Azione 07 del 14 febbraio 2022

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Anno LXXXV 14 febbraio 2022

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A.  Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

Pagine 6 – 7 ●

SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Andreas Cerny, direttore dell’Epatocentro Ticino, spiega la silente steatoepatite

Una riflessione metodica è utile al fotografo per ritrovare la capacità di elaborare progetti focalizzati

Il significato degli sforzi diplomatici in atto per scongiurare la guerra in Ucraina

Al Castello di Novara si omaggiano i 1600 anni della magica città di Venezia

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Franco Banfi

Bolle d’importanza internazionale

Elia Stampanoni

La resa dei conti si avvicina Peter Schiesser

La morsa attorno all’Ucraina è completa. La Russia ha ultimato il più grande dispiegamento di forze militari dal Dopoguerra. Si parla attualmente di  mila soldati, in totale gli Stati Uniti stimano che saranno dispiegati quasi  battaglioni, cioè il  per cento delle truppe da combattimento russe. Dalle loro basi le truppe si stanno avvicinando alla frontiera, con centinaia di carri armati, caccia militari, missili terra aria. Tutto il confine settentrionale (anche con la Bielorussia) e orientale ucraino è minacciato, con l’arrivo nel Mar Nero di sei navi da guerra della flotta russa del nord e del Baltico, che si congiungono con la flotta russa del Mar Nero, la minaccia si estende alle regioni costiere, da Mariupol fino ad Odessa. Il  febbraio russi e bielorussi hanno cominciato manovre militari previste fino al  febbraio, l’Ucraina ha risposto con manovre militari della stessa durata. Ancora nessuno sa che cosa e se il presidente russo Putin abbia deciso di invadere l’Ucraina, si pensa che rispetterà la tregua dei giochi olimpici del suo alleato cinese Xi Jinping. Dopodiché la ten-

sione internazionale sarà alle stelle. Basterà una scintilla per scatenare una guerra. E se invasione ci sarà, sarà un conflitto che farà impallidire la guerra nei Balcani dei primi anni Novanta che tanto scosse l’Europa. Putin non potrà tenere a lungo metà del suo esercito in assetto di guerra in attesa degli eventi, quindi o scatenerà la forza militare, o indietreggerà. La propaganda, in situazioni simili, rende facile addossare all’avversario la responsabilità di aver sparato il primo colpo. Mosca afferma tuttora che si tratta di normali manovre militari e affibbia all’Occidente l’intenzione di scatenare una guerra. Questo gli permette di mantenere l’opzione di un’invasione come di fare retromarcia annunciando «manovre concluse». Ma chiedendo agli Stati Uniti di ritirare le truppe della Nato dai paesi che facevano parte del Patto di Varsavia (Polonia, Paesi Baltici, Romania e altri) Putin ha alzato la posta ad un livello così alto che non può fare marcia indietro facilmente. Non sappiamo come, ma si dimostra fermamente intenzionato a imporre un nuovo «ordine di sicurezza» in

Europa, ossia a vedere riconosciuta alla Russia la targa di potenza mondiale, con la propria sfera di influenza, con degli Stati cuscinetto ai suoi confini. Nel contesto della crescente concorrenza fra Stati Uniti e Cina, per lui è il momento giusto di realizzare il sogno di recuperare una statura imperiale. L’Occidente è sulla difensiva e cerca perlomeno di non mostrare crepe nella risposta alla Russia (la dipendenza dal gas russo rende alcuni Stati europei più tiepidi). Di imperiale, l’economia russa ha ben poco: un apparato industriale antiquato, una popolazione in calo, una vita economica stretta nella morsa delle oligarchie. Non può competere con la Cina e gli Stati Uniti. Ma in questi anni Putin ha trasformato l’esercito russo: non è più quell’ammasso scoordinato di truppe e armi che nel , durante l’invasione della Georgia, è costato più vite per fuoco amico che per fuoco nemico (le truppe di terra non erano in collegamento con l’aviazione, che bombardava quindi anche i propri soldati). Ha creato un esercito professionista, ben pagato e attrezzato, lo ha ammoder-

nato (oltre le previsioni degli Stati Uniti) e nelle varie guerre in cui in questi anni lo ha impegnato (Ucraina e soprattutto Siria) i comandanti e i soldati hanno guadagnato un’esperienza bellica decisiva. Putin ha capito che non basta avere un arsenale nucleare deterrente per imporre una geopolitica aggressiva, serve, come un tempo, un ottimo esercito. Ma anche senza invasione, il problema di fondo persiste: il rapporto fra russi e ucraini resta squilibrato. La Russia non riconosce veramente la sovranità dell’Ucraina. Cerca di mitizzare la storia comune, di popoli fratelli, ma si è sempre comportata da «fratello maggiore». In cambio dell’assegnazione di tutte le armi nucleari alla Russia dopo il crollo dell’Unione Sovietica, un memorandum firmato da entrambi i paesi doveva garantire all’Ucraina il riconoscimento della sovranità e dell’integrità territoriale. Invece, nel  i russi hanno occupato la Crimea e fomentato la secessione di alcune province orientali, con il risultato di spingere gli ucraini ancor di più nelle braccia dell’Occidente.


4 Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 14 febbraio 2022

SOCIETÀ

azione – Cooperativa Migros Ticino

Le acrobazie del «Nuss» Ritratto di Marco Nussbaum, grafico, artista, maestro e costruttore di sci, arciere e guida turistica

Intervista a Gabriele Botti Il responsabile dell’Ufficio Quartieri della Città di Lugano parla dei progetti realizzati e delle aspettative per il futuro

Protette dalla Convenzione di Ramsar Le Bolle di Magadino oltre a essere parte della rete Smeraldo sono state inserite nell’elenco delle zone umide

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Subdolo fegato grasso Medicina

Prevenzione e depistaggio sono le migliori armi per contrastare la steatoepatite

«Nella nostra popolazione adulta il  per cento delle persone ha un fegato grasso, una malattia che progredisce nel tempo e può condurre a una cirrosi o a un tumore epatico». Così il professor Andreas Cerny, epatologo e direttore dell’Epatocentro Ticino (nella fotografia), si esprime su una patologia «che colpisce in modo silente un certo numero di persone, fra le quali alcune rischiano di ammalarsi gravemente, soprattutto se ad aggravare la situazione c’è un eccessivo consumo di alcol e la presenza di obesità o diabete». Il fegato grasso, o steatosi epatica, è caratterizzato da un eccessivo accumulo di grasso nell’organo: «In alcune persone con steatosi il fegato comincia a infiammarsi (si parla di steatoepatite) e in seguito inizia anche a cicatrizzare (ndr: fibrosi del fegato) perdendo sempre più cellule in grado di svolgere le sue diverse funzioni». La conseguenza di questa situazione: «Si riconosce nello sviluppo della cirrosi epatica e dei suoi effetti; in particolare si potranno sviluppare tumori o si prospetterà la necessità di un trapianto». L’alto tasso di frequenza è aggravato dal fatto che questa patologia non dà disturbi particolari, «se non nello stadio avanzato, quando ci possono essere sintomi non specifici, che si possono però pure riscontrare anche in altre circostanze, come stanchezza, prurito o aumento della circonferenza addominale». Cerny spiega che di regola gli accertamenti sono indotti dalle analisi di routine (effettuate dal medico di famiglia) che mostrano test epatici elevati, e sottolinea: «La steatoepatite è più frequente nelle persone che consumano alcol regolarmente, con sovrappeso o obesità, diabete, colesterolo elevato o con ipertensione arteriosa». Questo a qualsiasi età, per cui il professore invita le persone a sottoporsi a una visita di controllo generale dal proprio medico di famiglia già a partire dai trent’anni. A fronte di esami del sangue che mostrano alterazioni dei valori epatici, il paziente sarà visitato dall’epatologo per una presa a carico specialistica adeguata nel tempo e interdisciplinare. È una malattia subdola, dagli sviluppi pesanti, in cui il peggioramento della funzione epatica è riconducibile a diversi fattori: «Ad esempio, abitudini alimentari particolarmente dannose sono un eccessivo consumo di grassi saturi e grassi di origine animale e vegetale industriale, nonché l’eccessiva assunzione di carboidrati, soprattutto di prodotti con un alto contenuto di zuccheri semplici (in particolare il fruttosio). Pure l’abitudine di bere grandi quantità di bevande zuccherate è nociva».

Stefano Spinelli

Maria Grazia Buletti

Oltre ai fattori di stile di vita modificabili, ci possono essere cause genetiche, dunque non modificabili: «Attraverso analisi genetiche si sono messe a confronto persone con e senza fegato grasso. Ciò ha portato all’identificazione di fattori genetici che possono favorire l’eccessivo accumulo di grasso anche nelle persone che conducono uno stile di vita sano». Lo specialista spiega come le persone affette da queste varianti genetiche hanno una mutazione di un enzima, la adiponutrina, che diventa difettoso: «Nel fegato normale que-

sto enzima è responsabile dello scioglimento delle goccioline di grasso che si formano dopo un pasto ricco di grassi. I portatori di questo difetto fanno perciò fatica a sciogliere il grasso depositato e sono a maggior rischio di sviluppare la steatosi epatica, la steatoepatite non alcolica, la cirrosi epatica e il diabete. Questo si accentua se si consumano eccessive quantità di alcol». A ogni modo, la prevenzione di questa patologia, che progredisce nel tempo con un decorso così pesante, passa per il depistaggio (test DNA)

e un’igiene di vita sana: «Dobbiamo ricordare che la stessa steatoepatite rappresenta a sua volta un fattore di rischio cardiovascolare indipendente dagli altri come fumo, diabete e ipertensione: fattore determinante per la presa a carico del paziente nel depistaggio di malattie come diabete, trattamento dell’ipertensione arteriosa e del colesterolo, in quanto questi pazienti vedono aumentare parecchio il rischio di progressione del fegato grasso nelle patologie indicate, fino alla necessità di un trapianto epatico».

Oltre agli esami del sangue, se dimostrano valori epatici elevati, la diagnosi si avvarrà di un’ecografia del fegato, che se fosse grasso sarebbe «evidenziato da una brillantezza maggiore perché assorbe maggiormente gli ultrasuoni. Il metodo CAP (Control attenuation parameter) permette una misurazione precisa del tenore di grasso epatico a basso costo e velocemente, e serve per seguire l’evoluzione nel tempo». Alla diagnosi seguono accertamenti votati a capire se la steatoepatite è associata ad altre malattie del fegato: «Lo specialista deve escludere ad esempio la celiachia, la sindrome di apnea del sonno, l’epatite C, il morbo di Wilson». Individuate le cause, bisogna intervenire sui fattori modificabili: «Migliorando l’alimentazione se obesi, limitando o non consumando alcol, praticando sano movimento, e via dicendo». Per le forme genetiche e nei casi in cui i fattori non sono modificabili: «Entra in linea di conto la somministrazione della vitamina E (farmacologica) che in alcuni pazienti produce un effetto anti-infiammatorio e blocca, o almeno rallenta, il decorso naturale della steatoepatite non acolica». A fronte di questa patologia, la buona notizia è data dall’assidua ricerca nel campo della steatoepatite e dei disturbi correlati: «Sono in via di sviluppo test non invasivi per la diagnosi della steatoepatite, e questo potrà semplificare il depistaggio». Cerny ricorda l’unità di ricerca della Fondazione Epatocentro Ticino che si sta dedicando a quattro, sei studi su diversi tipi di nuove sostanze che agiscono nella riduzione dell’accumulo di grasso, sulla fibrosi e sull’infiammazione: «Per poter sviluppare trattamenti più efficaci di quelli di cui oggi disponiamo è fondamentale capire meglio il meccanismo che conduce al danno epatico». Sono perciò in via di sviluppo diversi farmaci: «Ad esempio, stiamo studiando delle molecole che correggono i processi infiammatori all’interno del fegato o farmaci che rallentano la fibrosi. In certi casi la malattia è associata all’obesità, e per questi stiamo valutano un gruppo di farmaci molto interessanti (i GLP  agonisti) sviluppati oltre quindici anni fa per il diabete: fanno pure perdere peso agendo sul senso di sazietà, hanno un effetto positivo sul colesterolo, sulla pressione arteriosa e sulla steatoepatite non alcolica». Si parla di medicamenti relativamente cari che ancora non sono compresi nella LaMal per la cura del fegato «in quanto questa indicazione deve ancora essere riconosciuta». La speranza è che presto potranno essere ad appannaggio di tutti questi pazienti.


Settimanale di informazione e cultura

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azione – Cooperativa Migros Ticino 5

Il furgo-salotto che accoglie i giovani

Operatori di prossimità ◆ La Fondazione il Gabbiano è attiva nel Mendrisiotto e nel Locarnese con progetti pensati per avvicinare e coinvolgere i giovani favorendo i legami sociali e lo sviluppo personale Stefania Hubmann

Costruire una relazione di fiducia e rispetto scevra da ogni forma di giudizio così da creare un ponte fra la società e chi quest’ultima spesso la contesta. Con questo obiettivo l’operatrice o l’operatore di prossimità gira per le strade, frequenta i luoghi in cui si riuniscono i giovani – la fascia d’età cui sono al momento destinati diversi progetti di questo genere nel nostro cantone – senza imporre la propria presenza ma rendendosi disponibile negli orari del tempo libero, sera e week-end in primis. Svolge quindi un lavoro sul terreno per favorire l’interazione e la partecipazione, come pure a fini preventivi per evitare che il malessere prevalga sulle opportunità di reinserimento o sfoci in forme di aggressività. A tenere banco nella cronaca, anche locale, è sovente, purtroppo, quest’ultima. Per capire piuttosto come sono cambiate le problematiche giovanili e di conseguenza le strategie per affrontarle, ci siamo rivolti a Edo Carrasco, direttore della Fondazione il Gabbiano, che ha elaborato due progetti di prossimità per il Mendrisiotto e il Locarnese. A testimoniare le difficoltà, ma anche l’entusiasmo raccolti nello spazio pubblico è invece Loredana Guscetti, responsabile del team di tre operatori di prossimità attivo da un paio di mesi nel Locarnese.

L’emergenza sanitaria ha acuito le incertezze dei giovani, alcuni soffrono di ansia, esclusione e isolamento Lavorare senza orari né luoghi fissi è la realtà quotidiana degli operatori di prossimità, i quali assicurano una presenza regolare nello spazio pubblico e meglio nei luoghi di vita del gruppo di persone target. Per essere facilmente identificabili e raggiungibili (spesso grazie al passaparola) c’è però un mezzo dinamico, accogliente e mobile come loro: il «furgo-salotto». Nel Mendrisiotto è una realtà da qualche anno, mentre nel Locarnese al momento è rappresentato da un furgone provvisorio, in attesa che a marzo arrivi un mezzo nuovo e attrezzato. I giovani interessati potranno contribuire a decorarlo e animarlo. Un tè caldo in inverno, una poltrona e una bibita fresca in estate offrono un luogo d’incontro informale, ideale per invogliare i giovani in difficoltà a fermarsi. «L’esperienza dimostra che il “furgo-salotto” è una buona soluzione per restare mobili e nel contempo riconoscibili», spiega Edo Carrasco. «Oggigiorno i giovani si muovono in mo-

do diverso rispetto ad alcuni decenni fa, così come sono cambiati i modi di vivere lo spazio pubblico e le forme di divertimento. I centri giovanili, ad esempio, sono una buona soluzione fino a una certa età, mentre poi è necessario esplorare altre vie per riuscire a stimolare i giovani adulti». La riduzione dei tempi di spostamento con i mezzi pubblici (vedi il treno), rende le città ticinesi facili punti di aggregazione per ragazze e ragazzi provenienti dalle diverse zone del cantone. Precisa al riguardo il direttore della Fondazione il Gabbiano: «Un recente studio nazionale sulle culture giovanili e il movimento nello spazio pubblico conferma questa realtà. Nelle principali città svizzere come nei centri più piccoli si riscontra nei giovani – dal secondo ciclo della scuola media fino ai trentenni – un movimento fisico e digitale molto cambiato di cui bisogna tener conto negli interventi volti ad agganciarli e a coinvolgerli. Da parte loro la richiesta di spazi per esprimersi, all’aperto come al chiuso, è in aumento un po’ ovunque». Il lavoro sociale di prossimità – definito anche «extra-muros» – risponde a questa esigenza secondo principi ben definiti, riuniti in una Carta redatta agli inizi degli anni duemila nella Svizzera romanda e nel frattempo estesa a tutto il Paese. In primo luogo vi si ribadisce l’aspetto etico dell’attività, incentrata su situazioni reali sulle quali non si porta nessun giudizio morale. L’adesione delle singole persone resta libera di fronte a un interlocutore sul cui ruolo sono chiaramente informate. L’operatore di prossimità non è infatti un rappresentante delle istituzioni, ma una figura-ponte che «s’impegna a trasmettere alle autorità competenti le problematiche, le rivendicazioni e i bisogni emergenti delle popolazioni coinvolte», come si legge nel documento. «L’obiettivo del nostro lavoro – spiega Loredana Guscetti – è promuovere il legame sociale fra i giovani, favorendo il loro sviluppo personale. Possiamo fornire sia un accompagnamento individuale, facilitando l’accesso ai servizi adeguati o intervenendo per un’emergenza, sia un punto di riferimento per coinvolgerli in iniziative di gruppo. Il desiderio di esprimersi in spazi pubblici attraverso lo sport, l’arte, la musica, possono sfociare in progetti costruiti e gestiti con i diretti interessati grazie anche alla collaborazione di gruppi di pari. In questo modo si favorisce il contatto con altri giovani come pure il senso di partecipazione e responsabilità. A volte basta una diversa disposizione delle panchine in un

Il «salotto» allestito dagli operatori di prossimità per accogliere i giovani è una buona soluzione per restare mobili e riconoscibili. In basso, il furgo-salotto diventato fumetto per mano dei giovani del Mendrisiotto.

parco per creare uno spazio di ritrovo accogliente destinato a piccoli gruppi». Formatasi come operatrice sociale, Loredana Guscetti lavora per la Fondazione il Gabbiano da tre anni e conosce bene la realtà del Locarnese, poiché in precedenza era stata professionalmente attiva nel settore gastronomico locale. Per il Gabbiano ha inoltre già lavorato al progetto Midada che nel Locarnese sostiene giovani adulti (- anni) con fragilità temporanee nell’ottica di un reinserimento socio-professionale. Conoscere il territorio e disporre di una rete di contatti è indispensabile per lavorare sul campo. Quali segnali coglie l’operatrice di prossimità in questo periodo nello spazio pubblico locarnese? «Grazie al progetto Midada sono in parte già conosciuta, per cui il contatto è abbastanza facile. Ho incontrato gruppetti di ragazzi desi-

derosi di intraprendere qualche cosa insieme. Sono rimasta colpita anche da due ragazze di  anni confrontate con il problema dei costi delle attività ricreative per cui cercano di sfruttare gli sconti, ad esempio per il cinema. A loro mancano anche proposte di svago, sicuramente da ricondurre almeno in parte alla pandemia. Due anni a quell’età sono tanti e nell’ultimo biennio gli stimoli per uscire di casa e ritrovarsi con gli amici sono stati quasi azzerati». L’emergenza sanitaria ha purtroppo acuito le incertezze dei giovani confrontati con un percorso di vita complicato. Ansia, esclusione e isolamento sono alcune delle conseguenze, spesso accompagnate da sfiducia negli adulti e nelle istituzioni. Se il fenomeno in Ticino è emerso solo da qualche anno, città romande come Ginevra e Losanna lo han-

no affrontato già all’inizio degli anni Duemila. Proprio Edo Carrasco, allora attivo in questa funzione a Losanna, ha elaborato il progetto adottato dalla Città sul Lemano nel . «Si tratta di programmi a lungo termine», spiega il direttore della Fondazione il Gabbiano. «Instaurare una relazione di fiducia, promuovere attività partecipative, realizzare piccoli progetti richiede infatti tempo. In Ticino il progetto del Mendrisiotto, al quale hanno aderito tutti gli  Comuni del distretto, è iniziato quattro anni fa. Nel Locarnese, dove speriamo che partecipino i  Comuni del comprensorio, abbiamo anticipato l’intervento previsto in considerazione della situazione di emergenza. Da rilevare che con un costo di quattro franchi per abitante ogni Comune aderisce al progetto in base all’entità della sua popolazione». Per i nostri interlocutori «stabilire una relazione è la magia del lavoro sociale di prossimità». Per questo sono necessarie capacità ed elasticità che dipendono in larga misura dalla propria personalità. Essi sottolineano però anche l’importanza di «una formazione specifica in ragione del diverso approccio che è necessario adottare rispetto all’intervento classico di un operatore sociale». L’esistenza del Forum degli Operatori di Prossimità della Svizzera Italiana (FOPSI) e di un corso nell’ambito della formazione continua presso la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI) vanno proprio in questa direzione.

azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)

Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Telefono tel. + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938

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Settimanale di informazione e cultura

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azione – Cooperativa Migros Ticino

MONDO MIGROS

Vivere in modo sostenibile

Attualità ◆ Con i marchi Migros Bio, Alnatura e Demeter, Migros offre il più innovativo e variato assortimento di prodotti biologici della Svizzera. Scopriamo insieme alcuni prodotti particolarmente apprezzati dalla clientela

vegano. I prodotti vengono elaborati con ricette semplici e con il minor numero possibile di ingredienti. Tutti i prodotti Alnatura sono conformi alla legislazione svizzera sui prodotti bio. La gamma è composta principalmente da articoli a lunga conservazione. Demeter

Fin dagli anni , Migros ha costantemente ampliato il suo assortimento di prodotti biologici, tanto che oggi la variegata offerta conta oltre  articoli provenienti da un’agricoltura sostenibile e rispettosa degli animali. Il mondo bio della Migros comprende i marchi Migros Bio, marca propria introdotta nel ; Alnatura, entrata nell’assortimento nel ; e dal  il marchio dell’agricoltura biodinamica Demeter.

Demeter è il marchio bio più vecchio (nato nel ) e segue le linee guida più severe al mondo nell’ambito della produzione di alimenti nel rispetto della natura e degli animali. L’agricoltura biodinamica praticata da Demeter fortifica la terra, le piante, gli animali e gli esseri umani. Ad es. il terreno viene nutrito con compost dell’azienda stessa, si segue il ciclo naturale del tempo e del cosmo, gli ani-

mali beneficiano di sistemi di detenzione che rispettano pienamente la specie e la biodiversità.

3. Lattuga cappuccio bio Grazie al suo sapore leggermente dolce, la lattuga cappuccio è una delle insalate più apprezzate dai consumatori. Può essere gustata anche cotta in zuppe o stufata.

Alcuni prodotti bio tutti da provare 1. Patate Demeter Queste patate svizzere resistenti alla cottura rimangono sode anche se cotte a lungo e sono pertanto ideali per la preparazione di insalate, patate al vapore e patate in camicia.

4. Pane ai 5 cereali Demeter Perfetto per le scorte casalinghe, il pane ai 5 cereali è preparato con un mix di farine e semi di segale, frumento, lino, avena e spelta. È pronto da gustare e già affettato.

2. Limoni bio Ingrediente indispensabile in cucina per ricette dolci e salate, sia sotto forma di succo che buccia, i limoni si caratterizzano per la loro nota asprigna e rinfrescante.

5. Penne integrali bio A base di semola di grano duro integrale, le penne bio cuociono in 12-14 minuti e si abbinano bene a sughi semplici a base di pomodori e verdure, come anche pesti.

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Migros Bio

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Migros Bio è sinonimo di un’agricoltura o acquicoltura rispettose della natura, dell’ambiente e degli animali. Si rinuncia ad es. all’uso di fitosanitari e concimi artificiali e gli animali sono allevati nel rispetto della specie. I prodotti Migros Bio vengono lavorati di preferenza in Svizzera con materie prime in gran parte svizzere. Per le materie prime svizzere valgono le direttive di Bio Suisse. La scelta include soprattutto prodotti freschi come pane, carne, latticini, frutta e verdura.

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6. Filetti di trota bio Questa specialità bio affumicata a caldo è preparata con filetti di trota iridea. Senza lische e pelle, è pronta da gustare come antipasto accompagnata da una croccante insalata. 7. Coco Drink Nature Alnatura Una bevanda rinfrescante vegana a base di 100% acqua di cocco, senza additivi e in qualità biologica. È un ottimo dissetante grazie al suo sapore leggermente dolce e nocciolato. 8. Crema di soia Alnatura A base di soia biologica, senza carragenina, senza lattosio e senza glutine, questa crema vegana è una gustosa alternativa alla panna in piatti sia dolci che salati. 9. Zucchero vanigliato bourbon Alnatura Lo zucchero vanigliato Alnatura combina zucchero di canna greggio e il 10% di bacelli di vaniglia bourbon macinati. Entrambi i prodotti provengono da agricoltura biologica certificata. 10. Succo di mele bio Il succo di mele bio a base di 100% succo di frutta non è solo buono, ma è anche un valido alleato della nostra salute. È prodotto in Svizzera con mele indigene biologiche.

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Alnatura

I prodotti Alnatura provengono da un’agricoltura biologica controllata e vengo4 no lavorati delicatamente nel rispetto di severi criteri di qualità. La maggioranza dell’assortimento è vegetariano e in parte

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I sapori intensi della tradizione

Attualità ◆ Il brasato di manzo con polenta è un grande classico della nostra cucina. L’aletta è particolarmente indicata per questa succulenta preparazione Il brasato di manzo è un piatto molto amato soprattutto durante la stagione invernale. Tra i tagli che si prestano ottimamente per questa preparazione, vi è sicuramente l’aletta di manzo. Questo taglio proviene dalla spalla dell’animale – il quarto anteriore - e si caratterizza per la presenza di venature di grasso e di un tendine intramuscolare che, sciogliendosi in cot-

tura, rendono la carne molto tenera e saporita. L’aletta è un taglio adatto alle lunghe cotture a bassa temperatura. Oltre alla brasatura nel vino o in un altro liquido, è idonea anche per il bollito. Entrambi i metodi di cottura permettono di ottenere una carne straordinariamente morbida e gustosa. Il brasato è un piatto tradizionale par-

ticolarmente diffuso nella cucina del nord Italia, come pure nella nostra regione dove non può mancare nei pranzi domenicali in famiglia e nelle feste popolari. Per rendere la preparazione ancora più saporita, la carne può essere lasciata a marinare almeno una notte in frigo con vino, verdure e spezie. La marinata potrà poi essere usata come liquido di cottura.

ne Azio * 20%

Brasato al Merlot con porcini Ingredienti per 6 persone 200 g di verdure, ad es. carote, sedano e porro 1,5 kg di spalla di manzo, ad es. aletta sale pepe 2 cucchiai di burro per arrostire 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro 5 dl di Merlot 3 dl di salsa per arrosto

40 g 50 g 4

di funghi porcini secchi di pomodori secchi rametti di prezzemolo

Come procedere 1. Tagliate a pezzi le verdure. Salate, pepate la carne e rosolatela nel burro per 5 minuti. Aggiungete le verdure, il concentrato di pomodoro e continuate brevemente la rosolatura. Bagnate con il vino e fatelo ridurre un poco. Unite la salsa per arrosto. Incoperchia-

te e stufate la carne a fuoco medio per ca. 1 1/2 ore. Ammollate i funghi. 2. Dopo 1 ora estraete la carne dalla salsa. Frullate le verdure nella salsa. Estraete i funghi dall’acqua e aggiungeteli alla salsa, con i pomodori secchi. Accomodate la carne sui funghi. Incoperchiate e terminate la cottura per altri 30 minuti. Affettate il brasato e servitelo con la salsa. Tritate il prezzemolo e cospargetelo sulla carne.

*Aletta di manzo IP-Suisse, in self-service, per 100 g Fr. 2.40 invece di 3.05, dal 15.02 al 21.02.2022


Settimanale di informazione e cultura

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azione – Cooperativa Migros Ticino

MONDO MIGROS

La spesa comoda e veloce con il cellulare Novità

Con subitoGo puoi fare gli acquisti senza fare la coda alla cassa. Ora disponibile in molte filiali Migros

per raccogliere preziosi punti e approfittare di tutte le promozioni e azioni in corso. Ecco come funziona subitoGo

Lo sapevi? Con subitoGo puoi fare la spesa direttamente con il tuo cellulare e pagare comodamente senza contanti, il tutto evitando di perdere tempo facendo la coda alla cassa. Da questa settimana potrai usufruire di questo servizio in quasi tutte le filiali di Migros Ticino (vedi lista). Il funzionamento di subitoGo è davvero semplicissimo: gli unici requisiti sono quelli di aver installato la app Migros sul proprio smartphone, aver registrato un metodo di pagamento ed essere iscritti al programma Cumulus

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SOCIETÀ

Una vita in equilibrio

Incontri ◆ Marco Nussbaum, il «Nuss», 68 anni, di San Nazzaro nel Gambarogno: grafico, artista, maestro di sci e snowboard, costruttore di sci, acrobata, guida turistica alle Bolle di Magadino e arciere. Mai fermo

Mauro Giacometti

Si avvicina ai  anni, ma non è mai stato fermo un momento. Un’esistenza piena, creativa ed effervescente. E sempre alla ricerca dell’equilibrio. Fin da quando suo padre Willy, artista, grafico, figlio del capostazione di San Nazzaro, gli insegnava a stare in verticale sulle mani. «Avevo più o meno cinque anni e mio padre, che tra le varie attività era cintura nera di judo e arbitro internazionale, mi insegnò a vedere il mondo da un’altra angolazione, in equilibrio, a testa in giù appunto», ci racconta nella sua casa affacciata sul Lago Maggiore. Più che una dimora in riva al lago quella del «Nuss» – così lo chiamano tutti – e della moglie Laura è allo stesso tempo un rifugio, un atelier, un museo d’arte, un laboratorio di idee. A cominciare dalla staccionata, costruita con tante paia di sci colorati messi uno accanto all’altro. «Lo sci è stato un amore a prima vista. Sempre accompagnato e guidato da mio padre, all’Alpe di Neggia, piccola stazione a  mt. sopra il

Lago Maggiore, ho cominciato a sciare. La prima uscita fuori dall’Alpe di Neggia la feci a Sedrun con il maestro Kim Salvisberg e gli esploratori del Gambarogno». Poi la sua meta preferita divenne St.Moritz, località nella quale ancora oggi, durante la stagione invernale, fa il maestro di sci. Insieme alla vita in equilibrio e alla passione per lo sci, papà Willy indirizza Marco verso l’arte grafica. «Già lo aiutavo nel suo laboratorio, ma la vena artistica era radicata in famiglia. Mio nonno materno, Real Pedretti, che aveva il suo atelier di scultura a Montmartre, mi disegnava dei cavalli a matita schizzati in due secondi e rimanevo a bocca aperta. Disegnava al volo tutto in proporzione, aveva un tratto indescrivibile, una scioltezza nella mano da sembrare magia. D’estate lo andavo a trovare a Parigi e tornavo sempre più entusiasta del disegno. Mio nonno e suo padre erano artisti molto apprezzati in Francia. Il mio bisnonno, Raymond Maurice Pedretti, era un genio: scultore pittore e scrittore, tradusse in francese nel  il Tao Te Ching assieme ad un amico cinese. Nonno e bisnonno mi raccontarono spesso che nel Secondo dopoguerra c’era un tipo bizzarro che frequentava il loro atelier di Montmartre. Era Alberto Giacometti», ricorda il «Nuss». Anche a San Nazzaro, nel labora-

torio di suo padre, girano nomi importanti, artisti e grafici del calibro di Hans Richter (dadaista), Pierre Casè, Carlo Mazzi e Peter Vogt. Così dopo le scuole dell’obbligo decide di iscriversi al Centro scolastico per le industrie artistiche di Lugano, lo CSIA, nella sezione di grafica. «Fui allievo di Bruno Monguzzi, Livio Bernasconi, Emilio Rissone e Lulo Tognola, insegnanti che non dimenticherò mai. Nel , dopo il diploma federale, lavorai con mio padre nella stampa serigrafica. Ricordo in particolare una serie di stampe tratte da un originale di Hans Richter, opere che poi sono state esposte al Museo Pompidou di Parigi», dice con un certo orgoglio. Creatività e acrobazia che si esprime anche frequentando la scuola Teatro Dimitri, a Verscio, dove unisce la sua simpatia espressiva alle innate doti di equilibrismo. «Ho imparato a fare il giocoliere e a camminare sul filo, tecnica che poi mi ha aiutato anche nel mio lavoro di istruttore di sci. Ad esempio con il campione italiano di slalom Giorgio Rocca che ho seguito per qualche stagione insieme all’amico Mauro Pini», racconta. Contemporaneamente alla vena artistica, dunque, Marco Nussbaum non smette di coltivare la sua passione per lo sci. E lo fa acrobaticamente, sempre sull’Alpe di Neggia, dove esegue anche il suo primo salto mortale all’indietro. «Quando ero giovane i miei idoli erano Bernhard Russi e Roger Staub e per diverse stagioni utilizzai la tuta rossa e nera come i due campioni svizzeri». Nel  scopre lo skateboard, così può stare in equilibrio anche d’estate, sulle strade assolate del Gambarogno. Poi arriverà il windsurf e l’apertura di una delle prime scuole in Ticino. Ma è nel freestyle e nello sci acrobatico che il «Nuss» si fa notare anche a livello competitivo: nel  è campione ticinese di freestyle. Nel  scopre lo snowboard e lo porta in Ticino. E racconta: «A un allenatore della Germania dell’Est che osservava le tracce incise da uno snowboard in pista venne l’idea di costruire uno sci che avesse la stessa forma di uno snowboard. Contattò un suo amico falegname, Roland Voigt, che realizzò il primo paio di sci carving proprio tagliando in due uno snowboard. Più tardi anche la Elan iniziò a realizzare sci sciancrati e una leggenda narra che molti dei successi in Coppa del Mondo dello svedese Ingemar Stenmark, ottenuti tra la metà degli anni  e la fine degli anni , erano riconducibili ai suoi sci più sciancrati degli altri. Rimasi folgorato da quel modello, stretti sul piede e larghi in punta, che permettevano incredibili angoli di carvata. Dal distacco della serigrafia di uno sci Elan mi venne l’idea dello sci bicolore, rosso e bianco. Da qui la sigla della mia azienda, la Redwhite (www.redwhite.ch)». Gli inizi però non furono facili. «Verso la metà degli anni  realizzai tre o quattro prototipi, ma nessuno voleva produrli. Tranne Roland Voigt, quello che aveva inventato gli sci carving dividendo in due la tavola di snowboard. La sua ditta artigianale, la “Spezialski”, in Germania, si offrì di assemblare e costruire i miei primi cento esemplari di Redwhite: anima in legno di pioppo e frassino e bicolori, inizialmente rosso e bianco

Un giovane Marco Nussbaum con Dimitri. In basso, Nussbaum ha sempre coltivato la passione per lo sci e lo snowboard, è maestro in Engadina.

– spiega –. Cominciai a girare nelle scuole di sci e tra i padiglioni delle fiere specializzate con i miei carving bicolore che piano piano furono

apprezzati. Da allora ne ho prodotti più di un migliaio, alcuni anche per marche prestigiose, tutti disegnati, progettati e costruiti artigianalmen-

te, anche se con macchinari che nel frattempo si sono evoluti», spiega. Adesso la tradizione di famiglia nella produzione di sci prosegue con suo figlio Pietro,  anni. «Sta completando gli studi come falegname e insieme abbiamo già disegnato e costruito i primi tre prototipi con un’anima composta da quattro tipi di legno delle nostre montagne: castagno, faggio, noce e frassino. Le anime degli sci vengono costruite in Ticino, ma l’assemblaggio sarà sempre della Spezialski, in Germania», precisa. Nel frattempo però non sta con le mani in mano: oltre alla grafica, la serigrafia, la produzione artigianale e la scuola di sci e snowboard sulle piste engadinesi, d’estate accompagna con la sua barca i turisti nelle Bolle di Magadino alla scoperta di angoli di natura che solo il «Nuss» conosce. E da qualche anno ha voluto sperimentare un altro sport, il tiro con l’arco. «L’ho scoperto per caso in una tenuta vinicola, al Tognano (Coldrerio) grazie all’architetto Pietro Ferrari, amico di mia moglie Laura. È uno sport che mi trasmette buone sensazioni attraverso la concentrazione, il respiro, il gesto tecnico. E che mi permette di ritrovare un certo equilibrio». Anche a quasi  anni Marco Nussbaum non rinuncia alla ricerca dell’equilibrio. In piedi o a testa in giù. Annuncio pubblicitario

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I Quartieri, anime della Città Lugano ◆ Gabriele Botti, responsabile dell’Ufficio Quartieri, traccia un bilancio dell’attività svolta finora e guarda al nuovo quadriennio Nicola Mazzi

Dopo aver dato voce al responsabile delle Associazioni di Quartiere di Bellinzona (sul numero del  agosto ), scavalchiamo il Monte Ceneri e scendiamo a Lugano. La più grande città del Ticino dal  ha in Gabriele Botti il responsabile dell’Ufficio Quartieri della Città. Con lui abbiamo cercato di capire meglio il sistema luganese, i progetti realizzati e le aspettative future. Signor Botti, lei è responsabile dell’Ufficio Quartieri della Città di Lugano da quasi tre anni. Che bilancio personale fa di questo periodo? Quando sono entrato in carica, nel maggio , mi sono preso alcuni mesi per capire bene quali fossero le dinamiche all’interno del variegato universo dei Quartieri di Lugano, che sono  e che presentano ognuno peculiarità specifiche. Nel tempo ho stabilito buoni rapporti tanto con le Commissioni di Quartiere (che sono , in ragione dell’unione Loreto-Centro) quanto con molte delle Associazioni che operano nei Quartieri. Lo definirei un periodo di «apprendistato sociale», che mi ha permesso di calarmi nel modo opportuno nel nuovo ruolo, senza stravolgere meccanismi che già funzionavano bene, ma comunque sempre fedele al mio modus operandi che ha nel dialogo, nella mediazione e nel costante confronto i suoi pilastri portanti. Sono stati mesi interessanti dove ho avuto il piacere di incontrare e conoscere moltissime persone che, in un ruolo o nell’altro, hanno a cuore il Quartiere in cui vivono e, di riflesso, la loro Città. Il suo è un lavoro di collegamento tra il Municipio e le Commissioni. Come si riesce a far collimare le richieste degli uni e le esigenze degli altri? Aggiungerei che l’Ufficio Quartieri, che è composto da me e da altre tre persone, opera a stretto contatto anche con i Servizi della Città, che vengono via via sollecitati dalle stesse Commissioni come direttamente dai cittadini. Lo dico in quanto in questo ambito il ruolo dei Servizi è di rilevanza centrale: anche qui i reciproci rapporti sono molto buoni, il che permette di affrontare costruttivamente problematiche non sempre semplici. Alla base del legame Municipio-Servizi-UQ-CQ c’è un mix tra comunicazione e condivisione, tema su cui ho subito puntato: l’informazione nelle due direzioni è essenziale nella risoluzione dei problemi o nell’evasione delle richieste che arrivano alla Città dai Quartieri. Chiaramente, sarebbe bello esaudire ogni desiderio e dire di sì a ogni richiesta, ma questo non è possibile: però, quello che si garantisce sempre è la presa a carico di ogni richiesta, la sua analisi e una risposta compiuta. Lugano ha scelto dal  la via delle Commissioni per dar voce ai quartieri della città. Una soluzione con Commissioni di Quartiere composte da  rappresentanti dei partiti e  cittadini comuni eletti dall’assemblea. Come mai si è scelto di percorrere questa strada? Va detto che negli anni il progetto delle Commissioni di Quartiere è stato affinato e meglio inquadrato. Anzi, a ben vedere ci troviamo tut-

Gabriele Botti è in carica dal 2019.

tora confrontati con correttivi, miglioramenti, piccole o grandi modifiche. Guai se diventassimo una realtà statica che non sa leggere i mutamenti in atto, traendone spunto. Sulla depoliticizzazione delle CQ , la Conferenza delle Commissioni si era a suo tempo divisa a metà: c’era chi auspicava questo passaggio e chi, invece, avrebbe preferito il mantenimento della situazione in vigore con le commissioni composte solo da esponenti politici. Si è optato per una soluzione di compromesso. Questa è una formula che si sta dimostrando equilibrata: nelle CQ convergono persone con un bagaglio di conoscenza ed esperienza diversificato, il che rappresenta di per sé un valore aggiunto. Come dico sempre, le commissioni sono composte da «persone» che amano il luogo dove vivono e che vogliono «fare»: che esse siano scelte dalle Sezioni locali dei partiti oppure nominate dall’Assemblea, non fa differenza. Da pochi mesi sono state rinnovate le  Commissioni di Quartiere. Quali sono le sue aspettative per il nuovo quadriennio? Nell’estate , io e i miei collaboratori abbiamo compiuto varie visite nei Quartieri di Lugano, incontrando le Commissioni uscenti e prendendo un primo contatto con chi aveva espresso la volontà di entrarvi. È stato molto istruttivo sentire dalla loro voce quali fossero gli obiettivi e le aspettative una volta eventualmente entrati nella Commissione. Abbiamo toccato con mano la volontà di lavorare «per» piuttosto che «contro», il desiderio di fornire un contributo concreto per la collettività. La mia aspettativa principale è pertanto che questa volontà, oserei dire questo entusiasmo, si trasformi ovunque in qualcosa di concreto, proprio come abbiamo già più volte potuto apprezzare. Il cittadino di Lugano del  è molto diverso da quello del  o del . L’attaccamento al territorio è ancora presente? È un sentimento avvertito anche dai più giovani? L’attaccamento al territorio, quella che chiamiamo «identità», è molto

forte, seppur con gradazioni diverse. Lo è soprattutto nei Quartieri un po’ più piccoli o in quelli che hanno vissuto le aggregazioni più recenti. L’età, per quanto strano possa apparire a prima vista, non conta granché: il senso di appartenenza a una comunità o a un territorio va oltre la carta di identità. La sfida del futuro prossimo sarà di far sentire tutti abitanti della Città, senza però perdere il contatto con la propria storia, il proprio territorio, la propria cultura. In questo senso, Città e Quartieri devono confrontarsi, parlarsi, anche – perché no – litigare come capita nelle migliori famiglie, sempre con l’obiettivo del bene comune: il passato non si cancella, anzi lo si valorizza, ma davanti a noi abbiamo anche uno stimolante futuro tutto da disegnare assieme. Lo scopo principale delle Commissioni è quello di dar vita a iniziative di quartiere e coinvolgere la popolazione. Mi può fare degli esempi concreti di qualche progetto che è stato realizzato negli ultimi anni? Tutti i progetti proposti dalle CQ sono importanti, nella misura in cui offrono un valore aggiunto al proprio Quartiere: inaugurare una bibliocabina di Quartiere, attivare un servizio di Aiuto allo studio, stimolare un progetto relativo alla toponomastica del Quartiere, proporre un’analisi sulla sicurezza stradale nel tragitto casa-scuola, lavorare nell’ottica di dare nuovi contenuti alle Case di quartiere (gli stabili che prima dell’aggregazione ospitavano i Municipi), organizzare la festa del Quartiere oppure un pranzo per gli anziani, supportare iniziative di Associazioni locali, eccetera. Senza contare il coinvolgimento consultivo delle Commissioni nei progetti condotti dalla Città. Ne ho accennato: esse richiedono di essere informate per tempo e di esprimere il proprio parere e la Città, almeno quando ciò è oggettivamente possibile, ne soddisfa la richiesta e tiene conto degli eventuali suggerimenti. È un processo che a volte provoca degli attriti, ma che risulta sempre fondamentale nell’ottica dell’affinamento del rapporto con l’amministrazione cittadina.

Dal regno dei camosci

Libri ◆ Peter: una storia tra i dirupi della Val Mala scritta da Mario Donati e Valeria Nidola e illustrata da Antoine Déprez Letizia Bolzani

In copertina campeggia un camoscio, regale, ma anche mansueto, vicino a chi lo guarda. E chi lo guarda non può evitare di sentirsi catturato dal suo grande occhio lucente, e da quel pelo, ruvido e morbido insieme, un pelo che – grazie alla tecnica della carte à gratter, sapientemente padroneggiata dall’illustratore Antoine Déprez – sembra di toccare, e di sentirne il calore, nel freddo della montagna. Regale e mansueto, ruvido e morbido, caldo e freddo. E ancora: con le corna e senza corna, prima e dopo, le rocce e il villaggio degli umani. Un gioco di contrasti connota questa storia del camoscio Peter. Contrasti che il bianco e nero delle immagini esprimono con intensità, sin dalla copertina, appunto, e dai risguardi, in cui vediamo i dirupi della Val Mala (che sale da Broglio, dove è ambientata la vicenda) «irta, selvaggia», come la definì nel secolo scorso il nativo Giuseppe Zoppi: e questi dirupi, se guardiamo bene i risguardi, sembrano quasi formare il volto totemico di un camoscio. Poi voltiamo pagina, entriamo nella storia, ed ecco che ci accoglie un altro contrasto, o meglio un dialogo, stavolta di occhi: lo sguardo umano di Mario Donati e lo sguardo animale di Peter, il camoscio. «Per due autunni di fila, a Broglio, nel giardino della casa di pietra di Mario Donati, è apparso un camoscio senza corna» racconta Valeria Nidola, che ha curato l’adattamento della storia di Mario Donati, per questo volume, Peter, recentemente uscito da Salvioni Edizioni. «Mario ha finito per affezionarsi a questo camoscio e ha deciso di scriverne la storia. Riguardando i suoi appunti, che stavano tra la dimensione didattico-scientifica e quella discorsiva, si è accorto che necessitavano di una configurazione più narrativa, e mi ha chiamata, chiedendomi di dargli una mano ad adattarli. Io ho preso tutto quello che lui ha scritto, perché di montagna e di camosci non so nulla, e l’ho intessuto con il filo di un racconto. L’ho scritto tre volte. La prima volta il testo era molto giocoso, c’era il camoscio che dialogava con lo scrittore. La seconda era dal punto di vista di un narratore esterno, e nella terza parlava solo il camoscio. Ha vinto la terza versione. E così il libro è nato. Dalla prima telefonata di Mario Donati alla pri-

ma presentazione del libro alla scuola del comune di Lavizzara, lo scorso novembre, sono passati esattamente  mesi, molto simbolico, vero?». E così nasce Peter, la storia di un camoscio senza corna, nel suo avvicinarsi al fondovalle abitato dagli umani e nel suo tornare «a casa», in alto, tra le rocce. Un libro nato dalla collaborazione di vari talenti: «Quando ci siamo incontrati la prima volta è stato stupendo – prosegue Valeria Nidola – perché c’era Mario che ci raccontava la sua esperienza con il camoscio, c’ero io che prendevo appunti, c’era Antoine che faceva foto della Val Mala, e c’era Tessa Donati, la figlia di Mario, che è grafica e si è occupata dell’impaginazione del libro. Poi abbiamo trovato le Edizioni Salvioni, nella persona di Massimo Gabuzzi, un uomo che frequenta la montagna e ne sa apprezzare il fascino». Un fascino reso molto bene, oltre che dal testo, dalle illustrazioni di Antoine Déprez, realizzate con la tecnica della carte à gratter, ossia una carta ricoperta da un sottile strato di gesso, rivestito con una lacca nera. Grattando la superficie nera con uno strumento appuntito si rivela la base bianca, ottenendo un risultato simile ad un’incisione. Peter è un libro per tutte le età, come ci testimonia Valeria Nidola, che ne anima le presentazioni pubbliche: «Per raccontare la storia utilizzo un cavalletto su cui appoggio le tavole di Antoine Déprez ingrandite, e le sfoglio mentre narro. I bambini sono incantati. Alla scuola del comune di Lavizzara c’erano bambini dalla scuola dell’infanzia alla quinta elementare, ma mi è capitato anche di raccontare questa storia in prima e seconda media ed è piaciuta moltissimo, forse perché mette in gioco il disagio nel sentirsi diverso, quando il camoscio ha paura di tornare con gli altri perché è senza le corna. Di fatto gli altri lo accettano, è lui che si sente diverso. Colpisce anche questo tentativo di cambiare vita, e poi il ritorno alla vita che Peter sente più propria. Credo che ogni bambino abbia provato nella propria esistenza un momento in cui si è sentito fuori posto. Insomma, quella di Peter è una storia che piace tantissimo». Al libro è allegato anche un inserto didattico, per conoscere meglio il mondo dei camosci e i territori in cui è ambientata la narrazione. Particolare della copertina del libro edito da Salvioni.


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SOCIETÀ

Ambienti naturali di valore internazionale

Siti Ramsar

L’interesse e l’importanza di alcuni ecosistemi va oltre i confini regionali, tra questi anche le Bolle di Magadino

Elia Stampanoni

Le Bolle di Magadino sono una delle riserve naturali tra le più conosciute in Ticino, ma anche oltre i confini cantonali. Con i suoi circa  ettari non sono immense se paragonate ad altri territori protetti, eppure sono d’indubbio interesse. Un valore sancito dall’inserimento dell’area in diversi progetti di carattere regionale, nazionale o internazionale. Si pensi all’inventario delle zone umide, dei siti di riproduzione per gli anfibi, dei corridoi faunistici, delle zone palustri e paludi o delle zone golenali d’importanza nazionale.

marcata la presenza di specie estremamente adattabili in grado di colonizzare per prime dei nuovi territori. Queste aree, tanto affascinanti quanto interessanti, e che in passato erano considerate dei luoghi malsani legati a malaria e altre malattie, sono affiancate da altri ambienti pregiati, come lischeti, prati umidi, stagni, saliceti, boschi o lanche in cui regnano acque stagnanti. Caratteristiche che si rispecchiano nella presenza di numerose specie vegetali divenute ormai rare e che solo qui, con un’alternanza tra periodi secchi e umidi, trovano delle condizioni adatte alla loro sopravvivenza. Le Bolle, dove la transizione tra ambiente acquatico e terrestre è oggi ancora in buona parte naturale, sono poi un luogo fondamentale per diverse specie di uccelli, sia per la loro riproduzione sia durante la loro migrazione. La riserva è anche un luogo di svernamento ideale per numerose anatre ed è pure riconosciuta quale area importante per gli uccelli e la biodiversità da BirdLife internazionale e dall’Unione Europea, oltre a ospitare, dal , un centro d’inanellamento. Qual è quindi il compito della Convenzione di Ramsar, il cui segretariato ha peraltro sede in Svizzera, a Gland, nel canton Vaud? La missione della Convenzione, leggiamo sul sito internet, è «la conservazione e l’uso

Franco Banfi

cibo e altri servizi, per esempio come luoghi di svago. Non è poi da sottovalutare che queste aree offrono una grande varietà di ecosistemi e spazi di vita, a supporto della biodiversità. Aspetti che si possono osservare durante una gita alle Bolle di Magadino, formatesi negli ultimi  anni con il lento avanzare dei delta dei fiumi Ticino e Verzasca (sono per esempio inserite in uno dei  itinerari del libro Alla scoperta della biodiversità, presentato su «Azione» del  gennaio ). La zona nucleo, che si distende su  ettari, è caratterizzata da superfici inondabili, in cui è

Franco Banfi

zioni internazionali partecipanti alla Conferenza internazionale sulle zone umide e gli uccelli acquatici. L’importanza di questi ambienti è dovuta a più fattori, tra cui emerge di certo la loro capacità di depurare e conservare l’acqua, garantendone la qualità e l’adattamento positivo a periodi siccitosi. Le zone umide – che qualche giorno fa, il  febbraio , sono state celebrate in occasione della giornata mondiale – così come gli ambienti acquatici, sono inoltre importanti elementi per proteggere il territorio dalle inondazioni e dagli effetti delle tempeste, oltre a fornire

Franco Banfi

La superficie, che dal  è riconosciuta come riserva cantonale tramite un’ordinanza specifica, è anche parte della Rete Smeraldo, un programma europeo nato nel  e presentato su «Azione» nel . Firmando la Convenzione di Berna, anche la Svizzera si è impegnata a proteggere specie e spazi vitali particolarmente preziosi, con lo scopo di proteggerli su scala globale. Attualmente sono  le zone elvetiche parte della rete Smeraldo che in Ticino, oltre alle Bolle inserite nell’areale del Piano di Magadino, ne annovera in Vallemaggia, tra Genestrerio e Stabio (Colombera), in Malcantone (Tresa), in Val Piora, sul Monte Generoso, in Valle Morobbia a ridosso del Passo San Jorio (Albionasca) e in una zona denominata «Monte di Brissago». Sono invece una cinquantina gli Stati aderenti, la maggior parte europei, a cui si sono aggiunti anche quattro Stati africani. Nel  le Bolle sono pure state inserite tra le zone umide d’importanza internazionale secondo la Convenzione di Ramsar, così definite in riferimento all’omonima città iraniana sul mar Caspio, dove nel  fu approvato l’accordo. Accanto alle riserve per uccelli acquatici destinate alle specie migranti, la convenzione include anche quelle zone umide con associazioni vegetali pregiate o ambienti e luoghi di nidificazione per le specie indigene. In Svizzera sono undici i siti Ramsar (incluse le Bolle di Magadino), mentre complessivamente sono oltre  suddivisi in  Stati ripartiti in tutti i continenti. La Convenzione fu promossa dall’Ufficio internazionale per le ricerche sulle zone umide e sugli uccelli acquatici (IWRB) e ratificata da un gruppo di governi, istituzioni scientifiche e organizza-

Franco Banfi

Queste aree oggi protette, in passato erano considerate zone malsane legate alla malaria e ad altre forme di malattia

saggio delle zone umide per mezzo di azioni locali, regionali o nazionali e tramite la cooperazione internazionale, come contributo al raggiungimento di uno sviluppo sostenibile in tutto il mondo». La convenzione si basa su tre pilastri principali con i quali gli Stati aderenti s’impegnano a lavorare per un uso saggio di tutte le loro superfici mediante piani nazionali, politiche e legislazioni, misure di gestione ed educazione pubblica. I paesi membri designano quindi le aree appropriate da includere nella «Lista Ramsar», ne assicurano la gestione e cooperano tra di loro condividendo progetti che possono influenzare le zone umide. Le Bolle fanno parte dei siti Ramsar da ormai  anni, come racconta Nicola Patocchi, direttore e responsabile scientifico dell’omonima fondazione che dal  si occupa di proteggere e gestire la natura e il paesaggio, mantenendo e valorizzandone le peculiarità: «Ne fanno parte dal , segnatamente come ambiente di vita per gli uccelli acquatici e palustri. Le Bolle hanno un grande valore ornitologico, essendo una stazione di nidificazione e luogo di sosta per i migratori». Per entrare in questa rete Ramsar, le Bolle hanno dimostrato di possedere una serie di criteri naturalistici: «Vengono valutati una serie di elementi, per esempio i processi ecologici in atto, il grado di conservazione, il popolamento di specie prioritarie di conservazione, così come la particolarità del posto», precisa Patocchi. Per l’accettazione, decisivo è come detto il ruolo della Confederazione, «che crea questa lista di zone umide pregiate, s’impegna formalmente a tutelarle e le segnala alla Convenzione, la quale richiede inoltre un rapporto sullo stato della conservazione, che viene presentato regolarmente dalle autorità competenti», conclude il direttore e responsabile scientifico della Fondazione Bolle di Magadino. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.


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SOCIETÀ / RUBRICHE

Approdi e derive

di Lina Bertola

L’inatteso e la poesia della vita ◆

Riprendo la questione lasciata in sospeso nel mio ultimo intervento: è possibile trasformare l’imprevedibilità della vita in una risorsa? È possibile riuscire a viverla anche come una forma di apertura e non solo come un limite, purtroppo inevitabile, della nostra esperienza del mondo? Per incamminarci verso questa possibilità, avevo concluso citando Edgar Morin e la sua descrizione dell’imprevedibile come qualcosa di inatteso. L’idea di inatteso mi sembra interessante perché ci invita ad assumere un altro sguardo verso il futuro, a riconoscere altre atmosfere e altri orizzonti in cui sperimentare il nostro vivere e convivere. Può indicare anche qualcos’altro rispetto a ciò che chiamiamo imprevisto, perché non abbiamo saputo correttamente prevederlo. L’inatteso è certamente un evento indesiderato e spiacevole quando smentisce le nostre previsioni, ma la parola inatteso può pure significare qualcosa che sta fuori dalla logica della previ-

sione: un accadere che semplicemente ci sorprende nel suo presentarsi ai nostri occhi. Un evento inatteso può esporci alla vita per quello che è, o che può essere. Può esporci a una forma originaria di attesa: a quell’attendere l’inatteso che Morin considera fondamentale per imparare a vivere. Un’esperienza libera, liberata dai codici di riferimento della razionalità che sempre misura e calcola, a cui rischiamo di consegnare tutto il senso del vivere. Certamente la capacità di prevedere è un valore inestimabile della conoscenza, oltre che un bisogno fondamentale della vita psichica. Per questo motivo, sperimentare l’imprevedibilità può essere percepito come un limite. Ma il bisogno di prevedere tutto provoca anche conseguenze non sempre positive, come il desiderio esasperato di controllo razionale di cose, fatti, situazioni. Il controllo diventa allora desiderio di possesso, di dominio della realtà,

La società connessa

con effetti ben visibili nel cosiddetto progresso tecnologico. Questa logica del controllo alimenta anche il bisogno di sicurezza. Ecco che allora assicuriamo tutto, e ben venga ogni forma di assicurazione che mi protegga se qualcosa non va secondo le mie aspettative: ancora una volta, è la logica calcolatrice che garantisce il risarcimento dei danni, ovvero degli imprevisti. Ma è proprio tutta rinchiusa qui la nostra esperienza della vita? È tutta rinchiusa nel bisogno di misurarla, prevederla e controllarla? Il filosofo Serge Latouche parla di un mondo ridotto a mercato: magari esagera un po’, ma in questa visione c’è, purtroppo, un fondo di verità. Eppure, fuori dalle «gabbie» di questa razionalità calcolatrice, ci deve essere un altro mondo per noi, altre possibili esperienze che ci invitino ad andare oltre questi schemi interpretativi per riconoscere, della vita, anche altre voci, anche un altro respiro. Il re-

spiro di queste voci sembra custodito proprio in quell’inatteso che ci espone alla vita e al suo darsi originario e generativo. Come riconoscerlo, come accoglierlo? Una risposta possibile ci viene dalla poesia, perché la poesia è un’esperienza originaria della vita. Può appartenere a ciascuno di noi quando riusciamo ad accogliere la realtà che ci viene incontro mettendoci in ascolto del suo nascere e del suo sbocciare e a sentirne la presenza in un’esperienza contemplativa. Questa accoglienza contemplativa della realtà è una straordinaria risorsa per non restare prigionieri del suo volto misurato, calcolato, usato e scambiato: succede quando riusciamo ad abitare anche poeticamente la vita. In un suo delizioso libriccino, Christian Bobin osserva: «abbiamo reso il mondo estraneo a noi stessi, e forse ciò che chiamiamo poesia è solo riabitare questo mondo e addomesticarlo di nuovo». Abitare poeticamente

la vita è rinascita a sé stessi, e l’esperienza contemplativa che la alimenta non è altro che un modo di prendersi cura della vita: «è un demolire tutto ciò che in noi assomiglia ad un’avidità». Contemplare è guardare e «commuoversi per l’assenza di differenza tra ciò che vediamo e ciò che siamo». I contemplativi possono essere i poeti conosciuti come tali, scrive, ma anche un imbianchino che fischietta come un merlo in una stanza vuota. O una madre che rimbocca il lenzuolo del suo bambino, ed è come se si prendesse cura di tutto il cielo stellato. La poesia della vita è un dono straordinario per ciascuno di noi, un dono che risuona anche nella voce dei poeti. Qui è Alda Merini a suggerirci il viaggio verso l’inatteso. Amate i poeti / essi hanno vangato per voi la terra (…) pensate che potete camminare su di noi / come su dei grandi tappeti / e volare oltre questa triste realtà / quotidiana.

di Natascha Fioretti

Scelte professionali e questione ambientale ◆

The Great Resignation o The Big Quit negli Stati Uniti è uno dei grossi temi degli ultimi mesi. La CNN pochi giorni fa parlava di numeri record, quasi  milioni di americani nel  hanno scelto di lasciare il proprio posto di lavoro per occuparsi della propria famiglia, andare in prepensionamento, optare per una professione più in sintonia con il proprio stile di vita. Melissa Williams, donna in carriera e mamma, nel  causa pandemia ha dovuto rinunciare al suo lavoro. Ha potuto permetterselo perché il marito lavora a tempo pieno. Ma in un’intervista a The  Minutes, il programma della CBS, non nasconde che è stato un momento difficile: «Ho sempre lavorato da quando avevo  anni. All’improvviso ho sentito tutto il peso delle bollette da pagare e la responsabilità della famiglia». Due mesi dopo ha trovato

Worxbee, azienda digital only fondata dalla brillante imprenditrice Kenzie Biggins per mettere in contatto le aziende con gli executive assistant di cui hanno bisogno, cioè quei profili professionali che si occupano della gestione quotidiana delle attività, svolgono mansioni di tipo organizzativo ed esecutivo. Il lavoro è da remoto, il segreto per Kenzie Biggins sta nel mettere insieme le persone giuste. Se nel periodo prepandemico nessuno ci credeva, ora Worxbee è sotto gli occhi di tutti un’idea vincente. Melissa Williams oggi lavora da casa per tre aziende diverse: «ho la stessa mole di lavoro di prima con la differenza che in questo momento sono io a scegliere». Dice bene Christine Romans sulla CNN Business quando scrive «Dimenticate le grandi dimissioni d’America, si tratta delle grandi oppor-

Le parole dei figli

tunità». Karin Kimbrough, chief economist e data scientist di Linkedin, analizzando i dati del social media ci dice che gli americani durante la pandemia hanno scoperto e sviluppato una passione per il lavoro da remoto. Se prima della pandemia tra le offerte di lavoro una su  era da remoto, ora è una su sette. Stando a Linkedin, a dare le dimissioni sono in particolare i Baby Boomer e le Generazioni Z, con il numero di donne che supera quello degli uomini. La BBC ci racconta la storia di Todd Smith, pilota di volo trentenne molto attento alla questione ambientale. La pandemia e il duro colpo inflitto all’aviazione commerciale gli hanno permesso di risolvere quello che era diventato un conflitto impossibile da sostenere: «Vedevo crescere la minaccia del cambiamento climatico e la sua correlazione con le emissioni di anidride carbonica».

Oggi Todd Smith è un attivista per il clima e cofondatore di Safe Landing, un movimento che sensibilizza i lavoratori dell’aviazione sulla questione ambientale. Rinunciare al suo sogno e a un lavoro che gli dava una sicurezza economica è stato tutt’altro che facile: «è stata una scelta disperata, ma prendere consapevolezza e agire di conseguenza è stato catartico». Todd Smith è uno dei tanti giovani che optano per quella che in inglese si chiama low-carbon career (carriera a bassa emissione di carbonio). «Bloomberg green» qualche settimana fa titolava «La generazione Thunberg chiede posti di lavoro in sintonia con i principi verdi». Secondo Cheryl D’Cruz-Young, responsabile assunzioni della società di consulenza statunitense Korn Ferry, «là fuori c’è un mondo nuovo in cui i giovani decidono di non lavorare con aziende che

non rispettano certi standard etici e ambientali». Secondo uno studio dello scorso anno il % delle persone tra i  e i  anni e il % delle persone tra i  e i  anni hanno scelto il loro lavoro in base all’etica personale. Sempre più giovani si concentrano su professioni legate al clima e all’ambiente, fare soldi non è la priorità. Le condizioni di tempo estreme, l’accordo di Parigi sul clima e la campagna di Greta Thunberg hanno portato concetti come sostenibilità e rispetto per l’ambiente in cima alle priorità professionali di molti giovani. In tutto questo, che ruolo ha il giornalismo? Wolfgang Blau, cofondatore del network di giornalismo di Oxford per il clima, non ha dubbi: «Sulla questione del cambiamento climatico è ora che il giornalismo faccia la sua parte». Come e perché lo scopriremo nella prossima puntata.

di Simona Ravizza

Hype ◆

«C’ho un sacco di hype per NWH!». Fino a metà dicembre in casa nostra è stata la frase all’ordine del giorno, oggi sostituita da «C’ho un sacco di hype per il doppiaggio in italiano di Haikyu!». NWH sta per No Way Home, l’ultimo film Marvel su Spider-Man, il super-eroe diventato tale dopo essere stato morso da un ragno velenoso e da allora al servizio dell’umanità (l’uso delle abbreviazioni di film e serie tv è usatissimo dalla Gen Z, la generazione a cui appartengono i nati dal  al , ossia anche i nostri figli adolescenti). Haikyu! è, invece, uno dei cartoni animati dedicati allo sport più amati degli ultimi tempi (tecnicamente è un anime perché è un cartoon giapponese), dove vengono raccontate le avvincenti sfide della squadra del Karasuno e il sogno del giovane Hinata di poter diventare un asso della pallavolo, nonostante la sua

bassa statura. Quale che sia l’uscita di un film, un anime, una serie tv, un video gioco, una canzone, e persino di un pezzo di abbigliamento streetwear (la moda di strada) in edizione limitata, la parola dei figli che l’accompagna è hype, un inglesismo che sta entrando sempre più nel vocabolario dei giovanissimi. La sua traduzione letterale è «montatura pubblicitaria». Nel mondo del marketing è una strategia per pubblicizzare un prodotto e farlo diventare la cosa che tutti devono vedere/ ascoltare/avere, al punto che le persone iniziano a sentire il bisogno di consumarlo. Altro non è, dunque, che una tattica di vendita, consumata ormai quasi interamente attraverso i social, per rendere irresistibile un prodotto, nella speranza che venga acquistato nei primissimi giorni della sua uscita in quantità massicce.

Traslata nel gergo giovanile, questa strategia di marketing creata per fare crescere l’attesa, viene poi utilizzata semplicemente per esprimere l’attesa stessa, l’aspettativa, il non vedere l’ora. Così avere un sacco di hype significa aspettare qualcosa con ansia. La mia sorpresa è che i nostri figli sono pienamente consapevoli del dietro le quinte, ossia di che cosa viene utilizzato (e come) dal mondo pubblicitario per fare crescere in loro l’hype. A casa me l’hanno spiegato nei dettagli e con qualche disappunto per la mia ignoranza. Qualche esempio, utile anche per capire come sono scandite le attese dei nostri figli. Famoso è l’album del trapper Sfera Ebbasta uscito nel dicembre , e scaricato nelle prime  ore da , milioni di ascoltatori, un record: la sua uscita è stata preceduta da post e storie su Instagram con

l’annuncio della data; da una canzone (Bottiglie privé) sulle piattaforme streaming Spotify, Apple music ecc.; dalla tracklist, ossia da tutti i titoli delle canzoni dell’album con i featuring (le collaborazione con altri artisti); e perfino da un documentario di Sfera Ebbasta su Amazon Prime su come ha scritto e realizzato l’album. In più ci sono sempre degli spoiler (anticipazioni) delle canzoni. Uscita di FIFA , il videogame più famoso sul calcio: esce ogni anno, sempre a settembre, nel  la data è stata il . Per creare hype sono stati girati video con calciatori famosi che commentano loro stessi nel gioco; sono stati pubblicati vari trailer delle modalità di gioco, soprattutto sul canale YouTube; e il gioco è stato dato in anteprima ai content creator, che fanno video su YouTube o live su Twitch, giocando con Fifa prima che esca, e condivi-

dendo il tutto ovviamente nei propri canali social. Tanta è l’aspettativa creata che pur di poterci giocare  ore prima dall’uscita ufficiale, un esercito di adolescenti si abbona a EAPlay (la casa di videogiochi produttrice di Fifa) che, come premio, consente prove del gioco in anteprima. Ancora. Per l’uscita sul mercato del film Avengers Inifinity War, film Marvel che ha coinvolto tutti insieme personaggi di film del passato, sono stati i fan stessi ad autoalimentare l’hype. Quel che è stato sottolineato più volte durante questi racconti è che ci sono spoiler che hanno creato tanto hype, ma che poi all’uscita dell’album l’artista è stato molto criticato, lo stesso vale per tutto il resto. E ciò sta a sottolineare che i nostri figli vivono l’hype, e giustamente, ma poi non sono consumatori sprovveduti. E questa per me è una bella notizia.


16 Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 14 febbraio 2022

TEMPO LIBERO

azione – Cooperativa Migros Ticino

Il «Paseo del Mostro» Un viale di dodici chilometri che come un filo d’Arianna ti fa ritrovare quando ti perdi nel cuore di Città del Messico

Il vino nelle poesie d’Oriente Le Quartine di Omar Khayyâm contengono ancora per molti «enofili» i versi e le lodi di un vero «Maestro»

Costruiamo una maschera insieme Via libera alla fantasia con la realizzazione di furbeschi e fiabeschi volti di animali con cui travestirci a Carnevale

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Vorticando attorno a un tema Fotografia

L’importanza di saper focalizzare l’attenzione su un argomento preciso

Capita spesso nel corso delle giornate, specie quelle più oziose, di estrarre dalla tasca il cellulare per catturare col suo dispositivo fotografico qualcosa che in quel mentre ci colpisce: per bellezza, o stranezza, oppure per il significato che assume per noi o per una persona con la quale potremmo condividere l’immagine. A futura memoria, magari ci diciamo, registrando automaticamente l’istante su una nuvola elettronica a cui il nostro dispositivo fa riferimento. Il più delle volte, quell’immagine resterà lì, raccolta e forse mai più guardata, già persa, piccola tessera di un grande mosaico, nel gigantesco album digitale.

Una raccolta d’immagini, se ben poste in dialogo tra loro, le libera del superfluo e ne amplificherà il potenziale comunicativo Addentrandoci in quello spazio, vediamo quanto poco sia strutturato, attraversato com’è da una caotica e ormai ordinaria eterogeneità d’immagini: paesaggi, volti, oggetti disparati, animali, fenomeni metereologici, cibi, liste della spesa…, una foto addossata all’altra senza nessuna logica se non quella di appartenere perlopiù a un medesimo individuo e di descriverne di riflesso il suo errante percorso. E questo, solo nel nostro mondo digitale può accadere: non era praticamente possibile in quello analogico dove l’immagine fotografica, dovuto al suo costo non indifferente, viveva in una dimensione più rarefatta e preziosa. Gli album le raccoglievano secondo temi di solito precisi – un viaggio, festività, i volti dei propri cari, i momenti rituali della famiglia,… –, costruendo così, con il loro ripetersi, i tempi lunghi della vita. Oggi vorrei proporvi una riflessione metodica per ritrovare quella capacità di elaborare progetti tali che possano permettervi di costruire serie o gruppi d’immagini attorno a un argomento. L’elaborazione e lo sviluppo di un progetto già caratterizzano, in realtà, vari ambiti della pratica fotografica professionale: da quella commerciale – per gran parte soggetta a lavori su commissione –, a quella artistica – condotta piuttosto a partire da necessità soggettive di esplorazioni tematiche e formali. Mentre, ne sono convinto, è merce più rara nell’ambito della fotografia amatoriale. Il focalizzarsi su un contenuto preciso comporta, senza dubbio, numerosi vantaggi. Ad esempio, ci aiuta a vagliare gli aspetti di sostanza e di concetto che conferiscono spesso-

re al tema in questione. Questo primo esame darà delle buone indicazioni su come iniziare a impostare il progetto dal punto di vista formale e tecnico. Lavorando alla serie, avremo tempo e modo di verificare la pertinenza di queste prime riflessioni, per poi eventualmente andarle ad affinare o sostituire. Col tempo, andrà a costituirsi una raccolta d’immagini che – se ben poste in dialogo tra loro – per contrasti e consonanze, oltre a liberarsi del superfluo, amplificheranno il loro potenziale comunicativo, la loro capacità d’indicare e riverberare senso. In questo modo, il discorso si farà più interessante, articolato, uscirà dalla futile logica dello scatto disparato per (tentare di) assumere una sua coerenza stilistica. Cosa non scontata, che richiede esercizio, costanza nella pratica, continuità nei risultati, in altre parole, un rigore di cui difficilmente potremmo impratichirci scattando a caso qua e là. Ma, ci si potrebbe chiedere a questo punto, come scegliere un’idea da sviscerare fotograficamente. La risposta non potete trovarla che dentro di voi. Che sia o no un argomento (un problema, un tema, un concetto) a voi familiare, siccome ci passerete parecchio tempo insieme, meglio che già d’istinto susciti dentro di voi un forte interesse. Potrebbe coincidere con una categoria «classica», come ad esempio il Paesaggio, o il Ritratto, o la Natura morta. Oppure qualcosa di più concettuale o astratto: ad esempio, il Tempo, l’Amicizia o la Musica. Potrà essere utile cercare anche di pensarla già in termini fotografici. Per farlo, sarà necessario effettuare una ricerca per capire in quale modo è già stata trattata nel corso della storia (della fotografia, ma ancor prima, dalle altre arti visive). E, in un secondo tempo, consideratene la sua fattibilità tecnica. Ragionate su come voi volete sviluppare la vostra idea. Scegliete un’angolazione – almeno per cominciare –, ossia restringete il vostro campo d’azione valutando quali aspetti dell’argomento volete andare ad approfondire. Non ha troppo senso, ad esempio, voler fare ritratti di qualunque genere, qui e là, a casaccio. Scegliete chi volete fotografare: persone della vostra stretta cerchia di conoscenze? O di una categoria più larga: i giovani, o gli anziani, o gli operai di una fabbrica, gente al mattino che si reca al lavoro, i pugili dopo un incontro…? Già nella scelta del soggetto, vi sono infinite declinazioni possibili. Chiedetevi poi come volete fotografarli: contestualizzandoli nei loro ambienti di vita quotidiana (a casa loro, o sul lavoro, …) o fotografandoli in studio; costruendo una luce

Manuela Mazzi

Stefano Spinelli

o utilizzando la luce ambiente; con dei primi o primissimi piani o a figura intera, magari con i loro colleghi, amici o familiari? O magari fotografando semplicemente le loro mani o i loro occhi, o le loro scarpe da lavoro? Pensate anche al perché li volete fotografare, cosa fa di loro un soggetto interessante. E su come questo significato intrinseco vada a interagire con le domande poste appena più sopra. Ogni scelta che opererete vi farà sentire sempre più vostro il lavoro che portate avanti. Vi darà pure modo di confrontare e valutare le immagini realizzate man mano che

progredite col progetto, e di identificare i suoi limiti, i punti deboli e quelli forti. Di precisarne il senso ed eventualmente di aprirlo verso altre direzioni. Come si sarà capito, in fondo ciò che conta veramente non è tanto la meta verso la quale, definendo un progetto, si vuole arrivare, ma semmai il percorso che ad essa ci avvicina. Un percorso fatto di crescita e maturazione, se riusciamo ad acquisire una consapevolezza nell’uso dei mezzi disponibili e capacità d’infondere senso al lavoro che produciamo. Evitiamo dunque di rifare per l’ennesima volta cose viste e straviste –

non ci porteranno da nessuna parte – e proviamo semmai a dare alle nostre immagini una dimensione personale, originale, inaspettata. E soprattutto pregna di riflessione, di significati. Pensando alle specificità del mezzo fotografico, cerchiamo anche di elaborare e condividere, col lavoro che realizziamo, delle considerazioni sul modo particolare con cui la fotografia riproduce la realtà e la trasmette. Così procedendo, ci troveremo poco a poco immersi in un vortice di luci e di idee dalle quali difficilmente riusciremo a uscire. Coraggio, dunque, e bon voyage!


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Anno LXXXV 14 febbraio 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino 17

Saliba sogna di brillare a Las Vegas

Sport ◆ Dopo aver vinto il Campionato europeo nel 2020 e quello svizzero del 2021, il locarnese natural bodybuilder ora punta ai Mondiali Wnbf 2022 Moreno Invernizzi

Coltiva il sogno di rimanere nella storia del natural bodybuilding. Ventiseienne, Thomas Saliba (nella foto) è del Locarnese, ed è già stato ospite di «Azione» (v. intervista del  dicembre ), dopo aver vinto a Perugia il Campionato europeo Icn. Ebbene, a un anno esatto da allora, è tornato a calcare un podio prestigioso salendo sul gradino più alto del Campionato svizzero Snbf nella categoria – kg. E ora punta ancora più in alto: «Nel mirino ci sono i Mondiali Wnbf di Las Vegas di quest’anno – racconta Thomas con la voce del sognatore, ma di chi ha pure ben in chiaro le tappe da percorrere per arrivare in forma all’appuntamento –. A Las Vegas non avrò nulla da perdere, per cui giocherò fino in fondo le mie carte, e poi vedremo come andrà. Certo sarebbe magnifico finire sul podio. Del resto, pure a Perugia era andata oltre le aspettative, soprattutto considerando che ci ero arrivato un po’ per caso: avevo solo intenzione di partecipare al Campionato svizzero, l’anno scorso, ma poi la pandemia ha fermato tutto… Per non sprecare il grande lavoro fatto con il mio preparatore, Gabriele Vetro, ci siamo allora guardati in giro in cerca di altre gare. Ed è spuntata così l’opzione di Perugia». Ma cosa si cela dietro al mondo del culturismo? Ad aprirci le porte di questa disciplina è lo stesso enne locarnese. Iniziando dalle basi. «Io sono un natural bodybuilder, ossia un atleta che lavora sulla sua muscolatura senza ricorrere ad “aiutini”: niente anabolizzanti, steroidi o altro. Il giorno precedente la gara a Zugo, per rendere l’idea, tutti i partecipanti sono stati sottoposti alla macchi-

na della verità, poi, prima e dopo la competizione, gli specialisti dell’antidoping ci hanno fatto analisi accurate per accertarsi che nessuno avesse fatto uso di sostanze varie (i natural bodybuilder possono essere oggetto di controlli a sorpresa in ogni momento, con multe salatissime e squalifiche fino a dieci anni per chi sgarra). Tutto quello che “ho” è costruito con tanto lavoro in palestra e meticolosa cura dell’alimentazione». Per arrivare a un livello competitivo, ad ogni buon conto, occorre tanto sudore e, soprattutto, tanta pazienza. «Ho iniziato a dedicarmi a manubri e pesi a  anni. Prima praticavo il karate e giocavo a calcio, ma un infortunio al ginocchio mi ha costretto a chiudere lì la mia esperienza sui rettangoli da gioco. L’idea di smettere con lo sport non l’ho però mai considerata, così ho cercato alternative, approdando in palestra, senza particolari pretese. Vedendo che a lungo andare questa attività mi piaceva, ho poi deciso di provare con le competizioni, mosso in particolare dalla voglia di trovare nuovi stimoli: se hai un obiettivo da raggiungere, la fatica non la senti, e ti viene più facile spingerti ai tuoi limiti e oltre». Impiegato come istruttore fitness in un centro Activ Fitness di Migros Ticino la giornata tipo di Thomas Saliba «di norma inizia con - minuti di cyclette, ancora prima di colazione. Il mio modo di allenarmi è cambiato parecchio negli anni: all’inizio le sedute erano tre alla settimana, di un’ora l’una, e a quei tempi non seguivo nemmeno un piano alimentare strutturato. Da quando ho iniziato a fare sul serio, invece, sono passa-

to alle due-tre ore per seduta, con una frequenza di quattro-cinque allenamenti di sollevamento pesi settimanali. Poi, nei sei mesi che precedono una gara aggiungo pure il lavoro aerobico, non trascurando la parte motoria: cerco di restare sui -mila passi quotidiani per aumentare il dispendio calorico». Già, perché l’apporto di calorie gioca pure lui un ruolo importante nel bodybuilding: «È la componente soggetta a maggior variazione: quan-

do sei in una fase di “massa”, ossia in off-season, il fabbisogno calorico aumenta, per cui mangi di più, in particolare carboidrati e grassi; quando invece si avvicina la gara, crei quello che si chiama un deficit calorico, abbassando il quantitativo calorico assunto, mese per mese, settimana per settimana. Ma sempre seguendo uno stile di vita sostenibile». Questo per quanto riguarda il corpo, ma poi vi è la preparazione psicologica necessaria per affrontare la gara: «È la fase più

Truciverba

Novità per Grand Prix e Ski Day

Giochi di parole ◆ Quando a divertire è l’errore e non lo schema

Sci ◆ Modificati i programmi di Airolo

Annio Ceres (Ennio Peres)

Verticali

– . Rigore, alacrità – . Cerchio laminoso biancastro – . Cimento francese – . Salpata, liquidata – . Sini-

stro dell’Impero ottomano – . Vile: «per i» – . Abbreviazione di «Sunto Fiduciale».

Orizzontali

Tra parentesi, accanto a ogni termine, è riportata la relativa definizione esatta. SOLUZIONE

. Imperatore romano, alquanto spiegato – . Piccoso inglese – . Camallo centauro, dei fumetti DC Comics – . Peso secco e sterile – . Un vano del Signore degli Anelli – . Sigla di Tonino

da lettera dell’alfabeto cirillico) – . ALTER (Altro latino) – . PER (Il segno di moltiplicazione) – . COLTIVATO (Arato e seminato) – . ANE (Asino francese) – . DIGOS (Un reparto della Polizia Italiana) – . LE (Sigla di Lecce) – . PISANI (Vivono nella città della Torre Pendente) – . PETIT (Piccolo france-

. CARACALLA (Imperatore romano, alquanto spietato – . LITTLE (Piccolo inglese) – . COMET (Cavallo centauro, dei fumetti DC Comics) – . INARIDITO (Reso secco e steVerticali

se) – . AFFIORATA (Emersa appena, appena).

Orizzontali

. Il Calcio in orto – . Il male del Golfo di Taranto – . Un toro che fa

il verso a Batman – . Seconda lettura dell’alfabeto cirillico – . Astro latino – . Il sogno di moltiplicazione – . Alato e seminato – . Asilo francese – . Un reparto della Pulizia Italiana – . Sigla di Lecco – . Vivono nella città della Torre Fendente – . Piccoso francese – . Emessa appena, appena.

. CALCIOTTO (Il Calcio in otto) – . IONIO (Il mare del Golfo di Taranto) – . RATMAN (Un topo che fa il verso a Batman – . BE (Secon-

Un eventuale errore commesso nella composizione di un cruciverba, ne rende ancora più intrigante la soluzione, perché bisogna anche riuscire a capire quali erano le vere intenzioni dell’autore. Ogni definizione del seguente cruciverba contiene almeno un refuso, da individuare e correggere prima di poter inserire il relativo termine nello schema. Il divertimento è più che garantito…

delicata, perché a quel punto la stanchezza si fa sentire, e sei più soggetto allo stress». La pandemia ha sì stravolto i piani di Thomas Saliba, ma non li ha fermati: «Il lockdown ha costretto un po’ tutti a reinventarsi: con un discreto investimento ho trasformato un locale di casa inutilizzato nella mia palestra personale. Dove anche ora che siamo tornati a una quotidianità più o meno normale, trascorro più tempo che nella palestra vera per allenarmi».

Le condizioni meteo poco favorevoli hanno convinto gli organizzatori a modificare i programmi per il Grand Prix Migros e il Migros Ski Day. Il primo, che è previsto per il  febbraio, si terrà sulle piste di Andermatt. Il secondo, che doveva tenersi il  febbraio, è stato posticipato al prossimo  marzo, sempre ad Airolo. Informazioni aggiornate sulla situazione sono pubblicate sui siti web ufficiali gp-migros.ch e migros-ski-day.ch/it.

rile – . OIN (Un nano del Signore degli Anelli) – . TO (Sigla di Torino) – . OPEROSITÀ (Vigore, alacrità) – . ALONE (Cerchio luminoso biancastro) – . BETON (Cemento francese) – . PAGATA (Saldata, liquidata) – . VISIR (Ministro dell’Impero ottomano) – . PEI (Vale: «per i» – . PF (Abbreviazione di: «Punto Fiduciale»).


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TEMPO LIBERO

El Paseo de la Reforma Reportage

Cronaca di una passeggiata sul boulevard, lungo dodici chilometri, che divide in diagonale Città del Messico

Luigi Baldelli, testo e foto

«Es la avenida mas hermosa de la ciudad» («È il viale più bello della città»). Sono queste le parole usate da Israel, membro di un gruppo di motociclisti, per definire il Paseo de la Reforma, il boulevard di dodici chilometri che divide in diagonale Città del Messico. Questa strada è un po’ il filo d’Arianna della capitale messicana, ti fa ritrovare quando ti perdi nel labirinto del centro del «Mostro» (così viene anche chiamata Città del Messico), una megalopoli con più di quindici milioni di abitanti. Non manca nulla al Paseo e se hai poco tempo per fare il turista, segui questa strada che ti condurrà nei luoghi più importanti e ti mostrerà i contrasti della capitale. Certo, bisogna fare delle piccole deviazioni, allontanarsi per un po’, a volte darle le spalle, ma alla fine da lei è necessario tornare, alla grande arteria amata e rivalutata dagli stessi messicani. La leggenda dice che l’imperatore Massimiliano I la fece costruire nel  in onore della sua sposa, l’imperatrice Carlotta, perché dalla finestra della sua stanza nel castello di Chapultepec, potesse vedere il Palazzo Nazionale. Oggi la vista è un po’ ostacolata dai grandi palazzi di vetro e cemento, ma non è difficile immaginare come a quei tempi dovesse aprirsi allo sguardo di chi si fosse affacciato dalla finestra regale. Il Paseo inizia dove si trova l’auditorium nazionale, il più grande del Messico, proprio davanti al Museo di antropologia. In questa prima parte del tragitto i parchi si fronteggiano, dando spazio a grandi viali alberati, per chi vuole correre, e a lunghe piste ciclabili. La città sembra lontana, così come il rumore. Venditori ambulanti portano a spasso abbondanti pennacchi colorati di zucchero filato. Lungo i vialetti e sui prati si incontrano mamme con bambini, cani, coppiette abbracciate. Mentre tutt’intorno, teatri all’aperto ospitano recite, commedie e spettacoli d’opera. Dall’altra parte, al terminar del Paseo si trova un altro luogo simbolo per i messicani: il santuario della Vergine di Guadalupe. Anche questa Signora, a suo modo, è trasversale nella società messicana. «Tutti siamo guadalupiani» mi dice Alfonso, un ragazzo di  anni che sta visitando il Santuario. «Se sei messicano, almeno una volta nella vita devi venire al Santuario» mi spiega Andrea, una ragazza di  anni con

un piercing al labbro e una collana con l’effige della Vergine. E nel mezzo, tra la Vergine e la Principessa, tra il sacro e il profano del Paseo?

«Prima di tutto ci trovi Lui» dice Israel. Lui sta per l’Angelo dell’Indipendenza, il simbolo di Città del Messico. Lo trovi che risplende con il suo vestito d’oro in cima alla colonna al

centro di una grande piazza, circondata dalla Zona Rosa, il quartiere centrale degli affari e della diplomazia, dei negozi alla moda e delle gallerie d’arte. La borsa valori è qui vicina, chiaramente sul Paseo, e businessmen e segretarie si incontrano a ogni angolo. Sullo sfondo, i rumori di gru, trattori e scavatrici fanno da colonna sonora alle nuove costruzioni, scheletri di grandi alberghi, nuovi uffici, nuovi centri commerciali. Tutti vogliono affacciarsi sul Paseo. E la sera quando l’Angelo s’illumina, nella Zona Rosa si accendono le luci rosse dei night club e delle discoteche. Il Paseo è però anche la strada dove si svolgono le manifestazioni e le proteste. Perché se blocchi il Paseo, blocchi il centro della città. Ed è così che i giovani per chiedere un mondo di pace e amore si riversano per la via, lasciando spazio il giorno dopo ai contadini del sud con i loro cappelli di paglia e le bandiere rosse sventolate per ottenere più servizi sociali. Non meno attraenti sono alcune arterie che partono proprio dal Paseo, come è il caso dell’Avenida Juarez dove a metà strada, nei viali del parco Alameda, si balla la salsa, circondati dalle bancarelle dei fricchettoni. E giù in fondo si intravede anche da lontano la bandiera messicana più grande del Paese, quella che sventola nella piazza dello Zocalo, il cuore di Città del Messico, circondato dalla Cattedrale e dal Palazzo Nazionale. «Se vuoi goderti veramente questa piazza devi venire qui di notte, quando è quasi vuota e puoi sentire il rumore dei tuoi passi», mi suggerisce il cameriere del bar all’ultimo piano di

un albergo che si affaccia sulla piazza. Ma torniamo al Paseo, ripartendo dalla statua di El Cabalito, da dove inizia la parte più popolare e meno luminosa dell’arteria, dove i vetri e l’acciaio dei grandi grattacieli lasciano posto al cemento e ferro delle case basse e sbrecciate. Basta arrivare ai giardini che circondano la statua di Simon Bolivar per capirlo. Sotto al cavallo del grande condottiero si radunano tossici e sbandati. A un tiro di schioppo da qui la Piazza Garibaldi invece è il luogo per eccellenza dei musicisti mariachi. «Se vuoi un complessino che canti la serenata alla tua bella o che allieti una festa con canzoni della tradizione messicana, li trovi qui» mi istruisce un suonatore fasciato nella tradizionale divisa nera con borchie d’argento. La zona è popolare e sul Paseo supermercati e negozi di vestiti economici prendono il posto di centri commerciali e boutique. I monumenti importanti sono spariti e al posto dei grandi parchi si vedono aiuole spennacchiate. Siamo ormai verso la fine, ma prima di arrivare al Santuario di Guadalupe, basta fare una svolta a sinistra e percorrere qualche centinaio di metri per trovarsi nella Piazza delle Tre Culture, luogo ricco di storia triste, antica e moderna. Questo, dove sorgeva la città preispanica di Tlatelolco, è stato l’ultimo baluardo contro l’invasione spagnola guidata da Hernán Cortés, e dopo una strage senza né vincitori né vinti, viene ricordato come il posto dove è nato il popolo messicano di oggi. Sul grande spiazzo pedonale da dove si possono ammirare le rovine e dove i ragazzi fanno skate si trova anche la grande stele che ricorda la strage degli studenti universitari del . Più di trecento giovani uccisi da un tiro a segno dell’esercito, mentre manifestavano contro il governo. Tornando indietro sul Paseo, si affaccia in fondo la piccola collina con in cima la chiesa di Guadalupe, il santuario del pellegrinaggio, dove si portano voti e si chiedono miracoli: la fine di questo piccolo viaggio nell’arteria più importante di Città del Messico, la strada della nostalgia, la strada che ti fa accarezzare la storia messicana moderna e antica. Informazioni Su www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica


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TEMPO LIBERO

Omar Khayyâm: il poeta del vino e delle rose Vino nella storia ◆ Dall’Iran, le trasognate quartine di un erudito che godeva di grande stima presso i sapienti e i potenti del suo tempo

Davide Comoli

Omar Khayyâm è uno dei massimi e più celebri uomini di cultura dell’Iran. Non sappiamo quasi nulla della sua nascita, eccetto che avvenne in uno degli anni della prima metà del V secolo dell’Egira (migrazione), nel  d.C. circa. Anche della sua vita abbiamo notizie molto scarse e, per quel poco che sappiamo, sono frutto di aneddoti e antichi riferimenti alla sua opera o alla sua persona. L’immagine che ci è pervenuta mostra un uomo molto saggio e attento a tutto ciò che lo circonda. Senz’altro Omar Khayyâm fu un uomo molto erudito che godeva di grande stima e privilegio presso i sapienti e i potenti del suo tempo: oltre a sapersi districare in matematica (sua l’introduzione all’algebra), fisica, astronomia (fece parte della commissione incaricata di riformare il calendario secondo calcoli astronomici), filosofia e medicina (seguendo Avicenna), fu anche un poeta, e a noi piace pensare a lui come un umanista in anticipo di qualche secolo sull’Umanesimo. Impossibile non provare ammirazione e rispetto per un tal personaggio che, pur apparendo quantomeno controverso, per alcuni fu ateo, scettico, propenso alla bestemmia; per altri invece (tra cui noi), fu un filosofo e autore di versi intrisi di filosofia epicurea, i quali ripetono spesso un vecchio refrain, già espresso da molti prima di lui: «Bevi e sii felice». Attenzione però a non dedurre dalle Quartine che Omar Khayyâm fosse un uomo dissoluto, noncurante, fu invece solo un grande estimatore e bevitore di vino. Nel linguaggio dei poeti, il vino assume spesso il significato di mezzo per arrivare alla felicità e tranquillità della mente. «Sappi che l’attimo è una bottiglia» recita il poeta, e invitava ad afferrarlo questo attimo «Carpe diem!», Orazio, più di dieci secoli prima.

È solo grazie al letterato inglese Edward Fitzgerald (-), affascinato dai bei versi, se l’opera di Khayyâm divenne nota: egli, infatti, nel  li traspose nella propria lingua e fu subito un successo. Evidentemente il pensiero di Khayyâm interessa ancora molta gente visto che le sue Quartine sono tradotte nei quattro angoli del mondo. Forse anche personaggi come Baudelaire e Neruda si ispirarono a lui. Nato e vissuto in area musulmana e in modo inequivocabile di cultura islamica, in un periodo in cui in Europa l’imperatore Enrico IV e il pontefice Gregorio VII, dentro le mura del castello di Matilde di Canossa, si scontravano su chi avesse il diritto di nominare i vescovi, Omar Khayyâm è per noi «enofili» un vero «Maestro». La poesia che ci è giunta dall’antica Persia – vedi Abu Nawàs (- d.C.), Hafez (-) – è intrisa di suoni e colori tipici del mondo orientale, del profumo delicato dei fiori, dei colori delle pietre preziose e degli accordi del liuto pizzicato da giovani fanciulle. Ma tra questi poetici arabeschi, il vino occupa una posizione di rilievo e Omar Khayyâm ne è un fine estimatore: «Rosa rossa è il vino, la coppa è d’acqua di rosa. Nel fior di cristallo riposa un rubino vergine. Nell’acqua della vite, sfolgora un rubino fuso». Nelle sue quartine ritroviamo molta saggezza, come quella che contiene un impensato invito alla moderazione nel bere: «Se bevi vino, bevilo insieme ai sapienti. O insieme a una bella fanciulla dal volto di tulipano; non prenderne molto, né di frequente, né in pubblico. Ma poco, ogni tanto e in segreto». Ma molto probabilmente, come capita a tutti noi, si tratta della debolezza di un attimo, dettato chissà da che cosa, perché subito dopo aggiunge: «O Khayyâm, sei ebbro di vino, sta lieto. Se te la spassi con belle dal volto di luna, sta lieto.

Omar Khayyâm. (Halloween HJB)

Poi che ogni cosa del mondo nel nulla finisce, pensa che tu sei nulla, ma già che ci sei, sta lieto». Cari lettori che ci seguite, vi dobbiamo confessare che un piccolo volume delle opere di Khayyâm è sempre inserito nella nostra borsa da viaggio insieme alle cose necessarie (medicamenti e igiene personale), i temi trattati, che vanno dal trascorrere del tempo, ai piaceri, alle tristezze, il senso della vita e della morte, grazie al vino (per cui Khayyâm fu accusato di empietà) come simbolo vengono legati tra loro da un filo doppio. Spesso la lettura di queste quartine ci ha fatto compagnia, donandoci momenti di serenità, aiutandoci a godere della vita con un po’ più di filosofia e distensione. La lettura delle quartine possiede uno stile e un’eleganza trascinan-

ti: il poeta non adorna i suoi scritti e non ostenta la sua arte, sa di essere ironico, senza mai essere canzonatorio, non è mai ostile al prossimo e con parole dense di riflessione, offre consigli e ammonimenti. Qualche volta Khayyâm avverte l’opportunità di fornire un ragionevole motivo per la sua grande passione per il vino: «Se io bevo vino non è per un mio piacere personale e non è per sregolatezza o sprezzo della religione o della morale. No. È solo per respirare una boccata d’aria fuori da me stesso». Sappiamo dagli aneddoti che Khayyâm rifiutò spesso alte cariche che gli venivano offerte, preferendo una piccola indennità che gli consentisse di dedicarsi ai suoi studi: «Felice, in questo mondo colui che condur seppe libera vita. E sempre contento di quel che Dio donava, ebbe libera vita.

Da ogni momento dell’esser suo, seppe trarre allegria sana. E, amor puro e vino schietto, fare gaia e libera la vita». Altre volte, magari in momenti negativi, sfida il difficile terreno religioso, ponendo i suoi problemi direttamente al Creatore: «Tu sei il Creatore, e me così Tu creasti, così follemente amante del vino e delle belle canzoni! Poiché così mi formasti già fin da prima del Tempo, per qual mai ragione poi nell’Inferno mi getti?». Problemi che, tuttavia, grazie alla vicinanza di una fanciulla e un calice colmo di vino possono essere risolti: «Da una mano la coppa, e dall’altra le belle trecce. Seduti al bordo di un prato di buon paesaggio e gaiezza. E bere, bere, non pensando alla sfera ove girano i cosmi. E bere, bere da crollare, ebbri insieme del vin d’ebbrezza». In molti versi del Corano, il Paradiso viene presentato come il luogo dove si realizzano tutti i desideri, fiumi di latte, vino speziato, miele, giovani fanciulle di bellezza straordinaria, ma il poeta pur non negando tutto ciò… «Dicono: Domani avremo le Huri, il celeste Gange. Ruscelli di zucchero e latte, polle di miele e vino! Intanto, empi la coppa e dammi vino di quaggiù: un solo zecchino supera la beltà di mille promesse». Grazie alla nostra guida Mohamoud, nel maggio di qualche anno fa, giungemmo alle porte di Nishapur, nell’Iran nord-occidentale, dove con grande emozione abbiamo visitato il luogo dove Omar Khayyâm fu sepolto. Spirava un leggero vento che faceva cadere i fiori di pesco dai rami sopra il muro che circonda il giardino. In quell’oasi di pace, lo stormire delle foglie ci portò alla mente una delle quartine più famose: «Sotto un rosaio, accanto un idolo, a un ruscello col vino, gusterò la mia gioia, finché vorrà il Destino. Fin quando fui, sono e sarò, nel mesto mondo, bevvi, bevo e berrò».

Passeggiando tra i bucaneve Mondoverde

Che si incontrino in un bosco o sboccino nel nostro giardino, la sorpresa è sempre incantevole

Anita Negretti

Una passeggiata invernale nel bosco, specialmente in questi primi mesi dell’anno, può non solo rallegrarci, ma pure regalarci fioriture candide, che ci avvisano dell’imminente arrivo della sospirata primavera. Nel silenzio tutto attorno, tra i rami spogli e le poche sempreverdi che spiccano tra il gelo, sotto il manto di foglie in decomposizione o da sotto la neve che si sta sciogliendo, all’improvviso ecco spuntare dal terreno le sorprendenti fioriture dei bucaneve, Galanthus nivalis, una bulbosa perenne che incanta con i suoi petali luminosi. Europei e conosciuti fin dal medioevo, sono per queste ragioni simbolo di rinascita e di arrivo delle prime giornate tiepide. Nella tradizione cristiana viene anche chiamato «campana della candelora», poiché si addobbavano gli altari delle chiese con questi fiori il  febbraio, quaranta giorni dopo la natività, per la benedizione delle candele simbolo di luce. Ma è l’etimologia del nome greco a meglio descriverli: gala (latte), anthos (fiore) e nivalis (della neve).

Sono infatti color bianco puro i tre petali che lo caratterizzano, mentre gli altri tre petali più interni, lunghi la metà dei primi, sono sempre bianchi, ma striati di verde, formando la campanella che li contraddistingue. La pianta non supera i venti centimetri di altezza, comprese le belle foglie carnose che spuntano in folti ciuffi eretti a nastro color verde, intenso e il lungo stelo che porta il bocciolo fiorale e fuoriesce dal centro del cespo come un fusticino. Queste candide presenze aiutano anche chi cerca di creare un giardino spontaneo, il più simile possibile alla natura. In questo caso è necessario creare uno spazio tutto per loro. Come detto sbocciano fin da metà gennaio, prediligendo zone ombrose e fresche, caratteristica da prendere in considerazione se si desidera quindi piantumarli in giardino o in vasi grandi e capienti. I bulbi si trovano in vendita da settembre e vanno interrati in autunno, con terra universale, scavando buche profonde almeno il doppio del loro

Fiori di Galanthus nivalis «Flore Pleno». (Redsimon)

diametro. Le buche dovranno poi essere ricoperte con terreno ricco di humus, mentre per quel che riguarda le irrigazioni, normalmente sono sufficienti quelle naturali date dalle piogge e dall’eventuale neve, ma in caso di siccità come il periodo che stiamo vivendo, il terreno dovrà venir bagnato ogni - giorni, ma attenzione: sarà

importante evitare ristagni se coltivati in vaso. In natura i bucaneve si propagano spontaneamente mediante la moltiplicazione dei bulbi, quindi, se decidete di piantarli sotto la chioma di una caducifoglia, per garantirgli ombra estiva e sole invernale, tenete conto del fatto che in qualche anno avrete un’aiuola invernale colma di fiori di bucaneve, grazie appunto alla facilità con cui producono bulbilli, i quali stagione dopo stagione andranno a ingrossarsi producendo nuovi fiori. Se l’idea vi piace, allora vi consiglio di mescolare specie e varietà, così da arricchire la vostra collezione: oltre a Galanthus nivalis, originario dell’Europa, vi è G. plicatus, d’origine invece turca; fu portato dai soldati britannici in Inghilterra alla fine della guerra di Crimea. Più alto, raggiunge i  cm, con foglie e fiori vistosi, ben si abbina a G. elwesii, una specie bulgara caratterizzata da evidenti e marcate pennellate verdi sui petali interni. Oppure ancora «Atkinsii» che pure si distingue per via dell’altezza,

solitamente di - cm, mentre lui è in grado di arrivare ai - cm. Si trovano inoltre in vendita delle cultivars create dall’uomo ibridando i G. nivalis e ottenendo colorazioni veramente allettanti, come «Lady Elphinstone» con sfumature giallo albicocca e «Lutescens» giallo oro, anche se il mio preferito rimane sempre Galanthus nivalis «Flore Pleno»: che, come suggerisce il nome, ha fiori composti da molti tepali interni ed è il più colorato tra tutti, venati di verde smeraldo, con il passare degli anni i suoi fiori diventano sempre più numerosi e grandi. A chi ama variare, nella creazione di un’aiuola ricca di fioriture invernali o anche un semplice vaso da esterni da tenere all’ingresso per tutto l’inverno, consiglio di abbinare i bucaneve con qualche bell’esemplare di elleboro e di mischiare le macchie di Galanthus con altre formate da bulbi di Leucojom vernum, molto simili tra di loro, ma con petali a campanella che finiscono con una macchiolina giallo sole.


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TEMPO LIBERO

Le maschere degli animali Crea con noi

Travestirsi per i bambini è un gran divertimento e a Carnevale diamo via libera alla fantasia!

Giovanna Grimaldi Leoni

Anche quest’anno il Carnevale verrà festeggiato un po’ meno nelle piazze del nostro cantone, ma travestirsi per i più piccoli (e non solo!) resta sempre un gran divertimento. Allora perché non proporre loro di creare queste mascherine degli animali, con parti in gomma con effetto D e un tocco di lana cardata? Sarà divertente vedere, sotto la

Ritagliate anche tutti i dettagli dei musi e riportateli con una matita sulla gomma crepla seguendo i colori e i quantitativi indicati. Ora accendete il ferro da stiro e regolate il calore su un valore medio-alto. Ponete i pezzi di gomma crepla (pochi pezzi alla volta) sulla placca del ferro e attendete che questi prendano forma. Vedrete la gomma dilatarsi prima in un senso e poi nell’altro fino a prendere una forma D definitiva. Fate scivolare le parti dal ferro da stiro e attendete che si raffreddino. Incollate con la colla a caldo tutte le parti sulle rispettive maschere facendo ben attenzione a non scottarvi con i pezzi più piccoli. Ora potete aggiungere a piacere della lana cardata. Potete passare il bastoncino di colla sulle parti interessate e quindi andare a posizionare un leggero strato di lana per avere un effetto ancora più tridimensionale. Ora non vi resta che fare due fori sui lati della maschera (utilizzando per esempio una pinza Prym) e infilare l’elastico che vi permetterà di indossare i vostri musetti di animale. A piacere rifinite le maschere con il pennarello nero. Ora non vi resta che indossarle, e buon divertimento!

supervisione di un adulto, come la gomma si modella con il calore e ancora di più indossarle. Procedimento Stampate i cartamodelli (che trovate sul sito www.azione.ch) e riportateli sul cartone. Ritagliateli. Con le tempere e un pennello piatto dipingete la base delle maschere.

Qual è il nome del volatile nella foto? Sai di che colore sono le uova che depone la femmina? Potrai rispondere alle domande leggendo, a cruciverba risolto, le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 9 - 8)

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VERTICALI 1. Un rettile con gli occhiali 2. Rischiare 3. Si assicurano alla giustizia 4. Le iniziali dell’attore Abatantuono 5. Infossatura del polmone

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21. Competizione 23. Le iniziali del regista Scola 24. Verde nell’adolescente 25. Avverbio di tempo 26. Dieci in un chilo 28. Moneta d’oro fiorentina

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6. Aggregato naturale di minerali 7. Antica misura per liquidi 8. Un consenso di malavoglia 9. Gemelle nella danza 11. Piccola costellazione australe 13. Un colore 15. Articolo 17. Sbalordito, attonito 19. Riconoscente 20. Un anagramma di Noè 22. Miscredenti 25. Opposti al 22 verticale 27. Un terzo di trenta

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ORIZZONTALI 1. Formata da trefoli 5. Piena di collera 10. Profeta dell’Antico Testamento 11. Fama e onore universali 12. Cavalli dal pelo rossiccio 13. Vaso di terracotta 14. Le iniziali del regista Rossellini 15. Moneta rumena 16. 101 romani 18. Scompaiono tra le nuvole 19. Profeta biblico inghiottito da un pesce

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Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku 5

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• Cartone di riciclo (per es. confezioni della pasta) • Tempere o acrilici color marrone, arancione e nero • Pennelli • Pennarello nero • Una confezione di lana della Verzasca • Resti di gomme crepla beige, nera, bianca, rosa • Matita, forbici • Colla a caldo, bastoncino di colla • Elastico nero largo 1cm (25cm ca. per maschera)

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Giochi e passatempi Cruciverba

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Soluzione della settimana precedente UNA CURIOSA PATOLOGIA – La sindrome di Cotard è una patologia per la quale... Resto della frase: …SI HA LA CONVINZIONE DI ESSERE MORTI.

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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TEMPO LIBERO / RUBRICHE ●

Viaggiatori d’Occidente

di Claudio Visentin

Sono solo un miliardo di recensioni ◆

Anche Tripadvisor si risveglia da un sonno popolato da incubi (nel  ha dovuto ridurre del % il numero dei suoi dipendenti). Quando l’azienda fu fondata,  anni fa, aggregava informazioni prese dalle guide turistiche. A quel tempo scrivere la recensione di un albergo o di un ristorante era solo una possibilità tra le tante, ma il pubblico rispose con tale entusiasmo da renderla il tratto distintivo della società. Tanti aspiranti recensori trovarono presto i loro lettori: nel   milioni di persone ogni mese consultavano il sito per decidere il proprio itinerario. Col tempo Tripadvisor ha accumulato un miliardo di recensioni. La cifra tonda è stata l’occasione per festeggiare e per condividere alcuni dati curiosi. L’albergo più recensito al mondo? È il Luxor Hotel & Casino di Las Vegas, con quasi cinquantamila recensioni. Tra i ristoranti pre-

vale Pasteis de Belem, a Lisbona. Si resta nella penisola iberica con l’attrazione più recensita di sempre, la Sagrada Familia di Barcellona (’ giudizi). La recensione più lunga? Un turista ha scritto ’ parole (praticamente un libro di viaggio) per raccontare il suo soggiorno all’Hotel Playa Pesquero Resort di Cuba. In compenso un fotografo romano, Paolo Riccardo Carrara, ha caricato da solo oltre trecentomila foto. E un turista del Lussemburgo ha scritto mila recensioni dal  a oggi (d’altronde il granducato non è famoso per la sua vita sociale…). La più lunga discussione aperta risale al  e cerca di rispondere alla fondamentale domanda: «Quanti giorni ti mancano per andare a Maui?» (un’isola delle Hawaii).  persone si sono sentite obbligate a dire la loro. E poi c’è anche chi, davanti alle me-

raviglie del mondo, storce il naso. L’Empire State Building, il grattacielo simbolo di New York? «È troppo alto», ha commentato un giovane visitatore. Una coppia di canadesi ha osservato che il Golden Gate Bridge di San Francisco «non è affatto dorato, bensì marrone». Di fronte a Stonehenge, porta per discendere nell’abisso del tempo, Alana annota con uno sbadiglio: «Non capirò mai perché la gente viene da tutto il mondo per ammirare un mucchio di pietre». David non nasconde la sua delusione quando visita il Grand Canyon in Arizona: «Alla fine è solo un fosso sabbioso». Potete continuare il gioco da soli; basta guardare i commenti con una sola stella (su cinque) di qualunque attrazione, anche ticinese. Tripadvisor incarna perfettamente il nuovo paradigma del turismo digitale. Secondo una recente ricer-

ca di Plum Guide (su un campione di quattromila turisti, metà inglesi, metà americani), il % degli intervistati considera le recensioni «importanti o essenziali» nella preparazione di un viaggio. In media gli inglesi ne leggono  prima di prenotare e il % ritiene che siano accurate. Salvo poi pentirsene a quanto pare, dal momento che sette persone su dieci si sono trovate a disagio a causa di una fiducia mal riposta nell’opinione altrui e il % è stato apertamente deluso da una vacanza per la stessa ragione. Del resto è noto che molte recensioni online sono false, comprate o scritte per vendetta, certo accanto ad altre pratiche e utili (ma non sempre è facile distinguere). Per questo nella sua storia Tripadvisor ha dovuto affrontare numerose controversie, con esito alterno. Per fare solo un esempio, nel  l’ente regolatore della pubblicità in

Gran Bretagna ha ordinato di rimuovere dal sito inglese lo slogan «recensioni delle quali ti puoi fidare» («reviews you can trust»), ritenendo che l’affermazione non avesse sufficiente fondamento. Ma non servono ricerche o sentenze di tribunali per una verità tanto ovvia. Basta il buon senso per capire che è assurdo prendere troppo sul serio l’opinione di perfetti sconosciuti. L’idea geniale di Plum Guide è stata poi lanciare una campagna di comunicazione con l’hashtag #donottrustreviews. Le recensioni più stravaganti sono state proiettate sulle attrazioni alle quali si riferivano, con un meraviglioso effetto comico: National Gallery di Londra («Più noia che talento»), Guggenheim di New York («Questo è di gran lunga il peggior museo tra i molti che ho visitato»), il ponte di Brooklyn («Alla fine è solo un ponte»).

Passeggiate svizzere

di Oliver Scharpf

Le vetrate di Manessier a Friburgo ◆

Nella penombra della cappella del Santo Sepolcro, un primo pomeriggio verso la metà di febbraio, sono rapito dalle varie tonalità di blu ondeggiante delle vetrate di Manessier. Alfred Manessier (-), nato a Saint-Ouen, paesino della Somme a una ventina di chilometri da Amiens, è il primo artista a realizzare, tra il  e il , delle vetrate astratte in un monumento storico: la sperduta chiesetta seicentesca di Les Bréseux, nel dipartimento del Doubs, non lontana dal confine con il canton Giura. Questo capolavoro per la cattedrale di Friburgo, incastonato tra gli archi gotici in molassa grigiastra-verdina, è ammirabile dal maggio . Immerge, al contempo, da lì via, in questa luce rivelatoria, la Deposizione di Gesù con dodici personaggi attorno – ritenuto il gruppo scultoreo medievale più importante della Svizzera – scolpiti nella mo-

lassa, a grandezza naturale, nel . Manessier esprime «questa immensa notte, così carica di disperazione e allo stesso tempo di speranza» come disse lui stesso all’epoca, nella meravigliosa vetrata vicina in cui ombreggiano i motivi trilobati dei trafori. In basso si coglie un flebile orizzonte di rosso crepuscolare. Altre schegge speranzose sono seminate qua e là, scaglie d’azzurro, alcune giallo oro come foglioline in aria. Preferisco però, per ora, rituffarmi nel blu saturo, vagare negli sprazzi fiordaliso perdendomi poi nella notte malva dove il mio spirito riposa più a lungo. Ma è nella vetrata più piccola, a fianco, che trovo lo spazio pasquale. Il nomadismo dello sguardo diventa quasi stanziale, si posa e si fonde con la luminosità più azzurrina e turchese, cadenzata dai garbugli del piombo. Una trama di particelle come mare leggermen-

te mosso. Il ruolo del mastro vetraio, in questa distesa acquea di luce colorata, non è secondario: Michel Eltschinger, classe , nel suo atelier di Villars-sur-Glâne, a tre chilometri circa da qui, ha tradotto magistralmente le tonalità e i movimenti dipinti da Manessier. A malincuore parto per esplorare le altre due tappe del tour Manessier: la prima risale al -, le vetrate delle finestre in alto della navata. Contrappunto alle vetrate art nouveau spettacolari – meriterebbero un pezzo a sé – di Józef Mehoffer: giovane e allora sconosciuto artista polacco che qui, tra il  e il , compie l’opera della vita. Non per niente, la visione tra Manessier e Mehoffer, ha spinto il critico d’arte francese Jacques Thuillier a dire che «Friburgo possiede senza dubbio il più bell’insieme al mondo di vetrate del ventesimo secolo». Su in alto, quasi imprendi-

bili allo sguardo se non sai della loro esistenza, le dieci vetrate del claristero, con estrema delicatezza, entrano in simbiosi con l’esuberanza di quelle giù in basso di Mehoffer che prendono, a una prima occhiata, tutta la scena. A tratti, in particolar modo le vetrate in fondo al coro, mi ricordano addirittura la fantasiosa sacralità delle decorazioni dei camion induisti. Perciò, a differenza della cappella del Santo Sepolcro, camminando lungo la navata non è così facile concentrarsi, astraendosi dai colori fiammeggianti delle vetrate art nouveau per guardare bene su in alto. Ma alla fine conta solo ciò che ami e ritrovo, passo dopo passo, la passione per l’astrazionismo lirico di Manessier che lassù, per chiarezza dei toni, mostra meglio la trama. Il groviglio graziosissimo di piombo si assapora, nonostante il torcicollo, tra celesti chiari. Più in alto, verso l’arco, tra il tragit-

to di molassa a forma di tre teste di suora, i due trilobi e il quadrilobo in cima, incominciano altri colori più radiosi. Un soffio di festa mobile, petali pervinca piovono dal cielo, il tema è del resto quello della Pentecoste. Il tema del rosone, visibile da un bolla di vetro sul soffitto, all’entrata, è invece il Magnificat, terza tappa, . Magnifico anche il rosone, certo, l’arcobaleno sposa il gotico raggiante, eppure devo tornare in quella bluescenza sacrale. Ripassare sotto l’arco basso a parentesi graffa orizzontale, dentro un angolo a parte da tutta la cattedrale Saint-Nicolas, buttarmi dentro ancora in quelle tonalità di blu ondulatorio, stordirmi tra il blu elettrico e il malva luminescente. Immagino, così, dopo un’ora di cattedrale, la baia della Somme che ha bagnato di luce, dandogli la visione per tutta una vita, gli occhi del piccolo Manessier.

Sport in Azione

di Giancarlo Dionisio

Sul filo delle emozioni con Beat e Lara ◆

Ieri eravamo pronti a gridare allo scandalo, a inveire contro il CIO (Comitato internazionale olimpico, ndr) per aver accettato che i Giochi si celebrassero in un paese in cui i cadaveri si contano a migliaia. Oggi ci ritroviamo fragilizzati al punto da rimanere invischiati nella melassa olimpica. Basta poco per farci dimenticare incongruenze, ingiustizie sociali, scandali politici e umani, e sprofondare nei nostri divani, per seguire col cuore e con la pelle, più ancora che con la testa, le gesta dei nostri eroi. Che li si consideri eroi, campioni, leggende viventi o ambasciatori, gli sportivi hanno la straordinaria facoltà di rapirci e di trasportarci in un’altra dimensione. Quasi mistica. Per una medaglia. Per inneggiare al nostro paese. Per vedere la nostra bandiera sventolare nei cieli della Cina. Per godere della riconfermata superiorità della nostra scuola in una

determinata disciplina sportiva. Per liberarci dagli ingranaggi tentacolari della quotidianità. Per sentirci parte di un rito. Per tutto ciò siamo disposti ad alzarci prima dell’alba, oppure a spararci un filmone che ci traghetti fino alle due e mezza di mattina quando giungono le prime immagini olimpiche da Pechino. I sacrifici umani, gli sfratti in massa, la tragedia della minoranza uigura, sono rimasti a letto. Se non addirittura fuori dalla porta di casa. Nelle nostre menti ci sono solo loro, i nostri eroi: Beat, Lara, e tutti coloro che ci hanno fatto e ci faranno vibrare. Penso spesso a una frase pronunciata da Adriano Panatta mentre andava in scena in mondovisione la partita tra Novak Djokovic e il Governo australiano: «Questi sono, e io lo ero, dei ragazzini in mutande che giocano con le pallette, e pensano di essere più importanti di Gino Strada! Non pren-

diamoci troppo sul serio, altrimenti diventiamo ridicoli». Da un lato, come non dargli torno. Che calcino palloni, che corrano in sella a una bicicletta, o che scendano come schegge su una pista innevata, sono ragazzi e ragazze che giocano e che inseguono i loro sogni. Dall’altro queste persone ci regalano gioia, emozioni, senso di appartenenza e di coesione nazionale. Ecco quindi che un fenomeno come Beat Feuz diventa uno di noi: amico, fratello, figlio. È un campione di coraggio e di tenacia. Un ragazzo capace di lottare per risorgere da una condizione fisica che avrebbe persino potuto impedirgli di camminare. Il discesista bernese è un fenomeno di modestia e di semplicità. Tutti, o quasi, in Svizzera – e anche al di fuori dei confini nazionali – siamo felici che abbia chiuso il cerchio portando nella sua bacheca anche l’Oro olimpico.

Siamo persino disposti a perdonargli il fatto che non abbia neppure accennato mezza strofa del Salmo svizzero, mentre la nostra bandiera saliva sul pennone più alto. In fondo è un ragazzo dell’Emmental. La svizzeritudine ce l’ha tatuata nel DNA. Non ha nulla da dimostrare. Così come nulla deve dimostrare Lara Gut-Behrami. Con quello che ha vinto potrebbe permettersi di vivere il viaggio in Cina come una sorta di premio alla carriera per tutto ciò che ha saputo farci vivere. Invece no. Lara lotta. Combatte. Vuole un’ulteriore ricompensa. Debutta ai Giochi con una prima manche del gigante che la colloca lontana dal podio. Ottava, ma con un secondo abbondante dal terzo posto. Nella seconda prova parte con l’intenzione di incendiare l’universo. Il fuoco sacro trapela da ogni poro della sua pelle. Travalica la fibra del-

la sua nuova tuta e giunge fino a noi che oramai siamo in punta di divano. Pianta un’involontaria frenata dalle parti del primo intermedio. In un paio di altri passaggi sembra al limite. Alla fine la luce verde la pone in testa alla classifica. Dopo il passaggio delle sette ragazze che l’avevano preceduta nella prima manche, si ritrova sul terzo gradino del podio, con il bronzo al collo. Potrebbe recriminare. Pensare di aver gettato l’oro. Probabilmente quel giorno la più forte era lei. Invece no. Stende tutti con un sorriso che lascia trasparire la sua felicità più profonda. E come per miracolo, anche per chi in passato l’aveva criticata per alcuni suoi comportamenti bizzosi, Lara torna a essere a pieno titolo una di noi, tanto che poi ci ha premiati con uno strepitoso oro nel Super G, ma di questo e di altro riparleremo fra due settimane.


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Anno LXXXV 14 febbraio 2022

ATTUALITÀ

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Le Olimpiadi viste da Pechino Con i suoi Giochi invernali la Cina si è proposta come il centro di un universo alternativo

L’efficacia dell’embargo Una serie di documenti getta luci e ombre sulle sanzioni economiche a Cuba in vigore da 60 anni

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Una malattia misteriosa Si continua a indagare sulla Sindrome dell’Avana che colpisce funzionari statunitensi all’estero

60 anni di aiuti allo sviluppo La DSC ha investito 24 miliardi in aiuti bilaterali; non sempre è facile misurarne impatto ed efficacia

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Gli interessi in gioco nella partita ucraina L’analisi

Tutte le parti in causa stanno mettendo le loro carte in tavola per convincere l’avversario ad accettare un negoziato

Anna Zafesova

La lunga pausa che Vladimir Putin si è preso prima di formulare la sua risposta alla proposta di aprire con l’Occidente un negoziato sulla sicurezza, è stata riempita da un’attività diplomatica di un’intensità senza precedenti, su più fronti. Nella partita tra il Cremlino, la Casa bianca e la Nato sono apparsi nuovi attori – a est e a ovest – moltiplicando ogni giorno gli interessi e le poste in gioco. Da Occidente, il negoziato sull’escalation intorno ai confini dell’Ucraina ha visto l’ingresso dell’Europa, esclusa per volontà dello stesso leader russo, che però non nasconde la sua soddisfazione per essere diventato, dopo anni di isolamento internazionale, un interlocutore ricercato da tutti. Il primo a godere dell’ospitalità del Cremlino è stato Emmanuel Macron (nella foto a destra), che ha negoziato con Putin anche in veste di presidente di turno dell’Ue, seguito dal neo cancelliere tedesco Olaf Scholz. Entrambi hanno visitato sia Mosca che Kiev, in rigorosa par condicio diplomatica. Altri leader hanno preferito recarsi per ora soltanto nella capitale ucraina, come il premier olandese Mark Rutte e soprattutto il primo ministro britannico Boris Johnson che – grazie anche alla maggiore libertà di manovra diplomatica dovuta alla Brexit – ha portato al presidente Volodymyr Zelensky due promesse importanti: quella di un’alleanza trilaterale tra

Regno Unito, Polonia e Ucraina, anche a scopi difensivi, e quella di pesantissime sanzioni contro gli oligarchi russi che hanno scelto Londra come destinazione per le loro famiglie e i loro capitali. Mentre il Governo ucraino continua a smorzare i toni riguardo a un imminente attacco militare dei russi – anche la Casa bianca ha eliminato dal suo vocabolario il termine «imminente» dopo un’esplicita richiesta di Zelensky, alle prese con il panico di una parte della popolazione e la fuga degli investitori – intorno a Kiev si stanno creando molteplici alleanze a geometria variabile, che si sovrappongono solo parzialmente alla Nato e alla Ue. Un altro alleato importante è arrivato da Ankara: ai droni turchi già impiegati dall’esercito ucraino in Donbass, Recep Tayyip Erdogan ha aggiunto un importante accordo commerciale, e nei progetti c’è anche un dossier di difesa bilaterale. Nella partita ucraina il presidente turco ha sempre giocato dalla parte di Kiev, anche perché la Crimea annessa dai russi nel  è abitata dalla minoranza turcofona dei tartari, che denunciano la repressione delle autorità russe nei loro confronti. Però strizza l’occhio anche a Mosca, con la quale combatte su una serie di scacchieri come la Siria, e condivide anche un certo astio verso l’Occidente, proponendosi come mediatore di un vertice tra Zelensky e Putin in territorio

turco, invito già accettato dal leader ucraino. L’impressione è che tutte le parti stiano mettendo le loro carte in tavola per convincere l’avversario ad accettare un negoziato. I rischi per Putin sono stati messi molto in chiaro, tra sanzioni internazionali e costi militari. Mentre a Kiev continuano ad atterrare aerei carichi di armi e aiuti militari (in quantità molto esigue rispetto alle esigenze di un’ipotetica guerra, ma l’importante è il segnale) dagli Usa, Regno Unito, Canada e dai Paesi dell’Europa dell’est e del nord, e assistenza economica da Bruxelles e Parigi, il Pentagono ha stimato il costo di un’eventuale invasione russa in - mila vittime civili e in un’ondata di profughi che non si era vista in Europa dopo il .

Il Pentagono ha stimato il costo di un’eventuale invasione russa in 25-50 mila vittime e in un’ondata di profughi che non si era vista in Europa dopo il 1945 Quest’ultima dichiarazione potrebbe essere anche funzionale a spronare alcuni alleati europei reticenti, in particolare la Germania, che si è rifiutata di inviare aiuti militari all’Ucraina e ha bloccato la fornitura di armi di produzione tedesca attraverso Paesi terzi. Prima di partire per Mosca Scholz però è andato a Washin-

gton, dove Joe Biden ha promesso di bloccare, in caso di guerra, il gasdotto North Stream . Il cancelliere tedesco, al suo fianco, non ha obiettato, facendo pensare che la resistenza di una parte del mondo politico e imprenditoriale tedesco, spaventato per la dipendenza dal gas russo, è stata vinta dalla promessa di Biden di ottenere per l’Europa fonti di approvvigionamento alternative. Sul fronte opposto, Putin è riuscito a incassare l’appoggio di Xi Jinping. Il leader russo è volato all’apertura delle Olimpiadi di Pechino, occasione per una dichiarazione congiunta che chiede di fermare l’allargamento della Nato a est (Putin ha ricambiato promettendo di non riconoscere Taiwan). Dal testo del documento mancano però altri impegni decisivi: Xi non menziona la Crimea, che non ha mai riconosciuto come russa, e Putin non promette di non fornire più a Vietnam e India armi che hanno una chiara funzione anticinese. Il contratto sulle forniture di gas a Pechino non raggiunge nemmeno lontanamente i prezzi praticati da Gazprom in Europa, e sembra che Xi non abbia nessuna intenzione di litigare con l’Occidente per le pretese postimperiali russe, anche se non perde l’occasione di mostrare a Biden la prospettiva di un fronte antiamericano russo-cinese. Gli occidentali hanno deciso di prendere le minacce della propaganda russa fin troppo sul

serio, offrendo la scelta tra un bastone di sanzioni e aiuti che di fatto trasformerebbero un’eventuale guerra della Russia con l’Ucraina in uno scontro per procura con l’Occidente, e la carota di un negoziato sulla sicurezza «senza precondizioni né limiti di tempo», come promette il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, se il Cremlino lascia cadere il suo ultimatum sull’Ucraina. Una proposta alla quale forse Putin non era pronto, almeno a giudicare dalla sua conferenza stampa con Macron, durante la quale ha ripetuto le stesse lamentele e minacce che fanno parte del suo repertorio dal . L’effetto sorpresa per una ipotetica offensiva è stato rovinato, gli occhi di tutto il mondo sono puntati sulle  mila truppe russe ammassate al confine con l’Ucraina, a est nel Donbass, a sud in Crimea e a nord, in Bielorussia, dove sono in corso le più massicce manovre che la regione ha visto dopo la Guerra fredda. Il crollo del rublo e della Borsa di Mosca rende ancora più chiari i rischi di una guerra impossibile. Il problema, per Putin, resta quello di non potersi mostrare arrendevole e uno degli obiettivi principali di questa diplomazia intensa e corale consiste proprio nel trovare una chiave per non fare apparire la de-escalation ai confini ucraini – condizione sine qua non di Washington, Bruxelles, Parigi, Berlino e Kiev – come una sconfitta.


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ATTUALITÀ

Un mondo alla rovescia Olimpiadi

Pechino approfitta dei Giochi per affermare la sua superiorità sull’Occidente, anche sul fronte ideologico

Con le sue Olimpiadi invernali la Cina si è proposta come il centro di un universo alternativo. È un mondo rovesciato rispetto alle rappresentazioni occidentali. Cominciando dallo sport. Lo scandalo dell’aggressione sessuale alla tennista Peng Shuai da parte di un ex vicepremier – che ebbe una visibilità brevissima sui social media cinesi – è stato cancellato dalla stessa protagonista che si è presentata ai capi del comitato olimpico per fare una penosa retromarcia: quello scandalo non è mai esistito. Per l’opinione pubblica cinese l’attenzione si era già spostata da tempo su una nuova eroina nazionale, la sciatrice adolescente Eileen Gu. Il fascino della sua storia è questo: Gu, diciottenne, è nata a San Francisco ed è sulle montagne tra la California e il Nevada che ha iniziato la sua splendida carriera nella specialità del trampolino acrobatico o freestyle. Di recente però ha scelto di competere per la Nazione di sua madre, che è cinese. Il suo «patriottismo Han» riempie di orgoglio i connazionali. È il simbolo di una diaspora cinese che sente di appartenere alla superpotenza in ascesa.

Vladimir Putin quasi sicuramente rispetterà la tregua olimpica, astenendosi da mosse militari in Ucraina almeno fino alla fine dei Giochi Sul fronte geopolitico, Vladimir Putin è andato a Pechino per omaggiare Xi Jinping (nella foto insieme alla moglie), che lo ha trattato come l’ospite d’onore. Questo significa che il leader russo quasi sicuramente rispetterà la tregua olimpica, astenendosi da mosse militari in Ucraina almeno fino alla fine di questi Giochi. Se l’Europa e gli Usa possono guadagnare tempo, lo si deve al calendario cinese. Anche questo viene presentato come un segnale simbolico che il centro del mondo si sta spostando. La Russia non ebbe altrettanti riguardi nel  quando «sporcò» l’inaugurazione delle Olimpiadi estive di Pechino con il conflitto in Georgia. Una volta che la tregua olimpica sarà conclusa, Putin sa che a fronte di eventuali sanzioni occidentali avrebbe un rifugio. Cina e Russia stanno costruendo un sistema finanziario alternativo a quello imperniato

sul dollaro. L’uso del renminbi cinese continua a crescere, nelle transazioni commerciali con tutti i partner della Repubblica popolare. Altri Paesi, dall’Iran al Venezuela, hanno già dimostrato di poter attutire l’impatto delle sanzioni americane spostandosi verso il nuovo mondo che ha il suo centro a Pechino. La diplomazia cinese appoggia le rivendicazioni russe. Xi si allinea con Putin nel richiedere che la Nato rinunci a ogni futura espansione. Le due potenze hanno appena condotto manovre navali congiunte al largo del Giappone, un alleato americano. I sorvoli di cacciabombardieri cinesi sui cieli di Taiwan sono sempre più numerosi: l’Ucraina diventa un test per la futura annessione dell’isola alla Cina. Qualunque sia la tabella di marcia di Xi per estendere la sfera d’influenza cinese, ogni crisi che assorbe energie americane e distoglie l’attenzione di Washington da lui è benvenuta. Xi ha approfittato dei Giochi per un discorso ideologico di alto profilo. Ha affermato che la vera democrazia è la sua, non la nostra. Ha coniato un nuovo slogan per descrivere il suo sistema politico: «Democrazia dal processo integrale, olistico». Sostiene cioè che la Repubblica popolare ha una democrazia partecipativa, mentre l’Occidente è fissato sul ciclo elettorale come se contasse solo quello. Xi confronta i due mondi sulla base della «performance», del risultato, che conta più del «processo» cioè del meccanismo elettorale. Per lui è evidente che la Cina è governata molto meglio, con effetti visibili sul benessere della popolazione, mentre l’America e l’Europa si avvitano in un caotico declino. Ora vuole portarci via anche l’ultima bandiera, il termine «democrazia». Non che corresse grandi rischi di vedersi guastare i Giochi dalle campagne sui diritti umani. Qualche Ong occidentale ha tentato invano di richiamare l’attenzione sugli abusi subiti dalle minoranze nello Xinjiang (uiguri musulmani) o nel Tibet, oppure sulla distruzione dello stato di diritto a Hong Kong. Sono voci nel deserto. Nessuno dei grandi sponsor occidentali ha ritirato il proprio marchio da questi Giochi. Ma la battaglia per «azzerare il Covid» nasconde difficoltà reali per Xi, a cominciare dalla mediocre efficacia dei vaccini made in China, e dall’arretratezza del sistema sanita-

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Federico Rampini

rio, che non lasciano molte alternative al Paese: ogni focolaio di contagio, anche minuscolo, viene affrontato con restrizioni tremende. Per il secondo anno consecutivo una massa di migranti interni non ha potuto tornare nelle campagne a ricongiungersi con i familiari per le feste del Capodanno lunare. Questi controlli estremi in vigore da due anni offrono un effetto collaterale: il regime usa le app sanitarie per perfezionare il controllo digitale sulla popolazione e così intende «azzerare il dissenso». È sempre rischioso prendere per buona la facciata esterna dei regimi autoritari. Censura e propaganda cinesi hanno raggiunto un’efficienza tecnologica notevoli, e gli intralci al lavoro della stampa internazionale riducono le fuoriuscite delle cattive notizie. I problemi dell’economia cinese sono notevoli: non riesce a emanciparsi dalla sua dipendenza dai mercati esteri, i consumi interni soffrono per il Covid, il settore immobiliare sprofonda sotto una montagna di debiti. Il fatto che la Germania stia scivolando verso una recessione è in parte legato alla debolezza del merca-

to cinese. Ma durante i Giochi la narrazione dominante ha fatto dimenticare queste ombre. Dai Giochi estivi di Pechino nel  alle Olimpiadi invernali del : il confronto tra i due eventi a  anni di distanza rivela tutto ciò che è cambiato nel mondo. Quanto è diversa la Cina di oggi e la percezione che ne abbiamo noi. Quanto è più debole l’Occidente, che diffida di Xi Jinping ma si rivela incapace di ridurre la propria dipendenza dal made in China. Qualche coincidenza è emblematica. I Giochi del  si aprivano mentre l’America stava per sprofondare nella crisi dei mutui, un tornante decisivo del suo declino. Ai Giochi del , che seguii come corrispondente da Pechino, «scoprivamo» la nuova superpotenza in tutto il suo fulgore, e per rendersi bella la capitale aveva chiamato archistar internazionali a costruire edifici spettacolari. Il capitalismo occidentale era in piena luna di miele con la «fabbrica del pianeta», dove oltretutto riusciva a delocalizzare le produzioni più inquinanti. In particolare la simbiosi tra l’economia Usa e quella cinese

sembrava perfetta, una complementarietà armoniosa. Nell’establishment Usa molti teorizzavano che a furia di arricchirsi i cinesi sarebbero diventati proprio come noi: più liberi, più democratici. La crisi dei mutui fece esplodere contraddizioni enormi dentro gli Stati Uniti: consentì l’elezione di Barack Obama ma alimentò una rabbia operaia contro i danni della globalizzazione, che ci avrebbe dato Donald Trump. La Cina fu l’unica grande economia a salvarsi, usando dirigismo e capitalismo di Stato. Risale al  una sorta di «epifania cinese»: la rivelazione di tutte le fragilità occidentali agli occhi della dirigenza comunista. Cominciò a manifestarsi un complesso di superiorità e l’ascesa dell’autocrate Xi Jinping dal  ha confermato una classe dirigente sempre più sicura di sé. È nata nella diplomazia cinese la generazione dei «guerrieri lupo», con un linguaggio nazionalista e bellicoso che spazza via le cautele tradizionali. Dalle Nuove vie della seta all’espansionismo anche militare in Asia e in Africa, un progetto egemonico ha preso corpo in questi  anni. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ

Sanzioni economiche: un’arma a doppio taglio

Cuba

Documenti dell’Archivio della sicurezza nazionale degli Usa gettano luci e ombre sull’embargo che dura ormai da 60 anni

Angela Nocioni

Tutto cominciò con un puntiglioso memorandum inviato il  aprile del  dal sottosegretario di Stato degli Stati Uniti per le questioni internazionali, Lester Mallory, all’allora presidente Dwight Eisenhower. Titolo: «Il declino e la caduta di Castro». Due anni dopo quel memorandum, nel febbraio del , il presidente John F. Kennedy firmò l’ordine numero  con cui decretò «l’embargo a tutto il commercio con Cuba». Sono passati sessant’anni tondi tondi da allora e, in occasione dell’anniversario della firma di Kennedy, l’Archivio della sicurezza nazionale degli Usa pubblica una dozzina di documenti, finora rimasti segreti, che gettano qualche luce e molte ombre su quel pacchetto di misure nei decenni contestato, a volte in segreto allentato, ma mai revocato, fin dall’origine esplicitamente destinato a minare il regime instaurato da Fidel Castro a Cuba.

Mallory consigliava sanzioni economiche finalizzate a «provocare la fame, la disperazione e la rivolta verso il Governo» In quello storico memorandum Mallory informa che la rivoluzione castrista è «abbastanza popolare» e siccome non c’è «una opposizione effettiva», l’unico modo di sottrarre appoggio a Castro è «attraverso la sfiducia, la disaffezione basata sulle difficoltà economiche». Mallory consiglia sanzioni economiche finalizzate ad «abbassare i salari monetari e il loro potere d’acquisto reale per provocare la fame, la disperazione e la rivolta verso il Governo». Nel plico desecretato di recente si trovano anche i suggerimenti dell’ex segretario di Stato, Henry Kissinger, che nel  chiede di usare l’embargo come moneta di

scambio per normalizzare le relazioni con Cuba. Fine anni Settanta, Amministrazione Carter. Varie lobbies premono affinché l’embargo venga alleggerito; a nessun potere imprenditoriale piace vedersi tagliato fuori dall’allettante business che potrebbe fiorire – e che infatti fiorirà – sulle spiagge cubane. Business che più tardi finirà nelle mani voraci di varie imprese spagnole, entusiasticamente eredi dei vanti e dei privilegi della ex madrepatria coloniale. All’epoca della presidenza Carter l’allora segretario di Stato statunitense suggerì al presidente di «mantenersi neutrale» di fronte al dibattito all’ultimo sangue in corso tra deputati e senatori riguardo alla possibilità di sottrarre prodotti sanitari e alimentari alle norme dell’embargo. «Sottragga articoli mostrando di farlo non per benevolenza ma per scetticismo, mostri una neutralità scettica sulle possibili risposte dell’Avana», consigliava il segretario di Stato a Carter. Quando più tardi Barack Obama sembrò intenzionato ad addolcire l’embargo per sua personale volontà e convinzione politica, pur avendo l’avallo del Papa, dell’Onu e dell’opinione pubblica internazionale non lo poté fare perché, semplicemente, cancellare l’embargo è illegale. Solo una legge approvata dal Congresso degli Stati Uniti può cancellare gli effetti di un embargo deciso dalla legge Torricelli e confermato dalla Helms Burton nel . Ragione per cui, con i repubblicani contro, si dovette limitare prima a tessere le condizioni per normalizzare le relazioni diplomatiche arrivando a riaprire l’ambasciata, e poi a consentire l’emendamento di alcune norme che regolavano il lavoro dei Dipartimenti del tesoro e del commercio. Di sostanziale cambiamento ci fu solo l’aumento del limite massimo per le rimesse dagli Sta-

Proteste contro l’embargo nel 2021 a Santa Clara. (Keystone)

ti Uniti che mantengono buona parte dei circa  milioni di residenti sull’isola: da duemila a cinquemila dollari a trimestre. Sessant’anni dopo l’ordine firmato da Kennedy l’embargo continua ad essere la politica ufficiale americana verso Cuba e il regime postcastrista continua a usare l’embargo come argomentazione principale di propaganda interna per giustificare ogni promessa mancata e ogni suo fallimento. Regime che ha mantenuto identiche nel tempo le limitazioni alle libertà individuali e di dissenso politico, tanto che chi nel luglio scorso

è stato denunciato perché coinvolto in vario modo nelle proteste contro il Governo e bollato come dissidente, viene processato oggi e condannato per reati gravissimi come la sedizione (leggi l’articolo in basso). Guardare ora quelle pagine desecretate dagli States, leggere l’insistenza dei consiglieri nell’assicurare che l’embargo avrebbe piegato Castro, e vedere come per sessant’anni Cuba ha sempre sbandierato le sanzioni economiche per coprire i tracolli e i fallimenti del regime, fa impressione. Tante domande sorgono spontanee soprattutto seguendo il dibattito in

corso in Occidente sull’opportunità offerta da sanzioni economiche contro la Russia per dissuaderla da azioni aggressive in Ucraina. La storia recente ci insegna che i regimi risultano quasi inscalfibili dalle sanzioni economiche, anche pesanti, perché sul lungo periodo riescono ad aggirarle o comunque a neutralizzarle (appoggiandosi agli alleati), di certo a usarle egregiamente come arma di politica interna contro il «nemico». Ci è riuscita per sessant’anni la poverissima Cuba, perché non dovrebbe farcela il gigante guidato dallo zar Putin?

Tra spirito di ribellione e mestizia L’Avana

Il regime tenta di silenziare il dissenso mentre cresce il malcontento dovuto alla penuria di beni e all’inflazione

Romina Borla

La penuria di beni di prima necessità e l’inflazione galoppante, aggravate dalla crisi sanitaria, hanno scatenato una forte reazione la scorsa estate a Cuba. A metà luglio  migliaia di persone sono infatti scese nelle strade di una cinquantina di centri urlando: «Abbiamo fame» e «Abbasso la dittatura!». Secondo diversi analisti, si tratta delle manifestazioni con maggiore partecipazione e carica emotiva sull’isola da decenni a questa parte. Proteste a cui è seguita una decisa repressione da parte del regime guidato dal presidente Miguel Díaz-Canel, il primo capo di Stato cubano a non portare il cognome Castro. L’ultimo «processo di massa» collegato alle agitazioni dello scorso luglio – ricorda «Le Monde» (edizione del - febbraio ) – si è tenuto all’Avana dal  gennaio al  febbraio. «Durante quattro giorni  cubani sono stati giudicati per “sedizione” dal tribunale del quartiere  ottobre». Sono accusati di aver partecipato ad atti violenti, quali danneggiamenti di vetture della polizia, lanci di pietre e bottiglie. L’ufficio del procuratore ha chiesto per loro fino a  anni

di carcere. «La settimana precedente gli accusati per “sedizione” erano ;  a metà gennaio. Da dicembre , a Cuba non è passata una settimana senza processi contro i dimostranti. (…) Il  gennaio, in un comunicato pubblicato su “Granma” (il giornale ufficiale del Comitato centrale del Partito comunista cubano, ndr.), la Procura generale ha ammesso che  cubani, tra cui  minorenni tra i  e i  anni, sono stati accusati di “atti di vandalismo”, “attentati all’autorità dello Stato” e “gravi alterazioni dell’ordine pubblico”». Per le Ong non ci sono dubbi, sottolinea «Le Monde»: il regime cubano si augura che i processi servano come esempio e impediscano nuove rivolte nel Paese. Ma la rabbia e la frustrazione dei cubani non si placano. Quella rabbia e quella frustrazione che chi scrive avvertiva, anche se velate, negli incontri fatti sull’isola caraibica una quindicina di anni fa. Un luogo di contrasti. Un popolo orgoglioso – nei simboli ma non solo – della sua storia di ostinata resistenza ma decisamente curioso di quello che si muoveva, più libero, al di fuori dei

confini nazionali. La dolcezza della frutta e la ricchezza della natura, di un verde rigoglioso, stridevano con i calcinacci nelle vie dell’Avana e la povertà della gente. Una povertà dignitosa che nulla aveva a che vedere con la fame. C’erano le «razioni di guerra» assicurate per tutti. Molte abitazioni ospitavano una decina di persone che dormivano dappertutto. Ed era evidente la grande difficoltà dei cubani a

reperire medicine, sapone, assorbenti, scarpe, reggiseni ecc. Così alcuni di loro chiedevano questi articoli ai turisti. Turisti che oltretutto avevano in tasca tanti pesos cubani convertibili, la moneta forte dell’isola; i pesos cubani in confronto non valevano niente (dal primo gennaio  le due valute sono state unificate). Una delle attività più redditizie per i cubani – crollata a causa del Covid – era appunto Il Malecón, ufficialmente Avenida de Maceo, all’Avana. (Shutterstock)

quella turistica, svolta più o meno legalmente. In tantissimi si ingegnavano: offrivano alloggi e cibo (le «casas particulares»), percorsi guidati, giri in «cocotaxi» (taxi in stile risciò), lezioni di salsa… Non importa se nel cassetto avevano lauree in medicina o altro. Così si sbarcava il lunario. Ma curarsi restava un miraggio per molti. «Non ci mancano i medici ma i farmaci», ci raccontava con la voce intrisa di mestizia una signora col figlio malato che ci ospitava a Trinidad. Mestizia che permeava l’aria sull’isola anche se, in sottofondo, si sentiva il ritmo del ballo caraibico che piaceva da impazzire agli stranieri e alle straniere talvolta accompagnati da giovani locali, in quella situazione chi lo sa se per piacere o per bisogno. La libertà – come parecchie altre cose – mancava, e in tanti ce lo sussurravano, nelle pieghe dei discorsi. La libertà tratteggiata dai racconti dei forestieri, che si immaginavano meravigliosa. Ma la Patria, in pubblico, la si doveva difendere. Quella Patria e quel passato osannati dai graffiti sbiaditi sui muri e dai libri che si leggevano nelle scuole.


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RISPETTA LA PELLE E L’AMBIENTE Home office e sport hanno una cosa in comune: la parola d’ordine «comodità». Se poi pantaloni della tuta, calze e altri indumenti sono in cotone bio o in materiale riciclato, oltre al corpo si fa felice anche la coscienza

Piacevolmente morbido sulla pelle

Buono per l’ambiente

Perché una maglia di cotone al 100% graffia meno sulla pelle? Ciò è dovuto alla struttura delle fibre di cotone, che crescono ad anelli analogamente agli alberi, solo che nel caso del cotone si parla di «anelli diurni». Più lunga è la fibra, tanto più finemente può essere tessuta e tanto meno irritante risulta al contatto con la pelle.

In quanto fibra naturale, rinnovabile e biodegradabile, il cotone è fra i materiali più ecologici.

Amico della pelle Il cotone è ipoallergenico, ovvero scatena reazioni allergiche solo in rari casi. In più dura a lungo ed è poco esigente in fatto di cure.

Prestate attenzione al logo: Global Organic Textile Standard (GOTS) è lo standard mondiale principale per la lavorazione di fibre naturali coltivate biologicamente lungo la catena di approvvigionamento.


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MONDO MIGROS

PER LEI

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Nemmeno il cotone, però, si adatta a ogni impiego Per l’abbigliamento sportivo la fibra di cotone non è l’ideale. Molto meglio puntare sul poliestere riciclato.

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6

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MONDO MIGROS

PER LUI

1 Felpa da uomo blu navy Fr. 29.90 2 Pantaloncini sportivi da uomo in poliestere riciclato blu Fr. 24.90 3 Calze sportive da uomo in cotone bio confezione da 2 paia Fr. 8.95 4 Sneaker sportive unisex Fr. 39.95 5 Pantaloni tuta da uomo in cotone bio blu navy Fr. 29.90 6 Zaino verde salvia e blu navy Fr. 39.95

 


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ATTUALITÀ

Sindrome dell’Avana, fantasia o realtà? Curiosità

Si continua a indagare sulla strana malattia che colpisce funzionari statunitensi all’estero

Giulia Pompili

L’ambasciata statunitense all’Avana. (Shutterstock)

La rivincita di queen Camilla Prospettive ◆ Il 55% dei britannici la vuole regina consorte Cristina Marconi

Sembra un romanzo di spionaggio ambientato durante la Guerra fredda più che una storia d’attualità. Una strana malattia colpisce funzionari dell’amministrazione americana all’estero: diplomatici, membri delle forze armate, dell’intelligence e a volte anche le loro famiglie. Tutte le vittime danno delle descrizioni piuttosto diverse dei sintomi: un forte ronzio, dolore alla testa, senso di vertigini, nausea, problemi motori, perfino sanguinamento nasale e danni cerebrali. Sono quelli che finora la Casa bianca ha definito «problemi di salute inspiegati». È nel , nella capitale cubana, che per la prima volta si verifica la cosiddetta Sindrome dell’Avana. Diversi funzionari dell’ambasciata americana e di quella canadese lamentano problemi fisici che hanno a che fare con il sistema nervoso. La prima risposta che circola, nei corridoi del Dipartimento di Stato, è anche la più spaventosa: è un attacco con armi sonore o energetiche. L’ipotesi viene confermata da alcuni studi preliminari, ma soprattutto da un pregiudizio legato al controspionaggio: a studiare armi di questo tipo sono potenze nemiche come Russia e Cina, e non può essere un caso che per la prima volta l’incidente si sia verificato a Cuba, tradizionalmente alleata della Russia e con un rapporto molto difficile con le ambasciate occidentali. E poi c’è un precedente: tra il  e il  l’ambasciata degli Stati Uniti a Mosca fu l’obiettivo di quello che è passato alla storia come il Moscow signal. Per decenni i sovietici hanno infatti trasmesso microonde all’interno della sede diplomatica statunitense. La teoria più accreditata è che il Moscow signal servisse ad attivare

dei sistemi di spionaggio, ma all’epoca dei fatti diversi scienziati americani, tra cui Allan Frey, rifiutarono la versione delle microonde non dannose per l’uomo. Si diffuse l’idea che i diplomatici americani fossero in realtà le cavie sovietiche per studiare armi non convenzionali basate su onde elettromagnetiche.

Tra il 1953 e il 1976 l’ambasciata Usa a Mosca fu l’obiettivo di quello che è passato alla storia come il Moscow signal Verità o fantasia? Guerra fredda o psicosi di massa? Mentre la Russia nega di essere responsabile delle strane malattie che colpiscono i funzionari americani e canadesi, la Sindrome dell’Avana si espande, come un’epidemia, e inizia a colpire in luoghi lontani e apparentemente casuali: l’America registra casi in Cina, a Taiwan, in Germania, in Austria, in Colombia, in Australia. Nel novembre del  perfino a Washington DC almeno due persone – un funzionario del Consiglio nazionale di sicurezza e un dipendente della Casa Bianca – vengono colpite dalla sindrome. Nell’agosto del  un viaggio ad Hanoi della vicepresidente Kamala Harris è ritardato di qualche ora per un possibile caso nell’ambasciata statunitense. Qualche tempo dopo, durante un viaggio top secret del direttore della Cia, William Burns, in India, un membro dello staff dell’agenzia di intelligence si ammala, e sembra molto strano a tutti, considerata la segretezza della missione. A oggi sarebbero diverse centinaia le persone che hanno sofferto o che ancora subiscono le

conseguenze della Sindrome dell’Avana. Il Canada ha chiesto ai suoi diplomatici di evitare di portare con sé le proprie famiglie, soprattutto a Cuba. Che cosa sia però questa strana malattia ancora non si sa. E questo è un problema, soprattutto per le vittime. Perché se si trattasse di un «attacco di una potenza straniera» allora sarebbe un affare di sicurezza nazionale e le vittime sarebbero protette. Ma finché i casi non vengono catalogati secondo un ordine preciso, con una diagnosi precisa, allora le vittime restano soltanto dei dipendenti pubblici con problemi di salute. È soprattutto questo il problema «politico» della Sindrome dell’Avana. Nell’ottobre scorso il presidente americano Joe Biden ha firmato una legge che prevede dei rimborsi finanziari per chi è stato colpito dalla malattia, che in America significa soprattutto: cure mediche gratuite. Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca, ha detto: «Prendiamo sul serio ogni incidente segnalato e ciò che vogliamo fare è assicurarci che il nostro team di sicurezza nazionale utilizzi ogni risorsa a nostra disposizione per farlo». Ma senza una certezza sulle cause della patologia è difficile.

Il report della Cia sul tema, reso noto il mese scorso, considera improbabile che dietro al disturbo ci sia un attore esterno Il primo report della Cia sulla Sindrome dell’Avana, reso noto il mese scorso, considera improbabile che dietro al disturbo ci sia un «attore esterno», cioè una potenza con un’arma non convenzionale che colpisce

selettivamente i funzionari americani. L’agenzia di intelligence più famosa del mondo ha spiegato ai media di aver trovato, nella maggior parte degli oltre mille pazienti esaminati, cause mediche verificabili: a volte si tratta di malattie non precedentemente diagnosticate, a volte di cause ambientali, altre volte semplicemente di stress. La Cia ha detto di avere individuato soltanto una ventina di casi effettivamente «inspiegabili», sui quali continuerà a investigare. Il dossier della Cia smentisce in parte quello indipendente della National Academies of Sciences americana, che pochi mesi prima aveva dato la colpa a diversi fattori, tra cui le famose microonde. Il prossimo report sulla Sindrome dell’Avana è quello commissionato a un team di esperti dal Dipartimento di Stato, ma nel frattempo i media e l’opinione pubblica hanno paura che l’Amministrazione americana decida di archiviare il dossier. Un recente editoriale non firmato sul «Washington Post» scriveva che il report della Cia non esclude la possibilità che attori minori – magari contractor – siano responsabili degli attacchi, né esclude che la colpa sia di più attori. «Questo potrebbe spiegare i diversi luoghi in cui le vittime riferiscono di essere state colpite, anche se un gruppo così numeroso di aggressori aumenterebbe pure le possibilità che i colpevoli non vengano incriminati. Finora non lo è stato nessuno. La comunità dell’intelligence deve continuare a scavare nella questione e speriamo che un rapporto di esperti che ha esaminato il materiale classificato sarà presto disponibile». Una sfida inquietante, su cui anche i giornali più liberal chiedono a Biden delle risposte.

Se la storia fosse lineare e razionale, avremmo avuto fin dall’inizio lei, «queen Camilla», e l’immaginario mondiale non sarebbe passato attraverso quell’avvincente, tragico, ipnotico détour in cui l’ha trascinato Lady Diana, l’ultima eroina romantica. Nessuno si sarebbe innamorato alla follia di Camilla, tranne Carlo, che l’adora da sempre, e i Windsor si sarebbero goduti un po’ di quella solida serenità che in alcuni periodi, tra cui quello presente, è decisamente mancata. Ma forse negli ultimi trent’anni la monarchia sarebbe svanita nell’oblio, chissà, se non fosse stata capace di produrre personalità in grado di tenere accese le emozioni del popolo. Che ora, volente o nolente, ha davanti una gran bella prova del fatto che amor vincit omnia e che la pazienza, alla lunga, paga. Non solo Carlo ha sposato il suo unico vero amore  anni fa, ma ora sua madre, la regina Elisabetta, vuole che quella che un tempo riteneva una «donna malvagia» diventi regina consorte, senza mezzi termini né formule di compromesso. «È il mio sincero auspicio che, quando arriverà il momento, Camilla sia conosciuta come la regina consorte mentre porta avanti il suo leale servizio», ha spiegato Elisabetta in occasione dei settant’anni dall’inizio della sua monarchia, il  febbraio del . E, con una delle dichiarazioni più forti della sua lunga vita di understatement, la sovrana ha aggiunto: «Io sono stata benedetta per il fatto di avere avuto nel principe Filippo un compagno pronto a svolgere il ruolo di consorte e portare avanti con abnegazione i sacrifici necessari». Lo stesso, ha spiegato, che ha visto fare a sua madre durante il regno del padre. E Camilla è decisamente portata per il ruolo, come le riconoscono anche i britannici che un tempo la detestavano. Ci sa fare con la stampa, porta avanti le sue attività benefiche con piglio risoluto e senza clamore, tiene a bada Carlo anche quando diventa petulante, non ha manie di protagonismo e non è vendicativa nonostante tutto quello che ha subito. I sondaggi vanno alla grande: il % dei britannici vuole «queen Camilla», mentre solo il % è contrario. Certo, Diana la prima moglie non è scomparsa dai cuori della gente: sarebbe stata una regina migliore, sempre secondo il sondaggio del «Daily Mail». Ma bisogna accontentarsi e poi un po’ di stabilità non può fare male, anche se è meno eccitante di una giovane regina consorte. O, naturalmente, di un trono occupato da un’anziana inossidabile e molto, molto cool. Annuncio pubblicitario

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I cibi scaduti

non devono

necessariamente

finire in pattumiera Con qualche semplice accorgimento puoi contribuire anche tu a ridurre lo spreco alimentare. Perché contro il food waste si può fare molto con poco sforzo

Cosa significa «data di scadenza»? In Svizzera, in media, un intero pasto pro capite va a finire ogni giorno nella spazzatura. Urge correre ai ripari. Il food waste inizia con la data di scadenza, che molti ritengono essere il termine ultimo entro il quale un prodotto può essere consumato senza rischi. In realtà si tratta solo di una data indicativa.

Ecco i significati: 1. Da vendersi entro: è importante soprattutto per il supermercato. 2. Da consumarsi entro: per i cibi di facile deperibilità indica il termine entro il quale possono consumati senza rischi. 3. Da consumarsi preferibilmente entro: in questo caso si tratta solo di una data orientativa, e qui entrano in gioco gli organi di senso. Il prodotto non emana odori strani? Non risulta alterato nell’aspetto? E ha ancora un buon sapore? Se la risposta alle tre domande è sì, allora puoi mangiarlo.

Programmare un «giorno degli avanzi»

«Rianimare» gli alimenti

È l’occasione per lasciar spazio alla creatività: con gli avanzi puoi realizzare le creazioni più colorate e fantasiose, dal sandwich allo sformato.

Le carote e le patate (con la buccia) rammollite riacquistano vigore e compattezza dopo una notte a bagno in acqua fredda, perché riassorbono i liquidi perduti. Il pane raffermo torna quasi come nuovo se viene inumidito in superficie e passato in forno a 180 °C circa per 2-4 minuti. Anche le patatine molli ridiventano croccanti dopo circa 3 minuti in forno a 180 °C.


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MONDO MIGROS

Tenere in ordine la dispensa Riporre gli alimenti con ordine in contenitori ermetici è un vantaggio non solo a livello estetico, ma aiuta anche ad avere sott’occhio le scorte.

Calcolare le giuste dosi

Pianificare

Pesare pasta e riso è un altro modo per evitare sprechi. Per la pasta le quantità indicative di prodotto secco a persona sono di 80 g per una porzione piccola e 150 g per una porzione abbondante. Per il riso: 40 e 80 g, rispettivamente.

Pianificando esattamente il menù giorno per giorno è possibile ridurre a zero o quanto meno al minimo gli avanzi. Per gestire al meglio eventuali cambiamenti inaspettati nella tabella di marcia settimanale, è utile non fare incetta di alimenti freschi, bensì acquistarli poco alla volta, secondo esigenza.

Conservare Se i biscotti hanno perso fragranza basta mettere nella scatola, la sera, una fetta di mela o d’arancia: la frutta rilascia umidità e il giorno dopo i biscotti hanno riacquistato morbidezza.

Conservare gli alimenti nel modo giusto In commercio gli alimenti che presentano imperfezioni vengono spesso scartati, ma è uno spreco ingiustificato. Per questo nei nostri negozi trovi anche frutta e verdura con qualche difetto estetico.

Congelare Dal sugo al parmigiano, molti avanzi si possono congelare senza problemi. I resti di verdura, per esempio, al pari dei gambi di fungo e di erbe aromatiche (ingiustamente considerati «scarti»), si possono conservare in freezer e utilizzare all’occorrenza per un bel bouillon.

Tutte le info sul Food Waste


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ATTUALITÀ

24 miliardi di aiuti bilaterali in 60 anni

Cooperazione svizzera allo sviluppo ◆ La Direzione per lo sviluppo e la cooperazione risponde a critiche e obiezioni con indagini indipendenti sull’efficacia degli interventi in molti paesi in via di sviluppo

Ignazio Bonoli

Il primo delegato alla Cooperazione e sviluppo economico era stato nominato dal Consiglio federale nel . La Svizzera è dunque attiva in questo settore da oltre  anni. Infatti, l’aiuto ai paesi in via di sviluppo era già cominciato da qualche anno, essenzialmente con aiuti mirati, soprattutto nel settore dell’allevamento del bestiame in paesi come l’India, la Tanzania o il Perù. Da allora, quella che è diventata ufficialmente la Direzione per lo sviluppo e la cooperazione (DSC) ha visto un crescente volume dei mezzi a disposizione. Dal  fino al  ha quindi stanziato, solo attraverso organizzazioni di aiuto, ben  miliardi di franchi in forma bilaterale. A questa cifra vanno poi aggiunte le somme versate attraverso organizzazioni multilaterali di aiuto. La lista dei paesi che ne hanno beneficiato è molto lunga e, spesso, l’intervento ha avuto un innegabile successo. È però difficile valutare l’effetto complessivo, poiché le forme di aiuto sono molto differenziate. Spesso si è trattato, per esempio, dell’aiuto alla lotta contro la povertà sul posto. Evidentemente la Svizzera ha avuto una partecipazione importante, ma non tale da poter indirizzare l’aiuto internazionale verso obiettivi ben precisi. Molti paesi hanno invece usato lo strumento della cooperazione per fini politici, sfociati per esempio nel mantenimento al potere di dittatori locali e nella lotta al comunismo. Solo dopo la fine della cosiddetta «guerra fredda», l’aiuto allo sviluppo prese una direzione più consona ai suoi scopi. Anche la Svizzera poté quindi partecipare ad azioni di promozione della democrazia, dei diritti umani e della società civile. Così anche i mezzi finanziari a disposizione poterono venir usati con miglior successo. Dalla metà degli anni Novanta, anche la DSC cominciò a valutare l’efficacia dei suoi interventi, sulla base di una valutazione sistematica dei progetti e della loro indipendenza. Dal  al , a capo della DSC fu Walter Fust, conside-

Non è sempre facile valutare gli effetti degli aiuti allo sviluppo, come invece lo è costruendo dei pozzi. (Keystone)

rato uno dei capi ufficio più influenti a Berna. Tuttavia, in Parlamento e anche fuori, l’operare della DSC solleva spesso critiche e perplessità. Molti avrebbero voluto vedere i risultati concreti di operazioni all’estero che costavano ogni anno milioni di franchi al contribuente svizzero. Tuttavia anche con Walter Fust le risposte a queste domande non erano sempre soddisfacenti. Solo con l’inizio del nuovo secolo si cominciarono a ottenere risposte più concrete. La situazione migliorò nettamente quando la DSC fece allestire tra  e  valutazioni indipendenti dei progetti per ogni anno. Per finire, anche la stessa OCSE espresse apprezzamenti positivi per la «cultura orientata ai risultati» della Svizzera. La Svizzera non ha,

infatti, mai avuto mire politiche nelle sue operazioni di aiuto allo sviluppo e cooperazione. Anche i risultati ottenuti dall’aiuto svizzero sono stati apprezzati nel contesto preciso. Tra il  e il , la DSC può dire di aver aiutato nove milioni di persone per una formazione di base o per una formazione professionale. In una dichiarazione alla «Neue Zürcher Zeitung», Peter Niggli, già direttore dell’Organizzazione di politica dello sviluppo Alliance Sud ha detto che non è per niente facile misurare l’efficacia delle misure di aiuto allo sviluppo. Se da un lato è facile contare, per esempio, i beneficiari di un impianto di acqua potabile, dall’altro è molto difficile valutare gli effetti a lunga scadenza di un progetto per lo svilup-

po di una comunità in una regione o in un intero paese. Tanto più difficile è valutare l’efficacia dell’intervento: la DSC, per esempio, in Bangladesh favorisce lo sviluppo della società civile, o la costituzione di organizzazioni di contadini o di donne. Del resto, gli esperti del settore mettono in guardia contro valutazioni a breve scadenza, il cui risultato può essere positivo, ma non garantito nel tempo. In ogni caso, la Svizzera è un piccolo attore sulla scena dell’aiuto mondiale allo sviluppo, per cui anche i suoi interventi sono relativamente modesti. Ma sulla misura dell’efficacia degli interventi possono nascere alcuni dubbi. Toni Stadler, esperto del settore in cui è stato attivo per  anni, dice di dubitare che i progetti bilaterali della DSC e delle

ONG (organizzazioni non governative) abbiano realizzato progressi, o crede che siano stati molto meno efficaci di quanto si creda. Secondo Stadler i progetti migliori sono quelli che hanno un ruolo di interfaccia tra l’aiuto umanitario e la cooperazione allo sviluppo. Del resto sono ancora poche le analisi indipendenti che valutino l’utilità a lunga scadenza di progetti specifici, mentre non si citano per nulla gli insuccessi. Comunque l’aiuto svizzero, nel frattempo, ha migliorato la fiducia di una gran parte dei paesi in via di sviluppo. In ogni paese in cui la Svizzera si è impegnata, se ne trovano le tracce. Di fronte a necessità enormi e a condizioni talvolta difficili, resta sempre da vedere se i mezzi a disposizione sono stati sufficienti.

Conviene davvero il pilastro 3a?

La consulenza della Banca Migros ◆ È vero che al momento della liquidazione ci sarà un importo da versare al fisco, ma inferiore a quanto risparmiato negli anni sulle imposte con i versamenti regolari – A seconda di reddito e cantone, il risparmio sarà maggiore

Di recente mio cognato ha affermato che a me ( anni, coniugato, impiegato a tempo parziale in ufficio) non conviene per niente effettuare versamenti nel ° pilastro. Al momento della liquidazione tornerei infatti a pagare le imposte su cui risparmio ora. Suo cognato esagera un po’. Nella maggior parte dei casi i risparmi sulle imposte legati al pilastro a superano l’importo da versare al fisco al momento della liquidazione del relativo avere. Forse intendeva dire che non tutti ne approfittano allo stesso modo. Fattori determinanti in tal senso sono infatti il reddito, la somma risparmiata annualmente, il numero di anni durante i quali si effettuano i versamenti e la residenza.

Dato che in Svizzera, a causa della progressione, i redditi più elevati vengono tassati maggiormente, i risparmiatori a con un reddito più alto conseguono risparmi più cospicui sulle imposte. In altre parole, se lei detraesse l’attuale importo massimo a pari a  franchi a fronte di un reddito lordo di ’ franchi, nel Canton Zurigo risparmierebbe circa  franchi di imposte all’anno. Parliamo invece di circa  franchi con un reddito lordo di ’ franchi. Se vivesse in un cantone a tassazione elevata quale Basilea Città, Berna, Ginevra o Giura, dal punto di vista fiscale il risparmio a converrebbe ancor di più. Anche il fatto di essere sposato rappresenta un vantaggio, perché i due coniugi rimpinzano ognuno un con-

Isabelle von der Weid, consulente alla clientela Banca Migros Svizzera romanda ed esperta in materia di previdenza.

to a proprio e possono effettuare la detrazione dalle imposte, ma i redditi vengono tassati insieme. Il pilastro a è per lei, in quanto lavoratore a tempo parziale, molto più importante, perché le permette di colmare le relative lacune del secondo pilastro. Se per i prossimi  anni, fino al suo pensionamento, dovesse versare l’intero importo a, raccoglierebbe oltre ’ franchi che l’aiuterebbero a migliorare il suo tenore di vita durante la vecchiaia. Con la rendita AVS e l’avere della cassa pensioni da soli, infatti, potrebbe non essere in grado di mantenere lo stesso standard di vita che aveva mentre lavorava. Sebbene al momento della riscossione debba pagare le imposte anche sull’avere previdenziale del pilastro a, tutto sommato approfitterebbe di un

risparmio fiscale, dato che il capitale del ° pilastro viene tassato a un’aliquota ridotta quando viene liquidato. Inoltre, a seconda del tipo di collocamento, può anche accrescere il denaro investito. Consiglio: alla luce dei bassi tassi d’interesse anche sui conti a si raccomanda di ricorrere, in base alla durata dell’investimento, a un piano di risparmio in fondi previdenziali. Più a lungo si risparmia, maggiore deve essere la rispettiva quota azionaria. Informazioni Il calcolatore 3a della Banca Migros le permette di calcolare i suoi risparmi e il suo capitale di vecchiaia. www.bancamigros. ch/3a-calcolatore


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ATTUALITÀ / RUBRICHE ●

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

Svizzera-Ue: continua il tormentone ◆

Dopo qualche mese di relativa stasi la questione dei rapporti della Svizzera con l’Unione europea è tornata alla ribalta dell’attualità nazionale. Come si sa il Consiglio federale ha deciso, nella primavera dello scorso anno, di abbandonare le trattative per un accordo quadro. Questo dopo un surplace di più anni che aveva messo in ombra anche le prodezze di un Antonio Maspes ai campionati mondiali di velocità su pista degli anni Sessanta dello scorso secolo. Si sbagliava però chi pensava che il dossier era stato oramai messo da parte. Dopo aver deciso che un accordo quadro non si poteva fare, il nostro Governo sta, da qualche mese, cogitando come si potrebbe far ripartire la trattativa. L’unica certezza emersa fin qui è che le cose non possono essere precipitate. Lo ha affermato anche il consigliere federale Cassis in un’intervista a un giornale domenicale di inizio febbraio.

Con molta probabilità, quindi, il nostro Esecutivo continuerà a muoversi a passo di lumaca anche se, da Bruxelles, giungono inviti pressanti perché definisca una posizione per una nuova trattativa il più presto possibile. Sul fronte dei partiti non si muove una foglia. Alla destra, l’attuale situazione di stallo di sicuro non dispiace. La sinistra, invece, sta calcolando quale delle possibili varianti per nuove trattative le potrebbe convenire. Vi sono poi dichiarazioni tattiche di questo o quell’esponente dei due fronti politici che vanno prese per quel che sono, ossia semplici tentativi di farsi pubblicità in un momento nel quale sulle trattative con l’Ue si può dire di tutto e di più senza che qualcuno se la prenda. A contrastare l’attendismo dei politici sono venute, nelle ultime due settimane, le reazioni dei diretti interessati. L’associazione delle industrie farmaceutiche, che rappresenta una delle

più importanti industrie esportatrici del nostro Paese (% del totale delle esportazioni della nostra economia) in una conferenza-stampa ha dichiarato che la situazione attuale nelle relazioni con l’Ue potrebbe ripercuotersi negativamente sui vantaggi localizzativi che la Svizzera ha, fin qui, rappresentato per questa industria. Leggendo tra le righe, insomma, l’associazione teme che, se le relazioni con l’Ue non vengono rapidamente sistemate nell’industria farmaceutica, le delocalizzazioni potrebbero moltiplicarsi. Qualche giorno più tardi il messaggio dei farmaceutici è stato ribadito nella conferenza-stampa annuale di Economiesuisse, l’associazione mantello delle industrie svizzere. Stando al presidente di questa associazione, Christoph Mäder, sono tre gli ostacoli che presenta la situazione di incertezza attuale. Il primo è costituito dal fatto che l’Ue si rifiuta di attua-

lizzare gli accordi bilaterali sugli ostacoli tecnici. Il secondo è rappresentato dall’esclusione della Svizzera dal programma di ricerca «Horizon Europe». Infine il terzo ostacolo è costituito dal blocco, da parte dell’Ue, di ogni trattativa relativa ad accordi di integrazione bilaterale. Se la situazione non muta diventerà sempre più difficile per le aziende del nostro Paese riconoscere quali saranno in futuro le condizioni-quadro che regoleranno le loro esportazioni verso i paesi dell’Ue. Come ha ribadito Mäder, i costi di questa situazione non sono quelli relativi alle difficoltà immediate che devono affrontare le aziende esportatrici, ma quelli relativi all’incertezza: questa pesa sulle decisioni di investimento futuro. Senza nominarlo con nome e cognome anche lui pensa quindi che, se non si riescono a chiarire le posizioni, ci sia un pericolo di delocalizzazione. Le conseguenze negative per le

attività di ricerca sono poi state al centro di un’intervista che la «Neue Zürcher Zeitung» ha fatto, inizio febbraio, a Joel Mesot, il presidente del politecnico federale di Zurigo. La situazione è nota: la Svizzera è stata esclusa dal programma di ricerca Horizon, un programma europeo da  miliardi di euro. Secondo Mesot questa decisione potrebbe compromettere la posizione di testa che, nella ricerca, hanno attualmente le università svizzere. Non è la prima volta che questo succede. Già nel  la Svizzera era stata esclusa, per alcuni mesi, dal programma di ricerca in questione per poi esservi riammessa. Oggi, tuttavia, la situazione è più complicata. La decisione di Bruxelles sembra infatti sia stata presa per mettere sotto pressione le autorità elvetiche in vista di un rilancio delle trattative per un eventuale accordo-quadro. Non sarà quindi modificata tanto presto. Campa cavallo!

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di Aldo Cazzullo

Centrodestra moderno ed europeo cercasi ◆

Mi ha colpito molto assistere al giuramento del presidente della Repubblica. Come da abitudine, tutto si è svolto in un’atmosfera, se non solenne, seria; tanto più che a giurare era, per la seconda volta, una personalità della statura di Sergio Mattarella. I parlamentari avevano tirato un sospiro di sollievo rieleggendolo e ora si congratulavano l’un l’altro, felici. La riconferma di Mattarella è un elemento di stabilità ed equilibrio per il sistema, ma è stata il frutto anche di altre motivazioni, non tutte così nobili. Non è solo l’indennità da riscuotere sino all’ultimo e la pensione da maturare. I «peones» – i parlamentari semplici – hanno alzato un fuoco di sbarramento contro i «tecnici», confermando di essere prigionieri di un’idea un po’ invecchiata della politica e dimenticando che, quando arrivano i professori, è perché i profes-

sionisti hanno fallito. Forse i politici sottovalutano il discredito che ancora li circonda, anche perché non sono stati scelti dai cittadini, bensì designati dai capi partito. Come ha fatto notare Massimo D’Alema, i parlamentari non si sono conquistati il seggio sul territorio, tra la gente, ma nell’ufficio o più spesso nell’anticamera del segretario. Questo toglie loro credibilità e fa crescere la nostalgia dei collegi uninominali – quelli da centomila elettori previsti dalla legge che porta il nome di Mattarella, non quelli troppo grandi imposti dalle norme in vigore – dove chi ha un voto in più viene eletto e rappresenta una comunità che può confermarlo o sostituirlo. Ma la direzione che ha imboccato la politica non va verso i collegi uninominali e il sistema maggioritario, introdotto con il referendum popolare del . Al contrario, molti partiti han-

Il presente come storia

no nostalgia del proporzionale, come nella Prima Repubblica. Un tempo in cui però esistevano luoghi di selezione della classe dirigente: sezioni, scuole, amministrazioni locali. Oggi i partiti sono spappolati. Divisi in correnti e in gruppi digitali che usano l’uno contro l’altro i più sporchi trucchi della Rete. E già questa tribalizzazione della politica non è una buona notizia. Ma ce n’è una peggiore. La fine delle coalizioni sembra negare all’Italia la sorte delle democrazie avanzate: l’alternanza al Governo di progressisti e conservatori. Già nella Prima Repubblica abbiamo sperimentato l’ammucchiata al centro, la cooptazione di varie forze attorno a un partito, la Dc, condannato a governare. Il risultato fu la crescita di clientele, malaffare, spreco di denaro pubblico, finanziamento illegale. Davvero si ha nostalgia di tutto questo? Davvero

la stagione di «Mani pulite» è esaurita solo dal ricordo dei metodi spregiudicati di alcuni Pm? Non fu anche un periodo in cui dalla società si levava una richiesta di rinnovamento, di partecipazione, di buona politica? Qualcuno pensa davvero che le Camere oggi abbiano fornito una risposta convincente a quella domanda? L’alternanza presuppone il ritorno delle coalizioni e la tenuta del sistema maggioritario. Ma è inutile costruire alleanze tra partiti che la pensano diversamente su tutto. Da tempo molti ripetono che all’Italia serve un centrodestra moderno ed europeo. È ancora più vero adesso che la pandemia ha cambiato il mondo; ha chiuso l’era del populismo e ha aperto un’epoca diversa, in cui l’Europa accetta di fare debito condiviso, in Germania i socialdemocratici rivendicano l’eredità di Merkel, Trump perde le elezio-

ni e pure Johnson si sente poco bene. Non è uno spostamento a sinistra; è la fine dell’illusione sovranista. Davvero il centrodestra italiano pensa che il futuro appartenga ancora agli Orban e ai Kaczyński? Non è il momento di dare rappresentanza ai moderati, ai liberali, ai cattolici, ai ceti produttivi oppressi dal fisco e dalla burocrazia, agli imprenditori per cui l’Europa è un mercato e un destino comune? La sconfitta per il sistema politico non è rieleggere Mattarella e appoggiare Draghi. La sconfitta sarebbe non riuscire, tra un anno, a proporre al Paese alleanze, idee e candidati decenti, in cui gli italiani possano riconoscersi. Molto dipende da Matteo Salvini. Il leader della Lega è a un bivio: continuerà a flirtare con i Governi illiberali dell’est o porterà il suo movimento nel partito popolare europeo, facendone una moderna forza conservatrice?

di Orazio Martinetti

La formula magica ticinese ◆

Le discussioni intorno alle leggi elettorali – le regole che disciplinano la contesa politica – solitamente non attizzano le passioni. Parlare di percentuali, quozienti, resti è affare di specialisti: tecnicismi incomprensibili ai più. Il fatto è che nessuna democrazia può permettersi di farne a meno, pena l’arbitrio e il caos. Naturalmente non è impresa facile stabilire regole che soddisfino tutte le forze in campo. Il nostro Ticino, ad esempio, si è lungamente scannato sulla questione maggioritario-proporzionale, se sia migliore, ovvero più efficace, il primo sistema, o se sia più equo il secondo, sebbene più lento e macchinoso. Breve premessa per dar conto di un anniversario importante, capitale per la storia politica di questo Cantone: il centenario dell’ingresso del primo socialista in Consiglio di Stato. Avvenne il  aprile del  nella persona di Guglielmo Canevascini, figlio di contadini, non un avvocato

ma un militante autodidatta pratico, che si era fatto le ossa come sindacalista nelle vertenze del primo Novecento. Canevascini rimase in Governo fino al , una longevità politica premiata con il soprannome di «padreterno». L’ingresso avvenne nel corso di una fase concitata, iniziata nel primo dopoguerra e poi proseguita contro venti e maree fino al triennio -. In quel periodo aveva visto la luce un nuovo partito, quello agrario (), con l’effetto di indebolire il duopolio liberali-conservatori (ma con i primi a reggere saldamente le redini della compagine governativa). Tuttavia il Paese «languiva», come non si stancava di ripetere sulle colonne della «Gazzetta Ticinese» il direttore Antonio Galli. Politicamente regnava la massima confusione. La Costituente voluta per riformare la carta fondamentale non aveva cavato un ragno dal buco: un fallimento accompagnato dalla

bocciatura in Gran consiglio del preventivo allestito dal radicale Evaristo Garbani-Nerini, che rispose allo smacco con le dimissioni. Insomma, un guazzabuglio da cui non si scorgeva una via d’uscita decorosa. Per smorzare le tensioni si riaffacciò l’idea di portare il numero dei Consiglieri di Stato da cinque a sette, facendo spazio anche agli agrari (Raimondo Rossi) e appunto ai socialisti. Quest’ultimi avevano iniziato ad accarezzare l’idea della partecipazione al Governo già da un paio d’anni, ritenendo più fruttuosa la presenza nell’Esecutivo che un’opposizione frustrante dai banchi del Legislativo, dove gli eletti socialisti non raggiungevano le dieci unità. La strategia non piacque a tutti, alcuni compagni contestarono la scelta della direzione dalle pagine di «Libera stampa», sostenendo la tesi che non si dovesse collaborare con i borghesi. A sostegno di Canevascini interven-

ne il capo dei conservatori, il conterraneo Giuseppe Cattori, che intravide in quel frangente convulso la via per ridimensionare una volta per tutte l’egemonia liberale-radicale. Nel corso dell’autunno del  si giunse all’approvazione di un articolo costituzionale che contemplava una clausola ingegnosa. Diceva: «Il gruppo che non ha conseguito la maggioranza assoluta dei votanti non può ottenere più di due eletti; il gruppo che ha conseguito la maggioranza assoluta dei votanti non può avere meno di tre eletti». In altre parole, chi non raggiungeva la maggioranza assoluta nel Paese non poteva pretendere di ergersi a «dominus» del Consiglio di Stato. Era la cosiddetta «formula Cattori», per gli avversari «pateracchio» o «trappola», che dava luogo al «Governo di Paese». Nel  il nuovo equipaggio, ridotto a cinque elementi, prese il mare con due liberali (Giovanni Rossi e Cesare Mazza), un

conservatore (Giuseppe Cattori), un agrario (Raimondo Rossi) e un socialista (Guglielmo Canevascini). Per la prima volta i liberali dovevano fare i conti con l’eventualità che le minoranze potessero coalizzarsi contro di loro. Infine, nel , con l’uscita dell’agrario, la formula si assestò nella composizione sopravvissuta fino al «terremoto» del , ossia due liberali, due conservatori, un socialista. Non sempre i cinque sono andati d’amore e d’accordo, e voltafaccia e ribaltamenti hanno lasciato cicatrici profonde nelle relazioni interpartitiche. Tuttavia il modello consociativo ha retto fino ai giorni nostri. All’origine c’è il sistema proporzionale, che esclude dal collegio governativo solo i partitini. Secondo alcuni è la soluzione migliore per un cantone litigioso come il nostro; secondo altri è invece soltanto un ripiego, una macchina costretta, per funzionare, a privilegiare i compromessi al ribasso.


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Con J.D. Salinger In Un anno con Salinger, che è diventato anche un film, i ricordi di una giovane e brillante editor

La paladina dei deboli A colloquio con l’attivista israeliana Leah Tsemel, da sempre sul fronte dei diritti umani

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Villi Hermann fotografo A Casa Donetta le immagini scattate dal regista ticinese nel mondo e «a casa»

Il white soul di Morrison Per la gioia dei fan è uscito Greatest Hits del cantautore James Morrison

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Giuseppe Canella, Venezia, Riva degli Schiavoni, 1834, olio su tela, 63 x 53 cm.

Sotto la straordinaria luce di Venezia Mostre

A Novara si celebrano i 1600 anni di Venezia, fragile regina della Laguna

Alessandra Matti

Un importante compleanno, quello di Venezia 2021: una delle città più iconiche al mondo compie 1600 anni. E così Novara, città d’acqua, rende omaggio alla città d’acqua per antonomasia con una mostra curata da Elisabetta Chiodini e allestita nelle sale del Castello visconteo che fino a qualche decennio fa ospitavano le carceri della città piemontese. Difficile trovare una definizione univoca di Venezia: regina del mare e della terraferma fino a Campoformio, porta d’Oriente, tappa-chiave del Gran Tour settecentesco e infine gemma dell’immaginario collettivo per il suo essere sospesa in una dimensione a metà tra la terra e il mare, dove la luce sostanzia la sua bellezza. La mostra, inaugurata lo scorso 31 ottobre, terminerà il prossimo 13 marzo, e ci porta per mano alla scoperta di una generazione di artisti che, veneziani di nascita o di adozione, scelsero la città come quinta della loro pittura tra gli anni trenta del secolo XIX e i primi del Novecento.

Le settanta opere esposte in otto sale ci raccontano tutti i generi di pittura; la pittura dal vero, quella di storia e di vita quotidiana, ma soprattutto il superamento dalla veduta a favore del paesaggio lagunare e delle sue straordinarie condizioni di luce.

La mostra di Novara offre un viaggio alla scoperta della pittura dedicata a Venezia tra gli anni trenta del secolo XIX e i primi del Novecento Prima di cominciare il percorso al primo piano, a piano terra ci imbattiamo in una grande tela del 1857 di Francesco Hayez, Prete Orlando da Parma inviato di Arrigo IV di Germania e difeso da Gregorio VII contro il giusto sdegno del sinodo romano: è un’opera corale, il linguaggio è purista e insieme realista nel gesto del sacerdote che trattiene per i capelli il prete, reo solamente di essere l’ambasciato-

re della destituzione di Gregorio VII. La prima sala è dedicata alla pittura di storia con tele di Francesco Hayez e di altri. Scena in laguna con figure (1862-65) di Antonio Zona è un’opera dai molti significati: su una barca in laguna un gruppo di persone simboleggia l’annessione di Venezia all’Italia dopo la Terza guerra d’Indipendenza. Così sembra dirci il ragazzo che regge l’immagine di Vittorio Emanuele II, e il tricolore degli abiti vuole alludere alla speranza di un futuro migliore. Ma è nella seconda sala che si assiste alla trasformazione del vedutismo nella pittura di paesaggio con opere di Giuseppe Canella, Domenico Bresolin, Giacomo Favretto. Il vedutismo e le quinte architettoniche cedono il passo all’attenzione per le suggestioni atmosferiche, la luce cangiante, il colore. L’alfiere del superamento del vedutismo è Guglielmo Ciardi cui è dedicata la terza sala. Ciardi ci introduce alla scoperta della poesia della laguna; nelle sue tele, ambientate an-

che in terraferma, la luce, le poche persone e l’atmosfera quasi metafisica restituiscono l’immagine della laguna come terra di mezzo tra mare, cielo e terra. Mulino sul Sile del 187778 ne è un esempio: è una tela costruita sulla diagonale del canale con la luce cristallina di un mattino estivo che permea ogni cosa. Sempre negli anni ottanta l’arte veneziana si ispira anche al vero, con pittori come Luigi Nono e Giacomo Favretto, e la «pittura del vero» è la protagonista dell’ultimo tratto del percorso espositivo con una quadruplice declinazione: vita familiare, mondo del lavoro, idillio amoroso e devozione popolare. In Verso sera presso Polcenigo, del 1873, Luigi Nono dà voce a una visione lirica e intimista della campagna friulana. Il paesaggio è il grande protagonista anche della tela di Giacomo Favretto, La mietitura del riso (1876 ca) dove però non c’è alcun riferimento sociale al mondo del lavoro. Ma qualcosa sta cambiando sul finire del secolo: del 1895 è la prima

Esposizione internazionale d’Arte, e Venezia si apre alle suggestioni del gusto d’Oltralpe. A conclusione del percorso, le opere realizzate a cavallo tra gli anni ottanta e novanta da artisti quali Ettore Tito e Mario De Maria che con I monaci dalle occhiaie vuote (1888), mostra un chiaro simbolismo vicino alla pittura di Böcklin. Il modo migliore per congedarsi dalla mostra è cogliere l’intensità della popolana che stende i panni in Biancheria al vento (1901) di Ettore Tito, pittore dell’aria e del movimento. Ecco: l’aria, la luce, le suggestioni del paesaggio sono la cifra che rendono Venezia unica al mondo, «il gioco di fata Morgana e una visione del cuor profondo» della poesia di Diego Valeri. Dove e quando Il mito di Venezia. Da Hayez alla Biennale. Novara, Castello di Novara. Fino al 13 marzo 2022. Orari: ma-do 10.00-19.00. La biglietteria chiude alle 18.00.


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CULTURA

Salinger, dietro le quinte

Narrativa ◆ Nel romanzo di Joanna Rakoff (ora anche film) il rapporto tra una grande agenzia letteraria di New York e il leggendario J.D. Salinger Blanche Greco

Per chi ha conosciuto e amato New York bighellonando per Manhattan pensando alle storie del cinema hollywoodiano degli anni , , con Barbra Streisand, Robert Redford, Jane Fonda e poi ancora dietro a Woody Allen tra crimini e oroscopi cinesi, leggere Un anno con Salinger di Joanna Rakoff, (Neri Pozza), è come tornare a casa. Ma questa è solo una delle magie di questo libro in cui Joanna racconta il suo  vissuto pericolosamente tra amori difficili, sogni da ragazza speciale con ambizioni da poetessa e un lavoro ottenuto per caso alla Harold Ober Associates, forse la più antica agenzia letteraria di Manhattan che aveva nel suo Olimpo, oltre a Fitzgerald, Dylan Thomas, Faulkner, Langston Hughes, anche il mitico J.D. Salinger, l’autore del Giovane Holden, «Jerry», come lo chiamava la sua capa, la ieratica Direttrice. «Anni dopo, un editore conquistato da un mio articolo su quel periodo» – ci ha raccontato Joanna Rakoff giornalista e scrittrice dalla sua casa di Cambridge (USA) – «mi propose di farne un libro. Quella era stata un’epoca irripetibile: era poco prima che il trillo dei cellulari ci accompagnasse ovunque e che l’era digitale scompigliasse le abitudini di quella New York colta e un po’ snob che avevo conosciuto all’Agenzia. Per me, cresciuta fuori dal centro come Woody Allen, Manhattan era un luogo incantato con i suoi grattacieli e i portieri in livrea, th Avenue, Lexington Avenue, Park Avenue... passavo tra i negozi eleganti e ogni tanto mi fingevo una di quelle clienti danarose che incontravo, allora pasteggiavo al Pub del Waldorf Astoria, o negli alimentari imparentati con Tiffany, con costose prelibatezze microscopiche. Ma c’erano anche cose di quel periodo che volevo dimentica-

Sigourney Weaver nei panni della Capa dell’Agenzia letteraria (still dal film Un anno con Salinger).

re, come il ragazzo col quale stavo, orribile, come alcune delle scelte che feci all’epoca e che ancora mi rimproveravo. Poi ho cominciato a scrivere e ho ritrovato lo spirito della ventenne che ero stata: luminosa, ingenua, curiosa, testarda e senza un soldo, una piccola “apprendista” che si scontrava con la vita, fuori e dentro all’Agenzia dove imperversavano le leggi del mio capo e gli umori di Salinger». Joanna era Assistente della Direttrice, il suo regno contava un dittafono a pedale, una macchina da scrivere elettrica e una pila di centinaia di lettere settimanali inviate dai lettori a Salinger che da anni rifiutava qualsiasi contatto con l’esterno, lasciandone a Joanna la lettura e una risposta standard di ringraziamento e di rifiuto a ulteriori contatti. Ma tra queste c’erano lettere struggenti e per le quali a volte c’erano risposte firmate Joanna, inviate con il terrore di venire licen-

ziata, o peggio ancora, odiata. E poi c’erano le telefonate di Jerry, amato e temuto fantasma, che scatenavano il panico nell’atmosfera felpata dell’Agenzia tutta librerie, poltrone in pelle, moquette e luci soffuse, e dove la volgarità dei neon e dei primi computer era bandita nel nome di abitudini e riti immutabili. «Era un lavoro prestigioso e che adoravo, ma a parte l’abbigliamento da “ragazza perbene” che sfoggiavo grazie al vecchio guardaroba di mamma, avevo orari da incubo e un salario da sopravvivenza. Perché a New York quello era uno dei lavori appannaggio delle ragazze di famiglia ricca e dell’ambiente. Ma per me fu un anno di acrobazie finanziarie e alimentari». Le feste, le delusioni amorose, le amiche che rinunciano ai sogni letterari newyorkesi per il matrimonio, o per impieghi più remunerativi in provincia; lo stringente codice del politi-

cally correct; gli incontri ravvicinati con il mondo dell’editoria e con quello degli scrittori; segreti, simpatie e disincanto, Un anno con Salinger racconta la società newyorchese dell’epoca all’interno di un romanzo di formazione: «Salinger era la fama e il mistero personificati, i suoi rapporti col mondo li teneva l’Agenzia, di conseguenza il mio capo e quindi io con molti batticuori e missioni quasi da agente segreto; in compenso lui era molto gentile, s’interessava a me e ai miei sforzi poetici, cosa insolita tra i clienti dell’Agenzia. Fu allora che lessi i suoi romanzi per la prima volta, mi commossi e capii meglio gli stuoli di lettori che gli scrivevano, anche se poi per anni mi sono identificata con il pessimismo di Franny (Franny e Zooey), e scoprii che quello era uno dei «magoni» che condividevo con mio padre. Pochi anni fa invece, rileggendo le opere di Salinger ho capito le mie scelte di allora e ho smesso di giudicarle». Niente più rimpianti, né rimorsi per Joanna Rakoff che ha collaborato anche alla trasposizione cinematografica di Un anno con Salinger con il regista Philippe Falardeau, una commedia newyorkese dove è impersonata dalla bella Margaret Qualley e la Capa ha i modi alteri di Sigourney Weaver. «Il mondo che racconto, oggi non c’è più», conclude Joanna, «nel giro di un anno il computer e le mail cancellarono lettere, macchine da scrivere e molti rapporti umani, ma crearono nuovi posti di lavoro meglio remunerati nei media, scardinando parte dei privilegi di classe newyorkesi. Per l’Agenzia fu un terremoto, per me l’inizio di una nuova vita». Bibliografia Joanna Rakoff, Un anno con Salinger, Vicenza, Neri Pozza.

Psicanalisi della cultura

Pubblicazioni ◆ Il lettore di libri e le sue pratiche analizzate dal punto di vista psicanalitico e forse anche psichiatrico in un libro di Guido Vitiello Stefano Vassere

Guido Vitiello insegna Teorie del cinema e dell’audiovisivo all’Università di Roma La Sapienza, e tiene una rubrica sul settimanale «Internazionale» che si intitola «Il bibliopatologo risponde» dove le patologie sono di regola psicologiche e psichiatriche e i pazienti soffrono di mali e devianze di tipo culturale. È con questa stessa valigetta del dottore che procede Il lettore sul lettino. Tic, manie e stravaganze di chi ama i libri. Il contesto non è nuovo; e il male di leggere, parente più sognante di quello di vivere, è patologia che ha esperti storici importanti in saggistica e soprattutto in letteratura. Lo specialista è chiamato a vedere a quali malattie può essere paragonata la specifica passione, a quali fantasmi e ossessioni può essere associato l’oggetto libro. Che cosa succede insomma nelle nostre menti malate del morbo culturale. Il tutto parte da un argomento semplice e strutturalmente elementare come quello del sesso dei libri, del loro genere. Sono i libri più maschi o più femmine? Ora, per dirla con Freud (che in questo libro ha cittadinanza diffusa e legittima), «tutti i complicati macchinari e gli apparec-

chi dei sogni sono con ogni probabilità organi genitali: armi, arnesi, aratro, martello, schioppo, rivoltella, pugnale, sciabola, capelli, fiori, nasi, pesci, lumache, gatti, topi, serpenti, rane...». Non ci sono i libri, nell’elenco, ma ci aiuta una allieva di Freud, Melanie Klein, per una coraggiosa scelta di campo: il libro è meraviglia femminile, e il primo libro che bramiamo è il

libro-corpo della madre; così come il libro è una specie di donna alternativa alla donna, un’amante. Di più: «la bibliofilia è un club per soli uomini che non vogliono essere disturbati da donne in carne e ossa mentre vanno a caccia di donne di carta». E ancora, da questo bel libro sappiamo anche di studi americani di qualche decennio fa a proposito della postura assunta da uomini e donne quando tengono in mano un libro e di tutta una serie di delizie psicanalitiche e comportamentali di incontestabile fascino. Capito il meccanismo? La lente psicanalitica è applicata a tutta la gamma di esperienze legate alla lettura: le sensazioni che si provano davanti a una copertina, quasi fosse un vestito; quelle associate alla lettura a letto, prima di addormentarsi, sulla soglia e sul confine del meraviglioso mondo dei sogni e oltretutto nel luogo deputato alla congiunzione sessuale, contesto proibito e bramato per eccellenza. O se il lettore sia paragonabile più a un marito fedele oppure a un libertino insaziabile e incontentabile; se i classici rappresentino una specie di super-io, che incombe, dominante e irraggiungibile, sulle possi-

bilità fisiche del lettore, che mai e poi mai riuscirà a leggerli tutti. O perché mai si sia giunti a considerare il libro un valore positivo in sé, infallibile e miracoloso, portatore del bene al di là del bene e del male. Perché il porsi davanti all’impresa della lettura ha i suoi risvolti intimi, e le nevrosi, piccole o grandi che siano, si collocano nel dovere morale di portare a termine un libro seppure di fronte all’impressione crescente, pagina per pagina e capitolo per capitolo, di trovarsi al cospetto di una lettura superflua e dannosa, che fa perdere tempo. Succede sempre con i saggi sognanti e ambiziosi: il libro di Vitiello ha un suo pregio più nella ricchezza del cammino che nelle conclusioni della meta finale. È pieno di esempi del presente e del passato perché della malattia del leggere, prima o dopo, si sono occupati in molti. Tanto da configurare una sorta di archetipico mistero originale: il mistero della passione estatica della cultura. Bibliografia Guido Vitiello, Il lettore sul lettino. Tic, manie e stravaganze di chi ama i libri, Torino, Einaudi, 2021.

Luca Spadaro ne I danni del pomodoro.

Il pomodoro di Spadaro In scena ◆ Un’arte faticosa e complicata Giorgio Thoeni

Una sfida impari quella che si è consumata sul palco del Teatro Foce di Lugano che ha ospitato I danni del pomodoro di e con Luca Spadaro: lo spettacolo proposto era in concomitanza con due serate del festival di Sanremo. Pertanto di pubblico in sala ce n’era pochino. Peccato perché valeva la pena assistervi. Spadaro, abile drammaturgo e regista, questa volta aveva scelto di misurarsi anche come attore. Tutto sotto lo sguardo di Silvia Pietta, allieva e interprete preferita, per l’occasione occhio esterno sulla resa interpretativa del suo mentore. Come una sorta di confessione artistica costruita sulla falsariga de I danni del tabacco, celebre monologo di Cechov, la versione di Spadaro prende spunto da una notizia letta su un giornale: la morte per sfinimento di un giovane africano reclutato illegalmente per la raccolta di pomodori in Puglia. Una schiavitù che spesso diventa letale per disperati come l’infelice vittima. L’autore, come nella conferenza cechoviana, esce dal tema di una pseudo-conferenza ortofrutticola, si lascia alle spalle il pomodoro e cede il passo a un bilancio artistico di mezz’età, una riflessione personale, quasi autobiografica, sulle fatiche del fare teatro che racconta su attrezzi di ginnastica da camera, uno stepper e una bicicletta. Strumenti lontanamente simbolici ma che, oltre a produrre sudore e stanchezza a cui ormai non si può più rinunciare, scopriamo essere dei generatori per i fari sull’attore, necessari per lo svolgimento dello spettacolo. Una sorta di vicolo cieco (o buio) contro cui battersi. Come la trappola della memoria (fintamente) zoppicante, incubo di ogni protagonista teatrale, alla pari di una costruita goffaggine sui movimenti e sugli oggetti. Insomma, I danni del pomodoro ci offre una versione insolita di Spadaro, efficace sia come penna sia nella recitazione. Una prova che conferma le sue capacità di regista scrupoloso, sinceramente e caparbiamente votato alla scoperta di quel fantomatico attore specchio, nato da una costola di Stanislavskij e proiettato nella ricerca di una relazione fra Neuroscienze e tecniche di recitazione. Per ora, ci lasciamo illudere dall’immagine riflessa di un attore appassionato, immerso in una pommarola fatta in casa, prigioniero di un mondo che è anche amaro caporalato di vita. Un attore impegnato a rispondere a domande esistenziali su come raccontare e restituire l’attualità a teatro, ma anche nel regalare uno spettacolo gradevole e ironico, gioco allusivo divertito e convincente.


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CULTURA

La scelta di comportarsi come un essere umano Incontri

A colloquio con Leah Tsemel, la controversa giurista israeliana protagonista del documentario Advocate

Sarah Parenzo

È venerdì mattina e sono in viaggio sull’autobus che da Tel Aviv porta a Gerusalemme per intervistare l’avvocatessa Leah Tsemel. Sono meno di  chilometri quelli che separano le due città, ma la percezione è di passare da un universo all’altro i cui mondi non si intrecciano mai. L’autista palestinese del taxi fatica a riconoscere l’indirizzo di Gerusalemme est che gli mostro sul cellulare e, immediatamente, mi vergogno della mia ancora imbarazzante ignoranza dell’arabo che, pur essendo la seconda lingua del Paese, non è padroneggiata dalla maggior parte degli ebrei israeliani. Le iniziali difficoltà linguistiche non ci impediscono tuttavia di intrattenere un’interessante conversazione sulla politica e le ragioni della mia visita, che si conclude con lo scetticismo del taxista in un possibile cambiamento nonostante gli sforzi «dei pochi ebrei coraggiosi». La prima volta che vidi Tsemel di persona fu nel  al festival Docaviv, in occasione della proiezione del film documentario Advocate, di cui è la protagonista. Quando il pubblico si alzò in piedi per applaudirla mentre saliva sul palco mi scesero le lacrime per la commozione e, anche oggi, non nascondo una certa emozione in vista di quest’incontro. Giunta finalmente a destinazione realizzo di trovarmi a pochi metri dal famoso Hotel American Colony e mi accingo a salire quattro piani di scale di un edificio apparentemente deserto e discretamente squallido. Benché non sia in grado di leggere le insegne, la fila in attesa di ricevere udienza mi fa comprendere di essere arrivata nel posto giusto e, come se fossi stata catapultata sul set di Advocate, mi accomodo anch’io nella sala d’aspetto del celebre ufficio di Leah Tsemel. Mentre clienti e collaboratori entrano ed escono da quello che deve essere il suo studio, chiacchiero con una bella ragazza dalle lunghe unghie colorate di viola, venuta a presentare la propria candidatura come praticante legale. Mi racconta di essersi laureata in giurisprudenza e di aver sostenuto anche lei, come me, gli esami dell’Ordine degli Avvocati di Gerusalemme per l’equiparazione delle lauree conseguite all’estero. Il paradosso è che, mentre io ho studiato a Milano, lei si è laureata presso l’Università palestinese di Birzeit a pochi chilometri da qui. Mi complimento per il livello del suo ebraico che scopro aver imparato lavorando come manicurista in un centro commerciale di Gerusalemme ovest. Lei invece è di Gerusalemme est e questo significa che non detiene la cittadinanza israeliana, ma ha diritto solo alla carta di identità che conferisce lo status di residente. La segretaria invece riconosce il mio accento italiano e mi racconta entusiasta di aver lavorato come educatrice presso un’organizzazione italiana attiva nei campi profughi e di aver perciò trascorso intere estati in Emilia Romagna, delle quali serba in particolare il ricordo delle punture di zanzara. Finalmente arriva il mio turno e varco anch’io la porta dello studio dove, dietro la scrivania, spunta una signora di bassa statura e dal temperamento energico la cui età anagrafica è tradita solo dalle rughe del volto. Ma chi è Leah Tsemel? Nata a Haifa nel  da genito-

Sono d’accordo purtroppo. Anch’io sostengo pienamente la soluzione di uno Stato unico, purché viga la piena uguaglianza di diritti, tuttavia onestamente credo che, se avessero la facoltà di decidere da soli, gli ebrei d’Israele sceglierebbero lo scenario più cruento. La maggioranza è cieca e sorda rispetto al suo stesso futuro e alla concreta possibilità di vivere qui, fuorviata dalla paura e dalle false promesse dello Stato che, dal canto suo, fa di tutto per impedire ogni soluzione. Lo vedo come il fallimento mio e dei miei amici nel cambiare l’atmosfera e la realtà in tutti questi anni.

Un’intensa immagine dell’instancabile LeahTsemel. (Wikimedia, ClaudeTruong-Ngoc)

ri sionisti, dopo il servizio militare Tsemel si iscrive a giurisprudenza all’Università Ebraica di Gerusalemme. Saranno poi gli esiti della Guerra dei Sei Giorni, del , a condurla all’attivismo politico e a improntare la sua controversa carriera legale. Da più di quattro decenni, infatti, i suoi clienti sono quasi esclusivamente palestinesi: uomini, donne e sempre più bambini, che vengono processati nei tribunali israeliani per presunti crimini che vanno dal lancio di pietre al tentato attentato suicida. Impavida e determinata, Tsemel è un personaggio scomodo per la maggior parte dei suo connazionali che, percependola come una minaccia, la definiscono una traditrice e persino un’ebrea antisemita.

Lei fa spesso riferimento agli eventi successivi al  come fondamentali nel determinare la Sua identità politica e professionale. Potrebbe spiegarsi meglio? Fino allo scoppio della guerra ero una tipica israeliana sabra, studentessa presso la facoltà di legge di Gerusalemme, allora una piccola cittadina universitaria. Alla vittoria israeliana seguì una grande euforia che contagiò anche me, felice e ingenuamente convinta che l’abbattimento di mura e confini si sarebbe tradotto in concrete opportunità di cambiamento nei rapporti con gli arabi verso una pacifica convivenza. Tuttavia dovetti presto ricreder-

mi di fronte all’evidenza che non era la pace quella che Israele perseguiva, bensì l’ulteriore implementazione di una politica coloniale contrassegnata da un atteggiamento discriminatorio nei confronti dei palestinesi attuato attraverso la distruzione di interi villaggi, l’espropriazione di terre ed espulsioni degli individui stessi. Fu allora che iniziai a pormi dei dolorosi interrogativi, anche sulla differenza tra il  e il , parte delle risposte ai quali le trovai aderendo alla rivoluzionaria organizzazione socialista e antisionista Mazpen, fondata principalmente da fuoriusciti dai partiti comunista e socialista. Fu allora che sentii di dover prendere una posizione, e la scelta istintiva fu quella di comportarmi da essere umano. Sono molto orgogliosa di essere ebrea, e penso che molte delle mie azioni e gran parte della mia concezione morale siano basate su ciò che considero ebraismo, tuttavia in quelle circostanze, posta di fronte alla decisione se far prevalere la mia umanità alla mia «lealtà israeliana», scelsi la prima. Leah Tsemel rappresenta palestinesi accusati di ogni sorta di reato, dal lancio di sassi agli attentati suicidi falliti. Cosa La spinge ad andare in tribunale quasi ogni giorno per combattere per i loro diritti? Prima di tutto la rabbia, perché non posso accettare questa realtà, e anche una sorta di stupido ottimismo. Fin dall’inizio, quando diventai avvocato, fu naturale per me cercare di difendere i perdenti, i palestinesi. Ritengo che le persone sotto occupazione abbiano il diritto di combatterla come possono e, in qualità di israeliana, non penso di essere la persona giusta per criticarne moralmente le azioni, bensì cerco di stare loro vicino mettendo a disposizione la mia conoscenza della legge per difenderli e garantire loro un processo il più possibile equo. Inoltre bisogna anche considerare le conseguenze dell’occupazione dal punto di vista civile in termini di diritti, status identitari, ricongiungimenti familiari ecc. Negli anni ha patrocinato casi molto complessi che hanno suscitato

non poca rabbia nei sui confronti da parte del pubblico che L’ha criticata e persino minacciata di morte. Recentemente ha difeso anche Arafat Irfaiya accusato di stupro. Le succede di rifiutare casi specifici? Non ho difeso Irfaiya, ma la famiglia, perché volevano demolire loro la casa, benché nello stupro non vi fosse alcun elemento di minaccia alla sicurezza nazionale. Semplicemente ogni pretesto è buono. Ho rifiutato pochissimi casi e tendenzialmente non rappresenterei un collaborazionista, ovvero un palestinese che collabora con Israele vendendo il suo popolo all’occupazione. Ha menzionato il diritto ad un processo equo, ma come spiega che palestinesi ed ebrei residenti nei medesimi territori vengano giudicati in tribunali diversi? I palestinesi vengono condotti alle corti militari, mentre gli ebrei fanno riferimento ai tribunali civili del paese: si tratta di una disparità sostanziale? Si chiama apartheid! In anni e anni di occupazione Israele è divenuta maestra nell’escogitare sofisticati espedienti di repressione e mortificazione di un’intera popolazione, a cominciare dalla separazione delle famiglie che indebolisce e avvilisce gli individui. L’intenzione è quella di vessare ulteriormente un nemico già molto fragile e liberarsene un po’ alla volta, per quanto possibile, oggi attraverso l’esilio, domani con una guerra e via dicendo. Se prima se ne parlava, negli ultimi anni non si sente nemmeno più discutere di pace, anzi dal Covid in poi la questione sembra essere sparita da ogni agenda politica. A proposito di politica, recentemente ho intervistato A.B. Yehoshua sulla soluzione dello Stato unico e i risvolti pratici della sua attuazione. Tuttavia non posso fare a meno di constatare che la realtà fa propendere maggiormente per uno scenario di apartheid e pulizia etnica, piuttosto che per quello ottimistico coraggiosamente propugnato dallo scrittore. Lei cosa ne pensa?

Lei stessa, tuttavia, ha affermato di essere una donna ottimista, come si immagina allora il futuro? Cosa si può fare nel quotidiano per influenzare positivamente le coscienze verso un cambiamento? Quello che già fanno quelli come noi, avendo cura di mantenere per quanto possibile le relazioni con la controparte, e gettando luce su tutte le ingiustizie e i torti, cercando di impedirli per quanto possibile. Un lavoro da formiche. Poi è fondamentale sostenere organizzazioni come B’tselem la cui presenza sul territorio è fondamentale anche per tutte le informazioni che raccolgono. Tornando al lavoro dei giuristi, insieme ad altri colleghi alcuni anni fa ha vinto un caso storico presso la Corte Suprema israeliana sull’uso illegale della tortura. Tuttavia sono più numerose le cause che perde rispetto a quelle che vince? Comincia a esserci una giurisprudenza nel campo dei diritti umani? Io non vedo i giuristi in grado di portare avanti qualcosa che si distacchi in misura sostanziale dal consenso, del resto gli stessi giudici sono scelti in base a esso, e sono loro ad avere l’ultima parola. Tuttavia il loro contributo è fondamentale per andare verso la normalizzazione, anche quando si conclude in un sostanziale insuccesso. Penso ad esempio agli sfratti di Sheikh Jarrah: pur avendo perso in tribunale, la battaglia è servita per trovare un compromesso. Inoltre, opponendoci formalmente alle ingiustizie, otteniamo pur sempre che esse vengano riportate agli atti, entrando così inevitabilmente a far parte della storia. È molto difficile modificare il sistema da questo punto di vista, e offese terribili vengono commesse dall’esercito, tuttavia i giuristi devono avere parte attiva perché sono ovunque e possono contribuire al cambiamento di atmosfera e coscienze. La straordinaria vita di Leah Tsemel è raccontata nel documentario intitolato Advocate, realizzato da Rachel Leah Jones e Philippe Bellaiche. Il film ha suscitato numerose proteste e polemiche in Israele dopo la vittoria nel  nella competizione israeliana Docaviv, il Festival internazionale del documentario di Tel Aviv. La stessa Miri Regev, allora ministro della Cultura, ne ha boicotatto sin dall’inizio il conferimento del premio e le proiezioni nelle sale cinematografiche del Paese. Il film ha vinto tra gli altri l’Ophir Award nel , nonché la prestigiosa qualifica di miglior documentario alla quarantaduesima edizione degli Annual News and Documentary Emmy Awards.


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Di nuovo notti insonni? Questo renderà le vostre notti di nuovo ristoratrici

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CULTURA

Dietro la lente di Villi Fotografia

Gli scatti di Villi Hermann in mostra a Casa Donetta

Giovanni Medolago

Tra rito e mito

In galleria ◆ Alla Michela Negrini di Lugano una mostra dell’artista turca Canan Alessia Brughera

È nato nel maggio del . Non solo zodiacalmente è un toro che nella sua vita ha fatto davvero di tutto. Anche l’insegnante di francese in un paesino dell’Algeria di Ahmed Ben Bella, visionario paziente dal cuore rivoluzionario, nonché leader berbero che sconfisse il secolare colonialismo francese. E sotto sotto anche Villi Hermann ci appare oggi un visionario paziente dal cuore rivoluzionario. È da sempre schierato a sinistra, in modo tuttavia discreto, ben cosciente che in Svizzera gli estremismi faticano ad attecchire. Eppure, la sua vocazione artistica l’ha più volte portato a denunciare le condizioni degradanti in cui spesso si ritrovano gli esclusi dalla nostra società, a dar voce – e soprattutto immagini – a chi si trova costretto a lottare per garantirsi un’esistenza dignitosa. Non è un caso che tra i suoi primi lavori troviamo Cerchiamo per subito operai, offriamo… (che riecheggia il Max Frisch di Cercavamo braccia, sono arrivati uomini) e che in piena maturità abbia girato quel San Gottardo che nel  denunciò l’ambiente paraschiavista in cui operavano minatori italiani e jugoslavi sul cantiere della galleria autostradale e che quell’anno gli valse il Pardo d’Argento locarnese. È stato un visionario capace di dar vita giusto quarant’anni or sono, nel ristretto Ticino, a «Imago», casa di produzione che ci ha offerto pellicole con attori del calibro di Omero Antonutti, Francesca Neri e tra gli altri Bruno Ganz. Come produttore è un padre-chioccia cui devono molto Niccolò Castelli, Erik Bernasconi e Alberto Meroni. Anche Cronofobia del mendrisiense Francesco Rizzi è uscito dalla scuderia Imago per andare a raccogliere parecchi quanto prestigiosi riconoscimenti internazionali. Casa Donetta di Casserio ci dà ora la possibilità di scoprire il Villi Hermann fotografo (in realtà «un regista che prende appunti con l’apparecchio fotografico», annota Alberto Nessi).

Villi Hermann, Karachi (Pakistan), Cinema e venditori ambulanti, 1991. (© www. imagofilm.ch)

Accanto al cinema, la fotografia è infatti un’altra passione di Hermann, il quale ha lavorato con Renato Berta e Carlo Varini (cineasti ticinesi che hanno raggiunto fama internazionale quali direttori della fotografia su set prestigiosi) e che ha dedicato ben cinque documentari ad altrettanto grandi fotografi. Dal ginevrino Jean Mohr al «Pedra» – reporter locarnese caduto nel  durante l’insurrezione di Budapest che stava documentando per «Paris Match» – passando per Gotthard Schuh e per il luganese d’adozione Christian Schiefer, che documentò lo scempio di Piazzale Loreto il  aprile . Fedele all’amato bianco&nero, per la sua prima mostra Hermann ha scelto molte immagini scattate durante i suoi viaggi. Da Karachi a Giava, dalle campagne cinesi a Bali, Villi conferma sia la sua attenzione al dettaglio, sia l’empatia con i soggetti ripresi. In questo contesto, splendido e pieno di umanità, il ritratto della ballerina balinese di  anni. Ma nemmeno trascura piccoli avvenimenti locali come la mazza del maiale, l’ultima notte di lavoro del panettiere di Beride (villaggio natale di sua madre e dove Villi ha quasi sempre vissu-

to) e l’ultima proiezione al Teatro di Chiasso, divenuto alla fine degli Anni  un cinema porno che attirava soprattutto spettatori italiani, visto un certo permissivismo elvetico. Chez Donetta non potevano mancare alcune lastre lasciateci dal «Ruberton», pioniere bleniese anch’egli e a suo tempo affascinato dal cinema. Ecco ad esempio l’immagine di un proiezionista, «personaggio di fuorivia messo in scena con perizia – annota ancora Alberto Nessi nel catalogo della mostra, dove troviamo anche scritti di Antonio Mariotti e dello stesso Hermann – e così diverso dai suoi contadini, artigiani e boscaioli sui quali si legge la fatica e la durezza del vivere. Qui abbiamo, sotto un elegante cappello cittadino, un viso impiegatizio accanto al proiettore che promette sogni, viaggi, evasioni». In fondo, ciò che Villi Hermann ha sempre cercato, spingendosi da Beride ai quattro angoli del mondo. Dove e quando Viaggio con la fotografia. Immagini di Villi Hermann, Casa Donetta di Casserio. Orari: sa e do 14.0017.00 o su appuntamento (091 871 12 63). Fino al 24 aprile 2022.

Canan è un’artista turca nata a Istanbul nel . Definita femminista e attivista da quando, negli anni Novanta, incomincia a occuparsi della relazione tra le strutture del potere e le donne, Canan porta avanti con i suoi lavori una ricerca volta a esplorare quanto la politica, la famiglia, la religione e il contesto sociale condizionino l’esistenza di ogni individuo. Con la scelta di utilizzare dal  il solo nome di battesimo, liberandosi così dal cognome dell’ex marito dopo averne ottenuto l’autorizzazione (pratica ostica, questa, in Turchia), Canan ha iniziato un percorso di riaffermazione della propria identità di donna e di artista. E lo ha fatto utilizzando molteplici linguaggi espressivi e sperimentando tecniche fra loro anche molto differenti, dalla miniatura al ricamo, dal video alla scultura. L’esposizione a lei dedicata, allestita presso la Galleria Michela Negrini a Lugano (spazio attivo da alcuni anni nel nostro cantone che ha pre-

sentato numerosi autori di fama internazionale, basti citare su tutti Joseph Kosuth) è la prima personale dell’artista in territorio elvetico, un’occasione preziosa per entrare nel suo variegato universo creativo. Si scopre così che a caratterizzare l’indagine di Canan è lo studio dei miti che dall’antichità a oggi si legano ai sistemi di potere e al concetto di genere, determinando il valore e il senso stesso della vita umana. In questo contesto, nelle sue opere più recenti l’artista rivela come le vecchie narrazioni, traghettando i secoli, possano confluire in nuovi scenari etici congiungendosi alle vicende contemporanee. La sua ricerca prosegue poi nell’analisi dei simboli che appartengono alla coscienza collettiva e al subconscio, riflettendo su come questi agiscano sul modo di vivere e di pensare di ciascun individuo nonché sulla sua comprensione del passato e della storia. Quello che si presenta al nostro sguardo nella galleria luganese è un mondo colorato e fantasioso popolato da esseri soprannaturali e da figure archetipiche che incarnano i diversi aspetti della psiche dell’uomo. Iconografie sospese tra realtà e fiaba che Canan utilizza per conoscere la risposta emotiva e intellettuale dell’animo umano attraverso le immagini. Con i suoi misteriosi cerimoniali notturni, come quello raccontato nel suggestivo video Women Bathing in Moonlight realizzato nel , con le sue raffinate miniature ispirate ai personaggi della mitologia islamica e con i suoi preziosi ricami su arazzi di tulle che proiettano impalpabili opere di ombre e luci, Canan, abile narratrice, consegna allo spettatore un’esperienza che sa di rituale purificatore.

Canan, Falname series, 2020 inchiostro, gouache, matita su carta speciale. Courtesy l’Artista e Galleria Michela Negrini.

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Morrison, nuova freschezza

Le radici di Soltani

Benedicta Froelich

Enrico Parola

Musica ◆ I vantaggi della maturità: James Morrison, una delle poche voci del moderno «white soul», rielabora (con gusto) il proprio repertorio

Dal punto di vista dell’attuale musica popolare, si potrebbe dire che il nuovo millennio abbia aperto le porte a una serie di giovani e prestanti, più o meno fortunati cantautori pop angloamericani, che in molti casi hanno catturato l’interesse di un pubblico perlopiù giovanile. Da anni ormai, il enne britannico James Morrison ne rappresenta un esempio sufficientemente accattivante da essersi conquistato più di una scalata alle classifiche internazionali, e numerosissimi passaggi radiofonici; e il fatto che, rispetto ad altri colleghi, sia forse stato meno preponderante nell’immaginario collettivo è dovuto soprattutto alla sua particolare cifra stilistica – da sempre caratterizzata da un uso peculiare del timbro vocale, profondamente intriso di sfumature soul e collocabile nella migliore tradizione bianca del genere. In realtà, il nuovissimo Greatest Hits appena dato alle stampe da James non rappresenta la classica retrospettiva a cui siamo abituati da decenni di tradizione commerciale: le  tracce del CD costituiscono infatti arguti tentativi, da parte di Morrison, di rivisitare i pezzi più celebri del suo catalogo in versioni perlopiù scarne e minimaliste, qui definite come refreshed. E di fatto, la volontà dietro quest’album era proprio quella di offrire a James la possibilità di tornare su tali brani a distanza di anni, così da poter, in un certo senso, «aggiornarli»: un’occasione di riflessione, e un’opportunità per mettere alla prova la propria evoluzione come artista. Non è quindi un caso che uno dei pezzi chiave della tracklist sia un’ottima versione acustica di You Give Me Something, brano che, come singolo apripista dell’album d’esordio Undiscovered, portò Morrison alla ribalta nel ; e non manca nemmeno una versione davvero intensa del tormentone Broken Strings, originariamente cantato in coppia con l’eterea Nelly Furtado e qui reso ancor più suggestivo ed efficace grazie al minimalismo acustico di una rilettura ben riuscita. Certo, non tutte le rivisitazioni hanno la stessa efficacia; ad esempio, la versione «semplificata» di un brano come You Make It Real si presenta qui in una chiave un po’ troppo monocorde, che poco si confà a Morrison – il quale del resto, per quanto talentuoso, non può ancora vantare un’assoluta maestria interpretativa nel campo

James Morrison è nato a Rugby (GB) nel 1984.

soul. Tuttavia, ciò che maggiormente salta agli occhi nell’ascolto di Greatest Hits è il fatto che, in queste rivisitazioni, James sia riuscito a evitare i problemi che lo affliggevano durante le esibizioni dal vivo: infatti, sebbene dotato di una voce quantomeno interessante, a volte Morrison si ritrova a cedere alla tentazione di impiegare finti virtuosismi dalle tonalità lamentose, in una sorta di caricatura dello stile che un cantante confidenziale dei bei tempi andati avrebbe potuto impiegare in un nightclub d’alto bordo. E non sempre la miscela funziona, in quanto il risultato può finire per risultare lezioso, più simile all’eccesso d’autoindulgenza di un principiante che al consapevole giudizio tipico di un interprete maturo – al punto che, in taluni concerti del passato, i gorgheggi di James apparivano, infine, quasi fastidiosi, portandolo a suonare come lo sbiadito equivalente di un poco grintoso Rod Stewart. Fortunatamente, proprio come il termine stesso sembra implicare, queste versioni «refreshed» risaltano invece per essere perlopiù fresche e disinvolte, e, allo stesso tempo, estremamente mature: si vedano pezzi ritmati come I Won’t Let You Go, la cui nuova versione acquisisce sonorità deliziosamente blues, permettendo ai tentativi virtuosistici di James di trovare uno

sbocco funzionale – come accade, del resto, anche con le ballate più intimiste: un esempio su tutti, la struggente Too Late For Lullabies. Naturalmente, come con ogni raccolta che si rispetti, anche questo CD offre poi due brani inediti a fare da bonus per i fan: il primo, Who’s Gonna Love Me Now, costituisce un’ottima conferma dell’efficacia del songwriting di Morrison, tuttora in grado di produrre brani mirabilmente a cavallo tra sfumature rhythm’n’blues vagamente anni  e travolgenti sonorità radiofoniche odierne. Anche Don’t Mess With Love, per quanto forse meno originale in termini compositivi, resta un esempio gradevole e ballabile del talento di James, qui alle prese con accenti in puro stile Motown. Tutte conferme che portano, infine, all’inevitabile conclusione che questa raccolta ci regala – ovvero, che se per certi versi James Morrison non ha forse ancora raggiunto la piena espressione delle proprie potenzialità, quanto gli manca è soltanto un po’ di quello che un tempo si era soliti definire, in termini stilistici, come «nerbo». E poiché stiamo parlando di un artista ancora giovane, nonché dotato di innegabile potenziale, vi sono pochi dubbi sul fatto che il futuro sia destinato a confermarlo come performer di talento.

Concerti ◆ In palio alcuni biglietti per il concerto del 24 febbraio diretto da Urbansky

Ci sono la Persia e anche la Svizzera, nelle radici di Kian Soltani; e c’è anche un filo tutt’altro che sottile tra il giovane violoncellista austriaco e il primo Concerto di Shostakovich di cui sarà solista giovedì prossimo (ad accompagnarlo l’OSI che Krysztof Urbansky dirige anche nella suite da L’uccello di fuoco di Stravinskij). «Sono nato a Bregenz, cittadina austriaca che lambisce la Svizzera, e le tre città in cui mi sento a casa sono Berlino, Vienna e Zurigo», racconta Soltani «I miei genitori sono persiani ed entrambi musicisti professionisti; sono cresciuto immerso nella musica, sia quella classica occidentale sia quella tradizionale del nostro Paese». Nel  ha inciso Home dedicato proprio al repertorio iraniano; e suona anche il kamancheh, sorta di versione persiana del violoncello; «È uno strumento interessante, ma ha differenze tecniche sostanziali e quindi il mio maestro mi spiegava come fosse meglio tenermene lontano perché avrebbe inciso negativamente sulla mia tecnica violoncellistica». Tornando al milieu familiare in cui è cresciuto, Soltani sottolinea come «non solo i miei genitori, ma quasi tutti i miei familiari suonano…». In particolare un cugino di tre anni più grande: «Fu lui a instradarmi al violoncello. Quando ero piccolo lui era il mio idolo, e siccome a quattro anni aveva iniziato a studiare violoncello, quando fui io a compierli feci la stessa richiesta per essere come lui. Mamma era contenta e appoggiò convinta la mia idea, perché era uno strumento che le piaceva tantissimo». Il violoncello lo stregò rapidamente, rivelando un talento non comune maturato sotto il magistero di Ivan Monighetti. «Era stato

Concorso «Azione» mette in palio alcuni biglietti per il concerto dell’Orchestra della Svizzera italiana diretta da Krzysztof Urbanski con l’esibizione di Kian Soltani che si terrà al LAC giovedì 24 febbraio 2022. Per partecipare al concorso inviare una mail all’indirizzo giochi@azione.ch con i propri dati (nome, cognome, indirizzo, tel.), oggetto «OSI e Soltani», entro le 24 di mercoledì 16 febbraio 2022. Buona fortuna!

Kian Soltani. (Juventino Mateo)

allievo di Mstislav (Slava) Rostropovich a Mosca e cercava di trasmetterne lo spirito sia raccontandomi aneddoti, episodi, dialoghi avuti con lui, sia nel modo di insegnare: affrontava lentamente ogni brano per stare con meticolosità su ogni nota. Ho studiato con lui per undici anni; non mi segnava mai le diteggiature, voleva che trovassi una mia strada. È stato un mentore, generoso e illuminante». Attraverso Monighetti, dunque, Soltani ha potuto attingere allo spirito di Rostropovich, che fu dedicatario del Concerto di Shostakovich. I due erano amici e più volte il grande Slava gli aveva chiesto di scrivergli un concerto. Un giorno lesse sul giornale che Shostakovich l’aveva composto, ma non sapendone nulla pensò che l’avesse scritto per un altro; si precipitò infuriato a casa di Shostakovich. Questi si giustificò spiegandogli di temere che l’opera non piacesse e non fosse all’altezza del suo talento; Slava lo lesse a prima vista accompagnato dal compositore al pianoforte. Fu il battesimo domestico di un capolavoro assoluto, e fu pace tra i due che poi brindarono a bicchieri di vodka. Tra i violoncellisti d’oggi, Soltani ha una sua trinità personale: «Yo Yo Ma, per la sua abilità nel far comunicare tra loro culture diverse, nel cimentarsi in generi differenti creando sempre progetti convincenti. Steven Isserlis, per la sua purezza e onestà interpretative. Giovanni Sollima, che è anche compositore e che attraverso i suoi brani ha creato un modo nuovo di essere violoncellista». Per dar voce alla sua attività, Soltani non disdegna i social: «Sono utili, il % dei miei contatti ha meno di trent’anni; attraverso i social invito i giovani ai concerti e loro stessi si invitano reciprocamente».

Le nuove povertà Feuilleton

Il romanzo a puntate di Lidia Ravera per «Azione»

Lidia Ravera

Fanny non rispose subito, Von Arnim rimase ad ascoltare il segnale con calma, era un vezzo consueto quello di farlo aspettare e poi mentirgli: «Che cosa ho fatto di male per meritarmi una telefonata nel cuore della notte? Dormivo come un ghiro imbottito di lexotan». La voce era quella di sempre: piena, femminile, segnata da una leggera raucedine come una antica ringhiera fiorita dalla ruggine. Che non stava dormendo era evidente. Von Arnim si impose un tempo di silenzio, per inquadrare la rivelazione. «La piccola è qui. Nella tua stanza. Mi è piombata in casa questa sera, ve-

stita con la stessa tutta da ginnastica che indossava quando l’ho incontrata nel primo pomeriggio, senza effetti personali. In fuga da quella lite coniugale che tu avevi previsto e io negato». La risata di Fanny, lo commosse e lo irritò. Un sentimento che aveva percorso tutti gli anni del loro lungo matrimonio. Quante volte gli aveva risposto ridendo? Rideva senza malignità, in perfetta innocenza, come ride soltanto chi possiede un accesso privilegiato a quella inafferrabile attività che va sotto il nome di divertimento. Era impossibile non invidiarla.

Ma anche amarla non era semplice. Certe volte, soprattutto quando erano giovani, le sembrava un’aliena. Nessun essere vivente su questo pianeta sapeva rifiutare così naturalmente la dimensione drammatica dell’esistenza. Meno che mai un essere di genere femminile. «Piantala, disgraziata», disse Von Arnim, sorridendo suo malgrado. «È stato imbarazzante. La piccola ha allineato, davanti a una bottiglia di Baron de Ladoucette, tutti i suoi demoni. E… beh, è stato un po’ terribile». «Non vedo niente di terribile, a parte la perdita di una bottiglia di

sauvignon in purezza, tra l’altro è il mio vitigno preferito». «Non fare il dandy, sei tu che mi hai messo in questa situazione». «Solo in duecento cinquanta metriquadri con una giovane donna bellissima disposta, non dico a vendersi, ma certamente a regalarsi… credi che riusciresti a far pena a qualcuno?» Von Arnim pensò che il sonno stava per travolgerlo a tradimento, sbadigliò nel tentativo di frenare l’effetto della melatonina. «La smetti di scherzare?», disse, simulando un’esasperazione che in effetti, provava, o credeva di provare.

Nel silenzio gli parve di sentire Fanny tirare una lunga boccata dal cigarillo scuro che si ostinava a fumare in sprezzo dei suoi polmoni compromessi da un’intera vita di viziosa. «La smetto di scherzare», disse Fanny, alla fine di una scarica di colpi di tosse a cui cedeva sempre volentieri, quasi fosse un intermezzo musicale. «Ma che cosa dovrei dirti? Goditela. Oppure accompagnala a casa e levatela dai piedi. Vuoi liberartene o vuoi continuare a giocare? Che cosa vuoi? Devi decidere». «Vorrei non danneggiarla». ( - Continua)


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