Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Sono 12 i militi volontari giunti alla Carità in appoggio al personale curante, che resiste fra professionalità e preoccupazioni
Ambiente e Benessere Reportage dalla costa atlantica del Centroamerica, a Livingston e dintorni, patria dei Garìfuna, discendenti di indigeni Caribe e schiavi africani
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 30 novembre 2020
Azione 49 Politica e Economia Trovare un vaccino efficace contro il Sars-CoV-2 per la Cina è più importante che mai
Cultura e Spettacoli Quarant’anni or sono a New York moriva John Lennon, indiscussa icona del 900
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@swisstopo
Chiuse le centrali, dove le scorie?
di Fedele e Beti pagine 13, 30, 31
USA, ritorno al ruolo guida di Peter Schiesser America is back. Dopo gli anni di isolazionismo trumpiano, gli Stati Uniti tornano sul palcoscenico mondiale, con l’intenzione di essere di nuovo la potenza guida del mondo. «L’America guida non solo con l’esempio del suo potere, ma con il potere del suo esempio»: Joe Biden ha presentato così martedì scorso la sua nuova squadra per la politica internazionale e la sicurezza nazionale, riecheggiando le parole che scrisse in primavera in un articolo per la rivista di geopolitica «Foreign Affairs», in cui riassunse la sua visione e le sue priorità di politica estera. E per farlo si è attorniato di personaggi di spicco, con una vasta conoscenza della materia ed esperienza sul campo, cresciuti attraverso le amministrazioni Clinton e Obama, alcuni dei quali suoi stretti collaboratori da decenni (vedi anche Peduzzi a pagina 33). Il contrario di quanto avvenuto sotto Trump, dove l’improvvisazione e la precarietà regnavano sovrane, con il presidente che smentiva e licenziava a piacere i suoi ministri. Con Biden si può essere certi che le parole del futuro Segretario di Stato Tony Blinken, del consigliere capo alla sicurezza Jake Sullivan, dell’ambasciatrice all’ONU Linda
Thomas-Greenfield, della responsabile dei 16 servizi di intelligence Avril Haines e in particolare del plenipotenziario per il clima John Kerry, saranno le parole del presidente. E viceversa le sue saranno quelle suggerite, discusse, elaborate con la sua squadra. Biden vuole mostrare la coerenza di una politica, dopo che per quattro anni la credibilità internazionale degli Stati Uniti ha subito enormi colpi. Dopo che Trump ha sistematicamente picconato ogni risultato della politica di Obama, Biden si accinge a ricostruire tutto, pur sottolineando che la sua presidenza non sarà un Obama-3. Promette che la sua politica estera sarà guidata da un fresh thinking, idee e politiche nuove, poiché il mondo in questi quattro anni è cambiato, non si possono affrontare le sfide odierne con idee e abitudini vecchie. Una dichiarazione che è allo stesso tempo un’ammissione degli errori commessi da Biden stesso e dai collaboratori di Obama che oggi incarnano la sua politica estera (l’incapacità di fermare la guerra in Siria, la reazione tardiva alle interferenze russe nelle presidenziali del 2016, l’eccessiva lentezza nel rispondere all’espansionismo aggressivo della Cina, come ha riassunto in un’intervista alla CBS del 20 maggio Tony Blinken). Ma a contare non è solo la coerenza delle politiche e la compattezza
di una squadra competente. Fondamentali sono i cardini di queste politiche. E qui Biden è molto chiaro: bisogna riprendere la lotta per la democrazia, per i diritti umani, contro gli autoritarismi, contro la corruzione. Ma per farlo – è il pensiero di Biden su «Foreign Affairs» – bisogna affrontare le radici di questi mali, far crescere un’economia che favorisca le classi medie (negli USA con massicci investimenti nelle infrastrutture e nell’istruzione, in altri paesi combattendo corruzione, criminalità e povertà). E lo strumento principe nelle relazioni internazionali tornerà ad essere la diplomazia, ciò che significa identificare aree di interesse comune con altri paesi e gestire assieme i punti di conflitto. Alla base dell’intenzione di tornare ad essere la superpotenza guida c’è la fede nel multilateralismo e la volontà di rinsaldare l’ordine mondiale di stampo liberale. Saranno contenti gli alleati storici, compresa l’Europa – molto meno i paesi all’indice per le violazioni dei diritti umani, Cina, Russia, Arabia Saudita, Turchia, Filippine. Ma la prima mossa in assoluto sarà sul clima: il primo giorno della presidenza Biden, gli Stati Uniti rientreranno negli accordi di Parigi, con la volontà di assumere un ruolo guida.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 novembre 2020 • N. 49
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Società e Territorio Il caffè delle mamme Un libro di Maria Teresa Milano spiega ai ragazzi come accettare le diversità di ciascuno per aiutarli a crescere senza pregiudizi pagina 8
Giovani e lavoro Il nuovo progetto Coaching Trans Fair 2 di SOS Ticino aiuta i ragazzi che a causa della pandemia faticano a trovare un impiego o non sono riusciti a terminare l’apprendistato
Per combattere la solitudine Abbiamo incontrato i partecipanti del gruppo di autoaiuto «Vivere soli nell’anzianità» che resiste nonostante la pandemia pagina 10
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Lavoro e scontri generazionali Intervista È la prima volta che quattro
generazioni si trovano a convivere nello stesso posto di lavoro. Un’esperta spiega che è possibile superare diffidenze e differenze
Stefania Prandi Nei paesi occidentali, a causa dell’allungamento dell’età pensionabile e della digitalizzazione che ha portato all’assunzione di professionalità molto giovani, oggi nelle aziende lavorano persone tra i venti e i sessant’anni. Ci sono: Baby Boomers (1946-1964); Generazione X (1965-1979); Millennials (1980-1995); Generazione Z (19962010). Una convivenza non sempre facile, anzi, in alcuni casi faticosa perché persone nate e cresciute in epoche differenti hanno modi di pensare e di agire difficilmente conciliabili. Ogni generazione, nell’osservare la successiva, ha da sempre – così ci dice la storia – un atteggiamento critico: il cambiamento nei valori e nell’approccio alla vita e al lavoro genera sospetto, accompagnato da un approccio nostalgico («ai nostri tempi») della generazione precedente. Da parte delle generazioni emergenti, d’altro canto, c’è la rivendicazione di «modernità». Per superare le incompatibilità dovute anche alla difficoltà di comunicazione e all’ignoranza delle caratteristiche altrui, Laura Quintarelli, esperta di formazione manageriale, executive coaching a livello internazionale e fondatrice della società Fedro, ha scritto Managing by generation (Franco Angeli). Il testo aiuta a comprendere i gruppi anagrafici, con la premessa che i tratti generazionali – plasmati dalle aspettative, dai bisogni, dai valori e dalle convinzioni di un dato momento storico – sono parametri di riferimento e non etichette da trasformare in stereotipi. Al di là delle categorie, infatti, «le persone restano persone» con le loro particolarità. «Azione» ha raggiunto al telefono Laura Quintarelli per capire meglio i diversi aspetti della sua analisi.
Laura Quintarelli, da dove vengono i nomi delle generazioni?
Le generazioni sono un’invenzione del marketing. È infatti molto più semplice vendere a un gruppo con un nome e caratteristiche più o meno definite. Come possono convivere al meglio le diverse generazioni nelle aziende?
Negli ultimi dieci anni ci si è molto concentrati sulla diversity al femminile ma nel frattempo c’è stato anche un grande cambiamento generazionale. Le nuove generazioni, Millennials – io distinguo in Millennials 1 e Millennials 2, e la seconda fascia rientra nei nativi digitali, ovvero coloro che non hanno mai vissuto in un mondo senza internet – e Generazione Z, non solo hanno un rapporto privilegiato con tutto ciò che è digitale ma anche valori e aspirazioni proprie, percepite con diffidenza da chi è in azienda da anni. Quando incontro i managers della generazione x e dei baby boomers mi dicono che i giovani non hanno motivazione, che non sono fedeli perché cambiano facilmente posto di lavoro, che non sono pazienti. Io credo che non sia vero, semplicemente le generazioni più giovani hanno un’altra visione: se hanno talento oppure hanno seguito un buon corso di studi vogliono emergere in poco tempo. La convivenza, dal mio punto di vista, passa attraverso la conoscenza e il sostegno reciproco. Attraverso il «reverse mentoring» i più giovani aiutano i colleghi seniori con le competenze digitali e allo stesso tempo si lasciano ispirare dalla loro esperienza professionale.
Ci sono generazioni più privilegiate di altre nell’accesso ai posti di comando?
I Baby Boomers sono saldi nelle posizioni di comando per questioni di
Per migliorare le relazioni è importante che i tratti generazionali non siano trasformati in stereotipi. (Marka)
età pensionabile. E le poltrone lasciate libere da chi va in pensione sono di più facile accesso ai Millennials rispetto alla Generazione X. Le aziende preferiscono, per ovvi motivi, investire più a lungo termine, su persone che hanno a livello anagrafico una potenzialità di maggiore «longevità» aziendale.
Dal suo libro sembra che l’individualismo e la superficialità con cui spesso vengono bollati i Millennials e la Generazione Z non corrispondano a realtà. Da dove arrivano secondo lei gli stereotipi?
Gli stereotipi vengono dalla diversità. Siamo abituati a guardare con sospetto tutto ciò che è diverso. L’attenzione dei Millennials e della Generazione Z al proprio benessere personale, agli occhi della Generazione X e dei Baby Boomers, può farli apparire menefreghisti. Le generazioni più anziane hanno dedicato e investito nel lavoro molto più di quanto le nuove genera-
zioni siano disposte a fare. Sono più autocentrate perché sono cresciute con la consapevolezza di una società che non le protegge, sanno di dovere curare da sole i propri interessi. Si dice che quelli della Generazione Z siano dei sopravvissuti e siano pronti a fare di tutto pur di trovare qualcosa per cui si sentono utili. Per loro il denaro non è l’aspetto più importante: nel lavoro cercano valori di responsabilità sociale che non trovano nella politica. Inoltre, il giudizio che viene formulato sulla superficialità ha molto a che fare con la tecnologia che ha modificato la relazione con le informazioni. Le nuove generazioni hanno accesso a milioni di informazioni attraverso il web, a una velocità mai raggiunta prima: «memorizzare» non è più necessario.
I meccanismi che si vedono nelle aziende possono essere considerati in parte uno specchio di quel
che accade negli altri ambiti delle società occidentali?
Ovviamente l’azienda è solo uno degli ambiti in cui le generazioni si manifestano. La «competizione» generazionale è attiva in qualsiasi ambito, influenza i costumi, i comportamenti d’acquisto, la comunicazione e la politica. Va tenuto a mente che le dinamiche all’interno delle generazioni vengono lette a posteriori. Ad esempio, non sappiamo esattamente quali saranno le caratteristiche della Generazione Alpha, dei nati dopo il 2010. Tutte le previsioni che erano state fatte sono decadute in seguito all’arrivo di un evento globale come la pandemia, che uniforma i giovani di tutto il mondo e che avrà un impatto sul senso di pericolo che provano uno rispetto all’altro. Non abbiamo idea di come verranno influenzati i loro valori. Le generazioni si formano mentre la storia si sviluppa, perché sono gli eventi che le forgiano.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 novembre 2020 • N. 49
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L’unione (ri)genera la forza dei sanitari
Covid Il personale curante resiste fra professionalità, solidarietà, resilienza e preoccupazioni
Maria Grazia Buletti «Sono assistente di cura in una casa anziani ed è molto diverso da qui, nel reparto di Medicina intensiva dedicata ai pazienti Covid dell’Ospedale La Carità di Locarno, dove mi sono reso conto che nessuno mi saluta o mi riconosce (come i miei vecchietti) perché parecchi pazienti sono intubati e gli unici suoni sono quelli dei respiratori che indicano che devi cambiare la bombola di ossigeno, ad esempio. Allora mi rimbocco le maniche e mi adopero in supporto ai curanti: li aiuto a mobilizzare i pazienti, cambiare i letti, rifornisco del materiale mancante e, al bisogno, compilo i fogli di sorveglianza dei pazienti coi loro parametri vitali». Il sergente Matteo Duarte ha 20 anni ed è uno dei 12 militi volontari giunti alla Carità di Locarno in servizio d’appoggio ai curanti in prima linea durante la seconda ondata Covid. «Un nuovo impiego di 2500 militi, tra professionisti, militari in ferma continuata, formazioni in servizio e volontari, messi a disposizione dall’Esercito in appoggio ai Cantoni per i servizi di cura negli ospedali o il trasporto di pazienti, il cui criterio di sussidiarietà è soddisfatto quando sono stati esauriti tutti gli strumenti civili a disposizione dei Cantoni richiedenti», spiega il colonnello SMG Simone Quadri, comandante dello Stato Maggiore di collegamento cantonale territoriale per il Ticino (D. territoriale 3). Egli concretizza da parte dell’Esercito le richieste e i bisogni espressi dal Cantone. Il tenente Giovanni Battista Vassalli (capo distaccamento per i militi ora ingaggiati a Locarno) afferma che tutti prestano servizio, previa formazione specifica, su base volontaria: «In civile svolgono diverse professioni: dallo studente in medicina a quello liceale o chi è già infermiere, e non mancano persone con professioni che esulano dall’ambito curante ma che si sono annunciati da soldati sanitari». L’impiego, previsto per ora fino a metà dicembre, comporta giornate piene: «I militi partono alle 7, dopo colazione,
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Sono 12 i militi volontari giunti alla Carità di Locarno in appoggio ai curanti; in basso, il dottor Paolo Merlani con Giovanna Pezzoli, responsabile infermieristica ORL. (Didier Ruef)
dall’albergo che li alloggia a Losone ed entrano in ospedale dove si cambiano di divisa per prestare servizio nei reparti a loro assegnati: cure intense, medicina o dislocati secondo necessità. Pranzo e cena all’interno del nosocomio e rientro in sede alle 19». Possono disporre di un sostegno psicologico: «Il cappellano dell’Esercito è sempre disponibile e possiamo fare pure capo ai sostegni del servizio psico-pedagogico militare e al team di psicologi ospedalieri». L’analisi della condizione psicologica abbraccia tutto il sistema sanitario, da mesi confrontato con l’emergenza della pandemia, il cui assetto è stato riorganizzato a marzo per far fronte alla prima ondata e subito ripristinato in
occasione di questa seconda curva di contagi. «In un ospedale “non covid” come il Civico dobbiamo comunque assicurare le cure specialistiche a pazienti che ne necessitano (come ad esempio interventi di neurochirurgia e relativa degenza) a prescindere dal discorso Covid: ciò comporta una presa in carico molto più delicata e complessa»: è chiaro il professor Paolo Merlani, direttore sanitario ORL e primario della Medicina intensiva, in prima linea nella task force sanitaria pandemica. Giovanna Pezzoli, responsabile infermieristica ORL e vice capo area infermieristica EOC, ricorda: «Noi sanitari c’eravamo prima, ci siamo e ci saremo anche dopo la pandemia che ora viviamo come una grande sfida, ma con il suo rovescio della medaglia dato da grande sacrificio e responsabilità necessari in questa seconda fase acuta, nel complesso troppo prolungata e l’incognita della sua evoluzione». Racconta l’evolversi della condizione psicologica dei sanitari: «I letti si recuperano, il personale sanitario e specializzato non si trova così facilmente (pensiamo agli infermieri specializzati per la medicina intensiva o per i pazienti dializzati, ad esempio). Ciò genera in noi un vero sentimento di frustrazione: vorremmo arrivare dappertutto ma comprendiamo che non è sempre possibile». Tutti sulla stessa barca e con la stessa grande voglia di dare il meglio («come sempre, d’altronde, prima durante e dopo gli applausi»), ma con un
«chilometraggio sprint» in più che comincia a farsi sentire: «Siamo spossati dalla prima esperienza e dai turni prolungati fino a 12 ore, preoccupati per l’evoluzione pandemica e le relative incertezze, per il numero di posti letto disponibili, anche perché il virus ci fa ogni giorno navigare a vista, con un raggio di azione di 48 ore e lo stress di cambiamenti repentini dovuti alle sorprese che ci riserva strada facendo». Oggi, a differenza della prima volta, il professor Merlani sottolinea l’importanza del prosieguo nella presa in carico di tutte le altre patologie: «L’attività ospedaliera, che deve continuare anche per la cura di tutte le altre patologie, ci rende equilibristi sempre all’erta». Dice cosa è cambiato: «All’inizio abbiamo proceduto per tentativi, con le sommarie informazioni giunte dalla Cina e secondo ciò che succedeva in Italia; oggi disponiamo di terapie più mirate: sappiamo quali farmaci non usare e abbiamo scoperto quali sì (come gli steroidi e gli anticoagulanti); pure pazienti e numeri sono cambiati». Così come sta cambiando l’atteggiamento dei sanitari (e della società) di fronte allo tsunami informativo: «Non ascoltiamo più assiduamente la cronaca monotematica, espressione di questa maratona la cui enorme prima ondata è stata affrontata con incredibile energia. Veniamo da un’estate passata in trepidante attesa di un’onda che invece è arrivata più tardi e differisce pure dalla prima. Questo vi-
rus non smette di sorprenderci: la prima onda era più alta di quanto pensassimo, la pausa tra le due era più lunga, poi la seconda ondata (che ci aspettavamo più alta) è un ibrido tra la prima e le nostre previsioni». Il rischio è che tutto duri più a lungo («fino ad aprile?»): «L’idea di correre una maratona alla velocità di uno sprint crea uno sforzo emotivo e intellettuale e non so come e quanto riusciremo a farvi fronte». Tante incognite per medici e infermieri: «Siamo tutti uguali e sulla stessa barca, ciascuno nel suo ruolo. La sofferenza comune genera sostegno vicendevole». Si resiste chiedendosi fino a quando: «Sono sempre stupito dalla resilienza dell’essere umano che sa sopportare l’inimmaginabile e sortisce risorse che non si sognava di avere, con energie emotive, intellettuali e fisiche straordinarie. Ci chiediamo come siamo riusciti a giungere fino qui, però temo il momento della discesa dell’adrenalina che ci sta permettendo di darci sempre fino in fondo ai pazienti e tra di noi». Entrambi concordi nelle incognite: «Come vivremo l’attesa di un’eventuale terza ondata? Strada facendo abbiamo sempre lasciato un pezzetto di noi stessi. Speranza, forza, risorse: tutto è un po’ più ridotto». E una preoccupazione di Merlani: «Le risorse economico-sanitarie prosciugate dalla pandemia potrebbero mettere in difficoltà le condizioni di lavoro future; ne siamo consci e ne temiamo le conseguenze, anche emotive».
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Idee e acquisti per la settimana
La pianta delle Feste
Attualità La sgargiante Stella di Natale
rallegra il periodo dell’Avvento e non solo. Nei reparti fiori e Do it + Garden Migros sono disponibili le piante di produzione ticinese
Tanto amata quanto l’albero di Natale, la Poinsettia, o Stella di Natale, con i suoi intensi colori è perfetta per decorare la nostra abitazione e regalarci una magica atmosfera festiva. «Gran parte delle piante vendute attualmente alla Migros sono coltivate in Ticino dall’azienda a conduzione familiare Rutishauser di Gordola, la quale, da novembre a fine dicembre, produce oltre 40’000 stelle», spiega Daniele Costa, responsabile acquisti piante e fiori presso Migros Ticino. «Prediligiamo i prodotti della regione anche perché sono piante sensibili al trasporto e al freddo: troppi shock termici le manderebbero in “crisi”». Essendo una pianta che ama gli ambienti caldi e molto luminosi, andrebbe posizionata vicino alle finestre, ma lontana dalle correnti d’aria e dagli sbalzi di temperatura. Perché duri a lungo è importante mantenere il terriccio sempre umido, ma evitando i ristagni d’acqua che farebbero marcire le radici. «Di varietà ce ne sono molte – continua Costa –,
come quelle di colore rosa o bianco, ma quella più apprezzata è la classica di tonalità rosso acceso. Per la nostra clientela abbiamo selezionato le piante con le fioriture sgargianti e, soprattutto, resistenti e forti». Come detto poc’anzi, la Stella di Natale è conosciuta anche con il nome di Poinsettia, in onore a un certo Joel Poinsett, primo ambasciatore americano in Messico e grande appassionato di botanica che, nel 1828, la introdusse negli Stati Uniti dopo averla scoperta allo stato selvatico nelle foreste tropicali nel paese centramericano. Oltre alle magnifiche Stelle di Natale, alla Migros si trovano però anche altre piante tipiche delle festività di fine anno: «Il nostro assortimento annovera pure le Rose di Natale (Helleborus), molto apprezzate per la fioritura natalizia e per il fatto che possono restare senza problemi anche all’esterno. Abbiamo poi il cactus di Natale (Schlumbergera), i ciclamini, l’Amaryllis e l’Anthurium», conclude Daniele Costa.
Chinoise fresca online
Sushi che bontà
preferita e ritiratela nella filiale Migros più vicina
si è dotata del suo Sushi Corner
Attualità Ordinate in modo semplice e rapido la vostra carne
Novità Anche la filiale Migros di Serfontana
Ordinate online su Migros.ch/bancone
Lo sapevate che alla Migros avete la possibilità di ordinare la migliore carne per chinoise anche comodamente online e ritirarla in negozio quando lo desiderate? Con questo servizio potete fare la vostra scelta individuale e selezionare quale tipo di carne farvi preparare, proprio come se foste al bancone della carne «reale». Per persona si consigliano ca. 250 grammi di carne. La gamma include le seguenti varietà: filetto o scamone di manzo, filetto o scamone di vitello, petto di pollo, filetto o lonza di maiale e lombatina di agnello. Ecco come funziona: cliccate sul sito migros. ch/bancone; definite il luogo e l’orario di ritiro; selezionate la quantità e il tipo di carne secondo i propri desideri; inserite i dati di contatto, verificate e inoltrate l’ordine. Una volta pronto, potrete passare alla Migros a ritirare il vassoio e… Buon appetito!
Dopo Locarno e S. Antonino, ora anche presso il supermercato Migros di Serfontana è stato aperto un Sushi Corner dove, quotidianamente, degli chef appositamente formati preparano la specialità più conosciuta della cucina giapponese direttamente sotto gli occhi dei clienti. L’ampio assortimento da asporto non solo include i più classici bocconcini a base di riso, pesce e verdure conosciuti come Nigiri, Maki, Hosomaki, Futomaki e Sashimi, ma anche altre bontà della cucina asiatica, tra cui
snack, menu completi, zuppe, bevande e insalate. I prodotti sono preparati ogni giorno partendo da materie prime freschissime e di prima qualità. Il Sushi Corner è gestito dall’azienda friburghese Sushi Mania, leader a livello svizzero nel settore della cucina asiatica e fornitore Migros di lunga data. Da segnalare che presso la filiale Migros di LuganoCittà è invece presente un Sushi Bar, dove la clientela ha la possibilità di consumare la propria pietanza sul posto o di portarsela a casa o in ufficio.
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Idee e acquisti per la settimana
Gli unici «Made in Milano»
Attualità Le specialità natalizie Vergani sono da oltre settant’anni sinonimo di eccellenza
La storia del panettone Vergani ebbe inizio nel 1944, quando Angelo Vergani aprì un piccolo laboratorio di pasticceria in viale Monza, a Milano. Appassionato della pasticceria della propria città, il giovane intraprendente si fece presto conoscere e apprezzare per la produzione del suo vero panettone milanese. Genuinità degli ingredienti utilizzati e continua ricerca della qualità permisero in pochi anni ai panettoni Vergani di varcare i confini meneghini e di conquistare i palati di tutto il mondo. Oggi come allora l’originale dolce firmato Vergani è prodotto nella città che gli ha dato i natali, restando l’unico marchio a produrre a Milano il vero panettone su scala industriale, ma nel rispetto della tradizione e con la stessa cura artigianale tramandata da Angelo. E per farne uno ci vogliono tre giorni. I principali supermercati di Migros Ticino, nel proprio assortimento festivo, propongono tre prodotti Vergani: il tradizionale panettone excellence con farina di germe di grano macinato a pietra, scorze d’arancia calabresi, miele d’acacia toscano e solo aromi naturali; il pandoro a lievitazione naturale di 36 ore con uova e latte italiani e il Dolce di Natale Milanoveg, una specialità preparata con cura artigianale dedicata a chi predilige i prodotti vegani ma non vuole certo rinunciare alla bontà della tradizione.
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1 Pandoro Vergani 1 kg Fr. 17.10
2 Panettone Excellence Vergani 1 kg Fr. 19.30
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3 Dolce di Natale vegano Vergani 750 g Fr. 21.–
In vendita nelle maggiori filiali Migros
Una mela singolare
L’affascinante mondo dell’alpinismo
Novità La varietà di mele rosse Kissabel
Novità Un gioco di società che appassionerà tutta la famiglia
stupisce per le sue qualità organolettiche. Ora in vendita nei maggiori negozi Migros
«L’Alpinista» è una riedizione di un gioco dell’Ottocento e rappresenta sicuramente un’idea regalo particolare e apprezzata per le prossime festività natalizie. Con esso potrai attraversare le nostre alpi e affrontare un affascinante viaggio dove le sfide e gli imprevisti sono sempre dietro l’angolo, ma che mette l’accento anche sui valori fondanti di questa pratica sportiva: la solidarietà, l’aiuto e l’amicizia. Questa edizione moderna ha mante-
Selezionata vent’anni fa nel sud della Francia da alcuni appassionati frutticoltori che incrociarono in modo naturale delle mele selvatiche e delle varietà premium, la mela Kissabel da un paio d’anni è stata introdotta anche in Svizzera e oggi se ne coltivano 8 ettari nei cantoni Vallese e Vaud. Questo frutto si caratterizza per la sua particolare
nuto la grafica e la struttura dell’edizione antica con le sue bellissime illustrazioni originali. I dettagli e lo stile ottocentesco ci regalano l’atmosfera romantica tipica degli albori dell’alpinismo. Le regole del gioco sono presenti in quattro lingue e sono introdotte da una storia che rende il gioco, oltre che divertente, anche educativo. «L’Alpinista» è disponibile al reparto giochi dei principali negozi Migros.
L’Alpinista Fr. 34.90
polpa di color rosso vivo, dal sapore molto aromatico che ricorda quello delle bacche rosse mature. Croccante e succosa, la mela Kissabel è ottima non solo come frutta da tavola, ma può essere utilizzata anche per preparare deliziose puree, composte e dessert. Un’idea gustosa e colorata che piacerà sicuramente anche ai bambini.
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Società e Territorio
Crescere senza pregiudizi
Il caffè delle mamme Un libro di Maria Teresa Milano e illustrato da Gud spiega ai ragazzi
come accettare le diversità di ciascuno
Simona Ravizza Aiutarli a crescere senza pregiudizi. La convinzione de Il caffè delle mamme è che sia uno dei più bei regali che possiamo fare ai nostri figli. In nome della libertà. Lo spunto della riflessione arriva da Questo libro è anti-razzista (ed. Sonda, 2020, dai 12 anni). L’autrice è Maria Teresa Milano, 47 anni, insegnante d’ebraico e cultura biblica che, insieme con l’ironia di Robin, il simpatico alieno disegnato da Gud, formula una guida non solo contro il razzismo, ma contro ogni tipo di discriminazione basata su aspetto fisico, origini, stili di vita e credenze personali. Dopo una lettura approfondita, ecco come possiamo fornire ai nostri figli indicazioni pratiche per non offendere gli altri e accettare le diversità di ciascuno (a cominciare dalle proprie). 1. Tutti noi dobbiamo avere bene in mente che cosa vuol dire essere razzisti: discriminare una persona per quello che è. Assumere un atteggiamento che esclude e penalizza qualcuno per il semplice fatto che è diverso da noi. Non è solo questione di colore della pelle ma di diversità in genere: donne-uomini; tipo di famiglia; rango sociale; aspetto fisico, orientamento sessuale, lavoro, lingua, religione. 2. Segnare i confini tra sé e gli altri, soprattutto per un adolescente, è naturale e legittimo, l’importante è stare attenti: definire la nostra appartenenza non deve diventare causa di
divisioni e ingiustizie. «Sentirsi parte di una comunità religiosa o di un gruppo unito da una forte ideologia è importante, ci dà qualcosa in cui credere e sicuramente ci forma la mente e il carattere, ma occorre fare attenzione a non ingaggiare battaglie contro chi non è con noi – mette in guardia Maria Teresa Milano –. La storia purtroppo è costellata di guerre di religione, massacri compiuti in nome di una fede, ingiustizie portate avanti in nome di una ideologia e di razzie e stermini ai danni di chi è diverso». 3. La cosa dirimente che i nostri figli devono capire è racchiusa in una domanda: «Diverso da chi?». Chiunque risponda, dirà: da me, da noi. «Il fatto è che il me e il noi cambia a seconda di dove rivolgo lo sguardo e ciascuno è al tempo stesso un “io” e un “noi”, ma anche un “altro” – sottolinea l’autrice –. Il problema nasce quando vediamo il nostro “noi” forte e dominante e pensiamo di avere il diritto di combattere ed eliminare gli “altri”, considerandoli diversi e dunque inferiori». Capire questi concetti è utile anche per sé stessi: molti dei nostri figli possono sentirsi diversi. E, allora, il messaggio è che essere diverso non è una cosa né buona né cattiva: «Significa semplicemente che sei abbastanza coraggioso da essere te stesso», dice Milano. 4. L’accettazione parte – anche e soprattutto – dalla famiglia. «Nessuno ha la ricetta della famiglia perfetta, perché non esiste e non si tratta di giudicare un modello o di adeguarsi, ma
semplicemente di vedere in quei legami forti di affetto e convivenza lo spazio in cui ci si forma per vivere nella società – scrive Milano –. Basta guardarsi intorno per vedere che ci sono coppie senza figli o con figli, coppie che hanno figli insieme o di tre provenienze diverse (quelli del marito, quelli della moglie, quelli avuti insieme), figli che crescono con due mamme o due papà o un genitore solo, coppie che adottano bambini. La famiglia è lo spazio che ci accoglie e ci fa crescere e può avere mille forme diverse». Come dicono nel film I pinguini di Madagascar: «Soldato: Voi siete la mia famiglia? Skipper: Tu hai noi, l’uno per l’altro, ragazzino, e se questa non è una famiglia, non so cos’altro lo sia». 5. La questione è anche linguistica: dietro ogni parola c’è un’idea. Maria Teresa Milano però mette in guardia – e giustamente secondo Il caffè delle mamme – dall’esigenza di trovare a tutti i costi termini alternativi: «Forse è una forma di razzismo voler “tutelare” l’identità dell’altro trovando parole che per noi risultano più lievi. In alcuni casi è assolutamente legittimo e anzi doveroso eliminare termini discriminanti oppure offensivi, ma in questa corsa a trovare il linguaggio corretto ci sono anche risvolti comici (…) che per certi versi rivelano anche una sorta di razzismo al contrario; già, perché pur di non sembrare discriminatori ci adoperiamo con tanta forza per definire “l’altro”, sottolineando ancor più quanto l’altro sia diverso da noi e quanto noi, nella
nostra bontà, abbiamo deciso di non offenderlo». Per esempio: di un bambino inglese diciamo che è un bambino inglese, lo stesso deve valere per un bambino marocchino e tunisino. Senza dargli nessuna valenza negativa. 6. Un discorso simile vale per gli stereotipi maschio-femmina: stereotipo non equivale sempre a offesa, meglio prendersi con autoironia. Gli uomini hanno un miglior senso dell’orientamento e sono il sesso forte. È la verità. Noi donne alleviamo meglio i figli e siamo multitasking. Possiamo riderci su e insegnare a farlo anche ai nostri figli/e? Essere troppo politically correct può portarci al ridicolo. Leggete un po’
l’incipit di Cappuccetto rosso in versione femminista: «C’era una volta una giovane persona chiamata Cappuccetto Rosso. Un giorno la madre le chiese di portare un cesto di frutta fresca e acqua minerale alla casa della nonna, non perché questo fosse un lavoro femminile, badate bene, ma perché l’atto era generoso e aiutava a generare un sentimento di comunità. Quando incontra il lupo e questo la mette in guardia dicendole che non è sicuro per una ragazza andare nel bosco da sola, lei risponde: trovo il tuo commento sessista decisamente offensivo… Ora, se vuoi scusarmi, devo proseguire». Ovviamente Cappuccetto rosso finisce divorata dal lupo! A Il caffè delle mamme non resta che trasformare le conclusioni di Questo libro è anti-razzista in un augurio diretto ai nostri figli: «Non esiste un manuale delle istruzioni e nessuno ha il diritto di dirci cosa va bene e cosa no, cosa è normale e cosa non lo è, il concetto di normalità è assolutamente relativo e cambia con le epoche, le società, i luoghi. Ciascuno di noi ha in mano la propria vita e ha il diritto e il dovere di sviluppare il proprio percorso coltivando i propri talenti, guardando con mente aperta a sé e agli altri, senza alcun giudizio e soprattutto riconoscendo tutte le sfumature possibili. Guarda il mondo con occhi liberi, evita gli slogan, scegli il tuo cammino, dì basta e prendi posizione, sii sicuro di te, sii te stesso anche sul web, tieni la porta aperta, scegli il plurale mai il singolare, tutto parte da te, non avere paura». Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 novembre 2020 • N. 49
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Società e Territorio
Un coach che ti accompagna
Giovani e lavoro Il nuovo progetto Coaching Trans Fair 2 di SOS Ticino aiuta coloro che a causa della pandemia
faticano a trovare un impiego, non sono riusciti a terminare l’apprendistato o hanno abbandonato il percorso di studi Guido Grilli Giovani lasciati a casa dall’azienda o neppure assunti, causa Covid. La pandemia, oltre alla tragedia sanitaria, può recare con sé un’altra grave conseguenza: la perdita del posto di lavoro. Da qualche settimana chi è confrontato con questa problematica può ottenere il sostegno di Soccorso Operaio Svizzero (Sos) Ticino, che proprio per fronteggiare la disoccupazione giovanile ha inaugurato un nuovo progetto gratuito denominato «Coaching Trans Fair 2» con l’obiettivo di supportare i giovani nella ricerca di un impiego e nel reinserimento professionale. Un progetto destinato a maggiorenni di età compresa tra i 18 e i 30 anni, domiciliati in Ticino, in possesso di un attestato federale di capacità o di un titolo di studio superiore, neolaureati, come pure giovani che hanno abbandonato l’apprendistato o il percorso di studi per propria o altrui decisione a causa del virus. Alessandro Lucchini, responsabile del settore disoccupazione di Sos Ticino, è alla guida del progetto. «Siamo appena partiti. Al momento sono sei i giovani che stanno aderendo al progetto, il quale è coordinato da Check Your Chance, associazione mantello sostenuta dalla Segreteria di Stato dell’economia (Seco), della quale Soccorso Operaio Svizzero è fra i partner nazionali. La sede è a Bedano, ma ad oggi le attività si svolgono in remoto vista l’e-
mergenza sanitaria. Naturalmente il nostro aiuto viene pure rivolto a quei giovani disoccupati che non necessariamente si trovano in difficoltà per la pandemia, ma anche per altre ragioni. “Coaching Trans Fair 2” durerà fino al febbraio 2022 e il periodo massimo stabilito di ogni programma per giovane è di quattro mesi. Il nostro obiettivo minimo è di riuscire a offrire sostegno complessivamente ad almeno 40 giovani in questo arco temporale». In concreto, quali strategie mettete in campo per far ripartire i giovani in difficoltà? «Mettiamo loro a disposizione dei percorsi di coaching individualizzato, con sessioni settimanali tenute dai nostri coach, i quali offrono attività di ottimizzazione del dossier di candidatura, sostegno nell’elaborazione di strategie individuali funzionali all’obiettivo di ogni giovane, un’analisi personale e condivisa della situazione personale, simulazioni e preparazione ai colloqui di lavoro, sostegno concreto nella ricerca di lavoro, gestione dei contatti con i datori di lavoro. E, dopo l’assunzione, se ne viene avvertita la necessità, i coach accompagnano il giovane anche durante il periodo di prova. Già dal 2011 al 2013 Sos Ticino aveva realizzato un progetto simile e allora avevamo aiutato oltre 70 giovani». Ma in termini di tempo, «Coaching Trans Fair 2» quante ore settimanali richiede a ogni partecipante? «Dal momento che il coaching è individua-
lizzato, dipende molto dalle necessità di ogni singolo giovane, dalle proprie risorse e dalla propria autonomia personale, nonché dal proprio percorso professionale e di studio. In questo momento, a causa dell’emergenza sanitaria, su disposizione della Segreteria di Stato dell’economia le attività possono avvenire soltanto a distanza, online, attraverso videochiamata. Per iscriversi è sufficiente inviare una e-mail all’indirizzo ct2@sos-ti.ch». Intanto, per fronteggiare la disoccupazione giovanile, Sos Ticino è da lungo tempo impegnato simultaneamente su altri progetti, che nel tempo si sono consolidati, offrendosi quale valido aiuto per numerose persone. «Abbiamo tre programmi occupazionali temporanei. Il primo si chiama Ri-Sostegno, dove vengono occupati giornalmente una ventina di disoccupati che svolgono attività di sgombero per enti pubblici e per privati: vengono liberati appartamenti, solai, cantine, riciclati gli oggetti funzionanti che poi vengono messi in vendita. E, ancora, piccole riparazioni di mobili e separazione della merce secondo princìpi sostenibili per l’ambiente. Abbiamo inoltre Ri-Cicletta che consiste nel recupero di biciclette prese dagli ecocentri e destinate ad essere gettate e che noi invece aggiustiamo e rimettiamo in funzione. Il programma occupazionale Ri-Taglio contempla invece attività di cucito e lavanderia, servizio di lavaggio e stiro per privati e aziende,
Il progetto prevede un percorso individuale per ogni giovane. (Keystone)
nonché riparazione di capi di abbigliamento. Un altro tipo di aiuto è SOS Coaching, un sostegno mirato della durata di cinque mesi per le persone iscritte alla disoccupazione. I tre programmi occupazionali durano tre mesi e si arricchiscono pure di percorsi formativi e di coaching individualizzato, con l’o-
biettivo di trovare nuovi sbocchi professionali, che talora i partecipanti ai programmi non immaginavano neppure possibili». Informazioni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 novembre 2020 • N. 49
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Società e Territorio
Vivere soli nell’anzianità
Auto-aiuto Un gruppo di incontro e condivisione è stato creato poco prima dell’inizio della pandemia, nonostante
le difficoltà e le limitazioni le partecipanti hanno ricominciato a riunirsi periodicamente. Le abbiamo incontrate Alessandra Ostini Sutto Si chiama «Vivere soli nell’anzianità» il gruppo di auto-aiuto il cui intento è quello di offrire un luogo di scambio dei propri vissuti in un momento della vita che molte persone si ritrovano a vivere da sole. Questa condivisione di esperienze è di sostegno nel ritrovare le proprie risorse e un senso positivo e costruttivo in questa fase dell’esistenza. «L’idea del gruppo, e la stesura del relativo progetto in collaborazione con Marilù Zanella, coordinatrice della Conferenza del volontariato sociale della Svizzera italiana, risale allo scorso dicembre – afferma Dina Moretti – al primo incontro, a febbraio, erano presenti oltre 20 persone, molte delle quali pensavano che gli incontri mirassero a proporre attività a soluzione o copertura della tematica in questione. L’esposizione dei cardini del concetto di auto-aiuto ha generato una scrematura naturale che ha portato ad un gruppo di cinque persone». Il gruppo si è trovato due volte e poi la sua attività è stata interrotta dal lockdown, periodo durante il quale l’iniziatrice ha comunque mantenuto i contatti con i partecipanti. «Dopo il periodo di chiusura della scorsa primavera una paura di fondo nello stare insieme è rimasta, per cui siamo ripartiti con i piedi di piombo. Teniamo però duro, convinti del fatto che il tema lo meriti oggi ancor di più, in quanto ulteriormente esacerbato dalla pandemia», continua Dina Moretti. Gli incontri del gruppo, a cadenza mensile, sono ripartiti a settembre negli spazi del Centro Generazione Più di Lugano, che permettono di riunirsi in sicurezza. «Durante l’ultimo incontro si è aggiunta una partecipante e ora siamo nella fase di consolidamento del gruppo; se i numeri lo consentono, l’idea sarebbe quella di decentrarlo in
vari punti di incontro di quartiere o di paese, in risposta alle difficoltà di spostamento che può avere una persona anziana, le quali aumentano il senso di solitudine». In Ticino sono presenti una sessantina di gruppi di auto-aiuto, per oltre 30 tematiche; in Svizzera sono circa 2000 per più di 300 temi. Il settore è in evoluzione: «negli ultimi anni sono nati diversi gruppi legati a tematiche sociali, situazioni di vita particolari, problematiche legate alla genitorialità o a situazioni familiari o relazionali difficili», spiega Marilù Zanella, responsabile del centro Auto Aiuto Ticino. Ciò che accomuna i gruppi che rientrano in questa categoria è il fatto di essere un tempo e un luogo dove sentirsi liberi di esprimere pensieri ed emozioni e dove poter parlare della propria vita, rileggendola con lo sguardo di chi l’ascolta. Ovviamente tutti i gruppi di auto-aiuto garantiscono riservatezza e anonimato riguardo a quanto detto durate gli incontri. Qualche settimana fa, abbiamo preso parte ad un incontro di «Vivere soli nell’anzianità» e la prima cosa che abbiamo notato è che le partecipanti sono tutte donne. «Secondo la mia esperienza, gli uomini hanno più difficoltà ad esternare i vissuti, essendo tendenzialmente votati all’azione; il fatto di stare seduti a condividere probabilmente non risponde alle loro esigenze», ipotizza l’iniziatrice del gruppo. «Anche quando si trova confrontato con dei problemi, l’uomo tende ad elaborarli da solo, mentre la donna preferisce parlarne, con il marito o con le amiche», fa eco Rosa (i nomi sono di fantasia). Le differenze di genere si fanno sentire anche in relazione allo specifico tema del gruppo: «raggiunta una certa età, ho l’impressione che la donna da
Giornata internazionale dei volontari Sabato 5 dicembre ricorre la giornata internazionale dei volontari, che quest’anno assume una valenza particolare in quanto l’emergenza sanitaria ha reso ancor più evidente l’importanza del lavoro svolto da chi mette a disposizione il proprio tempo a favore del prossimo. La giornata è stata istituita dalle Nazioni Unite per sottolineare il contributo che il volontariato porta al benessere delle per-
sone e allo sviluppo della società. In Ticino, la Conferenza del volontariato sociale (www.volontariato-ticino.ch), che raggruppa oltre 50 organizzazioni attive sul territorio, si impegna a favorire il riconoscimento pubblico del volontariato, oltre ad offrire un servizio di informazione, incontri di introduzione all’attività volontaria e corsi di formazione per volontari, coordinatori e responsabili di associazioni.
La forza del gruppo di auto-aiuto risiede nel poter condividere non solo i vissuti ma anche le risorse per ritrovare positività. (Marka)
sola porti con sé una connotazione diversa rispetto all’uomo, risultando più vulnerabile, più esposta. Mi domando se questo non possa essere uno dei motivi per cui noi donne cerchiamo maggiore solidarietà, per rafforzarci a vicenda», prosegue Dina Moretti. «Può darsi – si aggancia Elise – quando però si resta da sole, e vengono quindi a cadere i ruoli di genere che vigono all’interno della coppia, la donna può sicuramente imparare, a prendere decisioni, a difendersi». Quest’ultima affermazione porta a parlare dell’origine dell’essere soli, che ha indubbiamente un’influenza sul modo in cui tale situazione è vissuta. «Si può scegliere di vivere da soli o essere rimasti da soli, per vedovanza o divorzio. Le immigrazioni possono essere causa di una solitudine da sradicamento, che si fa sentire di più nella fase in cui i figli escono di casa e si termina un’attività professionale», commenta Dina Moretti. «Io vengo dall’Italia e vivo qui da quasi 30 anni. Ho sempre vissuto con qualcuno, e con tanto calore, e, rimasta sola, sento un gran vuoto, anche perché avevo delle amiche care, che ora pure non ci sono più – afferma Irene – per riempire le mie giornate, ho iniziato a fare attività di diverso tipo, ma poi, con il lockdown, tutto si è fermato ed è stato un duro colpo. Ho vissuto molto male e continuo a vivere male questa situazione, con un senso di angoscia costante». Quello che invece – per fortuna – è stato bello osservare, durante il periodo di chiusura, è come siano stati messi in atto servizi ed iniziative proprio per cer-
care di evitare che qualcuno venisse lasciato da solo. «Nella nostra realtà siamo fortunati perché esistono numerosi servizi in aiuto a chi ha bisogno – afferma Dina Moretti – a riguardo, la forza del gruppo risiede nel fatto che oltre ai vissuti vengono condivise pure le risorse, così che un partecipante possa attingere ad una strategia di soluzione alla quale non aveva pensato, per alleggerire il carico sia emotivo che pratico». Rispetto ad un sostegno di tipo professionale, l’auto-aiuto mira proprio a promuovere il coinvolgimento della persona, che si deve attivare e impara a scoprire le proprie risorse e beneficiare dello scambio con gli altri. Condivisione quindi come uno dei concetti chiave di ogni gruppo di auto-aiuto: «All’inizio ci può essere la difficoltà di aprirsi e parlare del proprio vissuto. Ma poi si scopre la bellezza di trovarsi in un gruppo dove le storie degli altri risuonano dentro di noi, perché l’altro ha un vissuto simile e capisce ciò che sto vivendo», aggiunge Marilù Zanella. Quello che avviene durante un incontro è apparentemente uno scambio, una «chiacchierata», che potrebbe aver luogo anche in altri contesti, alla presenza di altre persone. A fare la differenza è il fatto che all’interno del gruppo i partecipanti – seppur con storie e personalità diverse – condividono uno stesso tema. Ciò aumenta le possibilità di un interscambio proficuo. Un altro elemento che fa la differenza è la regolarità degli incontri. «Io, per esempio, vedo i miei parenti principal-
mente in occasione delle Feste, ciò che mantiene i rapporti ad un livello piuttosto superficiale – spiega Rosa – con il dialogo che si crea durante gli incontri ho invece modo di scoprire molte cose delle altre partecipanti e possono nascere anche delle amicizie». Di fatto, a lato degli incontri non è raro che si sviluppino altre forme di contatto, che possono assumere un rilievo particolare per il gruppo in questione. «Da tempo seguo il gruppo AMA-TI per persone in lutto e pur avendo, nel frattempo, elaborato il lutto, resto confrontata con la problematica della solitudine. Per questo motivo ho scelto di partecipare a questo gruppo – afferma Elise – vivo in Ticino da 40 anni e quando sono arrivata la realtà era diversa. Abitavo in un piccolo paese dove tutti si conoscevano e partecipavano alla vita comune. Oggi ho l’impressione che non sia più così, per usare un’immagine, che la forma del vivere da soli e del sentirsi soli si allarghi e non tocchi solo gli anziani. Basti pensare che in certe città il 50% delle abitazioni è occupato da single. Ovviamente non tutti si sentono in solitudine, ma tanti sì». «Vivere soli nell’anzianità» può essere quindi anche un modo per riflettere su come potersi confrontare con questa situazione in evoluzione, «perciò diamo il benvenuto nel gruppo anche a chi da solo sta benissimo e ha voglia di condividere», conclude Dina Moretti. Informazioni
www.autoaiuto.ch, tel. 091 970 20 11
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Roberta Franceschetti – Elisa Salamini, Youtuber. Manuale per aspiranti creator, Editoriale Scienza. Da 10 anni È curioso pensare che «Youtube» rimandi al tubo catodico delle vecchie tv. Ma in fondo è così. In italiano, il termine televisione (vedere da lontano), indica qualcosa di ancora perfettamente attuale, perché le visioni online sono propriamente delle televisioni. In inglese invece l’etimo è più concreto, e quindi più datato: tube in inglese è sinonimo di televisione, ma appunto deriva da Cathode Ray Tube, la tecnologia dei televisori a cubo di una volta. Anche a queste riflessioni porta il manuale delle fondatrici dell’associazione Mamamò, Roberta Franceschetti e Elisa Salamini, rivolgendosi ai giovanissimi aspiranti youtuber, o «creator». E anche creator è un termine che conduce a riflessioni interessanti, sul concetto contemporaneo di creatività, e in ultima analisi di «arte»: creare un video da condividere comporta certamente aspetti tecnici
e aspetti artistici. Su entrambi, e pure su un terzo, non meno importante aspetto, quello dell’uso responsabile e cosciente della piattaforma digitale, si incentra questo libro, e lo fa con vivacità ma con precisione, avvalendosi dell’esteso apporto visivo delle illustrazioni di Maria Gabriella Gasparri e dell’agile e colorato progetto grafico di Alessandra Zorzetti. Dopo un po’ di informazioni storiche (quando è nato Youtube, chi l’ha inventato, cosa c’era prima, quando è stato acquistato
da Google), di interessanti curiosità e di utili ragguagli sul funzionamento di Youtube («sul web vale una regola: se qualcosa è gratis, la merce sono i tuoi dati», senza allarmismi o demonizzazioni, ma solo per esserne consapevoli) si entra nel vivo della progettazione: come aprire un canale, di cosa vuoi parlare, a quale pubblico, e poi come realizzare il tuo video. Scaletta, sceneggiatura, luci, set, attrezzatura, montaggio, nessun aspetto è trascurato in questo chiaro manuale, e non mancano neppure alcune interviste a giovani youtuber famosi. Ma soprattutto è interessante l’ottica di cittadinanza digitale che ispira le autrici, da sempre con Mamamò – mamamo.it – in prima linea nel favorire l’uso sicuro e responsabile della rete. Benji Davies, Fiocco di neve, EDT Giralangolo. Da 4 anni Abbiamo solo questo momento, scintillante come una stella nella nostra mano e si scioglie come un fiocco di neve. In questa frase di Francis Bacon,
posta in epigrafe al suo nuovo albo, sta gran parte della poetica dell’illustratore-autore inglese Benji Davies, le cui storie si distinguono sempre per la capacità di andare dritte al cuore, parlando con semplicità delle cose più intense della vita. Che siano ambientate in isole battute dal vento o, come in questo caso, in una realtà cittadina, ciò che raccontano – quand’anche siano venate di delicata malinconia – è sempre la bellezza della vita, l’importanza di apprezzarne ogni istante,
proprio nella consapevolezza della sua incantevole fragilità. Le sobrie parole si integrano perfettamente con la forza espressiva delle immagini, sia nei primi piani che nei campi totali. Anche qui, come in molte storie di Davies, c’è un nonno, e c’è la sua nipotina: insieme attraversano la città, immersa in un’atmosfera natalizia, insieme, a casa, decorano un alberello di Natale. Ma in parallelo si svolge la storia di un fiocco di neve (quintessenza della bellezza struggente dell’effimero), che volteggia sopra la città e che non vuole cadere. Le due storie si congiungeranno quando Fiocco di Neve troverà «un modo per smettere di cadere». A questo finale, già pieno di suggestiva meraviglia, ne seguirà un altro, che risplenderà delicatamente nell’ultima doppia pagina del libro. Un finale leggibile a molti livelli, in cui i bambini potranno abbandonarsi all’incanto, e gli adulti forse a un confortante senso del commiato, perché lassù, oltre, c’è sempre qualcosa che brilla.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 novembre 2020 • N. 49
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Di Leopoldo, dei delitti e delle pene La data del 30 novembre segna un passo importante per i destini di quella che chiamiamo modernità. Il 30 novembre 1786, l’Arciduca di Toscana, Leopoldo II, figlio di Maria Teresa d’Austria e del Sacro Romano Imperatore Francesco II, promulga una riforma del codice penale che abolisce la pena capitale entro i confini del Granducato – pena capitale che peraltro aveva de facto abolita già nel 1769. Come corollario della riforma viene abolita dal procedimento giudiziario la tortura e si ordina la distruzione di tutti gli strumenti impiegati per le esecuzioni capitali. Personaggio interessante il Nostro. Eletto Arciduca di Toscana alla morte del padre quando aveva solo 17 anni secondo quell’escamotage del diritto di successione che attribuiva gli appannaggi di Serie B ai figli secondogeniti. Per cinque anni dovette giocoforza eseguire quanto deciso dai tutori che la madre gli aveva preposto. A 22 anni, però, dopo un viaggio a Vienna tornò
a Firenze determinato a fare di testa sua. Mise pertanto mano a rimediare a quanto i Medici avevano storicamente fatto per impastoiare le industrie con regole e balzelli, introdusse un sistema di tassazione più razionale e condusse importanti lavori di bonifica in Val di Chiana. Dalla sua aveva anche il fatto di non dover mantenere un esercito, tanto che finì per smantellare anche le forze di mare che i Medici avevano messo in campo per combattere la pirateria. Determinato a mettere in pratica le idee dell’Illuminismo, condusse politiche avverse all’interferenza ecclesiastica negli affari di Stato pur fallendo nei ripetuti tentativi di secolarizzare le ingenti risorse del clero ed il suo strapotere politico. Su quest’ultimo fronte introdusse riforme in stile liberal che lo portarono vicino a concepire l’introduzione di una Costituzione in stile moderno – anticipando così di alcuni anni la Costituzione Francese. Pur non potendo portare a
termine l’intero processo, si operò per il rispetto dei diritti dei cittadini e per regolamentare il rapporto fra potere legislativo e potere esecutivo secondo linee moderne. Il suo interesse per le scienze lo portò a potenziare le risorse della Specola di Firenze soprattutto in campo medico, mentre sosteneva con entusiasmo le attività dell’Accademia dei Georgofili e le loro ricerche nei vari campo del sapere. Il suo interesse per la pubblica salute era in linea con le sue convinzioni umanitarie: già nel 1774 aveva promulgato quella che il popolo subito chiamò la «legge sui pazzi». Primo in Europa, legislò che gli affetti da disturbi mentali dovessero essere trattati da malati e a questo fine fece costruire l’Ospedale Bonifacio. A capo ne mise il giovane medico Vincenzo Chiarugi, passato alla storia per aver bandito dal suo istituto l’uso di catene e di punizioni fisiche, pioniere di un lungo percorso che avrebbe dovuto attendere almeno altri due secoli per
vedere abolire gli ospedali psichiatrici nei paesi più sensibili d’Europa. Misure per la riabilitazione dei giovani delinquenti e la vaccinazione contro il vaiolo furono gli altri pilastri delle sue politiche sociali, tanto da meritargli la fama di essere stato uno dei sovrani illuminati più efficaci e lungimiranti dell’età moderna. Leopoldo lasciò Firenze nel 1790 alla morte del fratello Giuseppe II per succedergli sul trono di Vienna. Qui si trovò ad affrontare problemi geopolitici su di una scala ben maggiore del suo piccolo e maneggevole Granducato. A salvarlo dalla bufera che di lì a poco si sarebbe scatenata con la rivoluzione francese ci pensò una morte che lo colse a soli 44 anni. Paradossalmente Leopoldo II non fu amato dal suo popolo. Le classi dirigenti e clericali continuarono ad ostacolarne i tentativi di riforma. Il popolo risentiva i cambiamenti imposti da un sovrano meno realista del re: il suo carattere schivo e la sua quasi leggen-
daria sobrietà non ne favorirono quella che oggi chiameremmo la popolarità mediatica. Leopoldo resta comunque nella storia per l’abolizione della pena di morte. In questo fu ispirato dall’opera di Cesare Beccaria. Il Marchese di Gualdrasco e di Villareggio, nonno materno di Alessandro Manzoni, nacque a Milano il 15 marzo del 1738. Educato dai Gesuiti, buttato fuori di casa e diseredato dal padre che non ne approvava il matrimonio, si formò intellettualmente nel circolo di Pietro Verri e degli illuministi milanesi. La sua opera principale Dei Delitti e delle Pene (1764) è universalmente considerata l’ispirazione degli abolizionisti della pena di morte in tutto il mondo. «Se dimostrerò non essere la pena di morte né utile, né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità». Ormai poco pubblicizzato a favore di altre cause ed altre giornate, il 30 novembre è ancor oggi Giornata Mondiale contro la Pena di Morte.
che in questi frangenti le persone più in crisi sono i mariti. Da secoli gli uomini vivono prevalentemente fuori casa, nella comunità dei colleghi e degli amici, per cui trovarsi soltanto con i familiari gli va stretto. Anche l’uso degli spazi è diverso: fin da piccoli i maschietti amano i luoghi aperti, cercano di allontanarsi, di andare oltre, di esplorare, mentre le bambine preferiscono circoscrivere lo spazio, organizzarlo, accomodarsi dentro, disporsi in circolo, scambiare confidenze. Per cui, per quanto gli uomini apprezzino la propria casa, se rimane l’unico spazio, la sentono stretta. Immagino che a suo marito sarà riservato un angolo dove appartarsi: una comoda poltrona, una lampada a stelo, un porta giornali ben rifornito. Se prima gli andava bene, ora quell’angolo gli appare una gabbia. Cerchi di stanarlo organizzando momenti un po’ speciali, quali l’ora dello spuntino, dell’aperitivo, del telegiornale. Trovi pretesti di condivisione, come leggere lo stesso romanzo confrontando poi le valutazioni personali. In questo periodo gli argomenti di attualità non mancano ma a conversare s’impara e le donne hanno in proposito un talento naturale.
Nel suo caso lo può utilizzare, cara Leo, per coinvolgere suo marito, sollecitare il suo parere, chiedergli collegamenti, dati e informazioni. Gli uomini sono sempre convinti di saperne di più e, di fatto, hanno una mente più organizzata e un pensiero più circostanziato del nostro. Se il suo «orso» aveva degli hobby, degli sport, degli amici, lo aiuti a recuperarli. Molti uomini fanno fatica a prendere in mano il telefono e a chiedere di incontrarsi. Preferiscono i tempi e i modi predefiniti offerti dal lavoro. Quanto ai figli, evidentemente sono molto diversi. Mentre Marco è un introverso, Ugo ha un carattere estroverso. Per il primo comunicare è un dovere, per l’altro un piacere. I temperamenti sono innati e non si possono cambiare, ma modificare sì. Forse l’intimità che si è stabilita tra lei e il secondogenito ingelosisce gli altri familiari che si sentono esclusi. Cerchi, con sensibilità femminile, di essere equanime, di esercitare una giustizia distributiva dando a ciascuno il suo. Anche i compiti domestici andrebbero suddivisi e svolti a turno. Chi l’ha detto che tutto ricada sulle spalle della madre di famiglia? Renderli intercambiabili susciterà
qualche discussione e magari qualche baruffa ma non deve aver paura: litigare fa bene. È un modo per esprimere le proprie insofferenze e le proprie esigenze senza tacitarle. Ultimamente ho assistito a uno straordinario rinnovamento dei rapporti familiari con l’arrivo di un animale domestico. Un cucciolo aiuta a ravvivare la curiosità, coordinare gli interessi, trovare parole nuove per esprimere le proprie emozioni. Gli animali rappresentano la nostra parte più fragile, i residui d’infanzia, i bisogni d’attenzione e di cura rimasti insoddisfatti ma che si possono appagare indirettamente. Ma non solo, i cuccioli sono una bomba di allegria, di voglia di crescere, d’imprevisto. Mentre noi impariamo a conoscerli e apprezzarli, loro diventano sempre più intelligenti, sensibili… umani. Un incontro che crea nuovi, sorprendenti rapporti reciproci.
dire, un’opera, letteraria o divulgativa, diventa un mezzo per comparire e pubblicizzarsi. Sia chiaro, non se ne servono soltanto gli incapaci rozzi, bensì gente del mestiere, giornalisti collaudati come Bruno Vespa che, sotto Natale, propone il volume di rito: quest’anno, s’intitola un po’ ambiguamente Perché l’Italia amò Mussolini. E se ne servono ampiamente i politici, a ogni latitudine. A cominciare da Barack Obama che ha presentato il primo volume di una ponderosa autobiografia: A Promised Land, tiratura iniziale 3 milioni, traduzioni in 25 lingue. Una gigantesca «Macchina narrativa», come si leggeva sul domenicale della NZZ, con cui Obama potrebbe battere Rowling, l’autrice di Harry Potter. Facili ironie a parte, il libro tenta i politici, più che mai nell’era Covid che li ha messi duramente alla prova. In Svizzera, dove la discrezione
è di casa, Alain Berset si racconta in un volume, pubblicato in italiano da Casagrande. Finora, a quanto pare, il nostro Paese è stato risparmiato dalla straripante saggistica firmata da virologi, epidemiologi, ricercatori: figure vittime della sovraesposizione mediatica. In Ticino, il medico cantonale e i primari d’ospedale parlano con moderazione, e non scrivono. Certo, il lockdown (parola dell’anno consacrata dal dizionario di Oxford) ha contribuito ad alimentare la voglia di scrivere assegnandole una funzione terapeutica. Che, però, non rappresenta una novità in assoluto. Novembre è, per tradizione, il mese destinato alla presentazione di primizie letterarie e, non da ultimo, dei cosiddetti volumi-strenna, più da sfogliare che da leggere. Ma tant’è. Non è il caso di fare il processo alle intenzioni e neppure condannare il fenomeno dei tanti, trop-
pi libri. Proprio su questo settimanale, molti anni fa, nella rubrica «Fogli segreti», Giovanni Arpino si domandava se, come sosteneva Cioran, «scrivere libri non è, in qualche modo, in rapporto con il peccato originale». Una sorta di colpa, insomma, che implica un riscatto, a prova di contraddizioni. «Per scrivere un romanzo bisogna sapersi astrarre dal mondo. Ma della realtà del mondo si ha anche bisogno». In altre parole, una gran fatica e il rischio dell’insoddisfazione. Su cui Arpino riesce a scherzare: «Se rileggendomi non mi piacerò, infilerò la mano destra nel tritacarne». Oggi, grazie al computer, questa fatica ci viene risparmiata, almeno quella fisica. In quanto a quella intellettuale, rimane questione d’autocritica. Che non sempre interviene. Ed è, in definitiva, il bello della democrazia: i tanti libri, belli o brutti, sono un indizio di libertà.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La convivenza in famiglia Cara Silvia, siamo quattro adulti costretti dalla pandemia a vivere insieme notte e giorno. Mentre io mi collego all’ufficio, i nostri figli Marco e Ugo, fanno lo stesso con le lezioni e i compagni. Mio marito invece è andato in pensione proprio quest’anno. Spetta comunque a me organizzare le faccende di casa, i pasti, le spese, anche se i maschi sono disposti a darmi una mano quando la chiedo. Ma non è di questo che vorrei parlare. Siamo sempre stati una famiglia «veloce», di quelle che s’incontrano per la prima colazione e si ritrovano per cena. Due parole per aggiornarci e programmare gli impegni dell’indomani. Ora invece il fatto di trascorrere tante ore insieme ci obbliga a conoscerci meglio e a prendere atto delle differenze. Mentre Marco, che non è mai stato di molte parole, ha finito per racchiudersi in se stesso, tra me e Ugo si è creata una confidenza spontanea e un dialogo profondo. Ugo mi parla di sé, dei suoi problemi e delle sue speranze e, cosa rara, mi ascolta, chiede di conoscere avvenimenti del passato che appartengono alla storia di famiglia. La persona più insofferente è mio marito che gira per casa come un’anima in pena. L’unica doman-
da che mi sento rivolgere da lui è: «cosa si mangia?». Un po’ poco non le sembra? Vorrei tanto stabilire un clima armonioso ma non so da che parte cominciare. Maledetto Covid 19! / Leo Sì, «maledetto» per tante ragioni ma forse anche un po’ «benedetto» se ha fatto emergere un problema così importante. In fondo la vostra famiglia non funzionava benissimo neppure prima quando v’incontravate solo per lasciarvi subito dopo: ognuno per sé e dio per tutti. L’esigenza di fluidità, di relazioni reciproche, di scambi incrociati senza esclusioni non era soddisfatta neanche allora. Solo che, probabilmente, non lo sapevate. La fretta, l’urgenza degli impegni quotidiani, lo stordimento di un eccesso di stimoli, possono funzionare da anestetico rispetto a interrogativi inquietanti, quelli che riguardano il senso della vita. Spesso si sta insieme per abitudine, senza chiedersi come e perché. Ora che la routine precedente si è infranta, sta emergendo la necessità di trovare nuovi modi di esistere e di comunicare. Ognuno di voi ha reagito secondo la sua personalità e la sua storia ma con gradi diversi di difficoltà. Direi
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Tutti scrittori Prima o poi, nei talkshow, arriva il momento del libro. Ospite ormai fisso si presenta in modi diversi. Visibilmente, sin dagli inizi, in mano al suo autore o al recensore d’ufficio. O furtivamente, a fine trasmissione, quando sembra sbucare da sottobanco, giustificando così la partecipazione di un personaggio, a prima vista estraneo. Spesso, si tratta di un cantante, di una diva, di uno sportivo, appartenenti alla crescente categoria degli «ex» in cerca di rilancio, appunto come scrittori. E qui i nomi si sprecano. Ecco comparire sul video, nell’insospettata veste d’autrice, Alba Parietti, che non è, neppure, alle prime armi. Se, in pagine precedenti, aveva confermato il suo impegno politico, virtù familiare ereditata da un ormai citatissimo zio (o nonno) partigiano, adesso in Da qui non se ne va nessuno, lancia un SOS
femminista. Insomma, donne ribellatevi ai maschi, non svendetevi. E se lo dice lei. Ma l’apice dell’assurdità si tocca con Come ho inventato l’Italia. L’autore, infatti, è Fabrizio Corona, un curriculum di malavitoso, mai pentito, e di eroe del trash da rotocalco. Tuttavia, qui sta il mistero, è riuscito a farsi pubblicare dalla Nave di Teseo, casa editrice diretta con scrupolo selettivo da Elisabetta Sgarbi. Ora, avrebbe potuto essere un nuovo fenomeno letterario, per la serie genio e sregolatezza. Invece, il libro riflette il vuoto creativo e la spocchia di un fanfarone megalomane, in fin dei conti ridicolo. Con ciò, ottiene uno spazio televisivo rilevante: mezz’ora, la domenica sera, nell’«Arena» gestita da Giletti, conduttore specializzato in denunce dei guai che affliggono la Penisola. Fra i quali figura, adesso, anche l’uso strumentale del libro. Come
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Ambiente e Benessere Non mollava mai De Agostini, per sempre esempio di tenacia, umiltà, sacrificio e discrezione
Livingston, il rifugio caraibico Una Macondo nera, è la patria dei Garìfuna, discendenti di indigeni Caribe e schiavi africani
Sapori mediterranei Agnello servito con una raffinata gramolata d’olive e pezzi di prosciutto crudo pagina 17
pagina 15
pagina 14
Tale uomo, tale capra Scoperta una sensibilità emotiva nei ruminanti, che preferiscono i sorrisi
pagina 21
Non è come spegnere la luce di casa Energia La disattivazione della centrale
nucleare di Mühleberg è iniziata, ma lo smantellamento sarà un lento processo di almeno quindici anni
Loris Fedele Dopo 47 anni di esercizio il 20 dicembre 2019 la Centrale nucleare di Mühleberg (CNM), nel Canton Berna, è stata definitivamente spenta. Nel gennaio di quest’anno sono iniziati i lavori di disattivazione che dureranno, secondo il programma, almeno 15 anni. L’operazione verrà eseguita principalmente dal personale della BKW (FMB Energie AG), che ha gestito la centrale in tutti i suoi anni di vita, e che ha competenze tecniche e profonda conoscenza dell’impianto. Si affiancheranno periodicamente alcuni esperti internazionali e fornitori di servizi esterni, indispensabili per compiti specializzati riguardanti lo smantellamento delle centrali nucleari. Sono poche le centrali nucleari al mondo che sono state disattivate o smantellate, ognuna di esse ha peculiarità di struttura e di collocazione, per cui il lavoro risulta delicatissimo, come sempre quando si è in presenza di emissioni radioattive. L’Ispettorato federale della sicurezza nucleare (IFSN), che è l’autorità di sorveglianza preposta, in un recente comunicato ha attestato la sua sorveglianza sul procedere dei lavori. La disattivazione di un impianto di questo tipo e il successivo smantellamento si svolgono a tappe. Spegnere una centrale nucleare non è come girare l’interruttore della luce di casa. Tutto è cominciato con l’inserimento completo delle barre di controllo tra gli elementi che contengono le pastiglie radioattive del reattore. Con questa operazione si ferma la reazione nucleare a catena per cui il reattore progressivamente si spegne. Non è una cosa immediata. Ricordo brevemente il funzionamento di una centrale nucleare. Nel processo di fissione una particella chiamata neutrone colpisce il nucleo di un atomo di uranio. Questo la incamera e così perde il suo equilibrio e si divide. L’atomo di uranio produce due diversi atomi radioattivi e libera 2 o 3 neutroni che andranno a colpire altri atomi di uranio, ripetendo il processo accaduto prima. Si innesca così la cosiddetta reazione a catena, nella quale si libera energia termica. Una centrale nucleare differisce da una centrale termica a petrolio o a carbone solo per il modo
di produrre calore. Dato che lo scopo è quello di produrre vapore, si utilizza l’acqua come fluido refrigerante del reattore. Nei reattori ad acqua bollente, come quello di Mühleberg, l’acqua viene trasformata in vapore direttamente nel reattore. La potenza di un reattore, e quindi la sua capacità di produrre calore, viene regolata con l’aiuto delle barre di controllo che hanno il compito di assorbire parte dei neutroni prodotti dalla reazione nucleare, impedendo loro nuovi inneschi non voluti. Per questo si parla di «reazione controllata» all’interno dei reattori. Le barre di controllo assorbono tanti più neutroni quanto più sono introdotte nel reattore che contiene le pastiglie di combustibile uranio. Se sono immerse completamente, la reazione si interrompe. Non è però che i tubi contenenti le pastiglie di uranio si raffreddino di colpo. Per loro natura continueranno per un certo tempo a emanare calore e naturalmente anche radioattività. In una prima fase a Mühleberg, una volta spento il reattore, quei tubi di combustibile sono rimossi e immersi in vasche di raffreddamento. Tutto questo avviene all’interno della centrale e per i componenti fortemente radioattivi addirittura all’interno della vasca del reattore. Secondo il programma stabilito, l’anno prossimo le barre di combustibile debitamente tagliate saranno trasferite nel deposito intermedio per le scorie nucleari di Würenlingen, nel Canton Argovia. Tutti gli elementi radioattivi dovranno finire laggiù entro la fine del 2024. Per le strutture e i materiali che a contatto o in presenza della radioattività sono stati contaminati lo smantellamento è previsto a partire dal 2025. Per il 2030 l’area della centrale dovrebbe essere libera da materiale radioattivo. Gli edifici non riutilizzabili verranno poi demoliti. Dopo che la Strategia Energetica 2050 ha portato il Consiglio federale e il parlamento, con l’avallo del popolo, a decidere l’abbandono dell’energia nucleare, lo spegnimento della centrale di Mühleberg è simbolicamente importante. Però va ricordato che la sua chiusura è stata decisa dai gestori per pure considerazioni economiche, tenerla aperta costava troppo. Tecnicamente avrebbe potuto andare avanti ancora per qualche anno. La legge dice che le
La centrale nucleare di Mühleberg. (Keystone)
nostre centrali nucleari non saranno sostituite da altre nuove a fine esercizio, però potranno continuare a funzionare fino a quando ne sarà garantita la sicurezza. Non vi è alcun limite di durata di vita di una centrale nucleare sul nostro territorio. Per cui anche se la voce «sicurezza» si riferisce alla protezione della salute e dell’ambiente, è chiaro che tutto ruoti attorno a discorsi economici e politici. Detto tra parentesi, stando a una valutazione del 2016, la disattivazione e lo smaltimento di Mühleberg costerà a BKW 3 miliardi di franchi. L’80 per cento dei costi è già coperto, per il finanziamento completo si parla di oltre 100 anni. Nella Confederazione vi sono altri 4 reattori nucleari (Beznau 1 e 2, Gösgen e Leibstadt) la stima attuale per il loro futuro smantellamento ammonta a 24 miliardi di franchi. Tralasciamo considerazioni economiche e politiche perché in questa pagina dobbiamo limitarci a un discorso ambientale e di salute pubblica. Parlando di centrali
nucleari inevitabilmente si cade sul problema delle scorie radioattive e della loro conservazione in luoghi sicuri. Per questo, fin dal 1972, gli esercenti e la Confederazione hanno fondato la NAGRA (Società cooperativa nazionale per l’immagazzinamento delle scorie radioattive) che ha il mandato di pianificare la gestione delle scorie e di procedere alle necessarie indagini per l’evacuazione delle scorie altamente radioattive in strati geologici profondi. Che dopo quasi 50 anni di studi e ricerche non si sia ancora arrivati a una scelta definitiva per il deposito la dice lunga sulle difficoltà dell’operazione. Perché il periodo nel quale questi residui nucleari continuano a emettere radiazioni nocive per la salute, e anche mortali, dura da alcune decine di migliaia di anni fino a un milione di anni. Bisogna confinarle in luoghi assolutamente sicuri. È questo il prezzo più pesante che dobbiamo pagare alla scelta energetica nucleare. Attualmente le scorie, con un volume limitato, sono depositate presso
le centrali nucleari che le producono e in due depositi centrali nel Canton Argovia. Ma è una soluzione intermedia. Alla chiusura di tutte le centrali nucleari svizzere ci saranno circa 100mila metricubi di materiali radioattivi che dovranno finire sigillati in depositi geologici profondi. Dopo aver scartato moltissime opzioni la NAGRA concentra la sua scelta su uno di 3 siti: nel Giura orientale, a Lägern Nord (AG/ZH) e nel Nord Est zurighese. Tutti ubicati in formazioni geologiche che per millenni sono state molto stabili e impermeabili, così da poter restare tali anche con il pericoloso regalo che lasceremo in deposito. Nota
A pagina 30 e a pagina 31 Luca Beti firma un reportage sul laboratorio Mont Terri, nel canton Giura, dove si svolgono esperimenti per determinare le caratteristiche della roccia che dovrebbe ospitare le scorie radioattive della Svizzera.
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Ambiente e Benessere
Sorridente, umile, tenace Sport Anche nel momento dell’addio, Doris De Agostini non ha tradito la discrezione
che ha caratterizzato la sua vita
Giancarlo Dionisio «Voglio però ricordarti come eri, pensare che ancora vivi». Sono parole rubate a Francesco Guccini. Canzone per un’amica. Già, perché Doris era una figura amica. Per tutti. Lo era per coloro che l’hanno conosciuta, frequentata, amata. Lo era anche per coloro che l’hanno solamente sfiorata una volta, o che si sono limitati a godere della sua immagine pubblica. Sì, perché Doris era entrata con discrezione nelle nostre case. Era diventata quasi una di famiglia. Un’ambasciatrice della nostra ticinesità. Lo era per la sua spontaneità, per il suo sorriso rassicurante, per la caparbietà con la quale inseguiva e catturava tutti i suoi obiettivi, per la semplicità, l’umiltà e il pudore con cui celebrava i suoi successi.
La riservatezza della «dura col sorriso che spacca» l’aveva portata a rifuggire i riflettori, la mondanità e gli eventi pubblici È stata, è, e sarà uno dei capisaldi della nostra cultura sportiva. Per gli appassionati meno giovani, Doris ha incarnato il successo. Regazzoni, De Agostini, Figini. O meglio ancora, il Clay, la Doris e la Michi, come tutti dicevamo, alla ticinese. Tre icone. Tre perle che hanno ingigantito il nostro orgoglio cantonale. Doris, la prima a salire le vette della celebrità, in una disciplina, la discesa libera, in cui lei faceva scorrere le sue lunghe ed elegantissime gambe a cento all’ora. La prima a conquistare una medaglia ai Campionati del Mondo, il bronzo di Garmisch-Partenkirchen nel 1978. La prima a imporsi in una gara di Coppa del Mondo, nel 1976 a Bad Gastein, quando aveva soli 18 anni, un successo al quale ne seguirono altri otto. La prima a vincere la Sfera di cristallo in discesa libera, nel 1983, precedendo un fenomeno planetario come Maria Walliser. Dopo di che, giù il sipario. A soli 25 anni, Doris De Agostini si fa da parte. E anche in questo suo fare la riverenza molto prematuramente è stata come una sorta di apripista per l’altra grande campionessa leventinese, Michela Figini. Michi ha rivelato come Doris fosse stata per lei «un esempio di coraggio, e di forza. Era una che non
Doris De Agostini sulla pista di sci di Airolo. (Ti-Press)
mollava mai». E come avrebbe potuto mollare, una ragazza che era stata accolta con scetticismo dai media e dagli osservatori del circo bianco. «È troppo alta, troppo magra, le mancano muscoli, non ce la farà a ripetersi» sostenevano in molti dopo il suo primo successo in Coppa del Mondo. Sappiamo come
è andata. Non per caso, colei che taluni vedevano più su una passerella di moda che non su una pista innevata, era soprannominata: la Dura. Una dura col sorriso che spacca. Una dura capace di essere una presenza discreta, umile e riservata. Doti probabilmente innate, che senza dub-
bio l’hanno aiutata a reggere e gestire la pressione di un mondo, quello dello sport di punta, in cui devi essere sempre al top, poiché se sbagli qualcosa, c’è sempre qualcuno pronto a dirti di cedere il posto, e qualcuno che quel posto è disposto a soffiartelo in un battibaleno. È sempre stata una ragazza, poi
una donna, di poche parole. Poche ma piazzate al momento giusto, con il tono adeguato. Sapeva farsi ascoltare. La sua riservatezza l’aveva portata a rifuggire i riflettori, la mondanità, gli eventi pubblici. Ciò nonostante, pochi anni fa, aveva accettato di intervenire, in qualità di madrina, alla serata di gala per la consegna dei riconoscimenti ai migliori sportivi ticinesi. Era stato commovente percepire la modestia con la quale suggeriva ai giovani talenti del nostro cantone, di insistere, di non mollare, di rispettare loro stessi e di rispettare gli altri. Altrettanto emozionante fu il constatare con quale attenzione la ascoltassero, i giovani presenti sul palco del Palacongressi di Lugano. Immagino che per loro si sia trattato di un attimo importante, di quelli che ti lasciano il segno e ti aiutano a riflettere, a crescere. Sì, perché se scorriamo gli albi d’oro dello sport mondiale, facciamo fatica a trovare il nome di qualche atleta ticinese. Dobbiamo andare indietro di quasi cento anni, per scoprire che Giorgio Miez, chiassese di adozione, ma originario di Töss nel canton Zurigo aveva riportato in patria otto medaglie, di cui quattro d’oro, partecipando a quattro edizioni dei Giochi Olimpici tra il 1924 ed il 1936. Poi il silenzio. Per parecchi decenni. Quasi a voler sottolineare che nella nostra terra non ci fosse l’humus adatto per coltivare campioni. L’avvento di Doris De Agostini è stato quindi un raggio di luce. Una botta di vitalità e di speranza. Ha infranto un tabù. Ci ha fatto capire che anche in un piccolo villaggio dell’Alta Leventina poteva nascere, crescere e formarsi, una grande campionessa. Ci ha aiutati a credere in noi stessi e nelle nostre potenzialità. Non è un caso se a distanza di pochi anni all’orizzonte si è profilato l’immenso talento di Michela Figini, e se dopo pochi decenni, con Lara Gut, pure di origini leventinesi, ci ritroviamo una nuova stella nel firmamento dello sci alpino. Doris e Michela hanno gareggiato insieme solo per una stagione. Ad entrambe, lo scorso inverno, la stazione sciistica di Airolo, ha dedicato una nuova pista. Il Covid-19 ci ha impedito quasi subito di provare l’ebbrezza di sciare su quei pendii, con la consapevolezza che su quelle nevi, Doris aveva imparato a scivolare sempre più velocemente. Lo faremo, quando sarà possibile. E allora penseremo a lei. Oggi, il pensiero, va anche a tutte le persone a lei care, alle quali mancherà immensamente. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere Livingston, pescatori all’alba. Lungo le coste centroamericane la pesca è sempre meno sostenibile per colpa dei grandi pescherecci oceanici che rastrellano ogni forma di vita. (su www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica)
Garìfunas, il cuore nero del Centroamerica Reportage Una intrigante fusione afrocaribeña di musica, danza e spiritualità, forse
Enrico Martino, testo e foto Vuelve Mujer (traducibile in Ritorna Donna), Monte de Oro, sono i nomi da favola di villaggi di capanne sbilenche color pastello sbiadite dal sole e dalla pioggia, sgranati tra labirinti di acqua e mangrovie di un Caraibi ispido e selvatico. Piccole Macondo di sogni perduti lungo le coste di Belize, Guatemala e Honduras dove vive un piccolo popolo, i garìfunas con il loro creolo nato per non farsi capire dagli «altri». Chi siano nessuno lo sa con certezza, molti storici parlano di un incrocio tra indios Caribe e schiavi africani sopravvissuti nel 1635 a un naufragio davanti all’isola di St. Vincent e deportati nel 1798 dagli inglesi sull’isola di Roatàn al largo dell’Honduras. Da qui si dispersero lungo le coste centroamericane fondando comunità come Livingston in Guatemala, un grappolo di case nascosto alla fine di un fiume dal nome sognante, il rio Dulce. Un villaggio di pescatori uguale a tanti altri con una strada che collega il molo al cimitero, l’alfa e l’omega del paese, e in mezzo l’ordinaria follia quotidiana. Per capire bisogna lasciare scorrere il tempo nel silenzio letargico di un’aria rovente che trasforma la realtà in una visione tremolante, spezzata solo dalla voce arrocchita di Celia Cruz che esplode da una radio dirigendosi con decisione verso il panteòn, il cimitero dove un groviglio di croci e di tombe lotta quotidianamente contro le matasse di radici di una grande ceiba, l’albero sacro dei Maya. Se muoiono quelle radici, muore Livingston assicurano in paese, ma per il momento si esorcizza il futuro brindando ai defunti, «que Dios los tenga en gloria!». A dare una botta di adrenalina ci pensa il 26 novembre, quando tutti si riversano sulla spiaggia sventolando foglie di palma per festeggiare precarie zattere di bamboo e barche stracariche che rievocano lo sbarco dei fondatori di Livingston in un lontano 1802. Ballano fino allo sfinimento i garìfunas per rivendicare un’identità a lungo negata. Balla la ragazza con una bambola di stoffa che è in realtà una puchinga simbolo dell’obeah, la tradizionale pratica magica rituale, ballano i fedeli della chiesa Evangelica del Nazareno da cui esce una tempesta sonora che fa tremare le sottili pareti delle case tamales rico-
Honduras. Miami è raggiungibile solo con una pista tra la laguna di Micos e il Mar dei Caraibi; qui si vive ancora al ritmo delle stagioni, senza elettricità e acqua dolce.
perte di foglie che avvolgono, come gli involtini da cui prendono il nome, gli esseri umani che ci vivono. È l’outing liberatorio di un mondo così impregnato di radici africane da indurre nel 2001 l’Unesco a dichiarare la cultura Garìfuna, Garinagu nella loro lingua, «Patrimonio orale e immateriale dell’Umanità» per la sua intrigante fusione afrocaribeña di musica, danza e spiritualità. Non tutti sono però d’accordo a Livingston. «È una balla colossale» sbotta Felipe quando incautamente glielo chiedo al Bahia Azul, versione locale del Buenavista social club con un più sostenuto tasso alcolico e musicale. «Un nero di Haiti o del Brasile non sa se i suoi antenati erano swahili o bantù, io invece so benissimo chi sono e da dove
vengo. Noi caribeños delle isole eravamo qui prima di Colombo, è una cultura che ci impongono da fuori, persino i garìfunas emigrati a New York o a Chicago che tornano solo a farsi canne o per lasciare incinte le ragazze di qui». È d’accordo anche Greg, sacerdote della religione sincretica garìfuna. «Ormai neanche gli anziani conoscono i riti e i loro segreti, prendi anche il nome dei nostri templi, Dabuyabà che significa “bevine ancora un poco”, non vuole dire che devi ubriacarti fradicio, bisogna rispettare Obatalà, Changò e Ochum». Loro, gli dei ancestrali, hanno deciso che qui si arriva solo in barca perché una strada porterebbe solo guai, «Con Livingston non si scherza, è un luogo sacro. Hanno provato tre volte a
Il 26 novembre la popolazione aspetta in riva al mare zattere e barche che rievocano lo sbarco dei primi garìfunas guidati da Marcos Sanchez Diaz.
Festeggiamenti per il Dìa Nacional del Pueblo Garìfuna a Livingston, tra balli e rituali antichi.
costruire un ponte e tre volte è crollato». Così a La Buga, come la chiamano i garìfunas, si arriva solo in lancha lungo il Rio Dulce o da Puerto Barrios, un porto bananiero che sembra una pubblicità del caffè, alla mercé di qualche lanchero che si infila tra le onde di un mar picante come un peperoncino. Livingston bisogna accettarla senza porsi troppe domande, compreso un suo inquietante mondo sotterraneo che può materializzarsi nella luce incerta dell’alba quando, al suono aspro di un tambor garaòn, una processione di uomini e donne svanisce rapidamente tra gli alberi ondeggiando in una sorta di trance, è un Dugù, un rito inquietante e segreto per calmare qualche defunto un po’ troppo agitato. Livingston è un’atmosfera, come e più di altri villaggi garìfunas, ma anche un reality sopra le righe dove il galateo locale prescrive di non rifiutare mai una cerveza bien fria a chi ti ha scelto come sponsor. Soprattutto se è Luis con le sue treccione rasta e il dente d’oro che brilla al sole, l’unico modo per sfuggirgli è sperare che abbia rimorchiato qualche americana di passaggio altrimenti prima o poi risuona il suo suadente «Ehi man, mi paghi un octavo?» che nello slang locale si traduce in un bicchierino di ron Venado. Da queste parti bisogna inventarsi qualcosa per sfangare la giornata, anche in Belize dove i garìfunas avevano trovato un nascondiglio perfetto in villaggi fuori dal mondo come Hopkins, dove ogni sera i pescatori scaricano ceste di
Red Snappers sempre più vuote, travolte dalla globalizzazione della pesca, mentre tra i tunnel di mangrovie del vicino New River il reggae sincopato del punta rock esce dalle finestre come il battito di un cuore impazzito insieme a qualche voluta di Belize breeze, la marijuana. «Vivi e lascia vivere» sentenzia con il suo sorrisone accecante un managercameriere-tuttofare di San Pedro, un atollo corallino dove i garìfunas snobbano con elegante distacco sub e turisti perché su una sola cosa hanno sempre avuto le idee chiare, la difesa della propria libertà. Sull’isola di Roatàn, nel vicino Honduras, lance cariche di anziane signore e scolaretti urlanti sfrecciano tra due file di case colorate che incorniciano il canale del porto peschereccio di Oak Ridge. Il nuovo che avanza si materializza invece come un irresistibile magnete per teenagers dalle pareti tappezzate di foto di attori e rapper di un parrucchiere del villaggio di Corozàl sulla vicina terraferma. Eppure anche qui la precaria pista che attraversa una lingua di terra tra lagune e grandi dune di sabbia bianca battute dall’onda lunga del Caribe finisce davanti a un grumo di capanne dal nome improbabile, Miami, dove i garìfunas vivono come due secoli fa. Niente luce, niente acqua dolce, solo cocchi allampanati che si piegano al vento e per i giorni di festa non manca mai il Sietetumbas, il «sette tombe», infernale miscela di radici fermentate che garantisce sbronze per sette giorni e sette notti, eliminando qualsiasi problema.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 novembre 2020 • N. 49
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Ambiente e Benessere
La lunga tradizione vinicola della Basilicata
Scelto per voi
Bacco giramondo Dalle terre vulcaniche di Vulture al Sasso di Matera
Davide Comoli La Basilicata – il cui nome deriva probabilmente da «basilikos» (dal greco «imperiale», «reale»), tant’è che durante la dominazione bizantina tra il IX-X secolo d.C. il termine stava a indicare il governatore locale – s’affaccia per una breve striscia costiera sul golfo di Policastro, mar Tirreno nei pressi di Maratea e a sud est sul golfo di Taranto bagnato dal mar Jonio. Il suo territorio ha una superficie di poco inferiore ai 10mila chilometri quadrati (9992), del quale il 46,8% è costituito da montagne, il 45,2% da colline, il restante 8% è pianeggiante. Confina a nord con la Campania e la Puglia, a sud con la Calabria. Il clima è prevalentemente continentale, nella zona collinare jonica del Metaponto, si alternano estati calde e secche, con una leggera ventilazione, a inverni miti e piovosi, clima ideale per vini bianchi molto aromatici, ma di media struttura. L’area collinare che degrada verso Matera, lungo la fossa bradanica, ricca di zone argillose e sabbie, dà origine invece a vini di grande complessità olfattiva e struttura come il Primitivo tra i rossi e il Greco tra i bianchi, mentre
nel fondovalle, di origine alluvionale, troviamo terreni molto fertili che favoriscono la coltivazione di vitigni internazionali. Nella zona del Vulture, nella parte nord est, troviamo il re dei vitigni di questa regione, l’Aglianico del Vulture, che qui ha trovato il sito ideale per esprimersi e donare vini di grande stoffa. I terreni che compongono il vulcano spento del Vulture (1326 m s.l.m.), sono composti da un piccolo strato superficiale di tufo di due metri, sopra terreni sabbiosi-limosi o argillosi. Il terreno è ricco di potassio e il tufo garantisce durante le estati con poca pioggia un buon apporto di umidità, assicurando ai vini prodotti, freschezza, sapidità e mineralità. La tradizione vinicola di questa regione si perde nella notte dei tempi, Si pensa che furono i navigatori Fenici, venuti a contatto con il popolo dei Lyki, chiamati poi Lucani (Lucania era chiamata l’antica Basilicata), a far conoscere la viticoltura, ma con molta più probabilità i primi maglioli di vite furono portati in Basilicata dai coloni greci, sbarcati ad Eraclea, antica città della Magna Grecia (odierna Policoro). Le ricche vestigia archeologiche hanno restituito, fra l’altro, parte del tempio
Panorama con vigneto a Monte Vulture. (Gianmarco Tirico)
dedicato a Dioniso, con epigrafi dove sono descritti gli appezzamenti destinati alla coltivazione della vite. Uno dei vanti di questa regione è quello di aver dato i natali al poeta Orazio (Venosa 65 - Roma 8 a.C.), che lodò le uve, i vini, i cereali e le olive della sua terra. In quei lontani tempi erano rinomati i vini di Buxentum (Policastro), di Thurium e quelli dei colli di Sibari come Lagaria, usato anche come medicamento. La superficie vitata copre poco meno di 4500 ettari con una produzione di circa 190mila ettolitri; ma gli stili produttivi e l’aspetto ampelografico ci consentono di dividere la Basilicata in tre aree. L’area più importante – per quanto riguarda la storia, l’attualità della vite e del vino di qualità – è senza dubbio quella del Vulture, in provincia di Potenza. Questo comprensorio vitivinicolo è legato a un complesso vulcanico oggi spento, che all’interno del cratere racchiude i laghi di Monticchio, inoltre comprende quindici comuni: Rionero in Vulture, Barile, Rampolla, Ripacandida, Ginestra, Maschito, Forenza, Acerenza, Melfi, Atella, Venosa, Lavello, Palazzo San Gervasio, Banzi e Genzano di Lucania. In questa zona, tra i 200-500 m di altitudine, ha trovato il suo habitat ideale il vitigno Aglianico, il cui nome e il sistema tradizionale di allevamento manifestano inconfondibili derivazioni greche. Dalle uve dell’Aglianico si ottiene uno dei più grandi vini del panorama enologico italiano, prodotto dai grappoli che maturano tardivamente, favorendo rossi potenti e corposi che necessitano d’invecchiamento per alcuni anni, quattro per il Superiore, prima di uscire sul mercato. Le uve migliori, o meglio le uve di quella che viene considerata la zona migliore, si trovano tra i 550 e 650 m s.l.m., nei pressi di San Savino; tra Rionero del Vulture e Ripacandida, i vitigni sono
allevati verticalmente con variazioni di «guyot», sostenuti da pareti di canne disposte generalmente a un metro di distanza l’uno dall’altro, ma in alcune zone si trovano anche a mezzo metro, con una densità forse unica al mondo, 20mila ceppi/ha. La buona versatilità di questo vitigno si presta all’elaborazione di rosati strutturati e di spumanti metodo Classico. La Val d’Agri, sempre in provincia di Potenza, è un territorio molto interessante, i vigneti sono impiantati tra i 200-600 m s.l.m., su terreni ricchi di sabbia e argilla; da agosto a ottobre sfruttano le fortissime escursioni termiche. Servendosi di queste condizioni pedoclimatiche i vari Merlot, Cabernet, Sauvignon, Sangiovese e Montepulciano danno vini strutturati, molto profumati e speziati. Nel frattempo, nella zona di Roccanova, sempre in Val d’Agri, dove l’estate è breve, si va via via sempre più sviluppando la coltivazione biologica che riesce a tradurre molto bene le caratteristiche di questo «terroir». Digradanti verso il mar Jonio troviamo il territorio che viene identificato come Matera DOC, che affida il toponimo alla famosa e unica città, Patrimonio dell’umanità, Matera, con il suo nucleo più antico, «il Sasso», dominato dal Duomo. Il clima asciutto e caldo favorisce vini prodotti dal vitigno Primitivo, dai piacevoli profumi di ribes, lampone e note di pepe bianco, assolutamente da gustare – con i piatti della tradizione come la purea di fave e cicoria o i fusilli con le fave – l’ottimo bianco di Greco. Particolare, il Moscato Dolce prodotto nel Vulture, da assaporare magari intingendoci gli ottimi biscotti con mandorle e noci. Un consiglio per i più golosi: non si può lasciare la regione senza aver provato la cotechinata, involtini di cotenna di maiale con battuta di lardo, aglio e prezzemolo o le salsicce locali, innaffiate da una vecchia bottiglia di Aglianico.
Alambre Moscatel de Setúbal
La regione di Setúbal si trova a sud di Lisbona, tra i fiumi Tejo e l’estuario del Sado. È sulla Serra da Arrábida, formata da diverse composizioni di suoli argillo-calcarei che maturano le uve del Moscatel de Setúbal, godendo di un clima a dir poco canicolare. Risalente a vitigni portati dai coloni Greci, la sua dolcezza ricca, naturale, muschiata e la tendenza a fermentare in alta gradazione alcolica, ne hanno fatto un bene altamente commerciabile. Già nel Medioevo era uno dei vini più apprezzati nelle corti europee, conosciuto con il nome di «Osoye». La fortificazione del vino avviene, come per il Porto, arrestando la fermentazione con alcol di uva, ma lasciato poi a sedimentare sulle fecce durante l’inverno. Dopo circa sei mesi di sedimentazione si pigia (unico al mondo) la polpa dell’uva, e il vino che si ottiene viene messo in botti, pronto per un eventuale assemblaggio. Lasciato per cinque anni a livello del suolo per beneficiare delle variazioni stagionali di temperatura, il vino acquista maturità e concentrazione. Dal colore topazio che va all’ambra, con note di noce, datteri, scorze d’arancio pungenti e speziati, una fresca dolcezza che ricorda il miele, lo raccomandiamo di certo per accompagnare una sfogliatina al cioccolato e pasticceria varia, ma provate a consumarlo anche con un cremoso gorgonzola. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 15.–. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 novembre 2020 • N. 49
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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana
Uno spezzatino d’agnello speciale Piatto principale
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
Ingredienti per 4 persone: 800 g di spezzatino d’agnello, ad esempio spalla · sale · pepe · 2 cucchiai d’olio di colza HOLL · 4 spicchi d’aglio · 2 cipolle grosse · 8 pomodori secchi sott’olio · ½ cucchiaio di farina · 4 dl di brodo di manzo · 50 g di olive nere snocciolate · 4 fette di prosciutto crudo · 2 cipollotti · 1 limone.
1. Condite la carne con sale e pepe e rosolatela bene nell’olio in una padella. Dimezzate l’aglio, tritate grossolanamente le cipolle. Aggiungete aglio, cipolle e pomodori alla carne, spolverizzate con la farina e bagnate con il brodo. Mettete il coperchio e stufate a fuoco medio-basso per circa 50 minuti. Lasciate il coperchio leggermente aperto per permettere al vapore di fuoriuscire dalla padella, in modo che il liquido si riduca. 2. Tagliate le olive e i cipollotti a rondelle sottili, il prosciutto a dadini. Ricavate delle listarelle dalla scorza del limone. Mescolate tutto. 3. Spremete la metà del limone. Condite lo spezzatino con il succo di limone, sale e pepe e distribuite la gramolata sulla carne. Un piatto gustoso che può essere accompagnato con pasta o semplicemente con fette di pane. Preparazione: circa 20 minuti; brasatura: circa 50 minuti. Per porzione: circa 47 g di proteine, 27 g di grassi, 13 g di carboidrati,
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 novembre 2020 • N. 49
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Ambiente e Benessere
Contagio emozionale
Mondoanimale Gli animali ci fanno da specchio e alcuni di loro preferiscono le persone positive qualche passo avanti nella comprensione della comunicazione sociale delle emozioni negli animali. Anche questa seconda ricerca è giunta alla conclusione che gli animali sono in grado di percepire lo stato emotivo dei co-specifici, ma pure degli etero-specifici, compresi noi umani: «Lo fanno utilizzando una modalità sensoriale o una combinazione di modalità sensoriali». Tornando alle capre (Capra hircus): «Sono animali altamente sociali e rappresentano quindi un modello eccellente per indagare i meccanismi alla base della dimensione sociale delle emozioni: i richiami usati da esse per comunicare codificano importanti informazioni sull’eccitazione e sullo stato emotivo del chiamante, insieme a informazioni sulla sua individualità, sesso e persino età. La conseguenza sta nella grande probabilità che l’espressione delle emozioni nei richiami delle capre possa essere rilevata dagli altri membri del gruppo in modo simile ad altri tipi di informazioni». Tutto ciò, in definitiva, corrisponde a quanto ci ha raccontato l’allevatore Giacomo Bassetti. Infine, anche qui la conferma. Riassumendo e combinando i parametri comportamentali e fisiologici, i risultati delle due ricerche suggeriscono che: «Gli animali non umani non sono solo attenti, ma potrebbero anche essere influenzati dagli stati emotivi di altri individui, secondo un fenomeno noto come contagio emozionale». Vuoi vedere che dare della capra a qualcuno, magari ripetutamente come è avvezzo fare il critico d’arte Vittorio Sgarbi, non sia offensivo bensì segno di grande empatia?
Maria Grazia Buletti «Con le mie capre ho instaurato un rapporto di amicizia le cui regole, però, sono chiare sia per me che per loro. Tutte hanno un nome al quale rispondono quando le chiamo, così come riconoscono la voce e anche il tono: capiscono subito quando le stai sgridando perché ne hanno combinata una», racconta l’allevatore Giacomo Bassetti che in valle Morobbia, oltre ad altri animali, si occupa anche di un gregge di capre. Alla nostra domanda se secondo lui le capre riescono a riconoscere le emozioni sui volti umani e se fanno differenza fra le persone risponde: «Se preferiscono la gente felice non lo so, ma di certo so che capiscono subito di che umore sei quando arrivi in stalla al mattino». L’esperienza che egli ci racconta è supportata da ben due distinte ricerche di scienziati che sono giunti a un’identica conclusione: «Le capre distinguono tra vocalizzazioni emozionali positive e negative, riconoscono le emozioni sui volti umani e sono attratte dagli umani con espressioni facciali felici». A fronte dell’esperienza sul campo di Bassetti, e dei risultati di tali studi, chi pensa ancora che gli animali non siano esseri empatici e sensibili dovrà ricredersi. «Oggi sappiamo che probabilmente anche una più vasta gamma di specie animali può leggere gli stati d’animo delle persone più di quanto potessimo immaginare», confermano i ricercatori della Queen Mary University of London, assodando il fatto che le caprette sono attratte dai nostri sorrisi. Ciò confermerebbe quanto di più tenero ci sia nel mondo animale: tutti
Le capre individuano le persone simpatiche e i musoni. (Pxhere.com)
possiamo essere conquistati con un sorriso e, se fino ad ora questa poteva essere solo un’ipotesi, oggi sapere che animali come le capre sono in grado di leggere le nostre espressioni apre nuovi orizzonti nella comprensione della vita emotiva di tutti i nostri amici a quattro zampe. Da questo studio è pure emerso che gli animali da cortile possono sì reagire agli umani con paura, indifferenza o (occasionalmente e nel caso delle capre) ostilità, ma pure che possono rifiutare di rapportarsi alle persone tristi, arrabbiate o immusonite. La raccolta di questi dati si è svolta nel Kent, in Inghilterra, al rifugio per capre Buttercups Sanctuary for Goats e consisteva nell’appendere due foto in bian-
co e nero a circa un metro e trenta di distanza su una parete dell’area del test: «Abbiamo introdotto una capra per volta che potesse esplorare liberamente l’ambiente e abbiamo rilevato che tutte le capre preferivano di gran lunga le facce sorridenti, avvicinandosi alle immagini di felicità prima di esaminare le immagini rabbiose. Esse esploravano con il muso i volti con sopra un sorriso, rimanendovi appoggiate a lungo». Questo effetto, però, era più significativo se l’immagine sorridente era appesa a destra, mentre se si trovava a sinistra, gli animali non mostravano preferenze: «Ciò dipende dal fatto che, probabilmente, le capre usano un lobo del cervello per elaborare le informa-
zioni, un fenomeno comune ad altre specie animali, oppure che il lato sinistro del cervello elabori le emozioni positive». A queste osservazioni si aggiungono quelle di una ricerca pubblicata sulla rivista «Frontiers in Zoology» secondo cui le capre ascoltando i versi dei loro simili sarebbero in grado di distinguerne lo stato emotivo. «Le emozioni hanno un valore adattativo perché consentono agli animali di rispondere in modo appropriato a stimoli salienti. Inoltre, ricerche effettuate sugli esseri umani suggeriscono che l’espressione emotiva può regolare le interazioni sociali e promuovere la coordinazione all’interno di un gruppo». Tutto ciò permette di fare
Giochi
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba Qual è l’animale più veloce del mondo? Molti direbbero il ghepardo ma non è così. Per scoprirlo rispondi alle definizioni poi, a cruciverba ultimato, leggi le lettere evidenziate. (Frase: 2, 5, 10)
ORIZZONTALI 1. Era soprannominato «Piè veloce» 7. Prima moglie di Giacobbe 8. Primo cardinale tedesco 9. Nota musicale 10. Affluente della Garonna 11. Gare col lazo 12. L’attore Zingaretti 15. Prete ortodosso 16. Congiunzione inglese 17. Intorno all’ora del tramonto 19. Venne sostituito ad «ut» 20. Bollite 21. Articolo 23. Emissioni di fluido 24. Un prefisso di ripetizione del verbo 25. Egregio 26. Si spoglia d’inverno
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
VERTICALI 1. Stella più luminosa della costellazione 2. A est della Francia... 3. Abbreviazione di ettaro 4. È una guida 5. Antichi strumenti a corde 6. Il Morricone musicista 10. Nascondono lo strappo 11. Un Valentino pilota 12. Gazze… 13. È singolare! 14. Le iniziali dell’attrice Diaz 15. Una salsa con i pinoli 17. Pareri contrari 18. Una volta in latino 20. Lo Stanislaw di Solaris 22. Una... «teca» per vinai 23. Una consonante 24. Viene in camera dopo me... Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
Sudoku Soluzione:
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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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Soluzione della settimana precedente
BELLEZZE ROMANE – La Fontana dei Quattro Fiumi a Roma fu realizzata da: GIAN LORENZO BERNINI.
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L A N A C E N O T R I N Z E A O Z I O S E E N A B R E N E R C O N B E G O N I
luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 novembre 2020 • N. 49
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Politica e Economia Il lungo inverno Usa Da una parte c’è Joe Biden già «presidenziale», dall’altra c’è Donald Trump che si rassegna al passaggio delle consegne ma non alla sconfitta
Il declino di Boris Johnson «Unfit», inadeguato a guidare il Paese, tanto più ora che la ragionevolezza internazionale ha un nuovo esponente con Biden. Basterà l’eliminazione di Cummings a salvarlo? O i Tories, la cui spietatezza si è vista in The Crown, non gli daranno tregua? pagina 27
Che cosa succede in Venezuela? Persecuzione degli ex sostenitori di estrema sinistra, diventati pericolosamente critici, e repulisti nelle forze di polizia di quegli agenti che non denunciano i colleghi sospettati di poco entusiasmo nella militanza a sostegno di Maduro. Così il regime affronta le elezioni del 6 dicembre pagina 27
pagina 25 La Cina si occuperà di distribuire i vaccini nei paesi in via di sviluppo. (AFP)
Una questione politica
Vaccini cinesi Pechino li sta già somministrando ad alcuni cittadini a rischio dimostrando sempre lo stesso
problema: quello della scarsa trasparenza che pregiudica la collaborazione internazionale Giulia Pompili Trovare un vaccino efficace contro il Sars-CoV-2, il virus che provoca il Covid, per la Cina è più importante che mai. Si parla ormai da settimane della «vaccine race», la corsa al vaccino che è anche una corsa a un primato politico. Da un lato, trovando un vaccino efficace, Pechino potrebbe ripulire la sua reputazione, dopo essere stata accusata per mesi di aver contribuito a provocare l’epidemia mondiale ritardando l’allarme nella città di Wuhan. Dall’altro lato, per far ripartire l’economia della seconda potenza del mondo – mentre il resto dei paesi occidentali, America compresa, continuano a fare i conti con i contagi e i lockdown – serve innanzitutto una immunizzazione di massa. È per questo che la Cina sta saltando i protocolli e le norme internazionali per l’uso dei vaccini aumentando le preoccupazioni della comunità internazionale (ma anche interne) sulla sicurezza degli stessi. Dei tre vaccini occidentali, quelli studiati rispettivamente da Moderna, Oxford-AstraZeneca e Pfizer, sappiamo moltissimo ormai: al di là dei segreti industriali, le società biotech sono obbligate a pubblicare i risultati
delle ricerche fatte e dei test sui liquidi inoculati. Gli articoli scientifici poi devono passare attraverso il vaglio della peer-review, la revisione paritaria. La velocità con cui sono stati prodotti i tre vaccini occidentali più promettenti, nonostante la trasparenza delle ricerche, sta mettendo in allarme la comunità scientifica che chiede più tempo per esaminare i risultati. La Cina, che ha il maggior numero di candidati contro il Covid in fase finale di test, e che sono quindi in sperimentazione sull’uomo, finora non ha riportato neanche un problema di salute su chi ha ricevuto la prima dose. È molto strano, spiegano gli esperti, che su un campione di oltre sessantamila persone non si sia registrato neanche un problema. Nonostante questo, la Cina sta andando già oltre la sperimentazione. Secondo quanto riportato dal sito web della società farmaceutica Sinopharm, almeno un milione di persone in Cina ha già ricevuto uno o due iniezioni di vaccino «per motivi d’emergenza». Sinopharm possiede due dei cinque vaccini cinesi in fase di sperimentazione clinica, e la scorsa settimana ha fatto domanda alle autorità cinesi per la messa in commercio del
prodotto che dovrebbe immunizzare l’uomo dal Sars-CoV-2. Anche se i risultati scientifici non sono ancora stati pubblicati, sin da agosto i due vaccini di Sinopharm e quello dell’azienda biofarmaceutica di Pechino Sinovac hanno ottenuto l’autorizzazione per essere inoculati alle categorie a rischio all’interno dei confini cinesi, per esempio uomini d’affari che viaggiano spesso oppure operai che sono costretti a lavorare molte ore al chiuso. A metà luglio il «New York Times» ha svelato che ai militari e ai dipendenti della PetroChina, il gigante petrolifero statale cinese, veniva offerta l’inoculazione del vaccino della Sinopharm gratuitamente, saltando gran parte delle fasi di sperimentazione necessarie in occidente ma soprattutto senza chiarire i possibili effetti collaterali e le controindicazioni: «Se l’uso emergenziale di un vaccino è raro, l’utilizzo di vaccini non ancora approvati è generalmente riservato al personale sanitario», scriveva il «New York Times». «Anche se il governo cinese ha sottolineato che la vaccinazione è su base volontaria, i dipendenti delle società e i militari potrebbero sentirsi pressati a farlo comunque». La trasparenza dovrebbe essere
fondamentale in questi casi, ma come spesso accade con la Cina l’assenza di dati pubblici aumenta i sospetti. La comunità scientifica internazionale comincia quindi a paragonare l’ottimismo cinese sui suoi vaccini autoctoni al fenomeno Sputnik, il vaccino russo contro il Sars-CoV-2 che il Cremlino ha fatto già somministrare a molti volontari: è una questione politica, di orgoglio nazionale, più che scientifica. Come ha scritto su Twitter la giornalista del «Wall Street Journal» Kate O’Keeffe, «la Cina ha avuto un vantaggio temporale» nella ricerca scientifica, ma «il desiderio di usare il Covid come un’opportunità per accrescere la sua posizione dominante a livello mondiale potrebbe farla fallire» nell’obiettivo di avere un vaccino efficace. Il fatto è che un passo falso di questo tipo potrebbe avere conseguenze anche per il Partito comunista al potere: sui vaccini l’opinione pubblica cinese è molto sensibile, per via di vari scandali avvenuti in passato. Soltanto lo scorso anno più di cento bambini nella provincia dello Jiangsu hanno ricevuto vaccini contro la poliomielite scaduti, e centinaia di genitori hanno assaltato il palazzo del governo locale. Sulle questioni sanitarie i cinesi sono molto
attenti, ma il vaccino contro il Covid è soprattutto politica. Il presidente cinese Xi Jinping ha detto più volte che il vaccino deve essere un «bene universale», e che la Cina si occuperà di distribuirlo nei paesi in via di sviluppo. È quella che viene definita la «diplomazia dei vaccini». In Cina le infezioni da Coronavirus sono sempre di meno, grazie a un draconiano controllo dei contagiati che sfrutta la tecnologia e i Big data. Così, per la sperimentazione dei suoi cinque vaccini, Pechino si è avvalsa della possibilità di fare accordi con i paesi che più ne hanno bisogno. La fase 3 è ancora in corso in dieci paesi tra cui l’Argentina, il Brasile, il Pakistan, gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia, il Bangladesh, l’Indonesia. I paesi in via di sviluppo dove la Cina sta sperimentando i suoi vaccini avranno accesso a degli accordi preferenziali per la produzione e la distribuzione dell’immunizzatore, una volta che sarà approvato alla commercializzazione. Per molti di questi paesi, come l’Indonesia o il Bangladesh, l’unico modo per fermare i contagi è creare l’immunità di gregge, vaccinando il più possibile la popolazione. La Cina, così, avrà un vantaggio d’influenza enorme trasformandosi in salvatrice del mondo.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 novembre 2020 • N. 49
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Politica e Economia
Ma Trump non uscirà mai di scena
Stati Uniti Un’opposizione ostruzionista potrà rendere difficile la vita
a Biden che sta cercando ancora di capire questa vittoria dimezzata Federico Rampini Da una parte c’è un Joe Biden già «presidenziale»: parla alla nazione facendosi carico di tutte le emergenze, usa il linguaggio della responsabilità, cerca di ricucire le ferite dopo una campagna elettorale velenosa. Dall’altra c’è Donald Trump che si rassegna al passaggio delle consegne ma non alla sconfitta: continua a parlare ai suoi di «elezione truccata, vittoria rubata con le frodi». Una maggioranza della base repubblicana gli crede. Fox News, la tv di destra di Rupert Murdoch che molla Trump e accetta il verdetto delle urne, sta pagando un prezzo: una parte del popolo di destra ha cominciato a trasmigrare verso altre reti tv, ancora più estremiste.
Nell’America profonda e moderata l’atteggiamento distruttivo di Trump è stato accolto con rabbia Un tasso di paranoia è sempre esistito nella politica americana: ricordiamo le teorie del complotto che fiorirono sull’assassinio di John Kennedy nel 1963, quando non esisteva Internet. Le dietrologie deliranti non sono un monopolio della destra: la sinistra filo-araba nel mondo intero credette ogni sorta di idiozie sull’attacco dell’11 settembre «orchestrato da Cia e Mossad». Anche di fronte al Coronavirus, esiste un movimento anti-vax di sinistra che farnetica sui complotti di Big Pharma ignorando che i vaccini non sono mai stati un vero business per le multinazionali farmaceutiche. Però nei prossimi quattro anni il problema con cui Biden dovrà misurarsi sarà questo: quante fake news inventerà Trump per delegittimarlo, per logorarlo, per costruire forse il trampolino di lancio di una ricandidatura nel 2024? «Ci aspetta un duro inverno. Siamo in guerra contro un virus, non fra di noi». È all’insegna dell’emergenza e dell’unità nazionale, il primo appello-Covid di Joe Biden alla nazione da quando il passaggio dei poteri è avviato. L’allerta Covid è ai massimi, le autorità sanitarie temono che dopo i raduni familiari nella festività arrivi una terza ondata dalle conseguenze catastrofiche, mentre in alcuni Stati
Usa il sistema ospedaliero è di nuovo vicino ai livelli di saturazione. Intanto il presidente-eletto designa i suoi futuri ministri a gran velocità, e la scelta di quei nomi già rivela cosa sarà l’agenda di governo dei suoi primi cento giorni. Covid: «La pandemia 24 ore su 24 e 7 giorni su 7», così uno dei più stretti consiglieri sanitari di Biden illustra la priorità assoluta. La task force che Biden ha assemblato su questo fronte sta già preparando i piani di distribuzione dei vaccini. L’America ha una buona tradizione in questo campo, quest’anno il vaccino influenza è partito in anticipo, ai primi di settembre, la sua distribuzione è stata veloce e capillare. Per il Covid bisognerà fare ancora meglio, superando le inevitabili complicazioni di una sanità molto segmentata (da Stato a Stato; fra pubblico e privato). La gratuità era già assicurata dall’Amministrazione Trump ma è sui tempi di distribuzione che Biden vuol fare la differenza subito. Disoccupazione. Janet Yellen, designata per il Tesoro, prepara la trattativa più urgente e più ardua: con la maggioranza repubblicana al Senato, per sbloccare una nuova manovra di spesa pubblica che aiuti famiglie e imprese. Biden però spera di riuscire a bruciare i tempi: convincendo il Congresso a dibattere e varare quella manovra ancora prima del suo insediamento. Per questo chiede ai democratici di pagare un prezzo, accettando una manovra più piccola rispetto alle promesse di 2000 miliardi di dollari. Per un sollievo immediato ai disoccupati (11 milioni), anche 500 miliardi potrebbero bastare, se è il prezzo da pagare per il sì dei repubblicani. Poi da gennaio bisognerà tappare i buchi della finanza locale: una città come New York da sola ha speso più di 5 miliardi per aiuti d’emergenza. Rapporti con la destra. «Voglio almeno un elettore di Donald Trump nella mia squadra», dice Biden. Cioè almeno un ministro repubblicano. Biden ha bisogno della collaborazione di tutti e per questo offre un ramoscello d’ulivo al rivale sconfitto: «Non ho l’intenzione di usare il Dipartimento di Giustizia per perseguirlo». Una mossa tanto generosa quanto controversa, soprattutto nell’ala più radicale e giustizialista dei democratici. Biden deve navigare tra scogli insidiosi. Cooptare qualche repubblicano al governo, in questo clima rischia di bruciarlo come un traditore agli occhi dei suoi; e di eccitare i sospet-
ti dell’ala sinistra su un esecutivo sempre più moderato. Politica estera. In realtà è al primo posto nell’attenzione di Biden se si giudica dal numero di nomine annunciate in tempi-record: Anthony Blinken segretario di Stato, Jake Sullivan National Security Adviser, Avril Haines direttrice della National Intelligence, Linda Thomas-Greenfield ambasciatrice all’Onu. È il ritorno della «vecchia squadra», un mix di fedelissimi di Biden con qualche prestito da Clinton e Obama. Talmente collaudati, da far parlare di restaurazione dell’Ancien Régime. Ottima cosa per l’Europa. Blinken ha già usato due parole chiave: «Umiltà e fedeltà verso gli alleati». Gli europei saranno corteggiati da subito, anche per contenere la Cina e la Russia. Ambiente. L’ex segretario di Stato di Barack Obama, John Kerry, fu il negoziatore degli accordi di Parigi per la lotta al cambiamento climatico. Come ambasciatore plenipotenziario di Biden rilancerà l’impegno dell’America su questo fronte: nel mondo intero ma anche a casa propria. Sarà membro del National Security Council a riprova dell’importanza strategica di questa battaglia. La svolta ambientalista produce già conseguenze: la General Motors volta le spalle a Trump e si ritira da una causa legale contro le norme antiemissioni della California. Sull’ambiente Biden agirà fin dalle prime cento ore, senza aspettare i cento giorni. Non c’è solo il gesto simbolico del rientro negli accordi di Parigi, che sarà tra i primi atti del nuovo presidente, forse nello stesso Inauguration Day (20 gennaio). Buona parte della deregulation che Trump varò a favore dell’energia fossile fu attuata con ordini esecutivi, senza passare dal Congresso: Biden li cancellerà con un tratto di penna, usando la stessa decretazione d’urgenza. Immigrazione. Il nuovo superministro degli Interni che comanderà la polizia di frontiera e tutto l’Immigration Service è designato nella persona di Alejandro Mayorkas. Il primo ispanico a dirigere la Homeland Security (che include anche l’antiterrorismo). Anche su questo terreno ci sono cose che la nuova Amministrazione farà subito, smontando alcuni editti antiimmigrati di Trump. Rimetterà al bando l’espulsione di giovani immigrati, i cosiddetti Dreamers, arrivati negli Stati Uniti da bambini. Bloccherà la separazione di figli e genitori alla frontiera, o
Joe Biden ha parlato di unità in occasione del Thanksgiving a Wilmington. (AFP)
l’uso delle famigerate gabbie per la detenzione (due pratiche che peraltro risalivano all’Amministrazione ObamaBiden). Ma quando Biden annuncia «amnistia per 11 milioni di clandestini» fa un gesto simbolico privo di conseguenze pratiche. L’amnistia va approvata al Congresso e quindi concordata con i repubblicani. Non accadrà presto. La più antica democrazia del mondo è stata salvata anche dai repubblicani. Non solo i leader storici, da George Bush a Mitt Romney, che sono scesi in campo per denunciare il sabotaggio di Trump e hanno riconosciuto la legittima vittoria del democratico. Ha contato ancora di più l’impegno civile di personaggi di secondo piano, illustri sconosciuti, dal Michigan alla Pennsylvania. Quando Trump ha scatenato l’offensiva per contestare il risultato, inventando teorie del complotto, brogli e frodi, chiedendo riconteggi e ricalcoli, intimando che fossero invalidate schede regolari, ci sono state due reazioni nel Paese. Nei media progressisti c’è chi ha cominciato a gridare al golpe, ha scelto i toni esagitati, coerenti con l’atteggiamento tenuto negli ultimi quattro anni. Non serve chiedersi se sia utile al Paese, l’urlo costante è utile per eccitare l’audience, quindi per il conto economico dei network televisivi e di qualche giornale. Nell’America profonda, in quel centro moderato che ancora rappresenta una parte del Paese, l’atteggiamento distruttivo di Trump è stato accolto con irritazione, disgusto, preoccupazione, seguiti dalla mossa più saggia: applicare le regole. Il presidente uscente chieda i controlli che per legge ha il diritto di chiedere. Eseguiamo le verifiche, ricon-
tiamo le schede. Molti repubblicani in posizioni di comando nei singoli Stati hanno fatto così. Hanno assecondato le richieste dello sconfitto, sono andati fino in fondo, per dimostrare nei loro Stati tutto era stato regolare. Altri danni sono stati inflitti, e non saranno riparati facilmente. Trump non esce di scena, cercherà rivincite. Vorrà essere lui il capo di un’opposizione durissima, selvaggia. Una parte degli eletti del partito repubblicano temono la sua popolarità nella base: ogni senatore che ha un seggio in scadenza tra due anni potrà essere scalzato in una primaria di partito da un candidato più trumpiano. Un’opposizione ostruzionista può rendere la vita difficile a Biden. Il partito democratico a sua volta sta appena tentando di avviare un’analisi di questa vittoria dimezzata, o mezza sconfitta. Ha regalato il mondo del lavoro alla destra, pur migliorando i suoi risultati tra i laureati. L’alibi più comodo per non fare i conti con questo spostamento sociale è accusare di razzismo gli operai che hanno rivotato Trump. Ma molti di loro avevano votato per Barack Obama. Ispanici, neri, anche in queste minoranze i risultati di Biden sono stati inferiori alle attese, talvolta peggiori della Clinton quattro anni fa. La spiegazione secondo cui operai, ex-immigrati, afroamericani che hanno scelto la destra «votano contro i propri interessi», è tipica delle élite che vivono nelle loro bolle autoreferenziali. Delegittimare 70 milioni di elettori di Trump, condannarli moralmente come razzisti, disprezzarli perché troppo ignoranti, non prelude al ritorno di un dialogo pacato tra le due anime del Paese. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Diana, Boris e la nostalgia canaglia Regno Unito The Crown serve anche a ricordare al Paese
quanto possano essere brutali i conservatori quando si stancano di un leader che li sta portando sulla strada sbagliata e che la stampa definisce «unfit» Cristina Marconi I britannici stanno ancora parlando di lei, di Diana. Sui giornali, in televisione, al supermercato: dove ti giri c’è la sua zazzera bionda da ragazzina, che sia l’originale oppure quella di Emma Corrin, che in The Crown ne ha sapientemente riportato in vita lo sguardo inquieto, la perenne richiesta di attenzione. A quasi un quarto di secolo dalla morte, ci sono ancora questioni aperte che la riguardano e di cui si discute con un sinistro senso di urgenza. È vero che la BBC la ingannò e che il giornalista Martin Bashir giocò con le sue paranoie per ottenere la famosa intervista del 1995? Cosa pensano davvero i figli di The Crown? Carlo è stato davvero così insensibile, Elisabetta così distratta? Il Regno Unito si sta cullando in una fantasia nostalgica che ancora non è arrivata al suo capolinea: la quarta stagione della serie Netflix ci lascia con Diana ancora viva, libera da pizzi e colletti da ingenua, decisa a trovare la sua strada. Siamo sospesi in un mondo senza conseguenze in cui tutto è ancora possibile, in cui c’è una donna forte e ancora giovane al comando – anzi due, anzi tre, anche se la più controversa è stata appena fatta fuori da Downing Street – e non nella realtà di un Paese colpito da una pandemia, con un leader eletto da meno di un anno e già logoro e con davanti un enorme passaggio esistenziale di cui si è molto chiacchierato e poco discusso seriamente: la Brexit. A riprova di quanto il tema sia serio, a Diana ha dedicato un pezzo anche «The Economist», nella rubrica di politica Bagehot. «Il paese sta indubbiamente vivendo con la sua eredità politica almeno quanto con quella della Thatcher», afferma il settimanale. E quale sarebbe questa eredità? «Il genio di Diana è stato quello di mischiare due delle forze più profonde della politica moderna, ossia le emozioni e l’anti-elitismo, in un potente cocktail populista», preparando il terreno a tutti quelli che negli ultimi decenni hanno dato un seguito pratico a questa intuizione antiintellettuale. Lei, figlia dell’aristocrazia più antica, nobildonna vissuta negli agi anche dopo il divorzio da 17 milioni di sterline, è stata uno «dei maestri moderni della politica delle emozioni», come quando in un’intervista alla BBC, discussa in questi giorni manco fosse stata trasmessa ieri sera, aveva detto, con formula immortale, di voler diventare la «regina dei cuori della gente». «The Economist» non è però tenero nel suo giudizio sull’eredità di Diana: va bene l’informalità e la capacità di parlare alle emozioni delle persone in modo diretto, come il baldo (ma competente) Tony Blair che diceva a tutti «chiamami Tony», ma alla fine gli eredi della principessa del popolo sono stati soprattutto i Brexiteers, i figli dell’élite che riescono a passare per amici del popolo e che davanti a qualunque tentativo di frustrarne i desideri, sapientemente alimentati, gridano al complotto e infangano il lavoro di chi fa leva sulla testa, il dettaglio e perché no la forza della tradizione, cruciale in un Paese che non ha una Costituzione scritta. Negli ultimi quattro anni chiunque si sia messo di traverso, anche solo con una semplice osservazione sulle procedure o sui tempi, al desiderio di uscire dall’Unione europea è stato accusato di essere un «nemico del popolo» o un remoaner, ossia un lamentoso nostalgico del remain. «Usando i sentimenti del popolo come carburante per la sua stra-
Boris, un leader logoro, con davanti ancora il passaggio della Brexit. (AFP)
ordinaria carriera, la principessa Diana ha rotto la valvola di sicurezza» che teneva le istituzioni al riparo dalle passioni e «il Regno Unito dovrà vivere con le conseguenze del populismo emotivo che ha contribuito a liberare per gli anni a venire». Eredità a dir poco pesante. Che Diana sia una delle sante patrone del populismo è possibile, e forse c’è il suo zampino dietro alla trasformazione dei britannici da popolo imperturbabile e stoico a comunità desiderosa di vedere una Royal Family più umana e palpitante, di avere politici più vicini alla gente e meno «esperti». Quello che è certo è che il Paese tra un mese uscirà dall’Unione europea senza che il progetto abbia guadagnato nulla in termini di chiarezza da quando, il 23 giugno del 2016, ha suscitato l’entusiasmo del 52% degli elettori. E lo farà guardando al passato, non certo a un futuro che, complice anche una pandemia in cui l’idea di Brexit si è ulteriormente liquefatta, non può non terrorizzare. I protagonisti di quella stagione sono usciti di scena: colui che rivolse una domanda tanto vaga agli elettori, David Cameron, si dimise subito, seguito da una Theresa May colpevole di aver cercato goffamente di definire i termini del problema. Nigel Farage, leader dello Ukip e vincitore morale di una battaglia viscerale e distruttiva, si occupa ormai nel tempo libero di fomentare il risentimento contro il lockdown. L’unico con un progetto in testa, ossia Dominic Cummings, mente dietro la campagna del Vote Leave e autore della vittoria elettorale del 2019, è stato visto portare via gli scatoloni (e molti segreti) da Downing Street. Rimane solo Boris Johnson, ormai ridotto all’ombra di se stesso. Che fosse auspicabile o meno, questa sinfonia degli addii sottrae però ai sostenitori della Brexit i presunti condottieri e, peggio ancora, agli spettatori più scettici la chance di vedere qualcuno amministrare la confusione che è stata creata. Quando Johnson, consigliato dalla sua fidanzata Carrie Symonds e dalla sua nuova addetta stampa Allegra Stratton, ha deciso di cercare di cambiare musica dopo un anno disastroso, sapeva di avere poche frecce al suo arco e ha rinunciato a un consigliere troppo spigoloso e controverso per cercare di salvarsi dalla resa dei conti che appare inevitabile. I Tories non lo ascoltano più, la comunicazione sulla pandemia è stata caotica e le infrazioni teatrali commesse da Cummings senza pentimento
alcuno gli sono costate credibilità e capitale politico. Per evitare di sbagliare, Johnson parla poco, in attesa di avere buone notizie da dare come ad esempio la distribuzione del vaccino per il Covid, nella flebile speranza di tornare a brillare nel ruolo del premier ottimista da tempo di pace che aveva sempre sperato di avere. Intanto Rishi Sunak, il cancelliere bravo e carismatico che molti vedrebbero bene a Downing Street, ha il ruolo – bello o brutto, ma senz’altro importante – di dire al Paese che l’economia è in pericolo e che una contrazione del Pil dell’11,3% non si vedeva da trecento anni, ma che le cose potrebbero andare ancora peggio senza un accordo di libero scambio con la Ue. Dalle nebbie di quattro anni e mezzo di dibattito sterile, è emersa questa figura giovane e responsabile, sorprendentemente Brexiter (o forse troppo astuto per schierarsi, visto che il referendum non è mai finito), con la sua dose di cattive notizie e ma anche di realismo, competenza, piglio fattivo. Non del tutto dissimile da quello che dall’altra parte dimostra Keir Starmer alla guida del Labour. Così diversi da Boris Johnson, che ormai, oltre ai deputati, ha quasi l’intera stampa a sfavore. Non passa giorno senza che «The Times», quotidiano conservatore di casa Murdoch, accolga un commento scorticante sull’inadeguatezza del premier. Il rispettatissimo Martin Wolf su FT ha recentemente scritto che «non è un uomo serio» ed è «improbabile che arrivi mai a governare con competenza», anche se il suo posto nella storia ce l’avrà per «aver rotto cose grandi che non possono essere aggiustate». E addirittura «The Spectator», di cui Johnson è stato direttore, scrive che il «primo ministro è nudo», come il re della favola. L’unico beneficio del dubbio che gli si possa concedere è che non si sia mai ripreso davvero dal Covid. Ma «è quello che è e non è all’altezza del suo posto», sentenzia il settimanale. Insieme alla grazia di Diana e alla dedizione di Elisabetta al suo ruolo, The Crown è servito anche a ricordare al Paese quanto possano essere brutali i conservatori quando si stancano di un leader indebolito o che li sta portando sulla strada sbagliata: le premesse ci sono perché uno scenario del genere si possa ripetere, a meno di colpi di scena che riportino tutti in una dimensione nuova e che il futuro si faccia strada senza bisogno di un cambio della guardia.
Maduro semina terrore a sinistra
Venezuela Secondo il NYT il presidente
si prepara a vincere le elezioni di dicembre perseguitando chi osa criticarlo Angela Nocioni Meticolosa persecuzione degli ex sostenitori di estrema sinistra diventati pericolosamente critici e repulisti nelle forze di polizia di quegli agenti che non denunciano i colleghi sospettati di poco entusiasmo nella militanza a sostegno del regime. Queste sono le due principali armi con cui il governo militarizzato del Venezuela si prepara alle elezioni parlamentari del 6 dicembre, elezioni alle quali l’opposizione, sempre litigiosissima al suo interno, non ha ancora deciso se parteciperà o se preferirà boicottarle. Marciando a passo serrato verso un totalitarismo a partito unico e resistendo comodamente alle sanzioni imposte dagli Stati Uniti grazie a un collaudato sistema di corruzione che ne annulla l’efficacia, il presidente venezuelano Nicolas Maduro è al momento preoccupato di contenere le proteste sociali che, dopo aver scosso le grandi città venezuelane, dal mese di settembre scoppiano qua e là in provincia, anche in territori tradizionalmente considerati roccaforte del regime e che ora, estenuati dalla assenza di cibo e di benzina (in un Paese che galleggia sulle riserve di gas e petrolio più abbondanti del pianeta) aggravata dalla emergenza sanitaria da epidemia di Covid-19, si ribellano per disperazione. I funzionari dello Stato che denunciano i corrotti sono accusati di sabotaggio e finiscono in galera. Gli ex militanti chavisti che decidono di candidarsi come indipendenti sono perseguitati dalla polizia e accusati di delitti comuni. I partitini e i movimenti di estrema sinistra che hanno costituito negli ultimi vent’anni la rete necessaria a fare del chavismo un fenomeno con un sostegno popolare – prima spontaneo e poi comunque mantenuto dalla capillarità della presenza di numerosissimi attivisti sul territorio – quando manifestano perplessità sullo stato penoso del Paese vengono decapitati con l’accusa di essere finanziati dall’estero o di coprire fenomeni di delinquenza comune. È successo al partitino dei Tupamaros, è successo ai capi del vecchio Partito comunista venezuelano e succede costantemente agli ex movimenti di base del chavismo: da quelli che organizzano le occupazioni di case in città a quelli che organizzano l’occupazione di terre incolte in campagna. In agosto i giudici del Tribunale supremo, totalmente in mano al regi-
me, hanno imposto alla direzione dei Tupamaros e di altri tre piccoli partiti dissidenti delle persone fedelissime al governo. Il capo dei Tupamaros, Josè Pinto, è stato incarcerato con accuse non dimostrate di omicidio. In questa nuova fase della repressione, gli agenti vestiti di nero delle forze speciali della polizia non si occupano solo di silenziare i funzionari o i militari vagamente critici, ma anche quelli che non fanno la spia e non denunciano i colleghi. Il 16 ottobre scorso il temibile Icap, l’ufficio di ispezione del controllo sul comportamento della polizia, ha convocato al Centro di operazioni poliziesche, con sede a Caracas, 30 funzionari appartenenti alle alte gerarchie della polizia bolivariana, il corpo più fedele tra le tante polizie di un Paese interamente militarizzato. Tutti oggetto di una investigazione interna. Tutti partecipanti a una chat di WhatsApp chiamata «corso 63». Si tratta di una chat che raggruppa alcuni diplomati nell’anno 2000 della scuola di formazione di agenti polizia. Da questa chat il regime sospetta siano state filtrate all’esterno informazioni su funzionari corrotti. L’indagine è stata svolta dall’ufficio creato due anni fa dalla polizia nazionale al suo interno per fare un monitoraggio costante delle reti sociali con l’obiettivo di vigilare non solo i giornalisti, ma le loro fonti di informazioni. Secondo un una denuncia dei corrispondenti locali del «New York Times», oltre 200 persone sono state arrestate per aver partecipato alle proteste di settembre, un manifestante è stato ucciso durante un corteo e centinaia sono i casi di sparizione nel nulla di persone prelevate dalle proprie abitazioni da funzionari delle forze speciali, alcune delle quali mai più rientrate a casa. Questa è la sorte toccata a un popolarissimo presentatore radiofonico, Josè Carmelo Bislick, socialista da sempre, uno di quelli che ha garantito un appoggio incondizionato a regime anche mentre affamava le classi popolari, e che ha cominciato a criticare il chavismo quando l’assenza di benzina nei distributori ha del tutto paralizzato il suo piccolo paesino di pescatori sulla costa. A quel punto sono iniziate nella sua trasmissione radiofonica denunce puntuali di corruzione di funzionari locali. Persone incappucciate l’hanno prelevato una sera a casa sua. I familiari hanno invano cercato l’aiuto dei funzionari locali socialisti per rintracciarlo quella notte. Il suo cadavere è stato trovato prima dell’alba vestito con la sua T-shirt preferita con la faccia di Che Guevara.
Nicolas Maduro è preoccupato di dover contenere le proteste sociali. (AFP)
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 novembre 2020 • N. 49
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Politica e Economia
L’argilla opalina, bara ideale per le scorie radioattive svizzere?
Reportage Nel laboratorio sotterraneo Mont Terri, nel canton Giura, da quasi un quarto di secolo vengono svolti
esperimenti per determinare le caratteristiche della roccia che dovrebbe ospitare il combustibile atomico esausto
Luca Beti A St. Ursanne, nel canton Giura, a colpire il visitatore sono la pittoresca città medievale, il placido scorrere del Doubs, ma anche un enorme squarcio nella montagna poco sopra la stazione ferroviaria. È la cava in disuso di una fabbrica di calce, oggi trasformata in uno spazio culturale, illuminato di notte da un faro posto in cima al camino della fornace. L’entrata del laboratorio Mont Terri si trova poco sopra. Le porte di questo mondo sotterraneo ci vengono aperte da Paul Bossart. Dal 2005 è il direttore del progetto di ricerca. Dopo aver percorso in macchina due chilometri della via di fuga della galleria autostradale Transgiurassiana che collega Boncourt e Bienne, parcheggiamo in uno slargo e proseguiamo a piedi. Muniti di casco e giubbotto catarifrangente ci addentriamo nel cuore della montagna, un dedalo di gallerie e nicchie lungo poco più di un chilometro scavato nel corso di quasi un quarto di secolo. Il laboratorio assomiglia a una sala operatoria: apparecchi di misurazione e cavi ovunque. Ad entrarci nel naso non c’è però il tipico odore di ospedale, bensì quello del cemento di cui sono fatte le volte dei tunnel. «Gli ultimi 600 metri sono stati ultimati
Studenti di geologia dell’Uni Berna analizzano e cartografano una zona di faglia nell’argilla opalina. (@swisstopo)
l’anno scorso. Serviva spazio per nuovi esperimenti», spiega Bossart che partecipa al progetto dal lontano 1996. «La montagna è il mio elemento. Riesce sempre a sorprendermi». Paul Bossart non ha studiato, analizzato, testato la montagna, bensì si
è occupato di una roccia particolare: l’argilla opalina. Forse sarà lei ad ospitare le scorie radioattive della Svizzera. È questa la proposta della Nagra, la Società cooperativa nazionale per lo smaltimento delle scorie radioattive. L’argilla opalina è una roccia sedi-
mentaria argillosa che prende il nome dai fossili dell’ammonite Leioceras Opalinum contenuti al suo interno. Durante il Giurassico, più di 175 milioni di anni fa, sul fondo di un mare poco profondo si depositò un fango fine, da cui si è formata questa roccia
particolare. La si trova in varie zone della Svizzera settentrionale, tra cui sotto il Mont Terri. La galleria A16 ne attraversa uno strato compatto a soli 300 metri dalla superficie terrestre. «Proprio qui abbiamo trovato le condizioni ideali per realizzare un laboratorio», racconta Bossart. I primi esperimenti scientifici risalgono a 24 anni fa, svolti nei fianchi della via di fuga. Nel corso degli anni, il laboratorio è stato costantemente ampliato per fare spazio ai ricercatori di mezzo mondo. Infatti, quello di Mont Terri è uno dei centri di ricerca più importanti a livello internazionale per quanto riguarda le rocce argillose, progetto gestito dal servizio geologico svizzero swisstopo. Vi partecipano attualmente 22 partner di 9 nazioni, tra cui la Nagra, nonché le agenzie omologhe di Francia, Germania, Spagna, Canada, Gran Bretagna, Giappone e Belgio, ma anche aziende petrolifere come la statunitense Chevron. In quasi 200 esperimenti, oltre 1000 scienziati hanno cercato di determinare le caratteristiche idrologiche, geotermiche e geotecniche della roccia opalina. Di recente, la ricerca si è concentrata anche su altri scopi, per esempio sullo stoccaggio delle emissioni di CO2. «All’inizio degli anni Novanta, la Nagra credeva che il granito fosse Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 novembre 2020 • N. 49
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Politica e Economia
Indagine geotecnica in una sezione del tunnel assicurata con archi d’acciaio: qui si misura come si modifica il diametro del tunnel nel tempo e il carico meccanico sugli archi. (@swisstopo)
una roccia ospitante ideale», ricorda Bossart. «In quegli anni ho partecipato a progetti di ricerca nella regione del Grimsel, ma anche in Giappone e Svezia». Le nazioni erano alla ricerca di una «bara ideale» per le loro scorie radioattive, ossia di una roccia in grado di trattenere a lungo termine le sostanze radioattive e chimiche velenose, garantendo così una protezione a lungo termine delle persone e dell’ambiente. Dopo vari studi si è scoperto che le rocce argillose presentavano caratteristiche ottimali per la Svizzera. Nel centro di ricerca di Mont Terri, l’argilla opalina è sottoposta a vari esami. La domanda principale
a cui gli studiosi devono rispondere è la seguente: è possibile depositare in modo sicuro le scorie radioattive nella roccia argillosa? Tra i vari test svolti attualmente, uno viene eseguito dal Politecnico federale di Zurigo. «Abbiamo riprodotto in scala uno a cinque un cunicolo per il deposito di scorie radioattive», illustra Martin Ziegler, il responsabile dell’esperimento dell’ETH che incontriamo in una nicchia durante la visita. «L’obiettivo è capire come ci si dovrà comportare durante la realizzazione del deposito se dovessimo incontrare una zona di disturbo, strato in cui l’argilla opalina è instabile. Saremo in grado di
stabilizzarla? O dovremo richiudere il cunicolo?». Nel corso degli anni e degli studi, gli esperti sono giunti alla conclusione che per la Svizzera la roccia argillosa ha caratteristiche ideali per lo stoccaggio di scorie radioattive in strati geologici profondi: ha una bassissima permeabilità all’acqua, una scarsa diffusione molecolare, ossia non trasporta le singole molecole, è in grado di trattenere i radionucleidi, nuclei atomici che emettono radiazione, e sigilla autonomamente fessure o crepe causate durante la realizzazione del deposito o da un terremoto. «L’argilla opalina assorbe l’acqua come una spu-
gna, senza più lasciarla andare. Inoltre agisce come una calamita sugli elementi radioattivi, impedendo loro di raggiungere la biosfera», illustra Bossart. Il laboratorio è una sorta di labirinto, un groviglio di gallerie tutte uguali per noi. Non così per Paul Bossart. Quasi ad ogni piè sospinto si sofferma a spiegarci a cosa servono le apparecchiature attaccate alla montagna, quasi volessero auscultarne il battito. Davanti a una nicchia ci illustra il prossimo esame geotecnico a cui è stata sottoposta l’argilla. «Qui vogliamo capire come si comporta la roccia se viene a contatto per un lungo periodo con il calore delle barre di combustibile esauste. Abbiamo scavato un cunicolo di 50 metri, dove abbiamo depositato dei fusti riscaldati. L’esperimento durerà dieci anni, fino al 2025». Gli specialisti hanno infatti scoperto che la roccia è fragile e si frantuma se viene riscaldata troppo, al di sopra dei 100° C, perdendo così la sua capacità di contenimento. Per evitare che ciò succeda, i fusti contenenti le scorie dovranno essere stoccati molto lontani gli uni dagli altri, una soluzione che farà lievitare i costi di un futuro deposito. La sua dimensione potrebbe essere di 2-3 kmq, pari alla superficie di oltre 300 campi da calcio. Poco più avanti scopriamo l’esempio in scala uno a uno del progetto della Nagra per lo stoccaggio delle scorie altamente radioattive. È una galleria del diametro di 3,5 metri in cui è stato collocato un fusto vuoto con pareti di 15 centimetri di acciaio inossidabile (in realtà conterrà gli elementi del combustibile nucleare). Il fusto è avvolto da un ampio strato di bentonite, argilla grigio-bianca impiegata per le sue proprietà di contenimento. «Il sistema dovrebbe garantire la sicurezza del deposito di scorie altamente radioattive per un milione di anni», ricorda
Bossart. Un milione di anni? Quante vite sono? Quante generazioni sono? Il calcolo ci fa andare in tilt il cervello. Ma siamo sicuri che ciò sia possibile? «Teoricamente potremmo costruire oggi il deposito», ci risponde il nostro cicerone. «Certo, rimarrà sempre un margine di dubbio. Ma a un certo punto si dovrà dire che si è fatto tutto il possibile. Altrimenti il deposito non verrà mai realizzato!». Intanto, la Nagra ha informato all’inizio di novembre che i risultati delle perforazioni svolte negli ultimi 18 mesi nei tre siti previsti sono promettenti. Sia l’area nel Giura orientale, nella regione del Bözberg nel canton Argovia, sia quella denominata «Lägern Nord», a cavallo fra i cantoni di Argovia e Zurigo, che quella di Zurigo Nord-est, nel Weinland zurighese, presentano strati sufficientemente spessi di argilla opalina che ne fanno quindi luoghi adatti per la realizzazione di un deposito di scorie radioattive. Nei prossimi anni, la Nagra continuerà ad effettuare analisi di laboratorio e a saggiare il sottosuolo. Test che entro il 2022 dovrebbero portare a una proposta definitiva del sito adatto da sottoporre al Consiglio federale. Per fortuna non c’è fretta, perché si sa che non è una buona consigliera. I ricercatori hanno ancora quasi un secolo per dissipare gli ultimi dubbi. Stando a Paul Bossart, il deposito finale in strati geologi profondi per scorie altamente radioattive potrebbe essere pronto idealmente nel 2060. I ricorsi e i processi ne ritarderanno però la realizzazione. La data più realistica è il 2100. Mancano ancora ottant’anni! Prima di allora, ne sarà passata d’acqua sotto i ponti, anche sotto quello di St. Ursanne, che noi ritroviamo all’uscita dal laboratorio Mont Terri. La cittadina è baciata dagli ultimi raggi di sole e le ombre della sera si allungano sulle acque tranquille del Doubs. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Il «Coronavirus-graben» Del Röstigraben, ossia del fossato – di natura culturale e politica – che separa la Svizzera tedesca dalla Svizzera romanda sentiamo parlare ormai da decenni. In tempi più recenti si è cominciato a sentir parlare anche del Polentagraben per indicare differenze – sempre di carattere politico o culturale – che potrebbero separare la Svizzera italiana da quella tedesca. Adesso, con l’arrivo della seconda ondata di infezioni, sembra stia nascendo un nuovo fossato tra i Cantoni della Svizzera tedesca e i Cantoni latini: il Coronavirus-graben. Come dimostra il grafico allegato – riprodotto dal «Tages Anzeiger» – la situazione è chiara: a metà novembre tutti i Cantoni latini si trovavano, per quel che riguarda il numero di casi di infezione per 100’000 abitanti, al di sopra della media svizzera. Non solo, ma il valore di questo rapporto nei Cantoni latini era largamente superiore a quello riscontrato in Cantoni che contengono una grande città come sono i Cantoni
di Zurigo, Basilea-città e Berna. Trovare le ragioni di questa differenza è per il momento un bel rompicapo. La colpa non è di sicuro attribuibile al virus che, come testimoniano le statistiche di tutto il mondo, non fa assolutamente differenze tra le persone da colpire in base al luogo dove stanno di casa. In un commento, pubblicato un paio di settimane fa, il «Tages Anzeiger» aveva identificato diverse spiegazioni. Dapprima la vicinanza dei Cantoni latini a focolari di infezione come l’Italia e la Francia. Tuttavia si precisava che questa spiegazione poteva valere solo per la prima ondata di
diffusione del virus perché oggi i valori del rapporto tra casi di coronavirus e popolazione sono in certi Cantoni latini addirittura superiori ai valori registrati in Francia. Anche la spiegazione stando alla quale nei Cantoni latini si farebbero in proporzione più test che in quelli oltre Sarina sembra non tenere. A questo punto il tentativo di chiarire le ragioni della differenza scivola verso spiegazioni più difficili da verificare perché fanno riferimento all’esistenza di differenze culturali che favorirebbero il diffondersi del virus nei Cantoni latini più che nel resto del paese. Talune sembrano addirittura essere veri e propri stereotipi. Vediamole: si dice, ad esempio, che gli abitanti dei Cantoni latini, una volta superata la prima ondata pandemica, abbiano perso il rispetto del morbo o per lo meno fossero più sicuri che quelli della Svizzera tedesca di potersi difendere dallo stesso. Si dice anche che in questi Cantoni, forse addirittura come reazione al lockdown
primaverile, sia aumentata la voglia di far festa e di incontrare gli amici. Si afferma anche che il romando e il ticinese reagiscono ai pericoli della diffusione del virus solo quando glielo ordina lo Stato, mentre per lo svizzero-tedesco la responsabilità individuale è altrettanto importante che l’ordine che viene dall’alto. Da ultimo si sostiene che gli abitanti dei Cantoni latini sono maggiormente portati per natura a cercare il contatto e quindi rispettano meno l’obbligo di mantenere la distanza. Quale di queste spiegazioni sia valida e quale meno resta naturalmente da dimostrare. Intanto il caso dei Cantoni latini ha fatto nascere anche la discussione intorno all’efficacia delle misure restrittive. Ginevra per prima, seguita da Vallese e da Vaud, ha adottato misure molto rigide per combattere la seconda ondata dalla pandemia. Si tratta praticamente di una chiusura parziale che ha suscitato molte proteste tra gli imprenditori colpiti da queste
misure. Questo anche perché non sembra che le restrizioni, introdotte in qualche caso già da alcuni mesi, abbiano indotto una riduzione del numero di nuovi casi di infezione. Anche questa mancanza di efficacia ha suscitato l’interesse dei media svizzero-tedeschi. E anche in questo caso mancano le risposte agli interrogativi con tanto di prova. In mancanza di meglio ecco allora sorgere di nuovo lo stereotipo: le misure restrittive non fanno effetto perché gli abitanti dei Cantoni latini non le rispettano, per non dire che se ne fregano. Insomma, alla luce di questi commenti, il Coronavirus-graben sarebbe determinato dal fatto che gli abitanti dei Cantoni latini sentono meno l’importanza della responsabilità individuale, non reagiscono ai pericoli se non glielo ordina lo Stato, e quando lo Stato glielo ordina non lo stanno a sentire. Per il momento ci sembra che la logica di queste spiegazioni sia in qualche modo traballante.
prossima Amministrazione inizia con le parole di Blinken e diventa solida se si guarda a tutte le altre nomine di Biden in ambito di politica estera e di sicurezza nazionale e internazionale. Il fatto che il presidente eletto sia partito proprio da questo ambito è già di per sé rivelatore: il ruolo dell’America, dopo la campagna di sfiducia globale operata da Donald Trump, è una priorità. Blinken è un esponente dell’establishment democratico di primo livello: clintoniano e obamiano, come tutta questa generazione (Blinken ha 58 anni) di esperti e funzionari che gravitano attorno ai liberal. Jake Sullivan, superconsigliere di Hillary Clinton quando era segretario di Stato, è stato nominato consigliere per la Sicurezza nazionale: Sullivan è stato l’artefice dei trattati di libero scambio e molto anche dell’accordo sul nucleare con la Repubblica islamica d’Iran, e questo dà molte speranze agli europei che contano sul
fatto che l’America riveda la sua posizione all’interno di quel patto (Trump ne è uscito in modo unilaterale). Per completare il quadro delle nomine, c’è Avril Haines alla direzione della National Intelligence, la prima donna a ricoprire questo ruolo, ma questa non è la notizia: la Haines ha una storia meravigliosa di dolore e ripartenza, la madre molto malata, i soldi di famiglia dilapidati per curarla, un incidente in bicicletta che dà dolori ancora oggi, la traversata dell’Atlantico su un Cessna assieme all’istruttore di volo nonché amore della vita David (non ci arrivarono, all’Atlantico, dovettero atterrare nel nord del Canada), e poi gli studi sulla fisica, la passione per la politica e per l’intelligence, una libreria rilevata in un quartiere poco sicuro di New York con il nome della madre e l’ambizione di riqualificare tutto quello che c’era intorno, infine le mansioni al Congresso e alla Cia di cui è arrivata
a essere vicedirettore. Avventura e competenza sono i tratti della Haines, che assomigliano a quelli degli altri suoi colleghi nominati da Biden, come Alejandro Mayorkas, primo ispanico a guidare il Ministero dell’interno e Linda Thomas-Greenfield, una delle diplomatiche più famose d’America mandata a rappresentare il Paese all’Onu, una che quando deve ringraziare qualcuno parte sempre dalle origini, come Blinken con la storia del suo padrino: ringrazia sua madre. Una menzione speciale spetta a John Kerry, ex segretario di Stato molto conosciuto nel mondo, che Biden ha nominato come inviato speciale per il cambiamento climatico: questa è una piccola rivoluzione, perché per la prima volta il clima diventa non soltanto prioritario, ma entra nelle questioni di politica estera e ancor più di sicurezza internazionale: anche qui, si riparte dalla collaborazione.
Ospite del conduttore Jimmy Fallon quella sera c’era il senatore Bernie Sanders, noto per essere stato tra gli aspiranti democratici agli inizi della campagna presidenziale e per essersi poi defilato, posto in minoranza dalla sua etichetta di candidato «troppo di sinistra». Nel video Sanders, interrogato sulle elezioni presidenziali, descrive come avrebbe potuto andare, secondo lui, la notte elettorale: «Potrebbe inoltre accadere che alle 10 di sera Trump starà vincendo in Michigan, in Pennsylvania, in Wisconsin e andrà in televisione per dire “Grazie americani per avermi rieletto, è tutto finito, buona giornata”. Ma poi il giorno successivo e quello dopo ancora, tutti questi voti via posta inizieranno a essere contati e si scoprirà che Biden ha vinto in quegli Stati e a quel punto Trump dirà “Ecco? Vi ho detto che c’erano delle frodi. Vi avevo detto che i voti via posta sono truccati. Quindi ora non ce ne andremo”». Una visione incredibilmente profetica, poiché descrive quello che è poi effettivamente
successo il 3 novembre e i vaneggiamenti di Trump dei giorni successivi, sino alla resa suggerita dai più intimi sostenitori. Conservo la fotocopia della pagina del «New York Times» con il bellissimo discorso di commiato in cui Al Gore invitava i suoi sostenitori ad accantonare «il rancore di parte» e ad avviare «il processo di conciliazione» per il bene del paese. Dopo essersi congratulato con il presidente eletto Bush, attorniato dai familiari e dal suo vice designato Joe Lieberman, accettando ufficialmente la sconfitta Gore aveva dichiarato: «Non ci devono essere dubbi: pur restando in forte disaccordo con la decisione accetto la irrevocabilità del risultato (…) Dobbiamo essere uniti dietro al nostro nuovo presidente (…) Gli ho offerto di incontrarci prima possibile in modo da cominciare a sanare le divisioni della campagna e dello scontro successivo» aveva concluso lo sconfitto, applaudito da repubblicani e democratici. Nei giorni successi
Gore non volle più commentare i trentasei giorni di incertezze e di battaglie legali, che il popolo statunitense è stato costretto a rivivere vent’anni dopo. Impossibile sapere oggi come il presidente uscente vorrà accomiatarsi nelle prossime settimane. Rimane solo la certezza che gli Stati Uniti devono uscire da una profonda crisi che Trump ha pensato di poter ostacolare solo con la sua goffa testardaggine, mostrando i muscoli e solo raramente indicando vere soluzioni, soprattutto per i problemi interni. Biden ha davanti a sé un paese condizionato dalle lacerazioni causate dal crescente razzismo, dalle rivendicazioni di tante minoranze e dal dramma ancora in atto del Coronavirus, combattuto solo a livello di ricerca scientifica. Non è però difficile prevedere che per guarire i mali degli Stati Uniti la nuova amministrazione dovrà avviare prima un «processo di riconciliazione» e cercare di cancellare i rancori generati dal populismo di Trump.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Ripartire dalla collaborazione Antony Blinken, nominato dal presidente eletto americano Joe Biden come segretario di Stato, ha parlato nel suo primo discorso di presentazione di quel che pensa che sia l’America e di quale sia il suo ruolo nel mondo. «Il mio padrino è stato l’unico, in una scuola di 900 bambini, che si è salvato dall’Olocausto», ha detto Blinken, riarrotolando la storia del Dopoguerra e ricominciando dall’inizio, dalla fondazione dei valori che tengono insieme l’ordine mondiale liberale di cui gli Stati Uniti sono guida. Il padrino di Blinken è Samuel Pisar, avvocato, scrittore, diplomatico (aveva raccontato la sua esperienza nell’Amministrazione Kennedy come consigliere di economia internazionale in un memoir molto bello, intitolato: Of blood and hope) scomparso nel 2015: Blinken abitava con lui a Parigi e si fece raccontare molte delle sue storie. Una è quella che ha detto a tutti, qualche
giorno fa: «Alla fine della guerra, Samuel riuscì a scappare da una marcia mortale nei boschi della Baviera. Si nascose e da lì sentì un rumore molto forte. Era un carro armato. Ma invece della croce uncinata, Samuel vide una stella bianca. Corse verso il carro armato, si aprì lo sportello, un soldato afroamericano lo guardò. Samuel si buttò in ginocchio e disse le uniche tre parole in inglese che sua madre gli aveva insegnato prima della guerra: Dio benedica l’America». «Questo è quello che siamo», ha concluso Blinken, «questo è quel che l’America rappresenta nel mondo, per quanto in modo imperfetto». La visione di Blinken e di Biden è tutta qui: gli Stati Uniti hanno un ruolo guida nella gestione delle relazioni multilaterali fondate su valori condivisi e sulla collaborazione. La restaurazione dell’immagine dell’America – e del suo peso – che vuole la
Zig-Zag di Ovidio Biffi Prima che Trump se ne vada Trovo piuttosto strano che le cocciute scelte di Donald Trump non abbiano suggerito ai media di porre a confronto l’attuale momento della politica Usa con quello pressoché analogo di venti anni fa. Infatti nel 2000 anche Al Gore, allora candidato democratico alle presidenziali dopo otto anni di vicepresidenza con Bill Clinton, prolungò il «dopo elezioni» per oltre un mese, fino alla vigilia della riunione dei grandi elettori che avrebbero sancito la vittoria del repubblicano George W. Bush. Proprio come Trump, anche lui chiedeva il riconteggio dei voti della Florida, uno Stato il cui numero di grandi elettori avrebbe potuto determinare la vittoria dell’uno o dell’altro candidato. Nonostante uno strettissimo margine di voti (circa 500) e malgrado il governatore della Florida oppostosi al riconteggio fosse Jeb Bush, fratello del candidato repubblicano, la richiesta venne respinta dalla Corte Suprema. Credo che questo precedente sia una sorta di cartina di tornasole per interpretare
il lungo tergiversare di un Trump che ha continuato a negare la vittoria di Joe Biden chiedendo assurdi riconteggi in molti Stati. A spingerlo, più che la convinzione politica o concrete prove di brogli, c’era unicamente la sua testardaggine nello sfruttare sino all’ultimo un velo di incertezza che gli potesse in qualche modo consentire di vincere come Bush nel 2000. Alla fine ha dovuto rassegnarsi all’evidenza di non poter più sostenere la sua assurda strategia di fronte a un Biden con il maggior numero di voti e ad azioni legali che continuavano a mostrare a lui e a suoi irriducibili sostenitori l’evidenza della sconfitta. Per descrivere e cercare di capire la prolungata e surreale caponaggine di Trump vale la pena di segnalare anche un’altra vicenda, meno remota nel tempo. Su Youtube è facilmente reperibile un video che ripropone uno spezzone di un talk-show andato in onda negli Stati Uniti la sera del 23 ottobre scorso, quindi dieci giorni prima delle elezioni presidenziali.
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Cultura e Spettacoli La peste, un tempo Si conclude il nostro viaggio attraverso la cronaca delle epidemie nell’antichità
L’arte contraddittoria di Canevari Il «minimalismo barocco» dell’artista Paolo Canevari in mostra alla [dip] contemporary art di Lugano pagina 39
Come sta il romancio? Dadò ha pubblicato Sabbia (dal romancio Sablun), raccolta poetica del grigionese Dumenic Andry pagina 42
pagina 37
L’eredità di Lennon
Anniversari Quarant’anni or sono
veniva assassinato uno dei simboli musicali del secondo Novecento
Blanche Greco L’era del «flower power» finì con 6 colpi di pistola la sera dell’8 dicembre 1980, quando a New York, davanti a casa sua, al Dakota Building, John Lennon venne colpito alla schiena dai proiettili esplosi da uno squilibrato. Moriva quel giorno di quarant’anni fa «un figlio di Liverpool che aveva cercato peace and love nelle diverse sfere della vita», come venne ricordato con solennità in una cerimonia nella cattedrale della città inglese durante il Festival della Pace che si tenne in quel periodo. Dopo essere stato uno dei pilastri della musica dei Beatles, John Lennon aveva lasciato che la band, alla fine degli anni 60, esplodesse come un fuoco d’artificio nel firmamento del successo e mentre il gruppo rimaneva al centro dell’immensa popolarità, lui, conscio della propria fama, aveva deciso di prendersi il palcoscenico mondiale per dare sfogo alla propria creatività senza compromessi «beatlesiani», da solo con Yoko Ono, la sua musa, il suo nuovo amore, la sua complice più temeraria, e si trasferì a New York. È soprattutto questo periodo che racconta Paul Du Noyer nel libro Le storie dietro le canzoni (Mondadori Electa) dove nella premessa si dichiara: «c’è un’unica storia in realtà dietro alle canzoni di John Lennon: la storia della sua vita.» In una intervista a «Playboy» nel 1980 Lennon aveva rivelato: «Mi piace scrivere di me, perché mi conosco. Non so niente di segretarie, postini e vigili urbani.» Il libro raccoglie i testi originali delle canzoni di Lennon, soprattutto quelle della sua produzione solista dal 1970 in poi, che scandirono le sue esperienze, le sue fughe e i suoi sogni degli ultimi die-
ci anni e in cui riuscì, come racconta l’autore, «a trasformare la complessità della sua vita in poesia». Paul Du Noyer imbastisce così una trama preziosa fatta di fotografie, di notizie di cronaca, di musica, di elementi biografici, di interviste degli ex-Beatles e di John Lennon che, in quegli ultimi giorni del 1980, lavorava alla promozione dell’album Double fantasy appena uscito. Anche per chi gli è stato contemporaneo questo libro è una sorpresa perché vi riscopre John Lennon, l’uomo e la pop-star, capace d’impegnarsi in battaglie ideologiche, di trasformarsi in un guru, un leader, un predicatore; di sfidare le convenzioni inventando clamorose performance pubbliche insieme a Yoko Ono, ma che nel giro di poco poteva cambiare «causa», o seppellirsi altrettanto velocemente nel silenzio con candida volubilità, perché in fondo, a parte le mille sfaccettature del personaggio, John Lennon era lo specchio di un’epoca ricca di stimoli, d’idee, di mode, ma anche di speranze in un futuro migliore, e c’era la sensazione che tutto fosse possibile, anche cambiare il mondo. Give Peace a Chance fu il primo singolo pubblicato da John Lennon al di fuori dei Beatles, ed era una canzone nata il primo giugno del 1969, nei sette giorni di bed-in per la pace, la performance che ebbe luogo nella suite del Queen Elisabeth Hotel di Montreal in cui John e Yoko a letto, in pigiama bianco, ricevevano giornalisti, amici e curiosi con la frase «date una possibilità alla pace». Tra gli estemporanei ospiti c’era Timothy Leary, il guru dell’LSD, la cantante Petula Clark, un rabbino locale, il comico Tommy Smothers e vari membri del tempio Radha Krishna di Montreal, e tutti cantarono insieme a John la com-
Yoko Ono e John Lennon in un’immagine degli Anni Settanta. (Keystone)
posizione nata in quelle ore. Give Peace a Chance, quel mantra «insistente e ubriacante» scandì da quel momento in poi, le manifestazioni contro la guerra in Vietnam e venne intonato da una folla immensa il 15 novembre a Washington davanti alla Casa Bianca occupata da Nixon. Alla fine del 1969 un programma televisivo britannico elesse John Lennon «Uomo del decennio» assieme a John F. Kennedy e al presidente nord vietnamita Ho Chi Minh. Give Peace a Chance fu anche la preghiera dei fan di Lennon quel fatidico 8 dicembre 1980 davanti al Dakota Building e anni dopo la canzone più ricordata, insieme a Imagine, davanti al Muro di Lennon a Praga, e, in tempi molto recenti, davanti a quello a lui dedicato a Hong Kong. Il giornalista musicale Paul Du Noyer ricorda come la cifra più perso-
nale e interiore di Lennon si avvertisse anche in canzoni cantate dai Beatles come Help, Tomorrow Never Knows, Norwegian Woods, o Strawberry Fields Forever, piene di metafore, di atmosfere misteriose e di inquietudine. Ciò diventerà evidente in seguito, ad esempio in Mother, canzone che Lennon definì «ispirata al 99% ai suoi genitori» che si separarono quando lui aveva cinque anni, dopodiché sua madre lo affidò alle cure di zia Mimì con la quale crebbe; o Cold Turkey in cui descrive gli effetti fisici di uno dei tentativi di disintossicarsi dall’eroina, considerata all’epoca una sorta di «vizio artistico», al quale sfuggì molto dopo; oppure Watching the Wheels in cui racconta i suoi cinque anni lontano dalle scene, dopo la nascita del figlio Sean, mentre i fan ed i giornali orfani della loro rockstar titolavano: «Dove diavolo sei John Lennon?», e lui scriveva canzoni,
incideva demo, viaggiava e semplicemente viveva, dopo anni di sovraesposizione mediatica, di difficoltà con le autorità americane, di temporanea crisi d’ispirazione e momenti di disamore con Yoko Ono, la donna della sua vita. Il 27 maggio del 1979 sui quotidiani di Londra, New York e Tokyo i Lennon pubblicarono «Una lettera d’amore da John e Yoko» per i loro fan e Watching the Wheels ne fu quasi la versione musicale. L’anno dopo, John Lennon, quarant’anni appena compiuti, venne ucciso mentre rincasava. Solo alcune ore prima aveva autografato il nuovo album al suo assassino. Bibliografia
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Cultura e Spettacoli
Non è ira divina
Letteratura – 4 Le descrizioni di pestilenze nella letteratura latina sono largamente influenzate dai modelli greci
Elio Marinoni La più antica descrizione di una epidemia è costituita dal finale del poema De rerum natura di Lucrezio: il VI e ultimo libro si conclude infatti con un’ampia narrazione, condotta sulla falsariga del testo tucidideo, della peste di Atene del 430 a.C. (VI, 1138-1286). Dopo aver spiegato – coerentemente con la dottrina epicurea – che le epidemie non sono manifestazioni dell’ira divina nei confronti degli uomini, bensì sono causate da un inquinamento prodotto da atomi nocivi (De rerum natura, VI, 1090-1137), Lucrezio passa appunto a descrivere la peste di Atene, seguendo fedelmente e quasi traducendo, sia pure nella trasfigurazione poetica, la narrazione dello storico ateniese. Vi si ritrovano, e sostanzialmente nello stesso ordine sequenziale, tutti i dettagli del racconto tucidideo: – l’origine al di fuori del mondo greco (1141); – il quadro sintomatologico, che costituisce la sezione più ampia (1145-1214); – l’incapacità della scienza medica di escogitare una terapia efficace e universalmente valida (1179; 1226-1229). Si veda a questo proposito la potente personificazione della medicina balbettante, sottolineata dalla duplice allitterazione a distanza: Mussabat tacito medicina timore, «la medicina balbettava, colta da inconfessato timore» (1179); – la prostrazione psichica di chi si scopriva positivo al contagio: «ciò che accadeva, fra tante sciagure, di più pietoso e penoso era il fatto che chi si vedeva colto dal contagio, come se fosse stato condannato a morte, perduto il coraggio giaceva col cuore afflitto, e aspettando la morte esalava l’anima sul posto». (Lucrezio, De rerum natura, VI, 1230-1234); – l’inarrestabile propagazione del contagio (1235-1251); – il sovraffollamento della città (12521261); – i mucchi di cadaveri nelle case, nelle strade, nei templi (1262-1275; cfr. anche 1215 ss.);
– l’impossibilità di celebrare regolari esequie (1276-1286). In età augustea, Livio descrive l’epidemia che colpì Siracusa nel 212 a.C., durante l’assedio della città nel pieno infuriare della seconda guerra punica. Anch’egli insiste su alcuni particolari «topici» come i mucchi di cadaveri insepolti e l’incrudelimento degli animi. Aggiunge tuttavia un particolare inedito: la ricerca di una via di morte più rapida in battaglia. Ecco il testo della narrazione liviana nella classica traduzione di Guido Vitali: «Sopravvenne allora su tutti un malanno, a cagione d’una pestilenza che distolse subito gli animi degli uni e degli altri da propositi bellicosi. Per la stagione autunnale, infatti, e per i luoghi di lor natura malsani, l’intollerabile violenza del calore colpì le membra dei soldati, molto più tuttavia fuori di città che dentro. Dapprima si ammalavano e morivano per effetto della stagione e della malaria; poi le stesse cure che si prestavano agl’infermi e il contatto con costoro diffusero il morbo, sì che, o morivano prima senza essere assistiti oppure comunicavano il contagio a quelli che li assistevano e li curavano; onde i funerali erano quotidiani, e l’aspetto della morte era sempre sotto gli occhi, e giorno e notte risuonavano dappertutto lamenti. Da ultimo, l’abitudine al male aveva siffattamente indurito gli animi che non solo non accompagnavano più i morti con pianti e con le dovute lamentazioni, ma neppure li portavano a seppellire, onde i cadaveri giacevano a mucchi sotto gli occhi di quelli che aspettavano la stessa morte, e i morti infettavano gl’infermi, e gl’infermi i sani, con la paura, con gli umori corrotti, con l’odore pestifero delle membra. E, per morire piuttosto di ferro, alcuni assalivano da soli le guardie nemiche». (Livio, Ab urbe condita, XXV, 26,7-12, tr. di Guido Vitali) L’episodio narrato da Livio è ripreso, e poeticamente rielaborato con influssi virgiliani (peste degli animali del Norico nelle Georgiche, III, 470556), da Silio Italico nel suo poema sulle guerre puniche (Punica, XIV, 580-617).
Thomas Ralph Spence, Archimede guida la difesa di Siracusa, 1895. (Wikipedia)
In particolare, egli riprende l’antichissimo motivo dell’interpretazione della peste come punizione divina. Quest’ultimo ricorre anche nell’ampia descrizione ovidiana della pestilenza mitologica che avrebbe colpito l’isola di Egina, scatenata dall’ira di Giunone, invidiosa degli amori di Giove con la ninfa Egina, da cui era nato Eaco, che sarà poi l’unico sopravvissuto e diverrà re dell’isola (Ovidio, Metamorfosi, VII, 523-613). La narrazione, modellata sulle descrizioni di Lucrezio (peste di Atene) e di Virgilio (peste degli animali nel Norico), comprende molti particolari già rilevati: – la descrizione dei sintomi (554-560); – l’inutilità dei rimedi (561-567); – i malati cercano invano di placare l’arsura con l’acqua (568-581); – mucchi di cadaveri ammassati all’aperto (582-586); – a nulla valgono le pratiche religiose (587-603);
– esequie sommarie (606-613); si vedano in particolare i vv. 606-607: «I cadaveri degli estinti non sono accompagnati coi consueti riti funebri; infatti le porte della città non contenevano più i funerali». Come abbiamo già osservato a proposito di Sofocle e di Tucidide, si tratta di un dettaglio di sconvolgente attualità. A questi particolari Ovidio aggiunge quello di chi si uccideva per affrettare la morte (604-605): una scelta analoga a quella dei combattenti a Siracusa secondo Livio. Alcuni dei dettagli sopra elencati sono a loro volta ripresi da Seneca nella tragedia Oedipus (vv. 53-201), che rielabora la stessa materia mitica dell’Edipo re di Sofocle. Il filosofo stoico pone sullo stesso piano l’inanità della religione e quella della medicina (68-69) e dà grande rilievo alla sommarietà dei riti funebri, causata dal gran numero
dei decessi: mancano terra per i tumuli e legna per i roghi (61-67), mentre le sette porte di Tebe non bastano alla folla dei congiunti in cerca di sepolture (129-130). Al termine di questa carrellata di testi greci e latini, due conclusioni si impongono: la prima, che la descrizione di un’epidemia, presente fin dagli albori della letteratura greca, si è venuta col tempo costituendo in una sorta di sottogenere, con alcuni elementi canonici e ricorrenti; la seconda, che al di là degli enormi sviluppi intervenuti, in particolare nel campo scientifico, nel corso di più di duemila anni, la lettura di quei testi antichi, confrontata con l’attuale pandemia che sta sconvolgendo il mondo, evidenzia tutta una serie di analogie negli effetti del morbo e nelle sue conseguenze sul piano comportamentale e dei rapporti sociali, facendoci così riflettere sulla sostanziale immutabilità della natura umana.
Un viaggio coraggioso alla ricerca della spiritualità In scena Nel programma «Zona 30», voluto dal Teatro Sociale
in risposta alla crisi, anche una lettura scenica di Cristina Zamboni
Giorgio Thoeni
L’attrice Cristina Zamboni.
Anche il Teatro Sociale di Bellinzona riesce a dare un suo valido contributo per una resistenza costruttiva in un periodo di digiuno culturale forzato. Nel rispetto dei limiti di spettatori consentiti in sala, con Zona 30 ha messo in campo una programmazione su misura, fra musica e parola, liberando la platea dalle poltroncine per sistemare alcune sedie e occupare pochi preziosi palchetti. Un ambiente surreale ma intimo e affascinante, ideale per assistere alla proposta dell’attrice Cristina Zamboni accompagnata dal violoncello di Nickolay Shugaev con In viaggio con Ella Maillart e Annemarie Schwarzenbach, una lettura scenica fra le note di Bach, Thorvaldsdottir, Dutilleux e Kerem. Un reading creato per ripercorrere l’avventura e il ricordo della personalità di due donne profondamente diverse, unite dalla scoperta di luoghi,
umanità e spiritualità. Il racconto si snoda sul viaggio intrapreso nel 1939 da Ella Maillart, scrittrice, fotografa e audace vagabonda ginevrina in compagnia di Annemarie Schwarzenbach, androgina e omosessuale scrittrice zurighese alle prese con il tentativo di liberarsi dalla dipendenza dalla morfina e da un amore tormentato. È un viaggio attraverso la Turchia e l’Afghanistan, incredibile e temerario per quell’epoca, ancora carica di barriere e pregiudizi nei confronti delle donne. Trebisonda, Teheran, Herat, le pagine scelte scorrono lungo una lettura puntuale, avvolta dal garbato e elegante pudore espressivo tipico nella voce della Zamboni, talvolta sovrastata dalle note dell’efficace, ottimo e forse troppo esuberante violoncellismo di Shugaev nelle fasi iniziali, poi ritrovato nel giusto equilibrio sonoro. Le descrizioni si susseguono immerse nella rispettosa atmosfera di sorpresa occidentale delle due donne verso pae-
saggi, sensazioni, luoghi e incontri che oggi potrebbero accompagnare certi sguardi catturati dall’obiettivo di Steve McCurry. Un viaggio tutto sommato pericoloso, oltre i limiti segnati dalle frontiere per lasciarsi alle spalle un’Europa estremamente agitata a un passo dal conflitto e con il desiderio, soprattutto della Maillart, di conquistare la dimensione spirituale di un’esistenza troppo concentrata sull’apparenza e sull’individualismo. L’incontro con quella narrazione è stata anche l’occasione per restituire attualità non solo all’intrepida esperienza, ma per riscoprire l’eccezionale personalità della ginevrina, una donna che nella vita ha attraversato i mondi dell’avventura, della scrittura, della fotografia e dello sport, fino a diventare testimone di un’intensa introspezione. La vita interiore, ha scritto, colora e condiziona la vita esteriore: è più vicina a noi e a una realtà più essenziale.
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Cultura e Spettacoli
L’arte tra memoria storica e coscienza sociale Mostre Alla [dip] contemporary art di Lugano le opere di Paolo Canevari
Alessia Brughera Utilizza un ossimoro per definire la propria poetica, Paolo Canevari, uno degli artisti italiani più celebri della generazione nata negli anni Sessanta: «Minimalismo Barocco», due termini discordanti accostati tra loro che ben incarnano l’anima del suo lavoro, il primo a descriverne l’aspetto essenziale, il secondo a caratterizzarne l’impeto espressivo. Non è questa però la sola contraddizione, almeno apparente, di cui vive l’arte di Canevari. Fin dagli esordi, infatti, da una parte la sua ricerca è fortemente radicata nella tradizione, complici una solida formazione accademica e l’appartenenza a una famiglia di artisti (bisnonno e nonno erano pittori, padre e zio scultori), dall’altra attinge a piene mani dai linguaggi maturati negli ultimi decenni, giungendo a uno sviluppo concettuale dell’opera d’arte capace di trasmettere la complessità dell’epoca contemporanea. Questi poli opposti sembrano trovare una sorta di identità geografica nei due luoghi più cari all’artista, la natìa Roma e New York. La prima, Città eterna dove ogni pietra racconta vicende secolari, rappresenta per Canevari la storia, la memoria e un glorioso passato da cui farsi continuamente ispirare (non a caso la Lupa è uno dei motivi ricorrenti nella sua produzione) ma anche una difficile eredità che talvolta diventa un vero e proprio fardello da sostenere. Un concetto importante, questo, per l’artista, ben esplicato nella sua performance milanese del 2002, quando, arrivato nella città meneghina per la sua prima mostra personale alla Galleria Stein, tiene per due ore sulle spalle una sua scultura raffigurante il Colosseo realizzata con uno pneumatico. New York, invece, è il nuovo che emancipa da ogni lascito, è una «non-città», come Canevari stesso la definisce, in cui regna un caos culturale illuminante, una realtà poliedrica da cui lasciarsi ispirare in tutta libertà. Con un approccio multidisciplinare che lo porta a sperimentare diverse tecniche, dal disegno alla scultura, dall’installazione al video, Canevari,
Paolo Canevari, Landscape, 2004-2005 Gomma, Edizione unica. (Courtesy l’Artista e [dip] contemporary art)
convinto del valore collettivo dell’arte, si avvale nel suo lavoro di un patrimonio di immagini appartenenti a culture differenti, per far riflettere lo spettatore sul loro vero senso legato alla politica e alla religione. E, difatti, uno degli obiettivi dichiarati dell’artista è quello di sovvertire i luoghi comuni del pensiero, i tabù e i dogmi dettati dal sistema, investendo l’iconografia tradizionale di significati inediti e innescando così nel fruitore delle sue opere nuove consapevolezze.
Sebbene cosciente di quanto sia complicato per un artista sottrarsi alle imposizioni delle strutture di potere nonché al proprio background culturale, Canevari ha fatto dei suoi lavori uno strumento di critica alle regole e alle convenzioni, ai falsi miti e alle mire individualistiche, punto di partenza per approdare spesso a tematiche ancor più ampie che trattano la relazione tra uomo e natura, la dialettica tra memoria e transitorietà, i grandi principi alla
base della creazione e il senso stesso dell’arte. Attraverso i video, in cui oggetti quali pistole, teschi o riproduzioni di monumenti antichi prendono emblematicamente fuoco, i raffinati disegni e soprattutto le sculture, in cui l’artista adotta come materiale prediletto la gomma degli pneumatici e come tinta prevalente il nero (colore capace più di ogni altro di astrarre forme e simboli nella sua densità assorbente), Canevari
esplora e rivisita la realtà intrecciando tra loro ricordo, storia e impegno sociale. La [dip] contemporary art di Lugano presenta in questi giorni una mostra a lui dedicata che raccoglie una selezione di lavori appartenenti alla sua più recente produzione accostandola a un nucleo risalente agli anni Novanta. Se dalle opere di quel periodo emerge come elemento dominante il dialogo con la tradizione classica, che Canevari instaura abilmente tramite la ripresa di icone del passato riattualizzate in una dimensione che le colloca oltre la loro usuale carica semantica, dagli ultimi esiti affiora con forza l’indagine dell’artista sulla condizione umana contemporanea. Nelle serie Monuments of the Memory – Landscapes e Stains, del 2020, Canevari utilizza carta da stampa antica e pagine bianche di vecchi libri su cui stende dell’olio motore esausto, dando vita a paesaggi neri che si fanno geografie dell’anima e a visioni cosmiche che richiamano le profondità dell’Io. Impiegato come un vero e proprio colore, l’olio industriale combusto, sostanza che incarna in maniera paradigmatica l’inquinamento, diviene per l’artista il mezzo con cui riflettere non soltanto sulla degenerazione dell’ecosistema provocata dalla volontà di controllo dell’uomo sulla natura ma anche, e forse ancor di più, sulla contaminazione visiva e del pensiero di cui ogni individuo è vittima in una società sempre più consumistica e globalizzata. Contro la lenta distruzione della nostra immaginazione, Canevari dà spazio alla creazione di un’iconografia priva di manipolazioni nonché alla riconquista di un’eredità ancestrale, affidando il contenuto di ogni opera d’arte unicamente al suo stesso potere evocativo. Dove e quando
Paolo Canevari. Landscapes. [dip] contemporary art, Lugano. Fino al 20 dicembre 2020. Visita su appuntamento: info@dipcontemporaryart. com, +41 (0)91 921 17 17. www. dipcontemporaryart.com
Ricamare un’immagine
Fotografia La ConsArc di Chiasso ospita i nuovi Paesaggi improbabili della fotografa ticinese Stefania Beretta
Giovanni Medolago Sono ormai parecchi anni che Stefania Beretta si dedica ai Paesaggi improbabili. Non deve tuttavia andarsene in giro per i quattro angoli del mondo portandosi appresso la sua apparecchiatura alla ricerca di stranezze, scherzi della natura o brutture dovute a qualche architetto di scarso talento: la sua sensibilità e il suo senso estetico non potrebbero permetterglielo. No, Stefania i suoi Paesaggi improbabili li scova e li crea nel suo atelier. Quando un’immagine da lei còlta e stampata le sembra adatta (cioè le suscita un’emozione, le trasmette un’intuizione), la fotografia viene ritoccata, non già col photoshop («Strumento diabolico che andrebbe abolito per legge!», secondo il Grande Vecchio Gianni Berengo Gardin), bensì in maniera molto più originale. L’immagine finisce talvolta nelle mani di Stefania armate di ago, ditale e filo; più sovente sotto una macchina per cucire, grazie alla quale l’artista
Stefania Beretta, Paesaggi improbabili #52, 2015.
giubiaschese l’arricchisce con una creatività che nel suo caso è sinonimo di poesia e fantasia. Un intervento che
può essere delicatamente discreto, come quel filo bianco che unisce alcuni tronchi di betulla; oppure quei
brevi segmenti rossi che colpiscono nell’immagine in bianco&nero e nello stesso tempo si adagiano su quanto rimasto dopo un’alluvione, su quelle acque tornate quiete dopo la tempesta. Fili e ricami che possono diventare autentiche sovrastrutture sovrastanti case e palazzi; o ghirigori che escono addirittura dall’inquadratura per prolungare forme immaginarie o un vero tronco d’albero. Oppure – ancora – si intersecano e si ammassano in gran quantità, dando così l’idea di una rete dimenticata in disordine da un pescatore frettoloso. Acqua e alberi sono gli elementi naturali che dominano nella mostra attualmente aperta alla Cons Arc di Chiasso, dove Stefania Beretta è tornata, stavolta titolando l’esposizione, che dopo Chiasso farà tappa anche a Monaco di Baviera e a Genova, Paesaggi improbabili – Religamen, termine polisemantico latino che potremmo tradurre (ci perdoneranno i puristi) con legàmi. La Beretta si serve di ago e filo per lasciare nell’immagine la traccia
di un proprio intimo sentire. Un’operazione vòlta sia «a cercare un’intesa sostanziale con la trama stessa dell’immagine fotografica – annota Maria Folini – sia a restituire a immagini riproducibili il loro valore di unicità, l’aura tanto cara a Walter Benjamin» (il famoso hic et nunc). Quello della Beretta è un filo d’Arianna che non ci porta all’uscita di alcun labirinto, ma al contrario dapprima ci sorprende, poi invita lo spettatore a fantasticare a sua volta. E a riflettere, come ha fatto Viviana Conti quando scrive: «I segni geometricopoligonali non solo tracciano i percorsi immaginari dell’autrice; non solo proiettano possibili rotte oniriche, ma costruiscono realtà alternative». Dove e quando
Paesaggi improbabili – Religamen. Fotografie di Stefania Beretta. Chiasso, Galleria Cons Arc. Orari: me-ve 10.00-12; 15.00-18.00. Fino al 24 dicembre 2020. galleriaconsarc.ch
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Cultura e Spettacoli
Dall’Engadina si vede il mare Letteratura Una raccolta in versi del poeta romancio Dumenic Andry
Pietro Montorfani Non saprei dire come stia di salute l’idioma romancio, quarta lingua nazionale della Confederazione, di pari dignità amministrativa ma – nei fatti – un gradino più in basso rispetto alle altre tre, per ragioni difficilmente contestabili. A partire dal 1990 ha visto dimezzarsi il numero dei suoi parlanti, oggi poco più di trentamila, eppure continua caparbiamente a esistere in piccole nicchie molto fiere, contrassegnate da una grande vivacità culturale. E poiché la produzione letteraria ha un suo peso anche in quest’ambito, sarei tentato di affermare che fintanto che ci saranno scrittori come Dumenic Andry (in passato avrei detto Andri Peer, o Selina Chönz) la sopravvivenza del romancio è garantita ancora per molto tempo. Letterato di formazione, studioso di cultura grigionese e apprezzato animatore radiofonico, Dumenic Andry è un poeta colto e accogliente al tempo stesso, distillatore di piccoli cristalli brevissimi giocati sulla verticalità, quasi alla maniera del primo Ungaretti (con in più solo un lieve tocco di ironia): «mezzo raggelato / mi vorrei / avvolgere nella / tua voce / ché i sogni / non riscaldano». Noto al pubblico italofono per aver rappresentato il suo Cantone nella Raccolta della poesia svizzera pubblicata nel 2013 dalle edizioni Alla chiara fonte, Andry si presenta oggi con un nutrito numero di testi radunati sotto il titolo
Lo scrittore Dumenic Andry, 2018. (Ladina Bischof, schweizerkulturpreise.ch)
Sabbia (Sablu), che gli valse il Premio svizzero di letteratura nel 2018. Ai valori simbolici e perciò poetici del termine «sabbia» è dedicata la postfazione di Clà Riatsch, professore emerito di letteratura retoromancia all’Università di Zurigo. Dalla sabbia
si giunge facilmente al mare e quindi al viaggio, ma anche alle orme e alle ombre accolte dalla sua superficie, immagine delicata di un linguaggio ancestrale e preverbale: «zampettii / agitati / s’incrociano / e s’intrecciano / sulla sabbia umidiccia / della riva //
peste / lasciano / gli uccelli / nel cielo». I granelli che scivolano nel collo di una clessidra, in una poesia che ne mima graficamente le forme come faceva Dylan Thomas, segnano il passo lento e inesorabile del tempo, reso icasticamente da tre tori che giacciono morti sull’arena. Quella di Andry è davvero una poesia essenziale, stratificata nei significati, la cui densità non deriva però da allusioni simboliche o da scelte lessicali ardite quanto da simmetrie e parallelismi, spesso binari, che sanno sfruttare al meglio i costrutti metaforici e la disposizione spaziale del testo: «le mie scarpe / per correre / nei boschi / hanno stringhe / tutte nodi / e intrichi e / suole di piombo // il mio desiderio / lui, va / scalzo». Dietro una simile poetica, solo apparentemente ludica e superficiale, stanno questioni fondanti: è la metafora che cerca di descrivere una realtà che sfugge, oppure è la realtà a essere metafora e perciò essa stessa linguaggio? Altrimenti detto: il poeta crea oppure ascolta (trova)? Da secoli, se non da millenni, questi interrogativi determinano la natura stessa del fatto letterario. Quel che più conta infatti, al di là dei meriti stilistici e della consapevolezza formale di Andry, è la sua capacità di guardare lontano, oltre il ristretto ambito antropologico entro il quale si muovono spesso le lingue di minoranza (in questo caso, il contesto alpino), per dialogare alla pari con la grande tradizione letteraria europea
e con orizzonti visuali inconsueti per uno scrittore svizzero. Il traduttore Walter Rosselli fa spesso un lavoro egregio, favorito dalla comune appartenenza delle due lingue al ceppo neolatino: «faver / fiergiast / teis agen / frain» si muta ad esempio (e non è soluzione banale) in «fabbro / forgi / il tuo / freno». A volte forza un po’ la mano e non fa un grande servizio al testo di partenza, come quando spezza le «ragna- / tele / di rame» e perde per strada la successiva anafora («tailas / d’arogn / d’arom»), ma la regola è sempre quella: non sparate sui traduttori, troppo importante è il loro lavoro a favore della musica della letteratura nel caotico saloon in cui ci muoviamo tutti i giorni. Promosso dalla benemerita Collana CH, dietro la quale si cela la Fondazione per la collaborazione confederale finanziata da tutti i Cantoni, il libro di Andry è il 13esimo della serie «Alea» dell’editore Dadò, lenta e timida nel suo procedere ma prestigiosa nei nomi (Bigongiari, Bonalumi, Isella, Bianconi, fino alla recente sorpresa di Piergiorgio Morgantini) e che in futuro si vorrebbe forse più coraggiosa e aperta ai giovani, anche per arricchire un panorama poetico a volte, nella Svizzera italiana, editorialmente un po’ monocromatico. Bibliografia
Dumenic Andry, Sabbia, traduzione di Walter Rosselli, Armando Dadò, 2020. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta La bambina e sua madre Di tutte le possibili combinazioni di coppie a passeggio per le vie di Torino, la più frequente nel tardo pomeriggio è quella composta da madre e figlia che vanno in giro per vetrine e negozi. Più sono avanti negli anni e più si assomigliano, anche se la figlia è una spanna più alta della madre. La figlia parla, la madre tace ma si capisce benissimo che non ascolta. La madre indossa un soprabito color topo morto e in testa ha una ciotola rovesciata dello stesso colore. È appesa al braccio della figlia che fa il passo e indossa gonne scozzesi, maglie sformate sovrapposte una sull’altra, stivali. E parla. Racconta storie del suo ambiente di lavoro, invidie, dispetti, la collega che ha avuto una promozione perché è l’amante del capo ufficio. Sua moglie lo sa ma preferisce far finta di niente per amore dei figli. Quest’ultima notizia è una stilettata perché in casa è successa la stessa cosa, il suo caro papà non aveva solo l’amante ma erano proprio due famiglie. A Natale e a Ca-
podanno cenava due volte, prima dalla socia e poi a casa sua. Si capiva che aveva già mangiato nell’altra famiglia perché si limitava a spilluzzicare dai piatti uno più succulento dell’altro che la moglie ordinava nella gastronomia di lusso. E poi andavano avanti per settimane a mangiare gli avanzi perché «a casa nostra non si butta mai via niente». La madre è il ritratto della santa sopportazione, la figlia sul viso ha le pieghe della tensione e dello scontento. Anche in casa la madre parla poco, si limita a dire alla figlia, quando lei annuncia la sua intenzione di uscire dopo cena: «Vai pure, divertiti e torna quando ti pare. Tanto io non mi addormento finché non sei tornata». Alle sue amiche la madre confida che è contenta quando la figlia va a trascorrere il week-end in montagna con qualche amica: «Lavora tutta la settimana, è ancora giovane, è giusto che si goda la vita, anche se io alla sua età avevo già un marito e una figlia da accudire». Non è colpa di nessuno se poi
il sabato pomeriggio la madre incomincia a stare male, ha 39 di febbre e la figlia deve tornare di corsa, rimettendoci i soldi dell’albergo e dello ski pass. Ammalarsi quando una persona cara si allontana è una prova d’affetto. Così come è una prova d’affetto informarsi dalla figlia come mai ha tardato tanto a tornare a casa dopo la chiusura dell’ufficio, chi ha visto, con chi è stata. In certe cose la figlia è rimasta una bambina e meno male che c’è la mamma pronta a darle consigli «per il suo bene». Vanno in giro per saldi e la figlia si entusiasma per ogni tipo di vestiario che prova rimirandosi allo specchio: «Non trovi anche tu che mi stia bene?» La madre l’incoraggia: «È vero, sembra tagliato su misura per te. E poi è anche conveniente. Peccato solo che ti invecchia». Ora si può perdonare tutto a un capo di vestiario, ma non che invecchi chi lo indossa. La figlia è irrequieta, si sente in gabbia, vorrebbe uscirne ma non sa come fare, in compenso compie delle mattane. Un
bel giorno torna a casa con una sorpresa terrificante: ha cambiato pettinatura e colore dei capelli. Quella chioma fluente biondo cenere che scendeva fino alla vita ed era l’invidia delle amiche di mamma è sparita e al posto suo c’è uno stentato mazzo di ravanelli, una sorta di Moccio Vileda con riflessi bluastri. La mamma non parla ma la faccia è un riassunto delle puntate precedenti di una serie Netflix di telefilm a episodi sull’ingratitudine dei figli. Un altro giorno la figlia si fa plagiare da una collega e inizia una cura dimagrante, spietata e punitiva ma che fa miracoli. La mamma non può assistere impotente a quell’autodistruzione. Preparerà la sua famosa panna cotta, ne farà al caffè, al Grand Marnier, al cacao, alla fragola, ai mirtilli, tante invitanti piccole ciotole da 10mila calorie l’una sparse su tutti i ripiani del frigo. Voglio vedere se la figlia, quando sarà rientrata a mezzanotte dopo aver visto con le amiche il film coreano in lingua originale e aprirà il frigo per bere quello
schifoso intruglio dimagrante, saprà resistere alla tentazione! Se almeno fosse capace di trovarsi un fidanzato! O se, quando lo trova, sapesse tenerselo! Povera figlia, per lei, quando si innamora, vanno bene tutti. Fortuna che c’è la mamma che, quando la figlia invita per la prima volta a cena l’aspirante fidanzato, scopre i suoi difetti e glieli fa notare. Se ti piace prendilo, anche se ha l’alito cattivo, i denti storti, i piedi piatti, la risata sgangherata, i peli nelle orecchie, la forfora, sbaglia i congiuntivi, indossa i calzini, ha i polsini della camicia lisi e il cerume nelle orecchie, ma che almeno tu conosca pregi e difetti dell’articolo che ti metti in casa, prima che sia troppo tardi per fare il cambio merce. Non è colpa della madre se, dopo queste disinteressate osservazioni, l’aspirante fidanzato scompare dai radar. Non c’è niente da fare: «Mia figlia può aver superato i quarant’anni, dirigere un ufficio o una scuola, ma in certe cose è rimasta proprio una bambina ingenua».
sciata, nonostante tutto. Sapeva essere divertente, se voleva. E quando avessero smesso di essere senza soldi, quando lui avesse potuto dimostrare che non era un perdente, lo sarebbe stata sempre più spesso, divertente. Avrebbero cambiato casa, avrebbero avuto una vera camera da letto. La baciò con calcolato trasporto e spense la luce. «Quanto ti sei fatto dare dalla banca della tipa?» «Cinquantamila euro», mentì Tom. In realtà ne aveva presi ottantamila, ma non voleva che Betta lo sapesse. «E come li restituiremo?» «Non pensarci adesso. Girerò il documentario. Lo venderò alla Rai. Faremo un piano di rientro. Cerca di essere felice, una volta ogni tanto! Non puoi essere sempre negativa, non posso essere costretto a trovare sempre entusiasmo per due! Anche io ho bisogno di crederci per rimettermi in gioco, lo capisci? Ho bisogno di sentire che ho una compagna al mio fianco, non una zitella livorosa che mi fa i conti in tasca»
Betta rimase senza fiato, l’immagine che Tom le aveva dipinto addosso era troppo orribile per essere sopportata un solo secondo. Prese in considerazione tutte le reazioni possibili: alzarsi e andarsene anche se era quasi notte. Piangere. Picchiarlo. Sentirsi male. Fare l’amore. Fingere di dormire. Optò per quest’ultima ipotesi, anche se era inverosimile, non rispose quando Tom le disse. «Beh, allora, buona notte» e rimase a lungo sveglia, meditando vendette. La mattina avrebbe dormito volentieri, ma la casa non lo consentiva. Non a una persona normale: Tom russava come un ghiro soddisfatto, anche se la cucina era a mezzo passo dal divano letto Sara non trovava i biscotti, voleva dei soldi, aveva finito il quaderno di matematica. Uscì con lei, la accompagnò a scuola, facendole ripetere storia e sentendosi virtuosa per questa iniziativa. Si era truccata con cura, anche se aveva gli occhi gonfi di sonno, aveva
indossato un paio di jeans aderentissimi, sneakers bianche e giubbotto di pelle. Immaginò che una telecamera la inquadrasse mentre discuteva delle Crociate con un ragazzina bella quanto lei, forse perfino di più (aveva preso dal padre una adorabile fossetta sul mento). La lasciò a scuola soffiandole un bacio dalla punta dalle dita. Vide con piacere lo sguardo del professore di educazione fisica posarsi sulle sue natiche. Disse a se stessa che per puro caso il Virgilio, medie inferiori e liceo classico, era proprio in via Giulia, si convinse che non aveva accompagnato Sara a scuola per questo. Si incamminò con il passo elastico di una giovane madre sportiva e si fermò davanti al civico in cui abitava il vecchio che le aveva regalato 500 euro. Pensò che si sarebbe mostrata offesa e tuttavia riconoscente. Ciò che in effetti era, certe volte la sincerità è la scelta più sexy. Non dovette aspettare più di 5 minuti. Il vecchio l’aveva vista dalla finestra. (Continua)
Dalla sua cella il monaco non può né vedere né sentire il suo vicino, l’architettura monastica è fatta per proteggere il silenzio, la meditazione, la taciturnitas. Il silenzio è una grande cerimonia, una liturgia. Dio giunge nell’anima che fa regnare il silenzio dentro di sé, ma rende muto chi si perde in chiacchiere. La cultura laica pare poco interessata al silenzio. Per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali (maggio 2012) il pontefice Benedetto XVI aveva invece inviato un messaggio dedicato proprio al silenzio: «Il silenzio è parte integrante della comunicazione e senza di esso non esistono parole dense di contenuto. Nel silenzio ascoltiamo e conosciamo meglio noi stessi, nasce e si approfondisce il pensiero». Il Papa non ha proposto il silenzio come alternativa all’impegno nella comunicazione, non ha chiesto di spegnere la «musica passiva» (che ci assilla ovunque), non ha improvvisato una di quelle lezioni per dummies o per manager in cui ci viene spiegato, da una
pubblicistica improvvisata, che «in una società in cui tutti parlano, tutti tentano di esprimersi sovrapponendo la propria voce a quella degli altri e in cui gli stimoli dei soggetti emittenti si moltiplicano spesso senza raggiungere i destinatari del messaggio il rischio dell’incomunicabilità cresce a dismisura». No, ha voluto ricordare che il silenzio parla, anche nelle moderne forme di comunicazione. Il silenzio è una scelta e a volte può essere l’espressione più eloquente della nostra attenzione verso un’altra persona. Per i filosofi, il silenzio è lo strumento fondamentale dell’uomo per contrastare la banalità della chiacchiera e dell’esistenza inautentica: è un dispositivo che permette di cogliere la vera essenza dell’Essere. Heidegger ha sottolineato come il tacere non sia esclusivamente un’assenza di parole, ma quasi un obbligo per garantire un’adeguata comprensione tra gli esseri umani. Egli ha attribuito al non-detto un valore più alto rispetto ai «fiumi di parole» della
nostra epoca: «Un fiume di parole su un argomento non fa che oscurare l’oggetto da comprendere, dando ad esso la chiarezza apparente dell’artificiosità e della banalizzazione» (Essere e tempo, 1927). Il silenzio, dunque, è la possibilità di avere qualcosa da esprimere, ma scegliere di non farlo, per attribuire un giusto ed autentico valore alle parole a volte logore e superficiali, inflazionate da un loro utilizzo inautentico. Anche il silenzio ha una sua biografia, quella scritta da Pablo d’Ors per avventurarsi negli spazi della quiete silenziosa: Biografia del silenzio (ed. Vita e Pensiero). Il silenzio è una rinuncia che si trasforma in conquista e che permette, tra l’altro, di disfarsi di molti ingombranti luoghi comuni. Non solo d’Ors invita a diffidare della retorica dei sogni, ma è anche molto critico verso l’ideologia dell’altruismo a oltranza. Solo attraverso l’attenzione raccomandata già da Simone Weil, infatti, e cioè solo attraverso la pura percezione del reale, è davvero possibile ascoltare gli altri.
Quaderno a quadretti di Lidia Ravera Le nuove povertà/13 La sera fecero festa, soprattutto per la bambina (la chiamavano sempre così, quando volevano sentirsi una famiglia). Cenarono con il servizio elegante, quello che non usavano mai perché non avevano né lo spazio né i soldi per invitare gli amici. Sara fece un sacco di domande sullo stadio di avanzamento della preparazione del documentario di Tom. Tom rispose inventando contatti colloqui scalette perlustrazioni e ricerche sul campo. Prima di coricarsi, a bassa voce, perché 28 metriquadri non consentono segreti, disse a Betta: «I bambini non esistono più». «Ha 13 anni, la bambina» «Mi ha fatto un interrogatorio, l’hai sentita?». Betta schivò una carezza. «Vorrei sapere se qualcosa di quello che le hai raccontato a tavola contiene qualche traccia di verità». Tom si sentì ferito. Betta gli aveva cucito addosso la maschera triste del «looser», non sarebbe riuscito a strapparsela dalla faccia se non lasciando Betta. Gli parve, improvvisamente, un’evidenza indiscutibile. Spense la luce, si girò sul fianco.
Betta si voltò sul fianco opposto, le due schiene si sfioravano. Il divano letto, che diventava il loro talamo coniugale, misurava una piazza e mezza. Difficile evitare il contatto. «E com’è questa vecchia potente? Materna, almeno, spero». «È una donna interessante», gustò l’aggettivo prescelto per descrivere Noemi. «Exbella?» «Togli pure l’ex» «A 63 anni?» «Bionda naturale, pelle chiara, gambe lunghe» Forzando sul tono incredulo, Betta accese la luce, come se l’anziana rivale fosse entrata nella stanza e potesse sottoporsi a giudizio sulla sua presunta avvenenza. «Lifting, liposuzione, colpi di sole. Voi uomini non ve ne accorgete mai, finché non vi scoppia in faccia una tetta al silicone credete che siano tutte belle naturali, le femmine dei perennials, pure a 90 anni» Tom rise, e pensò che non l’avrebbe la-
A video spento di Aldo Grasso Il silenzio d’oro In Giappone, fra le ventotto regole da applicare per sconfiggere il coronavirus, ce n’è una che riguarda il silenzio, specie sui mezzi pubblici. Questa buona abitudine avrebbe contribuito a tenere basso il numero di contagi nel paese. Quando assistiamo a certi talk show ci viene da invocare il ripristino dei «silentiares». Nelle corti imperiali bizantine del IV sec. erano guardie che tutelavano il silenzio nella sala colloqui: la parola era sottoposta a rigido controllo, guai a sgarrare! Già, il silenzio riusciamo a definirlo solo attraverso il suo opposto. Ne Il silenzio del corpo, Guido Ceronetti scrive che «chi tollera i rumori è già un cadavere». Tempo fa, nel Sussex un parroco ha registrato il silenzio della chiesa e ne ha prodotto «la sua pace» su cd. Trenta minuti di silenzio, registrato all’interno di una chiesa anglicana della campagna inglese, da riascoltare a casa per rivivere l’atmosfera sacra e accogliente di un edificio di 900 anni fa. Il cd si intitola The sound of silence come la
vecchia canzone di Simon & Garfunkel (prima ci si doveva accontentare de La voce del silenzio di Mina: «Ci sono cose in un silenzio che non m’aspettavo mai, vorrei una voce ed improvvisamente ti accorgi che il silenzio ha il volto delle cose che hai perduto…»). Nel libro Per una storia del silenzio (edito da Mursia) Sergio Cingolani avverte che «più della metà della popolazione mondiale vive in ambienti con un livello medio di rumorosità superiore a 60 decibel, quindi assai lontana dalla possibilità di poter godere degli effetti del silenzio». Non conosciamo più cosa sia il silenzio, nemmeno nella quiete della campagna o della montagna. Il capitolo più interessante del libro mi è parso quello dedicato al silenzio nelle regole monastiche. In quelle di Benedetto (480-547) sta scritto: «Facciamo quello che dice il Profeta: Ho detto: custodirò le mie vie per non peccare con la mia lingua; ho posto una custodia alla mia bocca, ho tenuto il silenzio, mi sono umiliato e ho taciuto…».
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