacan (…) – di eccedere significati, simboli e immagini» a intridere la scrittura di questo strano libro (sempre Colangelo ricorda che proprio Jacques Lacan fu uno dei grandi lettori di Blanchot – del quale è più nota l’opera saggistica che narrativa – e non è un caso che «angoscia» e «impossibilità di fare uno» siano concetti fondanti per lo psicoanalista francese).

Ma di che si racconta in Thomas l’Oscuro? In realtà proprio di niente. O meglio, di ciò che questo niente comporta per chi, come i protagonisti Thomas e Anne, con esso ingaggia una sorta di lotta permanente. Tutto inizia sulla riva di un mare senza nome, di fronte al quale Thomas siede brevemente – il tempo di una riga – prima che un’onda lo travolga risucchiandolo in uno spazio amor-

fo, senza contorni, nel quale si affanna a nuotare su abissi che gli rivelano quanto lui stesso sia sostanza senza forma, torbida e vertiginosa. Utero in cui è in luce la problematica dell’origine, il mare suggerisce a Thomas un che di mortifero, di avvinghiante, che lo accompagnerà sempre.

Si tratta di una di quelle opere irriducibili – di non ovvia lettura – dalle quali si può «estrarre molto» e su cui l’elaborazione a posteriori risulta essere l’aspetto più interessante

Dopodiché si procede come per visioni, attraverso un incedere che ricorda l’andamento del sogno. Lasciatosi alle spalle i flutti, Thomas si addentra in un boschetto – in una selva, verrebbe da dire – dove scopre un buio non dissimile al caos liquido dal quale è emerso. Ma alla «coscienza marina» di essere lui stesso «massa notturna» si aggiunge ora l’esperienza dello sguardo, il cui svolgersi sembra descrivere il sorgere delle prime immagini nella mente di un bimbo: «Il suo occhio, inutile per vedere, assumeva proporzioni straordinarie, cresceva smisuratamente e, estendendosi

all’orizzonte, lasciava che il buio penetrasse nel suo centro per riceverne la luce».

In seguito, seguiamo Thomas in un albergo nel quale lo scopriamo ospite. Qui finalmente trova Anne, «una ragazza alta e bionda, la cui bellezza» si risveglia proprio «sotto il suo sguardo». Immediatamente attratto, per richiamarne l’attenzione colpisce la tavola a cui è seduto – come farebbe un bambino nel reclamare la ma-

dre – e, dopo un iniziale irrigidimento, lei gli si rivolge inaugurando un non-rapporto sul quale si edifica il resto del libro. Comincia allora un confronto con le parole; confronto che rivelerà a Thomas il suo essere, davanti a esse, «nella situazione in cui si trova, di fronte alla mantide religiosa, il maschio» prima «di essere divorato»: «Le parole si stavano (…) impossessando di lui e cominciavano a leggerlo», scrive Blanchot, «fu preso, ag-

guantato da mani intellegibili, morso da un dente pieno di vigore; entrò col corpo vivo nelle forme anonime delle parole, (…) dando alla parola essere il suo essere».

Man mano che l’incontro prosegue, è come se l’incursione del verbo evidenziasse un confine fra i due. Un limite frustrante, invisibile, che li divide impedendo loro, come già accennato, di «fare uno» (spinta di cui il mare uterino del quale Thomas ha percepito la potenza era la radice). Ma questi sono solo alcuni spunti, poiché Thomas l’Oscuro va oltre e una breve recensione non basta a descriverlo.

Certo è che si tratta di una di quelle opere irriducibili – di non ovvia lettura – dalle quali si può «estrarre molto» e su cui l’elaborazione a posteriori risulta essere l’aspetto più interessante. Per chi volesse approfondire l’opera di Blanchot attraverso il catalogo de Il Saggiatore, si ricorda che in questi ultimi anni la casa editrice ha dato alle stampe anche i fondamentali Lo spazio letterario (2018), Il libro a venire (2019), La scrittura del disastro (2021).

Bibliografia

Maurice Blanchot, Thomas l’Oscuro, Il Saggiatore, Milano, 2023.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 41
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«Il mondo Occidentale idealizza la gioventù»

Incontro ◆ Helga Flatland, autrice di Una Famiglia moderna, torna in libreria con il suo nuovo romanzo Fino alla fine

In Fino alla fine (Fazi, 2023), Helga Flatland, da molti considerata la Anne Tyler norvegese, tra le più acclamate giovani scrittrici del suo Paese, racconta in un romanzo di grande tenuta stilistica e capacità di affresco il difficile e travagliato rapporto tra una madre e una figlia nella Norvegia contemporanea: quello di Sifrid, ragazza ribelle fuggita da una provincia claustrofobica e ostile, ora medico nella capitale scandinava, e Anne, la madre insegnante, con la quale ha sempre avuto una relazione conflittuale. La narrazione qui e ora al presente è a due voci e su due piani narrativi in prima persona, ma sui diversi punti di vista delle protagoniste s’innervano anche le vite di tutti i componenti della famiglia, dal padre malato di Alzheimer ormai semincosciente in una clinica per lungodegenti, il primo marito di Sifrid, l’attuale compagno, i figli piccoli e adolescenti. Quando Anne scopre di essere malata di cancro come per un effetto domino tutti sono costretti a una reazione emotiva che stravolge la rete sensibile delle relazioni rimettendole in discussione.

Helga Flatland, con una prosa nitida che mescola parlato e descrizione di ambienti paesaggistici e interni privati, è molto brava a raccontare l’epica minore delle persone normali, la routine, quel vincolo esistenziale che ci lega tutti intimamente, nelle città e nei Paesi a diverse latitudini, e universalmente ci fa scoprire umani e troppo umani.

L’ho incontrata in un caffè di Oslo, nel quartiere di Frogner, dove abbiamo conversato parlando del suo nuovo libro da poco tradotto in italiano.

C’è un forte senso di quotidianità, di realtà nei tuoi libri, una capacità di raccontare la routine, quella cosa uguale per tutti e ripetitiva che scandisce il tempo della vita. Anche in Fino alla fine questo effetto è molto forte. È forse la cosa più difficile per uno scrittore, raccontare la vita normale, la routine. Come si costruisce letterariamente?

La cosa più interessante nella mia letteratura sono gli aspetti della quotidianità, è nella ripetizione, nelle abitudini che troviamo l’essenza della vita. Il mio modo di pensare è di entrare nell’animo del personaggio e ricreare quel senso di quotidianità, se fossimo capaci di analizzare bene

la nostra vita sociale troveremmo il materiale per poter scrivere sia una tragedia o una commedia, è quello che io faccio cercando di ricreare la quotidianità di tutti. Uso la lingua che appartiene alla mia vita di tutti i giorni, la lingua che usiamo con le persone con le quali abbiamo relazioni affettive di amicizia, di amore, è la lingua della vita.

Sei molto attratta dai legami famigliari, dalle relazioni, dagli intrecci generazionali, anche in questo libro a due voci, con due diversi punti di vista, quella di una figlia e di una madre, c’è tutta la trama delle cose irrisolte, degli atti mancati, soprattutto il risentimento della prima nei confronti della seconda. Perché ha scelto di dare al libro questa forma confessionale?

Questa è una caratteristica di tutta la mia produzione letteraria, di dare più di una voce al racconto, perché la realtà, la verità è qualcosa di molto complesso, non risiede in una sola prospettiva ma è fatta da diversi punti di vista a volte diametralmente opposti, in conflitto tra di loro. La differenza tra la madre e la figlia protagoniste di questo romanzo, come gli stessi avvenimenti, vengono interpretati in maniera diversa, una percezione della realtà molto dissimile. Anche i loro ricordi sono differenti rispetto agli stessi avvenimenti che hanno vissuto, che hanno condiviso negli stessi momenti, la memoria spesso inganna, inventa. Non parlo delle mie esperienze personali, sono figure di finzione che sono nate nella mia immaginazione, però dentro c’è tutta la mia sensibilità nel mettermi nei panni dei protagonisti.

L’arrivo della malattia di Anne è un big bang, il motivo scatenante, rimescola tutti i rapporti, le relazioni, costringe i personaggi a guardare ogni cosa con uno sguardo diverso, li costringe a una reazione. È così, la malattia scatena una reazione per cercare di trovare un punto di incontro per perdonarsi, una forma di comprensione tra la madre e la figlia. Puoi immaginarlo come un sasso che cade nell’acqua e i cerchi si allargano, si allargano sempre di più, finché non investono tutti i personaggi, tutti i famigliari che sono legati a questa famiglia. La prospettiva di una morte imminente è il cata-

lizzatore di tutti gli avvenimenti. È stata proprio l’idea principale per costruire il romanzo, in una situazione di morte imminente c’è un desiderio di ricucire i conflitti, di perdonare se c’è da perdonare, non è solo un rapporto tra madre e figlia ma coinvolge tutti i membri della famiglia.

Poi c’è il conflitto con la piccola città, con la provincia, «il paesello», dalla quale Sigrid è scappata, con un controllo sociale molto forte. «Facebook, a questo paese, gli fa un baffo» dice a un certo punto del libro. La provincia, la piccola città è un luogo universale, dominato dalla ripetizione e dal forte legame sociale.

La realtà norvegese è fatta di poche grandi città ma di una quantità enorme di piccoli villaggi rurali sparsi in tutto il Paese, e l’idea di molti giovani come Sigrid è di lasciare questi posti e andare in città per essere un’altra persona e cominciare un’altra vita, la città ti rende libero, lì puoi ricreare un altro io. Nei posti piccoli anche la natura fisica dei luoghi, la costrizione e la ripe-

tizione, forma le persone in modo molto più forte che in una città. In questi posti sei visibile, non puoi nasconderti. La sua fuga verso la città è per crescere e arricchirsi di esperienze, ma si tratta anche di una fuga dalle relazioni famigliari, dalla madre in particolare, e da un paesello che gli sta stretto. Io vengo da un un paese piccolo, vicino a Telemark, quindi ho cognizione di questo, e nonostante viva da tanti anni a Oslo il rapporto conflittuale tra città e il mio paese di origine fa intimamente parte della mia vita.

Le donne in questo romanzo sono assolute protagoniste, sono la parte forte, responsabile, sensibile della famiglia, mentre gli uomini sono sempre figure marginali, fragili, quasi degli attori non protagonisti della vita, ma sono donne anche molto legate affettivamente ai propri compagni.

In realtà dietro una donna forte c’è sempre un uomo forte, e viceversa, ma ci tengo a precisare che nella mia produzione letteraria ci sono anche tanti uomini forti.

Ma il senso profondo del libro è anche una riflessione sulla vecchiaia, la malattia e la morte. A un certo punto la madre chiede persino alla figlia «un aiuto a morire», una morte dolce.

Il libro ha anche questa componente, cioè il rapporto tra le generazioni, il modo diverso di vedere la vecchiaia in un mondo occidentale che idealizza la gioventù, questo si riflette anche nella relazione tra me e mia madre, molto diversa da quello che mia madre aveva con la sua. Questo rapporto generazionale si vede ovunque nei Paesi occidentali, a causa della tecnologia, dei cambiamenti avvenuti, io non sono una trentanovenne di due generazioni fa, mia madre non è una settantenne di trent’anni fa, questa sensazione di eterna giovinezza che viviamo incoscienti fa sì che quando arriva una malattia, quando arriva la morte ci annienta e colpisce con una forza maggiore.

Bibliografia

Helga Flatland, Fino alla fine Fazi editore, Roma, 2023.

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Angelo Ferracuti

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«Il pop moderno sembra composto dall’IA»

Intervista ◆ Steven Wilson, fondatore dei Porcupine Tree, racconta il suo nuovo album e come sta cambiando il modo di fare musica

Una carriera che è iniziata alla fine degli anni ’80 a Londra e che sembra aver preso tutte le direzioni possibili. Steven Wilson (nella foto) è stato definito come la più inconsueta delle rockstar. Con la band che fondò da ragazzo, i Porcupine Tree, ha firmato dischi di culto, l’ultimo dei quali è Closure/Continuation del 2022, arrivato ai vertici delle classifiche di più di 20 Paesi e al numero uno in Svizzera. Wilson, che oggi vive a Brighton dove ha allestito uno studio di incisione, è anche un richiestissimo produttore, ingegnere e tecnico del suono, ha una carriera solista di grande successo affiancata da un’eclettica militanza in altri progetti musicali (Blackfield, No-Man, Bass Communion). The Harmony Codex è il suo settimo lavoro solista, un concept album che lo conferma come artista sempre in evoluzione, proiettato nel futuro, affezionato ai suoi modelli musicali, ma mai spaventato dal cambiamento.

«Se oggi compongo musica lo faccio principalmente con la prospettiva di un disco solista. Sono stato abituato a comportarmi come un giocoliere, portando avanti diversi lavori contemporaneamente»

Hai definito The Harmony Codex come un viaggio in cui gli ascoltatori non sanno mai cosa aspettarsi. Mi piace pensarlo come un’opera cinematografica creata per l’ascolto. Ho lavorato a lungo per realizzare un’esperienza il più possibile tridimensionale e immersiva, non pensando ai generi ma a un percorso che possa sorprendere sempre. Ho presentato The Harmony Codex in alcune sessioni in cui un pubblico selezionato ascolta i brani sfruttando impianti sonori a 360° basati sulla tecnologia «Spatial Audio» con cui le canzoni sono state realizzate. In queste sessioni si ascolta l’album per intero, al buio, come se si stesse al cinema. Mi piacerebbe che fosse ascoltato sempre così, senza distrazioni. È il modo con cui io sentivo la musica da ragazzo. Oggi invece si tende a considerare la musica solo come sot-

tofondo mentre siamo impegnati in altre attività.

Le canzoni sono ispirate a un racconto pubblicato nel tuo libro Limited Edition of One.

Sì, è una storia distopica su due ragazzi che rimangono intrappolati in un edificio della City di Londra durante un attacco terroristico. Scappando si trovano su una scala infinita da cui non riescono a uscire. È una metafora sul viaggio e sulle sfide della vita, la musica vuole ricostruire questo scenario che ricorda i disegni di M. C. Escher. Ma anche se le canzoni hanno a volte un filo conduttore cupo, il messaggio è quello di accettare tutte le cose che accadono nelle nostre vite e percepirne la bellezza. Come dico in un verso del brano What life brings: «Ama, Ama tutto e tienilo nelle mani».

Un disco solista nel 2021, The Future Bites, l’album dei Porcupine Tree nel 2022, oggi un nuovo lavoro. Come riesci a gestire diversi progetti insieme?

Se oggi compongo musica lo faccio

principalmente con la prospettiva di un disco solista. Sono stato abituato a comportarmi come un giocoliere, portando avanti diversi lavori contemporaneamente e ho fatto così sin dai miei esordi quando incidevo sia con i Porcupine Tree che con i No-Man, poi si sono aggiunti anche gli altri progetti musicali, Blackfield e Bass Communion. In realtà in questi anni tendo a concentrarmi di più su singoli lavori. Ho iniziato a dedicarmi a The Harmony Codex all’inizio del lockdown e ho proseguito per i successivi tre anni. È vero che il disco dei Porcupine Tree è stato finito in questo periodo, ma in realtà era stato scritto dieci anni fa e fu poi accantonato perché la band non era attiva. Negli ultimi cinque o sei anni gran parte del mio lavoro creativo direi che è rivolto quasi esclusivamente ai miei album solisti e tendo sempre di meno a fare il giocoliere.

I tuoi dischi solisti sono ricchi di ospiti. Uno dei brani più belli di The Harmony Codex è un duetto con l’artista israeliana Ni-

net Tayeb. La cantautrice svizzera Sophie Hunger ha cantato con te nell’album To the Bone. In The Future Bites hai ospitato Elton John. Come nascono queste collaborazioni? Scelgo molto per istinto, mi piace essere sorpreso, ispirato, travolto dalla musica. La collaborazione con Ninet è nata qualche anno fa per una canzone intitolata Routine che si basava su un punto di vista femminile. Feci cantare il brano da diverse cantanti, ma la sua interpretazione fu quella che mi diede i brividi. Sperimento, provo, cerco voci differenti, valuto varie combinazioni di musicisti, magari anche per lo stesso pezzo e poi arrivo alla versione che individuo come quella che voglio portare a termine. Questo ultimo album è nato così. Ho provato molti musicisti, molte diverse soluzioni e, con un attitudine sempre molto sperimentale, sono arrivato a trovare il suono che volevo. Devo anche essere grato del fatto che pur non essendo un artista mainstream molti musicisti sono interessati a lavorare con me.

L’intelligenza artificiale sta entrando sempre di più nel mondo della musica. Dobbiamo preoccuparci?

Per certi versi nell’industria musicale l’intelligenza artificiale è entrata da molti anni, forse sin da quando fu introdotto il Mellotron, il primo sistema di campionamento dei suoni. Circa vent’anni fa arrivò il software auto-tune che permette di modificare la voce di un cantante e correggere l’intonazione e altri software che aggiustano il ritmo. Sono strumenti con cui conviviamo da tempo. La chiave secondo me è questa. Quando è uno strumento della creatività umana, va bene. Quando la sostituisce, io inizio a preoccuparmi. Per me quello che è bello dell’arte, sia essa musica o altro, è l’imperfezione, la stranezza. È uno spiraglio sulla condizione umana, sulla sua fragilità, la manifestazione di emozioni reali. L’artificial intelligence può solo imitare, ma senza dirci nulla della nostra vita e del dono che rappresenta.

Forse c’è già un abuso nell’utilizzo di questa tecnologia… Quando ascolto il pop moderno e quello che va per la maggiore io non ci vedo niente. Non è musica che mi parla e sembra già composta in gran parte da intelligenza artificiale e forse è proprio così. Non so esattamente cosa la gente desideri dalla musica pop di oggi. Magari è perché alla mia età non si riesce più a capire i gusti di una nuova generazione e del suo rapporto con la musica.

Hai lavorato al rimixaggio di album classici di grandi artisti quali King Crimson, Van Morrison, Jethro Tull e Who. Un lavoro che forse può essere paragonato al restauro di un quadro antico. A seconda degli album i fan a volte preferiscono le nuove versioni, talvolta invece mi dicono che rimangono affezionati al vecchio sound, sporco e ruvido. E spesso capisco le loro motivazioni. Ma sicuramente l’analogia migliore è proprio quella del restauro di un affresco o di un dipinto. Non cambi per nulla l’immagine, la rappresentazione, ma lo rendi brillante, magari in un modo in cui non è mai stato se non quando fu completato.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 45
© Hajo Mueller

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Carrie Bradshaw e le altre hanno perso lo smalto

Serie ◆ La nuova stagione del sequel di Sex & The City delude le aspettative e non sfata il cliché dell’età

Nella società in cui le donne sembrano essere dotate di una scadenza impressa sulla pelle And Just Like That, il reboot di Sex and the City, solleva il suo «Cosmopolitan» e sussurra che sì, c’è vita oltre la fatidica soglia dei cinquanta. E non c’è nulla di monotono in questo universo: esplode di colori, risate e ci rivela che c’è una lezione da imparare a ogni età.

Nonostante ci sia chi ha storto il naso dubitando di voler vedere le sue eroine invecchiate, Carrie, Charlotte e Miranda (senza Samantha) hanno appena chiuso il sipario sulla seconda stagione di And Just Like That, al primo posto nella classifica Max Original andata in onda quest’estate anche su Sky Italia e Svizzera.

Con alle spalle il trionfo del leggendario Sex and the City, le aspettative per And Just Like That erano stellari, ma con quelle iconiche calzature Manolo Blahnik è facile inciampare nei cliché. Dietro gli sfavillanti abiti haute couture che sfidano ogni logica – chi mai indosserebbe un abito da gala Moncler in mezzo a una tempesta di neve? – lo show si esibisce in un tango audace tra l’affrontare l’invecchiamento con ironia e il divenire un elenco di tutto ciò che si potrebbe trovare digitando «problemi della mezza età» su Google.

Il cinquanta è un numero importante che può confondere, ma, per quante volte si sia parlato di apparecchi acustici e colonscopie, nello show vengono ritratti come i nuovi settanta. E se si sono già superati, come nel caso di Enid – spesso usata come misura di confronto per l’anzianità – , si viene trattati come fossili del paleolitico.

Per quanto sia liberatorio vedere delle donne mature al posto dei soliti protagonisti di teen drama, And Just Like That sembra più un atto di espiazione per gli errori del passato di Sex and the City che una rivoluzione vera e propria. Le protagoniste stringono finalmente amicizia con donne di etnie differenti – Seema è il vero ingrediente segreto di questa stagione – , Miranda lascia il marito Steve per Chez

Diaz, persona non binaria, Charlotte deve fare i conti con l’idea che sua figlia adolescente metta in discussione il proprio genere e Carrie Bradshaw, da effervescente colonnista sul sesso, riesce a malapena a parlare di masturbazione.

La caccia in tacchi a spillo alla persona Giusta si è tramutata in una guerra di logoramento, un’odissea che ogni single conosce bene: c’è chi rovista nell’armadio in cerca di ex da provare ancora, chi sperimenta il dating online o il sexting. Un ritratto fedele della New York del 2023, in cui però Carrie e le sue amiche vagano confuse da un episodio all’altro come si fossero svegliate da un sonno lungo vent’anni e avessero appena appreso dell’avvento dei social o della crisi economica.

Sembra quasi impossibile che le

stesse icone che sono state la bussola della sessualità femminile negli anni Duemila, siano sorprese da ciò che scorgono nei loro appartamenti milionari. Manca un po’ di schietta realtà per staccarle dai loro piedistalli e farci sentire parte del loro mondo ormai troppo patinato, così da chiederci, ancora una volta, chi ci rispecchia di più tra Carrie, Charlotte e Miranda.

And Just Like That si propone come capitolo successivo di Sex and the City, ma mentre la prima stagione ci faceva abbracciare le nostre età, dissolvendo le ansie del crescere per le generazioni future, concluso l’episodio finale del reboot rimane una domanda sospesa nell’aria: «C’è almeno un lato positivo nell’invecchiare?».

Se Carrie, regina delle strade di New York a braccetto della sua Fendi Baguette, sembra il fantasma di ciò

che era, è ovvio preoccuparsi di come delle persone comuni possano stare al passo con i tempi. E mentre nei film di Hollywood vediamo Michelle Yeoh e Jamie Lee Curtis, vincere gli Oscar e godersi ruoli follemente divertenti a sessant’anni, in TV sembra che la paura di compiacere lo spettatore imbavagli anche gli sceneggiatori più temerari.

Gli episodi di And Just Like That sono così ansiosi di dimostrare che la vita oltre i cinquanta sia tutto fuorché noiosa, che si sono dimenticati di accennarne i lati positivi, arrivando a sfoderare l’asso nella manica nell’ultima puntata in cui anche i cuori più duri capitolano. Samantha Jones, in un cameo di un battito di ciglia, ma pagato a peso d’oro, ci fa cavalcare l’onda dei ricordi e scendere una lacrima alla conferma di una terza stagione.

In un 2023, in cui anche il muro dell’età sulle passerelle si sta scalfendo con il ritorno di top model come Naomi Campbell o il debutto dell’emergente trentottenne Alana Hadid (onestamente, quante sorelle sono?) alla Copenaghen Fashion Week, abbiamo terreno fertile per una sceneggiatura più audace che non bussi timidamente ogni domenica alle porte delle nostre case, scusandosi per il disturbo.

Carrie Bradshaw dovrebbe disturbare, anzi, deve farlo, proprio come ha sempre fatto. E nella terza stagione, incrociamo le dita e stringiamo le nostre Louboutin con forza, nella speranza di non rivedere la Carrie del passato, ma di incontrare la donna che merita di essere a cinquantacinque anni, con tutte le rughe che solo l’esperienza può portare.

Quando la povertà mostra il suo volto

Leggete la storia di Shokirjon: caritas.ch/shokirjon

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 ottobre 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 47
Fare la cosa giusta
Shokirjon Shamirov, 60 anni, Tagikistan, fa fronte alla crisi climatica con metodi di coltivazione innovativi. Annuncio pubblicitario Le tre protagoniste in uno scatto: Sarah Jessica Parker, al centro, nei panni di Carrie Bradshaw, Cynthia Nixon, a sinistra, in quelli di Miranda Hobbes e Kristin Davis nei panni di Charlotte York Goldenblatt. (Youtube)

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