Anno LXXXIV 29 novembre 2021
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
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MONDO MIGROS
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SOCIETÀ
TEMPO LIBERO
ATTUALITÀ
CULTURA
Trattiamo gli alberi come arredo urbano o legna da ardere, mentre è a loro che dobbiamo la vita
Un enigmatico gioco di parole basato sul paradosso delle sentenze contradditorie
La macchina del tempo ci porta in avanti, alla scoperta del mondo nel 2051 e delle sue criticità
Palazzo Reale espone una cinquantina di opere di Monet provenienti dal Musée Marmottan
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La passione per il brivido
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Moreno Invernizzi Pagina 17
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Dietro le quinte della rotativa Alessandro Zanoli
Ogni tanto si ha l’impressione che siano soltanto i giornalisti quelli che hanno voglia di parlare di giornali, ma non è vero. Se ci fate caso, tutti, in un momento o l’altro della giornata, hanno modo di mettersi a discutere a proposito di quanto hanno letto su questo o quel periodico, su quel portale web, in quel post sui social. Quegli (questi...) oggetti pieni di parole in caratteri di stampa, bene o male, sono l’accompagnamento della nostra vita, spesso i nostri punti di riferimento, tanto che non possiamo fare a meno della loro presenza, delle opinioni che veicolano, del loro sguardo sulla realtà che ci circonda. La cosa curiosa, ma confortante e affascinante per chi fa il nostro lavoro, è in effetti, rendersi conto del fatto che ogni lettore si sente un po’ custode dell’ortodossia (mi si passi il termine ironico) dei suoi fogli informativi preferiti. I lettori sono attentissimi che il loro media preferito mantenga le promesse implicite, di contenuto e di coerenza con la propria identità, formulate verso chi lo segue. Dipenderà forse dal fatto
che la stampa scritta è da sempre una palestra di idee e informazioni, un luogo deputato alla definizione di un punto di vista sul mondo. Ogni movimento d’opinione che si rispetti, ad esempio, deve possedere un suo organo, che agisca allo stesso tempo da faro e da megafono per chi voglia riconoscersi nei suoi contenuti. Detto questo, e per alleggerire un po’ il discorso, è sempre divertente per chi opera in questo settore rendersi conto di come il lavoro nei media sia visto in una luce un po’ idealizzata. Se ne parla spesso quando si presenta la professione ai giovani che chiedono di fare uno stage in redazione (purtroppo la pandemia si è portata via anche questa consuetudine). Una delle prime abitudini a sorprendere i giovani è quella del «taglio» degli articoli. Esiste nel mondo dell’editoria una lotta storica tra il desiderio di affrontare un argomento in modo ampio e approfondito e la ristrettezza degli spazi tipografici che devono accogliere quella trattazione. Ciò implica, da parte di chi ha il compito di mettere in accordo queste due forze antagonisti, un
carico di responsabilità non indifferente. «Tagliare» gli articoli è opera da maestri. L’arte del rammendo invisibile, nel giornalismo, è difficile ma possibile: succede a volte che nemmeno il giornalista che ha scritto il pezzo si accorga della... riduzione. A voler guardare bene le cose, l’impaginazione di un giornale è un grande lavoro di adattamento e preparazione: non a caso spesso la si paragona a una «cucina». In ogni redazione c’è un grande movimento di «ingredienti» che vanno armonizzati tra loro, e la confezione di un organo di stampa richiede sempre senso dell’equilibrio, di gusto, e anche di una certa estetica, visuale e letteraria. Questa è la parte più affascinante del lavoro redazionale, e non sorprende che passino alla storia i direttori di certe testate, ricordati per come hanno saputo amministrare, tecnicamente e umanamente, il patrimonio informativo del loro mezzo di comunicazione. Altro fattore importantissimo, che va presentato con la dovuta enfasi agli stagiaire, è il rischio sempre presente dell’errore. Non si parla
qui degli errori macroscopici, delle castronerie di contenuto, che possono invalidare il senso degli articoli. Quelle, bene o male, vengono filtrate nel lavoro di redazione, e passano attraverso varie letture, prima di essere stampate. No: la dannazione del nostro lavoro sta negli errori microscopici, nelle inversioni subdole, nelle lettere dimenticate, nelle disattenzioni più minime. Che spesso hanno effetti divertenti ma a volte espongono gli estensori a ironie feroci da parte di chi legge. E del resto, in un organismo composto all’incirca di ’ parole, con un totale di ’ segni tipografici (questi i dati del numero scorso di «Azione», ad esempio) vogliamo pensare che non ci possano essere, da qualche parte, degli errori, delle sviste, degli inciampi? Rassegniamoci: il giornalismo è fatto anche da «errori di stumpa», lo sappiamo bene. Noi stessi in redazione ne collezioniamo vari nostri esemplari, come ammonizioni per il futuro ma anche come vaccino ironico che relativizzi il nostro «ego». (Avete trovato l’errore in questo articolo?).
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azione – Cooperativa Migros Ticino
MONDO MIGROS ●
Avvicendamento alla testa di Migros Ticino
Attualità ◆ Mattia Keller assume la carica di direttore dal 1. dicembre, sostituisce Lorenzo Emma giunto all’età di pensionamento – L’occasione per un’intervista di bilancio e di prospettive Peter Schiesser
Lorenzo Emma, dopo quasi vent’anni alla testa di Migros Ticino con quali sentimenti lasci la cooperativa? Migros Ticino è una gran bella azienda, fare il direttore è appassionante ed ho la fortuna di avere dei colleghi con i quali è un vero piacere lavorare: per questo motivo, non lo nascondo, stento un po’ a «staccare». D’altra parte, faccio questo lavoro da anni; sono tanti, è tempo di «passare la palla». Inoltre, mi stimola l’idea di fare qualche cosa di nuovo nei prossimi anni. Come sei giunto alla Migros? Avevi un percorso professionale distante dal commercio al dettaglio. Ho studiato al Politecnico di Zurigo e per oltre vent’anni ho lavorato oltre Gottardo come ingegnere in diverse aziende industriali quotate in borsa attive a livello internazionale. Fino al non avrei mai immaginato di lavorare per Migros nel commercio al dettaglio. Ho accettato questo impiego perché era un’opportunità per tornare in Ticino …. senza pensare che mi ci sarei appassionato al punto di rimanerci fino al pensionamento! Migros esiste dal , è sempre lei, però in certe cose cambia con il tempo. Migros era ed è tuttora una federazione di cooperative con un’organizzazione decentralizzata che ricorda quella della Svizzera ed i suoi cantoni con le loro autonomie. In questi vent’anni la collaborazione tra le cooperative si è però intensificata, con l’obiettivo di sfruttare meglio le sinergie del gruppo (crescita ed efficienza). Sono stato membro del CdA della Federazione delle Cooperative Migros come rappresentante di Migros Ticino e in questa veste sono stato coinvolto in queste decisioni come pure nelle scelte strategiche del gruppo (sviluppo commercio online, nel campo della salute, ecc.), un compito che ha reso ancora più interessante il mio lavoro. Si è evoluta anche Migros Ticino. Quantitativamente e qualitativamente. Negli ultimi venti anni, Migros Ticino si è concentrata sul core business e cioè il commercio al dettaglio, la gastronomia, la formazione degli adulti e l’editoria, dando avvio al commercio online (con Smood) e sviluppando una rete di centri di Fitness (Activ Fitness). A livello di offerta ha sviluppato molto gli assortimenti a valore aggiunto (bio, sostenibile, vegano, ecc.) e penso che può vantarsi di essere (con i Nostrani del Ticino) il primo vero e più importante promotore del settore agroalimentare ticinese. Nel la cooperativa realizzerà lo stesso fatturato di anni fa (ca. milioni di franchi): in un mercato in flessione, è infatti riuscita a mantenere il fatturato e assicurare la redditività necessaria per finanziare gli investimenti (circa Fr. di utile per ogni Fr di incasso) e al tempo stesso ad aumentare il potere d’acquisto dei suoi collaboratori e diminuire i prezzi a favore dei suoi clienti. Ciò è stato
Passaggio del testimone tra Mattia Keller, a sinistra, e Lorenzo Emma. (Fotomiller)
possibile grazie all’apertura di numerosi nuovi punti di vendita e al drastico aumento dell’efficienza aziendale. Un risultato che si è potuto raggiungere solo grazie al grande impegno e alle capacità dei circa colleghi della cooperativa. È cambiato anche il contesto, il mondo del commercio al dettaglio è un altro, più difficile Confermo, il mercato è molto più difficile di quando sono arrivato. In particolare, dal , e cioè da quando il franco svizzero si è apprezzato ed è esploso il turismo degli acquisti, inoltre sono arrivati nuovi concorrenti internazionali che hanno aperto numerosi nuovi punti di vendita e il commercio online ha cominciato a diventare importante. Più di recente ha contribuito negativamente lo sviluppo demografico, inizialmente con una stagnazione e poi con un preoccupante calo della popolazione. Un mercato che da due anni è influenzato dalla pandemia. La pandemia ha avuto un forte impatto, molto diverso (positivo/negativo) a seconda dei settori. Sono cambiate le abitudini, i comportamenti e gli interessi della popolazione. La pandemia è ancora in corso ed è difficile dire quali di questi cambiamenti sono destinati a rimanere. Il turismo degli acquisti è in parte ripreso, la frequentazione dei ristoranti lo è sempre di più. L’home office è parzialmen-
te rimasto, la forte progressione del commercio online è destinata a rimanere. I meno giovani che fino al lockdown avevano esitato ad acquistare online, hanno infatti scoperto questo canale di approvvigionamento e continuano ad usarlo. Sono convinto che il commercio online è destinato a crescere ancora ma anche a integrarsi sempre di più con quello stazionario, senza però soppiantarlo: nei negozi non ci si va solo per acquistare merci,
Il nuovo direttore Mattia Keller, 47 anni, è nato e cresciuto in Ticino, ha una formazione da economista e ha maturato un’importante esperienza a livello di direzione d’azienda nel Cantone e oltre Gottardo. Entra in carica dopo aver seguito un programma d’introduzione in azienda e presso altre imprese della Comunità Migros in Svizzera. L’Amministrazione di Migros Ticino è dunque molto lieta di annunciare che la posizione chiave del direttore continuerà a essere ricoperta da un dirigente ticinese competente e qualificato: una soluzione ideale per assicurare la continuità nella gestione operativa e nello sviluppo dell’azienda, che pone le basi per garantire alla Cooperativa regionale Migros Ticino un presente stabile e un futuro sereno.
Il nuovo comitato di direzione di MigrosTicino. Da sin.: Mattia Keller, direttore e resp. dipartimento finanze ad interim; Peter Schiesser, caporedattore «Azione»; Jean-Marc Bassani, resp. dipartimento vendita; Pierfranco Chiappini, resp. dipartimento logistica e tecnica; Rosy Croce, resp. dipartimento risorse umane; Daniele Bassetti, resp. dipartimento marketing e sponsoring. (Fotomiller)
come non si va al ristorante solo per cibarsi, ma anche per uscire di casa, vedere gente, socializzare e vivere emozioni. Mattia Keller, vieni da un mondo diverso da quello di Migros, hai esperienze nel settore della logistica, sei stato direttore della catena di farmacie Amavita: che cosa porti con te? Porto con me una considerevole esperienza di conduzione d’impresa, in Ticino e in Svizzera interna. Ma soprattutto una grande attenzione per i bisogni del cliente e per la rete di vendita, che sono entrambi decisivi per fare un buon lavoro. Per finire sono felicissimo di tornare in Ticino dopo tanti anni di lavoro Oltralpe, poiché so che lavorerò non solo per Migros, ma anche per il mio cantone. Infatti la nostra Cooperativa riveste un importante ruolo regionale, p.es. in qualità di datore di lavoro e partner dell’economia locale. Come vedi Migros e Migros Ticino? L’universo Migros è notevole e molto ricco. Ogni giorno imparo molto dalle colleghe e dai colleghi che mi circondano e sono affascinato dalla grande professionalità e competenza presenti in azienda. Forte della cultura e della storia aziendale Migros affronta i grandi temi dell’efficienza, dell’innovazione e dell’online, per fare fronte alla concorrenza, che non manca. Migros Ticino invece è la dimensione regionale del gigante arancione. L’attenzione di Migros Ticino per il nostro territorio, per il personale e per i prodotti ticinesi è palpabile e questo mi piace molto. L’azienda è solida e è stata condotta con grande maestria da Lorenzo Emma, che ringrazio di cuore. Dunque, tutto fa ben sperare per il futuro, anche se le sfide non mancano. Nel mondo del commercio al dettaglio ci sono concorrenti agguerriti, senza dimenticare il turismo degli acquisti: una grande sfida. Con quale spirito la affronti? La concorrenza c’è e ci stimola a fare meglio, ogni giorno, ma la affron-
to con serenità poiché so di avere una buona rete di vendita e un team forte al mio fianco. Certo è che il commercio al dettaglio ticinese è sottoposto come poche altre regioni svizzere a una concorrenza particolarmente agguerrita e differenziata, nazionale e internazionale. Il lockdown ci ha regalato un’opportunità irripetibile: abbiamo potuto farci conoscere anche da coloro che frequentavano esclusivamente o prevalentemente i supermercati di oltre frontiera. Oggi, con le dogane di nuovo aperte, una parte dei clienti che non ci conosceva ha capito che i prodotti di Migros sono buoni, altamente concorrenziali, spesso a chilometro zero e facilmente accessibili. Possiamo guardare al futuro con fiducia e dobbiamo mantenere lo slancio acquisito. Migros Ticino ha una lunga tradizione, è stata la prima cooperativa Migros, da Charles Hochstrasser, suo fondatore, poi suo figlio Ulrico, quindi Lorenzo Emma – tre direttori in anni di esistenza. Un’eredità di peso: con quali sentimenti e con quale atteggiamento la affronti? Il sentimento che prevale è la gratitudine, poiché il successo di Migros è stato costruito grazie all’apporto di tutto il personale, condotto dalle sapienti mani dei miei predecessori. Sono però consapevole che ogni direttore apre un nuovo capitolo nella storia di una azienda, che va scritto con impegno e umiltà, ma sempre con il supporto di tutti i collaboratori, perché le sfide si vincono assieme e si vincono nei punti vendita, dove Migros ha sempre saputo offrire il miglior rapporto qualità/prezzo del mercato. Sei da poco nella comunità Migros: che impressione ti sei fatto, di Migros e di Migros Ticino? Il modo di funzionare «democratico» di Migros in generale, l’attenzione per il sociale e la cultura, così come le fantastiche condizioni di lavoro a disposizione del personale mi hanno impressionato. Migros è una realtà che non ha eguali. Sono da poco di ritorno da un giro conoscitivo nelle altre cooperative Migros, nei siti di produzione industriale e nella sede della Federazione delle cooperative Migros a Zurigo. Ho potuto apprezzare e toccare con mano la cultura aziendale di Migros: aperta, innovatrice e disponibile ad aiutarsi a vicenda. Lorenzo Emma, torniamo a te: che cosa farai dal . dicembre? Dubito che resterai con le mani in mano. A breve prevedo di staccare e viaggiare un po’. Poi prevedo di dedicare un po’ di tempo al volontariato (sono presidente della Fondazione la Fonte) e rimanere però part time attivo nel mondo del lavoro… se a qualcuno interessano le mie capacità e la mia esperienza…. Mattia Keller, emozionato di assumere questa nuova carica? Molto, ma l’intenso programma di introduzione mi ha tenuto occupato, per fortuna.
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Pionieri della mediazione L’Associazione Centro studi coppia e famiglia compie 30 anni e il lavoro non manca
Tavolata, per stare insieme Il progetto sostenuto dal Percento culturale Migros favorisce le relazioni sociali
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Mamme in equilibrio Il libro della formatrice Eveline Moggi offre spunti di riflessione ma anche soluzioni organizzative
Attenzione all’aviaria Nuovi focolai europei fanno scattare le misure preventive per evitare contagi in Svizzera
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Coltivando verdi speranze
Sostenibilità ◆ Piante e alberi non sono figli di un dio minore. Eppure, li trattiamo come esseri ornamentali, al più come fonte di legno per l’edilizia e il riscaldamento Amanda Ronzoni, testo e foto
Dobbiamo a loro ogni nostro respiro. Dovrebbe bastare questa semplice considerazione per farcele vedere sotto un’altra luce. E invece, come scrive mirabilmente Emanuele Coccia nel suo La vita delle piante, esse «sono la ferita sempre aperta dello snobismo metafisico che contraddistingue la nostra cultura. Sono il ritorno del rimosso, di cui ci dobbiamo sbarazzare per poterci considerare diversi: uomini, razionali, esseri spirituali». Non è stato sempre così e, per fortuna, non lo è per tutti. L’albero della vita è un elemento universale che ritroviamo in tante diverse culture e tradizioni. Congiunzione tra cielo e terra, fonte di saggezza e nutrimento, depositario del bene e del male, i suoi frutti d’oro miracolosi, in grado di togliere la fame e la sete. Boschi sacri hanno custodito il mistero di divinità silvane. All’ombra di alberi secolari si sono compiuti riti magici e sacrifici. Fronde cariche di foglie e profumi hanno ornato caverne, altari e portali. Ancora: sono stati e continuano a essere simbolo di pace, prosperità, saggezza, gloria, potere. Eppure, oggi, gli alberi nelle nostre città sono al più ridotti ad arredo urbano. Per il nostro tempo veloce e iperconnesso sono l’emblema dell’immobilità: fissi, senza pensiero né relazione, senza volontà né capacità di pensare un futuro. Questa apparente inerme passività del mondo vegetale lo condanna al mero sfruttamento. Con sguardo superficiale, applichiamo le nostre categorie a un mondo che semplicemente si muove seguendo regole e ritmi differenti, ma soprattutto secondo una scala temporale più dilatata della nostra. E pensare che, come ci spiega la scienziata canadese Susanne Simard – docente di Ecologia Forestale presso il Dipartimento di Scienze forestali e conservazione dell’Università della British Columbia – gli alberi hanno creato molto prima di noi un proprio sofisticato sistema di comunicazione, un WWW, un Wood Wide Web, attraverso il quale «piante madre» (o hub) scambiano con figli e alleati importanti informazioni ambientali e risorse (bit.ly/Fvbvl). Scopriamo così che, nel bosco, sotto i nostri piedi, esiste una rete micorrizica fatta di infiniti percorsi biologici, dove gli apparati radicali di alcune specie di piante e determinati funghi sviluppano un fitto dialogo e un corposo scambio di nutrienti e informazioni chimiche: le piante madre inviano acqua, azoto, carbonio, zuccheri ai propri figli o ad altri esemplari di specie «alleate», magari meno sviluppati o situati in posizioni meno propizie; segnalano stress ambientali, la presenza di insetti infestanti, l’arrivo di un incendio; pri-
ma di morire lasciano in eredità informazioni sul clima e il territorio agli altri membri della rete. Gli alberi sono tutt’altro che muti, immobili e incapaci di relazioni, al contrario sono esseri super collaborativi. Se queste considerazioni vi sembrano, più che interessanti, addirittura azzardate, provate a leggere il libro dell’antropologo Eduardo Kohn, Come pensano le foreste, che ha lavorato per alcuni anni tra i Runa dell’Alta Amazzonia in Ecuador. Kohn spiega come, entrando nel mondo quotidiano degli abitanti della foresta, abbia imparato ad estendere l’ascolto etnografico ad altri tipi di esseri, non solo agli umani, costringendolo di fatto a ripensare il concetto di «essere umano». I popoli dell’Amazzonia sono fermamente convinti della capacità della foresta di pensare, tanto che la loro vita si sviluppa tenendo conto di questa
che per loro è una realtà e non un assunto fideistico. Secondo la Dichiarazione Kawsak Sacha (Foresta Vivente, kawsaksacha.org), il popolo Sarayaku (sarayaku.org) ritiene che «il mondo definito naturale è composto da esse-
ri viventi e dalle relazioni comunicative che tali esseri intrattengono tra loro e con noi», e su questa convinzione ha basato una proposta politica concreta che mira a trasformare leggi e politiche attuali, per ora basate su una visione cosmica di matrice occidentale che relega gli spazi naturali a fonti inerti di risorse materiali ad uso e consumo unicamente umano. Dialogo, condivisione ed empatia, sono parole chiave che tornano non solo nelle teorie esposte da Kohn, ma anche nelle indicazioni di Susanne Simard all’industria che gestisce la produzione di legname e il taglio degli alberi: lasciare alla natura il tempo di gestire il disturbo forestale causato dall’uomo non è un atto irrazionale o bizzarro, ma il primo passo per ristabilire un equilibrio tra noi e l’ambiente che ci circonda, nell’interesse di tutti. Perché se c’è una cosa che le foreste ci possono insegnare è la capacità di guarigione da traumi che sembrano irreversibili: il fuoco è uno di questi. Lo spiega bene La resilienza del bosco, di Giorgio Vacchiano, ricercatore e docente di Gestione forestale presso la Statale di Milano. Gli alberi resistono, si spostano, migrano in seguito a eventi di disturbo come siccità e incendi. Studiando questi traumi, si apprende come una gestione mirata del fuoco possa essere una soluzione per contrastare gli incendi sempre più devastanti che negli ultimi anni si stanno abbattendo con sempre maggior frequenza su boschi e foreste a ogni latitudine. La pratica dei co-
siddetti fuochi prescritti, ad esempio, ha una lunghissima tradizione tra gli aborigeni australiani, e i paesi in cui è regolarmente praticata sono stati meno colpiti dai roghi recenti. Anche nella corsa alla riduzione di CO gli alberi sono fonte di ispirazione. Il meccanismo della fotosintesi, che in presenza di luce trasforma anidride carbonica e acqua in zuccheri e carboidrati, rilasciando ossigeno, è oggetto di studi da diversi anni. Uno dei più recenti e interessanti è la «foglia artificiale» messa a punto dal consorzio A-Leaf (www.a-leaf.eu/project), di cui fanno parte anche il Politecnico di Zurigo e l’École polytechnique fédérale di Losanna. Il dispositivo utilizza l’elettroriduzione di CO per produrre prodotti chimici ad alto valore aggiunto (come gli idrocarburi) o per immagazzinare energia solare. In parole povere, una fotosintesi artificiale alimentata da un sistema fotovoltaico, che oltre a ridurre le emissioni di anidride carbonica, contribuisca a limitare gli effetti del cambiamento climatico. Pensiamo, infine, al benessere che ci regala una passeggiata nel bosco. Studi scientifici dimostrano che camminando tra gli alberi, il battito cardiaco si regolarizza, la pressione si abbassa e l’umore migliora. Non male per degli esseri immobili, senza pensiero né relazione, né capacità di pensare il futuro. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
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azione – Cooperativa Migros Ticino
MONDO MIGROS
Azioni in festa!
Attualità ◆ Dal 1. al 31 dicembre alla Migros ogni giorno vi attendono offerte sensazionali su molte prelibatezze che non possono mancare in occasione delle festività. Non lasciatevele sfuggire
evi Lasciat sedurre e str dalle no nti stuzzica idee!
Quando se non durante il periodo delle festività natalizie è permesso concedersi qualcosa di unico e autentico da condividere con i propri cari? Anche quest’anno abbiamo preparato un opuscolo speciale de-
dicato a molte prelibatezze culinarie e idee regalo, con imperdibili offerte giornaliere per trasformare i desideri di grandi e piccoli in realtà. La pubblicazione vuole celebrare la gioia dell’attesa e invogliare la clien-
tela ad assaporare cibi sopraffini, nonché a trovare l’ispirazione giusta per i regali del Natale ormai vicino. Tra le numerose offerte sensazionali che abbiamo in serbo per voi, troverete per esempio quelle sull’a-
romatico prosciutto crudo grigionese; il piatto festivo di affettati misti; il branzino o l’orata reale; le racks d’agnello; il Parmigiano Reggiano stagionato mesi; le praline della Chocolat Frey; il tradizionale pa-
té ticinese; la formaggellina nostrana; il salmone affumicato scozzese o ancora lo scamone di manzo. Infine, non mancano nemmeno promozioni su alcuni giocattoli tanto amati dai più piccoli.
Voglia di torrone
Novità ◆ Venite a scoprire le deliziose specialità Sperlari di questo tipico dolce natalizio. Novità di quest’anno è il torrone Zanzibar al caramello salato
Per molti Natale è anche sinonimo di torrone, una delle rinomate specialità del vasto patrimonio gastronomico italiano. L’assortimento natalizio di Migros Ticino comprende numerose varianti di questo dolce tipico, firmate dallo storico marchio italiano Sperlari. Sperlari nasce nel lontano , quando Enea Sperlari aprì una bottega nel centro di Cremona – tuttora in attività - e iniziò a vendere due tradizionali specialità artigianali cremonesi: il torrone e la mostarda di frutta. Grazie alle qualità artigianali delle sue creazioni conquistò prima l’intera città e, in poco tempo, diventò famoso in tutto il mondo. Sperlari da sempre si contraddistingue per la ricchezza e varietà dei suoi prodotti, con una particolare attenzione per l’innovazione. Torrone e Cremona
Le origini del torrone vanno fatte risalire ad antiche tradizioni arabe, da
nosciuto come il Torrazzo o Torrione, e da cui poi la ricetta prese il nome di torrone. Negli anni a seguire il grande successo e la crescente domanda di questa specialità si rifletté anche sui metodi di produzione: dalle botteghe artigianali si spostò ai primi stabilimenti di pasticceria. Nel Settecento nel cremonese erano già una ventina le fabbriche dedite alla sua produzione. L’assortimento Sperlari alla Migros
Il torrone Zanzibar Sperlari è la golosa novità di quest’anno.
dove si è poi progressivamente diffuso nel bacino mediterraneo e, in Italia, soprattutto nella città di Cremona. Il ottobre , in occasione del matrimonio tra Bianca Maria Visconti,
figlia del duca di Milano, e il condottiero Francesco Sforza, i mastri pasticceri cremonesi crearono un dolce in onore degli sposi dalla forma che ricordava il campanile della città, co-
A Migros Ticino nel periodo natalizio la scelta di specialità Sperlari è particolarmente ricca. La novità di quest’anno è rappresentata dal torrone Zanzibar: una sorprendente creazione di cioccolato gianduja ricoperto di caramello dorato salato, con nocciole intere e granella di caramello croccante. L’assortimento include ancora le altre tradizionali e gettonatissime bontà Sperlari, quali il torrone classico alla mandorla con mandor-
le tostate, cuore di miele ed elegante nota di limone; il torrone tenero alla mandorla con fresco aroma di limone, cuore di miele e mandorle e profumo di vaniglia; il torrone tenero alla nocciola con nocciole tostate, morbidezza lievemente screziata di limone e aromatico fondo di vaniglia; il torrone tenero al pistacchio dove il torrone si sposa a meraviglia con il raffinato profumo dei pistacchi e i Morbidelli misti dove il cuore di mandorla viene arricchito di vaniglia fondente, limone e cioccolato bianco, arancia e cioccolato bianco e caffè ricoperto di fondente.
Torrone Zanzibar Sperlari 250 g Fr. 6.50
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MONDO MIGROS
Il pane ticinese
Pane della settimana ◆ Un grande classico della nostra regione che non ha bisogno di essere tagliato
Concorso «Accompagna la castagna» La scorsa settimana al Centro Migros S. Antonino si è tenuta la premiazione dei vincitori del concorso «Accompagna la castagna», iniziativa promossa dall’Associazione dei Castanicoltori della Svizzera italiana e sostenuta da Migros Ticino. L’attività, volta a valorizzare il patrimonio castanicolo ticinese, invitava la popolazione alla raccolta dei preziosi frutti e alla loro consegna in uno dei quattro punti di raccolta sparsi sul territorio. I partecipanti che entro il novembre consegnavano le
Lo sapevate che ogni mese in tutta la Svizzera Migros vende qualcosa come mezzo milione di pagnotte di pane ticinese? Una cifra importante, che di fatto lo colloca ai primi posti tra i pani preferiti dalla clientela. Il pane ticinese non solo è apprezzato per il fatto che può essere spezzato comodamente con le mani senza l’utilizzo del coltello, ma anche per il suo delicato aroma di lievito. Prodotto con farina di frumento chia-
ra derivante da agricoltura integrata IP-SUISSE rispettosa della natura, è formato da cinque micche una affiancata all’altra. La sua superficie è bombata, con un chiaro taglio per il lungo, mentre la crosta è di colore dorato, lucida e leggermente friabile. La mollica è elastica, poco umida e dalla struttura areata. La sua morbidezza è dovuta all’utilizzo di olio di girasole. Il pane ticinese è ottimo sia con abbinamenti dolci che salati.
PaneTicinese IP-SUISSE 400 g Fr. 2.40
loro castagne ricevevano in omaggio una comoda sacca Migros e avevano la possibilità di partecipare ad un concorso. Tra i molti tagliandi giunti a Migros Ticino, la fortuna ha premiato Fabrizio Albertolli di Torricella con il ° premio (buono da CHF offerto da Interhome); Thomas Klöti di Leontica (° premio, carta regalo Migros da CHF) e Cinzia Bruschi di S. Pietro (° premio: carta regalo Migros da CHF). Ai premiati le nostre congratulazioni!
La premiazione dei vincitori del concorso «Accompagna la castagna» alla presenza di Cinzia Bruschi e Fabrizio Albertolli (assenteThomas Klöti), nonché di Davide Nettuno per Hotelplan (a sinistra) e Paolo Bassetti, responsabile dei centri di raccolta delle castagne (a destra). (Giovanni Barberis) Annuncio pubblicitario
Regala gioia a Natale:
esaudisci i desideri dei tuoi cari lasciando a loro la scelta!
Così si avvereranno tutti i desideri di Natale: con la carta regalo Migros offri un dono ricco di possibilità. Disponibili ora in tutte le filiali e su mondocarteregalo-m.ch
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azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ
La cultura del buon divorzio
Mediazione ◆ L’Associazione Centro studi coppia e famiglia compie 30 anni. Pionieri della mediazione familiare in Ticino con due consultori, a Mendrisio e a Locarno
Fabio Dozio
La famiglia è in crisi, non è una novità. Il numero dei divorzi rimane importante, ormai da decenni. Nel , prima della pandemia che ha rallentato il numero dei matrimoni, in Ticino sono stati pronunciati matrimoni, mentre i divorzi sono stati . Per l’Associazione Centro studi coppia e famiglia (CCF), che festeggia i trent’anni, il lavoro non manca. I consultori di Mendrisio e di Locarno hanno continuato il loro proficuo lavoro anche durante la pandemia, nel . Le mediazioni familiari nella separazione e nel divorzio sono state , per accompagnare i coniugi in crisi fino all’elaborazione della convenzione di divorzio e di tutti gli atti formali necessari prima di presentarsi dal Pretore. Accanto alla mediazione, il CCF offre consulenza individuale o di coppia, nuovi casi l’anno scorso. Non da ultimo, grazie alle disposizioni di legge che prevedono di interpellare i figli minorenni in caso di separazione, il Centro ha ascoltato minori. Complessivamente le ore di consulenza sono state . «La magia della mediazione – afferma Cinzia Lehmann Belladelli, avvocata del CCF di Mendrisio – può essere riassunta in una sola parola: trasformazione. La mediatrice, o mediatore, aiuta le coppie a trasformare la relazione conflittuale in qualcosa di nuovo, un nuovo modo di confrontarsi per riuscire a percorrere l’uno accanto all’altro, e non l’uno contro l’altro, il cammino che le porterà alla separazione o al divorzio». Tutto è iniziato il novembre del , quando Marianne Galli-Widmer, Anna Mattia, Anna Zuntini, Anna Lafranchi e Angela Bolzani hanno costituito l’Associazione. Poco dopo sono stati creati i consultori, prima a Mendrisio, nell’agosto del , poi a Locarno, nel settembre del . Anna Lafranchi, terapeuta familiare, è stata fondatrice ed è ancora oggi nel Comitato del CCF. Che ricordi ha di quel periodo? «È stata una di quelle cose che non capitano proprio tutti i giorni nella vita. Ritrovarsi con professionalità convergenti, esperienza e passione per qualcosa di cui si toccava con mano la necessità, motivazione per un’impresa creativa in un clima di stima e fiducia reciproca. E poi veder crescere il progetto che ci aveva tanto appassionato al di fuori dell’ Associazione. Una bella stagione della nostra vita professionale». L’avvocata Marianne Galli-Widmer, esperta di diritto matrimoniale, ha avuto un ruolo da pioniera, nell’Associazione: «Il cambiamento della filosofia, della struttura e dell’organizzazione economica, sociale e familiare ha reso più fragile e instabile il matrimonio, determinando un aumento esponenziale del numero di divorzi». L’Associazione è stata la prima a introdurre in Ticino la mediazione familiare. Quindi non solo consulenza psicologica e terapia di coppia, ma sostegno concreto per avviare il percorso
Nel 2020 nei consultori di Mendrisio e Locarno le mediazioni familiari per separazione e divorzio sono state 113. (Shutterstock)
di separazione evitando, possibilmente, il conflitto. Ricorda Anna Mattia: «Allora non c’era quella che poi abbiamo denominato “la cultura del buon divorzio”. Divorziare proviene da “divertere”, rompere. Abbiamo iniziato organizzando riunioni a tappeto con i Pretori e questo grazie al fatto che Marianne era un’avvocata conosciuta e stimata. È stata lei a introdurre la mediazione nel mondo giuridico». «Proprio le conseguenze dei divorzi malgestiti – racconta Anna Lafranchi – nefaste soprattutto per i minori coinvolti, hanno spronato le fondatrici del CCF, già attive nell’ambito sociale e giuridico, a seguire la nuova via della mediazione familiare, di origine anglosassone, che stava prendendo piede oltralpe e in alcuni paesi europei. Si trattava quindi di attrezzarsi, in vista di un percorso nuovo e stimolante, nel delicato procedimento delle separazioni. Un approccio professionale inedito per affrontare i conflitti nella coppia in modo costruttivo, e inaugurare la cosiddetta cultura del buon divorzio. Con un certo orgoglio ci rendiamo conto che il CCF è stato fondato ben sette anni prima della Raccomandazione del Consiglio d'Europa che adottava formalmente le disposizioni del Comitato europeo di esperti di diritto di famiglia in materia di mediazione». La presidente del CCF, Raffaella Martinelli Peter, spiega bene le modifiche legislative degli ultimi trent’anni che hanno adeguato il diritto di famiglia alla realtà. Nel si è parificata la posizione dei coniugi, fino ad allora il marito era il «capo-famiglia». «La revisione del del Codice civile – sostiene Martinelli – ha permesso di semplificare la procedura di divorzio, di favorire la richiesta congiunta, di svincolare le conseguenze del divorzio dal concetto di colpa e di ripartire equamente gli averi del secondo pilastro». In seguito è stata introdotta l’autorità parentale congiunta dei genitori e il diritto per la figlia o il figlio
a un contributo di mantenimento che garantisca anche il suo accudimento. Nel corso di questi trent’anni i due consultori dell’Associazione hanno rivestito un importante ruolo nell’accompagnare le coppie verso il divorzio o anche nel sostenere e consigliare coppie, o mogli e mariti, che chiedevano aiuto per riuscire a salvare il matrimonio. All’interno della coppia c’era più disponibilità nei confronti della mediazione da parte della donna o dell’uomo? «Trattandosi di un nuovo approccio – sottolinea Lafranchi – c’era una certa curiosità da parte di ognuno. Forse, essendo un consultorio all’inizio di sole donne, poteva nascere l’immagine di una “protezione” maggiore più orientata al genere femminile. Le mediatrici hanno però sempre garantito una professionale neutralità. Non bisogna dimenticare che la mediazione familiare è un percorso impegnativo che ben si discosta dalla protezione giuridica offerta da un legale a singoli partner. In mediazione familiare i membri della coppia si assumono personalmente la fatica necessaria in vista della ricerca degli accordi che regoleranno il proprio futuro. Il mediatore ha una funzione di facilitatore che garantisce l’equità degli accordi che vengono presi». Il CCF è stata un’esperienza partita dal basso, dalla società civile, grazie a persone sensibili e lungimiranti che hanno creato i consultori contando sulle proprie forze, mentre nel cantone le autorità cominciavano a essere sensibili. È una storia simile a molte altre esperienze ticinesi: nell’ambito della cura delle dipendenze, dell’educazione di bambini bisognosi di educazione speciale, nel sostegno socio educativo ad adulti disabili, a favore di disoccupati o di migranti. Una società civile che ha offerto servizi di qualità per il benessere e la coesione sociale e che ora sono sostenute dallo Stato. «Giuridicamente dipendiamo dal
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Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
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Dipartimento delle Istituzioni dal quale abbiamo avuto sin dall’inizio ottimi rapporti. – spiega Lafranchi – Finanziariamente siamo sottoposti a un mandato di prestazione che a scadenze viene rinnovato o modificato, ma sempre in un clima interlocutorio di apertura e di dialogo. I consultori riescono a autofinanziarsi solo parzialmente. Ma il valore della prevenzione e della cura delle relazioni familiari è ben noto all’Ente pubblico e quanto viene investito in questo campo ricade in modo virtuoso sull’intera società». Dicevamo all’inizio che il numero dei divorzi rimane alto. Ma in Svizzera siamo confrontati con un fenomeno relativamente nuovo. Due matrimoni su cinque falliscono, ma la percentuale di chi divorzia dopo molti anni di unione è in crescita. Dal a oggi, il numero dei divorzi tra i matrimoni che durano da più di anni è più che raddoppiato. «La ragione più frequente del fallimento delle relazioni a lungo termine – annota Pasqualina Perrig – Chiello, dell’università di Berna, nel volume dedicato ai trent’anni del CCF – è dunque il fatto che le coppie non sono riuscite a gestire la questione centrale dell’evoluzione di coppia, cioè il bilanciamento tra l’atto di fondersi e quello di distinguersi, tra lo sviluppo comune di coppia e lo sviluppo specifico quali individui». Dopo trent’anni di esperienza, come vede il futuro del Centro studi coppia e famiglia Anna Lafranchi? «Bisogna continuare ad approfondire le tematiche legate alla vita di coppia e di famiglia in un mondo in continua evoluzione, coinvolgendo la società. La Coppia e la Famiglia sono quei luoghi privilegiati dell’intimità e dello scambio affettivo profondo in cui ognuno desidera esprimere e ricevere riconoscimento, accettazione e condivisione, in un’alternanza tra individualità e solidarietà. Averne cura procura serenità familiare e sociale».
Volontariato, antidoto all’indifferenza 5 dicembre ◆ Giornata internazionale dei volontari
Il dicembre è la Giornata internazionale dedicata ai numerosi volontari che regolarmente dedicano tempo ed energie per garantire l’inclusione di chi si trova in difficoltà, persone sole, anziani, malati, famiglie, contribuendo ad una società più solidale. Numerosi volontari sono anche impegnati in attività a favore dell’ambiente, di promozione della cultura e dell’arte, nello sport e nella cooperazione internazionale. Volontariato Ticino raggruppa le organizzazioni di volontariato attive nella Svizzera italiana, organizza corsi di formazione per volontari e coordinatori ed è a disposizione per orientare chi desidera impegnarsi. Il Portale volontariato-ticino.ch, al quale aderiscono oltre organizzazioni del nostro territorio, permette di trovare velocemente l’attività per ambito e zona desiderata. Circa un volontario su quattro si impegna, infatti, attraverso le organizzazioni di volontariato, il resto, invece, lo fa singolarmente e direttamente, aiutando i vicini e impegnandosi a favore della comunità alla quale dedica il suo tempo e le sue capacità . Secondo una stima di UN
Volunteers (Volontari delle Nazioni Unite) oggi si contano quasi un miliardo di volontari in tutto il mondo, che si calcola generino il ,% dell’intera economia globale. «Il volontariato è un’attività che può essere intrapresa in ogni momento della propria vita – ricordano i responsabili di Volontariato Ticino – ed è sempre formativa. L’esperienza di volontariato permette di conoscere nuove persone e culture e sviluppare importanti abilità e competenze che possono essere utili anche in ambito lavorativo». Proprio per questo motivo è stato realizzato il Dossier Volontariato (attestato nazionale di volontariato) che ha lo scopo di facilitare il riconoscimento da parte dei datori di lavoro delle esperienze acquisite durante le attività di volontariato (per chi fosse interessato: dossier-volontariato.ch).
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Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938
Indirizzo postale Redazione Azione CP 6315 CH-6901 Lugano
Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 29 novembre 2021
azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ
Una Tavolata per tutti
PRO SENECTUTE
informa
Impegno Migros ◆ Il Percento culturale Migros sostiene progetti che favoriscono le relazioni sociali come Tavolata. Si creano così opportunità di contatti personali particolarmente preziose nel periodo natalizio
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Barbara Manzoni
Centro diurno socioassistenziale «Insema» Il 2 novembre ha aperto le sue porte in Via Domenico Galli 50 a Solduno il nuovo Centro diurno socio-assistenziale «Insema». Il Centro è ubicato al pianterreno e primo piano di un nuovo complesso abitativo di 80 appartamenti, pensati sia per anziani che per famiglie. Vi sarà anche un asilo nido, un ristorante gestito da Pro Infirmis e un centro fitness Vita Attiva. Centro diurno socio-assistenziale «Insema» Via D. Galli 50, 6600 Locarno-Solduno cdsa.solduno@prosenectute.org Tel. 091 751 26 29
Un momento dellaTavolata organizzata ad Arcegno, da sinistra: MariaTheresia (Therry), Liliane, Piera, Davio, Alex eTiziano. Qui sottoTherry nella sua cucina. (S. Spinelli)
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Le festività sono un periodo di gioia se condiviso con persone che amiamo e alle quali teniamo. È proprio in un periodo dell’anno come questo che precede il Natale che ci rendiamo conto di quanto i nostri rapporti familiari e affettivi siano importanti. Festeggiare con parenti e amici, cosa c’è di più bello? Non per tutti però le festività sono così spensierate, non per tutti l’atmosfera è calorosa e coinvolgente. Ci sono persone che non hanno famiglia né amici con i quali condividere il Natale. La solitudine o la mancanza di rapporti sociali non è però un problema circoscritto a periodi particolari come quello natalizio, ma investe la vita quotidiana di molte persone in Svizzera. Da questa consapevolezza Impegno Migros tramite il Percento culturale Migros ha dato vita a progetti volti proprio a favorire le interazioni sociali e i contatti tra persone, rafforzando la coesione sociale. Tra questi citiamo i «Caffè narrativi» durante i quali un gruppo di persone che non si conoscono si incontrano e si raccontano aneddoti ed esperienze della loro vita, accompagnate da un moderatore. Alla base del progetto «Tavolata» c’è, invece, un’idea ancora più semplice: organizzare un pranzo, riunirsi attorno a un tavolo, mangiare e ridere insieme, condividere ricette, passioni e interessi personali. Il progetto annovera già oltre gruppi in tutta la Svizzera, gruppi eterogenei che si incontrano a scadenze regolari. Anche in Ticino esistono alcune «Tavolate», ognuna con le sue peculiarità, ma chiunque può creare una propria piccola comunità e iscriverla sulla piattaforma online www.tavolata.ch attraverso la quale può essere contattato da chi desidera prendere parte agli incontri. Con una certa dose di curiosità ho partecipato a una tavolata organizzata nella sua casa ad Arcegno da Maria Theresia (Therry) Bitterli. Therry mi spiega come tutto sia nato un po’ per caso e un po’ per una voglia che è diventata quasi una necessità, quella cioè di avere una nuova e solida rete di contatti sociali. «Io e mio marito ci eravamo trasferiti a Lugano – mi rac-
conta – dove avevamo già vissuto in passato, ma ci siamo ritrovati un po’ soli, le amicizie di un tempo stentavano a riallacciarsi, cominciavamo a soffrirne. Nel frattempo mi ero iscritta a un corso per adulti, dove ho fatto conoscenza con altre due partecipanti, abbiamo scoperto di abitare tutte e tre vicine, prendevamo il bus insieme, poi abbiamo iniziato ad incontrarci per cena e così in modo naturale è nata un’amicizia». Una di loro, Piera, conosceva il progetto Tavolata del Percento culturale Migros e ne ha
«Scrivere insieme» per un felice Natale per tutti Per dimostrare a una persona che è nei nostri pensieri e che ci siamo per lei quale modo migliore se non scriverle una lettera o una cartolina? Con l’iniziativa «Cartoline natalizie Migros» in collaborazione con Spitex Svizzera è possibile redigere in forma digitale una cartolina postale che sarà poi consegnata dal personale Spitex. L’invito è quello di scrivere alcune frasi gentili su migros. ch/posta-di-natale, creare un motivo personalizzato per la cartolina e regalare così un sorriso a qualcuno perché sia davvero un felice Natale per tutti.
parlato alle altre. «L’idea mi è piaciuta subito – racconta Therry – ho pensato: dobbiamo farlo!». È nato così il gruppo che quasi subito però ha dovuto affrontare le grandi limitazioni dovute alla pandemia. «Abbiamo continuato a incontrarci perché il periodo del lockdown è stato veramente terribile. Ci trovavamo all’aperto, per fortuna a Lugano ci sono molti parchi bellissimi dai quali godere suggestivi scorci di lago, è nato così il nome “Aperitivi panoramici”. Paradossalmente è proprio durante questo periodo che il gruppo si è allargato, le persone avevano e hanno molto bisogno di contatti sociali, in quei mesi pur di trascorrere qualche ora di spensieratezza ci portavamo anche le racchette per giocare a volano!». Quattro mesi fa Therry e il marito Davio si sono trasferiti ad Arcegno, nel Locarnese avevano già vissuto e ne sentivano la mancanza, ma di abbandonare il gruppo delle tavolate non ci pensano proprio. Così in effetti a soli tre mesi dal trasloco eccoci sul loro soleggiatissimo terrazzo ad aspettare gli altri, ognuno porta qualcosa da mangiare e da condividere, Therry sforna una pizza vegana, arrivano alla spicciolata Donatella, Patrizia, Piera, Conny, Liliane, Tiziano e Alex. Si mangia, si chiacchiera, ci si conosce, si scambiano idee e ci si racconta esperienze. Therry ha il dono di far sentire a proprio agio chiunque e la sua energia positiva è decisamente contagiosa, non stupisce che il gruppo sia così allargato e intergenerazionale. Conny mi confida che anche lei ha da poco fondato una tavolata, l’ha chiamata «Noialtre» e il suo obiettivo è quello di creare un piccolo gruppo di donne, al massimo o persone, che metta al centro dell’attenzione l’ascolto e la comprensione, per riuscire a creare relazioni solide e durature. Questo è il bello del progetto, ognuno può scegliere la Tavolata che più corrisponde alla propria personalità e ai propri desideri, basta un piccolo passo e un po’ di coraggio. Informazioni www.tavolata.ch
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Anno LXXXIV 29 novembre 2021
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Mamme, ognuna al ritmo della propria musica Pubblicazioni
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Il libro di Eveline Moggi Mamme in equilibrio offre spunti di riflessione, esercizi pratici e soluzioni organizzative
Valentina Grignoli
Qualche giorno fa ho letto un articolo molto interessante, Lo spazio mentale della mamma artista – o la sinfonia fantastica, dove si racconta la difficoltà per una donna di conciliare carriera artistica e maternità. L’autrice, Héloïse Simon, paragona la sua vita a un’accozzaglia di rumori, una cacofonia frammentata nella quale trovare un reale spazio per sé pare un’impresa titanica. Quella che però pare musica avanguardistica strimpellata da un’improbabile orchestra si trasforma a poco a poco nella più bella sinfonia di sempre: perché con il tempo quando si riesce finalmente a trovare dentro di sé un equilibrio personale, a capire che non si deve essere perfette, quando si trova il proprio ritmo con cui ballare la propria vita, beh ogni soddisfazione, vale il doppio! Questo articolo si inserisce in una tendenza in atto da decenni, ma che ancora fatica a catturare gran parte della società, che vede mettere in discussione la figura della madre perfetta, legittimandola ad ammettere le difficoltà che prova e che incontra, e che mette in guardia rispetto al fatto che, una madre felice fa un bambino felice, e non il contrario. La letteratura specifica, in ambito delle scienze umane, ha aiutato il fiorire di queste teorie e la loro diffusione. Anche alle nostre latitudini si assiste a una crescita di consapevolezza, rispetto all’importanza del benessere della madre. Tra iniziative diverse che appaiono sul nostro territorio, segnalo un libro pubblicato recentemente, ad opera di Eveline Moggi, formatrice che si occupa di coaching familiare, che sviluppa la tematica da un suo personale e particolare punto di vista. Si tratta di Mamme in equilibrio, e nasce come manuale pratico che mette in forma scritta le formazioni che Eveline propone. Sono molti e sfaccettati, gli spunti di riflessione e i punti di vista che leggiamo all’interno del libro, realizzato anche grazie alla collaborazione della giornalista Sara Rossi Guidicelli. Ancora una volta, come nell’artico-
lo di cui sopra, il libro si apre con la musica: «La nostra musica è una grande fanfara e la maggior parte di noi suona moltissimi strumenti contemporaneamente, non è vero? (…) Spesso non c’è armonia, solo baccano, mentre noi ogni tanto avremmo solo voglia di starcene in silenzio, a sentire battere il nostro cuore e basta. (…) Quello che vogliamo dire è che non è mica facile fare la mamma. Anche se non ce lo avevano detto prima». E quindi il libro propone un viaggio dentro di sé, ponendo l’accento su alcuni aspetti che solitamente non vengono citati. Nei cinque capitoli che lo compongono (Donne, Madri, Tempo, Figli e Padri) si parla, tra le altre cose, dell’importanza della condivisione delle proprie esperienze e del saper chiedere aiuto a chi ci sta intorno; si cita la famosa charge mentale proposta qualche anno fa dalla fumettista francese Emma per raccontare tutto quanto le madri debbano tenere in testa per far funzionare la famiglia; si valorizzano le innumerevoli competenze che una madre deve mettere in atto; si menziona la difficoltà del periodo mestruale; si parla di soldi; si sottolinea l’importanza del lavoro del padre. No, essere madri non è certo una passeggiata, ma Mamme in equilibrio non si ferma agli spunti di riflessione, e mette in atto una serie di esercizi pratici e soluzioni organizzative, anche verso una maggiore consapevolezza e rispetto di sé. «Non avrei mai potuto scrivere un libro teorico – ci racconta Eveline Moggi – perché non fa parte del mio percorso di vita. Nasce dalla pratica, e di fatto la sostiene». L’autrice inizia la sua carriera come Kinderpflegerin, una figura che si occupa della cura dei bambini nei primi anni di vita come infermiera e educatrice. Un percorso formativo che grazie a una scuola innovativa di Zurigo le ha trasmesso l’importanza del lavoro su di sé, per potersi aprire all’altro. Ora Eveline, madre di quattro figli, è mentoring famigliare, e delegata per il Ticino per la Formazione dei Genitori CH.
L’illustrazione della copertina del libro (Pamela Fumasoli)
Formazione che, secondo un recente studio commissionato all’Università di Scienze Applicate di Berna («Impostazioni per la formazione dei genitori e la loro accessibilità», che sarà presentato in un Simposio nazionale il prossimo gennaio), sta prendendo sempre più piede in tutta la Svizzera. Eveline sottolinea l’importanza dell’ascolto: «Quello che vorrei fare io con i miei corsi è dare il giusto valore alla famiglia e ai propri ruoli, per il bene dei figli, che io considero al centro. Spesso ci si sente sole e inadeguate, non all’altezza del ruolo. Mettendosi in discussione anche con altre madri si può trovare la propria personale soluzione. Non voglio dare consigli, non è il mio ruolo, ma attraverso il coaching porre domande e trovare le soluzioni con le madri legate alla realtà di ciascuna». E grazie al contatto con Sara Rossi Guidicelli le parole prendono forma e il corso si trasforma in libro, si struttura e si arricchisce di preziose testimonianze
diverse: «Sara ha portato la melodia e un linguaggio». Un libro dedicato all’equilibrio delle mamme e al benessere dei bambini… è più importante che la mamma riesca a stare in piedi o che i bambini stiano bene? «Quando la mamma sta bene, sta bene anche il bambino. Lui lo sente, è percettivo. Pensiamo alla connessione dei primi anni. Non dimentichiamo però che ogni bambino è diverso e ha esigenze diverse, ascoltiamo anche quelle». La società è cambiata oggi, è più individualista. Quella rete di comunicazione e sostegno che prima era propria delle grandi famiglie o dei nuclei di paese oggi dobbiamo crearcela noi. Insomma, è più facile sentirsi soli: «Silvia Vegetti Finzi lo dice nella prefazione del libro, la società odierna ha creato molto individualismo. Aggiungo che prima era la rete ad occuparsi della formazione, le conoscenze venivano trasmesse, c’era spazio di condivisione». I papà hanno un ruolo di sostegno
per mantenere l’equilibrio delle madri secondo lei? «I padri ci sono, anche se non sempre presenti. La cosa più importante è la comunicazione all’interno nella coppia. Avere una progettualità famigliare, per il bene dei figli». Le mamme possono a volte concedersi di perderlo l’equilibrio? «Tutto dipende da cosa si intende con equilibrio. Che le madri possano provare emozioni di sfinimento e le riconoscano è molto importante, per esempio. O che sappiano e possano chiedere aiuto. Tutti quanti possiamo fare degli errori. Per me essere in equilibrio è star bene con me stessa. E quindi posso accogliere l’altro, e riuscire a dare un abbraccio, una carezza, una risata al momento giusto». E trovare, suonare e ballare sulla nostra personalissima, fantastica, sinfonia, aggiungo io. Bibliografia Eveline Moggi, Mamme in equilibrio. Al centro il benessere dei bambini, Aldenia Edizioni 2021.
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Viale dei ciliegi Simona Baldelli La neve finché cade Giunti. Da 13 anni
Un mélange di generi ispira questo romanzo di Simona Baldelli, autrice che si è fatta notare sin dal suo esordio, nel , con Evelina e le fate, al quale hanno fatto seguito altre opere, fino a questa, La neve finché cade, sua prima storia per ragazzi. Lo sfondo qui è quello dell’emergenza climatica, e del ruolo dei giovani nell’evidenziarne l’urgenza, ma non è una storia ascrivibile solo alla climate-fiction, perché è anche una detective story e un romanzo di crescita (tinto di rosa), ambientato nel più classico degli scenari in cui mistero e amore possono incontrarsi nella narrativa per adolescenti, e cioè il collegio. Nella fattispecie svizzero: un immaginario liceo «Clevermind» a Losanna. Lì studia la quindicenne Lisa, iscritta dai genitori – che per lavoro devono trascorrere vari mesi lontano da Roma – affinché restasse in un ambiente stimolante e protetto. A Lisa il collegio piace, così come il paesaggio naturale che lo circonda, e studia con passione. L’am-
di Letizia Bolzani
bito in cui fatica di più è quello delle relazioni sociali, o meglio della relazione con se stessa: si sente inadeguata, insignificante, si ritrae nel suo guscio cercando di occupare meno spazio possibile, anche letteralmente, attraverso una magrezza eccessiva, un eccessiva attenzione al cibo, un’evanescenza che la rende fragile. Ma questa fragilità pian piano diventerà forza, accettazione di sé, sia di ciò che è visibile (il suo corpo di giovane donna), sia di ciò che è «invisibile agli occhi» (le sue aspirazioni, i suoi sentimenti) e il cambiamento sarà innescato da eventi traumatici e misteriosi: la
sparizione della sua amica del cuore, Inès, e della docente che più stimava, Mme Lagard. Ci vorrà tutto l’acume di Lisa, e l’aiuto di un affascinante compagno irlandese, per risolvere il caso. Dietro alcuni temi classici della letteratura per adolescenti (il collegio, le vacanze di Natale imminenti, il «figo» della scuola che come mai – si interessa – proprio a me), si profila una storia che parla di responsabilità nei confronti dell’ambiente e di noi stessi. È bella in particolare l’idea delle e-mail in codice scambiate tra le ragazze per evitare pericolosi controlli online: un linguaggio cifrato ed empatico che piacerà al lettore desideroso di storie d’indagine, ma che è anche lo specchio di una comunanza di cuori, tipica dell’adolescenza. Cristina Petit Sono proprio da buttare? Illustrazioni di Silvia Baroncelli, collana «I Palloncini», Raffaello Ragazzi. Da 4 anni
«I Palloncini» è il titolo di una collana che l’editore Raffaello Ragazzi dedica ai bambini della scuola
dell’infanzia. Sono libri «per volare in alto», in quattro aree di competenza: «vivo le relazioni», «scopro le emozioni», «divento autonomo», «conosco il mondo». Si presentano come albi illustrati di formato quadrato; le storie che raccontano sono a misura di bambino, senza grevità nel veicolare messaggi, che vengono semmai espressi in modo implicito, attraverso piccole storie coinvolgenti di quotidianità. All’interno di ogni libro c’è, per gli adulti, un segnalibro-scheda ricco di spunti e consigli formulati da un pedagogista e una psicologa. Ma bastano già le storie,
raccontate con brio da Cristina Petit, a divertire i piccoli e far pensare i grandi. Cristina Petit è scrittrice, ma anche insegnante e formatrice: conosce bene i bambini, e si vede. A lei sono affidate tutte le storie della collana. Gli illustratori sono invece sempre diversi, e comunque scelti tra i migliori. La storia illustrata da Silvia Baroncelli, ad esempio, Sono proprio da buttare?, appartiene all’area «conosco il mondo» e ci parla di rispetto per l’ambiente, ma quello che racconta è una giornata alla scuola dell’infanzia, con i bimbi che arrivano, giocano, mangiano, e poi accolgono l’invito della maestra a raccontare le proprie passioni e a «portare delle cose da far vedere». Ci sarà chi tira fuori dalle tasche dei sassi da far toccare ai compagni, chi porterà la raccolta di tappi o di stickers luccicanti, e ogni passione verrà valorizzata. Il piccolo Edoardo porta invece la raccolta differenziata delle cose usate a scuola e a casa, ma... sono proprio da buttare? Quanti spunti di riciclo alla fine della storia! Per saperne di più sul progetto «I Palloncini»: www.raffaelloragazzi.it
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 29 novembre 2021
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SOCIETÀ
Pronti contro l’aviaria Mondoanimale
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Focolai in Italia, Germania ed Europa orientale fanno scattare misure preventive in Svizzera
La maggior parte degli uccelli acquatici selvatici che svernano da noi arriva da metà novembre a metà dicembre. La diminuzione dei casi di influenza aviaria negli uccelli acquatici selvatici dell’Europa è posta come dato di fatto dall’Ufficio federale di veterinaria e sicurezza alimentare (Usav). Malgrado ciò, gli esperti ricordano che la malattia non è scomparsa, anzi: «I rapporti aggiornati contengono segnali di allarme simili a quelli che hanno preceduto l’aumento dei casi di influenza aviaria negli uccelli selvatici in Svizzera nel / e nel /». Sulla base del concetto «prevenire è sempre meglio che curare», l’Usav agisce quindi tempestivamente in maniera preventiva: solo una preparazione adeguata permette di agire anticipatamente. Atteggiamento per nulla gratuito, suffragato dai recenti eventi di recrudescenza della malattia: «Dall’inizio dell’anno si sono verificati diversi casi di influenza aviaria ad alta patogenicità in aziende agricole e tra uccelli selvatici nell’Europa orientale e in Germania». Ma non solo: è fresca la notizia che riporta come anche nella vicina Penisola si sia riscontrato «un ceppo grave» di focolaio nel Lazio, dove un caso di influenza aviaria è stato accertato in un allevamento situato a Ostia Antica. Notizia che ha delimitato subito una zona di protezione per un raggio di
tre chilometri, e misure straordinarie di sorveglianza nel raggio di dieci, insieme a un monitoraggio ad horam della situazione. La reazione è stata immediata, si legge nella nota rilasciata dall’Assessorato alla Sanità della Regione Lazio: «A seguito dei regolari controlli relativamente all’insorgenza di una mortalità anomala nell’ambito di un allevamento avicolo non commerciale, in campioni di volatili è stato rilevato un caso di virus di influenza aviaria, confermata dal rapporto del Centro di referenza nazionale dell’Istituto Zooprofilattico». Anche stavolta, osserva il presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti: «È stato importantissimo intervenire immediatamente». Dal canto suo, l’Usav giustifica la prevenzione stretta, spiegando la patologia della quale stiamo parlando: «L’influenza aviaria è causata dal virus dell’influenza A dei sottotipi H e H, e si distingue fra quella ad alta o bassa patogenicità. In seguito a mutazioni, i virus a bassa patogenicità si possono trasformare in virus ad alta patogenicità (HPAI), ed essendo una zoonosi (ndr: anche detta epizoozia, malattia trasmissibile da animale a uomo) l’HPAI può colpire l’animale (anche i suini possono contrarlo) e soprattutto l’uomo». Nell’animale la malattia viene descritta prendendo ad esempio il pollame: «Quello affetto da influenza
Henry Burrows
Maria Grazia Buletti
aviaria ad alta patogenicità manifesta difficoltà di respirazione; nei polli la malattia causa un calo della produzione di uova e un’elevata mortalità». Nella sua manifestazione, si evidenziano pure i gusci delle uova più sottili o del tutto assenti, oltre a tumefazioni nella zona della testa e un atteggiamento sonnolente. La cosa che complica il tutto e favorisce il contagio è però data dal fatto che: «In genere, gli uccelli acquatici non presentano sintomi». Ecco che la prevenzione assume in questo caso una valenza ancora più importante: in presenza di problemi
non chiari, nell’effettivo con sintomatologia simile all’influenza aviaria ma senza sospetto urgente, come misura di prevenzione i veterinari o il servizio patologie possono effettuare un prelievo di campioni «per escludere un’infezione da tale virus. In tal caso, non devono essere presi provvedimenti di pulizia epizootica (art. dell’Ordinanza sulle epizoozie)». Tutt’altra faccenda si presenta con il contagio e con la diffusione dell’influenza aviaria che avviene attraverso le vie respiratorie, «mediante l’inalazione di goccioline contaminate di provenienza nasale, orale o oculare».
La trasmissione, sottolinea sempre l’USAV, «può avvenire anche attraverso l’inalazione di polvere contaminata entrata in contatto con escrementi contenenti l’agente patogeno, e gli animali giovani sono i più ricettivi alla peste aviaria». Le misure di prevenzione per contrastare la diffusione di questa epizoozia in Svizzera passano attraverso le disposizioni da parte della Confederazione che può imporre una restrizione temporanea alla detenzione all’aperto del pollame. Inoltre, l’Usav può avvalersi di decreti d’urgenza che regolano l’importazione di pollame e dei suoi derivati dai Paesi in cui è presente l’HPAI. Poiché non dobbiamo dimenticare l’alta contagiosità di questa epizoozia, ne risulta giustificato l’obbligo di notifica in caso di sospetto o comparsa. Mentre le misure di lotta adottabili possono giungere, se necessario, all’abbattimento di tutti i capi degli allevamenti colpiti e nella definizione di zone di protezione e sorveglianza, come abbiamo potuto constatare nel caso occorso alla regione Lazio. Le persone che vivono in stretto contatto con i volatili affetti, come accade in molte regioni dell’Asia e in Africa settentrionale, sono maggiormente a rischio di contrarre questo virus i cui primi sintomi «appaiono in genere da due a quattordici giorni dopo il contagio e si manifestano con gravi disturbi di tipo influenzale». Annuncio pubblicitario
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SOCIETÀ ●
L’altropologo
di Cesare Poppi
La Terra appartiene al Grande Sole ◆
Il novembre del non deve essere stato facile per il Consiglio degli Anziani e dei Capi Natchez, nell’allora colonia francese della Louisiana. I nodi di un lungo conflitto coi coloni francesi che assieme alle malattie importate dall’Europa aveva dimezzato la popolazione nativa riducendola a persone stavano venendo al pettine. L’ultimo atto di una progressiva appropriazione delle migliori terre da parte dei coloni era stata la richiesta di sgombero di una importante porzione di territorio attorno a Fort Rosalie, nel cuore del territorio Natchez, dove peraltro nativi e coloni avevano vissuto fin dalla metà del XVII secolo commerciando e financo raggiungendo una qualche misura di integrazione con frequenti scambi matrimoniali e partnership mercantili. Il nuovo Governatore della colonia, Étienne Perier, aveva nominato il Signore di Chépart a nuovo coman-
dante del Forte. Fonti del tempo descrivono Chépart come persona arrogante, crudele e violenta, tanto nei confronti della guarnigione del forte tanto nei confronti dei coloni francesi e – tanto più – dei Natchez. Chépart – come molti fra gli alti ranghi della colonia – considerava i Natchez buoni nemmeno per la schiavitù: morivano infatti come mosche al contrario degli schiavi africani che invece erano robusti e rendevano bene lavorando le piantagioni di tabacco. I Natchez avevano – dal canto loro – una forma di organizzazione sociale molto complessa, differente dal resto dei nativi americani e forse più simile a quella degli Aztechi del Messico. Divisi fra clan aristocratici e clan di sudditi subalterni, erano governati da un capo supremo col titolo di Grande Sole. Il sistema di discendenza matrilineare praticato dai Natchez assicurava che a succedere un Grande Sole
era sempre e comunque il figlio della figlia di una Madre di Grande Sole. In quanto tale, il Grande Sole era il Signore assoluto della Terra che assegnava a ciascun suddito che avesse necessità di coltivarla. I Natchez, come Aztechi, Maya ed Inca, praticavano il sacrificio umano ai fini di mantenere i poteri sovrannaturali del Grande Sole. Alla morte di un Grande Sole, le persone più vicine a lui erano sacrificate per accompagnarlo nell’Aldilà. Grande onore era associato a tali sacrifici. Per esempio, alla morte di Serpente Tatuato nel , due delle sue mogli, una delle sue sorelle (che i coloni francesi stessi celebravano come a La Glorieuse), il suo Capitano di Guerra, il suo medico, la sua balia, il suo Maggiordomo e la Moglie di questi – assieme ad un costruttore di mazze da guerra – tutti decisero volontariamente di morire col Grande Sole. Per una di quelle ironie che so-
lo la Storia sa cucinare e servire al tavolo, il funzionario della colonia che aveva chiamato il suo Re «Re Sole» per inappellabile diritto divino nella persona di Luigi XIV – morto nel – solo dieci anni dopo considerava le pratiche Natchez roba da selvaggi senzadio. Quando il Governatore annunciò che di lì a poco tutte le terre Natchez sarebbero state espropriate e vendute per soddisfare la crescente domanda di tabacco, Chépart gli propose di entrare in partnership commerciale e ordinò che i Natchez sgomberassero le terre attorno a Fort Rosalie che sarebbero diventate una piantagione dell’erba da fumo e sniffo. I Natchez erano esterrefatti. Nessuno poteva appropriarsi della Terra come fosse un fucile, uno schiavo – od altro bene mobile che si volesse. L’ordine era semplicemente irricevibile. Ne nacque allora una congiura per liberarsi una volta per tutte di Chépart.
I capi del villaggio di Mela Bianca, insediamento Natchez accanto a Fort Rosalie, mandarono emissari per stringere patti con le tribù vicine. Per quanto allertato da voci insistenti, Chépart non solo fece orecchi da mercante, ma fece punire i responsabili dell’allarme. Il novembre , i Natchez guidati dal Grande Sole di turno attaccarono e distrussero Fort Rosalie. Un numero compreso fra e coloni furono uccisi, e donne e bambini furono presi prigionieri. Gli schiavi africani furono liberati. Di lì a poco, il Governatore Perier annunciava un piano per sterminare – così, verbatim – i Natchez. Oggi, i superstiti sono aggregati alla Nazione dei Muscogee e Cherokee, avendone sottoscritto la Costituzione del . Si appartiene alla Nazione potendo dimostrare discendenza matrilineare – ovvero per via femminile – dalla tribù originaria.
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La stanza del dialogo
di Silvia Vegetti Finzi
L’importanza del rapporto con il padre ◆
Cara Silvia, ti ho incontrata per caso leggendo la Stanza del dialogo a casa di mia mamma, fedele abbonata ad «Azione», e sono rimasto colpito dalla tua saggezza ed è proprio di saggezza che ho bisogno. Ora ti spiego. Mi sono separato da mia moglie quattro anni fa quando il nostro unico figlio, Edoardo, aveva cinque anni. Era un bambino tranquillo, affezionato anche a me, benché per lavoro fossi spesso lontano. La separazione non è stata facile perché mia moglie, che pure l’aveva chiesta, si è mostrata subito intransigente: voleva il figlio, la casa e un’ingente somma di mantenimento. Ed è anche per questo che ho accettato un lavoro ben pagato in Qatar. Telefonavo a casa due volte la settimana ma il bambino si mostrava sempre più insofferente e la nostra conversazione sempre più stentata. Mia moglie, dal canto suo, non faceva nulla per incoraggiare il nostro rapporto e, quando tornavo, trovava mille pretesti per intralciare
i nostri incontri. Nonostante queste difficoltà, mi considero un padre responsabile e, tornato in Svizzera, sto cercando in ogni modo di recuperare il rapporto con mio figlio. Penso che tra poco inizierà l’adolescenza e voglio esserci. Ma come posso convincere mia moglie che non è per ripicca ma per il bene del ragazzo che pretendo di essere accolto? Mi può aiutare, la prego? Luca Caro Luca, prima di «pretendere» meglio chiedere e, se non troverà un accordo amichevole, passare alla mediazione o alle vie legali. In questo momento forse la cosa migliore è ch’io mi rivolga direttamente a sua moglie, una donna che deve essersi sentita abbandonata e che ora dovrebbe essere così generosa da aiutarla a riprendere il suo posto. Ma quale posto? Si tratta di una posizione paterna simbolica e affettiva più che logistica.
E che tuttavia cambia profondamente il preesistente rapporto madre-figlio. Una riorganizzazione dei tempi e dei modi difficile ma auspicabile per sostenere l’evoluzione di Edoardo verso l’età adulta. Cara Signora, credo che lei abbia avuto seri motivi per chiedere la separazione ma ora, anche se il rapporto con suo marito è finito e non siete più marito e moglie, rimanete comunque «genitori per sempre» e di questo occorre tener conto. Edoardo, anni, si sta avvicinando alla delicata transizione dall’infanzia all’adolescenza passando attraverso la pubertà, che comporta un mutamento repentino del sistema ormonale, dell’aspetto fisico e delle emozioni. Se fino a oggi il rapporto con la mamma sembrava bastargli, dal prossimo futuro avrà più che mai bisogno di riferirsi a una figura paterna. Uomini e don-
ne sono pari in dignità e valore ma diversi nel modo di fare, di comunicare, di relazionarsi reciprocamente. Il rapporto col padre può aiutare Edoardo a superare l’originario attaccamento materno, pur conservando con lei una relazione fondamentale e insostituibile. Rassicuri quindi suo figlio che lei non è contraria al fatto che ristabilisca un contatto con padre e cerchi di non ostacolarlo con limitazioni e preoccupazioni. Quanto a lei, caro Luca, l’esperienza mi dice che tra maschi preferite agire piuttosto che parlare. Le confidenze non vi si addicono. Cerchi quindi un terreno comune da condividere con Edoardo: lo sport? il tifo? le passeggiate? gli spettacoli? una buona pizza? Vedete voi. L’importante è che non gli chieda a bruciapelo: «Cos’hai fatto questa settimana?». I ragazzini detestano i resoconti, soprattutto perché
il passato prossimo non lo ricordano più. Meglio parlare di altro: gli hobby, le prossime vacanze; chiedergli se è meglio seguire le lezioni in streaming o in diretta, qual è il compagno preferito e così via. E, rotto il ghiaccio, ascoltarli. Non si tratta comunque di diventare amici. Ho sentito tanti padri dire: «Sono il miglior amico di mio figlio», non ho mai sentito un ragazzo dire: «Sono il miglior amico di mio padre». Anche quando si fanno le cose insieme, la distanza verticale va conservata: a ognuno la sua posizione, a ognuno la sua funzione. Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
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Mode e modi
di Luciana Caglio
Pensione anticipata: obbligo o scelta? ◆
In Svizzera circa la metà dei lavoratori, attivi nei più svariati ambiti professionali, chiede di andare in pensione a anni, e magari prima. È una scelta legittima, sicura, per lo più volontaria, che fa tendenza, e segna addirittura una svolta storica, per un paese che esibiva il proprio stakanovismo, ovviamente in versione democratica: un esempio di benessere e funzionalità, frutto appunto della dedizione dei singoli cittadini, lavoratori accaniti su cui persino si ironizzava. Ora questo modello da imitare sta subendo una smentita che apre interrogativi imbarazzanti. Che ne è deI puntualissimo bancario, dell’imprenditore instancabile, del tecnico innovativo, e via enumerando figure tipiche del Made in Switzerland che cambia connotati generazionali: non è più la prerogativa di anziani, per definizione affidabili. Sempre più spesso, cinquantenni in piena forma
abbandonano gli strumenti e i luoghi di una solida quotidianità per affrontare, invece, l’incognita di un futuro diverso e godibile da inventare. Tutto ciò con il consenso familiare e sociale, persino l’invidia, nei confronti di chi osa voltar pagina. Se, fino a qualche decennio fa, si trattava di stravaganti solitari o di cultori dell’esotismo orientale, adesso, effetto ’, appartengono alla normalità cosiddetta borghese. Del resto, i nostri prepensionati hanno in serbo progetti ragionevoli per un futuro non da sprecare: dedicandosi al volontariato, alla cultura, alla comunità. E, non da ultimo, animati dalla convinzione di contribuire a risolvere il problema dei giovani: via noi, si fa posto a loro. Si tratta di una sostituzione naturale, una sorta di automatismo. In pratica, le cose non vanno sempre così. Sia perché la partenza dell’anziano non è una sua scelta sponta-
nea bensì un calcolo dell’azienda: il neoassunto costa meno. Sia perché lo scarto generazionale si fa sentire in termini contraddittori: il venticinquenne che arriva non sostituisce il cinquantacinquenne che lascia. Semmai, potrebbero completarsi. Ma avviene raramente. In proposito è rivelatore il caso di Federico Rampini, giornalista e saggista di notorietà mondiale, familiare ai lettori di questo settimanale. La sua firma, per decenni abbinata a «Repubblica», compare, da qualche settimana, sul «Corriere della Sera». Nessun mistero né complotto: semplicemente la data di nascita. Anche per Rampini, a anni, è scattato il pensionamento. Giustificato dalla necessità di «far spazio ai giovani». Immediata la sua replica, senza peli sulla lingua: «Una balla colossale: non esiste una possibile sostituzione fra chi ha alle spalle anni d’esperienza e il neoassunto».
Mentre, prosegue, «sarebbe reciprocamente utile, collaborare, scambiarsi punti di vista». E da italo-americano, come gli capita spesso, cita gli USA, dove «più si lavora più si crea ricchezza, per il bene comune». Sono parole che non piaceranno a tutti, anche dalle nostre parti. La Svizzera sembra in vena, o addirittura in balia, di un revisionismo, che rischia di sostituire la retorica della laboriosità, che però funzionava, con quella di un tempo libero, ancora da creare. Un tranello da cui mette in guardia uno specialista in materia, Hans Jürgen Lambrich, responsabile di scienze della comunicazione all’università di Berlino, e autore di un articolo che s’intitola Solo il buon lavoro rende veramente soddisfatti. Insomma una forma di identificazione con ciò che si fa. Che s’impara a scuola, sulla scorta di competenze, non soltanto cognitive ma concrete e condivise,
che implica l’impegno, la costanza, la competizione, termini che, negli ambienti della pedagogia d’avanguardia insospettiscono. Persino l’edificio scolastico dovrebbe contribuire a suscitare piacevolezza, spazi in comune, arredi comodi, che consentono pisolini. È quanto si sta sperimentando in Danimarca e non dispiace a Bellinzona. Questa divagazione architettonica si riallaccia alla cultura, chiamiamola così, del tempo libero, e al prepensionamento sempre più auspicato. Accelerando una scadenza inevitabile. Anzi una sorta di sentenza cha ha stizzito Rampini. Mentre ha reso felici altri e increduli altri ancora, fra cui la sottoscritta. L’annuncio che dovevo pensare a trovare un sostituto, per raggiunti limiti d’età, era accompagnato da un bel mazzo di fiori. Consolatorio ma esplicito: un capitolo che si chiude.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 29 novembre 2021
TEMPO LIBERO Per grandi e piccini La preparazione dei biscotti al miele di bosco è semplice e necessita di pochi ingredienti
L’oro nero austro-ungarico La Galizia ricorda ancora l’epoca in cui il petrolio sgorgava naturalmente dal sottosuolo
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azione – Cooperativa Migros Ticino 17
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Fiori anche autunnali A distinguere le clematidi sono dimensione, colori, e soprattutto il loro periodo di fioritura
Videogiochi Abbiamo provato la nuova console Switch OLED di Nintendo con il divertente Mario Party Superstars
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Sfrecciando a bordo di un siluro sottozero Adrenalina
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Il bob, un tuffo a capofitto lungo un toboga ghiacciato fino a toccare accelerazioni di 5,5 G
Moreno Invernizzi
«Voi siete pazzi. Almeno in Formula la macchina la puoi controllare, qui, invece, si è in tutto e per tutto in balìa del mezzo». È suppergiù questo il pensiero che Michael Schumacher, indimenticabile asso del Circus, aveva esternato subito dopo essersi tolto il casco e aver rimesso piede a terra alla fine del lungo canalone dell’Olympia Bobrun di St. Moritz-Celerina percorso ad alta velocità a bordo di un bob. «Se lo rifarei? No grazie, quattro-ruote sono molto più sicure».
«Come in una caduta incontrollata, in cui puoi solo dare piccoli colpi di freno, e non troppi, per evitare situazioni ancora più pericolose» A tutti gli effetti, il bob può essere definito la Formula degli sport invernali, capace però di regalare emozioni e brividi ancora maggiori rispetto alle quattro ruote. È lo sport più estremo riconosciuto come tale tra le discipline olimpiche. Anche perché quando si scende lungo il canalone ghiacciato con una velocità che tocca i picchi di km/h, le emozioni che si provano ai comandi di un bob sono grossomodo le medesime che si sperimentano al volante di una monoposto su un circuito, ma con dinamiche che vanno pure oltre. Se, a titolo di esempio, in curva nella Formula il corpo del pilota è soggetto a pressioni attorno ai , G (, volte la forza di gravità), nel bob queste possono arrivare addirittura attorno ai , G. Una pressione che va anche ben oltre a quelle a cui sono soggetti gli astronauti al decollo (attorno ai - G)… Ecco allora che la discesa lungo il serpentone di ghiaccio diventa un’avventura da gustarsi tutta d’un fiato, con l’adrenalina che durante un minuto e mezzo scarso di… caduta quasi libera e incontrollata, diventa un’emozione capace di far battere il cuore all’impazzata. Quei circa ottanta secondi si dilatano quasi all’infinito per chi è ai comandi del «siluro» lanciato nel toboga ghiacciato, «come in una caduta incontrollata, dall’inizio alla fine del percorso, in cui puoi solo correggere leggermente la traiettoria e dare piccoli colpi di freno, ma nemmeno troppi, per evitare situazioni ancora più pericolose» spiega Damiano Bregonzio, presidente del Bob Club Svizzera italiana, che ci accompagna in questa vertiginosa discesa di , km. Tanti quanti ne misura appunto l’Olympia Bobrun engadinese, «il tracciato più lungo e dove si raggiungono le velocità più alte dell’intero circuito». Inoltre, quella inaugurata nel , «è anche l’unica pista ancora completamente naturale, cosa che la rende
ancora più unica e avvincente. Generalmente, chi impara qui, ha una marcia in più rispetto a chi effettua le sue prime discese su altri percorsi, come a Innsbruck (Austria) o in Germania, tanto per citare quelli a noi più vicini». Il Bob Club della Svizzera italiana (BCSI) nasce nel , erede diretto del Bob Club Lugano, fondato nel da Mario Albeck ed Elvio Giani (suocero di Bregonzio) attivo fino a fine millennio e che negli anni Novanta grazie ad alcuni suoi esponen-
ti di punta – due nomi su tutti, che per chi mastica un po’ la disciplina da qualche anno non necessitano certo di presentazioni sono Ralph Pichler e Celest Poltera – avevano portato il nome della società (e della Svizzera) alla ribalta internazionale. Parlando del passato e dei nomi che hanno segnato la storia del BCSI e del suo antenato, il BC Lugano, Bregonzio svela poi un’altra chicca: «Oltre ai citati Pichler e Poltera, a effettuare le sue prime discese in pista con i colori del BC Lugano è stato anche nien-
temeno che il Principe di Monaco in persona». La storia del BCSI ricorda per certi versi quella del quartetto giamaicano portato sul grande schermo nel nella simpatica e riuscita commedia Cool Runnings («Quattro sottozero»). Un po’ come Derice Bannock e i suoi compagni di avventura, anche Bregonzio e compagnia hanno iniziato praticamente dal nulla, con materiale reperito un po’ qua e là, cercando di mettere assieme un pezzo dopo l’altro del puzzle. «Quel film, lo trovo ben riuscito e diver-
tente, al punto che me lo sarò rivisto un’abbondante decina di volte; pure noi abbiamo dovuto fare i conti con i costi non indifferenti del materiale necessario per poterci lanciare nel toboga ghiacciato, basti pensare che per poter disporre di un bob a due vagamente competitivo a livello internazionale si devono mettere a preventivo almeno -mila franchi, a cui va poi aggiunto il costo per un treno di pattini (che, sempre nel parallelo col Circus, sono un po’ come le gomme delle vetture di F, e dunque la scelta di quale tipo impiegare è subordinata alle caratteristiche della pista nonché dalle condizioni ambientali), che può variare dai due-tremila franchi fino agli ottomila (cifre che praticamente si raddoppiano per un bob a quattro). Insomma, non è stato facile far quadrare i conti, ma grazie alla generosità di sostenitori e sponsor, siamo riusciti a coronare il nostro sogno. A guidarci è stata in particolare la voglia di rimettere in piedi una società che offrisse a tutti gli interessati della Svizzera italiana il brivido di questo sport, dopo averlo provato in prima persona». Missione ampiamente riuscita, se si considera che a oggi è una delle società più importanti a livello nazionale, con un occhio di riguardo in particolare ai giovani che vogliono lanciarsi in questa disciplina. Date le pressioni con cui si è confrontati, per praticare il bob ci vuole dunque fisico. Non a caso tutti i frenatori hanno una massa muscolare piuttosto evidente, e spesso capita che chi approda ai massimi livelli in questa disciplina, alle sue spalle abbia un passato da atleta, in particolare da decatleta. «Oggi, grazie anche al monobob, introdotto per la prima volta proprio a St. Moritz, ci si può avvicinare già dai - anni, mentre prima non lo si faceva prima dei - anni, se non oltre. Ecco perché molti si sedevano ai comandi di un bob dopo essere passati da altri sport». Poi, però, chi si mette ai comandi di un bob, ben difficilmente li lascia tanto presto: «Il per cento delle persone che provano per la prima volta l’ebbrezza di una discesa lungo il canalone ghiacciato si dice entusiasta e pronto a rifarlo. E, soprattutto, è uno sport che non ha limiti di età, se si pensa che in Svizzera c’è chi ha già superato i settant’anni e ancora lo pratica». E non è nemmeno uno sport che si coniuga solo al maschile, nemmeno in casa BCSI. «Da diversi anni il bob presenta gare internazionali maschili e femminili. Se in campo maschile il nostro elemento di punta è Cédric Follador, impegnato in Coppa Europa, sul fronte femminile il nostro fiore all’occhiello è Giada Battaini, che dopo un paio di anni da frenatrice, si sta formando da pilota».
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TEMPO LIBERO
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2. Avvolgete la pasta nella pellicola e mettetela in frigo per almeno 30 minuti. 3. Scaldate il forno a 200 °C. Spianate la pasta, poco alla volta, tra due fogli di carta da forno in una sfoglia di circa 5 mm di spessore. Ritagliate varie forme. 4. Disponete i biscotti su teglie rivestite di carta da forno e cuocete una teglia dopo l’altra al centro del forno per 4-6 minuti. 5. Lasciate raffreddare su una griglia. A piacere, guarnite con glassa di zucchero a velo o decorazioni di zucchero. Per la glassa, mescolate con uno sbattitore elettrico, alla velocità minima, per 3 minuti: 100 g di zucchero a velo con 1 albume e mezzo (fresco) e circa 1 cucchiaino di succo di limone. Decorate i biscotti usando una tasca da pasticciere o un pennello. In un luogo fresco, i biscotti al miele di bosco si conservano in una scatola da biscotti per circa 3 settimane. I biscotti sviluppano appieno il loro aroma dal secondo giorno dopo la cottura. Preparazione: circa 50 minuti. Refrigerazione: almeno 30 minuti. Per pezzo: circa 2 g di proteine, 4 g di grassi, 9 g di carboidrati, 80 kcal/350 kJ.
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TEMPO LIBERO
Petrolio!
Reportage ◆ A un secolo e mezzo dalla corsa all’oro nero che segnò la fortuna della Galizia c’è ancora qualche pozzo attivo a ricordare quell’incredibile epoca pionieristica Danilo Elia, testo e foto
Sabato mattina la piazza della città vecchia di Przemyśl è affollata. La festa di san Vincenzo è un evento: i bambini corrono sul selciato lucido tra i chioschi di caramelle, gli uomini misurano lo scorrere del tempo con un boccale di birra e le donne chiacchierano in piccoli gruppi vocianti. Alcune di loro indossano abiti d’epoca, con corsetti e cappelli piumati. Sono vestiti che raccontano una ricchezza d’altri tempi, quando all’inizio del Novecento un fiume di denaro inaspettato inondò la regione.
Con la caduta del Muro di Berlino e l’apertura della Polonia all’Occidente i campi petroliferi furono abbandonati La Galizia, oggi divisa tra Polonia e Ucraina, era allora l’estrema periferia orientale dell’impero austro-ungarico. Il petrolio spillava naturalmente dal sottosuolo, la terra ne era letteralmente imbevuta. Gli abitanti del posto erano abituati a quelle strane pozzanghere di liquido nero nei boschi; era denso e s’infiammava. Nessuno però fino alla metà dell’Ottocento aveva mai immaginato che ogni goccia di quel fluido si sarebbe trasformata di lì a poco in denaro sonante. Ci vollero la scienza di un farmacista di Leopoli, Ignacy Łukasiewicz, e l’intraprendenza di un imprenditore canadese, William Henry McGarvey, per dare il via alla più grande corsa all’oro nero della storia d’Europa. «Cent’anni fa qui era un viavai di petrolieri, alti ufficiali, spie e avventurieri in cerca di fortuna» mi dice una delle donne, avvolgendo con un gesto del braccio inguantato di pizzo la piazza del paese. Sembra rimpiangere quel tempo. La Przemyśl odierna è una polverosa cittadina di provincia ai piedi dei Carpazi. Le vetrine dei negozi con le insegne dipinte a mano e le pubblicità kitsch dei fast food stridono con le facciate color pastello degli edifici più opulenti. Cos’è rimasto di quel mondo fatto di pozzi, torri di trivellazione, pompe, raffinerie, oleodotti e ferrovie che fece della Galizia il quarto produttore di petrolio al mondo? «Sanok, devi andare a Sanok», è stata la risposta. La strada che da Przemyśl porta a Sanok si srotola dolcemente dalle alture dei Precarpazi verso il corso del fiume San. In rete ho trovato qualche informazione sulla posizione dei vecchi pozzi ormai abbandonati. Prima che McGarvey, l’uomo d’affari canadese, fondasse nel la Galician-Karpathian Petroleum Company, i cacciatori d’oro nero raccoglievano l’«olio di roccia» direttamente dalle pozze naturali, con i secchi. Agli inizi il suo uso era limitato al proficuo mercato delle lampade a kerosene, inventate dal farmacista Łukasiewicz. Ma già nel , l’intera produzione della regione superò i tredici milioni di barili, il quattro per cento di quella mondiale. Il primo punto sulla mappa mi porta in mezzo ai cortili di alcune case alla periferia di Sanok. L’erba è tagliata di fresco, ci sono dei giochi per bambini. L’uomo a torso nudo che si affaccia al balcone scuote la testa: «Non c’è più niente qua, da tanto tempo. Di là c’è il fiume, dall’altra parte c’è qualcosa. Ma devi andare fi-
no a Krosno». Proprio dove indica il mio secondo punto GPS. Durante la Grande guerra fu la Galizia a fornire all’esercito il petrolio di cui aveva bisogno. Il fronte orientale fu però presto perso, così come le immense fortune accumulate da McGarvey. Sotto la nuova Polonia indipendente la produzione crollò a meno della metà. Si avviarono nuove prospezioni, ma durò comunque poco; un altro conflitto mondiale era alle porte e nel i nazisti invasero il Paese. Quando nel secondo
dopoguerra la Polonia entrò nell’orbita sovietica le compagnie petrolifere furono nazionalizzate. L’epoca pionieristica dell’oro nero della Galizia era finita. L’industria di Stato creò a Krosno stabilimenti e raffinerie, ma sorsero anche una scuola e un istituto superiore per tecnici petroliferi. Ancora oggi, passeggiando per le sue strade, s’incontrano una via Naftowa, un hotel Nafta, un ristorante Naftaya; e un tempo c’era anche il giornale Nafta. Passando davanti alla scuola
Naftowka (ovviamente), in un campo incolto al lato della via scorgo un mucchio di vecchi macchinari arrugginiti. Ma sono solo attrezzi agricoli lasciati lì a marcire. Chiedo a dei passanti, nessuno sa niente. Finché una signora che parla qualche parola di italiano mi dice che lì hanno smantellato tutto. «Bóbrka, devi andare a Bóbrka», mi incita. Con la caduta del Muro di Berlino e l’apertura della Polonia all’Occidente i campi petroliferi furono abbandonati. Le strutture di legno marcirono, quelle di ferro arrugginirono. I giacimenti si andarono esaurendo, le tecniche di estrazione si fecero più raffinate, gli investimenti si spostarono sulle piattaforme offshore. Le nuove regole ambientali hanno poi imposto di disfarsi dei resti di un’industria che ha fatto il suo tempo; alcuni macchinari sono finiti in un museo all’aria aperta. Eppure, penso, qualcosa ancora dev’essere rimasto. Ho un ultimo punto GPS segnato, è proprio vicino a Bóbrka. È lì che tutto ha avuto inizio, con il primo pozzo della storia, quello scavato da Łukasiewicz nel . La strada che scende per i boschi da Krosno si fa via via più stretta. Un bivio è segnalato con una specie di grosso pignone rug-
ginoso, una vecchia rete corre lungo il ciglio. A un incrocio un pozzo a bilanciere langue tra le sterpaglie e rottami di ferro. Mi guardo attorno e tra i pini e i faggi scorgo altri pozzi; alcuni sono esili cavalletti alti non più di quattro metri, sembrano miniature. Da dietro una baracca spunta un uomo; è incuriosito dalla mia curiosità. «Sono gli ultimi rimasti di quelli di un tempo. Prima o poi smantelleranno anche questi e resteranno solo quelli in funzione; almeno finché qui sotto ci sarà ancora greggio». Non afferro all’istante. Mi sta dicendo che ci sono dei pozzi che ancora succhiano petrolio, proprio qui a Bóbrka, a distanza di un secolo e mezzo? «Certo, ce n’è uno proprio qua vicino», mi spiega. Lo guardo meglio. Indossa una maglietta della compagnia petrolifera polacca; sa di cosa sta parlando. Mi fa cenno di seguirlo per un sentiero, va dritto nel bosco. Saltiamo un tronco caduto ricoperto di muschio, mi mette una mano sulla spalla e indica davanti a noi, tra le fronde. «Eccolo lì, lo vedi? Sta pompando». Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica
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Anno LXXXIV 29 novembre 2021
azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO
Giocare con la matematica Enigmi
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Un divertimento basato sull’antinomia, ovvero la contraddittorietà degli enunciati su cui si basa un’affermazione
congruente corrisponde a un’autentica antinomia o se, più semplicemente, scaturisce da un’errata dimostrazione. La ricerca in questo campo costituisce indubbiamente un coinvolgente tema enigmatico: accalora e appassiona i cultori della materia. Naturalmente, è necessario possedere una pacata mente logica (mai accorata) per riuscire a ottenere qualche risultato significativo; ma chiunque, una volta accertato ciò, ama l’enigma con cui ha deciso di confrontarsi. A tale proposito, vorrei sottolineare che neppure una proposizione come la seguente può essere considerata un’antinomia, anche se apparentemente sembrerebbe esserlo: «Nel testo di questo articolo, è nascosto almeno un anagramma della frase: Giocare con la matematica e le due affermazioni di questa proposizione sono entrambe false». Infatti, la falsità della seconda affermazione («le affermazioni di questa proposizione sono entrambe false») non implica necessariamente la sua negazione totale («le affermazioni di questa proposizione sono entrambe vere»), ma ammette anche un’interpretazione intermedia («è falsa una sola affermazione di questa proposizione»). Quindi, se consideriamo falsa solo la seconda affermazione, possiamo tranquillamente ritenere vera la prima («Nel testo di questo articolo, è nasco-
sto almeno un anagramma della frase: Giocare con la matematica»). Ora, volendo verificare se, effettivamente, nel corpo di questo articolo c’è l’anagramma citato; cioè, se vi siete imbattuti in una tragica calamità ludo-linguistica (o c’è calamità meno tragica?), siete costretti a rileggere tutto questo testo e analizzarlo con molta attenzione.
Comunque, se amate l’enigma accorciato, posso dirvi che di anagrammi in questione ne ho nascosti solo sette… Tenete presente, però,
che in tale operazione di dissimulazione, ho sempre cercato di rispettare una sintassi logicamente marcata. Ciao!
Soluzione I sette anagrammi disseminati nel testo, nell’ordine, sono: «tema enigmatico: accalora» – «mente logica (mai accorata)» – «accertato ciò, ama l’enigma» – «c’è l’anagramma citato; cioè» – «o c’è calamità meno tragica?» – «amate l’enigma accorciato» – «logicamente marcata. Ciao!».
Come ho affermato in uno dei primi articoli pubblicati in queste pagine, una proposizione contraddittoria (che non può essere ritenuta né vera né falsa), in Matematica viene detta: antinomia. Un classico esempio al riguardo può essere espresso nel seguente modo: «Questo enunciato afferma il falso»; infatti: – se, effettivamente, l’enunciato afferma il falso, allora la frase «afferma il falso» non è vera e, di conseguenza, l’enunciato afferma il vero; – se, invece, l’enunciato afferma il vero, allora la frase «afferma il falso» è vera e, di conseguenza, l’enunciato afferma il falso… E così via, all’infinito, senza possibilità di venirne a capo. La presenza di un’antinomia in una teoria matematica, denuncia l’inconsistenza delle ipotesi su cui essa si basa. Proprio facendo ricorso a un particolare genere di antinomia, il filosofo e logico britannico, Bertrand Russel, riuscì a dimostrare la fragilità della Teoria ingenua degli insiemi. Come si può constatare, però, non tutte le proposizioni contraddittorie costituiscono delle vere e proprie antinomie. Ad esempio, un’affermazione del genere: «Mangiare il catrame è ottimo!», corrisponde solo a una dichiarazione assurda (e disgustosa…). In assoluto, non è sempre semplice stabilire se una proposizione in-
Pixnio
Ennio Peres
Le ricche clematidi d’autunno Mondoverde
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Alte dai due agli otto metri, quelle a fioritura tardiva ricoprono anche intere pareti con colori accesi
Se è vero che la primavera regala fioriture da togliere il respiro, l’autunno non è da meno. Un esempio su tutti, ma certamente non unico, è dato dalle clematidi a fioritura tardiva; spettacolari piante che troppo spesso non sono utilizzate da giardinieri e paesaggisti, ma che una volta scoperte da chi ama il mondo verde difficilmente verranno dimenticate. Piante con fusto sottile composto da liane, le clematidi crescono bene se viene rispettata la regola che recita «testa al sole e piede all’ombra» ovvero ama avere i primi venti-trenta centimetri del fusto e del colletto in posizione ombrosa, schermata da un basso arbusto sempreverde, da un sasso o da una mezza tegola, mentre il resto della vegetazione si allungherà e porterà ricchi fiori se lasciata in pieno sole, libera di arrampicarsi su tralci o fili. Le clematidi si suddividono all’interno del loro gruppo per varie classificazioni: in base alla dimensione, alcune rimangono contenute in due metri di altezza, mentre altre superano i sette-otto metri; in base
al periodo di fioritura. Ebbene, se ne avete la possibilità, è molto scenografico coltivare insieme, lungo pareti da decorare, una serie di clematidi primaverili, una di clematidi estive e una terza di varietà autunnali. Si possono, infine, classificare anche a dipendenza della consistenza del loro fusto. In questo caso potremmo trovare sia le erbacee, che durante l’inverno spariscono completamente, oppure le semi-erbacee, sino ad arrivare alle legnose, spoglie durante i mesi freddi ma con il fusto ben visibile. Tra le erbacee a fioritura tardiva di sicuro interesse è la Clematis integrifolia con la varietà «Alba» che vanta fiori a campanella bianca ma sfumati di azzurro, oppure l’«Alba Plena» con i suoi grossi fiori di otto-dieci centimetri di diametro e dal centro sfumato di verde; la «Rosea» dai toni porpora, o la sorprendente Clematis heracleifolia «Cote d’Azur», una cultivar con fiorellini celesti. Appartenenti al gruppo delle semi-legnose ecco invece la vigorosa
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Anita Negretti
cultivar «Princess Diana» con fusti che raggiungono i due metri e mezzo e fiori rossi; pianta bellissima soprattutto quando viene avvicinata a
una «The Scarlet Lady», che sfoggia fiori simili a lanterne ancora chiuse, o una «Duchess of Albany», rosa, con petali striati al centro di un to-
no più scuro e che non si aprono mai completamente. Non avete a disposizione un giardino ma non volete rinunciare alla coltivazione di una di queste piante? Cercate «Arabella». Ottima per la vita in vaso con l’ausilio di un graticciato, è stata creata negli anni Novanta in un vivaio inglese: raggiunge l’altezza massima di un metro, ha fiori azzurri e ha un’ottima resistenza al freddo. Se invece preferite avere intorno una pianta più vigorosa, vi consiglio di cercare nel gruppo delle legnose, che presentano tralci completamente lignificati, come «Blue Angel», lilla rosato, oppure la «Comtesse de Bouchaud», con fiori rosa malva con tralci di tre metri di altezza, molto resistente e in commercio fin dagli inizi del Novecento. Per chiudere in bellezza, nel vero senso del termine, devo giocoforza presentarvi la Clematis Jackmanii «Superba»: con i suoi quattro petali viola intenso e il centro verde, è in grado di coprire velocemente ampi muri. Annuncio pubblicitario
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Se il divertimento è per tutta la famiglia Videogiochi
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La nuova console Nintendo Switch OLED e lo spensierato Mario Party Superstars
Il binomio autunno e videogiochi è oramai una tradizione consolidata. Un periodo propizio all’immissione sul mercato di novità stuzzicanti in vista delle festività natalizie, con la volontà, da parte di tante compagnie, di assicurarsi un posto sotto l’albero di Natale. Tra i contendenti più agguerriti troviamo ovviamente anche Nintendo. L’azienda giapponese si ritrova in una situazione indubbiamente favorevole, con la recente uscita del nuovo modello di console ibrida Switch, arrivata nei negozi svizzeri nella variante OLED e di alcuni giochi molto interessanti per tutta la famiglia come Mario Party Superstars. Iniziamo dalla nuova versione di Nintendo Switch. Si tratta della terza revisione della popolarissima console da gioco ibrida lanciata originariamente nel che va ad affiancare il modello originale e il modello lite. La particolarità di Switch è che può essere usata tanto in movimento, quindi come console portatile, quanto a casa tramite una speciale docking station collegata al PC. Il giocatore in questo modo non deve più porsi il dilemma di scegliere se acquistare una piattaforma solo mobile o solo casalinga come in passato: per aiutarlo, Nintendo ha preferito puntare su una soluzione unica. L’enorme successo ottenuto sia commercialmente che dalla critica ha dimostrato che le scelte di Nintendo sono state decisamente vincenti, specialmente dopo la débâcle di Wii U.
Switch OLED, come ne suggerisce il nome, la nuova variante impiega un nuovo schermo basato sulla tecnologia degli schermi OLED. Neri più profondi, colori brillanti e una dimensione maggiore, da . a pollici pur mantenendo le stesse dimensioni fisiche della scocca. Il nuovo schermo non è solo più luminoso ma offre anche un contrasto migliore e una visibilità migliore in situazioni di forte illuminazione, come ad esempio se scegliamo di giocare all’esterno in una giornata soleggiata. Il nuovo modello di console è un’evoluzione più che una rivoluzione, accontentandosi di cambiare alcuni dettagli e migliorando aspetti specifici dell’esperienza. Oltre al nuovo schermo, che è davvero magnifico, troviamo un sostegno ridisegnato, che questa volta permette di posizionare la console in verticale in modo sicuro, senza rischio di vederla cadere a faccia in giù. Troviamo poi una porta di rete aggiunta nella dock della console per un collegamento cablato ad internet. Si tratta di una novità forse non per tutti, visto che generalmente il collegamento senza fili funziona in modo affidabile. Tuttavia, molti fan dei tornei competitivi saranno felici di eliminare qualsiasi eventuale fonte di disturbo. Troviamo poi il doppio di memoria integrata, GB al posto di GB, per scaricare e salvare giochi dal cloud. Switch OLED è un ottimo prodotto, specialmente per chi non ha
© Nintendo of Europe
Davide Canavesi
mai acquistato una Switch prima d’ora. Ma è difficile consigliarla a chi possiede già uno dei modelli precedenti, visto che non offre né più potenza né grafica migliorata. Per mesi si è parlato di un modello più performante ma le voci di corridoio non si sono realizzate. Una console non è nulla senza i giochi. Una delle ultime novità per Switch è l’uscita in queste settimane di Mario Party Superstars: un nuovo capitolo nella longeva (e spassosa) serie di giochi da farsi in compagnia. Il concetto di Mario Party è semplice; si tratta di una trasposizione videoludica del gioco dell’oca. Una volta
Giochi e passatempi Cruciverba
Il Mar Caspio è chiamato mare perché è… Completa la frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 2, 4, 6, 3, 6, 2, 5)
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Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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tre, sfide sportive e rompicapi, ce n’è per tutti i gusti. Non esiteremmo a definire questo Superstars una raccolta antologica che non si accontenta di riproporre le glorie del passato ma le migliora, aggiornandone l’aspetto visivo per il . Mario Party Superstars è visivamente quanto di più cartoonesco e piacevole possibile. Tecnicamente non è un capolavoro che punta a ridefinire gli standard; tutto è strumentale per offrire l’esperienza più spensierata e immediata possibile. In questo eccelle, offrendo tanto divertimento per tutta la famiglia, specialmente in un pomeriggio invernale noioso.
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scelto uno dei tabelloni su cui competere, dovremo far avanzare il nostro personaggio lungo il percorso raccogliendo stelle e potenziamenti e allo stesso tempo sfidando gli altri giocatori ad oltre cento minigiochi. È possibile giocare assieme sulla stessa TV, condividendo i controller, usando più console via connessione locale oppure via internet. La scelta più ovvia e divertente è comunque quella di giocare assieme. Superstars offre una enorme collezione di giochi e ambientazioni iconiche tratte dalle edizioni passate. Per quanto riguarda i giochi, sono quasi tutti spassosi e spesso davvero fantasiosi: sfide in coppia, sfide a
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ORIZZONTALI 1. L’attore Cosby 4. Un mese 9. Non cambia se letta al contrario 10. Prefisso che vuol dire orecchio 11. Prodotto Interno Lordo 12. Due in aula 13. Possono essere di terrore o di gioia 15. Sì e no 16. Un numero 18. Nome maschile 20. Vanno in cerca di alibi
21. Il cantante Minghi 22. Spiazzo per polli 23. Isola in francese 24. Spesso fa coppia con «se» 25. Bagna Bristol 26. Il famoso Cary attore 27. I beni dello Stato VERTICALI 1. Albero... tedesco 2. Regione storica occidentale della penisola balcanica 3. Nota musicale 4. Cibele lo mutò in pino 5. Diletto, piacere
6. Le iniziali di Pellico 7. Lattina inglese 8. Il suo ramoscello simboleggia la pace 10. Monete svedesi 13. Pronome personale 14. Le nonne di una volta 17. Prima moglie di Giacobbe 19. Stanno in coda 21. Li lasciano le macchie 22. In mezzo... a Londra 23. Fu un terribile zar 25. Pappagallo americano 26. Le iniziali dell’opinionista Mughini
Soluzione della settimana precedente In libreria ho visto un libro intitolato: Come risolvere il 50% dei tuoi problemi… Resto della frase: «…CI HO PENSATO E NE HO PRESI DUE». C E T R A C H I C
I N N I E O N T A R E O R E O N
G H I A E I N L L T L E R I V I A R A T L I S I I M I N E D F U O
O P O R S A G S O I G I G O R O I L O P R E S E A R S N I V I E
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 29 novembre 2021
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Le contraddizioni indiane Sguardo sul Paese protagonista in negativo della Cop26, la conferenza sul clima di Glasgow
Peng Shuai e l’Occidente C’è chi, per interesse, chiude un occhio sul caso della tennista scomparsa in Cina
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Il mondo tra una generazione Uno sguardo in avanti tra lotta Usa-Cina, frammentazione dell’Europa e migrazioni
Lukashenko l’opportunista La strategia dell’ultimo dittatore d’Europa che guarda un poco a est e un poco a ovest
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La matematica dei contagi
Pandemia ◆ I numeri del Coronavirus seguono curve esponenziali. Cerchiamo di spiegare la semplice logica che disegna questi grafici per capire i processi coinvolti (e per non farci sorprendere tutte le volte) Daniele Besomi
SVIZZERA: casi giornalieri, media mobile, interpolante esponenziale Dal 15 ottobre al 25 novembre, e proiezione al 10 dicembre 14000 13000 12000
Casi CH, quarta ondata Quarta ondata (ottobre), media mobile Quarta ondata (novembre), media mobile Espon. (Quarta ondata, novembre, media mobile)
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Nel un gentiluomo inglese si fece mandare in Australia conigli selvatici europei che lasciò liberi a scopi venatori. I conigli producono nidiate all’anno di - cuccioli per volta, iniziano ad accoppiarsi già all’età di qualche mese, così che la popolazione può crescere molto velocemente. Più conigli ci sono, più conigli si aggiungono. In meno di anni hanno invaso l’intero Continente, costituendo una minaccia per l’agricoltura, per la biodiversità e per la stabilità del suolo. Una caratteristica di processi come questo è che crescono (o, viceversa, decadono) tanto rapidamente da sfuggire ben presto al controllo; e la crescita è tanto lenta al principio ma rapida oltre un certo punto da cogliere gli osservatori di sorpresa. La diffusione dei contagi del Coronavirus Sars-Cov- segue esattamente la medesima logica, che è facilmente esprimibile in termini matematici. Quando il virus entra in un organismo inizia a replicarsi, raggiungendo cifre dell’ordine delle decine di miliardi di copie. Quando ce ne sono abbastanza, vengono espulsi dall’organismo tramite la respirazione o in misura ancora maggiore con colpi di tosse. La diffusione del virus dipende dunque ) dal tempo che impiega a raggiungere un numero di copie sufficiente da essere espulso, e ) da quanto facilmente riesce ad «agganciare» il prossimo ospite: questi sono i due parametri che ci interessano. Il primo, il tempo di «gestazione» per così dire (pensiamo ai conigli che si riproducono), è mediamente di giorni. Il secondo è l’ormai famoso numero di riproduzione R, che indica il numero di persone mediamente infettate da ciascun malato. In realtà, nel caso di alcuni virus – tra cui il Sars-Cov- – c’è un terzo fattore importante: non tutti gli individui infetti sono contagiosi, mentre pochi casi (circa %) sono responsabili della maggior parte (%) dei contagi. Tuttavia per semplicità qui possiamo ignorare questo aspetto. Il numero R dipende da diversi fattori. Il primo è una caratteristica di ciascun virus: se lo lasciamo libero di scorrazzare in una popolazione che non ha mai avuto nessun contatto con esso, e dunque è assolutamente impreparata ad affrontarlo, i virus si comportano come i conigli appena arrivati in Australia: c’è cibo in abbondanza e facilmente accessibile, la loro unica preoccupazione è quella di riprodursi, e il loro successo dipende dalla capacità riproduttiva (numero di riproduzione di base, R). Nel caso del Coronavirus nato a Wuhan, R è stato stimato a circa .: ogni paziente, in media, ne infetta . altri. Per la variante Delta la stima media è di ., quindi quasi il doppio. Ciò nonostante, il Sars-Cov- non è tra le malattie più contagiose al
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y = 625.340e0.056x R² = 0.996
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GIORNI TRASCORSI DAL 15 OTTOBRE 2021 Il grafico riporta i dati dei nuovi casi Covid annunciati giornalmente. Poiché sono soggetti a forti e regolari fluttuazioni settimanali, si riporta anche la media mobile su 7 giorni, ciascun punto dei quali è la media dei valori della settimana precedente. Questa curva è divisa in due parti: l’inizio della salita durante ottobre, e la salita accelerata di novembre. Infine, la linea tratteggiata riporta la linea di tendenza della media mobile di novembre. Sono indicate anche la sua equazione, e il numero R² che indica la bontà dell’interpolazione; come si vede, questa è notevole (99.6%).
mondo: R del morbillo, per esempio, è stimato tra e . Ma a noi ormai non interessa più il numero di riproduzione di base, bensì quello effettivo. Il virus non è più libero di circolare, perché gli poniamo una serie di ostacoli: distanziamento sociale, mascherine, disinfezione delle mani, isolamenti e quarantene, vaccini e altre misure gli rendono la vita più difficile; l’inverno, invece, concentrando la gente in spazi chiusi lo favorisce rispetto all’estate. Il successo riproduttivo del virus dipende dunque non solo dalle sue caratteristiche intrinseche, ma anche da tutte queste circostanze. Ora (metà novembre) il tasso effettivo di riproduzione Re per la Svizzera è stimato a .. Questo numero cambia nel tempo (sta crescendo giorno dopo giorno), a seconda delle misure implementate e di quanto esse sono effettivamente seguite dalla popolazione ma anche del fatto che, a furia di contagiare persone di fatto immunizzandole almeno per qualche tempo, il virus riduce con la sua stessa azione la popolazione suscettibile. Come si traduce questo Re, assumendo che rimanga
costante per qualche tempo, nella crescita dei contagi che siamo vedendo? Partiamo da contagi avvenuti oggi. Queste persone saranno contagiose fra giorni, e ne infetteranno altre . ciascuna, per un totale di ( x .). Questi diventeranno a loro volta contagiosi dopo altri giorni, generando casi x . = casi. Dopo altri giorni, avremo x . = casi, e così via. Dunque: dopo giorni i casi sono più che raddoppiati. Qual è la regola matematica? Siamo partiti da , abbiamo moltiplicato per ., poi abbiamo moltiplicato il risultato ancora per ., e poi un’altra volta. L’operazione di moltiplicare lo stesso numero (.) per se stesso un certo numero di volte si chiama elevamento a potenza; il numero di volte per cui è moltiplicato si chiama esponente. L’esponente dipende dal tempo che passa (ogni giorni). Otteniamo quella che si chiama una curva esponenziale, che dipende dal numero iniziale di nuovi casi, dal numero effettivo di riproduzione, e dal numero di giorni necessari perché il paziente sia a sua volta infettivo:
dove x è il numero di giorni necessari perché il paziente sia a sua volta infettivo: y= · . .x, dove x è il numero di giorni trascorsi dall'inizio del processo. Qui il numero di riproduzione ha un ruolo di controllo cruciale. Se il numero Re fosse = , potremmo moltiplicarlo per se stesso quante volte vogliamo, ma continuerà a rimanere = . In tal caso, dunque, il numero di nuovo contagi non cambierebbe. Se Re è maggiore di , più si moltiplica tanto maggiore diventa il risultato. Avremmo dunque una curva esponenziale crescente. Se invece Re fosse minore di , più lo moltiplichiamo per se stesso tanto più piccolo diventa il risultato. La curva dei contagi, dunque, scenderebbe esponenzialmente. Queste curve esponenziali hanno diverse caratteristiche interessanti. La prima sta nella loro forma: relativamente piatta all’inizio, poi via via più ripida, e, a partire da un certo punto, estremamente ripida. «Esponenziale», dunque, non significa «rapido», anche se spesso è inteso in questo senso. La crescita di un capitale depositato in
banca, per esempio, è esponenziale ma non è certo velocissima. Esponenziale significa che segue una curva esponenziale, che può essere più o meno ripida a seconda dei parametri in gioco; può anche essere discendente, come per esempio la curva che esprime il decadimento radioattivo. Il cambiamento di pendenza, comunque, è quanto coglie di sorpresa chi non è preparato – e in effetti si vede dai titoli sgomenti dei media che riportano i casi. La seconda caratteristica è che il tempo di raddoppio è costante: per passare da a casi ci vuole il medesimo tempo necessario per passare da a ’ casi. Con i valori attuali per la Svizzera, il tempo di raddoppio è di giorni, come si vede dal grafico che riporta i valori registrati in Svizzera da metà ottobre e una proiezione dello sviluppo fino al ., nell’ipotesi che non diventino effettive altre restrizioni. Questo è forse il fattore che contribuisce maggiormente alla sorpresa: il cambiamento di pendenza è un fattore matematico, ma è coinvolto anche un fattore psicologico legato dall’aver avuto giorni di tempo per abituarsi all’idea di passare da a contagi ( in più), per vedere poi passare i contagi da a mila ( in più) nel medesimo tempo. Un altro fattore che alcuni faticano a comprendere è legato ai ritardi di reazione. La curva dei contagi è strettamente legata a quella delle ospedalizzazioni e dei morti: se è vero che il progresso medico in questi due anni, unitamente alla protezione conferita dai vaccini, ha contribuito a ridurre la percentuale di ospedalizzazioni e di morti, nel breve periodo questa percentuale è approssimativamente costante. Se nel corso di giorni il numero di casi si moltiplica di ( raddoppi, uno ogni giorni), possiamo aspettarci che il numero di ospedalizzati e di morti cresca in proporzione simile. Ma con un po’ di ritardo: circa giorni per le ospedalizzazioni, - settimane per i morti (dunque, i morti di oggi vanno confrontati coi casi di - settimane fa, non quelli di oggi). Con i ritmi di crescita che mostra la curva effettiva, e considerando che in ospedale ci si resta per parecchi giorni, è inevitabile che si raggiunga molto presto la piena capacità. Il fattore cruciale nella gestione della pandemia è allora il controllo del numero di persone che ciascun infetto può contagiare. Le restrizioni di oggi non sono sufficienti, visto che Re è ben maggiore di . Piaccia o meno, saranno presto necessari interventi drastici. E il «presto» sarà comunque troppo tardi, perché i ritardi che già abbiamo cumulato hanno lasciato margine ad un numero enorme di malati i cui virus sono già pronti a infettare qualcun altro.
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ATTUALITÀ
Quell’ideale di sviluppo senza limiti India
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Le contraddizioni di un Paese protagonista in negativo della Cop26, la conferenza di Glasgow sui cambiamenti climatici
Rinunciare al carbone? No, al massimo ne riduciamo il consumo. Così l’India, facendosi capofila del mondo in via di sviluppo, ha imposto la sua visione alla Cop, la recente conferenza di Glasgow sui cambiamenti climatici. «È stata un successo», ha dichiarato un trionfante Bhupender Yadav. «Sono profondamente dispiaciuto», ha detto frenando le lacrime Alok Sharma. Yadav parlava come capo della delegazione indiana, Sharma, deputato britannico anche lui di origine indiana, come presidente della conferenza. Quelle parole così discordanti esprimono come meglio non si potrebbe l’abisso che separa in materia di clima l’Occidente industriale dal resto del mondo. È stata proprio l’India a proporre all’ultimo minuto una modifica lessicale al documento conclusivo, in forza della quale l’impegno richiesto alla comunità internazionale non è più quello di eliminare l’uso del carbone, sia pure gradualmente, ma soltanto di limitarlo.
Rinunciare al carbone? No, al massimo ne riduciamo il consumo. Così l’India, facendosi capofila del mondo in via di sviluppo Il successo vantato da Yadav è racchiuso in quella correzione: phase down al posto di phase out, come recitava la bozza originaria. Fra le delegazioni prostrate dalla lunga maratona negoziale si potevano registrare il convinto appoggio cinese alla proposta indiana, l’acquiescenza dell’altro massimo inquinatore, gli Stati uniti, la disperazione dei Paesi insulari ormai con l’acqua alla gola, la rassegnazione dei più. Il colpo finale di Yadav è giunto inaspettato, peggiorando la posizione illustrata dal primo ministro Narendra Modi che aveva garantito l’adesione indiana all’impegno di limitazione delle emissioni previsto dall’accordo di Parigi del , ma rinviandone la conclusione fino al . Ecco dunque l’India protagonista in negativo della conferenza, che secondo la retorica imposta dalle buone maniere diplomatiche avrebbe comunque prodotto un «accordo storico», ma che i climatologi e la piazza vociferante che si raccoglie attorno a Greta Thunberg qualificano come un fiasco totale. A causa di quell’intesa
annacquata il mondo ambientalista costringe l’India sul banco degli accusati. Come reagisce all’accusa? Ecco di nuovo le parole di Yadav, che a New Delhi svolge il ruolo di ministro dell’Ambiente: «Il mondo deve convincersi che l’attuale crisi climatica è precipitata a causa degli insostenibili stili di vita e dei modelli di consumo dei Paesi sviluppati». È difficile dargli torto, ma gli indici che misurano il surriscaldamento del pianeta puntano ormai verso il disastro. Ci si può forse arrendere per una questione di principio? Del resto l’India è intessuta di contraddizioni. A cominciare da quella che contraddistinse la sua nascita come Paese indipendente: la divisione su base religiosa della colonia britannica, la fuga degli indù e dei musulmani dalle aree a popolazione mista, una duplica diaspora e un bagno di sangue, le contestazioni di frontiera fra i due Paesi usciti dalla decolonizzazione. Tutto questo dopo una lotta di liberazione che Mohandas Gandhi aveva fondato sulla non-violenza. Un retaggio tradito, quello del Mahatma, i due Paesi che devono la loro esistenza alla sua predicazione pacifista da sempre si guardano in cagnesco, più volte la reciproca ostilità è sfociata in guerra aperta suscitando l’apprensione del mondo, se non altro perché India e Pakistan custodiscono entrambi minacciosi arsenali atomici. Proprio qui si annida un’altra contraddizione indiana. Siamo di fronte a un Paese che attinge alla sua tradizione culturale un elevato livello scientifico e tecnologico. Dotata di importanti centri di ricerca, in posizione d’avanguardia nella matematica e nella fisica, l’India può permettersi non soltanto di produrre il quattro per cento del fabbisogno energetico con le sei centrali elettronucleari (molte altre in programma) e di equipaggiare con il nucleare le sue forze armate, ma anche di spedire satelliti nello spazio e di competere alla pari con qualunque Paese in ogni settore teorico o sperimentale. Eppure ospita estesissime sacche di miseria estrema, uno spettacolo che stringe il cuore a chi visita certe sterminate periferie urbane. Non è certo la popolazione nel suo insieme a beneficiare del lavoro degli scienziati e dei tecnici che sa mettere in campo. Si tratta di una popolazione in ra-
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Alfredo Venturi
pidissima crescita, che si appresta nel prossimo futuro a varcare due soglie demografiche. La prima è quella del miliardo e mezzo di abitanti, la seconda il superamento della Cina come Paese più popoloso del mondo. Infatti il tasso di crescita in India è superiore a quello dell’altro gigante asiatico. Il confronto dei dati permette di prevedere che il sorpasso avverrà entro questo decennio. Il peso della sovrappopolazione, così evidente nelle brulicanti metropoli di Mumbai o Calcutta, grava su ogni progetto di sviluppo. Proprio qui sta una delle chiavi per comprendere l’atteggiamento di New Delhi sulla questione climatica. Il primo ministro Modi lo ha detto chiaramente al G di Roma che precedette la conferenza di Glasgow: «Non ci si può chiedere di adottare misure che frenino lo sviluppo». Da quella miseria dilagante, e da un prodotto interno lordo nominale pro capite di poco superiore ai duemi-
la dollari l’anno (meno di ottomila a parità di potere d’acquisto), che colloca l’India fra i Paesi più poveri nella graduatoria del reddito, scaturisce la necessità di uno sviluppo senza limiti. Anche a costo di turbare i sonni a quegli occidentali che, come si dice a New Delhi, dopo avere avvelenato il mondo pretendono di scaricare sui meno abbienti l’onere del risanamento. Sviluppo senza limiti: ma ne vale la pena? La risposta è nell’ennesima contraddizione indiana. Nel caso la situazione climatica dovesse precipitare, avvitandosi in una spirale non più reversibile, a finire sott’acqua sarebbero non soltanto Venezia, le altre città costiere e i piccoli Stati insulari dei Caraibi e del Pacifico, ma anche una vastissima parte del territorio indiano, in particolare quella che si affaccia sul Golfo del Bengala attorno all’immenso delta del Gange-Brahmaputra. L’India condivide questo destino con il confinante Bangladesh, si tratta
di un’area di altissima densità demografica, oltre abitanti per chilometro quadrato, molti di loro vivono poco al di sopra del livello del mare. Le alluvioni dunque sono di casa, provocate dai cicloni tropicali che rovesciano torrenti di pioggia e ostacolano il deflusso delle acque fluviali, soprattutto dopo che il cambiamento climatico li ha resi ancor più potenti. Si cerca di correre ai ripari rafforzando l’ecosistema con la riforestazione, interventi doverosi ma insufficienti, perché all’effetto dei cicloni si aggiunge quello dell’innalzamento delle acque marine. La prospettiva è sconvolgente: decine di milioni di persone, in India e Bangladesh, rischiano in un futuro sempre più vicino di perdere casa e mezzi di sussistenza. Di fronte a questo scenario forse New Delhi finirà con il riconsiderare i suoi programmi di sviluppo alimentati ancora dal carbone. Perché la conferenza di Glasgow non è stata affatto un successo, nemmeno per l’India. Annuncio pubblicitario
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ATTUALITÀ
Cosa rivela il caso di Peng Shuai?
Fra i Libri
Prospettive ◆ La vicenda della tennista scomparsa è uno spaccato sulla condizione femminile in Cina e un test su quanto l’Occidente voglia chiedere i conti al regime di Pechino sui diritti umani
di Paolo A. Dossena
La fantasia della storia, di Sergio Romano (La Vela, 2021)
Joe Biden ha chiesto a Xi Jinping spiegazioni e rassicurazioni sulla sorte della tennista cinese «scomparsa» per alcune settimane dopo aver denunciato abusi sessuali. La Women’s tennis association (Wta) ha minacciato di disertare ogni manifestazione sportiva in Cina, per solidarietà con la campionessa. Ma un alto dirigente del Comitato olimpico internazionale, dopo aver parlato con lei e dopo aver diffuso una videoregistrazione del colloquio, ha garantito che sta bene. La crisi #MeToo in versione cinese è già finita? Era una tempesta in un bicchier d’acqua? Oppure abbiamo avuto una dimostrazione della potenza – e diversità – di Pechino? Lei è la campionessa di tennis Peng Shuai, anni, vincitrice nel doppio a Roland Garros e Wimbledon, a suo tempo esaltata dai media cinesi come «la nostra principessa» e «fiore dorato». Lui è Zhang Gaoli, anni, per un quinquennio vicepremier sotto Xi Jinping e membro del comitato esecutivo del Politburo, in pensione dal . Lei lo accusa per un’aggressione sessuale avvenuta tre anni fa, quando l’avrebbe costretta a un rapporto contro la sua volontà, sia pure durante una relazione che a tratti fu consenziente. In America Zhang sarebbe il predatore tenuto a rispondere alle accuse. Su di lui, come su tanti accusati da quando esiste il movimento #MeToo, peserebbe l’onere di discolparsi e il tribunale dei media lo avrebbe già condannato. In Cina le regole del gioco sono diverse. La vicenda della campionessa è uno spaccato sulla condizione femminile nella Nazione più popolosa del pianeta, seconda superpotenza mondiale. È anche un test su quanto l’Occidente voglia chiedere i conti al regime di Pechino sui diritti umani. «I diritti della donna sono diritti umani», disse Hillary Clinton quando era segretaria di Stato.
Peng Shuai, 35 anni, ha accusato Zhang Gaoli, 75 anni, per un quinquennio vicepremier sotto Xi Jinping, di un’aggressione sessuale Peng lancia l’accusa sulla messaggeria Weibo il novembre; minuti dopo viene cancellata dalla piattaforma digitale. Da allora è impossibile scrivere sui social media cinesi messaggi con il nome della tennista o dell’ex vicepremier. Nei siti dei giornali e tv, dove abbondano notizie sulla campionessa, la sezione commenti è chiusa. La censura è implacabile e la stragrande maggioranza dei cinesi ignora la vicenda. Nel respingere sdegnosamente le domande dei giornalisti occidentali, i portavoce governativi evitano con cura di evocare l’accusa di aggressione sessuale. Dopo alcuni giorni in cui sembrava sparita, della tennista sono state diffuse immagini che si vogliono rassicuranti: appare libera, in buona salute, sorridente. Il fatto che il Governo cinese si sia premurato di far circolare queste immagini è un gesto di cautela. Si avvicinano le Olimpiadi invernali di Pechino che Xi Jinping vuole celebrare in un tripudio nazionalista (Zhang ne fu uno dei principali organizzatori). Un boicottaggio da parte di qualche Nazione straniera sarebbe sgradito. In Occidente è nato l’hashtag #Whe-
Keystone
Federico Rampini
reIsPengShuai. Anche se è virale solo su social media vietati in Cina come Twitter. Aderiscono agli appelli in favore della tennista molte sue colleghe e campioni celebri. Ma l’Occidente si divide: le multinazionali che sponsorizzano le Olimpiadi, da Airbnb alla Coca Cola, finora non commentano il caso Peng. Il Comitato Olimpico avalla la versione ufficiale cinese sulle buone condizioni della tennista. Joe Biden sembra considerare al massimo un «boicottaggio diplomatico», che significa solo non mandare ai Giochi una delegazione governativa di alto livello. Può darsi che Pechino cominci a pagare qualche prezzo per i suoi abusi contro i diritti umani: un’indagine del Pew research center indica che nel resto del mondo è ai massimi il giudizio negativo sulla Cina. I piani per espandere il «soft power» o egemonia culturale cinese non procedono come vorrebbe Xi Jinping. Ma è difficile valutare il danno reale. A Hong Kong lo Stato di diritto è calpestato eppure non c’è l’esodo di multinazionali occidentali che qualcuno aveva previsto. Gli appelli a boicottare il cotone «made in Xinjiang», prodotto usando manodopera uigura condannata ai lavori forzati, si sono ritorti contro chi li aveva lanciati: le aziende occidentali che avevano aderito sono castigate con la chiusura del mercato cinese. I consumatori cinesi reagiscono in difesa dell’onore nazionale offeso. Cosa rivela il caso Peng sulle battaglie femministe in Cina? La condizione della donna in realtà è spesso migliore nella Repubblica popolare rispetto ad altri paesi asiatici. Mao Zedong pose le premesse di un’emancipazione materiale quando decise che «l’altra metà del cielo» doveva entrare nella forza lavoro. Nell’econo-
mia ci sono tante donne imprenditrici e top manager di successo. Quando denunce del tipo #MeToo si sono verificate nelle imprese o nelle università, talvolta ci sono state indagini e processi. Mai però una donna aveva accusato in pubblico di aggressione sessuale un dirigente comunista di alto rango. Il partito rimane una struttura maschilista e patriarcale, ha pochissime donne ai piani alti. Un dirigente comunista può essere castigato duramente, perfino condannato a morte, ma solo se lo vogliono i suoi superiori.
Il regime moltiplica le campagne contro le celebrity. Tra gli ultimi bersagli attori accusati di evasione fiscale, pop-star «effeminati» e influencer L’aureola della star sportiva non conferisce diritti speciali a Peng. Anzi, il regime moltiplica le campagne contro le celebrity. Tra gli ultimi bersagli ci sono attori e attrici accusati di evasione fiscale; pop-star della musica sotto tiro perché «effeminati». Il fenomeno degli influencer nei social media viene preso di mira dalle autorità in quanto rappresenta «un’estetica anormale, contraria ai valori fondamentali della società cinese». Essere famosi, avere un seguito di massa, non è uno scudo, al contrario. Iper-populista, Xi si vanta di perseguire gli straricchi e di moralizzare la gioventù; al tempo stesso ribadisce che il potere in Cina è uno solo. Qualunque fenomeno di aggregazione spontanea della società civile, peggio ancora se genera forme di «culto della personalità», adorazione dei divi dell’era digitale, è una minaccia per il primato del partito. Nel difendere questo modello Xi sottoli-
nea gli aspetti decadenti della civiltà occidentale: ci descrive come un malato terminale, anche perché ordine, autorità e gerarchia non sono più valori rispettati. La libera e caotica circolazione sui nostri social media di voci, accuse, contestazioni e dietrologie, per lui è una conferma del nostro declino irreversibile. La Women’s tennis association è stata elogiata per la sua coerenza e il suo coraggio, ma rischia di rimanere un’eccezione. Gran parte del mondo sportivo americano continua a considerare che il mercato cinese è un business troppo importante, e come tale giustifica ogni sorta di compromessi o cedimenti. Resta sintomatico il caso della National Basketball Association (Nba), che ha un contratto da , miliardi di dollari con il gigante digitale cinese Tencent. Quando un dirigente della Nba osò criticare la Cina per la repressione delle proteste a Hong Kong (in un tweet poi cancellato), LeBron James intervenne di persona a redarguirlo e a difendere Pechino. La frase usata dal campione di pallacanestro per censurare le critiche americane alla Cina è rimasta scolpita nella memoria: «Sì, è vero, noi abbiamo la libertà di parola, ma questa libertà ha anche tanti aspetti negativi». L’afroamericano LeBron James ha appoggiato Black lives matter e a suo tempo accusava Donald Trump di razzismo. Come altri miliardari o multimilionari che si considerano di sinistra, il campione di basket è severo nel denunciare le piaghe dell’America, mentre tace sulla Cina e chiede ai propri connazionali di auto-censurarsi di fronte agli abusi del regime comunista. Anche lui fa parte di una «quinta colonna» filo-cinese su cui può contare Xi Jinping per difendere le sue tesi presso l’opinione pubblica americana.
Ex ambasciatore italiano a Mosca e alla Nato, straordinario saggista pubblicato in varie lingue, Sergio Romano è da sempre un grande fautore dell’Unione europea. E questo è il tema dominante, il filo rosso del suo recente libro, il quale si presenta quindi come un corpo organico, più che come una raccolta di scritti. Nel corso di varie interviste rilasciate a chi scrive tra l’agosto del e il novembre del Sergio Romano anticipava tutti questi temi: l’Unione europea, il cavallo di Troia britannico, il problema rappresentato dai Paesi dell’est. Quando gli feci notare che era stato uno dei pochissimi commentatori a sostenere che l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue era un’opportunità e non una catastrofe, Sergio Romano disse allora quello che sostiene ora: «Se la Gran Bretagna avesse votato per restare nell’Ue, noi avremmo dovuto cominciare a contrattare, il giorno dopo le elezioni, con quei membri dell’Ue che avrebbero molto probabilmente chiesto di ottenere tutto ciò che era stato concesso al Regno Unito. Negoziando con il premier britannico David Cameron, Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione europea, era stato molto generoso. Aveva fatto molte concessioni. Quindi se noi avessimo trattenuto la Gran Bretagna nell’Europa, lo avremmo fatto solo a costo di concessioni che avrebbero reso l’Unione sempre meno unione. Aggiungo che la Gran Bretagna ha aderito alla Comunità europea per impedire che diventasse una federazione». Questi temi sono coerentemente ripresi da Sergio Romano in vari capitoli del suo libro, in particolare: «Un esercito per l’Unione» e «, la lezione dimenticata». Un altro problema discusso nella Fantasia della storia è quello del difficile rapporto tra l’Unione e i gli Stati membri dell’Europa orientale (negli ultimi tempi si è parlato di Polexit). Già in passato Sergio Romano disse che non si sarebbe verificato l’effetto domino profetizzato dai fautori di Brexit, ma avvisava: «Non commettiamo l’errore di pensare che l’assenza dell’effetto domino sia una prova di lealtà. I Paesi dell’est sono troppo deboli per uscire dall’Unione, dei cui aiuti finanziari e strutturali hanno bisogno. Ma ciò non significa che quei Paesi abbiano dato prova di europeismo. Abbiamo fatto alcuni passi sulla difesa comune, e questo è stato possibile proprio perché la Gran Bretagna se ne è andata. Con Londra nell’Unione, qualsiasi passo verso la difesa comune non sarebbe stato possibile. Dobbiamo questo progresso all’uscita di scena della Gran Bretagna. È un dato certamente positivo». Questi temi vengono ripresi nel capitolo «Tre Europe minano l’Europa». Sia le interviste rilasciate a chi scrive, sia il libro giungono alle stesse conclusioni: quella del futuro sarà un’Europa dalle due anime e dalle due velocità. Da un lato ci sarà l’Europa «rappresentata dai Paesi ex satelliti dell’Unione sovietica» che «è una palla al piede, che però non ci impedisce di andare avanti. E quanto più andremo avanti tanto più si allargherà una faglia tra le due anime dell’Europa. Quindi sì, sarà un’Europa a due velocità. Naturalmente procedere insieme sarà nell’interesse di tutti, ma questa volta chi ha voglia di procedere più rapidamente lo farà». E così sia.
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ATTUALITÀ
Uno sguardo al mondo nel 2051 L’analisi
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Sfida tra Stati uniti e Cina, frammentazione dell’Europa e migrazioni. Ci aspetta un futuro di difficile gestione
Come sarà il mondo fra una generazione? Nessuno può presumere di stabilirlo, ma ragionare sul futuro apparentemente lontano è esercizio utile. Necessario soprattutto per gli attori geopolitici, specie per le grandi potenze che incidono sulle relazioni e sugli equilibri planetari. Ma anche per chi analizza le traiettorie di questi attori, cercando di anticiparne gli effetti. A questo esercizio la rivista italiana di geopolitica «Limes» ha dedicato i tre giorni del suo Festival annuale (- novembre), che si svolge da otto anni al Palazzo Ducale di Genova, e il relativo volume su La riscoperta del futuro. Di qui alcune considerazioni sul mondo nel , riferite in particolare a tre scenari: la competizione per il primato Stati uniti-Cina; l’Europa, o meglio le Europe; la questione migratoria.
Per cogliere le tendenze geopolitiche future occorre affondare nel passato lontano e fuggire la tentazione di estrapolare linearmente dal presente Due premesse di metodo. Primo, per cogliere per quanto possibile le tendenze geopolitiche future occorre affondare nel passato lontano e fuggire la tentazione di estrapolare linearmente dal presente; se si resta prigionieri della cronaca si perde il senso di ciò che conta davvero, percepibile solo nel lungo periodo. Secondo, studiare i fattori antropologico-culturali e la demografia da cui molto più che dalle tendenze economiche sono influenzati i comportamenti e i progetti delle comunità. Quanto alla sfida Usa-Cina (nella foto Joe Biden e Xi Jinping), il suo esito dipenderà largamente dal tono delle rispettive collettività più che da qualsiasi altro elemento. Nel medio-lungo periodo la partita sarà decisa dalla disponibilità dei popoli americano e cinese a giocarla fino in
fondo. L’America vive da tempo una crisi d’identità accentuata dalla «fatica imperiale», ovvero dall’insofferenza per i sacrifici che comporta la gestione di una sfera d’influenza quasi illimitata, imperniata sul controllo delle massime rotte marittime e dei relativi traffici. Al punto che l’amministrazione Biden ha varato una sua peculiare dottrina, la «geopolitica della classe media», di cui potremmo scandire così le tre principali priorità: rimettere casa in ordine, rimettere casa in ordine, rimettere casa in ordine. Poi, Cina. Approccio coerente con quanto avvenuto negli ultimi anni e decenni (amministrazioni Obama e Trump incluse) a seguito della vittoria nella guerra fredda, ovvero dell’estensione delle responsabilità americane a quella parte di mondo un tempo gestita dall’Urss. Qualcosa di simile s’intravvede nel corpo della Cina. I cinesi sono troppi, troppo anziani (età media anni) e troppo disabituati al conflitto per anelare allo scontro con il numero uno. Inoltre, le faglie interne fra aree ricche e povere, abitate da cinesi o da minoranze refrattarie, resta profondo e non pare destinato a ridursi facilmente. Incrociando le traiettorie americane e cinesi si può immaginare certo un conflitto, probabilmente accidentale, dunque difficilmente governabile. Più probabile una crisi di entrambe le potenze, che porterebbe a un grado critico il disordine mondiale, in un pianeta di quasi miliardi di anime nel (stime Onu). Ma forse potrebbe indurle al compromesso. Uno sguardo alle Europe. Qui sarà da tenere d’occhio una faglia di lunghissimo periodo, quella fra ovest ed est. Partizione che può essere fatta risalire alla guerra gallica, quando Giulio Cesare stabilì che le tribù d’oltre Reno – da lui battezzate germaniche – fossero inassimilabili alla romanità. Nei secoli successivi, specie in epoca carolingia, si è determinata una linea di frattura tra mondo romano-ger-
Shutterstock
Lucio Caracciolo
manico di tono cattolico e mondo slavo, più o meno attorno ai bacini di Reno, Danubio ed Elba. Faglia persistente nei secoli. Qualcuno immaginava che l’Ottantanove avrebbe riunito il Continente e che al posto della cortina di ferro avremmo costruito ponti infiorati. Abbiamo invece solo avanzato nuove barriere verso la Russia e contro i flussi migratori. Nello spazio euroatlantico i processi disintegrativi – che producono eventuali aggregazioni di taglia minore, tipo Gruppo di Visegrad o Nuova Lega Anseatica – dovrebbero accentuarsi, liquidando definitivamente il sogno o l’incubo
dell’Europa unita. Con possibili effetti di balcanizzazione di alcuni spazi europei, non solo all’est. Infine, le migrazioni dal Sud povero, giovane e in forte crescita demografica (l’Africa dovrebbe passare in anni dal miliardo e milioni di abitanti attuali a miliardi e mezzo) verso il relativamente ricco e ordinato Continente europeo: qui tutto sarà deciso dalla capacità degli europei di selezionare e integrare uomini e donne di cui abbiamo bisogno, ma che mai accetteranno di essere considerati solo strumenti per l’economia. Se non ci riusciremo, ben prima del i nostri Paesi saranno se-
gnati da numerose enclave autogestite da popolazioni di origine esterna, con poca o nulla volontà di partecipare alla vita sociale e civile dello Stato di arrivo. Probabilmente gli scenari che suppongono migrazioni di massa verso l’Europa sono esagerati, ma la percezione di questi eventi, quasi fossero già in corso, potrebbe sviluppare effetti gravi perfino sulla tenuta delle istituzioni. Prepariamoci dunque a un futuro di difficile gestione. La vacanza dalla storia di cui noi europei abbiamo goduto dal non è eterna. Senza isterismi, ma con consapevolezza, conviene attrezzarsi a gestire stagioni meno sicure e governabili.
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ATTUALITÀ
La «politica dei due forni» di Lukashenko
L’analisi ◆ Minsk dipende da Mosca ma tenta disperatamente di conservare la sua autonomia. E con la crisi dei migranti, creata ad hoc alla frontiera con la Polonia e la Lituania, intendeva mostrare a Vladimir Putin di avere ancora degli interlocutori a ovest Anna Zafesova
Nel momento in cui Aleksandr Lukashenko urla all’intervistatore della Bbc «noi sgozzeremo tutti i bastardi delle Ong che ci avete infiltrato», apre uno spiraglio inquietante non soltanto su quello che accade nella testa del dittatore bielorusso, ma forse anche su quello che sta avvenendo in questi tempi al confine tra Russia e Ucraina, dove l’intelligence di Washington ha rilevato un assembramento di truppe di Mosca senza precedenti sia per quantità che per qualità degli armamenti ed equipaggiamenti. Secondo il ministero della Difesa di Kiev il Cremlino si sta preparando a una nuova guerra, e l’agenzia Bloomberg cita fonti informate per rivelare quello che racconta come un piano ormai scritto: 90-100 mila uomini pronti a sferrare l’attacco a gennaio, sostenuti da artiglieria e aviazione. Per gli esperti americani, i movimenti di truppe russe non assomigliano a quelli utilizzati tante volte – l’ultima appena sei mesi fa – per ricattare l’Ucraina, ovvero fare pressioni sui vicini e ribadire la «linea rossa» di Mosca sull’avvicinamento di Kiev alla Nato e all’Europa. Stavolta i militari russi si spostano di notte, non in pieno giorno per farsi riprendere bene dai satelliti, e la Russia avrebbe lanciato in segreto una convocazione massiccia ai riservisti in servizio. Il piano d’attacco prevedrebbe un’offensiva contemporanea da tre direzioni: dal centro, attraverso il confine già praticamente inesistente con i territori dell’Ucraina occupati nel Donbass, da sud, dalla Crimea annessa e trasformata in sette anni in una enorme base militare russa, e da nord, puntando su Kiev, dal territorio della Bielorussia. Esistono numerosi motivi di tanti attori per far uscire questa fuga di notizie, vera o falsa che sia: potrebbe convenire al Cremlino per alzare la posta in gioco nel negoziato più o meno sotterraneo che sta conducendo con l’Amministrazione di Joe Biden. Servirebbe agli ucraini per ricordare agli
alleati europei e americani di non poter sopravvivere senza il loro aiuto politico e militare, ma potenzialmente potrebbe essere anche una mossa di Washington per mettere in guardia i falchi di Vladimir Putin, oppure addirittura un complotto delle sempre più fragili «colombe» di Mosca per bruciare quella che, se attuata, sarebbe una catastrofe politica, economica, umana e militare. Quello che colpisce però è che attualmente in territorio bielorusso non sono presenti truppe russe. E che Lukashenko, solitamente molto suscettibile a quello che si dice di lui nella stampa estera, per ora non ha smentito la sua complicità con eventuali piani di invasione dell’Ucraina.
Aleksandr Lukashenko all’intervistatore della Bbc: «Noi sgozzeremo tutti i bastardi delle Ong che ci avete infiltrato». (Shutterstock)
Intanto al confine tra Russia e Ucraina compare un assembramento di truppe di Mosca senza precedenti Una base militare russa è stata una delle promesse che Lukashenko ha fatto più volte a Mosca, e che non solo non ha mantenuto, ma ha pure utilizzato per denunciare una «minaccia russa» una volta rientrato a Minsk. È la classica «strategia dei due forni» (ovvero un atteggiamento trasformistico, opportunistico) cui si è dedicato con alterni risultati per tutti i 27 anni in cui detiene il potere. La sua dipendenza da Mosca – energetica e politica prima di tutto, ma la Russia è anche un mercato di sbocco per i prodotti delle obsolete industrie e dell’agricoltura bielorusse – è la chiave della sua sopravvivenza, ma vorrebbe conservare la sua autonomia. Giurare fedeltà al Cremlino per poi agitare lo spettro di una fusione ostile con la Russia a casa, mostrandosi disponibile a un negoziato con Bruxelles per rendere più flessibile Putin. Questo gioco, nella sua semplicità quasi elementare, è stato riprodotto più volte. L’ultima, poche setti-
mane fa, con la crisi dei migranti che Lukashenko ha creato con le sue mani, importando profughi dall’Iraq e dalla Siria per scagliarli contro il filo spinato alla frontiera con la Polonia e la Lituania. Il calcolo era evidente: costringere l’Europa a negoziare con un presidente che non riconosce come legittimo, magari anche ottenendo finanziamenti per tenere a bada i migranti, come Erdogan ai tempi della crisi siriana. E mostrare a Putin che Lukashenko poteva ancora avere interlocutori a ovest e non solo a est. A ovest non ha funzionato molto, a giudicare almeno dalla rabbia con la quale il «padre» dei bielorussi si è scagliato contro l’intervistatore britannico alla domanda sulla sua telefonata con Angela Merkel. Indiscrezioni berlinesi sostenevano che la cancelliera si fosse piegata al ricatto della tra-
gedia umanitaria e avesse accettato un negoziato con il leader di Minsk, negandogli però il titolo di presidente e rivolgendosi a lui semplicemente come «signor Lukashenko». Le speranze del dittatore di farsi riconoscere le elezioni e togliere le sanzioni per la violenta repressione del dissenso sono state però deluse. Anche a est non è andata benissimo, specie dopo che Lukashenko ha minacciato di chiudere il gasdotto russo verso l’Europa che transita sul suo territorio. Putin l’ha subito richiamato all’ordine, spiegando ai partner occidentali che il suo collega bielorusso è «un po’ emotivo». Lukashenko ha colto subito il suggerimento, e la sua intervista alla Bbc è stata uno sfoggio del migliore repertorio della propaganda putinista, dalle rivoluzioni fomentate dall’Occidente
alle Ong al soldo delle potenze straniere. Non che il dittatore bielorusso non condivida questa visione del mondo, ma un’intervista a una delle più autorevoli emittenti occidentali di solito si concede al contrario per apparire più civile e moderato di quello che si pensa, mentre lo sfogo senza freni di Lukashenko fa pensare che fosse diretto a un altro pubblico. La porta a ovest, dopo il tentativo di creare artificialmente una crisi sfruttando i migranti, si è definitivamente chiusa. E Mosca potrebbe volersi vendicare di questo ultimo tentativo di sfuggire alla sua presa. Anche perché, se davvero sta progettando un attacco all’Ucraina, poterlo scagliare dal territorio della Bielorussia cambierebbe tutto, rendendo Kiev e buona parte del nord e dell’ovest del Paese esposti lungo la frontiera. Annuncio pubblicitario
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ATTUALITÀ
Se la disperazione è più forte della paura Conferenza a Bellinzona
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Si parlerà di violenza nei contesti migratori e del destino delle donne espatriate nel nostro Paese
Romina Borla
«“Prima di partire prendiamo delle pastiglie per non restare incinte. Sappiamo che durante il viaggio potremmo essere violentate”. Me lo ha detto una ragazzina proveniente dall’Eritrea da poco giunta in Svizzera. Parole difficili da dimenticare. È tragico. Nonostante la consapevolezza dei gravi pericoli che corrono, le persone migranti si incamminano lo stesso verso l’Europa. Perché la disperazione, la voglia di salvarsi e riscattarsi sono più forti della paura». A parlare è Mario Amato, direttore di Soccorso operaio svizzero Ticino, tra i relatori della conferenza «Alle frontiere della violenza» che si terrà il . dicembre a Bellinzona. Conferenza promossa dalla rete Nateilgiugno, Comundo e SOS Ticino, che si soffermerà soprattutto sul destino delle donne migranti nel nostro Paese.
«Prima di partire prendiamo delle pastiglie per non restare incinte. Sappiamo che durante il viaggio potremmo essere violentate» Durante il viaggio di espatrio – che è spesso molto lungo – donne, ma anche uomini e minori a volte non accompagnati assistono alle violenze più atroci e le subiscono. «Alcune di queste persone hanno voglia di raccontare le loro esperienze – sottolinea il nostro interlocutore – ma purtroppo queste narrazioni non hanno nessuna influenza sulla domanda di asilo perché i fatti non si sono prodotti nel Paese di origine». Senza contare il discorso legato alle situazioni di stress post-traumatico. «Gli shock accumulati rimangono impressi nella mente della persona migrante, sono presenti durante la sua permanenza in Svizzera. Spesso questi traumi emergono subito all’arrivo, lo si vede coi più piccoli, a volte anni più tardi. Nessuno esce indenne da simili tragedie». Una certa sensibilità si è sviluppata negli anni e l’attuale procedura di asilo –
Drammi al confine tra la Bielorussia e la Polonia. (Shutterstock)
entrata in vigore nel – prevede che nei Centri federali di asilo siano presenti delle postazioni mediche (medic help) tramite le quali è possibile prendere contatto con degli psicologi che si adoperano per alleviare questa sofferenza, prenderla a carico. Spesso però si tratta di un granello di sabbia nel deserto. Un ulteriore aspetto da considerare, continua Amato, è il fenomeno della violenza di genere e domestica che riguarda i nuclei famigliari di espatriati (come del resto anche numerose coppie «autoctone»). «Ma le donne migranti, come i loro bambini, sono in una posizione ancora più fragile proprio in quanto lontani dalla loro casa. Per loro è ancora più difficile reagire poiché non hanno accanto famigliari o amici con cui potersi confidare. A volte è l’operatore sociale a diventare una valvola di sfogo. Ci sono anche donne che una volta arrivate in Svizzera – un Paese occidentale dove godono di maggiori libertà – prendono coscienza di quelli che so-
no i diritti legati all’appartenenza di genere, diritti che nel Paese di origine non colgono o non possono reclamare. Da qui scaturiscono situazioni molto complesse». Un altro tema che verrà affrontato nel corso della serata – afferma l’intervistato – è quello dei ricongiungimenti famigliari. Il caso di un cittadino straniero, proveniente dall’Ue o da un Paese terzo, che arriva nella Confederazione per motivi di lavoro, e la moglie, magari i figli lo raggiungono. La legge prevede il permesso di soggiorno per il coniuge finché dura l’unione. Solo in alcuni casi il diritto sussiste anche se il matrimonio finisce. «Quando, per esempio, l’unione coniugale termina a seguito di una situazione di violenza domestica, che però deve essere dimostrata, la moglie può restare in Svizzera. A volte però gli abusi sono difficili da provare e poche hanno la forza di chiedere aiuto, di denunciare. Oltretutto l’interpretazione di questa norma è restrittiva: non tutte le forme di vio-
lenza domestica portano infatti al riconoscimento del diritto del mantenimento del permesso perché la violenza deve raggiungere una certa intensità…». Si può immaginare con quali risultati. Parteciperà alla serata «Alle frontiere della violenza» anche Corinne Sala, direttrice della sede nella Svizzera italiana di Comundo, un’Ong svizzera di cooperazione allo sviluppo, la quale conosce molto da vicino il Nicaragua e più in generale le situazioni legate ai movimenti migratori dal Sud America agli Stati uniti. «Tante donne fuggono dai Paesi latinoamericani a causa della violenza della società, della violenza intrafamigliare e delle discriminazioni: in quanto donna non riescono ad esempio accedere all’educazione, a trovare lavoro. E poi si ritrovano in un Paese straniero, isolate, ma le violenze e le discriminazioni non finiscono». Pensiamo poi agli effetti delle migrazioni nei Paesi di origine: quando la donna viaggia senza i figli, deve affidarli a parenti o co-
noscenti. Nella maggior parte dei casi li lascia alla nonna: di nuovo il lavoro di cura a carico alle donne. Inoltre, se non c’è la madre a proteggerli, i bambini rimangono più esposti al rischio di abusi intra ed extrafamigliari. Ricevono magari denaro, certo, ma non godono della protezione del genitore». Quindi violenza alla base, durante il viaggio e poi una volta arrivate a destinazione. La migrazione – sottolinea la nostra interlocutrice – è diventata un tema negli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda (obiettivi che dovranno essere realizzati entro il da tutti i Paesi Onu) la quale guarda al migrante e alla migrante come attori dello sviluppo sia nel Paese d’origine sia nel Paese di destinazione. «Il problema: sono ancora troppo poco protetti per poter sviluppare un potenziale positivo per loro stessi e per i due Paesi coinvolti. Si spera che in un prossimo futuro le cose possano cambiare anche grazie alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul) che però la Svizzera ha firmato con alcune riserve, che riguardano proprio le donne migranti…». Alla conferenza del . dicembre parteciperanno anche Monica Marcionetti, responsabile del servizio MayDay; Anne Schmid, coordinatrice della Piattaforma svizzera contro la tratta degli esseri umani; l’avvocata Rosemarie Weibel e Simona Lanzoni nel Gruppo di esperti sulla violenza contro le donne e la violenza domestica (Grevio) che ha il compito di vigilare e valutare le misure adottate nei Paesi aderenti alla Convenzione di Istanbul. Informazioni «Alle frontiere della violenza» mercoledì 1 dicembre, dalle 18.00 Auditorium dell’Istituto cantonale di economia e commercio viale Stefano Franscini 32, Bellinzona Per info e iscrizioni: info@avaeva.ch Annuncio pubblicitario
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Settimanale di informazione e cultura
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 29 novembre 2021
azione – Cooperativa Migros Ticino
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ATTUALITÀ ●
Il Mercato e la Piazza
di Angelo Rossi
Bilancio economico della pandemia ◆
L’impressione è che, fin qui, il Covid- abbia fatto, per quel che riguarda l’economia svizzera, meno disastri di quanto la chiusura di aziende e le varie restrizioni imposte temporaneamente potevano lasciare intendere. A questa conclusione giungono anche le due ricercatrici della Seco che hanno indagato su come l’evoluzione del Prodotto interno lordo sia stata influenzata dalla pandemia. I loro risultati sono stati pubblicati nel numero più recente delle «Tendenze congiunturali», il trimestrale della nostra Segreteria federale per l’economia. Ricordiamo dapprima che la pandemia ha provocato per l’economia mondiale la maggiore recessione dopo la seconda guerra mondiale. Nel secondo trimestre del il prodotto interno lordo della stessa ha accusato una diminuzione pari al %. Rapida è poi stata la ripresa. Nel terzo trimestre la recessione non
era più che del %. Stando a questo bilancio a metà , grazie soprattutto alla ripartenza dell’economia cinese, che fu la prima a conoscere gli effetti negativi della pandemia, il Pil dell’economia mondiale si trovava di già sopra il livello di prima della pandemia. Se compariamo questa recessione con quella manifestatesi durante la crisi finanziaria internazionale del /, ci accorgiamo che nel caso della pandemia, benché la diminuzione dell’attività economica sia stata più ampia, la fase di rilancio è arrivata molto più rapidamente. Le depressioni economiche, quindi, non si somigliano come ovviamente non si somigliano neanche i periodi di forte crescita. Un’altra caratteristica che distingue la recessione più recente da quella provocata dalla crisi finanziaria internazionale è il numero di economie coinvolte. Mentre la crisi finanziaria
Affari Esteri
internazionale aveva risparmiato buona parte delle economie dei Paesi meno sviluppati, nel praticamente tutte le economie mondiali hanno conosciuto un forte rallentamento delle loro attività economiche. Le informazioni più interessanti che forniscono le ricercatrici della Seco riguardano però le differenze che si sono manifestate tra l’economia svizzera e quella di altri Paesi e gruppi di Paesi sia rispetto alla recessione pandemica del , sia rispetto alla ripresa del secondo semestre e del primo semestre . Per misurare queste differenze esse hanno comparato i livelli del Pil del secondo trimestre del con quelli che si sarebbero potuti raggiungere, sempre alla medesima data, se non fossero intervenute le misure di lockdown e altre restrizioni ad arrestare la crescita economica durante il primo semestre del . Questo confronto rafforza naturalmente la por-
tata dei cali nel Pil, registrati durante i primi mesi della pandemia. A metà l’economia del nostro Paese era quella che aveva registrato il calo minore rispetto alla prestazione possibile (inferiore al %). La diminuzione del Pil maggiore è stata invece registrata in Gran Bretagna (superiore al %). Siccome le perdite in termini di crescita economica del primo semestre del devono essere attribuite alle misure prese dalle autorità per fronteggiare il pericolo di diffusione della pandemia, questi dati proverebbero che le autorità svizzere sono riuscite a minimizzare le ricadute negative sull’attività economica del Paese. All’altro estremo possiamo mettere quelle della Gran Bretagna le cui misure anti-Covid hanno invece massacrato l’economia. Siccome la rivista in cui i risultati di questo studio della Seco è edita dalla Seco stessa, è giusto prendere questi risultati fatti in
casa con un po’ di prudenza. Tuttavia le sue autrici spiegano anche perché ci sono state differenze così ampie nelle ricadute negative delle misure anti-Covid. Essenzialmente le stesse devono essere fatte risalire ai diversi gradi di rigore con i quali le misure anti-Covid sono state applicate. Maggiore è stato il rigore e maggiori sono state le ricadute negative sull’andamento dell’attività economica. A questo primo fattore di spiegazione le autrici ne aggiungono un secondo: le differenze nella struttura del settore dei servizi da un’economia all’altra. Le economie che dipendono maggiormente dai servizi nei quali i contatti personali sono importanti sono anche quelle che hanno purtroppo dovuto sopportare le perdite di attività economica maggiori. Come dire che per gli sportelli aperti al pubblico la pandemia deve aver suonato la campana a morto.
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di Paola Peduzzi
Una miliardaria e una filantropa atipica ◆
Nei suoi anni di matrimonio, MacKenzie Scott è stata un’ambasciatrice solerte e generosa di Amazon, l’azienda che ha reso lei e suo marito Jeff Bezos la coppia più ricca del mondo. Era MacKenzie alla guida dell’auto che nel , un anno dopo il loro matrimonio, li portava a Seattle: suo marito era di fianco a lei, lavorava a un business plan che avrebbe trasformato una piccola libreria online nel colosso che è Amazon. Oggi MacKenzie ha anni, ha divorziato nel gennaio del da Bezos in modo «amichevole», o almeno così racconta, si è risposata nel giugno scorso con Dan Jewett, il professore di scienze dei suoi figli in un liceo di Seattle, e con il suo divorzio ora ha un patrimonio netto di miliardi di dollari, cosa che la rende la ventiduesima persona più ricca del pianeta. Ma come scrive «The Economist» MacKenzie è una «miliardaria atipica», una filantropa della por-
ta accanto, discreta, generosa, che fa donazioni a tante associazioni che poi gestiscono i soldi nei loro progetti senza passare da una fondazione. In mesi, fino al giugno scorso, aveva donato , miliardi di dollari, e ha firmato il «giving pledge», la promessa di rimettere in circolazione gran parte del suo patrimonio. MacKenzie è sempre stata molto riservata e il suo sogno era fare la scrittrice. Scrisse il suo primo libro a anni, ha studiato scrittura creativa a Princeton con Toni Morrison che ha sempre detto cose stupende su questa sua allieva volenterosa, e ha pubblicato due libri, nel e nel . Raccontano entrambi storie dolorose, i personaggi sono femminili anche se nel primo romanzo la voce narrante è un uomo, ci sono pochi dialoghi, nessuno dice mai quel che pensa veramente. In un’intervista famosa della coppia nel MacKenzie disse che amava i paradossi e gli errori, le cose
in cui inciampi nella vita che sul momento sono faticose ma che poi si rivelano decisive per i cambiamenti più importanti. Rivedendo oggi quella conversazione, pare quasi che anticipasse il suo divorzio. La vita post Bezos della ex moglie è fatta sempre di molta privacy (se paragonato al divorzio dei Gates, quello dei Bezos è molto scarno di pettegolezzi). Alcuni dicono che si sia rimessa a scrivere, ma di certo quel che si vede è la sua filantropia. Si fa consigliare da alcune società di consulenza senza mettere in piedi una fondazione propria. Le donazioni sono spesso fatte a organizzazioni di medie dimensioni, molte si occupano di uguaglianza di genere e di razza, ma anche alle banche del cibo. Il mondo no profit spesso si lamenta del fatto che, quando ci sono donazioni così ingenti, c’è anche un controllo rigido sulla destinazione dei fondi. Vengono finanziati certi progetti ma a volte la
struttura delle organizzazioni patisce: mancano i dipendenti, manca la cancelleria, si fa fatica a pagare gli affitti. Un terzo dei gruppi finanziati dalla ex signora Bezos ha utilizzato i soldi ricevuti per fare nuove assunzioni o investimenti in tecnologia per operare con più efficienza. Anche i report da consegnare per spiegare che ne è stato delle donazioni sono più snelli rispetto a quelli usualmente richiesti dai donatori: bastano poche pagine, ha spiegato MacKenzie, per sapere se le cose hanno funzionato. Ha anche dato un nome al suo approccio: «seeding by ceding», seminare dando in cessione il campo di semina, perché quel che conta è che poi ci sia un’utilità collettiva. Che fosse intenzionale o no, MacKenzie ha rivoluzionato il modo di fare filantropia in America, ridimensionando la burocrazia di solito predominante in questo ambito. E il suo modello è pure contagioso: il suo ex marito, che il «giving
pledge» non ha voluto firmarlo, si è poi messo invece a fare donazioni nel modo snello e diretto della madre dei suoi figli. L’unica ombra che resta su questa filantropa atipica è la mancanza di trasparenza: lei dice che in realtà è l’assoluto bisogno di privacy a determinare questa sua segretezza, ma le lamentele non mancano. Non si sa con chi lavora, non si sa come contattarla, non si sa bene nemmeno chi siano i beneficiari, tanto che ci sono già dei «fake» che girano utilizzando il suo nome e approfittando di questa opacità. Alcuni dicono che questo metodo non è sostenibile né apprezzabile: se si vuole colmare il divario tra ricchi e poveri, se si vuole anche togliere il sapore amaro che si porta dietro l’ultraricchezza nel mondo, è necessario essere il più trasparenti possibile. Per ora MacKenzie su questo resiste: preferisce far parlare i progetti che finanzia e la loro utilità.
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Zig-Zag
di Ovidio Biffi
Consigli tra passato e futuro ◆
Chiudo novembre in vena di consigli. Il primo è turistico e mi è stato suggerito da una notizia che pochissimi avranno captato, sperduta com’era nel «mare magnum» del flusso mediatico quotidiano. A fine estate a Milano, a conclusione di ben anni di restauro, la chiesa di San Maurizio al monastero è tornata ad essere visitabile. Un evento già notevole solo considerando che era chiusa ai turisti da oltre trent’anni per lavori di restauro. Sicuramente delicati, visto che l’edificio sacro, situato in Corso Magenta, oltre ad avere una storia millenaria può fregiarsi dell’appellativo di «Cappella Sistina di Milano». Denominazione meritata, visto che custodisce oltre metri quadrati di splendidi affreschi cinquecenteschi, un tesoro pittorico che viene attribuito a Bernardino Luini e alla sua scuola. Credo che questo «nuovo» indirizzo d’arte potrà interes-
sare anche a tanti ticinesi che già conoscono Luini, soprattutto per l’affresco della Passione e della Resurrezione custodito nella chiesa di Santa Maria degli Angioli di Lugano, contigua al Lac. Scontato perciò il consiglio-invito a visitare il complesso artistico della chiesa di Corso Magenta a Milano, tra l’altro non lontana da quella che ospita l’Ultima Cena di Leonardo. Il secondo consiglio proviene dalla navigazione in internet e più precisamente nella sua baia che conosco meglio, quella di Twitter. I competenti uffici avevano appena annunciato l’aumento del numero dei frontalieri e il calo della disoccupazione in Ticino, e mentre i media nostrani riportavano le solite ritrite considerazioni su questo nostro annoso enigma, su Twitter è spuntato un bilancio apparentemente estrinseco dal momento che riguardava i colossi dei servizi nati e cresciuti con internet:
«Amazon non ha negozi; Uber non possiede macchine; Facebook non ha contenuti; Alibaba non ha merci; Airbnb non ha appartamenti; Netflix non è una televisione; Bitcoin non è denaro fisico». Nessun collegamento con frontalieri e disoccupazione quindi, ma un legame con quell’elenco c’è: internet ha cambiato il mondo, lo ha fatto in poco più di un ventennio e continuerà a farlo con mezzi sempre più potenti estesi ai computer quantistici, ai laser e all’intelligenza artificiale. Il consiglio a questo punto è perentorio: anche nel nostro piccolo universo meglio relativizzare certe statistiche che, proprio perché basate su dati rinsecchiti già prima di nascere, imbesuiscono il clima politico e falsano le scelte da affrontare. Per trovare nuove opportunità bisogna saper voltare pagina. Anzi: voltiamo le tavole statistiche. Il terzo e ultimo consiglio è... in ritar-
do. Volutamente, visto che avrei dovuto proporlo a metà mese ma non potevo infrangere la regola (non scritta) che suggerisce anche ad «Azione» di evitare pronunciamenti su oggetti in votazione che non la riguardano direttamente. Mi riferisco all’iniziativa per modificare la designazione dei giudici federali posta in consultazione nei giorni scorsi. Gli iniziativisti chiedevano di porre fine una volta per tutte a lacci e laccioli che la partitocrazia impone ai cittadini, vale a dire da quando la legge indica il Parlamento elettore dei giudici federali. Il cambiamento proposto mi è subito sembrato troppo ordinario: un sorteggio puro e semplice fra candidati che possano garantire, oltre all’idoneità professionale, anche una rappresentanza (strana sensibilità in un sorteggio!) delle regioni linguistiche. Per questo avevo un consiglio da dare in caso di vittoria dell’inizia-
tiva: adottare il più sciccoso sorteggio inventato per l’elezione del Doge di Venezia. Questa la magica formula anti-brogli dei veneziani: da un’urna un bambino estraeva tante palline d’argento quanti erano i componenti del Maggior Consiglio; ad alcuni – a – capitavano delle palline d’oro, ma di questi trenta, venivano scartati. I rimanenti eleggevano altri elettori che a loro volta venivano ulteriormente ridotti a da una nuova estrazione: questi eleggevano altri nuovi elettori dei quali venivano immediatamente scartati, mentre i rimasti eleggevano altri elettori dei quali ne rimanevano solo che, uniti ai precedenti che non erano stati scartati, eleggevano finalmente il Doge. Sicurezza elevata alla massima potenza che, anche se millenaria, banalizza il sorteggio «secco» proposto per trovare giudici federali «neutrali».
Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXIV 29 novembre 2021
CULTURA
azione – Cooperativa Migros Ticino 41
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Progetto per Čiajkovskij Marcus Poschner dirigerà l’OSI e il violinista Christian Tetzlaff nel concerto del 9 dicembre
Una grande chitarra A colloquio con il chitarrista ed ex enfant prodige Julian Lage, a Lugano per un concerto
Pietrificati Al museo nazionale una mostra archeologica racconta la storia delle statue-stele
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L’esprit di Parigi a Milano Mostre
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A Palazzo Reale si celebra Monet con l’esposizione di una cinquantina di opere dal Musée Marmottan
Gianluigi Bellei
Immagino che abbiate già visto il Musée Marmottan Monet di Parigi. In caso contrario vi esorto a farlo. Anzi, visto che sono in vena di consigli vi propongo un itinerario da non perdere. Prima di tutto un salto a Villa Montmorency. Non è una vera e propria unica villa ma un agglomerato di case lussuose nel arrondissement circoscritto fra rue Poussin, rue Raffet e Boulevard de Montmorency. E vi abitano le persone più ricche della città. Naturalmente se non ne conoscete qualcuna non ci potrete entrare perché qui è tutto blindato con tanto di security al cancello. Parigi è stupenda: è la città dei contrasti e a questo punto potete spostarvi nel e e precisamente a Barbès. Nella Goutte d’Or troverete un mondo colorato e vario. Per immergervi nell’ambiente frequentate il mercato di rue Dejean dai profumi e sapori esotici. Qui vivono fra i più poveri della metropoli. Anni fa ci abitava un mio amico anarchico di Firenze. Aveva trovato un monolocale a pian terreno a poco prezzo. Al centro della sala una putrella di ferro sosteneva il soffitto, un po’ pericolante. Mi invitava a cena dopo il lavoro e, debbo dire la verità, girare fra queste strade al buio, metteva un po’ di timore. Detto questo potete fantasticare alla ricerca della bellezza. Direi immaginando una Venere callipigia in carne e ossa (per le donne oserei un Torso del Belvedere) e poi un salto al Musée de l’Orangerie. Qui in due sale ovali con luce zenitale trovate le Nymphéas di Claude Monet. Otto grandi dipinti definiti da André Masson nel la «Sistina dell’Impressionismo». mq di dipinto. Monet le dona allo Stato in seguito all’armistizio dell’ novembre come installazione di pace. Questo ciclo impegna l’artista per tre decenni, dalla fine del alla morte nel . La donazione avviene nel e le sale sono inaugurate un anno dopo la sua morte. Una vera estasi! Dopo esservi ripresi potete passare a visitare il Musée d’Orsay che detiene una novantina di opere di Monet tra le quali La rue Montorgueil durante la festa del giugno e La série des cathédrales de Rouen. Infine, un po’ discosto, recatevi al Musée Marmottan Monet che possiede oltre tele del maestro lasciate in eredità dal figlio Michel Monet. La storia di questo lascito ha dell’incredibile. Michel è l’unico erede alla morte del pittore, avvenuta nel . Un’eredità considerevole. Basti pensare ai titoli azionari o alla tenuta di Giverny che da sola valeva ’ franchi. I dipinti lasciati in eredità sono
Claude Monet, Ninfee, 1916-1919 ca. olio su tela. (Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966Inv. 5098 © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts); sotto, Claude Monet, Vétheuil nella nebbia, 1879, olio su tela. (Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5024 © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris)
di Monet e di altri artisti che facevano parte della sua collezione privata. Michel si ritrova così immediatamente ricco, e come molti figli di grandi artisti (pensate ai vari discendenti di Picasso), vive alla grande senza mai lavorare. Vizia sua moglie Gabrielle con doni esagerati: un anello di diamanti da carati o una
spilla con diamanti da carati del valore di un milione di franchi. I due viaggiano fra Africa, Italia, Svizzera. Vivono con una coppia di domestici. Ogni tanto il figlio vende un’opera del padre. Difficile stabilire l’importo delle singole transazioni. Emil Bührle all’inizio degli anni Cinquanta acquista, tra gli altri, un
pannello delle ninfee per milioni e mezzo di franchi e un altro per milioni di franchi. Nel Alfred Barr sceglie per il MoMa di New York un pannello di metri venduto dalla galleria Knoedler per milione e ’ mila franchi. Nel Michel vende diverse Ninfee alla Società di Belle arti di Winterthur e a Emile Bührle per circa milioni e ’ franchi. Naturalmente al fisco il figlio dichiara di essere nullatenente. Marianne Mathieu scrive che l’amministrazione finanziaria dello Stato stima che i redditi di Michel, «basandosi su alcuni segni esteriori di ricchezza», ammontassero a circa milione e ’ franchi per l’anno e milioni e ’ franchi per quello successivo. Si apre così un lungo contenzioso perché, come sostiene il suo notaio, i capitali non produttivi come le collezioni d’arte già gravate dall’imposta di successione non possono essere tassati come redditi. Oltre a tutto questo vi è il problema della vicenda delle ninfee dell’Orangerie. Queste sono state donate dall’artista allo Stato francese con la clausola che accanto a loro non vi siano altri dipinti, che la disposizione
dei pannelli non venga modificata né essi vengano coperti, pena la revoca della donazione. Come di sa all’Orangerie periodicamente vengono fatte delle esposizioni temporanee. Dal al sono in programma manifestazioni e diverse di particolare rilievo. In alcuni casi la direzione chiede a Michel il permesso di poter coprire temporaneamente le opere di Monet. Michel si oppone categoricamente: spera così di entrare in possesso delle tele. La vicenda è troppo lunga da raccontare per esteso e ha, a volte, degli aspetti esilaranti come una lettera perduta e altre amenità. In ogni caso, visto che Michel è senza eredi e data la sua non tenera età, deve decidere a chi lasciare i suoi beni. Dato che ha continui litigi con lo Stato decide di fare testamento a favore di un ente privato: il Musée Marmottan, appunto, che appartiene all’Académie des Beaux-Arts. Nel Michel muore e così le opere vanno al museo, che aggiunge al nome del vecchio proprietario anche quello dell’artista. In questi mesi a Palazzo Reale di Milano si tiene un’esposizione con una cinquantina di opere di Monet provenienti dal Musée Marmottan Monet di Parigi, appunto. Come sappiamo Palazzo Reale, scandalosamente, non organizza personalmente le proprie esposizioni ma le appalta a cosiddette società di servizi. A volte, se serie, riescono bene e sono di carattere scientifico. Altre, e sono la maggioranza, sono solo specchietti per le allodole; non aggiungono o tolgono nulla a quanto già si sappia e si possa vedere in qualche museo. Ma la ville lumière è così lontana? Comunque la mostra si inserisce nel progetto «Musei del mondo a Palazzo Reale» che speriamo possa svilupparsi con collaborazioni maggiormente discoste da noi. Una curiosità va comunque notata: il legame fra Palazzo Reale e Paul Marmottan, fondatore dell’omonimo museo costituito alla sua morte per volontà testamentaria dall’Acàdemie des Beaux-Arts. Marmottan è uno studioso d’arte dell’Ottocento, curioso, viaggiatore. In diverse occasioni passa da Milano dove allora, verso la fine dell’Ottocento, Palazzo Reale era di proprietà della famiglia Savoia. Negli anni gli arredi del palazzo vengono dismessi e in una di queste occasioni Marmottan acquista due medaglioni in bronzo raffiguranti l’imperatrice Joséphine e l’imperatore Napoleone I. Dove e quando Monet. A cura di Marianne Mathieu. Palazzo Reale, Milano. Fino al 30 gennaio 2022. Catalogo Skira, euro 32.
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Settimanale di informazione e cultura
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azione – Cooperativa Migros Ticino
CULTURA
Bello da togliere il respiro Concerti
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«Azione» mette in palio alcuni biglietti per l’appuntamento del 9 dicembre con l’OSI
Enrico Parola
Čajkovskij è l’autore attorno a cui Markus Poschner sta creando il nuovo progetto che vedrà protagonista in questa e nella prossima stagione l’Orchestra della Svizzera Italiana. Ne ha già eseguito al Lac e inciso la Quinta Sinfonia, adesso lo attendono le altre pagine orchestrali del compositore pietroburghese, da quelle più popolari ad alcune decisamente meno conosciute. Appuntamento-icona è quello del prossimo giovedì, quando l’Osi accosterà il Concerto per violino (solista è l’amburghese Christian Tetzlaff, alla Prima sinfonia, Sogni d’inverno. «Il Concerto vide la luce proprio in Svizzera, mentre il musicista soggiornava nella Villa Richelieu di Clarens, sul lago di Ginevra» racconta Poschner. «Non molti lo ricordano, ma sul suolo elvetico nacquero vari suoi capolavori e iniziarono ad essere concepite opere teatrali come Onegin: a Ginevra la Serenata per archi, a Interlaken la fantasia-ouverture Romeo e Giulietta; e la sinfonia Manfred, che annoverava tra le sue opere migliori, fu ispirata dalla contemplazione delle montagne svizzere che visitò per ripercorrere le tracce di Lord Byron, ispirato dal suo poema Manfred». Tracce è anche il titolo del ciclo ciajkovskiano e dell’intera stagione. «Nessun compositore più di lui ha rappresentato un ponte tra culture, nessuno quanto lui si è ispirato all’idea di Europa nel concepire e plasmare il proprio linguaggio. Basti
pensare alle sue sinfonie più mature, che sono un crogiuolo in cui confluiscono da tutta Europa i più svariati influssi: rintoccano gli echi di Mozart e Rossini, Beethoven e Berlioz. Čajkovskij era curioso, costantemente aperto al nuovo, e quando visitava un Paese se ne lasciava sempre influenzare, assimilando, rielaborando e ricreando il suo patrimonio musicale e spirituale». Un autore che il maestro bavarese conosce bene: «Sono venticinque anni che dirigo le sue sinfonie con continuità, ogni volta tornando a interrogarmi su di esse: non smetto mai di sbalordirmi quando mi affaccio sulla loro enorme profondità filosofica». Il non cedere mai alla routine, il non ripetere mai in modo pedissequo e acritico la tradizione è nei geni di Poschner, come ha dimostrato il fortunato e premiato progetto Rileggendo Brahms e come sta confermando il Rossini Project dove propone letture nuove, tetragone ai cliché, rispettose delle originali intenzioni dell’autore e della storia. «Da un secolo e mezzo Čajkovskij è una presenza ininterrotta e frequente nei programmi delle stagioni concertistiche di tutto il mondo, e in questo lungo lasso di tempo si è sedimentata una tradizione interpretativa divenuta imperante, fatta di grandissimi organici e volumi sonori poderosi, una monumentalità che è andata a discapito della trasparenza e delle sottigliezze di
Solista nel Concerto per violino di Čajkovskij sarà ChristianTetzlaff.
stampo cameristiche presenti nella scrittura čiajkovskiana. Bisogna tornare ad interrogarsi su come fosse realmente un’orchestra russa negli ultimi anni dell’Ottocento, e penso che la dimensione dell’Osi sia perfetta per restituirci il suono che Čajkovskij poteva immaginare per le sue sinfonie». Compito tutt’altro che facile, ricostruire l’esatto pensiero originale: «Compito arduo, oserei dire, perché lo stesso compositore era un eterno indeciso, perennemente insoddisfatto, tanto da continuare a rimaneggiare una partitura già eseguita per modificarla e migliorarla. Era altalenante anche nei giudizi che esprimeva
sui suoi stessi lavori: variava dall’entusiasmo più sfrenato al rifiuto quasi autodistruttivo, influenzato dallo stato d’animo o dalle contingenze biografiche in cui si trovava». Per questo può essere illuminante documentarsi non solo sulle prassi esecutive del tempo, ma sulle vicende biografiche e sui carteggi del russo. «Lo sono ad esempio gli scambi epistolari con solisti e direttori suoi amici: Willem Mengelberg, amico di Mahler (ne provava le sinfonie al Concergebouw di Amsterdam, dove sono conservati gli spariti con le annotazioni sue in cui riporta anche le osservazioni del compositore boemo, ndr.), portò le sinfonie
di Čajkovskij in varie tournée sotto la supervisione dello stesso russo, tra loro vi fu un confronto e un lavoro assiduo e intenso». In questo percorso Poschner è stato affiancato dal musicologo Christoph Flamm, che da anni è impegnato nello studio e ricostruzione delle partiture originali del compositore pietroburghese, lavorando con manoscritti e altri materiali custoditi nel museo Glinka di Mosca e nella casa-museo del musicista a Klin; uno dei primi frutti è stata una nuova edizione critica proprio del Concerto per violino. Due sono le versioni della sinfonia Sogni d’inverno; Flamm ha studiato anche la prima, di cui non è rimasto il manoscritto ma solo una copia sulla cui autenticità non v’è certezza totale. Punti interrogativi, questioni aperte, suggestioni, prospettive attraverso cui vedere musiche meravigliose: «La nostra speranza è che sia la rilettura sia l’ascolto delle sue famosissime sinfonie risultino tanto nuovi e radicali da togliere il respiro». Concorso «Azione» mette in palio alcuni biglietti per il concerto del 9 dicembre (LAC Lugano, 20.30). Per partecipare al concorso inviare una email a giochi@azione.ch con i propri dati con oggetto «OSI e Tetzlaff», entro le 24.00 di giovedì 2 dicembre 2021. Annuncio pubblicitario
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CULTURA
«Jules at Foce»: un concerto storico Jazz
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Il trio del chitarrista Julian Lage a Lugano, per una serata di respiro newyorkese
Alessandro Zanoli
Quante volte l’abbiamo detto ma, in effetti, non si finisce mai di stupirsi per la qualità della proposta musicale jazz nel nostro cantone. Può capitarvi in mano l’ultimo numero della rivista internazionale più quotata del settore, con l’intervista a uno dei mostri sacri sulle scene americane, e poche settimane dopo vi accadrà di ascoltarlo in Ticino, a due passi da casa. Una di queste esperienze si è verificata negli scorsi giorni, con il concerto del chitarrista americano Julian Lage, uno dei maggiori solisti attualmente in attività. Nato nell’, si porta dietro una reputazione di enfant prodige che spesso gli è stata nociva, in particolare nel giudizio di molti colleghi chitarristi. Lage deve in qualche modo scontare l’esposizione che gli è stata data nel dal documentario Jules at , in cui il regista Mark Becker aveva raccontato l’inizio di carriera del dotatissimo ragazzino.
Da sinistra: Julian Lage, Greg Cohen, Kenny Wollesen sul palco. (U. Wolf)
Julian Lage, protagonista di Jules at 8, non ha disatteso le promesse, ritagliandosi uno spazio tra i grandi del jazz Dopo anni di studi (culminati con il diploma alla prestigiosa Berklee di Boston) e di una progressiva, indiscutibile crescita artistica, Lage è oggi uno dei più interessanti e originali solisti sulla scena, sia come musicista sia come compositore. A coronamento di tanto impegno è arrivato di recente il suo ingresso alla Blue Note, forse la maggiore casa discografica del settore. L’abbiamo brevemente incontrato prima del concerto, dove ci ha confermato l’enorme soddisfazione e il senso di responsabilità che sente per essere entrato a far parte di quella scuderia. «Faccio fatica a rendermi conto di far parte di una casa discografica per cui hanno registrato Elvin Jones, Billy Higgins, Art Taylor, musicisti che mi hanno influenzato enormemente. Il disco che abbiamo
registrato, Squint, è essenzialmente un disco swing che, come sappiamo, è uno stile fortemente legato alla tradizione afro-americana. Siamo fortunati a poterla sentire una parte di noi, legata a noi. Far parte della Blue Note mi fa sentire parte della tradizione». Il concerto allo Studio Foce di Lugano ha proposto in effetti gran parte della tracklist di Squint, iniziando con Etude, un brano di chitarra classica moderna. Da subito ci si rende conto che la musica di Lage non è solo jazz, non è solo classica, ma è un melting pot, con alcuni spunti anche piuttosto rock, a dimostrazione di un ecletti-
smo raffinato che è la vera marca distintiva di Lage. E il riferimento allo swing è poco più che simbolico. D’altro canto è difficile tirare un confronto tra il concerto e l’album, perché la personalità musicale dei due eccezionali partner di Lage (presentandoli al pubblico li chiama «Master Kenny Wollesen» e «Master Greg Cohen») prende giustamente il sopravvento su un repertorio che del resto è costruito su misura per il bassista Jorge Roeder e il batterista Dave King. Nell’intervista Lage ci ha confermato che il repertorio è nato proprio da un’interazione con questi ultimi.
«I miei album precedenti a Squint erano stati molti influenzati dalla personalità musicale di Jesse Harris, un produttore e arrangiatore newyorkese, che mi spingeva verso un suono pulito, e composizioni più melodiche, armoniose. Con Jorge e Dave invece ho lavorato cercando di esprimere vari aspetti della mia personalità musicale. Abbiamo preso dei pezzi, abbiamo tolto, abbiamo aggiunto, li abbiamo fatti diventare qualcosa di molto personale, di nostro». In questo concerto luganese i brani del disco sono stati il «pacchetto di base», ma senza i due sparring partner usuali.
In particolare il bassista Greg Cohen (un colosso musicale, ha suonato con John Zorn e con Tom Waits, tra gli altri) ha avuto poco tempo per familiarizzarsi col repertorio, visto che sui nove concerti di questa tournée europea, a lui sono toccate solo tre serate. «Ho dovuto semplificare molte cose, per fare in modo che lui potesse adattarle al suo stile. Ma è un grande onore poter suonare con lui e con Kenny, con il quale avevo registrato un album in passato, Modern Lore». Su Squint i membri originali del trio hanno un approccio più dinamico e brioso, mentre in qualche modo Wollesen e Cohen danno dato dal vivo un contributo più classico, in un certo senso più semplice. I pezzi comunque sono stati affrontati con maggiore calma e controllo dallo stesso Lage, che nell’album appare invece più aperto alla sperimentazione e all’estroversione. La scaletta, iniziata con la prima traccia del disco, comprenderà i vari pezzi forti, tra cui Saint Rose (dedicato alla cittadina natale di Lage) per concludersi con Call of the Canyon, l’unica cover, tratta dal repertorio dell’orchestra di Tommy Dorsey. La reazione del pubblico davanti a tanta dimostrazione di bravura, unita del resto alla semplicità e simpatia di Lage che sul palco sembra il perfetto bravo ragazzo vicino di casa, è stata di grande entusiasmo. Sarà che fa bene poter finalmente ascoltare musica dal vivo e tornare a toccare con mano il flusso musicale della contemporaneità, ma l’accoglienza riservata al trio di Lage è stata generosissima. «È molto bello poter tornare a suonare», ci aveva detto Lage, da parte sua: «Anche negli USA la gente ha voglia di musica e, nonostante tutti i rischi, ci sono concerti ogni momento, dappertutto. Noi cerchiamo di stare il più attenti possibile, ma siamo profondamente grati per questa attenzione». Il jazz continua, nonostante il virus, grazie anche a Rete Due Rsi e alla Divisione eventi di Lugano.
Un dizionario amoroso Editoria
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Il dizionario d’autore del genere poliziesco curato e presentato con maestria dallo scrittore francese Pierre Lemaitre
Stefano Vassere
Non è sorprendente che un dizionario d’autore sul giallo potesse essere affidato a Pierre Lemaitre, versatile scrittore francese, premio Goncourt qualche anno fa e scrittore di gialli che si potrebbero definire «semiotici», con personaggi e firme del genere che entrano ed escono dalla vicenda, citazioni dalle opere di Roland Barthes e James Ellroy, librai e docenti che nella storia elencano ulteriori libri canonici, omaggi, teorie, rinvii a tradizioni nazionali del poliziesco, britannica, americana, svedese, casi risolti grazie alla lettura e molto altro. Insomma, non è una sorpresa. Certo, fare stare decenni e pigli innumerevoli di un genere in un pur ampio (sono settecentocinquanta pagine) Dizionario d’autore dalla A alla Z sarebbe impresa pressoché impossibile, non fosse che per il fatto che l’autore già dai paragrafi di esordio imprime un taglio personalissimo, ragionando in prima persona, distillando e distinguendo: come quando
nell’apparato introduttivo Lemaitre non può che citare l’utilità del «libro di Henrik Lange Lektioner i mord, che fa l’inventario “delle fesserie e delle inezie” indispensabili per iniziare a scrivere un giallo svedese». Sempre che di genere si possa parlare. Parlando di A sangue fred-
do di Truman Capote («La scoperta di questo libro mi ha turbato»), Lemaitre lo classifica nella casella del giallo, anche se lì la rappresentazione della cronaca di un omicidio cede un primato di interesse al valore fuori misura dell’incontro e dello scontro tra realtà e finzione: ci stanno, in quella fondamentale opera, il crimine reale, il modo di narrarlo e la storia dello scrittore che lo racconta. Complice l’ordine alfabetico, il percorso è personale nella composizione ma anche nella lettura. C’è ovviamente Ellroy, ma c’è pure il carcerario Edward Bunker, ci sono Pete Dexter, Chandler, Carlotto, Lucarelli, Loriano Macchiavelli, Scerbanenco, Hitchcock; ci sono i testi fin troppo neutri su Stieg Larsson e la serie Millennium, c’è una vagamente autoreferenziale voce «Goncourt (Premio)». Il cuore del libro porta poi, in ennesimo gioco di riflessi e di ritorni, un lemma «Noir (Romanzo)», che introduce la delicata questione della classificazione, affolla-
ta di etichette innumeri come noir, giallo, poliziesco, novela negra, hard boiled, pulp, polar e tante altre. Interrogarsi sul genere e scegliere un procedere di continue entrate e uscite dai testi usando qua e là un metro narrativo in linea fa parte del metodo conosciuto e apprezzato di Pierre Lemaitre, che ancora una volta si dimostra figlio fedele degli insegnamenti del nouveau roman francese. Il giudizio sugli autori italiani è decisamente generoso: di Lucarelli Lemaitre loda «l’incredibile virtuosismo» e prove «sbalorditive»; poi, «ho sempre amato il modo in cui Macchiavelli interrompe la narrazione per rivolgersi direttamente al lettore»; e Carlotto «è uno dei migliori rappresentanti del giallo italiano». Documentate menzioni anche per Giancarlo De Cataldo, Marcello Fois, Fruttero e Lucentini: di questi ultimi, La verità sul caso D., che coinvolge nella ricerca della misteriosa morte di Dickens una serie di investigatori letterari, Sherlock Holmes,
Poirot, Maigret, Marlowe e altri, è promosso a «capolavoro di umorismo e astuzia». Due note per la traduzione, non facile ma puntuale, di Elena Cappellini. Peccato che l’edizione italiana del libro non salvi una qualifica che è nel titolo originale francese, che fa Dictionnaire amoureux du polar. È che l’editoria francese conosce il genere del «dizionario amoroso», che si muove per scelte affettive e automaticamente non è esaustivo. «È dunque un innamorato che parla e che dice…», dice Roland Barthes in una bella citazione cautelativa. E poi, ma è marginale, quando in una eventuale seconda edizione si parlerà dell’Orient Express (da cui il noto Agatha Christie), converrà ricordarsi che il toponimo Simplon ha una versione in italiano: il semplice Sempione. Bibliografia Pierre Lemaitre, Il giallo secondo me. Dizionario d’autore dalla A alla Z, Milano, Mondadori, 2021.
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PUBBLIREDAZIONALE
BECAUSE YOU ARE WORTH IT L’Oréal Paris ha lanciato il programma «L’Oréal for the Future, because our Planet is Worth it» in cui definisce gli obiettivi di sostenibilità che intende raggiungere entro il 2030. Forte dei risultati già ottenuti e in accordo con la strategia del Gruppo L’Oréal, il marchio L’Oréal Paris si pone ora l’ambizioso traguardo di ridurre del 50% la propria impronta CO2 per il prodotto finale. «È ormai tempo di conciliare innovazione, sostenibilità e sviluppo, di passare definitivamente a un’economia circolare e ridurre l’impatto dei nostri prodotti sull’ambiente», dichiara Delphine Viguier-Hovasse, Global Brand President di L’Oréal Paris. «Da questo punto di vista non partiamo da zero. Tra il 2005 e il 2020, i nostri stabilimenti e i nostri centri di distribuzione hanno diminuito dell’82% le emissioni di CO2, del 44% il consumo d’acqua e del 35% la produzione di rifiuti. Certo c’è ancora molto da fare, e proprio per questo abbiamo deciso di ingranare una marcia in più e dare un contributo ancora maggiore alla lotta contro il cambiamento climatico. In qualità di marchio leader della cosmesi a livello mondiale, L’Oréal Paris ha il potere e il dovere di agire concretamente in difesa del pianeta».
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3 L’Oréal Elseve Maschera rinforzante Full Resist Power Mask, 680 ml Fr. 14.80
L’Oréal Revitalift Classic senza profumo, 50 ml Fr. 16.40
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L’Oréal Elseve Shampoo Color-Vive, 250 ml Fr. 3.85 L’Oréal Elseve Balsamo Color-Vive, 200 ml Fr. 3.85
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MONDO MIGROS
Queste le misure adottate da L’Oréal Paris per ridurre il proprio impatto ambientale:
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1 RIDUZIONE DEL PESO DI CONFEZIONI E IMBALLAGGI
4 Men Expert Barber Club Shampoo doccia solido, 80 g Fr. 7.95
Per risparmiare risorse naturali e ridurre la propria impronta CO2, il marchio ha già alleggerito confezioni e imballaggi. Il vasetto della crema rassodante senza profumo Revitalift, per esempio, ha «perso» 11 grammi, che in un anno corrispondono a 434 tonnellate di vetro risparmiato. Anche le scatole in cartone e i foglietti illustrativi delle tinte per capelli hanno perso peso e comportano quindi un minor consumo di carta su base annuale. Entro il 2030 l’Oréal Paris si prefigge di ridurre del 20% la quantità di materiale impiegato per confezioni e imballaggi: meno peso e meno ingombro incidono positivamente anche sulle emissioni di carbonio dei mezzi di trasporto.
2 IL CAMBIAMENTO FATTO AL FLACONE
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Mascara Volume Million Lashes Balm Noir, Fr. 24.90 Rossetto Color Riche Satin 297 Red Passion, Fr. 20.90
Già nel 2020 L’Oréal Paris ha segnato una svolta verso la sostenibilità adottando in Europa, per la sua nota gamma di shampoo e balsami Elseve, flaconi in PET riciclato al 100%.
3 FORMULAZIONI PIÙ RISPETTOSE DELL’AMBIENTE
Per ridurre il carico inquinante di tensioattivi & Co., il marchio lavora già da tempo a migliorare la biodegradabilità delle proprie formulazioni e a limitare il consumo d’acqua. Tra i prodotti lanciati nel 2019, per esempio, la maschera rinforzante per capelli Full Resist Power Mask Elseve vanta una biodegradabilità del 97%.
4 CONFEZIONE RICICLABILE AL 100% E ZERO PLASTICA
Anche sul fronte dei prodotti da uomo ci sono buone novità per l’ambiente, e uno degli ultimi nati tra i prodotti della linea Barber Club ne è un perfetto esempio: il nuovo shampoo doccia solido è proposto in confezione riciclabile al 100 % e senza un briciolo di plastica.
5 PRODUZIONE SOSTENIBILE
Nel frattempo L’Oréal Paris prosegue nella ricerca di soluzioni per contenere le emissioni di CO2, il consumo d’acqua e la produzione di rifiuti dei propri impianti di produzione. Dei 26 stabilimenti L’Oréal Paris sparsi in tutto il mondo, 11 sono già clima-neutrali (utilizzano energie rinnovabili al 100%, senza compensazione), mentre i restanti 15 raggiungeranno l’obiettivo entro il 2025. Iconici prodotti di make-up come il mascara Volume Million Lashes e il rossetto Color Riche vengono già prodotti in stabilimenti clima-neutrali.
OBIETTIVO: PLASTICA RICICLATA AL 100%
Per accelerare la transizione all’economia circolare, L’Oréal Paris punta a ottimizzare la recuperabilità delle proprie confezioni, così da risparmiare risorse naturali e ridurre l’inquinamento da plastica. Il primo passo: utilizzare sempre più materiale di riciclo con l’obiettivo di impiegare entro il 2030 solo plastica riciclata al 100% o bioplastica.
Investire nelle donne per tutelare l’ambiente
Dato che le donne sono fra le principali vittime del cambiamento climatico, L’Oréal Paris ha in programma d’investire 10 milioni di euro in una serie di sei progetti per l’ambiente collegati ad altrettante associazioni di donne in diverse parti del mondo. Oltre a fornire supporto economico, L’Oréal Paris punta miratamente a promuovere l’iniziativa femminile anche attraverso assistenza e formazione: in Honduras, per esempio, dove il marchio cosmetico fornirà sostegno a una cooperativa di donne indigene che si occupano della tutela e del rinfoltimento delle mangrovie.
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Gli uomini della pietra
Mostre ◆ Una grande mostra archeologica al Museo nazionale di Zurigo con statue-stele dalla Svizzera e dall’Europa Marco Horat
Ab ovo usque ad mala recita un proverbio latino, «dall’uovo alle mele» o in altre parole: dall’inizio alla fine, visto che i romani cominciavano il pranzo con uova e finivano, come noi, con la frutta. Potrebbe essere questa l’insegna della mostra al secondo piano del nuovo edificio del Landesmseum di Zurigo, intitolata Uomini scolpiti nella pietra. Sono circa le statue-stele scolpite e incise dall’uomo a partire dal IV-III millennio a.C. in tutta Europa, dal Caucaso alla Penisola iberica, allo studio da parte degli specialisti e non ancora molto conosciute dal grande pubblico. Alcune di queste fanno ora mostra di sé a Zurigo, in provenienza da Svizzera orientale, Italia, Francia e Germania. A fare da premessa al percorso, in cima allo scalone di accesso, appare in tutta la sua imponenza l’ovo di cui sopra: un menhir di anni fa del peso di una tonnellata e mezzo, con un contorno umano appena sbozzato: l’origine di tutto. Poi vengono le decine e decine di succose mala. L’inizio del percorso ci fa fare un salto in avanti nel tempo di circa anni e presenta sia alcuni ritrovamenti del Petit Chasseur dovuti ad Alain Gallet negli anni ’’, sia statue-stele scoperte gli anni scorsi a Sion. In generale in queste lastre di marmo grigio sono evidenti la forma della testa arrotondata, le spalle e il collo decorato con collane o pendagli; sulla superficie sono incisi i contorni delle braccia e delle dita con la presenza di armi quali pugnali, arco e frecce, cinture e decorazioni geometriche a triangoli o losanghe per gli abiti, probabilmente colorati visto che sulla superficie sono stati rinvenuti pigmenti di ocra e cinabro; raramente si vedono anche le gambe, come se il personaggio fosse seduto in trono, oppure si indovinano tatuaggi, scarificazioni e acconciature. «Gli scavi recenti di emergenza e gli oggetti recuperati – spiega Luca Tori, curatore della mostra – ci fanno comprendere meglio il contesto originario nel quale venivano utilizzate le stele. Gli scavi precedenti avevano restituito stele in giacitura secondaria, spezzate intenzionalmente e poi riutilizzate come materiale da costruzione per successivi monumenti funerari. Ora sappiamo invece che queste erano infisse nel terreno in allineamento, poiché si sono ritrovate le loro basi ancora in situ: erano erette non singolarmente ma in fila all’interno di un’area funeraria, un santuario per il culto degli antenati, come dimostrato anche nel sito di Saint Martin de Corléans vicino ad Aosta, che dista dal Vallese poche decine di chilometri in linea d’aria». Il viaggio archeologico continua attraverso l’Europa, visitando siti e
Una performance per il nostro clima
In scena ◆ Uno spettacolo ecologico per grandi e piccoli sotto l’egida di Lea Moro Giorgio Thoeni
La coreografa e performer svizzera Lea Moro, una delle tante promesse artistiche uscite dalla Scuola di Teatro Fisico Dimitri di Verscio, oggi Accademia, dopo un prestigioso percorso di ulteriore formazione al Laban Center di Londra e il BA Dance, Context, Coreography all’University Center for Dance di Berlino, attualmente è una delle più affermate e prolifiche protagoniste del panorama della coreografia contemporanea.
Il LAC Dance Project, alla sua prima edizione, intende fare conoscere i talenti della scena coreografica svizzera
Stele femminile con volto a forma di U, seni e braccia. Arenaria. 3000-2000 a.C. Italia,Toscana, Fivizzano. (© Angelo Ghiretti, Museo delle Statue Stele Lunigianesi)
reperti nella citata Valle d’Aosta, nel Trentino (località di Arco), in Lunigiana e Sardegna, ogni regione con caratteristiche comuni ma anche con particolarità locali. Si passa infine alla Francia e alla Germania. «È difficile distinguere il sesso di queste rappresentazioni, spiega ancora Luca Tori. Finora grazie alla presenza dei seni si è stabilito che circa il % sono figure femminili, mentre per quelle maschili si arriva al % grazie alle armi. Come si capisce, il sesso non doveva essere determinante quanto lo status della persona. Si tratta della rappresentazione di un personaggio particolare oppure di un buon sovrano o buona sovrana idealizzati». Il terzo modulo della mostra presenta statue-stele messe a confronto con reperti archeologici evocati sui monumenti, passando dal bidimensionale al tridimensionale: armi (un bastone d’ascia o forse un pastorale del -), utensili, gioielli e perfino tessuti (un frammento di mantello in raffia di tiglio dal Canton Zurigo) che illustrano chiaramente il rapporto tra figure scolpite e status sociale dei soggetti, così come ci parlano dei progressi della società e delle innovazioni: «Sulla parte inferiore di una stele del Tirolo – racconta Luca Tori – è rappresentato ad esempio un carro a quattro ruote tirato dai buoi. Vuol di-
re che nel IV millennio la gente era sedentarizzata e gli animali addomesticati. L’uomo conosceva la ceramica, usava la ruota – in vetrina ne abbiamo una datata a. C. – praticava l’agricoltura e la tessitura». Le stele sono documenti per leggere il cammino dell’uomo e i cambiamenti introdotti nella società, come, nell’ultima sezione della mostra, ci raccontano quelle in parte anche rimaneggiate, che al posto della testa portano ad esempio un Sole. Anche altri corpi celesti sono rappresentati sulle figure, e sono ben evidenziati da ingrandimenti fotografici proiettati a parete, accostati a reperti archeologici tra i quali spicca, tra ceramiche e monili da sepolture, un pezzo del famoso tesoro in oro di Altstetten risalente all’Età del Bronzo. È nata una nuova religione, insegna Stonehenge, nuove credenze nelle quali si riflette il volto della società agricola neolitica, legata ai cicli della natura, e dove paradossalmente l’uomo non è più al centro dell’universo. «Si passa insomma dal culto della personalità al culto della divinità», conclude Luca Tori. Dove e quando Uomini. Scolpiti nella pietra, Zurigo, Museo nazionale. Orari: mado 10.00-17.00; gio 10.0019.00. Fino al 16 gennaio 2021. info@nationalmuseum.ch
Basterebbe contare il numero dei professionisti che abitualmente collaborano alle sue produzioni per rimanere storditi dalla quantità (e dai mezzi)! Questo d'altronde è il risultato dei numerosi successi collezionati a partire dal con lavori che sono stati presentati in numerosi teatri guadagnandosi una diffusione e una rinomanza internazionali. Recentemente, dopo circa trenta date, il Teatro Studio del LAC ha accolto l’ultima rappresentazione di All Your Eyes Believe, uno spettacolo firmato da Lea Moro e approdato a Lugano grazie al progetto LAC Dance Project alla sua prima edizione con l’obiettivo di contribuire a far conoscere i talenti della scena coreografica
svizzera che hanno particolarmente valorizzato il rapporto fra arte, corpo e movimento. All Your Eyes Believe, creato per il pubblico più giovane, è una proposta dal taglio ambientalista ed ecologico, un messaggio giocoso per illustrare i pericoli che corre il nostro ecosistema apparentemente in caduta libera. Un soggetto d’attualità pensato per essere fruito da piccoli spettatori ma utile anche per gli adulti. Tre danzatori-performer si svelano come creature ibride, avvolte in stracci che nascondono plastica, forme e colori. Tre corpi animati, ammucchiati uno sopra l’altro su una scena occupata da oggetti: una rete, una tenda, tentacoli che penzolano, una sfera di ghiaccio sospesa che si scioglie a poco a poco… il tutto potrebbe alludere a un fondale marino soffocato, in cerca di vita, o a un paesaggio terrestre dove la natura è circondata, soffocata da rifiuti. Immagini forti rese giocose dalle tre creature in una sorta di simbiosi e di condivisione con il pubblico fra simboli espliciti di una situazione problematica. Al termine, la platea chiamata a partecipare viene divisa in piccoli gruppi. Guidati dai tre protagonisti, le e i giovani performer vengono coinvolti in semplici esercizi di sensibilizzazione, fra domande e allusioni volte a lasciare impresse le immagini di uno spettacolo evocatore di una terra in pericolo che non vorremmo lasciasse il posto a una catastrofe ambientale.
Un momento dello spettacolo andato in scena al LAC. (leamoro.com)
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CULTURA ●
In fin della fiera
di Bruno Gambarotta
I gamberoni del Maestro Braghetta ◆
Il maestro Olimpio Braghetta non ha motivo di lamentarsi di sua moglie Ottavia, tranne che su un punto. Lei continua a usare il suo cognome da ragazza, che sarebbe Ferrero, e non vuol saperne di presentarsi con quello che ha acquisito sposandosi. Qualche ragione ce l’ha; la distinta signora è docente in un liceo e, poiché gli studenti hanno l’abitudine di citare le insegnanti con il cognome preceduto dall’articolo determinativo, lei diventerebbe per tutti semplicemente «la Braghetta». La braghetta, spiega la Treccani, è il lembo di tessuto che copre la parte anteriore dei pantaloni dei marinai, che si abbassa come uno sportello e si chiude sui fianchi con bottoni. Per di più nei secoli passati gli uomini avevano la bella abitudine di utilizzare la braghetta come ripostiglio per i genitali. Per Olimpio il problema non si pone, intanto perché non si dice «il Braghetta», poi perché il titolo di maestro gli deriva dall’essere istruttore di arti marziali e a nessuno
che si venga a trovare nei suoi immediati dintorni verrebbe mai in mente di scherzare sul suo cognome. Il maestro Braghetta non ha paura di niente e di nessuno ma, mentre il termine «nessuno» non prevede eccezioni, nella tela del «niente» c’è uno strappo provocato dai batteri, dai virus e da tutti quei corpuscoli che, per essere invisibili all’occhio umano, sono insensibili alla minaccia di un colpo di karate. Il maestro è stato fra i primi a vaccinarsi nei tre turni e a prendere tutte le precauzioni. Se non che nel muro eretto contro il virus del Covid, si è aperta una piccola crepa nella quale ne è penetrato uno di tutt’altro genere. Tutto è nato da un impulso innocente della moglie. Hanno aperto un nuovo emporio di prodotti surgelati. Per attirare clienti, hanno proposto una serie di prodotti super scontati. È praticamente impossibile resistere alle offerte speciali: lo sappiamo bene noi che, alla vigilia della partenza per il mare, siamo tornati
Un mondo storto
a casa con tre passamontagna al prezzo di uno. La moglie del maestro, tornata a casa, estrae dalla borsa termica, tra gli altri acquisti, una busta di gamberoni imperiali: «Questi li cuciniamo subito. Mi hanno spiegato che vanno buttati nell’acqua bollente senza scongelarli. Aiutami», ha detto al marito. È a questo punto che va collocata la tragedia. Il maestro ha infilato la mano destra nel sacchetto per estrarre i gamberoni uno per uno. Al terzo non si va ad infilare tra l’indice e il medio una sorta di ago acuminato che spunta dal muso della bestia? Sul momento sembrava una sciocchezza, anche se il ferito non poteva negare un certo qual fastidio e un prurito, ma si sa che in quel punto la cute è particolarmente sensibile. Il maestro Braghetta si è goduto solo il primo dei gamberoni. Già al secondo la moglie lo sorprende mentre si massaggia con viso pensoso e dolente la parte malata o per meglio dire infetta. «Già che sei in piedi», dice alla mo-
glie seduta, «ti dispiacerebbe portarmi l’enciclopedia della medicina?». Lei tenta di resistere: «Ti sembra il caso? Goditi in pace i gamberoni. Hai tutto il tempo per consultare la tua enciclopedia». Niente da fare: «Faccio solo un controllo rapido, così mi metto il cuore in pace». Figuriamoci. Il maestro va a colpo sicuro con l’aria di chi conosce a fondo il libro che ha tra le mani: «Ecco qua», dichiara trionfante, «sono stato infettato da un anchylostoma. I sintomi ci sono tutti. I tuoi gamberoni vengono dal Giappone, vero? Va a vedere per favore». È necessario ripescare dal cesto porta rifiuti di plastica la busta e leggere la strisciolina scritta in tutte le lingue meno l’italiano. «Vengono da Antananarive, sei contento adesso? Il Madagascar è ben lontano dal Giappone». «Cosa significa ben lontano? Non dobbiamo dimenticare che siamo nell’era della globalizzazione». «Ma ai gamberi imperiali nessuno gliel’ha detto», «Intanto senti qua co-
me s’è indurito. Non negherai che siamo in presenza di una cisti». «Ti rendi conto almeno che questi gamberi sono stati surgelati due mesi fa e che i batteri a quelle temperature non resistono?» «Ho letto un articolo dove si dice che hanno trovato in Antartide un batterio sopravvissuto a temperature ben più rigide. Su YouTube hanno aperto un sito dedicato a quel batterio, ha già cinque milioni di follower. Io mi metto a letto. Tu intanto cerca su Google un medico specialista in malattie tropicali che abiti nel nostro quartiere. Digli anche che se c’è da tagliare tagliamo». La signora Ferrero in Braghetta telefona al medico di famiglia e con lui non sono necessarie tante spiegazioni. Una confezione di innocue pastiglie spogliata della scatola e del bugiardino e presentata come una nuova terapia lo guarirà. Ma il maestro Braghetta, quando è sicuro che nessuno lo stia osservando, esplora pensieroso lo spazio fra indice e medio della mano destra.
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di Ermanno Cavazzoni
Cose vecchie ◆
I mercati di roba usata sono un’esperienza che consiglio. Prima di tutto per il misto favoloso e angosciante che c’è. In genere ci si trova l’arredamento degli ultimi anni di una famiglia a basso reddito. Sembra di entrare in una casa di morti. E le cose pure loro sono cose morte. Ci sono gli armadi, sfilate di armadi ingombranti ancora con il puzzo della naftalina; vicino le relative testate del letto matrimoniale; gli sposi ci avranno dormito ogni notte, producendo l’odore tipico della vita matrimoniale, un odore tiepido e un po’ malsano, che impregna il materasso. Infatti di materassi usati ce ne sono meno, perché fanno un po’ schifo, essendo l’odore indelebile. Allora finiscono nelle isole ecologiche di smaltimento dove vengono bruciati, perché nessuno vorrebbe dormire nei liquidi organici di un’altra famiglia, coi suoi
acari, le micro desquamazioni, le forfore. Solo qualche barbone osa accucciarsi negli odori altrui, e nasconde in un angolo buio un materasso di vecchia data e ci dorme, fin che le autorità glielo permettono. Poi ci sono i cassettoni, perché la camera matrimoniale è fatta di letto, armadio e cassettone, in genere nello stesso stile, in genere di legno finto, cioè segatura compressa e un sottile rivestimento plastificato. In contiguità c’è il salotto, che vuol dire divano con due poltrone e un tavolino basso coperto da un vetro, e l’eventuale mobiletto bar, che però non è frequente, essendo un lusso super extra se foderato di specchio e con luce interna. Si trovano a volte le bottiglie ancora sigillate di amaro, di cognac, marsala, centerbe, grappa, un whisky inglese degli anni - che nessuno ha mai bevuto, e dopo trent’anni nessuno ha
più avuto il coraggio di bere, rimanendo però in mostra nella vetrinetta, a testimoniare un certo qual lusso nei ricevimenti potenziali, che però non ci sono stati, e se ce n’è stato qualcuno hanno preferito il caffè, ma il liquore grazie no, anche se già erano pronti i bicchierini, rimessi via e mai usati. Infatti di bicchierini se ne trovano in abbondanza. Poi sale da pranzo con tavole e sedie. Ci sono sale da pranzo in cui di fatto non si pranzava mai, e allora i mobili sono in perfetto stato, però con un’aria gelida, che crea malessere, ci si mangiava quando veniva la suocera, ed erano pranzi artificiali, cui seguiva, spesso, un litigio fra i coniugi, che gettava un senso di disgusto sulla sala da pranzo. Questi tavoli hanno poco successo, li compra qualche immigrato, incantato dal lucido e dal piano ancora nuovo; sono altre le sue regole famigliari
e non ci riconosce il gelo domenicale della triste vita di coppia occidentale. Segue il settore stoviglie, i piatti sbeccati, i bicchieri spaiati, il servizio di posate ossidate, la piastra da fuoco inutile e perciò mai usata, i porta uovo, i regali di nozze ancora incartati di finto argento, che comprendono salsiere, il secchio per lo spumante, coltellini in lega metallica che imita l’oro, pomposi vasi da fiori, il kit per i formaggi, dio mio che tristezza! Più in là ci sono i vestiti; le mode che parevano imprescindibili, adesso sono ridicole; quando torneranno in auge, la muffa e le tarme li avranno bucherellati. E vicino ci sono i libri, soprattutto i best seller, comprati da chi non legge; come i vestiti sembrava necessario averli, adesso sono inguardabili, delle schifezze da macero, titoli di moda di autori sepolti; scorrerli fa male al cuore, promesse d’immortalità dura-
te un’estate, ahimè! oppure autori con una media fama che nessuno adesso vuole più in casa. C’è anche qualche classico, ma con la copertina dorata e rigida, per fare bella figura, usati come soprammobili, ahimè! assieme ai portacenere pesanti di vetro e a qualche vecchia coppa sportiva, premio ciclistico, premio di tombola. Qualcuno le compra e le riadatta ad un altro premio, poi torneranno qui, tra la roba a fine carriera. E infine si trovano pure stampelle, cyclette, congegni per la riabilitazione, deambulatori ortopedici, sedie a rotelle e letti ospedalieri finali; perché in questi mercati c’è rappresentato l’arco intero della vita umana, col suo triste finale, più o meno sempre uguale. Ci si deve venire con spirito archeologico, come se si fosse scavato e si fosse scoperta una tomba sotto la cenere di un’eruzione.
●
Voti d’aria
di Paolo Di Stefano
Ingarellarsi per il dialetto ◆
Michele Rech, in arte Zerocalcare, merita di volare su un voto d’aria alto (+). Meravigliosa la serie animata trasmessa su Netflix, Strappare lungo i bordi, sia per i disegni sia per il linguaggio, velocissimo come quello degli adolescenti d’oggi, flusso di coscienza mimetico, strambo, onirico a tratti, malinconico, comico e persino disperato. Si è polemizzato nei social sull’uso spinto del romanesco (con necessità di sottotitoli per i non romani). E qui si coglie, se ce ne fosse bisogno, l’assurdo di tanti polveroni avviati su Facebook () o su Twitter (+). Ne è nata una polemica talmente idiota che non si capisce allora perché, mutatis mutandis, non polemizzare con Carlo Emilio Gadda perché fa parlare i personaggi del Pasticciaccio in quer «maccheronico inconcludente» e incomprensibile, o perché non attaccare Pier Paolo Pasolini per il gergo der ladruncolo borgataro Riccetto
in Ragazzi di vita. E Camilleri, allora? E Gomorra? Che ne facciamo? Avviamo una polemicuccia perché usano espressioni idiomatiche locali? Siamo al livello zero (senza calcare) di intelligenza e al livello mille di scemenza. Tant’è vero che lo stesso Zerocalcare ha risposto ironicamente su Twitter rincarando la dose: «Madonna rega come ve va de ingarellavve su sta cosa». Ovvero: «Madonna ragazzi, come vi capita di mettervi a discutere di questa cosa», usando un verbo, «ingarellarsi», che significa romanescamente «mettersi a competere, fare a gara». Sempre mutatis mutandis, sarebbe come pretendere da Joyce che scriva pane al pane piuttosto che adottare una lingua pressoché indecifrabile per raccontare la passeggiata del suo Leopold Bloom per le vie di Dublino. Oppure, se vogliamo concentrarci sul cinema, con questi criteri si rischia di
«ingarellarsi» con Federico Fellini accusandolo di aver troppo colorato di romagnolo una delle scene più tenere di ½, quella in cui la nonna mette a nanna i nipotini al lume di una candela: «Durmì ben, creaturèini…» (voto d’aria ½). Per non parlare del nonno di Amarcord, che pronuncia frasi come: «È ba de mi ba u m’à imparè» (½ bis), che tradotta sarebbe: «Il babbo del mio babbo mi ha imparato…». Che cos’è questo bisogno irresistibile di trasparenza, questo pretendere di capire tutto senza fare i conti con le esigenze dell’espressione artistica, di qualsiasi arte si tratti? Ecco uno dei caratteri più tipici della nostra turgida epoca: essere sempre pronti a «ingarellarsi» con chiunque pur di far echeggiare il proprio ego. Uno storico della lingua, Massimo Palermo, è intervenuto nel sito letterario Le parole e le cose (++) a difesa del romanesco adottato da Zerocal-
care: che secondo Palermo supera addirittura le intenzioni di Pasolini e di Gadda, perché conferisce al dialetto una possibilità che non ha mai avuto: quella di comunicare a gradi, dall’alto al basso, non più solo di far parlare le periferie e i margini come accadeva in Pasolini, o di mettere in scena il gliommero comico-grottesco della vita come in Gadda. Qui si attraversa in dialetto il comico, il tragico, la riflessione esistenziale e la riflessione politica: «Insomma, – scrive Palermo – si viene molto spiazzati emotivamente, al punto da solidarizzare liberatoriamente con una delle citazioni che stanno più girando nei social: Però volevo guardà ’na serie, non fà psicoterapia, li mortacci tua!». Dio sa di quanta psicoterapia avrebbero bisogno gli adolescenti al tempo del Covid. C’è anche un antico pregiudizio contro il romanesco un po’ strafottente
e sbracato con cui è cresciuta la Rai, fino a diventare egemonia linguistica nazionale in bocca a presentatori e giornalisti. Per la verità ancora oggi qualcosa di simile accade. Qualche settimana fa, uno scambio di battute tra il conduttore e un ospite col dito bendato: «Tutto bene?». «Benino, te?». «Che c’hai ar dito?». Seguiva sondaggio in studio per alzata di mano con domanda preventiva der presentatore: «Chi li sta a segna’ i voti?». Per mitigare il pregiudizio anti-romanesco, spenta la tv, non resta che andare in libreria e cercare le Poesie di Trilussa (), appena uscite in una nuova edizione Bur Rizzoli, per gustarsi certi quadretti della società di un secolo fa, non molto dissimile da quella di oggi. Leggere per credere l’apologo sul ricco avaro: «avaro a un punto tale / che guarda li quattrini ne lo specchio / pe’ vede raddoppiato er capitale».
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