Azione 09 del 26 febbraio 2018

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 26 febbraio 2018

Azione 09 59 ping M shop ne 41-44 / 57i alle pag

Società e Territorio Il servizio civile è una scelta sempre più apprezzata dai giovani svizzeri, un successo che, però, penalizza l’esercito

Ambiente e Benessere Nel 2050 il 52% della popolazione mondiale non avrà acqua a sufficienza, a meno che non si riesca a raggiungere uno dei fondamentali obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU

Politica e Economia Chi guiderà l’Europa ora che la Germania è meno autorevole e più affaticata, come la sua cancelliera?

Cultura e Spettacoli Ernst Lothar ci regala uno spaccato letterario dell’Europa sotto il regime nazista

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Posta, crisi di fiducia e controlli lacunosi

Le più belle dimore da fiaba nella Baviera che fu di Ludovico II

di Peter Schiesser

di Simona Dalla Valle

Simona Dalla Valle

AutoPostale SA ha nascosto per anni degli utili finanziari per incassare più sussidi dalla Confederazione? Pochi si aspettavano qualcosa del genere: la Posta e le Ferrovie sono tuttora dei simboli nazionali, su cui, senza nemmeno pensarci, si proiettano le virtù che si ritengono elvetiche: affidabilità, precisione, onestà, spirito di servizio. Ecco dunque un perfetto scandalo elvetico, in cui sono in gioco valori identitari. I sussidi ottenuti illegalmente dalla Confederazione ammontano a 80-100 milioni di franchi in 8 anni, attorno ai 10 milioni all’anno. Poca cosa, se posti in relazione ai 38 miliardi e 780 milioni di franchi che la Confederazione elargisce ogni anno in sussidi, ma qui non è la cifra della «truffa» che conta, bensì che truffa ci sia stata. Qualcuno dunque dovrà pur pagarne le conseguenze, e per giorni, dopo la conferenza stampa del 6 febbraio dell’Ufficio federale dei trasporti, in cui rese nota la prassi illegale della AutoPostale SA in auge fra il 2007 e il 2015 (chiedendo la restituzione di 78,3 milioni di franchi), sembrava che il Consiglio d’Amministrazione della Posta potesse licenziare la direttrice dell’azienda Susanne Ruoff. Invece la direttrice resta per ora al suo posto e l’inchiesta sul caso viene condotta internamente dal presidente del consiglio d’amministrazione Urs Schwaller. A chi ritiene che per evitare conflitti d’interesse sarebbe meglio affidare l’inchiesta ad un organismo esterno, Schwaller oppone la sua credibilità di ex politico di peso (è stato fino alla scorsa legislatura al Consiglio degli Stati per il PPD) e di essere presidente del CdA solo dal 2016, quando la prassi incriminata era stata abbandonata; inoltre un’inchiesta interna può essere condotta in tempi più brevi. Si tratta comunque di analizzare migliaia fra mail e documenti, qualche mese ci vorrà. Solo a quel momento si potrà capire il grado di responsabilità di Susanne Ruoff, in particolare quanto grave sia stato non riconoscere questo problema contabile, considerato che nell’agosto del 2013 l’ufficio di revisione interno alla Posta aveva segnalato in un promemoria la prassi illegale della AutoPostale SA di nascondere degli utili per ottenere più sussidi. Ma al di là delle responsabilità della direttrice generale dell’azienda (il direttore della AutoPostale SA Daniel Landolf è stato pensionato immediatamente), ci sarà anche da chiedersi per quale motivo qualcuno all’interno dell’azienda abbia deciso di nascondere utili per avere più sovvenzioni. Alcune voci critiche hanno ricordato che da anni anche la Posta cerca una massimizzazione dei profitti: gli obiettivi di maggiori utili, introdotti già ai tempi del duo Ulrich Gygi (direttore generale) e Peter Hasler (presidente del CdA e già presidente del padronato svizzero), hanno forse indotto qualcuno a voler raggiungere gli ambiziosi obiettivi imposti con metodi poco ortodossi? Speriamo vivamente di no. L’inchiesta dovrebbe anche aiutare a capire perché c’è voluto qualche anno, la tenacia del revisore capo all’Ufficio federale dei trasporti Pascal Stirnimann e l’intervento della consigliera federale Doris Leuthard per porre fine a questa prassi illegale e la Posta di fronte alle proprie responsabilità. Inoltre, qualcuno avrà ben dovuto controllare i conti della AutoPostale SA e ratificarli, perché non ci si è accorti di nulla prima? Le reazioni delle istanze coinvolte ci fanno però capire che c’è un problema di fondo nella struttura stessa di controllo. Da una parte, l’Ufficio federale dei trasporti dichiara di non avere le capacità sufficienti, 2,6 impieghi per controllare 150 aziende di trasporto e 1500 linee (ah, lo Stato snello!), e addossa la responsabilità alla società di revisione KPMG. Dall’altra, la società di revisione risponde di non essere responsabile della verifica della conformità dell’impiego dei sussidi, ma a sua volta l’Ufficio federale dei trasporti risponde dichiarando che invece sta alla società di revisione fare una valutazione delle ricadute delle leggi e di avere le necessarie conoscenze in materia di sussidi federali... Il problema però sta ancora più a monte: l’Ufficio federale dei trasporti vara le ordinanze e i regolamenti e allo stesso tempo esercita la funzione di controllo, oltre a quella di elargire sussidi assieme al Dipartimento federale delle finanze. Il professore del Politecnico di Losanna Matthias Finger, molto citato in questi tempi dai media di Oltralpe, ritiene che la funzione di controllo debba essere assegnata ad un organo esterno, indipendente. Solo così si potrà in futuro evitare o perlomeno ridurre il rischio di simili «truffe». Il dibattito oggi, Oltralpe, verte su di questo. Un appunto finale: la crisi di fiducia investe solo i vertici della AutoPostale SA. Di ritorno a casa la sera, ogni persona che scende dall’autopostale, in Malcantone, ha ancora l’abitudine di ringraziare per nome l’autista e di augurargli una buona serata. La fiducia in chi l’autpostale lo guida, è intatta.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Società e Territorio Torna Espoprofessioni La fiera della formazione professionale e dell’orientamento prenderà il via il 5 marzo al Centro esposizioni di Lugano pagina 3

Le emigranti svizzere dimenticate Un libro della storica Simone Müller racconta le storie delle donne svizzere emigrate in Inghilterra negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso

Videogiochi Kingdome Come: Deliverance, una produzione fuori dagli schemi che ci immerge nel Medioevo

Finire le Medie Ogni anno decine di giovani adulti recuperano la Licenza di Scuola Media grazie anche a Pro Juventute

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Una finestra sul mondo del lavoro

Espoprofessioni D al 5 marzo torna la fiera dedicata alla formazione professionale, in attesa della Città dei mestieri

Guido Grilli

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Il servizio civile si può svolgere in diversi ambiti: sanità, scuola, protezione della natura, socialità o aiuto umanitario. (Keystone)

L’esercito dei civilisti

Svizzera Il Consiglio federale intende ridurre l’attrattiva del servizio civile per favorire l’arruolamento nell’esercito Roberto Porta Il 2018 è un anno di riforme per il servizio civile svizzero. Riforme già approvate e definitive, entrate in vigore all’inizio dell’anno, e altre che sono tuttora al vaglio delle autorità politiche, con lo scopo di ridurre l’attrattiva del servizio civile e tentare di accrescere il numero di giovani che decidono di arruolarsi nell’esercito. Ma andiamo con ordine e iniziamo dalle modifiche legislative già in vigore, normative che riguardano, riassumendo, la durata dell’obbligo di prestare servizio e la scelta degli ambiti di attività, come ad esempio impieghi per i civilisti nella sanità, nella scuola, nella protezione della natura o ancora nell’aiuto umanitario. Tra le novità targate 2018 c’è quella che riguarda la riduzione dei giorni di servizio civile da svolgere. Un periodo che è stato accorciato di 23 giorni, passando a 368 giorni in totale. «Questo perché ci sono state due modifiche normative – ci spiega Mirjam Schmid, capogruppo presso la sede di Rivera dell’ufficio federale denominato ZIVI, l’Organo d’esecuzione del servizio civile – la prima modifica, quella che determina tra l’altro la riduzione dei giorni di servizio, è legata alle nuove norme sull’obbligo di prestare servizio militare, inserite nel cosiddet-

to “Ulteriore sviluppo dell’esercito”. In questo caso il servizio civile si è adattato a quanto succede nell’esercito. Il secondo ambito di modifiche riguarda invece soprattutto civilisti, ad esempio per disciplinare il servizio di lunga durata o un eventuale posticipo dell’obbligo di prestare servizio». Aspetti che possiamo pertanto definire tecnici e amministrativi e che finora non hanno avuto una grande eco sulla stampa svizzera. A far discutere sono state però altre possibili novità. Riforme che il Consiglio federale – su impulso anche del Parlamento – intende introdurre per ridurre l’attrattiva del servizio civile e la sua capacità concorrenziale nei confronti dell’esercito. Le cifre di questi ultimi anni parlano infatti chiaro. Nel 2011 il numero di civilisti si era assestato a 4670 unità mentre nel 2017 era salito a 6785. Da quando è stato introdotto il servizio civile, ormai 22 anni fa, il primato spetta comunque al 2010, con 6826 iscritti. Per quanto riguarda il canton Ticino va detto che l’anno scorso i nuovi civilisti sono stati 372, il 19% in più rispetto al 2016 – come ci ha indicato Mirjam Schmid. «Una cifra – ci ha detto ancora la capogruppo del ZIVI di Rivera – che nel corso degli ultimi anni non è sempre andata in crescendo, nel 2015 ad esempio il numero di nuovi

civilisti è stato inferiore seppur di poco rispetto al 2014». Complessivamente comunque i dati a livello nazionale testimoniano di quanto questo tipo di impiego sia sempre più apprezzato dai giovani del nostro Paese. Un successo che, come rovescio della medaglia, si ripercuote negativamente sull’esercito e sulla capacità del «grigioverde elvetico» di attirare nuove reclute nelle caserme. Da qui l’intenzione del governo di intervenire, anche perché c’è una soglia, un numero minimo di militi di cui l’esercito deve poter disporre per funzionare correttamente, ma che fa sempre più fatica a raggiungere. Questa soglia è fissata a 20mila reclute all’anno. Nel corso del 2017 – tra le scuole reclute invernali e estive – hanno indossato la divisa militare quasi 22mila ragazzi. Obiettivo raggiunto dunque, perlomeno a prima vista. I dati dicono infatti che in media il 20% circa di questi giovani non riesce a portare a termine la scuola reclute, per motivi medici o per altre ragioni. Defezioni che l’anno scorso hanno portato il numero effettivo di nuovi soldati a 18mila, inferiore pertanto alla soglia minima prevista. Per questo motivo lo scorso mese di novembre il Consiglio federale ha formulato dei possibili correttivi, in particolare per ridurre il numero di giovani che sceglie di passare al servi-

zio civile dopo la scuola reclute. Sono infatti parecchi i ragazzi che decidono di compiere questo passo, basti dire che nel 2016 ben il 40% dei nuovi civilisti proveniva proprio dall’esercito. L’obiettivo del governo è quello di accrescere il numero dei giorni di servizio da svolgere come civilista per chi lascia il grigioverde. Un modo, spera il Consiglio federale, per ridurre la perdita di militi registrata regolarmente dall’esercito. In linea di principio chi ha già svolto la scuola reclute dovrà svolgere almeno 150 giorni in qualità di civilista e dovrà attendere un anno prima di iniziare questo tipo di servizio, cosa che ad esempio potrebbe causare qualche problema per chi è ancora in formazione, all’università o in altre scuole. In ogni caso tocca al Dipartimento federale dell’economia, della formazione e della ricerca – quello diretto da Johann Schneider-Ammann – elaborare entro il prossimo autunno una riforma della legge in materia. Ma già fin d’ora Civiva, l’associazione che nel nostro Paese difende il servizio civile, è pronta a lanciare un referendum contro questo nuova normativa, facendo leva su questo argomento: se l’esercito ha un problema nel raggiungere il numero minimo di reclute di cui ha bisogno, la soluzione non sta nell’indebolire il servizio civile. Il problema è da risolvere

invece all’interno dello stesso esercito e nelle sue modalità di arruolamento. Per questo motivo Civiva ha fatto notare che il numero di giovani che lascia l’esercito per svolgere un’attività da civilista è nettamente inferiore al numero di persone che vengono scartate al momento del reclutamento in grigioverde. Se l’esercito intende curare meglio il proprio vivaio – dice ancora l’associazione dei civilisti – non deve fare del servizio civile un capro espiatorio ma deve semmai migliorare i propri criteri di selezione. Non per nulla, proprio da quest’anno, chi ha problemi fisici potrà essere comunque arruolato, se dimostra di avere particolare doti informatiche. Lo scopo – indicato anche da diversi atti parlamentari – è quello di poter contare sull’apporto di chi sa muoversi con abilità su internet per combattere la criminalità informatica e per lottare con maggiore incisività contro le minacce terroristiche. Una misura che dovrebbe contribuire a garantire all’esercito un numero sufficiente di militi, anche nel settore che si occupa della lotta alla cybercriminalità – senza per questo intaccare l’attrattiva del servizio civile. In ogni caso al più tardi in autunno ne sapremo di più, quando il Consiglio federale presenterà il suo piano d’azione per meglio equilibrare le forze tra esercito e servizio civile.

«Tutte le professioni cambiano, evolvono...». Una ragione in più per conoscerle da vicino. L’opportunità da cogliere è Espoprofessioni, la fiera che si tiene ogni due anni sulla formazione professionale e l’orientamento. Al via dal 5 al 10 marzo al Centro esposizioni di Lugano, l’edizione numero 13 si aprirà sotto il motto «Il tuo futuro da protagonista!». Tutti gli interessati – giovani e adulti – animati dalla curiosità di scoprire quanto ruota attorno ai mestieri e alla formazione professionale potranno ottenere un ampio ventaglio di informazioni e in molti potranno già incontrare persino il loro futuro datore di lavoro: grazie alla presenza di un centinaio di associazioni di categoria e istituti di formazione, oltre 200 saranno le finestre aperte su altrettante professioni illustrate attraverso stand e allestimenti della più grande mostra del canton Ticino che nel corso della sua sei-giorni accoglie una media di 30mila visitatori. Ma quali sono oggi le professioni più gettonate? E quelle in via di estinzione? Lo abbiamo chiesto a Claudia Sassi, direttrice aggiunta della Divisione della formazione professionale e vice presidente del comitato organizzatore di Espoprofessioni. «Tra le professioni più scelte si trovano sempre e ancor di più l’impiegato di commercio e l’impiegato del commercio al dettaglio. Poi arrivano le professioni nell’ambito socio-sanitario, seguite da quelle nei settori industriali, artigianali e così via. Le professioni che stanno cambiando maggiormente sono in realtà quelle che da anni stanno conoscendo trasformazioni alla luce delle moderne tecnologie, penso ad esempio al settore della grafica e della stampa. È un ambito in cambiamento da diversi decenni. La professione del grafico per esempio sta diventando multimediale. In generale tutte le professioni cambiano, e la Formazione professionale – con l’integrazione delle Associazioni professionali e quindi del mondo delle aziende – ha il grande vantaggio di essere sempre al passo con le mutazioni e di seguire le esigenze del mercato del lavoro».

Tra le novità dell’edizione 2018 di Espoprofessioni spicca quella di aprire maggiormente la fiera anche al pubblico degli adulti. «Sì, il mondo della formazione professionale è un mondo che integra in sé sia la formazione professionale di base, quindi gli apprendistati, sia la formazione professionale superiore, quindi i professionisti in carriera. Ed è proprio questo il punto su cui intendiamo porre il nostro accento, ossia alla possibilità di specializzarsi: questa opportunità è rivolta agli adulti che hanno già un’avviata esperienza professionale e che intendono specializzarsi attraverso il consolidamento e il perfezionamento del proprio saper fare. Quest’anno vogliamo dare una visibilità particolare alle scuole specializzate superiori che saranno riunite in un unico stand. Tra di esse abbiamo ad esempio la Scuola specializzata superiore alberghiera del turismo o la Scuola specializzata superiore di abbigliamento e design della moda. I visitatori avranno modo di scoprire i diversi mondi di queste scuole. Il focus di Espoprofessioni rimane comunque quello dedicato ai ragazzi delle scuole medie, di chi cioè si appresta a scegliere una professione». Visitando i padiglioni di Espoprofessioni gli allievi delle medie avranno la possibilità concreta di toccare con mano i mestieri. «I ragazzi potranno vedere professionisti all’opera. Perché scegliere un lavoro soltanto sentendone parlare è una cosa, ma sicuramente meglio è poter vedere o poter “toccare” facendo sul posto piccole sperimentazioni. Ciò permetterà agli indecisi di scegliere con maggiore sicurezza quella che sarà la propria strada. A seconda della disponibilità delle associazioni professionali, saranno presenti in alcuni stand anche apprendisti ad illustrare la loro professione. Sono quindi i giovani che parlano ai giovani, certamente un canale informativo privilegiato». Espoprofessioni può anche tradursi in un contratto di lavoro per i candidati apprendisti? «Grazie al successo che otteniamo da alcuni anni, riproporremo l’iniziativa “A tu per tu”, un pomeriggio di colloqui di lavoro durante i quali in 15 minuti i candidati apprendisti si

Negli stand di Espoprofessioni si può sperimentare un mestiere e parlare con apprendisti già in formazione. (TiPress)

potranno presentare con tanto di curriculum vitae alle aziende che offrono un posto di tirocinio. Il grande vantaggio per un’azienda che partecipa è quello di riuscire nello spazio di un pomeriggio ad avere colloqui con ragazzi interessati alla professione e svolgere così una parte importante del processo di selezione di un apprendista. Incontrare un potenziale datore di lavoro per un giovane rappresenta un’occasione in termini di esperienza. Il passo dal colloquio al contratto vero e proprio può essere breve per i ragazzi che sanno già quale mestiere vogliono svolgere. “A tu per tu” è comunque anche un modo valido per sperimentare colloqui di lavoro, dove i giovani interessati ad un posto di lavoro hanno l’occasione per mostrare la propria determinazione. È insomma un’occasione da non perdere». Economia e lavoro costituiscono un connubio indissolubile. A questo proposito, Espoprofessioni 2018 vedrà pure la presenza della Camera di commercio del Canton Ticino. Con quale

contributo? Il direttore, Luca Albertoni: «La Cc-Ti è presente nel comitato di Espoprofessioni da molti anni, lavorando alacremente per la formazione professionale a 360 gradi. Rileviamo come la formazione professionale sia, per l’economia ticinese e svizzera, un atout imprescindibile, che incentiviamo attraverso un sostegno fattivo verso associazioni di categoria affiliate (oltre 40) e aziende». Quale aiuto, sinergia o collaborazione opera la Camera di commercio per favorire l’occupazione dei giovani? «Il supporto alle attività delle associazioni di categoria. Si tratta di oltre 40 realtà che formano un’economia sana e dinamica. In secondo luogo non dimentichiamo la creazione di condizioni quadro favorevoli». Ma in Ticino l’universo formativo e occupazionale, oltre all’importante evento di Espoprofessioni, conoscerà una novità di rilievo: la creazione, alla stessa stregua di numerose realtà europee, della Città dei mestieri, un progetto che ha ottenuto da governo e parla-

con il Preside. Sì però per toglierlo dal guaio con il Preside gli servirebbe l’aiuto di suo cugino che lo aiuterebbe se... Insomma un domino a cascata di favori, che Jack promette a destra e a manca fino a trovarsi inguaiato fino al collo. Il tutto con alcune esilaranti e politicamente scorrette figure di adulti a contorno, su tutte il padre e lo zio, che sembrano apprezzare più le birrette e le scazzottate tra maschi, che la cultura. Il romanzo è leggero, l’abbiamo detto, però ha una sua forza nel sottolineare il bisogno profondo degli adolescenti di trovare la propria strada nel mondo, di ascoltare il proprio desiderio, evitando la trappola del compiacere le aspettative dei genitori.

Daniela Iride Murgia, il «tutto qui» diviene letterale: qui c’è, davvero, tutto. La vita, la morte. L’affidarsi, senza pretendere di controllare tutto. La capacità di lasciare andare. Di trasformarsi, di adattarsi, di fluire. Di reinventarsi e reinventare. Il senso di gratitudine e il senso di meraviglia. La gioia di essere al mondo. La fragilità. La gioia di esserci nella fragilità. Questo a livello simbolico, ma a un primo livello c’è anche la storia appassionante di una foglia. Una piccola foglia che, all’arrivo dell’autunno, non ha paura: non si lamenta, non chiama le altre per spaventarle «dicendo che a breve sarebbero cadute anche loro». No, lei «pensò semplicemente che era bene prendere il vento come si prende un tram». Si affida, accetta il cambiamento. E il vento le fa fare delle capriole, poi la deposita a terra. Che meraviglia il mondo visto da una prospettiva nuova, rovesciata: tutto l’azzurro del cielo, l’albero dalle radici alla cima. Arriva una bicicletta, la foglia finisce tra i raggi della ruota; la bicicletta fa il suo tragitto e poi si ferma, la foglia viene accolta

mento luce verde lo scorso giugno e che si appresta ad entrare nella fase operativa. Il Parlamento ne affronterà alcuni aspetti pratici nei prossimi mesi. Nei pronostici, la Città dei mestieri potrà essere inaugurata in autunno o al più tardi entro inizio 2019 come prevedono le linee direttive della legislatura. Capo progetto è Claudia Sassi: «L’idea è di offrire un luogo concreto ai cittadini che necessitano di indicazioni su percorsi di carriera e di formazione. La Città dei mestieri è un concetto nato a Parigi nel 1993 che prevede una nuova interpretazione del servizio pubblico: i cittadini potranno accedere senza appuntamento e gratuitamente per ottenere informazioni e consulenza su tematiche importanti per la vita di ognuno. La sede ipotizzata è Giubiasco, in una parte di uno stabile che il governo intende comperare se il Parlamento ne autorizzerà l’acquisto e in cui è prevista l’ubicazione di alcuni servizi dello Stato, tra cui anche l’Istituto per la formazione continua».

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Stuart David, La mia idea geniale (e come mi ha rovinato la vita), Il Castoro. Da 12 anni È il classico romanzo «da ridere» per lettori maschi (non forti lettori, non particolarmente estimatori del genere sentimentale-introspettivo, né delle grandi saghe fantasy). Qui non trovate epiche lotte tra il Bene e il Male, né approfonditi scavi psicologici. Però trovate un bel ritmo, una solida capacità di costruire una storia umoristica con un meccanismo a orologeria da commedia degli equivoci, un protagonista in grado di suscitare simpatia per tutti i pasticci in cui riesce a ficcarsi. Il quindicenne Jack, sempre con la testa tra le nuvole, rischia la bocciatura. Il che vorrebbe dire smettere di andare a scuola e iniziare a lavorare nella fabbrica in cui il padre, operaio in una ditta di imbottigliamento, non vede l’ora di inserirlo («devi seguire le mie orme, così come io ho seguito quelle di tuo nonno»). Jack non ne ha alcuna intenzione e preferirebbe continuare a studiare: a questo punto la soluzione più semplice sarebbe cominciare a

stare attento in classe, ma spesso ci si trova a cercare affannosamente altre strade per non affrontare l’unica che sappiamo benissimo essere quella giusta. E così Jack impegna tutte le sue energie per farsi venire un’idea brillante: un’App salvastudenti (dal farsi beccare disattenti in classe). Sì però gli servirebbe avere più dimestichezza con un preciso programma informatico e l’unica che potrebbe dargli una mano è Elsie, un’eccentrica compagna invasata di Medio Evo e di innamoramenti, che lo aiuterebbe se lui riuscisse a combinarle un incontro con l’amore del momento. Sì però per poterle creare quell’incontro gli servirebbe una mano da Chris, che lo aiuterebbe se lui riuscisse a toglierlo da un guaio

Silvia Vecchini (testo)-Daniela Iride Murgia (illustrazioni), Una foglia, Ed. Corsare. Da 4 anni È la storia di una foglia, che viene spazzata via dal vento in autunno. Tutto qui? Se le parole sono affidate alle profondità poetiche e spirituali di Silvia Vecchini e le illustrazioni alla maestria così ben consuonante di

dalla mano calda di un bambino, e poi, e poi... La vita non finisce, non avere paura piccola foglia. «Cose nuove, misteriose, l’aspettavano. Non sarebbe mai stata sola». Un albo meraviglioso (Premio Rodari 2017 Miglior Albo Illustrato), che i più piccoli leggeranno come un’avventura intuendone però anche i significati più profondi, e che i lettori adulti apprezzeranno come un confortante talismano contro il bisogno di possedere, dominare e controllare. Siamo creature fragili, stiamo come d’autunno/sugli alberi/ le foglie, appunto. Ma quanto amore possiamo diffondere, come l’ultima, vibrante pagina – di vita nuova e di vita rinnovata – ci indica.


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Le emigranti svizzere dimenticate Un libro della storica Simone Müller racconta le storie delle donne svizzere emigrate in Inghilterra negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso

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Finire le Medie Ogni anno decine di giovani adulti recuperano la Licenza di Scuola Media grazie anche a Pro Juventute

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Una finestra sul mondo del lavoro

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Il servizio civile si può svolgere in diversi ambiti: sanità, scuola, protezione della natura, socialità o aiuto umanitario. (Keystone)

L’esercito dei civilisti

Svizzera Il Consiglio federale intende ridurre l’attrattiva del servizio civile per favorire l’arruolamento nell’esercito Roberto Porta Il 2018 è un anno di riforme per il servizio civile svizzero. Riforme già approvate e definitive, entrate in vigore all’inizio dell’anno, e altre che sono tuttora al vaglio delle autorità politiche, con lo scopo di ridurre l’attrattiva del servizio civile e tentare di accrescere il numero di giovani che decidono di arruolarsi nell’esercito. Ma andiamo con ordine e iniziamo dalle modifiche legislative già in vigore, normative che riguardano, riassumendo, la durata dell’obbligo di prestare servizio e la scelta degli ambiti di attività, come ad esempio impieghi per i civilisti nella sanità, nella scuola, nella protezione della natura o ancora nell’aiuto umanitario. Tra le novità targate 2018 c’è quella che riguarda la riduzione dei giorni di servizio civile da svolgere. Un periodo che è stato accorciato di 23 giorni, passando a 368 giorni in totale. «Questo perché ci sono state due modifiche normative – ci spiega Mirjam Schmid, capogruppo presso la sede di Rivera dell’ufficio federale denominato ZIVI, l’Organo d’esecuzione del servizio civile – la prima modifica, quella che determina tra l’altro la riduzione dei giorni di servizio, è legata alle nuove norme sull’obbligo di prestare servizio militare, inserite nel cosiddet-

to “Ulteriore sviluppo dell’esercito”. In questo caso il servizio civile si è adattato a quanto succede nell’esercito. Il secondo ambito di modifiche riguarda invece soprattutto civilisti, ad esempio per disciplinare il servizio di lunga durata o un eventuale posticipo dell’obbligo di prestare servizio». Aspetti che possiamo pertanto definire tecnici e amministrativi e che finora non hanno avuto una grande eco sulla stampa svizzera. A far discutere sono state però altre possibili novità. Riforme che il Consiglio federale – su impulso anche del Parlamento – intende introdurre per ridurre l’attrattiva del servizio civile e la sua capacità concorrenziale nei confronti dell’esercito. Le cifre di questi ultimi anni parlano infatti chiaro. Nel 2011 il numero di civilisti si era assestato a 4670 unità mentre nel 2017 era salito a 6785. Da quando è stato introdotto il servizio civile, ormai 22 anni fa, il primato spetta comunque al 2010, con 6826 iscritti. Per quanto riguarda il canton Ticino va detto che l’anno scorso i nuovi civilisti sono stati 372, il 19% in più rispetto al 2016 – come ci ha indicato Mirjam Schmid. «Una cifra – ci ha detto ancora la capogruppo del ZIVI di Rivera – che nel corso degli ultimi anni non è sempre andata in crescendo, nel 2015 ad esempio il numero di nuovi

civilisti è stato inferiore seppur di poco rispetto al 2014». Complessivamente comunque i dati a livello nazionale testimoniano di quanto questo tipo di impiego sia sempre più apprezzato dai giovani del nostro Paese. Un successo che, come rovescio della medaglia, si ripercuote negativamente sull’esercito e sulla capacità del «grigioverde elvetico» di attirare nuove reclute nelle caserme. Da qui l’intenzione del governo di intervenire, anche perché c’è una soglia, un numero minimo di militi di cui l’esercito deve poter disporre per funzionare correttamente, ma che fa sempre più fatica a raggiungere. Questa soglia è fissata a 20mila reclute all’anno. Nel corso del 2017 – tra le scuole reclute invernali e estive – hanno indossato la divisa militare quasi 22mila ragazzi. Obiettivo raggiunto dunque, perlomeno a prima vista. I dati dicono infatti che in media il 20% circa di questi giovani non riesce a portare a termine la scuola reclute, per motivi medici o per altre ragioni. Defezioni che l’anno scorso hanno portato il numero effettivo di nuovi soldati a 18mila, inferiore pertanto alla soglia minima prevista. Per questo motivo lo scorso mese di novembre il Consiglio federale ha formulato dei possibili correttivi, in particolare per ridurre il numero di giovani che sceglie di passare al servi-

zio civile dopo la scuola reclute. Sono infatti parecchi i ragazzi che decidono di compiere questo passo, basti dire che nel 2016 ben il 40% dei nuovi civilisti proveniva proprio dall’esercito. L’obiettivo del governo è quello di accrescere il numero dei giorni di servizio da svolgere come civilista per chi lascia il grigioverde. Un modo, spera il Consiglio federale, per ridurre la perdita di militi registrata regolarmente dall’esercito. In linea di principio chi ha già svolto la scuola reclute dovrà svolgere almeno 150 giorni in qualità di civilista e dovrà attendere un anno prima di iniziare questo tipo di servizio, cosa che ad esempio potrebbe causare qualche problema per chi è ancora in formazione, all’università o in altre scuole. In ogni caso tocca al Dipartimento federale dell’economia, della formazione e della ricerca – quello diretto da Johann Schneider-Ammann – elaborare entro il prossimo autunno una riforma della legge in materia. Ma già fin d’ora Civiva, l’associazione che nel nostro Paese difende il servizio civile, è pronta a lanciare un referendum contro questo nuova normativa, facendo leva su questo argomento: se l’esercito ha un problema nel raggiungere il numero minimo di reclute di cui ha bisogno, la soluzione non sta nell’indebolire il servizio civile. Il problema è da risolvere

invece all’interno dello stesso esercito e nelle sue modalità di arruolamento. Per questo motivo Civiva ha fatto notare che il numero di giovani che lascia l’esercito per svolgere un’attività da civilista è nettamente inferiore al numero di persone che vengono scartate al momento del reclutamento in grigioverde. Se l’esercito intende curare meglio il proprio vivaio – dice ancora l’associazione dei civilisti – non deve fare del servizio civile un capro espiatorio ma deve semmai migliorare i propri criteri di selezione. Non per nulla, proprio da quest’anno, chi ha problemi fisici potrà essere comunque arruolato, se dimostra di avere particolare doti informatiche. Lo scopo – indicato anche da diversi atti parlamentari – è quello di poter contare sull’apporto di chi sa muoversi con abilità su internet per combattere la criminalità informatica e per lottare con maggiore incisività contro le minacce terroristiche. Una misura che dovrebbe contribuire a garantire all’esercito un numero sufficiente di militi, anche nel settore che si occupa della lotta alla cybercriminalità – senza per questo intaccare l’attrattiva del servizio civile. In ogni caso al più tardi in autunno ne sapremo di più, quando il Consiglio federale presenterà il suo piano d’azione per meglio equilibrare le forze tra esercito e servizio civile.

«Tutte le professioni cambiano, evolvono...». Una ragione in più per conoscerle da vicino. L’opportunità da cogliere è Espoprofessioni, la fiera che si tiene ogni due anni sulla formazione professionale e l’orientamento. Al via dal 5 al 10 marzo al Centro esposizioni di Lugano, l’edizione numero 13 si aprirà sotto il motto «Il tuo futuro da protagonista!». Tutti gli interessati – giovani e adulti – animati dalla curiosità di scoprire quanto ruota attorno ai mestieri e alla formazione professionale potranno ottenere un ampio ventaglio di informazioni e in molti potranno già incontrare persino il loro futuro datore di lavoro: grazie alla presenza di un centinaio di associazioni di categoria e istituti di formazione, oltre 200 saranno le finestre aperte su altrettante professioni illustrate attraverso stand e allestimenti della più grande mostra del canton Ticino che nel corso della sua sei-giorni accoglie una media di 30mila visitatori. Ma quali sono oggi le professioni più gettonate? E quelle in via di estinzione? Lo abbiamo chiesto a Claudia Sassi, direttrice aggiunta della Divisione della formazione professionale e vice presidente del comitato organizzatore di Espoprofessioni. «Tra le professioni più scelte si trovano sempre e ancor di più l’impiegato di commercio e l’impiegato del commercio al dettaglio. Poi arrivano le professioni nell’ambito socio-sanitario, seguite da quelle nei settori industriali, artigianali e così via. Le professioni che stanno cambiando maggiormente sono in realtà quelle che da anni stanno conoscendo trasformazioni alla luce delle moderne tecnologie, penso ad esempio al settore della grafica e della stampa. È un ambito in cambiamento da diversi decenni. La professione del grafico per esempio sta diventando multimediale. In generale tutte le professioni cambiano, e la Formazione professionale – con l’integrazione delle Associazioni professionali e quindi del mondo delle aziende – ha il grande vantaggio di essere sempre al passo con le mutazioni e di seguire le esigenze del mercato del lavoro».

Tra le novità dell’edizione 2018 di Espoprofessioni spicca quella di aprire maggiormente la fiera anche al pubblico degli adulti. «Sì, il mondo della formazione professionale è un mondo che integra in sé sia la formazione professionale di base, quindi gli apprendistati, sia la formazione professionale superiore, quindi i professionisti in carriera. Ed è proprio questo il punto su cui intendiamo porre il nostro accento, ossia alla possibilità di specializzarsi: questa opportunità è rivolta agli adulti che hanno già un’avviata esperienza professionale e che intendono specializzarsi attraverso il consolidamento e il perfezionamento del proprio saper fare. Quest’anno vogliamo dare una visibilità particolare alle scuole specializzate superiori che saranno riunite in un unico stand. Tra di esse abbiamo ad esempio la Scuola specializzata superiore alberghiera del turismo o la Scuola specializzata superiore di abbigliamento e design della moda. I visitatori avranno modo di scoprire i diversi mondi di queste scuole. Il focus di Espoprofessioni rimane comunque quello dedicato ai ragazzi delle scuole medie, di chi cioè si appresta a scegliere una professione». Visitando i padiglioni di Espoprofessioni gli allievi delle medie avranno la possibilità concreta di toccare con mano i mestieri. «I ragazzi potranno vedere professionisti all’opera. Perché scegliere un lavoro soltanto sentendone parlare è una cosa, ma sicuramente meglio è poter vedere o poter “toccare” facendo sul posto piccole sperimentazioni. Ciò permetterà agli indecisi di scegliere con maggiore sicurezza quella che sarà la propria strada. A seconda della disponibilità delle associazioni professionali, saranno presenti in alcuni stand anche apprendisti ad illustrare la loro professione. Sono quindi i giovani che parlano ai giovani, certamente un canale informativo privilegiato». Espoprofessioni può anche tradursi in un contratto di lavoro per i candidati apprendisti? «Grazie al successo che otteniamo da alcuni anni, riproporremo l’iniziativa “A tu per tu”, un pomeriggio di colloqui di lavoro durante i quali in 15 minuti i candidati apprendisti si

Negli stand di Espoprofessioni si può sperimentare un mestiere e parlare con apprendisti già in formazione. (TiPress)

potranno presentare con tanto di curriculum vitae alle aziende che offrono un posto di tirocinio. Il grande vantaggio per un’azienda che partecipa è quello di riuscire nello spazio di un pomeriggio ad avere colloqui con ragazzi interessati alla professione e svolgere così una parte importante del processo di selezione di un apprendista. Incontrare un potenziale datore di lavoro per un giovane rappresenta un’occasione in termini di esperienza. Il passo dal colloquio al contratto vero e proprio può essere breve per i ragazzi che sanno già quale mestiere vogliono svolgere. “A tu per tu” è comunque anche un modo valido per sperimentare colloqui di lavoro, dove i giovani interessati ad un posto di lavoro hanno l’occasione per mostrare la propria determinazione. È insomma un’occasione da non perdere». Economia e lavoro costituiscono un connubio indissolubile. A questo proposito, Espoprofessioni 2018 vedrà pure la presenza della Camera di commercio del Canton Ticino. Con quale

contributo? Il direttore, Luca Albertoni: «La Cc-Ti è presente nel comitato di Espoprofessioni da molti anni, lavorando alacremente per la formazione professionale a 360 gradi. Rileviamo come la formazione professionale sia, per l’economia ticinese e svizzera, un atout imprescindibile, che incentiviamo attraverso un sostegno fattivo verso associazioni di categoria affiliate (oltre 40) e aziende». Quale aiuto, sinergia o collaborazione opera la Camera di commercio per favorire l’occupazione dei giovani? «Il supporto alle attività delle associazioni di categoria. Si tratta di oltre 40 realtà che formano un’economia sana e dinamica. In secondo luogo non dimentichiamo la creazione di condizioni quadro favorevoli». Ma in Ticino l’universo formativo e occupazionale, oltre all’importante evento di Espoprofessioni, conoscerà una novità di rilievo: la creazione, alla stessa stregua di numerose realtà europee, della Città dei mestieri, un progetto che ha ottenuto da governo e parla-

con il Preside. Sì però per toglierlo dal guaio con il Preside gli servirebbe l’aiuto di suo cugino che lo aiuterebbe se... Insomma un domino a cascata di favori, che Jack promette a destra e a manca fino a trovarsi inguaiato fino al collo. Il tutto con alcune esilaranti e politicamente scorrette figure di adulti a contorno, su tutte il padre e lo zio, che sembrano apprezzare più le birrette e le scazzottate tra maschi, che la cultura. Il romanzo è leggero, l’abbiamo detto, però ha una sua forza nel sottolineare il bisogno profondo degli adolescenti di trovare la propria strada nel mondo, di ascoltare il proprio desiderio, evitando la trappola del compiacere le aspettative dei genitori.

Daniela Iride Murgia, il «tutto qui» diviene letterale: qui c’è, davvero, tutto. La vita, la morte. L’affidarsi, senza pretendere di controllare tutto. La capacità di lasciare andare. Di trasformarsi, di adattarsi, di fluire. Di reinventarsi e reinventare. Il senso di gratitudine e il senso di meraviglia. La gioia di essere al mondo. La fragilità. La gioia di esserci nella fragilità. Questo a livello simbolico, ma a un primo livello c’è anche la storia appassionante di una foglia. Una piccola foglia che, all’arrivo dell’autunno, non ha paura: non si lamenta, non chiama le altre per spaventarle «dicendo che a breve sarebbero cadute anche loro». No, lei «pensò semplicemente che era bene prendere il vento come si prende un tram». Si affida, accetta il cambiamento. E il vento le fa fare delle capriole, poi la deposita a terra. Che meraviglia il mondo visto da una prospettiva nuova, rovesciata: tutto l’azzurro del cielo, l’albero dalle radici alla cima. Arriva una bicicletta, la foglia finisce tra i raggi della ruota; la bicicletta fa il suo tragitto e poi si ferma, la foglia viene accolta

mento luce verde lo scorso giugno e che si appresta ad entrare nella fase operativa. Il Parlamento ne affronterà alcuni aspetti pratici nei prossimi mesi. Nei pronostici, la Città dei mestieri potrà essere inaugurata in autunno o al più tardi entro inizio 2019 come prevedono le linee direttive della legislatura. Capo progetto è Claudia Sassi: «L’idea è di offrire un luogo concreto ai cittadini che necessitano di indicazioni su percorsi di carriera e di formazione. La Città dei mestieri è un concetto nato a Parigi nel 1993 che prevede una nuova interpretazione del servizio pubblico: i cittadini potranno accedere senza appuntamento e gratuitamente per ottenere informazioni e consulenza su tematiche importanti per la vita di ognuno. La sede ipotizzata è Giubiasco, in una parte di uno stabile che il governo intende comperare se il Parlamento ne autorizzerà l’acquisto e in cui è prevista l’ubicazione di alcuni servizi dello Stato, tra cui anche l’Istituto per la formazione continua».

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Stuart David, La mia idea geniale (e come mi ha rovinato la vita), Il Castoro. Da 12 anni È il classico romanzo «da ridere» per lettori maschi (non forti lettori, non particolarmente estimatori del genere sentimentale-introspettivo, né delle grandi saghe fantasy). Qui non trovate epiche lotte tra il Bene e il Male, né approfonditi scavi psicologici. Però trovate un bel ritmo, una solida capacità di costruire una storia umoristica con un meccanismo a orologeria da commedia degli equivoci, un protagonista in grado di suscitare simpatia per tutti i pasticci in cui riesce a ficcarsi. Il quindicenne Jack, sempre con la testa tra le nuvole, rischia la bocciatura. Il che vorrebbe dire smettere di andare a scuola e iniziare a lavorare nella fabbrica in cui il padre, operaio in una ditta di imbottigliamento, non vede l’ora di inserirlo («devi seguire le mie orme, così come io ho seguito quelle di tuo nonno»). Jack non ne ha alcuna intenzione e preferirebbe continuare a studiare: a questo punto la soluzione più semplice sarebbe cominciare a

stare attento in classe, ma spesso ci si trova a cercare affannosamente altre strade per non affrontare l’unica che sappiamo benissimo essere quella giusta. E così Jack impegna tutte le sue energie per farsi venire un’idea brillante: un’App salvastudenti (dal farsi beccare disattenti in classe). Sì però gli servirebbe avere più dimestichezza con un preciso programma informatico e l’unica che potrebbe dargli una mano è Elsie, un’eccentrica compagna invasata di Medio Evo e di innamoramenti, che lo aiuterebbe se lui riuscisse a combinarle un incontro con l’amore del momento. Sì però per poterle creare quell’incontro gli servirebbe una mano da Chris, che lo aiuterebbe se lui riuscisse a toglierlo da un guaio

Silvia Vecchini (testo)-Daniela Iride Murgia (illustrazioni), Una foglia, Ed. Corsare. Da 4 anni È la storia di una foglia, che viene spazzata via dal vento in autunno. Tutto qui? Se le parole sono affidate alle profondità poetiche e spirituali di Silvia Vecchini e le illustrazioni alla maestria così ben consuonante di

dalla mano calda di un bambino, e poi, e poi... La vita non finisce, non avere paura piccola foglia. «Cose nuove, misteriose, l’aspettavano. Non sarebbe mai stata sola». Un albo meraviglioso (Premio Rodari 2017 Miglior Albo Illustrato), che i più piccoli leggeranno come un’avventura intuendone però anche i significati più profondi, e che i lettori adulti apprezzeranno come un confortante talismano contro il bisogno di possedere, dominare e controllare. Siamo creature fragili, stiamo come d’autunno/sugli alberi/ le foglie, appunto. Ma quanto amore possiamo diffondere, come l’ultima, vibrante pagina – di vita nuova e di vita rinnovata – ci indica.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Società e Territorio

Verso l’Inghilterra

Libri Le storie di giovani donne svizzere emigrate oltremanica Natascha Fioretti Se non fosse per le cronache della «Thurgauer Zeitung» e di qualche altra testata locale della fine degli anni Cinquanta, oggi probabilmente sapremmo poco, o nulla, delle migliaia di donne svizzere partite in quegli anni alla volta dell’Inghilterra. Erano così tante che la «Thurgauer Zeitung» le definì uno stormo di uccelli in volo, non si hanno i numeri esatti ma, stando ad alcune fonti, pare partissero in settemila, talvolta, addirittura diecimila l’anno. E noi, allora, come possiamo essere a conoscenza delle loro storie? Dobbiamo dire grazie alla pubblicazione di Simone Müller uscita in tedesco per l’editore Limmat con il titolo Alljährlich im Frühjahr schwärmen unsere jungen Mädchen nach England. Die vergessene Schweizer Emigrantinnen, 11 Porträts (Ogni anno le nostre giovani ragazze sciamano verso l’Inghilterra. Le emigranti svizzere dimenticate, 11 ritratti). Nata a Boston nel 1967, cresciuta a Berna, laureata in germanistica e etnologia, Simone Müller si è letteralmente appassionata a questo esodo femminile e ne ha dato conto tratteggiandone, in un primo momento, i contorni e gli elementi storico-sociali, in un secondo, puntando al cuore delle protagoniste. Ognuna le ha raccontato la sua storia personale ma c’è un tratto che accomuna tutti i loro racconti: la partenza del treno alle 23.30 da Basilea. Da qui iniziava quello che per molte era il primo viaggio lontano da casa, per molte altre un viaggio senza ritorno perché sarebbero rimaste per sempre in Inghilterra.

Tra tante storie, due sono ticinesi, quella di Annetta Diviani-Morosi, classe 1926, e di Maria Gibbs-Schwaninger, classe 1932. Nel secondo caso si tratta di una storia tipica per gli anni Cinquanta, ci dice Simone Müller, «Cresciuta in una fattoria a Gutmadingen, nel Canton Sciaffusa, fece un apprendistato come sarta. Un giorno però ne ebbe abbastanza di cucire e con una collega andò a Londra. Il suo futuro marito, i giornali di allora mettevano in guardia le giovani donne dagli incontri fortuiti, lo incontrò per strada in un grigio pomeriggio di novembre davanti alla vetrina di un negozio di scarpe. Lui d’un tratto le si avvicina e le rivolge la parola. All’inizio, Maria Gibbs-Schwaninger non gli dà retta e declina l’invito di andare a bere qualcosa ma l’uomo era tenace, molti altri tentativi dopo cede e alla fine si sposano. Simone Müller ha giusto fatto in tempo ad incontrarla, la signora è scomparsa l’anno scorso ed è sempre stata felice del suo matrimonio e del suo lavoro, ha sempre cucito, fino all’ultimo giorno. In Inghilterra, per un paio di anni, aveva persino lavorato da Liberty, un rinomato grande magazzino nel centro di Londra. Era l’unica ad avere una solida preparazione e a parlare le lingue, il francese in particolare, indispensabile per comprendere i cartamodello francesi». Ma c’è anche la storia di Helene Alexandrou–Neeser, classe 1927, di Schlossrued nel Canton Argovia, che a Londra ha incontrato suo marito Nick Alexandrou, cipriota. «Non avevamo niente quando abbiamo iniziato, per dieci anni abbiamo lavorato duramente

e messo da parte i nostri risparmi finché ci siamo potuti comprare il nostro ristorante a Colindale, a nord di Londra» racconta la donna nel libro. Quando si sposano Helene non sa di aver perso la cittadinanza svizzera e mantiene, per errore, il suo passaporto. A quei tempi, la legge cambiò nel 1992, la moglie assumeva la cittadinanza del marito e sposando uno straniero, una donna svizzera perdeva di regola la sua nazionalità. Il grande esodo delle donne svizzere si estese per diversi decenni fino agli anni Sessanta. Simone Müller si è concentrata sulle giovani donne che partirono tra gli anni Quaranta e Cinquanta: «a quei tempi tutte viaggiavano in treno, prendevano il notturno verso la Francia in partenza alle 23.30 da Basilea. Poi con la nave attraversavano il canale della Manica e, una volta in Inghilterra, prendevano nuovamente il treno. Per loro già solo il viaggio era un’avventura. Quasi tutte venivano assunte in qualità di collaboratrici domestiche, spesso venivano reclutate grazie alle agenzie, altre grazie alle inserzioni sui giornali. Se non avessero trovato un lavoro non sarebbero mai potute partire, non avevano nemmeno i soldi per il viaggio». Molto spesso, infatti, erano le agenzie o le famiglie presso le quali stavano ad anticipare le spese. Mina Rui-Oppliger, classe 1919, di Rohrmatt, lavorava come donna di servizio nel lucernese e dice molto chiaramente quanto a quei tempi fosse difficile trovare lavoro in Svizzera. Negli anni Sessanta invece era tutto diverso, per arrivare in Inghilterra si prendeva l’aereo, i contatti con le rispettive famiglie erano più

La copertina del libro di Simone Müller.

stretti, telefonare a parenti e amici era più economico. Il maggiore benessere di quegli anni contribuì a cambiare le ragioni di viaggio di molte donne che, a quel punto, non erano più in cerca di un lavoro ma di un’opportunità per imparare l’inglese. «Ogni incontro con queste donne è stato molto emozionante – riflette Simone Müller – È stato curioso entrare nelle loro case tipicamente inglesi, in cui tutto, dall’entrata, fino ai mobili e al giardino è molto british. Sulle prime non sembrano delle abitazioni nelle quali vivono da tanti anni delle straniere. Poi però, guardando meglio, si

scoprono le tracce inconfondibili delle loro origini: quei relitti svizzeri come il cristallo di rocca sul camino, o il calendario con la raffigurazione del Matterhorn. Ogni abitazione in fondo esprime quella contaminazione avvenuta tra la cultura di origine e la cultura di arrivo». Se il fenomeno in sé in passato è stato dimenticato, ad essere rimaste sono le storie individuali: «ci si ricorda ancora della propria nonna partita per l’Inghilterra o della zia andata a Brighton e poi rimasta lì. Questo viaggio, però, lo hanno intrapreso tante altre giovani donne svizzere». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Società e Territorio

Medioevo virtuale

Videogiochi Kingdom Come: Deliverance, la guerra di Boemia vista dagli occhi di un semplice contadino

Davide Canavesi Kingdom Come: Deliverance ci immerge in un periodo turbolento della storia del vecchio continente: la Boemia di fine quattordicesimo secolo. Re Carlo IV è morto ed il trono del Sacro Romano Impero è passato a suo figlio Venceslao IV, detto il Pigro. Un uomo molto più dedito ai piaceri della vita che al regnare sui suoi domini. Sigismondo d’Ungheria, approfittando della poca considerazione di Venceslao IV per gli affari di Stato e della crescente insoddisfazione della classe nobiliare, invade la Boemia alla testa di un vasto esercito. Nel gioco impersoniamo Henry, il figlio di un fabbro, la cui vita tranquilla nel piccolo villaggio di Skalica viene sconvolta da eventi molto più grandi di lui. L’esistenza del giovane Henry scorre placida, tra commissioni per il padre e uno scherzo organizzato con gli amici. Il ragazzo però sogna di viaggiare per il mondo e di diventare abile con la spada. Un brutto giorno del 1403, le sue preghiere vengono esaudite. Il suo villaggio viene attaccato dall’esercito invasore di Sigismondo d’Ungheria e i suoi genitori uccisi. Non riuscendo a mettersi al riparo dietro le mura fortificate del vicino castello di Ser Radzig, la sua unica possibilità di salvezza è recuperare un cavallo e fuggire presso una fortezza poco distante, avvertendoli del pericolo imminente. La vita del protagonista è destinata a cambiare in modo radicale, finendo coinvolto nelle vicende della guerra civile di Boemia, tra personaggi poco raccomandabiCH11011_ANNONCE MIGROS NESTLE IT

Un gioco difficile, che richiede pazienza e dedizione da parte del gamer. (Warhorse Studios / Deep Silver)

li, trame ordite dalla nobiltà e qualche bizzarra avventura. Il gioco di Warhorse Studios è una produzione che non esitiamo a definire fuori dagli schemi. La struttura di Kingdom Come: Deliverance è quella dell’open world (una mappa di considerevoli dimensioni liberamente esplorabile dal giocatore). Il gioco segue una trama principale ma avremo anche costantemente accesso a storie e missioni secondarie. A prima vista sembra proprio il più classico dei giochi di ruolo ad ambientazione medioevale, fatto di combattimenti, lunghe cavalcate ed incarichi da compiere. Tuttavia, a differenza di altri titoli molto famosi come The Witcher 3 o The Elder’s Scroll: Skyrim, Kingdom Come: Deliverance fa del realismo le sue fondamenta. Mentre E3 HD.pdf 1 16/02/2018 15:41

lentamente scopriamo la trama ideata dagli sviluppatori, dovremo sempre fare i conti con la cruda realtà del mondo che ci circonda. Ad esempio, non sarebbe plausibile raccogliere una spada da terra e usarla come se avessimo speso anni ad allenarci a tirare di scherma. In effetti, sebbene al giocatore venga fornita una spada durante l’attacco al villaggio di Skalica, tentare di combattere contro dei soldati addestrati da anni di guerre è un suicidio. Esattamente come nella realtà. Gli elementi da tenere in considerazione sono molto variati. Mangiare cibo avariato può avvelenarci, apprendere qualsiasi abilità richiede lunghe sessioni di addestramento. Inizialmente non sappiamo leggere e l’unico modo per apprende è trovare qualcuno disposto ad insegnarci. Questa attinenza alla realtà

è estesa ovviamente anche agli ambienti in cui ci muoviamo. Impossibile allora trovare chissà che tesoro in un povero villaggio di campagna, anzi al massimo troveremo qualche arredo essenziale, qualche magra provvista e poco altro. Questa ricerca del plausibile continua anche nella sceneggiatura del gioco. I dialoghi sono stati scritti in modo eccellente, rispettando scrupolosamente l’etichetta appropriata per ogni singolo personaggio. Henry è un paesano ed inizialmente non sarà in grado di seguire i discorsi dei nobili. Dal canto loro, essi non saranno in condizione di parlare in modo aperto e sincero con un uomo di così basso lignaggio. Tuttavia, con l’avanzare del gioco e dell’affinamento delle abilità del personaggio, ci renderemo conto che i nostri interlo-

cutori cambieranno atteggiamento, in modo da riflettere la crescita di status di Henry. Questo meccanismo si riflette in ogni interazione che avremo con gli altri personaggi in gioco e varierà anche in base al nostro aspetto. Indossare abiti costosi e perfettamente puliti avrà un effetto molto più importante su un contadino che su un nobile di città. Tuttavia, per non dare nell’occhio potremmo scegliere abiti luridi e a brandelli, in modo da non attirare l’attenzione. Le possibilità sono davvero moltissime e hanno un impatto tangibile sul gioco. Non tutto è però ottimo in questa produzione. Il gioco è difficile, a tratti è addirittura brutalmente punitivo. La ricerca del realismo ha fatto sì che, nella maggior parte dei casi, ci sentiremo esattamente nella pelle di un semplice ragazzotto di campagna, senza particolari talenti. Non apprenderemo ad usare la spada che passate almeno cinque o sei ore di gioco e, in ogni caso, i combattimenti saranno sempre estremamente impegnativi, anche a causa di un sistema di attacco e parate ostico da padroneggiare. Ogni azione speciale nel gioco richiede dunque pazienza e dedizione da parte nostra per essere appresa in modo soddisfacente. Kingdom Come: Deliverance non è un titolo adatto a tutti a causa della sua difficoltà e per via di precise scelte stilistiche e di design. Però, per essere un gioco creato da un team al suo primo tentativo, il gioco dei cecoslovacchi di Warhorse Studios ha davvero parecchi pregi. A patto che ci piaccia l’ambientazione medioevale. Annuncio pubblicitario


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Società e Territorio

Seconda chance per il futuro

Formazione Ogni anno decine di giovani adulti recuperano la Licenza di Scuola Media accompagnati

da un progetto educativo di Pro Juventute Stefania Hubmann Recuperare la Licenza di Scuola Media da privatisti per costruirsi un futuro, dimostrando in primo luogo a se stessi che l’impegno e la costanza permettono di raggiungere gli obiettivi prefissati. Sono ogni anno oltre una quarantina – 52 nel giugno 2017 – i giovani che superano con successo gli esami organizzati a turno da una sede di Scuola Media. Alcuni si preparano individualmente, altri con il sostegno degli enti sociali che li seguono, ma la maggior parte è accompagnata da Pro Juventute, il cui progetto educativo in questo ambito ha preso avvio nel 2010.

Per i giovani adulti che conseguono la Licenza questi esami «offrono un’opportunità non solo scolastica ma di vita» Nell’ultimo decennio gli iscritti agli esami sono passati da meno di venti a una settantina. Il loro numero è in crescita e l’evoluzione corrisponde a quella degli allievi che terminano la scuola dell’obbligo senza l’ottenimento della Licenza. Problemi di salute, disagio sociale, carenze a livello familiare, sono in genere all’origine delle difficoltà manifestate da alcuni giovani soprattutto durante l’adolescenza, difficoltà che purtroppo compromettono l’esito del loro percorso scolastico. A distanza di due anni essi possono ritentare di conseguire la Licenza, presentandosi a una sessione di esami che viene organizzata la prima settimana dopo la fine dell’anno scolastico. La maggior parte degli iscritti ha quindi 17-18 anni, anche se diversi si situano nella fascia 19-21. «La licenza per privatisti – spiega Roberto Bottani, direttore della Scuola Media di Gravesano, sede della sessione di esami dello scorso anno – comprende prove in matematica, italiano, inglese, tedesco, scienze e geografia-storia. Elaborate dai docenti

della sede coinvolta e approvate dagli esperti di materia, esse rispecchiano i contenuti essenziali dei programmi della Scuola Media». Prepararsi, per chi da qualche anno non frequenta le lezioni e ai tempi della scuola era in difficoltà, non è affatto scontato. Servono impegno, costanza e non da ultimo un sostegno educativo personalizzato. Il direttore Bottani conferma che, al di là dell’importanza della Licenza per proseguire la formazione, il suo valore consiste nella dimostrazione di potercela fare. «Sono esami che offrono un’opportunità non solo scolastica ma di vita. Per la maggior parte di questi giovani ormai adulti la consegna della Licenza, che viene appositamente sottolineata da una breve cerimonia, rappresenta il primo riconoscimento del loro valore, della fiducia di cui ora possono beneficiare e nel contempo una sorta di superamento del conflitto che li opponeva al mondo scolastico». Il colloquio con il direttore è un punto di passaggio importante per conoscere il candidato, con spesso alle spalle un vissuto complesso e travagliato, e per fornire le indicazioni utili per affrontare l’esame. Precisa Roberto Bottani: «Ho incontrato personalmente 55 candidati con l’obiettivo di capirne intenzioni e motivazioni. Dalla situazione scolastica la discussione è spesso scivolata su loro iniziativa alla sfera privata. Il bisogno di essere ascoltati è emerso in modo evidente». Una necessità che va di pari passo con quella di essere seguiti per poter portare a buon fine gli esami. L’ottima collaborazione fra l’Ufficio Insegnamento Medio e Pro Juventute offre la possibilità di una preparazione mirata ed efficace. Da gennaio a giugno durante quattro sere alla settimana (due da due ore e due da quattro) i privatisti seguono lezioni nelle diverse materie con docenti laureandi o neodiplomati. Nelle tre sedi di Giubiasco, Paradiso e Chiasso, si va però oltre le nozioni. La presa a carico è globale e l’aspetto educativo riveste un’importanza essenziale. La scelta di docenti delle nuove generazioni è basata sul concetto di cittadinanza, con

Per chi torna sui banchi delle Medie il tasso di successo agli esami è alto. (Ti-Press)

i giovani che si prendono cura di altri giovani, fungendo da esempio. I due o più anni trascorsi dalla fine della scuola media permettono ai candidati di maturare, ma spesso i loro problemi di fondo sono ancora presenti. Per Giacomo Petruccelli, coordinatore cantonale del progetto, il focus del medesimo riguarda proprio gli aspetti educativi che hanno impedito di ottenere la licenza. Precisa al riguardo: «Oltre che dai docenti, gli allievi sono seguiti in parte dal sottoscritto e soprattutto dal responsabile di sede (psicologo o educatore) che rappresenta la figura di riferimento con la quale si instaura uno stretto rapporto di fiducia. Essere all’ascolto, aiutare a risolvere questioni pratiche, rassicurare nei momenti di crisi (anche durante gli esami) sono i compiti di chi segue i candidati, con i quali si affronta in modo globale il loro futuro. Alcuni hanno obiettivi precisi, come poter proseguire la formazione, altri però sono ancora privi di interessi e prospettive. Grazie al progetto Mentoring, un altro programma di Pro Juventute, possiamo accompagnarli anche dopo il conseguimento della Licenza». I risultati degli esami e i feed-back a medio e lungo termine confermano

la validità del progetto. Il tasso di successo agli esami da parte di chi ha frequentato il corso è quasi del cento per cento, così come frequenti sono le buone notizie trasmesse in seguito. Le storie di successo gratificano responsabili e docenti. Roberto Bottani e Giacomo Petruccelli citano entrambi il caso di una ragazza ipovedente che nel giugno 2017 ha conseguito la seconda miglior Licenza. In questo caso lavori scritti ed esami orali sono stati adeguati ai dispositivi da lei utilizzati. Il suo obiettivo: proseguire la formazione. Questa scelta può portare lontano come rivela la testimonianza di Lara (nome di fantasia a tutela della privacy), oggi 21enne iscritta al secondo anno della Scuola Cantonale di Commercio a Bellinzona. Dopo anni difficili alla Scuola Media, senza la voglia di studiare e soprattutto senza capirne l’importanza come lei stessa racconta, ha recuperato la Licenza da privatista nel 2016 preparandosi con Pro Juventute. «All’inizio avevo un po’ paura – prosegue la giovane studentessa – perché pensavo a distanza di anni di non ricordare più niente. Nel frattempo avevo frequentato l’anno di Pretirocinio e la Scuola di sartoria a livello empirico ma non erano così impegnativi dal pun-

to di vista scolastico. Al corso ho però trovato un bell’ambiente con docenti giovani e bravi con i quali c’era meno distanza rispetto alla Scuola Media, sia di età sia di approccio. Grande aiuto mi è stato dato dai due responsabili di Pro Juventute con i quali discuto ancora oggi. Sostenuta anche da mia mamma, mi sto quindi impegnando per conseguire la Maturità. Mi piacerebbe poter proseguire gli studi all’università, perché adesso imparare e approfondire mi piace. Consiglio alle persone che in passato non sono riuscite ad ottenere la Licenza di recuperarla. Sono solo 6 mesi di preparazione e ne vale veramente la pena». Anche per i docenti coinvolti – nel 2017 otto attivi nella fase di preparazione gestita da Pro Juventute e una ventina della Scuola Media di Gravesano per la sessione d’esami – l’esperienza risulta arricchente e formativa. In particolare vengono citati il confronto con allievi adulti, l’approccio con le loro vicende umane e le motivazioni che li spingono a raccogliere una sfida impegnativa da tutti i punti di vista. Ogni anno la Scuola Media incaricata di organizzare gli esami per i privatisti cambia. Nel 2018 da Gravesano ci si sposterà a Canobbio. I direttori fanno tesoro delle esperienze precedenti per migliorare di volta in volta finalità e organizzazione di questa speciale sessione d’esami. La sede di Gravesano, ad esempio, in accordo con l’esperta di matematica, ha allestito una serie di esercizi di preparazione che saranno a disposizione online per i futuri candidati. Da parte sua Pro Juventute, vista la lista d’attesa sempre più lunga, auspica di poter offrire in futuro la possibilità di frequentare i corsi preparatori a un numero maggiore di candidati costituendo una nuova classe nel Locarnese. Informazioni

www4.ti.ch/generale/infogiovani/ formazione-e-lavoro/scuole/ licenza-scuola-media-privatisti/ www.projuventute.ch

Un negozio per far pensare Progetto vetrina Chiasso ospita nuovamente un’iniziativa per aprire al pubblico

le esperienze creative innovative e tecnologiche della modernità Una vetrina come le altre, che si affaccia su una strada della cittadina di confine, ma la cui proposta ai passanti non è di tipo commerciale. Il «negozio» di Via Livio 16 infatti da alcuni anni ha l’ambizione di essere uno spazio dedicato alla creatività e alla riflessione sui fenomeni culturali e sociali. Per questo motivo ha assunto la denominazione di «Spazio Lampo» ed è gestito dall’Associazione omonima. Gli spazi di questo variopinto contenitore sono occupati da vari tipi di attività. Vi trovano ad esempio una sede la celebre Radio Gwendalyn, ormai conosciutissima emittente privata chiassese e, curiosità, il Consolato Generale dei regni di Elgaland-Vargaland (un progetto visionario degli artisti svedesi Carl Michael von Hausswolff e

Leif Elggren), oltre a varie altre attività professionali. Ma oltre a questa sua vocazione che potremmo dire più concretamente operativa, lo «Spazio Lampo» ospita quattro volte all’anno, in concomitanza con le grandi manifestazioni internazionali che animano la scena di Chiasso, un’iniziativa denominata «Progetto vetrina». Si tratta in questo caso di affidare di volta in volta ad artisti e perfomer l’arredamento e l’allestimento della parte del «negozio» che si affaccia sulla strada. La vetrina quindi può trasformarsi di volta in volta in un palco musicale oppure in una capanna, o ancora in una sala da teatro in cui possono essere presentati concerti, recite, esposizioni ma anche discussioni e atelier pratici.

Il nuovo appuntamento con il pubblico chiassese (e non solo) del «Progetto vetrina» sarà inaugurato il prossimo 8 marzo alle ore 18.30, in contemporanea con il Festival jazz di Chiasso. Si tratterà di una esposizione pensata appositamente per questo spazio dagli artisti ticinesi Andreas Gysin e Sidi Vanetta. I due grafici si occupano da anni di scoprire nuove modalità d’uso per oggetti della quotidianità. Loro campo di ricerca particolare è diventata la riprogrammazione di display luminosi, pannelli elettromeccanici e segnali di vario tipo, elementi che vengono così strappati dalla concretezza anonima del loro utilizzo pratico, per diventare inaspettati veicoli di messaggi artistici. Gysin e Vanetta sono celebri per aver

riprogrammato ad esempio il tabellone azzurro con gli orari di partenza e di arrivo dei treni alla stazione di Zurigo, gigantesco colosso elettromeccanico che era poi stato collocato al Museum of Digital Arts di Zurigo in occasione della sua inaugurazione, nel 2016. A Chiasso i due artisti proporranno «XXX», una riprogrammazione di tre insegne di farmacia. Come di consueto ne modificheranno il messaggio visivo, reinterpretandolo in modo astratto e geometrico. In occasione dell’inaugurazione sarà presente allo «Spazio Lampo» il musicista ticinese Elia Buletti, da tempo trapiantato a Berlino, che realizza colonne sonore minimaliste su ispirazione del tessuto urbano: sarà un accompagnamento perfetto per il vernissage tecnologico.

Azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

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Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

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Lo «Spazio Lampo» è in Via Livio 16 a Chiasso. (spaziolampo.tumblr.com)

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Non mi avete fatto niente (?) Il sito online della RSI ha dato un certo risalto al Festival di Sanremo, dedicando articoli e commenti all’evento che passa in Mondovisione come una sorta di cartina al tornasole dello stato della cultura diffusa italiana, la stessa che informa in larga misura forme e contenuti di quella kermesse canora. Globalizzata almeno al punto da meritare più di un’attenzione da parte – anche – dei Confederati di lingua italiana d’oltralpe. Bene: l’11 febbraio RSI News ha pubblicato un articolo su quello che è stato definito il «trionfo» della canzone vincente di Meta e Moro «Non mi avete fatto niente». Definita una «canzone impegnata» e un «invito a non aver paura del terrorismo» si sarebbe pertanto differenziata dalla «leggerezza» delle altre canzonette. Al ben vedere dell’Altropologo, ed a saper leggere il testo criticamente, la canzone di Meta e Moro non è affatto una canzone «impegnata» ma il suo contrario speculare: specchio fedele del populismo disimpegnante «di chi si crede assolto» (F. De Andrè) oggi dilagante, tanto più efficace in quanto famoso/fumoso globalmente, opaco – ed in ultima istanza equivoco. Cominciamo dal ritornello, già diventa-

to da questa parte delle Alpi un tormentone. «Non mi avete fatto niente»: la dichiarazione in prima persona proclama che «A Me, soggetto unico e sovrano della Mia vita, unica della quale Mi importa e verso la quale Io sono Beneficiario Assicurato, la cosa proprio non ha toccato. Ero così prima e sono così dopo». Io, io, io: Io non c’ero, l’ho scansata e la mia vita va avanti così come se non fosse successo nulla». Lo sberleffo infantile di «quello che l’ha scampata bella» e si chiama fuori dal coinvolgimento col destino comune di legittima paura è ribadito in più punti della canzonetta: «le vostre inutili guerre» (sottotesto: «Io non sono di leva»); «c’è chi si fa la croce / chi prega sui tappeti / gli imam e tutti i preti / ingressi separati della stessa casa» (sottotesto: «siete tutti uguali» – Io non c’entro perché Io vado in Discoteca) per poi ribadire il marameo: «non mi avete fatto niente / non mi avete tolto niente / non avete avuto niente (sottotesto: «da Me»). E poi: «Questa è la Mia vita che va avanti / oltre tutto / oltre la gente» (sottotesto: «per fortuna che io me la sono cavata – e dunque in buona sostanza chissene...»). Equivoco ed opacità dell’assunto che

prendono forma con appelli lacrimevoli, premessa e cornice raccapricciante/ seducente alla tesi centrale. Corpi («braccia senza mani») dilaniati come sono gli affetti («madri senza figli / figli senza padri») – il tutto condito con facili, trucidi ed ambigui Effetti Speciali da Videogioco: «...sangue nelle fogne [ma quando mai!?]». Per poi ribadire, ritornellando, che: «Io – Io sono fatto di un’altra pasta rispetto a quei miliardi di persone che sperano in qualcosa» – una «speranza in qualcosa». Affermazione indebita ed irridente, se rimane senza definizione. Poiché spazia dal Gratta e Vinci alla vittoria nell’Isola dei Famosi. O – peggio? – alla speranza nella Vita Eterna – «che tanto sono tutti lo stesso e la Cosa comunque non Mi riguarda». Erano – se l’Altropologo ben ricorda – gli Anni 80 quando il grande storico del ’900 Eric Hobsbawm suonava l’allarme relativo alla one issue politics, «la politica con un obiettivo unico». Si delineava allora una situazione per la quale, abbandonata la pretesa di ampie visioni, progetti e assunzioni di responsabilità collettive (condannate come anacronistiche «ideologie», a corto dei tempi), la «politica» diventava promozione di una

ed una sola questione, avulsa da qualsiasi contesto, spettante di diritto a chi ne fosse promotore per il solo fatto di essere Opinionissima del Soggetto Sovrano. Partiti ridotti ad Agenzie Lobbistiche soggette a loro volta al ricatto del Voto dell’Io Sovrano; politiche di medio termine ostaggio di questo o quel Comitato per la Difesa dei Miei Interessi; levate di scudi «dappertutto ma non nel Mio giardino». Si affacciava allora sulla scena globale e globalizzante, per paradosso dialettico, una posizione relativa alla legittimità del «volere/potere» politico sempre più Soggettiva e sempre meno Collettiva – uguale e contraria a quel volere/potere responsabile e collettivo che è oggi il Sogno Perduto della Modernità. Il caveat di Hobsbawm è caduto nel vuoto. Il trend soggettivista di allora si sposta oggi a grandi passi verso la rivendicazione di quell’Autismo Sovrano per il quale il Mio diritto è il diritto del Mondo. IO et mon droit – e il resto può andare alla malora. Sarebbe bello, bello e giusto, in un Mondo dove Kant e Rousseau fossero a memoria e pratica di tutti. Oggi, ahimè, nell’era di Sanremo Docet, la mia libertà non finisce dove comincia quella degli Altri: inizia e finisce esattamente

Lì e Lì. Al confine fra Me e Me – (solo che anch’Io oggi non si sento molto bene). «Il Mondo si rialza nel sorriso di un bambino» (così Mate e Moro). I bambini di chi?! E i bambini morti ad Aleppo come a Nizza, allora? Il sorriso di Quelli Là, altrove. Che lo consegna a Nuova Vita in un Mondovisione che propaganda le prospettive rassicuranti di una globalclasse medio-borghese che ancora (per poco?) chiude gli occhi in vista dell’impatto sugli standard di vita prossimi venturi. «Non mi avete fatto niente» – ovvero «Io non c’entro niente». Ci sta un rassicurante e miope: «Mamma io sto bene». Miope poiché la prossima volta potrebbe toccare a Noi. O era forse di Mate e Moro Vis retorica? Vis poetica? Il grande T.W. Adorno si interrogava su come fosse possibile scrivere poesie dopo Auschwitz: Primo Levi si è gettato dalla tromba delle scale. E dopo Aleppo!? Orsù, cantiamo canzonette. Come ha ammonito Mara Maionchi, storica produttrice discografica che di canzonette se ne intende: «Andate a dirlo al padre di Valeria Solesin [vittima al Bataclan] che non gli hanno fatto niente» – Bamboli. Così glossa e firma l’Altropologo. Kyrie Eleison.

comporta di comandare e obbedire secondo ferree gerarchie. Le donne invece erano destinate alla vita domestica e, nella famiglia patriarcale, il comando spettava esclusivamente al padre. Le donne si limitavano a frequentare parenti e vicine di casa con le quali intrattenevano rapporti ambivalenti, di affetto e di rivalità, temperati però dalla prossimità e dalla dipendenza dai rispettivi capi famiglia. Nella famiglia nucleare, composta da genitori e figli, le relazioni tra donne si sono ulteriormente semplificate. Si svolgono in modo paritetico, soprattutto tra mamme dei compagni di classe dei figli. Il problema tra chi comanda e chi obbedisce si pone pertanto per la prima volta, in molti casi, nei luoghi di lavoro. Un ambito organizzato secondo la mentalità maschile dove l’arrivo delle donne non sembra aver mutato sinora i rapporti reciproci. Per far carriera le donne hanno cercato, salvo eccezioni, di mimare

gli atteggiamenti e i comportamenti maschili, considerando la femminilità più un intralcio che una risorsa. Ma l’imitazione risulta spesso mal riuscita perché non corrisponde alla nostra natura e alla nostra storia. Spesso le lavoratrici per emergere devono faticare il doppio degli uomini, impegnarsi allo spasmo rinunciando ad altre priorità e, di conseguenza tendono, una volta arrivate in cima, a rivalersi con le sottoposte, soprattutto con la più intima collaboratrice. La quale a sua volta, ammettiamolo, spesso si isola dalle colleghe considerandosi la preferita. Per i maschi tutto è più semplice perché, oltre il vantaggio della tradizione, hanno anche quello di avere un aspetto fisico che ispira autorità: la statura, i lineamenti, la voce grossa, il gesto calmo e imperioso esprimono un primato etologico, riconosciuto con immediatezza da tutti i primati. Per legittimarsi, le donne cercano allora di

farsi valere imponendo alle collaboratrici atti di sottomissione come: fai immediatamente queste fotocopie, portami un caffè, fermati in ufficio oltre l’orario. Vi ricordate la figura un po’ grottesca ma significativa di Maryl Streep che recita la parte della insopportabile direttrice della rivista «Vogue» nel film Il diavolo veste Prada? Un incubo che molte conoscono. Tuttavia tra autoritarismo e sottomissione propongo una terza strada, quella dell’autorevolezza. Un potere che nessuna si dà da solo, che deve essere meritato e che, in ogni momento, può essere ritirato da chi lo ha spontaneamente attribuito.

sul piano linguistico, al tentativo di riabilitare una stagione della vita, poco allettante, depurando la nostra parlata quotidiana da vocaboli considerati offensivi, tipo decrepito, bacucco, senile, decotto. Con ciò, al di là dei neologismi consolatori, l’età continua a essere lo spartiacque fra un prima godibile e un dopo preoccupante, al quale non si sfugge. E, paradossalmente, il fatto di essere diventato un tema onnipresente, ha trasformato l’attenzione per gli anni che passano in ossessione e fraintendimenti. Sfociando nell’ageismo, associato a pregiudizi e discriminazioni, di cui sono vittime, innanzitutto, le donne, punto centrale nel discorso della Rigotti. L’invecchiamento al femminile ha conseguenze ben più incisive e più mortificanti. Il deterioramento dell’aspetto esclude la donna da molte attività, dove

la bella presenza è d’obbligo. E non si sta parlando di attrici e showgirl, ma anche di commesse, guide turistiche, segretarie. Ma c’è dell’altro. Con la menopausa, la donna subisce la perdita di valore, determinata dal fatto che non sarà più in grado di procreare, allevare e persino di piacere. Constatazione banale, ma inevitabile: il maschio, esteticamente, invecchia meglio, anche se George Clooney rimane un’eccezione. Ma c’è un altro aspetto del fenomeno ageism: il fattore età si manifesta, con effetti non meno deteriori, anche nei confronti dei giovani e dei giovanissimi. Che rappresentano un bersaglio sempre più esposto all’attenzione degli educatori e, d’altro canto, ai diffusi pregiudizi popolari. Gli adolescenti, in particolare, sembrano fare apposta per meritarsi l’appellativo di «età ingrata»,

che non è nuovo. Certo, comportamenti arroganti, rumorosi, aria sfottente: sono sotto gli occhi di una cittadinanza che replica con giudizi, ispirati non di rado al pregiudizio. Da svogliati, pigri, perditempo, «sdraiati», per usare la fortunata definizione di Michele Serra, si passa a sbandati, imbrattatori, teppisti, violenti. Avviene, insomma, un salto di qualità in cui, appunto, il pregiudizio ha la sua parte. Tanto che si considera l’ageismo una sorta di razzismo. Senza dubbio, le due categorie estreme, gioventù e vecchiaia, subiscono maggiormente i contraccolpi della strumentalizzazione dell’età. Ma, a ben guardare, non risparmia neppure la maturità, età di mezzo, che dovrebbe essere sinonimo di equilibrio, saggezza, affidabilità. Insomma il quarantenne perfetto. Personaggio illusorio, basti guardare la scena politica.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Il mio capo è una donna Gentile Silvia, sono una persona particolarmente socievole: ho amiche d’infanzia con le quali mi ritrovo abitualmente. Con altre, conosciute dopo, facciamo tante cose insieme come prendere un aperitivo, andare al cinema, viaggiare e condividere le vacanze. Pensi che mantengo regolari contatti persino con quelle che vivono all’estero! Non posso certo dire di avere difficoltà a comunicare con il mondo femminile. Come mai allora non riesco ad andare d’accordo con un capo donna? Cerco di mettercela tutta ma ogni volta le cose non funzionano. Incominciamo con le incomprensioni, gli equivoci, i sospetti e i risentimenti per finire in una guerra aperta, in un conflitto senza soluzione. Eppure in genere con i dirigenti maschi mi trovo bene. Mi sembrano più obiettivi, più giusti, più capaci di perdonare eventuali errori, soprattutto quando vengono commessi in buona fede. Vorrei cambiare atteggiamento ma non ci riesco. Mi potrebbe aiutare lei? / Manuela

Cara Manuela, la tua situazione riflette quella di molte altre donne, forse di tutte. Crediamo che maschi e femmine siano ormai omologati, che le differenze non esistano più. Ma non è così e, al di là delle dichiarazioni ufficiali, continuiamo a confrontarci con il fatto che, superati gli stereotipi che contrapponevano i due sessi in modo caricaturale restiamo, per fortuna, molto diversi. Un libro che ha fatto epoca Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belotti, denunciava sin dal 1973 i condizionamenti sociali che modellano il ruolo femminile. Indubbiamente da allora molte cose sono cambiate, ma non tutte. E l’autorità e il potere funzionano proprio da cartina di tornasole sulle disparità che ci impediscono di essere, come vorremmo, differenti ed eguali. Innanzitutto per motivi storici. Gli uomini sono sempre stati educati secondo il modello dell’esercito che

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Questione d’età Esiste un altro «ismo», a sua volta insidioso, sia pure diversamente rispetto agli attualissimi populismo e razzismo. Si chiama «ageismo», e l’ho scoperto, domenica scorsa, leggendo sul «Sole 24 ore» la recensione dell’ultimo saggio di Francesca Rigotti, De Senectute. Dove, la filosofa, docente di dottrine politiche all’università di Lugano, cita, appunto, quel termine di evidente origine anglosassone, ageism. Fu, infatti, coniato da Robert Neil Butler, fisico e gerontologo americano nel 1969, cioè nel pieno della cultura psico-sociale. Anche il linguaggio doveva, allora, adeguarsi ai cambiamenti imposti dalla demografia e dall’economia, soprattutto nelle democrazie occidentali e in Giappone. Aumentavano le speranze di vita e s’infoltiva una categoria di cittadini non più riconducibili a un blocco unico, i

vecchi, tout court. Per loro, i 60 anni, da traguardo erano diventati punto di partenza, verso una stagione ancora da inventare. Servivano, quindi, definizioni più differenziate, meno drastiche, persino lusinghiere. E se, in medicina, si allargava lo spazio della gerontologia, anche per i linguisti si era aperto un fertile campo d’intervento. Osserva, in proposito, Ottavio Lurati: «Si doveva rispondere al bisogno di definire in termini positivi la vecchiaia, a lungo vissuta come sofferenza e isolamento». Ed ecco che i vecchi diventarono gli anziani, quelli della terza, o quarta età, i seniores, e persino gli young old. Erano persone fortunate, giunte nell’età dei pensionati, nell’età libera, entrate addirittura nella «Bella età», come si chiamava una rubrica trasmessa dalla TSI. Insomma, si è assistito, almeno


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Ambiente e Benessere I castelli da fiaba del Nord Alla scoperta delle celebri dimore fatte costruire in Baviera da Ludovico II di Wittelsbach

Da siero di latte a energia È in corso in Ticino una ricerca dell’Ufficio federale dell’energia sulla produzione di biometano dai rifiuti industriali pagine 14-15

Una bevanda per tutti i pasti Di tutte le tisane fredde esistenti una molto apprezzata è di certo quella di rooibos pagina 17

pagina 12

Specie più protette Nuove regole su importazione e mantenimento di animali e vegetali

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Igiene e acqua potabile, per l’intero mondo

Agenda 2030 Al prossimo Forum mondiale

si parlerà dell’acqua come un diritto inalienabile

Loris Fedele L’acqua è fondamentale per la vita sulla Terra. Necessaria, anzi indispensabile, per noi e per il nostro ambiente. Vista come risorsa costituisce un fattore determinante di sviluppo sociale ed economico, ma per ottenerlo bisogna che sia accompagnata dalla consapevolezza che l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici di base è un diritto umano. Eppure proprio mentre ci rendiamo conto che sono tanti e complessi i problemi legati all’acqua che toccano il nostro pianeta, constatiamo anche che molti governi non hanno la volontà, l’energia e magari nemmeno le risorse per affrontarli nel modo giusto. Facendo proprie queste premesse l’ONU ha inserito tra gli obiettivi della sua Agenda 2030 (per la precisione è l’obiettivo n° 6), quello di «garantire la disponibilità e la gestione sostenibile di acqua e servizi igienici per tutti». Un simile obiettivo figurava già tra gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (OSM) e quindi, per ampliare il discorso e renderlo più completo e più preciso nelle applicazioni, l’Agenda 2030 vi ha aggiunto ulteriori sotto-obiettivi legati ad aspetti cruciali per lo sviluppo sostenibile. I paragrafi riguardano la gestione delle risorse idriche, lo smaltimento delle acque reflue, la qualità dell’acqua, la protezione e la riabilitazione degli ecosistemi. Il 22 marzo di ogni anno si celebra la «Giornata mondiale dell’acqua», ogni volta con un tema ufficiale diverso. Quest’anno sarà l’acqua come diritto. Nel 2017 si è trattata invece l’importante questione pratica delle acque reflue, quelle che portano con sé gli spurghi della nostra vita quotidiana. Secondo quanto prescrive l’obiettivo 6.3 dell’ONU bisogna «Migliorare entro il 2030 la qualità dell’acqua eliminando le discariche, riducendo l’inquinamento e il rilascio di prodotti chimici e di scorie pericolose, dimezzando le quantità delle acque reflue non trattate e aumentando considerevolmente il riciclaggio e il reimpiego sicuro a livello globale». È importante l’averlo messo per

iscritto ed è importante che ognuno si adoperi per raggiungere gli obiettivi perché l’acqua è anche fondamentale per la protezione della salute. Le situazioni planetarie sono assai variegate e a volte non comparabili. Si sa che un terzo della popolazione mondiale non ha accesso sicuro all’acqua potabile mentre noi la utilizziamo perfino nel gabinetto. Di questo non dobbiamo sentirci colpevoli, ma è bene renderci conto di come ogni problematica vada affrontata nel contesto e nel luogo dove si presenta, cercando le soluzioni ecologiche appropriate. In un simposio organizzato dalla FOSIT (la Federazione delle ONG della Svizzera italiana) lo scorso novembre a Lugano, il direttore della Direzione dello Sviluppo e della cooperazione svizzera, ambasciatore Manuel Sager, ha illustrato la situazione, corredando la sua conferenza di molte cifre. «Oltre 2,4 miliardi di persone sono ancora costrette a vivere senza impianti igienicosanitari appropriati – ha detto – e quasi un miliardo di persone deve ancora espletare le proprie funzioni corporali all’aperto». La cosa non è da sottovalutare: tocca in particolare l’Africa subsahariana, l’India, l’Indonesia, la Mongolia, la Bolivia, per citare alcuni siti. Un dato riportato da WASH (Water, Sanitation, Hygiene) dice che in 27 nazioni, soprattutto in Africa, più di un quarto della popolazione defeca all’aperto. La pratica non costituisce solo un’offesa per l’ambiente, ma è anche una via di trasmissione di malattie che portano a morte, malnutrizione, ritardo di crescita e danni cognitivi. Tutto lo sporco alla fine finisce nel cibo: attraverso le mosche, le mani sporche, i fluidi che con l’acqua impregnano il terreno e contaminano anche i raccolti. Un altro dato dice che circa l’80% delle acque reflue degli insediamenti e impianti industriali finisce nell’ambiente senza alcun trattamento. Per questo l’inquinamento di fiumi, laghi e falde acquifere sotterranee continua ad aumentare. Le riserve d’acqua sono ripartite in maniera molto disuguale sulla superficie del pianeta e la domanda aumenta

Nel 2050 il 52% della popolazione mondiale, secondo WASH, vivrà con scarsa disponibilità d’acqua. (Esercito USA/Pakistan)

costantemente a causa dell’aumento demografico e per i consumi legati a un benessere che cresce e che domanda sempre più acqua per le sue produzioni. Le proiezioni in questo senso sono inquietanti: nel 2050 il 52% della popolazione mondiale vivrà in aree caratterizzate da scarsa disponibilità d’acqua. La gestione di questa risorsa limitata è fondamentale per uno sviluppo sostenibile e assumerà un ruolo centrale in molti settori come la sanità, la sicurezza alimentare e l’approvvigionamento energetico. La Svizzera fornisce già importanti contributi nell’attuazione dell’Agenda 2030 per quanto concerne l’acqua, offrendo competenze tecniche e diplomatiche per la sua gestione. Può vantare oltre 40 anni di esperienza in questo campo. La Confederazione investe tra l’altro circa 180 milioni di franchi all’anno in tutto il mondo per migliorare l’approvvigionamento idrico ren-

dendolo più sicuro. Utilizza programmi bilaterali e multilaterali, regionali e globali, servendosi dell’Aiuto umanitario. Che la Svizzera sappia gestire le acque potabili sul proprio territorio è cosa nota. La sua rete di distribuzione è lunga 88’600 Km, cioè come il doppio della circonferenza della Terra, di cui oltre 28mila Km di allacciamento alle singole utenze. In Ticino, secondo un dato delle AIL, vi sono 13mila clienti allacciati alla rete, che è lunga 400 Km e fornisce 13 milioni di metri cubi di acqua potabile all’anno. Come si sa, quest’acqua viene da sorgenti, dalla falda e dal lago. Nel corso degli anni sta diminuendo la percentuale di acqua di sorgente, ma le altre fonti la sostituiscono egregiamente. Ne consumiamo circa 300 litri a testa al giorno e, anche se la Svizzera si trova nella fortunata situazione di meritarsi l’appellativo di «castello d’acqua», si deve tener alta la guardia e soprattutto badare a non

sporcare e inquinare la propria preziosa risorsa. Durante la settimana in cui cade la giornata mondiale dell’acqua il «Consiglio mondiale sull’acqua», con cadenza triennale, organizza un Forum sul tema scelto. Questo anno l’ottava edizione del Forum si terrà a Brasilia dal 18 al 23 marzo. Costituirà come sempre una piattaforma nella quale tecnici e politici dibatteranno su questioni economiche, sociali e ambientali legate al bene comune acqua. Parallelamente un Forum Alternativo Mondiale dell’Acqua (FAMA) affronterà il tema dell’approccio all’acqua come diritto, con l’obiettivo di unificare la lotta contro quelle aziende che tentano di trasformare l’acqua in una merce, privatizzando serbatoi e fonti naturali. Anche Papa Francesco in Italia lancerà un appello per far comprendere al mondo il valore dell’elemento più prezioso per tutti.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Ambiente e Benessere Una panoramica del Castello di Neuschwanstein. (Simona Dalla Valle)

Alla scoperta dei castelli della Baviera

Reportage Un percorso tra i quattro celebri castelli fiabeschi fatti costruire dal re «pazzo» Ludovico II

Simona Dalla Valle «È un difetto costitutivo dei tedeschi cercare nelle nuvole quello che hanno ai loro piedi», diceva il filosofo Arthur Schopenhauer, e nelle nuvole si ammirano le guglie appuntite del castello di Neuschwanstein, il più celebre dei castelli da fiaba fatti costruire in Baviera dal sognatore per eccellenza, il tristemente noto re Ludovico II di Wittelsbach. Situato nella parte meridionale della Germania, il Land della Baviera è una terra dalle caratteristiche molteplici a livello culturale, storico e linguistico, divisa in una moltitudine di sottoregioni, ognuna con il proprio dialetto e con predominanza religiosa diversa, le proprie specialità culinarie, una propria bandiera e un proprio stemma. Nella parte sud-ovest della Baviera, all’interno della regione chiamata Svevia, quasi al confine con l’Austria,

si trova la cittadina di Füssen, punto di partenza per milioni di turisti che ogni anno visitano i celebri castelli di Hohenschwangau e Neuschwanstein. Queste sono soltanto due delle mete turistiche più amate della Baviera, e insieme agli altrettanto famosi Linderhof e Herrenchiemsee ruotano attorno a un periodo di celebrazione delle arti e della musica promosso dalla figura di Ludovico II. Ludovico II fu re di Baviera dal 1864 al 1886 e noto per la sua vita singolare e una morte altrettanto controversa. Cresciuto da genitori freddi e distaccati, ossessionato dall’arte medievale e barocca, Ludovico II trascorse la sua infanzia e la sua gioventù nel castello di Hohenschwangau, fatto costruire dal padre all’inizio del secolo. Il castello, con il suo arredamento e le decorazioni che richiamano il mondo della mitologia germanica è molto utile per capire il carattere di Ludovi-

La sala degli specchi del Castello di Herrenchiemsee. (Simona Dalla Valle)

co II, che passava le giornate vivendo all’interno della sua immaginazione, cercando rifugio in dipinti e leggende e nutrendo il suo spirito con gli arazzi che lo circondavano, tra storie di cavalieri e gesta eroiche. La vita del sovrano fu raccontata nell’omonimo film di Luchino Visconti nel 1973, terza e ultima parte della «trilogia tedesca», di cui fanno parte anche La caduta degli dei (1969) e Morte a Venezia (1971). I tre castelli che ruotano intorno alla figura di Ludovico II sono una trasposizione dell’universo romantico e fantastico descritto dal compositore Wagner nelle sue opere, per le quali il monarca nutriva una sorta di ossessione. Il castello di Linderhof, in stile rococò, arricchito da un parco con fontane e padiglioni in stile orientale; quello di Herrenchiemsee, conosciuto anche come la «Versailles bavarese», nel quale emerge l’ammirazione del sovrano per il Re Sole e per la vita di corte francese del Seicento e Settecento; ma, soprattutto, il capolavoro architettonico di Ludovico II: il celeberrimo castello di Neuschwanstein, costruito su una rupe nel paesaggio idilliaco dell’Allgäu, nella Baviera meridionale. Quest’ultimo, il «castello delle fiabe» per eccellenza, è particolarmente esemplificativo dei gusti e delle inclinazioni del re: le sale interne del castello, rimasto incompleto alla morte del sovrano, sono finemente arredate e rappresentano un omaggio alla musica di Wagner, al mito romantico, ad antiche leggende germaniche come Tannhäuser, Tristan, Lohengrin, Parsifal, L’anello del Nibelungo. Preso come ispirazione da Walt Disney per la dimora della Bella Addormentata, il castello è oggi patrimonio dell’UNESCO ed è visitato ogni anno da milioni di turisti da tutto il mondo. Füssen, punto di partenza per la visita di Neuschwanstein e Hohenschwangau, è un’affascinante cittadina dalla storia millenaria, la cui importanza va oltre il suggestivo paesaggio

Il Castello di Hohenschwangau. (Simona Dalla Valle)

creato dall’incontro di montagne, laghi e colline. Qui s’incrociano quattro vie di comunicazione di grande rilievo: la via fluviale del Lech, la Strada Romantica, la Strada tedesca delle Alpi e la romana Via Claudia Augusta, in passato importante arteria commerciale tra l’Italia settentrionale e Augusta Vindelicum, l’attuale Augsburg, allora capitale della provincia romana della Rezia. Ogni anno a Füssen, nel mese di luglio, si svolge la Königsschlösser Romantik-Marathon (maratona romantica dei castelli reali) una competizione di oltre 42 km che oltre ai castelli affianca le rive del fiume Lech e quelle dei laghi Forggensee e Hopfensee. Numerosi sentieri e piste ciclabili partono da qui e attraversano i prati rigogliosi e le foreste della zona. Due sono le aree protette: l’Ammergebirge, l’ex parco di caccia reale di Ludovico II e la riserva naturale del lago Bannwaldsee con piante, fiori e farfalle rare. Allontanandosi da Neuschwanstein e Hohenschwangau, a circa un’ora di macchina in direzione est, si trova il castello di Linderhof, il più piccolo dei castelli di Ludovico, situato a Ettal, nelle vicinanze di Oberammergau. È

l’unica struttura la cui costruzione è stata terminata, ed è sicuramente quella le cui forme sono più armoniose. Costruito in stile barocco, il castello ha un grande e bellissimo parco nel quale sono disseminate altre preziosità architettoniche, tra le quali una grotta artificiale con all’interno un piccolo lago in in cui nuotano diversi cigni. Sull’omonima isola del lago Chiemsee, più a oriente rispetto a Linderhof, è situato invece il castello di Herrenchiemsee, raggiungibile da Prien con un traghetto per pedoni. Per questo castello Ludovico II si ispirò alla celebre reggia di Versailles, ma la costruzione è rimasta incompleta per mancanza di soldi. Del castello fu terminata solo la parte centrale, mentre nel progetto originale erano previste un’ala sinistra (iniziata, mai terminata e in seguito demolita) e un’ala destra che non fu mai iniziata. Il castello è circondato da un magnifico parco ed è utilizzato per diversi eventi e conferenze a tema storico e naturalistico. All’interno del Chiemsee si trova anche la Fraueninsel, l’«isola delle donne», sulla quale si trova uno dei più antichi conventi di Germania.


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Ambiente e Benessere

Ambiente e Benessere

Energia dai rifiuti industriali

na il fabbisogno di energia di una casa unifamiliare. Se il nuovo procedimento di digestione venisse tuttavia adottato da diverse imprese industriali, si potrebbe ottenere una produzione di energia di tutto rispetto: «Immaginiamo che la prima fase della digestione potrebbe essere effettuata sul sito della rispettiva impresa industriale. L’acetato così ottenuto sarebbe successivamente trasportato a un impianto centrale e usato per la produzione di biometano all’interno di un grande reattore», spiega Pamela Principi guardando al futuro.

Ricerca La Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana sta esaminando i processi microbiologici

che consentono la produzione di biogas

Benedikt Vogel* Molti processi industriali producono rifiuti che le aziende devono smaltire in maniera corretta sostenendo in alcuni casi costi considerevoli. Ma una parte dei rifiuti industriali contiene energia preziosa che può essere valorizzata. La Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (Supsi) sta esaminando i processi microbiologici che consentono di utilizzare i rifiuti industriali per la produzione di biogas. La praticabilità di uno di questi procedimenti viene ora testata durante tutto il 2018 con un impianto pilota installato presso l’azienda casearia ticinese Lati SA. Il Piano di Magadino si espande dal Lago Maggiore fino a Bellinzona. L’ampia regione è sfruttata per fini agricoli ma è anche la sede di numerose imprese industriali; tra queste, a Sant’Antonino, la Latteria del Ticino, abbreviato in Lati SA, la principale azienda casearia del Canton Ticino. L’azienda, che vanta una lunga storia nel settore lattiero-caseario, lavora il latte di 180 produttori ticinesi e produce latte da consumo, dessert e formaggi. Tra questi, i formaggi freschi come il «Robiolino», il «Gorello» o il «Quadratino», ma anche i formaggi a pasta semidura come la «Formaggella». Solo nel 2016 l’azienda ha lavorato 15 milioni di chilogrammi di latte realizzando con i propri prodotti un fatturato di 29 milioni di franchi.

Il siero di latte acidulo si presta al processo di digestione a due fasi generando in fase di ricerca quasi tre volte la quantità di metano attuale; ora va testato a livello industriale Il siero di latte è uno scarto di lavorazione del formaggio e può essere dolce o acidulo a seconda del processo di produzione. Contrariamente al siero di latte dolce, impiegato per l’allevamento di suini, il siero di latte acidulo non è adatto come mangime animale e deve essere smaltito. Le autocisterne della Lati SA portano ogni settimana circa 16mila litri di siero di latte acidulo all’impianto di depurazione (Ida) Foce Ticino a Gordola, che dista alcuni chilometri ed è ubicato a est di Locarno.

Dati base dei tre rifiuti industriali esaminati dai ricercatori della SUPSI: siero di latte (CW), acqua in uscita dal processo di fermentazione (FWW) e prodotto di scarto dalla produzione dell’olio di pesce (SK). COD è l’acronimo di «Chemical Oxygen Demand» (domanda biochimica di ossigeno). TS è la forma abbreviata di «Total Solids» (solidi totali). VS è l’abbreviazione di «Volatile Solids» (sostanza secca organica). (Relazione finale TANAIS)

Sguardo nel laboratorio della SUPSI a Manno: qui un team di ricercatori sotto la guida della Dr. Pamela Principi (nella foto) ha studiato un processo di digestione anaerobico in due fasi per rifiuti industriali. A destra i due reattori impiegati per gli esperimenti in due fasi. (B. Vogel)

Qui il siero viene fatto fermentare in un impianto tradizionale per la produzione di biogas insieme a fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue, rifiuti di cucina e altri residui dell’industria alimentare. Attualmente lo smaltimento del siero nell’IDA Foce Ticino rappresenta un costo per la Lati SA, ma le cose potrebbero cambiare nell’immediato futuro. I responsabili hanno compreso che il siero non deve essere considerato come un rifiuto ma come una risorsa dalla quale ricavare energia. In effetti il siero di latte acidulo viene già impiegato per la produzione di biogas, ma se in futuro si riuscisse ad aumentare sensibilmente la produzione di gas, il siero potrebbe non rappresentare più un costo per la Lati SA ma diventare addirittura una fonte di guadagno. All’inizio del 2018 è stato messo in funzione un impianto pilota per la trasformazione del siero di latte acidulo in metano all’interno dell’area aziendale di Lati a Sant’Antonino. L’impianto utilizza un processo di digestione in

La microbiologa Dr. Pamela Principi. (B. Vogel)

Entrambi i reattori hanno una capacità di 5 litri. Negli esperimenti condotti nel laboratorio della SUPSI sono state digerite solo poche centinaia di ml di substrato. (B. Vogel)

due fasi. Scopo del test è dimostrare se è possibile aumentare la produzione di metano dal siero di latte acidulo. Il progetto pilota presso la Lati SA si basa sui risultati promettenti di uno studio scientifico della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (Supsi) che è stato sovvenzionato dall’Ufficio federale dell’energia (Ufe).

La digestione in due step La produzione di biogas si basa sulla degradazione della sostanza organica da parte di microorganismi. Uno dei prodotti di questi processi di digestione è il biogas, che contiene metano. Quest’ultimo è una fonte di energia preziosa che può essere trasformata in energia elettrica e anche calore mediante la combustione oppure essere immessa nella rete del gas dopo essere stata sottoposta a un processo di depurazione. Negli impianti di produzione di biogas tradizionali la digestione avviene con un processo a fase unica. «Sul piano tecnico, il procedimento in un’unica fase non è tuttavia ottimale», afferma Roger König, ricercatore della Supsi. «È meglio dividere il processo di digestione in due fasi, in ciascuna delle quali possiamo regolare il grado di acidità affinché i microorganismi coinvolti possano sviluppare il loro potenziale in modo ottimale». Duran-

te la prima fase il grado di acidità ottimale corrisponde a un valore pH di circa 5, nella seconda fase sale a circa 7. Grazie alla divisione in due fasi, il substrato viene digerito meglio, aumentando di conseguenza la quantità di metano prodotta. Ma se si esamina il processo più attentamente, cosa avviene nelle due fasi? La prima fase comprende l’idrolisi, la fase di acidificazione e la produzione di acetato: nell’idrolisi i carboidrati, i grassi e le proteine contenuti nel siero di latte vengono resi disponibili per le fasi successive del processo, tra l’altro scomponendo le molecole a catena lunga in molecole a catena corta. Successivamente, le molecole vengono trasformate in acido grasso e acetico nella fase di acidificazione. Infine, anche gli acidi grassi vengono trasformati in acido acetico nella produzione di acetato. L’acido acetico (anche: acetato) è la so-

stanza di partenza che sarà trasformata in metano (e CO2) nella seconda fase del processo, la fase metanogenica. Entrambe le fasi necessitano di una coltura di microorganismi (costituiti da batteri, archei, funghi, ecc.). Queste colture vengono prodotte ad hoc («selezionate») dai ricercatori dal substrato degli impianti di produzione di biogas in modo tale da soddisfare i requisiti della fase del processo in cui saranno impiegate. I microorganismi per la prima fase sono adeguati al substrato (qui: il siero di latte). Con un substrato diverso sarebbe quindi necessaria un’altra coltura di microorganismi. Per la seconda fase del processo (trasformazione dell’acetato in metano) può essere usata sempre la stessa coltura di microorganismi indipendentemente dal tipo di substrato da cui è stato prodotto l’acetato nella prima fase del processo. / BV

Nell’ambito del progetto Tanais (acronimo di «Two-phase anaerobic digestion for aqueous industrial wastes») i ricercatori della sede di Supsi a Manno hanno studiato la digestione dei rifiuti industriali per comprendere se è possibile aumentare la resa in metano mediante l’impiego di un procedimento di digestione a due fasi. Secondo questo procedimento, la materia organica viene digerita in due tempi all’interno di due reattori. In entrambe le fasi del processo, la digestione è anaerobica, cioè avviene in assenza di ossigeno.

I ricercatori hanno esaminato tre tipi di rifiuto industriale prodotto in grandi quantità in Ticino: il siero (prodotto residuo ottenuto nel corso della fabbricazione del formaggio), l’acqua in uscita dal processo di fermentazione impiegato per la produzione di antibiotici e un prodotto di scarto della produzione di olio di pesce. Per due dei tre rifiuti esaminati, i ricercatori che collaborano con la microbiologa dottoressa Pamela Principi e il biotecnologo Roger König hanno evidenziato alcuni limiti: per quanto riguarda l’acqua di scarto dal processo di fermentazione, l’elevato tenore di zolfo limita la resa in metano, mentre l’assenza di solubilità del prodotto di scarto dalla produzione dell’olio di pesce impedisce l’aumento della produzione di metano. I ricercatori ticinesi hanno trovato invece un risultato promettente nel terzo substrato in esame, riuscendo ad aumentare sensibilmente il rendimento in metano prodotto con la digestione anaerobica del siero di latte all’interno di un reattore a doppia fase. La resa è risultata quasi tripla rispetto alla digestione in un reattore a fase singola. Se impiegando un procedimento a una fase in condizioni di laboratorio controllate è possibile produrre 10,9 nor-

La biomassa attiva per la prima e seconda fase di digestione viene preparata («selezionata») in laboratorio. Ciò consente una fase di avvio più rapida dell’impianto pilota sull’area della Lati. (SUPSI)

Il microtecnologo Roger König. (B. Vogel)

mal metri cubi (Nm3) di metano da un metro cubo di siero di latte, la produzione sale a 27,1 Nm3 con il procedimento a doppia fase della Supsi. La resa maggiore si spiega nel fatto che con un procedimento a doppia fase la digestione può essere effettuata in due fasi distinte particolarmente efficienti (vedi riquadro di testo). Il progetto pilota avviato presso la Lati SA dovrà ora dimostrare se questo risultato può essere raggiunto anche con un impianto che funziona in condizioni vicine alla realtà. Finora, la triplicazione del rendimento in metano ottenuta in laboratorio, di cui si è detto sopra, è stata ottenuta in un piccolo reattore sperimentale con circa 100 ml di siero di latte. A tale proposito, nella relazione conclusiva di Tanais si legge: «I test sono stati condotti senza ripetizioni (necessarie per un risultato statisticamente significativo) e il campione di substrato usato per la digestione non è perfettamente rappresentativo delle variazioni nella composizione chimica del siero di scarto di origine industriale». L’esperimento pilota presso la Lati SA dovrà ora dimostrare se la triplicazione della resa in metano può essere ottenuta anche in condizioni vicine alla realtà. L’impianto pilota è costituito da due reattori da 5 litri (per la prima fase di digestione della durata di quattro giorni) e da un reattore da 60 litri (per la seconda fase di digestione della du-

* su incarico dell’Ufficio federale dell’energia (UFE) Informazioni La figura mostra il risultato di un’elettroforesi su gel per l’analisi della comunità microbica. I tre substrati trattati (siero di latte/CW, acqua in uscita dal processo di fermentazione/FWW, prodotto di scarto dalla produzione dell’olio di pesce/ SK) mostrano una netta distinzione nella prima fase di digestione (HAA) mentre la seconda fase di digestione (MET) presenta una comunità microbica similare. (Relazione finale TANAIS)

rata di circa 30 giorni). L’impianto ha una capacità di circa due litri di siero di latte al giorno, che corrisponde solo a una piccolissima parte dei 16mila litri prodotti ogni settimana dalla Lati. Ma in questo esperimento non importa la quantità ma la qualità: l’impianto pilota deve infatti testare principalmente se sia possibile ottenere buoni risultati di resa in metano non solo in laboratorio ma anche con siero di latte «reale», ossia utilizzando del siero la cui composizione varia di continuo in base al tipo di formaggio prodotto in un dato periodo. Il valore della resa in metano è determinante per la redditività del processo: «Ogni punto percentuale in più di biogas è interessante sul piano economico: qualora fosse possibile aumentare la produzione di biometano nella misura auspicata, per la Lati SA potrebbe essere realmente vantaggioso produrre biogas dal siero di latte», così Pamela Principi. «In questo modo il siero cesserebbe di essere un fattore di costo e diventerebbe una fonte energetica sfruttabile a fini commerciali». Se fosse possibile trasformare tutto il siero di latte prodotto dalla Lati – quindi 16mila l alla settimana – in biometano con un elevato rendimento, a titolo indicativo si potrebbero ottenere

432 Nm3 di biometano alla settimana, che corrispondono al tenore energetico di 432 l di olio combustibile o a 4307 kWh di elettricità. Di per sé si tratta di una modesta quantità che copre appe-

Maggiori informazioni sul progetto possono essere richieste alla dottoressa Sandra Hermle (sandra. hermle@bfe.admin.ch), responsabile del programma di ricerca Bioenergia dell’UFE. Altri articoli specialistici su progetti di ricerca, progetti pilota, di dimostrazione e faro in materia di Bioenergia sono disponibili all’indirizzo: www.bfe.admin.ch/CT/biomasse

Il rifugio della Marchesa Reportage online Su www.azione.ch, un’escursione di Romano Venziani sul Monte Generoso alla ricerca delle tracce della mar-

chesa Carla Nobili Vitelleschi, che nel 1929 fece costruire e visse in una baita a picco sul lago di Lugano.

Tra debutti e misteri

Motori Torna a Ginevra «l’esposizione di auto più prestigiosa d’Europa», da giovedì 8 a domenica 18 marzo Mario Alberto Cucchi Tra pochi giorni Ginevra diventa la capitale mondiale dell’automobile. Giovedì 8 marzo si apriranno agli appassionati le porte del Palexpo che resteranno aperte sino a domenica 18 marzo. Un Salone unico nel suo genere, un Salone neutrale. Così è sempre stato considerato dagli addetti ai lavori, che anche quest’anno avranno due giornate a porte chiuse a loro dedicate: 6 e 7 marzo. Perché è considerato neutrale? Presto detto. Se al Salone di Francoforte ci si aspetta la «voce grossa» da parte dei costruttori tedeschi, quello di Parigi tocca ai francesi, Detroit agli americani, Tokyo ai giapponesi e così via. Ecco perché a Ginevra le Case automobilistiche si sentono garantite dalla neutralità di un Paese che non ospita storici costruttori automobilistici. A vincere è a volte l’eleganza dei prototipi, a volte la tecnologia delle nuove automobili pronte per debuttare nelle concessionarie. Conosciuta come l’esposizione di auto più prestigiosa d’Europa, la kermesse che si tiene sulle sponde del lago Lemano è particolarmente longeva. Quest’anno si festeggia infatti l’ottantottesima edizione di un Salone che anche nei prezzi è alla portata di tutti. Il biglietto per un adulto costa 16 franchi che scendono a 9 per i pensionati e per i bambini dai 6 ai 16 anni. Sotto i 6 anni si entra gratis. L’orario di

apertura da lunedì a venerdì va dalle 10 alle 20, mentre nel fine settimana va dalle 9 alle 19. Per evitare le code è consigliabile acquistare il biglietto da casa attraverso il sito internet ufficiale dell’evento: gpa-salonauto.shop.secutix.com. A Ginevra tutti i Costruttori fanno trapelare poche informazioni sulle auto che presenteranno in modo da amplificare l’effetto sorpresa. Diffi-

cile anche solo trovare una foto «rubata» di una vettura che finirà sotto i riflettori. Quest’anno il costruttore giapponese Honda ha deciso di puntare sul Salone svizzero giocando d’anticipo e svelando i suoi piani già a febbraio. Debutto europeo per la nuova CR-V che arriva a due anni di distanza dalla gemella presentata al Salone di Los Angeles nel 2016. CR-V sarà in vendita in Europa anche in

versione ibrida in cui il propulsore benzina sarà abbinato a un motore elettrico. Sotto i riflettori dello stand anche l’intrigante concept elettrica Urban EV che potrebbe diventare un modello di serie nel 2019. Honda rimarca la sua vocazione sportiva portando al Salone anche modelli racing a due e quattro ruote. Tra questi la Civic Type R TCR sarà mostrata in anteprima proprio

alla vigilia della stagione inaugurale del WTCR. Per gli amanti delle moto non mancherà il modello vincitore della Moto GP, che sarà esibita al fianco di vetture da corsa del calibro della NSX GT3. L’edizione 2018 del Salone di Ginevra si caratterizza per la presenza di molte automobili che sono in dirittura d’arrivo per le concessionarie. Un’occasione interessante per chi sta pensando a un acquisto: gironzolare tra gli stand per vedere nella stessa giornata tutte le potenziali candidate a diventare la nuova auto di famiglia. Mercedes presenterà la nuova generazione di Classe A e la première europea di Classe G. Audi mostrerà la nuova A6, Bmw la X7 e Volvo la nuova V60 station wagon. Riflettori puntati anche sulla brillante Fiat Tipo Sport. Dalla Corea la Hyundai Santa Fe e la terza generazione di Kia Cee’d. Interessanti novità anche dai costruttori giapponesi: dal nuovo Suzuki Jimny alla Mazda 6 Wagon. Queste sono solo alcune tra le molte anteprime; altre verranno svelate solo all’ultimo secondo. Va detto che le Case automobilistiche non saranno tutte presenti al Salone. Salvo ripensamenti dell’ultimo minuto, mancheranno infatti Opel, DS, infiniti, Cadillac e Chevrolet. Tutte le informazioni si possono trovare sul sito internet del salone www.gims.swiss.


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Energia dai rifiuti industriali

na il fabbisogno di energia di una casa unifamiliare. Se il nuovo procedimento di digestione venisse tuttavia adottato da diverse imprese industriali, si potrebbe ottenere una produzione di energia di tutto rispetto: «Immaginiamo che la prima fase della digestione potrebbe essere effettuata sul sito della rispettiva impresa industriale. L’acetato così ottenuto sarebbe successivamente trasportato a un impianto centrale e usato per la produzione di biometano all’interno di un grande reattore», spiega Pamela Principi guardando al futuro.

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che consentono la produzione di biogas

Benedikt Vogel* Molti processi industriali producono rifiuti che le aziende devono smaltire in maniera corretta sostenendo in alcuni casi costi considerevoli. Ma una parte dei rifiuti industriali contiene energia preziosa che può essere valorizzata. La Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (Supsi) sta esaminando i processi microbiologici che consentono di utilizzare i rifiuti industriali per la produzione di biogas. La praticabilità di uno di questi procedimenti viene ora testata durante tutto il 2018 con un impianto pilota installato presso l’azienda casearia ticinese Lati SA. Il Piano di Magadino si espande dal Lago Maggiore fino a Bellinzona. L’ampia regione è sfruttata per fini agricoli ma è anche la sede di numerose imprese industriali; tra queste, a Sant’Antonino, la Latteria del Ticino, abbreviato in Lati SA, la principale azienda casearia del Canton Ticino. L’azienda, che vanta una lunga storia nel settore lattiero-caseario, lavora il latte di 180 produttori ticinesi e produce latte da consumo, dessert e formaggi. Tra questi, i formaggi freschi come il «Robiolino», il «Gorello» o il «Quadratino», ma anche i formaggi a pasta semidura come la «Formaggella». Solo nel 2016 l’azienda ha lavorato 15 milioni di chilogrammi di latte realizzando con i propri prodotti un fatturato di 29 milioni di franchi.

Il siero di latte acidulo si presta al processo di digestione a due fasi generando in fase di ricerca quasi tre volte la quantità di metano attuale; ora va testato a livello industriale Il siero di latte è uno scarto di lavorazione del formaggio e può essere dolce o acidulo a seconda del processo di produzione. Contrariamente al siero di latte dolce, impiegato per l’allevamento di suini, il siero di latte acidulo non è adatto come mangime animale e deve essere smaltito. Le autocisterne della Lati SA portano ogni settimana circa 16mila litri di siero di latte acidulo all’impianto di depurazione (Ida) Foce Ticino a Gordola, che dista alcuni chilometri ed è ubicato a est di Locarno.

Dati base dei tre rifiuti industriali esaminati dai ricercatori della SUPSI: siero di latte (CW), acqua in uscita dal processo di fermentazione (FWW) e prodotto di scarto dalla produzione dell’olio di pesce (SK). COD è l’acronimo di «Chemical Oxygen Demand» (domanda biochimica di ossigeno). TS è la forma abbreviata di «Total Solids» (solidi totali). VS è l’abbreviazione di «Volatile Solids» (sostanza secca organica). (Relazione finale TANAIS)

Sguardo nel laboratorio della SUPSI a Manno: qui un team di ricercatori sotto la guida della Dr. Pamela Principi (nella foto) ha studiato un processo di digestione anaerobico in due fasi per rifiuti industriali. A destra i due reattori impiegati per gli esperimenti in due fasi. (B. Vogel)

Qui il siero viene fatto fermentare in un impianto tradizionale per la produzione di biogas insieme a fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue, rifiuti di cucina e altri residui dell’industria alimentare. Attualmente lo smaltimento del siero nell’IDA Foce Ticino rappresenta un costo per la Lati SA, ma le cose potrebbero cambiare nell’immediato futuro. I responsabili hanno compreso che il siero non deve essere considerato come un rifiuto ma come una risorsa dalla quale ricavare energia. In effetti il siero di latte acidulo viene già impiegato per la produzione di biogas, ma se in futuro si riuscisse ad aumentare sensibilmente la produzione di gas, il siero potrebbe non rappresentare più un costo per la Lati SA ma diventare addirittura una fonte di guadagno. All’inizio del 2018 è stato messo in funzione un impianto pilota per la trasformazione del siero di latte acidulo in metano all’interno dell’area aziendale di Lati a Sant’Antonino. L’impianto utilizza un processo di digestione in

La microbiologa Dr. Pamela Principi. (B. Vogel)

Entrambi i reattori hanno una capacità di 5 litri. Negli esperimenti condotti nel laboratorio della SUPSI sono state digerite solo poche centinaia di ml di substrato. (B. Vogel)

due fasi. Scopo del test è dimostrare se è possibile aumentare la produzione di metano dal siero di latte acidulo. Il progetto pilota presso la Lati SA si basa sui risultati promettenti di uno studio scientifico della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (Supsi) che è stato sovvenzionato dall’Ufficio federale dell’energia (Ufe).

La digestione in due step La produzione di biogas si basa sulla degradazione della sostanza organica da parte di microorganismi. Uno dei prodotti di questi processi di digestione è il biogas, che contiene metano. Quest’ultimo è una fonte di energia preziosa che può essere trasformata in energia elettrica e anche calore mediante la combustione oppure essere immessa nella rete del gas dopo essere stata sottoposta a un processo di depurazione. Negli impianti di produzione di biogas tradizionali la digestione avviene con un processo a fase unica. «Sul piano tecnico, il procedimento in un’unica fase non è tuttavia ottimale», afferma Roger König, ricercatore della Supsi. «È meglio dividere il processo di digestione in due fasi, in ciascuna delle quali possiamo regolare il grado di acidità affinché i microorganismi coinvolti possano sviluppare il loro potenziale in modo ottimale». Duran-

te la prima fase il grado di acidità ottimale corrisponde a un valore pH di circa 5, nella seconda fase sale a circa 7. Grazie alla divisione in due fasi, il substrato viene digerito meglio, aumentando di conseguenza la quantità di metano prodotta. Ma se si esamina il processo più attentamente, cosa avviene nelle due fasi? La prima fase comprende l’idrolisi, la fase di acidificazione e la produzione di acetato: nell’idrolisi i carboidrati, i grassi e le proteine contenuti nel siero di latte vengono resi disponibili per le fasi successive del processo, tra l’altro scomponendo le molecole a catena lunga in molecole a catena corta. Successivamente, le molecole vengono trasformate in acido grasso e acetico nella fase di acidificazione. Infine, anche gli acidi grassi vengono trasformati in acido acetico nella produzione di acetato. L’acido acetico (anche: acetato) è la so-

stanza di partenza che sarà trasformata in metano (e CO2) nella seconda fase del processo, la fase metanogenica. Entrambe le fasi necessitano di una coltura di microorganismi (costituiti da batteri, archei, funghi, ecc.). Queste colture vengono prodotte ad hoc («selezionate») dai ricercatori dal substrato degli impianti di produzione di biogas in modo tale da soddisfare i requisiti della fase del processo in cui saranno impiegate. I microorganismi per la prima fase sono adeguati al substrato (qui: il siero di latte). Con un substrato diverso sarebbe quindi necessaria un’altra coltura di microorganismi. Per la seconda fase del processo (trasformazione dell’acetato in metano) può essere usata sempre la stessa coltura di microorganismi indipendentemente dal tipo di substrato da cui è stato prodotto l’acetato nella prima fase del processo. / BV

Nell’ambito del progetto Tanais (acronimo di «Two-phase anaerobic digestion for aqueous industrial wastes») i ricercatori della sede di Supsi a Manno hanno studiato la digestione dei rifiuti industriali per comprendere se è possibile aumentare la resa in metano mediante l’impiego di un procedimento di digestione a due fasi. Secondo questo procedimento, la materia organica viene digerita in due tempi all’interno di due reattori. In entrambe le fasi del processo, la digestione è anaerobica, cioè avviene in assenza di ossigeno.

I ricercatori hanno esaminato tre tipi di rifiuto industriale prodotto in grandi quantità in Ticino: il siero (prodotto residuo ottenuto nel corso della fabbricazione del formaggio), l’acqua in uscita dal processo di fermentazione impiegato per la produzione di antibiotici e un prodotto di scarto della produzione di olio di pesce. Per due dei tre rifiuti esaminati, i ricercatori che collaborano con la microbiologa dottoressa Pamela Principi e il biotecnologo Roger König hanno evidenziato alcuni limiti: per quanto riguarda l’acqua di scarto dal processo di fermentazione, l’elevato tenore di zolfo limita la resa in metano, mentre l’assenza di solubilità del prodotto di scarto dalla produzione dell’olio di pesce impedisce l’aumento della produzione di metano. I ricercatori ticinesi hanno trovato invece un risultato promettente nel terzo substrato in esame, riuscendo ad aumentare sensibilmente il rendimento in metano prodotto con la digestione anaerobica del siero di latte all’interno di un reattore a doppia fase. La resa è risultata quasi tripla rispetto alla digestione in un reattore a fase singola. Se impiegando un procedimento a una fase in condizioni di laboratorio controllate è possibile produrre 10,9 nor-

La biomassa attiva per la prima e seconda fase di digestione viene preparata («selezionata») in laboratorio. Ciò consente una fase di avvio più rapida dell’impianto pilota sull’area della Lati. (SUPSI)

Il microtecnologo Roger König. (B. Vogel)

mal metri cubi (Nm3) di metano da un metro cubo di siero di latte, la produzione sale a 27,1 Nm3 con il procedimento a doppia fase della Supsi. La resa maggiore si spiega nel fatto che con un procedimento a doppia fase la digestione può essere effettuata in due fasi distinte particolarmente efficienti (vedi riquadro di testo). Il progetto pilota avviato presso la Lati SA dovrà ora dimostrare se questo risultato può essere raggiunto anche con un impianto che funziona in condizioni vicine alla realtà. Finora, la triplicazione del rendimento in metano ottenuta in laboratorio, di cui si è detto sopra, è stata ottenuta in un piccolo reattore sperimentale con circa 100 ml di siero di latte. A tale proposito, nella relazione conclusiva di Tanais si legge: «I test sono stati condotti senza ripetizioni (necessarie per un risultato statisticamente significativo) e il campione di substrato usato per la digestione non è perfettamente rappresentativo delle variazioni nella composizione chimica del siero di scarto di origine industriale». L’esperimento pilota presso la Lati SA dovrà ora dimostrare se la triplicazione della resa in metano può essere ottenuta anche in condizioni vicine alla realtà. L’impianto pilota è costituito da due reattori da 5 litri (per la prima fase di digestione della durata di quattro giorni) e da un reattore da 60 litri (per la seconda fase di digestione della du-

* su incarico dell’Ufficio federale dell’energia (UFE) Informazioni La figura mostra il risultato di un’elettroforesi su gel per l’analisi della comunità microbica. I tre substrati trattati (siero di latte/CW, acqua in uscita dal processo di fermentazione/FWW, prodotto di scarto dalla produzione dell’olio di pesce/ SK) mostrano una netta distinzione nella prima fase di digestione (HAA) mentre la seconda fase di digestione (MET) presenta una comunità microbica similare. (Relazione finale TANAIS)

rata di circa 30 giorni). L’impianto ha una capacità di circa due litri di siero di latte al giorno, che corrisponde solo a una piccolissima parte dei 16mila litri prodotti ogni settimana dalla Lati. Ma in questo esperimento non importa la quantità ma la qualità: l’impianto pilota deve infatti testare principalmente se sia possibile ottenere buoni risultati di resa in metano non solo in laboratorio ma anche con siero di latte «reale», ossia utilizzando del siero la cui composizione varia di continuo in base al tipo di formaggio prodotto in un dato periodo. Il valore della resa in metano è determinante per la redditività del processo: «Ogni punto percentuale in più di biogas è interessante sul piano economico: qualora fosse possibile aumentare la produzione di biometano nella misura auspicata, per la Lati SA potrebbe essere realmente vantaggioso produrre biogas dal siero di latte», così Pamela Principi. «In questo modo il siero cesserebbe di essere un fattore di costo e diventerebbe una fonte energetica sfruttabile a fini commerciali». Se fosse possibile trasformare tutto il siero di latte prodotto dalla Lati – quindi 16mila l alla settimana – in biometano con un elevato rendimento, a titolo indicativo si potrebbero ottenere

432 Nm3 di biometano alla settimana, che corrispondono al tenore energetico di 432 l di olio combustibile o a 4307 kWh di elettricità. Di per sé si tratta di una modesta quantità che copre appe-

Maggiori informazioni sul progetto possono essere richieste alla dottoressa Sandra Hermle (sandra. hermle@bfe.admin.ch), responsabile del programma di ricerca Bioenergia dell’UFE. Altri articoli specialistici su progetti di ricerca, progetti pilota, di dimostrazione e faro in materia di Bioenergia sono disponibili all’indirizzo: www.bfe.admin.ch/CT/biomasse

Il rifugio della Marchesa Reportage online Su www.azione.ch, un’escursione di Romano Venziani sul Monte Generoso alla ricerca delle tracce della mar-

chesa Carla Nobili Vitelleschi, che nel 1929 fece costruire e visse in una baita a picco sul lago di Lugano.

Tra debutti e misteri

Motori Torna a Ginevra «l’esposizione di auto più prestigiosa d’Europa», da giovedì 8 a domenica 18 marzo Mario Alberto Cucchi Tra pochi giorni Ginevra diventa la capitale mondiale dell’automobile. Giovedì 8 marzo si apriranno agli appassionati le porte del Palexpo che resteranno aperte sino a domenica 18 marzo. Un Salone unico nel suo genere, un Salone neutrale. Così è sempre stato considerato dagli addetti ai lavori, che anche quest’anno avranno due giornate a porte chiuse a loro dedicate: 6 e 7 marzo. Perché è considerato neutrale? Presto detto. Se al Salone di Francoforte ci si aspetta la «voce grossa» da parte dei costruttori tedeschi, quello di Parigi tocca ai francesi, Detroit agli americani, Tokyo ai giapponesi e così via. Ecco perché a Ginevra le Case automobilistiche si sentono garantite dalla neutralità di un Paese che non ospita storici costruttori automobilistici. A vincere è a volte l’eleganza dei prototipi, a volte la tecnologia delle nuove automobili pronte per debuttare nelle concessionarie. Conosciuta come l’esposizione di auto più prestigiosa d’Europa, la kermesse che si tiene sulle sponde del lago Lemano è particolarmente longeva. Quest’anno si festeggia infatti l’ottantottesima edizione di un Salone che anche nei prezzi è alla portata di tutti. Il biglietto per un adulto costa 16 franchi che scendono a 9 per i pensionati e per i bambini dai 6 ai 16 anni. Sotto i 6 anni si entra gratis. L’orario di

apertura da lunedì a venerdì va dalle 10 alle 20, mentre nel fine settimana va dalle 9 alle 19. Per evitare le code è consigliabile acquistare il biglietto da casa attraverso il sito internet ufficiale dell’evento: gpa-salonauto.shop.secutix.com. A Ginevra tutti i Costruttori fanno trapelare poche informazioni sulle auto che presenteranno in modo da amplificare l’effetto sorpresa. Diffi-

cile anche solo trovare una foto «rubata» di una vettura che finirà sotto i riflettori. Quest’anno il costruttore giapponese Honda ha deciso di puntare sul Salone svizzero giocando d’anticipo e svelando i suoi piani già a febbraio. Debutto europeo per la nuova CR-V che arriva a due anni di distanza dalla gemella presentata al Salone di Los Angeles nel 2016. CR-V sarà in vendita in Europa anche in

versione ibrida in cui il propulsore benzina sarà abbinato a un motore elettrico. Sotto i riflettori dello stand anche l’intrigante concept elettrica Urban EV che potrebbe diventare un modello di serie nel 2019. Honda rimarca la sua vocazione sportiva portando al Salone anche modelli racing a due e quattro ruote. Tra questi la Civic Type R TCR sarà mostrata in anteprima proprio

alla vigilia della stagione inaugurale del WTCR. Per gli amanti delle moto non mancherà il modello vincitore della Moto GP, che sarà esibita al fianco di vetture da corsa del calibro della NSX GT3. L’edizione 2018 del Salone di Ginevra si caratterizza per la presenza di molte automobili che sono in dirittura d’arrivo per le concessionarie. Un’occasione interessante per chi sta pensando a un acquisto: gironzolare tra gli stand per vedere nella stessa giornata tutte le potenziali candidate a diventare la nuova auto di famiglia. Mercedes presenterà la nuova generazione di Classe A e la première europea di Classe G. Audi mostrerà la nuova A6, Bmw la X7 e Volvo la nuova V60 station wagon. Riflettori puntati anche sulla brillante Fiat Tipo Sport. Dalla Corea la Hyundai Santa Fe e la terza generazione di Kia Cee’d. Interessanti novità anche dai costruttori giapponesi: dal nuovo Suzuki Jimny alla Mazda 6 Wagon. Queste sono solo alcune tra le molte anteprime; altre verranno svelate solo all’ultimo secondo. Va detto che le Case automobilistiche non saranno tutte presenti al Salone. Salvo ripensamenti dell’ultimo minuto, mancheranno infatti Opel, DS, infiniti, Cadillac e Chevrolet. Tutte le informazioni si possono trovare sul sito internet del salone www.gims.swiss.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Ambiente e Benessere

La Slovenia vitivinicola

Bacco giramondo I vini provenienti dalla zona di Ljutomer Ormoske Gorice sono fra i migliori bianchi europei

Davide Comoli La Slovenia è stata il primo Stato della ex Jugoslavia ad acquistare l’indipendenza nel 1991 e a divenire un membro stabile dell’Unione Europea nel 2004. Già durante il periodo dell’Impero Austro-Ungarico (di cui faceva parte) i vini sloveni erano molto apprezzati: in quel periodo gli ettari vitati erano più di 50mila, oggi ne sono rimasti circa 25mila. I dolci pendii delle sue colline offrono alcune zone perfette per la viticoltura. Il Paese confina con l’Austria e l’Italia da un lato e con l’Ungheria e la Croazia dall’altro, costituendo un luogo di transizione da est a ovest. Furono certamente le popolazioni celtiche a produrre il primo vino. I romani più tardi ne scoprirono presto il gusto vivace e fresco, molto diverso da quello più pesante del vino che si beveva a Roma. Durante il periodo delle Crociate, gli eserciti che sostavano nelle campagne intorno a Ormož, dopo aver assaggiato il vino locale, lo ribattezzarono con il nome di Jeruzalem. Ancora oggi i vini di Jeruzalem Ormož godono di un posto in primo piano. Un’altra prova di come i vini sloveni fossero già rinomati in tempo medioevale è dato dal vino Sipon. Dice la leggenda che questo nome fu dato da cavalieri crociati francesi, che dopo averlo apprezzato, lo definirono «Si bon» dando così origine al nome. Anche la Chiesa incoraggiò la produzione del vino, che godette di un periodo aureo ai tempi dell’impero Austro-Un-

garico, come già abbiamo accennato. Tutta questa euforia ebbe termine con la piaga della filossera. Oggi la produzione slovena mostra diverse sfaccettature, si va dalle produzioni di vini muffati prodotti con vendemmie tardive, a vini prodotti con metodi ancestrali, come quelli fatti maturare in anfore interrate. Il consumo pro capite è di circa 27 l di vino annuo. La protezione delle Alpi rende il clima piuttosto mite, soprattutto vicino alla costa. Il territorio è in genere collinare, garantisce sui pendii scoscesi un’insolazione perfetta, ma la coltivazione della vite è molto faticosa. La prevalenza dei terreni è di origine calcarea e argillosa, con particolari rocce dolomitiche-calcaree nella zona del Carso, mentre nella zona litoranea troviamo terreni ricchi di argilla rossa. Nelle zone più interne troviamo invece terreni rocciosi, ricchi di minerali che rendono i vini intensamente profumati. La piccola Slovenia ha non meno di quattordici diverse aree vinicole, raggruppate in tre aree principali: Primorje, Podravje e Posavje. Anche se la regione Primorje (presso il mare) è un po’ lontana dalla costa, la vicinanza del mare influisce sul clima locale: questa zona litoranea è un po’ il prolungamento del Collio friulano. Le sottozone di questo territorio sono Brda con vini prodotti da uve Refosk, Merlot e Cabernet Sauvignon; qui abbiamo trovato un ottimo spumante prodotto con la Rebula e messo in commercio con i lieviti ancora in

Una panoramica sulle vigne di Zavrcˇ, nei pressi del fiume Drava, nella regione di Podravje.

bottiglia, quindi senza dégorgement (Sboccatura). A Vipava, con i vitigni Rebula (Ribolla Gialla), Sauvignon, Laski Riesling (Welschriesling), Malvasia e i due autoctoni Zelen e Pinela si producono moderni e profumati bianchi. Troviamo pure rossi di ottima qualità prodotti con uve Merlot, Barbera e il locale Biljenski Grici. A Karst troviamo un ottimo Refosk (Refosco) lo stesso vitigno produce il 70 per cento dei vini rossi a Koper (Capodistria), mentre i vini bianchi della zona man-

cano un po’ dell’acidità e sono piuttosto sciropposi. A Podravje (sulla Drava) all’estremo nord-est del Paese, si producono vini bianchi eleganti, fini e aromatici, la regione è rinomata anche per i suoi deliziosi vini dolci Pozna, Trgatev e Izbor, prodotti con vendemmie tardive con Riesling Renano, Traminer, Sauvignon Blanc e il Moscato Ottonel, che sta scomparendo in favore del Moscato Bianco. Secondo gli sloveni a Maribor troviamo i vitigni più antichi al mondo. Ogni anno si producono ancora circa

50 litri di vino da uve Kölner Blauer o Zametna Crnina (velluto nero) da ceppi di vite vecchi di 450 anni. Questo vino, imbottigliato in flaconi mignon, viene venduto ai collezionisti con un certificato d’autenticità. Ad Haloze, ai confini con la Croazia, si producono esclusivamente vini bianchi, ai quali il suolo gessoso conferisce grande eleganza. I vini provenienti dalla zona di Ljutomer Ormoske Gorice sono, a nostro giudizio, fra i migliori bianchi europei: il bouquet di questi vini è complesso, fiori bianchi e addirittura si percepiscono i profumi dello Slivovitz, il distillato nazionale. I vitigni: Laski Riesling, Sipon (Furmint), Ruladec, Chardonnay e un fantastico Sauvignon Blanc. La Posavje si trova sulla Sava, e diversi sono i fiumi che garantiscono l’apporto idrico a questa zona. Posavje, a sud di Podravje e vicino al confine croato, è la regione vinicola più piccola, ma anche la più variata in fatto di vitigni, e risente di una forte influenza francese. A Bela Krajina vengono prodotte molte tipologie di vino: si va dai bianchi freschi e leggeri a quelli più strutturati; particolari sono i vini dolci ottenuti da vendemmie tardive, prodotti con le uve locali che sono: Izbor, Jagodni Izbor e il Suhi Jagodni Izbor. Famoso ed eccellente, assolutamente da provare sia in versione secca sia come ice wine è infine il Ledeno, prodotto con le uve Laski Riesling. Qui troviamo anche uve a bacca nera di origine bordolese, dal cui assemblaggio si producono, a parer nostro, i migliori rossi della Slovenia. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Il tè rosso africano Molti grandi cuochi dicono che l’acqua sia perfetta per accompagnare un pasto, anche importante, mentre il vino così come la birra sarebbero invece troppo intrusivi. C’è del vero in questo, senza dubbio: un menù degustazione fatto di tanti piatti piccoli accomunati dal fatto di essere comunque delicati non deve essere turbato da sapori intrusivi. Io, però, penso esista una soluzione non alcolica migliore dell’acqua, ovvero quella di portare in tavola tisane fredde.

Il rooibos è prodotto con una fabacea che viene dal Sudafrica e più esattamente dalla regione del Cederberg Che cosa sono le tisane? In breve sono bevande a base di erbe fresche o essiccate, opportunamente sminuzzate e mescolate ad acqua calda. In base al tipo di preparazione, la tisana si definisce infuso quando alle erbe si unisce acqua molto calda e si lascia riposare il composto per 10 o più minuti prima di filtrarlo, mentre si definisce decotto quando invece il composto di acqua ed erbe viene portato a ebollizione, lasciato sobbollire per qualche minuto e mantenuto poi in infusione a fiamma spenta per altri 5’ e più prima di essere filtrato. Sono tisane anche i macerati, preparati unendo le erbe ad acqua fredda e lasciando macerare gli ingredienti. Da consumare sia fredde sia calde, secondo le preferenze individuali, le tisane possono essere preparate con semi, parti erbacee, fiori, foglie, radici; le più diffuse sono a base di camomilla, tiglio, eucalipto, liquirizia, angelica, bergamotto e malva. Bene, io penso che le tisane «giuste» siano un grande accompagnamento di un pasto, di un qualsiasi pasto. Hanno un’immagine «vecchio stile», lo so, le vediamo adatte a chiudere un pasto

come in molti facciamo mentre pochi le utilizzano lungo il pasto. Io sono uno di quei pochi... Di tutte le tisane fredde esistenti quella che amo di più (e che ho sempre in frigorifero, peraltro, e che accompagna tutti i miei pranzi) è la tisana di rooibos. È fatta con una fabacea che viene dal Sudafrica e più esattamente dalla regione del Cederberg, nelle montagne a circa 200 km a nord di Città del Capo. Il nome è afrikaans, lingua degli ex coloni di origine olandese che a lungo hanno dominato questa vasto paese: viene chiamato anche red bush o tè rosso: attenzione, questo ingenera confusione, perché in verità, come detto, non viene prodotto con una camelia sinensis, che è il nome scientifico del tè. Non è ovviamente una scoperta recente, i locali lo usano da centinaia di anni: mentre i foresti, i bianchi sudafricani, l’hanno di fatto scoperto a inizio del XX° secolo. Si è diffuso abbastanza (ma sia chiaro, è un prodotto molto di nicchia) in Europa e Nord America da pochi anni. Come fare questa tisana? Facile: mettete in infusione da 2 a 4 g di rooibos in una bottiglia di acqua minerale, lasciate riposare in frigo per 24 ore, poi filtrate. Tutto qui. Quali i grandi vantaggi del rooibos? Il primo, non ha teina o caffeina, quindi se ne possono bere litri senza problema, soprattutto la sera. Il secondo è che è ricco di sostanze antiossidanti, vitamine e minerali: d’accordo, nel nostro caso non è una cosa essenziale, ma comunque non guasta. Il terzo, pochi lo dicono ma è fondamentale, ha un colore rosso brillante bellissimo: e si sa che si mangia e si beve anche (qualcuno dice soprattutto) con gli occhi. Ma ancor di più: è buono, qualunque cosa voglia dire. Ha un sapore naturale leggermente dolce, ma proprio poco, con un retrogusto di nocciola, che piace proprio a tutti. Però non è mai intrusivo. Quindi è un prodotto perfetto da pasto, se vogliamo fare a meno dell’acqua minerale...

CSF (come si fa)

David Masters

Allan Bay

Selena NBH

Gastronomia Il nome corretto in afrikaans è rooibos ed è una tisana (non un tè) dalle mille risorse

Oggi vediamo come si fanno dei burri aromatizzati. Burro acido. Questo burro, la cui acidità deriva dalla riduzione di vino e aceto, è perfetto per la mantecata dei risotti; l’aggiunta del componente freddo consente uno shock termico che renderà il risotto ancor più cremoso e armonioso nei sapori. Mondate 2 cipolle o altrettanti (in peso) scalogni e affettateli. In una

casseruola con il fondo spesso versate le cipolle, 250 ml di vino bianco, 110 ml di aceto di vino bianco e, a fuoco moderato, portate al bollore in modo da dealcolizzare il vino e perdere la nota amara che lascerebbe in cottura. Al bollore, abbassate il fuoco e fate ridurre fino a che le cipolle non siano trasparenti e abbiano assorbito il liquido. Fuori dal fuoco aggiungete 250 g di burro tagliato grossolanamente e lavorando con una paletta fatelo fondere e incorporare al composto caldo. Filtrate con un colino a maglie strette e mettetelo in un contenitore da alimenti grassi; generalmente lo sistemo in vaschette per i cubetti di ghiaccio in modo da poterlo conservare in freezer fino al suo utilizzo, però lasciate i cubetti fuori dal freezer per una mezz’ora quando li userete.

Burro all’aglio, per usi svariati. Pestate 50 g di spicchi d’aglio (ma anche di più, dipende dai gusti...) dopo averli sbucciati e aver eliminato l’anima verdina. Incorporateli in 100 g di burro, ammorbidito a temperatura ambiente e lavorato a crema con un cucchiaio di legno, prima schiacciandolo, poi mescolando in senso circolare – liberi di farlo in senso orario o antiorario. Alla fine passate al setaccio. Burro d’acciughe. Idem come sopra, pestando 50 g di acciughe dissalate e lavate, non sott’olio. Burro ai gamberetti. Pestate con foga estrema 100 g di teste e gusci di gamberetti e incorporatevi altrettanto burro, con la stessa procedura del burro d’aglio; passate al setaccio. Va anche bene utilizzare piccoli gamberetti, quelli così piccoli che non sai proprio cosa fartene.

Ballando coi gusti Oggi due semplicissime fritture di verdure. Sono antipasto ma si possono anche utilizzare per uno spuntino. Fatti con pastelle diverse.

Finocchi fritti Ingredienti per 4 persone: 2 finocchi · 50 g di farina 00 · 1 uovo · olio per friggere

Salvia fritta Ingredienti per 4 persone: 20 foglie di salvia · 50 g di farina 00 · birra · olio per

· sale.

friggere · sale.

Mettete in una ciotola 3 o 4 cucchiai di acqua fredda, aggiungete la farina setacciata ed emulsionatela. Aggiungete il tuorlo, 1 cucchiaio di olio e 1 pizzico di sale e mescolate con cura in modo che non si formino grumi. Lasciate riposare la pastella per almeno 30’. Mondate i finocchi, tagliateli in 6 o 8 spicchi e cuoceteli a vapore per 8-10’. Scolateli e fateli raffreddare. Unite alla pastella l’albume montato a neve, mescolando. Mettete gli spicchi di finocchi, pochi per volta, nella pastella, levateli e friggeteli in olio caldissimo. Scolateli su carta assorbente da cucina per eliminare l’unto in eccesso e serviteli subito.

Setacciate la farina in una ciotola. Unite a filo della birra, va benissimo una lager bionda base a temperatura ambiente, mescolando con un una frusta o una forchetta. La quantità di birra dipende da tanti fattori, comunque deve essere la quantità necessaria e sufficiente per avere la pastella densa come una crema. Aggiungete anche 1 pizzico di sale. Immergete le foglie di salvia nella pastella poi scolatele e friggetele subito in abbondante olio caldissimo. Scolatele su carta assorbente da cucina per eliminare l’unto in eccesso e servitele subito.



Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

19

Ambiente e Benessere

Giro di vite nella conservazione delle specie Mondoanimale La protezione delle varietà di animali e vegetali in Svizzera è in linea

con la convenzione di Washington

Maria Grazia Buletti Qual è lo scopo della conservazione internazionale delle specie? Quali obiettivi persegue la Cites (Convenzione internazionale sulla conservazione delle specie)? Quali sono le specie animali e vegetali protette? Che ruolo riveste la Svizzera in questo ambito? Come è possibile dare un contributo personale a questa causa? Queste e molte altre domande ricevono le risposte puntuali che sono raccolte nell’opuscolo di recente pubblicazione dell’Usav (Ufficio federale sicurezza alimentare e veterinaria) sulla conservazione della specie. Di fatto, nel nostro Paese l’Usav è l’organo esecutivo per la conservazione internazionale delle specie: «Gli animali e le piante a rischio di estinzione vengono protetti anche in Svizzera, come nelle altre nazioni, in linea con la convenzione di Washington (Cites)». La Legge federale sulla circolazione delle specie di fauna e di flora protette (LF-Cites) rappresenta le fondamenta per l’attuazione della Convenzione sulla loro conservazione e disciplina l’importazione e l’esportazione di animali e piante appartenenti a quelle specie fortemente protette, come pure di loro prodotti derivati. Dal canto suo, la convenzione Cites è una convenzione sul commercio nata con l’obiettivo di garantire un uso e una conservazione sostenibili dalle popolazioni animali e vegetali in questione. In questo senso, l’Usav puntualizza che

«la legislazione sulla conservazione delle specie (LF-Cites, ordinanza Cites e ordinanza sui controlli Cites) consente di attuare la normativa in modo flessibile, tenendo conto dei rischi e in linea con gli obblighi e gli sviluppi internazionali». Ma i compiti di esecuzione per la conservazione delle specie non si esauriscono qui: «Ai sensi della LF-Cites, per specie di fauna e di flora protette si intendono le specie i cui esemplari sono prelevati dall’ambiente naturale o sono oggetto di commercio in una quantità tale da compromettere un uso sostenibile degli effettivi naturali». In questa prospettiva, 1 2 all’Usav competono 3 4 anche5 altri compiti che mirano all’attuazione in Svizzera della conservazione inter7 8 9 nazionale delle specie. Un esempio di impegno nazionale concreto è quello inerente la protezione delle 10 11 balene, in12 cui la Svizzera, in qualità di membro della Commissione baleniera interna13 14 zionale, cerca di svolgere il ruolo di interlocutore affidabile e di mediatore. Inoltre, 15il nostro Paese è impegna16 17 to nella conservazione delle specie animali sia a livello interno sia internazio21 22 23 24 nale, attraverso la puntuale attuazione di leggi e trattati, mentre la conserva26 delle 27 specie autoctone 28 29 flora zione di e fauna compete all’Ufficio federale dell’ambiente (Ufam). Naturalmente,34 32 33 non dobbiamo dimenticare il ruolo dei Cantoni e dei Comuni i quali, insieme a 37 organizzazioni private, prestano a loro volta un contributo molto importante,

inoltre un registro di controllo degli effettivi (articolo 11 LF- Cites). Dopo tanta teoria passiamo a qualche esempio concreto citato dalla nuova legge aggiornata e parliamo del pappagallo cenerino (Psittacus eritcus): «Il commercio di questi animali selvatici catturati a partire dal 2 gennaio 2017 non è consentito». Anche le condizioni di importazione sono di conseguenza severamente regolate come segue: «Occorrono un’autorizzazione d’importazione dell’Usav e un’autorizzazione di (ri)esportazione rilasciata dal Paese di provenienza». Di questi documenti va inoltrata una copia all’Usav, unitamente alla domanda per l’autorizzazione 6 d’importazione. In occasione dell’importazione, gli animali vanno sottoposti a un controllo fisico presso un posto di controllo Cites. Anche le condizioni Un esemplare di Psittacus erithacus. (Karen NIeoh) di esportazione, sempre per i cenerini, ad esempio attraverso l’istituzione di files/notif/E-Notif-2016-063.pdf. Pro- sono regolate attraverso il documento aree protette e monitorate. prio in ragione di questi aggiornamenti, di un’autorizzazione di (ri)esportazioLe maggiori novità nel settore del- in Svizzera tutte le specie riportate negli ne rilasciata dall’Usav, mentre nel conla fauna, ad esempio, sono riassunte nel allegati Cites sono soggette all’obbligo tempo bisogna informarsi nel Paese di capoverso 18 Cites CoP17 che della prova ai sensi della Legge federale destinazione in merito alle condizioni 19cita la 2017ma Conferenza delle parti contraenti in cui omonima, secondo l’articolo «Chi -diGENNAIO importazione specifici. Tutto ciò, nel SUDOKU PER10: AZIONE 2018 sono state deliberate ben 51 modifiche possiede esemplari delle specie di cui link indicato è regolato per parecchie 25 agli allegati. Nelle informazioni detta- N. agli1allegati I-III Cites deve disporre dei altre specie animali come, per citarFACILE gliate rilasciate dall’Usav si legge: «Al- documenti Schema che consentano di verificar- ne alcune,Soluzione lucertole di vario tipo, ca30di queste decisioni 31 cune possono avere ne la provenienza e l’origine, nonché la maleonti nani, varani senza orecchie, 4 2 della 9 circolazione. Chi cede a 2 9 del 6 Monte 5 3 Kenya, 8 7 conseguenze dirette su importatori, legalità Vipera1 di4boscaglia 6 tali esemplari 8 2 deve 4 consegnare 1 5 commercianti o proprietari privati di terzi al Vipera cornuta del Kenya e Lucertola 3 6 9 7 8 2 4 1 5 35 36 animali domestici che vivono nel nostro 5destinatario coccodrillo 4 i 3documenti di cui al ca5 8 cinese. 7 4 Tutto 3 1 questo 2 6 è 9in Paese», e si rimanda all’elenco completo poverso 1. Chiunque commerci a titolo prospettiva e nell’ottica di un migliore 2 esemplari 5 delle4specie di 9 1 6delle 2 specie, 7 8 sempre 5 3 in4li38 delle variazioni apportate agli allegati professionale monitoraggio 8 allegati 5 9 I-III 3 Cites 2 deve tenere 4 la7convenzione 8 5 9 di3Washington. 1 2 6 sul link: https://cites.org/sites/default/ cui agli nea con

Giochi per “Azione” - Febbraio 20 Stefania Sargentini

(N. 5 - ... cavalieri sulle sta e in battaglia)

C A I O F R A C

A V A L I P A T O R A L E I L E O F B A T L A C R U N E A

3

Giochi Cruciverba L’animale nella foto è un Binturong ma viene chiamato anche in un altro modo quale? Il suo particolare odore a cosa somiglia? Trova le risposte risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 5, 6 – 1, 6, 3, 3, 4)

2

(N. 6 - Gatto orsino - A quello del pop corn) N. 2 MEDIO

1

2

3

4

5

1 4 6 9 Sudoku

6

2 7

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8

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7

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1

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E N N I O

9

3

18

20

21

22

24 26

Q5 U4 N. 3 DIFFICILE U9 N7 1 3 O O8 6 T 3 1 9 4 E P

9

6

8

6

4

8

N. 5 FACILE 3 1 4 6 9 8 5 7 7 G ASchema T T O N 2 9 5 1 4 7 8 6

6 8 7 3 9 O R O 8 4 3 2 7 65 L A 51 27 96 N48 33 15A7 7 8 A 4 M 7 5 8 9 2 1 2 7 I Z L 9 E6 23O5 6 8 D B A 5 R1 8 M9 5 6 3 2 4 1 8 L A N C I 6 7 9 3 1 8 9 1 3 5 7 6 C9 O R D E 4 53 2 2 9 7 6 4 8 6 2 7 O P 1 E A 6 4 C

4

4

15

16

Soluzione: 3

Scoprire i 3 2 numeri3corretti 5 da inserire nelle caselle colorate.

11

25

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

7

T A R A I T E A G L O R

8

1 4 2 5 8 1 4 9 7 3 Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il6 cruciverba 4 6 9 5 7 3 4 6 2 9 8 5 1 SUDOKU PER AZI e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 9 3 7 6 2 8 9 1 3 5 7 6 4 2

23

ORIZZONTALI 1. Così camminano i più piccoli 7. Letto al contrario non cambia 8. Così in latino 9. Le iniziali dell’attore Argentero 10. Non è all’altezza... 11. Opera di Massenet 12. Domanda per gioco... 15. Regione storica della Spagna 16. Congiunzione tedesca 17. Barista a Londra 19. Una coppia di anelli 20. Si fanno a baseball verso il battitore 21. Nel volume e nel fascicolo 23. Possono essere di canapa o metalliche 24. Prima moglie di Giacobbe

M P E R S U R S I E T I E T O

8

6

2

4

2

I 2 5 9 4 1 S I 5C 6 9 1 5 7 73 1 3 8 86 A N O 5 3 4 2 9 8N 2 6O9 65N 3 6 2 1 4 5 4 67 3 48 1N E 7 A N 4 7 6 2 3 2 5 6 9 7 8 O L 2 8 5 1 4 4 8 4 2 9 6 L 8 I4 5A 3 1 8 9O 5 1 3 7 2 5R 3 N 7

9

3

5

3

1

25. Narrazione poetica di gesta eroiche 20. Un coniglio inglese 26. I flakes nel latte 22. Rete che collega più computer in 4 1 5 6 3 7 8 2 VERTICALI un’area limitata (sigla) Pare che il tacco non fu inventato da Caterina De’ Medici, ma in Persia nel secondo seco7 ai... CAVALIERI 1 SULLE STAFFE IN BATTAGLIA. 5 1. Angusto passo montano percorso per dare maggior stabilità N.lo4d.C. GENI (N.23. 5 -A...metà cavalieri sulle sta e in battaglia) 2. Corrisponde a 100 metri quadrati 24. Coda di cavallo 1 2 3 4 5 6 3. In italiano e in tedesco 7 5 3 8 2 4 6 4 5 9 1 C3 A V A M P 6 7 8 9 4. Una lode a Dio 4 1 5 3 9 8 2 6 7 4A L I P E R 2 3Frassica 4 5 11 6 7 8 5. Il1nome dell’attore 10 12 2 3 9 2 6 5 16 7 3 8 4 1 3 8 I A T O S U 6. Immagini sacre 13 14 3 5 1 7 8 2 6 4 9 O5 R 1 A L E 2 R4 9 10. La 9 top model Campbell 10 11 15 16 17 18 19 20 9 Vincitori del concorso Cruciverba 11. Prodotto di scambio 2 8 4 1 6 9 7 5 3 6 E9 S I T A R E I L su22«Azione 07», 12. Porzioni di somme da pagare 21 23 24 del 12.02.2018 25 6 9 7 4 5 3 8 1 2 7O F 3E T A F 12 13 14 O. Magni, M.15 13. Articolo S. Rigamonti, Pettinaroli 9 I N 1 2 26 27 28 29 30 31 5 7 9 6 2 4 1 3 8 7 9 4 8 R B A T I T E N Vincitori del concorso Sudoku 14. Le iniziali della conduttrice D’Amico 32 34 35 36 15. Pianura arida 17 su33«Azione 07», del A 6 L A C3 R E 1 A 5 G L I 16 18 1912.02.2018 4 8 6 2 69 37 1 4 7 25 37 17. Un anagramma di erba F. Perseghini, E. Fransioli 38 1 4 3 8 7 5 9 2 6 C U N 8 E A T O2 O R O 18. È nero a Ginevra 3 1 4 Giochi per “Azione” - Febbraio 2018 7 Soluzione della precedente 9 6 settimana 2 Stefania Sargentini

N. 6 MEDIO

5

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8

1

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(N. 7 - ... un pugno a testa... si è scatenata la rissa) I vincitori

U N A P U G I L E N O T A M T E S ’ T B A S I C E’ I U C C O L A T L 3 5 4 20 21 O L E R Iun pagamento N Ain contanti T E I premi, cinque carte regalo Migros Partecipazione online: inserire la luzione, corredata da nome, cognome, è possibile (N. 6 Gatto orsino A quello del pop corn) 6 7 del 22 valore di 50 franchi, saranno soluzione del cruciverba o del sudoku indirizzo, email del partecipante deve dei premi. I vincitori saranno avvertiti 23sorteggiati tra i partecipanti che avranno nell’apposito formulario pubblicato essere spedita iscritto. Il nome dei vincitori sarà G«Redazione A A T T Azione, O N LI perE U aS A fatto pervenire la soluzione corretta sulla pagina del sito. Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano».9 pubblicato su 2 «Azione». Partecipazione O corrispondenza R O S sui I C riservata esclusivamente a lettori che 24il venerdì seguente25 entro la pubblica- 26Partecipazione postale: la lettera o Non si intratterrà S 7N ADIFFICILE T inNSvizzera. LI A A Non N O risiedono zione del gioco. la cartolina postale che riporti la so- concorsi. R Le vie legali sono N.escluse. 1

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D E U S

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Politica e Economia Ecce la Grande Coalizione Le trattative per il governo tedesco sono durate quasi cinque mesi e ora che il patto è fatto c’è una gran fretta

Le provocazioni di Van Reybrouck L’intellettuale belga propone, per salvare la democrazia dalla crisi, di eleggere i rappresentanti non secondo il principio del suffragio universale ma secondo quello del sorteggio

Chi detiene la ricchezza Credit Suisse ha pubblicato l’ottavo rapporto sulla ricchezza nel mondo, che resta nelle mani di pochi

Confederazione, conti rosei Il bilancio 2017 si è chiuso con un utile di esercizio di 2,8 miliardi di franchi: è ora di allentare il freno alle spese? pagina 28

pagina 25

pagina 27 pagina 24

Il palazzo del Reichstag di Berlino. (Keystone)

Chi guiderà l’Europa? Il dopo Merkel Se la risposta fino a poco tempo fa era la Germania, oggi non si vede una leadership in grado di farlo Lucio Caracciolo Fino alla scorso autunno la risposta a questa domanda chi guida l’Europa? era ovvia: la Germania. Angela Merkel era l’alfa e l’omega del panorama politico continentale. Il Regno Unito aveva stabilito di mettersi fuori da una comunità nella quale non era mai davvero entrato. La Francia stava appena cominciando a ridipingere la sua facciata, grazie al volto nuovo e intraprendente di Emmanuel Macron. L’Italia, in teoria terza potenza dell’Ue priva del contrappeso britannico, era e resta impigliata nelle debolezze strutturali del suo sistema politico e istituzionale. Oggi alla domanda non è più facile rispondere in modo netto. La lunga crisi politica seguita alle elezioni tedesche, comunque debba risolversi – Grande Coalizione (con il 53% dei voti...) CDUCSU-SPD o governo di minoranza democristiano impegnato a cercar voti al Bundestag su ogni legge – segna comunque l’inizio del tramonto di Merkel, leader ormai sempre meno autorevole e apparentemente affaticata. Sicché le teorie sulla egemonia o «semiegemonia» tedesca sono oggi da

rivedere. Stanno emergendo i limiti strutturali di questa Germania, incapace di esercitare la funzione di coordinamento e di guida che spetta a chiunque si pretenda capo. Mentre riaffiorano le tendenze al solipsismo: si inclina a considerare solo i propri interessi, a rinchiudersi su se stessi, senza troppa voglia di affrontare le grandi sfide, dall’immigrazione al rilancio degli investimenti, dal rapporto sempre più logorato con gli Stati Uniti alla guerra in Ucraina. Quel che soprattutto manca è una strategia. Dopo la sconfitta nelle due guerre mondiali, le élite tedesche sono state «rieducate» dai vincitori, specie dagli americani: non c’è bisogno che voi pensiate, lo facciamo noi per voi. Risultato: ancora oggi da Berlino non viene fuori uno straccio di proposta su quale debba essere il futuro dell’Europa. Il «weiter so», «avanti così», con cui la Merkel ha strappato una mezza vittoria elettorale che sa di sconfitta, può forse valere per la Germania, certo non per l’insieme comunitario. Il quale, per continuare ad esistere, e per contare domani qualcosa nel mondo, deve dotarsi di un progetto. Ciò che finora si è sempre rifiutato di produrre: Stato fe-

derale, confederazione o cos’altro? E fra chi? Entro quali confini? In assenza di leadership, continuare così vuol dire accentuare due crisi contestuali, che mettono in questione il futuro delle nostre democrazie: quella dell’Unione Europea e quella degli Stati nazionali che la compongono. È di moda affermare che l’Ue si sta rinazionalizzando. La Commissione è un pallido rifugio burocratico senza prestigio e di assai modesta efficacia, del Parlamento europeo si sono perse le tracce. Quel poco che si riesce a decidere, o a decidere di non decidere, è affidato al Consiglio europeo, ovvero ai leader degli Stati membri, impegnati a difendere i propri interessi nazionali, com’è normale che sia per chi deve essere eletto da una constituency nazionale. Tutto vero. Quel che si tende a non vedere, o a sottovalutare, è la contemporanea crisi degli Stati nazionali. E il nesso fra i due problemi. Stiamo dimenticando che il Brexit in realtà è stato un voto inglese, non scozzese né londinese: esso ha esaltato la frammentazione interna al Regno Unito mentre ha aperto la strada alla sua uscita dall’Unione Europea. Inol-

tre, la Spagna vive una crisi esistenziale, con la sua più importante regione, la Catalogna, commissariata da Madrid nel silenzio più totale delle istituzioni comunitarie e degli altri paesi dell’Ue, timorosi di suscitare i separatismi silenti che covano al loro interno. La Francia di Macron, che a molti pare il redentore dell’Europa, è alle prese fra l’altro – Nuova Caledonia a parte – con la Corsica, dove autonomisti e indipendentisti hanno vinto insieme le ultime elezioni. La visita del presidente francese ad Ajaccio si è risolta in un fiasco, in un non-dialogo con i dirigenti corsi. In diversi altri paesi regioni e comunità locali mettono in questione il potere dei rispettivi centri – ad esempio nella stessa Germania la Baviera, dove un sondaggio della scorsa estate segnala un terzo dei bavaresi disposti all’indipendenza – e delle classi politiche nazionali, mai così impopolari. Sarebbe ingiusto caricare la Germania della responsabilità intera di questa doppia crisi. Certo mai come oggi tornano in mente le classiche definizioni che la vogliono troppo grande per integrarsi nella famiglia europea e troppo piccola per guidarla.

Sono passati più di tre anni da quando il presidente Joachim Gauck, seguito poi dal ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier (oggi presidente della Repubblica) e dalla responsabile della Difesa, Ursula von der Leyen, hanno cercato di avviare un dibattito pubblico sulla necessità per la Germania di assumersi le responsabilità geopolitiche che competono a una potenza economica del suo rango. Finora, poco più che retorica. Anche la tanto reclamizzata riforma della Bundeswehr, che vorrebbe portare lo strumento militare nazionale all’altezza di un paese di così ragguardevoli dimensioni, stenta a produrre risultati. A entrare in crisi è quindi lo stesso sistema politico tedesco, incapace di produrre una coalizione forte e di esprimere un successore credibile all’ormai logora Merkel. Inoltre, la Bundesrepublik non può permettersi di relegare quasi un quarto del suo elettorato fuori dell’arco costituzionale, visto che Sinistra e Alternativa per la Germania non sono considerate degne di partecipare al governo. Attenzione: quando Berlino ha la febbre, il problema ci riguarda tutti.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Politica e Economia

Grande Coalizione 3.0

Germania L’accordo fra cristiano-democratici e socialdemocratici sarà sottoposto al voto

dei membri della Spd il 4 marzo prossimo dopo la rinuncia di Schulz alla sua leadership

Martin Schulz e Angela Merkel: entrambi subiscono pressioni all’interno dei propri partiti. (AFP)

Paola Peduzzi Le trattative per il governo tedesco sono durate quasi cinque mesi e ora che il patto è fatto, con un documento di centosettantasette pagine a sigillo, c’è una gran fretta: correndo, si cerca di non farsi ostacolare troppo dai guastafeste. Angela Merkel, cancelliera al suo quarto mandato, vuole guidare un esecutivo con i socialdemocratici, partner di minoranza con cui ha una certa dimestichezza: è la terza volta che, dal 2005 a oggi, lavora con loro. I socialdemocratici, dopo aver cambiato idea un po’ di volte, hanno infine lasciato che prevalesse il senso di responsabilità nazionale – c’è lo zampino del presidente della Repubblica, Frank-Walter Steinmeier – e si sono messi a negoziare con la Merkel, arrivando infine a un accordo che presenta parecchi vantaggi: il Ministero delle finanze, soprattutto, che passerebbe al designato Olaf Scholz, attuale sindaco di Amburgo. Ma gli scontenti sono tanti, bisogna prendersi la briga di ascoltarli, e aspettare, mentre tutta l’Europa resta ferma a guardare: le tanto chiacchierate riforme non si possono nemmeno discutere se a Berlino non c’è un governo.

Schulz aveva sostenuto che non avrebbe stretto una nuova alleanza con i conservatori, salvo poi cedere dopo il fallimento dei colloqui della cancelliera per una coalizione Giamaica con liberali e Verdi I problemi più gravi ed evidenti esistono dentro la Spd, il partito che ha deciso di interrogare il 4 marzo i propri membri sulla bontà dell’accordo sulla grande coalizione. Alle elezioni del 24 settembre dello scorso anno, la Spd ha ottenuto un risultato misero, il 20,5 per

cento, e ha deciso di provare a ricostruirsi stando all’opposizione. Era stato il suo leader, Martin Schulz, a esporsi più di tutti su questa decisione: dopo tanti anni di coabitazione con i cristianodemocratici della Cdu, la Spd aveva bisogno di ridefinire la propria identità, stando lontano dal governo e provando a elaborare un’alternativa valida al centrismo della Merkel. Su cosa l’Spd potesse diventare, c’erano – ci sono – molte fratture: i moderati spingevano per una sinistra in stile Emmanuel Macron, il presidente francese, e i radicali invece guardavano più a nord e più a ovest, verso il leader del Labour Jeremy Corbyn e verso lo stoico leader democratico americano Bernie Sanders. Ma non c’è stato tempo per confrontarsi perché nel frattempo sono accadute due cose: alcuni nell’Spd, come l’ex cancelliere Gerhard Schröder, dicevano che forse la decisione di andare all’opposizione poteva essere rivista; le trattative di governo della Merkel con Liberali e Verdi – la celebre coalizione Giamaica – collassavano. È così che Schulz ha dovuto piegarsi a pressioni e a spirito di responsabilità ed è tornato a dialogare con la Merkel: quando ha annunciato il voltafaccia davanti al pubblico della Spd, ha dovuto ingoiare parecchi fischi. E di lì in poi ha portato da solo il fardello del processo di creazione di una grande coalizione, con un’aggravante: quel «mai più con la Merkel» pesante come un macigno. Troppo per un leader che non aveva nemmeno ottenuto un consenso elettorale dignitoso: dopo aver portato a termine il negoziato con la cancelliera, dopo essere apparso con lei dicendo che le trattative erano state faticose ma anche gentili, dopo aver ottenuto, nel totoministeri, il posto agli Esteri, Schulz ha rinunciato a tutto, a nomina e a leadership della Spd. Cambiare idea ha un prezzo alto. L’accordo di grande coalizione intanto deve essere valutato dai membri del partito: hanno già iniziato a esprimere il loro parere, poi il partito raccoglierà i voti e il 4 marzo renderà pubblico il risultato. Se la Spd dovesse dare il via libera, il governo si formerà in poco

tempo, visto che si potrà correre senza guastafeste attorno. Se la Spd al contrario dovesse bocciare il documento, la Merkel dovrà decidere se formare un governo di minoranza o andare di nuovo a elezioni: in entrambi i casi, l’incertezza sarebbe alta. A guidare la cordata contro la grande coalizione dentro alla Spd è il leader dei giovani del partito, Kevin Kuehnert, che è diventato in poche settimane una star internazionale, intervistato su molti giornali occidentali. Ispirandosi a Corbyn e a Sander, Kuehnert dice che la socialdemocrazia tedesca deve smetterla di rincorrere al centro i conservatori: lui, e molti con lui, sono stufi di non saper dire in che cosa si differenziano davvero la Spd e la Cdu. Kuehnert aveva già cercato di boicottare i colloqui per la formazione di governo, in modo da uccidere l’ipotesi di grande coalizione in culla, ma non aveva trovato grande seguito: nonostante i tanti e rumorosi borbottii, un governo stabile di larghe intese è risultato comunque preferibile ai più. Ma il giovane non demorde e conta di festeggiare la mattina del 4 marzo: molti fanno notare che il tesserato medio della Spd, oggi, non è molto giovane e non è molto radicale, e che anche se non è molto contento dell’operato e dell’andamento (elettorale soprattutto) del partito preferisce comunque dare un’altra chance di stabilità al proprio Paese, e anche all’Europa. Come ripetono molti leader europei, la «finestra d’opportunità» per le riforme europee – dall’integrazione alla riforma del mercato interno – non è aperta a tempo indefinito. In questo momento si può anche sfruttare una convergenza economica positiva, che dà un margine di manovra più ampio ai tanti cantieri da aprire, ma pure questa simbiosi di crescita non durerà per sempre. Non c’è molto tempo, e infatti anche dentro la stessa Germania ci sono movimenti che superano l’impasse politica: sono state introdotte le 28 ore di lavoro settimanale (a scelta volontaria), una gran vittoria dei sindacati che nel Paese del surplus economico approfittano del

benessere per portare a casa risultati. Questa svolta, ancora circoscritta ma simbolica, ha riaperto il dibattito sulle ore di lavoro anche in altri paesi, soprattutto nella vicina Francia che più scalpita in attesa di un interlocutore a Berlino (c’è da aspettarsi però che, se mai il presidente Macron dovesse mettere mano alle ore di lavoro, sarebbe per aumentarle). Le attese sono alte, anche di un riassestamento delle relazioni interne all’Unione europea, in particolare se alle Finanze andrà davvero un moderato socialdemocratico come Scholz che, sulla carta, potrebbe smussare gli angoli d’austerità imposti da Berlino da molto tempo. È un’occasione che non si può perdere. Anche la Merkel però subisce pressioni all’interno del suo partito: la cancelliera ha spostato i cristianodemocratici al centro, e l’ala conservatrice, sapendo che ormai questo mandato è l’ultimo, vuole riprendere in mano la Cdu. E come per la Spd sono i giovani a farsi sentire di più: vogliamo «facce nuove», vogliamo una linea di successione, ripetono. Anche in questo caso i giovani sono minoranza, ma la Merkel ha detto di voler accogliere la richiesta e nel nuovo governo cercherà di dare spazio a i volti più freschi. Ma intanto ha nominato a capo della Cdu la governatrice del Saarland, Annegret KrampKarrenbauer, detta Akk, che non si può definire giovane e che soprattutto è soprannominata «la miniMerkel», cioè sarebbe il simbolo di una successione – dalla leadership del partito cominciò anche l’ascesa della Merkel – in continuità con il merkelismo. L’esatto opposto di quel che chiedono molti nella Cdu, insomma. Ma la Merkel sottolinea che con Akk c’è un’intesa perfetta, che Akk ha esperienza di governo, è una donna pratica e determinata, e mentre si mostra sorridente, per quanto affaticata, sembra che la cancelliera con gli occhi ripeta a tutti, ai suoi colleghi di partito, ai socialdemocratici, agli europei che hanno sancito la sua fine così tante volte che non se lo ricordano più: fate sempre attenzione a quel che desiderate.

Fra i libri di Paolo A. Dossena Alberto Gasparetto La Turchia di Erdogan e le sfide del Medio Oriente, Carocci, 2° edizione, 2018 La «Sindrome di Sèvres», la paura dello smembramento, è uno dei fattori psicologici che garantiscono elementi di continuità tra la Turchia di Recep Tayyip Erdogan e il precedente establishment kemalista. All’indomani della Prima guerra mondiale, racconta Alberto Gasparetto, il 10 agosto 1920, l’impero ottomano firma il trattato di pace che sancisce la propria disintegrazione. Le decisioni di Sèvres saranno superate a seguito della guerra d’indipendenza guidata da Mustafa Kemal, che lascia in eredità alle successive dirigenze turche (Erdogan incluso) la «Sindrome di Sèvres». Nonostante gli elementi psicologici di continuità, la vittoria elettorale dello AK Parti (il partito di Erdogan) nel novembre 2002, segna nella storia turca una cesura. Il Partito popolare repubblicano (CHP) è sconfitto, l’influenza determinante dell’esercito, perno del sistema istituzionale turco dalla sua fondazione, viene limitata e lo AK Parti forma un solido governo monocolore che dura tuttora. Tuttavia, la politica di Erdogan, che si presenta come un riformista, come la guida di un partito di tendenza islamico-moderata, non muta rispetto al precedente regime: l’ottimo rapporto con gli Stati Uniti, con la Nato (alla quale Ankara appartiene dal 1952), con Israele, l’obiettivo di aderire alla Ue e l’occidentalizzazione delle istituzioni rimangono le mete della Turchia. Gli occidentali vedono in Erdogan un partner definito come un leader a tendenza islamico-moderata, se non come un moderno liberal-conservatore. Dunque, nonostante lo sguardo verso il mondo islamico esista (la volontà del nuovo regime turco di stringere rapporti con il Medio Oriente), concentrarsi solo su questo fattore per valutare Erdogan sarebbe riduttivo. Al punto che, nonostante l’opposizione popolare, nel 2003 la Turchia decide (non dopo i tentativi pacificatori di Erdogan) di concedere parte del proprio territorio agli Stati Uniti per l’invasione dell’Iraq. Ma quando, dopo la caduta di Baghdad, si prefigura uno smembramento dello stesso Iraq, ecco che la «sindrome di Sèvres» (vero e proprio codice genetico ed elemento di continuità psicologica della Turchia) riemerge. La frantumazione del vicino significa l’indipendenza dei curdi iracheni, fenomeno che potrebbe influenzare i curdi turchi. La guerra dell’Iraq rappresenta allora il passaggio verso la formulazione di un nuovo orientamento di Ankara, che consiste nella rivalutazione dei vicini mediorientali. Alla guerra in Iraq seguono tre fatti che mettono in crisi i rapporti di Erdogan con Israele: la guerra in Libano del 2006, il bombardamento di Gaza (la guerra del 2008-2009) e i fatti della Freedom Flotilla (l’attacco israeliano contro sei navi civili, di cui una turca, in acque internazionali nel 2010). Fallisce inoltre il tentativo di Erdogan di farsi accettare dall’Unione Europea, mentre insorgono tensioni con gli Stati Uniti (anche se il rapporto con gli americani tiene) a causa della grave crisi con Israele e del successo dell’accordo nucleare turco con l’Iran. Questo lo stato attuale della posizione internazionale della Turchia, che rimane alla convergenza strategica di tre aree geografiche fondamentali: Europa, Caucaso, Medio Oriente. Documentato e illuminante, questo saggio è tuttavia di taglio molto accademico.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Politica e Economia

Bersani-Salvini, identici destini Eterni secondi Entrambi non potranno mai

convivere nello stesso governo

Marka

Alfio Caruso

Salvate la democrazia Utopia politica L’intellettuale David Van Reybrouck come

soluzione alla crisi del sistema lancia la provocatoria idea di eliminare il vecchio rito del voto votando per sorteggio

Alfredo Venturi Un crescente fastidio per la politica e i suoi riti, elettori sempre meno motivati, voto manipolato da oscuri centri di potere, esiti elettorali che non producono maggioranze stabili: che la democrazia rappresentativa sia in crisi è sotto gli occhi di tutti. Lo è in molti paesi occidentali e si manifesta con un’alzata di spalle o con una rabbiosa protesta, in chiaro con l’astensione dal voto o con il voto per le cosiddette forze anti-sistema. Un astensionismo di massa è ormai la norma in Italia, un paese che vantava in passato un’altissima partecipazione al voto. Questa domenica gli italiani sono chiamati a rinnovare il parlamento: sullo sfondo di una campagna insieme nevrotica e stanca, fatta di slogan e di insulti, affollata di leader che parlano non già alla mente ma alla pancia dei cittadini seminando paure e promettendo la luna, e per giunta si sottraggono al confronto diretto, si profila un interrogativo: gli astenuti saranno più o meno di un terzo del totale? Il voto parlamentare precedente, nel 2013, sfiorò questa soglia: andarono a votare solo sette elettori su dieci. Il fenomeno è tanto più allarmante se si considera che riguarda soprattutto i giovani, i sondaggi segnalano che fra i cittadini alla prima esperienza elettorale meno della metà andranno effettivamente a votare. Di fronte a questa realtà ecco una proposta radicale e davvero innovativa, ai limiti della provocazione, che arriva dal Belgio: e se invece di eleggere i rappresentanti li estraessimo a sorte? A formularla è David Van Reybrouck, singolare figura di intellettuale eclettico, che s’impegna in ugual misura nella storia, nell’archeologia e nello studio dei sistemi politici. Per salvare il sistema Van Reybrouck suggerisce il passaggio dalla democrazia del voto, che ormai mostra la corda, alla democrazia del sorteggio che apre nuove prospettive d’imparzialità. Secondo lo studioso belga abbiamo un’idea sbagliata della funzione e dei vantaggi delle elezioni come modalità di selezione della classe dirigente. Non solo: arriva a sostenere che limitando la democrazia alla prassi elettorale la stiamo semplicemente distruggendo. Eppure le libere elezioni a suffragio universale sono generalmente considerate la quintessenza della democrazia: non è affatto così secondo Van Reybrouck. E purtroppo l’attualità politica sembra dargli ragione. È ormai da parecchi anni che si parla di crisi della democrazia rappresentativa, cioè precisamente del rapporto fra i cittadini e le istituzioni

e in particolare di un rito elettorale che sempre più presenta i caratteri di una vuota liturgia: gente che non vota, gente che vota malvolentieri. Se ne parla da ben prima del 2014, quando Van Reybrouck diede alle stampe il suo saggio (pubblicato anche in versione italiana: Contro le elezioni – perché votare non è più democratico, ed. Feltrinelli). Introducendo così nel dibattito il concetto dell’estrazione a sorte come modo di comporre assemblee deliberative non più condizionate dai ben noti difetti rivelati dalle cronache. Già un decennio prima il politologo britannico Colin Crouch aveva teorizzato il principio della post-democrazia, rivelando che il formale involucro democratico contiene ormai ben altro che la volontà del popolo, come vorrebbero la tradizione e l’etimologia.

Già in passato altri avevano teorizzato il principio della postdemocrazia rivelando che la liturgia del voto non rappresenta la volontà del popolo È stato un processo graduale e inarrestabile, che ha portato a una profonda involuzione del sistema. Venuto in pratica a mancare il controllo pubblico della classe dirigente, al posto del popolo, del demos che pure è solennemente indicato come titolare della sovranità, si sono fatti strada i nuovi attori della scena politica. Sono i cosiddetti poteri forti, le lobby, che attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione e soprattutto della rete sono in grado di pilotare il consenso, offrendosi così come spalla a una classe politica che proprio di consenso è perennemente in cerca. Ovviamente pretendono qualcosa in cambio, che non necessariamente coincide con l’interesse nazionale e con le promesse dei partiti. Per non parlare di quei centri di potere più o meno ambigui e misteriosi che cercano a loro volta d’intervenire nelle scelte elettorali con subdole manovre di disinformazione proiettate attraverso i social network. Di fronte a tante insidie, ciò che resta della democrazia non è che un guscio vuoto, fondamentalmente tutt’altro che democratico. Rispetto all’analisi di Crouch, sconfortante ma purtroppo fondata sull’evidenza, Van Reybrouck tenta un passo avanti. Poiché il problema risiede nella prassi elettorale, perché

non risolverlo alla radice eliminando proprio il vecchio rito del voto? Perché non fare come si fa con i giudici popolari nei sistemi giudiziari di molti paesi? Nessuno, che si sappia, ha mai contestato le giurie popolari in nome della correttezza democratica. Dunque si passi alla democrazia per sorteggio: i cittadini che se la sentono di fare politica dichiarino la loro disponibilità. Una volta accertato che si tratta di persone responsabili, in regola con la legge, vengano iscritti in una lista dalla quale, nei momenti definiti dalle normative, siano estratti a sorte i legislatori, o i consiglieri degli organi territoriali, insomma i componenti delle assemblee che oggi si eleggono col voto popolare. Si ovvierebbe in questo modo a un altro visibile inconveniente dell’attuale sistema elettivo. Per funzionare davvero, la democrazia rappresentativa dovrebbe coinvolgere una massa di elettori ben preparati, capaci di orientarsi attraverso un ascolto consapevole delle campagne elettorali, e questo non è generalmente il caso. Viene a proposito l’osservazione di un grande intellettuale del Novecento, Giuseppe Prezzolini, che era un liberal-radicale con forti venature anarchiche. Infatti si rifiutava di votare. E motivava questa sua scelta con parole molto chiare: Prezzolini non se la sentiva proprio di accettare che il suo voto equivalesse a quello di persone del tutto digiune di cultura politica. Non gli andava di votare nemmeno «turandosi il naso», come diceva Indro Montanelli, perché trovava intollerabile che si tradisse il principio della conoscenza come base della scelta. Quale evoluzione è dunque prevedibile? Nessuno vieta di contemplare un miraggio: sistemi educativi efficienti e capaci di formare cittadini consapevoli, una stampa responsabile e una rete non più territorio selvaggio in cui circolano menzogne e disinformazione. Tutto questo potrebbe regalare alla politica una generazione di elettori preparati e maturi, in grado di comprendere i candidati, di obbligarli a proporre argomentazioni e non luoghi comuni, di resistere ai tentativi di manipolazione da parte dei poteri postdemocratici, di smascherare le trappole informative che intossicano la rete e vengono riprese e rilanciate dalla stampa. Forse non è altro che utopia, ma non si vede come, se non attraverso quell’utopia, potrebbe passare il riscatto della democrazia rappresentativa. Intanto, nell’attesa di tempi migliori, non si scorgono all’orizzonte scenari alternativi alla provocatoria proposta di David Van Reybrouck.

Bersani è il tipo che dopo aver vinto la lotteria ha smarrito il biglietto. Salvini è il tipo che annuncia di aver vinto la lotteria e quando tutto il mondo gli crede, ecco spuntar fuori il vero possessore del biglietto vincente. Fra l’autunno 2011 e la primavera 2013 Bersani segretario del Pd sembrava il predestinato per eccellenza, il futuro dominatore degli anni a venire. Così sicuro di trionfare da non pretendere, alle dimissioni di Berlusconi, le elezioni immediate e accettare, invece, la proposta di Napolitano, presidente della Repubblica, di concludere la legislatura con un governo tecnico. Lo guidò Monti, ma fu lui a pagarne le colpe e i troppi sacrifici. Nelle elezioni del 2013 il Pd si salvò alla Camera per una manciata di voti e non ottenne la maggioranza al Senato, stretto fra il miracoloso recupero di Berlusconi e la straripante affermazione di Grillo e del M5S. Pur di raccattare una maggioranza qualsiasi, Bersani si sottopose al vergognoso ludibrio della trattativa in streaming con la delegazione pentastellata. Così tanti italiani poterono scoprire che per un politico potevano non esserci limiti nel prostrarsi e che i presunti profeti del cambiamento volevano soltanto scambiarsi di posto con i predecessori. Da quel giorno Bersani se l’è presa con il mondo, anziché prendersela con se stesso. Dietro l’atteggiamento tollerante-paternalistico, dietro l’accattivante accento emiliano, dietro il presunto interesse della Nazione, è emersa l’incapacità di leggere e capire la cronaca, figuriamoci la storia. Cambiando i connotati, i programmi, i quadri di quella che un tempo era stata la Lega Nord, Salvini ha lanciato l’assalto al cielo, cioè alla presidenza del consiglio. Intima, sancisce, minaccia in nome di un ruolo che non avrà, per gli eccessi ai quali si è dato nella speranza di sfruttare le tante paure degli elettori. Troppo impegnato a evitare una qualsiasi occupazione che non fosse la politica, Salvini non ha avuto il tempo di leggere la famosa risposta di Einstein a chi gli chiedeva di specificare la sua razza: «Appartengo all’unica razza che conosco, quella umana». Di conseguenza nella sua lunga carriera, che coincide con la sua ancor giovane esistenza, Salvini ha avuto la possibilità di prendersela con i napoletani, con gli immigrati, con i rom, con gli islamici, nelle cui moschee andava a chiedere i voti per diventare consigliere comunale a Milano. La sua riconosciuta abilità consiste nel solleticare il peggio degli italiani ignorando, dall’alto dei tanti libri non letti, in quali abissi noi siamo capaci di sprofondare. Quando poi percepisce di averla sparata grossa apre il faccione nel sorriso da bravo ragazzo e si prepara alla prossima. Come ha fatto recentemente a Napoli: ha chiesto scusa in ginocchio

Luigi Bersani e Matteo Salvini. (Marka)

per aver cantato al raduno di Pontida nel 2009: «Senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani». In queste elezioni Bersani, al pari di D’Alema, ha un solo scopo: far perdere Renzi, il castigatore di entrambi. Ha guidato la scissione, creato un partitino del 5 per cento, raccolto tutti i vecchietti insoddisfatti e disponibili non per salvare l’antica tradizione comunista o per battere lo strombazzato pericolo riemergente da destra. Nossignori, l’unico arcinemico da sconfiggere è il social fascista Renzi, come avrebbe detto quello Stalin, i cui metodi sono così difficili da cancellare. Ai suoi occhi è diventato persino peggio di Craxi e dello stesso Berlusconi, che un giorno sì e l’altro pure viene indicato come l’esecrando futuro alleato del medesimo Renzi, dimenticando che con Berlusconi lui, Bersani, ha governato per quattordici mesi. Malgrado la lunga militanza, a Bersani è mancata l’intelligenza di prevedere che Renzi si sarebbe impiccato da solo alle sue eccessive sbruffonerie. Travolto dal rancore, ha preferito inseguire un dispetto immediato e viscerale, anziché aspettare di esser richiamato per salvare il salvabile. Una vita trascorsa a studiare da numero uno per poi comportarsi da eterno secondo. Più o meno l’identico destino di Salvini. Nel suo mare di contraddizioni – dall’euro alla permanenza in Europa, dall’occhiolino all’estremismo nero ai vaccini – ha avuto un’unica, paradossale stella polare: trasformare il più incredibile bugiardo degli ultimi venticinque anni nella polizza assicurativa di parecchi italiani amanti del quieto vivere. Eppure tutto lo divide da Berlusconi, tranne l’amicizia per Putin, venata in ambo i casi, secondo le malelingue, da concreti interessi: il gas per uno, i finanziamenti per l’altro. Però, senza le esagerazioni verbali di Salvini, l’ottantaduenne Berlusconi non avrebbe cavalcato l’onda del consenso. È riuscito così a coagulare un considerevole numero di moderati spaventati dal diverso, ma anche da chi per combatterlo invoca i posti a sedere soltanto per i milanesi nei vagoni della metro; da chi per difendere piccole imprese e lavoratori promette i dazi non avendo imparato nei molti anni da parlamentare europeo che i dazi non possono più essere applicati dai singoli Paesi, bensì dall’Europa; da chi non ce l’ha con Bossi per i milioni che si è fregati, ma per l’attrazione che può ancora esercitare su talune fasce di militanti. Nel caos annunciato del nuovo Parlamento dalle maggioranze quasi impossibili, una delle poche certezze riguarda l’impossibilità di Bersani e di Salvini di convivere nello stesso governo. Non deriva tanto dai giuramenti dei due di essere disponibili soltanto a scelte coerenti, quanto dai sussulti finali del loro ego.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Politica e Economia

La 5. colonna del regime I Giochi della (dis)tensione K im è riuscito a trasformare

Giulia Pompili Una delle scene di cui più si è discusso durante queste Olimpiadi invernali riguarda il giovane atleta nordcoreano Jong Kwang-bom (foto). Il pattinatore è caduto all’avvio della gara dei cinquecento metri di short track, e con un braccio avrebbe tentato intenzionalmente di far cadere anche il giapponese Keita Watanabe. I giudici di gara hanno deciso di sospendere la competizione, nonostante le regole impongano che se un pattinatore cade da solo, senza coinvolgere gli altri, la corsa può proseguire. Al nuovo avvio, però, Kwang-bom è caduto ancora, senza nemmeno riuscire ad arrivare alla prima curva. Watanabe ha poi detto ai giornalisti che a suo avviso il gesto di Kwang-bom non è stato volontario. E poi che in fondo capita, nello short track, che qualcuno cada e venga squalificato. Insomma, l’agonismo e la geopolitica battuti dalla forza dello spirito olimpico. Jong Kwang-bom è uno del ventidue nordcoreani che hanno partecipato a questa edizione delle Olimpiadi invernali di Pyeongchang, in Corea del sud, grazie all’intercessione (più politica che sportiva) del Comitato olimpico internazionale. Una mossa diplomatica, volta a mostrare l’apertura e la buona volontà della comunità internazionale nei confronti di Pyongyang. Questa è stata l’edizione invernale dei Giochi con più atleti nordcoreani, ma è molto difficile che

i cittadini nordcoreani siano stati in grado di vedere le performance dei propri connazionali in diretta: di solito al Nord si usa mandare in differita le gare importanti, con uno o due giorni di ritardo. C’è dietro un motivo di propaganda: il ruolo dello sport, come da tradizione sovietica, serve a dimostrare la superiorità del paese, a creare nuovi miti ed eroi nazionali. Non è un caso se una delle atlete più famose in Corea del nord sia Jong Song-ok, la donna che vinse la maratona in Spagna nel 1999 e che diceva di correre immaginando accanto a sé il Caro Leader. Lo short track è molto popolare in Corea del sud, ma è anche la specialità con cui la Corea del nord è riuscita a conquistare una delle sue uniche due medaglie olimpiche invernali. Era il 1992, Hwang Ok-sil arrivò terza nei 500 metri in velocità. È anche per questo autorevole precedente che mostrare Kwang-bom che si infortuna durante gli allenamenti, e poi cade per ben due volte a pochi centesimi di secondi dall’avvio, non sarebbe stato un messaggio autorevole per il regime. Al contrario di Kwang-bom, la coppia di pattinatori artistici Ryom Tae-ok e Kim Ju-sik si erano regolarmente qualificati lo scorso anno per le Olimpiadi invernali. Lui ha 25 anni, lei 18, e sono una coppia sportiva sin dal 2015. Negli ultimi anni sono riusciti a raggiungere buoni risultati in quasi tutte le competizioni internazionali. Nella gara fatta a Pyeongchang hanno danzato sulle note

occidentalissime di A Day in the Life dei Beatles, raggiungendo il record personale di 69,40 punti e classificandosi tredicesimi. Alla fine della competizione hanno parlato con i giornalisti stranieri, hanno ringraziato la Corea del sud ma soprattutto hanno lanciato il solito messaggio politico: «Adesso vi abbiamo dimostrato quanto può essere forte il popolo coreano quando è unito». Mentre il precedente leader Kim Jong-il poneva particolare attenzione alla propaganda cinematografica – e lo dimostra l’incredibile rapimento nel 1978 del regista sudcoreano Shin Sang-ok e dell’attrice Choi Eun-hee – il figlio Kim Jong-un ha spostato l’attenzione del regime di Pyongyang sullo sport, e gli atleti sono la quinta colonna nordcoreana, finanziata e sostenuta dal governo. Kim è riuscito a trasformare le Olimpiadi appena concluse nella grande festa di riconciliazione, ma spente le luci dei riflettori bisogna tornare a guardare verso Washington e alle decisioni che prenderà nei prossimi giorni il presidente Donald Trump. Mentre i «Giochi della pace» erano ancora in corso, l’agenzia di stampa ufficiale nordcoreana ha diffuso un comunicato per dire che Pyongyang è «pronta sia al dialogo sia alla guerra», e che è in grado di rispondere a «qualsiasi provocazione da parte degli Stati Uniti» con un contrattacco immediato. Il riferimento è alle parole di Marc Knapper, attuale capo della diplomazia americana in Corea del sud, convinto

AFP

le Olimpiadi appena concluse nella grande festa della riconciliazione

che le esercitazioni militari tra Washington e Seul non sono annullate, ma solo rinviate al mese di aprile. La sospensione definitiva di quelle esercitazioni – una specie di war game che si effettua ogni anno intorno alla penisola coreana – è da sempre una delle condizioni poste da Pyongyang per sedersi al tavolo delle trattative. «La volontà dell’Amministrazione Trump di riesumare le esercitazioni di guerra è un atto folle e spietato, e calpesta perfino quel piccolo germoglio di pace che si intravede nella penisola coreana», si legge sulla nota di Pyongyang. Il presidente sudcoreano Moon Jae-in, nel frattempo, non ha ancora dichiarato nulla di ufficiale riguardo all’invito del leader Kim Jong-un a un incontro tra i due nella capitale nordcoreana. Del resto, tra gli analisti di questioni coreane, si parla sempre di più di un possibile strike americano contro il regime. Ma di uno strike virtuale. Secondo un report bene informato

pubblicato da «Foreign policy», infatti, l’America «sta aumentando le sue capacità di intelligence sulla penisola», e secondo almeno due fonti, qualsiasi sia l’attacco preventivo che Trump ordinerà, «è molto probabile che il primo strike sia cibernetico». Diverse agenzie di cybersicurezza, tra cui FireEye, nelle ultime settimane hanno dimostrato che per anni l’attività di spionaggio informatico da parte della Corea del nord è stata sottovalutata dalle agenzie di intelligence internazionali. Questa sorta di distrazione globale ha permesso a Pyongyang di monitorare, infiltrare, rubare informazioni e poi rivenderle,ma soprattutto di procurarsi soldi – come nel caso degli 81 milioni di dollari spariti due anni fa dalla Banca Centrale del Bangladesh. È possibile che Trump abbia deciso di spezzare questa catena invisibile che tiene ancora in piedi il regime. Che accada senza morti né sangue, però, nessuno può saperlo. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Politica e Economia

La ricchezza mondiale e la sua distribuzione

Studio Credit Suisse L’ottavo rapporto della banca svizzera conferma la forte disparità esistente fra i più ricchi

e il resto della popolazione (il 10 per cento detiene l’88 per cento della ricchezza mondiale)

Daniele Besomi Il Credito Svizzero ha recentemente pubblicato il suo ottavo rapporto sulla ricchezza mondiale, nel quale fornisce delle stime sulla sua entità, la sua crescita, la sua distribuzione tra aree geografiche e tra individui, e la sua composizione. Vale la pena riportare alcuni dei dati forniti dall’istituto bancario e riflettere su qualcuna delle loro implicazioni economiche. In via preliminare occorre chiarire che il rapporto si occupa della ricchezza posseduta dalle famiglie, non dalle imprese o dagli enti pubblici. I dati riportati sono quelli che entrerebbero nei bilanci familiari, sommando da una parte tutti i beni reali (principalmente la casa) e finanziari (dal contante ai titoli, inclusi i crediti nei confronti delle casse pensione private ma non delle pensioni pubbliche) al valore che avrebbero se venduti, e detraendo dall’altra tutti i debiti individuali. I dati sono calcolati in dollari USA per avere un’unità che permetta dei confronti; l’ovvio svantaggio è che il cambio della moneta americana rispetto alla valuta locale fluttua nel corso del tempo, così che per effettuare dei paragoni nazionali adeguati occorre tenere conto dell’apprezzamento o deprezzamento monetario. L’inclusione dei debiti costituisce un’ambiguità: da un lato un debito diminuisce la ricchezza degli individui, ma dall’altra inietta domanda sui mercati finanziari, elevando il valore dei titoli, quindi facendo crescere la ricchezza di altri. Di questi due aspetti i ricercatori sono consapevoli.

La generazione dei Millennials è la prima ad avere condizioni e prospettive peggiori rispetto a quelle più anziane Non discutono invece il carattere effimero di una parte delle ricchezza, in particolare quella finanziaria. La ricchezza detenuta sotto forma di titoli è valutata in base al valore che i titoli avrebbero se venduti. Ma se tutti (o anche solo molti) vendessero i titoli per trasformare la propria ricchezza in denaro liquido (cosa che accade in occasione delle crisi finanziarie), il loro valore diminuirebbe in modo considerevole. Naturalmente la difficoltà diventa evidente nei dati concernenti la crisi del 2008, quando appunto il valore dei titoli e delle case è crollato portando a perdite per 28 mila miliardi di dollari

(per recuperarli sono stati necessari 5 anni), ma non possiamo dimenticare che parte del valore registrato nel rapporto dipende dalla possibilità di vendere i titoli ai prezzi di listino, senza perdite. Il problema è serio in quanto la componente più pesante della ricchezza mondiale è in forma finanziaria: nel 2000 la componente finanziaria costituiva il 56% della ricchezza totale; la quota è scesa al 50% durante la crisi, per poi risalire al 54%. Buona parte della crescita di ricchezza dopo la crisi è attribuibile alla finanza, mentre la crescita della ricchezza non finanziaria è stata praticamente nulla fino al 2016, per diventare positiva solo nella prima parte del 2017. I ricercatori distinguono due periodi per la crescita della ricchezza di principio millennio. Tra il 2000 e il 2007, a livello globale la ricchezza media (calcolata non sulla popolazione totale, ma sulla popolazione adulta) è aumentata del 9,5% all’anno, è diminuita del 12,6% nel 2008, e in seguito è cresciuta ad un passo più lento, del 3,8% annuo, con il 2017 caratterizzato da una crescita più elevata della media degli ultimi anni (6,4%). Il totale della ricchezza mondiale è ora di 280’000 miliardi, che corrispondono a una media di 56’000 dollari per adulto, il livello più alto mai raggiunto. Naturalmente questa ricchezza non è distribuita uniformemente – ed è qui che il rapporto diventa veramente interessante. Esso evidenzia infatti le differenze nel livello e nella ripartizione delle ricchezze tra aree geografiche, tra individui, e tra classi di età. Dal punto di vista geografico, come era facile aspettarsi, l’area in cui si detiene la maggiore fetta di ricchezza è l’America del Nord, con una media di 375’000 dollari per adulto, seguiti dall’Europa (131’000 dollari), con l’Africa come fanalino di coda (4’000 dollari). Tra i paesi individuali, la Svizzera è di gran lunga la prima in classifica, con 537’600$ per adulto, seguita dall’Australia (402’600$) e dagli USA (388’600$). Anche all’interno di queste grandi aree ci sono disparità. Ai margini dell’Europa, per esempio, ci sono alcuni paesi con una ricchezza pro capite appena superiore alla media africana: Bielorussia, Moldavia e Ucraina. La distribuzione della ricchezza per classi di età porta una conferma di quanto già si sospettava. In generale, i giovani hanno meno ricchezza delle generazioni più anziane, per il semplice fatto che hanno avuto meno tempo per accumularne. Tuttavia, i ricercatori del Credito Svizzero mostrano che la «generazione Y», o dei «Millennials» – i giovani nati negli ultimi 3 lustri del

Oggi la componente più importante della ricchezza mondiale è quella finanziaria. (Keystone)

Ventesimo secolo – è la prima generazione da anni ad avere condizioni e prospettive peggiori di quella dei propri genitori. A questo hanno concorso diverse circostanze. In primo luogo la crisi del 2008, che da una parte ha annullato una rilevante fetta di ricchezza e dall’altra è stata seguita da anni con disoccupazione e crescita molto ridotta, sia dei redditi che dei patrimoni. In secondo luogo, la crescita dei prezzi delle case ha inciso sulla possibilità dei giovani di accedere a questo mercato. Inoltre in molti paesi occidentali sono cresciute enormemente le rette delle università e/o sono diminuiti i sussidi, causando un incremento dei debiti contratti per gli studi – debiti che sono diventati un problema molto serio negli USA e nel Regno Unito, ma in misura minore anche altrove. I «Millennials» hanno anche più difficoltà ad accedere ai piani di previdenza pensionistica privati. Infine, i giovani pagano inoltre anche il fatto che i baby boomers sono al picco della loro carriera e occupano i migliori posti disponibili, sia in termini di occupazione che di alloggio. I dati più interessanti, comunque, riguardano la distribuzione della ricchezza tra individui. Nonostante il patrimonio medio per adulto sia di 56’600$, vi sono differenze enormi tra i più ricchi e i più poveri. Un modo di illustrare questa condizione è tramite

La piramide della ricchezza nel mondo. (Credit Suisse Research Institute)

la piramide della ricchezza illustrata in figura (p. 21 del rapporto). La rappresentazione considera 4 classi di patrimonio: coloro che hanno meno di 10’000$; tra 10’000 e 100’000$, tra 100’000 e 1 milione; e più di un milione. La fascia più povera include quasi 3 miliardi e mezzo di adulti, il 70% della popolazione mondiale; il loro patrimonio complessivo è di 7600 miliardi di dollari, cioè il 2,7% della ricchezza del pianeta. La fascia medio-bassa (quella che include la media mondiale) con un patrimonio tra 10 e 100 mila dollari, include un miliardo di persone adulte (21% della popolazione mondiale), che complessivamente detiene l’11% della ricchezza. L’8% della popolazione adulta (391 milioni di persone) ha un patrimonio tra 100’000 dollari e un milione, e controlla il 40% della ricchezza mondiale. In cima alla piramide, lo 0,7% della popolazione mondiale possiede il 46% della ricchezza complessiva. Detto in altri termini: il 10% della popolazione mondiale adulta detiene l’88% della ricchezza; di questi, l’1% più ricco controlla da solo metà della ricchezza mondiale – cioè, è più ricco del rimanente 99%. Spingendo ancora oltre, considerando l’intera popolazione mondiale e non solo quella adulta, Oxfam (una organizzazione non governativa inglese) poggiando sui dati del Credito Svizzero e sulla lista di Forbes dei maggiori patrimoni al mondo giunge alla conclusione che gli otto uomini più ricchi al mondo posseggono più ricchezza della metà più povera dell’umanità. In questo campo, i ricercatori osservano che la Svizzera è, tra tutti i paesi per cui si dispone di lunghe serie di dati, l’unico in cui non si è avuta una significativa riduzione nella disuguaglianza tra le ricchezze nel corso dell’ultimo secolo. Dalle stime del mensile «Bilanz» (novembre 2017), le 300 famiglie più ricche della Svizzera dispongono di un patrimonio di 673 miliardi di franchi (quasi un decimo dei quale è controllato delle 10 persone più ricche), più del PIL nazionale del 2016. Questo significa che neanche se tutta la nazione lavorasse per un anno intero senza mangiare potrebbe accu-

mulare un patrimonio pari a quello già nelle mani di 300 persone. Queste diseguaglianze sono difficili da giustificare su una base etica: come sottolineava recentemente Elena Granaglia nella sua relazione al Festival dell’Economia organizzato lo scorso novembre dalla Scuola Cantonale di Commercio, non si può certo spiegarle esclusivamente in base a criteri di merito. Eppure hanno implicazioni importanti sul funzionamento del sistema economico: da un lato, ampie ricchezze accumulate in mani private non portano necessariamente ad investimenti nell’economia reale (tanto che la componente finanziaria della ricchezza è maggioritaria rispetto alla componente non finanziaria); e, dall’altro, la bassa quota di ricchezza a disposizione delle classi più povere ne limita i consumi, che sono il principale motore della domanda di beni e servizi (Riccardo Realfonzo, nella medesima occasione). La tendenza recente non è, del resto, quella di limitare l’accumularsi di ricchezza in poche mani, ma al contrario quella di ridurre le imposte sui capitali e di successione (come sottolineato da Francesco Figari, sempre alla SCC), favorendo così ulteriormente la crescita del divario. Riferimenti

Il Global wealth report pubblicato dal Credit Suisse Research Institute (ottava edizione) è disponibile sul sito della società bancaria, https:// www.credit-suisse.com/corporate/en/ research/research-institute/globalwealth-report.html Il rapporto della Oxfam, An economy for the 99%, è disponibile sul loro sito, https://www.oxfam.org/en/ research/economy-99. La lista dei miliardari di Forbes è accessibile a https://www.forbes.com/billionaires/ list/. Il numero di Bilanz sui 300 più ricchi in Svizzera si può leggere su https://www.bilanz.ch/people/300reichste/300-reichste-wo-milliardensich-erheben. La documentazione relativa alle relazioni al Festival dell’Economia (novembre 2017) sarà resa disponibile su https://www.festivaldelleconomia.ch.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Politica e Economia

Il benessere è frutto della tecnologia ma anche della società dei diritti Dibattito Un’analisi dei possibili nessi fra progresso economico-politico-sociale e capacità di autorealizzazione

dei cittadini nelle società moderne Edoardo Beretta Sono innumerevoli gli approcci per analizzare origine, consolidamento e crescita del benessere economico nelle nazioni post-industriali. Se una delle principali ragioni dell’attuale standard di vita poggia su aspetti tecnologicoproduttivi legati all’accumulazione di capitale fisso dalla Rivoluzione industriale in poi (cfr. seconda metà del XVIII Secolo), un ulteriore punto di partenza risiede nel concetto di «società dei diritti». In altre parole, tutela e garanzia di diritti individuali oltre che sociali costituiscono un pilastro, senza cui i nostri Paesi non sarebbero come li conosciamo. Poiché le «società dei diritti» di oggi sono tipiche di nazioni particolarmente evolute, esse divengono «chiave di volta» per la migliore comprensione delle possibilità di ulteriore sviluppo (sostenibile) in sistemi economici che troppo spesso vengono dati per «sclerotizzati», difficili da spronare verso ancora più elevati standard economici, oppure persino in declino rispetto ai Paesi emergenti. Ecco che uno degli interrogativi, che il lettore deve porsi per comprendere i «perché» dello status quo, riguarda il cosiddetto «paradosso dell’uovo e della gallina»: in altri termini, è il benessere economico ad essere all’origine di estesi diritti oppure sono stati questi ultimi ad alimentare la nascita di società particolarmente evolute? La sensazione è che non vi sia un «capo» o una «coda», come tipico di qualsiasi flusso circolare costituito da sempre nuove interazioni ed esigenze sociali. Pertanto, il progresso economico-politico-sociale (punto di partenza così come di arrivo nel ciclo qui ipotizzato) comporta l’insorgere di una «domanda» di ulteriori diritti da parte della

cittadinanza (il caso cinese è solo un esempio fra i più noti), che per trovare una risposta (cioè un’«offerta» secondo la logica di un qualsiasi mercato) abbisogna di fasi mediane fatte di dibattiti ed anche riottosità. Una volta colmata da parte del legislatore tale esigenza, pare fisiologica una fase di assestamento e «metabolizzazione», anche da parte dei (fino ad allora) più scettici, prima di poter giungere nuovamente al punto di «arrivo-partenza», cioè di generare progresso economico-politico-sociale. La comprensione dei nessi causali fra diverse variabili all’interno delle moderne economie diviene, ora come mai, rilevante per rintracciare tutte quelle opportunità di crescita sostenibile poco sfruttate, che possono fornire alla società nel suo complesso motivo in più di crescita: in economie già fortemente sviluppate vige, infatti, il principio dei «tanti pochi fanno un assai». Focalizzandosi sulla tematica di diritti o capabilities (traendo spunto dalla terminologia del Premio Nobel ed economista indiano Amartya Sen ‒ sebbene in questo contesto voglia significare piuttosto «capacità/possibilità di realizzazione produttiva» e, per certi versi, «capacità/possibilità di autorealizzazione»), non può non venire in mente la strategicità dei cosiddetti «anziani» (termine da rimodellare, spesso utilizzato selettivamente a seconda dello status sociale oltre che di difficile attribuzione sulla base anagrafica): il loro ruolo economico nella società ‒ sebbene non debba ostacolare le «nuove leve» ‒ non può certo essere caratterizzato dal punto di vista di mero costo socialeprevidenziale. In altri termini, le persone in età matura sono una risorsa per la variabile «consumo» del PIL (pari a 3000 miliardi di euro in mano agli over-65enni europei altresì ribattezza-

Il progresso si nutre di interazioni continue fra economia, politica e società. (E. Beretta)

ta silver economy2 , termine che ricorda sia il colore argenteo dei capelli sia il francese argent, cioè «denaro»), ma soprattutto per motivi di trasmissione intergenerazionale di conoscenze oltre che di coinvolgimento attivo in ambito familiare così come sociale: anche le più intraprendenti fra le giovani generazioni non possono dimenticare che il progresso è da sempre un fenomeno cumulativo e non può iniziare di volta in volta da una tabula rasa − in altre parole, si può migliorare partendo dal passato. Ed, in ogni caso, sarebbe riduttivo concepire la maggiore longevità quale mera fonte di introiti o pretesto per giustificare ripetuti innalzamenti dell’età pensionabile. Anche l’apporto potenziale delle persone diversamente abili in presenza di migliore integrazione nella società lavorativa non è da sottostimarsi: esse costituiscono, senz’altro, una «finestra» diversa sul mondo e sulle esigenze di parte di esso, da cui non si può

temere di sporgersi. Se ciò può essere scambiato per mero «filantropismo», non si può non menzionare la conseguente riduzione dei costi (derivanti da qualsiasi spreco di risorsa) ed incremento del loro contributo al PIL (intorno al 0,85% in più nel lungo termine, prendendo il caso della sola Australia3). Che dire della letteratura economica, che da tempo sottolinea l’apporto fornito dalle donne alla crescita, che con alcuni interventi potrebbero aggiungere 12’000 miliardi di dollari al PIL mondiale entro il 20254? O di recenti studi scientifici, che attribuiscono al riconoscimento delle unioni omosessuali la diminuzione del tasso di suicidio fra tali adolescenti5, che è da tre a quattro volte superiore alla media dei loro coetanei temendo essi il rifiuto della società civile? Sono tanti gli indizi per cui i diritti individuali-sociali (grazie alle ripercussioni in termini di soddisfazione lavorativa, felicità della propria con-

dizione e miglioramento della performance) possano essere forieri di una spinta nel medio-lungo periodo verso ulteriori lidi di sviluppo: a questi la società moderna deve ambire per dimostrare di non essere «secolarmente stagnante». Certo è che automatismi (almeno nelle scienze economiche, che sono sociali) non esistano e a importanti quanto giusti riconoscimenti debba sempre far seguito un impegno da parte di ciascuno di noi. Sebbene non viga il principio che tutti i «diritti» derivino dall’espletamento di altrettanti «doveri» a mo’ di contropartita contabile, rimane vero che questi ultimi − ancora più esplicitamente: impegno e dedizioni lavorativi oltre che senso di comunità − siano imprescindibili per il progresso. Perché, certamente, le «società dei diritti» beneficiano dei doveri così come viceversa. Note

1. Elaborazione propria. 2. https://ec.europa.eu/digital-singlemarket/en/news/growing-silver-economy-europe 3. https://www2.deloitte.com/content/dam/Deloitte/au/Documents/ Economics/deloitte-au-economicbenefits-increasing-employment-forpeople-with-disability-010811.pdf 4. https://www.mckinsey.com/~/ media/McKinsey/Global%20Themes/ Employment%20and%20Growth/ How%20advancing%20womens%20 equality%20can%20add%2012%20 trillion%20to%20global%20growth/ MGI%20Power%20of%20parity_ Full%20report_September%202015. ashx 5. https://jamanetwork.com/ journals/jamapediatrics/article-abstract/2604258

Confederazione con un utile di 2,8 miliardi Casse federali I consuntivi 2017 indicano un utile d’esercizio di 4,8 miliardi se si considera l’accantonamento

di 2 miliardi sul gettito dell’imposta preventiva. Si riapre il dibattito sul freno all’indebitamento Ignazio Bonoli La Confederazione ha chiuso il bilancio 2017 con un utile d’esercizio di 2,8 miliardi di franchi. Utile che sarebbe perfino stato di 4,8 miliardi se non si fossero contabilizzati accantonamenti per l’imposta preventiva. Ricordiamo che il preventivo 2017 contemplava una perdita di 250 milioni di franchi. Questo divario fra preventivo e consuntivo è piuttosto frequente nei conti federali ed è dovuto in parte alla prudenza (eccessiva dicono le critiche a posteriori) e in parte a evoluzioni non preventivate di alcuni comparti dell’economia. Grosso modo si può dire che la sorpresa maggiore nei bilanci dello scorso anno è dovuta ai conti dell’imposta preventiva. Questa imposta (applicata sui redditi dei capitali e sulle vincite nelle lotterie) genera, a partire dal 2015, dai 4 ai 6 miliardi di franchi netti all’anno (dedotte cioè le restituzioni chieste al momento della dichiarazione fiscale). Lo scorso anno, l’introito è stato invece di 10 miliardi di franchi. I pagamenti lordi di questa imposta, prelevata alla fonte, hanno subito un forte aumento, mentre le richieste di rimborso non sono aumentate. Le ragioni di questa evoluzione non sono però chiare. Secondo la Confederazione, alcuni

grossi contribuenti, visto il prelievo di interessi negativi, hanno rinviato nel tempo la richiesta di rimborso dell’imposta preventiva, che può attendere fino a tre anni. La richiesta di rimborso di un’azienda può giungere a comportare centinaia di milioni di franchi. Ma, secondo alcuni osservatori, anche la riforma fiscale americana può aver avuto un ruolo importante, inducendo le aziende interessate a pagare dividendi prima della fine dell’anno. Comunque questa particolare situazione potrebbe pure comportare

nei prossimi anni un forte aumento delle richieste di rimborso. Tenendo conto dell’esperienza maturata negli ultimi anni, sono stati accantonati 2 miliardi di franchi, cosicché l’importo del gettito dell’imposta preventiva nel 2017, invece che per 10,2 miliardi, figura per 8,2 miliardi di franchi a consuntivo. La decisione di effettuare questo accantonamento ha già sollevato alcune critiche. Infatti, il freno all’indebitamento prevede che le perdite di un anno di bilancio possano essere compensate

Ueli Maurer può sorridere, ma ora è il caso di rivedere il freno alla spesa? (Keystone)

negli anni seguenti, a determinate condizioni. Il contrario, cioè creare riserve per compensare eventuali perdite future non è possibile. E, infatti, l’accantonamento proposto per il 2017 non è previsto dalla legge sul freno all’indebitamento, la quale esige che l’utile d’esercizio deve andare a ridurre il debito pubblico. Si sono quindi già manifestate alcune perplessità fra i partiti, tanto più che l’utile dopo l’accantonamento è sempre rilevante. Il Dipartimento delle finanze sostiene però che l’accantonamento serve a regolare su più anni il gettito dell’imposta preventiva. Operazioni analoghe, che sono diventate prassi corrente tanto nel privato, quanto nel pubblico, non sono state finora criticate dal Parlamento. Ma il discorso si allarga subito ad altre problematiche. Per esempio, un gruppo di esperti ha valutato che la situazione delle finanze federali era tale da non rendere necessario il piano di stabilizzazione messo in atto negli scorsi anni. Così sono mancati i capitali per interventi importanti nel sociale, nella cultura, nella formazione o anche nel sostegno a rami dell’economia. La problematica si allarga inoltre anche alla pianificazione finanziaria pluriennale. Il nuovo piano finanzia-

rio 2019-2021 contempla, infatti, nuovi utili d’esercizio: un miliardo all’anno nel 2019 e nel 2020, che nel 2021 dovrebbero salire a 1,9 miliardi di franchi. Questo offre la possibilità di aprire il discorso anche sul livello del fisco federale. I risultati dicono in sostanza che la Confederazione preleva troppe imposte e sarebbe perciò opportuno ridurre la pressione fiscale. La tesi offre al capo del Dipartimento delle finanze l’opportunità di sottolineare la necessità della riforma dell’imposizione delle imprese, respinta dal popolo lo scorso anno e ora riproposta con un nuovo testo davanti al Parlamento. In realtà, anche i maggiori utili, realizzati e previsti, possono già avere precise destinazioni: la nuova revisione della legge sull’AVS, la riduzione delle imposte per le famiglie, l’eventuale finanziamento delle Olimpiadi invernali a Sion, il contributo ai paesi dell’Est dell’Unione Europea, accompagnate da cali di entrate, dovuti a loro volta alla soppressione di dazi doganali o a quella parziale delle tasse di bollo. Tutto sommato, sembra giunto il momento di rimettere in discussione il freno alla spesa, almeno nella sua rigida concezione attuale. Questo potrebbe aprire spazi finanziari a scelte politiche meno condizionate.


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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Rivoluzione digitale e libertà di scelta Non passa giorno, o quasi, senza che i nostri quotidiani si occupino dei possibili cambiamenti nel nostro modo di vita che potrebbero essere indotti, nei prossimi anni, dalla rivoluzione digitale. Per quanto sappia io, ancora non esiste un catalogo di queste modifiche. Ma i lettori attenti della nostra stampa avranno sicuramente avuto modo di riconoscere alcune delle tendenze di fondo che vengono illustrate da questo o quell’articolo. Abbiamo dapprima il tormentone del digitale che distrugge posti di lavoro, che, spesso, è accompagnato dal romanzo d’appendice sulle centinaia di migliaia di posti di lavoro che la rivoluzione digitale saprà creare. I due quesiti di fondo che pone la futurologia che si occupa del digitale sono la questione a sapere se il bilancio delle perdite e dei guadagni in posti di lavoro si chiuderà con una perdita o con un guadagno netto e quella concernente il tipo di posti di lavoro che la rivoluzione digitale distruggerà

o creerà. Non mancano le risposte a queste domande anche per quel che riguarda il caso svizzero. Il problema è che, per il momento, le stesse sono spesso contraddittorie, ragione per cui, per chi vuol saperne di più, purtroppo, non c’è che una cosa da fare: aspettare! Un’altra tendenza di fondo ci parla delle nuove applicazioni che potrebbe avere il digitale. Tra queste si sente sempre di più parlare della messa in rete di elettrodomestici e altri aggeggi che usiamo quotidianamente come, per non citare che uno degli ultimi esempi, l’ascensore. Comune a questi apparecchi è che di quando in quando si guastano e devono essere riparati. Altrettanto comune è che molte delle ditte che li producono assicurano, già oggi, un servizio di manutenzione post-vendita. In futuro è possibile che gli apparecchi venduti (ascensori compresi) vengano messi in rete e che avvertano direttamente la ditta produttrice quando entrano in panne.

La messa in rete di apparecchi che devono essere frequentemente riparati sembrerebbe una cosa ragionevole. Se non che, se il proprietario dell’apparecchio non è più libero di decidere se, o meno, far intervenire il montatore, una parte della sovranità del consumatore va a farsi benedire. È proprio su questo aspetto che si concentrano altri studi sulla rivoluzione digitale. In un articolo pubblicato qualche settimana fa sulla NZZ Mathias Binswanger ci ricordava che in Cina si sta costruendo, da qualche anno, un sistema di bonus sociali con il quale le scelte dei cittadini saranno registrate dal computer, valutate e influenzate perché vadano nella direzione che soddisfa il regime. Chi paga le sue fatture e gli interessi sui crediti che ha ricevuto senza ritardi, le imposte e le tasse che deve allo Stato, rispetta le sue leggi e le sue regole e dà seguito come previsto agli obblighi che ha contratto riceverà abbuoni. A chi sgarra verranno invece addebitati pun-

ti negativi. Chi si comporta bene godrà di vantaggi particolari ottenendo per esempio, più facilmente che gli altri, permessi, licenze pubbliche o altre prestazioni dello Stato. Chi si comporta male, invece, resterà penalizzato. A noi occidentali, paladini della libertà individuale, fa naturalmente specie che un cittadino possa vedersi limitato nei suoi diritti (fosse solo perché viene messo in fondo alla coda che si forma davanti agli sportelli pubblici) perché, per esempio, non vuole pagare la tassa sul sacco dei rifiuti. Tuttavia, come osserva Binswanger, questo tipo di evoluzione non si manifesta solo in Cina o solo in paesi poco democratici. Anche da noi comincia a manifestarsi una tendenza con la quale non tanto lo Stato, quanto le organizzazioni economiche del settore privato introducono, approfittando delle possibilità offerte dal digitale, sistemi di bonus e malus che limitano la sovranità del consumatore. Binswanger cita l’esempio

del consumo energetico e delle casse malati. Come si è visto qui sopra le possibilità di controllo sul comportamento dei consumatori sono molte perché, con la rivoluzione digitale, avremo una possibilità quasi infinita di generare informazioni. Da questo punto di vista il Brave New World di Aldous Huxley non sembra più essere molto lontano. Grandi organizzazioni del settore privato hanno un interesse diretto a che un algoritmo influenzi il comportamento del consumatore nella direzione che a loro conviene. Lo Stato – come dimostra il caso della Cina – ha, a sua volta, interesse a promuovere comportamenti sociali uniformi perché semplificano i compiti del governo e del controllo. Per Binswanger ciò che maggiormente preoccupa, però, non sono tanto le possibilità di limitazione della libertà di scelta individuale, insite negli sviluppi del digitale, quanto il fatto che, nell’opinione pubblica, nessuno sia dia da fare per opporsi agli stessi.

alternativa. Chi siamo noi per giudicarli oggi? Non c’erano libere elezioni, non c’erano altri partiti; c’era l’olio di ricino, il licenziamento, le manganellate, la persecuzione. Chi non ebbe il coraggio di scegliere questo destino va considerato di per sé un fascista? Non credo. Il punto è che la Resistenza e in genere l’antifascismo sono considerati «cose di sinistra». Si dimentica che la Resistenza fu fatta da migliaia di partigiani che comunisti non erano. E in varie forme a opporsi ai nazifascisti furono civili, donne, ebrei, sacerdoti, suore, carabinieri, militari che combatterono accanto agli Alleati, internati in Germania che preferirono restare nei lager piuttosto che andare a Salò a combattere altri italiani. Di loro però si è quasi persa la memoria. Invece la Resistenza appartiene alla nazione, non a una fazione. Oggi non c’è il pericolo di un ritorno del fascismo. La storia non si ripete mai due volte. Ma in questo tempo la

democrazia rappresentativa è di nuovo in crisi – ovunque ma in Italia in modo particolare – , come negli Anni Venti. Disillusione, distanza crescente tra Palazzo e cittadini, scandali, astensionismo record (il prossimo 4 marzo andrà a votare meno del 70 per cento degli aventi diritto, forse addirittura meno del 60; nelle storiche elezioni del 1948 votò il 92 per cento degli italiani, praticamente tutti). E l’immigrazione fuori controllo risveglia pulsioni razziste che si sperava dimenticate. L’articolo 3 della Costituzione italiana, quello che definisce i cittadini uguali di fronte alla legge senza discriminazione di razza, lingua, religione, sesso, condizioni personali e sociali, rappresenta il capovolgimento del fascismo, che discriminò e perseguitò neri africani, arabi libici, italiani di religione ebraica, le minoranze linguistiche, gli oppositori, gli omosessuali, e sosteneva che le donne dovessero stare a casa. Gli italiani dovrebbero ricordarselo più spesso.

dall’altra perché, avendo fotografato e mostrato in diretta televisiva la faccia sconosciuta della Luna, mi ha fatto sorgere il dubbio che anche la storia possa possederne una, in cui deposita o nasconde tanti avvenimenti «minori». Un rimando quasi analogo giunge dalle Olimpiadi disputate quell’anno a Città del Messico. Oggi sono ricordate soprattutto per il gesto, quasi un marchio, dei due atleti statunitensi di colore (il vincitore Tommy Smith e il connazionale John Carlos, terzo) che sul podio dei 200 metri alzano il pugno destro guantato di nero e chinano il capo per protestare contro la discriminazione razziale e le repressioni della polizia nel loro paese. Eppure nello stesso stadio e negli stessi giorni un altro statunitense, Bob Beamon, anche lui di colore, saltò 8,90 m nel lungo «facendo sembrare stupidi il resto dei gareggianti». Ebbene: 50 anni dopo il gesto politico mediatizzato dalle immagini televisive non solo continua a prevalere su quello sportivo, il pugno

chiuso di Carlos e Smith, oscurando il balzo di Beamon, ma fa dimenticare anche le violentissime proteste giovanili della capitale messicana! A pensarci bene lo stesso automatismo può spingere il singolo a mettere al primo posto delle sue attenzioni famiglia e matrimonio, oppure un’intera generazione a mitizzare i movimenti, riuscendo così a segregare sulla faccia nascosta della storia avvenimenti ben più importanti, come successe nel 68 alla repressione della primavera praghese e l’invasione della Cecoslovacchia, preludio del crollo di tante illusioni, prima ancora che di tracolli ideologici. A questo proposito merita risalto lo strappo causato nel rosario rievocativo dall’ex-militante del Pci Rossana Rossanda, allora giornalista testimone e partecipe del maggio parigino: sfoderando tutta la sua onestà intellettuale oggi arriva a rimproverare a quel movimento rivoluzionario di non aver costruito nulla di positivo e di lasciare ai posteri poco o niente.

In&outlet di Aldo Cazzullo La storia non si ripete mai due volte Un attore si cala nella parte del Duce, e i passanti lo salutano romanamente (il film si intitola Sono tornato, è il remake di un analogo film tedesco su Hitler, Mussolini è interpretato da Massimo Popolizio). Ovunque manifestazioni che inneggiano al fascismo. Un partito, CasaPound, che si rifà esplicitamente al ventennio. Un leader, Salvini, che con CasaPound è sfilato in corteo. Un militante fascistoide della Lega spara ai neri per strada; e la Lega sale nei sondaggi. Dall’altra parte, sedicenti antifascisti picchiano poliziotti e avversari politici, in un’inaccettabile escalation di violenza.

A oltre settant’anni dalla caduta del regime, in Italia si torna a parlare di fascismo. Solo il 40 per cento – secondo un sondaggio pubblicato da «Repubblica» – ha del Duce un’opinione negativa. Il 20 per cento lo adora. Gli altri non sanno, non rispondono, non sono interessati. Certo, i nostalgici sono pochi. Ma gli anti-antifascisti sono moltissimi; probabilmente la maggioranza. Tra loro, tanti sostengono che gli italiani siano stati tutti fascisti. Ma non è così. Misurare il consenso a una dittatura è sempre molto difficile. È difficile distinguere tra accettazione passiva e dissenso silenzioso. Quel regime orrendo che

fu il comunismo sovietico, ad esempio, non cadde certo a causa del dissenso, o delle manifestazioni popolari; si suicidò con la guerra in Afghanistan e il tentativo impossibile di autoriformarsi. Il franchismo morì con Franco; e anche Mussolini sarebbe morto nel suo letto, se non avesse condotto l’Italia al disastro della Seconda guerra mondiale. Questo non significa che gli italiani siano stati tutti fascisti. Certo molti lo furono (qualcuno lo è anche oggi). Molti altri videro nel fascismo un male minore rispetto al comunismo. Molti altri ancora si convinsero negli anni delle conquiste africane. Ma molti non erano per nulla fascisti. Certo, gli oppositori militanti furono relativamente pochi (per quanto i tribunali speciali macinassero migliaia di condanne al carcere e al confino, che non era una vacanza – come la definì Berlusconi – ma la morte civile). Furono infinitamente di più coloro che chinarono la testa, per paura, per quieto vivere, per mancanza di

Zig-Zag di Ovidio Biffi Le facce nascoste della Luna e del 68 Provo a inserirmi nel rosario rievocativo del 68 che Orazio Martinetti, come si addice agli storici, ha già registrato in questo spazio. Dico provo perché so di non essere abile, e quindi poco abilitato a fare rievocazioni. Quell’anno praticamente io non l’ho vissuto, nel senso che nella mia memoria molto di quanto oggi viene riesumato e riproposto dai media continua a non figurare tra le vicende memorabili. La causa di questo singolare vuoto mentale è molto semplice: dato il matrimonio contratto nel 1967 e la nascita del mio primo figlio un anno dopo, il 68 è coinciso con quel momento della vita che già nell’antica Grecia veniva considerato talmente influente che gli uomini venivano esentati da impegni pubblici, addirittura dal servizio militare. Sono convinto che quella particolare condizione abbia impedito allora e continui a vietarmi oggi di «sentire» e di trovare emblematiche le idee e le spinte rivoluzionarie degli intellettuali parigini o le occupazioni studentesche di casa nostra. Leggen-

do alcuni degli interventi rievocativi mi ritrovo spesso con questa duplice domanda: come mai i moti studenteschi continuano ad avere tanto fascino e influenza rispetto ad avvenimenti ben più importanti avvenuti nel 68? Perché altre vicende, notevolmente più drammatiche e importanti, non hanno avuto il sopravvento su quell’ondata di protesta giovanile? Qualche risposta ho potuto averla dal libro Il 68 giorno per giorno, edito da Clichy, in cui l’autore, Roberto Raja, aiuta a rileggere, e a capire meglio, tutti i 366 giorni di 50 anni fa, quindi non solo la famosa estate «in cui nacque l’antiautoritarismo», come capita ancora di leggere. Raja, anche lui provetto storico, senza sminuire l’importanza di quella che viene considerata la rivoluzione per eccellenza di quell’anno, privilegia un’analisi «indiretta» e, soffermandosi molto sul «prima» e sul «dopo» dei moti studenteschi, consente ai suoi lettori di approdare a uno schema oggettivo dei ricordi e

dei miti oltre che dei fatti. Il libro è un po’ come un almanacco, pubblicato a distanza di mezzo secolo, in grado di ripresentare con precisione ed approfondire avvenimenti e personaggi ormai dimenticati o comunque spesso sovrastati e condizionati dai cliché della rivoluzione studentesca. La lettura «giorno per giorno» è un replay di tutto quello che è capitato dai giorni dell’Epifania quando il chirurgo sudafricano Christian Barnard effettuava il primo trapianto di cuore, sino alla vigilia di Natale di quell’anno così straordinario, quando gli astronauti statunitensi dell’Apollo 8, orbitando attorno alla Luna per scegliere i luoghi dell’ormai incombente allunaggio, in diretta tv lessero le prime parole della Genesi: «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque». Mi soffermo su questa impresa per due precisi motivi: da una parte perché calò il sipario su tutte le vicende del 1968;


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Cultura e Spettacoli La sfida del design Il Museum für Gestaltung di Zurigo si rifà il look diventando un punto di riferimento per il design svizzero e internazionale pagina 33

Tradurre Ugo Petrini La traduzione della poesia non è mai un compito facile, ci è riuscito Christoph Ferber

pagina 35

A Berlino tutti corretti Belle presenze elvetiche alla kermesse tedesca, ma si esagera con la political correctness

Una visita a Vevey La villa-museo di Charlie Chaplin, re indiscusso della comicità, val bene una visita pagina 39

pagina 38

Senza compromessi Pubblicazioni Le edizioni e/o danno

alle stampe l’ottimo Una viennese a Parigi di Ernst Lothar, atto di accusa contro ogni forma di sopraffazione Luigi Forte Era nato nel 1890 a Brno nell’attuale Repubblica Ceca l’ebreo Ernst Lothar, ma cresciuto in realtà nella capitale dell’Impero. E per tutta la sua vita non cessò mai di sognare la sua amatissima Vienna. Persino quando nel 1939 si rifugiò negli Stati Uniti ottenendo poi la cittadinanza americana. La sua nostalgia guardava lontano, verso un futuro di libertà e democrazia per l’Austria soffocata dal nazismo e di cui offrì un’immagine drammatica e appassionante nell’ampio romanzo La melodia di Vienna (edizioni e/o 2014) pubblicato dapprima in inglese nel 1944. Era una rivisitazione del mito asburgico con una buona dose di ironia attraverso cinquant’anni di vicende europee, dalla belle époque all’Anschluss hitleriano del 1938. L’affresco storico di un’epoca dominata per decenni dalla figura di Francesco Giuseppe si delinea attraverso il destino della famiglia Alt domiciliata nei pressi del duomo di Santo Stefano, che costruiva pianoforti fin dal Settecento. Con una scrittura accattivante e non poco talento teatrale Lothar rievoca ambienti e personaggi sullo sfondo di una spensierata e mitica stagione di cui egli aveva potuto cogliere in gioventù solo il triste epilogo registrando il ritmo sempre più incalzante di un mondo sfigurato dalla guerra e più tardi dall’avanzata dei nazisti, gli uomini in stivali, come dirà l’ebreo I.J. Singer nel suo splendido romanzo La famiglia Karnowski che s’impadronivano, là come a Berlino e in mezza Europa, delle piazze e delle strade. Lothar, che era stato funzionario ministeriale per alcuni anni, decise poi di dedicarsi alla passione di sempre, la letteratura. Scrisse poesie, saggi e romanzi e venne in contatto, grazie all’amico Stefan Zweig, con alcuni protagonisti della cultura del tempo, fra cui Musil e Roth. Fu tra i promotori del Festival di Salisburgo, regista e direttore del Burgtheater dove propose spesso autori, tra cui Grillparzer, attenti a una seria riflessione sullo spirito austriaco. Durante l’esilio la sua nostalgia nutrita di una sensazione di spaesamento e impotenza, resuscitò il sogno asburgico creando con quel romanzo una sorta di Via col vento del Novecento austriaco. Pochi anni prima lo scrittore non aveva esitato a confrontarsi con il presente e la drammatica situazione del suo paese dopo l’annessione hitleriana. Nel 1941 pubblicò in inglese il romanzo Una viennese a Parigi, ora proposto dal-

le edizioni e/o nell’ottima traduzione di Monica Pesetti, che solo dieci anni dopo uscirà, notevolmente ampliato, in tedesco. Come la sua giovane protagonista, Franzi Langer, anch’egli aveva vissuto l’occupazione nazista ed era rimasto sconcertato dall’acquiescenza e dalla rassegnazione, quando non dall’entusiasmo, di moltissimi suoi connazionali. Lo scrittore parte per gli Stati Uniti, mentre Franzi lascia, sia pure a malincuore, i genitori e un fidanzato a Vienna per trasferirsi nella capitale francese, dove le viene offerto un posto di dattilografa in una casa di produzione cinematografica americana. Basato su un diario manoscritto che l’autore sostiene di aver ricevuto a New York nel 1940, il romanzo ha una forte connotazione morale: è un atto d’accusa contro ogni forma di sopraffazione ma anche il disperato tentativo di smuovere le coscienze rifiutando qualsiasi compromesso con la follia omicida del regime. Certo Lothar vi riflette anche la sua esperienza di esule e il duro destino di chi si è lasciato alle spalle una patria e si sente sempre più impotente di fronte al futuro. Eppure la storia di Franzi è un atto di coraggio e di speranza, perché, affascinata da Parigi, la giovane sente di nuovo l’alito della libertà e vede attorno a sé persone che hanno fiducia nel domani, come la collega Elinor e il suo ragazzo Charlie, impiegato al consolato generale americano. Sì, la vita è di nuovo meravigliosa e i miracoli accadono, non si stanca di ripetere, e il più bello si chiama Pierre Durant, giornalista del quotidiano «Le Figaro». Lo conosce durante una serata presso amici francesi ed è amore a prima vista. Impossibile resistere a quell’uomo che le regala rose bianche e rosse, scrive appassionati articoli contro il nazismo, difende con coraggio e determinazione le proprie opinioni e ama quanto lei la libertà. Non importa se è già sposato e ha due bambine e se lei non ha ancora rotto il fidanzamento viennese. Nulla potrà ostacolare il loro rapporto sempre più tenero e profondo che simbolicamente si contrappone alla cieca conflittualità che incombe sull’Europa. Lui riuscirà, fra non poche difficoltà, ad ottenere il divorzio e a sposare la ventiquattrenne Franzi, mentre lei si libererà senza indugi di quel lontano pretendente in carriera nel Terzo Reich. Una viennese a Parigi è un’avvincente love story sullo sfondo di anni bui e terribili, tra il 1938 e il 1940, in cui i sentimenti più intimi e personali sono travolti senza pietà dalla violenza collettiva. Hitler ci ha strappato la terra

Vienna, 1938: gli austriaci partecipano alle elezioni generali e votano sul referendum riguardante l’annessione dell’Austria al Terzo Reich. (Keystone)

sotto i piedi, ricorda Franzi, spalancando l’abisso sotto di noi. Inutile illudersi: anche a Parigi, attorno agli esuli, la polizia segreta del regime tesse le proprie trame coinvolgendo la stessa giovane ricattata da una collega che lavora per la Gestapo e incalzata da strani personaggi che imprimono al romanzo una forte tensione. Inutile cercare l’idillio amoroso, qui la passione è una corsa ad ostacoli, un vero e proprio tour de force di anime che al male possono contrapporre solo il coraggio della libertà. Ma ancora una volta Ernst Lothar compie il miracolo: la sua affabulazione abbraccia le mille sfumature della vita, il gioco

favoloso dell’amore, fissa personaggi terrificanti come Himmler e lo stesso Hitler, evoca ambienti e atmosfere e dà corpo a un’intera epoca. Piccole realtà quotidiane e grandi eventi politici, speranze e disillusioni si alternano sulla scena del romanzo, mentre l’esercito tedesco avanza e occupa Parigi. È tardi ormai anche per quella coppia di innamorati il cui destino corre verso un epilogo disperato. La loro testimonianza non basta a sottrarli alle tristi vicende collettive. Proprio ora che Franzi ha avuto un bimbo e la vita sembrerebbe poterle sorridere. Ma il suo Pierre va in guerra come migliaia di altri e vi

soccombe. E lei stessa per difendere il padre che l’ha raggiunta a Parigi, non esita a uccidere un ufficiale delle SS. Bisogna ribellarsi era il suo motto. Per questo aveva lasciato l’amata Vienna, dove ormai tutti avevano paura di tutti. E non scendere mai a compromessi con l’ingiustizia. Anche a rischio di perdere quella vita che per un attimo le aveva dato l’illusione della felicità. Bibliografia

Ernst Lothar, Una viennese a Parigi, traduzione di Monica Pesetti, edizioni e/o, p. 509, € 19,00.


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Cultura e Spettacoli

Il design più prestigioso

Musei A Zurigo riapre il Museum für Gestaltung, mentre si cerca, attraverso esposizioni ben concertate,

di stupire il pubblico favorendo anche i processi di fidelizzazione Valentina Janner A partire dal mese di marzo 2018, il museo di design svizzero sarà ubicato in due sedi: il deposito espositivo Schaudepot, presso il complesso architettonico Toni-Areal in Pfingstweidstrasse 96, e l’edificio principale in Ausstellungstrasse 60, che verrà riaperto dopo un lungo periodo di ristrutturazione. Questo edificio, opera degli architetti Adolf Steger e Karl Egender, è annoverato tra i beni culturali protetti della città di Zurigo. Realizzato in stile Bauhaus agli inizi degli anni Trenta del Novecento, è un vero e proprio monumento architettonico che, a partire dal 2 marzo, si potrà ammirare nel suo aspetto originale: nulla è stato infatti modificato rispetto al progetto iniziale. Solo l’infrastruttura tecnica (impianti di climatizzazione e sicurezza) è stata modernizzata secondo gli standard museali attuali. Il Museum für Gestaltung, fondato già nel 1875, nacque dal bisogno da parte delle corporazioni degli artigiani

(ceramisti, falegnami, ecc.) di avere dei modelli di riferimento, non solo per il loro operato, ma anche per la formazione degli apprendisti. Oltre alle scuole professionali, sorsero così i musei dei mestieri, che cominciarono a collezionare opere con lo scopo di mostrare ai giovani in formazione lo stile da seguire e quello invece da evitare, creando in questo modo una sorta di «biblioteca di consultazione». La collezione del Museum für Gestaltung, a cui si sono poi aggiunte molte donazioni di privati, conta ora circa 500’000 oggetti, che costituiscono il più grande corpus di design in Svizzera. Essa è suddivisa in quattro categorie: design (oggetti prodotti in serie), grafica industriale (da bozze di caratteri, a volantini, fino a confezioni di medicamenti), cartellonistica e arti applicate (ceramiche, tessili, gioielli, ecc.). Il museo non colleziona solo opere faro, ma conserva anche prototipi bizzarri o bozze di oggetti mai realizzati, perché emblematici di una mentalità o una corrente di pensiero, ma privi di valore economico. Circa l’80% della

Ideales Wohnen (L’arredamento ideale, ndt) e Plakatgeschichten (Storie di manifesti, ndt), che il direttore del museo Christian Brändle ci ha presentato nell’intervista sottostante. In occasione dei festeggiamenti per la riapertura della sua sede principale, il Museum für Gestaltung propone sabato 3 marzo diverse attività gratuite: visite guidate, un workshop sulla costruzione di mobili o ancora un corso di fotografia museale, e altro ancora. Più informazioni su www.museumgestaltung.ch. Dove e quando

Christian Brändle, direttore del Museum für Gestaltung, nella Swiss Design Lounge. (© ZHdK)

collezione di design non avrebbe nessuna chance sul mercato. Il museo si interessa alle idee relative a un oggetto, al processo di creazione, alla visione della società veicolata dalle opere. Gli archivi delle quattro collezio-

ni sono stati resi accessibili al pubblico nel 2014 presso lo Schaudepot. Alla sede principale, invece, sono esposte circa 2’000 opere delle collezioni, allestite in quattro progetti espositivi: Swiss Design Lounge, Collection Highlights,

Attività riapertura sede principale: sa 3 marzo, 10.00-18.00. Ausstellungstrasse 60, 8031 Zurigo. Visite guidate in tedesco Schaudepot: Ogni giorno 12.00-13.00. Visite guidate in tedesco Ausstellungstrasse 60: me 18.00-19.00, do 11.00-12.00. Fr. 10.– / Fr. 8.– (ridotto). Iscrizione online su: museum-gestaltung.ch. Visite in italiano su richiesta allo 043 446 66 20.

Un design che sorprende, interpella e coinvolge Christian Brändle, direttore del Museum für Gestaltung, ci illustra la sua visione innovativa di museo. Quale esposizione temporanea potremo scoprire il prossimo 3 marzo?

L’esposizione Oïphorie è dedicata alle installazioni dell’atelier di design oï, che si trova nella Svizzera occidentale e gode di fama internazionale. Per noi è indispensabile non solo creare delle sinergie con le altre regioni del Paese, ma anche conferire una dimensione contemporanea ai progetti espositivi, dato che gli allestimenti della collezione vertono su quella storica. Ci ha particolarmente affascinato il metodo di lavoro di questi designer, basato sui processi di produzione e sui materiali. Quando creano un oggetto, infatti, non partono dal disegno per poi decidere come realizzarlo, ma procedono in modo inverso: prima svolgono delle

ricerche approfondite sulla lavorazione del materiale, per esempio investono mesi per capire in quali modi si possa strappare il cuoio, oppure come si possa piegare la carta di riso giapponese. Solo quando tutte le possibilità sono state esplorate, riflettono su cosa potrebbero realizzare con una tecnica specifica. La consegna data agli artisti dell’atelier oï per quest’esposizione era quella di valorizzare con le loro opere l’imponente atrio principale del museo, che è un connubio tra una cattedrale e un capannone industriale. È un progetto stimolante, celebrativo e contemporaneo.

Come avete sviluppato i progetti espositivi delle collezioni?

Ci siamo chiesti cosa avremmo potuto raccontare tramite le opere delle nostre collezioni e abbiamo optato per quattro forme narrative diverse. La prima è Swiss Design Lounge, una

veranda luminosa al primo piano dove, a causa della temperatura e della luce, non si possono esporre degli originali. Pertanto abbiamo scelto alcuni mobili di design svizzero ancora in produzione, che le aziende produttrici quali Schönstaub, de Sede, USM, ecc., ci hanno fornito. Mostriamo così uno spaccato non solo della creazione ma anche della produzione di design svizzero. I visitatori possono toccare i mobili, vedere da vicino come sono fatti, verificare se sono comodi. In questo spazio pubblico accessibile gratuitamente si possono organizzare riunioni, fare la siesta, incontrare gli amici. Si tratta di una via di mezzo tra un parco e un museo.

Un altro progetto sono i Collection Highlights. Di cosa si tratta?

Qui abbiamo abbinato oggetti che sotto il profilo contenutistico non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro; per

esempio, vicino a una ceramica di Susi Berger è esposta una coppa del 1850, riccamente decorata secondo il gusto dello storicismo, oppure un dondolo a forma di cigno è posto accanto a un innaffiatoio di Kienzle. Non condividono nulla, ma in un certo qual modo si piacciono e interagiscono. Questa forma narrativa associativa di presentare le opere è ludica e facilita la fruizione da parte del pubblico.

Come si contraddistinguono le forme narrative degli altri due progetti?

L’esposizione Plakatgeschichten comprende una selezione di soli 80 manifesti dei 350’000 della collezione, raggruppati in base alle loro strategie rappresentative: abbiamo il cartellone grafico, il collage fotografico o ancora il manifesto illustrativo, come L’Amérique du Sud par le Paquebot «l’Atlantique» del 1931, realizzato da

Cassandre per la pubblicità di una compagnia di navigazione. Un’enorme nave ne contiene una minuscola, per farne risaltare le dimensioni, producendo così un effetto di maestosità e imponenza: Cassandre è il miglior grafico di cartelloni, il mio preferito. Negli spazi di Ideales Wohnen invece mostriamo come le persone avrebbero dovuto arredare le proprie case nelle diverse epoche: negli anni 80 secondo lo stile di Mario Botta, oppure nel secondo dopoguerra con oggetti di Max Bill. In esposizione vi sono opere di grande valore, ad esempio la poltrona personale di Sigfried Giedion, eminente critico e teorico d’arte e d’architettura, disegnata da Marcel Breuer per Embru (1933). Queste diverse modalità di raccontare sono una forma di intrattenimento. Il rischio è quello di stancarsi, mentre noi vogliamo sorprendere. / VJ

Chiedimi se sono felice Mostre Al Toni-Areal Stefan Sagmeister espone con ironia un personale diario della ricerca della felicità Emanuela Burgazzoli Subito un avvertimento, o meglio un’avvertenza per l’uso: visitare questa mostra non vi libererà dalle vostre angosce, dai vostri pensieri bui, né renderà più affidabili i vostri colleghi o meno ingrati i vostri figli, insomma non vi renderà più felici. Meglio ridimensionare subito le aspettative di chi si accinge a visitare speranzoso The Happy Show, l’esposizione allestita fino all’11 marzo al Museum für Gestaltung di Zurigo e ideata dal designer e grafico austriaco Stefan Sagmeister. Figlio di una coppia di commercianti, da anni Sagmeister risiede a New York dove è diventato famoso per i progetti grafici per le copertine di dischi di gruppi e cantanti noti e meno noti, da Lou Reed, a David Byrne, ai Rolling Stones, per i quali ha firmato la cover di Bridges to Babylon. Tutto bene, finché un giorno si accorge che anche il puro stile formale è vuoto, che la routine del pubblicitario è promuovere servizi e prodotti, decide che è più utile inventare contenuti, che il design può parlare al pubblico in modo diverso. Una rivelazione che, si scopre

in una sequenza del film The Happy Show, lo coglie in un corso di meditazione alle prese con i dolori di schiena per le lunghe sedute a gambe incrociate e l’esperienza del vuoto mentale; alla fine un Sagmeister pacato si confessa all’obiettivo: «è ora di dedicare la mia vita ad altro».

La locandina della mostra in corso a Zurigo.

La sua personale ricerca della felicità diventa allora il pretesto e l’ossatura di un film e di un’esposizione che riunisce installazioni, video, opere grafiche e testi che si aprono come le pagine di un diario personale in cui i visitatori entrano e giocano insieme a Sagmeister. Convinto di abitare nel migliore dei mondi possibili, l’epoca in cui l’uomo per la prima volta ha il suo destino in mano, nonostante il Ventesimo secolo abbia spalancato l’abisso sul male assoluto con due guerre mondiali e l’Olocausto. «Now is better» ci suggerisce un video fra zollette di zucchero e tazzine di caffè: noi uomini siamo tutti alla ricerca della felicità, ci ricorda una citazione di Blaise Pascal; e forse mai come oggi sembriamo condannati a essere felici, a cercare il benessere a tutti i costi, a bandire ogni malinconia dalle nostre vite, passando da una happy hour all’altra. Dalla filosofia si passa subito alla psicologia del Ventesimo secolo che tutto misura con grafici e tabelle, persino la felicità: secondo Abraham Maslow e il suo modello piramidale potremo essere felici solo quando soddisferemo il bisogno di realizzazione

personale (e quanto calza alle nostre società occidentali iperindividualiste), di (auto)stima, di appartenenza, di sicurezza e infine altre esigenze fisiologiche quali il sonno, il sesso e il cibo. Ecco uno schema che sembra semplice e infallibile. Ma forse felici lo siamo già – per saperlo, non ci crederete– ma gli psicologi lo chiedono semplicemente ai diretti interessati; tradotto in versione Sagmeister, il metodo si trasforma in un distributore di gomme da masticare, con contenitori numerati da 1 a 10, a disposizione dei visitatori. I grafici e le statistiche continuano: felicità e amore, felicità e matrimonio, la composizione della felicità che per metà è genetica e per metà è il risultato di ciò che posso fare (una curiosità: andare a messa è fra le prime attività in classifica), ma anche di ciò che sono e di come e dove vivo: a proposito, si chiede il designer austriaco, sarà vero che i finlandesi sono più felici dei brasiliani? Esiste una geografia della felicità? Forse. Ma la felicità ha molto più a che fare con l’essere amati e con la capacità di amare gli altri. Non c’entrano i soldi, inutile lamentarsi, meglio agire o dimentica-

re: questo il messaggio che in formato manifesto Sagmeister ha appeso nel centro di Lisbona, per vedere l’effetto che faceva. Siate più flessibili, fate il primo passo, portate a termine i vostri progetti: sono i messaggi che arrivano forte e chiaro fra un’installazione e l’altra, fra un video che lo vede rimbalzare in una enorme bolla. L’ironia è d’obbligo: ecco il ritratto di una donna anziana, un corpo avvizzito. «Non si può piacere a tutti», recita la didascalia. Ricordiamocelo, quando usciremo da questa specie di percorso fra il sensoriale e il filosofico, fra l’interattivo e il visuale, dove Sagmeister ci accompagna con pensieri e azioni, convinto che «tutto ciò che farò, un giorno o l’altro mi sarà restituito». Si semina ciò che si raccoglie, insomma, ma su questo il designer non può mettere un copyright, alla dottrina del kharma ci aveva già pensato l’antica filosofia indiana. Dove e quando

Stefan Sagmeister. The Happy Snow. Museum für Gestaltung Toni-Areal, Zurigo. Orari: ma-do 10.00-17.00; me 10.00-20.00. Fino all’11 marzo 2018.


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Cultura e Spettacoli

Funamboli ai due lati del filo Recensioni Un’antologia poetica di Ugo Petrini

curata da Christoph Ferber

Creature d’acqua e disagio nascosto Cinema Due itinerari opposti ma

egualmente magnifici illuminano la stagione Pietro Montorfani «Exegi monumentum aere perennis...». Nel celebrare il termine del suo sforzo letterario (il terzo libro delle Odi), sorretto dalla convinzione di aver fissato sulla pagina un capolavoro duraturo ed immortale, Quinto Orazio Flacco deve aver pensato a qualcosa di molto simile ai libri della Limmat Verlag: davvero dei mausolei di cellulosa, monumenti cartacei in vita, consacrazioni evidenti e inconfutabili che ci osservano in silenzio dagli scaffali delle librerie. Il paragone potrebbe forse sembrare eccessivo agli occhi dei lettori d’Oltralpe, abituati a questa concretezza ed eleganza tutte teutoniche, ma reggerà senz’altro se pensiamo alla povertà di molti prodotti del mercato italiano, per cui l’hardcover, se ancora resiste, è diritto esclusivo di qualche bestseller poliziesco di sicuro successo, in prima battuta, o tutt’al più per volumi di tremila pagine, certo non per un genere di nicchia come la poesia. Ugo Petrini (Montagnola, 1950) può andare perciò fiero di questa sua nuova pubblicazione, per la consistenza dell’oggetto editoriale non meno che per i contenuti selezionatissimi del suo interno; anche se, a ben vedere, il libro dovrà piuttosto definirsi un’opera a quattro mani, con il sospetto che quelle del traduttore abbiano lavorato più di quelle dello stesso autore, almeno negli ultimi mesi. Quell’«ausgewählt und übersetzt von Christoph Ferber» che campeggia sotto il titolo nel frontespizio non è infatti frase di circostanza, se è vero che l’opera di selezione del traduttore, tra i più navigati ed esperti nel campo della poesia italiana in tedesco, specie all’interno della Svizzera, ha di fatto montato un libro che prima non esisteva, pescando a piacere nella già vasta produzione di Petrini, dalla prima Ellissi (Firenze Libri, 1987) alle notevoli Gazzelle di Thompson (Giampiero Casagrande, 2012) su su fino ai recentissimi Perdimenti (ADV, 2017). Lungi dall’essere quindi soltanto ‒ si fa per dire ‒ un esercizio di traduzione, questo Funamboli del vuoto è implicitamente anche un capitolo importante della bibliografia critica su Petrini (questa sì, purtroppo, ancora piuttosto scarsa). L’onere di presentare il poeta al pubblico di lingua tedesca è, in una

Fabio Fumagalli **** La forma dell’acqua – The Shape of Water, di Guillermo Del Toro, con

Sally Hawkins, Michael Shannon, Richard Jenkins, Doug Jones (USA 2017)

Il poeta ticinese Ugo Petrini. (chlitterature.ch; Yvonne Bohler)

breve e acuta prefazione, del coetaneo e per molti versi affine Aurelio Buletti, che con lui condivide un’idea di poesia attenta alla dimensione minima dell’esistenza quotidiana, indagata con la stessa premura di una poiana che rotei gli occhi «senza perdere / mai di vista il sublime». Prive di titolo e quasi sempre composte da un solo, lungo periodo disposto sulla verticale della pagina (simili in questo allo stile sintattico di Federico Hindermann), le poesie di Petrini affrontano con arguzia e delicatezza i piccoli e grandi temi della vita, la morte in primis, ma anche il passare del tempo, le relazioni tra gli essere umani e il nostro rapporto con il mondo animale. Davvero non mancano gatti, capre, scoiattoli, protagonisti di un bestiario comune a molta poesia novecentesca (si pensi a Orelli e Montale) che inevitabilmente finisce per assumere valenze metaforiche, sprazzi di una riflessione morale nel senso più ampio del termine. L’impressione, rafforzata dal fatto che il libro funziona anche se compulsato liberamente con balzi casuali tra le pagine, è che i brani poetici di Petrini non siano altro che tessere di un unico discorso intrapreso innanzitutto tra sé e sé, e con il lettore soltanto in seconda battuta. Da qui anche l’abitudine di iniziare i testi in medias res, non senza notevoli difficoltà per il traduttore: «Sempre nel posto migliore: / il più fresco d’estate / il più riposto d’inverno», a cui Ferber deve

apporre per chiarezza «Du findest es immer...». Il tedesco, si sa, è lingua meno elastica e meno implicita dell’italiano, e il traduttore a volte deve muoversi veramente come un funambolo che vada incontro al poeta sullo stesso filo. Riesce benissimo quando si tratta di salvaguardare ritmo e suoni dell’originale: «mit dem Schnurrbart / die dunkelsten Höhlen / des Gartens, schnupperst / an Blumen und Grashalmen / in der finsteren Luft» («a fior di baffo / cogli le vibrazioni / di fiori e fili d’erba / fiuti l’aria scura»). A volte qualcosa resta invece sul campo, come un simpatico «merendare» che Ferber rinuncia a tradurre (forse ci sarebbe stato un frühstücken?), e soprattutto, più grave, vengono meno alcuni riferimenti alla cultura popolare e religiosa, assai frequenti in Petrini, come i grani (del rosario) e le stazioni (della Via Crucis) che in tedesco assumono la forma di più banali Korn e Kreuzweg. Dettagli che non inficiano la bontà di un risultato che rappresenta davvero, per Petrini, «i miei trent’anni di poesia», come recita la dedica manoscritta sulla mia personale, solidissima, copia del libro.

Undici anni dopo Il labirinto del fauno Guillermo del Toro firma il suo secondo capolavoro. Confermandosi così fra i pochi cineasti capaci di muoversi in assoluta libertà fra la realtà e l’immaginario, le urgenze del nostro tempo e il surrealismo; e ricordandoci nel contempo quanto valga a Hollywood la presenza dell’invidiabile zoccolo duro messicano (v. Alejandro Gonzales Inarritu e Alfonso Cuaron). La forma dell’acqua non è ciò che appare a prima vista, cioè un altro dei più o meno divertiti film d’horror del suo autore. Con una strana creatura acquatica, proveniente dall’Amazzonia, conservata in una vasca, nel segreto minaccioso di un laboratorio militare. Lì però lavora Elisa (la bravissima Sally Hawkins), donna delle pulizie muta, capace di riservarci infinite sorprese. Siamo di nuovo immersi nella storia, questa volta nel 1962 della paranoica Guerra Fredda. E se il guardiano feroce (Michael Shannon) della creatura marina ricorda certe crudeltà ancora in uso e l’evasione dei due prigionieri sembri a priori impensabile, l’arte cinematografica rende tutto ipotizzabile. La favola prende allora il sopravvento sulla realtà, il sogno si sostituisce all’iconografia sempre più immiserita di quell’America impegolata nel Viet-

Bibliografia

Ugo Petrini, Seiltänzer der Leere / Funamboli del vuoto, scelta e traduzione di Christoph Ferber, prefazione di Aurelio Buletti, Limmat Verlag 2018, 155 pagine.

Vincitore a Venezia, candidato a 13 Oscar: La forma dell’acqua.

nam (o è Trump?). Mentre la splendida partitura musicale di Alexandre Desplat accompagna l’horror apparente verso alcuni modelli d’ispirazione come La bella e la bestia di Cocteau o Il mostro della laguna nera di Jack Arnold, il film si fa romantico, surrealista; capace d’inventarsi su due gocce di pioggia che rigano il parabrezza, diventa addirittura sensuale, erotico. Miracolosamente, riesce a fondere l’armonioso delirio del musical al thriller di spionaggio, la love story sentimentale a uno sguardo su tutti i diversi che abitano il film, compiendo una mutazione nel meraviglioso. **** Il filo nascosto (Phantom Thread), di Paul Thomas Anderson, con Da-

niel Day-Lewis, Vicky Krieps, Lesley Manville, Sue Clark (USA 2017)

Un film segreto, mutevole, talora indecifrabile, uno dei temi affrontati essendo quello di un rapporto di forze. Fra tre personaggi, tre attori: uno straordinario Daniel Day-Lewis, prepotente e al tempo stesso vulnerabile, la dolce, rivelazione lussenburghese Vicky Krieps; e Lesley Manville, la vera padrona della Maison. Tre indimenticabili presenze, che si costruiranno (o, se preferite, distruggeranno) sulla loro diversità e i diversi modi di risolverla. La faccenda è elementare: il celebre stilista degli anni 50 londinesi, Reynolds Woodcock veste la famiglia reale, l’alta società e le star del cinema. Scapolo impenitente, incontra Alma, l’apparentemente innocua cameriera di una piccola pensione e finirà per sposarla. Ma il filo nascosto cui si riferisce il titolo non è soltanto il messaggio su carta che il sarto si premura di cucire all’interno di ogni sua creazione. E nemmeno quello incessantemente percorso, fra gli aghi e le dita, dalle impeccabili operaie sui capolavori d’altissima moda. Si tratta infatti di un film che conduce verso le zone destabilizzanti, di hitchcockiane memoria, come, ad esempio, Rebecca, la prima moglie. Quest’arte della contraddizione, l’evasione continua dalla banalità della solitudine dell’artista, la fuga dal classicismo romantico della rappresentazione verso le praterie del narcisismo e della dipendenza, non avvengono a caso. Ma soltanto grazie al magistrale equilibrio di una scrittura che è la rappresentazione della dismisura.

La parola di Dio Linguistica Ruoli e strutture storiche dell’italiano della Chiesa in un libro della linguista Rita Librandi Stefano Vassere «Far tutto il bene che si può, senza dare impicci a nessuno, cercando di mantenere viva la lingua italiana e le tradizioni della nostra gente. Io insisto molto sull’istruzione. Nel mio lungo viaggio all’America del Nord non feci che ripetere ai nostri connazionali queste parole: la lingua italiana: è questo il segreto per essere forti e uniti. Fino a che l’uomo parla la sua lingua, non perde la fede». Ci sono diverse strade per arrivare al tema dei rapporti tra chiesa cattolica e lingua italiana; perché le intersezioni sono state innumeri e perché a ben vedere le spie di questa molto fruttuosa storia comune sono distribuite a tutti i livelli, dal sistema linguistico alla storia della lingua, alla sociolinguistica più attuale. Si avvisa subito che questo L’italiano della Chiesa, di Rita Librandi, è un profilo storico e come tale affronta poco le realtà dell’attuale ribalta planetaria che la chiesa garan-

tisce alla lingua italiana; un dato che pure meriterebbe ben più di un accenno, più di qualche riga e tre o quattro rinvii bibliografici. Il fatto che il papa parli all’estero quasi sempre italiano, i dispacci della sala stampa, la stessa Radio vaticana, i discorsi e le udienze del mercoledì; insomma, molte modalità comunicative portano in giro l’italiano forse ben più che i classici canali del made in Italy, di musica, pizza, moda, calcio ecc. Una dimensione enorme, che è stata per secoli (ed è ancora in parte) appannaggio del latino ma che garantisce oggi alla nostra lingua rendite sociali e geografiche di grandi numeri e grande clamore. Non così il libro della Librandi, che assume la prospettiva della storia della lingua e racconta il succedersi delle posizioni che l’italiano ha guadagnato con e grazie alla religione cattolica, dalle origini fino a ridosso di questi gloriosi giorni. Nella sostanza, la diffusione del messaggio religioso in tutte le sue modalità (scolastiche,

liturgiche, dottrinali ecc.) e l’influsso della religione sulla struttura linguistica. Gli esempi e le declinazioni nei secoli dei secoli di cammino comune

sono ovviamente tantissimi. A partire dall’inizio, perché una delle tesi sostenute in questo libro riguarda il fatto che sarebbe stata anche una certa politica linguistica della chiesa cristiana a frammentare e ridimensionare il latino e a dissolvere lo stesso Impero romano, vista la scelta precoce dei volgari nella comunicazione ai fedeli e il prestito di legioni di parole al sistema lessicale e sintattico del latino (attenzione a quest’ultimo termine: si sa che fin che si incide sulle parole si incide forse poco; quando però si raggiunge la carne viva di madama sintassi, allora per il sistema linguistico originario si mette male). Comunque è in una certa ricerca della comunicazione agevolata con i fedeli, in tutte le sue forme, che la Chiesa ha sempre promosso la praticità dell’Umgangssprache, abitudini comunicative vicino all’uso orale, un codice dal volto umano e sorprendentemente adatto a tutte le contingenze politiche e a tutte le epoche. Come nel caso dei

contesti di emigrazione, le scuole delle missioni all’estero, gli scalabriniani, i salesiani; una vera e propria pianificazione consapevole e attenta a conservare agli emigrati la lingua d’origine, ma anche a evitare loro l’isolazionismo linguistico della terra di approdo. Nella volontà, quasi politica, di permettere loro in un modo o nell’altro, con un codice o con quell’altro, di frequentare proficuamente il tempio. Insomma, chi voglia occuparsi del successo e della fortuna dell’italiano nei suoi territori e nel mondo non può dimenticarsi di temi di questo genere, che a dire il vero non sono battutissimi nella linguistica italiana. La ricerca di nuove risorse per guadagnare alla nostra lingua i numeri e i valori di scambio dei giorni migliori non può che passare anche da qui. Bibliografia

Rita Librandi, L’italiano della Chiesa, Roma, Carocci editore, 2017.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Cultura e Spettacoli

Sulle note dell’eterno Bach

Il trio e il maestro

attualmente impegnati in una tournée internazionale tra partitura e improvvisazione

a Chiasso con ReisDemuth-Wiltgen il prossimo 8 marzo

Musica A colloquio con l’italiano Danilo Rea e l’iraniano Ramin Bahrami,

Enrico Parola Sono entrambi pianisti, ma sembra il loro unico punto in comune. Uno è iraniano, nato nella Teheran bombardata di Khomeini, l’altro è italiano; il primo è specialista assoluto e quasi esclusivo di Johann Sebastian Bach, vale a dire il più rigoroso, spirituale e geniale compositore barocco; il secondo è un jazzista. Non vanno d’accordo neppure sul menù del loro primo incontro: «Ero andato a sentire un suo concerto a Roma e i nostri agenti avevano organizzato una cena assieme; ci siamo conosciuti davanti a un piatto fumante di spaghetti all’Amatriciana» racconta Danilo Rea, recentemente ospite al Festival di Sanremo e ora impegnato a incidere un disco con Gino Paoli. «Macché, era una cacio e pepe» lo rimbrotta Ramin Bahrami, ambasciatore mondiale della musica per tastiera del sommo Johann Sebastian. Eppure tra loro la scintilla artistica s’è accesa subito, e la miccia è stato proprio Bach: hanno inciso un disco di successo in cui Bahrami esegue pagine bachiane e Rea improvvisa lasciandosi ispirare dalle note del tedesco, «suonandole prima, dopo o sopra le originali». E hanno iniziato una lunga tournée che il 21 febbraio ha festeggiato la cinquantesima tappa, al Dal Verme di Milano. «In realtà, pur concependomi come un jazzista puro ho iniziato in un solco tutto classico» spiega Rea «Ho studiato pianoforte a Santa Cecilia (l’istituzione musicale più prestigiosa di Roma) e me la cavavo bene, avrei potuto avere una carriera anche come pianista. Sono passato al jazz perché adoravo improvvisare, ma anche qui a ben vedere mi inserisco in una tradizione classica perché i grandi del passato, dallo stesso Bach a Mozart e Beethoven, erano grandi improvvisatori». «Già: il primo a riportare sullo spartito tutte le indicazioni agogiche, dinamiche ed espressive fu Beethoven, prima l’interprete era chiamato dal compositore stesso a non fermarsi alla pagina e

ad aggiungere, a creare di suo» conferma Bahrami «Io stesso, suonando con Danilo, ho scoperto e personalizzato questa dimensione che negli ultimi due secoli è andata via via sfocandosi nella classica, fino a perdersi del tutto; mi sento più libero, in qualche modo mi prendo anche meno seriamente, nel senso di essere consapevole che la mia è solo una delle versioni possibili, per me magari la più convincente, ma è appunto una semplice opzione che realizza in un certo momento le possibilità offerte dal testo». Il testo è il punto di partenza ineludibile. Perché abbiano scelto proprio Bach è presto detto: «Perché è il più grande di tutti e perché nella sua musica c’è tutto» scandisce Ramin «C’è il jazz e c’è il rock: nei suoi brani c’è un ritmo impressionante per vitalità e impulso. C’è già Beethoven – se si suona il primo Preludio in do minore del Clavicembalo ben temperato con pedale e affetti romantici vien fuori la Patetica (la Sonata n. 8 di Beethoven, ndr.) e addirittura la breakdance, in certi passaggi capricciosi in cui le mani vorticano sulla tastiera sovrapponendosi. Quindi dalle sue note si può tirar fuori di tutto». E sempre diverso. «Ogni concerto non è mai uguale all’altro: trattandosi di improvvisazioni non posso mai suonare le stesse identiche note, anche se la matrice bachiana si sente. Un conto è suonare all’Umbria Jazz e partire dagli standard (brani fondamentali del repertorio jazzistico, ndr.), un altro è dover dialogare con architetture perfette e rigorosissime». «Infatti la scelta dei brani originali è andata soprattutto verso pagine non troppo mosse, così che Danilo avesse gli spazi per dire la sua» approfondisce Bahrami. «Se linea e armonia cambiano ogni tre secondi è quasi impossibile, se l’evoluzione del discorso musicale avviene con più respiro Danilo ha più tempo e spazio per sviluppare le note che gli vengono in mente mentre suono. Devo ammettere a questo proposito che la scelta dei brani è stata fatta da Mirko Gratton, che è

Un amichevole duello per due grandi pianisti.

il nostro responsabile discografico: è stato lui a sottolineare l’importanza di partire da brani non troppo rapidi». L’aria sulla quarta corda (divenuta la popolare sigla di Quark) segue al Preludio in do maggiore dal Clavicembalo ben temperato, immancabile arriva la meravigliosa Aria da cui Bach trasse le vertiginosi trenta Variazioni Goldberg: «Qui si tocca il Paradiso e non solo con un dito» quasi si commuove Bahrami «è la più bella aria in stile italiano mai scritta, e lui non mise mai piede nel Belpaese, imparò il linguaggio di Vivaldi, Pergolesi e degli operisti semplicemente trascrivendone le opere. Come Picasso nell’arte visiva, Bach si abbeverò a tutte le fonti europee, Inghilterra, Francia, ovviamente Germania, Spagna, e ripropose tutte queste espressioni facendole proprie, portandole al massimo grado di perfezione e dando loro una cifra inconfondibile, la sua. Per questo la sua musica trascende i confini geografici, ma non solo, travalica anche quelli cronologici: quando senti certe sue opere non sai dire se siano state composte trecento anni fa, un secolo

addietro, oggi o vengano dal futuro, è la musica più universale che esista». «Universale non solo come forma artistica ma anche come contenuto spirituale», chiosa Rea, «quando si suona assieme Bach si ha l’impressione che il legame tra esecutori diventi via via più profondo; semplicemente, oltre alla simpatia che è subito sbocciata tra noi, posso dire che dopo ogni concerto io e Ramin ci sentiamo più amici, c’è l’impressione di conoscerci più nell’intimo». Proprio per questo anche il futuro potrebbe essere nel nome di Bach: «Quello prossimo perché ci attendono ancora concerti non solo in Italia, ci spingeremo fino in Cina e Giappone». Rea anticipa, «Vorremmo preparare qualche altro progetto, ma non necessariamente dedicato a un altro autore: il catalogo di Johann Sebastian è tanto vasto e tanto bello...» L’ultima parola è di Bahrami, sul pubblico: «Uniamo amanti della classica e del jazz, vengono giovani e anziani; però è chiaro che le ammiratrici sono tutte per Danilo: ha vent’anni più di me, ma è nettamente più bello!»

Jazz Joshua Redman

La rassegna «Tra jazz e nuove musiche», creata da Rete Due RSI con il sostegno del Percento culturale di Migros Ticino, proporrà l’8 marzo prossimo al Teatro di Chiasso (ore 22.15) un trio che viene dal Lussemburgo. Michel Reis al pianoforte, Marc Demuth al contrabbasso e Paul Wiltgen alla batteria, i tre giovani musicisti che lo compongono, hanno al loro attivo tre ottimi album registrati tra il 2013 e oggi. Occorre dire che la realtà jazzistica del piccolo Stato al centro dell’Europa è per molti versi simile a quella del nostro paese. A dispetto della relativa ristrettezza del territorio nazionale, grazie al suo ruolo predominante all’interno della struttura amministrativa dell’Unione Europea, il Lussemburgo è molto dinamico e attrattivo dal punto di vista culturale. Vi si trovano numerose ed ottime scuole di jazz, mentre il cartellone della stagione concertistica annuale propone numerosi festival all’aperto a cui partecipano star internazionali e talentuosi solisti locali. Reis, Demuth e Wiltgen fanno effettivamente parte di questo ricco vivaio di solisti. Come per ogni giovane jazzista che si rispetti hanno un curriculum costruito attorno a una serie di collaborazioni di livello internazionale. Ognuno di loro ha trascorso un periodo di studio e di full immersion nella realtà jazzistica statunitense. Un battesimo del fuoco assolutamente necessario per chi voglia intraprendere una carriera di alto profilo e che è usuale anche per gran parte dei giovani musicisti di casa nostra. Tali esperienze all’estero offrono la concreta possibilità di costituire re-

Orizzonti (musicali) più o meno nuovi Musica A Berlino si è tenuta Avant Première, la più importante fiera del settore Zeno Gabaglio La nostra contemporaneità – almeno da un trentennio – è stata definita l’era dell’immagine: qualsiasi contenuto dev’essere veicolato da un’immagine appropriata, da un elemento visivo che catturi l’attenzione valorizzandolo. Abbastanza in fretta si è anzi giunti al paradosso per cui – di fronte a un’immagine efficace – quasi ci scordiamo di andare a verificare se anche il contenuto lo sia altrettanto. Va da sé che pure la musica – elemento non-visivo per sua stessa essenza – si è dovuta adeguare. E se a farla da padrone inizialmente è stato il pop (con l’affermazione del videoclip e dei canali tematici tipo MTV) non si è dovuto attendere molto prima che tutti gli altri generi si adeguassero alle nuove necessità di comunicazione. Addirittura la classica, che normalmente non brilla nella comprensione dell’evolversi di gusti e abitudini. Poi la diffusione dell’immagine musicale ha cambiato pelle, si è moltiplicata e parcellizata: youtube ha cominciato a regalarci flussi di musica e immagini, MTV ha smesso di diffondere videoclip votandosi completamente a reality non musicali, le reti generaliste hanno invece recuperato il fenomeno-musica come alibi (anche

La locandina di Avant Première, andato in scena a Berlino dal 17 al 21 febbraio

sostanziale) nei format talent show. Il tutto a una velocità così sorprendente da destabilizzare ogni istituzione che fino a poco prima – e per decenni in modo quasi immutato – aveva realizzato prodotti visivi partendo da contenuti musicali, in primis le televisioni e le loro riprese di opere e concerti. Una delle migliori occasioni per tastare il polso alla situazione è costituita da Avant Première Music+Media, un evento-mercato parallelo alla Berlinale cinematografica che viene annualmente organizzato da IMZ, l’istituzione con base a Vienna affidataria

– direttamente dall’UNESCO e già nel 1961 – del non semplice mandato di «preservare le arti performative in quanto bene culturale». Si tratta di cinque giorni in cui i principali produttori e distributori di materiale video-musicale – e si va da solidissimi enti statali quali BBC, ZDF, ORF, ARTE a compagnie private; da festival-produttori a sale o formazioni sinfoniche – si incontrano e si confrontano per arrivare ad accordi commerciali ma anche per scambiarsi idee e know-how tecnologico. Il dato davvero sorprendente è quello per cui il prodotto più ricorrente è quello che parrebbe (per sua natura) il meno televisivo di tutti: l’opera lirica. In un trend contemporaneo dove l’attenzione umana sembra accorciarsi e disperdersi, chi mai potrebbe essere catturato da spettacoli di 180 e più minuti dove – malgrado la regia e la tecnologia abbiano fatto passi da giganti – tutto sostanzialmente si svolge su un unico palco? E dove, per di più, interi minuti di azione devono arrestarsi per consentire al cantante di intonare un’aria? Eppure di opere se ne producono tante, con un’incredibile inflazione dei «soliti» titoli – tra le novità del 2018 si sono contate almeno cinque diverse Carmen... Una spiegazione potrebbe essere legata al fatto che la produzione di ope-

re è già talmente cara che aggiungere un decimo del budget per realizzarne un’ottima versione filmica non sembra uno sproposito. E con la versione ripresa dalle telecamere si può inoltre coinvolgere quel pubblico – come da tempo avviene in Ticino, con il successo della Royal Opera House di Londra nei nostri cinema – che altrimenti non si potrebbe mai raggiungere con le rappresentazioni teatrali. E questa in chiave futura (a causa dei sempre maggiori costi di allestimento) può apparire come una delle poche possibilità di sopravvivenza per l’opera stessa. Perché è difficile continuare a scommettere sulle diffusioni televisive che, per esempio, in una nazione lirica come la Francia avvengono solo la notte tra domenica e lunedì su TF1. L’auto-finanziamento è quindi un fattore nuovo e ricorrente nella produzione video-musicale: anche per le orchestre (tutte le più prestigiose), che aprono propri canali digitali a pagamento; per le sale, che offrono pacchetti video-inclusivi; per i festival che puntano sull’immagine da remoto per eternare e promuovere il proprio valore. E anche qui, a stupire, è il continuo presentarsi dei soliti nomi: Barenboim e Rattle. L’usato sicuro che, solo, sembra giustificare ogni investimento videoculturale.

Suonano insieme dal 1998, hanno all’attivo tre album.

lazioni musicali di valore con solisti di prestigio: ed è proprio in questo modo che si è creata la partnership (ormai pluriennale) con il sassofonista californiano Joshua Redman. I tre lo hanno coinvolto per la prima volta nel 2016, in occasione della tournée di presentazione del loro secondo album Places in between. La scelta si era rivelata oltremodo interessante, oltre che per la compattezza e l’originalità del sound complessivo, anche per la reazione estremamente positiva da parte del fuoriclasse americano. Redman (cosa tutt’altro che usuale) già in anni precedenti alla loro collaborazione aveva addirittura inserito nel repertorio della propria band alcune composizioni che facevano parte del repertorio elaborato dal trio lussemburghese. Al festival di Chiasso i tre presenteranno i brani del loro ultimo album Once in a blue moon (in uscita nella prossima primavera) e ancora una volta Joshua Redman si unirà al trio portando il proprio contributo di esperienza e di energia. /AZ Per informazioni

www.rsi.ch/jazz


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Cultura e Spettacoli

Berlino, politicamente corretta

Berlinale Quest’anno più che mai si è tenuto conto di minoranze e di messaggi politici; di tutto rispetto

e di alta qualità la presenza svizzera alla kermesse

Nicola Falcinella Un 68° Festival del cinema di Berlino come sempre fin troppo affollato di titoli tra le diverse sezioni, con la consueta attenzione ai temi sociali, ai Paesi poco frequentati cinematograficamente, agli esordienti e alle registe donne, tanto che la selezione appare un po’ fatta con il bilancino del politicamente corretto. Impegnato, lucido e insieme e toccante, è il documentario Eldorado dello svizzero Markus Imhoof, presentato fuori concorso nella collocazione prestigiosa della selezione ufficiale. L’Eldorado del titolo è ciò che sognano i migranti che scappano dai luoghi d’origine e sbarcano sulle coste dell’Italia meridionale con l’obiettivo di raggiungere l’Europa del nord. Il regista elvetico segue il viaggio dai salvataggi in mare con le navi italiane, poi i centri d’accoglienza, il lavoro clandestino fino ad arrivare in Svizzera, collegandosi in questo a Benvenuti in Svizzera di Sabine Gisiger, di prossima uscita nelle sale ticinesi dopo il passaggio a Locarno Festival. Per Imhoof è un ritorno al suo capolavoro La barca è piena (1981), a riflettere sull’accoglienza e i suoi limiti, in una situazione diversa da quella della Seconda guerra mondiale, ma con parecchie analogie, in primis i bisogni basilari di tanti esseri umani in fuga. Il regista parte dall’esperienza familiare: in piena guerra, mentre il padre era militare «sul confine», sua madre accolse in casa una

bambina milanese rifugiata, Giovanna, poco più grande di lui. Il rapporto continuò in maniera epistolare (e nel film in forma di dialogo a distanza) dopo il ritorno a casa della ragazza e fino alla sua morte prematura. Con un parallelo mai schematico e con grande sensibilità e forza, Imhoof filma chi oggi fugge dalla Siria, dalla Somalia, dalla Costa d’Avorio e da altri Stati, mostra il lavoro dei marinai, dei soccorritori e dei medici, denuncia la chiusura dell’Europa e l’ottusa burocrazia che rende molti immigrati schiavi a disposizione di imprenditori agricoli senza scrupoli che li sfruttano nei campi. Il regista racconta storie di persone e i meccanismi criminali di un’economia che sembra fondarsi sulle ingiustizie. La barca non è piena, alla barca servono marinai, dice il cineasta. La Svizzera ha anche proposto ben tre opere nella sezione Panorama. Nicolas Wagnières ha sviluppato nel documentario Hotel Jugoslavija un cortometraggio del 2007. Di madre belgradese emigrata negli anni 60, il regista ha filmato l’enorme albergo di Belgrado dal 2005 per una decina d’anni e ora lo utilizza come simbolo delle traversie di un Paese che non c’è più, passato dalle ambizioni di Tito alle incertezze attuali attraverso guerre fratricide. Anche Wagnières utilizza memorie personali, delle vacanze da bambino al mare e a Belgrado, per allargarsi a una riflessione generale. Belli i due film della serie per la televisione Ondes de choc, composta da

«Alla fine tutto quello che resta sono i ricordi fondati sull’amore», sosiene Imhoof. (markus-imhoof.ch)

quattro parti affidate ad altrettanti registi diversi a partire da fatti realmente accaduti. Ursula Meier si conferma, dopo Home e Sister, autrice di alto profilo internazionale con Journal de ma tête. Il 27 febbraio 2009, in Vallese, il diciottenne Benjamin (Kacey MottetKlein) uccise i genitori con la pistola del padre dopo aver inviato una busta con il suo diario degli ultimi giorni a Esther (un’intensa Fanny Ardant), la professoressa di francese che invitava gli studenti a scrivere i loro pensieri. L’insegnante va in carcere a trovare il ragazzo, che sarà condannato a sette

anni, stabilendo con lui un rapporto che ella stessa definisce assurdo. Quanto va preso sul serio ciò che scrive un ragazzo in un diario? Cos’è soltanto espressione di ribellione e cos’è sintomo di disagio profondo o la manifestazione di un’intenzione? Il film riflette sulle motivazioni e le conseguenze del gesto, la responsabilità dell’insegnante, il rapporto tra vita e letteratura. In Prénom: Mathieu, Lionel Baier va all’estate 1986 per raccontare del diciassettenne Mathieu. Una notte facendo autostop fu aggredito da uno sconosciuto e sopravvisse allo stupro e alle

violenze da parte di uno che aveva già ucciso cinque ragazzi in diverse zone della Svizzera (uno di Orselina). Tra poliziesco e thriller psicologico, il ritorno alla normalità del ragazzo, che cerca di ricordare l’aspetto del colpevole per aiutare le indagini. C’è una buona ricostruzione dell’epoca, con i mondiali di calcio e le proteste per la costruzione dell’autostrada da Berna a Losanna. Il regista aggiunge un tocco di visione che è molto nel suo stile. I restanti episodi, già presentati alle Giornate di Soletta, sono La Vallée di Jean-Stéphane Bron e Sirius di Frédéric Mermoud. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Nostalgia bandita con la verve di Sala In scena Oltre alla rivincita del dialetto,

prende piede il teatro integrato Giorgio Thoeni

Il carro di Tespi di Flavio Sala è ripartito con Un altro bel garbüi, la nuova commedia scritta dal comico locarnese con Gionas Calderari. Al suo debutto mercoledì scorso al Teatro Sociale di Bellinzona c’era il tutto esaurito. Ovviamente lo spettacolo era molto atteso. Dapprima per il gran successo della passata stagione de La solita süpa, lavoro d’esordio della Compagnia di Flavio Sala, poi per il seguito raccolto da Frontaliers Disaster, il film più visto nelle nostre sale fino a pochi giorni fa. Un’attesa ulteriormente corroborata dall’operazione nostalgia operata dalla RSI con la riproposta televisiva di produzioni dialettali d’archivio che certamente hanno alimentato l’appetito per il teatro vernacolare di qualità e di cui si sente la mancanza. Sala queste cose le ha capite da un pezzo e oltre al fiuto ci ha messo la stoffa d’autore-attore-regista originale con l’obiettivo di superare lo scoglio amatoriale e riscoprire una vena professionale che sembrava essersi prosciugata. Pertanto, dialoghi ritmati e cadenzati da ghiotte battute nostrane, in aggiunta a una struttura drammaturgica collaudata da cui emergono personaggi e caratteri… e il gioco è fatto. Un primo tempo spumeggiante e ricco di sorprese, un secondo tempo ancora un po’ lacunoso in attesa del lieto fine con attori che non fanno cilecca. Dall’esuberante fascino di Rosy Nervi alla brillante Leonia Rezzonico in versione cougar. Dall’affettuosa presenza di Sandra Zanchi all’inossidabile Orio Valsangiacomo con Beppe Franscella. Con gli

Concorso

L’officina in cui succede tutto...

di Corsier sur Vevey

Le sorprese del teatro integrato

Gli spettacoli dei Giullari di Gulliver sono un esempio di semplicità al servizio della creatività senza prendersi troppo sul serio. Sviluppano spunti di riflessione in un’atmosfera educativa gioiosamente condivisa: aria fresca a confronto di certa irrespirabile prosopopea farlocca di chi dichiara di conoscere tutti i segreti del teatro. La proposta dal collettivo si inserisce nella categoria del teatro integrato, un laboratorio espressivo in cui interagiscono professionisti con persone diversamente abili, un settore delicato che richiede grandi qualità e impegno da parte dei suoi animatori. La rassegna Home del Teatro Foce ha proposto In attesa di un buon momento, recente creazione del collettivo guidato da Prisca Mornaghini e Antonio Cecchinato in scena con Aida Ilic, Caterina Longchamp, Mario Cavallo, Mattia Gusberti, Kevin Parisi, Claudio Riva e Daniele Zanella. Il risultato è decisamente interessante. Racconta un viaggio in compagnia della Morte, personaggio inquietante, surreale ma innocuo, deus ex machina attraverso la storia dell’esodo di una compagnia di giullari in cerca del luogo ideale dove poter praticare liberamente la propria arte. In un clima di gioco e umorismo trovano spazio i fantasmi narrativi di Joseph Roth, accenni al Manuale minimo dell’attore di Fo e divertenti siparietti musicali da La ballata di Mackie Messer a La spada nel cuore di Little Tony fino al finale sulle note de La vie en rose. Con una buona dose di autoironia il teatro del collettivo snocciola la sua metafora sulla migrazione e sulla diversità con leggerezza e originalità: qualità riconosciute nel 2002 con il Premio ASTEJ (Associazione svizzera del teatro per l’infanzia e la gioventù) e nel 2014 con il Premio Lavezzari.

Tra jazz e nuove musiche Rassegna di Rete Due Cinema Teatro, Chiasso, Giovedì 8 marzo, ore 22.15 Reis-Demuth-Wiltgren Trio & Joshua Redman J. Redman sax; M.Reis, piano; M. Demuth, contrabbasso; P. Wiltgen, batteria. www.rsi.ch/jazz Minispettacoli Rassegna teatrale per l’infanzia Teatro San Giovanni, Minusio Domenica 11 marzo, ore 15.00 e ore 17.00

www.azione.ch/concorsi

Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.

Musei Curiosità e meraviglie nel «Chaplin’s world»

indispensabili Moreno Bertazzi e John Rottoli, simpatici boys di Flavio Sala, incallito sciupafemmine. Il tutto calato nella bella e funzionale scenografia di Mario Del Don: un’auto-officina di paese dove può capitare di tutto.

Cenerentolo Una fiaba con i ruoli ribaltati della Compagnia Hebanera Teatro di Pisa. Adatto a bambini dai 3 anni. www.minispettacoli.ch

Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate.

Nell’incredibile mondo di Charlot

I vincitori saranno estratti a sorte fra tutti i partecipant.

Per aggiudicarsi i biglietti basta seguire le istruzioni contenute nella pagina del sito www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!

Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino

Charlie Chaplin davanti alla sua villa romanda in un’immagine del 1969. (Keystone)

Giovanni Medolago «Abbiamo una bella casa con quattordici ettari di terreno sopra Vevey, città bella e antica, che ha ospitato Rousseau e Courbet. La vista del lago e delle montagne ha un fascino indescrivibile e i bambini sono tutto il giorno in esplorazione nei boschi e nei frutteti, si arrampicano sui ciliegi, i peschi, i susini, i meli, i peri. Nelle giornate di sole come queste pranziamo nel frutteto e dovresti sentire quant’è buono il mais che coltiviamo... e le fragole, i lamponi e il ribes nero.

Chaplin, colpito dalle conseguenze del maccartismo, in Svizzera trovò un rifugio ideale La posizione è strategica, in due ore raggiungiamo in pratica tutte le capitali europee. Sono stato parecchie volte a Londra e a Parigi, ma la maggior parte del tempo la passo a Corsier – è proprio la casa di campagna ideale». (da una lettera a Clifford Odets, sceneggiatore/ attore). Così scriveva Charlie Chaplin (CC) all’amico rimasto in quegli USA dove Charlot, il Vagabondo, non poté più rientrare, colpito da uno degli ultimi colpi di coda del maccartismo. Per la verità, non solo la casa bensì tutta la campagna intorno a Vevey è ideale, sembra quella «Svizzera verde» cantata da De Gregori. È lo stesso Charlot a dare il benvenuto ai visitatori del Chaplin’s World, con una statua sull’uscio, ma l’inconfondibile omino con baffetti cilindro e scarpe grosse già ci appa-

re dai giganteschi murales dipinti su due palazzoni, poco prima dell’ultima rampa che porta al Manoir de Ban, un villone affacciato sul Lemano costruito nel 1840 dall’architetto vodese Philippe Franel nel mezzo di un parco dalle sequoie secolari. Dal 16 aprile dello 2016 (quel giorno CC avrebbe compiuto 127 anni, essendo nato nella Londra dickensiana del 1889), sono aperte al pubblico le porte dell’elegante maniero, al quale è stato affiancato «le Studio», ed è da lì che inizia la visita. Emozionante, diciamolo subito, poiché ci fa toccare con mano la definizione di cinema quale fabbrica dei sogni. C’è tuttavia molto di reale e ben concreto in quello che sembra riduttivo definire semplicemente museo: le vere foto dei tuguri dove CC visse un’infanzia tormentata quanto appassionante (a cinque anni era già sul palco, per sostituire il babbo, troppo ubriaco per reggersi in piedi) ci introducono alla stanzetta dove viveva invece con Il monello (il piccolo, geniale attore Jackie Coogan), primo lungometraggio e primo grande successo di Charlot dopo un’infinita serie di «due rulli», quei cortometraggi da 20 minuti circa che noi chiamiamo «comiche». Il visitatore può letteralmente dondolarsi nella baracca pericolante lassù nel Klondike, dove Charlot contrasse «La febbre dell’oro», non così alta tuttavia da impedirgli d’inscenare il balletto delle scarpe, quelle scarpe (in mostra a Corsier) che finirà per mangiarsi, suole comprese. Spezzoni di film celebri, estratti dai Super 8 familiari (scelti per offrirci CC in improvvisate gag domestiche), foto e un’infinità di mirabilia ci permettono di scoprire non solo le soluzioni escogitate per girare questa o quella scena, ma anche qualche tratto del

carattere dell’uomo/artista CC. Per esempio la sua pignoleria nel registrare, sino all’ultimo cent, costi e ricavi dei suoi film: per The Gold Rush spese 923’886,45 dollari per 170 giorni di tournage e l’impiego di 600 comparse, trasportate in Alaska con treni speciali! C’è poi l’aspetto ludico: potete farvi dare una spuntatina ai capelli nel salone dell’umile barbiere sosia di Hinkler nel Grande dittatore. Si passa poi al Manoir, dove spiccano eleganza e gusto che non scivolano mai nell’opulenza sfacciata. La raffinata sala da pranzo perfettamente apparecchiata con ceramiche e cristalli preziosi; il pianoforte dove CC compose le musiche dei suoi film; la biblioteca e lo studio dove presero forma le sceneggiature dei suoi lavori e infine la camera da letto. La signora Chaplin, al secolo Oona O’Neill (figlia del drammaturgo Eugene), l’ha conservata intatta dopo la morte del suo geniale e affascinante marito, avvenuta – ultimo coup de théâtre – la notte di Natale del 1977. «In questa casa i nostri genitori hanno vissuto 25 anni felici» – hanno dichiarato concordi gli eredi di CC e Oona. E la figlia forse più famosa, Géraldine, ha voluto aggiungere: «Mamma voleva tanti figli, e a papà piaceva vederla col pancione!». Venticinque anni di felicità confermati dalle parole che chiudono l’autobiografia di un artista che con la sua grazia ha saputo conquistare (e far ridere) più generazioni nel mondo intero: «Oltre il lago vedo i monti silenziosi, e in questo stato d’animo non penso che a godermi la loro magnifica serenità». Dove e quando

Chaplin’s World, Corsier sur Vevey (Rue de Fenil 2). www.chaplinsworld.com


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Idee e acquisti per la settimana

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Attualità Il Pan dal Pepp è un pane rustico preparato secondo un’antica ricetta tradizionale Ingredienti

Per la produzione del Pan dal Pepp, la panetteria Jowa di S. Antonino utilizza farine di frumento chiaro e scuro e tritello di segale. L’impasto è inoltre arricchito con semi misti di lino, sesamo, zucca, girasole e fiocchi d’avena. Tutti i cereali utilizzati sono certificati TerraSuisse, ossia provengono da un’agricoltura sostenibile dove i contadini devono rispettare severe disposizioni in materia di protezione del suolo e utilizzo di prodotti fitosanitari e fertilizzanti. Aspetto

Già a prima vista il Pan dal Pepp spicca per la sua rusticità e il colore scuro. La crosta croccante dalla forma irregolare e i fiocchi d’avena in superficie promettono da subito un gusto del tutto speciale. Sapore

Il profumo intenso nasconde un pane dal sapore antico, aromatico e deciso. La mollica è scura, morbida e leggermente umida. Queste qualità permettono una conservazione più lunga. Abbinamenti

Date le sue caratteristiche, questo pane speciale si sposa bene con le pietanze più variegate, dai formaggi dell’alpe a quelli morbidi, dagli affettati stagionati a quelli freschi, dal burro e marmellata al salmone affumicato. Un’autentica bontà tagliato a fettine sottili, leggermente tostato e usato per preparare stuzzicanti crostini per l’aperitivo.

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A grande richiesta ritornano i pomeriggi in panetteria dedicati ai bambini. Il primo appuntamento di quest’anno è previsto per mercoledì 14 marzo, dalle ore 14.00 alle 16.30 circa, presso la «Panetteria della Casa» del Centro S. Antonino. I piccoli partecipanti tra i 7 e i 14 anni saranno accolti dai panettieri della Jowa e potranno non solo scoprire come si produce il buon pane fresco della Migros, ma anche mettere letteralmente le mani in pasta per creare delle golose e simpatiche specialità pasquali a base di pasta per la treccia. Le bontà realizzate si potranno infine portare a casa. Il pomeriggio è riservato a 10 bambini. Per partecipare è necessario iscriversi telefonando al numero 091 850 82 76, giovedì 1° marzo, a partire dalle ore 10.00.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Idee e acquisti per la settimana

Veggie Bag: i sacchetti sostenibili per frutta e verdura Attualità L’alternativa ecologica ai sacchetti di plastica usa e getta

Flavia Leuenberger Ceppi

Contribuire a ridurre il consumo di plastica, rispettivamente il volume dei rifiuti, è un tema che a Migros sta da sempre molto a cuore. Entro la fine del 2020, nell’ambito del programma di sostenibilità «Generazione M», Migros si è prefissata come obiettivo di ottimizzare di oltre 6000 tonnellate il materiale da imballaggio rispettoso dell’ambiente. All’inizio del 2017, sono stati introdotti i sacchetti riutilizzabili Veggie Bag in tutti i supermercati, che offrono la possibilità alla clientela di acquistare frutta e verdura sciolte in modo più sostenibile, evitando di far capo ai sacchetti di plastica usa e getta. Questa novità ha fatto registrare fin da subito un successo oltre ogni aspettativa. Le Veggie Bag sono state appositamente sviluppate per contenere frutta e verdura e possono essere riutilizzate più volte. Inoltre, essendo realizzate in resistente poliestere privo di sostanze nocive, si possono lavare in lavatrice a 30°C in modo da prolungarne ulteriormente l’utilizzo. Nelle Veggie Bag si possono inserire diverse varietà di frutta e verdura. È sufficiente pesare prima i prodotti separatamente e stamparne di ognuno l’etichetta con il codice a barre. Le etichette, infine, devono essere incollate sull’apposita linguetta in tessuto a lato della Veggie Bag.

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Da Micasa è arrivata la primavera

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Le giornate si allungano e il clima si fa sempre più piacevole: c’è aria di primavera! La stagione del risveglio della natura bussa alle porte anche da Micasa S. Antonino dove già vi attendono tante fresche idee d’arredo originali. La collezione Primavera & Estate 2018 proposta nel nuovo catalogo offre stuzzicanti soluzioni per tutti gli ambienti della casa, dalla camera da letto all’ufficio, dalla sala da pranzo alla stanza dei bambini, dal soggiorno agli spazi esterni. Quest’anno la tendenza principale sono i colori pastello e le forme sobrie ma molto confortevoli del mobilio, mentre accessori dal design unico e spensierato attirano gli sguardi sia dentro, sia fuori casa. Un occhio di particolare riguardo è stato riservato alla camera da letto, che diventa un luogo super accogliente, ma in cui viene ottimizzata l’organizzazione, per rilassarsi sempre al meglio. Infine, grazie ai mobili per l’esterno in stile Ibiza, stare all’aria aperta, nel giardino di casa o in terrazza, sarà come essere sempre in vacanza.

La nuova collezione viso Secrets of Camouflage di Deborah Milano promette in pochissimi gesti un viso bellissimo, senza imperfezioni e un comfort assoluto. Studiata per correggere inestetismi e discromie, permette di ottenere un risultato impeccabile senza l’antiestetico effetto maschera. La linea è composta dal Face Primer in due tonalità per levigare e uniformare il tono della pelle; dal-

lo stick fondotinta light e dark per una massima coprenza; mentre la Concealer Palette con sei tonalità di correttori ad alta coprenza è in grado di correggere tutte le imperfezioni grazie alla tecnica «color correcting». Infine, non manca nemmeno un pratico applicatore con manico per una stesura precisa sia di correttori sia di fondotinta in crema. In vendita nelle maggiori filiali Migros.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Idee e acquisti per la settimana

Aproz

Una fruttata novità Cosa succede quando l’acqua minerale naturale svizzera viene arricchita con una nota fruttata? Aquella Taste, ovviamente! La linea di Aproz è stata creata nel 2016 e ora propone una rinfrescante novità: accanto al dissetante gusto Limone-Limetta, ecco il nuovo aroma FragolaMenta, la combinazione che regala un assaggio d’estate durante tutto l’anno. Nella produzione di queste bevande vengono impiegati esclusivamente aromi naturali, e inoltre contengono zero calorie.

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20% Tutti i cereali per la colazione bio (Alnatura esclusi), per es. semi di girasole, 400 g, 1.80 invece di 2.25

a partire da 2 pezzi

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Tutto il caffè Exquisito, in chicchi e macinato, Tutto l’assortimento di confetture Favorit a partire da 2 pezzi, –.60 di riduzione l’uno, per es. da 500 g e da 1 kg, UTZ per es. macinato, 500 g, 6.15 invece di 7.70 albicocche del Vallese, 350 g, 3.35 invece di 3.95


conf. da 2

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Chips Zweifel in conf. da 2 al naturale e alla paprica, per es. alla paprica, 2 x 175 g

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20% Tutte le noci Party e bio nonché Amazing Mix You per es. arachidi Party tostate e salate in bustina, 250 g, 1.15 invece di 1.45

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4.80 invece di 6.– Chicchi di mais M-Classic in conf. da 6 6 x 285 g

a partire da 2 pezzi

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Tutto l’assortimento Migros Topline e Sistema Microwave a partire da 2 pezzi, 50% di riduzione, offerta valida fino al 12.3.2018

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25% Biscotti Walkers in conf. da 3 Shortbread Highlanders, Chocolate Chip Shortbread o Belgian Chocolate Chunk, per es. Chocolate Chip Shortbread, 3 x 175 g, 11.20 invece di 15.–

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7.20 invece di 14.40 Filets Gourmet à la Provençale Pelican in conf. speciale, MSC surgelati, 800 g

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di riduzione l’uno Tutto l’assortimento Salsa all’italiana a partire da 2 pezzi, –.50 di riduzione l’uno, per es. alla napoletana, 250 ml, 1.10 invece di 1.60

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Sminuzzato di pollo Optigal in conf. da 2 Svizzera, surgelato, 2 x 300 g

Carta per uso domestico Twist in conf. speciale Recycling, 16 rotoli, offerta valida fino al 12.3.2018

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Ovetti Freylini Classic Mix Frey in sacchetto, UTZ Spray & Wash Total in set da 2 1,3 kg 2 x 500 ml, offerta valida fino al 12.3.2018

50% Tutti gli ammorbidenti Exelia in flacone per es. Violet Senses, 1 l, 3.25 invece di 6.50

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18.40 invece di 23.– Detersivi per capi delicati Yvette in conf. da 2 2 x 2 l, per es. Black, offerta valida fino al 12.3.2018


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Altre offerte. Pesce, carne e pollame

Altri alimenti

Tutte le bevande istantanee al cacao e al malto (Ovomaltine e Caotina escluse), per es. Califora au chocolat, 500 g, 4.70 invece di 5.90 20%

Shampoo micellare Nivea, sensitive o purificante, per es. sensitive, 400 ml, 5.90 Novità ** Balsamo anti-ingiallimento e per riflessi argentati Belherbal, 250 ml, 4.35 Novità **

Purea di patate Mifloc in conf. speciale, 5 bustine, 5 x 95 g, 4.55 Hit Orata reale, Grecia/Croazia, in conf. da 2 pezzi, per 100 g, 1.65 invece di 2.40 30% Nuggets di tacchino, prodotti in Svizzera con carne di tacchino dal Brasile, in conf. da 2 x 250 g / 500 g, 9.40 invece di 12.60 25%

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20% Shampoo e balsami Elseve in conf. da 2 per es. shampoo Color-Vive, 2 x 250 ml, 5.65 invece di 7.10, offerta valida fino al 12.3.2018

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Pane e latticini

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Pane delle Alpi TerraSuisse, 380 g, –.40 di riduzione, 2.20 invece di 2.60

Pan dal Pepp TerraSuisse, 400 g, 2.30 invece di 2.90 20% Colomba e Colombella Jowa, 120 g, per es. Colombella, 120 g, 2.– invece di 2.50 20% Tutti i sandwiches M-Classic, TerraSuisse, per es. sandwiches, 4 pezzi, 260 g, 1.60 invece di 2.– 20%

30% Tutto l’assortimento di calzini Elbeo per es. calzini da uomo in conf. da 3, antracite, n. 43–46, 11.20 invece di 16.–

20%

Tutto l’assortimento L’Oréal (confezioni da viaggio e confezioni multiple escluse), a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione, offerta valida fino al 12.3.2018

Novità

20x PUNTI

Chiefs Drinks, disponibili in diverse varietà, per es. al cioccolato, 330 ml, 3.25 Novità **

Tutti gli alimenti per bebè in vasetto Nestlé, per es. mela-lampone bio NaturNes, 125 g, 1.40 20x Punti ** Tutte le gallette di riso e di mais (Alnatura escluse), a partire da 2 pezzi 20% Patate fritte e patate fritte al forno M-Classic, surgelate, 2 kg, per es. patate fritte, 3.90 invece di 7.85 50%

Gipfel alle nocciole, 120 g, 1.80 invece di 2.30 20%

a partire da 2 pezzi

Ketchup Heinz in conf. da 2, Tomato, Hot o Light, per es. Tomato, 2 x 700 g, 4.80 invece di 6.– 20%

Schiuma da barba mini Nivea Men, 50 ml, 1.50 Novità **

Praliné Collection Frey, UTZ, Spring Edition, 420 g, 9.80 invece di 19.60 50% Lenticchie, lenticchie con pancetta, fagioli bianchi o chili con carne M-Classic in conf. da 4, per es. fagioli bianchi, 4 x 440 g, 3.85 invece di 5.80 33% Gamberetti crudi sgusciati da 750 g e capesante in conf. da 2, 2 x 200 g, Pelican, prodotti surgelati, per es. capesante crude Pelican, MSC, 13.70 invece di 19.60 30%

Baguette alla quinoa con funghi e porri, 155 g, 3.80 Novità ** Aquella Taste fragola-menta da 1,5 l e in conf. da 6, 6 x 1,5 l, per es. 1,5 l, 1.60 Novità *,**

Ovetti di cioccolato Freylini Frey, UTZ, Classic Mix da 264 g, Special Mix, lamponi e cheesecake, per es. Special Mix in scatola, assortiti, 600 g, 13.80 Novità **

Mitico Ice Tea alla rosa canina e all’ibisco, 50 cl, 1.10 Novità *,**

Capsule di cranberry Sanactiv, 30 capsule, 11.20 Novità **

Sciroppo al gusto di caramella al lampone, 75 cl, 3.50 Novità *,**

Deodorante roll-on Dry Active Nivea, 50 ml, 2.60 Novità **

Succo di carote fresche di campo Alnatura, 330 ml, 1.40 Novità *,**

Deodorante roll-on Dry Active Nivea Men, 50 ml, 2.60 Novità **

Red Bull Ruby Edition, Pink Grapefruit, 250 ml, 1.70 Novità *,**

Shampoo antiforfora Men Ultra Head & Shoulders, sollievo cute istantaneo, Old Spice o pulizia profonda, per es. sollievo cute istantaneo, 260 ml, 6.95 Novità **

Türk Kahvesi Boncampo, UTZ, 500 g, 5.30 Novità ** Coniglio Benno e coniglio Confetteria Frey, UTZ, al latte (escl. Junior), per es. coniglio Benno, 200 g, 6.80 Novità **

Balsamo trattante in schiuma Pantene Pro-V Repair & Care, 140 ml, 3.80 Novità ** Cura per i capelli 3 in 1 Pantene Pro-V, classic care o lisci effetto seta, per es. classic care, 250 ml, 4.20 Novità **

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Asciugamano Yves in conf. da 2 disponibile in blu, verde menta o grigio, 2 x 50 x 100 cm, per es. blu, offerta valida fino al 12.3.2018

20% Tutto l’assortimento di reggiseni, biancheria intima e per la notte da donna (Mey escluso), per es. canottiera da donna Ellen Amber, bianca, Bio Cotton, tg. S, il pezzo, 11.80 invece di 14.80, offerta valida fino al 12.3.2018

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Purea di patate Mifloc in conf. speciale, 5 bustine, 5 x 95 g, 4.55 Hit Orata reale, Grecia/Croazia, in conf. da 2 pezzi, per 100 g, 1.65 invece di 2.40 30% Nuggets di tacchino, prodotti in Svizzera con carne di tacchino dal Brasile, in conf. da 2 x 250 g / 500 g, 9.40 invece di 12.60 25%

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Idee e acquisti per la settimana

Elbeo

La natura ai piedi Le calze dovrebbero essere sempre morbide ed avvolgenti, vestire in modo perfetto ed essere realizzate con materiali al 100 percento naturali. Le calze a marchio Elbeo soddisfano in pieno questi requisiti. Sono prodotte dal marchio di calzetteria più antico del mondo, dal 1748 sinonimo di lavorazione innovativa e alta competenza nei materiali. Per le calze in bambù, le fibre degli steli vengono trattate in modo tale da realizzare un tessuto setoso e lucido, facile da lavare e traspirante. Le calze Elbeo in bambù e in puro cotone sono resistenti e lavorate in modo da non presentare punti di pressione.

Elbeo calze da uomo in bambù taglie 39-42 / 43-46 Fr. 17.–

Elbeo calze da uomo Pure Cotton taglie 39-42 / 43-46 Fr. 13.–

Elbeo calze da donna in bambù taglie 35-38 / 39-42 Fr. 16.–

Le calze Elbeo, sia in bambù che in cotone, sono prodotte con materie prime naturali.

Elbeo calze da donna Pure Cotton taglie 35-38 / 39-42 Fr. 12.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Idee e acquisti per la settimana

Risultato parziale

Vince la famiglia Good Total

Ha inizio la sfida con il bucato

*Azione 50%

Chi vincerà la competizione Total? Sull’arco di un anno le famiglie Lanzrein e Good si cimenteranno in diverse discipline di lavaggio dei panni. La partita ha già preso avvio con un quiz dei saperi sul marchio di detersivo più venduto in Svizzera

su tutti i detersivi Total a partire dall’acquisto di 2 prodotti valido fino al 5 marzo

Testo Thomas Tobler; Foto Paolo Dutto

Dopo la prima sfida è in testa per 1 a 0 la famiglia Good di Unterentfelden AG, che ha segnato dieci punti su quindici. Durante la competizione le famiglie saranno accompagnate dalle collaboratrici Migros Sonja Markwalder (responsabile dei prodotti da bucato, in carta e per la pulizia), Marina Frei (responsabile progetto) e Heidi BacchilegaSchätti, responsabile progetto presso i media Migros (da sinistra).

Vuoi partecipare?

L’indovinello Total è disponibile su www.migros.ch/total Con il quiz delle conoscenze di Total, Susanne (41), Adrian (53) e Giulio (2) Lanzrein, di Arbon TG hanno realizzano otto dei 15 punti.

Nella prima disciplina ha vinto la famiglia Good, con Stephanie (41) e Jürg (46), così come Fabio (9), Olivia (8) e Sophia (6). Hanno risposto correttamente a dieci delle 15 domande.

Detersivi da bucato

Eccellenti qualità I predecessori dei detersivi Total erano sugli scaffali Migros già nel 1936. Oggi Total è la marca di detersivi da bucato più venduta in Svizzera. È disponibile in 61 differenti tipi, efficaci contro le macchie di ogni genere. Le formule vengono costantemente sviluppate non solo per garantire un bucato pulito e tessuti splendenti, bensì anche per proteggere l’ambiente grazie a ingredienti facilmente biodegradabili.

Total Express White 1,32 l Fr. 7.95* invece 15.90

Total in polvere 2,475 kg Fr. 7.95* invece 15.90

Total Color 2,475 kg Fr. 7.95* invece 15.90

Total Liquid 2 l Fr. 7.95* invece 15.90

Total Color 2 l Fr. 7.95* invece 15.90

Total Aloe Vera 2 l Fr. 7.95* invece 15.90

Total Sensitive 2 l Fr. 7.95* invece 15.90

Total 1 for All 2 l Fr. 7.95* invece 15.90

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche i detersivi da bucato Total.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 26 febbraio 2018 • N. 09

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Idee e acquisti per la settimana

Risultato parziale

Vince la famiglia Good Total

Ha inizio la sfida con il bucato

*Azione 50%

Chi vincerà la competizione Total? Sull’arco di un anno le famiglie Lanzrein e Good si cimenteranno in diverse discipline di lavaggio dei panni. La partita ha già preso avvio con un quiz dei saperi sul marchio di detersivo più venduto in Svizzera

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Testo Thomas Tobler; Foto Paolo Dutto

Dopo la prima sfida è in testa per 1 a 0 la famiglia Good di Unterentfelden AG, che ha segnato dieci punti su quindici. Durante la competizione le famiglie saranno accompagnate dalle collaboratrici Migros Sonja Markwalder (responsabile dei prodotti da bucato, in carta e per la pulizia), Marina Frei (responsabile progetto) e Heidi BacchilegaSchätti, responsabile progetto presso i media Migros (da sinistra).

Vuoi partecipare?

L’indovinello Total è disponibile su www.migros.ch/total Con il quiz delle conoscenze di Total, Susanne (41), Adrian (53) e Giulio (2) Lanzrein, di Arbon TG hanno realizzano otto dei 15 punti.

Nella prima disciplina ha vinto la famiglia Good, con Stephanie (41) e Jürg (46), così come Fabio (9), Olivia (8) e Sophia (6). Hanno risposto correttamente a dieci delle 15 domande.

Detersivi da bucato

Eccellenti qualità I predecessori dei detersivi Total erano sugli scaffali Migros già nel 1936. Oggi Total è la marca di detersivi da bucato più venduta in Svizzera. È disponibile in 61 differenti tipi, efficaci contro le macchie di ogni genere. Le formule vengono costantemente sviluppate non solo per garantire un bucato pulito e tessuti splendenti, bensì anche per proteggere l’ambiente grazie a ingredienti facilmente biodegradabili.

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Total in polvere 2,475 kg Fr. 7.95* invece 15.90

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M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche i detersivi da bucato Total.


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