Azione 17 del 23 aprile 2018

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 23 aprile 2018

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Società e Territorio La psicologia dietro le fake news: intervista a Massimo Polidoro

Ambiente e Benessere Il piano d’azione del Consiglio federale per combattere contro gli inquinanti delle acque superficiali punta a diminuire il consumo di pesticidi nell’agricoltura

Politica e Economia Si dimostra determinante per la sopravvivenza di Assad l’alleanza Russia, Iran, Turchia

Cultura e Spettacoli Il Rinascimento di Gaudenzio Ferrari, cronaca di una mostra che non c’è (ancora)

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di Valentina Janner pagina 37

Regina Brocke

Stream, stile e ironia nella danza

Una campagna con qualche incognita in più di Peter Schiesser Manca ancora un anno e mezzo alle elezioni federali, ma si respira già aria di campagna. I partiti valutano gli esiti delle elezioni tenutesi nei cantoni dall’inizio della legislatura federale e le fortune politiche dei propri candidati e deputati, per affinare le strategie elettorali. Nasce spontanea la domanda se la svolta a destra che c’è stata al Nazionale nel 2015 verrà confermata, nell’ottobre 2019. A dire il vero, al di là di alcuni accenti, non è mutato molto con questa svolta a destra. La dimostrazione più tangibile – ma in questo caso sul piano popolare – è stata il no alla revisione dell’AVS, combattuta da PLR e UDC (oltre che da una parte della sinistra). Per contro, non si può definire di destra la revisione della legge sull’energia, approvata da parlamento e cittadini. Un Consiglio agli Stati con altri equilibri politici e il voto popolore fungono ancora da argine alle tendenze che si manifestano al Nazionale. E poi, in questi mesi si pensa soprattutto alle sorti dei partiti – perché alcuni, di importanza storica, sono messi maluccio. Ne ha già scritto Marzio Rigonalli sull’ultima edizione: il PPD preoccupa

seriamente. Per motivi diversi, sia in Ticino sia a livello federale. Da decenni perde un pezzettino alla volta, in tutti i cantoni, anche nelle sue roccaforti della Svizzera centrale e nel Vallese. Ora, le sconfitte in quasi tutte le elezioni cantonali in questi due anni e mezzo e i sondaggi indicano che potrebbe scivolare sotto il 10 per cento alle prossime elezioni federali. Doris Leuthard ha annunciato che si ritirerà prima della fine del 2019, desideroso di succederle è il presidente del partito Gerhard Pfister, ma se dovesse essere eletto in governo a campagna elettorale avviata, chi la gestirebbe, considerato che se n’è andata anche la segretaria generale Béatrice Wertli? È un momento delicato per questo partito, pur quasi sempre decisivo nelle decisioni politiche: nelle realtà urbane è schiacciato dalle forze rosso-verdi (a Zurigo è fuori dal municipio e dal consiglio comunale), nei cantoni primitivi è scalzato dall’UDC, negli agglomerati è ininfluente... Poi c’è l’UDC, che, un po’ a sorpresa, dopo aver sfiorato il 30 per cento di consensi nel 2015, oggi si mostra fiacca. La campagna e le piccole città zurighesi sono la patria dell’UDC blocheriana, è da qui che è partita la conquista del partito nazionale e poi dell’elettorato nazional-popolare. È da considerare quindi un segnale tutt’altro

che incoraggiante il fatto che a Opfikon, Adliswil, Kloten, Uster, Effretikon, Wädenswil e in modo accentuato a Winterthur e Zurigo il partito abbia ultimamente perso seggi nei consigli comunali e poltrone nei municipi. Sono mancati i temi forti? È possibile, ma il partito conosce anche un problema generazionale, i politici della prima ora sono ormai anziani e fra i giovani non tutti hanno la carica che ha contraddistinto la prima generazione blocheriana. Chi invece mostra una salute discreta sono il Partito socialista e il Partito liberale radicale. Dalle elezioni cantonali escono perlopiù vincenti, i sondaggi li danno in moderata crescita, entrambi sentono il vento in poppa. Tuttavia, il PLR deve ancora radicare la sua crescita in una politica che sappia interpretare i bisogni e i temi vitali di un ceto medio moderno e urbano. E il PS rendersi conto che se vuole contare di più a Palazzo federale deve forse guardare di più all’esempio che viene da molte grandi città svizzero tedesche e romande, in cui governano – pragmaticamente e poco ideologicamente – delle maggioranze rosso-verdi. Qualche risposta sulle tendenze politiche di fondo, le elezioni federali dell’anno prossimo ce la forniranno.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Attualità Migros

M Una Lugano tutta da correre StraLugano L’importante manifestazione

sul Ceresio raggiunge quest’anno la XIII Edizione e si terrà il 26 e 27 maggio con moltissime novità Sono ben sette le possibilità offerte dagli organizzatori per prendere parte alla più importante corsa podistica della nostra regione: «Kidsrun» la gara dedicata ai piccoli corridori; «10KM CityRun» una scorribanda popolare nella città e soprattutto sul suo lungolago; l’attesissima «HalfMarathon», gara per gli sportivi più agguerriti; la nuova «Stracombinata», una sfida in più per veri atleti; «Relay Run» competizione di gruppo sullo stile della staffetta; «Monte Brè vertical race», la grande novità dell’anno e infine la tradizionale corsa di solidarietà, «Stralugano for Charity».

Il ricco programma di competizioni sarà naturalmente accompagnato da una serie di attività di contorno, che garantiranno intrattenimento e stimoli sportivi di vario tipo. La StraLugano, infatti non vuole essere solo un evento agonistico ma coinvolgere la popolazione creando un momento di partecipazione corale, utile e piacevole per tutti. Sono previsti dunque PastaParty organizzati da Migros, una Corte dei Bimbi all’Oratorio San Rocco e un «Villaggio StraLugano» pieno di sorprese. Vanno sottolineate a questo punto le principali novità agonistiche dell’e-

Il momento della partenza nella scorsa edizione.

dizione 2018: ad attirare l’attenzione sulle nuove discipline podistiche sarà la decisione di SwissAthletics di rendere la mezza maratona luganese il vero campionato svizzero della specialità: chi si imporrà in questa gara sarà dunque ufficialmente nominato campione svizzero. Per chi volesse misurarsi con i migliori atleti svizzeri sono previsti

StraLugano 2018 – Programma Sabato 26 maggio 2018

10.00-19.00 Piazza Riforma – Iscrizioni 4Charity 5 km e Info Point; 10.00-16.00 Piazza Riforma – Iscrizioni e ritiro pettorali KidsRun; 14.00-20.00 Centro Esposizioni – Ritiro pettorali HM, RelayRun, CityRun, Monte Bre Vertical Run; 14.00-20.00 Villaggio StraLugano Centro – Intrattenimenti vari; 17.30 Piazza Riforma – Part. KidsRun; 18.00-19.30 Piazza Riforma – Premiazione KidsRun; 19.15-19.45 Piazza Riforma – WarmUp Activ Fitness 20.00 Lungolago – Partenza 10km CityRun;

21.00-23.00 Centro Esposizioni – Migros PastaParty CityRun; 21.30-22.30 Centro Esposizioni – Premiazione 10km CityRun. Domenica 27 maggio 2018

07.00-09.00 Centro Esposizioni – Ritiro pettorali HM, RelayRun; 07.00-11.00 Centro Esposizioni – Ritiro pettorali Monte Bre VerticalRun; 08.00-13.00 Piazza Riforma – Iscrizioni 4Charity 5 km; 08.30 Chiesa S. Rocco – S. Messa per i podisti; 08.30-13.00 Oratorio S. Rocco - La Corte dei bimbi; 09.00-16.00 Villaggio StraLugano Centro – Intrattenimenti vari;

09.15-09.45 Piazza Riforma – WarmUp Activ Fitness 09.45 Lungolago – Cerimonia di partenza HM e RelayRun; 10.00 Lungolago – Partenza HM e RelayRun; 12.00-15.00 Centro Esposizioni – Migros PastaParty; 13.30-14.30 Centro Esposizioni – Premiazioni HM e Relay Run; 14.00 Lungolago – Partenza Monte Bre Vertical Run; 14.30 Lungolago – Partenza 4Charity 5 km; 15.30 Bré – Premiazione Vertical Run; 16.00 Chiusura XIII Edizione StraLugano.

tra l’altro 50 Pettorali Gold, iniziativa in «edizione limitata» con una valenza sportiva ma anche di beneficenza. Oltre a questo nuovo , un particolare interesse sarà certamente rivolto alla nuova «Monte Brè Vertical Race», una gara di corsa «in salita» di 9 km con 730 metri di dislivello, proposta in collaborazione tra StraLugano e ScenicTrail. Va ricordato l’importante coinvolgimento di Migros e SportXX nell’organizzazione delle due giornate luganesi. Sport XX in particolare offre varie opportunità di risparmio (buoni sconto, ingressi gratuiti e piani di allenamento) a tutti coloro che partecipano a una gara inserita nella «Serie Corse SportXX» (info su www.sportxx.ch/it/ cp/laufserie). Nell’ambito dell’iniziativa per la salute di Migros, iMpuls, i partecipanti alle gare potranno avvalersi di una consulenza sportiva prima, durante e dopo la corsa. Al momento del ritiro del pettorale riceveranno inoltre un regalo speciale (info sul sito www.migrosimpuls.ch/corse-popolari). A partire da lunedì 28, sullo stesso sito sarà messo a disposizione un video clip intitolato Migros MyRun, che permetterà ai partecipanti di rivedere e rivivere la loro esperienza.

L’isola dei cani

Concorsi Dal 1. maggio il nuovo film d’animazione in stop-motion di Wes Anderson Dal 1. maggio nelle sale cinematografiche arriva la seconda pellicola in stop-motion ideata dal regista Wes Anderson, L’isola dei cani. Selezionato come film d’apertura per la 68esima edizione della Berlinale, alla quale ha riscosso molti consensi per la sua tecnica senza gli effetti della computer grafica, parla di un viaggio alla ricerca di un caro amico ingiustamente allontanato. La bella trama, l’utilizzo di pupazzi per tutti i personaggi, canini e umani, e di modelli in scala per le ambientazioni, come si faceva una volta, dà quella nota nostalgica all’atmosfera del film che cattura gli adulti e incuriosisce i piccini. Ciò che ne deriva è un’avventura piena di umorismo, azione e amicizia. Ma nel cammino di Atari, protagoni©2018 Twentieth Century Fox

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

sta della vicenda insieme a un gruppo di cani randagi che vivono in una discarica, la pellicola rende omaggio anche alla portata epica e alla bellezza del cinema giapponese, alla nobile lealtà dei compagni canini, all’eroismo pieno di speranze di chi è piccolo e trascurato, al rifiuto dell’intolleranza e soprattutto all’indissolubile legame tra un ragazzo e il suo cane. L’isola dei cani è ambientato in un luogo ipotetico e futuristico dell’Arcipelago giapponese, nel 2037, e racconta la dolce epopea del dodicenne Atari Kobayashi alla ricerca del suo amato cane Spots. A causa di una contagiosa influenza canina che minaccia di attraversare la soglia della specie e contagiare gli esseri umani, il sindaco Kobayashi, zio malvagio del piccolo

paladino, richiede una quarantena immediata per tutti i cani di Megasaki City, i quali vengono espulsi dalla città ed esiliati in una vasta discarica chiamata Trash Island, l’isola dei rifiuti, che diventerà appunto l’Isola dei Cani. Un epico viaggio dai risvolti turbolenti e misteriosi; una cospirazione minaccia di distruggere la popolazione canina di Megasaki City. Boss, Duke, Rex, King e Chief e molti altri personaggi, umani e canini, buoni e cattivi, avranno ruoli chiave in questa avvincente storia. Che ne sarà del futuro della città e dei suoi abitanti canini?

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

StraLugano, 26 e 27 maggio 2018, Lugano

In palio 20 iscrizioni gratuite Azione mette in palio 20 iscrizioni gratuite alla StraLugano 2018. Per aggiudicarsi un’iscrizione omaggio alla «10 km» o alla «mezza maratona», basta telefonare giovedì 26 aprile alle ore 10.30 (fino a esaurimento) al numero 091 850 82 76. Buona fortuna!

Gadget in palio per i nostri lettori In occasione dell’uscita di L’isola dei cani il 1. maggio, Twentieth Century Fox in collaborazione con Migros Ticino mette in palio 3 set di action figurines: ■ Atari ■ Rex ■ Boss ■ Duke ■ King ■ Chief La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in altri concorsi promossi da «Azione» negli scorsi mesi. Per partecipare basta visitare il sito www.azione.ch/concorsi. Buona Fortuna!

Il trailer ufficiale di questo meraviglioso film per tutta la famiglia è disponibile alla pagina web: http://www.20thfox.it/l-isola-dei-cani

#LisolaDeiCani

Dal 1. maggio al cinema Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Tenendo fede poi a una delle proposte formulate nell’ambito della campagna Generazione M, rivolta alle giovani generazioni, i primi 500 iscritti alla KidsRun si vedranno rimborsata da Generazione M la tassa di iscrizione. Tutte le informazioni complete sulla gara sono pubblicate sul sito web www.stralugano.ch: e sullo stesso sito è naturalmente possibile inoltrare le proprie iscrizioni.

Tiratura 101’766 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Società e Territorio Uno spazio di incontro a Locarno Lo Spazio Elle nella Villa Igea di Piazza Pedrazzini si sta affermando sempre più come luogo di cultura e socialità grazie alla vitalità del Forum socio-culturale del Locarnese pagina 5

Che cos’è l’opinione pubblica? Esiste davvero l’opinione pubblica come entità unitaria? E come fanno gli opinion leader a conquistare il consenso di più gruppi? pagina 6

Le bufale esistono da sempre

Intervista Massimo Polidoro ci parla

dei meccanismi psicologici che stanno dietro alle fake news

Laura Di Corcia Le fake news esistono da sempre, ma negli ultimi anni, soprattutto attraverso i social media, sono diventate uno strumento molto efficace per alterare la percezione della realtà della popolazione. Per diventare cittadini e cittadine consapevoli è necessario aguzzare le antenne, in modo da schermarsi rispetto alle manipolazioni del potere senza però cadere nella fin troppo semplicistica trappola del complottismo. In occasione di «Communico 2018», la giornata dedicata alla comunicazione e organizzata da Syndicom (sabato 28 aprile alle 15, Aula Magna della Supsi di Trevano) il giornalista del «Corriere del Ticino» Carlo Silini dialogherà con uno dei più grandi esperti sul tema, Massimo Polidoro, psicologo, giornalista e divulgatore, uno fra i membri fondatori del CICAP (modera il dibattito la giornalista RSI Isabella Visetti). Lo abbiamo raggiunto per capire quali sono i meccanismi psicologici che ci portano ad accogliere alcune informazioni come buone. Massimo Polidoro, si parla tanto di fake news in questo periodo, che però non sono un’invenzione di questi anni e al contrario fanno parte della storia dell’umanità. Qual è una delle più antiche bufale?

In effetti le fantasie e le falsità sono qualcosa che ci accompagna da sempre. Una delle più antiche probabilmente risale all’epoca di Nerone, in relazione all’incendio che aveva devastato Roma e in seguito al quale l’Imperatore si è costruito la sua splendida Domus Aurea. Ebbene, era circolata la voce che fosse stato proprio Nerone ad appiccarlo per liberare i terreni. A tutt’oggi non è chiaro chi sia stato l’autore dell’incendio: quello che è assolutamente chiaro è che gli diede fastidio essere tacciato di tale

colpa e per questo intervenne inventando una falsa notizia, secondo la quale l’artefice del misfatto sarebbe stata da rintracciare in una setta non particolarmente gradita ai Romani, i Cristiani. Questa notizia falsa diede avvio alla prima persecuzione nei loro confronti. Ma nel corso della storia di fake news ce ne sono state tante: un altro falso colossale è la donazione di Costantino, in base alla quale l’imperatore avrebbe regalato tutti i beni dell’Impero alla Chiesa. Nel corso dei secoli le fake news hanno cambiato faccia? Sono diventate più o meno politiche, più o meno ideologiche?

Indubbiamente le fake news di tipo politico continuano a vivere, come strumento per manipolare la democrazia: basti pensare alla campagna elettorale americana o alla Brexit. Qualunque evento politico è accompagnato da false notizie, da esagerazioni, da vere e proprie calunnie a volte, da cui è difficile difendersi. Ma recentemente si sono aggiunte altre falsità, che riguardano più da vicino la vita quotidiana delle persone. Per esempio le bufale sui vaccini, gli allarmismi creati sul nulla, come per esempio le scie chimiche o i chip sottopelle – tutto campato per aria, naturalmente. A queste «bugie colossali» siamo esposti tutti allo stesso modo o ci sono persone maggiormente sensibili? In altre parole, esiste il prototipo del credulone?

In generale direi che tutti quanti cerchiamo una conferma alle nostre convinzioni, alle nostre credenze, ai nostri pregiudizi. Prendiamo per buono tutto ciò che convalida la nostra visione del mondo, senza interrogarci sulle fonti e sulla veridicità dell’informazione. Il tranello c’è anche all’opposto: quando troviamo una notizia che decostruisce le nostre certezze, la bolliamo subito come falsa e la rubrichiamo sotto l’etichetta fake news.

Vero o falso? Ci sono alcuni elementi che aiutano a riconoscere le fake news. (Marka) Spesso le tesi proposte dall’area complottista sono frutto dell’immaginazione, ma bisogna anche dire che i meccanismi dell’economia e della politica non sono candidi come gigli. Non è che a volte le fake news si avvicinano pericolosamente alla verità?

Mi viene in mente tutta la vicenda del Watergate, dove il sospetto che ci fosse sotto qualcosa di losco era molto forte. Alla fine, nonostante queste voci fossero state bollate come false, si scoprì che era tutto vero a tal punto che il Presidente Nixon fu costretto a rassegnare le dimissioni. Questa è la prova che quando le imposture e i complotti raggiungono certi livelli, è difficile mantenere il silenzio assoluto. Chi crede che l’uomo non sia mai stato sulla Luna, evidentemente ritiene possibile mantenere segreti che coinvolgono centinaia di migliaia di persone. Invece io credo proprio che sia impossibile che un piccolo gruppo di persone abbia il controllo di tutto e riesca a custodire segreti enormi.

Per quanto mi renda conto che questa versione possa essere rassicurante: l’idea che tutto sia in balia del caso e che possa succedere qualsiasi cosa da un momento all’altro mette inquietudine e ansia. Come si fa a distinguere una fake news?

Bisogna prendere l’abitudine ad analizzare e confrontare le fonti. Sul web ci sono degli elementi che dovrebbero saltare all’occhio: i titoli strillati, tutti in maiuscolo, le solite frasi del tipo «Nessuno dice nulla». Tutti campanelli d’allarme. Credo che alla base di questa facilità nel bersi notizie false e spesso strampalate vi sia anche una sfiducia nei confronti dei media tradizionali. Secondo lei il mondo del giornalismo sta facendo qualcosa per recuperare il terreno perso?

Si sentono tantissimi discorsi sulla necessità di riportare il rigore nei media tradizionali, ma mi cascano le braccia quando si verificano fatti come quello accaduto l’altro giorno, quando

sulla pagina online del «Corriere della Sera» è apparso un articolo dedicato alle «respiriane», due ragazze vicino a Torino che sostengono di vivere di sola aria. Non appena si è fatto notare che si trattava di una bufala, il «Corriere» ha tolto la pagina, senza aggiungere nulla. Non è che in questo modo la fiducia degli utenti aumenti, ecco. È giunto il momento della confessione: lei una fake news se l’è mai bevuta?

Ma certamente. Quando ero ragazzino ero rimasto molto colpito e mi aveva affascinato una bufala clamorosa, ma anche molto divertente, secondo la quale Paul McCartney era morto ed era stato sostituito da un sosia. Siccome ero e sono ancora un grande fan dei Beatles, ho cercato prove nelle canzoni, come suggerito. Col tempo mi sono reso conto che si trattava di una falsità enorme. Ma ho potuto esperire una cosa importante per capire il fenomeno delle fake news: quando uno cerca indizi a sostegno di una tesi, li trova.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Società e Territorio

Incontrarsi a Villa Igea

Locarno Lo Spazio Elle di Piazza Pedrazzini è un luogo di cultura e socialità

Donne Un’occasione

per approfondire tre progetti

Sara Rossi Guidicelli In che luogo del Ticino si possono trovare una macchina da cucire, una camera oscura, una sala per spettacoli, una biblioteca con divani e macchinetta del caffè, stanze per artisti in creazione, il telaio per stampare magliette, una sala denominata «sala piccolissima» con giochi e libri per bambini? Troviamo tutto ciò allo Spazio Elle di Locarno, un centro culturale che al tempo stesso è anche casa di quartiere, coniugando così la sua anima sociale con quella artistica e dedicando spazi e attività variegate per persone di ogni età. Elle come Locarno, come libertà e come la forma dello spazio di Villa Igea.

Alla base delle attività di Spazio Elle c’è una volontà di condivisione, di incontro, di creatività e di scambio culturale Spazio Elle è gestito dall’Associazione Forum socio-culturale del Locarnese, la quale è nata nel 2014 quando è stata annunciata la chiusura di Casa Rossi per farne il Palazzo del Cinema. Le associazioni che vivevano in piazzetta Remo Rossi si sono unite per cercare altri posti. Poi ognuna ha trovato un luogo indipendente dove aprire i propri uffici ma è rimasta tra loro una voglia di condivisione. Quando il Comune ha dato in gestione all’Associazione Forum la splendida Villa Igea (ex Casa d’Italia) in Piazza Pedrazzini, questa è diventata uno spazio con tutto quanto occorre per organizzare feste, concerti, spettacoli, balli, corsi vari, momenti di ritrovo e di socializzazione, bricolage di differenti generi. Tutti ne possono usufruire: privati, enti, associazioni, anche al di fuori da quelle del Forum, hanno la facoltà di proporre un’attività o un evento, purché ci sia una condivisione della filosofia di base, cioè una volontà di incontro, di creatività, di scambio culturale. Villa Igea, nella tranquilla piazza Pedrazzini in centro a Locarno, è stata inaugurata come Spazio Elle nell’ottobre dell’anno scorso. Da allora non ha mai avuto un attimo di pace: sembra che il bisogno di un posto dove «fare delle cose» abbia finalmente trovato una risposta adeguata. «La gente ha voglia di incontrarsi, di curare le sue relazioni, di scambiarsi pensieri, di vedersi in tre dimensioni. Siamo poi forse

AvaEva invita a una tavola rotonda

Lorenzo Perucchi dell’Associazione Forum socio-culturale del Locarnese che gestisce lo Spazio Elle. (Stefano Spinelli)

anche in un momento dove le persone traggono particolare piacere nel rimboccarsi le maniche e organizzare qualcosa che le appassiona», spiega Lorenzo Perucchi, che è uno dei sette volontari che tengono aperta la casa. «È bello che la città abbia una ricca offerta culturale, però ciò che davvero ti fa sentire libero è la partecipazione, come cantava Giorgio Gaber. Abbiamo avuto moltissime richieste per corsi, dallo yoga alla danza folk all’italiano per stranieri; alcune compagnie di artisti del Locarnese vengono qui per le prove dei loro spettacoli; si festeggiano compleanni e anniversari; una volta al mese l’associazione Rusca-Saleggi porta da noi qualcuno che offre un racconto legato a questo quartiere creando così un momento conviviale. Quello che vorremmo sarebbe tenerla aperta sempre, tutti i giorni, ma per ora non ce la facciamo. E poi soprattutto proponiamo eventi per tutta la popolazione». Ognuno dei membri di comitato di Spazio Elle ha un ambito di responsabilità: per la musica Ronnie Rodriguez,

per cinema e letteratura Yari Moro, per le arti performative Marco Cupellari, per gli atelier Matteo Minetti, per le arti visive Riccardo Lisi e Lorenzo Perucchi si occupa delle attività socio-ricreative, anche se poi capita che ognuno faccia un po’ di tutto... A farci fare un giro di perlustrazione è proprio Lorenzo Perucchi, responsabile del settore socio-ricreativo. Quella sera, ci spiega, ci sarà un aperitivo con musica blues dal vivo, uno spettacolo della compagnia La Cambusa e una tavola rotonda di donne per la giornata dell’Otto marzo. Quando saliamo la bella rampa di scale in stile liberty, ci accorgiamo subito del dinamismo e delle possibilità di collaborazione che una struttura del genere può offrire. Ci sono i musicisti che stanno preparando il palco e portano dentro e fuori da una stanza i loro strumenti e gli impianti tecnici. Due altre persone chiedono loro se vogliono unirsi per un caffè e due chiacchiere, mentre Lorenzo sta mostrando a noi gli atelier creativi e le officine per il lavoro del legno e del metallo.

Lui la chiama «fluidità», riferendosi agli spazi che prendono forme diverse a seconda di cosa ospitano. «Per noi è importante che le cose si mescolino: per esempio, qualcuno viene a proporci uno spettacolo teatrale, ma è probabile che incontri anche quelli di noi che si occupano di attività letterarie, cinematografiche e ricreative per i più piccoli. Si creano sinergie, per il fatto di stare tutti nella stessa casa, con una cucina al centro, che favorisce le chiacchiere e quindi le idee». Un po’ come nelle famiglie, dove la porta si apre quando arriva qualcuno, abitanti e ospiti possono entrare a ore diverse ma prima o poi tutti si ritrovano attorno a un tavolo per condividere qualcosa di importante. Può essere cibo, ma anche pensieri, riflessioni o anche semplicemente la buona vecchia abitudine di «tenersi compagnia». Una volta al mese, allo Spazio Elle c’è una giornata di porte aperte, in cui la gente può venire a curiosare, giocare, proporre, conoscere. La prossima si terrà il 5 maggio, dalle 14 alle 22.

Il Movimento AvaEva si rivolge alle donne della generazione delle nonne, siano esse nonne biologiche o no. L’associazione si prefigge di sviluppare la riflessione e lo scambio tra donne della generazione delle nonne, stimolare l’interazione tra le generazioni, dare voce alle rivendicazioni sociali della generazione delle nonne e favorire lo sviluppo di contesti in cui le idee, le reti socio-politiche e i progetti a favore della generazione delle nonne possano consolidarsi. Promuove inoltre la rete dei contatti e il rafforzamento della generazione delle nonne nella società rispetto alla valorizzazione delle sue competenze ed esperienze a favore della collettività. Il tutto attraverso progetti diversificati e autogestiti. Giovedì 26 aprile presso il Centro diurno di via Capidogno a Rivera il Movimento invita tutte le interessate a partecipare alla consueta assemblea generale e a una tavola rotonda (iscrizioni: norma@avaeva.ch). Dalle 13.30 fino alle 17 ci sarà dunque l’occasione di scoprire e approfondire tre progetti promossi in questi anni da AvaEva: il gruppo «Valori», che riflette sul femminismo in un confronto intergenerazionale, il progetto «Nipoti e nonne: quali diritti?» e il gruppo «Sora Morte», che da tre anni si confronta con il tema quasi tabù di noi e la morte. Il Movimento AvaEva è attivo da quasi cinque anni nella Svizzera italiana e gode del sostegno del Percento culturale Migros. Informazioni

www.avaeva.ch

Durante l’assemblea di AvaEva.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Delphine Perret, Björn. Sei storie da orso, Terre di Mezzo. Da 5 anni Brevi, tranquille, sorridenti: le «sei storie da orso» di questo libro, scritto e illustrato dall’autrice francese Delphine Perret, sono così. In esse scorre il tempo assoluto e poetico degli affetti quotidiani e della natura. Sanno di bosco e di gioia di vivere, perché l’orso Björn e i suoi amici animali sono capaci di gioire di ogni istante della loro esistenza. Non che succedano cose mirabolanti, ma è proprio questo il bello: è la capacità di provare meraviglia e gratitudine per una bella tana comoda, «per un albero dal tronco rugoso, perfetto per grattarsi la schiena», per una partitina a carte con la lepre, per poter ammirare con calma le foglie che crescono. Ci sono anche gli umani, in qualche storia: a volte visti attraverso uno sguardo scherzoso, come quando gli animali organizzano una festa tipo Carnevale in cui si dovranno travesti-

re «da finti umani», rubando gingilli, infradito e cappellini a campeggiatori ed escursionisti (ma poi restituendo tutto a festa finita, perché «al popolo del bosco piace mostrarsi beneducato»). A volte l’umano ha un nome, come Ramona, la ragazzina che ha conosciuto Björn durante una gita scolastica nel bosco e a cui Björn vor-

rebbe fare un regalo. Altre volte ciò che arriva nel bosco sono solo oggetti, come quel divano a tre posti che suscita l’ammirazione degli animali ma invade la sobria tana dell’orso, o come i «cataloghi di vestiti per umani» che Björn si trova nella cassetta delle lettere, e che legge assorto, in compagnia della volpe, trovando molto interessanti tutte le stranezze che fanno le persone. Le pagine sono verdi, un colore che asseconda la cifra meditativa e vivace del libro; il testo è in stampatello, molto adeguato per i primi lettori; l’alternanza di testo e illustrazioni dona un ritmo perfetto alle storie. Storie gentili, da assaporare con calma. Eva Sánchez Gómez, Dimenticare Berni, Edizioni Corsare. Da 4 anni Dimenticare Berni. Come se fosse facile. Certi amici sono speciali: non ti abbandonano mai, anche se li vedi solo tu. Sono «gli amici immaginari»,

i quali, come sa bene chi ha avuto la fortuna di conoscerli (o di conoscere chi li ha conosciuti), sono insostituibili compagni di strada e di gioco lungo il cammino dorato e ombroso dell’infanzia. Alter ego dalle funzioni importantissime – di rassicurare, infondere coraggio, contenere (un po’ super-io, un po’ grillo parlante) o al contrario fornire possibilità accettabili di trasgredire, esplicitare paure o angosce, guidare verso i regni del sogno e dell’altrove – gli amici immaginari sono invisibili ai più, ma non certo ai loro creatori. Ad un certo

momento ne prenderanno congedo, ma al momento giusto, che non è mai quello imposto dagli adulti razionali. E comunque, prenderne congedo, non significa dimenticarli. Così è per la bambina protagonista di questo splendido albo, scritto e illustrato (davvero magistralmente illustrato) dalla giovane artista catalana Eva Sánchez Gómez: con il suo Berni, che è un grande orso bianco, la bambina condivide avventure, giochi, sogni, conversazioni. Con il suo Berni ha imparato tanto ed è cresciuta. A volte al posto di Berni arriva un cervo pattinatore, gentile e protettivo. Un amico, anche lui. Come si può chiederle di dimenticarli? Sul tema degli amici immaginari l’editoria per l’infanzia offre alcuni romanzi interessanti, ma un albo illustrato di questa qualità è un fatto raro. E non solo i bambini potranno amorevolmente perdersi tra i toni seppia delle sognanti immagini.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Società e Territorio

L’imitazione senza confini Incontri Il professor Nidesh Lawtoo ci parla

del suo ultimo saggio Il fantasma dell’io

Pixabay

Sebastiano Caroni

L’opinione pubblica: uno sguardo da vicino

Sociologia Come nascono le dicerie? Come fanno gli opinion leader

a conquistare il consenso di più gruppi?

Massimo Negrotti Ci sono espressioni che usiamo tutti i giorni ma che non definiamo mai, come se il loro significato fosse talmente ovvio da non richiedere chiarimenti. L’espressione «opinione pubblica» è una di queste e, magari con parole diverse, è presente nel lessico di tutti i tempi. È stato per primo Parmenide a parlare di doxa ed episteme dove il primo termine designava le opinioni e i giudizi immediati dei membri di una comunità e il secondo faceva invece riferimento alle conoscenze certe della scienza. L’avvento della stampa a caratteri mobili nel XV secolo ha ovviamente giocato un ruolo decisivo, assieme ai vari rivolgimenti sociali e politici dei secoli successivi, nell’assegnare alle valutazioni del popolo notevole importanza nella gestione del potere, soprattutto nei regimi democratici.

L’opinione pubblica come entità unitaria non esiste, di solito vi è una distribuzione per classi di orientamento Nella percezione corrente l’immagine dell’opinione pubblica presenta però una nuova peculiarità ossia il fatto che essa è divenuta oggetto di indagini speciali attraverso tecniche anche molto raffinate. Da queste ricerche emerge peraltro una realtà che, per certi versi, non era mai stata intuita o, comunque, resa esplicita. Si tratta del carattere composito dell’opinione pubblica, cioè della presenza di «classi» di opinione diverse fra loro che, in molti casi, si distribuiscono in analogia alla curva di Gauss, detta anche «a campana». Alcuni studiosi definiscono l’opinione pubblica come l’opinione della maggioranza dei cittadini, ma questa pare essere una semplificazione eccessiva per almeno due motivi fondamentali. Innanzitutto, pressoché sempre, sono le minoranze a generare mutamenti in fatto di idee, cultura, arte, scienza e tecnologia e la loro diffusione giunge alla maggioranza dei membri di una comunità con inevitabile ritardo, cioè quando altre minoranze stanno già incubando ulteriori innovazioni. L’opinione dei più, perciò, è portatrice di valutazioni e giudizi pe-

rennemente legati a fattori che erano in essere prima del suo formarsi. Negli ultimi decenni, per esempio, l’opinione della maggioranza è stata di volta in volta perplessa o preoccupata circa l’avvento dei computer, poi dei telefoni cellulari, poi di Internet, poi dei robot, finendo però, dopo qualche ritardo, per coagularsi attorno a queste innovazioni determinandone il successo. Rilevare e analizzare solo l’opinione della maggioranza in molti casi è quindi fuorviante mentre non andrebbe mai trascurata l’opinione di classi di opinione minoritarie. In secondo luogo, soprattutto in fatto di posizioni politiche, una maggioranza, diciamo così, «assoluta» esiste solo formalmente nei regimi totalitari poiché in tutti i paesi del mondo occidentale vi sono almeno due, ma spesso il numero è maggiore, aree di opinione che coincidono con i classici partiti di destra e sinistra. Negli stessi referendum le cose stanno in questo modo. Dunque un’opinione pubblica come entità unitaria non esiste o, per meglio dire, essa si manifesta unitariamente solo nei casi in cui le valutazioni riguardano eventi sui quali il cosiddetto «sentire comune» è davvero notevole. Per esempio, di fronte ad un devastante atto di violenza lo sdegno coinvolge l’intera popolazione. Tuttavia, se si sale anche solo un gradino e si passa alle opinioni sulle misure preventive da prendere o circa le sanzioni da attuare nei confronti dei colpevoli, la distribuzione statistica riaffiora pienamente. Così, mentre la maggior parte delle valutazioni si disporranno attorno ad una posizione media, da una parte della curva appariranno le valutazioni meno dure e dall’altra quelle più repressive. Ciò significa che l’opinione pubblica è effettivamente compatta solo quando di mezzo vi sono valori e principi che, per natura o per evoluzione storica, fanno ormai parte stabile delle nostre premesse etiche e culturali. Al contrario, quando si ha a che fare con eventi, personaggi o proposte politiche le opinioni rappresentano la conclusione di veri e propri processi mentali, o ragionamenti, di profondità variabile, realizzati sulla base di fattori individuali come le proprie convinzioni ideali, le proprie esperienze, i propri sentimenti, le proprie simpatie. Quel che ne risulta è, appunto, una distribuzione per classi

di orientamento che evidenzia sempre un ventaglio più o meno ampio di posizioni contribuendo ad assegnare al concetto di opinione pubblica una vistosa inconsistenza poiché, di fatto, ci si trova di fronte a più opinioni pubbliche. A ben vedere, dunque, espressioni adatte agli stati psicologici individuali come «l’opinione pubblica è disorientata» oppure «l’opinione pubblica è turbata» sono del tutto prive di senso soprattutto se ci si trova di fronte ad eventi, come una imprevista crisi economica o una serie improvvisa di attentati terroristici, sui quali manchino affidabili e accertate versioni ufficiali e nei riguardi dei quali, quindi, le ipotesi sono necessariamente molteplici. È in queste circostanze che, in passato come oggi, nascono semmai le dicerie che altro non sono se non la risposta collettiva, creduta da molti e contrastata da altri, ad una domanda assillante ma senza risposta certa. Le dicerie sono molto pericolose perché tendono ad auto-realizzare il proprio contenuto e soprattutto le proprie conseguenze. In tutti i suoi sviluppi, infine, l’opinione pubblica mostra una intrinseca tendenza a svolgersi secondo due fasi, messe in luce negli anni 50 da Paul Lazarsfeld e Elihu Katz. Secondo questa teoria, divenuta ormai un classico della sociologia della comunicazione, in una prima fase i membri di una comunità vengono a conoscenza – magari grazie ai mass media – di qualche novità ma sarà solo l’approvazione o la disapprovazione di qualche personaggio importante della stessa comunità a decretarne il successo o l’insuccesso. L’opinione pubblica, dunque, si ripiega sull’opinione privata, di singoli uomini o gruppi. Ma il processo è solo raramente in grado di agglomerare l’opinione di tutti e anzi, come abbiamo notato sopra, in varie occasioni più opinion leader conquistano il consenso di più gruppi, diversi fa loro. In definitiva, l’opinione pubblica, soprattutto in società nelle quali la comunicazione è intensa e pervasiva, è un arcipelago costituito da numerose isole e da numerosi maître à penser, più o meno meritevoli di questo ruolo ma, di fatto, capaci di influenzare altri uomini. È una realtà umana universale, nel tempo e nello spazio, senza la quale non solo l’opinione pubblica non esisterebbe ma la stessa società perderebbe qualsiasi significato.

Il Ticino, e la Svizzera italiana, sono dei territori piuttosto piccoli se paragonati anche solo alla Svizzera, e diventano minuscoli in rapporto all’Europa o al resto del mondo. Ma questo non vuol dire che non ci siano storie e vicende in cui i nostri luoghi non figurino come dei punti di partenza, come importanti zone di transito, oppure come spazi dove si inscena un ritorno. C’è chi parte per sempre, e c’è chi invece ritorna. C’è chi, partendo, mantiene un legame con i luoghi d’origine, pur continuando a vivere altrove. Quando si parla di ritorni ci si riferisce, spesso, a eventi che hanno una certa portata simbolica e una risonanza che coinvolge amici, familiari, spesso interi villaggi. Lo sa bene Nidesh Lawtoo, partito dalla Mesolcina negli anni 90 per studiare Lettere all’Università di Losanna, prima di recarsi negli USA dove ha ottenuto un dottorato in Letteratura Comparata alla University of Washington. In seguito, ha insegnato letteratura inglese all’Università di Losanna, è stato ricercatore SNSF alla Johns Hopkins University di Baltimora, ed è ora Professore di Letteratura Inglese e Filosofia all’Università di Leuven, Belgio, così come Principal Investigator di un Progetto di ricerca ERC (European Reaserch Council) intitolato Homo Mimeticus. Ha scritto vari articoli in riviste internazionali e due libri sul tema dell’imitazione, tra cui, recentemente, Il fantasma dell’io: la massa e l’inconscio mimetico (Mimesis edizioni, 2018).

Anche le emozioni, sia positive sia negative, hanno un potere di contagio che genera un’imitazione inconscia Il fantasma dell’io è un saggio maturato soprattutto nel contesto dell’esperienza americana, inizialmente pubblicato in inglese nel 2013 con il titolo The Phantom of the Ego. Ora è fresco di traduzione e pubblicazione presso la casa editrice Mimesis di Milano: un ritorno alle origini sui generis, quindi. A giustificare ampiamente il viaggio linguistico che il testo ha fatto, unitamente al suo autore, un tema decisamente universale così come molto attuale. Raggiunto per una chiacchierata informale, Lawtoo ci ha spiegato che «il libro riflette sul tema dell’imitazione, o mimesis, un tema chiave per capire il comportamento umano. L’imitazione è così fondamentale che non ci si pensa, come il famoso pesce che non si accorge dell’acqua in cui è immerso. Imitiamo spesso inconsciamente, senza rendercene conto. Dalla nascita in poi il neonato risponde a un sorriso con

L’imitazione è fondamentale fin dalla nascita. (PxHere.com)

un sorriso, e gli adulti ridono o sbadigliano quando lo fanno gli altri. Anche le emozioni e le idee, sia positive che negative, hanno un potere di contagio che genera un’imitazione inconscia, soprattutto nella massa, ma non solo». Ma cosa ha spinto Lawtoo a far tradurre il libro nella sua lingua madre? «L’imitazione è un tema che concerne tutti, dai genitori agli insegnati, dai politici che sanno influenzare l’opinione pubblica ai giovani sempre più connessi a dei nuovi media – e mi andava quindi di riportare a casa il frutto della mia ricerca. L’imitazione per gli umani può essere buona, se abbiamo buoni modelli, ma può anche portare, spesso, a effetti nocivi, che penetrano la nostra vita, i nostri corpi, e le nostre menti. Il libro, sottotitolato La Massa e l’inconscio mimetico, è un tentativo di diagnosticare il potere quasi ipnotico e inconscio dei leader politici sulla massa, ma pure di altri modelli, letterari e cinematici per esempio, senza scordare il lato terapeutico della mimesi come la simpatia, il riso, e la magia degli affetti e dei sentimenti che ci legano agli altri». Uno degli aspetti interessanti, non solo del libro, ma dell’insieme del progetto Homo mimeticus, è l’approccio dichiaratamente multidisciplinare. A questo proposito Lawtoo afferma: «La mia formazione è a cavallo tra la letteratura e la filosofia. Invece di dividere le discipline mi sono divertito a creare ponti e passerelle fra vari campi del sapere utilizzando il filo conduttore della mimesi. In realtà è il tema dell’imitazione che richiede uno sguardo multidisciplinare per essere capito, e gli autori che discuto lo dimostrano. La letteratura infatti si interessa al fenomeno umano nella sua complessità e non divide il mondo in discipline. Per motivi storici e culturali, il modernismo (1880-1950) in particolare vede la nascita dei fenomeni di massa, la diffusione dei mass-media, un interesse crescente per l’interiorità, l’inconscio e a varie patologie dell’anima. È quindi aperto allo sviluppo di nuove discipline umanistiche che studiano questi fenomeni mimetici: psicologia delle folle, sociologia, antropologia, ma pure la ricerca sull’ipnosi e la psicoanalisi. Il mio libro mostra che scrittori come Conrad, Lawrence e Bataille, sulle orme di Nietzsche forse più che di Freud, si interessano a un inconscio che non ha sogni edipici ma l’imitazione involontaria come via regia». E non bisogna stupirsi più di tanto se, partendo da fenomeni che risalgono a più di un secolo fa, Il fantasma dell’io finisce per illuminare anche il mondo contemporaneo. Questo perché, come ci rivela l’autore «gli artisti, essendo animali mimetici che sanno mettersi nei panni dei personaggi che creano, hanno la capacità di offrire delle diagnosi molto precise sul processo che porta l’io a imitare col proprio corpo, e quindi pure con la psiche, le espressioni e le emozioni degli altri. Non per niente proprio gli artisti vengono spesso definiti come le “antenne” della specie umana. Le loro antenne sono così precise che registrano fenomeni mimetici che dovranno attendere un secolo per essere confermati dalle neuroscienze, per esempio, come nel caso dei celebri neuroni specchio scoperti a Parma negli anni 90; un’ulteriore ragione per pubblicare una traduzione italiana del libro». Non è certo la prima volta – e non sarà neanche l’ultima – che artisti e pensatori anticipano un sapere che dovrà attendere qualche decennio per essere formalizzato dalla scienza: grazie, appunto, a scoperte come quella recente dei neuroni a specchio.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi 23 aprile 1343: i fuochi di San Giorgio Ci sono certi eventi storici i quali, proprio in virtù della loro portata epocale e delle loro ripercussioni globali, tendono a sfuggire la comprensione dei professionisti della disciplina e dunque la spiegazione in termini storici. Ricorderete di sicuro il dibattito che si accese qualche anno fa sulla natura «cristiana» della cosiddetta «civiltà occidentale». Se ne sentirono ai tempi di tutte e di più, fino a quando vuoi la fatica dell’argomentare, vuoi l’esaurimento di argomenti convincenti o vuoi semplicemente la constatazione che non si arrivasse da nessuna parte fecero sì che il dibattito finì in soffitta e lì intanto rimane. Ma sta di fatto che, nel corso di quattrocento anni a partire dall’Anno Domini Zero, una piccola setta – minoranza infinitesimale di quell’altra minoranza che era la religione ebraica nel mare magnum dell’impero romano – divenne religione ufficiale dell’Impero per poi imporsi come uno degli attori principali della lotta per il controllo non solo delle anime ma anche dei corpi a livello globale.

Se le ragioni del successo del Cristianesimo e delle altre forme di monoteismo che a questi fecero da rincalzo (ricorderanno i lettori che per lungo tempo si discusse se l’Islam fosse un’eresia dello stesso Cristianesimo) sono ancora dibattute dagli studiosi, almeno un paio di questioni sembrano appurate. Il Cristianesimo si diffuse nell’Impero a partire dalle città e fra le classi meno abbienti con la mediazione di membri delle classi più elevate – spesso donne ed intellettuali. Il termine «pagano» – da pagus – il villaggio del contado – si riferisce pertanto a quel coacervo di pratiche religiose – un vero e proprio zibaldone di folclore, culti organizzati e quant’altro che i Padri della Chiesa ormai vincente dei primi secoli chiamavano con disprezzo superstitiones – «ciò che sopravvive dell’antico sistema di credenze». Detto ciò non si deve peraltro cadere nell’errore di pensare che la marcia del Cristianesimo sul continente europeo avvenne sempre e soltanto per conversione pacifica e progressiva ege-

monia culturale sui relitti delle religioni tradizionali – anche se più spesso che no questa fu la sequenza storica. Alcune regioni d’Europa, rimaste ai margini dell’Impero e abitate da popolazioni non-indoeuropee che già Plinio additava come «primitive» furono convertite al Cristianesimo solo nel tardo XIII secolo – e questo non certo per «persuasione culturale» o per libera scelta – ma a fil di spada. Nel corso del XIII secolo, infatti, l’Ordine dei Cavalieri Teutonici cacciati dalla Terra Santa dal curdo Saladine Eyubi (Saladino, 1137-1193) e rimasti disoccupati decisero di cristianizzare le ultime enclave di paganesimo rimaste in Europa. In una serie di sanguinose campagne e a partire dai Balti di Prussia (ora estinti), la Croce fu imposta manu militari ai Balti che ora abitano Lettonia ed Estonia (con la Lituania convertita ufficialmente solo nel 1384). I Cavalieri Teutonici di Livonia non solo convertirono nominalmente le popolazioni baltiche, ma iniziarono un processo di colonizzazione e germaniz-

zazione della regione che vide il sorgere delle maggiori città attuali e la riduzione in stato di semi-schiavitù dei Balti indigeni, costretti a ritirarsi nel folto delle foreste per mantenere un minimo di autonomia. Ma la rivolta covava sotto l’apparente Pax Teutonica. La Notte di San Giorgio – 23 aprile – del 1343, una casa fu data alle fiamme su una collina della Contea di Harria/ Harju nel Nord dell’odierna Estonia: era il segnale della rivolta. Secondo una cronaca del tempo, «l’ordine era di uccidere tutti i tedeschi, compresi donne e bambini. E così fecero, poiché cominciarono a uccidere vergini, donne, servitori, servitrici, nobili e gente ordinaria, giovani e vecchi: chiunque avesse sangue tedesco doveva morire». Gli attacchi erano sempre preceduti da un giuramento collettivo di rinuncia al Cristianesimo per tornare alla religione dei padri: l’Abbazia Cistercense di Padise fu data alle fiamme ed i 28 monaci che non erano riusciti a fuggire furono massacrati. La furia era tale che le donne

ed i bambini risparmiati dagli uomini furono uccisi dalle donne estoni che poi procedettero a bruciare chiese e case dei monaci su tutto il territorio. Ormai l’incendio era partito: una dopo l’altra tutte le province adiacenti rinnegarono ufficialmente il Cristianesimo e si dettero al massacro dei tedeschi: fra la Rotalia e il vescovado di Ösel-Wiek si calcola che almeno 3800 tedeschi furono uccisi dagli insorti. Colti di sorpresa e spaventati dai successi dei pagani, i Cavalieri Teutonici dapprima aderirono al negoziato. Seguì così una fase confusa alla ricerca di un difficile compromesso che peraltro sfociò di nuovo in guerra aperta. Le battaglie Warhill (14 maggio) e di Kanavere (24 maggio 1343) videro le forze dei rivoltosi male armati, con pochi cavalli e disperati lanciarsi contro la cavalleria corazzata dell’Ordine di Livonia. Battaglie senza storia: i tremila caduti di Warhill ed i duemila di Kanavere saranno fra gli ultimi ad essere celebrati nelle peane funebri accanto ai nomi degli dei pagani. Requiescant.

disperazione e la speranza, sottolineando però gli aspetti positivi, quelli che ci consentono di apprezzare il presente e progettare il futuro. Giustamente molte persone t’invitano ad avere più fede ma per credere in Dio non basta un atto di volontà, un’intenzione razionale e cosciente. Abbandonarsi alla misericordia divina comporta la capacità di attendere e di affidarsi alla Grazia senza porre condizioni e fissare scadenze, nella convinzione che la fede verrà essendo, il tempo sacro, imperscrutabile. L’amore umano invece non richiede solo pazienza ma anche azione, intelligenza scaltra, mètis secondo gli antichi Greci. Se mi segui verso le origini della nostra cultura, cercherò di presentarti un esempio significativo. Nel dialogo Il Simposio di Platone, il più grande filosofo dell’antichità, si apre improvvisamente una scena insolita, sconcertante. Durante una cena – un incontro che esclude normalmente le donne – un insigne partecipante, Socrate, interrompe la discussione tra i convitati

per evocare una figura femminile, Diotima, una straniera ritenuta sapiente su un argomento quanto mai controverso: l’amore. Per Diotima l’amore è figlio di due elementi: penia ed espediente, in altri termini della mancanza e della curiosità attiva, creativa, capace di uscire dal bisogno cogliendo ogni opportunità, valorizzando ogni risorsa. Quanto alla mancanza, stai facendo la cosa giusta: tradurla in domanda. Una domanda di consapevolezza che al tempo stesso accolgo e ti rinvio perché è in te che potrai trovare, quando sarà il momento, il desiderio di esporti, di aprire le porte della mente e del cuore a un eventuale incontro. Il mondo è pieno di anime solitarie che si cercano ma che rischiano di girare a vuoto se non seguono percorsi convergenti. Non conosco le tue competenze e i tuoi interessi ma per chi vive in quest’epoca, entro o in prossimità di una città, ci sono mille occasioni di ritrovo. Si va dalle associazioni culturali a quelle di divertimento, dall’arte alla politica,

dal volontariato al turismo. Non c’è che l’imbarazzo della scelta. L’importante è compiere il primo passo e uscire dall’isolamento. Il secondo è volersi bene, diventare amici di se stessi, anche guardandosi con una certa ironia. Certe volte a noi donne basta cambiare pettinatura, indossare un abito nuovo, infilare occhiali dalle lenti colorate per migliorare l’autostima e provare il desiderio di essere guardate e ammirate. Quello che va sconfitto è il bambino esigente che permane in noi, il neonato insofferente che tutto vuole, che tutto pretende. Ma l’amore tra adulti, anche se non si può esigere, si può sempre propiziare. Spesso con successo. Ora è primavera, auguri Maria Novella!

in segno di protesta, tre membri se ne sono andati. Era già successo, nel 1989, quando la scrittrice Kerstin Ekman lasciò, perché l’Accademia aveva passato sotto silenzio il caso Salman Rushdie. Adesso, però, il gesto rischia di avere conseguenze addirittura fatali per la sopravvivenza dell’Accademia: servono almeno 12 membri per scegliere nuovi membri. Per uscire dall’impasse, la presidente Sara Danius si è rivolta al re, alto patrono dell’istituto. Probabilmente, un rimedio si troverà, modificando gli statuti e puntando sul ringiovanimento della futura commissione, a cui spetta un compito ormai al limite del possibile, umanamente parlando. La competizione, nata nel 1901 e destinata, allora, agli scrittori dell’Europa occidentale, nell’era globale si trova ad accogliere opere provenienti dai cinque continenti. Per la giuria, le cose si complicano a ritmo vertiginoso: alle

prese con un mosaico di lingue, di stili e persino di valori culturali diversi. Per non parlare, poi, della proliferazione di nuove forme d’espressione che, al di là dei generi tradizionali, producono miscele inedite: fra teatro, mimica e versi, fra chitarra e poesia, all’insegna di una ribellione persino scontata. Come avvenne, nel 1997, con l’attribuzione del Nobel a Dario Fo, da riscoprire in veste di scrittore. E, nel 2016, con Bob Dylan, narratore-menestrello, che propose un caso senza precedenti, per comportamenti provocatori. Il prossimo potrebbe essere Benigni, il cui nome figura, da anni, nella rosa dei papabili. Sono, chiaramente, episodi limite, sintomatici degli umori di un’epoca, allergica alle istituzioni e sempre più tentata da scantonamenti nell’area «anti». Ma, in verità, la reazione «anti Nobel» ha radici lontane. Rappresenta una costante, lungo un percorso

disseminato da incidenti clamorosi. A cominciare dal primo premio che, nel 1901, andò a Sully Prudhomme, mentre erano in lizza Zola, Rostand, Mistral. In seguito, furono ignorati Tolstoj, Joyce, Proust, Kafka, D’Annunzio, Mark Twain, Virginia Woolf. E le lacune continuano suscitando, ogni ottobre, polemiche intorno a un verdetto che sfida l’assurdo: stabilire, con pertinenza, il libro più bello dell’anno e del mondo. Lapidario, Tim Parks, critico della «New York Review of Books», aveva denunciato «la stupidità del premio» e «l’idiozia di prenderlo sul serio». A sua volta, Enrico Tiozzo, docente di letteratura italiana all’Università di Göteborg, nel saggio Il Nobel svelato, parla di pressioni politiche e diplomatiche sul «premio dei premi». E pone una domanda imbarazzante: avete letto l’ultimo Nobel?

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La mancanza dell’amore Cara Silvia, non riesco a dimenticare una storia finita che è durata 14 anni, ho 50 anni e mi sento triste e soffro ancora molto, ci siamo lasciati un anno e mezzo fa. Cerco di uscire, di fare attività, passeggiate, leggere, a volte mi trovo con qualche amica, ma il pensiero è sempre lì. Ho provato a chiedere aiuto, ma le cose non sono cambiate. Chiedo aiuto a Dio, che mi possa aiutare a dimenticare e trovare la pace! Ma credo che anche Lui mi abbia dimenticata. Mi dicono di avere più fede,ma allora mi chiedo cosa devo fare per averla! Mi sento sempre più stanca e triste. Una persona malata d’amore! Grazie per avermi ascoltata. / Maria Novella Cara amica, forse, in confronto a 14 anni d’amore, 18 mesi per superare il trauma dell’abbandono sono ancora pochi. Ma molto dipende dal temperamento e il tuo, se non sbaglio, dev’essere malinconico: il più esposto alla nostalgia e al rimpian-

to. Ma vivere così a lungo un’esperienza amorosa, che presumo ricambiata, è già un premio della vita. Pensa che a molti non capita mai, eppure costituisce una condizione di felicità particolarmente preziosa. Per valutarla con obiettività occorre però assumere un’ottica bipolare e di dirsi contemporaneamente: «quanto ho avuto!» e «quanto ho perso!». Solo chi non ha nulla non può perdere nulla. In ogni caso la memoria è uno scrigno che conserva intatti i momenti più significativi della nostra storia ed è sempre possibile rammemorarli, attualizzarli, riassaporarli. Nulla è cancellato per sempre, anche quando sembra dimenticato. Come sono solita ripetere, la nostra identità è effetto, non tanto della vita vissuta, quanto di quella che ci siamo raccontata. Perdonatemi se in proposito cito ancora una volta il mio libro Una bambina senza stella. Potrebbe aiutarti a divenire una buona narratrice di te stessa, capace di evocare il bello e il brutto, la felicità e il dolore, la

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Nobel ancora sotto tiro L’ondata straripante del «Me Too» ha cambiato rotta. Partita, ovviamente, dagli studios hollywoodiani ha raggiunto, imprevedibilmente, l’Accademia svedese, responsabile del Nobel per la letteratura. Anche sotto il tetto di un’istituzione culturale ai vertici del prestigio mondiale, sono di casa le molestie, per usare un termine ormai inequivocabile. La faccenda, come si è letto, risale al novembre scorso, quando diciotto donne, appartenenti o vicine all’ambiente accademico, denunciarono proposte spinte di tipo sessuale da parte di un uomo, anche lui vicino allo stesso ambiente. Secondo recenti rivelazioni, comparse sull’attendibile «Svenska Dagbladet», si tratterebbe del fotografo francosvedese Jean-Claude Arnault, personaggio in vista nella mondanità di Stoccolma, e, non da ultimo, marito della scrittrice Katarina Frostenson.

Qui sta il guaio: dal 1992, la Frostenson è membro dell’Accademia e, di conseguenza, l’indagine giudiziaria sul marito l’ha coinvolta portando alla luce scorrettezze d’ordine amministrativo e fiscale. E non sarebbe un caso isolato di malversazioni. Si deve parlare di un malcostume diffuso fra operatori culturali che, in apparenza, accettano un incarico senza compensi e, in pratica, godono di sostanziosi privilegi, quali abitazioni di lusso, viaggi all’estero, incarichi importanti. Si giustificano, insomma, i malumori che, una volta ancora, circondano gli accademici, i loro familiari e portaborse, compromettendo l’istituzione stessa del Nobel. Ed è proprio in questo clima di sfiducia che alcuni membri hanno deciso di rinunciare alla carica. Le dimissioni, però, si scontrano con un impedimento non da poco: per statuto, la carica è a vita. Comunque,


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Ambiente e Benessere Medicina aborigena La cura tradizionale australiana è stata ora riconosciuta come complementare e alternativa pagina 13

Oltre all’elettrico pure l’idrogeno In arrivo la Mercedes GLC F-Cell: uno Sport Utility Vehicle di medie dimensioni a zero emissioni

I colori dello zafferano Lo zafferano è molto ricercato in cucina e impiegato in piatti tradizionali di diversi paesi

Il cavallo e i suoi mestieri Sabato 5 maggio torna in Ticino la giornata dedicata agli equini con tanto di porte aperte

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Secondo il piano d’azione del Consiglio federale, le immissioni di pesticidi nelle acque vanno ridotte e i prodotti che si degradano lentamente nel terreno vanno utilizzati con maggiore parsimonia. (Pxhere.com)

Troppi pesticidi nei corsi d’acqua

Responsabilità ambientale La campagna di sensibilizzazione del Dipartimento del territorio rende attenti

sugli inquinanti e i microinquinanti nelle acque superficiali

Elia Stampanoni Le nuove tecnologie e i nuovi metodi d’analisi permettono oggi di avere un quadro generale più dettagliato della salute delle nostre acque. Uno studio svolto dall’Ufficio federale dell’ambiente (Ufam) in collaborazione con i servizi per la protezione dell’ambiente dei cantoni Turgovia, Basilea Campagna, Berna, Vallese, Ticino e altri partner, ha potuto evidenziare come nei piccoli corsi d’acqua dell’intero territorio elvetico vi siano quantità elevate di pesticidi. Stiamo parlando di sostanze provenienti da prodotti fitosanitari e da biocidi, ossia sostanze affini a erbicidi, fungicidi e insetticidi, ma utilizzati in ambito urbano. Tra i biocidi, che chimicamente sono spesso molto simili ai prodotti fitosanitari, rientrano per esempio sostanze utilizzate come disinfettante per l’igiene umana, animale, alimentare o ambientale, i conservanti per preservare il deterioramento di materiali vari (come legno, fibre, plastiche, carta, oggetti d’arte), ma anche componenti di vernici e pitture. Biocidi sono inoltre le sostanze usate per il controllo degli animali nocivi, per la disinfezione dell’aria e dell’acqua, e per la conservazione di li-

quidi o fluidi vari nei sistemi di raffreddamento negli impianti industriali. L’esito dello studio, pur non allarmante, è per lo meno preoccupante, come ha sottolineato l’Ufficio della gestione dei rischi ambientali e del suolo (Dipartimento del territorio del cantone Ticino) che, anche a seguito della situazione riscontrata, ha voluto lanciare nel maggio del 2017 la campagna di sensibilizzazione «Troppi pesticidi nei corsi d’acqua». A preoccupare non sono solo gli episodi puntuali che lasciano delle tracce importanti nei corsi d’acqua e quindi anche nei laghi, ma sono pure le contaminazioni dovute all’uso improprio e continuato dei prodotti. Per diminuire i residui di fitosanitari e biocidi, la campagna informativa invita quindi la popolazione alla collaborazione, evitando o riducendo il loro consumo e optando per alternative meno devastanti. In caso di impiego s’invita inoltre al rispetto rigoroso delle indicazioni riportate sulle etichette, sia per le modalità d’applicazione sia per il corretto smaltimento. Con l’obiettivo di proteggere le acque sotterranee e le riserve di acqua potabile, la Svizzera ha adottato già nel 2001 il divieto generale d’impiego di erbicidi sulle strade, i sentieri e gli

spiazzi. Su queste superfici le sostanze vengono, infatti, facilmente dilavate e finiscono in fretta nelle acque, risultando quindi estremamente dannose per gli ambienti acquatici. L’impiego di erbicidi è vietato anche su tetti, terrazze e depositi. Tutti i prodotti fitosanitari (in cui, oltre agli erbicidi, rientrano anche i fungicidi o gli insetticidi) non possono inoltre essere utilizzati nelle riserve naturali, nelle torbiere, nelle paludi, nelle siepi e nei boschetti campestri, dai quali va mantenuta una striscia di tre metri di larghezza. Allo stesso modo lungo le rive, nel bosco e in una striscia di tre metri di larghezza lungo il loro margine è vietato l’uso dei pesticidi. Nonostante tutti questi provvedimenti i livelli riscontrati nel recente studio promosso dall’Ufam hanno rilevato la presenza eccessiva di pesticidi nelle acque. D’altronde, come cita lo studio, in Svizzera viene stimato l’utilizzo giornaliero di oltre 30mila tipologie di prodotti di sintesi, di cui parte è riscontrabile sotto forma di «microinquinanti organici», ossia sostanze riscontrabili in concentrazioni molto basse (dell’ordine di microgrammi o nanogrammi per litro). Lo studio dell’Ufam ha evidenziato la presenza, in uno o più campioni,

di 105 sostanze diverse sul totale di 277 ricercate. I prelievi in Ticino sono stati svolti nel 2015 in un canale del Piano di Magadino per un totale di 49 campioni d’acqua. Tra le sostanze appurate 100 riguardano i pesticidi (prodotti fitosanitari e/o biocidi) e i loro prodotti di trasformazione e degradazione. Considerate singolarmente, le concentrazioni sono risultate di norma contenute, ma la presenza simultanea in tutti i campioni di molti principi attivi (mediamente 27) si riflette in concentrazioni complessive più consistenti. Per contrastare la situazione, il Consiglio federale ha adottato lo scorso autunno un piano d’azione sulla diminuzione del consumo di pesticidi nell’agricoltura. Il progetto mira a ridurre del 30 per cento l’utilizzo di prodotti fitosanitari entro il 2027. «Una rinuncia totale – cita il comunicato – oggi non è possibile; i raccolti devono essere protetti da malattie, parassiti e malerbe antagoniste. Senza protezione fitosanitaria la produzione di derrate alimentari dell’agricoltura svizzera sarebbe nettamente inferiore». Il piano d’azione approvato dal Consiglio federale pone obiettivi chiari: le immissioni di pesticidi nelle acque vanno ridotte e i prodotti che si degra-

dano lentamente nel terreno vanno utilizzati con maggiore parsimonia. Dal piano d’azione è stata stralciata la proposta di una tassa sui prodotti fitosanitari, che verrà però proposta in forma diversa nel dibattito sulla politica agraria previsto nel 2022. Non sono però solo i contadini a doversi occupare della questione e infatti «tutti gli attori sono coinvolti», come ha commentato Christian Leu, direttore della Sezione qualità delle acque dell’Ufam. L’associazione Sauberes Wasser Für Alle (Acqua pulita per tutti) ha definito «inadeguato» il piano d’azione chiedendo allo Stato di sostenere solo le aziende che non fanno uso di pesticidi. Deluse anche Pro Natura, Greenpeace, BirdLife Svizzera e Wwf, secondo cui le disposizioni non contengono né una protezione esplicita dell’acqua potabile né un divieto dei prodotti più tossici. Di «occasione persa» ha parlato pure Bio Suisse, secondo cui il governo non sta promuovendo la produzione biologica. L’Unione svizzera dei contadini ha invece accolto più favorevolmente il piano d’azione ma vorrebbe che si rafforzassero gli obblighi anche per gli altri utilizzatori di prodotti fitosanitari: aziende edili, ferrovie, comuni o privati.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Ambiente e Benessere

La medicina aborigena parla italiano

Antropologia Dopo 60mila anni di cultura nativa australiana,

finalmente il sistema sanitario statale ne ha riconosciuto ufficialmente il valore

Vincenzo Cammarata Non sono pochi, soprattutto in primavera, a sentirsi fiacchi, affaticati e persino depressi. Altri soffrono di mal di testa o insonnia. Ma i mali si accumulano in tutte le stagioni: chi non ha mai subito un trauma sportivo? O chi, a un certo punto, non comincia a soffrire di artrosi o artriti? Bene – si fa per dire – la soluzione potrebbe essere vicina. O meglio, tanto vicina no, ma in poco più di 20 ore di volo chi accusa acciacchi vari potrebbe sperimentare un checkup, o come viene chiamato in lingua Pitjantjatjara un pampuni, cioè il tocco taumaturgico dei guaritori aborigeni Australiani e verificare se il vostro Kurumpa, lo Spirito, sia palya, tutto ok, quindi in ordine e allineato. E pensare che un report dell’OMS (WHO Global Atlas of Traditional, Complementary and Alternative Medicine) del 2005, non ancora aggiornato, afferma che la medicina cinese è l’unica medicina tradizionale, complementare e alternativa presente in Australia: di 60mila anni di cultura aborigena, nemmeno un cenno. Zero. A storcere il naso fu, otto anni fa, un’italiana: la ricercatrice in diritti umani presso l’Università di Sydney, la dottoressa Francesca Panzironi di Roma. Uno sguardo straniero, esterno, quello di Francesca Panzironi che, abbandonato il mondo accademico e supportata anche dalla sorella Elisabetta, da cinque anni collabora con la comunità di Ngangkari (guaritori) Anangu al fine di promuovere e trasmettere le pratiche tradizionali, il loro sapere e quindi la loro cultura.

Gli aborigeni Anangu, in particolar modo quelli di lingua Pitjantjatjara e Yankunytjatjara, sono fra gli ultimi reduci delle duecento etnie che un tempo erano presenti in Australia, prima del genocidio compiuto dagli «europei», così come riferiscono gli australiani bianchi. Questi gruppi etnici, popolano l’APY lands, il territorio da cui provengono i 18 guaritori iscritti al registro professionale voluto dalla ONG aborigena ANTAC (Anangu Ngangkari Tjutaku Aboriginal Corporation) di cui Francesca è CEO e i cui membri sono esclusivamente guaritori aborigeni. L’APY è un territorio costretto al centro del nulla apparente, là dove il South Australia, di cui fa parte, tocca il Northern Territory e il West Australia. Tredici comunità che portano nomi come Mimili, Kaltjiti (Fregon), Amata, Kanpi, Pipalyatjara o Pukatja conosciuta quest’ultima col nome della missione cristiana Ernabella che lì aveva la sua base evangelizzatrice e che di certo non sponsorizzava tali pratiche indigene, che avevano poco o niente a che fare con la pratica strettamente religiosa. Impossibile visitarle se non con mezzi fuoristrada e rifornimenti sufficienti, ma soprattutto se sprovvisti di permesso. Le rotte turistiche, che tagliano in due l’Isola da Adelaide a Darwin, passano dalla famosa Stuart Highway e non si addentrano così tanto a ovest. Uluru, il monolite sacro a cui la massa di turisti rivolge tutta la sua attenzione, è a qualche centinaio di chilometri a nord.

La ricercatrice in diritti umani presso l’Università di Sydney, la dottoressa Francesca Panzironi. (Vincenzo Cammarata)

Nel caso in cui vi siate decisi a sottoporvi a un check-up aborigeno, tuttavia non occorre recarsi fino a lì, ad Adelaide infatti è presente un Centro ANTAC dove chiunque può recarsi per beneficiare delle cure di healers, come Margaret, Mukayi, Debbie o Rogie. Il consulto è semplice e indolore. Qualche domanda preliminare su richieste o esigenze particolari così da concentrarsi sulla parte interessata e poi, dopo un momento di raccoglimento dei guaritori, inizia una fase di pampuni, una sorta di energica manipolazione tesa a espellere con gesti rapidi e decisi il male o ciò che lo causa. Le mani che operano sono quelle segnate di chi è nato a contatto con una terra aspra: sono quelle che raccolgono dai cespugli di una vegetazione, a volte spinosa, le bacche che servono per produrre unguenti e rimedi medicamentosi che da millenni hanno lenito i malanni di un’intera civiltà. Al tatto però i palmi risultano morbidi, caldi e, forse anche per assecondare la suggestione occidentale, carichi di «energia» pranoterapeutica. Ma attenzione. Non si tratta di indovini. Non vedono passato e futuro e non mescolano pozioni misteriose con antichi riti sciamanici: qui la spiritualità non c’entra proprio, o se c’entra è solo perché una parte della visita si concentra sullo Spirito. Sul Kurumpa. Il concetto di Kurumpa è fondamentale per capire il reale significato dello Spirito come parte complementare ma integrante del Corpo stesso. Spirito e Corpo convivono, e loro hanno conservato e, nel caso dei Ngangkari, sviluppato la capacità di vedere entrambi, e nel caso di eventuali problemi con il corretto posizionamento del Kurumpa all’interno o all’esterno del Corpo, di re-allinearlo. Niente di più e niente di meno. Questa abilità si tramanda da nonni a nipoti, viene incoraggiata non appena si manifesta: per entrare a far parte del «Registro dei Guaritori» ANTAC, da statuto, occorre infatti essere riconosciuti come tali dalla propria comunità APY e aver compiuto appena 15 anni di età. Nel 2013, Francesca pubblica quello che potrebbe definirsi la

Uluru, il monolite sacro a cui la massa di turisti rivolge tutta la sua attenzione. (Vincenzo Cammarata)

Si chiama pampuni, il cosiddetto tocco taumaturgico. (Vincenzo Cammarata)

risposta al report dell’OMS: il suo Hand-in-Hand: Report on Aboriginal Traditional Medicine prova ad affrontare dubbi e perplessità che tutti gli attori coinvolti hanno fatto emergere sul tema durante le sue interviste. È una sorta di libro delle risposte che propone uno scenario alternativo a coloro che vorrebbero queste pratiche slegate dal sistema sanitario e a uso esclusivo delle comunità aborigene. Essere riconosciuti dalla medicina ufficiale e dal sistema sanitario statale, che in Australia è ibrido fra la Medicare pubblica e l’assicurazione sanitaria privata, è uno dei principi su cui ha da sempre puntato ANTAC per ottenere fondi, mezzi e spazi per perseguire lo

scopo primario per cui i guaritori stessi la pensarono: tenere in vita la propria sapienza e cultura. Oggi, finalmente, grazie al lavoro di Francesca Panzironi ed Elisabetta, per lo Stato del South Australia, le cure dei Ngangkari prestate agli aborigeni che ne fanno richiesta sono gratuite. Oggi i guaritori lavorano in diversi ospedali e cliniche insieme ai medici del South Australia’s Royal Adelaide Hospital, riportando ottimi risultati. Oggi ANTAC opera anche in altri Stati, nelle maggiori città australiane (Sydney e Melbourne) così come nelle cliniche rurali dell’Outback australiano. Un bel traguardo.


SensibilitĂ femminile

Solo le mamme sanno cosa significa partorire. Fatta eccezione per i maschi di cavalluccio marino. Le femmine depongono infatti le uova in un apposito marsupio dei maschi che provvedono a fecondarle, nutrirle e covarle. Dopo circa dodici giorni, sono loro che danno alla luce i piccoli, passando attraverso le doglie del parto. Per altre meraviglie: mari.wwf.ch

Proteggiamo le meraviglie della natura.

SPINAS CIVIL VOICES

Il mammo, una meraviglia dei mari


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Ambiente e Benessere

In arrivo la Mercedes GLC F-Cell Motori La Casa di Stoccarda punta sull’elettrico ma non rinuncia alla diversificazione

nello sviluppo dei veicoli a idrogeno

Mario Alberto Cucchi Si dice che le mele siano mature, pronte per essere raccolte, quando qualcuna inizia a cadere dall’albero. Per quanto riguarda le automobili, si pensa che siano pronte alla produzione quando s’iniziano a vedere i primi prototipi su strada. Questo è il modo di valutare la tecnologia automobilistica. Ecco allora che le foto della Mercedes GLC F-Cell durante i primi collaudi su strada nel nord della Svezia assumono un valore particolare. Se da una parte è vero che l’attenzione della Casa di Stoccarda verso il futuro è rivolta principalmente all’elettrico, dall’altra gli uomini della Stella non rinunciano a una diversificazione che porta avanti lo sviluppo dei veicoli a idrogeno. Un percorso iniziato oltre vent’anni fa con il primo prototipo fuel cell, a cui ne sono seguiti altri 300 che hanno percorso in totale circa 18 milioni di chilometri. Il risultato è sotto i nostri occhi: la Mercedes GLC F-Cell. Uno Sport Utility Vehicle di medie dimensioni a zero emissioni che è stato già testato su strada con temperature fino a –35°C. Ogni Mercedes prima di entrare in produzione viene sottoposta a oltre 500 collaudi individuali. GLC F-Cell ha già affrontato le prove di trazione, scalando salite con pendenze sino al 20 per cento a cui sono seguite discese ricoperte di ghiaccio. Il freddo è un ottimo banco di prova per la resa

dei motori elettrici e il mantenimento dell’autonomia delle batterie. Il centro di collaudo di Arjeplog, piccola cittadina della Svezia settentrionale, ha testato anche le diverse tipologie di ricarica misurando tempistiche e rendimento dei vari sistemi. Dalla semplice presa di corrente domestica ai wallbox, passando per le stazioni di ricarica rapida senza dimenticare i distributori di idrogeno. Come funziona la Mercedes GLC F-Cell? Abbiamo a che fare con un’auto ibrida. Ci sono quattro modalità di guida: hybrid, f-cell, battery e charge. In modalità hybrid la potenza viene ricavata da entrambe le fonti di energia. La batteria copre i picchi di potenza, mentre la cella a combustibile funziona in una fascia di rendimento ottimale. In modalità f-cell il livello di carica della batteria ad alta tensione viene mantenuto costante grazie all’energia della cella a combustibile. Viaggiare quasi esclusivamente a idrogeno è la modalità ideale quando si desidera riservare l’autonomia elettrica a determinate situazioni di guida. In modalità battery l’auto viene alimentata esclusivamente dalla batteria ad alto voltaggio. Il sistema delle celle a combustibile non è attivo. Infine in modalità charge, è prioritaria la carica della batteria ad alto voltaggio, per esempio prima di fare rifornimento di idrogeno per raggiungere la massima autonomia complessiva. L’impiego di veicoli con celle a combustibile

alimentate a idrogeno non provoca né sostanze inquinanti né emissioni di anidride carbonica (CO2) a livello locale. La potenza erogabile è pari a 147 kW ovvero 200 cavalli. La velocità massima è limitata elettronicamente a 160 km/h, mentre l’autonomia – utilizzando l’idrogeno in modalità ibrida – raggiunge i 437 chilometri. Quanto ci vuole a fare il pieno? La tecnologia

di rifornimento a 700 bar consente di ricaricare GLC F-Cell in circa tre minuti. E la sicurezza? I serbatoi di idrogeno sono posizionati nell’auto all’interno di una zona al riparo dagli urti, inoltre sono ulteriormente protetti da un telaio ausiliario installato intorno ai serbatoi stessi. In caso di impatto, sono state implementate numerose altre misure protettive, ad esempio un sistema di valvole multistadio e spe-

ciali circuiti elettrici di protezione per la rete ad alta tensione. Il vero limite attuale della tecnologia fuel-cell è costituito dall’inadeguatezza della rete di stazioni di rifornimento. Basti pensare che in Germania, patria di Mercedes, il 5 marzo 2018 è diventata operativa la 45esima stazione di rifornimento di idrogeno tedesca: un distributore Total a Ingolstadt. Decisamente ad oggi sono troppo pochi. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Ambiente e Benessere Un esemplare di Philadelphus microphyllus. (Johannes Bergsma)

Notizie scientifiche Medicina e dintorni Marialuigia Bagni I bagni caldi fanno bene al cuore Secondo uno studio inglese, bagni caldi e sauna sono benefici contro gli infarti del miocardio, contrariamente a quanto si pensa. Un bagno di un’ora, a 40°, fa aumentare la temperatura corporea di un grado e consuma altrettante calorie di una marcia di trenta minuti. Il calore, come lo sforzo, aumenta la produzione di monossido di azoto, una molecola che dilata le vene e abbassa la pressione arteriosa. Il calore, inoltre, stimola la liberazione di diverse proteine che normalizzano la glicemia.

L’antico profumo dei gelsomini della Madonna Mondoverde Messi a dimora isolati oppure all’interno di siepi miste o aiuole,

i filadelfi sono l’ideale per impreziosire i giardini

Anita Negretti Le fragranze legate ad alcuni fiori riportano ai ricordi del passato e il Philadelphus è in grado di trasportarci alla memoria di giardini antichi, quelli delle ville ottocentesche, ricchi di arbusti lasciati crescere liberamente e dunque ricchi di fiori. Grandi fiori bianchi formati da quattro petali, stami gialli in evidenza, un aroma delicato ma persistente e lunghi rami solitamente arcuati carichi di boccioli che si aprono tra maggio e giugno, sono le caratteristiche principali di questa pianta. I rami hanno la particolarità di scortecciarsi in maniera più o meno evidente in base alla specie e le foglie decidue sono verdi con nervature in rilievo. La specie più diffusa è senz’altro Philadelphus coronarius, chiamato «fior d’angelo». Si tratta di un arbusto originario dell’Europa e diffuso spontaneamente anche nei nostri boschi: raggiunge l’altezza di circa due metri, ha un portamento a sfera ed è molto rustico, tanto da arrivare a sopportare punte di gelo fino a –25°C. Simile per

dimensione ma con profumo forse più intenso è P. virginal; anch’esso molto rustico, ama posizioni di ombra parziale, ma si adatta anche al pieno sole e si caratterizza per via dei suoi fiori con doppi petali. Per nostra fortuna in commercio vi sono numerose varietà anche dallo sviluppo più contenuto, la cui origine si deve in gran parte al lavoro di ibridazione di un illustre vivaista di metà Ottocento, Victor Lemoine. Nel suo prolifico lavoro di creatore di nuove varietà di molte piante, Lemoine si è soffermato per lunghi mesi anche sul genere Philadelphus, in particolare si concentrò sull’incrocio con P. microphyllus, alto solo un metro dando origine a ibridi dalle ridotte dimensioni ma dai lunghi rami penduli e ricchissimi di fiori, come «Sybille» e «Conquèt». Non soddisfatto di aver creato questi ibridi, si specializzò anche nella creazione di varietà con petali non più solo bianchi, riuniti poi sotto il nome di Philadelphus purpureo-maculatus, di cui fanno parte «Bicolore», dal centro rosa intenso, e «Sybille», dal rosa più delicato. Il lavoro di Lemoine è continuato

anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1911, con altri ibridatori. I risultati hanno dato origine negli ultimi anni ai bellissimi «Snowflake» e «Snow Velvet». Entrambi con fiori bianco puro, doppi nel primo e semidoppi nel secondo, si distinguono per via dell’esuberanza della fioritura e del rapido sviluppo.

Numerose varietà sono nate grazie al lavoro di ibridazione dell’illustre vivaista Victor Lemoine Non solo i fiori o l’altezza, ma anche le foglie sono state oggetto di interessanti modifiche, come con P. coronarius «Variegatus», dal fogliame tondeggiante e dal bordo screziato di bianco crema, bello non solo durante la fioritura, ma anche nei mesi rimanenti per via della macchia di colore in grado di regalare alle aiuole. Altra variegatura delle foglie, però più tendente al giallo crema,

è quella di Philadelphus «Innocence», un bell’arbusto alto fino a 180 cm con una chioma compatta. I filadelfi, anche noti con il nome «gelsomini della Madonna» appartengono alla famiglia delle Hydrangeaceae e comprendono circa sessanta specie, prediligono terreni poveri e sassosi, ben drenati e una moderata concimazione a fine inverno con letame ben maturo. Potati subito dopo la loro fioritura, manterranno una buona emissione di boccioli fiorali, anno dopo anno, mentre per mantenere la pianta sempre giovane è utile eliminare dal colletto i rami vecchi, per favorire l’emissione di quelli nuovi e maggiormente produttivi. Il periodo ideale per la piantumazione in piena terra è compreso tra novembre e la fine di marzo: andrà inizialmente assicurata una buona bagnatura iniziale, mentre poi la pianta provvederà autonomamente con la sola acqua piovana. Utilizzati come esemplari isolati oppure all’interno di siepi miste o aiuole profumate sono l’ideale per impreziosire i giardini.

L’attività fisica e gli adolescenti La spinta a voler fare attività fisica diminuisce prima dell’adolescenza. Lo dimostra una ricerca inglese che riporta i risultati dell’osservazione dell’attività fisica e della pratica sportiva, anche regolare, di ragazzi di 7, 9, 12 e 15 anni, maschi e femmine. I ricercatori affermano che, per mantenere i giovani in buona salute, è necessario spingerli a continuare attività fisiche, sia pure semplicemente andare a scuola a piedi o evitare l’ascensore, perché, quando raggiungono l’adolescenza, le buone abitudini sono già perdute. Chi è colpito dall’emicrania? L’emicrania colpisce tanto obesi che magrissimi. L’analisi condotta su trecentomila soggetti ha dimostrato che l’emicrania viene più frequente a chi si trova ai due estremi della curva del peso. Per ragioni ancora sconosciute, l’obesità fa aumentare il rischio di emicrania del 21 per cento e la grande magrezza del 12 per cento. Lo riferisce la rivista «Neurology». La forza protettiva delle fragole Ci sono frutti che riducono colesterolo, trigliceridi e glicemia. Sono le fragole, secondo uno studio pubblicato sul «Journal of Agricultural and Food Chemistry»: esse hanno effetti protettivi nei confronti di malattie cardiovascolari, infiammatorie, tumori, diabete e obesità. Uno spettro tanto ampio si spiega nelle attività antiossidanti e antinfiammatorie dei loro composti bioattivi, che esercitano un’azione diretta e indiretta, abbassando così il rischio di insorgenza delle malattie cronicodegenerative. Annuncio pubblicitario

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Quando la povertà mostra il suo volto Per saperne di più su Amal e la sua famiglia: www.farelacosagiusta.caritas.ch

Amal Mahmoud (43 anni), Siria, lotta per far sopravvivere i suoi figli.



Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Ambiente e Benessere

Il vino dei Traci

Bacco Giramondo La Bulgaria ha un’antichissima tradizione vitivinicola, arricchita dalle varie culture

che l’hanno influenzata e dalle diverse situazioni morfologiche del paese

Davide Comoli Come dimostrano i resti relativi alla cultura di Karanovo, le terre corrispondenti all’odierna Bulgaria furono densamente popolate già nel Neolitico. E all’età neolitica stessa dovrebbe risalire, a quanto pare, anche la coltivazione della vite in questa regione (VI e III millennio a.C.). Numerosi sono i reperti archeologici che testimoniano come i Traci, gli antichi abitanti di queste terre, seppero sviluppare in materia enologica una cultura di notevole livello. Gli scavi hanno infatti riportato alla luce, intatto in oro puro, coppe e brocche per il servizio del vino, e numerose sono le vasche di vinificazione in pietra, di epoca tracia. Né va trascurato il fatto che prima della conquista romana i Traci ebbero rapporti con i vicini Greci. Occupata definitivamente dai romani durante il regno di Augusto, fu eretta a provincia dell’Impero romano sotto Claudio. I vantaggi acquisiti con la dominazione romana vennero persi nel periodo delle scorrerie barbariche, sino a quando nel VI sec. apparvero nella zona, penetrando dal basso corso del Danubio, i bulgari che si stabilirono nei territori compresi tra il fiume ed i Balcani. La conversione al cristianesimo contribuì alla formazione di una vera e propria nazione bulgara. Nel 1880 la Bulgaria conosce la sua età dell’oro, che gratifica la regione con grandi innova-

zioni. È in questo periodo storico che i fratelli Kyrillos e Methodios mettono a punto l’alfabeto cirillico, che avrebbe molto influenzato la letteratura e la cultura slava. Da allora la coltivazione della vite non fu mai completamente abbandonata, malgrado la plurisecolare dominazione ottomana (1393-1878), diventata sinonimo di depressione economica e di oppressione sociale per il popolo bulgaro. L’ultimo grave ostacolo fu quello creato dalla diffusione della filossera, debellata già intorno agli anni ’30, ma presente fino alla fine della Seconda Guerra mondiale, la quale porta il Paese sotto il blocco sovietico. La viticoltura veniva praticata in Bulgaria da piccoli viticoltori che producevano il loro vino. Nel 1944 il Governo decide di nazionalizzare la viticoltura. Nelle scuole di enologia s’incominciano a formare nuovi specialisti ed introdurre nuovi vitigni come il Merlot, il Cabernet Sauvignon e il Riesling Italico, che furono messi a dimora accanto ai locali Mavrud e Gamza. Si può affermare quindi con certezza che in ambito enologico, tra tutti i Paesi del vecchio blocco dell’est, la Bulgaria è stata quello che ha tratto più benefici dalle nuove condizioni politico-economiche. Dopo che nel 1980 Gorbaciov aveva nella sua lotta contro l’alcolismo fatto estirpare 90’000 ettari, oggi il vigneto bulgaro conta una superficie vitata di 73’000 ettari, con una produzione di

ca. 1,6 milioni di ettolitri annui di vino equamente diviso tra bianco e rosso. Fra i vitigni bianchi più coltivati troviamo il Muscat Ottonel, molto diffuso per la produzione di vini dolci, lo Chardonnay e il Sauvignon Bianco che trovano il luogo ideale per la coltivazione vicino al Mar Nero. Tra i rossi troviamo gli autoctoni Mavrud, che dà buoni vini da invecchiamento, il Pamid, che è il vitigno più coltivato ma dona vini semplici e beverini, il Melnik e il Gamza spesso impiegato in uvaggi con il Merlot e l’onnipresente Cabernet Sauvignon. La Bulgaria ha un clima fortemente continentale con inverni molto rigidi ed estati roventi, solo in parte mitigati

e addolciti dal Mar Nero e dal fiume Danubio. La siccità alle volte crea grossi problemi e le tecniche di produzione, che non sono certo all’avanguardia, sono grandi ostacoli ad una produzione costante e di qualità, anche se ad onor del vero la Bulgaria sta facendo grandi sforzi per cercare di produrre vini di qualità che vadano incontro ai gusti dei mercati stranieri. La nazione possiede più di cento piccole regioni vinicole, che si dividono in cinque zone: la pianura del Danubio, la regione del Mar Nero, la regione sotto-balcanica con i contrafforti montuosi dei Balcani e la Valle di Maritza al centro, la Tracia e la Valle della Struma.

Al nord la Dunavska Ravnina (Pianura Danubiana) rappresenta il 35% del vigneto bulgaro: il Pamid è il vitigno nero più diffuso, ma troviamo buoni Merlot e Cabernet Sauvignon, tra i bianchi l’Aligoté e il Muscat Ottonel usati anche per la produzione di spumanti, da non dimenticare gli autoctoni Gamza tra i neri e il Misket nei vitigni bianchi. In alcune zone della Pianura Danubiana, le nebbie mattutine e le grandi insolazioni durante il giorno, creano ottime condizioni per lo sviluppo della «Botrytis Cinerea», qui infatti troviamo dei vini «muffati» molto beverini. Verso il Mar Nero troviamo la zona di Tschernomorski Raion, qui grazie ad un clima mediterraneo, si coltivano vitigni a bacca bianca come: il Damiat, il Trebbiano, il Muscat Ottonel, il Riesling e interessanti Chardonnay. Nella parte sud-orientale del Paese, appena sotto Sofia, troviamo lungo il fiume omonimo, la piccola regione di Strumatal, dove con i vitigni a bacca nera sopraccitati, si elaborano buoni vini, caldi e con profumi di bacche di bosco e spezie. La più antica regione viticola bulgara è la Trakiiska Nizina, nel sud-est del Paese, dove troviamo senza dubbio il miglior Mavrud della Bulgaria. Al centro del Paese troviamo la famosa Valle delle Rose, dove il vitigno Misket incrociato tra il Dimiat x Riesling dà il meglio di sé, sia quello a bacca bianca che il clone a bacca rossa. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Ambiente e Benessere

I molti usi del colorato zafferano Parliamo un po’ dell’amato zafferano. È una pianta erbacea bulbosa, da cui si ricava una polvere rosso-arancione, aromatica e fortemente colorante. Originario dell’Asia Minore, da dove si è diffuso nel bacino del Mediterraneo (soprattutto Spagna, Grecia e Italia), lo zafferano è frutto di un incrocio fra due varietà fertili di Crocus. Il bulbo sotterraneo dà origine a graziosi fiori violacei, caratterizzati dalla presenza di tre stami e di tre pistilli; la porzione superiore di questi ultimi, imbutiforme, è chiamata stimma e ha un vivace colore rossoaranciato: proprio dalla sua essiccazione e macinazione si ottiene la pregiata polvere dal sapore amarognolo e lievemente piccante tanto apprezzata in cucina. Il nome viene dal latino safranum, derivante a sua volta dall’arabo za’ faran, che significa «giallo». Sia la coltivazione sia la lavorazione dello zafferano sono manuali: i fiori si raccolgono in ottobre-novembre, di buon mattino ancora chiusi; gli stimmi vengono sfilati, fatti essiccare e messi in commercio ridotti in polvere o sotto forma di filamenti: nel primo caso, il prodotto è pronto per essere unito direttamente alle preparazioni, mentre gli stimmi secchi (preferibili perché di migliore qualità), devono essere stemperati in brodo o acqua caldi. Noto fin dall’antichità, lo zafferano contiene la crocina (carotenoide ricco di antiossidanti e precursore della vitamina A), le vitamine B1 e B2 e aromi naturali che favoriscono i processi digestivi. Dopo la vaniglia, è la spezia notoriamente più costosa, a causa della bassissima resa degli stimmi (per produrre 1 kg di zafferano è necessa-

rio raccogliere circa 150mila fiori): spesso è quindi adulterato o sostituito con il cartamo (o zafferanone) o con la curcuma, di costo minore ma qualità inferiore. I gastronomi ne descrivono il gusto come simile al miele, con note erbose di fieno, metalliche e con una punta di amaro. Sia per l’aroma raffinato sia per il tipico colore rossoarancione, che conferisce tonalità ambrate agli alimenti, lo zafferano è molto ricercato in cucina e impiegato nella preparazione di piatti tradizionali di diversi paesi: dalle spagnole paella valenciana, zarzuela e fabada asturiana alla bouillabaisse francese, dal nostrano risotto alla milanese al saffron bun della Cornovaglia. In Iran è un ingrediente del piatto nazionale, il chelow kabab, mentre gli uzbeki lo usano per insaporire un tipo di pilaf. In Marocco si usa nelle kefta (polpettine al pomodoro) e per preparare mqualli (pollo al limone), mrouzia (agnello con prugne e mandorle) e chermoula (una salsa a base di erbe che profuma varie pietanze); è inoltre presente in piatti indiani sia salati, come i biriani (riso e verdure speziati), sia dolci, con il latte, come il lassi. Il suo inconfondibile aroma si sprigiona nell’abbinamento con cereali, carni, verdure e dolci; è impiegato per aromatizzare diverse pietanze, dall’impasto per la pizza a quello per gli gnocchi, dal ripieno dei tortelli all’impanatura per le cotolette, dai sardi malloreddus a vari dolci (crema pasticciera, panna montata, panna cotta, gelato alla vaniglia e le famose zippulas, frittelle di carnevale). È infine usato per aromatizzare diversi liquori: lo Chartreuse (a base di erbe, prodotto in un monastero vicino a Grenoble), l’Izarra (originario di Bayonne, nei Paesi Baschi francesi) e il beneventano Strega.

CSF (come si fa)

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Allan Bay

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Gastronomia La costosa spezia è usata sia in piatti dolci sia per preparazioni salate

Oggi, tre ricette a base di zucca. Un ingrediente versatile che si conserva bene dopo la raccolta, per questo è onnipresente nella cucina. Uova strapazzate con la zucca. Per 4 portate. In una ciotola, sbattete 8 uova con circa 1 dl di panna da montare e regolate di sale. Tagliate a dadini 100 g di polpa di zucca e 100 g di sedano rapa, fateli saltare in padella con una noce di burro per 10’, quindi por-

tate la fiamma al minimo e unite le uova. Cuocetele strapazzandole fino a quando la consistenza sarà cremosa, poi unite una manciata di groviera grattugiato, cuocete ancora per 1’, regolate di sale e di pepe e servite subito. Zucca con cozze e mela. Per 4. Mettete 30 grosse cozze in una padella, unite poco vino bianco secco e fatele aprire cuocendole coperte per 5’. Lasciatele intiepidire, sgusciatele e filtrate il fondo. Sbucciate 1 mela, eliminate il torsolo, tagliate la polpa a dadini e irrorateli con succo di limone perché non anneriscano. Riducete a cubetti 400 g di polpa di zucca e 100 g di cipolla rossa sbucciata, cuocetele a vapore per 20’, poi frullate il tutto allungando con un poco del fondo. Regolate di sale e di pepe. Mettete la crema ottenuta in 4 fondine e guarnite con le

cozze e i dadini di mela. Profumate con cannella e noce moscata, irrorate con poco olio e servite. Zucca al latte di cocco. Per 4. Portate a bollore mezzo litro di latte, quindi versatelo su 200 g di polpa di cocco finemente grattugiata, lasciate macerare per 2 ore e filtrate con un tovagliolo strizzando forte. Versate il latte di cocco in una casseruola, aggiungete 150 g di zucchero di canna e un pizzico di sale e scaldatelo a fuoco basso, senza farlo bollire, mescolando finché tutto lo zucchero si sarà sciolto. Pelate 600 g di zucca, tagliatela in cubetti da 2 cm per lato, mettetela nel latte e proseguite la cottura a fuoco basso per circa 15’, mescolando di tanto in tanto, finché risulterà morbida ma non disfatta. Servitela a temperatura ambiente.

Ballando coi gusti Oggi, due primi piatti che in realtà sono piatti unici: contengono sia proteine sia carboidrati.

Pasta con ragù di pollo

Zuppa di moscardini con gnocchi

Ingredienti per 4 persone: 320 g di pasta corta a piacere · 300 g di polpa di pollo

Ingredienti per 4 persone: 500 g di gnocchi di patate · 500 g di moscardini · 50 g di bottarga di muggine · 16 olive nere · concentrato di pomodoro · 1 spicchio di aglio · 1 cucchiaio di capperi sotto sale dissalati · 4 fili di erba cipollina · brodo di pesce o vegetale · olio di oliva · sale e pepe.

· 300 g di piselli decongelati · 200 g di polpa di pomodoro · 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro · 1 cipolla · olio di oliva · sale e pepe.

Tagliate il pollo a cubetti. Tritate finemente la cipolla, quindi fatela soffriggere in un tegame a fuoco medio con un filo di olio. Unite il pollo e saltatelo per qualche minuto. Aggiungete i piselli, la polpa e il concentrato di pomodoro; bagnate con un mestolo di acqua calda e fate cuocere il ragù per 30’. Regolatelo di sale e di pepe. Cuocete la pasta in abbondante acqua salata al bollore, scolatela al dente e saltatela per 1’ nel tegame con il ragù, unendo un poco dell’acqua di cottura.

Pulite i moscardini, saltateli interi in una padella con olio e lo spicchio di aglio per un minuto. Coprite con brodo bollente, stemperate poco concentrato di pomodoro e terminate la cottura, regolate di sale e di pepe. Lessate gli gnocchi in acqua bollente, scolandoli con una schiumarola man mano che affiorano in superficie. Versate la zuppa di moscardini nelle fondine, aggiungete gli gnocchi, le olive, i capperi, le lamelle di bottarga, l’erba cipollina spezzettata, un filo di olio e un’allegra macinata di pepe.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Ambiente e Benessere

Tutto un mondo attorno

Mondoanimale Il cavallo è un animale impegnativo che coinvolge molte persone e altrettanti mestieri Maria Grazia Buletti Torna il consueto appuntamento cantonale che mette al centro dell’universo equestre l’indiscusso protagonista: il cavallo. L’appuntamento è fissato per sabato 5 maggio. «Siamo all’ottava edizione della giornata cantonale dedicata a cavalli, asini, muli e affini e quest’anno abbiamo scelto di mettere in evidenza tutti i mestieri che ruotano attorno a questo magnifico animale, al suo accudimento e al suo impiego nel tempo libero e nello sport», riassume la segretaria della Federazione ticinese degli sport equestri (Ftse) Elisabetha Garobbio, che ricorda come nel corso di tutta la giornata parecchie strutture equestri apriranno le loro porte al pubblico e mostreranno questo mondo abbastanza misterioso e tanto affascinante: «Sul sito della Federazione (www.equiticino.ch) potrete trovare la lista delle scuderie che aderiscono alla Giornata cantonale e i relativi programmi di intrattenimento per i visitatori». Dal canto suo, il presidente della Ftse, Stelio Pesciallo, mette l’accento sul tema scelto per quest’edizione che ha l’obiettivo di evidenziare la presenza dei cavalli su suolo ticinese e il crescente interesse che essi suscitano: «Con il motto Il cavallo & i suoi mestieri il mondo equestre vuole accendere i riflettori su un approccio consapevole e corretto verso gli equini e il loro mondo». Lo scorso anno era stato dato spazio a importanti riflessioni sulla presenza degli equini nel nostro territorio e sulla loro contestualizzazione sempre più difficoltosa, come aveva ben spiegato a suo tempo l’avvocates-

Giochi Cruciverba Sai qual è l’arcipelago nella foto e da circa quante isole e isolette è formato? Potrai scoprirlo risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 7, 10)

sa Ester Camponovo, presidente della alcune schede informative circa i diffeCommissione cavallo e ambiente della renti mestieri del mondo del cavallo», Ftse: «È importante farci conoscere e ricorda Elisabetha Garobbio, citanpermettere alla popolazione di capire do come esempi di professionista del in modo più prossimo il mondo equecavallo, il custode di cavalli, il manistre che fatica a mantenere gli spazi scalco, il veterinario e via dicendo. Menecessari a causa dell’incipiente urbastieri che saranno ben illustrati nelle nizzazione, dell’evoluzione agricola scuderie, dove si vedranno praticare da sempre più intensiva e degli spazi vervicino le attività sportive come il dresdi di condivisione sempre più esigui, sage e il salto a ostacoli, l’avvicinamenatti ad ospitare ogni genere di utenza to al cavallo per i bambini più piccoli, (come ciclisti, escursionisti, proprietale passeggiate in sella, e i mestieri come ri di cani, e naturalmente cavalli…)». maniscalco, veterinario, terapeuta che Riflettori sul cavallo come animapratica ippoterapia o terapia equestre. le da tutelare e far conoscere che non «Per quanto riguarda le scuole si sono mai spenti (il cui interesse ha di equitazione, le discipline sportive varcato addirittura il Gottardo ed è ape gli sport equestri in senso lato, esse prodato alla Federazione svizzera degli saranno presentate in tutta la loro sport equestri), come ricorda la Camcompletezza e nella professionalità neponovo: «Lungo tutto l’arco dei due cessaria che permetterà di mettere in anni passati, la Commissione cavallo evidenza le differenze di competenze e ambiente della Ftse si è adoperata per dell’ippica e dell’equitazione, due setpromuovere la Campagna di 1sensi- 2 tori spesso sovrapposti», puntualizza 3 4 5 6 bilizzazione Cavalli e carrozze nella la segretaria della Ftse che ricorda ancircolazione stradale, volta sì alla coche le strutture equestri che, invece, 7 8 noscenza delle regole, ma soprattutto tenderanno a presentare l’approccio a dare alla popolazione un’immagine naturale con l’animale, volto a una più 10 positiva del cavallo: un animale 9molto profonda conoscenza della comunicaaffettuoso, comunicativo ed empatico, zione uomo-cavallo. contraddistinto da una grande 11 capaOgni aspetto legato al cavallo sarà 12 cità di adattamento non solo nei conperciò presente, senza dimenticare i fronti dei suoi simili, ma anche con noi cavalli anziani per i quali in Ticino si 14 15 16 17 un animale addomesticato dalesseri13 umani». sendo do esperienze consapevoli e positive», sta prendendo sempre più piede una A differenza di tanti altri animali la notte dei tempi, il cavallo ha infatti ribadisce il presidente Pesciallo. particolare attenzione, permettendo SUDOKUdiPER AZIONE 2018 con cui La conoscenza questi anima- - MARZO loro nell’età avanzata di non essere più 18 entriamo in contatto più facil- 19 mantenuto quella sua parte che 20chiamente, pochi di noi hanno la possibi- miamo «selvatica» che lo rende affa- li, nel loro animo, nelle loro esigenze allontanati in pascoli oltre confine, ma FACILE lità e l’occasione di vedere un cavallo, scinante e misterioso ai nostri occhiN. 9e abitudini, si interseca allora con la di trovare un degno luogo di pensio21 22 23 Schema Soluzione se non in un maneggio, una volta ogni di esseri umani. Eppure, per il cavallo conoscenza di tutto quanto ruota loro namento. Tutto questo e altro ancora 5 2 concerne 4 5 parte 9 6della 8 realtà 2 4equestre 7 3 ticine1 tanto: «Magari abbiamo l’opportuni- addomesticato, il rapporto e la comuattorno, che noi umani e il farà 25 qualche 26 sono fondamentà di avvicinarlo o24 cavalcarlo nicazione con l’uomo nostro approccio: «Per questo, sabase, promossa e presentata per l’ottava 7 5 2 1 7 5 3 6 9 4 8 volta (pensiamo alle vacanze) quan- tali, «Come è fondamentale avvicinar- to 5 maggio ogni struttura equestre volta dalla Federazione ticinese sport 4 9 3 8 4 7 9 1 5 2 6 do tentiamo un timido approccio che si a questo 28 mondo in modo adeguato e aderente alla Giornata2 di 6porte aperte equestri il primo fine settimana di 27 2 8 1 9 2 8 4 7 3 6 1 5 lascia poi il tempo che trova». Pur es- opportuno, in tutta sicurezza e viven- metterà a disposizione dei visitatori maggio.

Giochi per “Azione” - Aprile 2018 Stefania Sargentini

(N. 13 - “Secondo me non viene più”)

N E G L I 3

O R D E I A L G I 8 5 2 9

(N. 14 - Bahamas, settecento

O R M E

C A P O 4

1

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9 12

4

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6

10

8 4 9 3 6 7 1 5 2 N. 13 FACILE N. 10Sudoku MEDIO B 7O3 A S C Schema H 5 4 5 I8 2 E7 3N 1 A 6 9 8

7

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Soluzione:

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9 23

24

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6 4 1

2

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25

7 3

24. Nome dell’attore Cruise 25. Un animale nella fattoria

8

2

6 1

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6

9

1

29 2

Groenlandia Giochi per 1 9 5 7 3 2 8 4 6 1 5 “Azione” - Aprile 8 2018 4 6 19. Stato dell’Asia orientale Soluzione della settimana precedente Stefania Sargentini 6 4un2bambino!» 9 1 Risposta 8 3 di 7 lui: 5 6 9 3 20. Pesante copricapo TRA CONIUGI – «Amore sono due mesi che aspetto 22. Fiume russo «SECONDO ME NON VIENE PIÙ». - “Secondo me non viene più”)N. 12 GENI 5 (N. 6Pronome 24.13 personale 1 2 3 4 5 6 8 1 9 2 3 4 5 7 6 8 2 S E C 6C H I O 7 8 4 3 2 9 4 5 6 1 7 8 5 4 8 O3 L I O V R 9 10 5 9 1 8 4 7 3 2 6 3 5 1 P I N D A M 7 6 11 12 11 6 4 8 7 2 1 9 5 3 4 R O5 M I N E 13 14 15 16 del concorso 17 Vincitori Cruciverba 9 2 3 8 6 5 4 1 7 N O R M A T 7O 9 R O 2 1 6 su «Azione 15»,19del 09.04.2018 20 18 E D E N V E R E C 9 3 8 6 2 5 7 1 4 1 4 9 2 L. Menegazzo, T. Natale, T. Marazzi 21 22 23 G I A P A L E T T A 1 6 4 9 8 2 7 3 2 Vincitori del concorso Sudoku 3 9 25 15 17 18 26 19 24 2516 su «Azione 15», del 09.04.2018 L1 I A 6 N 4 E T O P 2 9 5 3 1 7 6 4 8 2 9 L 27 28 T. Conceprio, S. Ballabio 2 6 I G5 I E N E U O M O 3 8 7 5 4 6 2 9 1 3 24

(N. 15 - Balia Nera - Dai cinque ai novemila)

VERTICALI 1 dimostrazione 2 3 di affetto 4 1. Una 2. Onda all’asciutto... 3. Biblica madre di Isacco 7 8 4. A est della Francia... 5. Simbolo chimico dell’olmio 9 6. Importante accadimento10 7. Relazione, legame 8. Hanno superato la statura 12 10. Gradino sociale 13. Con, per i tedeschi 13 14 14. Contenuto di uno scritto 16. La nota Grandi 20 21 del bue muschiato 22 23della 18. Lungo quello

9 5 2 A I 8O 2 9 1 4 V5 6E 7 L 3 8 1 3 5 6 9 8 4 7 2 R A 6 86T2 47 E1 4S 9 T 5 3 9 77 4 3 2 5 8 1 1 6 2A 8 3S E N S I 3 1 6 8 4 9 5 2 7 5 2 9 2 P E S 1 T3 7O68 8 4 1 8 4 7 5 6 2 3 9 1 7 1 5 C E R T O E 2 5 8 1 6 9 7 3 64 8 I L 5E9 36O4 8 71D 3 5 L2 1 4 7 6 7 3 1 2 59 4 6 9 8 N O N5 2 6 3T 9 O M 1 4 8 7 7 3 4 7 61 5 83 3 A A4 8 S9 6I 2 N O

A L C C A M E 8 I I T7 9 O1 T7 T O

Scoprire i 3 5 3 numeri4 corretti da inserire9nelle 8 4 7 caselle 2 colorate.

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

E C C H I L I O V I N D A O M I N T O R O V E R E A L E T T N E T O E 1 7 3U6 8O5 M 2 9

4 9 6 5 9 1 2 8 7 3 Vinci una delle 3 carte regalo da850 franchi con47 ilSUDOKU cruciverba 6 9 AZ 4 8 3 6 9 5 2 1 4 8 3PER e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 3 2 4 7 6 3 1 2 5 9 4 8 7

N. 11 DIFFICILE

ORIZZONTALI 1. Al femminile galleggia, al maschile striscia 3. Compresa tra spalle e reni 9. Le iniziali di Lincoln 10. Un gioiello di Cornelia 11. «Oppure» latino 12. Un ambiente in casa 14. Prova di intelligenza 15. Andata per Cicerone 16. Ci sono anche quelli di colpa 17. Un numero 18. Un condimento per la pasta 19. Inconfutabile 21. Osso del bacino 22. Le iniziali dell’attore Liotti 23. Letto al contrario non cambia

S O P R M A N P I A E N

I vincitori

I premi, cinque carte regalo Migros 27(N. Partecipazione online: inserire la 25 26 28 14 - Bahamas, settecento del valore di 50 franchi, saranno sor- soluzione del cruciverba o del sudoku 2 3 4 5 6 7 8 teggiati tra i partecipanti che avranno 1 nell’apposito formulario pubblicato 29 30 31 32 33 10 11 fatto pervenire la soluzione corretta 9 sulla pagina del sito. entro il venerdì seguente la pubblica- 12 Partecipazione postale: la lettera o 13 14 zione 34del gioco. 35 la cartolina postale che riporti la so15

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N. 14 MEDIO

B A L S A I R A N S E R A A V O R R E R O E T5 I luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, partecipante deve S email Qadel«Redazione U A M 8 essere B O spedita A S C H7 I EAzione, N A Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». A LsiP CU A Icorrispondenza SO V EOsui1L Non intratterrà C A M E R A E SNon T concorsi. Le vie legali sonoTescluse. I II TOA LS EEN S I

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O L E O S C E S I A N T R8 O è7 possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti Eper iscritto. 1 IlAnomeIdei vincitori 2 N 4sarà pubblicato su «Azione». Partecipazione Vriservata E esclusivamente C aMlettori3Iche 8 risiedono in Svizzera. A L L O R O


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Politica e Economia La politica estera Usa in Siria La tragedia siriana è un test per l’amministrazione Trump, riluttante a fare il gendarme del mondo

La exit strategy di Mosca Le sabbie mobili della Siria rischiano di far sprofondare Putin, sempre più schierato con Damasco e Teheran pagina 25

Iran e Israele ai ferri corti In Siria fino ad ora vi sono state diverse guerre per procura fra potenze regionali e internazionali, ma ora si sta scatenando quella diretta fra Tel Aviv e Teheran

Perequazione da riformare Il Consiglio federale ha messo in consultazione un nuovo modello di compensazione cantonale

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Civili siriani a Douma, teatro dell’attacco chimico di Assad. (AFP)

Un triangolo vincente

Siria L’entrata in campo della Russia si è dimostrata determinante: con la Turchia e l’Iran

ha formato un’alleanza efficace per la sopravvivenza del regime di al-Assad Lucio Caracciolo Bashar al-Assad sarà a capo di quel che resta della Siria per il tempo prevedibile. I ribelli di varie fazioni o orientamenti che lo hanno appoggiato, insieme ai loro sostenitori esterni, hanno perso. La guerra siriana continuerà ancora a lungo, aggiungendo morti ai morti, feriti ai feriti, profughi ai profughi, ma l’esito strategico è evidente. E contrario alle previsioni di molti, soprattutto di coloro che avevano attaccato il regime pensando di rovesciarlo in un paio di mesi: il presidente turco Erdoğan, la famiglia regnante saudita, gli Stati Uniti, la Francia e l’Inghilterra. Durante i sette anni di una guerra che minaccia di durarne ancora parecchi – perché gli attori coinvolti sono troppi e nessuno è in grado di controllare tutto il territorio, anche se nessuno pare dotato della volontà e della capacità di prendere Damasco e la «Siria utile» in mano al clan Assad – vi sono stati rovesciamenti di fronte e scontri fra ex alleati. In particolare, molte formazioni ribelli si sono sparate addosso, specie quelle di ideologia e derivazione qaidista, come Jabhat al Nusra e lo Stato

Islamico, ormai ridotto a detenere uno spicchio di territorio a ridosso della teorica frontiera con l’Iraq. Ma più di tutto, nel determinare la situazione attuale, ha pesato l’esitazione degli americani, che non hanno spinto fino alle estreme conseguenze il loro sostegno alla molto eterogenea coalizione antiAssad. Quando poi il presidente Obama, contrariamente alle promesse, non ha rispettato le «linee rosse» da lui stesso fissate, lasciando che un massacro compiuto dal – o almeno attribuito al – regime di Damasco grazie all’impiego massiccio di armi chimiche restasse impunito, si è capito che l’inerzia della guerra volgeva a favore degli al-Assad. Lo stesso Trump, che ha fatto della pretesa differenza fra lui e Obama il marchio della sua presidenza, per ben due volte di fronte a casi simili di sospetto impiego di armi chimiche da parte dei governativi ha deciso che si rispondesse da parte americana, con il blando supporto francese e britannico, attraverso una rappresaglia simbolica, inefficace. A quel punto la sconfitta della coalizione anti-Damasco è parsa a tutti irreversibile. Il discrimine strategico è stata l’en-

trata in campo della Russia, che ha ormai formato con l’Iran e con la Turchia – interessata soprattutto a impedire la saldatura fra curdi siriani e Pkk, ovvero quelli che considera terroristi curdi operanti sul proprio territorio – un triangolo scaleno vincente. Forse fragile, probabilmente destinato a evaporare con la vittoria definitiva, ma finora assai efficace. Che cosa perseguono russi, iraniani e turchi oggi in Siria? La scelta di Putin di intervenire in Siria è stata frutto della sconfitta subita in Ucraina, nel 2014. La perdita di Kiev e della «Nuova Russia», l’arroccamento nei territori ucraini orientali a maggioranza russofona appena compensato dal ratto della Crimea, è stato uno schiaffo che ha messo in discussione il prestigio e la credibilità del presidente russo. Particolarmente insolente, per Putin, è stata la sentenza di Obama per cui la Russia non era altro che una «potenza regionale», attiva nell’area ex sovietica. Punto. Per dimostrare il contrario, Putin ha deciso l’intervento al fianco del vecchio sodale al-Assad. Facendo leva sugli antichi vincoli di epoca sovietica fra quel regime e il Cremlino, sulla base russa

installata lungo la costa mediterranea della Siria (oggi ne ve sono almeno tre) e sulla indubbia efficacia delle sue Forze armate, soprattutto dell’Aviazione e dei missili a lunga gittata. Senza il sostegno russo, Damasco non avrebbe mai ripreso Aleppo, città strategica nel nord del Paese. Quella è stata la svolta militare decisiva, che ha segnato un tornante strategico. La Russia non resterà a lungo in Siria, ma certamente non lascerà le sue basi e preserverà la sua influenza nel Paese, usandolo come base di relativa penetrazione nel Mediterraneo e in Nord Africa. Quanto a Teheran, la perdita della Siria a favore del suo rivale regionale, l’Arabia Saudita, e delle forze che la rappresentano in quel Paese, sarebbe stata fatale. Dopo la liquidazione di Saddam per mano americana, l’Iran si è trovato a disporre di un asse Beirut-DamascoTeheran-Herat, tra il Libano e l’Afghanistan occidentale, di fondamentale rilievo. Gli ayatollah lo chiamano «asse della resistenza», dove quest’ultima è riferita a Israele, all’Arabia Saudita e ai loro protettori americani. I suoi nemici lo chiamano «crescente persiano-sciita», ovvero la nemesi della propria ma-

trice arabo-sunnita, ai quali va aggiunto lo Stato ebraico e la massima potenza cristiana, sia pure sui generis. Infine la Turchia. Partita per recuperare un pezzo dell’impero ottomano di indimenticata memoria, contro una famiglia come quella degli al-Assad con cui Erdoğan aveva avuto notevole intrinsechezza, si sono trovati alla fine a dover difendersi dal rischio della nascita di un Kurdistan siriano, in teoria connettibile a uno curdo e a quello iracheno già effettivo. Ciò anche perché gli Stati Uniti, cui sono formalmente alleati, avevano deciso di usare i curdi contro al-Assad, nemico di Israele e dell’Araba Saudita, partner regionali di Washington. Sono infatti gli Stati Uniti i maggiori perdenti, finora, della partita siriana. Perché hanno dimostrato ancora una volta di non essere partner affidabili dei loro presunti alleati. E perché hanno confermato di non volere o potere impegnarsi fino in fondo in un’altra guerra mediorientale. A Washington basta mantenere un certo grado di equilibrio fra le potenze regionali e di evitare la fine di Israele. Tutto il resto è fumo. E strage.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Politica e Economia

Un raid punitivo e spettacolare Politica estera Usa La linea rossa che Obama non era riuscito a far rispettare in Siria, Trump oggi la sanziona

con tempeste di fuoco ma non vuole rifare il mondo né correggere il Medio Oriente. L’obiettivo resta sconfiggere l’Isis Federico Rampini Che cosa è accaduto in Siria? A più di una settimana dall’attacco missilistico scatenato da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, si fa quasi fatica a ricordare che ci sia stato: talmente è stato asettico, senza vittime… e irrilevante ai fini dei rapporti di forza sul terreno, nonché inutile se l’obiettivo è alleviare le sofferenze del popolo siriano. Tant’è che russi e siriani, dopo avere sostenuto che la strage chimica era una montatura dei servizi segreti inglesi, hanno negato l’accesso agli esperti internazionali di armi chimiche.

Decisivo è stato il ruolo dei generali americani che hanno tenuto attive le linee di comunicazione e coordinamento con i russi Appare tanto più singolare l’iniziativa di cosiddetti «pacifisti» inglesi, che hanno deciso di dimostrare a Londra contro «la guerra in Siria»: ce l’avevano con la partecipazione del loro governo all’intervento americano. Ma la guerra in Siria, quella vera, ha per protagonisti il macellaio Assad e il suo cinico sostenitore Vladimir Putin. È a Mosca che bisognerebbe manifestare: contro la partecipazione del governo russo a quella carneficina. La tragedia siriana è un test per la politica estera di Donald Trump. Prima riluttante a mischiarsi nella vicenda. Poi deciso a sanzionare l’uso di armi chimiche; ma altrettanto determinato a non farsi risucchiare in un intervento vero. La ricostruzione dei fatti aiuta a capire con che tipo di America abbiamo a che fare. I vertici militari non hanno mai abbracciato la visione isolazionista di Trump, che in campagna elettorale e anche dopo ha ripetuto: America First significa ricostruire casa nostra, non faremo più i gendarmi del mondo. In Medio Oriente questo presidente è sempre tentato dall’idea di delegare le grandi scelte ai due alleati di ferro, Israele e Arabia saudita. Il disimpegno da quell’area cruciale, dove l’America sostituì l’impero britannico ai tempi di Franklin Roosevelt, è agevolato dall’autosufficienza petrolifera degli Stati Uniti: una rivoluzione sconvolge le gerarchie energetiche planetarie, già da anni non una sola goccia di petrolio arabo viene importata negli Stati Uniti. Ma il Pentagono non condivide la logica mercantilista di America First, presidiare Mediterraneo e Golfo Persico significa conservare una leadership mondiale, la capacità di controllo sulle rotte cruciali che portano l’energia alla Cina. I generali sottolineano i limiti delle convergenze con Israele: quest’ultimo attacca le milizie sciite pro-iraniane in Siria, l’America considera l’Isis il nemico numero uno. Come conciliare un ritiro di truppe terrestri dalla Siria e l’attacco missilistico punitivo? Il precedente è di un anno fa: Trump si era insediato da poco alla Casa Bianca quando ordinò una pioggia di 59 missili Tomahawk contro la base aerea siriana di Al Sharyat, anche allora come castigo per l’uso di armi chimiche. Barack Obama quando fissò la sua «linea rossa», aveva minacciato l’intervento militare nel 2013. Poi ci ripensò, con un voltafaccia che molti considerano fatale per la perdita di credibilità degli americani in quell’area. La scusa di Obama: il Congresso

Nel discorso alla Nazione in cui annunciava il lancio di missili, Trump ha riassunto il suo nazionalismo isolazionista. (AFP)

non lo autorizzava. Putin gli offrì una scappatoia portandosi garante dell’eliminazione di ogni arsenale chimico posseduto dalle forze di Assad. Nel 2013 sia Trump sia John Bolton (il suo consigliere per la sicurezza nazionale, di fresca nomina) disapprovarono l’ultimatum di Obama alla Siria, sostenendo che non erano in gioco interessi strategici degli Stati Uniti. Ma già un anno fa Trump coi suoi 59 missili aveva fatto una concessione alla linea del Pentagono: è interesse vitale dell’America castigare chi viola i trattati e usa armi di distruzione di massa.

Qualunque cosa faccia questo presidente in Medio Oriente, è difficile eguagliare il bilancio negativo dei suoi predecessori Il bis del 2018 è arrivato nella tarda serata di venerdì 13 aprile: una pioggia di 110 missili concentrata su pochi minuti. La Russia ostenta indignazione ma è rimasta a guardare, essendo stata preavvertita e risparmiata dall’attacco Usa. Il raid è parso impeccabile, nessun

aereo occidentale abbattuto, niente vittime collaterali, solo impianti chimici colpiti. La «linea rossa» che Obama non seppe far rispettare, questo presidente la sanziona con tempeste di fuoco. Ma non vuol rifare il mondo, né correggere il Medio Oriente. Se i russi non reagiscono al di là delle proteste diplomatiche, e se Assad non sarà recidivo con le armi proibite, quello del 13 aprile resterà un raid una tantum, spettacolare e irrilevante. Trump ribadisce: «In Siria ci stiamo solo per sconfiggere l’Isis e praticamente ci siamo riusciti, presto riporteremo a casa i soldati». Il resto non lo interessa, Putin può consolidare il suo protettorato sulla Siria e rafforzare le triangolazioni con Iran e Turchia. Tutti contenti? Salvo morti feriti e profughi dell’interminabile guerra civile siriana. Smentito chi pensava che Trump fosse in cerca di una vera guerra per distrarre dagli scandali interni che lo assediano, il presidente ha liquidato in poche ore il dossier siriano, col minimo dei rischi. Decisivo è stato il ruolo dei suoi militari, dal generale John Mattis (segretario alla Difesa) al direttore di stato maggiore Kenneth McKenzie: hanno svolto un ruolo moderatore, hanno guadagnato tempo rispetto agli ultimatum frettolosi che

Trump twittò subito dopo la strage chimica. Hanno usato il ritardo per tenere attive tutte le linee di comunicazione coi russi anticipando nei minimi dettagli le loro mosse. Al punto che il raid somiglia a una messa in scena: i tre centri di ricerca e produzione di armi chimiche sono stati colpiti quando ormai erano vuoti non solo di uomini ma probabilmente anche di materiale. Lo spettacolo del dispositivo russo di difesa aerea e anti-missile, «sempre operante durante l’attacco, mai entrato in azione» (descrizione del generale McKenzie), la dice lunga sul livello di coordinamento tra i militari delle due superpotenze. Il Pentagono si auto-congratula: «Il programma di armi chimiche è stato incapacitato e ricacciato indietro di molti anni». Probabilmente è falso. Un anno fa i 59 missili Tomahawk scagliati su una base aerea siriana la misero fuori uso solo per qualche giorno. Nel discorso alla nazione in cui annunciava il lancio dei missili Trump ha riassunto il suo «nazionalismo isolazionista». È un presidente che adora le forze armate, ma non vuole usarle come gendarme globale per raddrizzare torti: «Non possiamo ripulire il mondo dal male né intervenire ovunque vi sia una tirannide. Il destino del Medio Oriente

è nelle mani dei suoi popoli». Si riallaccia ad un’antica tradizione della destra che risale a Andrew Jackson, il presidente populista del primo Ottocento; è lontana anni-luce dalla visione imperiale dei neo-conservatori che spinsero George W. Bush a invadere l’Iraq per rifare il Medio Oriente a loro immagine e somiglianza; è anche disillusa rispetto all’idealismo progressista di leader democratici come Wilson, Roosevelt, Obama. Il rapporto con Putin resta di grande freddezza, e di certo Trump si sta chiedendo perché. Un po’ dà la colpa ai suoi nemici interni che col Russiagate hanno avvelenato il dialogo con Mosca. Resta da capire perché Putin abbia avallato un attentato al veleno contro un suo ex agente in Inghilterra, e abbia consentito la strage chimica di Assad. Ancora tre settimane fa, Trump gli stava lanciando un invito alla Casa Bianca. Però: mai dire mai. Trump fa politica estera spiazzando tutti in un crescendo di disordine creativo. In Siria ha mostrato i muscoli ma il suo obiettivo resta di andarsene al più presto possibile da un conflitto che non lo interessa. Lo ha detto chiaro a Emmanuel Macron, smentendo il presuntuoso francese che diceva di averlo convinto a rimanere. Dopo l’affronto d’immagine inflitto a Putin con quella breve pioggia di fuoco, Trump ha stoppato chi voleva nuove sanzioni sulla Russia: segno che lui non rinuncia al progetto originario di un’intesa con l’uomo forte di Mosca.
Fervono i preparativi del summit a tu per tu con Kim Jong Un e il presidente americano rivela che a esplorare in avanscoperta lui aveva mandato in Corea del Nord il capo (uscente) della Cia nonché segretario di Stato in pectore, Mike Pompeo. «Denuclearizzare – twitta Trump – sarà una grande cosa per il mondo intero ma anche per la Corea del Nord!» Tanto ottimismo sembra prematuro visto che Pompeo è tornato da Pyongyang a mani vuote, per ora è avventato scommettere che il dittatore comunista voglia davvero rinunciare al deterrente nucleare. In quanto alla Cina, la vera rivale strategica: da un lato Trump è pronto a riconoscere il ruolo positivo di Xi Jinping nel propiziare il futuro summit con Kim; d’altra parte l’escalation di sanzioni commerciali non si arresta, anzi è rafforzata da nuovi ostacoli contro la penetrazione di aziende cinesi nel settore hi-tech degli Stati Uniti. Tuttavia il bilancio è meno catastrofico di quanto ci si aspetterebbe. A furia di preannunciare l’Apocalisse, si crea un effetto assuefazione e chi perde credibilità sono gli esperti, non Trump che ne ha poca da perdere. Riassumendo le catastrofi annunciate e poi rientrate: in Siria non c’è stato nessuno scontro diretto tra americani e russi, l’inizio della terza guerra mondiale è rinviato ancora una volta. Qualunque cosa faccia questo presidente in Medio Oriente, è difficile eguagliare il bilancio negativo dei suoi predecessori. Anche in Corea del Nord niente conflitto atomico, anzi la Corea del Sud ora parla addirittura di un trattato di pace. In quanto alla spirale rovinosa del protezionismo: finora Xi Jinping ha mostrato apertura a diverse richieste di Trump sul rispetto della proprietà intellettuale e la reciprocità di accesso ai mercati. Magari sono promesse fatte per guadagnare tempo e non saranno mantenute. Ma Obama non aveva ottenuto di più. Certo alla politica estera di Trump mancano tante cose: da una vera strategia delle alleanze, a un grande disegno coerente. Però di grandi disegni, in passato, furono lastricate le vie dell’inferno.


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Politica e Economia

Putin: non morire per Assad Usa-Russia L’attacco americano alla Siria e le nuove sventagliate sanzioni della Casa Bianca

contro Mosca hanno segnato una nuova offensiva dell’Amministrazione Usa nei confronti del Cremlino, alla quale per ora Mosca non ha reagito Anna Zafesova Con il raid missilistico degli Usa contro la Siria, il termometro delle relazioni tra Mosca e Washington ha segnato un nuovo minimo storico. Donald Trump nei suoi tweet ha accusato Vladimir Putin di sostenere l’«animale» Assad, e l’ha canzonato sui «nuovi meravigliosi missili intelligenti» americani che dovevano abbattersi sulla Siria, un’allusione evidente ai razzi «senza analoghi mondiali» che il presidente russo aveva presentato al parlamento durante la sua recente campagna elettorale. L’attacco alla Siria, e la nuova sventagliata di sanzioni contro la Russia, hanno segnato una nuova offensiva della Casa Bianca nei confronti del Cremlino, alla quale Mosca per ora non ha reagito. Nonostante le «conseguenze» minacciate dall’ambasciatore russo a Washington, e alle promesse dei vari esponenti del governo e del comando militare russo di colpire, in caso di attacco contro Damasco, le basi di lancio dei missili americani, la contraerea russa non ha mosso un dito nella notte del raid. Ufficialmente, hanno comunicato al ministero della Difesa russo, i Tomahawk americani «non hanno sorvolato le zone di competenza» delle batterie russe. Il Pentagono afferma di non aver avvertito i russi degli obiettivi dell’imminente attacco, tranne il solito comunicato nell’ambito dell’organismo sulla sicurezza dei voli, ma a Damasco dicono di aver sgomberato per tempo i siti nel mirino dei missili Usa perché avvertiti dagli alleati di Mosca.

Tutto fa credere che Putin stia cercando una exit strategy dalla Siria, i cui costi politici, economici e diplomatici stanno superando i potenziali benefici In altre parole, i russi, come già altre volte, hanno mostrato di avere una «red line», quella di non ingaggiare uno scontro diretto con la potenza militare statunitense. Una paura condivisa anche al Pentagono, dove anche nei raid precedenti contro la Siria sono sempre stati attenti a scegliere bersagli dove non fossero stati presenti militari russi, e ad avvertire per tempo la controparte. Una logica comprensibile: in caso di un attacco diretto, accidentale o intenzionale, Mosca si sentirebbe in dovere di reagire, sapendo di non avere la potenza militare e politica di farlo, e rischiando di aprire un conflitto di dimensioni globali. E così, le famigerate batterie della contraerea S-400, inviate da Putin in Siria, sono rimaste inattive, e pur co-

Putin con Assad nella base aerea di Hmeimim nella provincia siriana di Latakia. (AFP)

noscendo, come probabile, in anticipo i bersagli dei raid, i militari russi non sono andati a fare da scudo all’alleato siriano. Un segnale importante, che conferma quello che molti a Mosca dicono nemmeno tanto sottovoce: Putin non ha nessuna intenzione di aggravare la sua situazione per colpa di Assad, e sta cercando una exit strategy da una guerra i cui costi, politici ed economici, stanno superando i potenziali benefici. La morte sospetta di un giornalista russo caduto dal balcone della sua abitazione dopo aver indagato sui contractor russi morti in Siria potrebbe essere un altro segnale del fatto che la guerra, iniziata nel settembre 2015 essenzialmente per distrarre l’opinione pubblica dal fallimento di quella nel Donbass, e per rientrare nel gioco della diplomazia internazionale nonostante le sanzioni, sta costando troppo alla Russia. Anche sul fronte diplomatico le sabbie mobili della Siria rischiano di peggiorare la posizione di Mosca, sempre più esplicitamente schierata con Damasco e Teheran sul fronte sciita, minacciando di peggiorare in questo modo i suoi rapporti tradizionalmente forti con il mondo sunnita (corrente alla quale appartengono anche i musulmani russi). Putin sta anche corteggiando da qualche anno partner nuovi come l’Arabia Saudita, e dopo il raid americano ha visto allontanarsi di nuovo anche l’ami-

co-nemico Erdogan, che ha applaudito all’azione militare degli Usa. Nei giorni scorsi a Mosca è arrivata una delegazione libanese che chiedeva al Cremlino forniture commerciali e militari, e la protezione aerea sul modello siriano. I colloqui non hanno prodotto nulla, ma gli Hezbollah spingono per un maggiore coinvolgimento russo, che Mosca forse vuole rimandare per non vincolarsi definitivamente all’Iran e lasciarsi uno spazio di manovra. La reazione russa ai missili lanciati da Trump infatti è stata molto più pacata del previsto, tranne una dichiarazione di condanna di Putin e una rituale convocazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con un altrettanto prevedibile veto incrociato tra russi e americani. L’unica rappresaglia vera è stata l’offensiva mediatica di migliaia di troll che sui social di tutto il mondo hanno promosso la propaganda russa, secondo la quale il raid americano in realtà sarebbe fallito e i missili sarebbero stati abbattuti dalla contraerea siriana. Mosca intanto sta aspettando eventuali nuove sanzioni americane, dirette a punire la sua presunta complicità nell’attacco chimico a Douma. L’ultima tornata di sanzioni, lanciate da Washington il 6 aprile scorso, ha fatto franare il rublo rispetto al dollaro e all’euro, e provocato il crollo in Borsa di molti titoli russi. La ragione di questa reazione è la sostanziale novità del

provvedimento del Tesoro americano: a essere colpiti sono stati, oltre ad alti funzionari del governo russo, anche gli oligarchi, in particolare Oleg Deripaska, il magnate dell’alluminio che aveva contatti con Paul Manafort, l’ex capo della campagna di Trump implicato nel Russiagate. Ma ci sono anche altri nomi, come quello di Kirill Shamalov, il genero (ormai ex) di Putin, Suleiman Kerimov (incriminato per riciclaggio in Francia) o i presidenti dei colossi statali Gazprom e VTB. In altre parole, gli Usa applicano ora le sanzioni non solo a politici, funzionari o imprenditori direttamente coinvolti nell’annessione della Crimea, nelle guerre nel Donbass e in Siria o nei cyber attacchi contro i Paesi occidentali, ma anche oligarchi lontani dalla politica. Il segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin ha spiegato che l’obiettivo è «colpire chi beneficia del regime». Una strategia che dovrebbe spingere l’élite russa a fare pressioni sul Cremlino per allentare le tensioni con l’Occidente, per non perdere tutto: Washington ha anche ampliato l’azione delle sanzioni, che ora potrebbero colpire anche chiunque offra «assistenza finanziaria» agli oligarchi della lista nera, e ha imposto agli azionisti americani delle aziende colpite di vendere. Una strategia della terra bruciata, che nelle intenzioni dovrebbe mettere in guardia i sostenitori di Putin. Il problema è che nel sistema russo è quasi

impossibile avere soldi e potere senza stringere un’alleanza più o meno stretta con il governo, e quindi potenzialmente chiunque in Russia oggi è a rischio, come dimostrato dal crollo in borsa anche dei titoli delle società di oligarchi esenti dalle sanzioni. Anche molti Paesi dell’Unione Europea vorrebbero estendere le sanzioni alla Russia seguendo questo modello, passando quindi da una punizione «mirata» dei responsabili delle politiche di Mosca alla trasformazione in persone non grate dei vip russi in generale. Il mercato russo si aspetta il peggio, anche dalla inevitabile rappresaglia del Cremlino. Tra le misure proposte, un embargo alla vendita negli Usa del titanio e dei propulsori per i razzi spaziali russi (una misura che perfino un «falco» come il vicepremier responsabile per l’industria bellica Dmitry Rogozin ha definito come «spararsi nel piede»), il divieto di acquistare medicinali americani (una condanna per migliaia di malati), il bando del software made in Usa dai pc di ministeri e municipi (semplicemente impraticabile) e la sospensione del diritto esclusivo dei marchi commerciali americani (in altre parole, la Russia si darebbe alla pirateria industriale). Misure che danneggerebbero semmai il consumatore e il produttore russo, e che mostrano che il Cremlino non ha in mano carte forti da giocare nel nuovo braccio di ferro. Annuncio pubblicitario


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Politica e Economia

Fra Israele e Iran è scontro aperto

Siria incubatrice di guerre La discesa in campo di Putin a fianco del regime di Damasco ha rafforzato

la posizione regionale del suo più vecchio alleato regionale, ossia l’Iran, nemico giurato di Israele

Marcella Emiliani

AFP

La Siria come incubatrice delle guerre che verranno in Medio Oriente: questa è la realtà che nessuno vuole vedere dietro i missili, i gas, i traccianti della contraerea, le stragi di civili, le città distrutte e i milioni di sfollati e rifugiati. Quali guerre? In Siria si sono già moltiplicati diversi conflitti ma fino al 14 aprile scorso – quando Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna hanno lanciato missili contro centri di produzione e/o stoccaggio di armi chimiche di Bashar al-Assad – si è trattato sostanzialmente di proxy wars, guerre per procura che hanno coinvolto potenze regionali e internazionali, ma sono state combattute in territorio siriano, appunto. L’ennesimo salto di qualità che si intravede adesso all’orizzonte è invece il deflagrare di conflitti diretti tra gli Stati mediorientali, capaci quindi di estendere l’instabilità all’intera regione. E quello maggiormente temuto è lo scontro tra Israele e Iran o tra Israele e Iran-Libano-Siria. Assistiamo così a comportamenti per lo meno inusuali da parte di Israele come dei suoi nemici storici. Il 16 aprile scorso, ad esempio, una fonte militare israeliana rimasta anonima ha rivelato a Thomas Friedman, editorialista del «New York Times» e vecchia volpe del Medio Oriente, che il raid aereo del 9 aprile contro la base T4 di Tayfur tra Homs e Palmira in Siria è stato compiuto proprio dall’aviazione israeliana come ritorsione per il lancio il 10 febbraio scorso di un drone alla volta di

Israele. Drone per neutralizzare il quale si era alzata in volo l’aviazione israeliana che era riuscita a metterlo fuori combattimento ma era stata a sua volta colpita dalla contraerea siriana con la perdita di un F15 e soprattutto di un pilota. Contrariamente a quanto si pensava, il drone era armato. «È stata la prima volta che abbiamo attaccato direttamente obiettivi iraniani, sia impianti sia persone» – ha chiarito la fonte israeliana a Friedman, che ha ritenuto di dover aggiungere «ed è stata anche la prima volta che abbiamo visto l’Iran, e non chi agisce per suo conto, fare qualcosa contro Israele. Questo ha aperto una fase nuova». Detto in altre parole: è finita l’epoca della proxy war tra Israele e Iran per interposta Siria. L’Iran, per mano del colonnello Mehdi Dehghan, responsabile dell’Unità Droni della base T4, non ha agito attraverso i suoi fidi scudieri, gli Hezbollah libanesi, ma ha armato direttamente quel velivolo telecomandato e lo ha spedito verso «l’entità sionista». Per questo il 9 aprile gli iraniani sono stati duramente puniti con la morte di sette dei loro le cui foto sono apparse il giorno dopo sul «Tehran Times» che titolava: «Il raid aereo israeliano sulla Siria non resterà senza risposta». Una cosa simile, nella storia degli interventi israeliani all’estero, non era mai successa, non era mai successo cioè che Israele rivendicasse una propria «azione punitiva» col rischio di scatenare una contro-ritorsione in questo caso iraniana. Se lo ha fatto, allora signifi-

ca che l’escalation tra Gerusalemme e Teheran sta raggiungendo livelli di guardia e la «soffiata» al «New York Times» la possiamo considerare come una specie di ultimatum. Il sistema degli ultimatum tramite scoop-rivelazioni del resto non si è fermato lì. Il 18 aprile il «Wall Street Journal» rendeva noto, a sua volta, che prima del raid del 9 aprile contro la base T4, Netanyahu (nella foto) aveva avvisato Trump, ma soprattutto che ad essere colpiti in quella base non sarebbero stati solo i droni, ma anche un sistema iraniano di difesa aerea di ultima generazione basata su missili Tor. E chi vuol capire, capisca. Israele del resto colpisce gli iraniani o i loro alleati Hezbollah in Siria fin dal 2015, quando la discesa in campo della Russia di Putin a fianco del regime di Damasco non solo ha salvato Bashar al-Assad ma ha totalmente rovesciato le sorti della guerra civile siriana a favore del dittatore e rafforzato la posizione regionale del più vecchio alleato della Siria in Medio Oriente, alias l’Iran degli ayatollah, nemico giurato di Israele. Israele che da allora, cioè dal 2015, ha adottato una strategia multipla per tentare di contenere la minaccia iraniana proveniente dal Paese confinante, fatta di incursioni aeree nei cieli della Siria per colpire convogli iraniani, in genere carichi di armi, indirizzati agli Hezbollah libanesi o veri e propri raid volti a distruggere basi iraniane in territorio siriano. Non è un mistero per nessuno, infatti, che Teheran usi la Siria per consolidare la cosiddetta Mezzaluna sciita Iran-Iraq-Libano-Siria (con l’aggiunta di Gaza) per contrastare l’influenza saudita-sunnita in Medio Oriente, nonché raggiungere il Mediterraneo da cui minacciare più direttamente proprio Israele. Ma Israele è stato tra i primi a prendere di mira anche i centri siriani di produzione o stoccaggio di armi chimiche che in teoria avrebbero dovuto essere smantellati o svuotati dopo il 2013 quando il regime di Damasco gasificò per la prima volta la circoscrizione della Ghouta orientale. Uno degli ultimi raid del genere l’aviazione israeliana l’ha compiuto nel settembre 2017 quando ha preso di mira Masyaf, una cittadina del

nord ovest della Siria, nella provincia di Homs. E alla fine di agosto, prima di far alzare in volo i propri caccia, il governo israeliano aveva già spedito il capo del Mossad Yossi Cohen ad informare Trump alla Casa Bianca di quanto si accingeva a fare, mentre il 23 agosto il primo ministro Benjamin Netanyahu in persona ne informava Vladimir Putin incontrandolo a Sochi in Russia. Più si è fatta complessa la situazione in Siria, più Israele ha ritenuto opportuno tenere informate le due superpotenze sulle proprie linee rosse nei plurimi conflitti in atto nel Paese confinante. Agli Stati Uniti ha chiesto e continua a chiedere di non ritirare le truppe americane dal nord-ovest della Siria per non lasciare alla mercè della Turchia i curdi siriani di Manbij, suoi buoni alleati nella lotta contro l’Isis e nel «contenimento» delle milizie sciite iraniane, libanesi e irachene nel Rojava (il Kurdistan siriano). Alla Russia di Putin chiede invece di non permettere che l’Iran e gli Hezbollah consolidino la propria presenza militare nell’area sud occidentale della Siria, a ridosso delle Alture del Golan (1200 km quadrati del quale sono stati occupati dalle Idf, Israeli Defence Forces, nella guerra dei Sei giorni del 1967, poi annessi nel 1981). A preoccupare Israele è soprattutto l’area di Quneitra che, in base agli Accordi negoziati dal segretario di Stato americano Henry Kissinger alla fine della guerra del Kippur del 1973 tra Israele e il duo Siria-Egitto, dovrebbe far parte della fascia di sicurezza sotto controllo dell’Onu cioè dell’area-cuscinetto smilitarizzata tra il Golan e la Siria che invece è stata «infiltrata» proprio da milizie armate sciite e formazioni terroristiche islamiche di provenienza varia. Queste milizie hanno creato in loco organizzazioni come l’Unità di Liberazione del Golan che ha fatto la sua comparsa nel marzo 2017 ed è una filiazione di Harakat Hezbollah Al-Nujaba (Movimento del Partito dei Nobili di Dio), gruppo paramilitare iracheno confezionato dagli iraniani. È invece siriano il gruppo Fouj Al-Joulan (Reggimento del Golan) creato dalle Forze di Difesa Nazionali, nate da una scissione del Libero Esercito di Siria, oppositore di

Bashar al-Assad, che appoggiano invece il dittatore di Damasco e si avvalgono dell’expertise tanto dei pasdaran quanto degli Hezbollah libanesi in funzione anti-israeliana. E sono solo le formazioni maggiori. Detto in altre parole l’area di Quneitra, che dovrebbe essere smilitarizzata, non lo è affatto, perché vi scorrazzano miliziani al servizio di troppe bandiere. L’esercito siriano cerca di riconquistarla non foss’altro perché da lì si controlla tutta l’area di Damasco, ma l’aviazione israeliana fa in modo che non arrivi troppo a ridosso del confine. E così si moltiplicano le occasioni di scontro tra israeliani e siriani, tra israeliani e formazioni pilotate dall’Iran e dagli Hezbollah; tra israeliani e formazioni jihadiste basate nel Golan siriano. Ma le cose non sono tranquille nemmeno nel Golan israeliano. Non solo le Idf hanno il loro buon da fare per tenere lontani i gruppi terroristici che dalla Siria vorrebbero infiltrarsi nell’area, ma ora devono tener maggiormente sotto controllo anche la locale popolazione drusa, parte della quale ha preso a manifestare in favore di Damasco. I drusi (setta sciita) fino ad oggi non hanno mai rappresentato un pericolo per Israele. A quelli stanziati in Galilea nel 1948 – dopo la guerra di Indipendenza – venne concessa la cittadinanza israeliana e fu loro consentito di servire nelle Israeli Defence Forces, al contrario di quei palestinesi che sempre nel ’48 accettarono la medesima cittadinanza. Quanto ai drusi del Golan, per quel che si sa, dal 1967 non hanno mai dato vita a fronti di resistenza o liberazione da Israele. Il 17 aprile scorso invece, anniversario della partenza delle truppe francesi dalla Siria all’indomani dell’indipendenza nel 1946, cinquecento di loro sono scesi in strada a Ein Qiniye per inneggiare a Bashar al-Assad salutandolo come l’«eroe che ha sconfitto i bombardieri americani» a quattro giorni dai raid franco-anglo-americani nella Siria medesima. I drusi del Golan, per lo meno quelli di Ein Qiniye , hanno cioè fatto proprie le teorie del complotto tanto amate dal dittatore di Damasco. Anche questo non era mai successo ed è un altro segnale inquietante.

Ecuador ad alta densità criminale

Paso doble D ietro alla nuova escalation di violenza al confine tra Colombia e Ecuador

Angela Nocioni Sorprendente la natura ibrida dell’alleanza inedita stretta nel narcotraffico latinoamericano che tiene in fiamme la frontiera tra Colombia e Ecuador. Si tratta di un gruppo dissidente delle Farc, una frangia che non ha aderito al patto tra ormai ex guerriglia colombiana e il governo di Bogotà, e di un grappolo di narcotrafficanti messicani. Avrebbero stretto un accordo di collaborazione nel territorio ad alta densità criminale lungo il confine tra l’Ecuador e la Colombia. Lo sostiene l’intelligence colombiana. Si finanziano secondo il vecchio stile dei sequestri ad alto impatto mediatico a scopo estorsivo. L’ultimo ha avuto un esito tragico: tre sequestrati in territorio ecuadoreño, due giornalisti e il loro autista del giornale El Comercio, sono stati uccisi dai rapitori. Questa settimana c’è stato un nuovo sequestro, è stata rapita una coppia di colombiani, gli autori dell’azione sarebbero membri del Frente Oliver Sinisterra, il cui leader è Walter Artízala, detto il Guacho. Hanno rivendicato il sequestro recapitando l’informazione

direttamente al governo di Quito, preso in contropiede dalla sfida, che per ora si trincera dietro la linea della fermezza dicendo «non trattiamo alcunché con i sequestratori». Ma è chiaro che non sa, al momento, quali altri passi compiere. Il presidente dell’Ecuador, Lenin Moreno, non vuol farsi risucchiare dalla spirale del botta e risposta con i sequestratori, diventati già nel lessico ufficiale «i terroristi», proprio adesso che gode dell’insperato successo della sua prima sfida politica. Moreno ha appena vinto il referendum voluto per uscire dal cono d’ombra del suo ingombrante predecessore. Per sbarrare il passo al suo ex mentore, all’uomo che l’ha voluto candidare, l’ex presidente filochavista Rafael Correa, ora diventato il suo principale avversario, Lenin Moreno ha voluto a tutti i costi un referendum che smontasse l’architrave politico dell’Ecuador dell’era Correa e l’ha anche vinto col 64 per cento dei voti. I sette quesiti della consultazione (ristrutturazione delle istituzioni a partecipazione popolare create dai tre governi Correa, inasprimento delle sanzioni per i casi di corruzione, limiti alle

estrazioni minerarie, riduzione delle aree amazzoniche riservate alla deforestazione, modifiche fiscali) piantavano un confronto personale tra i due leader, basato essenzialmente su un obiettivo: impedire la rielezione di Correa nel 2021, eliminare la possibilità della ricandidatura infinita per la carica di presidente della repubblica che esisteva già nella Costituzione dell’Ecuador e che Correa aveva cancellato per potersi perpetuare al governo. Moreno è stato il vicepresidente del suo attuale nemico dal 2007 al 2013 ed è stato eletto al suo posto l’anno scorso. Aveva giurato in campagna elettorale di voler portare avanti e approfondire quella che Correa chiama la «Rivoluzione cittadina», la rivisitazione in chiave filochavista delle istituzioni ecuadoregne. Poi, vista la situazione continentale, considerato il tramonto dei governi degli alleati del Venezuela chavista in America Latina, Moreno ha deciso di riposizionarsi. Per far questo aveva bisogno innanzitutto di smarcarsi dal suo antico protettore. Rafael Correa ovviamente non ci sta, ha denunciato pubblicamente «la

truffa» ed è tornato apposta dal Belgio, dove si era trasferito, per organizzare la campagna referendaria contro Moreno. Ha perso, ma mantiene quasi il 40 per cento dei consensi e su quelli conta per rendere impossibile la vita al governo. Per ora invoca una nuova assemblea costituente, che non si sa come farà a convocare visto che l’abile Moreno lo ha messo di fatto fuori gioco. Correa è stato fino a un paio d’anni fa lanciatissimo per diventare il nuovo leader continentale della sinistra radicale. S’è dato un gran da fare per essere accreditato come il nuovo Hugo Chávez. Occhi verdi, corpo atletico, economista con un discreto talento nell’interpretare struggenti boleros cubani con chitarra, ha fatto di tutto per arrivare primo nella corsa all’eredità bolivariana. E gli amici europei del defunto leader venezuelano gli hanno dato una mano. «Le Monde diplomatique», rivista di riferimento della sinistra radicale francese, gli ha fatto da anfitrione a Parigi. Con la medaglia di riconoscimento accademico della Sorbonne al collo, Rafael Correa è volato in Russia e in Bielorrusia. Con il presiden-

AFP

ci sarebbero gruppi dissidenti delle Farc e narcotrafficanti messicani

te russo Putin ha firmato un pacchetto di accordi di cooperazione economica sullo sfruttamento delle risorge energetiche di cui il sottosuolo dell’Ecuador è ricchissimo. Era restato in piedi, con un appoggio popolare abbastanza saldo, nonostante lo sconquasso subito dalla sinistra di governo in America Latina. Moreno, dal canto suo, deve ora vedersela con alleati e opposizione. Aver cacciato l’ex presidente Glas, fedelissmo di Correa, accusato di aver preso tangenti per 14 milioni di dollari dalla multinazionale brasiliana di costruzioni Odebrecht per favorirla nell’assegnazione di appalti pubblici, gli ha procurato nuovi nemici e una pericolosa spaccatura all’interno del partito di governo Alianza Paìs che ora minaccia di non sostenerlo alla presidenza.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Politica e Economia

Perequazione finanziaria: Berna propone un nuovo modello Solidarietà intercantonale Dopo lunghe discussioni, il Consiglio federale pone in consultazione

una soluzione che tiene ampiamente conto delle richieste dei cantoni paganti Ignazio Bonoli Nella diatriba che da qualche tempo oppone i cantoni paganti ai cantoni beneficiari della nuova compensazione finanziaria nazionale, sembra delinearsi una soluzione. O almeno a livello federale si prospetta un accordo che per il momento piace ai sette cantoni pagatori, tra cui quello di Zurigo, che non ha mancato di far sentire il suo peso nelle trattative. Il concetto di compensazione è parte integrante di uno Stato federalista, ma non può andare al di là di certi limiti. Un esempio su tutti è quello della concorrenza fiscale intercantonale. Ogni cantone tende ad essere il più attrattivo possibile in campo fiscale, in particolare per le aziende. Non tutti però possono godere degli stessi vantaggi, e quindi devono contare sulla compensazione dei cantoni finanziariamente più forti. Negli ultimi anni però il sistema si è squilibrato. Tradotto in cifre, questo squilibrio può essere valutato in una eccessiva dotazione del fondo di compensazione che nel 2017 raggiungeva i 750 milioni di franchi e nel 2018 sale a 900 milioni, dei quali quasi un centinaio a carico del canton Zurigo. Calcolato per abitante, il contributo maggiore è dovuto dal canton Zugo, con 2618 franchi a testa. I maggiori

beneficiari, Vallese e il Giura, ricevono circa 2000 franchi per abitante. Il sistema, perfezionato nel tempo, ha però creato falsi incentivi, che ora dovrebbero essere eliminati. Per farlo, il Consiglio federale ha in pratica seguito i suggerimenti dei cantoni pagatori e ha presentato un progetto di riforma, che sarà in consultazione fino al mese di giugno. Essenzialmente il nuovo sistema è concepito per ostacolare la concorrenza fiscale fra cantoni. E questo considerato che in passato anche cantoni che hanno sensibilmente ridotto le imposte hanno ricevuto sostanziosi contributi dalla compensazione finanziaria. Per spingere a cambiare sistema, i cantoni pagatori sono perfino giunti a minacciare di versare i loro contributi su conti bloccati, in attesa di una soluzione ragionevole. Del problema si occupa fin dal 2015 un gruppo di lavoro intercantonale. Dalle riflessioni di questo gruppo è emerso che la soglia dell’85 per cento della media delle risorse di tutti i cantoni è troppo elevata. Questo è il parametro previsto dalla legge, che dovrebbe permettere a tutti i cantoni di poter disporre in modo autonomo di risorse sufficienti. In realtà questa soglia viene regolarmente superata. Per esempio il già citato canton Giura, nel 2018, dopo i versamenti della compensazione, rag-

giungerebbe l’88,3 per cento della media delle risorse di tutti i cantoni. Per questo il Consiglio federale propone di portare questa soglia all’86,5 per cento. Inoltre, propone di fissare un limite fisso sulla base del quale calcolare la compensazione delle risorse. Con questo si ridurrebbe l’ammontare minimo da distribuire. Inoltre, per evitare che ogni quattro anni vi siano accese discussioni sulle somme da assegnare alla compensazione finanziaria, si dovrebbero stabilire somme fisse quali punti di riferimento. La dotazione eccessiva odierna delle risorse da devolvere verrebbe determinata in futuro dall’evoluzione delle disparità da compensare. Si dovrebbe inoltre evitare che l’ammontare dei fondi di compensazione venga determinato dai cantoni più deboli. Per questo il Consiglio federale propone che tutti i cantoni, il cui indice prima della compensazione è inferiore a 70 punti, vengano portati all’indice minimo garantito. Nel contempo si dovrebbe però ridurre il massimo della compensazione possibile al 90 per cento. Questa soluzione tiene conto delle richieste dei cantoni e, nel tempo, riduce la volatilità dei pagamenti. Quest’anno, oltre al Giura, solo il canton Uri e il Vallese hanno un indice inferiore a 70. Il Consiglio federale accetta anche che la somma a carico della Confederazio-

Con il nuovo modello si vuole limitare la concorrenza fiscale fra cantoni. (Keystone)

ne possa raggiungere il 150 per cento di quella dei contributi dei cantoni più forti. Il maggior aggravio per la Confederazione, rispetto alla situazione odierna, sarebbe di circa 20 milioni. Dato che il nuovo sistema comporta alcuni aggravi, la riduzione del minimo garantito del 90 per cento scenderebbe all’87,7 nel 2020, all’87,1 nel 2021 e raggiungerebbe l’86,5 nel 2022.

Questa dilazione comporterebbe per la Confederazione risparmi per 74 e rispettivamente 179 e 283 milioni. Non è stato ancora deciso come potranno venire utilizzati i fondi liberati. La Conferenza dei governi cantonali propone di utilizzarne la metà per la compensazione degli oneri socio demografici durante il periodo di transizione e in seguito tutto l’ammontare per gli stessi scopi. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Il difficile avvenire di Via Nassa Nel corso degli ultimi quarant’anni le abitudini dei consumatori quanto al dove effettuare i loro acquisti sono notevolmente cambiate. Prendiamo per esempio il caso luganese. Stando al censimento federale delle aziende, nel 1975, più dei tre quarti della superficie di vendita del ramo «commercio al dettaglio» del Luganese, ossia della regione tra il Ceresio e il Monte Ceneri, si trovavano nella città di Lugano. Vale la pena di ricordare che la città di Lugano allora aveva appena realizzato la fusione con Castagnola e Bré-Aldesago. La grande Lugano era ancora di là da venire. Lugano era una città di poche centinaia di ettari. Non c’era un’altra regione urbana in Svizzera nella quale il commercio al dettaglio fosse così concentrato nel capoluogo. Quanto a localizzazione commerciale, Via Nassa rappresentava naturalmente il non plus ultra di quello che poteva offrire Lugano. Oggi la situazione è notevolmente cambiata. Purtroppo non esistono statistiche per

confrontare la situazione odierna con quella di 40 anni fa. Ma è certo che, con il sorgere dei centri commerciali nei comuni suburbani, specialmente nel Pian Scairolo, la quota del nucleo cittadino, nel totale della superficie di vendita, deve essere calata di molto. Aggiungiamo che non c’è stata solo una ridistribuzione delle localizzazioni; c’è stata anche una specializzazione delle stesse. In periferia, come si è già ricordato, i supermercati che realizzano il grosso della cifra d’affari e servono l’intera popolazione dei consumatori della regione. In centro invece i negozi specializzati e quelli che vendono prodotti di lusso a una clientela di ricchi consumatori e a turisti, spesso provenienti dall’estero. In una situazione, come quella che si venuta determinando nel corso degli ultimi decenni, il corso del franco rispetto alle divise straniere è diventato sempre più importante per il commercio al dettaglio del Luganese e, in particolare, per quello dei negozi specializzati e di lusso

del nucleo cittadino. Così importante in effetti che, per certi aspetti, la decisione della Banca nazionale svizzera del 15 gennaio 2015 di abbandonare il corso protetto con l’euro sembra aver avuto come effetto diretto una riduzione drastica del flusso di consumatori proveniente dall’estero, e, quindi, della cifra d’affari del commercio al dettaglio, in particolare di quella dei negozi specializzati e di lusso del centro. Una visita in Via Nassa basterà al lettore per verificare la portata di questa affermazione. Che vi siano negozi chiusi si vede; ma anche il periodo di tempo durante il quale restano vuoti continua ad allungarsi. Con il ritardo di un paio di decenni nel centro di Lugano sta avvenendo quello che si è manifestato in molte altre regioni urbane europee: le localizzazioni del commercio al dettaglio si sono spostate dal centro alla periferia. I titolari dei negozi del centro di Lugano hanno avuto la fortuna, da una parte, di poter contare, per decenni, su una

clientela proveniente da oltre confine che ha contribuito a mantenere la domanda anche quando il baricentro del settore si era già spostato verso le uscite autostradali. Purtroppo, negli ultimi tre anni, questa situazione ha preso fine con il rincaro del franco. Oggi Via Nassa continua ad essere la vetrina di lusso del commercio luganese. Purtroppo nei suoi bellissimi negozi i clienti sono rari. Non ci sono molte vie d’uscita. Non pensiamo che riportare il traffico automobilistico in centro potrebbe bastare per rianimare i commerci. Idealmente Via Nassa potrebbe uscire dalla sua crisi se diventasse una enclave della zona euro in Svizzera. Questo significa in parole povere trovare le misure che consentano di ridurre i prezzi e i costi di gestione dei negozi del centro a livelli che possono renderli competitivi con la concorrenza situata oltre confine. È una sfida che ogni commerciante, purtroppo, deve risolvere da sé. Certo che se l’elevata rendita fondiaria che,

oggi, rende i prezzi dei sedimi e affitti così cari nel centro di Lugano dovesse essere ridotta, diciamo di almeno un terzo, questo potrebbe aiutare. Ma chi lo va a dire ai proprietari degli immobili? Se non si dovesse trovare la possibilità di ridurre prezzi e costi, il destino di Via Nassa è segnato. Diventerà, come è già il caso di localizzazioni del commercio di lusso in altre città turistiche del nostro continente, la sede di utilizzazioni provvisorie, che si alternano velocemente, perché incapaci di far quadrare i bilanci su lunghi periodi di tempo. Se anche questo non dovesse funzionare, sarà il settore pubblico che istallerà servizi di diverso tipo (dal sociale all’educativo, dal sanitario allo sportivo) nelle superfici commerciali lasciate liberi dai negozi specializzati e di lusso del centro. E forse, in Via Nassa, si potrà vedere anche la sede di qualche strana setta religiosa o un negozio per i fans dell’Inter, del Milan o della Juventus. Sic transit gloria mundi!

cercò di riformare le pensioni dei ferrovieri, i mitici «cheminots», che lasciavano il lavoro a cinquant’anni come ai tempi di Zola e delle locomotive. Dovette cedere sotto un’ondata clamorosa di scioperi, e quando Chirac dissolse l’Assemblea nazionale vinsero a sorpresa i socialisti di Jospin. Nel 2007, ancora nel nome della modernizzazione, fu eletto Nicolas Sarkozy: la fine è nota, il riformatore accolto come il nuovo Napoleone fu battuto dal budino Hollande, ed è apparso per l’ultima volta sulla scena pubblica tra due gendarmi come Pinocchio. Al di là della modesta statura dei protagonisti, il punto è che la maggioranza dei francesi vuole la modernizzazione solo a parole. Ogni volta che un leader tocca i fili dell’alta tensione dei privilegi e dello statalismo, cade fulminato. Lo sta provando pure Macron, che ha sfidato proprio i cheminots con l’apertura delle ferrovie ai privati, rifiutata a suon di scioperi, e gli studenti, che nel cinquantennale del Maggio ’68 tornano a occupare Nanterre per

protestare contro il numero chiuso. Anche in Europa Macron ha sbattuto contro il muro. Era partito bene, facendo suonare l’Inno alla Gioia prima della Marsigliese; poi ha rifiutato la dovuta solidarietà all’Italia, con incidenti grotteschi come quello di Bardonecchia, dove i doganieri francesi hanno sconfinato per fare controlli nel centro migranti italiano. Aveva previsto che Londra si sarebbe rimangiata Brexit (e che Trump non avrebbe stracciato gli accordi di Parigi contro il riscaldamento del pianeta), ed è stato smentito. La sua giusta proposta per il rilancio della costruzione europea si è scontrata con l’intransigenza dei Paesi del Nord, diffidenti nei confronti dei partner mediterranei, e ora con la vittoria dei populisti in Italia, dove l’interlocutore naturale di Macron (Matteo Renzi, da lui ricevuto all’Eliseo da semplice segretario Pd) è il grande sconfitto. Macron è tutt’altro che finito. Il suo resta anzi l’esperimento liberale e centrista più interessante d’Europa, considerato l’inevitabile declino della

Merkel. È finito però l’incantesimo che grazie a una serie irripetibile di intuizioni e di colpi di fortuna, non sempre casuali – compreso lo scandalo che ha azzoppato il filorusso Fillon – l’ha portato a conquistare tutto. Le opposizioni «repubblicane» di destra e di sinistra sembrano ancora tramortite; i due populisti, Le Pen e Mélenchon, sono troppo schiacciati a destra e a sinistra per pensare di vincere un ballottaggio; però anche il figlio prediletto dalla vittoria sta sperimentando quanto è duro guarire un Paese di cattivo umore come la Francia, e farlo contare di più in un’Europa che al liberalismo sta chiudendo le porte. Con l’intervento in Siria, Macron ha dimostrato che vista la debolezza della Merkel può essere lui il riferimento europeo degli americani. Ma la morsa tra l’euroscetticismo rigido degli olandesi e degli scandinavi, e quello populista che sta prevalendo in Italia, rischia di limitare il suo ruolo a una dorata rappresentanza. Una grandeur più di facciata che di sostanza.

ai proprietari di app (Kogan nel caso contestato) di condividere i dati che raccolgono con società terze (Cambridge Analytica). Ma il suo fondatore Mark Zuckerberg ha denunciato la frode con due anni di ritardo. Capiterà lo stesso con le «fake news» che continuano ad alimentare incertezze e a minacciare il mondo dell’informazione? Difficile fare pronostici. Secondo Aral e i suoi due colleghi del Mit (Soroush Vorosughi e Deb Roy, ex dipendente di Twitter) la velocità della diffusione sul web delle false notizie va attribuita alla psicologia umana e al concetto di novità: più le notizie false hanno un elevato tasso di novità e maggiore è la propensione delle persone a condividerla o a rilanciare i contenuti inediti con «aiuti» che vanno dai likes ai cuoricini. Come prova delle loro scoperte il terzetto del Mit ha compiuto anche dei test con utenti (125 mila) che avevano rilanciato false notizie,

appurando che le persone avevano provato maggiore sorpresa o disappunto di fronte a false notizie, mentre quelle vere le avevano accolte senza troppi sussulti, quasi fossero attese e un po’ scontate. Per i ricercatori il diverso comportamento dimostra che l’atipicità delle bufale, rispetto alle notizie vere, funziona come una carta moschicida che inganna e attrae gli utenti. Per questo continua a essere quasi impossibile ostacolare chi sui social media propone le «fake news» con l’intento di alterare idee, manipolare progetti sociali o politici ecc. Unico antidoto valido è il monito di Mark Twain: «Una bugia può viaggiare per mezzo mondo, mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe». Un secolo e mezzo dopo siamo ancora lì: non tanto perché il web è ultraveloce rispetto ai media antichi, ma perché stregoni delle notizie o truffatori trovano sempre più sprovveduti da manovrare.

In&outlet di Aldo Cazzullo Finito l’incantesimo Macron È passato un anno dalla grande vittoria di Emmanuel Macron, che per certi versi resta una divina sorpresa. Nell’era della rivolta contro le élites e il sistema, la Francia un anno fa eleggeva come presidente un allievo dell’Ena, la scuola che da sempre seleziona le élites, e un banchiere della Rotschild, simbolo del sistema finanziario internazionale. Per altri tratti Macron incrociava invece lo spirito del tempo: non aveva ancora quarant’anni, né aveva un partito alle spalle. In ogni caso, l’ascesa dell’ultimo liberale è stata formidabile. Ora però il vento è girato, e anziché alle spalle comincia a soffiargli in faccia. L’argomento che si sente ripetere spesso nel resto d’Europa – al primo turno Macron ha preso solo il 24 per cento – è privo di significato in Francia. In oltre mezzo secolo di Quinta Repubblica, nessun presidente è mai stato eletto al primo turno, neppure il fondatore (De Gaulle visse come un affronto personale essere portato al ballottaggio dal candidato della sinistra, il giovane François Mitterrand. André Malraux e

altri ministri insistettero perché andasse in tv a farsi propaganda. Lui rispose: «Cosa volete che dica alla televisione? Mi chiamo Charles De Gaulle e ho 74 anni?». Alla vigilia del voto, il ministro dell’Interno gli portò la foto di Mitterrand con il capo della polizia collaborazionista Bousquet. Il Generale disse: «Metta via quella roba»). Chirac conquistò per due volte l’Eliseo prendendo al primo turno nel 1995 poco più del 20 per cento, e nel 2002 meno ancora. Non c’è dubbio però che il sistema francese produca una semplificazione al limite della torsione: sbaragliata Marine Le Pen al ballottaggio e conquistata la maggioranza all’Assemblea nazionale, Macron ha davanti a sé altri quattro anni di potere in solitudine. Siccome proviene da sinistra, ha scelto come primo ministro un uomo della destra moderata, Edouard Philippe, già allievo e portavoce di Alain Juppé. Il nome di Juppé, che Chirac definiva «il migliore di noi», è legato al primo di una serie di tentativi fallimentari di modernizzare la Francia. Da premier

Zig-Zag di Ovidio Biffi La verità è lenta nel mettersi le scarpe All’ombra dello «scandalo Facebook» continua a prosperare lo «scandalo Fake news». Se ne parla meno, ma per fortuna c’è chi insiste nel proporlo all’attenzione. A suggellare l’importanza di questo fenomeno mediatico è giunto anche un recente studio effettuato negli Stati Uniti da un laboratorio di ricerca del prestigioso Massachusetts Institute of Technology (MIT). L’indagine ha appurato che le bufale (sinonimo di «fake news», ma qualche differenza pare ci sia) su Twitter corrono sei volte più velocemente rispetto alle notizie vere e inoltre hanno il 70% in più di probabilità di essere ritwittate, cioè di ricevere approvazione e diffusione, rispetto a notizie vere. Secondo Sinan Aral, coordinatore della ricerca del Mit, le bufale più veloci sono quelle che riguardano la politica seguite nell’ordine da quelle che toccano terrorismo, disastri naturali, finanza e scienza. Tanto per dare un’idea del lavoro svolto

dagli analisti: i dati sono stati estrapolati dalle conversazioni di oltre 3 milioni di persone nel periodo fra il 2006 e il 2017; in totale sono stati studiati circa 4,5 milioni di tweet legati a temi come la politica, scienza, leggende metropolitane, intrattenimento e calamità naturali. La ricerca aveva però un interessante elemento: Twitter, gigante dei social media spesso accusato di far da megafono alle «fake news», ha dato il permesso di usare suoi dati, concessione da collegare al fatto che uno dei ricercatori in passato era stato suo «chief media scientist». Non sto a spiegare la differenza fra l’uso scientifico di dati «forniti» da Twitter a scopo di ricerca e quello truffaldino architettato da esperti della Cambridge Analytica con dati sotratti a Facebook. Vale la pena ricordare il meccanismo di questa seconda operazione, seguendo la descrizione fatta da Franco De Benedetti su «Il Foglio»: Facebook ha un’applicazione che consente ai

suoi clienti di iscriversi a un altro sito usando le proprie credenziali; una di queste app, «thisisyourdigitallife» gestita da tale Kogan dell’Università di Cambridge, vantava di saper produrre profili psicologici e di previsione del proprio comportamento. L’illiceità è iniziata quando i 270’000 iscritti all’app di Kogan hanno avuto la facoltà, allora consentita (e poi disattivata da Facebook di sua iniziativa), di utilizzare anche le identità di loro amici: il numero di indirizzi «controllati» raggiunse così i 87 milioni. Dopo di che, spiega De Benedetti, «Kogan condivise questi dati con Cambridge Analytica, che adattò agli indirizzi Facebook di cui era venuta in possesso i profili psicometrici da lei elaborati (nel caso specifico un sistema di “microtargeting comportamentale” che consentirebbe di prevedere e anticipare le risposte degli individui in base ai like) ». Tecnicamente Facebook non ha compiuto illeciti perché da sempre vieta


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Cultura e Spettacoli I segreti di una madre Lo scrittore ungherese András Forgách ha dovuto confrontarsi con un passato doloroso

Le nuove visioni del reale La 49esima edizione del Festival Visions du Réel sotto l’egida della nuova direttrice Emilie Bujès si è rivelata all’altezza delle aspettative

Chiasso omaggia Vella Allo Spazio Officina una personale dedicata all’artista ticinese Francesco Vella

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Da Ferramonti a Lugano Il curioso e tragico capitolo del campo di internamento calabrese, in cui la musica aveva un ruolo di spicco

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Un’occasione mancata Mostre Gaudenzio Ferrari a Varallo,

Vercelli e Novara

Gianluigi Bellei Questa non è una recensione. È un racconto. Vi spiego come faccio il mio lavoro. Probabilmente non interessa; ma serve per conoscere i meccanismi di ciò che leggete sui giornali. Ma è anche un invito. Un invito a visitare una mostra che giudico inclassificabile. Ma da vedere. Quella su Gaudenzio Ferrari. Personalmente racconto con le parole le mostre in corso. Lo faccio andando nei luoghi dove si svolgono. Non è così scontato. Quante volte mi è capitato che un ufficio stampa mi volesse inviare il catalogo per una recensione. Ho rifiutato ogni volta. Vado sempre a vederle. In questi anni si assiste a una velocizzazione delle notizie e i giornali fanno a gara per pubblicarle. Prima dell’inaugurazione si riempiono già le pagine con informazioni che sembrano recensioni e che nella maggior parte delle volte sono testi tratti dalle cartelle stampa redatte per l’occasione. Visito, in genere, solo quelle dove mi posso recare, partendo la mattina e tornando la sera. Paradossalmente con questo sistema riesco ad andare a Parigi ma non in un piccolo paesino più vicino, perché viaggio sempre con i mezzi pubblici. Prima di partire controllo nella mia biblioteca i volumi che mi possono aiutare. Se è un artista del passato, per esempio, spulcio sempre lo Schlosser e il Vasari. Nel caso di Gaudenzio Ferrari anche il Lomazzo perché bisogna citare le fonti di prima mano e non fare le citazioni delle citazioni. Alla fine sul mio tavolo di lavoro ho tra i 5 e i 10 volumi. Insomma, mi preparo come per un esame. Vado sempre di persona perché un’esposizione è la somma di diversi fattori. La scelta delle opere, innanzitutto, la loro disposizione, ma ugualmente le luci, gli spazi, il contesto, le didascalie. Infine il catalogo. Ogni fattore ha la sua importanza. Perché una mostra è come un’orchestra: se due o più componenti suonano per conto loro o steccano, il risultato non sarà mai buono. È così anche nella vita di tutti i giorni: se preparate le lasagne e la besciamella è troppo liquida non risulteranno particolarmente buone anche se avete fatto bollire il ragù quattro ore.

Ma veniamo alla nostra mostra: quella su Gaudenzio Ferrari. Organizzata da Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa. Stimo fortemente Agosti e ricordo con piacere l’esposizione a Rancate sul Rinascimento nelle terre ticinesi. L’ho intervistato anni fa nella sua casa di Milano: preparato, pignolo, disponibile, una specie di Pico della Mirandola. Alcuni mesi fa, leggendo i primi comunicati stampa, ho ripensato a Rancate. La mostra odierna è divisa in tre sedi, Varallo per quel che riguarda gli esordi, Vercelli per la maturità e Novara per gli ultimi anni, con addentellati nelle chiese e nei musei circostanti Un grande tributo a questo artista cinquecentesco con agganci nel territorio: quindi una mostra diffusa. Penso anche ai problemi legati alla cronologia delle opere, alla loro autografia e poi al catalogo con le nuove fotografie realizzate appositamente e al coinvolgimento di ricercatori e giovani studiosi. Un centinaio di dipinti. «Finalmente una grande mostra», leggo nel comunicato stampa, su questo artista ritenuto da Giovanni Paolo Lomazzo nel Tempio della Pittura uno dei sette Governatori. Avevo già in mente il titolo dell’articolo: La migliore mostra dell’anno. Parto per l’anteprima stampa. Viaggio sempre da solo. Nel senso che non usufruisco mai, forse è capitato un paio di volte, del solito pullman a disposizione dei giornalisti. Non mi fermo mai al buffet offerto. Una sorta di maratona, la mia: a Vercelli la mattina e a Novara il pomeriggio. A Vercelli la struttura dentro all’Arca (un vecchio mercato coperto) è a dir poco inconsueta. Luci mal posizionate o ancora da mettere a punto, dipinti senza le didascalie (a volte succede, ma di solito sono a terra per essere appese). Jacopo Stoppa illustra i dipinti con in mano una torcia elettrica per illuminarli. Ponteggi qua e là, rumore. Andrà meglio a Novara, suppongo. Anche qui la stessa cosa: caos, frastuono, nessuna didascalia, ponteggi. Agosti che spiega i lavori con la solita torcia elettrica in mano. Chiedo al responsabile delle luci di indicarmi un dipinto già illuminato per verificare il risultato e mi risponde che ancora non ce ne sono.

Gaudenzio Ferrari, Madonna con il Bambino, Sant’Anna, angeli musicanti e i donatori, 15081509. (Musei Reali di Torino Galleria Sabauda)

Un giornalista di Novara mi si avvicina e dice: «Qui al Broletto è sempre così, le luci sono una vergogna». Vorrei vedere il catalogo, ma non c’è. Lo spediranno a casa. Tutto questo mentre sui quotidiani non si fa che elogiare la mostra ancora in cantiere. Avrei voluto scrivere delle sciocchezze di Giovanni Paolo Lomazzo, allievo di Gaudenzio Ferrari, e della sua mania un po’ esoterica per il numero sette. Nel suo Tempio della Pittura, ripreso dagli scritti di Giulio Camillo, presenta un edificio allegorico con sette colonne a sostegno della cupola. Le sette colonne corrispondono a sette pittori messi in interazione con i pianeti ovvero le sette parti dell’arte (proporzione, moto, forma, lume, composizione, prospettiva, colore). Gli artisti sono: Michelangelo legato a Saturno e alla proporzione, Gaudenzio Ferrari a Giove e al moto, Caravaggio a Marte e alla forma, Leonardo al Sole e al lume,

Raffaello a Venere e alla composizione, Mantegna a Mercurio e alla prospettiva e Tiziano alla Luna e al colore. Avrei voluto scrivere dell’arte totale di Ferrari con quelle statue policrome e l’architettura intorno. Avrei voluto scrivere di quel dipinto con di fronte il relativo disegno senza i buchi ai contorni delle figure che di solito servono per riportarlo sulla tavola attraverso il cosiddetto spolvero eseguito con del carbone. Avrei voluto scrivere di quel battesimo con un Cristo inerme e pudico. Avrei voluto scrivere dei Polittici di Romagnano e di Sant’Anna ricomposti per l’occasione. Avrei voluto scrivere delle schede in catalogo e dell’indice dei nomi. Avrei… Avresti potuto tornare dopo due settimane, direste voi. Ma invitereste una persona a cena per poi, quando suona il campanello di casa, dirgli che non avete ancora fatto la spesa? Andateci voi a vedere il Rinascimento di Gaudenzio Ferrari, per favore, per

poi riferirmi che è la migliore mostra dell’anno. In caso contrario potete, sempre, in ogni momento e negli anni a venire, andare a Varallo alla Chiesa di Santa Maria delle Grazie, per ammirare uno splendido e grandioso dipinto murale, alla Cappella della Madonna di Loreto o al Sacro Monte; a Vercelli alla Chiesa di San Cristoforo e al Museo Borgogna; a Novara alla Basilica di San Gaudenzio o al Duomo di Como o alla Pinacoteca di Brera. Sempre per vedere le opere di Gaudenzio, che lì rimangono. Dove e quando

Il Rinascimento di Gaudenzio Ferrari. A cura di Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa. Varallo, Palazzo dei Musei, Pinacoteca; Vercelli, Arca; Novara, Broletto. Ma-do 10.00-18.00. Fino al 1. luglio, a Varallo fino al 16 settembre. Catalogo Officina libraria. www.gaudenzioferrari.it


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Cultura e Spettacoli

Fare i conti con la propria madre

Kendrick e le nuove regole del gioco

Gli atti di mia madre, si confronta con segreti inenarrabili e difficili da sopportare

Parliamone

Incontri A colloquio con lo scrittore ungherese András Forgách, che nel suo

Blanche Greco «Eravamo innamorati l’uno dell’altra. Se non l’avessi amata tanto, non sarei riuscito a scrivere questo libro con tanta crudeltà ed onestà». Racconta lo scrittore ungherese András Forgách, lo sguardo trasognato, o forse imbarazzato, perché più che l’amore, è il tradimento che cerca di spiegarmi: il suo nei confronti della madre, donna bella e appassionata, che nel libro Gli atti di mia madre (Neri Pozza Editore), svela senza pudori; e quello della madre, Bruria Avi-Shaul, che recentemente gli archivi dei servizi segreti ungheresi hanno rivelato essere stata una Mata Hari, pragmatica e diligente, che ha spiato anche lui, il suo figlio «preferito».

Nel suo romanzo lo scrittore intreccia l’indagine famigliare con le informazioni contenute nei dossier András Forgách conosciuto attore e sceneggiatore, non è l’unico a doversi confrontare con un tale inatteso segreto, come ci ha spiegato nel nostro incontro a Roma all’Accademia di Ungheria: «In questi anni, dopo l’apertura degli archivi, in tutto il paese, molte famiglie hanno dovuto fare i conti con rivelazioni simili, su una zia, un nonno, un parente; mentre il passato di colpo gli appariva vile e vergognoso. Perciò in questo periodo sono numerosi i libri e i film su questo tema che ha sconvolto la vita di tanta gente». Dal famoso scrittore dal passato proletario, che ha affogato nell’alcol il segreto delle sue delazioni, tanto da morirne, e che adesso è al centro di un dramma teatrale; al celebrato libro Harmonia Caelestis di Petér Esterházy, del quale l’autore stesso ha voluto scrivere un’edizione corretta, dove esprime la sua amarezza e l’enorme delusione nei confronti del padre, personaggio luminoso e centrale del suo romanzo, e che invece è stato, per moltissimi anni,

un solerte collaboratore dei servizi segreti. «Proprio lui, un aristocratico senza alcun legame ideologico con il partito». – chiosa Forgách – «I miei genitori invece, sono stati comunisti convinti, sin dall’adolescenza». Gli atti di mia madre, intreccia un’indagine familiare intrisa di ricordi e di affetti sullo sfondo di periodi ed eventi storici con le informazioni contenute nei dossier degli archivi dei servizi segreti, e ha avuto un tale successo in Ungheria da rendere la madre di András Forgách «famosa alla stregua di Anna Karenina». Con questo romanzo inusuale, che salta avanti e indietro nel tempo; che viaggia tra Israele, l’Ungheria e Londra, lui ha cercato di capire quella sconosciuta, quella ragazza ribelle e passionale che era stata sua madre. Bruria, nata nel 1922 in Palestina in una famiglia di intellettuali ebrei, dalla bellezza quasi mitica, aveva sposato Marcell Friedmann, un ebreo «rinnegato», comunista fervente come lei, con il quale negli anni 60 era tornata in Ungheria. Ma cosa l’aveva spinta, in un determinato momento della sua esistenza, a reagire agli eventi storici e politici, accettando il ruolo di spia che la costrinse a vivere in una rete di sotterfugi, di omissioni, e di dolorose bugie? In questa saga familiare, ironica, lucida e impietosa, l’opinione pubblica ungherese ha riscoperto anche una sorta di «come eravamo» che, forse, aveva cercato, frettolosamente, di dimenticare. «Ideologicamente i miei genitori si sono formati negli anni 30, e a diciotto-vent’anni facevano parte del partito illegale» – racconta András Forgách – «poi nell’Ungheria degli anni 60, erano diventati “la classe dominante” ed erano ascritti all’élite che era al governo. Mentre prima era rivoluzionario e romantico fare attività illegale, dopo, quando quest’ultimo aspetto del comunismo era sbiadito, loro si erano trovati a far parte dell’apparato di partito, che in Ungheria contava molti membri dal livello di vita ben diverso da quello del resto della popolazione. I miei genitori invece conducevano un’esistenza semplice, sobria, quasi povera, anche se facevano parte di quella stessa élite politica.

Simona Sala

Un’intensa immagine dello scrittore ungherese.

Mio padre sino alla fine della sua vita, ha creduto nell’ideologia comunista. Ricordo di avergli sentito dire una frase, alla fine del 1980, che era un pensiero tipicamente stalinista, eppure aveva vissuto gli anni 50, l’epoca di Kruscev, e sapeva cosa era accaduto, ma quella era la sua fede. Come hanno detto i sociologi che hanno analizzato quel periodo, per lui quel credo era un modo per compensare la mancanza di religione». Fu così che molti anni prima Marcell, che parlava correntemente molte lingue e lavorava come giornalista, aveva cambiato il suo cognome in Forgách e, con il nome in codice di «Papai», era stato spedito in un’agenzia di notizie a Londra come agente segreto, assieme alla moglie e i quattro figli, sebbene dopo il primo esaurimento nervoso la sua salute avesse cominciato a vacillare. «Mio padre era una persona eccezionale, scriveva in modo brillante, ma viveva in un caos totale. Era superficiale, si perdeva, faceva confusione, diventava paranoico e precipitava sempre più spesso in un suo angoscioso inferno personale», ricorda András Forgách, «quando nel 1973 si ammalò di schizofrenia, avevo vent’anni. Ho sempre pensato che si

fosse ammalato per mostrare ai suoi figli che vivevamo nella menzogna, che tutto il mondo era una menzogna». Fu Marcell a chiedere a Bruria di aiutarlo, o addirittura di sostituirlo in quei periodi difficili, soprattutto per le traduzioni dall’ebraico che gli richiedevano i servizi? È vero che lei fosse una delle poche persone, in Ungheria, in grado di farle? Forse la sua carriera di spia, con il nome in codice di «Signora Papai» cominciò così. «All’epoca noi figli sapevamo che erano membri del partito e quindi ideologicamente impegnati, ma non che potessero venire coinvolti in questo tipo di attività». András Forgách, oggi sessantacinquenne, conclude: «Questo libro riporta tutto quello che c’era nei dossier, e nell’epilogo ho voluto raccontare ciò che non sono riuscito a romanzare». È forse la parte più intima e crudele della storia, in cui l’autore, mette a nudo la temerarietà di sua madre e fa i conti con se stesso: con la vergogna per questa vicenda; ma anche con i propri sensi di colpa per l’incomprensione e la trascuratezza con le quali, ad una certa epoca ha ripagato l’affetto di sua madre, che morì nel 1985 a poca distanza da Marcell, ormai perso nel suo delirio.

Una nuova cognizione e un nuovo dolore Recensioni Esce da Adelphi l’edizione riveduta del capolavoro gaddiano Pietro Montorfani Sarebbe un errore ritenere secondaria, in Gadda, la vicenda narrata, soltanto perché evidentemente il cuore dello scrittore batteva per la lingua, lo stile, il gorgo verbale, più che non per il plot. Proprio perché la sua penna era al servizio della sua anima, e non a quello di una qualunque Signora Cesira che avesse il desiderio «d’aver tutti inginocchiati al livello della sua zucca» (ipse dixit), è bene agganciare saldamente periodi difficili come quelli della sua prosa a un contesto narrativo il più possibile sgombro ed inequivocabile. In altre parole, richiamare alla mente «di cosa parla» un testo di Gadda è azione preliminare e necessaria allo studio del «come lo dice». La questione torna a interrogarmi ogni qual volta io debba prendere in mano un «nuovo» libro del grande scrittore, che davvero sta vivendo, dal punto di vista editoriale e critico (è tra i pochi autori defunti ad avere siti web degni di tale nome), una stagione fortunata, ricchissima, certo più di quelle che lui abbia potuto sperimentare in vita. E sono

sempre grato a Gadda per aver fornito, in modo sì criptico, ma non per questo inaccessibile, una chiave d’ingresso ai testi nei titoli delle sue opere. Si pensi alle Novelle dal ducato in fiamme (1953, il ducato del Duce, l’Italia fascista di cui con sarcasmo aspirava a narrare cose «novissime») e naturalmente al Pasticciaccio (1957), preciso fin nella notazione toponomastica, quasi a voler costrin-

Il grande rapper si aggiudica il Pulitzer

gere il lettore a non lasciare mai, con la mente, i paraggi di Via Merulana... Meno semplice parrebbe lo scioglimento del nodo nella sua opera maggiore, se ancora dobbiamo tornare a chiederci di quale «cognizione» si parli, e di quale «dolore» (1963). A far luce, indirettamente, anche su questo problema, forse non dei filologi ma certo di tanti lettori comuni, giunge oggi la nuova edizione del libro, curata da Paola Italia, Giorgio Pinotti e Claudio Vela nell’ambito del vasto progetto di studio e ristampa dell’intero corpus gaddiano voluto dall’editore Adelphi. Tolti tutti gli orpelli, la patina linguistico-amministrativa di un’improbabile repubblica sudamericana, i finti invalidi di guerra, le modalità mafioso-fasciste e le piccole beghe di vicinato, al cuore del libro restano due questioni cruciali: il tormentato rapporto di un figlio con la propria madre, e l’altrettanto tormentato rapporto con la propria casa (intesa come edificio). Gelosie, rabbie e l’affannosa ricerca di soluzioni si muovono infatti attorno a questi due poli, la casa e la madre, e su entrambi la nuova edizione della Cognizione aggiunge gustosissimi

dettagli biografici e documentari: dalla crux dello scrittore nella gestione delle ipoteche della villa di Longone (Brianza), la «fottuta casa di campagna» ereditata da un padre megalomane assieme a una marea di debiti, allo strazio per la scomparsa della madre nel 1936, a ridosso della prima messa a fuoco dell’opera. L’edizione non è commentata, nel senso comune del termine, ma la lunga Nota al testo (un centinaio di pagine) è un saggio di prim’ordine che non lascia rimpianti. Segno che l’idea forte di una certa scuola filologica novecentesca, dei Contini e degli Isella, ha ancora qualcosa da dire ai lettori di oggi, se è vero che una rigorosa ricostruzione genetica della storia del testo, delle sue stratificazioni e dei suoi agganci alla biografia dell’autore, è spesso il miglior commento che si possa offrire. Bibliografia

Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore a cura di Paola Italia, Giorgio Pinotti e Claudio Vela. Adelphi 2017. 381 pagine.

Mentre alle nostre latitudini, dopo un recente concerto del trapper italiano Sferaebbasta, si discuteva se fosse il opportuno che i nostri figli ascoltassero musica rap (e per l’occasione si erano scomodati psicologi ed opinionisti), dall’altra parte dell’Oceano la giuria di uno dei premi più prestigiosi del mondo decideva – finalmente – di aprire a un rapper le porte di un olimpo intellettuale per antonomasia. La notizia non ha mancato di suscitare clamore e in pochi istanti ha fatto il giro del mondo: dopo decenni in cui il Pulitzer per la musica, istituito nel 1943, è stato assegnato a mostri sacri come Bob Dylan o Duke Ellington, premiando composizioni legate ai mondi della classica, anche sperimentale e del jazz, quest’anno per la prima volta si è riconosciuta la validità, soprattutto dei contenuti (per quella musicale ci vorrebbe, a nostro avviso un altro premio), di un genere musicale da molti non ancora considerato tale. E questo sebbene il rap, nato nel 1973, abbia fatto da colonna sonora a più di una realtà sociale e politica, arrivando anche ad avere un controverso ruolo di primo piano durante i disordini di L.A. Come ha dichiarato la giuria del Premio Pulitzer, al giovane e minuto Kendrick Lamar (classe 1987!) spesso associato al movimento per le minoranze afroamericane blacklivesmatter), con l’album Damn (uscito nell’aprile del 2017, v. «Azione» dell’8 maggio 2017) è riuscita «una virtuosa collezione di canzoni accomunate da un linguaggio autentico e da un dinamismo ritmico che offre istantanee toccanti, capaci di rendere la complessità dell’attuale vita degli afroamericani». K.Dot, come viene comunemente chiamato, poiché di cognome fa Duckworth, si discosta dai colleghi rapper e trapper alla stessa stregua di Eminem (per il quale Seamus Heaney qualche anno fa aveva proposto il Nobel) anche se per motivi diversi. Pur apparendo in molti featuring, Lamar è lontano dai social, dagli eventi mondani, dalle collane d’oro e da donne troppo vistose, preferendo di gran lunga concentrarsi su una ricerca continua che lo vede sondare i difficili territori del funk, del jazz e del soul, senza per questo abbandonare le sue radici rap. Prima del Pulitzer, della grandezza di K.Dot avevano parlato anche David Bowie e Barack Obama, indicandolo come un artista di riferimento che nei suoi testi, in cui si mescolano concetti come preghiera e umiltà, ma anche riflessioni intime con i suoi, i nigga, parla in realtà a tutti noi, trascinandoci in un vortice ritmico dalla potenza indiscussa. Forse è difficile da accettare, ma con tutta probabilità siamo di fronte al vero cantautorato (e di valore) del nuovo millennio.


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Cultura e Spettacoli

The Sunny Side of Modern Dance al Cinema Teatro di Chiasso Danza Steps, il Festival del Percento culturale Migros, attraverso la compagnia Gauthier Dance

rende accessibile la danza moderna al grande pubblico

Valentina Janner Resterete incantati da Stream, in scena a Chiasso il prossimo 24 aprile. Eric Gauthier, direttore artistico dell’omonima compagnia, da lui fondata undici anni fa a Stoccarda, spiega con entusiasmo alla prima svizzera che Stream sta per «sequenza», non solo intesa come flusso di movimenti, ma anche di pensieri. Stream è anche una successione di diversi pezzi, sei per l’esattezza, i quali compongono un programma molto eclettico. Questo spettacolo è contraddistinto da un umorismo raffinato, come lo stesso Gauthier ha sottolineato in un’intervista: «Poche compagnie di danza osano cimentarsi con l’umorismo, perché far ridere il pubblico è un’arte ardua e impegnativa, infatti è facile cadere nel banale piuttosto che essere ammiccanti come si vorrebbe». E la Gauthier Dance è riuscita appieno nel suo intento: Stream è improntato su poesia e umorismo in un equilibrio perfetto. Pertanto ciascuna coreografia è contraddistinta da un’atmosfera differente: il pubblico viene infatti letteralmente travolto e trasportato in una serie di contesti e di epoche diversi. Lo spettacolo esordisce con Floating Flowers (fiori galleggianti) del taiwanese Po-Cheng Tsai, che si ispira alla Festa dei Fantasmi della tradizione cinese. In questa occasione si fanno galleggiare su corsi d’acqua lanterne di carta e fiori di loto, che trasportano simbolicamente i peccati e le preoccupazioni degli uomini, allontanandoli, oppure gli auspici da inviare alle anime dei propri cari defunti. Un momento di grande poesia questo, non privo però di colpi di scena comici. Così la gonna gonfia a crinolina di una balleri-

na di un’eleganza eterea si sdoppia improvvisamente… Alte Zachen («vecchie cose» in ebraico) è invece all’insegna di una sorprendente energia e un’irresistibile simpatia: due uomini in pantaloncini e bretelle danzano al ritmo del brano gospel Rock My Soul in the Bosom of Abraham. Non sarà possibile rimanere immobili durante questi tre minuti di vivace intrattenimento. Segue The Sofa, uno dei pezzi di maggior successo della compagnia. Basti dire che il protagonista è un immenso divano, collocato al centro del palco, che consente ai tre ballerini di effettuare acrobazie ed esprimersi in atteggiamenti seduttivi. Così un mobile della quotidianità permette di tematizzare con ironia le dinamiche relazionali tra uomo e donna… e non solo. Dopo la pausa lo spettatore viene catapultato in un paesino dell’Italia del Sud. In Cantata, oltre alla compagnia di danza, si esibiscono sul palco quattro cantanti dalla fisicità generosa e dalla voce piena che, con le loro tarantelle, ninne nanne e serenate, travolgono il pubblico. Sequenze cariche di sensualità si alternano a litigi o a momenti di forte commozione, dando vita a scene di paese allegre e realistiche. Le luci calde della scena, le note dell’organetto e delle castagnette, tutto concorre a una fedele rappresentazione del folclore mediterraneo. Ciò che fa di Stream uno spettacolo riuscito è proprio la sua accessibilità: molti sono i temi e gli elementi che lo spettatore riesce a identificare nei diversi pezzi, non solo i clichés, ma anche le diverse sfumature. Proprio perché caratterizzato da una chiara drammaturgia e da un forte carisma teatrale,

questo spettacolo è un vero e proprio percorso di iniziazione alla danza moderna, una disciplina spesso considerata ermetica. È anche per questo motivo che Steps lo ha scelto per il programma di mediazione. Per la prima volta in Ticino, lo scorso 9 aprile, il Percento culturale Migros ha portato la danza in quattro classi delle scuole medie di Chiasso e Balerna. Il workshop, tenuto dalla compagnia svizzera Carambole, prevedeva un’introduzione teorica e pratica allo spettacolo che gli allievi andranno poi a vedere a teatro. Quest’esperienza permette loro di avvicinarsi a nuovi stili di danza e imparare come comportarsi a teatro. Osservano e riproducono alcune sequenze di passi, che potranno poi riconoscere durante la rappresentazione. E l’esito è molto positivo, a detta dei due pedagoghi della danza Silvano Mozzini e Christiane Loch, che hanno riscontrato forte interesse e disponibilità da parte dei ragazzi. Nell’ambito di Steps, ricordiamo anche lo spettacolo Simply the Best West Africa della compagnia Faso Danse Théâtre, al Teatro Sociale di Bellinzona. Questa première svizzera vedrà come protagonisti tre coreografi-danzatori che interpreteranno le proprie creazioni. I tre assoli permetteranno di avvicinarsi non solo allo stile di danza ma anche alla realtà dell’Africa dell’Ovest. Dove e quando

Floating Flowers di Po-Cheng Tsai. (© Regina Brocke)

Stream, Gauthier Dance, 24 aprile, ore 20.30. Cinema Teatro di Chiasso. Simply the Best West Africa, Faso Danse Théâtre, 25 aprile, ore 20.45. Teatro Sociale Bellinzona.

Un teatro che scuote l’animo e interroga le coscienze

In scena Il grande drammaturgo bernese Milo Rau colpisce il pubblico con una pièce geniale e brutale,

mentre finalmente il Teatro Tricskter_P di Galbiati e Luginbühl debutta al Teatro Studio del LAC Giorgio Thoeni L’emulazione è parte del processo della nostra crescita ma le aree protette per l’esercizio sono pochissime. Una fra queste è la fantastica isola dell’infanzia: i bambini amano travestirsi, giocare a fare finta di essere qualcuno di diverso. Mai però avremmo pensato che una pagina fra le più mostruose della storia di una criminalità malata sarebbe stata raccontata proprio da loro, dagli

innocenti. Milo Rau c’è riuscito adottando un processo lungo e meticoloso per realizzare Five Easy Pieces che LuganoInScena ha proposto sul palco del LAC, dove sono i bambini a rileggere la vicenda di Marc Dutroux, il mostro di Marcinelle: uno spettacolo che ha vinto, fra gli altri, il Premio Ubu 2017 come miglior spettacolo straniero. Il teatro di Milo Rau è un’esplorazione dei limiti della scena, di come e quanto si possa osare con il mecca-

In Five Easy Pieces i protagonisti sono bambini. (luganoinscena.ch)

nismo della rappresentazione. Con questo capolavoro il regista bernese, grazie al suo inconfondibile puntiglio di stampo giornalistico, alla profondità di analisi, al rigore e alla sensibilità con cui affronta un tema così scabroso, si supera toccando le vette del sublime. D’altronde, come ha dichiarato lo stesso Rau, Five Easy Pieces ha un ruolo chiave nel suo percorso creativo per capire come oggi si possa rappresentare il processo della catarsi teatrale. Con Five Easy Pieces sono le vittime a calarsi in un gioco teatrale per raccontare la vicenda del pedofilo belga, un vero e proprio mostro dai disegni machiavellici, condannato nel 2004 alla reclusione perpetua per aver commesso una serie impressionante di delitti e, soprattutto, per aver sequestrato, violentato e ucciso delle bambine. Quei fatti, avvenuti sul finire degli anni 90, sono rimasti impressi nella collettività del mondo intero. Nel ripercorrere quella triste storia Rau affronta in filigrana anche il tema della violenza che gli adulti esercitano sull’infanzia. «Lavorare con i bambini», ha dichiarato il regista e drammaturgo svizzero in un’intervista, «è stato molto difficile in quanto fanno fatica a concentrarsi, non sanno veramente cosa sia recitare né che tipo di relazione instaurare con il pubblico. Ci sono

voluti mesi di prove molto lunghe nei fine settimana per riuscire a creare un metodo che fosse efficace (...) Five Easy Pieces è anche un lavoro che pone molte questioni sulla regia e le sue modalità». Un risultato che trascina grazie ai sei giovanissimi attori (fra i 9 e 1 14 anni): veri, delicati, straordinariamente ironici e... catartici. Anche grazie al coaching di Peter Seynaeve, assistente alla regia e in scena con i piccoli protagonisti nel geniale percorso narrativo in cinque tappe di una sconvolgente tragedia. Nettles: stanze della memoria e luoghi dei sogni

La dimensione culturale della compagnia Trickster_P sta conquistando ulteriore maturità rinnovando la formula del suo successo. Il debutto nel Teatrostudio del LAC di Nettles («ortiche») consolida il meritato interesse che la compagnia ticinese di Cristina Galbiati e Ilija Luginbühl ha saputo ritagliarsi in questi anni e anche questa volta con un progetto sempre più orientato al ruolo protagonista dello spettatore-attore impegnato in un percorso visivo e sensoriale, dove la dimensione dell’ascolto guidato attraverso oggetti e percezioni assume un’importanza centrale. Nettles, coprodotto da LuganoInSce-

na (dramaturg Simona Gonella) è un percorso individuale attraverso delle stanze: spazi in cui si trovano sistemate, in una veste essenziale, minimalista, tracce di vissuto, segni del passato, elementi concreti di una memoria che può sconfinare nell’inconscio e arredare i sogni facendo rivivere i sentimenti più intimi: una poetica elaborata, che evoca la presenza umana senza creare ridondanze. La voce di Cristina Galbiati accompagna in cuffia le installazioni con un testo esemplare per semplicità ed efficacia narrativa. Poche frasi, dal lessico scarno e incisivo, in una traduzione sonora dove un dreamteam ideale – gli spazi sonori sono affidati a Zeno Gabaglio, la sensibilità tecnica a Lara Persia e la consulenza informatica a Roberto Mucchiut – ci immerge in una dimensione parateatrale, un immaginifico radiofonico dove prevalgono le suggestioni dei sensi, le parole e il fascino di dolci sorprese programmate. Passo dopo passo si susseguono ricordi autobiografici, la figura del padre, storie, situazioni e rievocazioni di episodi come anfitrioni di un universo onirico attraversato dalla luce della realtà e da un positivo senso di morte che accompagna lo stupore e l’inquietudine dell’infanzia, la fragilità dell’essere umano.


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Cultura e Spettacoli

Visioni di realtà altre

Cinema del reale Emilie Bujès infonde a Visions du réel una parte della sua personalità Giorgia Del Don Al suo primo mandato come direttrice artistica, Emilie Bujès propone per questa 49esima edizione di Visions du réel un menu a dir poco succulento. Giovane ma ricca di un’esperienza invidiabile internazionale e multimodale, la nuova portavoce del cinema del reale stupisce grazie a una riservatezza e a una risolutezza tutto sommato simili a quelle del suo predecessore Luciano Barisone. All’annuncio della nomina ha reagito così: «sono molto onorata e impaziente di raccogliere la sfida d’infondere nuova vita al Festival, mantenendo al tempo stesso il suo alto livello qualitativo». L’impazienza di Emilie non è da confondere con l’impulsività, ma va letta come il bisogno viscerale di proseguire con sincerità e una buona dose di caparbietà, al fine di continuare a sostenere una visione ben precisa del cinema del reale, finalmente libero dall’obsoleta dicotomia fra finzione e documentario. Emilie Bujès sa benissimo cosa sta facendo e soprattutto dove sta andando. Non è certo un caso se la «Maître du réel» di quest’anno è la poliedrica regista, sceneggiatrice, attrice, direttrice della fotografia, montatrice e chi più ne ha più ne metta, francese Claire Simon. Sin dall’inizio del suo mandato Emilie Bujès non ha nascosto la sua voglia di iniettare nel festival una buona dose del suo percorso e della sua personalità: multiforme, artistica e aperta alla sperimentazione di nuovi linguaggi e forme cinematografiche deliziosamen-

te imperfette e incuranti delle classiche categorizzazioni (di genere, formato, durata,…) legate all’espressione filmica. Spregiudicata e per molti aspetti avanguardistica, l’inclassificabile regista francese Claire Simon si è incamminata su sentieri tortuosi sin dagli inizi della sua carriera. Decisa a filmare ciò che normalmente, per velleità estetiche e/o etiche, non si mostra, Simon debutta al cinema con un film decisamente provocatorio. Scènes de ménage nasce nel 1991 in un formato atipico: dieci moduli di quattro minuti che trascrivono l’intimità domestica di una casalinga qualsiasi che ha la sfrontatezza di dire ad alta voce quello che molte si limitano a pensare. A incarnare questa anonima casalinga c’è la bravissima Miou-Miou, che si trasforma in ambasciatrice di un genere cinematografico senza frontiere, nato dal reale ma trasformato sullo schermo attraverso il personale sguardo del regista. Un cinema che non nasce dall’illusione di una fedele trasposizione della realtà, ma che lascia al regista la libertà di dare forma a ciò che vede, sente, respira come meglio crede, in sintonia con la propria sensibilità e in linea con il discorso che vuole veicolare. Se c’è qualcosa che davvero accomuna tutti i film selezionati è proprio questo: la sensibilità al servizio e non sottomessa alla realtà. È straordinario rendersi conto di quanto la decostruzione di ciò che ci attornia attraverso l’arte sia inaspettata e ricca di spunti di riflessione, d’emozione, ma anche di discussione. Sin dal potentissimo film di aper-

tura Of Fathers and Sons, del siriano Talal Derki, è evidente la ricchezza del ruolo del regista come passatore fra una realtà non sempre facile da capire e lo spettatore. Nel film egli ritorna nel Nord del suo paese natale facendosi passare per un sostenitore del movimento jihadista. Il risultato è un film dalle sembianze distopiche che sembra direttamente uscito dalla mente lucida e provocatoria di Philip K. Dick. La realtà può essere tanto terrificante da sembrare irreale? Come ha potuto l’odio spazzare via ogni traccia se non d’amore perlomeno di raziocinio? Talal Derki filma, rischiando la sua stessa vita, una realtà che l’ha privato d’una parte della sua stessa identità, ingoiando le sensazioni, i profumi e i colori che ha conosciuto. Orfano delle sue origini il regista cerca di ricostruire un presente che, pur ferendolo nel profondo, è costretto ad affrontare per elaborare il lutto del passato. Cosciente dell’impossibilità di trascrivere in maniera neutra ciò che vede, Talal Derki usa la sensibilità come arma di controllo su ciò che lo ripugna. Impotenti, diventiamo testimoni della distruzione d’ogni innocenza, ci intossichiamo d’odio, ci facciamo carico di un’indignazione infine spaventosamente reale. Molti sono i film presentati che si tuffano nella fragilità di mondi intimi. Fra questi A Bright Light – Karen and the Process dell’artista svizzera Emmanuelle Antille che ci regala, filtrato dal suo personalissimo sguardo, il ritratto di Karen Dalton, una delle musiciste folk più misteriose e talentuose degli

Un momento di Of Fathers and Sons del siriano Talal Derki. (youtube)

Anni sessanta. Sebbene la presenza della regista sembri a tratti ingombrante, ci rendiamo presto conto dell’originalità del suo postulato di base: mettere da parte la pretesa di catturare l’anima di una creatura libera per natura e cercare piuttosto di riflettere sulle emozioni che la sua musica sa veicolare e che la regista sente in modo quasi epidermico. Un road movie affascinante che partecipa alla costruzione di un’identità «femminile» ibrida e in movimento, delineatasi quest’anno attraverso numerosi film incentrati sull’intimità di donne catturate nella loro catartica complessità. Fra questi anche il toccante Sisters di Peter Entell che scava nell’apparente normalità del quotidiano per estrarne una verità insospettata.

Sulla stessa linea 1999 – Wish You Were Here, primo lungometraggio della canadese Samara Grace Chadwick che attraverso filmati e diari ripercorrere un passato in cui hanno trovato la morte (per suicidio) più di dieci studenti dello stesso liceo. Un’analisi sottile e straordinaria dell’adolescenza e allo stesso tempo una sorta di terapia collettiva che nasce dal centro della terra travolgendoci come un terremoto. Se in un primo tempo è il cervello a voler prendere il sopravvento è ben presto la terribile poesia delle immagini a guidarci verso una verità che sarà sempre straordinariamente multiforme. Ed è questo forse il messaggio fondamentale che ci regala ogni anno Visions du réel. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Vella, la poetica della sottrazione Mostre L’artista ticinese Francesco Vella allo Spazio Officina di Chiasso: la ricerca del segno in pittura Eliana Bernasconi «Ho bisogno di silenzio / come te che leggi col pensiero / non ad alta voce / il suono della mia stessa voce / adesso sarebbe rumore / non parole ma solo rumore fastidioso / che mi distrae dal pensare....» Questi primi versi di una poesia di Alda Merini ben si addicono all’esposizione che Spazio Officina di Chiasso dedica ogni anno a un artista operante sul territorio, questa volta Francesco Vella. Un’antologica di 200 opere illustra quasi 40 anni di attività di questo artista dall’indole silenziosa e apparentemente distaccata, in realtà potente osservatore, peraltro accortissimo nel collocare la sua opera in circuiti nevralgici come enti e collezionisti pubblici e privati, gallerie. Quando Vella inizia la sua formazione nella Brera di inizio Anni 80 l’humus culturale è ricchissimo: le correnti artistiche post-impressioniste hanno segnato il secolo, sono esistiti Mondrian e Lucio Fontana, sono vive le correnti dell’astrattismo geometrico, l’ironica dissacrazione operata da Marcel Duchamp ha attribuito status di arte agli oggetti di uso quotidiano. L’Action Painting dell’americano Jackson Pollock con le colature di colore legate alla gestualità ha lasciato un’indelebile impronta: vi è la lezione dell’informale europeo e americano, quella del russo Malevitch con la sua pittura monocroma e quella dello statunitense Rothko che riduce l’opera ai minimi termini con l’espressionismo astratto. Accanto al minimalismo e al

concettualismo è in arrivo la Pop Art, si praticano tecniche come il collage e l’assemblaggio polimaterico, si usano oggetti poveri scartati dalla società e materiali prodotti dallo sviluppo industriale: sta per giungere il tempo della multimedialità in arte. Pur avendo respirato questo clima Vella rimarrà sempre fedele all’operazione antica della pittura, al supporto tradizionale della superficie da occupare su cui tutto avviene, sia carta o tela, legno, plexiglas o cartone. È la stessa superficie dove decenni dopo inizierà la rappresentazione pittorica del vuoto, della ricerca di ciò che in tale vuoto potrebbe nascere. L’esposizione chiassese rende conto del suo progressivo passaggio al concettuale, cifra stilistica che è oggi il suo modus operandi con una poetica della sottrazione che tende alla rappresentazione di un silenzio e di un vuoto che non è un annullamento ma piuttosto un’interrogazione sulla possibilità del loro esistere. Alcuni tra i primi lavori plastici tra astrazione e figurazione, eseguiti tra l’80 e l’87, come Bijoux o Bonbon Window (corpi di donna che risentono del clima di protesta sociale di quegli anni) sono ottenuti con materiali industriali poveri, polistirolo, schiume, metalli e parlano il linguaggio del momento. Ben presto i contenuti e i titoli muteranno segnalando un cambiamento di direzione: Silent Painting del 1989 o Paesaggio mentale del 1991, sono opere di grandi dimensioni occupate da campiture, hanno la forma perfetta del cerchio, del quadrato e del

irraggiungibile e perduto del quale si va perdendo memoria. In seguito la difesa di uno spazio interiore si fa progetto preciso: in Pensiero sarai solo in questo mondo? (cubetti di legno con malta) 2012, la superficie si fa campo di battaglia per la difesa di un sogno in una lunga serie di opere che chiama Scritture e Cancellazioni. Qui la poetica della sottrazione vince, in grandi campiture affiorano piccolissimi segni sconosciuti e primordiali, lettere illeggibili ma di potenza segreta che si strutturano e si rincorrono, si aggregano e disaggregano accanto a piccole frecce o scarabocchi. Il disegno è primitivo, graffiato, inciso anche su cartone o gesso, è lo sforzo infinito del bambino, leggi talvolta qualche parola portatrice di senso: E tu? o Madre o Vedo il sole. Jacques Lacan, lo psicoanalista francese che ha congiunto il pensiero freudiano alla linguistica e allo strutturalismo ha lasciato scritto che il nostro inconscio «è strutturato come un linguaggio», Davanti a immagini dove questi segni grafici sommessamente lavorano comprendiamo quanto la ricerca di uno spazio vuoto che restituisca senso alle parole sia condizione della nostra umanità.

Francesco Vella, Figura grande, (2005). (Carlo Pedroli, Chiasso Archivio Francesco Vella, Chiasso)

triangolo. Forme che continuamente riproposte ci permettono di seguire il lavoro di trasformazione di un artista silenzioso e tenace che sceglie di rappresentare la soggettività dell’individuo e la necessità dell’esistenza di uno spazio che la possa contenere, come in Paesaggio mentale del 1991, o nel gran-

de acrilico su tela Uno (cm 130x60) del 2000. Operazione davvero difficile questa davanti alla quale l’artista non indietreggia, forse gli fanno da guida piccoli oggetti del ricordo, giocattoli dell’infanzia che dipinge di bianco, la palla, la pistola colorata, il trenino, oggetti simbolici mediatori di un luogo

Dove e quando

Francesco Vella. Visioni dell’arte: la ricerca del segno in pittura. Chiasso, Spazio Officina. Orari: ma-ve 14.0018.00; sa-do 10.00-12.00; 14.00-18.00. Fino al 29 aprile 2018. www.centroculturalechiasso.ch Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Note ecumeniche dai campi di lavoro

Musica Al LAC di Lugano giovedì andrà in scena uno spettacolo

sull’affascinante capitolo dei concerti di Ferramonti

Enrico Parola C’è un capitolo della storia e di storia della musica che sta riemergendo solo ora; e prima di essere divulgato da studi, saggi e libri (il primo uscirà tra qualche mese) verrà rivelato in uno spettacolo in scena al LAC giovedì 26 aprile: Serata colorata, traduzione di Bunter Abend, con cui venivano definiti i concerti che si tennero a Ferramonti negli anni 40 del secolo scorso. Ferramonti è un paesino sperduto della Calabria dove Mussolini aveva istituito uno dei suoi 48 campi di internamento, versione italica dei ben più noti lager nazisti. E anche nel Belpaese vi fu, con i debiti distinguo, una sorta di Theresienstadt, il lager modello dove si facevano concerti e spettacoli teatrali. «Accadde qualcosa di clamoroso: in quel campo risuonarono le arie di Verdi e di Wagner, le Polacche di Chopin e i Lieder di Schubert, canti liturgici polifonici e cabaret viennese; si ascoltavano violini e fisarmoniche, un armonium e addirittura un pianoforte a coda; ma a differenza di Theresienstadt praticamente nessuno se ne accorse; ed è forse per questo che quanto accadde là tra il 1941 e il 1944 sta emergendo solo ora, e solo grazie a una circostanza fortuita». Lo racconta Raffaele Deluca, mu-

sicologo che da cinque anni indaga sulla musica a Ferramonti. «Nel 2013 un’erede di Kurt Sommerfeld, prolifico autore nato nel 1921 e scomparso nel 1997, venne in Conservatorio a Milano per regalare le partiture autografe del nonno; erano circa 300, mi incuriosirono alcune che recavano come luogo di composizione Ferramonti. Iniziai a indagare ed emerse un mondo impensabile: non si sa bene per quali strane circostanze, ma nel campo di internamento di quel paesino calabro arrivarono oltre sessanta musicisti e professionisti dei più svariati ambiti; si diceva che fosse più facile trovare un notaio o un medico che un pelapatate». E infatti fu proprio un medico a permettere l’arrivo dei violini al campo: «In un paese limitrofo, Bisignano, c’era il liutaio Nicola De Bonis: aveva dei problemi gastrici e fu proprio grazie a un medico internato che poté avere una diagnosi corretta e una giusta cura; per gratitudine lui, che era specializzato in fisarmoniche, imparò a costruire violini per offrirli ai detenuti». Tra i violinisti c’era Isaac Thaler, che fino a poco prima beveva e discuteva al viennese Café Museum con Berg, Schönberg e Webern, la trinità della seconda scuola di Vienna. Tra le personalità di maggior spicco c’era Lav Mirski, rinomato direttore

d’orchestra che a Ferramonti assunse la guida del coro. «Un’altra pagina miracolosa di questa storia incredibile. Da Belgrado era stato deportato un intero coro della sinagoga cittadina, e siccome era stato concesso che tre baracche fossero adibite a sinagoga, chiesa per i cattolici e chiesa per i greci ortodossi lì internati, il coro non solo iniziò ad accompagnare le funzioni per la comunità ebraica, ma imparò i canti delle altre due liturgie e prestò per tutta la durata del campo triplo servizio; un esempio di ecumenismo e di umanità spettacolare capito dagli stessi agenti di polizia e dalle milizie fasciste, che si radunavano davanti alle baracche per ascoltare quei canti così belli». Ma Deluca ha scoperto un altro episodio che vede Mirski protagonista; a raccontarlo nello spettacolo in scena al LAC e firmato da Viviana Kasam sarà Peppe Servillo, voce narrante che intervallerà con aneddoti e cronache le parti musicali. «L’episodio venne registrato da Israel Kalk, un ingegnere lituano che, avendo creato la mensa dei bambini per soccorrere gli internati nei campi fascisti, ottenne il permesso di visitare Ferramonti; le sue carte manoscritte compongono oggi il Fondo di Ferramonti ospitato dal Centro di Documentazione Ebraica

Un’immagine dell’orchestra con Callisto Lopinot, padre spirituale del campo.

di Milano. C’era nel campo un certo Oliva, agente dell’OVRA, la Polizia Segreta fascista, e lì avente funzione di censore della corrispondenza, nonostante non conoscesse né il tedesco né altre lingue estere e lì vi fossero soprattutto stranieri. Era una delle persone più temute non solo dagli internati, ma anche e forse soprattutto dai funzionari e dagli agenti di polizia. Oliva aveva una sfrenata passione per la musica e pretendeva un’ora di lezione al giorno dai musicisti ebrei internati. Una notte del 1942 Oliva bussa alla baracca di Mirski svegliandolo bruscamente. Sostiene di essere in preda a un’improvvisa e irrefrenabile ispirazione. Vuole comporre un inno con il quale intende partecipare a un concorso musicale per compositori fascisti che si terrà da lì a poco a Roma. Essendo musicalmente quasi analfabeta e quindi incapace di comporre anche un solo accordo, pretende che Mirski, insieme a Sternberg e ad altri due musicisti, scrivano per lui la partitura. Ardui sono i tentativi dei compositori di decifrare l’ispirata follia di Oliva; all’alba l’inno è terminato e Oliva lo invia gongolante alla Commissione di Roma. Dopo tre set-

timane, i quattro musicisti vengono convocati d’urgenza presso l’ufficio di Oliva. Alla radio stanno trasmettendo l’annuncio del trionfo del “Maestro” Oliva, primo classificato con il suo inno L’Italia vincerà». Dei concerti che vennero organizzati a Ferramonti, Deluca ha recuperato finora 14 programmi : «Venivano dattiloscritti e distribuiti: Mozart e Brahms, Chopin e Schubert, il Coro dei pellegrini dal Tannhäuser di Wagner e arie di Verdi; c’era Paul Gorin, cantante di Lipsia che aveva in mano i contratti con la Scala per cantare Madama Butterfly e La fanciulla del West; all’inizio si accompagnava con la fisarmonica, poi con il pianoforte e poi anche con l’orchestra». Musiche che giovedì saranno eseguite tra gli altri da Fabrizio Bosso, celebre trombettista il cui padre studiò con Oskar Klein, anch’egli virtuoso della tromba e internato a Ferramonti. «Non ebbe la rinomanza di Theresienstadt perché attorno c’era il nulla, campi e pastori analfabeti; e i poliziotti non capirono il valore di quanto stava succedendo, tolleravano il far musica perché dicevano che serviva a far star buoni gli internati». Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

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shopping Salumi rigorosamente artigianali

Attualità La Salumi del Pin di Mendrisio produce per Migros diversi salumi della migliore

tradizione ticinese. Il titolare, Angelo Valsangiacomo, spiega come si ottengono queste prelibatezze realizzate come si faceva una volta

Signor Valsangiacomo, quando nasce la vostra azienda?

L’azienda nasce come Salumificio Brenni durante gli anni Venti del secolo scorso nel cuore di Mendrisio. Nel 1996 la nostra famiglia rileva l’attività e fonda la Salumi del Pin con l’intento di continuare un percorso d’affermazione sul mercato dei salumi della migliore tradizione mendrisiense.

*Azione 20% su diversi prodotti della Salumi del Pin dal 24 al 30 aprile fino a esaurimento dello stock, nelle filiali di Agno, Locarno, Lugano, S. Antonino, Grancia e Serfontana Prosciutto crudo Nostrano 100 g Fr. 5.40* invece di 6.80

I vostri salumi sono presenti nei negozi Migros Ticino con un assortimento composto da prosciutto crudo, prosciutto cotto, salame, salametti al Merlot, mortadella di fegato, pancetta arrotolata, luganighe e luganighetta. Qual è la loro particolarità?

Tutti i prodotti si caratterizzano per la lavorazione artigianale molto accurata che segue antiche ricette tramandatesi da tre generazioni. Come si produce un buon prodotto?

Innanzitutto si utilizzano carni di animali allevati nel rispetto della specie, in modo da avere suini sani e non stressati. Dopo la macellazione, che avviene al Macello Cantonale di Cresciano, la carne viene subito consegnata al nostro salumificio per la lavorazione, che viene eseguita da salumieri specializzati con lunga esperienza e con l’impiego di altri ingredienti attentamente selezionati. Non da ultimo la stagionatura dei prodotti curata minuziosamente in ogni fase, è l’aspetto necessario affinché i prodotti possano sviluppare tutte le loro caratteristiche organolettiche.

Pancetta arrotolata Nostrana 100 g Fr. 4.50

Quanto conta l’artigianalità nel vostro settore?

Direi che è fondamentale al fine di ottenere dei prodotti genuini, di prima qualità e fedeli alla tradizione. Solo un buon artigiano è in grado di coniugare al meglio creatività, manualità, tradizione e padronanza delle tecniche produttive.

Salame Nostrano 100 g Fr. 4.30* invece di 5.40

Salumi del Pin in primo piano Da giovedì a sabato di questa settimana, nelle filiali Migros di Agno, Locarno, Lugano, S. Antonino, Grancia e Serfontana, sono previste degustazioni di prodotti della Salumi del Pin di Mendrisio. Inoltre, l’azienda presenterà i suoi prodotti presso la Migros di Agno sabato 28 aprile. Venite a trovarci!

Perché ha scelto questo lavoro?

Essendo figlio di contadini e cresciuto in mezzo agli animali, quando si faceva la mazza casalinga restavo sempre affascinato dalle buone cose genuine che preparavano i miei genitori. Scegliere di fare questo mestiere è stato per me qualcosa di naturale. Inoltre attraverso questo mestiere possiamo trasmettere gli autentici sapori delle nostre tradizioni gastronomiche.

Angelo Valsangiacomo della Salumi del Pin con una selezione dei suoi prodotti. (Flavia Leuenberger Ceppi)


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Idee e acquisti per la settimana

È tempo di costine!

Attualità Gli amanti della carne non vedono l’ora di aprire la stagione delle grigliate all’aperto? Grazie all’imperdibile

azione prevista questa settimana nella vostra macelleria Migros è impossibile non farlo!

Tra tutte le specialità di carne da grigliare, le costine di maiale sono sicuramente tra le più gettonate dai commensali, che ne apprezzano l’inconfondibile tenerezza e la squisita succosità. Ma che differenze ci sono tra i diversi tagli di costine e come orientarsi una volta in negozio? Ecco un piccolo vademecum per aiutarvi a scegliere il pezzo che meglio si addice ai vostri gusti. 1

Azione 55% Costine di maiale Austria, al banco a servizio, al kg Fr. 9.40 invece di 22.– dal 24 al 30 aprile

Le costine «classiche»

Si tratta delle costole che coprono il taglio corrispondente alla pancetta del suino. Sono le più lunghe di tutti i tipi di costine e le più apprezzate dalle nostre parti. Una «placca» di costine è composta da ca. 10 pezzi e viene separata dalla parte sottostante che è la pancetta. Quest’ultima viene poi utilizzata per la preparazione di vari salumi. 2

Costine carré

Spesso vengono erroneamente chiamate «Puntine», ma in realtà le puntine sono un altro taglio (vedi sotto). Vengono anche chiamate con il termine inglese Baby Back Ribs o a volte anche Spare Ribs. Si tratta della parte di costole che ricopre il carré (schiena). Queste sono le costine più corte, da una «placca» intera di costine carré si possono ottenere 12/14 costine singole. 3

Puntine

iStock

È la parte anteriore della costina di maiale più «carnosa», ossia le prime 4/5 coste. Questo pezzo viene separato dal resto della costina e viene ritenuto leggermente meno pregiato rispetto al taglio classico. Consigli di cottura

Marinare le costine almeno trenta minuti prima di grigliarle con la marinata preferita. Grigliare inizialmente a fuoco forte, quindi spostarle sui bordi e terminare la cottura a fuoco medio. Cuocerle almeno per un’ora spennellandole e girandole regolarmente usando una pinza e non un forchettone. Le costine «classiche» e le puntine necessitano di 15 minuti in più di cottura.

1

Costine «classiche»

3 Costine carré

2 Puntine

La cura per le pelli giovani si chiama… I am Clear!

Questa linea di qualità, ma conveniente, è stata appositamente sviluppata per il trattamento della pelle di teenager e giovani adulti tra i 13 e i 24 anni. Semplice da applicare, I am Clear comprende prodotti specifici in grado di eliminare le impurità cutanee in pochissimi giorni, pur mantenendo la pelle ben idratata. L’assortimento comprende arti-

coli per ogni esigenza: dal Washgel per una pulizia profonda alla Crema 3 in 1 detergente/peeling/mask. Utili anche il Tonico purificante, i Dischetti per detergere in profondità e affinare i pori, la Crema da giorno per prevenire i punti neri, il Cover Stick per ridurre impurità e punti neri, gli Strip specifici per il naso e, per un impiego mirato, il Gel antiimpurità.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

Concorso per la Festa della Mamma

Attualità Offriamo a due fortunate vincitrici una consulenza personalizzata di bellezza con una Personal Make-Up

Shopper nei reparti Beauty di Migros Lugano, Agno, Serfontana, S. Antonino o Locarno

Concorso

Come partecipare Il concorso è aperto a tutte le mamme. Per partecipare basta inviare una email con i propri dati all’indirizzo concorso@ migrosticino.ch, indicando nell’intestazione «Concorso Festa della Mamma». L’ultimo termine di partecipazione è il 29 aprile 2018. Le due vincitrici saranno informate per iscritto. Non è previsto nessun reportage fotografico e non si terrà corrispondenza in merito al concorso. Le vincitrici potranno avvalersi della consulenza entro il 30.07.2018. Buona fortuna!

Marka

Quest’anno, in occasione della Festa della Mamma che si celebra domenica 13 maggio, Migros Ticino ha organizzato un originale concorso in collaborazione con un’esperta di make-up. Molte mamme posseggono trousses piene di trucchi ma quante sanno veramente quali sono le occasioni per utilizzarli e per valorizzarsi al meglio? Quali errori si possono evitare e su cosa è bene puntare per mettere in risalto la propria bellezza? Non è sempre facile orientarsi nel mondo della cosmetica, del make-up e dei tutorial. Grazie alla consulenza personalizzata di una Personal Make-Up Shopper, due mamme possono ora usufruire gratuitamente dei consigli professionali che hanno sempre desiderato. Questo servizio innovativo vuole rispondere alle necessità di tutte coloro che amano curare la propria immagine, ma che non hanno ancora trovato una risposta. Inoltre, le due vincitrici riceveranno in omaggio un make-up starter kit personalizzato.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

René Kübler è Digital Producer di Famigros e due volte padre.

René Kübler

«C’è sempre la treccia fatta a mano» Come si festeggia la mamma a casa sua? Cogliamo l’occasione della Festa della Mamma per ritrovarci con tutta la famiglia allargata. Con i bambini e i nipoti siamo in 16 persone, che non hanno modo di incontrarsi spesso. Mia madre ci coccola con un ricco brunch con tanto di treccia fatta con le sue mani. Sua madre apprezza ancora volentieri qualche regalo? Mia mamma è felice già per il fatto di ritrovarsi tutti assieme a festeggiare. Naturalmente le fa piacere anche ricevere un mazzo di fiori o qualcosa di dolce.

Famigros

«Tu sei la migliore!» Il 13 maggio è la Festa della Mamma. Il giorno in cui figli e figlie dimostrano l’affetto per la propria mamma con un piccolo pensiero. Ma quale potrebbe essere il regalo ideale? Il club delle famiglie Famigros ha raccolto qualche idea

La mamma è farmacista, cuoca, artista, poliziotta, tassista… tutto in una sola donna. È presente quando si ha bisogno di lei e – come direbbero gli scout – «sempre pronta». Questo vale anche quando i figli sono ormai diventati adulti. Nella quotidianità a volte ci si dimentica di ringraziarla. Ecco perché è un bene che ci sia la Festa della Mamma. Per la maggior parte delle mamme basterebbe tuttavia un abbraccio e un sincero «Grazie Mamma!», ma anche un pensierino non guasta mai, a condizione che non sia comprato all’ultimo minuto in una stazione di servizio. Siccome la Festa della Mamma cade

sempre di domenica, ci si potrebbe per esempio organizzare già il giorno prima acquistando il regalo ideale. Gli alunni hanno spesso la fortuna di poter realizzare un regalo durante le lezioni. I più piccoli fanno invece affidamento sul papà, quindi perché non preparare insieme un ricco brunch? Idee regalo ed escursioni

In occasione dell’ultima Festa della Mamma Famigros aveva organizzato una campagna di autostima. Il club per le famiglie della Migros aveva messo a confronto i bambini con le insicurezze delle proprie mamme. Sono troppo se-

vera? Poco presente per i bambini? Le risposte dei bambini – videoriprese – hanno rassicurato le mamme e talvolta hanno strappato loro qualche lacrima. Sul portale di Famigros bambini e partner possono trovare idee regalo, consigli per gite fuori casa e belle poesie per la Festa della Mamma. Cosa ne direste di un biglietto d’auguri fatto con le proprie mani su cui è scritto: «Se dovessi scegliere una mamma, la mia scelta cadrebbe solo su di te. Perché tu sei la migliore mamma che può esserci per me». Altri consigli su: www.famigros.ch

Regala qualcosa anche a sua moglie? Quello che le mamme fanno ogni giorno è davvero incredibile. Come marito sono onorato che mia moglie sia la migliore mamma per i nostri figli. Con la figlia maggiore vedremo di realizzare qualcosa di carino con le nostre mani. Su famigros. ch si possono trovare molte idee di bricolage, come pure consigli per escursioni, belle poesie e ottimi ristoranti adatti alle famiglie.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

Mondo animale

Il gatto è ciò che mangia Vale sia per l’uomo che per il gatto: l’alimentazione deve essere innanzitutto bilanciata. Prodotti naturali, senza l’aggiunta di coloranti artificiali, aromi e conservanti fanno particolarmente bene ai nostri mici. È inoltre importante prestare attenzione ai seguenti punti

presso (44), tipografa r fe o lh e e S anuela Julio (10) e M Media Migros

La carne è un must

Io e il mio gatto

«Fa le fusa tutto il giorno» Manuela, come è Julio? È il mio coccolone. Ogni giorno aspetta il momento in cui può fare le coccole con me. Fa le fusa tutto il giorno, recentemente anche dal veterinario, che così ha avuto difficoltà nell’auscultarlo. Quali altri amici a quattro zampe vivono con te? Il mio altro gatto, Sophia. Li ho entrambi da dieci anni. Sophia è esattamente il contrario di Julio: non posso mai prenderla in braccio. Ma non è così grave, in compenso è una grande fan del mio compagno.

Al contrario dei cani, i gatti sono carnivori. La carne è indispensabile nella loro alimentazione e senza possono ammalarsi gravemente, perché il loro corpo non produce la taurina, un acido organico che favorisce la salute del cuore e la vista.

1

Preparare da sé?

Attenzione ad alimentarli con cibi preparati in casa o cibi cotti: chi ha gatti e vuole preparare da sé gli alimenti deve avere conoscenza approfondite sulle loro esigenze nutrizionali, affinché non ne derivino carenze.

3

Ci sono momenti in cui i gatti ti fanno perdere la pazienza? A casa non abbiamo la gattaiola. Quando vogliono uscire lo fanno capire e io apro loro la porta. Questo in sé non sarebbe un problema. Ma dopo un minuto vogliono rientrare. E poi di nuovo uscire.

Le sostanze più importanti

2

L’alimento del gatto deve essere bilanciato e contenere il mix ottimale dei sei più importanti gruppi di elementi nutritivi: proteine, grassi e oli, sali minerali, vitamine, carboidrati e acqua.

Diverse ciotole per l’acqua

I gatti domestici hanno bisogno di molta acqua. Bisognerebbe mettere diverse ciotole a disposizione dei propri gatti, in luoghi diversi, ma non vicino a quella del cibo. L’esperienza dimostra che in questo modo i gatti bevono di più.

4

Sembra estenuante... Lo è. Tuttavia non posso immaginare di vivere senza di loro.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

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Pratico, comodo e alla moda: lo stile di vita attivo e salutare ha trovato il suo look, «Athleisure», un mix tra sport e tempo libero. Il principio è semplice. Scarpe da ginnastica e leggings sportivi di tendenza vengono abbinati in un insieme alla moda. E così i leggings ti accompagnano negli acquisti, al bar o al club.

Foto Christian Dietrich

Chi dice che non è adatto in ogni situazione? Il dress code «Athleisure» unisce tempo libero e sport. E tanto per cominciare ha anche un bell’apetto

Scarpe per il tempo libero taglie 36-41 Fr. 39.80

I prodotti illustrati sono disponibili solo nelle maggiori filiali.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 aprile 2018 • N. 17

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Idee e acquisti per la settimana

aha!

Solo tofu, per piacere

Azione 20X Punti Cumulus su tutti i prodotti Soja Tofu dal 24 al 30 aprile

Al giorno d’oggi l’alimentazione vegetariana o vegana è variegata. Grazie ai molti prodotti a base di soja nessuno deve più rinunciare al suo piatto preferito. I buongustai utilizzano con piacere il tofu dell’assortimento «aha!». Il tofu nature è particolarmente indicato per i piatti da cuocere al forno, così come per quelli a base di curry o da preparare in padella. Insaporito con erbette, il tofu provençale assume un ruolo di primo piano in ogni tipo di pietanza mediterranea. Entrambe le varietà di tofu sono prodotte in Svizzera.

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Lunghezza laterale ciotola porta formaggi: ca. 18 cm

Ci invii 20 prove d’acquisto* di formaggio svizzero. I primi 1500 partecipanti riceveranno un set GRATUITO di 4 coppette prodotte dalla vetreria di Hergiswil. Termine di invio: 08.05.2018 (timbro postale).

Sul concorso non si tiene alcuna corrispondenza. Il ricorso è escluso. Non è dato alcun diritto, rivendicabile per vie legali, alla trasmissione, al versamento in contanti o allo scambio dei premi. Si applica esclusivamente la legislazione svizzera.

Nome/Cognome

Compili il talloncino e lo invii, assieme alle prove di acquisto di formaggio svizzero, a:

NPA/Località

Formaggio Svizzero, «Festa della mamma», casella postale, 3001 Berna * Ossia lo scontrino di cassa oppure il codice a barre che figura sulla confezione del formaggio o sullo scontrino. Il prezzo e la quantità (peso) acquistata non contano.

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Indirizzo

E-mail Telefono Sì, vi prego di informarmi sui concorsi e le campagne promozionali indetti da Formaggio Svizzero.

Il nostro Formaggio Svizzero. www.formaggiosvizzero.ch

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