Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 30 aprile 2018
Azione 18 Ms alle hopping pagi ne 4 5-50
Società e Territorio Intervista a Massimo Mantellini, esperto di cultura digitale e autore di Bassa risoluzione
Ambiente e Benessere Non è né un morbo né una malattia vera e propria, ma può compromettere anche l’intero apparato scheletrico: l’osteoporosi spiegata dall’endocrinologo, Pierpaolo Trimboli
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Politica e Economia Un rapporto dell’Ocse ridimensiona le paure sulla perdita di posti di lavoro a causa dell’automazione
Cultura e Spettacoli Alla Fondazione Prada di Milano una mostra con 600 oggetti curata da Celant
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Il futuro delle merci con Hupac
di Simona Sala pagine 28 e 29
La Germania e la questione islamica di Peter Schiesser Non portate la kippah in pubblico, nelle grandi città tedesche. Il consiglio è di Josef Schuster, presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, all’indomani dell’aggressione di due giovani israeliani da parte di alcuni giovani musulmani nel quartiere in di Berlino, Prenzlauer Berg, il 17 aprile. Un’aggressione che ne segue altre, sempre a sfondo razzista, che vedono come protagonisti giovani arabi, profughi recentemente immigrati. La Germania, oltre all’antisemitismo connaturato ad un’ideologia di estrema destra, tuttora presente nel paese come in altri paesi europei, è ora costretta a confrontarsi con un nuovo tipo di antisemitismo: quello di origine musulmana, che dopo l’arrivo di oltre un milione di migranti nell’estate del 2015, in prevalenza dalla Siria, si rende sempre più manifesto. Sia chiaro: l’antisemitismo di estrema destra resta preponderante (e responsabile del 93 per cento di violenze contro cittadini di origine ebraica in Germania nel 2017), ma l’antisemitismo di importazione e di origine musulmana è diventato un tema caldo, che si innesta nel più ampio dibattito sul «posto» che l’islam deve/può occupare nella
società tedesca. Ed è un tema che non riguarda soltanto gli arabi recentemente immigrati, coinvolge anche e soprattutto le organizzazioni islamiche che lo Stato tedesco considera come unici interlocutori nei rapporti con le comunità musulmane. Non tutti (ma probabilmente non pochi) la pensano come il ministro degli interni Horst Seehofer, ossia che l’islam è una religione che non appartiene alla Germania, altri concordano con la cancelliera Angela Merkel secondo cui in Germania c’è posto anche per la religione dei musulmani. Ma il dibattito è perlopiù viziato da pregiudizi e tabù. Se a destra prevalgono i pregiudizi verso l’islam, a sinistra e in gran parte dei media prevale una linea «garantista», che tollera atteggiamenti illiberali adducendo giustificazioni culturali in nome di un anti-razzismo di maniera. Questo però impedisce di vedere il crescente influsso delle organizzazioni islamiche e dei loro imam sui credenti musulmani in Germania. Esponenti politici borghesi ma anche musulmani liberal hanno messo il dito sulla piaga: le quattro federazioni islamiche in Germania sono finanziate e dirette dall’estero (Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Iran) per influenzare i fedeli in senso integralista. In particolare la
federazione di moschee turche Ditib è molto attiva nel trasmettere messaggi fondamentalisti, in accordo con le posizioni del governo turco. Il dialogo dello Stato tedesco con la cosiddetta «Conferenza islamica» viene giudicato una farsa: le voci musulmane critiche sono state escluse, lo Stato tedesco accetta di dialogare unicamente con le federazioni ufficiali, nella fallace speranza che buone relazioni con gli islamisti light evitino una maggiore radicalizzazione dei fedeli. Bassam Tibi, professore emerito di relazioni internazionali all’università di Göttingen, ha pubblicato un libro sull’immigrazione islamica in Germania e le sue conseguenze. Secondo lui, solo il 10 per cento dei musulmani è davvero integrato in Germania, il 90 per cento vive in realtà/società parallele. Fintanto che l’integrazione è vissuta solo come atto burocratico questa frattura resterà profonda e genererà pure antisemitismo; un’integrazione vera passa dalla condivisione dei valori delle società liberali: «Sono cresciuto a Damasco dove l’antisemitismo era connaturale, a Colonia sono stato rieducato», afferma Bassam Tibi (NZZ, 5.4.2018). Guardare in faccia alla realtà, dare ascolto alle voci liberali dell’islam è il primo passo verso una politica che miri ad una vera integrazione dell’islam in Europa.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Società e Territorio Salire al Generoso La sezione di Mendrisio della SAT sta ripristinando il ripido sentiero che sale da Rovio conosciuto come «la Variante» pagina 5
Orientati alla solidarietà Dal 5 maggio in Ticino si svolgeranno i Campionati europei di corsa d’orientamento: un esempio di sostegno e fratellanza tra atleti pagina 6
Bagnarsi a Baden Oliver Scharpf nelle sue consuete passeggiate in giro per la Svizzera ci fa rilassare in una vasca termale provvisoria pagina 8
La cabina telefonica senza telefono
Nuovi utilizzi Piccole biblioteche, biglietterie automatiche, stazioni di ricarica per veicoli elettrici: la nuova vita
delle cabine telefoniche è in sintonia con i bisogni attuali e conferma il loro ruolo sociale. L’analisi di Samuel Notari
Stefania Hubmann Fra gli oggetti vittime della diffusione dei telefoni mobili, le cabine telefoniche spiccano per il loro ruolo nell’immaginario collettivo, la loro un tempo numerosa presenza in posizioni centrali e strategiche e le recenti riconversioni. Ed è proprio sul telefono pubblico quale risorsa che lo studente ticinese Samuel Notari si è chinato nel mémoire di Master sostenuto lo scorso mese di settembre all’Università di Neuchâtel. Se telefonare da una cabina telefonica è ormai diventato anche in Svizzera un caso piuttosto raro, legato alle esigenze di specifiche nicchie di utenti, le possibilità di riutilizzarla sfruttando le sue caratteristiche si moltiplicano: dall’intervento artistico a funzioni sociali e di servizio, all’interesse del settore privato per uno spazio pubblicitario di per sé attrattivo.
Vite a bassa risoluzione
Intervista Massimo Mantellini, esperto di
cultura digitale e blogger, nel suo nuovo libro mette in luce come la tecnologia tenda a farci scegliere l’opzione più semplice e meno approfondita
In Gran Bretagna alcune cabine sono diventate «free wifi spots», ossia punti di accesso gratuito a internet con possibilità di ricarica per smartphone
Stefania Prandi Esperto di cultura digitale, blogger della prima ora, con un seguito di quarantacinquemila follower su Twitter (@mante), Massimo Mantellini è l’autore di Bassa risoluzione (Einaudi). Nel saggio mette in luce come la tecnologia tenda a farci scegliere, tra le tante opzioni, la più semplice e la meno approfondita. Un’attitudine alla «superficie» che pervade diversi aspetti della nostra quotidianità. Mantellini, il suo libro si intitola Bassa risoluzione. Che cosa intende esattamente con questa definizione?
Il titolo del libro riassume un’ipotesi: quella secondo la quale, negli ampi processi di innovazione legati a Internet, sia possibile riconoscere scelte sociali di adattamento caratterizzate dalla riduzione di alcune nostre aspettative. Accade in molti contesti differenti. Nella musica per esempio: oggi disponiamo di tutte le canzoni del mondo a un click di distanza, eppure spesso scegliamo di ascoltarle con una qualità audio minore rispetto a quella degli impianti ad alta fedeltà di qualche decennio fa. Oppure nella fotografia: da quando scattiamo con i cellulari produciamo immagini di qualità inferiore rispetto a quella delle normali macchine fotografiche, ma in numero molto maggiore. Foto che non stamperemo mai e che potremo condividere in un istante. Insomma, nel momento in cui le potenzialità legate alla tecnologia sono diventate amplissime, abbiamo adottato in massa un meccanismo di riduzione e abbiamo mutato le nostre priorità. Secondo lei, Internet ha portato a un abbassamento generale del livello culturale?
È una domanda complessa. Internet ha ampliato moltissimo l’offerta culturale: mai come oggi abbiamo avuto un così ampio accesso alla conoscenza. Non credo che tutto questo possa avere effetti negativi generali. Non mi fido della frase che sento ripetere spesso per cui «troppa informazione sia uguale a nessuna informazione». Andrà inoltre considerato, prima di abbandonarci a giudizi troppo severi, che viviamo un momento di transizione e che la nostra abilità nel gestire gli strumenti digitali è attualmente ancora elementare. Siamo dei bimbi che stanno imparando. Nel suo libro descrive una tendenza, più accentuata nei più giovani, di essere «a bassa risoluzione». Si tratta di una propensione generazionale oppure il discorso è più articolato?
Siamo stati investiti un po’ tutti dalla trasformazione digitale. C’è un filo comune che ci unisce: è accaduto che a una maggior complessità abbiamo reagito con risposte apparentemente semplificatorie. Per poi accorgerci che, spesso, quelle scelte tanto superficiali non sono. Torno all’esempio delle foto: una volta stampavamo le immagini per conservarle negli album di famiglia e le mostravamo a poche persone. Adesso abbiamo la possibilità di condividere con chiunque le nostre memorie digitali. Quindi è vero, è cambiato il modo in cui usiamo le fotografie, ma non è necessariamente una mutazione negativa. Per quanto riguarda la questione generazionale, certamente esiste una fascia di età più vicina agli strumenti digitali. Oggi i ragazzi hanno una quota di adozione della tecnologia molto superiore rispetto ai più anziani. Se consideriamo l’ambito culturale nel suo complesso, notiamo che qualcosa è cambiato rispetto al passato: c’è una richiesta
Scattiamo molte più fotografie da quando non usiamo più la macchina fotografica, la qualità è inferiore ma... (Pixabay)
molto vasta di «superficie», non voglio per forza dire di superficialità, di modelli con i quali sia facile riconoscersi. Siamo di fronte a uno spostamento di valore, a una complessità strutturale che non riusciamo ancora a comprendere a pieno.
Si guarda spesso con sospetto e sdegno ai più giovani che trascorrono molto del loro tempo su Internet, «isolati», che «non vanno più in strada a giocare», come si faceva una volta. Lei suggerisce che non dovremmo chiamarli «nativi digitali» e che bisognerebbe essere capaci di uno sguardo complesso per capire la realtà in cui i ragazzi e le ragazze di oggi sono immersi. Può darci qualche indicazione in merito?
I «nativi digitali» non esistono, sono una banalizzazione che è di ostacolo alla crescita della cultura digitale fra i più giovani. L’espressione «nativi digitali» più che dei nostri figli parla di noi e di quello che non sappiamo fare. Danah Boyd, studiosa americana di tecnologia e social media, spiega molto
bene nei suoi scritti che non possiamo applicare le nostre categorie di adulti per capire i ragazzi. Secondo Boyd, i ragazzi non si sono innamorati improvvisamente dei social network. Semplicemente i luoghi digitali sono stati a un certo punto gli unici disponibili nei quali sviluppare l’autonomia e la privacy che tutti gli adolescenti cercano, le stesse che le generazioni precedenti trovavano nell’incontrarsi al parco con gli amici. Nessun ragazzino va più a giocare in strada oggi, perché ci sono le auto, il rumore, l’inquinamento, e semplicemente il tempo libero è organizzato in maniera diversa. Se dovessi scegliere, alla mia generazione cresciuta davanti alla televisione io preferirei quella di mia figlia che ha un’intensa vita di relazione dentro lo schermo del suo smartphone. Anche se questo non significa che non ci siano effetti negativi: ogni giorno cerco di trascinarla fuori a fare una passeggiata. In rete ci sembra di essere liberi, ma il rischio, secondo alcune interpretazioni, è di finire nella bolla
informativa perché, attraverso gli algoritmi di personalizzazione dei motori di ricerca, non veniamo esposti a informazioni lontane dai nostri gusti e punti di vista. È d’accordo con questa interpretazione?
Negli ultimi anni abbiamo creduto ad alcuni miti dell’universo digitale: alla potenza degli algoritmi, al dominio assoluto dei bias di conferma o delle bolle informative che ci rendono polarizzati e circondati da persone che la pensano come noi. Uso la parola «miti» perché proprio in questi mesi stanno uscendo alcuni interessanti studi scientifici, l’ultimo ad esempio dell’Università di Oxford di qualche giorno fa, che suggeriscono l’esatto contrario. Secondo queste analisi le bolle informative non sono poi così opprimenti e mai come oggi abbiamo accesso a fonti e punti di vista lontani dai nostri. Internet del resto era nata per questo. Il punto di svolta resta quello della curiosità individuale: i nostri orizzonti in rete dipendono da noi, esattamente come nella cosiddetta vita reale.
Ogni Paese declina la trasformazione delle cabine pubbliche secondo il proprio background. Dagli Stati Uniti al Canada, dalla Gran Bretagna alla Svizzera, interventi anche molto diversi sfruttano da un lato il potenziale del minuscolo abitacolo e dall’altro la possibilità di una sua radicale trasformazione. Significativo l’esempio di alcune cabine inglesi divenute «free wifi spots», ossia punti di accesso gratuito alla rete internet con possibilità di ricarica dei telefoni mobili. In questo caso, scrive lo studente di Capriasca nella sua ricerca, «la cabina telefonica risponde all’evoluzione tecnologica e al bisogno contemporaneo di restare connessi al web». In altri casi si compie però un processo inverso, dal digitale alla carta. Sono infatti sempre più numerose anche in Svizzera e nel nostro Cantone le cosiddette «bibliocabine». Il progetto di adibire a luogo di scambio
di libri questi oggetti ha avuto origine in Inghilterra dove è partito in maniera spontanea. A quali altri usi è già stata o sarà destinata la cabina telefonica? Abbiamo rivolto la domanda a Samuel Notari che alla Facoltà di lettere e scienze umane di Neuchâtel ha concentrato gli studi sulla geografia umana e la migrazione. Il concetto di risorsa è alla base della sua ricerca, il cui soggetto è stato scelto a seguito dell’annuncio nel 2015 da parte dell’Ufficio federale della comunicazione della fine della messa a disposizione di un telefono pubblico a pagamento in ogni Comune a partire dal 2018. Insomma da storica risorsa per compensare la mancanza di telefoni privati, la cabina telefonica (di proprietà di Swisscom ma generalmente posata su suolo pubblico) era potenzialmente destinata a sparire. Come dimostrato dalla ricerca di Notari, questo oggetto può però rappresentare tuttora una risorsa sia dal punto di vista telefonico, sia da altre prospettive. Partiamo da queste ultime. Spiega l’autore di «La cabine téléphonique du “Niemandsland”»: «Il progressivo abbandono dell’uso delle cabine telefoniche a partire dagli anni Novanta del secolo scorso le ha rese, come spesso avviene per gli oggetti negletti, terreno fertile per gli artisti, in particolare all’estero (vedi Death of a phone booth di Banksy a Londra), anche se ho potuto raccogliere qualche testimonianza in questo senso pure in Ticino». La parte empirica della ricerca di Notari si è infatti svolta nel Cantone di studio e in quello d’origine. «A New York l’estate scorsa – prosegue il nostro interlocutore – diverse cabine sono state posate a Times Square quale supporto interattivo di una mostra sull’immigrazione. Attraverso il telefono si potevano infatti ascoltare storie di immigrazione negli Stati Uniti. Più pratici alcuni progetti e soluzioni che vedono le cabine telefoniche ospitare defibrillatori (Lavizzara) e biglietterie automatiche (Lugano) o trasformarsi in stazioni di ricarica per i veicoli elettrici. Esse assicurano quindi nuovi servizi in sintonia con l’evoluzione dei bisogni della società. È importante sottolineare che questo tipo di riconversione è possibile grazie alla loro posizione centrale nello spazio pubblico».
Le vecchie cabine telefoniche possono assicurare nuovi servizi.
Questa caratteristica ha attirato l’attenzione anche di imprenditori privati. Già sfruttata dalla stessa Swisscom (concessionaria dei servizi di comunicazione pubblici) e dalla Società generale di affissione a fini pubblicitari, a Ginevra ha suscitato l’interesse di una società che opera in questo ambito. Il progetto elaborato è destinato ai grossi centri, dove si vogliono offrire
accessi a informazioni locali e all’elettricità finanziati dalla pubblicità. Per quanto riguarda la sua funzione originale di telefono pubblico a pagamento la cabina non sembra ancora essere completamente inutile. I dati citati nelle ricerca sono sì impietosi, con oltre 1000 cabine su 4000 regolarmente inutilizzate nel 2016 (secondo un articolo del «Tagesanzeiger»),
come esseri umani ma come ammasso di dati, polverizzando la privacy e rendendo il mondo meno privato, meno individuale, meno creativo e meno umano. In soldoni, stiamo assistendo alla fine dei geni del web che predicano bene e razzolano male accumulando ricchezze enormi e monopoli di mercato mentre il reddito medio dei cittadini ha smesso di crescere da decenni. È fondamentale allora avviare una riflessione collettiva per non sottovalutare il tremendo impatto che la rivoluzione digitale sta avendo sui rapporti sociali, sulla politica, sulla salute, sulla cultura e, soprattutto, sul lavoro dell’uomo. Mentre le agende politiche dovrebbero avere il coraggio di limitare questi monopoli visto che la formula, concentrazione di ricchezza e potere tecnologico, rappresenta una seria minaccia per la democrazia. E, dato
che siamo in tema di riflessioni collettive, urge, in prospettiva, farne una seconda sulla nostra visione sociale e culturale dell’idea di lavoro. Secondo Geoff Colvin, editorialista di «Fortune», più che cercare disperatamente di salvare lavori e professioni dalla prevedibile evoluzione tecnologica dei robot, dovremmo porci una domanda: quali attività vorremmo vedere sempre svolte da altri esseri umani? Dobbiamo insomma iniziare a definire fino a dove vogliamo spingerci se non vogliamo essere travolti o, addirittura, diventare schiavi dell’intelligenza artificiale. Per Colvin ci sono varie attività come la gestione dei rapporti interpersonali e la persuasione tramite lo storytelling che richiedono fattori umani non replicabili da una macchina. Uno su tutti l’empatia, che per il giornalista è lo skill critico del XXI
eppure Notari ha potuto raccogliere testimonianze che dimostrano la sua funzione alternativa in caso di emergenza e per determinate categorie di utilizzatori. Dai turisti nelle stazioni ai detenuti nei penitenziari, dalle persone che desiderano tenere sotto controllo le spese delle chiamate all’estero a quelle elettro-sensibili a chi, paradossalmente, invoca motivi di privacy. Spiega al riguardo Samuel Notari: «Il telefono pubblico assicura, secondo diversi intervistati, l’anonimato desiderato in caso di chiamate “sensibili”. Essi hanno manifestato insofferenza per la sorveglianza (geolocalizzazione, traccia delle chiamate) alla quale si è sottoposti quando si utilizza il telefono mobile. Considerata la posizione solitamente centrale delle cabine telefoniche e l’intensificazione della videosorveglianza nei luoghi pubblici, come pure la relativa protezione offerta dal piccolo abitacolo trasparente, questa sensazione di anonimato è forse più percepita che reale». Interessato all’arte urbana e collezionista di carte telefoniche, Samuel Notari è riuscito a collegare passioni personali ai suoi studi in geografia. Ha così indagato in un campo dove la letteratura è molto ridotta (legata quasi solo al caso francese) ed avendo un accesso limitato ai dati di Swisscom, al fine di offrire una testimonianza di un oggetto molto utilizzato in passato ed entrato anche in Svizzera a far parte di miti collettivi come l’orologio delle FFS e la M di Migros. Figlio del proprio tempo e quindi lungi dal volere difendere ad oltranza l’esistenza della cabina telefonica, il giovane pone però la questione del valore del patrimonio con le relative possibilità di rivalorizzare piuttosto che distruggere. Nel caso concreto lo smantellamento costa circa 3000 franchi per cabina. «La trasformazione della cabina telefonica in quanto testimonianza tecnica sul territorio è uno degli aspetti centrali del mémoire», conclude Notari, ribadendo l’importanza di analizzare oggetti e manufatti da più prospettive non dando nulla per scontato. Così come la cabina telefonica sfrutta ancora oggi soprattutto la sua posizione centrale negli abitati, altri beni possono rivelare caratteristiche in grado di proiettarli nel futuro.
La società connessa di Natascha Fioretti Questa volta cerchiamo di essere furbi Di recente ho avuto il piacere di chiacchierare con Erling Kagge, editore, esploratore e scrittore norvegese. Abbiamo parlato della sua esperienza del silenzio ma soprattutto della sua necessità di spiegare alle sue tre figlie che c’è una dimensione altra che vale la pena conoscere al di fuori dell’universo tecno-digitale degli smartphone e di internet. In particolare, l’esploratore norvegese punta il dito contro quell’élite ricca e formata della Silicon Valley che, da una parte, racconta di voler migliorare il mondo, dall’altra hackera i nostri cervelli e si arricchisce a nostro discapito. E non va molto lontano Massimo Gaggi nel suo recente saggio uscito per Laterza, Homo Premium. Come la tecnologia ci divide, quando racconta la fine dell’età
dell’innocenza della Silicon Valley (lo scandalo Cambridge Analytica insegna). La banda dei fantastici quattro, Google, Amazon, Facebook e Apple condividono la stessa logica, mostrano un apparente disinteresse per il profitto dei loro leader e l’intenzione di fare del mondo un posto migliore ma in verità sposano impostazioni sempre più dichiaratamente capitaliste abbandonando le visioni ecumeniche ed egualitarie originarie. E qui, l’editorialista del «Corriere della Sera» fa un bel parallelo quando dice che i sultani del silicio non sono molto diversi dai robber barons, i baroni ladroni, gli imprenditori dell’Ottocento rapace che ammassavano grandi quantità di denaro, costruendosi delle enormi fortune personali, con la differenza che l’impero Big tech raggiunge i suoi obiettivi di business trattando i suoi utenti non
secolo. Per Kai-Fu Lee, scienziato e imprenditore al MIT di Boston con esperienze in Microsoft, Apple e Google, «l’intelligenza artificiale può essere più potente di quella umana ma è priva di sensibilità, empatia, senso comune e capacità di ragionamento critico». Per fortuna, vien da dire. Sarà per questo che aziende come Google non assumono più soltanto ingegneri e matematici ma anche molti umanisti. Intanto però, in previsione di un futuro in cui le nostre vite sempre di più saranno guidate da algoritmi e intelligenze artificiali, e memori delle esperienze fatte fin qui, decidiamo subito fino a dove siamo disposti a spingerci, quanto siamo disposti a perdere in nome di una tecnologia che sta portando con sé non solo rose ma anche perdita di posti di lavoro e profonde diseguaglianza economico-sociali.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Società e Territorio Salire al Generoso La sezione di Mendrisio della SAT sta ripristinando il ripido sentiero che sale da Rovio conosciuto come «la Variante» pagina 5
Orientati alla solidarietà Dal 5 maggio in Ticino si svolgeranno i Campionati europei di corsa d’orientamento: un esempio di sostegno e fratellanza tra atleti pagina 6
Bagnarsi a Baden Oliver Scharpf nelle sue consuete passeggiate in giro per la Svizzera ci fa rilassare in una vasca termale provvisoria pagina 8
La cabina telefonica senza telefono
Nuovi utilizzi Piccole biblioteche, biglietterie automatiche, stazioni di ricarica per veicoli elettrici: la nuova vita
delle cabine telefoniche è in sintonia con i bisogni attuali e conferma il loro ruolo sociale. L’analisi di Samuel Notari
Stefania Hubmann Fra gli oggetti vittime della diffusione dei telefoni mobili, le cabine telefoniche spiccano per il loro ruolo nell’immaginario collettivo, la loro un tempo numerosa presenza in posizioni centrali e strategiche e le recenti riconversioni. Ed è proprio sul telefono pubblico quale risorsa che lo studente ticinese Samuel Notari si è chinato nel mémoire di Master sostenuto lo scorso mese di settembre all’Università di Neuchâtel. Se telefonare da una cabina telefonica è ormai diventato anche in Svizzera un caso piuttosto raro, legato alle esigenze di specifiche nicchie di utenti, le possibilità di riutilizzarla sfruttando le sue caratteristiche si moltiplicano: dall’intervento artistico a funzioni sociali e di servizio, all’interesse del settore privato per uno spazio pubblicitario di per sé attrattivo.
Vite a bassa risoluzione
Intervista Massimo Mantellini, esperto di
cultura digitale e blogger, nel suo nuovo libro mette in luce come la tecnologia tenda a farci scegliere l’opzione più semplice e meno approfondita
In Gran Bretagna alcune cabine sono diventate «free wifi spots», ossia punti di accesso gratuito a internet con possibilità di ricarica per smartphone
Stefania Prandi Esperto di cultura digitale, blogger della prima ora, con un seguito di quarantacinquemila follower su Twitter (@mante), Massimo Mantellini è l’autore di Bassa risoluzione (Einaudi). Nel saggio mette in luce come la tecnologia tenda a farci scegliere, tra le tante opzioni, la più semplice e la meno approfondita. Un’attitudine alla «superficie» che pervade diversi aspetti della nostra quotidianità. Mantellini, il suo libro si intitola Bassa risoluzione. Che cosa intende esattamente con questa definizione?
Il titolo del libro riassume un’ipotesi: quella secondo la quale, negli ampi processi di innovazione legati a Internet, sia possibile riconoscere scelte sociali di adattamento caratterizzate dalla riduzione di alcune nostre aspettative. Accade in molti contesti differenti. Nella musica per esempio: oggi disponiamo di tutte le canzoni del mondo a un click di distanza, eppure spesso scegliamo di ascoltarle con una qualità audio minore rispetto a quella degli impianti ad alta fedeltà di qualche decennio fa. Oppure nella fotografia: da quando scattiamo con i cellulari produciamo immagini di qualità inferiore rispetto a quella delle normali macchine fotografiche, ma in numero molto maggiore. Foto che non stamperemo mai e che potremo condividere in un istante. Insomma, nel momento in cui le potenzialità legate alla tecnologia sono diventate amplissime, abbiamo adottato in massa un meccanismo di riduzione e abbiamo mutato le nostre priorità. Secondo lei, Internet ha portato a un abbassamento generale del livello culturale?
È una domanda complessa. Internet ha ampliato moltissimo l’offerta culturale: mai come oggi abbiamo avuto un così ampio accesso alla conoscenza. Non credo che tutto questo possa avere effetti negativi generali. Non mi fido della frase che sento ripetere spesso per cui «troppa informazione sia uguale a nessuna informazione». Andrà inoltre considerato, prima di abbandonarci a giudizi troppo severi, che viviamo un momento di transizione e che la nostra abilità nel gestire gli strumenti digitali è attualmente ancora elementare. Siamo dei bimbi che stanno imparando. Nel suo libro descrive una tendenza, più accentuata nei più giovani, di essere «a bassa risoluzione». Si tratta di una propensione generazionale oppure il discorso è più articolato?
Siamo stati investiti un po’ tutti dalla trasformazione digitale. C’è un filo comune che ci unisce: è accaduto che a una maggior complessità abbiamo reagito con risposte apparentemente semplificatorie. Per poi accorgerci che, spesso, quelle scelte tanto superficiali non sono. Torno all’esempio delle foto: una volta stampavamo le immagini per conservarle negli album di famiglia e le mostravamo a poche persone. Adesso abbiamo la possibilità di condividere con chiunque le nostre memorie digitali. Quindi è vero, è cambiato il modo in cui usiamo le fotografie, ma non è necessariamente una mutazione negativa. Per quanto riguarda la questione generazionale, certamente esiste una fascia di età più vicina agli strumenti digitali. Oggi i ragazzi hanno una quota di adozione della tecnologia molto superiore rispetto ai più anziani. Se consideriamo l’ambito culturale nel suo complesso, notiamo che qualcosa è cambiato rispetto al passato: c’è una richiesta
Scattiamo molte più fotografie da quando non usiamo più la macchina fotografica, la qualità è inferiore ma... (Pixabay)
molto vasta di «superficie», non voglio per forza dire di superficialità, di modelli con i quali sia facile riconoscersi. Siamo di fronte a uno spostamento di valore, a una complessità strutturale che non riusciamo ancora a comprendere a pieno.
Si guarda spesso con sospetto e sdegno ai più giovani che trascorrono molto del loro tempo su Internet, «isolati», che «non vanno più in strada a giocare», come si faceva una volta. Lei suggerisce che non dovremmo chiamarli «nativi digitali» e che bisognerebbe essere capaci di uno sguardo complesso per capire la realtà in cui i ragazzi e le ragazze di oggi sono immersi. Può darci qualche indicazione in merito?
I «nativi digitali» non esistono, sono una banalizzazione che è di ostacolo alla crescita della cultura digitale fra i più giovani. L’espressione «nativi digitali» più che dei nostri figli parla di noi e di quello che non sappiamo fare. Danah Boyd, studiosa americana di tecnologia e social media, spiega molto
bene nei suoi scritti che non possiamo applicare le nostre categorie di adulti per capire i ragazzi. Secondo Boyd, i ragazzi non si sono innamorati improvvisamente dei social network. Semplicemente i luoghi digitali sono stati a un certo punto gli unici disponibili nei quali sviluppare l’autonomia e la privacy che tutti gli adolescenti cercano, le stesse che le generazioni precedenti trovavano nell’incontrarsi al parco con gli amici. Nessun ragazzino va più a giocare in strada oggi, perché ci sono le auto, il rumore, l’inquinamento, e semplicemente il tempo libero è organizzato in maniera diversa. Se dovessi scegliere, alla mia generazione cresciuta davanti alla televisione io preferirei quella di mia figlia che ha un’intensa vita di relazione dentro lo schermo del suo smartphone. Anche se questo non significa che non ci siano effetti negativi: ogni giorno cerco di trascinarla fuori a fare una passeggiata. In rete ci sembra di essere liberi, ma il rischio, secondo alcune interpretazioni, è di finire nella bolla
informativa perché, attraverso gli algoritmi di personalizzazione dei motori di ricerca, non veniamo esposti a informazioni lontane dai nostri gusti e punti di vista. È d’accordo con questa interpretazione?
Negli ultimi anni abbiamo creduto ad alcuni miti dell’universo digitale: alla potenza degli algoritmi, al dominio assoluto dei bias di conferma o delle bolle informative che ci rendono polarizzati e circondati da persone che la pensano come noi. Uso la parola «miti» perché proprio in questi mesi stanno uscendo alcuni interessanti studi scientifici, l’ultimo ad esempio dell’Università di Oxford di qualche giorno fa, che suggeriscono l’esatto contrario. Secondo queste analisi le bolle informative non sono poi così opprimenti e mai come oggi abbiamo accesso a fonti e punti di vista lontani dai nostri. Internet del resto era nata per questo. Il punto di svolta resta quello della curiosità individuale: i nostri orizzonti in rete dipendono da noi, esattamente come nella cosiddetta vita reale.
Ogni Paese declina la trasformazione delle cabine pubbliche secondo il proprio background. Dagli Stati Uniti al Canada, dalla Gran Bretagna alla Svizzera, interventi anche molto diversi sfruttano da un lato il potenziale del minuscolo abitacolo e dall’altro la possibilità di una sua radicale trasformazione. Significativo l’esempio di alcune cabine inglesi divenute «free wifi spots», ossia punti di accesso gratuito alla rete internet con possibilità di ricarica dei telefoni mobili. In questo caso, scrive lo studente di Capriasca nella sua ricerca, «la cabina telefonica risponde all’evoluzione tecnologica e al bisogno contemporaneo di restare connessi al web». In altri casi si compie però un processo inverso, dal digitale alla carta. Sono infatti sempre più numerose anche in Svizzera e nel nostro Cantone le cosiddette «bibliocabine». Il progetto di adibire a luogo di scambio
di libri questi oggetti ha avuto origine in Inghilterra dove è partito in maniera spontanea. A quali altri usi è già stata o sarà destinata la cabina telefonica? Abbiamo rivolto la domanda a Samuel Notari che alla Facoltà di lettere e scienze umane di Neuchâtel ha concentrato gli studi sulla geografia umana e la migrazione. Il concetto di risorsa è alla base della sua ricerca, il cui soggetto è stato scelto a seguito dell’annuncio nel 2015 da parte dell’Ufficio federale della comunicazione della fine della messa a disposizione di un telefono pubblico a pagamento in ogni Comune a partire dal 2018. Insomma da storica risorsa per compensare la mancanza di telefoni privati, la cabina telefonica (di proprietà di Swisscom ma generalmente posata su suolo pubblico) era potenzialmente destinata a sparire. Come dimostrato dalla ricerca di Notari, questo oggetto può però rappresentare tuttora una risorsa sia dal punto di vista telefonico, sia da altre prospettive. Partiamo da queste ultime. Spiega l’autore di «La cabine téléphonique du “Niemandsland”»: «Il progressivo abbandono dell’uso delle cabine telefoniche a partire dagli anni Novanta del secolo scorso le ha rese, come spesso avviene per gli oggetti negletti, terreno fertile per gli artisti, in particolare all’estero (vedi Death of a phone booth di Banksy a Londra), anche se ho potuto raccogliere qualche testimonianza in questo senso pure in Ticino». La parte empirica della ricerca di Notari si è infatti svolta nel Cantone di studio e in quello d’origine. «A New York l’estate scorsa – prosegue il nostro interlocutore – diverse cabine sono state posate a Times Square quale supporto interattivo di una mostra sull’immigrazione. Attraverso il telefono si potevano infatti ascoltare storie di immigrazione negli Stati Uniti. Più pratici alcuni progetti e soluzioni che vedono le cabine telefoniche ospitare defibrillatori (Lavizzara) e biglietterie automatiche (Lugano) o trasformarsi in stazioni di ricarica per i veicoli elettrici. Esse assicurano quindi nuovi servizi in sintonia con l’evoluzione dei bisogni della società. È importante sottolineare che questo tipo di riconversione è possibile grazie alla loro posizione centrale nello spazio pubblico».
Le vecchie cabine telefoniche possono assicurare nuovi servizi.
Questa caratteristica ha attirato l’attenzione anche di imprenditori privati. Già sfruttata dalla stessa Swisscom (concessionaria dei servizi di comunicazione pubblici) e dalla Società generale di affissione a fini pubblicitari, a Ginevra ha suscitato l’interesse di una società che opera in questo ambito. Il progetto elaborato è destinato ai grossi centri, dove si vogliono offrire
accessi a informazioni locali e all’elettricità finanziati dalla pubblicità. Per quanto riguarda la sua funzione originale di telefono pubblico a pagamento la cabina non sembra ancora essere completamente inutile. I dati citati nelle ricerca sono sì impietosi, con oltre 1000 cabine su 4000 regolarmente inutilizzate nel 2016 (secondo un articolo del «Tagesanzeiger»),
come esseri umani ma come ammasso di dati, polverizzando la privacy e rendendo il mondo meno privato, meno individuale, meno creativo e meno umano. In soldoni, stiamo assistendo alla fine dei geni del web che predicano bene e razzolano male accumulando ricchezze enormi e monopoli di mercato mentre il reddito medio dei cittadini ha smesso di crescere da decenni. È fondamentale allora avviare una riflessione collettiva per non sottovalutare il tremendo impatto che la rivoluzione digitale sta avendo sui rapporti sociali, sulla politica, sulla salute, sulla cultura e, soprattutto, sul lavoro dell’uomo. Mentre le agende politiche dovrebbero avere il coraggio di limitare questi monopoli visto che la formula, concentrazione di ricchezza e potere tecnologico, rappresenta una seria minaccia per la democrazia. E, dato
che siamo in tema di riflessioni collettive, urge, in prospettiva, farne una seconda sulla nostra visione sociale e culturale dell’idea di lavoro. Secondo Geoff Colvin, editorialista di «Fortune», più che cercare disperatamente di salvare lavori e professioni dalla prevedibile evoluzione tecnologica dei robot, dovremmo porci una domanda: quali attività vorremmo vedere sempre svolte da altri esseri umani? Dobbiamo insomma iniziare a definire fino a dove vogliamo spingerci se non vogliamo essere travolti o, addirittura, diventare schiavi dell’intelligenza artificiale. Per Colvin ci sono varie attività come la gestione dei rapporti interpersonali e la persuasione tramite lo storytelling che richiedono fattori umani non replicabili da una macchina. Uno su tutti l’empatia, che per il giornalista è lo skill critico del XXI
eppure Notari ha potuto raccogliere testimonianze che dimostrano la sua funzione alternativa in caso di emergenza e per determinate categorie di utilizzatori. Dai turisti nelle stazioni ai detenuti nei penitenziari, dalle persone che desiderano tenere sotto controllo le spese delle chiamate all’estero a quelle elettro-sensibili a chi, paradossalmente, invoca motivi di privacy. Spiega al riguardo Samuel Notari: «Il telefono pubblico assicura, secondo diversi intervistati, l’anonimato desiderato in caso di chiamate “sensibili”. Essi hanno manifestato insofferenza per la sorveglianza (geolocalizzazione, traccia delle chiamate) alla quale si è sottoposti quando si utilizza il telefono mobile. Considerata la posizione solitamente centrale delle cabine telefoniche e l’intensificazione della videosorveglianza nei luoghi pubblici, come pure la relativa protezione offerta dal piccolo abitacolo trasparente, questa sensazione di anonimato è forse più percepita che reale». Interessato all’arte urbana e collezionista di carte telefoniche, Samuel Notari è riuscito a collegare passioni personali ai suoi studi in geografia. Ha così indagato in un campo dove la letteratura è molto ridotta (legata quasi solo al caso francese) ed avendo un accesso limitato ai dati di Swisscom, al fine di offrire una testimonianza di un oggetto molto utilizzato in passato ed entrato anche in Svizzera a far parte di miti collettivi come l’orologio delle FFS e la M di Migros. Figlio del proprio tempo e quindi lungi dal volere difendere ad oltranza l’esistenza della cabina telefonica, il giovane pone però la questione del valore del patrimonio con le relative possibilità di rivalorizzare piuttosto che distruggere. Nel caso concreto lo smantellamento costa circa 3000 franchi per cabina. «La trasformazione della cabina telefonica in quanto testimonianza tecnica sul territorio è uno degli aspetti centrali del mémoire», conclude Notari, ribadendo l’importanza di analizzare oggetti e manufatti da più prospettive non dando nulla per scontato. Così come la cabina telefonica sfrutta ancora oggi soprattutto la sua posizione centrale negli abitati, altri beni possono rivelare caratteristiche in grado di proiettarli nel futuro.
La società connessa di Natascha Fioretti Questa volta cerchiamo di essere furbi Di recente ho avuto il piacere di chiacchierare con Erling Kagge, editore, esploratore e scrittore norvegese. Abbiamo parlato della sua esperienza del silenzio ma soprattutto della sua necessità di spiegare alle sue tre figlie che c’è una dimensione altra che vale la pena conoscere al di fuori dell’universo tecno-digitale degli smartphone e di internet. In particolare, l’esploratore norvegese punta il dito contro quell’élite ricca e formata della Silicon Valley che, da una parte, racconta di voler migliorare il mondo, dall’altra hackera i nostri cervelli e si arricchisce a nostro discapito. E non va molto lontano Massimo Gaggi nel suo recente saggio uscito per Laterza, Homo Premium. Come la tecnologia ci divide, quando racconta la fine dell’età
dell’innocenza della Silicon Valley (lo scandalo Cambridge Analytica insegna). La banda dei fantastici quattro, Google, Amazon, Facebook e Apple condividono la stessa logica, mostrano un apparente disinteresse per il profitto dei loro leader e l’intenzione di fare del mondo un posto migliore ma in verità sposano impostazioni sempre più dichiaratamente capitaliste abbandonando le visioni ecumeniche ed egualitarie originarie. E qui, l’editorialista del «Corriere della Sera» fa un bel parallelo quando dice che i sultani del silicio non sono molto diversi dai robber barons, i baroni ladroni, gli imprenditori dell’Ottocento rapace che ammassavano grandi quantità di denaro, costruendosi delle enormi fortune personali, con la differenza che l’impero Big tech raggiunge i suoi obiettivi di business trattando i suoi utenti non
secolo. Per Kai-Fu Lee, scienziato e imprenditore al MIT di Boston con esperienze in Microsoft, Apple e Google, «l’intelligenza artificiale può essere più potente di quella umana ma è priva di sensibilità, empatia, senso comune e capacità di ragionamento critico». Per fortuna, vien da dire. Sarà per questo che aziende come Google non assumono più soltanto ingegneri e matematici ma anche molti umanisti. Intanto però, in previsione di un futuro in cui le nostre vite sempre di più saranno guidate da algoritmi e intelligenze artificiali, e memori delle esperienze fatte fin qui, decidiamo subito fino a dove siamo disposti a spingerci, quanto siamo disposti a perdere in nome di una tecnologia che sta portando con sé non solo rose ma anche perdita di posti di lavoro e profonde diseguaglianza economico-sociali.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Società e Territorio
La Variante del Generoso
Escursioni Parte da Rovio, passa da Perostabbio e arriva in vetta: è la via più difficile e spettacolare
per raggiungere il Fiore di Pietra. La sezione di Mendrisio della SAT la sta ripristinando Roberto Porta Per gli appassionati e per chi conosce il Generoso quella è sempre stata «la Variante», il ripido sentiero che si infila tra le guglie rocciose del monte che più di ogni altro sovrasta il Mendrisiotto. Torrioni stratificati nei millenni che affiorano lungo il versante occidentale della montagna. Una cresta dove non mancano i fossili marini e che si può ben ammirare dal lago Ceresio, da Maroggia, ad esempio, o da Riva San Vitale. E e che si può raggiungere percorrendo proprio quella via, quella «Variante». Un sentiero per escursionisti esperti che prende il via da Rovio, per poi arrampicarsi, sempre più ripido, fin sulla vetta del Monte. Ed è anche per permettere all’escursionista di scoprire l’insieme delle possibili vie d’acceso al Generoso, che la Società Alpinistica Ticinese, con la sua sezione di Mendrisio, si è messa al lavoro per ripristinare quello storico sentiero e per renderlo nuovamente praticabile, dopo anni di incuria e di abbandono. Insomma il «Fiore di Pietra» di Mario Botta – che l’anno scorso ha fatto segnare un primato di visite, anche grazie alla rinnovata linea ferroviaria – si può raggiungere anche così, dal versante più ripido del Generoso, scoprendo anche l’anima più alpinistica e spettacolare di questa montagna.
La «Variante» fu realizzata negli anni 20 dalle guardie di confine per controllare il confine con l’Italia «L’idea di lanciarci in questa avventura è venuta ad alcuni appassionati che si incontrano regolarmente nella nostra palestra di arrampicata. Era il 2016 – ci ricorda Alessandro Brazzola, presidente della SAT Mendrisio – A dire il vero la nostra sezione si era già data da fare in passato, una ventina di anni fa,
L’inaugurazione del sentiero è prevista per il mese di settembre. (Keystone)
organizzando piccoli interventi di manutenzione del sentiero. Adesso disponiamo invece di un vero e proprio progetto, già in fase di realizzazione, che ha trovato sostegno anche all’esterno della nostra società e che proprio per questo è dotato di un budget di trentamila franchi». I lavori di ripristino della SAT hanno, infatti, ricevuto il supporto di diversi comuni e associazioni della regione, della Ferrovia Monte Generoso e dell’Ente Regionale per lo Sviluppo del Mendrisiotto e del Basso Ceresio. Va detto che le cartine ufficiali indicavano la presenza di questa «Variante» fino al 2008, poi il sentiero venne di fatto abbandonato a se stesso anche se numerosi sono sempre stati i suoi frequentatori, che arrivano fin lassù anche dalla Svizzera tedesca e dall’Italia. «Per questo motivo ci voleva un intervento di ripristino totale – fa notare ancora Brazzola – per evitare di perdere del tutto questa via, minacciata dall’avanzata della natura, dagli alberi caduti e dal terriccio che si era accumulato lungo i tratti rocciosi del percorso». E così nella primavera dell’anno
scorso sono iniziati i lavori, grazie al sostegno effettivo di un gruppo di volontari che nel corso di diversi fine settimana si è messo a disposizione per dare una nuova vita a questa «Variante» che si sviluppa lungo un dislivello totale di 1200 metri e che si divide di fatto in due tronconi ben diversi tra loro. Il primo si snoda da Rovio fino ad una zona chiamata Perostabbio, si tratta di un sentiero che pur essendo piuttosto ripido è adatto anche all’escursionista della domenica. Il secondo prende il via proprio da Perostabbio – dove tra l’altro si trova anche un piccolo rifugio, con possibilità di cucinare e tre posti letto – e termina sulla vetta, un sentiero decisamente più esigente, per escursionisti esperti, simile in alcuni passaggi della Via Alta della Val Verzasca. In termini tecnici viene classificato nella categoria T5, quella degli itinerari alpini impegnativi. Dopo un inverno con molta neve, le prossime settimane permetteranno di continuare i lavori, in particolare nel tratto più impegnativo del percorso. L’inaugurazione del sentiero è prevista per il mese di settembre. I lavori e
gli sforzi della SAT Mendrisio permetteranno così di rimettere in sicurezza una via che nella regione ha anche un valore storico, legato al confine con l’Italia, che scorre proprio lungo quella cresta. «La Variante» venne infatti ideata e realizzata dalle guardie di confine svizzere che all’inizio del 1900 avevano iniziato a pattugliare la montagna. Seppur tra diverse difficoltà il sentiero venne poi aperto nel 1926, da allora e fino al 1978 venne utilizzato per controllare la cima della montagna e il confine con l’Italia. Nel corso della Seconda guerra mondiale alle guardie di confine si affiancarono anche i soldati dell’esercito. A causa di quel conflitto bellico il Monte Generoso divenne un punto di osservazione molto importante, per il controllo del confine ma anche dello spazio aereo, come ci ha ricordato lo storico Guido Codoni e come indicano alcuni documenti messi a disposizione dalle guardie di confine. Proprio per la presenza delle guardie «la Variante» viene anche chiamata «il sentiero Gianola», dal nome del capitano Angelo Gianola di Melano,
che negli anni 20 del secolo scorso ideò quel tracciato così ardito. Certo per raggiungere la cresta e la vetta del Generoso il Gianola e le sue guardie dovettero posare in alcuni punti delle funi metalliche, una passerella tra le guglie e persino scavare e costruire una scalinata nella roccia. E chissà cosa pensarono quelle guardie quando su uno dei torrioni della parete, poco sopra «la Variante», venne costruita quella che da allora viene chiamata la «Casa della Marchesa» o, forse più frequentemente, la «Cà da la Mata». Questa è una storia nella storia di questo sentiero. In arrivo dall’Italia, la Marchesa – o se volete la «Mata» – si chiamava Carla Nobili Vitelleschi e nel 1928 chiese e ottenne dal comune di Rovio di costruire una piccola baita proprio sotto la cresta del Monte Generoso, perché – disse lei – era alla ricerca di solitudine e silenzio, per studiare e meditare. Cosa ci facesse davvero e quanto effettivamente vi sia stata in quelle quattro mura – con vista decisamente mozzafiato – non è dato sapere e tuttora oscuri rimangono i suoi presunti legami con Mussolini, che avrebbe utilizzato quel rifugio tra le rocce per sorvegliare a sua volta il confine italo-svizzero. Non solo la Marchesa ma delle spie italiane avrebbero soggiornato in quei pochi metri quadrati, trasformando «la Variante» persino in un giallo storico. Ma torniamo alla realtà di oggi e ai lavori che la SAT Mendrisio porterà a termine nel corso dell’estate, per ridare nuova vita a questa via avventurosa del Monte Generoso. Nella speranza che il fascino del nuovo «sentiero Gianola» possa trovare spazio anche nelle guide turistiche ufficiali e per ridare al Generoso anche questa via d’accesso, tra quelle guglie e quei pinnacoli che ne fanno una delle montagne più spettacolari tra quelle che fanno da spartiacque tra le Alpi e la pianura padana. Informazioni
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Quando la povertà mostra il suo volto Per saperne di più su Amal e la sua famiglia: www.farelacosagiusta.caritas.ch
Amal Mahmoud (43 anni), Siria, lotta per far sopravvivere i suoi figli.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Società e Territorio
Nelle sperdute valli del Montana Videogiochi Far Cry 5: la nuova avventura
creata da Ubisoft poteva osare di più
EOC 2018
Davide Canavesi
Sport e solidarietà
Corsa d’orientamento I Campionati europei che si svolgeranno
dal 5 maggio in Ticino hanno scelto di mettere il sostegno e la fratellanza tra atleti al centro dell’organizzazione Roberta Nicolò Orientarsi alla solidarietà. Potrebbe essere questo lo slogan dei Campionati europei 2018 di corsa d’orientamento e della 5-Giorni svizzera organizzati dall’Associazione Sportiva Ticinese (ASTI) che si svolgeranno tra il 5 e il 13 maggio proprio nel nostro Cantone. Una manifestazione sportiva che desidera trasmettere ai partecipanti i valori dell’accoglienza e della solidarietà sociale in un Ticino che sa essere generoso.
Alcune Federazioni non sono in grado di sostenere gli atleti nelle trasferte all’estero, molti vanno aiutati «L’Associazione Sportiva Ticinese – ci spiega il Presidente del comitato organizzatore Francesco Guglielmetti – ha scelto di mettere il sostegno e la fratellanza tra gli atleti come elemento cardine sul quale costruire questa edizione 2018. Sostenere gli atleti di paesi in difficoltà con dei fondi appositi. Un’idea che in Svizzera era già stata proposta altre due volte e che abbiamo sposato. La Svizzera può essere un paese troppo caro per gli atleti che provengono da nazioni piccole o in difficoltà economica e questo mette a rischio la partecipazione di alcuni di loro ai campionati. Nell’Orienteering, a differenza di altri sport dove magari ci sono maggiori possibilità finanziarie, le Federazioni non sono sempre in grado si sostenere gli atleti nelle trasferte all’estero e molti di loro devono, quindi, autofinanziarsi o rinunciare. In un’ottica di partecipazione e di spirito di collaborazione, l’idea che alcuni corridori fossero esclusi o dovessero alloggiare in strutture non adeguate alle necessità di gara non era accettabile. Lo spirito che ci anima è volto all’incontro e alla cooperazione. Ecco
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
perché abbiamo scelto di costituire un piccolo fondo destinato all’aiuto degli sportivi. Abbiamo quindi lanciato una campagna di crowdfunding che ha dato buoni frutti e ci ha permesso di raccogliere circa venticinquemila franchi. Questi soldi li abbiamo destinati soprattutto a favorire l’accoglienza dei partecipanti da Paesi quali l’Ucraina, la Polonia o la Bulgaria, ma anche di Portogallo e Spagna. Nazioni nelle quali ci sono oggettive difficoltà economiche. Per molti di questi sportivi lo stipendio medio mensile è di circa duecento euro e noi sappiamo bene che una struttura alberghiera sul nostro territorio può essere fuori portata. Avere gli atleti presenti in Ticino ha un valore sia simbolico sia tangibile e concreto. Non ci piaceva l’idea di non essere capaci di accogliere all’interno dei nostri confini ogni atleta iscritto. Ci pensiamo come una comunità. Siamo una comunità. E come tale vogliamo poterci occupare adeguatamente dei nostri ospiti. Inoltre, era per noi importante appoggiare l’economia locale. Abbiamo quindi svolto un grande lavoro di mediazione e abbiamo cercato la collaborazione degli albergatori e dei ristoratori per poter favorire la partecipazione del maggior numero di atleti possibile. Con i fondi raccolti e la disponibilità del territorio siamo riusciti a garantire un aiuto concreto a undici nazioni delle trentatré partecipanti. Il nostro evento è anche l’occasione per presentare il Ticino: il suo paesaggio, la sua cultura e la sua gente. E questo segno di solidarietà è un buon biglietto da visita». Il territorio visto e scoperto nelle sue componenti morfologiche e sociali attraverso il linguaggio sportivo. Una corsa nei boschi e nei vicoli dei borghi situati tra Bellinzona e Mendrisio per entrare in contatto con la natura e la storia del Ticino, in un evento che vede scendere in campo anche tanti volontari. Un’occasione in più per unire lo sport alla cultura e all’ideale solidale che stimola nei partecipanti la reciproca conoscenza e una miglio-
re comprensione delle tante realtà che ci circondano e che spesso tendiamo a considerare troppo lontane da noi. Una riflessione sul significato concreto di ospitalità e reciprocità che vuole essere d’esempio per tutti. Questi i valori intrinseci dei Campionati europei 2018. «Devo dire che nel nostro ambiente, quello della Corsa d’orientamento, il senso di ospitalità e di apertura nei confronti dell’altro è molto forte. È uso che gli atleti accolgano i loro compagni stranieri addirittura in casa propria. Vige un grande idealismo e una certa genuinità. Questa è quindi una consuetudine che fa parte della filosofia stessa del fare Orienteering. Per noi organizzatori la generosità dimostrata dalle donazioni della campagna di raccolta fondi resta però un segno tangibile del grande cuore del Ticino. Così come la grande partecipazione dello staff di volontari che è importantissima per l’organizzazione stessa dell’evento. Sono gesti che raccontano la voglia di condividere e di conoscersi in una dinamica di scambio. Proprio nella gestione del delicato compito di destinare i fondi, nella giusta misura e soprattutto permettendo che il maggior numero possibile di atleti fosse sostenuto, ci siamo accorti di quanto sia necessario incontrarsi e conoscersi e di come questa iniziativa sia stata fondamentale per rendere giustizia al nostro spirito sportivo. È stato un esercizio complesso, occorre avere la dovuta sensibilità. Ci siamo confrontati con realtà differenti ed abbiamo cercato di valutare ogni situazione nella sua particolarità all’interno del contesto generale. Siamo soddisfatti del risultato perché abbiamo davvero trovato una soluzione ad ogni caso e questo ha fatto sì che nessuno restasse indietro. Questo è lo sport che ci piace, inclusivo e davvero per tutti» conclude Guglielmetti.
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
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La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Qualcosa di molto strano sta succedendo nella Hope County, una sperduta (nonché fittizia) contea del Montana. Una violenta setta religiosa, capitanata dal carismatico Joseph Seed, sembra convinta che la fine dei giorni sia giunta. Rapimenti, maltrattamenti, omicidi. Nulla sembra turbare il sonno di questo gruppo di fanatici che si fa chiamare Eden’s Gate. Un intervento delle forze dell’ordine è necessario e una squadra formata dallo sceriffo della contea, accompagnato da un poliziotto federale e da un vicesceriffo, tenta di assicurare Seed alla giustizia. Un intervento che farà precipitare la situazione ben oltre il punto di non ritorno. Benvenuti nel Montana di Ubisoft! Far Cry 5 ha causato una certa apprensione in seguito al suo annuncio. Una tematica potenzialmente scottante quella delle comunità armate iper-religiose negli Stati Uniti, in un periodo in cui il dibattito sulle armi è tristemente d’attualità. L’immagine che ha accompagnato l’annuncio poi si rifaceva palesemente all’ultima cena di Leonardo da Vinci con un richiamo davvero evidente alla religione cristiana. In molti si sono chiesti se il media videoludico mainstream fosse pronto per affrontare tematiche di tale importanza in modo intelligente e maturo senza scadere in semplificazioni e luoghi comuni. La risposta a questa domanda è sfortunatamente negativa. In questo nuovo capitolo della longeva serie di sparatutto di Ubisoft dovremo affrontare un’orda di fanatici religiosi spinti da una fede incrollabile e inebriati da una misteriosa sostanza allucinogena. Nei panni di un anonimo vicesceriffo della contea di Hope, la nostra missione è quella di aiutare la popolazione terrorizzata, riportare l’ordine e fermare Joseph Seed e i suoi sadici fratelli. La struttura di Far Cry 5 è quella del sandbox, ovvero un’ampia zona esplorabile nella quale il giocatore può muoversi liberamente affrontando varie missioni che portano avanti la narrazione. Le varie attività proposte spaziano da missioni in cui l’azione (e le pallottole) non si sprecano ad altre più peculiari. Potremo cacciare, andare a pesca, aiutare i cittadini, esplorare depositi dei survivalisti e molto altro ancora. A causa della vastità della zona esplorabile, il gioco ci offre la possibilità di utilizzare veicoli di terra, acqua ed aria: potremo ad esem-
pio scorrazzare a bordo di un potente camion modificato, sfrecciare sui fiumi a bordo di barche a motore o addirittura impossessarci di un elicottero. A differenza del passato, Far Cry 5 affianca al giocatore una serie di compagni comandati dall’intelligenza artificiale del gioco. Una volta conquistata la loro fiducia potremo quindi avvalerci di alleati specializzati in attacchi furtivi, magari dal cielo oppure in esplosioni. Addirittura potremo scegliere come compagni un cane, un puma e un orso bruno ammaestrato. Questi compagni virtuali possono anche essere sostituiti da compagni umani, sfruttando il sistema di gioco cooperativo online. In questo caso le possibilità di una strategia coordinata sono decisamente maggiori. Tutti questi elementi, uniti all’assoluta libertà di movimento, sono un’ottima miscela. Far Cry 5 è un gioco divertente in grado di proporci un ampio ventaglio di situazioni da affrontare nel modo che preferiamo. Ma a differenza di altri giochi piuttosto simili (come l’ottimo Ghost Recon Wildlands uscito l’anno scorso) Far Cry 5 rimane un gioco orientato all’azione pura e seguire approcci più discreti non è altrettanto divertente né soddisfacente. Soddisfazione totale invece per il comparto visivo del gioco. Il Montana realizzato dagli sviluppatori di Ubisoft è da togliere il fiato: tramonti dorati a bordo fiume, foreste rigogliose e colline coltivate sono un vero piacere da esplorare sia su consolle che su PC. Far Cry 5 ci ha convinto in pieno? Da un punto di vista ludico, sì. Tuttavia dove questa nuova produzione fallisce è nell’affrontare il tema delle armi e del fanatismo religioso. Non è chiaro se, in seguito alle dure proteste di molti esponenti conservatori americani la storia sia stata adattata o se semplicemente sia mancata la volontà di affrontare il tema in modo più maturo. Il risultato è un’ambientazione con moltissimo potenziale totalmente sprecato. Un cattivo monodimensionale ridotto alla caricatura di un despota pazzo, un protagonista senza nessun carisma e un nutrito numero di clichés. Manca anche qualsiasi riflessione sull’utilizzo delle armi, che sono ridotte ad un semplice mezzo per uccidere più nemici possibili. Si poteva osare molto di più ma, evidentemente, i videogiochi ad alto budget non sono ancora pronti per affrontare tali argomenti. Un vero peccato.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Ricordati di dimenticare Per strada. Un uomo e una donna, entrambi di una certa età, s’incontrano, si salutano; e lei attacca, sorridendo: «Oh! Valentino vestito di nuovo, / come le brocche dei biancospini!...». E lui continua: «Solo, ai piedini provati dal rovo / porti la pelle de’ tuoi piedini». E anch’io, involontario ascoltatore del dialogo, continuo mentalmente la recita dei versi: «...porti le scarpe che mamma ti fece...». Poi rifletto: tutti e tre siamo ormai di una età avanzata, apparteniamo a una generazione per la quale, a scuola, era d’obbligo leggere questa poesia del Pascoli; e, soprattutto, era d’obbligo mandarla a memoria. Più di mezzo secolo è passato da allora, ma il ricordo di quella poesia rimane inciso nella memoria. Non credo che nelle scuole d’oggi si pretenda ancora che gli allievi imparino poesie a memoria; anzi, mi pare che la memoria stessa sia una facoltà
progressivamente in disuso. Certo, si sa bene che una facoltà che non venga esercitata non si sviluppa e decade; ma nella mentalità d’oggi sono altre le facoltà che vanno sviluppate e rafforzate con l’esercizio: l’agilità di movimento, la robustezza della muscolatura, la velocità dei riflessi nei videogiochi, la destrezza nell’uso dei nuovi media tecnologici. Il mondo cambia, cambiano valori e modi di vivere. Si può rimpiangere un mondo che svanisce, ma non avrebbe senso rifiutare quello nuovo che nasce. Del resto, è sempre stato così ad ogni grande svolta storica. È famoso il mito platonico: quando il dio Teuth propose a Thamus, sovrano d’Egitto, l’invenzione della scrittura, gliela presentò come il «farmaco della memoria»; affidando i ricordi alla scrittura su pietra o su papiro li si sarebbe preservati dall’oblio. Ma Thamus giunse invece ad un giudizio opposto: l’uso di una memoria esterna
avrebbe indotto l’uomo a rinunciare a quella interiore, avrebbe indebolito la facoltà umana di conservare i ricordi. Questa profezia platonica assume oggi molto più valore di verità di quando fu scritta, ventiquattro secoli fa. Oggi i supporti informatici rimpiazzano le memorie individuali con una facilità e un’efficacia di gran lunga superiori a quelle della scrittura su carta. Lo scrittore Gesualdo Bufalino, negli anni Ottanta del secolo scorso, considerava la civiltà come la storia di sforzi intesi a esentarci dalla memoria, sostituendola con simulacri e tecniche diverse – dalla scrittura ai dipinti, dai monumenti alle fotografie; e concludeva: «Mi sbaglierò ma fra qualche millennio l’umanità avrà perso, come ha perso l’olfatto antico degli ominidi, il senso del ricordare». Quando Bufalino scriveva queste parole le memorie informatiche avevano da poco fatto la loro apparizione e la loro capacità di archiviazione era
ben poca cosa – qualche megabyte soltanto, una dimensione ridicola rispetto a quelle d’oggi. Oggi la memoria della Rete contiene milioni di libri, miliardi di immagini, di fotografie, di dipinti, di filmati: la memoria dell’umanità intera è lì dentro. Ma è davvero una memoria? È più corretto dire che è una massa enorme d’informazioni. La memoria vera – quella umana – è un’altra cosa. L’informazione, da sola, non ha alcun senso: acquista senso solo quando qualcuno la legge e la decifra dentro di sé. Siamo noi che conferiamo il senso. Così è anche per le immagini: consideriamo ad esempio un capolavoro come la Crocefissione di Grünewald, nella pala d’altare di Isenheim: un cadavere inchiodato a due pali incrociati, contratto nel dolore. Questo vede un occhio non sorretto dalla memoria: un’immagine di per sé per nulla invitante, anzi, una crudele e sgradevole esibizione di sofferenza. Ma per chi decifri il quadro
dentro la cultura accumulata nella memoria, quel dolore dipinto ha profondi significati e valori simbolici: il dio fatto uomo, l’origine del cristianesimo, la speranza che nasce dalla disperazione... Ecco perché l’informazione richiede pur sempre una memoria soggettiva – ossia, una cultura all’interno della quale la singola informazione prende senso. Da Aristotele a Cicerone a Tommaso, via via fino a ieri, si è sempre esaltata l’arte della memoria; anche l’immaginazione, dicono Vico e Hobbes, è sostenuta dalla memoria. Ma oggi la pedagogia antinozionistica sembra condannare ogni memorizzazione di informazioni (che sia una sorta di autogiustificazione di pedagogisti di scarsa cultura?). Ma forse, più semplicemente, i tempi sono cambiati: la memoria collettiva, quella in Rete, sta subentrando a quella individuale. All’individuo spetta ora il compito di dimenticare.
grezzo da costruzione. L’acqua è azzurra per via del telone dentro. A una sbarra di acciaio tondo per il cemento armato, piegata in cima all’ingiù, è appesa una lampada da lavoro. Su una lavagnetta, agganciata a una rete metallica, c’è scritto in gesso che dalle 22 inizia la Nachtruhe. Dietro la rete si apre lo squarcio creato dalle ultime demolizioni. Ci sono anche due cabine, ottenute proprio con le assi recuperate dagli spogliatoi dei bagni di Glaus. Improvvisazione a regola d’arte, non manca niente. Mi cambio veloce, appendo la mia roba sugli appendiabiti fuori dalle cabine. Ed entro nella vasca definita in febbraio dal «Tages Anzeiger»: «Guerrilla-Badi». Definizione azzeccata perché ricorda proprio il guerrilla gardening, pacifico giardinaggio d’assalto sviluppatosi negli ultimi anni nelle grandi città: quattro assi in uno spazio pubblico ed ecco coraggiose aiuole pirata. Lo spazio infatti è quello di una aiuola, ma basta per distendere le gambe. L’acqua sgorga a 46,6 gradi da quattro tubature otta-
gonali di legno. Una meraviglia sentirla sul collo. La Limmat scorre qui davanti a un passo. In faccia, c’è lo storico hotel Schwanen restaurato di fresco sul cui tetto svetta, quasi invisibile, un cigno. Alle mie spalle, come delle quinte teatrali per la terra sventrata, sorge fiero l’altrettanto storico Verenahof chiuso nel 2012. La statua di Santa Verena, il cui culto, in questo caso focalizzato sulla fertilità femminile, è migrato dalla non lontana Bad Zurzach dov’è morta, vigila in cima. Grazie al cielo, al pari di due altri hotel – il Bären e l’Ochsen – è un «bene culturale d’importanza nazionale» e perciò non si tocca. Testimoni del termalismo perduto. Le proprietà dell’acqua incominciano a fare effetto, i muscoli si rilassano e la mente si snebbia del tutto. Nubi minacciose nel cielo, altre retroilluminate dal sole, sprazzi di azzurro lassù sopra i vigneti. La fonte, scoperta nel 1489, risale un pozzo di nove metri. I bagni-guerrilla (352 m) di Baden, va detto, forse anche grazie alla loro provvisorietà, donano una libertà
profonda. Il segreto da cogliere è una certa sprezzatura rinascimentale. Tutto è accurato ma al contempo c’è la grazia della noncuranza. Chissenefrega se due pezzi della miniroggia in legno da dove fuorisce l’acqua dalla vasca sono legati con lo scotch, anzi. I materiali di scarto non sono abbelliti, ma così come sono. Alla buona ma con rigore sembra essere lo slogan di questi bagni da battaglia. Una semplicità che batte, almeno per me, cinquanta milioni di volte, la megalomania. Una vecchia vasca da bagno con dipinto il logo del bagno popolare – la vasca da bagno stessa con le zampe e zampillo da fontana – troneggia sul cilindro trasparente della Limmatquelle dove da vicino, si vedono le bollicine salire. Il panorama-cantiere sullo sfondo, con il sottosuolo-voragine che mostra i resti della balneologia ritenuta obsoleta, non è neanche male. Lo potete ammirare, immersi, fino al 18 giugno. Il colpo di scena è che da qui, si possono distinguere benissimo, tra le macerie, le pietre delle terme romane.
fiscale o di riciclaggio? La monotonia di boutiques d’abbigliamento, tutte simili, che non attirano più? Sono interrogativi entrati, in pianta stabile, sia nelle chiacchiere private sia nei dibattiti pubblici, in cui le cause di questo, come di altri disagi, si attribuiscono a eventi e fatalità lontane. Mentre, in questo caso, ogni luganese, di vecchia o fresca data, è direttamente coinvolto. E dovrebbe essere chiamato a rispondere alla domanda imbarazzante: ma tu, in Via Nassa ci vai? Proprio qui si tocca il nervo scoperto del problema. Che è, innanzi tutto, d’ordine umano. Concerne le abitudini, i comportamenti, i consumi, gli svaghi, persino le scelte ideologiche e morali che compongono un quadro di vita in continuo cambiamento, magari nostro malgrado. Lo sta dimostrando, inequivocabilmente, quella Via Nassa, che ha perso i connotati di ribalta e di salotto, a disposizione di una cittadinanza, che voleva vedere e farsi vedere, confermando
un implicito bisogno di appartenenza identitaria. E, tutto ciò, secondo regole precise di riti, imposti dal calendario e dalle generazioni. I quattro passi dei giovani, prima di cena, la sfilata familiare la domenica mattina, dopo la messa, le chiacchiere dei nottambuli, nel silenzio di un centro città, che non conosceva l’invasione di bancarelle «street food» e consimili. Ora, sia chiaro, si sta parlando di un’epoca conclusa e irripetibile che, certo, non consente l’illusione di restituire alla Via Nassa un ruolo, spazzato via da una trasformazione, sconvolgente e profonda del tessuto umano cittadino: numero dei residenti quasi triplicato, e, per buona parte composto di stranieri. Di conseguenza, al centro storico, con Piazza Riforma e Municipio, si sono aggiunti i centri periferici, frequentati rispettivamente da pugliesi, kosovari, portoghese, eccetera, ma anche da soci di club di tifosi e di sportivi di varie categorie. E, con ciò, si tocca ancora un altro punto determinante negli usi e
costumi cittadini: il tempo libero, a cominciare dalle domeniche, è dedicato a marce, più o meno lunghe, biciclettate, nuotate, tornei di tennis, esercizi in palestra. Con evidenti ripercussioni sull’abbigliamento, dove la tuta, la felpa, la sneaker hanno finito per imporre un stile di successo, ormai accettato in tutte le occasioni: ai concerti di musica classica, nei ristoranti, in chiesa. E via libera persino all’infradito, nato come sandalo giapponese, sdoganato sul piano mondiale come «flip flop». Un consenso generale, dove fa eccezione il Touring Club che sconsiglia l’uso della ciabatta scivolosa agli automobilisti. E, sul piano estetico, una condanna è arrivata da una docente di storia dell’Università dell’Indiana, Linda Przybyszewski: «Una sciatteria che rivela una pericolosa assenza di gusto e di regole». Intanto ne ha subito le conseguenze la Via Nassa, deputata al ruolo di arbitro dell’eleganza. Oggi perso. Forse il collegamento con il LAC glielo restituirà?
A due passi di Oliver Scharpf I bagni-guerrilla di Baden Già il nome la dice lunga sulla vocazione termale del luogo. Non solo un prefisso come Bad Ragaz o un suffisso come Leukerbad, ma ricordando molto Bath – in Inghilterra, nel Somerset – tutto il toponimo è acquatico. Aquae Helveticae: così il posto viene citato da Tacito nel 69 dopo Cristo quando a mollo si mettevano i legionari della vicina Vindonissa. Terme romane dunque, descritte poi con occhio antropologico dall’umanista toscano Poggio Bracciolini in una briosa lettera del maggio 1416 che sprizza entusiasmo a ogni riga per l’ingenuo epicureismo senza veli degli abitanti di Baden. Cittadina del canton Argovia a venti minuti di treno da Zurigo, dove metto piede alle 9.21 sul binario tre verso fine aprile. A inizio marzo, dopo anni di tiraemolla, sono partiti i lavori per le nuove terme firmate Botta. Abbattuti non da molto i bagni in beton di Otto Glaus (1914-1996) sorti negli anni sessanta e mimetizzati alla perfezione con piante sul tetto, posto dovrebbe essercene. Imbocco la Bäder-
strasse che scende verso il Bäderquartier in riva alla Limmat. Finita la Belle Époque, dopo il declino dal dopoguerra a oggi, tutto è in stallo. A parte l’Hotel Blume e il Limmathof dove lì fuori c’è anche una panchina termale pubblica. Meglio di niente, ma immergere solo i piedi nell’acqua più ricca di minerali della Svizzera è una magra consolazione. In attesa del «Botta-Bad», un’associazione ha ricreato quest’inverno un bagno popolare in piazza, come ai tempi di Poggio Bracciolini. E proprio così, in italiano, si chiama questo ammirevole progetto itinerante. Il Bagno Popolare, dopo qualche mese davanti al Verenahof, sulla Kurplatz dove sfocio ora, si è spostato da poco dietro l’angolo, captando la Limmatquelle: una delle diciotto fonti curative secolari disseminate in questo angolo dove la Limmat fa gomito, piegandosi a ovest. Delle curiose assi da cantiere a righe – al posto del solito rosso abbinato al bianco c’è un azzurro balneare – indicano la via. La vasca quadrata è ottenuta con legname
Mode e modi di Luciana Caglio Via Nassa e infradito A scanso di equivoci, fra la strada più chic di Lugano e la ciabatta più multiuso nel mondo, un nesso c’è: insomma il titolo non è strampalato. Infatti, si tratta di due simboli, quello
dell’eleganza codificata e quello della sciatteria liberatoria, che si sono incontrati, o meglio scontrati. Con effetti evidenti, appunto, sulle sorti della Via Nassa, dove, come si sa, negozi, cosiddetti prestigiosi, chiudono, a gran ritmo. Per decifrare il fenomeno, si sono mobilitati specialisti autorevoli, e non. Proprio su «Azione», la scorsa settimana, Angelo Rossi teneva un discorso chiaro parlando di «difficile avvenire» per una Via Nassa, dove «purtroppo ogni commerciante deve risolvere la sfida da sé». Ci si trova, del resto, alle prese con una situazione ormai incancrenita, che si trascina da decenni alimentando schermaglie strapaesane fra politici, associazioni di commercianti, sindacati, enti turistici che si palleggiano le responsabilità. Ma, in pratica, è colpa di chi e di cosa? Affitti troppo alti, richiesti da proprietari di stabili esosi? Negozi che propongono un lusso persino immorale dai prezzi esorbitanti? Negozi-fantasma, che coprono motivazioni d’ordine
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Ambiente e Benessere A caccia di tesori nascosti Tra i mille modi e motivi che esistono per mettersi in viaggio ci sono le meraviglie da scoprire
L’inferno boliviano Un reportage dalle viscere del Cerro Rico, tra minatori poveri, vedove e orfani pagina 17
Abbinamento armonioso Una ricetta che mescola le note amarognole dell’insalata con il dolce sapore degli spätzli al prezzemolo e agli spinaci
Laboratori creativi «verdi» «Giardini in arte» si terrà dal 4 al 6 maggio al Monte Verità con esperti e molte proposte
pagina 19
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L’endocrinologo capoclinica di Medicina Nucleare dell’Eoc dottor Pierpaolo Trimboli. (Vincenzo Cammarata)
La «malattia silente»
Medicina L’osteoporosi è determinata da una penuria di calcio nelle ossa e aumenta il rischio di fratture Maria Grazia Buletti
«L’osteoporosi non è un morbo o una vera e propria malattia: evolve senza dare sintomi finché la penuria di calcio nelle ossa provoca una frattura di segmenti ossei o dell’intero apparato scheletrico», afferma l’endocrinologo capoclinica di Medicina Nucleare dell’Ente ospedaliero cantonale (Eoc) dottor Pierpaolo Trimboli. Di fatto, il «British Medical Journal» l’ha inclusa in un elenco di «non malattie» (International Classification of Non – Diseases). Un po’ di anatomia è necessaria per meglio comprendere il meccanismo che ne determina l’insorgenza: lo scheletro è formato da oltre 200 ossa ed è la struttura portante del corpo, insieme ai muscoli e ai legamenti: «Macroscopicamente, nell’osso vi è una parte più compatta (osso corticale) e una più spugnosa formata da sottili lamelle dette trabecole (osso trabecolare). Dunque, non parliamo di una struttura statica, ma dinamica: l’osso è vivo, si ricostruisce costantemente, così come distrugge la sua parte invecchiata». Il dottor Trimboli riassume i complessi meccanismi che mantengono le nostre ossa in costante equilibrio e solidità fino all’età matura, permettendone il continuo rinnovamento che consente allo scheletro di svolgere la sua funzione di sostegno nel garantire solidità ed elasticità al corpo. Ma non solo: l’osso
è una vera e propria «banca del calcio»: minerale indispensabile per diverse funzioni dell’organismo come la contrazione muscolare, e l’attività nervosa e cardiaca. Purtroppo, in alcune condizioni che andremo ad analizzare con il nostro interlocutore, può verificarsi un’anomala mancanza di calcio nelle ossa: «Il risultato sarà la creazione di cavità (porosi) nelle delicate lamelle ossee (trabecole) o il loro progressivo assottigliamento; in linea generale, quanto maggiore sarà la quantità di osso perduta, tanto più fragile diventerà l’osso stesso e tanto maggiore sarà il rischio di frattura (ndr: le più a rischio sono le ossa trabecolari dove le fratture avvengono più comunemente, come vertebre, collo del femore e polso)». Molteplici le cause, tra le quali spiccano invecchiamento e menopausa: «La perdita fisiologica del calcio nelle ossa concerne entrambi i sessi a causa dell’invecchiamento, ma il calo di estrogeni nella menopausa della donna fa sì che per il sesso femminile il rischio sia maggiore». Di fatto, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) stima che circa una donna su quattro ha maggiore tendenza a perdere massa ossea. Anche se la vera causa rimane ancora sconosciuta, il dottor Trimboli riassume le altre possibili cause e i fattori di rischio che portano all’insorgenza dell’osteoporosi: «Ipertiroidismo,
iperparatiroidismo e altre malattie endocrine, dieta povera di calcio, malassorbimento intestinale, sedentarietà, familiarità, eccessivo fumo, alcol e caffeina, menopausa precoce, trapianti d’organo». Inoltre, il numero di fratture nella popolazione è statisticamente in aumento per il progressivo incremento della vita media con aumento della percentuale di popolazione al di sopra dei 65 anni. Da tutto questo si deduce che, onde evitare un certo numero di fratture, è importante diagnosticare precocemente l’osteoporosi, diagnosi a cui dovrebbe seguire un trattamento efficace che ne freni la progressione e attenui il rischio di fratture ossee. Un esame diagnostico fondamentale per valutare lo stato di salute delle ossa e per stimare il rischio maggiorato di fratture è la Densitometria ossea (Dexa), nota pure come Moc (Mineralometria ossea computerizzata): «La Dexa con tecnica di assorbimento a raggi X è considerata a oggi il Gold Standard per la diagnosi e il monitoraggio di osteopenia e osteoporosi. Attraverso questo esame si misura la massa ossea, vale a dire la quantità di calcio e altri minerali come fosforo, fluoro e magnesio che conferiscono all’osso notevoli proprietà come durezza, rigidità e resistenza. La Densitometria ossea può essere effettuata senza esclusioni particolari (per le donne in età fertile bisogna escludere
lo stato di gravidanza), è un’indagine indolore e non invasiva per la sua bassissima dose di radiazioni ionizzanti ed è ripetibile nel tempo». Ciò permette la necessaria valutazione estesa nel tempo: «Di norma, l’esame va ripetuto ogni 12 mesi circa, secondo il caso specifico, per valutare le modifiche della massa ossea nel tempo e monitorare l’efficacia di un’eventuale terapia intrapresa». Brevemente, i meccanismi di interpretazione del risultato dell’indagine: «Il risultato densitometrico del paziente (Bmd, densità minerale ossea) viene riportato con diversi parametri come il T-score, cioè la differenza di densità minerale del soggetto rispetto ai soggetti adulti sani, e lo Z-score, cioè la differenza rispetto ai soggetti di pari età e sesso del paziente. I valori ottenuti dopo la scansione sono riportati su una curva di riferimento normalizzata per età e sesso. Il referto mostra una rappresentazione grafica delle regioni analizzate e i relativi valori densitometrici ottenuti». È molto importante comprendere a questo proposito che tutti gli individui raggiungono un picco di massa ossea intorno ai 25/30 anni, e da quel momento in poi perdono calcio osseo. Un’eccessiva velocità di questo processo determina l’osteoporosi che non si crea, dunque, in poco tempo, ma è un processo lento, i cui presupposti possono essere a volte presenti fin dall’età giovanile. Forse
superfluo ma non scontato è parlare di prevenzione, di cui esistono regole valide per qualsiasi età: «Con le debite proporzioni legate all’età e alle condizioni del soggetto, nella prevenzione dell’osteoporosi concorrono un’adeguata assunzione di calcio, una corretta esposizione ai raggi solari (ndr: attraverso la pelle si forma la vitamina D necessaria al metabolismo del calcio), una buona attività fisica (anche il semplice cammina re migliora la qualità dell’osso), evitare fumo ed eccesso di alcol», conclude il dottor Trimboli con il quale condividiamo l’importanza, ancora una volta, di un sano stile di vita che ci permette di capitalizzare la salute dell’organismo e delle nostre ossa fino in età avanzata, scongiurando il maggiorato rischio di incappare in qualche frattura.
Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista al dottor Pierpaolo Trimboli.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Ambiente e Benessere
Tesori nascosti
Viaggiatori d’Occidente Anche i luoghi quotidiani possono riservarci sorprese
se guardati con gli occhi del viaggiatore
Claudio Visentin Luca è un ragazzino tedesco di tredici anni, appassionato di archeologia. Qualche giorno fa, cercando con un semplice metal detector in un campo sull’isola di Rügen, nel nord della Germania, ha trovato un tesoro: collane, anelli, spille, orecchini, un martello di Thor e circa seicento monete. Si pensa sia appartenuto al re Aroldo I, che regnò su queste terre verso la fine del X secolo, unificando il regno dei Danesi e conquistando molti territori vicini. Aroldo introdusse il Cristianesimo tra i vichinghi e anche per questo dovette fuggire in seguito a una rivolta. Era detto «Dente azzurro» e proprio pensando a questo re, al suo sforzo di conciliare popoli e religioni diverse, Ericsson diede il suo nome (Bluetooth) allo standard utilizzato per far comunicare smartphone, tablet e computer.
Dunque esistono davvero tesori nascosti? Certamente! E in numero assai maggiore di quanto si creda Una vicenda eccezionale? Fino a un certo punto, e certo non è la sola. Per esempio nel 2008, ancora in Germania, a Smallenberg, nella regione del Nord Reno-Westfalia, un bambino di nove anni durante una passeggiata ha trovato un vaso di terracotta con centoventi monete del tardo Cinquecento e Seicento, molte d’oro, del valore di quasi centomila euro. Nel mondo inglese ai bambini si raccontano spesso storie fantastiche piene di avventure e tesori: Le cronache di Narnia, la saga di Harry Potter o Il Signore degli anelli; e poi le storie della Tavola rotonda naturalmente. Qualche volta queste leggende sembrano realizzarsi. Lo scorso settembre Matilda, sette anni, era in gita con la famiglia al Lago Dozmary Moor, in Cornovaglia. Il padre ha raccontato a Matilda di quando Re Artù fu ferito a morte dal crudele Mordred e ordinò allo scudiero di gettare la sua spada in queste acque, affidandola alle fate. Poi la bambina ha fatto il bagno e quando ha visto un luccichio sul fondo naturalmente si è subito immersa, risalendo con una spada antica lunga oltre un metro, ben conservata. Non sarà Excalibur (la
Un tredicenne ha ritrovato di recente con un metal detector un vero tesoro sull’isola di Rügen. (Pxhere)
spada che dà diritto al trono d’Inghilterra), probabilmente è solo un’imitazione utilizzata in qualche film, ma certo è un oggetto affascinante e basta per rendere indimenticabile un giorno di tarda estate. Ancora? Nell’agosto del 2012, un bambino di otto anni, Charlie, passeggiava lungo un promontorio nella contea inglese del Dorset, in Gran Bretagna. Altri erano passati di lì prima di lui ma solo il bambino si fermò incuriosito davanti a una strana massa giallastra, di consistenza simile alla cera. Quando la portò a casa, dopo qualche ricerca, si rivelò essere ambra grigia, proveniente dallo stomaco di un capodoglio. L’ambra protegge l’intestino di questi giganteschi animali dagli scarti dei molluschi, dei quali si nutrono. La sostanza, odorosissima, è una delle più pregiate fragranze di derivazione animale, impiegata come ingrediente nella preparazione dei profumi, e per questo il valore di questo ritrovamento fu stimato in decine di migliaia di euro. Un’ultima storia, decisamente più famosa e in tutt’altra parte del mondo.
Nel 1947 un giovane pastore beduino, Muhammad, scoprì la grotta che conteneva i celebri «Rotoli del Mar Morto», alcune fra le più antiche copie dei testi biblici, scritte su pergamena o papiro, e conservate in giare di terracotta. Il giovane beduino andava in cerca di tesori nascosti, tirando pietre nelle cavità incontrate; e un giorno sentì il suono di un vaso infranto… Dunque esistono davvero tesori nascosti? Certo! E in numero assai maggiore di quanto si creda. Ogni volta che un esercito nemico si avvicinava, per esempio, tutti correvano a nascondere i propri beni più preziosi e molti morivano prima di avere il tempo di recuperarli o di rivelare ad altri il nascondiglio. In passato ho lavorato in un Museo, ospitato in un antico convento; ebbene ottant’anni or sono, durante dei lavori di sistemazione, a pochi metri di distanza dal mio ufficio furono trovati centinaia di ducati d’oro veneziani. Se dunque i tesori nascosti esistono, perché non li troviamo? Per cominciare i ragazzini – almeno prima del tempo dei videogiochi – erano so-
liti trascorrere molto tempo all’aperto, giocando, immaginando, esplorando i dintorni di casa come se fossero foreste tropicali sconosciute. Inoltre a quell’età i piccoli non hanno ancora perso il senso del meraviglioso; credono, cercano e infine trovano. Non a caso sono protagonisti di tutti gli episodi narrati. A noi invece, adulti disincantati, i tesori sono negati perché non crediamo alla loro esistenza, perché guardiamo ai luoghi vicini e consueti con gli occhi dell’abitudine; non ci aspettiamo nulla da loro e proiettiamo invece i nostri desideri su luoghi lontani, esotici, dall’altra parte del pianeta. Eppure, il viaggio dovrebbe servire proprio a questo, a risvegliare un senso del meraviglioso al cospetto di terre lontane, ma solo per riportarlo poi a casa ed esercitarlo là dove viviamo. Come in quella storiella ebraica, narrata da Martin Buber. Rabbi Eisik viveva a Cracovia e, seguendo un sogno insistente, partì per cercare un tesoro a Praga. Ma giunto in quella città, casualmente gli fu rivelato che in realtà il tesoro era stato sempre nascosto nella sua casa...
A scuola di viaggio Scrittura Un
laboratorio con Scuola Club Migros Lugano Se uno sguardo diverso può rivelare tesori – è il tema della rubrica di questa settimana – perché non imparare a guardare in modo nuovo ai luoghi e alle persone incontrate in viaggio? Per cominciare, basta iscriversi al laboratorio dedicato all’arte di viaggiare, proposto da Scuola Club Migros Lugano in collaborazione con «Azione», e diventato ormai un appuntamento regolare per i nostri lettori (che hanno uno sconto sull’iscrizione!). Nelle aule luminose e confortevoli della Scuola Club Migros Lugano l’intera esperienza del viaggio viene messa in gioco tra racconti, letture, discussioni e scrittura: è un investimento per i viaggi futuri, per diventare un viaggiatore migliore. L’insegnante sarà Claudio Visentin, il fondatore della Scuola del Viaggio (www.scuoladelviaggio.it), giornalista, conduttore radiofonico, docente universitario e curatore della nostra rubrica Viaggiatori d’Occidente. Il laboratorio inizierà spiegando come progettare un viaggio interessante, come prendere appunti strada facendo, come rielaborare quanto visto dopo il ritorno a casa. In seguito approfondiremo la scrittura di viaggio nelle sue diverse forme, dal racconto al reportage, alternando testo e immagini, anche con alcuni divertenti esercizi. Il laboratorio è aperto a tutti: sono benvenuti i principianti al pari di chi ha già qualche esperienza di scrittura. Si svolgerà sabato 12 maggio 2018, ore 9.00-12.00 e 13.00-16.00, alla Scuola Club Migros Lugano, via Pretorio 15. Il costo dell’iscrizione è di CHF 144 (con uno sconto del 10 per cento a chi porterà o citerà «Azione» al momento dell’iscrizione); inoltre a ogni partecipante verrà donato il taccuino della Scuola Migros. Il corso è a numero chiuso (12 partecipanti). È possibile iscriversi presso la segreteria della Scuola Club Migros Lugano per telefono (091/821 71 50), via posta elettronica (scuolaclub.lugano@migrosticino.ch) o direttamente sul sito internet www.scuola-club.ch.
Trappole verbali Giochi di parole Come divertire? Basta applicare la Teoria della bisociazione di Koestler luzioni dovrebbe apparire abbastanza spiritose, al di là della capacità di riuscire a trovarle autonomamente. 1. Quali componenti di un motore possiedono un nome italiano, composto da due sole lettere? 2. Qual è quella cosa che, pur se venisse ingrandita al massimo, rimarrebbe sempre minuscola? 3. Come è possibile riuscire a schiacciare, con due sole dita, una noce posta in un sacchetto vuoto? 4. Quale tipo di dono, più è gradito, e più viene rifiutato? 5. Come si possono anagrammare le tre parole: Altura, Palato, Sonno, in modo da ottenere una parola soltanto? 6. Il professor Conti, afferma: «In totale sono due...». Il suo collega, professor Rigoroso, commenta: «In effetti, sono proprio due, ma in tutto sono tre…». Di che cosa stanno parlando i due cattedratici?
7. Il signor Giusto Vocabolo dice a un proprio amico: «Scommetto che non sei capace di dire: primo piano, ricorrendo a una sola parola». Che cosa dovrebbe dire l’amico di Giusto Vocabolo, per vincere la scommessa? 8. Il celebre mago, Mister Aster, dichiara di poter effettuare la seguente per-
formance: «Dopo aver mescolato più volte un mazzo di carte, calerò sul tavolo una carta scoperta e una coperta; poi, metterò la carta scoperta su quella coperta e, a quel punto, sul tavolo ci sarà fisicamente una sola carta!». In che modo Mister Aster potrà compiere una simile impresa?
Soluzione
Come ho già avuto modo di affermare in questa rubrica, se una frase contiene dei termini che possiedono due o più accezioni, la sua interpretazione può presentare alcune marcate ambiguità. Accanto a un significato di spontanea attribuzione (senso forte), infatti, ne può emergere almeno un altro, un po’ meno immediato, ma altrettanto plausibile (senso debole). Un sistema pratico per utilizzare a fini umoristici frasi di questo genere, può essere così effettuato: – si fa risaltare, implicitamente, il senso forte (fuorviante) di una determinata frase; – si fa emergere, in qualche modo, il senso debole, prima nascosto. Un tale effetto è giustificato dalla Teoria della bisociazione, elaborata dallo scrittore e filosofo ungherese, Arthur
Koestler (1905-1983), secondo la quale, il fattore che fa scaturire una risata spontanea consiste nella scoperta di alcune coincidenze inattese. Un semplice esempio al riguardo può essere il seguente: «Un oste chiede a un avventore: “Scusi lei lo regge il vino?”. ”Certamente”, risponde l’altro. “E allora, mi aiuti a sollevare questa damigiana da cinquanta litri!”». Questo stesso modo di procedere può essere utilizzato anche in campi non dichiaratamente umoristici. L’effetto collaterale che ne scaturisce, però, è ugualmente divertente, in quanto il meccanismo su cui si basa funziona sempre, indipendentemente dai contesti in cui viene impiegato. A conferma di tale assunto, riporto qui di seguito alcune trappole mentali, di genere linguistico. In linea di massima, le relative so-
1. Le Bi–Elle. 2. Una lettera dell’alfabeto minuscola. 3. In nessun modo: un sacchetto vuoto non può contenere alcuna noce. 4. Un mazzo di fiori (che, quando è molto gradito, viene fiutato e rifiutato più volte). 5. Componendo l’anagramma: «una parola soltanto». 6. Stanno parlando della lettera T (nella parola totale ce ne sono due, come nella parola effetti; nella parola tutto, però, ce ne sono tre). 7. Dovrebbe dire: «primo», a bassa voce (cioè: piano). 8. Mister Aster deve calare sul tavolo una carta scoperta e una... coperta di stoffa. Quindi, alla fine sul tavolino, insieme alla coperta di stoffa, ci sarà una sola carta (quella scoperta).
Ennio Peres
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Ambiente e Benessere
Simbolo di giovinezza Eliana Bernasconi Mille anni fa, sulle rive del Reno, Hildegard Bermersheim vor der Höhe, monaca benedettina nota come Ildegarda di Bingen, oggi dottore della Chiesa, curava con grande successo la salute delle persone. Personalità unica di scienziata, naturalista e mistica, anticipava sorprendentemente le conoscenze della medicina moderna. Ildegarda di Bingen parlava di «Viridas» o energia verdeggiante presente in tutti gli esseri viventi, per spiegare – partendo dalle teorie mediche del suo tempo – come uomo e universo fossero collegati: se la Viridas si esaurisce, diceva, l’organismo si ammala, e per guarire dovrà assumere energia ad esempio attraverso le piante. «La primula è calda» diceva Hildegarda, «prende tutta la sua forza verde dal Sole allo zenith, perciò scaccia la malinconia, che quando insorge rende l’uomo triste e inquieto nel suo comportamento; quest’uomo si ponga la pianta sulla carne e sul cuore per scaldarlo e gli spiriti che lo tormentano cesseranno di tormentarlo» e continuava: «Un uomo talmente oppresso da linfe cattive da perdere l’intelletto, prenda quest’erba e se la ponga sul cranio e sul petto, dopo tre giorni ritroverà la ragione. Chi invece è colpito da paralisi in tutto il corpo ponga quest’erba nel bicchiere perché ne assorba il sapore, ne beva spesso e sarà guarito». In epoca medioevale, il decotto di primule era usato come cura contro la
gotta e i reumatismi, mentre l’infuso di radici era prescritto contro le emicranie di origini nervose. Nella medicina popolare il decotto di foglie e fiori era bevuto contro emicrania e insonnia, l’infuso, come depurativo e rinfrescante, mentre i fiori venivano anche impiegati per preparare pozioni d’amore. Nel 1830, un certo Geiger scriveva che dalle primule fermentate con succo di canna da zucchero e limone si otteneva un «vino di primule» dal gradevole aroma, mentre Hieronymus Brunschwig, autore medioevale, consigliava l’alcool ricavato dai fiori per gli stati di debolezza, svenimento e apoplessia. Nome scientifico Primula vulgaris Hudson, dal latino Primus = primo, per la fioritura precoce, vulgaris, perché pianta comune. Il nome sembrerebbe derivare e avere conservato l’antica locuzione italiana di inizio Rinascimento che riguardava tutti i fiori «fior di primavera», e indicava indifferentemente ogni fiore che sbocciasse dopo l’inverno: il termine fu menzionato per la prima volta in un’opera botanica nel 1500. Preceduta forse solo dal Bucaneve, la Primula è il primo fiore che appare, colorando con l’inconfondibile pallido giallo i luoghi erbosi, il ciglio dei sentieri, i boschi di latifoglie. Pianta perenne, sempreverde, fiorisce da febbraio a marzo, o anche ad aprile-maggio se la primavera è fresca. Si utilizzano i fiori con il loro calice, le foglie e le radici. I fiori si raccolgono all’inizio della fioritura e le foglie al loro massimo sviluppo, mentre la radice si raccoglie in
Ettore Balocchi
Fitoterapia Le poco conosciute ma grandi proprietà della Primula
autunno, ed emana profumo d’anice quando è fresca. Il profumo si attenua gradatamente fino ad avvicinarsi a quello del salicilato di metile quando è secca. Le radici contengono, infatti, dei derivati dell’acido salicilico, lo stesso contenuto nell’aspirina: per questo la primula ha caratteristiche analgesiche, antiinfiammatorie e antireumatiche, ed è infatti indicata per alleviare gli edemi o i gonfiori e per riassorbire gli ematomi delle estremità. In decotto, cura tosse, raffreddori, bronchiti. Se ne può fare una tisana rilassante e ipotensiva che ha gli stessi effetti del biancospino e del tiglio. I fiori essiccati forniscono un tè di particolare aroma, privo di azione eccitante. Servono anche per profumare la birra
e migliorare il bouquet dei vini; canditi sono dolci deliziosi. Alla Primula vulgaris Hudson si affianca la Primula elatior Jacq che cresce spesso allo stato spontaneo nei medesimi luoghi. Il nome botanico significa che è alta, ma in verità non supera i venti centimetri; si differenzia dalla Primula vulgaris per le sue corolle grandi e piatte, per il calice bicolore (verde chiaro nelle scanalature, scuro negli spigolo arrotondati), per le foglie verdi sulle due lamine e per la mancanza di profumo. I floricoltori sono riusciti a ottenere, dopo lunghe selezioni, varietà molto decorative di svariati bellissimi colori, con fiori anche molto grandi su lunghi steli, che non possiedono però proprietà medicinali. Queste varietà sulle fo-
glie e sugli steli hanno peli glandulosi che possono causare pruriti o allergie. Davvero poche persone sono a conoscenza delle proprietà della primula: è diuretica, lassativa, calmante, balsamica e altro ancora. Come depurativo si possono consumare le foglie fresche, mescolate all’insalata. Molte favole poi parlano di lei. Ad esempio, i fiamminghi chiamano le primule «chiavi d’oro» in ricordo di una leggendaria storia. Durante un gelido inverno in un paese di montagna le famiglie divennero tra loro nemiche, a marzo i torrenti si ingrossarono e un bimbo sfuggì alla sorveglianza della mamma: stava per essere travolto dall’acqua, ma un ragazzo di una famiglia rivale si gettò in acqua salvandolo. San Pietro dall’alto osservava stupefatto, perse le sue chiavi che cadendo sul terreno rimbalzarono formando cespi di primule. Da sempre simbolo di primavera, ecco – per chi ci crede – la ricetta di un’antica pozione per conservare la gioventù: mettere 2 cucchiai di radice essiccata di primula in infusione in acqua bollente per 10 minuti, filtrare, unire miele vergine e bere 5, 6 tazze al giorno. Bigliografia
Gabriele Peroni, Trattato di Fitoterapia Driope, Nuova Ipsa editrice. Gabriele Goidanich, Segreti e Virtù delle Piante Medicinali, ed. Selezione dal Reader’s Digest. Laura Rangoni, Il grande libro delle piante magiche, Xenia editrice. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Bolivia: quanto vale un Potosí? Reportage Il paese è pieno di ricchezze, ma la sua gente vive spesso nella miseria. Viaggio nelle viscere
della montagna mangia-uomini, tra miti antichi, fede e superstizione
Vista sulla città di Potosí dalle miniere sul Cerro Rico. Sul sito www.azione.ch una galleria fotografica più ampia.
Amanda Ronzoni, testo e foto Il mio viaggio in Bolivia è partito tra i magnifici paesaggi delle lagune e dei deserti colorati, sotto cieli carichi di nuvole e azzurro (v. «Azione» n° 12 del 20 marzo 2018»). Un paradiso. E poi l’inferno. È quasi uno shock ritrovarsi di nuovo in un ambiente urbano. Ma non sono in un posto qualunque. Sono a Potosí, una delle città più alte al mondo (4090 m.s.l.m.), un tempo «vena giugulare del vicereame (di Spagna, ndr), sorgente dell’argento d’America», come la definisce Eduardo Galeano nel suo Le vene aperte dell’America Latina. La montagna che sovrasta la città (oggi Cerro Rico – «Collina ricca») era già nota agli Inca come Sumaj Orcko, il bel «cerro». Narra la leggenda che i minatori locali, appena si misero a lavorare ai suoi filoni d’argento, vennero spaventati da una voce che salì dalle profondità della terra intimando loro di non toccare le sue ricchezze, perché «destinate a quelli che giungono dall’aldilà». La montagna venne ribattezzata Potosí, che significa «tuona, scoppia, esplode». Con un tempismo inquietante arrivarono gli Spagnoli, che «scoprirono» il posto nel 1545. Fu la materializzazione di un sogno: il «colle che sgorga argento» era lì e avrebbe sostenuto per diversi secoli le fortune della corona di Spagna e dell’Europa. Da piccolo villaggio, Potosí in un censimento del 1573 contava già 120mila abitanti, gli stessi della Londra di allora, ma molti di più di Parigi, Roma o Madrid. A cento anni dalla scoperta, ci dice sempre Galeano, «era una delle città più grandi e più ricche del mondo, con un numero di abitanti dieci volte superiore a quello di Boston in tempi in cui New York non aveva ancora questo nome». Si narra che nel 1658, durante le feste del Corpus Domini, intere vie furono ricoperte d’argento e pare che all’epoca persino i cavalli venissero ferrati con il prezioso materiale. Fu Cervantes a far dire a Don Chisciotte: «Vale un Potosí», per indicare una persona o cosa di grandissimo valore, sostituen-
do il «Vale un Perù», usato dopo la conquista di Cuzco ad opera di Pizarro. Sì, perché a metà del XVII secolo, l’argento era il bene portante dell’economia spagnola: da solo rappresentava il 99% dei minerali esportati dai possedimenti americani. In 150 anni arrivarono da oltre oceano a Siviglia qualcosa come 185mila chili d’oro e 16 milioni di chili d’argento (ovvero, nel caso di quest’ultimo, tre volte le riserve totali europee). Gli spagnoli ripulirono così bene le viscere del Cerro Rico, come venne chiamata la montagna di Potosí, che si dice abbiano usato la scopa per portar via finanche la
polvere d’argento. All’inizio del XVIII secolo, però, cominciò il declino. Oggi Potosí è una città di circa 167mila abitanti, l’ombra degli antichi fasti, dove però, a parte il turismo, è ancora l’industria estrattiva mineraria a dare lavoro. Campano male e poco i mineros qui, esattamente come secoli fa. Oggi si spera di trovare stagno, zinco, rame, l’argento è solo un sogno. Ci sono tante agenzie turistiche che organizzano visite alle miniere, ma la cosa migliore è salire e chiedere alle cooperative dei lavoratori locali. Incontro così Miguel, minatore a riposo per motivi di salu-
Minatori in un momento di riposo durante l’interminabile giornata di lavoro.
Gli strumenti di lavoro sono pochi: mazzette, picconi e ceste per portar su le rocce.
te, che si occupa di raccogliere soldi e beni di necessità per le famiglie di chi non c’è più, o per qualche compagno in difficoltà, accompagnando i visitatori nei cunicoli della montagna. Dice che ormai il Cerro Rico è un «queso suizo» («formaggio svizzero»), pericoloso, instabile. Nel 2011, sulla sommità si è aperta una voragine, che è stata riempita con del cemento per prevenire crolli nelle gallerie sottostanti. È stato proibito anche l’uso della dinamite, giudicata troppo pericolosa per la stabilità dei corridoi esistenti. Per questo, nel 2014, Potosí è stata iscritta dall’UNESCO
Il piccolo Marcos, orfano, in tenuta da minatore.
nella lista dei 46 luoghi patrimonio dell’umanità a rischio. Miguel mi fa visitare gli alloggi dei minatori, mi racconta un po’ della loro vita, mi accompagna nelle gallerie, dove le guide turistiche non ti portano. È venerdì prima del Carnaval Minero: tutti si stanno preparando alla grande festa. Ci saranno tre giorni di riposo e le sfilate in costume. Poi ci sono tutti i riti del caso. Qui sono molto religiosi. È un credo misto, fatto di fede cristiana mescolata agli antichi culti indigeni della Pachamama (la Madre Terra in lingua quechua). Fede e superstizione si intrecciano nella vita di chi ogni giorno rischia di morire per pochi soldi. L’a-
spettativa di vita dei mineros è bassa: in media 40-45 anni. Quando non si muore per incidenti in galleria, ci pensano le malattie polmonari a troncare il fiato. Secondo la tradizione, le ricchezze della montagna appartengono a «el Tio» («lo zio»), nome con cui viene ribattezzato il diavolo. Che nei corridoi bui e umidi del Cerro si incontra diverse volte: i minatori hanno costruito diverse statue che lo raffigurano: mostruoso, con le corna caprine, la bocca aperta in un ghigno famelico, il membro volgare che rappresenta tutta la sua insaziabile voracità. Per tenerlo buono ed evitare che chieda in pegno vite umane, i minatori gli portano regali: sigarette, alcol a 96 gradi, foglie di coca. Si fanno rituali con feti e sangue di lama. Quando non bastano, muore qualcuno. E una famiglia precipita nella disperazione: le donne non possono lavorare in miniera: porta male, farebbero ingelosire la Pachamama. Le vedove si aggirano in superficie, setacciano i resti dei materiali di scarto portati su dagli uomini, nella speranza di trovare qualche briciola da rivendere. Gli orfani, appena possono, prendono il casco e il posto dei loro padri. E anche se ai bambini è vietato lavorare prima di avere 14 anni, si calcola che siano più di 13mila i niños mineros «impiegati» nei cunicoli del Cerro Rico. Quando usciamo dalla miniera, Miguel mi mostra alcuni minerali trovati nelle viscere della montagna e mi domanda come possano essere così poveri, pur avendo a disposizione tante ricchezze. Si tratta di materiali che finiscono nei nostri cellulari, macchine fotografiche, computer, ma anche nelle auto, o utilizzati per l’industria bellica. Mentre parliamo ci gironzola intorno il piccolo Marcos. Avrà 5 anni, orfano. La madre, da quando ha perso il marito, vaga come un fantasma senza pace. Miguel si prende cura di loro come può, insieme ad altri uomini della cooperativa. Caschetto da minatore in testa e stivali, alla domanda «Cosa vuoi fare da grande?», risponde prontissimo: «El minero!». E allora mi chiedo: oggi, quanto vale un Potosino?
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Ambiente e Benessere
Spätzli verdi al radicchio trevisano
Migusto La ricetta della settimana
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1. Staccate le foglie di prezzemolo dai rametti e mettetele in una scodella con gli spinaci. Fate bollire circa 1 litro d’acqua e versatela sugli spinaci. Scolate, lasciate sgocciolare e tritate finemente. Versate la farina e il sale in un’altra scodella e aggiungete il latte. Mescolate con un po’ di farina. Sbattete le uova, mescolatele con la miscela di spinaci e prezzemolo e incorporate alla farina. Con un mestolo lavorate bene la massa fino a ottenere una pastella omogenea e densa che forma delle bolle e si stacca a fatica dal mestolo. Lasciate riposare per circa 30 minuti. 2. Tostate il grano saraceno in una padella senza aggiungere grasso per circa 5 minuti, facendolo saltare di tanto in tanto, finché diventa croccante. Staccate le foglie di radicchio dal cespo e dimezzatele per il lungo. 3. Portate a ebollizione abbondante acqua salata. Sistemate l’apposita griglia per spätzli sulla pentola, versate l’impasto sulla griglia, poco per volta, e distribuitelo con la spatola, facendo cadere nell’acqua gli spätzli. Non appena emergono in superficie, estraete gli spätzli con una schiumarola. Passateli subito sotto l’acqua fredda. Scolateli e lasciateli sgocciolare. Scaldate il burro. Rosolate gli spätzli con il radicchio a fuoco medio per 2-3 minuti. Cospargete con il grano saraceno tostato. Spezzettate il formaggio e distribuitelo sugli spätzli. Preparazione: circa 45 minuti + riposo circa 30 minuti. Per persona: circa 27 g di proteine, 18 g di grassi, 98 g di carboidrati, 690 kcal/2900 kJ.
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PUNTI
21 Giochi per “Azione” - Aprile 2018 Stefania SargentiniAmbiente e Benessere
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
Un giardino visto da tante prospettive (N. 13 - “Secondo me non viene più”)
Ecologia Al Monte Verità in programma un intenso finesettimana di incontri e iniziative, S E C C H
I sostenuto dal Percento culturale di Migros 7Ticino, per discutere8 dei rapporti tra natura, cultura benessere O L I O e arteV 9 10 P I N D A verde (Cpv) di Mezzana in seno11alla Corinne Hertaeg, accanto ai quali ver12 Laura Di Corcia R O M I N prima edizione della Manifestazione ranno organizzate passeggiate didattiEntrare nel corpo di un’ape. Vedere «Giardini in arte», che si terrà da veche e laboratori creativi. 13 14 15 16 17 con i suoi occhi, percepire il mondo nerdì 4 a domenica 6 maggio al MonIdeatore del percorso dedicato ai N O R M A T O R O con l’ausilio dei suoi sensi. Questa la te Verità e che proporrà incontri con sensi delle api è l’apicoltore e docente 18di giardino e verde come Mi- 19Roberto Fischer, che ha coordinato 20 sfida che si pone il laboratorio orga- esperti E D E N V E R E nizzato dal Centro professionale del chael Jacob, Maria Laura Colombo e il progetto facendo capo a tre Istituti scolastici – le Scuole medie di Acqua21 22 23 rossa, la Scuola d’arti e mestieri di G I A P A L E T T Trevano e il Centro Professionale del Programma di «Giardini in arte» 24 25 verde a Mezzana. 26 «È stato bello colL L I A N E T O laborare su questo progetto comune, 28 quello dei cinque sensi dell’ape. In praGiardini in arte è un’iniziativa che 11.00:27 Una chiacchierata con Meret. tica con tre ragazzi che frequentano il coniuga natura, cultura, benessere e Lara Montagna dialoga con Meret I G I E N E U O M 1
arte. Per tre giorni il giardino diventa contenuto e contenitore di incontri, laboratori, libri, erbe e opere d’arte. Luoghi: Monte Verità e Parco Museo Castello San Materno, Ascona. Venerdì 4 maggio
18.30: Inaugurazione al Monte Verità. Sabato 5 maggio
Auditorium Monte Verità. 11.00: Il giardino contemporaneo. M. Jakob, docente di storia e teoria del paesaggio. 14.30: Le piante tossiche possono essere anche utili per l’uomo? Maria Laura Colombo, docente di biologia vegetale e di botanica farmaceutica . 16.30: Die geheimsprache der pflanzen, Corinne Hertaeg, Eth Zurigo (in tedesco). Domenica 6 maggio
Parco e Auditorium Monte Verità. 10.00: Gli esperti de «L’ora della terra» dialogano con il pubblico.
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34. Nome femminile 26. United Soccer League 35. Materiale per singolari corone 27. Donna senza precedenti... VERTICALI 31. Lo spagnolo... 1. Si1chiede2gridando 33. iniziali6dell’attrice Ryan (N. 14Le - Bahamas, settecento 3 4 5 7 8 9 2. Superficie circoscritta 1 2 3 4 5 6 7 8 3. Lo sono il bruco e il girino 10 12 9 10 11 4. Rendono parenti i preti... 11 5. Antica regione dell’Asia 12 13 14 13 14 15 6. Grassa, untuosa 15 16 10. Parte dal ventricolo sinistro del cuore Vincitori del concorso Cruciverba 17 18 su «Azione18 16», del 16.04.2018 13. 16 A volte si devono 17 mandar giù... A. Bassetti,19R. Fasani-Andergia, 20 16. Fiume della Russia 17. Relativo19alla morale E. Fontana-Mancassola 20 21 22 Vincitori del concorso Sudoku 18. Le iniziali dell’attrice Rocca 24 19. Mare del Mediterraneo su «Azione 2316», del 16.04.2018 21 22 23 24 21. Imparziale, giusto A. Castoldi, M. Vandoni 25 23. Tutt’altro che sommo
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
SUDOKU PER AZ
B A N. L 14 S MEDIO A M Soluzione: ScoprireIi 3 R A N E numeri corretti 11 da inserire nelle S E R A4 D caselle colorate. Giochi per “Azione” - Aprile 2018 A V O R I Stefania Sargentini 15 16 17 18 19 R E R9 A (N. 13 - “Secondo me non viene più”) 24 3 O EOS EL CI TOC H IVI OR 27 28 2 A M6 I N A DM S QP U E R O M I N E 5 7 31 32 33 N OPR M UA S T O R OO V E D E N V 7E R E 8 C 35 L L EE T T AA G I I A OP A
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Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi3con il cruciverba 4 6 e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 1 5 8 (N. 15 - Balia Nera - Dai cinque ai novemila)
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ORIZZONTALI 1. Cosmetico per capelli 7. Fa bollire il sangue 8. Preposizione articolata 9. Un anagramma di arse 11. Particella nobiliare 12. Dentina 14. Il... trasteverino 15. Saliti 20. Di nove... vocali 22. Una consonante 24. Cavità nella roccia 25. Lamelle cornee 28. Preposizione articolata 29. Si forma per suppurazione 30. Qualora in poesia 32. Novecentouno romani
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quarto anno della Scuola media di Acquarossa (Ian Beer, Simone Guglielmazzi e Marzio Beffa) abbiamo elaborato il percorso, mentre con gli allievi delle Arti e mestieri ci siamo concentrati sull’udito, creando un attrezzo per riprodurre i suoni dell’ape regina 4 e delle 5 altre api. L’ideazione 6 7 8 al parte Centro Professionale del verde, dove ho un gruppo di adulti 11 che seguono la formazione in apicoltura». Lo scopo del progetto è quello di mettersi nei14 panni di un’ape, per approfondire la conoscenza di questo insetto 16 misterioso. «Faccio un esempio: l’ape non vede, ma con le antenne riesce a orientarsi. Per mimare questo 18 aspetto abbiamo deciso di usare una poesia di Trilussa, ma riscrivendola in braille. Il visitatore o la visitatrice20 deve quindi riuscire a capire quello che c’è scritto, cosa non semplice.22Per leggere il testo bisogna conoscere il codice, un po’ come le api». Il mondo in cui24i partecipanti verranno calati è oscuro ed enigmatico; lo scopo 25 del percorso è proprio quello
Bissegger. Installazioni artistiche di F. Ascari, L. Cambin, L. Figini, V. Müller, L. S. Ricca, O. Estoppey, T. Wydler, R. Moro e S. Beretta. Esposizione – concorso: «Spicchi di erbe al Monte Verità», allestita dagli 1 2 Centro professionale 3 apprendisti del di Mezzana. Saranno 9 presenti anche una 10 libreria «verde» e un mercato piante e fiori allestito nel parco del Castello San Materno.12 Sono previsti13 inoltre laboratori pratici (sabato e domenica dalle 10.00 alle 16.30, it/de). 15 Il Centro professionale del verde di Mezzana e la Società ticinese apicolto17 ri, con le Scuole medie di Acquarossa, propongono il percorso La verità nei 19 sensi dell’ape. Inoltre: Corsi e degustazioni, passeggiate didattiche.
Giochi Cruciverba Come si chiama l’uccello nella foto? Quanti chilometri fa dopo lo svernamento per andarsi a riprodurre? Troverai le risposte, leggendo a soluzione ultimata, le lettere evidenziate. (Frase: 5, 4 – 3, 6, 2, 8)
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N. 15 DIFFICILE
AZIONE - APRILE 2018 Soluzione dellaSUDOKU settimana PER precedente
CONOSCERE IL MONDO – Nome dell’arcipelago: BAHAMAS – È formato N. 13 FACILE da SETTECENTO isole e isolette. Schema Soluzione
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Politica e Economia La Spd si tinge di rosa Andrea Nahles è stata eletta alla guida di uno dei partiti più antichi della Germania
Gli incubi cinesi di Trump Si chiama «Made in China 2025» il piano economico di Xi che prevede una profonda trasformazione di tutta l’industria cinese che vorrebbe affiancarsi a quelle più avanzate di Stati Uniti, Germania, Giappone e Corea del Sud
Nuova tragedia umanitaria? Una escalation del conflitto in Siria è possibile a Idlib, roccaforte ribelle nel nord-ovest
La linea di Hupac Da oltre 50 anni l’azienda ticinese è uno dei leader nel trasporto delle merci su ferrovia pagine 28 e 29
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Secondo l’analisi sarebbero 66 milioni i lavoratori a rischio automazione. (AFP)
Non tutto (il lavoro) è perduto
Rapporto Ocse Progresso e innovazione tecnologica elimineranno tante occupazioni ma al contempo
favoriranno la creazione di nuovi mestieri
Christian Rocca La notizia della fine del lavoro è fortemente esagerata, almeno pare. Un recente rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha ridimensionato di molto le paure sulla perdita dei posti di lavoro a causa dell’automazione. Il tema è uno di quelli decisivi di questa epoca, non solo per le ricadute economiche sulla società, ma anche perché è considerato la radice, se non la causa, della diffusione della protesta populista che dall’America all’Europa sta cambiando la geografia politica dell’Occidente. Il precedente grande rapporto, curato nel 2013 da due accademici all’università di Oxford, prevedeva che il 47 per cento dei posti di lavoro potesse scomparire a causa della computerizzazione. Il nuovo rapporto dell’Ocse sostiene che è a rischio «soltanto» il 14 per cento di posti di lavori nei 35 paesi, tra cui la Svizzera e l’Italia, membri del «centro studi dei paesi ricchi», come viene definito l’Ocse. La notizia è buona, per una volta. Ma non si può sottovalutare il dato assoluto, ovvero che sarebbero comunque 66 milioni i posti di lavoro a rischio. Non sono pochi 66 milioni
di posti di lavoro in meno. Inoltre, un altro 32 per cento dei jobs attuali, secondo l’Organizzazione che ha sede a Parigi, cambierà in modo significativo e la società globale dovrà adattarsi per evitare un impatto altrettanto deleterio della scomparsa dell’occupazione. Alcuni paesi, soprattutto dell’Europa meridionale e orientale, sono molto più vulnerabili dei paesi anglosassoni, aggiunge la ricerca. Il 33 per cento di tutti i lavori della Slovacchia, per esempio, è altamente automatizzabile, contro soltanto il 6 per cento di quelli norvegesi. Ma anche Germania, Cile e Giappone rischiano di più di un paese come l’Olanda. Secondo l’Ocse, soltanto negli Stati Uniti si perderanno 13 milioni di posti a causa di algoritmi e intelligenza artificiale, soprattutto nel settore manifatturiero e agricolo. A rischio anche il settore dei servizi, tipo quelli postali e dei corrieri, ma anche i trasporti di terra, la preparazione di cibi e le pulizie. La ricerca dell’Ocse spiega che anche all’interno dei singoli paesi l’impatto dell’automazione non sarà omogeneo o equamente distribuito, quindi è probabile che in certe zone industriali le economie locali ne potranno risentire, con disagi sociali ancora più deleteri di
quelli causati negli anni Cinquanta a Detroit dall’allora inedita automazione delle fabbriche. Lo studio dell’Ocse non prevede un futuro roseo, quindi, ma certamente lo immagina meno distopico di quello previsto dal paper di Oxford che fin qui ha influenzato il dibattito e le politiche pubbliche occidentali sull’automazione. Di conseguenza, sarebbe il caso che leader, partiti e governi ridefiniscano le strategie sul lavoro. Uno dei motivi per cui il rapporto Ocse è meno cupo di quello del 2013 è tecnico, perché il nuovo studio mostra una maggiore attenzione nel distinguere i lavori catalogati con lo stesso nome ma che presentano differenti probabilità di essere sostituiti da robot o computer. Le conseguenze dell’automazione saranno comunque enormi, anche perché si amplieranno le differenze non solo salariali, ma anche di garanzia del posto di lavoro e tra posti altamente qualificati e pagati bene e occupazioni non sicure e pagate poco. Questa disparità peraltro è un elemento che contribuirà a polarizzare ulteriormente le società, con le evidenti conseguenze politiche che già da un paio d’anni si cominciano a vedere. A questo punto c’è da chiedersi
quale sia la vera notizia di questa ricerca dell’Ocse, e cioè se possiamo abbassare la guardia e continuare a lasciarci ammaliare dalla tecnologia oppure se dobbiamo tenerla alta e continuare a preoccuparci della nostra sicurezza sociale. La lettura del rapporto non dà una risposta univoca: ce n’è abbastanza per tirare un sospiro di sollievo, visto che gran parte dei lavori non si estingueranno, ma contemporaneamente lascia intatte le ragioni di chi si fa prendere dall’ansia. Eppure nel paper dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico c’è un altro passaggio fondamentale, oltre a quello del minor numero di posti eliminati dall’automazione, per molti versi più importante del primo. Secondo gli studiosi dell’Ocse, infatti, «la tecnologia porterà senza dubbio molti nuovi lavori». Eccolo, il punto. Non è un’affermazione da poco. Progresso e innovazione tecnologica elimineranno alcune occupazioni, tante ma non tantissime come si temeva, muteranno geneticamente il modo di lavorare, ma non impediranno, semmai favoriranno, la creazione di nuovi mestieri, di nuove domande, di nuovi posti di lavoro. Per
questo le politiche pubbliche dei paesi sviluppati dovrebbero concentrarsi sul cercare e investire denari e risorse per l’istruzione e l’addestramento nei settori che rischiano di più e per prepararsi alle nuove esigenze della società. Riqualificare i lavoratori è un meccanismo sociale importante per accompagnare la transizione, in particolare quella dei giovani. Gli analisti Ocse sottolineano l’importanza di aiutare i giovani a ottenere un’esperienza lavorativa, i primi rudimentali strumenti del mestiere, già durante gli anni di frequenza scolastica e, inoltre, evidenziano la necessità di ampliare la formazione e le forme di protezione sociale dei lavoratori delle industrie in forte ristrutturazione e in via di ridimensionamento. Insomma la prossima grande ondata di automazione potrebbe non essere così devastante come si temeva, anzi è probabile che possa creare nuove e ancora inesplorate opportunità. Ovviamente questa dell’Ocse è solo un’analisi, per quanto autorevole, che si basa su non banali precedenti della storia e su un solido atteggiamento salvifico, quasi fideistico, nei confronti del progresso e dell’innovazione. Non è poco, ma incrociamo le dita.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Politica e Economia Con 18 anni di ritardo rispetto ai cristianodemocratici di Angela Merkel, i socialdemocratici ora hanno anche loro una donna a guidarli. (Keystone)
Asifa 8 anni in pasto ai lupi La seta indiana Violentata e uccisa nel bosco
perché era musulmana Francesca Marino
Germania L’elezione di Andrea Nahles rappresenta anche un nuovo
tassello alla scalata del potere femminile nella politica europea
Luisa Betti Dakli «Molte donne si scontrano con il soffitto di cristallo ma oggi, a questo Congresso, questo tetto nella Spd è stato infranto per restare aperto». È con queste parole che Andrea Nahles ha salutato la sua vittoria subito dopo l’elezione alla guida di uno dei partiti più antichi della Germania che in 155 anni di storia non aveva mai avuto una donna presidente. Eletta con 414 voti su 624 (66,3%), ha battuto la sua rivale, l’ex poliziotta e sindaca della città di Flensburgo, Simone Lange, che di voti ne ha presi 172. Una percentuale, quella ottenuta da Nahles, identica a quella con cui i delegati della Spd hanno votato a favore della terza edizione della Grosse Koalition per continuare a governare il Paese con la Cdu di Angela Merkel.
Cresciuta in una famiglia cattolica, Nahles ha cominciato a fare politica da giovane e oggi l’attende la sfida più difficile, quella di risollevare il partito che in 15 anni ha perso metà dei suoi voti Ammirata ma anche detestata dai suoi colleghi per i modi battaglieri, il successo di Andrea Nahles è dovuto anche, oltre al pragmatismo e la determinazione, alla sua capacità di parlare alla pancia dei suoi interlocutori, come ha dimostrato al congresso straordinario di gennaio quando in 10 minuti riuscì a infiammare i suoi colleghi dopo che Martin Schulz, il suo predecessore, aveva parlato per un’ora senza entusiasmare nessuno, o quando nel 2013 cantò Pippi Calzelunghe al Bundestag alludendo alle favole raccontate da Angela Merkel. Figlia di un capomastro edile e di
una casalinga, Nahles è cresciuta in una famiglia cattolica a Mending, nella provincia del Rheinland Pfalz, e ha cominciato a fare politica da giovane, quando si arrabbiò per due inceneritori che dovevano essere costruiti vicino al suo villaggio, iscrivendosi alla Spd nel 1988. A 47 anni, madre single di una bambina, la neo presidente passa la maggior parte del suo tempo a Berlino ma la sua casa è rimasta la fattoria dei bisnonni nell’Eifel dove la figlia vive e va a scuola sotto le cure di nonna Gertrud, e dove lei corre nel tempo strappato alla politica. Cattolica praticante, laureata in germanistica e filosofia a Bonn, questa donna dalle mille risorse con alle spalle due gravi incidenti, uno sportivo e uno automobilistico, ha avuto sempre chiari i suoi obiettivi, tanto che già al liceo, sul giornale della scuola, scriveva che il suo sogno era diventare «casalinga o cancelliera federale». A capo degli Jusos (i giovani socialdemocratici) nel 1995 ed eletta al Bundestag nel 1998, è stata leader della sinistra del suo partito e feroce oppositrice alle riforme di Gerhard Schröder. Segretaria generale della Spd dal 2009 al 2013, è stata ministra del lavoro nel secondo governo Merkel, e durante il suo mandato ha varato la legge sul salario minimo, la pensione a 63 anni per le donne e l’integrazione previdenziale per quelle rimaste a casa con i figli. Oggi Nahles però ha davanti la sfida più grande: guidare un partito che in 15 anni ha perso metà dei suoi voti, scendendo al 20,5 per cento, e che i sondaggi danno oggi al 17. Un’impresa non facile dimostrata anche da quel 66,3 per cento che ha permesso la sua elezione con un margine ridotto, dato che molti militanti avrebbero preferito andare all’opposizione rifiutando il sostegno alla Grosse Koalition. «Un partito può essere rinnovato anche stando al governo, ma i nostri sei ministri non potranno fare un buon lavoro se non hanno il nostro pieno sostegno», ha dichiarato Nahles al congresso che l’ha eletta, ribadendo il bi-
sogno di solidarietà «che manca di più nel mondo globalizzato, neo-liberale e iper-digitalizzato». Ma è stata la sua rivale, Simone Lange, a girare il coltello nella piaga dicendo che è difficile «rinnovare il partito essendo presidente e allo stesso tempo capogruppo», come appunto è Nahles che ha come obiettivi per il futuro nuovi posti di lavoro nelle regioni deboli, tasse alle aziende tecnologiche internazionali e un migliore sistema di assistenza sociale: un programma non facile da condividere con la Cdu nel nuovo governo Merkel. E anche se la neo presidente ha parlato della Spd come del «partito della giustizia sociale», la scommessa sulla sua presidenza si rivelerà solo alle elezioni del prossimo anno in Sassonia, Brandeburgo e Turingia che saranno il vero banco di prova. Una cosa però è certa, la sua elezione a capo della Spd è già di per sé una conquista per tutte le donne e un nuovo tassello alla scalata del potere nella politica europea dove troviamo già stabili Angela Merkel, presidente della Cdu e capo del governo tedesco da 12 anni, Theresa May, alla guida del Regno Unito nonché leader del Partito Conservatore, Katrín Jakobsdóttir, prima ministra in Islanda e leader del partito Sinistra – Movimento Verde, Kersti Kaljulaid presidente della Repubblica estone, Dalia Grybauskaitė presidente della Lituania, Viorica Dancila prima ministra rumena, Ana Brnabic alla guida della Serbia, Kolinda GrabarKitarović presidente della Croazia, fino a Beata Szydło prima ministra della Polonia e vicepresidente del partito Diritto e Giustizia. Donne a cui vale la pena di aggiungere leader di partito come la francese Marine Le Pen del Front National, o Katja Kipping che insieme a Bernd Riexinger è leader del partito tedesco di sinistra Die Linke nonché membro del Bundestag dal 2005. Donne che probabilmente aspirano a qualcosa di più, come anche forse Andrea Nahles che non nasconde il suo sogno del liceo: arrivare al 2021 conquistando il cancellierato tedesco.
Keystone
L’Spd è donna
Abbiamo fatto marce e fiaccolate, campagne contro lo stupro e lo sfruttamento delle donne. Siamo scese in piazza, abbiamo parlato nelle scuole. Le leggi sono state rafforzate e rese più dure ma, a quanto pare, non è servito a niente. Non è servito a niente perché siamo ancora qui a guardarci incredule davanti all’ennesimo orrore, che è sempre un po’ peggiore di quello precedente. L’avevamo chiamata Nirbhaya, quella che non si arrende, la studentessa di Delhi che aveva lottato contro i suoi stupratori che, per tacitarla, l’avevano uccisa. Avevamo parlato di coraggio, del coraggio di denunciare, del coraggio di essere donne. Adesso, non ci sono parole. Aveva i codini e gli occhi enormi, Asifa, e il sorriso grande di tutti i bambini. Il sorriso congelato per sempre nella foto che ci rimandano da giorni tutte le televisioni e tutti i giornali. Assieme a un’altra foto, del corpo della stessa bimba ritrovato nella foresta. Immagini tremende, che è impossibile guardare senza provare un pugno alla stomaco. E una rabbia enorme che ti monta dentro, perché pensi che Asifa aveva la stessa età di tua figlia e lo stesso sorriso innocente. Si chiamava Asifa, e aveva otto anni appena. Otto anni vissuti dentro a una comunità nomade del Kashmir indiano, otto anni trascorsi per campi e foreste aiutando i genitori a pascolare le bestie. Bestie che sono meglio, mille volte meglio degli esseri umani che Asifa ha incontrato nel bosco da cui una mattina è scomparsa per essere ritrovata poi cadavere, abbandonata come una bambola rotta. I dettagli del rapporto stilato dalla polizia sono agghiaccianti: la bimba è stata rapita, drogata e stuprata per giorni da otto uomini, tra cui un poliziotto. Uno dei gentiluomini in questione è stato perfino invitato da una città vicina per partecipare alla festa. Festa che si è tenuta dentro a un tempio induista. Quando gli otto animali si sono stancati del passatempo, hanno strangolato la bimba: e dopo l’hanno colpita in testa e sul viso con un sasso, per essere sicuri che fosse veramente morta. Sicuri che non potesse raccontare e sicuri, anche, che la morte di una pastorella appartenente a una comunità nomade musulmana era, doveva essere una piccola cosa. Anzi, la polizia sostiene che lo stupro di Asifa facesse parte di un piano per liberarsi proprio di quel-
la particolare comunità. Così, per aggiungere oltraggio all’orrore, lo stupro della piccola Asifa ha assunto una coloritura politico-religiosa e si è tramutato in una vergogna nazionale di vastissime proporzioni. Un gruppo di fanatici hindu autoproclamatisi Hindu Ekhta Manch o «Forum per l’unità hindu» hanno inscenato marce e dimostrazioni a sostegno degli stupratori, con tanto di bandiera nazionale e slogan nazionalisti. Come se quella stessa bandiera non fosse stata creata per garantire protezione a tutti i suoi cittadini, di qualunque razza e religione essi siano. Due ministri del Bjp hanno apertamente criticato l’operato della polizia, e una marmaglia di cosiddetti avvocati ha cercato di bloccare la pubblica accusa mentre si recava in tribunale. Sempre con bandiere e slogan. Una vergogna, per la bandiera e per la nazione. Ma una vergogna che si ripete ormai con allarmante frequenza nonostante Narendra Modi si ostini a ripetere: «Beti bachao, Beti padhao» (Salvate le nostre figlie, educate le nostre figlie). Il punto è che le nostre figlie dovrebbero essere salvate prima di tutto dagli appartenenti al suo partito. L’anno scorso un’altra ragazza era stata stuprata da Kuldeep Singh Sengar, esponente politico di spicco del Bjp, e da altre tre persone. La ragazza aveva denunciato, e per tutta risposta suo padre era stato picchiato dagli sgherri di Sengar e poi arrestato per aver provocato i suoi aguzzini. È morto in prigione qualche giorno fa, mentre la ragazza ha tentato di suicidarsi per protesta davanti alla casa del chief minister dell’Uttar Pradesh Yogi Adityanath. Nessuno dei ministri donna del governo di Narendra Modi ha speso una parola per le vittime, mentre la risposta di un altro esponente politico è stata: «È morta una ragazzina? Quindi? Ogni giorno muore qualche ragazzina». È desolante, e questa volta è desolante anche la cautela con cui la gente comune si rapporta a questi casi, specie a quello di Asifa: lo sdegno lascia posto a una violenza verbale e spesso anche fisica, e chi punta il dito contro l’orrore viene stigmatizzato come «anti-India/ pro Pakistan». Traditore della patria, al soldo del nemico. La bambina era musulmana, quindi. Quindi non ci sono fiaccole per Asifa, né soprannomi di coraggio e onore come Nirbhaya. Solo le voci dei media, il suo sorriso spezzato. Il silenzio e la vergogna. La nostra, e quella della bandiera indiana.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Politica e Economia
La Cina negli incubi di Trump «Made in China 2025» – 1. Varato nel 2015 da Xi, il piano prevede una profonda trasformazione
di tutta l’industria cinese, che da «fabbrica del mondo» dovrebbe arrivare ad affiancarsi a quelle più avanzate del pianeta, in particolare, quelle degli Stati Uniti, Germania, Giappone e Corea del Sud
Beniamino Natale Lo spauracchio che tormenta i sonni di Donald Trump (e di molti altri politici e imprenditori di tutto il mondo) si chiama «Made in China 2025». Varato nel 2015, il piano è articolato come una sorta di doppio piano quinquennale e prevede una profonda trasformazione di tutta l’industria cinese, che dovrebbe passare dall’essere la «fabbrica del mondo» ad affiancarsi a quelle più avanzate del pianeta, in particolare, quelle di Stati Uniti, Germania, Giappone e Corea del Sud. Questi paesi – e in minor misura altri come l’Irlanda, l’Ungheria, la Repubblica Ceca – si sono specializzati nelle produzioni ad alto valore aggiunto tecnologico che vanno dalla robotica all’informatica, ai treni ad alta velocità, ecc.
In altre parole, la Cina non solo smetterebbe di fornire al resto del mondo i prodotti dell’industria manifatturiera a costi relativamente bassi – come fa dagli anni Ottanta del secolo scorso fino ad oggi – ma non diventerebbe mai il «mercato di miliardo di consumatori» sognato dai businessmen di tutto il mondo, dato che diventerebbe autosufficiente in una serie di produzioni strategiche. Il sogno si trasformerebbe in un incubo. Alcuni paesi avanzati come quelli che abbiamo citato subirebbero un forte impatto negativo dalla concorrenza cinese e tutti gli altri perderebbero un mercato per le loro esportazioni potenzialmente più lucrose. Questo spiega almeno in parte perché la politica di guerra commerciale – o pre-guerra, se preferite – di Trump verso la Cina sta riscuotendo l’approvazione di molti commentatori che di solito non gli risparmiano le critiche, come l’americano Fareed Zakaria, che lavora per media «nemici» del presidente come il «Washington Post» e la CNN. In un commento dal significativo titolo «Trump ha ragione: la Cina imbroglia», Zakaria ha scritto: «Guardiamo all’economia cinese di oggi: è riuscita a bloccare o a contenere alcune delle compagnie tecnologiche di successo, da Google a Facebook ad Amazon. Le banche straniere devono spesso operare con partner locali che aggiungono un valore pari a zero, di fatto una tassa per le compagnie straniere. Gli industriali stranieri sono costretti a condividere la loro tecnologia con partner locali che spesso la utilizzano per confezionare prodotti simili che competono con quelli dei loro partner. E poi c’è il cybertheft», lo spionaggio informati-
AFP
La Cina è in mezzo al guado: molti prodotti «vecchi» vengono oggi da Bangladesh e Ucraina dove i salari sono bassi
co, che secondo molti analisti è ampiamente praticato dai cinesi. Scott Kennedy del Center for Strategic and International Studies (CSIS), ha sottolineato che «Made in China 2025» è «un’iniziativa per rinnovare completamente l’industria cinese», che «trae una diretta ispirazione dal piano della Germania chiamato Industry 4.0, discusso una prima volta nel 2011 e adottato nel 2013». Il piano tedesco ha al suo centro, precisa Kennedy, «la manifattura intelligente, vale a dire l’applicazione della tecnologia informatica al contesto tedesco». Il piano cinese è «molto più vasto» e coinvolge l’industria cinese nella sua interezza. «Il suo principio guida – scrive – «è quello di avere un’industria guidata dall’innovazione, in modo che possa occupare i posti più alti nella catena globale della produzione». Il piano indica dieci settori prioritari. Eccoli: 1. la nuova tecnologia informatica; 2. le macchine utensili automatizzate e la robotica; 3. l’aerospazio e componenti per l’industria aeronautica; 4. prodotti per la navigazione e il trasporto marittimo ad alta tecnologia; 5. componenti per il trasporto moderno su rotaia; 6. veicoli elettrici o che utilizzano energie alternative al petrolio; 7. prodotti per l’energia; 8. macchinari per l’agricoltura; 9. nuovi materiali; 10. biofarmacia e altri prodotti medici avanzati. Lorand Laskai, blogger e ricercatore del Council of Foreign Relations ha sottolineato come il «Made in China 2025» venga citato per 116 volte in un recente rapporto sottoposto a Trump dall’ufficio dello United States
Trade Representative della lunghezza totale di 200 pagine. Laksai ricorda che alcuni degli obiettivi centrali del piano cinese – come quello che prevede che nel 2025 alcuni dei settori avanzati dell’industria cinese come le telecomunicazioni e l’aerospazio siano autosufficienti al 70% – sono in contraddizione con le regole della World Trade Organization (WTO), alla quale la Cina ha aderito nel 2001. Inoltre, in nessun altro paese lo Stato è direttamente presente nella produzione e nelle strategie industriali come in Cina. Secondo il blogger, Pechino sta cercando di colmare il gap tecnologico che ancora la separa dall’industria avanzata occidentale con mezzi truffaldini tra cui – oltre ai veri e propri furti di tecnologia – si possono annoverare gli acquisti di imprese, o di pezzi di imprese straniere. «La crescita degli investimenti cinesi negli Usa e in Europa è stata una storia spesso riportata negli ultimi anni. Ma i legislatori sono sempre più preoccupati per questi investimenti, soprattutto nei settori ad alta tecnologia, che potrebbero non essere il frutto dell’operare delle forze di mercato, ma che potrebbero essere decisi dal governo di Pechino». Laksai cita il caso della Fujian Grand Chips, un’impresa cinese formalmente privata che era in trattative per comprare la tedesca Aixtron, produttrice di macchinari utensili ad alta tecnologia. Caso strano, proprio in quei giorni un’altra impresa cinese, anch’essa basata nella provincia del Fujan, chiamata San’an Optoelectronics, ha cancellato un massiccio ordine che in precedenza aveva assegnato
all’Aixtron. La valutazione in Borsa dell’impresa tedesca è crollata in seguito all’annullamento dell’ordine, favorendone l’acquisto da parte della Fujian Grand Chips. Entrambe le imprese in questione, aggiunge il blogger, hanno tra i loro principali proprietari un fondo di investimenti controllato dal governo di Pechino. La Cina ha indicato nella necessità di sfuggire alla cosiddetta «trappola del reddito medio» la motivazione di base del piano. Secondo gli economisti la «middle income trap» scatta quando un paese, nel passaggio dalla produzione manifatturiera ad alto contenuto di lavoro ad una più avanzata rimane bloccata ad livello intermedio perché perde il suo vantaggio nei settori «vecchi» quando non è ancora in grado di competere con le economie più sviluppate nei settori nuovi e più avanzati. È quello che è successo, affermano alcuni analisti, a paesi come l’India e il Brasile. I dirigenti cinesi hanno capito da tempo, almeno dal 2007-2008, che il periodo nel quale la Cina è cresciuta massicciamente grazie alla produzione manifatturiera ad alto contenuto di lavoro sta irrimediabilmente volgendo al termine. La Cina è in mezzo al guado: sul mercato globale, molti dei prodotti «vecchi» – per esempio quelli dell’industria tessile – vengono già oggi da paesi come il Bangladesh e l’Ucraina, dove i salari sono rimasti bassi mentre in Cina sono aumentati. Il piano di Xi Jinping ha sostituito quello elaborato dal suo predecessore Hu Jintao e dal suo esperto di economia, l’ex-premier Wen Jiabao. Il piano
della coppia Hu/Wen identificava sette settori industriali «strategici» nei quali concentrare le forze locali dell’innovazione e della trasformazione. Come abbiamo visto, l’obiettivo di Xi è molto più vasto e punta ad una trasformazione complessiva dell’industria cinese, che le permetta di sfuggire alla «trappola del reddito medio» e di competere alla pari con gli Usa, l’Europa e i paesi più avanzati dell’Asia Orientale. A ben guardare, si tratta di una fedele traduzione sul terreno dell’economia della strategia complessiva dell’«uomo forte» cinese. All’interno, Xi ha fortemente rafforzato la repressione verso tutte le forme di azione sociale e/o politica autonome dal Partito Comunista, sia che si tratti del sistema legale – con la persecuzione degli avvocati democratici – che delle minoranze etniche tibetana e uighura. Inoltre, ha intrapreso all’interno del Partito una purga colossale, che ha portato in galera o davanti al plotone di esecuzione centinaia di migliaia di funzionari di tutti i livelli. Con una serie di riforme ha eliminato tutti i limiti che negli anni precedenti erano stati posti al potere del presidente della Repubblica Popolare, che è anche segretario del Partito e capo delle forze armate. Il super-presidente ritiene probabilmente di essere ora in grado di dirigere fin nei suoi dettagli il piano di «ringiovanimento» della Cina, che dovrebbe diventare nei prossimi decenni la nuova superpotenza in sostituzione dei declinanti – nella sua percezione – Stati Uniti. Non saranno certo le regole del WTO sulla concorrenza a fermare la sua marcia. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Politica e Economia
Idlib, prossima tragedia
Siria Una escalation della guerra dopo il raid di Usa, Francia e Gran Bretagna è possibile nella roccaforte ribelle
nel nord-ovest del Paese, probabile obiettivo dell’offensiva del regime di Assad
Marcella Emiliani
Civili siriani dopo un’eplosione a Idlib. (AFP)
oltre ai 350’000 morti. L’obiettivo era raccogliere almeno 6 miliardi di dollari. Si è arrivati solo a 4,4 miliardi (3,6 miliardi di euro) con gli Stati Uniti che non hanno neanche detto quanto verseranno e se verseranno un loro contributo. D’altronde è difficile ricostruire e soccorrere quando i conflitti sono ancora in corso e si teme addirittura che ne scoppino altri. Proprio per questo sono risultati un po’ patetici gli appelli alla Russia, alla Turchia e all’Iran della Mogherini, la ministra degli Esteri dell’Unione europea, perché diano una mano a far ripartire i negoziati dell’Onu con la partecipazione sia del regime di Damasco sia delle opposizioni. I veti incrociati ormai sono tali e tanti che le Nazioni Unite, screditate come sono, difficilmente potranno venirne a capo. Nel frattempo chi ha le idee chiarissime su cosa fare è Bashar al-Assad: stanare quelli che lui chiama terroristi (che siano jihadisti radicali o semplici oppositori «ribelli») ovunque siano rimasti annidati e in primo luogo nei sobborghi della capitale. Perciò gasificata la Ghouta orientale, ha cominciato a dirigere i suoi jet e il suo esercito sui quartieri meridionali di Hajar al-Aswad, Tadamoun, Qadam e in particolare sul campo profughi palestinese di Yarmouk, che coi suoi 160’000 abitanti fino al 2011 era il più grande di tutta la Siria. Dopo l’inizio della primavera siriana vi si erano insediate diverse organizzazioni «ribelli», spesso in lotta tra loro, prima di venire cacciate dall’Isis che nel 2015 assunse il controllo del campo. Da allora Yarmouk si è progressivamente spopolato, e dalla seconda settimana di aprile, quando è diventato oggetto dei pesanti bombardamenti aerei e terrestri dell’esercito siriano che hanno fatto un centinaio di morti, sono sfollati altri 5000 palestinesi verso il quartiere di Yalda. I terroristi veri, cioè i jihadisti dell’Isis rimasti intrappolati nel campo, sarebbero un migliaio e per loro non c’è alcuna possibilità di evacuazione, ovviamente. Finito il lavoro sporco nei sobborghi meridionali di Damasco, Bashar andrà poi a riprendersi il pieno controllo dei pozzi petroliferi nel governatorato di Deir el-zor nella regione orientale del paese confinante con l’Iraq, da cui l’Isis traeva gran parte dei suoi profitti, e andrà a rafforzare la presenza del suo esercito a Manbij nel Kurdistan siriano (Rojava) orientale, Turchia permettendo. Dopo la conquista turca di Afrin del 18 marzo scorso, l’offensiva su Manbij è decisamente rallentata. Si è saputo di telefonate piuttosto nervose tra Erdoğan e Trump sull’operazione Ramoscello d’Olivo che dovrebbe portare la Turchia a controllare tutta la regione settentrionale curda della Siria
(il Rojava). Nel frattempo gli Stati Uniti hanno cominciato a costruire altre due postazioni militari a Manbij in località al-Dadat in primo luogo per portare a termine la lotta all’Isis che rimane la loro priorità assoluta in Siria; in secondo luogo per «restaurare» almeno in parte la loro reputazione presso i curdi che si sono sentiti traditi dagli Usa quando – dopo averli usati come carne da cannone nella lotta al Daesh – non li hanno difesi dall’offensiva turca su Afrin. Ricordiamo che a dar man forte
Russia, la maggior parte dei «ribelli» rimasti vivi, in patria e operativi. Qui Bashar arriverà a fare piazza pulita dei suoi oppositori, terroristi veri come quelli di Hayat Tahrir al Sham, Organizzazione per la liberazione del Levante (ex Fronte al-Nusra, creatura di al-Qaeda) o immaginari, in tutti i casi sunniti che tenterà di sostituire con cristiani, sciiti duodecimani o alauiti come lui. Ma proprio perché sono sunniti, potrebbe suscitare le ire di Erdoğan che nella sua megalomania ottomana si considera un sultano sunnita. Per la cronaca la Turchia nella provincia di Idlib si è enormemente rafforzata e ha cominciato a favorire l’alleanza se non la fusione di gruppi di «ribelli» sunniti islamisti radicali del tipo Fronte per la liberazione della Siria (Jabhat Tahrir Suriya), ostile tanto al regime di Damasco quanto alla jihadista Organizzazione per la liberazione del Levante. Detto in altre parole, pur di sbarazzarsi di Bashar al-Assad, Erdoğan ha ricominciato a finanziare e a favorire gruppi islamisti radicali come nel 2011-2012 finanziava e favoriva l’Isis con lo stesso fine. Non è un caso che alla Conferenza dei paesi donatori della Siria di Bruxelles il 24 aprile scorso, l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi, ha già lanciato l’allarme per Idlib, dove potrebbe verificarsi a breve un’altra gravissima catastrofe umanitaria. Annuncio pubblicitario
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Dopo la pioggia di missili americani, inglesi e francesi che il 14 aprile scorso ha ammonito Bashar al-Assad a non fare mai più uso di armi di distruzione di massa contro i suoi concittadini, la comunità internazionale ha cominciato a mobilitarsi per tentare di «fare qualcosa» a favore della Siria. «Fare qualcosa» è una brutta allocuzione, ma è difficile trovarne una più decente e precisa. A livello di interventi armati, vista la situazione sul terreno e la preoccupazione generale di non innescare altri conflitti, l’Occidente si ritiene soddisfatto della piedigrotta del 14 aprile quando Usa, Gran Bretagna e Francia hanno distrutto gli impianti che producevano ancora bombe al cloro o al gas nervino, dopo aver avvisato la Russia di quanto stavano per fare. Con una frase a dir poco infelice – visti i precedenti dell’Operazione Iraqi Freedom di George Bush Jr. nel 2003 – il presidente Trump ha poi ritenuto di commentare l’impresa con un bel: «Missione compiuta!», ma di compiuto in Siria c’era e c’è ben poco dal punto di vista americano. Non è affatto chiaro infatti se gli Stati Uniti intendano rimanere in Siria con i 2000 effettivi delle loro truppe speciali oggi stanziate a Manbij nel Kurdistan siriano dove rischiano di entrare in rotta di collisione con l’esercito turco che avanza verso est dopo la conquista di Afrin avvenuta il 18 marzo scorso con l’aiuto del Libero Esercito di Siria. E a rendere ancor più enigmatiche le mosse americane verso la Siria ci sono le sorti dell’Accordo sul nucleare iraniano (il Piano d’azione congiunto globale, in inglese Joint Comprehensive Plan of Action, acronimo Jcpoa) che Trump intende modificare profondamente se non abrogare il prossimo 12 maggio con estrema irritazione di Teheran che minaccia addirittura di uscire dall’Accordo, mentre l’Unione europea, la Cina e la Russia non perdono occasione per esprimere la loro preoccupazione. L’unico fuori dal coro dei Grandi è il presidente francese Macron che, nella sua visita a Washington del 24 e 25 aprile, ha approvato l’intenzione di Trump di metter mano al Jcpoa senza considerare, al pari del suo omologo statunitense, le gravi conseguenze che potrebbero derivare dal mancato rispetto dell’Accordo medesimo da parte di due dei 5+1 firmatari che lo hanno sottoscritto nel 2015 (cioè Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia più la Germania). Non a caso questa settimana a trovare Trump arriva alla Casa Bianca anche Angela Merkel. Toccare anche solo un articolo del Jcpoa, che secondo l’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) dal 2015 ad oggi è stato pienamente rispettato dall’Iran, o tornare ad imporre sanzioni all’Iran, avrà infatti pesanti conseguenze per l’intero Medio Oriente ma soprattutto per la Siria e l’Iraq che – purtroppo per loro – dipendono da Teheran per la loro stabilità. E potrebbe avere conseguenze nefaste anche nel già tesissimo rapporto tra Iran e Israele, entrambi attori regionali di prima grandezza che nessuno oggi può controllare sulla scena internazionale. Detto ciò, il «qualcosa» realizzato nel frattempo per la Siria è stata la Conferenza internazionale dei paesi donatori che si è chiusa a Bruxelles il 25 aprile con un risultato ancora una volta ambiguo e deludente. Si parlava sostanzialmente di aiuti alla ricostruzione, ai 5 milioni di profughi siriani (praticamente un quarto della popolazione) e ai 6,1 milioni di sfollati interni, tutti prodotti dalla guerra multipla che si combatte da 7 anni a questa parte,
contro la Turchia alle Unità di difesa del popolo curdo (Ypg) è stato l’esercito di Assad che è alleato della Turchia di Erdoğan. Nonostante si combattano, nel Kurdistan Ankara e Damasco hanno comunque un interesse in comune. Mirano infatti entrambi a sostituire quote il più possibile numerose di popolazione a loro ostile. Erdoğan vuole sbarazzarsi dei curdi siriani che ritiene terroristi perché le Unità di difesa del popolo curdo sono state addestrate e hanno accolto tra le loro fila militanti del Pkk, Partito del popolo curdo, fuorilegge in Turchia. Non li vuole soprattutto sul suo confine orientale perché potrebbero dare man forte ai curdi di casa sua. E per rendere pienamente operativa l’epurazione etnica nel Rojava, Erdoğan ha già cominciato a «importare» nella zona di Al Bab, che aveva conquistato nel 2016, migliaia di quei tre milioni di profughi siriani che ospita nel suo Paese. L’unico criterio con cui li sceglie per il rimpatrio è che non siano curdi: van bene turkmeni, circassi, arabi, ma non curdi. E la stessa cosa farà ad Afrin appena l’avrà stabilizzata, a Manbij appena l’avrà conquistata (se Trump non lo fermerà) e nel governatorato (provincia) di Idlib. Ma proprio a Idlib i disegni perversi di Erdoğan e Assad potrebbero entrare in rotta di collisione. A Idlib si è concentrata ed è stata dirottata, con accordi in genere negoziati dalla
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Politica e Economia
Politica e Economia
Hupac, da Chiasso al mondo per le sue soluzioni innovative nell’ambito dei trasporti delle merci su ferrovia
Come ridurre il livello dei prezzi in Svizzera
Simona Sala
che i prezzi all’importazione sono maggiorati da fornitori esteri rispetto ad altri paesi
Trasporti A colloquio con Beni Kunz, CEO dell’azienda chiassese HUPAC, considerata pionieristica
Import-Export Un’iniziativa critica il fatto
Quello della mobilità, che rappresenta un perno attorno a cui ruota la nostra società, è un settore in continua evoluzione. In termini di sicurezza, velocità e concorrenzialità le aspettative sono molto alte, mentre crescono costantemente anche i volumi di traffico. Dopo l’inaugurazione di AlpTransit, non ci sono stati solo momenti positivi, è infatti delle ultime settimane la notizia secondo cui SBB Cargo si troverebbe in una grave impasse economica che ha messo a repentaglio centinaia di posti di lavoro, mentre il Brennero e il San Bernardino lamentano un aumento dei transiti dei mezzi pesanti dopo l’apertura della Galleria di base del Gottardo. Da oltre mezzo secolo Hupac, azienda nata e cresciuta in territorio ticinese, gioca un ruolo da protagonista nelle scelte politiche, progettuali e strategiche della mobilità delle merci. Essa è infatti l’interlocutore fidato di politici, imprenditori, ambientalisti e iniziativisti, ed è riuscita così a creare delle fruttuose sinergie tra settore pubblico e settore privato.
Ignazio Bonoli
1964: per la prima volta Hans Bärtschi affida alla ferrovia il trasporto di un camion attraverso il Gottardo.
Grazie all’entusiasmo di Adolf Ogi l’Europa si convinse della bontà del nostro sistema ferroviario Abbiamo incontrato Beni Kunz, classe 1957, CEO dell’azienda chiassese, che grazie alle sue invidiabili doti di mediatore, comunicatore, ma anche osservatore, pur rimanendo discretamente dietro alle quinte di diplomazia e politica, ha avuto un insospettabile peso specifico nella storia recente svizzera, europea ed internazionale, del trasporto delle merci.
La gru a portale del terminale di Busto Arsizio-Gallarate intenta a sollevare un semirimorchio.
Signor Kunz, dove si situa Hupac nel panorama svizzero e internazionale?
Per raccontare la storia di Hupac, credo sia importante partire proprio dagli inizi della storia dell’azienda, da quel 1967 in cui i ticinesi Pietro Ris, Sandro Bernasconi, Franz Hegner, Jacky Maeder e Hans Bertschi insieme alle ferrovie svizzere ebbero l’idea di trasferire i camion sulla ferrovia, creando la Hupac. A quel tempo l’esigenza del trasferimento non era di natura ambientale, ma meteorologica: le gallerie non esistevano ancora e quando nevicava si doveva passare dal Brennero o da Modane, allungando così la strada di 300 chilometri. Un sistema di trasporto dei camion su ferrovia esisteva già negli Stati Uniti, veniva chiamato «piggyback». Il nome Hupac deriva da «Huckepackverkehr». Se consideriamo che la politica europea cominciò a parlare di trasferimento negli anni 90, i fondatori di Hupac erano avanti di trent’anni rispetto alla loro epoca. Le FFS sostennero da subito il progetto di Hupac?
Certo, anche perché senza le FFS sarebbe stato impossibile partire, nonostante avessimo già i volumi necessari di merce. All’inizio ci furono molte resistenze, la collaborazione tra la strada, che rappresentava la concorrenza, e i binari era considerata un tradimento: il detto era, «Mai andare a letto con il diavolo». Fu Franz Hegner, primo direttore generale delle FFS, e già nel consiglio Hupac, a mettere pace tra le due parti, e questa sinergia fa ormai parte della nostra cultura da cinquant’anni. E la politica quale ruolo ha avuto in questo scenario?
Il primo consigliere federale che si
Beni Kunz è il CEO di Hupac.
impegnò per un ulteriore sviluppo del traffico intermodale fu Adolf Ogi. Un giorno, eravamo all’inizio degli anni 90, ci telefonò annunciando che sarebbe venuto a Chiasso per farsi spiegare il nostro lavoro poiché, per dirla con le sue parole, doveva «vendere il sistema combinato alla commissione europea». Con il pragmatismo che gli era congeniale nel 1992 convinse la Commissione europea della bontà del nostro sistema ferroviario. Ogi invitò molti ministri europei a vedere con i propri occhi la limitatezza del nostro sistema stradale, soprattutto a ridosso del Gottardo. Per rendere fino in fondo l’idea offriva agli ospiti dei cosiddetti «tour didattici di convincimento» in elicottero, durante i quali sorvolava Göschenen, località in cui spesso ci chiedeva di attenderlo con un paio di bilici e di vagoni. Quando nel 1992 nacque l’idea della Galleria di base noi eravamo nel settore già da 25 anni. A quel tempo oltre a noi in Svizzera c’era Intercontainer, di cui erano socie tutte le ferrovie europee. Pur collaborando con la politica, Hupac si è spesso mossa con le proprie gambe, investendo all’estero e affidandosi alle proprie visioni. Quali sono state le maggiori difficoltà?
La Hupac è cresciuta costantemente,
diventando il più grosso operatore internazionale. Grazie alla sua politica di investimento, oggi la Hupac dispone di più di 5500 vagoni propri, per un valore che raggiunge il mezzo miliardo di franchi. Nel 2008 abbiamo aperto degli uffici in Russia e nel 2015 a Shanghai, poiché la Cina ha deciso di sfruttare la via della Seta per raggiungere i mercati europei via terra. Un grosso problema sono state le dimensioni dei binari: in Cina hanno le stesse dimensioni di quelli europei, ma poi dal Kazakistan fino alla Polonia, passando per la Russia, i binari sono più larghi. Questo è un retaggio della Seconda guerra mondiale: le dimensioni dei binari venivano cambiate per ostacolare le invasioni. Un problema simile è dato dall’elettricità, che a livello europeo non è ancora standardizzata: una locomotiva che dalla Germania viaggia verso l’Italia ha tre sistemi elettrici diversi. Vi sono poi i macchinisti, che per legge devono parlare più di una lingua… L’anno scorso,
quando crollò la galleria a Rastatt, e restammo bloccati per settimane, avevamo un’alternativa via Francia, ma non abbastanza macchinisti tedeschi che parlassero il francese, come previsto dalla Comunità europea. Proponemmo l’impiego di macchinisti tedeschi nel sistema di controllo francese, ma fummo bloccati politicamente. La commissione europea deve capire che se non si comincia a dare priorità alle soluzioni pragmatiche, il sistema del traffico europeo può andare in tilt da un momento all’altro.
In Svizzera gli anni Novanta furono contraddistinti da importanti plebisciti popolari, in cui il popolo prese decisioni coraggiose rispetto alla gestione del traffico… quale fu il vostro ruolo?
Negli Anni novanta ci furono molte votazioni sul traffico, nonché l’Iniziativa delle Alpi, e tutte dimostrarono come il popolo svizzero fosse a favore di questo tipo di trasferimento. Hupac
ebbe un ruolo attivo a Berna, dove fu coinvolta in molti processi decisionali dalla commissione dei trasporti. Il dialogo tra Hupac e la politica è sempre stato serrato, dapprima con Adolf Ogi, poi con Moritz Leuenberger e ora con Doris Leuthard. I ministri ci consultano spesso poiché, grazie ai nostri cento azionisti, che sono i più grossi trasportatori d’Europa, abbiamo modo di sondare l’opinione del mercato.
Hupac è nata a Chiasso, ma contrariamente ad altre importanti aziende presenti sul territorio, è proprio in questa regione che sembra volere restare…
Noi siamo cresciuti qui e il nostro mercato numero uno è l’Italia, la cui vicinanza ci è servita per crescere. Da Chiasso Hupac non controlla solamente il mercato italiano, ma il mondo intero. Eppure, nonostante questa dimensione globale, non abbiamo mai dimenticato il concetto di responsabilità sociale, che io stesso ho ereditato
dal mio predecessore Theo Allemann. La responsabilità sociale si traduce in molti modi, ad esempio nel desiderio di integrare i giovani nell’azienda, o nella creazione di corsi interni per gli apprendisti. Per Hupac i giovani sono il valore più importante, consapevolezza che ha portato anche alla creazione (in collaborazione con il Basket di Vacallo e altri partner) dell’associazione «Talento nella Vita». Anche se siamo un’azienda globale, il nostro cuore è locale. Sono orgoglioso di fare parte di questa azienda e ci tengo a ricordare sempre la cultura dei soci fondatori: Sandro Bernasconi ad esempio, partecipava alle riunioni in tuta blu, le mani sporche di olio perché aveva appena finito di caricare i camion e mettere le catene… ed è questo l’esempio che deve passare alla prossima generazione. I nostri soci fondatori entrarono in affari non per fare i miliardi, ma per creare un sistema sostenibile, per crescere e garantire i posti di lavoro e reinvestire i soldi. Queste sono le nostre radici e i nostri valori e non abbiamo intenzione di metterli in discussione. Qualità svizzere come la puntualità, la precisione, l’affidabilità e magari anche un briciolo di follia visionaria, hanno ancora valore sul tavolo delle trattative?
Il progetto AlpTransit è stimato a livello mondiale e ha fatto il giro del mondo. Se si pensa a grandi progetti arenati o falliti in contemporanea ad AlpTransit, come l’aeroporto di Berlino, costato il triplo del previsto e ancora chiuso, il disastro della stazione di Stoccarda o, appunto, il crollo della galleria di Rastatt, ci si rende conto di quanto sia eccezionale la Galleria di base. Accompagnando delle delegazioni in diverse ambasciate del mondo ho potuto constatare come la «Swiss precision» sia ancora oggi un marchio fantastico. Grazie ad AlpTransit la Svizzera ha creato un trend nella logistica europea. Signor Kunz, ci spiega meglio la disposizione dei cosiddetti terminali intermodali, ossia le enormi piazze addette al carico e allo scarico di merce?
Nel 1990, nell’ambito del progetto NFTA, il direttore FFS Benedikt Weibel (a sin.) e l’allora consigliere federale Adolf Ogi visitano il terminal di Busto Arsizio.
La nascita dei terminali rappresenta un ottimo esempio della collaborazione tra governo svizzero e mercato. Il terminale di Busto Arsizio ad esempio è nato su iniziativa svizzera di Hupac. Dopo un periodo iniziale a Milano, negli anni Settanta la Hupac si trasferì al vecchio scalo di Busto Arsizio. Le cose andarono bene finché il traffico non cominciò a lievitare, allora Busto Arsizio ci propose l’acquisto di un terreno di 120’000 metri quadrati. Il governo svizzero ci diede il suo sostegno, anche perché, se è vero che la Svizzera vuole il traffico su ferrovia, è giusto che il traffico di transito venga caricato e scaricato nei luoghi di origine e destinazione e non in Svizzera che rappresenta solo un’area di transito.
Ormai anche il terminale di Busto Arsizio ha raggiunto i propri limiti di capacità, per cui con il governo svizzero stiamo costruendo i terminali di Milano, Brescia e Piacenza. In cambio della costruzione a nostre spese dei tre terminali, dall’Italia abbiamo ottenuto il permesso di potenziare la linea ferroviaria di Luino (ristrutturata a nostre spese), che è quella più diretta per Busto Arsizio. È stata una lotta da entrambe le parti della frontiera: inizialmente infatti anche i nostri politici erano contrari a spendere 120 milioni di franchi per la ristrutturazione di una linea italiana. A quel punto cominciai anch’io, in rappresentanza di Hupac, ad organizzare dei «tour didattici» con parlamentari svizzeri e italiani, durante i quali spiegavo le nostre necessità, senza mai perdere di vista l’obiettivo ultimo, che è il trasferimento! Il tanto agognato accordo con l’Italia c’è dunque finalmente stato?
All’assemblea di Lugano del 2012, cui ha partecipato anche Mauro Moretti, amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, abbiamo firmato un accordo che è la base per il collegamento AlpTransit Gottardo-Chiasso, nonché per la tratta di Luino. Sono tre gli elementi che hanno portato a una collaborazione ottimale in ambito ferroviario: prima di tutto c’è stato un accordo bilaterale tra Hupac e FS con l’investimento e la progettazione dei nuovi terminali. Nel 2011 vi è poi stato l’accordo dei Castelli tra Andreas Meyer e Mauro Moretti, che prevede l’accesso ad AlpTransit da parte della rete italiana via Chiasso, Luino e Domodossola. Infine non va dimenticato l’accordo ministeriale tra i ministri Passera-Lupi-Delrio e Doris Leuthard a livello di trasferimento. La collaborazione tra Svizzera e Italia non è mai stata tanto trasparente come oggi. Questo accordo rappresenta la base del milione di camion che trasportiamo sulla ferrovia ogni anno.
«Sono soddisfatto perché penso di avere fatto qualcosa per l’ambiente e per le prossime generazioni» Un milione di camion attraversa la Svizzera su rotaia, eppure siamo ancora lontani dall’obiettivo dell’Iniziativa delle Alpi, che chiede una riduzione dei transiti autostradali a 650’000 camion all’anno.
Attualmente il numero dei camion che transitano in strada ogni anno è inferiore al milione. Sarà però difficile migliorare la situazione finché non si risolve il problema del profilo dei quattro metri. Nel 2012 ci eravamo infatti resi conto che la Svizzera aveva investito 20 miliardi nella costruzione di una galleria alta quattro metri,
come quelle autostradali, sebbene le linee dei portali nord e sud fossero alte solamente 3,80 m. In questo modo, una volta conclusa AlpTransit, si sarebbero potuti trasportare i container ma non i bilici! Noi della Hupac iniziammo a fare lobby con diverse associazioni, tra cui anche l’Iniziativa delle Alpi e organizzammo una conferenza stampa a Zurigo per spiegare la necessità di un ulteriore investimento per adeguarci ai quattro metri di altezza. Due consiglieri nazionali presentarono una mozione nel giro di due mesi e il parlamento si espresse a favore dei quattro metri. I lavori di adeguamento termineranno nel 2020: forse non scenderemo mai a 650’000 passaggi, ma saremo almeno in possesso degli strumenti per provarci. La consigliera federale Doris Leuthard è stata determinante nello scioglimento dell’annosa empasse creatasi fra Svizzera e Italia, dimostrando sensibilità verso il tema del trasferimento. Dall’altra parte però ha fatto anche un’importante campagna politica per il raddoppio del Gottardo. Hupac non l’ha percepita come una contraddizione?
Io il raddoppio lo vedo come una questione di sicurezza. Esso non minaccia il trasferimento per la semplice ragione che la ferrovia è ormai un elemento stabile nel mix logistico delle imprese. Se diamo il via libera al traffico tra Göschenen e Airolo, lo ritroveremo tra Chiasso e Melide e credo che politicamente questo sia impossibile. La legge prevede una sola corsia per ogni direzione, se si intende cambiare occorre una nuova votazione. Noi non temiamo il raddoppio del Gottardo, anche perché statisticamente negli ultimi anni siamo cresciuti, mentre l’attrattività della strada è in costante calo. Vi è inoltre un altro problema da non sottovalutare legato al trasporto su strada: in Europa mancano circa 220’000 camionisti. Ogni anno ne vanno in pensione circa 80’000, ma a sostituirli ce ne sono al massimo 20’000. Quello del camionista non è più un lavoro così interessante poiché gli autisti perdono più tempo in coda che in viaggio.
Negli ultimi tempi, l’euro ha recuperato parecchio terreno sul franco svizzero e, a metà aprile, si era ormai assestato a quegli 1,20 franchi che la Banca Nazionale aveva posto come limite al rafforzamento del franco. Torniamo quindi alla situazione di partenza, che la Svizzera ritiene normale nei rapporti con l’euro. Gli effetti di questo rafforzamento dell’euro o (visto dall’altra parte) indebolimento del franco sono noti: le esportazioni svizzere costano meno, le importazioni un po’ di più, le nostre vacanze all’estero sono un po’ più care e il cosiddetto «turismo degli acquisti», dei consumatori svizzeri nei paesi confinanti, dovrebbe rallentare.
È stata consegnata nel dicembre 2017, ha raccolto oltre 100’000 firme e sarà messa in votazione popolare Il tasso di cambio è però solo una delle componenti dei prezzi dell’import-export. E, infatti, con qualche sacrificio, l’economia svizzera è riuscita a difendersi bene anche con un euro molto più debole del franco. In particolare, l’evoluzione del tasso di cambio non sembra avere effetti duraturi sul livello dei prezzi in Svizzera. In altri termini, la Svizzera, pur essendo molto integrata all’Europa sul piano economico, rimane sempre la celebre «Isola dai prezzi alti». Un tema che appare con una certa regolarità anche nei discorsi politici. Nessuno sembra però disposto ad affrontare di petto questa situazione. In fondo, se in Svizzera i prezzi sono alti è perché i salari (e altre remunerazioni) sono alti, o anche viceversa. Vi sono anche altre cause endogene che possono spiegare questa situazione: per esempio le regole strette per la costruzione, in particolare di case d’abitazione, la rarità del terreno edificabile o anche gli alti prezzi dei prodotti agricoli. Non a caso le differenze di prezzo rispetto all’UE sono evidenti anche nei settori pubblici o parapubblici: l’educazione e la formazione, la salute. Accanto ai citati prodotti agricoli e dell’edilizia, i prezzi in Svizzera vanno dall’80 al 120% di quelli medi dell’UE. Una situazione che provoca anche un fenomeno particolare: i prezzi di beni importati sono più alti in Svizzera che in altri paesi. Questa situazione è all’origine dell’iniziativa inoltrata nel dicembre 2017, munita di 107’889 firme valide, per cui dovrebbe andare prossimamente in votazione popolare.
Il titolo dell’iniziativa è molto ambizioso: «Stop all’isola dei prezzi elevati – per prezzi equi», detta semplicemente «Iniziativa per prezzi equi» In realtà, in Svizzera, gli strumenti per contrastare il fenomeno non sono molti. Finora la sorveglianza dei prezzi si limitava alle grandi intese cartellistiche che possono dominare il mercato. L’iniziativa vuole estendere questa possibilità introducendo il concetto di «imprese che hanno una posizione dominante relativa». Se il concetto di «posizione dominante» in assoluto è già difficile da tradurre in provvedimenti legislativi, quello di «posizione dominante relativa» lo è quasi di più. Si tratta in sostanza di valutare questa posizione relativa, per poi applicare divieti quali ingiustificati rifiuti di fornire prodotti o discriminazioni sui prezzi. Il concetto va anche qui applicato soltanto nei confronti di rapporti fra aziende e non fra queste e il consumatore finale. Relativamente dominante diventa quindi un’azienda fornitrice o anche acquirente che non lascia possibili alternative al partner contrattuale. Inoltre, l’iniziativa chiede una disposizione che garantisca l’acquisto senza discriminazioni nel settore del commercio elettronico. Il governo si è occupato recentemente della questione, ma non ha ancora deciso quale posizione prendere. Il Dipartimento dell’economia (competente nella questione) vorrebbe proporre alle Camere di respingere l’iniziativa, senza controprogetto. Altri vorrebbero però una legge quale controprogetto. Come detto, non è facile trovare una definizione corretta di «dominanza relativa» e tentativi già fatti in passato contro fornitori ritenuti troppo cari non sarebbero più contemplati nell’iniziativa. I più critici vedono il pericolo di provocare incertezze nel diritto e per finire colpire più aziende fornitrici svizzere che estere. La classica «zappa sul piede»? Probabile, poiché l’iniziativa sembra avere aspetti popolari in un settore spesso criticato, non solo, ma la mancanza di un controprogetto potrebbe fornire altre spaccature in un settore industriale che vede spesso i grandi contro i piccoli. I simpatizzanti credono nell’effetto di segnale all’economia e in una riduzione degli svantaggi concorrenziali delle piccole e medie imprese svizzere. La riduzione del tasso di cambio del franco sull’euro ha comunque lasciato parecchi settori ancora con grandi differenze di prezzo con l’estero. L’iniziativa era stata voluta anche come mezzo di pressione a favore di un postulato di Hans Altherr, attualmente in discussione al Consiglio degli Stati, e che potrebbe fornire le basi per un controprogetto delle Camere federali.
Personalmente quali sono le sue sfide attuali, Beni Kunz?
In azienda siamo nel bel mezzo di un cambiamento generazionale, in agosto lascerò Hupac Intermodal, pur restando come CEO del Gruppo Hupac. Sarò sostituito dall’attuale direttore di SBB Cargo International, Michail Stahlhut. Il passaggio delle consegne durerà tre anni, come accadde con Allemann, secondo il motto «continuità e accompagnamento». A quel punto è previsto che entrerò a far parte del Consiglio di amministrazione. Il mio hobby sarà ancora quello di seguire i giovani, lavoro che mi entusiasma perché ha un senso importante. Personalmente sono felice di avere fatto qualcosa per l’ambiente e per le prossime generazioni.
Una questione «pesante» a cui il Governo non intende per ora opporre alcun controprogetto. (prezzi-equi.ch)
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Politica e Economia
Politica e Economia
Hupac, da Chiasso al mondo per le sue soluzioni innovative nell’ambito dei trasporti delle merci su ferrovia
Come ridurre il livello dei prezzi in Svizzera
Simona Sala
che i prezzi all’importazione sono maggiorati da fornitori esteri rispetto ad altri paesi
Trasporti A colloquio con Beni Kunz, CEO dell’azienda chiassese HUPAC, considerata pionieristica
Import-Export Un’iniziativa critica il fatto
Quello della mobilità, che rappresenta un perno attorno a cui ruota la nostra società, è un settore in continua evoluzione. In termini di sicurezza, velocità e concorrenzialità le aspettative sono molto alte, mentre crescono costantemente anche i volumi di traffico. Dopo l’inaugurazione di AlpTransit, non ci sono stati solo momenti positivi, è infatti delle ultime settimane la notizia secondo cui SBB Cargo si troverebbe in una grave impasse economica che ha messo a repentaglio centinaia di posti di lavoro, mentre il Brennero e il San Bernardino lamentano un aumento dei transiti dei mezzi pesanti dopo l’apertura della Galleria di base del Gottardo. Da oltre mezzo secolo Hupac, azienda nata e cresciuta in territorio ticinese, gioca un ruolo da protagonista nelle scelte politiche, progettuali e strategiche della mobilità delle merci. Essa è infatti l’interlocutore fidato di politici, imprenditori, ambientalisti e iniziativisti, ed è riuscita così a creare delle fruttuose sinergie tra settore pubblico e settore privato.
Ignazio Bonoli
1964: per la prima volta Hans Bärtschi affida alla ferrovia il trasporto di un camion attraverso il Gottardo.
Grazie all’entusiasmo di Adolf Ogi l’Europa si convinse della bontà del nostro sistema ferroviario Abbiamo incontrato Beni Kunz, classe 1957, CEO dell’azienda chiassese, che grazie alle sue invidiabili doti di mediatore, comunicatore, ma anche osservatore, pur rimanendo discretamente dietro alle quinte di diplomazia e politica, ha avuto un insospettabile peso specifico nella storia recente svizzera, europea ed internazionale, del trasporto delle merci.
La gru a portale del terminale di Busto Arsizio-Gallarate intenta a sollevare un semirimorchio.
Signor Kunz, dove si situa Hupac nel panorama svizzero e internazionale?
Per raccontare la storia di Hupac, credo sia importante partire proprio dagli inizi della storia dell’azienda, da quel 1967 in cui i ticinesi Pietro Ris, Sandro Bernasconi, Franz Hegner, Jacky Maeder e Hans Bertschi insieme alle ferrovie svizzere ebbero l’idea di trasferire i camion sulla ferrovia, creando la Hupac. A quel tempo l’esigenza del trasferimento non era di natura ambientale, ma meteorologica: le gallerie non esistevano ancora e quando nevicava si doveva passare dal Brennero o da Modane, allungando così la strada di 300 chilometri. Un sistema di trasporto dei camion su ferrovia esisteva già negli Stati Uniti, veniva chiamato «piggyback». Il nome Hupac deriva da «Huckepackverkehr». Se consideriamo che la politica europea cominciò a parlare di trasferimento negli anni 90, i fondatori di Hupac erano avanti di trent’anni rispetto alla loro epoca. Le FFS sostennero da subito il progetto di Hupac?
Certo, anche perché senza le FFS sarebbe stato impossibile partire, nonostante avessimo già i volumi necessari di merce. All’inizio ci furono molte resistenze, la collaborazione tra la strada, che rappresentava la concorrenza, e i binari era considerata un tradimento: il detto era, «Mai andare a letto con il diavolo». Fu Franz Hegner, primo direttore generale delle FFS, e già nel consiglio Hupac, a mettere pace tra le due parti, e questa sinergia fa ormai parte della nostra cultura da cinquant’anni. E la politica quale ruolo ha avuto in questo scenario?
Il primo consigliere federale che si
Beni Kunz è il CEO di Hupac.
impegnò per un ulteriore sviluppo del traffico intermodale fu Adolf Ogi. Un giorno, eravamo all’inizio degli anni 90, ci telefonò annunciando che sarebbe venuto a Chiasso per farsi spiegare il nostro lavoro poiché, per dirla con le sue parole, doveva «vendere il sistema combinato alla commissione europea». Con il pragmatismo che gli era congeniale nel 1992 convinse la Commissione europea della bontà del nostro sistema ferroviario. Ogi invitò molti ministri europei a vedere con i propri occhi la limitatezza del nostro sistema stradale, soprattutto a ridosso del Gottardo. Per rendere fino in fondo l’idea offriva agli ospiti dei cosiddetti «tour didattici di convincimento» in elicottero, durante i quali sorvolava Göschenen, località in cui spesso ci chiedeva di attenderlo con un paio di bilici e di vagoni. Quando nel 1992 nacque l’idea della Galleria di base noi eravamo nel settore già da 25 anni. A quel tempo oltre a noi in Svizzera c’era Intercontainer, di cui erano socie tutte le ferrovie europee. Pur collaborando con la politica, Hupac si è spesso mossa con le proprie gambe, investendo all’estero e affidandosi alle proprie visioni. Quali sono state le maggiori difficoltà?
La Hupac è cresciuta costantemente,
diventando il più grosso operatore internazionale. Grazie alla sua politica di investimento, oggi la Hupac dispone di più di 5500 vagoni propri, per un valore che raggiunge il mezzo miliardo di franchi. Nel 2008 abbiamo aperto degli uffici in Russia e nel 2015 a Shanghai, poiché la Cina ha deciso di sfruttare la via della Seta per raggiungere i mercati europei via terra. Un grosso problema sono state le dimensioni dei binari: in Cina hanno le stesse dimensioni di quelli europei, ma poi dal Kazakistan fino alla Polonia, passando per la Russia, i binari sono più larghi. Questo è un retaggio della Seconda guerra mondiale: le dimensioni dei binari venivano cambiate per ostacolare le invasioni. Un problema simile è dato dall’elettricità, che a livello europeo non è ancora standardizzata: una locomotiva che dalla Germania viaggia verso l’Italia ha tre sistemi elettrici diversi. Vi sono poi i macchinisti, che per legge devono parlare più di una lingua… L’anno scorso,
quando crollò la galleria a Rastatt, e restammo bloccati per settimane, avevamo un’alternativa via Francia, ma non abbastanza macchinisti tedeschi che parlassero il francese, come previsto dalla Comunità europea. Proponemmo l’impiego di macchinisti tedeschi nel sistema di controllo francese, ma fummo bloccati politicamente. La commissione europea deve capire che se non si comincia a dare priorità alle soluzioni pragmatiche, il sistema del traffico europeo può andare in tilt da un momento all’altro.
In Svizzera gli anni Novanta furono contraddistinti da importanti plebisciti popolari, in cui il popolo prese decisioni coraggiose rispetto alla gestione del traffico… quale fu il vostro ruolo?
Negli Anni novanta ci furono molte votazioni sul traffico, nonché l’Iniziativa delle Alpi, e tutte dimostrarono come il popolo svizzero fosse a favore di questo tipo di trasferimento. Hupac
ebbe un ruolo attivo a Berna, dove fu coinvolta in molti processi decisionali dalla commissione dei trasporti. Il dialogo tra Hupac e la politica è sempre stato serrato, dapprima con Adolf Ogi, poi con Moritz Leuenberger e ora con Doris Leuthard. I ministri ci consultano spesso poiché, grazie ai nostri cento azionisti, che sono i più grossi trasportatori d’Europa, abbiamo modo di sondare l’opinione del mercato.
Hupac è nata a Chiasso, ma contrariamente ad altre importanti aziende presenti sul territorio, è proprio in questa regione che sembra volere restare…
Noi siamo cresciuti qui e il nostro mercato numero uno è l’Italia, la cui vicinanza ci è servita per crescere. Da Chiasso Hupac non controlla solamente il mercato italiano, ma il mondo intero. Eppure, nonostante questa dimensione globale, non abbiamo mai dimenticato il concetto di responsabilità sociale, che io stesso ho ereditato
dal mio predecessore Theo Allemann. La responsabilità sociale si traduce in molti modi, ad esempio nel desiderio di integrare i giovani nell’azienda, o nella creazione di corsi interni per gli apprendisti. Per Hupac i giovani sono il valore più importante, consapevolezza che ha portato anche alla creazione (in collaborazione con il Basket di Vacallo e altri partner) dell’associazione «Talento nella Vita». Anche se siamo un’azienda globale, il nostro cuore è locale. Sono orgoglioso di fare parte di questa azienda e ci tengo a ricordare sempre la cultura dei soci fondatori: Sandro Bernasconi ad esempio, partecipava alle riunioni in tuta blu, le mani sporche di olio perché aveva appena finito di caricare i camion e mettere le catene… ed è questo l’esempio che deve passare alla prossima generazione. I nostri soci fondatori entrarono in affari non per fare i miliardi, ma per creare un sistema sostenibile, per crescere e garantire i posti di lavoro e reinvestire i soldi. Queste sono le nostre radici e i nostri valori e non abbiamo intenzione di metterli in discussione. Qualità svizzere come la puntualità, la precisione, l’affidabilità e magari anche un briciolo di follia visionaria, hanno ancora valore sul tavolo delle trattative?
Il progetto AlpTransit è stimato a livello mondiale e ha fatto il giro del mondo. Se si pensa a grandi progetti arenati o falliti in contemporanea ad AlpTransit, come l’aeroporto di Berlino, costato il triplo del previsto e ancora chiuso, il disastro della stazione di Stoccarda o, appunto, il crollo della galleria di Rastatt, ci si rende conto di quanto sia eccezionale la Galleria di base. Accompagnando delle delegazioni in diverse ambasciate del mondo ho potuto constatare come la «Swiss precision» sia ancora oggi un marchio fantastico. Grazie ad AlpTransit la Svizzera ha creato un trend nella logistica europea. Signor Kunz, ci spiega meglio la disposizione dei cosiddetti terminali intermodali, ossia le enormi piazze addette al carico e allo scarico di merce?
Nel 1990, nell’ambito del progetto NFTA, il direttore FFS Benedikt Weibel (a sin.) e l’allora consigliere federale Adolf Ogi visitano il terminal di Busto Arsizio.
La nascita dei terminali rappresenta un ottimo esempio della collaborazione tra governo svizzero e mercato. Il terminale di Busto Arsizio ad esempio è nato su iniziativa svizzera di Hupac. Dopo un periodo iniziale a Milano, negli anni Settanta la Hupac si trasferì al vecchio scalo di Busto Arsizio. Le cose andarono bene finché il traffico non cominciò a lievitare, allora Busto Arsizio ci propose l’acquisto di un terreno di 120’000 metri quadrati. Il governo svizzero ci diede il suo sostegno, anche perché, se è vero che la Svizzera vuole il traffico su ferrovia, è giusto che il traffico di transito venga caricato e scaricato nei luoghi di origine e destinazione e non in Svizzera che rappresenta solo un’area di transito.
Ormai anche il terminale di Busto Arsizio ha raggiunto i propri limiti di capacità, per cui con il governo svizzero stiamo costruendo i terminali di Milano, Brescia e Piacenza. In cambio della costruzione a nostre spese dei tre terminali, dall’Italia abbiamo ottenuto il permesso di potenziare la linea ferroviaria di Luino (ristrutturata a nostre spese), che è quella più diretta per Busto Arsizio. È stata una lotta da entrambe le parti della frontiera: inizialmente infatti anche i nostri politici erano contrari a spendere 120 milioni di franchi per la ristrutturazione di una linea italiana. A quel punto cominciai anch’io, in rappresentanza di Hupac, ad organizzare dei «tour didattici» con parlamentari svizzeri e italiani, durante i quali spiegavo le nostre necessità, senza mai perdere di vista l’obiettivo ultimo, che è il trasferimento! Il tanto agognato accordo con l’Italia c’è dunque finalmente stato?
All’assemblea di Lugano del 2012, cui ha partecipato anche Mauro Moretti, amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, abbiamo firmato un accordo che è la base per il collegamento AlpTransit Gottardo-Chiasso, nonché per la tratta di Luino. Sono tre gli elementi che hanno portato a una collaborazione ottimale in ambito ferroviario: prima di tutto c’è stato un accordo bilaterale tra Hupac e FS con l’investimento e la progettazione dei nuovi terminali. Nel 2011 vi è poi stato l’accordo dei Castelli tra Andreas Meyer e Mauro Moretti, che prevede l’accesso ad AlpTransit da parte della rete italiana via Chiasso, Luino e Domodossola. Infine non va dimenticato l’accordo ministeriale tra i ministri Passera-Lupi-Delrio e Doris Leuthard a livello di trasferimento. La collaborazione tra Svizzera e Italia non è mai stata tanto trasparente come oggi. Questo accordo rappresenta la base del milione di camion che trasportiamo sulla ferrovia ogni anno.
«Sono soddisfatto perché penso di avere fatto qualcosa per l’ambiente e per le prossime generazioni» Un milione di camion attraversa la Svizzera su rotaia, eppure siamo ancora lontani dall’obiettivo dell’Iniziativa delle Alpi, che chiede una riduzione dei transiti autostradali a 650’000 camion all’anno.
Attualmente il numero dei camion che transitano in strada ogni anno è inferiore al milione. Sarà però difficile migliorare la situazione finché non si risolve il problema del profilo dei quattro metri. Nel 2012 ci eravamo infatti resi conto che la Svizzera aveva investito 20 miliardi nella costruzione di una galleria alta quattro metri,
come quelle autostradali, sebbene le linee dei portali nord e sud fossero alte solamente 3,80 m. In questo modo, una volta conclusa AlpTransit, si sarebbero potuti trasportare i container ma non i bilici! Noi della Hupac iniziammo a fare lobby con diverse associazioni, tra cui anche l’Iniziativa delle Alpi e organizzammo una conferenza stampa a Zurigo per spiegare la necessità di un ulteriore investimento per adeguarci ai quattro metri di altezza. Due consiglieri nazionali presentarono una mozione nel giro di due mesi e il parlamento si espresse a favore dei quattro metri. I lavori di adeguamento termineranno nel 2020: forse non scenderemo mai a 650’000 passaggi, ma saremo almeno in possesso degli strumenti per provarci. La consigliera federale Doris Leuthard è stata determinante nello scioglimento dell’annosa empasse creatasi fra Svizzera e Italia, dimostrando sensibilità verso il tema del trasferimento. Dall’altra parte però ha fatto anche un’importante campagna politica per il raddoppio del Gottardo. Hupac non l’ha percepita come una contraddizione?
Io il raddoppio lo vedo come una questione di sicurezza. Esso non minaccia il trasferimento per la semplice ragione che la ferrovia è ormai un elemento stabile nel mix logistico delle imprese. Se diamo il via libera al traffico tra Göschenen e Airolo, lo ritroveremo tra Chiasso e Melide e credo che politicamente questo sia impossibile. La legge prevede una sola corsia per ogni direzione, se si intende cambiare occorre una nuova votazione. Noi non temiamo il raddoppio del Gottardo, anche perché statisticamente negli ultimi anni siamo cresciuti, mentre l’attrattività della strada è in costante calo. Vi è inoltre un altro problema da non sottovalutare legato al trasporto su strada: in Europa mancano circa 220’000 camionisti. Ogni anno ne vanno in pensione circa 80’000, ma a sostituirli ce ne sono al massimo 20’000. Quello del camionista non è più un lavoro così interessante poiché gli autisti perdono più tempo in coda che in viaggio.
Negli ultimi tempi, l’euro ha recuperato parecchio terreno sul franco svizzero e, a metà aprile, si era ormai assestato a quegli 1,20 franchi che la Banca Nazionale aveva posto come limite al rafforzamento del franco. Torniamo quindi alla situazione di partenza, che la Svizzera ritiene normale nei rapporti con l’euro. Gli effetti di questo rafforzamento dell’euro o (visto dall’altra parte) indebolimento del franco sono noti: le esportazioni svizzere costano meno, le importazioni un po’ di più, le nostre vacanze all’estero sono un po’ più care e il cosiddetto «turismo degli acquisti», dei consumatori svizzeri nei paesi confinanti, dovrebbe rallentare.
È stata consegnata nel dicembre 2017, ha raccolto oltre 100’000 firme e sarà messa in votazione popolare Il tasso di cambio è però solo una delle componenti dei prezzi dell’import-export. E, infatti, con qualche sacrificio, l’economia svizzera è riuscita a difendersi bene anche con un euro molto più debole del franco. In particolare, l’evoluzione del tasso di cambio non sembra avere effetti duraturi sul livello dei prezzi in Svizzera. In altri termini, la Svizzera, pur essendo molto integrata all’Europa sul piano economico, rimane sempre la celebre «Isola dai prezzi alti». Un tema che appare con una certa regolarità anche nei discorsi politici. Nessuno sembra però disposto ad affrontare di petto questa situazione. In fondo, se in Svizzera i prezzi sono alti è perché i salari (e altre remunerazioni) sono alti, o anche viceversa. Vi sono anche altre cause endogene che possono spiegare questa situazione: per esempio le regole strette per la costruzione, in particolare di case d’abitazione, la rarità del terreno edificabile o anche gli alti prezzi dei prodotti agricoli. Non a caso le differenze di prezzo rispetto all’UE sono evidenti anche nei settori pubblici o parapubblici: l’educazione e la formazione, la salute. Accanto ai citati prodotti agricoli e dell’edilizia, i prezzi in Svizzera vanno dall’80 al 120% di quelli medi dell’UE. Una situazione che provoca anche un fenomeno particolare: i prezzi di beni importati sono più alti in Svizzera che in altri paesi. Questa situazione è all’origine dell’iniziativa inoltrata nel dicembre 2017, munita di 107’889 firme valide, per cui dovrebbe andare prossimamente in votazione popolare.
Il titolo dell’iniziativa è molto ambizioso: «Stop all’isola dei prezzi elevati – per prezzi equi», detta semplicemente «Iniziativa per prezzi equi» In realtà, in Svizzera, gli strumenti per contrastare il fenomeno non sono molti. Finora la sorveglianza dei prezzi si limitava alle grandi intese cartellistiche che possono dominare il mercato. L’iniziativa vuole estendere questa possibilità introducendo il concetto di «imprese che hanno una posizione dominante relativa». Se il concetto di «posizione dominante» in assoluto è già difficile da tradurre in provvedimenti legislativi, quello di «posizione dominante relativa» lo è quasi di più. Si tratta in sostanza di valutare questa posizione relativa, per poi applicare divieti quali ingiustificati rifiuti di fornire prodotti o discriminazioni sui prezzi. Il concetto va anche qui applicato soltanto nei confronti di rapporti fra aziende e non fra queste e il consumatore finale. Relativamente dominante diventa quindi un’azienda fornitrice o anche acquirente che non lascia possibili alternative al partner contrattuale. Inoltre, l’iniziativa chiede una disposizione che garantisca l’acquisto senza discriminazioni nel settore del commercio elettronico. Il governo si è occupato recentemente della questione, ma non ha ancora deciso quale posizione prendere. Il Dipartimento dell’economia (competente nella questione) vorrebbe proporre alle Camere di respingere l’iniziativa, senza controprogetto. Altri vorrebbero però una legge quale controprogetto. Come detto, non è facile trovare una definizione corretta di «dominanza relativa» e tentativi già fatti in passato contro fornitori ritenuti troppo cari non sarebbero più contemplati nell’iniziativa. I più critici vedono il pericolo di provocare incertezze nel diritto e per finire colpire più aziende fornitrici svizzere che estere. La classica «zappa sul piede»? Probabile, poiché l’iniziativa sembra avere aspetti popolari in un settore spesso criticato, non solo, ma la mancanza di un controprogetto potrebbe fornire altre spaccature in un settore industriale che vede spesso i grandi contro i piccoli. I simpatizzanti credono nell’effetto di segnale all’economia e in una riduzione degli svantaggi concorrenziali delle piccole e medie imprese svizzere. La riduzione del tasso di cambio del franco sull’euro ha comunque lasciato parecchi settori ancora con grandi differenze di prezzo con l’estero. L’iniziativa era stata voluta anche come mezzo di pressione a favore di un postulato di Hans Altherr, attualmente in discussione al Consiglio degli Stati, e che potrebbe fornire le basi per un controprogetto delle Camere federali.
Personalmente quali sono le sue sfide attuali, Beni Kunz?
In azienda siamo nel bel mezzo di un cambiamento generazionale, in agosto lascerò Hupac Intermodal, pur restando come CEO del Gruppo Hupac. Sarò sostituito dall’attuale direttore di SBB Cargo International, Michail Stahlhut. Il passaggio delle consegne durerà tre anni, come accadde con Allemann, secondo il motto «continuità e accompagnamento». A quel punto è previsto che entrerò a far parte del Consiglio di amministrazione. Il mio hobby sarà ancora quello di seguire i giovani, lavoro che mi entusiasma perché ha un senso importante. Personalmente sono felice di avere fatto qualcosa per l’ambiente e per le prossime generazioni.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Politica e Economia
Che cosa rivela il primo trimestre sul resto dell’anno? La consulenza della Banca Migros Thomas Pentsy
Andamento dello SPI dopo un primo trimestre negativo 30.0%
20.0%
10.0%
0.0%
-10.0%
-20.0%
-30.0%
-40.0%
1990
1994
1995
2001
2003
Performance da gennaio a marzo
1988 al 2017 lo SPI ha chiuso il primo trimestre col segno negativo solo nove volte. In cinque casi le perdite si sono poi estese all’intero anno, mentre in tre occasioni ha potuto invece concludere l’anno con un risultato complessivo positivo.
2008
2009
2011
Performance annuale
In questi dati non è possibile rilevare una chiara tendenza, e del resto l’andamento storico non fornisce necessariamente indicazioni affidabili sulla performance futura delle borse. Ma se è vero che a volte la storia si ripete, si potrebbe profilare un anno aziona-
2016
2018
Fonte: Bloomberg, Banca Migros
Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros
Dopo un eccezionale inizio d’anno, i principali indici di borsa sono già in netto calo. Negli Stati Uniti il Dow Jones Industrial e il più ampio S&P-500 hanno chiuso in perdita sia a febbraio che a marzo. Un evento che, secondo la pubblicazione statunitense Stock Trader’s Almanac, si è verificato raramente prima del 2018: dal 1950 solo undici volte per l’S&P-500 e dieci volte per il Dow Jones. Alla luce dei dati storici, quando entrambi i mesi si concludono in perdita, c’è da aspettarsi un anno azionario tendenzialmente negativo per le borse statunitensi. In otto di questi undici casi l’S&P-500, dopo aver registrato un andamento negativo a febbraio e a marzo, ha chiuso anche l’intero anno con il segno meno riportando una perdita media del 7,4%. Solo in quattro di questi casi l’indice ha mostrato una performance positiva nel periodo da aprile a dicembre. I dati relativi al Dow Jones appaiono più positivi: anche se sei volte su dieci ha concluso l’anno in perdita – con una performance media del – 3,3% – in sei casi ha avuto un andamento positivo da aprile a dicembre. Qual è la situazione in Svizzera? Abbiamo verificato l’andamento dello Swiss Performance Index (SPI) negli ultimi trent’anni sia nel primo trimestre che su base annuale. Dal
rio con performance sotto la media. La Banca Migros prevede ancora volatilità per le borse, ma guarda con ottimismo alle azioni. Infatti, anche se la borsa è attualmente gravata soprattutto da questioni politiche, il contesto economico rimane positivo. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Quando tutto va bene, con quel che segue Rispetto al baricentro della Confederazione, il Cantone Ticino è un cantone periferico. Questo fa sì che le sue prestazioni vengano di solito trattate con indifferenza da parte del resto della Confederazione. Anche quelle dell’economia. Vi sono però delle eccezioni. Così, mai come negli ultimi mesi, le prestazioni dell’economia ticinese hanno suscitato l’interesse dei confederati con articoli sui giornali e settimanali e con interviste nei media radiofonici e televisivi. Questo ritorno di fiamma per il Ticino economico si deve all’eco suscitata dai risultati di due analisi che, talora con argomenti diversi, concordano nel definire lo sviluppo in atto nel Cantone come sorprendente. Mentre la prima delle due analisi, fatta da Avenir suisse e pubblicata a fine 2017, si limitava ad affermare che al Ticino le cose non andavano poi così male anche se la sua economia ancora non aveva conclu-
so una necessaria fase di ristrutturazione, la seconda, elaborata da BAK Basel Economics e uscita qualche settimana fa, sottolinea addirittura che la prestazione dell’economia ticinese (in termini di crescita del prodotto interno lordo) è stata, nel corso degli ultimi dieci anni, superiore alla media nazionale. Altri risultati sorprendenti, almeno per chi è abituato a sentire solo i gesummaria di certi ambienti politici ticinesi, sono, lo afferma Avenir Suisse, che, nonostante la forte immigrazione di frontalieri, il tasso di attività della popolazione residente è aumentato con lo stesso ritmo di quello nazionale e che, risultato certo ancora più sorprendente, il salario mediano dei ticinesi è aumentato nella stessa misura, o quasi, di quello mediano svizzero. E che ne è della competitività dell’economia ticinese, il tema che domina sempre i dibattiti di ConfronTi, i periodici incontri promossi dall’Isti-
tuto di ricerche economiche dell’USI? Il giudizio di Avenir Suisse è sulle linee di quello del nostro Istituto universitario. Se misurata con la produttività per ora di lavoro o per lavoratore, la produttività dell’economia ticinese è leggermente inferiore alla media nazionale pur essendo però superiore a quella di due Cantoni che confinano con il Ticino, ossia il Vallese e Uri. L’opinione del BAK Basel Economics è invece più positiva. Stando alle stime di questo Istituto la produttività dell’economia ticinese sarebbe infatti uguale a quella media nazionale. Nel confronto internazionale (che è quello che più conta per determinare la competitività di un’economia) il Ticino (con 100’000 dollari per posto di lavoro) si troverebbe tra i paesi dell’U.E. (80’000 dollari) e gli Stati Uniti.(114’000 dollari). All’economia del nostro Cantone va tutto quindi per il meglio? Dopo aver considerato
i risultati pubblicati nelle due analisi sulla recente evoluzione dell’economia ticinese penso che si possa concludere con due osservazioni. La prima è che le tendenze positive messe in evidenza da questi studi sono incontrovertibili. Nel corso degli ultimi anni (diciamo dal 2010 al 2015) l’economia ticinese è cresciuta più rapidamente di quella svizzera. Che questo tasso di crescita superiore alla media continuerà a manifestarsi nel tempo è però tutto da dimostrare. Questa è la debolezza maggiore di studi che approfondiscono solo l’evoluzione più recente. È probabile che con la rivalutazione del franco, dopo il 2015, il tasso di crescita ticinese sia tornato ad essere inferiore a quello medio svizzero. La seconda osservazione riguarda l’evoluzione della produttività. Che l’accelerazione nella crescita del Pil si sia tradotta in un aumento più rapido della produttività è anche
un dato di fatto. Pur ammettendo che sulle stime della produttività regionale pesino molti dubbi, non dubitiamo che, nel corso degli ultimi anni (ma probabilmente solo fino al 2015) vi sia stata una ripresa della produttività ticinese rispetto a quella media nazionale. Tuttavia resta ancora senza risposta la domanda sul perché la produttività dell’economia ticinese sia in ripresa. Al limite, potrebbe darsi – precisiamo che si tratta solamente di un’ipotesi – che la stessa cresca più velocemente che per il passato, e più velocemente che la produttività media nazionale, perché alcuni dei rami di produzione con livelli di produttività molto elevati – si pensi per esempio al settore finanziario – stanno perdendo posti di lavoro in misura significativa. Come direbbe la seconda legge di Chisolm: quando tutto va bene c’è sempre qualcosa che va male.
maverick non è sempre accogliente (per quello americano, quasi mai). In Francia si celebra il cinquantenario del Sessantotto – il mitologico maggio francese – e allo stesso tempo c’è un presidente né di destra né di sinistra con il piglio da turboriformatore: la piazza è sempre piena. Gli scioperi più imponenti sono quelli dei trasporti, i treni a disposizione sono quasi dimezzati (anche Air France ha molti problemi a garantire il servizio aereo), ogni giorno il bollettino dei mezzi disponibili fa infuriare mezza Francia: i telegiornali sono pieni di interviste a cittadini stremati dall’impossibilità di circolare in pace – circolare in pace per andare a lavorare, soprattutto. Ma poiché sono passati 50 anni dal Sessantotto e nel frattempo siamo entrati in una stagione in cui gli antidoti a certi guai si trovano in modo più veloce e diretto, anche il megasciopero è stato un po’ contenuto. Dal liberalismo in stile Macron poi, beffa completa: Blablacar, azienda di car sharing, ha fatto corse tre volte più numerose rispetto alla media; Uber (che in Francia non ha avuto vita
semplice) e il suo concorrente locale, Francia Chauffeur Privé, hanno detto di aver avuto un incremento di chiamate del 30 per cento. Anche le compagnie di autobus a basso costo, come Flixbus o Ouibus, dichiarano di aver avuto un aumento considerevole di richieste e clienti, soprattutto tra i giovani che sono quelli che dipendono di più dai trasporti pubblici. Poi ci sono le università mobilitate, aule occupate, sit-in, agitazioni in diretta sui telefonini. La polizia ha già sgomberato molte sedi, blitz notturni che non sono passati inosservati ma che allo stesso tempo non hanno causato eccessivo scandalo: sono tanti, al contrario, gli studenti che non vogliono (o non possono, per ragioni economiche) scioperare. La compattezza del maggio francese, quello vero, non è stata ancora replicata, vuoi perché c’è meno ardore politico, vuoi perché la riforma dell’accesso alle università non è poi così controversa, vuoi perché la competitività importata dal confronto con altri paesi impone ritmi più rapidi anche agli universitari. Non posso
permettermi di perdere la sessione, dicono ai giornali gli studenti che non vogliono perdere il passo, già il mercato del lavoro non è così florido, se perdi anni perdi occasioni. Molti commentatori sottolineano che proprio questa fretta è il dramma dei nostri tempi, ma di fatto ha disinnescato – finora, almeno – buona parte del potenziale di queste manifestazioni, che hanno un gusto retrò non sempre dolce, la maglietta di Che Guevera nel 2018 appare in effetti un po’ antica. La ripercussione politica però esiste: la sinistra, tra gli Insoumis di Jean-Luc Mélenchon e la Génération.s di Benoit Hamon, ex leader dei socialisti annichiliti alle presidenziali, cerca di intestarsi la piazza, per creare un’opposizione al presidente che abbia il sigillo della popolarità. Per ora l’operazione non sta andando bene, ma ci sono molti dossier su cui il governo avrà vita complicata, anche in Parlamento: molti predecessori di Macron finirono per arrendersi, lui sembra determinato a non farlo, ma il chiacchierato slancio liberale della Francia passa anche da qui.
molti suoi compagni di lotta? Temeva forse l’estradizione? Sono interrogativi che rimangono aperti. In realtà, Marx mise piede anche su suolo elvetico, e questo è un capitolo poco noto della sua vita. Accadde nel 1882, di ritorno dal suo primo, e unico, viaggio extraeuropeo. Nel febbraio di quell’anno Marx si recò ad Algeri, nel tentativo di sfuggire ai rigori invernali e alle brume di Londra. Consunto nel fisico, logorato da bronchiti e da altri malanni, trascorse nella città nordafricana alcune settimane, ma senza ottenere i benefici sperati. Anzi, i giorni si erano rivelati freddi e piovosi. Fu allora che il vecchio rivoluzionario fece un gesto che suscitò meraviglia: varcò la soglia di un figaro berbero per liberarsi della barba e della sua ormai canuta zazzera. Prima però si fece fotografare nella consueta posa di sovversivo irsuto. Ricostruisce questo curioso episodio un libro appena uscito, Karl Marx beim Barbier [Karl Marx dal barbiere], di
Uwe Wittstock. Purtroppo del Marx sbarbato esistono solo ricostruzioni di fantasia. Lasciata Algeri tornò sul continente, toccando Marsiglia, Montecarlo, Nizza, Argenteuil (località dell’Île-deFrance), Parigi. Nel settembre decise di raggiungere, sempre per ragioni di salute, la stazione termale di Vevey, dove rimase per alcune settimane prima di approdare definitivamente a Londra. Un passaggio fugace, passato inosservato. Rilevante fu invece l’incidenza di Marx all’indomani della morte, nell’epoca della Seconda Internazionale, l’associazione dei lavoratori fondata a Parigi nel 1889. In quegli anni la Svizzera divenne la piattaforma politica, ideologica e propagandistica della socialdemocrazia tedesca, messa al bando dalle leggi antisocialiste volute dal cancelliere Otto von Bismarck. Dalle tipografie di Zurigo uscivano giornali e periodici destinati ad alimentare le attività clan-
destine in Germania. Friedrich Engels, il vecchio amico considerato l’erede naturale di Marx, l’editore degli scritti inediti, fu più volte ospite d’onore dei congressi dell’Internazionale. Infine – per scendere alla nostra dimensione locale – bisognerebbe seguire le tracce, scovare le influenze ideologiche esercitate dalla sua dottrina nel panorama politico-ideologico, nei partiti della sinistra cantonale e nei sindacati. Tante le citazioni e le allusioni, ma – crediamo – scarsa la conoscenza reale dei testi. L’avvocato Mario Ferri, all’inizio del Novecento, fu certamente un buon conoscitore della letteratura marxista; nel secondo dopoguerra lettori attenti furono Guido Pedroli, Basilio M. Biucchi, Pietro Boschetti e, negli ultimi decenni, Paolo Favilli e Christian Marazzi. Svaniti i miti, tramontate le illusioni, è ora tempo di riporre al centro la storia senza farsi irretire dalle sirene dell’ideologia.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Mezza Francia a piedi Emmanuel Macron è stato in visita a Washington, da Donald Trump, le foto e gli scambi affettuosi sono diventati virali: i due «maverick» del sistema (la definizione è del presidente francese), due dissidenti che hanno vinto la presidenza in modo inaspettato nei rispettivi paesi, parlano lo stesso linguaggio, si sono riconosciuti, e abbracciati
tantissimo, anche se il macronismo è l’opposto del trumpismo. È difficile fare la classifica dei momenti più accorati, ce ne sono stati molti, il «Washington Post» ha montato un video-capolavoro sulla «bromance» dei due leader: le mani strette, il bacino di Trump con l’aggiunta «lui mi piace tantissimo», la forfora tolta dalla giacca perché, ha detto Trump, «tutto deve essere perfetto, tu sei perfetto», l’occhiolino di Macron, e poi ancora abbracci, mani che si intrecciano, sorrisi. Partendo il presidente francese aveva detto che la sua missione era consolidare «la special relationship» con l’America (i partner speciali di sempre, gli inglesi, non hanno molto gradito) mettendo in chiaro però che sui temi su cui ci sono molte divergenze, come il nucleare iraniano, i trattati di libero scambio, il futuro della Siria e il rapporto con la Russia, sarebbe stato molto diretto e convincente. Non si sa se lo sia stato, a prima vista non sembra, ma certo l’amicizia pare solida, e la parentesi di effusioni è servita a entrambi per prendere un po’ di respiro dalla politica domestica, che per i due
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti L’ultimo viaggio di Marx La Germania si appresta con grande spiegamento di mezzi a celebrare il bicentenario della nascita di Karl Marx. La città natale sulla Mosella, Treviri, non ha lesinato sulle spese. Innumerevoli le iniziative: esposizioni, cicli di conferenze, programmi didattici per le scuole, e poi una montagna di oggetti-ricordo, dai calendari alle tazze ai magneti con l’effigie dell’illustre concittadino. Un vero e proprio bazar che aprirà le porte il prossimo 5 maggio, giorno in cui cade il bicentenario. Dalla Cina è giunta un’enorme statua che negli abitanti ha suscitato imbarazzo (accettare o no un simile ingombrante dono?). Nel frattempo la voluminosa biografia scritta da Jürgen Neffe, Marx der Unvollendete [Marx l’incompiuto], ha scalato la classifica dei libri più venduti. Ben diversa l’atmosfera nel 1983, anno del centenario della morte. Allora la Germania era ancora divisa in due, dall’est continuava a spirare un vento
gelido, con la DDR che mai avrebbe pensato di ripudiare il marxismoleninismo d’impronta sovietica di cui magnificava le glorie e le conquiste. Ora invece il barbuto rivoluzionario, chiamato in famiglia affettuosamente «il Moro», non fa più paura. Il comunismo che l’aveva idolatrato è naufragato, almeno nell’emisfero occidentale. Treviri si è quindi in qualche modo riconciliata con il suo figlio ribelle, terzo rampollo di un giurista ebreo convertitosi al protestantesimo. Ma qui ci interessa un altro aspetto: come mai Marx non scelse la Svizzera come meta della sua odissea migratoria indotta da persecuzioni ed espulsioni? Numerose furono infatti le tappe del suo esilio dopo la repressione seguita alla «primavera dei popoli» nel 1848: Parigi, Bruxelles, Londra, dove visse fino alla morte (1883), chino sui brogliacci dei suoi studi di economia. Perché non riparò nella vicina Confederazione, dove pur avevano trovato rifugio
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Cultura e Spettacoli Il colpo del secolo La casa di carta, nuova serie di Netflix, incatena gli spettatori di tutto il mondo pagina 37
Ode a Johnny Cash A quindici anni dalla morte il grande cantante statunitense è ancora nel cuore di molti fan, che ora possono godere di un libro e di un nuovo disco
Negli atelier Il fotografo ticinese Roberto Pellegrini ha visitato gli atelier di numerosi artisti
ChiassoLetteraria e l’arte La kermesse già da tempo non si occupa solamente di letteratura, ma si apre ad altre discipline
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Una delle sale espositive della Fondazione Prada. (fondazioneprada. org)
Relazioni pericolose
Mostre Alla Fondazione Prada il tentativo titanico di ricostruire la stagione artistica al tempo del fascismo Emanuela Burgazzoli Monumentale e spettacolare, a dir poco: basta dire che la mostra curata da Germano Celant per la Fondazione Prada ha riunito oltre 600 opere – dai dipinti agli oggetti di arredo, dai modelli architettonici alle sculture – di un centinaio di autori e 800 documenti – fra pubblicazioni, lettere, fotografie, manifesti. Ed è proprio il documento storico il perno di questa esposizione che travolge lo spettatore con una marea di informazioni e lo avvolge in una complessa rete di rimandi e intrecci. Di certo Celant ha raggiunto a pieni voti l’obiettivo dichiarato di superare quello che lui stesso definisce «l’idealismo espositivo»; per intenderci, quella abitudine di presentare le opere avulse dal loro contesto storico e sociale e dalla loro funzione comunicativa, in uno spazio asettico. Il curatore, in collaborazione con lo studio 2x4 di New York che ha ideato un allestimento trompe l’oeil, ha puntato tutto sulla ricostruzione storica, ricreando parzialmente alcuni accrochage originali – per la precisione sono 24 – per restituire il contesto espositivo, in scala reale, di molte delle opere selezionate per la mostra milanese. Da spettatori si ha l’impressione di aggirarsi davvero fra le sale della
Biennale di Roma del 1925, di entrare nell’appartamento parigino del famoso collezionista Léonce Rosenberg, davanti ai Gladiatori di de Chirico, o di visitare la 35esima mostra internazionale di pittura al Carnegie Institute di Pittsburgh nel 1937 e non mancano preziosi esempi di arti applicate, né la proiezione di cinegiornali Luce in versione integrale. L’esposizione milanese vuole restituire la complessità della stagione artistica in Italia fra le due Guerre, fra il 1918 e il 1943 (mentre proprio in queste settimane nelle sale cinematografiche italiane è «tornato» Benito Mussolini nella commedia di fantapolitica di Luca Miniero, regista che semplicisticamente e pericolosamente prescinde da un fascismo storico). Le fonti sono presentate in ricche bacheche: lo sguardo è continuamente diviso fra il richiamo estetico di alcuni capolavori – dai futuristi di Depero, Boccioni o Balla, da una Natura morta di Morandi che figurava fra i giovani artisti italiani in mostra a Berlino nel 1931 e le informazioni che trapelano da una lettera autografa, da fotografie, articoli e pubblicazioni. Non si fa in tempo a capire quali siano le corrispondenze e gli autori di testi programmatici, che si è catturati dalla tragica bellezza degli imponenti
marmi di Adolfo Wildt della Biennale del 1922, autore dei primi celebri ritratti-busti di Mussolini, prima che diventasse il «duce». Durante il Ventennio convivono più espressioni artistiche, di forza opposta e contraria; un’arte di propaganda dichiarata, un’arte «imperiale» e nazionalista, e le pulsioni sperimentali dei gruppi che si opponevano all’ufficialità istituzionale di Ritorno all’ordine; ecco quindi i protagonisti dell’antifascista Corrente, che è stata rivista fondata e diretta da Ernesto Treccani nel 1938, ma anche il movimento artistico omonimo a cui partecipano Birolli, Sassu, Guttuso, Vedova, Borlotti, Cassinari. O ancora i così detti Sei di Torino, città in cui spiccano in quegli anni le figure dello storico dell’arte Lionello Venturi e del pittore Felice Casorati: ecco allora un’arte che torna a toni più intimi dei paesaggi e dei ritratti di Carlo Levi o Enrico Paulucci. Capitolo a parte forse meriterebbe l’architettura, con i suoi progetti realizzati (e quelli rimasti su carta), e i suoi protagonisti, fra gli altri Terragni, Libera, Piacentini, esponenti di quel razionalismo italiano che per la sua carica artistica rivoluzionaria si trova in consonanza con la «rivoluzione» politica che rappresenta il regime fascista.
Ma fino a che punto si trattava di autentica adesione ideologica oppure di opportunistica necessità di riconoscimento ufficiale per poter contribuire a modernizzare la società? Un rapporto controverso quello fra stile e ideologia, al quale «Il Sole24ore» ha dedicato recentemente un dibattito sulle sue pagine, innescato da un articolo del «New Yorker» che si chiedeva perché l’Italia conservasse ancora tanti monumenti e simboli dell’era fascista. Un regime che proclamava: «Il nostro mito è la Nazione, il nostro mito è la grandezza della Nazione! E a questo mito, a questa grandezza, che noi vogliamo tradurre in una realtà completa, noi subordiniamo tutto il resto!». Un mito di grandezza rievocato con l’installazione al Deposito che ricostruisce la mostra dedicata al Decennale della Rivoluzione fascista del 1932 al Palazzo delle Esposizioni a Roma: otto enormi schermi sui quali scorrono gli ingrandimenti delle fotografie di alcune sale assegnate agli artisti di regime, come Sironi, Funi, Terragni, Nizzoli e Libera. Qui la mania di grandezza tocca l’apice; negli allestimenti successivi il furore innovativo sembra stemperarsi, si avverte un ripiegamento verso atmosfere più crepuscolari, se non cupe, con l’avvicinarsi del 1943, e con i pri-
mi resoconti degli orrori della guerra: impressionano gli oli di Corrado Cagli che ritraggono gli scenari dei campi di concentramento. La figura del «duce» dal canto suo diventa ormai caricatura negli irriverenti disegni di Mino Maccari, fascista della prima ora convertito. Del 1943 è anche la mostra di disegni di Emilio Vedova alla Galleria della Spiga di Milano, chiusa a pochi giorni dall’apertura al pubblico dalla polizia politica; dopo l’8 settembre il pittore entrerà nella Resistenza. Quale la tesi che sottende al progetto espositivo? Difficile dirlo. Resta l’ammirazione per un’impresa che lascerà il segno, ma anche una buona dose di frustrazione. Tutto questo susseguirsi di ricostruzioni, di opere e oggetti d’arte che diventano a loro volta documenti storici, disorienta dopo qualche sala; che infine si possa ricavare da questa mole documentaria e bibliografica una lettura dei fatti senza prima avere acquisito qualche competenza storica sembra davvero improbabile. Dove e quando
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Cultura e Spettacoli
Rito e comunità per affrontare la morte
Una nuova voce del jazz Rete Due Cécile
Danza In Speechless Voices, in cartellone nella rassegna Steps, la coreografa Cindy Van Acker
tematizza la morte ricorrendo a un intreccio di discipline artistiche
McLorin Salvant al Jazz Cat Club di Ascona
Valentina Janner Non è solo danza quella di Cindy Van Acker, ma una commistione di movimento, arte, scultura, letteratura, cinema e musica. «In Speechless Voices», spiega la coreografa, «è come se tutte le discipline che si esprimono fossero dei fili intrecciati e così stretti tra loro da formare un solo cordone. È come se tutti gli elementi, il movimento, l’immobilità, l’immagine, la luce, il silenzio, la musica, fossero delle voci diverse, anche voci prive di parole, ma tutte considerate sullo stesso livello, e andassero a comporre un insieme». I sei danzatori della compagnia ginevrina Cie Greffe si muovono lentamente sulla scena, formando figure geometriche o componendo veri e propri tableaux. A tratti lo spettatore riconosce immagini o soggetti familiari, come il David e la Pietà di Michelangelo, oppure la Venere di Velazquez. I riferimenti a pittura, scultura e letteratura sono molteplici, da quelli mitologici, a quelli pagani, fino a quelli cristiani. Speechless Voices fa anche allusione alla comunicazione non verbale tra Cindy Van Acker e il compositore della musica Mika Vainio, scomparso tragicamente lo scorso anno. Così lo spettacolo che i due artisti avevano già cominciato a ideare, dopo una serie di altri progetti comuni, è diventato un omaggio della coreografa belga al suo collega finlandese. E forse anche il suo modo non solo per salutarlo, ma anche per elaborare il lutto. L’ossimoro Speechless Voices si riferisce, oltre che alla piena intesa tra i due colleghi, alla danza quale mezzo di comunicazione scevra di parola. Come racconta la coreografa, il titolo era stato scelto prima del decesso del suo collega, ma ha acquisito ancora più significato dopo il tragico evento: «la sua musica è infatti caratterizzata da un’espressività tale che mi parla come fosse una voce».
I danzatori della Cie Greffe in Speechless Voices di Cindy Van Acker. (© Mathilda Olmi)
Questa assenza di parola, che rendeva la collaborazione tra Cindy Van Acker e Mika Vainio così proficua, è anche ciò che accomuna danza e musica, la cui assenza di movimento o di suono è un elemento intrinseco. La danza è infatti contraddistinta da pose statiche, alternate al movimento, e la musica è scandita da pause. I due artisti, nel loro progetto iniziale, intendevano affrontare il tema del rito, di alcuni dei suoi aspetti umani quali la crudeltà o la consolazione, e del ruolo dell’individuo in seno alla comunità. L’importanza del rito e della comunità per l’elaborazione del lutto diventa poi il perno di questa creazione. «Il decesso di Mika», rivela la coreografa, «ha messo costantemente in discussione la mia concezione di vita e di morte. Riguardando tutti i film di Pasolini, ho notato dei tratti specifici ricorrenti nelle scene di morte. Mi sono quindi concentrata su quelle in cui è rappresentata come una liberazione, una liberazione dalla vita. Accatto-
ne, protagonista dell’omonimo film, mentre sta morendo in seguito a un incidente in moto, esclama «Sto bene». Queste parole e la Passione di Bach della colonna sonora mi hanno segnata in modo particolare. Anche la scelta del brano finale ha pertanto quale fonte di ispirazione il film, che ha generato in me l’universo di Speechless Voices». Cie Greffe danza dunque sulle note della musica elettronica e di quella barocca, due generi molto distanti, quasi a richiamare l’ossimoro del titolo. La performance esordisce con una composizione di Vainio, ritmica, ripetitiva, a tratti assordante, e termina con la Passione secondo Matteo di Bach. Quest’accostamento permette allo spettatore di vivere un processo di catarsi come gli antichi greci sperimentavano a teatro, assistendo alla tragedia. Le scene di morte rappresentate sono a tratti angoscianti, ma mai crude. Sono infatti caratterizzate da una poetica del movimento che conferisce dolcezza. Al termine, un rito danzante
attorno al fuoco permette nel contempo di elaborare il lutto e di alleggerire la tensione. Assistendo a Speechless Voices si prova una sensazione di sollievo. Un ulteriore richiamo al rito è dato dalla struttura ciclica e circolare dello spettacolo, non solo simboleggiata dalla danza attorno al fuoco, ma anche dal suono del carillon che introduce e chiude la rappresentazione, quasi a volerla incorniciare. Il sincretismo religioso e artistico e la complessità concettuale che caratterizzano Speechless Voices conferiscono fascino alla creazione di Cindy Van Acker e sono alla base del suo successo. Da non perdere il prossimo 1. maggio al LAC di Lugano, nell’ambito del Festival internazionale della danza Steps del Percento culturale Migros.
La rassegna «Tra jazz e nuove musiche» (sostenuta dal Percento culturale di Migros Ticino) tiene in serbo nelle prossime settimane le sue carte migliori. Dopo l’eccezionale concerto di Pat Martino ad Ascona, ecco che è ancora il borgo sul Verbano a proporre una serata musicale di grande interesse: sotto gli auspici del locale Jazz Cat Club la giovane cantante americana Cécile McLorin Salvant salirà sul palco del Teatro del Gatto, il prossimo 7 maggio, portando la sua straordinaria abilità di interprete. La Salvant è sicuramente un fenomeno, una delle migliori nella giovane generazione delle cantanti jazz. Dalla sua ha una preparazione eccezionale ma soprattutto una forte personalità di interprete, rara in un’artista della sua età. Qualcuno la ricorderà poco più che ventenne, ma già con le idee molto chiare, partecipare ad un JazzAscona di sette anni fa. Era reduce da una prestigiosa affermazione alla Thelonius Monk Competition e la forza della sua voce, la sua intensità ed estensione vocale, la distinguevano vistosamente da ogni altra interprete di quel festival. Da quel momento in poi la sua carriera si è rivelata un crescendo vorticoso di collaborazioni e, in questo senso, una vera e propria consacrazione nell’empireo jazzistico.
Dove e quando
Speechless Voices, Cie Greffe. 1. maggio, ore 20.30. LAC, Lugano Arte e Cultura.
Quel colpo alla zecca di Madrid Serie TV Con La casa di carta Netflix ci regala una nuova serie che crea dipendenza:
protagonisti otto criminali che portano nomi di città Mariarosa Mancuso Il cinema d’azione nasce con un film di rapina al treno, nel 1903. Fu girato da Edwin S. Porter negli studi Edison di New York e nel New Jersey (anche se l’ambientazione era decisamente western): un budget di 150 dollari per una storia che dura 11 minuti. Comincia – o finisce, più spesso – con il baffuto capo dei banditi che punta la pistola contro lo spettatore e ripetutamente spara. La casa di produzione forniva la scena e lasciava libertà al proiezionista. Poteva metterla in apertura per attirare l’attenzione del pubblico con uno choc (solo pochi anni prima gli spettatori avevano urlato all’arrivo del treno nel primo film dei fratelli Lumière). Oppure poteva piazzarla alla fine, cosicché lo spettatore si alzasse con un senso di pericolo ancora incombente. È la scelta che si fa nelle edizioni per cinefili, riproponendo anche qualche scena colorata a mano, fotogramma per fotogramma, come si usava all’epoca. Titolo: The Great Train Robbery. Fu un gran successo, e il regista colse l’occasione per farsi da solo la parodia, con The Little Train Robbery (1905): bambini criminali rubano ai passeggeri del treno bambole e caramelle. Quasi lo stesso titolo per 1855 – La prima grande rapina al treno, diretto
nel 1979 da Michael Crichton (che aveva firmato anche il romanzo) con Sean Connery e Donald Sutherland. Bottino: 91 chili d’oro, pari a 286 milioni di euro attuali, spediti da una società londinese a Parigi, dove non arrivarono mai. I commentatori vittoriani ci rimasero malissimo, convinti che i furti fossero roba da poveri, non da bande organizzate che scientificamente attaccavano il più moderno mezzo di trasporto. Per fare un paragone: l’altra storica grande rapina – al treno postale Glasgow-Londra, 1963 – fruttò all’incirca due milioni e mezzo di sterline. Briciole, a confronto della montagna di denaro che la banda guidata e
organizzata da una mente lucidissima – viene presentato come «il professore» – intende ricavare da un colpo alla Zecca di Stato madrilena: 2 miliardi e 400 milioni di euro. Racconta l’audace impresa la più recente serie Netflix che ha fatto scattare il passaparola internazionale: La casa di carta, showrunner Alex Pina. Proprio quando Netflix ritirava i suoi film da Cannes, perché il regolamento pretende per il concorso titoli che abbiano una distribuzione nelle sale (o almeno non la escludano: tanti arrivano ai festival per cercare qualcuno che li distribuisca). Il braccio di ferro è puramente commerciale, niente a che vedere con il cinema del futuro. Otto criminali, scelti tra gente che non ha niente da perdere. A partire dalla bella Tokyo che sarà la voce narrante. Tutti scelgono nomi di città: Berlino, Nairobi, Helsinki e Oslo, per contorno scaramucce tarantinesche (in Le iene nessuno voleva chiamarsi Mr Pink, poco virile). In una precedente rapina andata male le hanno ammazzato il moroso, e la mamma sta per consegnarla alla polizia. Arriva il Professore su una vecchia utilitaria, la porta in salvo e le propone il nuovo lavoro. Dopo cinque mesi di preparazione, davanti alla lavagna come scolaretti perché tutto fili liscio. Disciplina. E divieto assoluto di amoreggiare con gli altri allievi/rapinatori.
Scelgono per divisa tute rossastre che ricordano le palandrane imposte alle donne nella serie The Handsmaid’s Tale, tratta da Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood (la seconda stagione racconterà qualcosa in più delle colonie). Maschere con i baffi all’insù di Salvador Dalì, che ricordano la maschera di Guy Fawkes nel film di James McTeigue (e prima ancora nel fumetto di Alan Moore & David Lloyd) intitolato V come vendetta. Furono prontamente adottate dagli indignati di tutto il mondo. Da qui le letture in chiave «Occupy Wall Street» della rapina alla Zecca: «niente vittime e avremo la simpatia della popolazione perché non rubiamo a nessuno». I soldi verranno stampati al momento, 200 milioni ogni 24 ore, con numeri di serie ignoti alle forze dell’ordine. Erano 15 puntate prodotte da Antena 3, una tv generalista. Per amor di marketing – e del pubblico snob – Netflix le ha fatte diventare 22, con un’interruzione dopo le prime 13 per fingere due stagioni e creare dipendenza. In effetti, non si riesce a staccarsi. Tra le storie degli ostaggi, le storie dei criminali, le storie dei poliziotti e della bella negoziatrice Raquel Murillo, malamente separata dal marito che lavora alla Scientifica. Il Professore, rimasto fuori dalla Zecca, controlla l’esecuzione del piano come farebbe un regista.
È nata a Miami nel 1989. (rsi.ch/jazz)
Da cantante ospite di varie formazioni la McLorin Salvant è assurta oggi al ruolo di primadonna, con un proprio repertorio orginale. È accompagnata da un trio altrettanto eccezionale, in cui svetta l’ottimo pianista americano Aaron Diehl. Un gruppo da Grammy, tant’è vero che l’album registrato nel 2016 con questa formazione, For one to love, si è aggiudicato il prestigioso premio quale miglior disco jazz di quell’anno. «Una cantante come lei nasce una o due volte in una generazione», ha detto di lei Wynton Marsalis. Un mentore autorevole per una personalità musicale del tutto fuori dal comune.
Concorso online Biglietti per il concerto di Cécile McLorin Salvant Migros Ticino mette in palio tra i lettori di «Azione» coppie di biglietti per le manifestazioni organizzate con il sostegno del Percento Culturale. Per prendere parte all’estrazione occorre seguire le istruzioni contenute nella pagina web www. azione.ch/concorsi. La partecipazione è riservata a chi non si è aggiudicato biglietti in analoghi concorsi delle scorse settimane. Buona fortuna!
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Cultura e Spettacoli
Le parole di Johnny Musica « La mia canzone continuerà a essere cantata»: la nuova raccolta dedicata agli scritti inediti
del compianto Johnny Cash si rivela un’opera di fascino e grazia semplicemente sorprendenti Benedicta Froelich Nonostante siano passati esattamente quindici anni dalla sua scomparsa (avvenuta nel 2003, all’età di settantun anni), non v’è dubbio che, a tutt’oggi, il vuoto lasciato dal celeberrimo Johnny Cash sulla scena musicale angloamericana resti incolmabile – e non soltanto per quanto riguarda il mondo francamente un po’ chiuso e stagnante del country statunitense, genere dichiarato di appartenenza di un artista che in realtà, nell’arco della sua carriera, ha ampiamente trasceso qualsiasi classificazione stilistica, dando vita a un repertorio dall’influenza a dir poco universale. Questo nuovissimo album dedicato a Cash, dall’eloquente titolo di Forever Words, costituisce in realtà un vero e proprio unicum nella discografia dell’artista: ben lungi dal rappresentare il solito tributo postumo a cui il mercato ci ha abituati, si dimostra una sorpresa a dir poco esaltante per qualsiasi appassionato di musica popolare a stelle e strisce. Seguendo le stesse linee guida degli esperimenti già intrapresi negli ultimi anni con gli scritti di un precursore assoluto del folk statunitense come Woody Guthrie, John Carter Cash (figlio di Johnny e dell’amatissima moglie June, rampolla della Carter Family), ha raccolto in un volume di recente pubblicazione (l’omonimo Forever Words) una serie di poesie, lettere e liriche inedite firmate dal padre
nell’arco di più decenni; materiale prezioso, di cui questo disco costituisce il naturale supplemento audio, in cui grandi nomi della scena pop e rock si cimentano nel musicare e interpretare a modo proprio un’ampia selezione di tali componimenti. Il tutto con risultati sorprendenti, poiché, dalla prima all’ultima traccia, l’album è una vera e propria gioia per le orecchie, come per l’anima; malgrado i background musicali siano tra i più disparati, la scelta di non porre alcun vincolo generazionale al criterio di selezione degli artisti presenti si rivela infatti vincente, così come la curiosa commistione di stili e sonorità che ne deriva. Ecco quindi materializzarsi veri e propri, piccoli capolavori: su tutti, la struggente ballata The Walking Wounded, a firma di Rosanne Cash, figlia di primo letto del Maestro, che qui interpreta con pregevole sensibilità un pezzo più che mai attuale sulla silenziosa disperazione dei moderni diseredati di ogni dove («abbiamo perduto le nostre case e i nostri sogni / i nostri obiettivi si sono trasformati in piani»); oppure, su tutt’altro registro narrativo, il soave Body on Body, intonato dalla voce giovane ma ricca di sfumature della rocker Jewel, magistrale nel tratteggiare con trasporto e vigore emotivo la profonda connessione tra amore spirituale e fisico. Per non parlare del meraviglioso June’s Sundown, a opera di Carlene Carter, figliastra di Johnny ed erede della Carter Family, qui alle prese con
Il mitico Johnny Cash in un’immagine scattata a Nashville nel 1996. (Keystone)
le sincere affermazioni di gratitudine di Cash per ogni nuovo giorno vissuto su questa terra. Naturalmente, all’interno della tracklist non mancano gli esempi di country puro, come il romantico To June This Morning – delicato scampolo di un nuovo omaggio di Johnny alla compagna di una vita – o la travolgente cavalcata biblica He Bore It All, che ri-
prende il tema, a Cash particolarmente caro, della passione di Cristo. In tal senso, magistrale risulta anche il suggestivo sound folk di Chinky Pin Hill, mentre, sul versante più tradizionale e di stampo «roots», troviamo invece il gusto irresistibilmente old-fashioned di esercizi di stile quali Jellico Coal Man e The Captain’s Daughter; ed è più che toccante riscoprire il carisma del com-
pianto Chris Cornell nell’ottimo You Never Knew My Mind. Proseguendo nell’ascolto, stupiscono inoltre contaminazioni stilistiche ardite come quelle offerte da I’ll Still Love You, in cui Elvis Costello si cimenta con atmosfere jazzate da crooner d’altri tempi, o Goin’, Goin’, Gone, a cavallo tra sound soul e R’n’B, che vede Robert Glasper indagare l’antica dipendenza da farmaci di Cash, da lui debellata dopo anni di lotta impietosa. Questa carrellata d’ampio respiro culmina poi in un finale dal gusto «otherworldly» come Spirit Rider, che mescola suggestioni di sapore western con la metafisica spiritualità folcloristica tipica di Cash, e nel quale Jamey Johnson si rivela ottimo discepolo di Johnny. Del resto, a legare con un sottile filo rosso l’intera gamma stilistica offerta dalla tracklist basta il timbro inconfondibile dei testi di Cash, contraddistinti dalla lineare «perfezione della semplicità» tipica della tradizione orale americana, combinata al personale e acuto sguardo sulla realtà che da sempre contraddistingue l’artista; e certo è che, dopo l’ascolto di un disco come questo, le parole di Johnny stesso – tratte da uno scritto risalente a pochi giorni prima del decesso e immortalate nella prima traccia di Forever Words – suonano più che mai veritiere: «tu dici che sono destinato a perire / alla stregua dei fiori a me cari (...); ma gli alberi che ho piantato sono ancora giovani / e la mia canzone continuerà a essere cantata». Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Sulle tracce di Peer
Dalle piste da sci ai tavoli da gioco
Concerti Ogni anno l’Orchestra della Svizzera italiana
dedica apprezzati momenti musicali a scuole e famiglie
Cinema La parola e l’immagine: debutto alla
regia del grande sceneggiatore Aaron Sorkin Fabio Fumagalli **(*) Molly’s Game, di Aaaron Sorkin, con Jessica Chastain, Idris Elba, Kevin Costner, Michael Cera (USA 2017)
Il Peer Gynt nasce da una collaborazione tra l’OSI e l’Accademia Teatro Dimitri.
Enrico Parola Non fa parte del cartellone sinfonico principale, ma è tutt’altro che secondario il progetto che l’Orchestra della Svizzera Italiana dedica ogni anno ai bambini e alle famiglie. Perché è vero che abitualmente i ragazzi non ascoltano la classica, ma allo stesso tempo «colgono il senso dei nostri spettacoli molto più di quanto si possa immaginare. Sono estremamente ricettivi alla musica suonata dal vivo, seguono e memorizzano al volo gli spunti che arrivano dal palcoscenico» conferma Denise Fedeli, direttore artistico dell’Osi «Reagiscono ad ogni sollecitazione; rispondono a domande, ridono delle situazioni comiche, si rattristano nei momenti malinconici… Dobbiamo stare molto attenti ai messaggi che vogliamo trasmettere, perché i bimbi sono come spugne». La Osi eseguirà le due suite tratte dalle musiche di scena composte da Edvard Grieg per il Peer Gynt di Ibsen. Sul podio Philippe Béran, voce narrante Carla Norghauer, lo coreografie saranno dell’Accademia Teatro Dimitri. Dal 3 al 9 gli spettacoli riservati alle scuole, il 13 (ore 15.00 e 17.00) le due repliche per le famiglie. E sarà un successo, Fedeli: «“Lo spettacolo più bello di sempre!” Sentiamo questa frase dai docenti ogni anno e ovviamente ci fa molto piacere. Quello che però colpisce di
più è ascoltare i commenti degli allievi più piccoli: a volte in due parole snocciolano il contenuto più profondo della situazione. «Il palloncino è scoppiato di colpo e la musica è diventata triste…». Belle poi le reazioni alla vista della sala teatro: «Nel LAC c’è uno spazio grandissimo…». Ibsen nel Peer Gynt mette a tema la ricerca di sé e la scoperta del proprio io: «Quello che ci interessa prima di tutto è la musica: dev’essere di qualità, va scelta attingendo dal grande repertorio e deve poter essere divisa in brani non troppo lunghi. Le suite dal Peer Gynt sono perfette in questo senso. L’eventuale testo a cui la musica fa riferimento serve solo da spunto per creare uno spettacolo significativo e coerente, in grado di conquistare grandi e piccini. Non vogliamo raccontare intrecci né tantomeno insegnare concetti. Desideriamo solo accendere la fantasia dei bimbi. Anche la filosofia dell’Accademia Teatro Dimitri va in questa direzione». E allora via alla coinvolgente sequenza dei brevi ma icastici brani che Grieg antologizzò nelle due suite: ad iniziare dal Mattino che apre la prima suite ed è probabilmente una delle pagine più popolari in assoluto del repertorio classico; poi La morte di Ase e La danza di Anitra, il Lamento di Ingrid, Il ritorno a casa di Peer Gynt e la Canzone di Solveig che conclude la seconda suite: pagine che sapranno accendere
la fantasia dei giovani spettatori. E in fondo anche dei più grandi, non solo quelli che stanno in platea ma anche gli stessi che sono protagonisti sul palco: «I musicisti si divertono molto. Non solo suonano con piacere, ma partecipano anche alla scena, mettendoci addirittura del proprio! Molti di loro hanno bambini in età scolare, dunque vivono da vicino questi concerti. Tutti loro sono coscienti dell’importanza di queste iniziative». Per questo, mentre l’edizione 2018 deve ancora avere luogo, già si pensa a quelle future: «Abbiamo diversi titoli in mente, per esempio Pulcinella di Stravinskij. Purtroppo a volte siamo bloccati per questioni finanziarie dovute all’organico troppo grande dei pezzi o al costo dei diritti d’autore per musica del ’900. Sembra incredibile, ma il fatto che i concerti per bambini e famiglie siano uno sforzo enorme per l’OSI e che siano offerti gratuitamente alla popolazione non ci esonera dai doveri verso la SUISA. Fortunatamente altre realtà ne capiscono il valore»: CORSI, da anni sponsor di questi progetti (gli spettacoli del 13 sono sostenuti da Percento culturale Migros Ticino), Arcobaleno, che permette a oltre tremila ragazzi di raggiungere il Lac da tutto il Ticino e dal Moesano con i mezzi pubblici usufruendo di una tariffa ridotta speciale, e RSI, che il 13 alle 17.00 trasmetterà in diretta lo spettacolo.
Il gioco cui si riferisce il titolo di Molly’s Game è quello di una campionessa nascente di freestyle sugli sci che, in seguito ad alcuni incidenti drammatici, decide di cambiare vita e di trasferirsi dal Colorado a Los Angeles. Si allontana così da un genitore alquanto caporalesco, rinunciando al contempo a iscriversi ad Harvard per organizzare invece un giro clandestino di giochi d’azzardo, destinato agli uomini d’affari e alle celebrità locali. Questa serie di giochi in apparenza brillante, seppur costantemente sopra le righe, finirà per materializzarsi in una delle bische più note degli Stati Uniti. Frequentata, tra gli altri, dalle mafie di mezzo mondo, condurrà otto anni più tardi all’arresto di Molly da parte dell’FBI. La vicenda, autentica, tratta dall’autobiografa della pur simpatica, quanto spregiudicata protagonista, non poteva non sollecitare l’attenzione di Aaron Sorkin, sceneggiatore fra i più grandi del cinema contemporaneo, osservatore sempre attento alle derive che si nascondono dietro al sogno americano. E dunque attento anche alle tentazioni offerte dal mito americano per sfuggire a legalità e moralità, in favore di una rincorsa del denaro. Nei suoi script, che denotano sempre un certo acume, grazie alla sagacia raffinata con la quale ha costruito la propria fama, Aaron Sorkin indaga proprio quei percorsi. Basti pensare a quello di Mark Zuckerberg del magnifico The Social Network di David
Fincher, come a quello di Steve Jobs del film omonimo diretto da Danny Boyle. Ma questo succedeva già negli anni degli esordi, quando nel 1992 adattava la sua pièce teatrale in Codice d’onore; o nel 2007, con La guerra di Charlie Wilson di Mike Nichols, o ancora quattro anni dopo, nel mondo dello sport di Moneyball – L’arte di vincere per la regia di Bennett Miller. Ora, cinquantasettenne, Sorkin è per la prima volta anche regista, e avvicina al suo uso magico e celebrato della parola quello che talvolta può risultare ancora più insidioso, ossia l’accostamento all’immagine. I risultati sono altalenanti: incalzante fino ad essere precipitosa, l’illustrazione della parte iniziale che vogliamo definire sportiva rassicura sulle ambizioni della pellicola. Anche perché suggerisce l’apparizione di colei che risulterà il vero motore dell’intera operazione, una difficilmente dimenticabile Jessica Chastain. La rivedremo infatti in tre tempi diversi, ma a loro modo classici: al momento del suo arresto fino a quello del processo, quindi nel corso degli anni della sua discutibile quanto imperiosa ascesa fra i tavoli da gioco. E pure (dietro la prolungata, sontuosa esibizione di scollature e minigonne) la contraddittoria, ma quanto efficace esposizione dei vari aspetti del personaggio: che rifiuterà sempre di denunciare i nomi dei suoi celeberrimi frequentatori, assumendo così di persona le responsabilità di chi ancora osa affidarsi alle incerte ambiguità del sogno. Tutto questo in un film troppo lungo e soverchiato dalla parola: ma sono rischi utili da correre, quando al regista sbiadito si preferisce lo sceneggiatore spericolato.
Jessica Chastain in una scena del film. (Wikipedia)
Ballare la diversità culturale
Festa danzante 2018 Dal 2 al 6 maggio la manifestazione coinvolgerà trenta città e comuni svizzeri
di cui quattro nel Cantone Ticino: Bellinzona, Lugano, Ligornetto e Mendrisio Per la tredicesima volta in tutta la Svizzera, durante un finesettimana, si assisterà a una «mobilitazione danzante»: decine di compagnie, centinaia di danzatori e migliaia di spettatori saranno chiamati a vivere insieme un evento dedicato a questa affascinante disciplina. Il tema dell’edizione 2018 della festa, sostenuta dal Percento culturale di Migros, è quello della diversità culturale e della sua valorizzazione proprio attraverso la creazione di coreografie. Diversità culturale che è tra l’altro una delle carat-
teristiche principali nella pratica della danza stessa, di cui fanno parte numerose forme espressive. Dall’hip hop al tango, dalla danza contemporanea al flamenco ogni spettatore potrà scegliere di assistere alle esibizioni che lo incuriosiscono e stuzzicano. In moltissimi casi sarà possibile anche provare qualche passo di danza e dialogare con gli artisti per conoscere meglio la loro disciplina. Informazioni di dettaglio sul sito web www.festadanzante.ch.
Il programma Mercoledì 2 maggio
Ligornetto, Museo Vincenzo Vela: 10.45-11.15 Equi-Libre (per le scuole) 19.00 B-Cut 19.15-19.45 Equi-Libre 19.45-20.15 Monte Dada Giovedì 3 maggio
Mendrisio, Museo d’arte: 19.30-20.00 Happening 21.00-21.30 Happening Venerdì 4 maggio
Decine di persone di ogni età sono coinvolte nel Flash Mob dell’evento. (Salvatore Vitale)
Lugano, Lungolago Piazza Manzoni: 10.00-24.00 Triptyque Lugano, Spazio Morel: 18.30 Fluorescenze – I’m already dancing. Can you see it? 19.00-24.00 B-Cut 20.45-21.15 The Sensemaker 22.00-24.00 XXXL – Party
Sabato 5 maggio
Bellinzona, Teatro Sociale-Villa dei Cedri: 10.00-12.00 Corpo-Percorsodanza Lugano, Lungolago Piazza Manzoni: 10.00-24.00 Triptyque Lugano, Varie sedi: 10.30-19.30 Porte aperte Lugano, Piazza San Carlo: 12.15 I have a dream Lugano, i2a Istituto int. di architettura: 13.30 / 17.30 / 19.30 Mimesis MuseoDanza Lugano, Parco Ciani: 14.30 Otolithes on Air Lugano, Rivetta Tell: 15.45 / 17.00 Danza etnica Portogallo Lugano, Foyer Foce e Studio Foce: 20.00 B-Cut
20.30 Sull’ultimo movimento 21.45 Megaparty Hip Hop e Free Style Domenica 6 maggio
Lugano, Lungolago Piazza Manzoni: 10.00-24.00 Triptiques Lugano, Piazza Dante: 11.00 / 14.00 Mi presento Lugano, i2a Istituto int. di architettura: 13.30 Mimesis – MuseoDanza Lugano, Piazza Dante: 14.00 Mi presento 16.00 Danza etnica – Sri Lanka Lugano, Parco Ciani: 17.00 Giochi? Tu joues? Spielst du? Do you play? Lugano, Teatro Foce: 20.15-21.45 Unitile Lugano, Studio Foce: 21.45-22.30 Trigger
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Cultura e Spettacoli
Nelle arene degli artisti
Fotografia Il fotografo ticinese Roberto Pellegrini è entrato negli atelier di molti artisti,
offrendoci uno sguardo nuovo sul loro lavoro Gian Franco Ragno Assai noto a livello locale per il suo vasto e puntuale lavoro professionale, Roberto Pellegrini è autore anche di progetti artistici che presenta regolarmente, da un paio di decenni, in varie sedi espositive ticinesi. Tra le molte occasioni va sicuramente ricordato Pieni&vuoti, proposto nel 2009 alla Pinacoteca Züst, con il bel catalogo disegnato dall’indimenticato grafico asconese Marco Mariotta, a sua volta complice e suggeritore di una trilogia (con Sopra&sotto e Dentro&fuori) che si sarebbe compiuta negli anni successivi. In questo primo episodio della trilogia, in breve sostanza, in due scatti successivi ed esposti sempre a coppia, Pellegrini ritraeva in prima battuta un interno di una dimora storica con tutto il mobilio e i suoi oggetti e in uno scatto e momento successivo il luogo sgombro e senza traccia se non di se stesso e del proprio volume; inaspettatamente ampio, ma senza memoria. Nella sua solo apparente semplicità l’operazione rivestiva un profondo significato culturale, in quanto dava un segnale forte sull’urgenza della salvaguardia degli edifici storici e della cultura materiale che contenevano. Come sappiamo, la tendenza alla cancellazione di tali residenze non si è invertita negli anni, lasciando spazio a costruzioni spesso anonime. Già allora si intravedeva una componente chiave della poetica del fotografo – ovvero il rapporto dell’uomo
con il suo ambiente di vita, l’abitare come riflesso di sé – che rimarrà a lungo una costante e una sorta di tema privilegiato. Vent’anni più tardi, e sino a inizio maggio nei suggestivi spazi dell’Elisarion di Minusio, Ateliers propone una serie di fotografie di artisti nel loro spazio più intimo e privato, ovvero gli studi: ventuno i ritratti in esposizione, e in totale trentaquattro nel catalogo edito da Salvioni in cui sono presenti i saggi di Diego Stephani e Veronica Provenzale. Se il genere del ritratto d’artista, specie accanto e in dialogo con le proprie opere, è stato largamente frequentato, nell’attuale progetto di Pellegrini tuttavia c’è qualcosa di diverso, una fisionomia inedita. In modo sottile e solamente progressivamente, ci rendiamo infatti conto che il vero protagonista delle immagine è lo spazio, più che l’uomo: un ambiente che riflette e al tempo stesso assorbe la materia dell’arte prodotta individualmente. La luce che illumina l’artista – una sorta di occhio di bue teatrale – è solo l’inizio suggerito all’approccio alla fotografia: infatti l’artista non domina mai fisicamente la scena ma, in qualche modo, la abita con naturale quotidianità. La componente più intensa si rivela altrove: nella penombra, ovvero nei dettagli dello studio, negli strumenti di lavoro, nei pennelli, nelle tavole con progetti e dalle pareti ingombre. Dalla presenza, ad esempio, di torchi oppure dall’accumulo di materiale, cornici e tele. Da una sorta di sensazione di compres-
L’artista Guido Strazza nel suo atelier romano. (Roberto Pellegrini/ ProLitteris)
sione, ma al tempo stesso di intimità, di stratificazione di stagioni ed esperienze. Altro aspetto che lentamente si fa strada è la consapevolezza di un’originale varietà degli ambienti: dallo scarno ambiente industriale di Cesare Lucchini all’ordinato spazio quasi espositivo di Simona Bellini; da quella che sembra una grotta privata, che presenta comunque alcuni riferimenti culturali di Pierre Casé, all’intimo studiolo, più da umanista che da artista, di Paolo Mazzuchelli. Alcune di queste officine creative arrivano a contemplare anche una piccola biblioteca, come
lo studio dell’anziano artista romano Guido Strazza. Per finire con l’ordine compositivo e concettuale anche all’interno delle scaffalature di Gianfredo Camesi: forse l’immagine più riuscita e conclusa, e ciò non a caso, vista la complicità artistica tra il fotografo e l’artista ticinese oggi a Colonia. Se è vero che quando si ritrae si porta nel risultato parte di sé e del proprio vissuto in una sorta di rispecchiamento, Pellegrini in ultima istanza sembra suggerire e rimarcare, senza cadere nella mitologia dell’artista, i valori dell’esperienza e del fare, la competen-
za da mettere in campo nelle proprie private arene. E ciò vale anche per la fotografia – professione spesso ambita ma altrettanto frequentemente esercitata con molta improvvisazione e poca cultura, più per voglia di protagonismo e senza quella necessaria e vitale curiosità visiva. Dove e quando
Roberto Pellegrini. Ateliers, Minusio, Museo Elisarion (Via Simen 3). Orari: ve-sa-do 15:00-18:00. Fino al 5 maggio 2018. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Sviscerare i tabù
Festival L a tredicesima edizione di ChiassoLetteraria, in scena
dal 2 al 6 maggio 2018, si presenta come evento multidisciplinare
Ada Cattaneo ChiassoLetteraria è ormai diventato un appuntamento fisso nell’agenda culturale ticinese: il pubblico potrà seguire conferenze, letture pubbliche, proiezioni di film e documentari, cene con gli autori. Saranno presenti, tra gli altri, ospiti come lo psicanalista Massimo Recalcati, gli scrittori Donatella Di Pietrantonio, vincitrice del Premio Campiello 2017 con L’arminuta, e Tom Drury. Il romanzo di quest’ultimo, intitolato La fine dei vandalismi, primo della trilogia di Grouse County, è stato pubblicato a puntate sul «New Yorker», ricevendo elogi quasi unanimi. Molto spazio è dedicato alla letteratura svizzera e gli autori ticinesi saranno rappresentati da Alberto Nessi. Alla sua tredicesima edizione, il festival del Mendrisiotto porta oggi con sé anche un denso panorama di eventi collaterali, costruiti insieme ai soggetti culturali presenti nel territorio, che hanno compreso il potenziale di questa manifestazione, arricchendone l’offerta: biblioteche, cinema, teatri e ristoranti si trasformano per ospitare scrittori e lettori. Ad esempio, Spazio Lampo, luogo di co-working, ospitato in quello che già era uno storico negozio cittadino dedicato alla fotografia, partecipa con un’iniziativa. È Aline d’Auria, co-fondatrice dello spazio, a raccontare dell’evento da lei curato e della programmazione culturale annuale che, sin dall’apertura nel 2015, costituisce il «Progetto Vetrina»: le
vetrate su Via Livio, area inutilizzata da chi lavora qui, vengono destinate all’intervento di artisti visivi. Di volta in volta un autore diverso è chiamato a ripensare il volto di Spazio Lampo, caratterizzatosi ormai a tutti gli effetti quale luogo «off», complementare alle sedi ufficiali dei diversi festival che si svolgono a Chiasso nel corso dell’anno, dalla Biennale dell’Immagine a Festate, dal Festival Jazz a ChiassoLetteraria. In quest’ultimo caso, la collaborazione è iniziata nel 2016. La scelta è quella di chiamare un artista a lavorare in relazione con il tema dell’edizione in corso. Aline d’Auria spiega: «Quando invitiamo un artista, si tratta per noi dell’occasione di dare una nuova identità, seppure temporanea, al nostro Spazio. Non siamo una galleria con una linea d’azione definitiva; vogliamo sperimentare e anche la collaborazione con i festival che si tengono in città ci permette di attrarre e conoscere pubblici differenti». Laurent Kropf, artista svizzero nato a Losanna nel 1982 e residente a Bordeaux, è l’ospite per quest’edizione. Aline d’Auria rimase affascinata dal suo lavoro dopo avere visto l’opera Primary Structures (dal titolo della mostra seminale per la Minimal Art, tenutasi al Jewish Museum di New York nel 1966), presentata per la prima volta al Pavillon Suisse di Le Corbusier alla Cité Universitarie di Parigi. L’intervento parigino, in bilico fra riferimenti al minimalismo degli anni Sessanta e alle idee dell’architetto di La Chaux-de-Fonds, esemplifi-
cava bene la sua continua ricerca di una connessione con il patrimonio culturale del luogo in cui si trova ad operare. Il suo lavoro è così intessuto da continue citazioni che sta all’osservatore scoprire. A dimostrare il riferimento a ChiassoLetteraria è il titolo della mostra. «Il mio romanzo inedito» è costituito da vari «capitoli» ed è incentrato sul tema del viaggio. Quest’ultimo concetto è ispirato proprio al tema dell’edizione 2018 del festival, il tabù. Se infatti si considera che la cittadina ticinese è oggi più che mai crocevia di traiettorie diverse, è interessante osservare come la problematica venga di rado tematizzata. Le rotte dei migranti sono le prime a venire alla mente, ma non da meno sono il passaggio delle merci, la loro permanenza al punto franco e il forte impatto della ferrovia. Così l’artista, come gli compete per natura, si assume il compito di portare ai nostri occhi temi scomodi, complessi e difficili da affrontare tramite una riflessione razionale. Ancora Aline d’Auria racconta: «Quando, un anno fa, ho deciso di invitare Laurent Kropf a Chiasso, lui ha accettato con entusiasmo e subito è venuto per visitare la città, dalla quale è rimasto molto impressionato. Ne è scaturita una riflessione sul tema del viaggio richiamata a vari livelli nella mostra: si tratta del suo viaggio in auto dalla Francia per arrivare in Ticino, ma anche di quello che determina oggi il volto della città, la sua ambivalenza fra persone che di qui vorrebbero solo transitare e merci che invece sono ferme». Ritornando
L’artista svizzero Laurent Kropf sarà presente a Chiasso.
all’attenzione di Kropf per il genius loci e per l’identità storico-artistica del luogo, il Punto franco ha costituito motivo di grande interesse. Così, l’artista ha scelto di ripercorrere le vicende del suo progettista, l’ingegnere bernese Robert Maillart che si distinse per l’uso che seppe fare del cemento armato per edifici e ponti, prima che questo materiale cominciasse ad avere un uso sistematico». Il lavoro di Laurent Kropf a Chiasso si determinerà quindi come una serie di installazioni presso lo Spazio Lampo. Si tratterà dei capitoli del suo «romanzo inedito». Come spiega l’artista, si può pensare a questo intervento come a un grande armadio e alle opere che lo costituiscono come a cassetti, all’interno dei quali ogni visitatore potrà trovare immagini, riferimenti e storie che fanno parte della narrazione. L’inaugurazione della mostra avrà luogo giovedì 3 maggio alle ore 18. Il momento di apertura costituirà il momento principale dell’evento, anche grazie alla presenza di due musicisti di rilievo: Paolo Spaccamonti, chitarrista e compositore di Torino, e Jochen Arbeit, membro del gruppo berlinese
degli Einstürzende Neubauten, che sin dagli anni Novanta ha influenzato in maniera determinante lo sviluppo della musica sperimentale. Responsabile della programmazione musicale è Francesco Giudici, co-fondatore di Spazio Lampo, che lavora affinché il tutto non si riduca a un semplice concerto durante il vernissage. Ai musicisti viene chiesto di entrare in un vero e proprio dialogo con le opere visive ospitate. L’improvvisazione musicale che il pubblico potrà seguire nella serata del 3 maggio sarà quindi in risposta all’opera di Laurent Kropf e ciò avverrà anche in considerazione del fatto che i due autori invitati producono sistematicamente la loro musica in relazione a ciò che li circonda, in particolare alle architetture urbane. Forse avverrà lo stesso anche a Chiasso, considerato il fascino post-industriale della città, il suo potenziale e lo sforzo oggi in atto per determinarne una nuova identità. In collaborazione con
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Amicizie d’arte Si parla tanto di amore e mai della chimica che presiede alla nascita di un’amicizia. L’occasione per parlarne è offerta da una mostra allestita nel palazzo D’Oria a Ciriè, cittadina alle porte di Torino. Fin dal titolo la mostra attrae la nostra attenzione: De Chirico Gazzera Savinio: l’Artistica Amicizia. A Ciriè era nato il personaggio centrale di questa vicenda, Romano Gazzera, conosciuto come «il pittore dei fiori giganti» ma dalla personalità ben più complessa. Tutto ha inizio nei primi anni Trenta. Racconta Gazzera: «Incontrai Giorgio de Chirico alla galleria Il Faro diretta da Virginia Agnelli... era fuggito da Parigi senza un soldo con la nuova compagna Isabella, ricercati e inseguiti dalla prima moglie Raissa... date le loro condizioni economiche precarie invitai la coppia fuggitiva a casa nostra per oltre un mese.... A Torino, in quel mese, de Chirico vendette soltanto due opere, una a mia sorella e l’altra a me». Entrambe sono visibili in questa mostra. Nasce
una solida amicizia fra due artisti divisi da venti anni di differenza: Giorgio de Chirico era nato a Volo, in Tessaglia nel 1888, Gazzera a Ciriè nel 1908. Prima smentita all’idea che l’autentica amicizia nasca solo fra coetanei e fra i banchi di scuola. Lo storico Giovanni De Luna sostiene la tesi, documentandola con esempi concreti, che per comprendere la formazione di gruppi di potere al vertice di aziende, banche o istituzioni pubbliche, si debba osservare con attenzione la foto di classe scattata negli ultimi anni del liceo. Nel caso in esame il rapporto si allarga a tre, inglobando il fratello di de Chirico, nato ad Atene nel 1891, anche lui pittore, oltre che scenografo, scrittore, pianista e compositore, che per differenziarsi assume lo pseudonimo di Alberto Savinio. È la seconda smentita: crediamo che sia impensabile l’amicizia fra artisti in concorrenza fra di loro. Qui il vero collante è il carattere solare e positivo di Gazzera: sicuro della sua vocazione, non sente il bisogno di
competere con i colleghi. Scrive Gazzera a de Chirico nel 1941: «Ti confesso, caro Giorgio, che io non so abituarmi a questi combattimenti. Ho sempre considerato l’arte soltanto sotto l’aspetto ideale e non riesco a fare anch’io il mio gioco e il mio calcolo». Però poi accetta di seguire l’amico nell’avventura dell’Antibiennale, allestita nel 1950 nella galleria Bucintoro di Venezia in polemica con il mancato invito alla Biennale. Giorgio de Chirico negli anni Quaranta si era allontanato dalla Metafisica ed era tornato a dipingere secondo la tradizione figurativa italiana. Questo «ritorno all’ordine» gli aveva chiuso le porte della Biennale attenta solo a celebrare le avanguardie del momento. I quadri di Gazzera sono dipinti con una palese felicità che è premio a se stessa. Gazzera non se la prende se de Chirico tenta di ammaestrarlo, scrivendogli l’8 ottobre 1958: «Ho visto un tuo quadro a Milano, da una signora di cui non ricordo il nome. Era un quadro
piuttosto grande, quadrato, con dei fiori giganti; dipinto bene, ma ti consiglio di lasciare queste forme di surrealismo». Immaginiamo il nostro Romano che con una scrollata di spalle, si rimette a dipingere senza mutare stile. Prima di morire, il 20 novembre 1978 a Roma, de Chirico ritrova lo spirito di un tempo e di conseguenza i favori della critica che battezza la sua nuova stagione espressiva con l’etichetta di Neo-metafisica. Perciò patisce che l’amico Romano invada un territorio che ritiene di sua esclusiva pertinenza e il 21 luglio del 1960 gli scrive: «Io sto sempre a rimproverarti quel tuo sacrificarti al Moloch del surrealismo, dipingendo i fiori giganti con lillipuziani giannizzeri ai piedi dello stelo. Se fai qualcosa d’altro mandami una foto della tua recente produzione». Sottinteso: se insisti con i fiori giganti evita di mandarmi le fotografie. Pare che l’ispirazione di dipingerli sia venuta a Romano Gazzera durante la guerra quando, per sfuggire
a un mitragliamento aereo si era buttato faccia a terra in un prato e alzando lo sguardo aveva visto quelle grandi corolle intente a nasconderlo. Trapela anche un atteggiamento protettivo da parte di De Chirico, giustificato dalla differenza di età, con preziosi consigli tecnici sul modo migliore per preparare una tela e segnalazioni in favore dell’amico, come si desume da una cartolina del 3 dicembre 1949: «Ho scritto a Pestelli della Fiat di far fare un quadro anche a te, ma forse te lo hanno già chiesto». Ricordiamo un bellissimo manifesto della 1400 Fiat dipinto da de Chirico. Il terzo lato del triangolo dell’amicizia resta in sottotono anche perché Alberto Savinio muore troppo presto, a Roma, nel 1952. Ripercorrendo l’avventura artistica di Romano Gazzera abbiamo la conferma che se un pittore si limita a dipingere quadri senza farli accompagnare da proclami teorici e battaglieri, non attira da parte della critica l’attenzione che meriterebbe.
o visto, sto lottando col correttore per mantenere lo sbaglio. E col correttore, infatti, mi hanno risposto i ragazzi: non scriviamo mai a mano, quindi non ci preoccupiamo degli errori, è il computer che aggiusta tutto. Veloce susseguirsi di pensieri: vi ammazzo tutti, finirete male, ma no forse il futuro è questo. In fondo, per noi a scuola era un problema sapere cancellare, non fare macchie, seguire le righe del quaderno. Oggi, sono problemi che non esistono più, le giovani menti, grazie al progresso, non devono più preoccuparsi di gomme, penne, carta (che si bucava, anche, se cancellavi con troppa foga). Possono quindi dedicarsi ad attività più elevate, evviva le sorti magnifiche e progressive e così via. Poi, un lampo: ma il computer non sa che cosa state scrivendo, o bestie. Potrà aggiungervi un apostrofo, correggere un sostantivo, ma come potrà sapere se volete scrivere Parenzo o sapienza, sophia o soffione? Parenzo è una cittadina croata dell’Istria, Poreč,
nota per una canzone popolare dedicata alla «mula de Parenzo», ossia la ragazza di Parenzo (ga messo su bottega / de tutto la vendeva / fora ch’el bacalà / perché non m’ami più), che non si dava all’amante, ma aveva le sue ragioni, se lui prosegue la canzone dicendo della «morosa vecia» che manda a pascolare. Poi dopo un sogno gastronomico – se il mare fosse tocio e i monti de polenta ohi mamma che tociade polenta e bacalà – la richiesta alla Marieta, su non far la difficile. Sapienza invece è un’alta virtù, il vertice della fatica del saggio, che non solo vive bene, ma sa anche perché. Temi differenti, simili per differenza a sophia e soffione. Sophia, traslitterazione dal greco per sapienza. Soffione, pianta delle Composite, così chiamata perché gli acheni provvisti di pappo si disperdono nell’aria con un piccolo soffio. Il soffione è noto più comunemente come dente di leone, o come tarassaco, una delle erbe più di moda per placare i nervi, o come dente di cane, cicoria sel-
vatica, cicoria asinina, grugno di porco (ma perché?), ingrassaporci, brusaoci, insalata di porci, pisciacane, lappa, missinina, piscialletto, girasole dei prati, erba del porco. Il sinonimo più elegante di soffione è «girasole dei prati», molto romantico ma certo lontano da ogni riferimento alla sapienza, alla sophia. Ma che ne sa il computer? Una volta che le doppie siano doppie, gli apostrofi siano al loro posto, perché dovrebbe anche sapere se scrivere soffione o sophia? Lui non lo sa, il computer, ma sa dove mettere gli apostrofi, quindi diventa una guida sicura. Scampato il rischio dell’errore banale, perché occuparsi di che cosa si vuole dire? I ragazzi lo sanno, con quei compiti hanno siglato una condanna: d’ora in poi, le ore di lezione diventeranno – anche – ore di lettura; i compiti scritti, saranno tutti scritti a mano. Perché nessuno si deve permettere di prendere il vostro posto, quando pensate, quando parlate, quando scrivete.
opposto: l’amnesia di Z., un soldato che nel 1943 fu colpito al cranio da una pallottola. Aveva perduto del tutto la facoltà di leggere, e di fronte alle frasi provava un immenso senso di smarrimento perché le lettere gli sfuggivano dappertutto lasciando un pulviscolo luminoso. Incredibilmente, nonostante l’afasia mentale di cui finì prigioniero Z., avrebbe a suo modo recuperato la scrittura utilizzando quelle che Laurija chiamò le «melodie cinetiche», cioè la fluidità dei movimenti appresi con l’abitudine prima dell’incidente. Ne venne fuori, in venticinque anni, un diario di ben tremila pagine scritte con grande sofferenza e destinate a rimanere inaccessibili allo stesso autore, che ovviamente non riusciva a leggerle. «Il vantaggio della cattiva memoria – scrisse Nietzsche – è che si gode parecchie volte delle stesse cose per la prima volta». È una prospettiva ottimistica. Lo sa anche Magrelli (5½ al suo libro, che si sofferma soprattutto sulla eterna questione della traduzione
letteraria). La scrittrice George Eliot racconta di un tizio che avendo recuperato un nome che era caduto nel vuoto, lo annota sul taccuino per non scordarsene più, ma purtroppo finisce per perdere il taccuino. Lo sforzo necessario per uscire dall’oblio è a volte immane quanto inutile, anche quando si tratta di dimenticanze non dovute a traumi ma causate da forme di rimozione psicopatologica tipiche della vita quotidiana di chiunque. Quegli smarrimenti che rendono ricorrente l’espressione «sulla punta della lingua». Sull’argomento, ma non solo, consiglio di leggere un libro sorprendente appena uscito da Adelphi (5+: storia stupenda da 6 ma scrittura un po’ piatta da 4+). È Il professore e il pazzo del giornalista Simon Winchester. In breve: nell’epopea della redazione dell’Oxford English Dictionary si nasconde la vicenda incredibile del dottor W.C. Minor, uno dei maggiori collaboratori (a distanza) della titanica impresa editoriale cui vennero chiamati a contribuire tutti i
letterati su base volontaria. A quell’oscuro personaggio si devono tantissimi lemmi spesso ricostruiti a memoria e inviati regolarmente in busta chiusa al direttore editoriale James Murray. Quando questi, il Professore, si muoverà per andare a ringraziare della generosità il misterioso collaboratore, scoprirà trattarsi di W.C. Minor, ricco e coltissimo gentiluomo americano ricoverato in un manicomio criminale per aver sparato la notte del 17 febbraio 1872, per un raptus paranoide, a un operaio che si stava recando al lavoro. Soffriva di sindrome persecutoria non curabile, ma per tutta la vita ebbe l’instancabile voglia di studiare e di leggere al punto da pretendere di avere la sua biblioteca nella stanza del manicomio. A 85 anni, nel 1920, assediato dalla demenza senile, finì i suoi giorni avendo dimenticato tutto (forse anche l’assassinio di cui fu colpevole) e dimenticato da tutti tranne che da un nipote di cui non ricordo il nome. E non posso recuperarlo, perché ho perso il libro…
Postille filosofiche di Maria Bettetini Non lasciate che altri pensino per voi «Scopenauer non a definito la legge come…». «Di questo tema si parla fin dall’antichità, per esempio nei processi americani». Non so se ho il coraggio di citare altre perle, ma il risultato di un compito scritto (a mano, non al computer) mi ha così duramente provata da pensare che i due esempi siano sufficienti. Passi per la studentessa turca che mi scrive utilizzando il traduttore di Google, che però deve essere un traduttore turco («Scusi per occuparsi da qua, domani non potrò essere frequentata del lezione perché devo andare al incontro di Erasmus. Aspetto per il suo risposto»). Passi per quello portoghese che chiede di far l’esame in qualunque altra lingua (compreso l’uzbeko?) ma non in italiano. Però i due esempi sopra sono prodotti da due madrelingua, e non fatemi dire nulla su questa povera madre di due disgraziati. Due? Diciamo cinquanta, tanti i compiti in cui ho trovato almeno un paio di svarioni come quelli. Puoi non sapere che
Schopenhauer ha due acca malandrine. Ma questo non giustifica togliere subito dopo la medesima acca, per par condicio, anche al verbo avere usato come ausiliare, in terza persona. Puoi avere le idee confuse sulla data precisa di inizio e fine dell’era antica, in fondo si tratta di convenzioni. Ma non puoi seriamente pensare che i primi processi degli Stati Uniti d’America si siano svolti nell’antichità, magari con la supervisione di quel leguleio di Marco Tullio Cicerone. Ora, le enormità qui sono di due generi, grammaticale e storico, dove per storia si intende quel minimo buon senso che aiuta a destreggiarsi tra i secoli chiunque abbia frequentato le scuole elementari e ogni tanto dia un’occhiata a un giornale, ma anche solo alla televisione, Grande Fratello escluso. Sconvolta, portando sottobraccio quei fogli imbrattati, torno in aula e chiedo come, come sia possibile aver commesso errori così gravi di grammatica, compresi un altra, qualcun’altro,
Voti d’aria di Paolo Di Stefano I paradossi della memoria Un amico mi ha girato una frase che mi accompagna da diversi giorni. È una bellissima frase del filosofo tedesco Ernst Bloch che butto là, a futura memoria: «Solo quel ricordare è fertile che nello stesso tempo ricorda quello che c’è ancora da fare». Il nuovo libro del poeta Valerio Magrelli, La parola braccata (Il Mulino), affronta, nella prima parte, la questione della dimenticanza e del suo contrario: l’eccesso di memoria. Lo fa partendo da un famoso caso studiato dal neuropsicologo sovietico Aleksander R. Lurija (5½ alla visionarietà scientifica). È il caso di S., che sviluppando le proprie capacità visive e acustiche non dimenticava nulla. Con gravi conseguenze: il suono di ciascuna parola gli evocava una tale quantità di ricordi, di storie e di immagini visive da non permettergli più di leggere. E i ricordi erano così esatti che una minima variazione finiva per confonderlo: per esempio, il suo cervello non ammetteva l’esistenza di sinonimi che potessero indicare la stessa cosa. Il culmine del paradosso avvenne
quando S. (media tra 6 e 2 alla memoria) si trovò a cena al ristorante e scorrendo il menu gli bastò un errore di stampa per impedirgli di mangiare, perché il cambiamento di una sola lettera comprometteva per lui anche il sapore del cibo evocato da quel termine. L’ipertrofia della memoria equivale insomma all’impossibilità di vivere una vita normale. Nel 1944, circa vent’anni prima di Lurija, uno scrittore, Jorge Luis Borges (6– alla visionarietà letteraria), inventò un personaggio, Funes, dalla memoria prodigiosa. Il quale non riusciva a comprendere come fosse possibile chiamare con lo stesso nome il cane che alle 15.14 gli appariva di profilo e alle 15.15 gli appariva di fronte. Al centro di un breve scritto di Franz Kafka (6 alla contorsione fantastica) c’è un uomo che, pur essendo capace di nuotare, non si azzarda a farlo perché non riesce a dimenticare la propria antica incapacità di nuotare. Lo stesso dottor Lurija, chiuso lo studio sul «mnemonista» S., si dedicò al suo
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Idee e acquisti per la settimana
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L’origine del termine «raviolo» non è chiara. C’è chi dice abbia origine dal piemontese «raviolé», che significa rigirare, inteso anche come riutilizzare gli avanzi, i quali un tempo venivano messi nel ripieno. Altri sostengono derivi da un caratteristico formaggio, il Raviggiolo, un tempo ingrediente principale dei deliziosi quadrati di pasta all’uovo. Unica certezza è il loro indiscutibile successo sulle nostre tavole. L’assortimento di Raviöö Nostrani, nato dall’estro creativo di Davide Mitolo del pastificio l’Oste di Quartino, è disponibile nelle filiali Migros Ticino, soddisfa il gusto di ogni palato. I ravioli sono resi speciali da materie prime ticinesi al 100%, la cui selezione avviene a stretto contatto con i produttori locali. Le cotture delle farciture, che richiedono cura e pazienza, come per i raviöö al brasato e quelli all’arrosto, contribuiscono ad esaltare a pieno il sapore di questi prodotti d’eccellenza. Non solo carne però, la selezione conta anche proposte vegetariane tra cui il classico ripieno di magro. Anche la scelta delle verdure è scrupolosa e avviene sui campi dei produttori. Gli spinaci scelti sono quelli dalle foglie piccole e tenere, in virtù della concentrazione massima di aromi e profumi. Una ricotta speciale più morbida contribuisce a rendere il ripieno cremoso, come una carezza sul palato. Le farine macinate fresche e le uova d’allevamento all’aperto e a terra, mantengono intatte le loro caratteristiche trattenute dalla sfoglia tirata ad arte per racchiudere i golosi ripieni. La selezione vanta anche ingredienti stagionali come asparagi e verdure grigliate insaporite con menta, aglio e ricotta. Per motivi di freschezza i ravioli all’aglio orsino sono disponibili solo durante un periodo limitato, approfittatene finché siete in tempo!/ Luisa Jane Rusconi, food blogger
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Idee e acquisti per la settimana
Gli asparagi ticinesi sono tornati Attualità Acquistare i delicati ortaggi verdi nostrani è benefico per la salute,
l’ambiente e l’economia locale
Gli asparagi della nostra regione sono sani e gustosi per diversi motivi, in primo luogo perché vengono venduti solo quando hanno raggiunto il giusto grado di maturazione, ossia nel momento in cui hanno sviluppato al meglio le loro proprietà benefiche. In secondo luogo, i trasporti brevi tra campo e negozio permettono di salvaguardare anche l’ambiente. Infine, ma non meno importante, acquistando questi asparagi si sostengono attivamente i piccoli produttori ticinesi. Uno di questi è Salvatore Romeo, che da una decina d’anni si è appassionato alla coltura di questo apprezzato ortaggio primaverile che puntualmente ogni anno fornisce a Migros Ticino. La superficie dedicata alla coltivazione del turione di origini orientali è di circa due ettari, si trova sul Piano di Magadino e consente una produzione annuale che si aggira attorno alle 10 tonnellate. La stagione degli asparagi verdi nostrani dura tra otto e nove settimane, dalla fine di aprile fino a metà giugno. La raccolta viene effettuata interamente a mano con l’ausilio di uno speciale coltello e richiede molta perizia e delicatezza per non compromettere la qualità dell’ortaggio. Grazie al clima favorevole nel nostro cantone crescono rigogliosi e non necessitano di trattamenti particolari, inoltre con temperature particolarmente miti la raccolta può avvenire anche due volte al giorno. Gli asparagi nostrani si caratterizzano per finezza e tenerezza, pertanto sono ottimi anche da mangiare crudi, semplicemente tagliati a pezzetti e insaporiti, per esempio, con una vinaigrette a base di olio extra vergine di oliva, aceto balsamico e senape.
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Idee e acquisti per la settimana
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Migros Ticino Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. OFFERTE VALIDE SOLO DALL’1.5 AL 7.5.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
30%
2.10 invece di 3.– Spezzatino di manzo TerraSuisse Svizzera, imballato, per 100 g
50% Tutti i detersivi Total per es. Color, 2,475 kg, 7.95 invece di 15.90, offerta valida fino al 14.5.2018
. o c s e r f te n e m il ib d e r c In conf. da 3
conf. da 2
33%
40%
15.– invece di 22.60 Sminuzzato di pollo Optigal in conf. da 3 Svizzera, 3 x 222 g
40%
3.95 invece di 6.60
3.60 invece di 6.–
Pancetta a dadini TerraSuisse in conf. da 2 4 x 64 g
Prosciutto crudo dalla noce Svizzera, affettato in vaschetta, per 100 g
CONSIGLIO
BAGUETTE PRIMAVERILE
La croccante baguette dal forno di pietra è ottima anche da sola, ma per renderla più sostanziosa basta farcirla con spugnole e asparagi, cospargerla di formaggio di pecora e gratinarla. Trovate la ricetta su migusto.ch / consigli
– .4 0
di riduzione
2.10 invece di 2.50 Baguette cotta su pietra TerraSuisse 260 g
30%
9.40 invece di 13.50 Galletto Svizzera, in conf. da 2 pezzi, al kg
30%
8.40 invece di 12.– Bratwurst di vitello Olma Svizzera, in conf. da 4 x 160 g / 640 g
25%
2.85 invece di 3.85 Salametti di cervo prodotti in Ticino, in conf. da 2 x ca. 90 g / ca. 180 g, per 100 g
30%
1.40 invece di 2.– Fleischkäse TerraSuisse affettato finemente in conf. speciale per 100 g
HIT DELLA SETTIMANA PER IL GRILL.
20%
4.– invece di 5.– Carpaccio di manzo con rucola e Grana prodotto in filiale con carne Svizzera, imballato, per 100 g, solo nelle filiali con banco a servizio
33%
20%
1.90 invece di 2.40 Costine carré di maiale (Spare Ribs) Svizzera, imballate, per 100 g
Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DALL’1.5 AL 7.5.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
20%
5.95 invece di 7.65 Fettine fesa di vitello fini TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g
3.85 invece di 5.80 Filetto di maiale M-Classic al naturale in conf. speciale Svizzera, per 100 g
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Prosciutto crudo dalla noce Svizzera, affettato in vaschetta, per 100 g
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20%
20%
3.90 invece di 4.90
2.15 invece di 2.70
Meloni Charentais Marocco, il pezzo
40%
2.90 invece di 4.90 Fragole bio Spagna, vaschetta da 400 g
15% Tulipani M-Classic, mazzo da 10 disponibili in diversi colori, per es. gialli, il mazzo, 5.85 invece di 6.90
25%
2.90 invece di 3.90 Ananas Costa Rica / Ecuador, il pezzo
20% Tutte le dipladenie, vaso, Ø 10cm disponibile in diversi colori, per es. pink, il pezzo, 5.50 invece di 6.90
Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DALL’1.5 AL 7.5.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
Gruyère Höhlengold per 100 g
Hit
2.30 Mango Perù, il pezzo
Hit
14.90
Bouquet Splendide il mazzo
40%
1.50 invece di 2.50 Lattuga verde Ticino, il pezzo, offerta valida fino al 7.5.2018
30%
1.65 invece di 2.40 Blenio Caseificio prodotto in Ticino, in self-service, per 100 g
20%
1.60 invece di 2.– Formaggella Ticinese 1/4 grassa prodotta in Ticino, in self-service, per 100 g
30%
3.60 invece di 5.20 Kiri in conf. da 2 x 160 g
conf. da 3
20%
3.90 invece di 4.90 Melanzane Ticino, sciolte, al kg
25% Tutto l’assortimento i Raviöö prodotti in Ticino, per es. col pién da Brasaa (ravioli al brasato), 250 g, 5.10 invece di 6.80
30%
4.05 invece di 5.85 Mozzarella Galbani in conf. da 3 3 x 150 g
20%
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I nostri superprezzi. 20% Cake tirolese o alla finanziera per es. alla tirolese, 340 g, 2.85 invece di 3.60
20% Tutti i panini confezionati M-Classic per es. mini sandwich TerraSuisse, 300 g, 1.80 invece di 2.30, offerta valida fino al 7.5.2018
a par tire da 2 pe z zi
–.80
di riduzione Tutti i tipi di riso M-Classic da 1 kg a partire da 2 pezzi, –.80 di riduzione, per es. Carolina, 1.45 invece di 2.25
conf. da 6
Hit
20%
2.90
Pane per toast per la festa della mamma Limited Edition, 730 g, in vendita solo nelle maggiori filiali
2.40 invece di 3.– Flan in conf. da 6 caramello, cioccolato o vaniglia, per es. vaniglia, 6 x 125 g
conf. da 3
33% Tutte le acque minerali Vittel in confezioni multiple per es. 6 x 1,5 l, 3.80 invece di 5.70
33% Rio Mare in conf. da 3 disponibili in diverse varietà, per es. tonno all’olio di oliva, 3 x 104 g, 8.40 invece di 12.60
conf. da 4
50%
9.80 invece di 19.60 Ravioli Anna’s Best in conf. da 4 pomodoro e mozzarella o spinaci e ricotta, 4 x 250 g, per es. spinaci e ricotta
conf. da 3 conf. da 2
20% Focaccia alsaziana originale in conf. da 2 per es. grande, 2 x 350 g, 7.80 invece di 9.80
OFFERTE VALIDE SOLO DALL’1.5 AL 7.5.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
33% Biscotti freschi nidi alle nocciole, amaretti alle nocciole o discoletti in conf. da 3 per es. nidi alle nocciole, 3 x 216 g, 6.20 invece di 9.30
50% Tutti i tipi di Pepsi in conf. da 6 x 1,5 l per es. Max, 5.50 invece di 11.–
25%
7.80 invece di 10.40 Tutti i tipi di Coca-Cola in conf. da 8 x 50 cl per es. Classic
20% Tutti i tipi di olio d’oliva e di aceto Monini per es. olio d’oliva Classico extra vergine, 1 l, 10.85 invece di 13.60
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a par tire da 2 pe z zi
20%
Tutto l’assortimento Crème d’or prodotti surgelati, a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione
50%
Cioccolatini Selection Frey in busta, UTZ assortiti, 1 kg
7.25 invece di 12.10 Cornetti al prosciutto Happy Hour in conf. speciale surgelati, 24 pezzi
Prodotti a base di cioccolato Kinder in confezioni speciali (prodotti a base di latte del reparto frigo esclusi), per es. Schoko-Bons, 500 g, 7.20 invece di 8.–
20%
15.– invece di 30.10
40%
10%
Tutte le noci Party e bio nonché Amazing Mix You per es. pistacchi Party, 250 g, 3.60 invece di 4.50
Hit
1.70
Fusilli M-Classic 500 g + 50% di contenuto in più, 750 g
OFFERTE VALIDE SOLO DALL’1.5 AL 7.5.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
20% Tutti i praliné in scatola e gli Adoro Frey, UTZ per es. praliné Prestige, 127 g, 7.75 invece di 9.70, offerta valida fino al 14.5.2018
20% Tutte le miscele per dolci, tutti i cup lover e i dessert in polvere per es. miscela per brownies, 490 g, 4.85 invece di 6.10
2. –
di riduzione
10.– invece di 12.– Tutte le capsule Café Royal in conf. da 33, UTZ disponibili in diverse varietà, per es. Lungo
20% Tutti gli zwieback (Alnatura esclusi), per es. original, 260 g, 2.55 invece di 3.20
10%
5.95 invece di 6.80 Nutella in barattolo di vetro 1 kg
a par tire da 2 pe z zi
1.–
di riduzione Chips Zweifel da 160 g, 170 g, 280 g e 300 g per es. paprica, 280 g, 4.70 invece di 5.70
20% Tutto l’assortimento di frutta secca e noci Sun Queen (noci Premium escluse), per es. albicocche secche, 200 g, 3.25 invece di 4.10
20%
Tutto l’assortimento Farmer’s Best prodotti surgelati, a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione
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30%
20%
Prodotti per la doccia e deodoranti Nivea in conf. multipla per es. docciacrema Creme Soft in conf. da 3, 3 x 250 ml, 5.– invece di 7.20, offerta valida fino al 14.5.2018
Tutto l’assortimento Pedic (confezioni da viaggio e confezioni multiple escluse), a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione, offerta valida fino al 14.5.2018
conf. da 2
20% Tutti i prodotti Sun Look in conf. da 2 per es. latte solare IP 30 IR-A, 2 x 200 ml, 16.30 invece di 20.40, offerta valida fino al 14.5.2018
50% Tutti i rasoi da donna e da uomo BiC (confezioni speciali e confezioni multiple escluse), per es. rasoio usa e getta Twin Lady, 10 pezzi, 2.50 invece di 5.–, offerta valida fino al 14.5.2018
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30%
Tutti i mascara Covergirl a partire da 2 pezzi, 30% di riduzione, offerta valida fino al 7.5.2018
conf. da 2
conf. da 4
conf. da 2
20%
20%
30%
Shampoo e balsami Elseve in conf. da 2 per es. shampoo Color Vive, 2 x 250 ml, 5.65 invece di 7.10, offerta valida fino al 14.5.2018
Salviettine umide per bebè Milette in conf. da 4 per es. Ultra Soft & Care, 4 x 72 pezzi, 9.30 invece di 11.80, offerta valida fino al 14.5.2018
Additivi per il bucato Total in conf. da 2 per es. Color Protect, 2 x 30 pezzi, 10.60 invece di 15.20, offerta valida fino al 14.5.2018
conf. da 3
Hit
12.90
Slip a vita bassa o slip da donna Ellen Amber in conf. da 3 disponibili in diversi colori, taglie S–XL, per es. slip a vita bassa, neri, tg. M, offerta valida fino al 14.5.2018
FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
conf. da 3
30% Tutto l’assortimento di portafogli per es. portafoglio da uomo, in vera pelle, nero, il pezzo, 23.– invece di 32.90, offerta valida fino al 14.5.2018
Hit
19.80
Bottiglie per gasare SodaStream in conf. da 3 3 x 1 l, offerta valida fino al 20.5.2018
conf. da 5
30% Tutto l’assortimento Stewi per es. Libelle, blu, il pezzo, 90.30 invece di 129.–, offerta valida fino al 14.5.2018, in vendita solo nelle maggiori filiali
25%
12.35 invece di 16.50 Cleverbag Herkules in conf. da 5 35 l, offerta valida fino al 14.5.2018
Hit
59.80
Piumino in seta selvatica Karin 160 x 210 cm, il pezzo, offerta valida fino al 14.5.2018
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Novità alla tua Migros. 20x KTTEI PUUNN P
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Ideali per un aperitivo.
2.95 Cubetti di formaggio 2 x 110 g, offerta valida fino al 14.5.2018
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2.40 Sorbetto al mango Fruit Ice prodotto surgelato, 100 ml, offerta valida fino al 14.5.2018, in vendita solo nelle maggiori filiali
dolci, Croccanti e delle come quelle fiere.
4.50 Nocciole caramellate Sun Queen 150 g, offerta valida fino al 14.5.2018
forno di Prodotto da di Sils a forma pallone.
2.90 Pretzel Balls Party salate, 180 g, offerta valida fino al 14.5.2018
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2.90 Farm Chips Limited Edition, barbabietole e patate al naturale nonché BBQ, 150 g , per es. barbabietole e patate al naturale, offerta valida fino al 14.5.2018
e chia Barbabietole insieme.
2.60 formato Nel pratico da 5 l. Mitico Ice Tea alla pesca e al limone bag in box 5 l, per es. alla pesca, 5.– offerta valida fino al 14.5.2018
Zero calorie
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Aproz Orange da 1 l e in conf. da 6 x 1 l per es. 1 l, 1.20 offerta valida fino al 14.5.2018
OFFERTE VALIDE SOLO DALL’1.5 AL 7.5.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
Bastoncini di verdura Party barbabietole & chia o timo, per es. barbabietole & chia, 120 g, offerta valida fino al 14.5.2018
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
63
Idee e acquisti per la settimana
Farmer
Una fruttata sferzata di energia La grande famiglia Farmer accoglie un nuovo membro: le barrette Junior Mango-BananaMela in qualità biologica. La gustosa miscela di avena integrale e frutta – senza zuccheri aggiunti – è equilibrata e a misura di bambino. Inoltre conferisce alle barrette una consistenza morbida e permette loro di fare il pieno di energia tra un pasto e l’altro. Insomma, un’ottima scelta per tutti i bimbi durante le loro avventure al parco giochi o in giardino.
Azione 20X Punti Cumulus sui Bio Farmer Junior Mango-Banana-Mela fino al 7 maggio
Le barrette Junior sono uno spuntino goloso e ricco di fibre.
Gli agricoltori biologici lavorano in armonia con la natura. Si prendono cura di animali, piante, suolo e acqua. Bio Farmer Junior Mango-Banana-Mela 6 barrette Fr. 4.10 Nelle maggiori filiali
Parte di
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Idee e acquisti per la settimana
Pane del mese
Con il cuore verde A livello culinario il mese di maggio è caratterizzato dagli asparagi. Ora li si trovano anche nelle panetterie della casa. Con gli asparagi verdi i panettieri preparano un pane fragrante
Maggiori informazioni sul tema pane: www.migros.ch/ pane
Testo Claudia Schmidt; Foto Veronika Studer, Gaetan Bally
Il pane del mese di maggio è a base di farina di frumento, di cui una parte è integrale. Viene impastato con pezzetti di asparagi verdi. I panettieri danno forma al pane manualmente e alla fine lo cospargono con sesamo. Il gusto saporito del sesamo arrotonda le note aromatiche degli asparagi. Ciò fa di questo pane un’ottima base per imbottiture sostanziose. Anche Jérôme Ducret, panettiere
presso la panetteria della casa della filiale Migros di Crissier, la pensa così: «Con il pane agli asparagi si abbina perfettamente il prosciutto di Parma o un altro prosciutto crudo». In occasione di aperitivi e grigliate, l’accostamento di pane e asparagi – con l’accompagnamento di un filo di olio di oliva al limone o di un formaggio fresco di capra – sviluppa aromi elaborati e intensi.
Serie Specialità nelle panetterie Migros Attualmente: Pane agli asparagi
Jérôme Ducret (41) è il sostituto responsabile panetteria nella filiale Migros di Crissier ed è uno dei circa 900 professionisti che più volte al giorno sfornano il pane nelle 130 panetterie della casa. Così il pane è sempre disponibile appena cotto e caldo fino all’orario di chiusura.
Jerôme Ducret
«Amalgamare gli asparagi è impegnativo» Come è arrivato alla professione di panettiere?
Provengo da una famiglia di agricoltori, che coltivava grano. A mio nonno piaceva preparare prodotti da forno. Ogni volta che eravamo con lui in cucina c’era qualcosa di dolce. Raccontava spesso del suo praticantato in una panetteria bernese. Ciò mi ha incoraggiato a fare un apprendistato come panettiere.
Pane agli asparagi 360 g Fr. 3.30
Foto e Styling Veronika Studer
Il pane del mese è agli asparagi. Cosa ha di speciale?
Gli asparagi hanno un gusto particolare, il risultato è quindi un pane molto originale. In cosa si differenzia la produzione di pane agli asparagi rispetto agli altri pani?
Amalgamare gli asparagi è impegnativo. Per ottenere un pane perfetto l’impasto deve essere mescolato con molta attenzione.
Il pane è insostituibile perché…
…si mangia durante ogni pasto, dalla colazione alla cena. Il suo pane preferito è…
…il pane passione, preferibilmente con un pezzetto di Gruyère. Il pane dovrebbe mantenersi fresco il più a lungo possibile. Come si fa?
Questo risultato si ottiene per esempio con una lunga lievitazione, vale a dire lasciando riposare l’impasto a lungo. Oppure utilizzando la pasta madre, che già per la fermentazione richiede molto tempo. Ad avere una lunga lievitazione sono i pani della casa e i pani dal forno di pietra. Da voi quali sono i pani più venduti?
La corona croccante e il pane ticinese. I clienti li apprezzano in particolare quando sono ancora caldi.
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Idee e acquisti per la settimana
Pane del mese
Con il cuore verde A livello culinario il mese di maggio è caratterizzato dagli asparagi. Ora li si trovano anche nelle panetterie della casa. Con gli asparagi verdi i panettieri preparano un pane fragrante
Maggiori informazioni sul tema pane: www.migros.ch/ pane
Testo Claudia Schmidt; Foto Veronika Studer, Gaetan Bally
Il pane del mese di maggio è a base di farina di frumento, di cui una parte è integrale. Viene impastato con pezzetti di asparagi verdi. I panettieri danno forma al pane manualmente e alla fine lo cospargono con sesamo. Il gusto saporito del sesamo arrotonda le note aromatiche degli asparagi. Ciò fa di questo pane un’ottima base per imbottiture sostanziose. Anche Jérôme Ducret, panettiere
presso la panetteria della casa della filiale Migros di Crissier, la pensa così: «Con il pane agli asparagi si abbina perfettamente il prosciutto di Parma o un altro prosciutto crudo». In occasione di aperitivi e grigliate, l’accostamento di pane e asparagi – con l’accompagnamento di un filo di olio di oliva al limone o di un formaggio fresco di capra – sviluppa aromi elaborati e intensi.
Serie Specialità nelle panetterie Migros Attualmente: Pane agli asparagi
Jérôme Ducret (41) è il sostituto responsabile panetteria nella filiale Migros di Crissier ed è uno dei circa 900 professionisti che più volte al giorno sfornano il pane nelle 130 panetterie della casa. Così il pane è sempre disponibile appena cotto e caldo fino all’orario di chiusura.
Jerôme Ducret
«Amalgamare gli asparagi è impegnativo» Come è arrivato alla professione di panettiere?
Provengo da una famiglia di agricoltori, che coltivava grano. A mio nonno piaceva preparare prodotti da forno. Ogni volta che eravamo con lui in cucina c’era qualcosa di dolce. Raccontava spesso del suo praticantato in una panetteria bernese. Ciò mi ha incoraggiato a fare un apprendistato come panettiere.
Pane agli asparagi 360 g Fr. 3.30
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Il pane del mese è agli asparagi. Cosa ha di speciale?
Gli asparagi hanno un gusto particolare, il risultato è quindi un pane molto originale. In cosa si differenzia la produzione di pane agli asparagi rispetto agli altri pani?
Amalgamare gli asparagi è impegnativo. Per ottenere un pane perfetto l’impasto deve essere mescolato con molta attenzione.
Il pane è insostituibile perché…
…si mangia durante ogni pasto, dalla colazione alla cena. Il suo pane preferito è…
…il pane passione, preferibilmente con un pezzetto di Gruyère. Il pane dovrebbe mantenersi fresco il più a lungo possibile. Come si fa?
Questo risultato si ottiene per esempio con una lunga lievitazione, vale a dire lasciando riposare l’impasto a lungo. Oppure utilizzando la pasta madre, che già per la fermentazione richiede molto tempo. Ad avere una lunga lievitazione sono i pani della casa e i pani dal forno di pietra. Da voi quali sono i pani più venduti?
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 aprile 2018 • N. 18
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Idee e acquisti per la settimana
Pedic
Un passo verso l’estate La stagione più calda fa bene anche ai piedi, che approfittano della luce e del caldo come pure di un po’ più di attenzioni nei loro confronti. La formula per avere dei piedi ben curati in estate è semplice: pediluvi (10 minuti a 38 gradi), eliminazione dei calli (elettricamente o con delle creme specifiche), unghie ben tagliate e limate (non tagliare mai gli angoli) e idratazione (applicare una crema due volte al giorno). Nella gamma di prodotti Pedic, la marca per la cura dei piedi più venduta in Svizzera, ognuno trova il prodotto più indicato alle proprie esigenze per trascorrere un’estate con i piedi in salute. Pedic Care Apparecchio elettrico anti calli con 2 rulli Fr. 29.80
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Fertilizzante per gerani e piante fiorite fi orite GESAL
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3
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Concime a effetto prolungato con lana di pecora GESAL
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