Azione 21 del 22 maggio 2018

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 22 maggio 2018

Azione 21 M alle shopp pag ing ine 4145 /

Società e Territorio Incontro con Luca Sandrinelli, responsabile della cura generale dei castelli di Bellinzona

Ambiente e Benessere Il laghetto di Muzzano è un biotopo con un ricco patrimonio di biodiversità: un’esposizione di Pro Natura ci permette di scoprirne i segreti

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Politica e Economia I primi cinque anni del pontificato di Francesco Bergoglio

Cultura e Spettacoli A Milano con Matt Mullican un’esperienza che va ben oltre quella meramente artistica

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Donne, lavoro e denatalità

Gite scolastiche, il Cantone le sostiene

di Barbara Manzoni

di Guido Grilli

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Keystone

In Italia c’è chi la chiama peste bianca. Non si tratta di una malattia inguaribile eppure le conseguenze sono paragonabili a quelle di una nuova epidemia. Stiamo parlando della denatalità, un fenomeno comune a buona parte dell’Europa e che da anni tocca anche il Ticino. Il nostro è, infatti, il cantone svizzero con la natalità più bassa, circa 1,4 figli per donna (la media svizzera è di 1,52). L’Italia è messa peggio: il suo indice di fertilità si attesta su uno sconfortante 1,34, il più basso in Europa, che vede invece Francia e Svezia in testa alla classifica con un indice di 1,92 e rispettivamente 1,85. Per inciso precisiamo che l’indice di fertilità indica il numero di figli che una donna teoricamente ha (avuto), in media, durante la propria vita riproduttiva e che, come spiega Lisa Bottinelli in La natalità del Ticino nel contesto europeo («Dati», maggio 2015), «ha il vantaggio di essere immediatamente confrontabile ad un valore di riferimento: 2,1 nati vivi per donna, detto anche tasso naturale di sostituzione... Sotto questa soglia la popolazione diminuisce e l’unica maniera per mantenere un effettivo stabile è ricorrere all’apporto migratorio». È evidente che oltre ad un saldo naturale negativo la denatalità ha anche come conseguenza l’invecchiamento della popolazione e una nuova composizione della società. L’analisi di questa tendenza in atto ormai da decenni risulta estremamente difficile perché è conseguenza di grandi cambiamenti culturali, sociali ed economici. Alle scelte o situazioni di vita, come ad esempio la posticipazione della maternità, concorrono molte variabili, dal contesto socioeconomico alla disponibilità (e accessibilità) di strutture di custodia per i figli, dai congedi parentali alla religione, l’elenco potrebbe allungarsi enormemente addentrandosi nell’analisi dei comportamenti individuali. Le considerazioni sul fenomeno si sprecano ma un punto sembra ormai metter tutti d’accordo. Nei Paesi in cui la parità fra i sessi è più marcata e il tasso di occupazione delle donne è più alto si fanno più figli, inoltre, e citiamo ancora lo studio di Lisa Bottinelli, «le regioni con importanti quote di donne altamente qualificate sono anche quelle con la natalità più alta». Ovviamente il modello sono ancora e sempre i Paesi scandinavi, dai quali invece sembra che la Svizzera si sia ulteriormente allontanata: stando al Global Gender Gap Report del WEF nella classifica che riguarda la parità tra i sessi il nostro Paese nel 2017 è retrocesso di dieci posizioni (meglio di noi anche il Ruanda). La denatalità d’altronde ha una notevole influenza anche sul livello della crescita economica di un paese. A tal proposito Banca d’Italia ha pubblicato lo scorso marzo lo studio Il contributo della demografia alla crescita economica: duecento anni di storia italiana. «In sostanza – scrive Maurizio Sgroi su “Econopoly” del “Sole24ore” – gli economisti di Bankitalia asseverano un principio molto semplice: la crescita di un’economia dove gli anziani sono una maggioranza relativa tende a rallentare». Tra gli strumenti utili per compensare le dinamiche demografiche e aumentare la produttività lo studio di Banca d’Italia individua l’aumento della partecipazione delle donne al lavoro. Donne e lavoro sembra dunque essere, su più piani, un binomio imprescindibile per il futuro dell’Europa. E sembra andare in questa direzione anche la riflessione dei consiglieri di Stato Vitta e Beltraminelli che nella recente riforma fiscale e sociale hanno previsto una serie di misure per favorire la conciliabilità fra famiglia e lavoro. Invertire una tendenza epocale è compito estremamente arduo per la politica e l’economia, prenderne atto e iniziare a riflettere sul futuro di un Paese in cui i cortili cominciano ad essere desolatamente vuoti e silenziosi è un dovere di tutti.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 maggio 2018 • N. 21

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Attualità Migros

M «Vogliamo essere una Migros per tutti»

Personaggi Da quasi cinque mesi è membro della Direzione generale della FCM e responsabile delle risorse umane

del Gruppo Migros. Sarah Kreienbühl sulle sue sfide più importanti, il significato sociale di Migros e l’alpinismo

Daniel Sidler, Franz Ermel* Signora Kreienbühl, la famiglia in cui è cresciuta faceva gli acquisti alla Migros?

mantenga un atteggiamento di costante analisi critica, per essere ancora migliori e più vicini ai nostri clienti. È come nell’alpinismo: la vetta è tua, solo quando sarai di nuovo a valle.

Sì. Sono cresciuta nel centro della città di Zurigo e la mia famiglia faceva gli acquisti in una piccola filiale Migros, a conduzione famigliare. Alla cassa lavorava una nostra vicina. E per inciso sono ancora oggi amica dei suoi figli. I prodotti Migros hanno avuto un ruolo di rilievo nel corso mia infanzia, come il Gugelhopf al cioccolato in occasione delle feste di compleanno dei bambini.

Cosa intende?

È stato un passaggio spontaneo. Quando sono uscita di casa mi sono iscritta io stessa quale socia.

Sì. Mi dà molto, perché mi fa restare con i piedi per terra e nel contempo mi rammenta cosa conta veramente. Spesso in pianura i temi di cui ci si occupa prendono ampio spazio. In altitudine regnano regole completamente diverse, poiché la visuale si allarga. Una lunga escursione in montagna porta sempre, anche in senso figurato, nuove prospettive.

E come è passare da un’infanzia con Migros a diventarne proprietaria?

Dal 1° gennaio di quest’anno è nella Direzione generale della FCM. Passare da una società quotata in borsa, Sonova SA, a una cooperativa, Migros, non è stato uno shock culturale ?

No. Tra Migros e Sonova ci sono più analogie di quanto si possa pensare. Entrambe le aziende sono radicate nel territorio svizzero e fortemente influenzate da pionieri: quella che un tempo si chiamava Phonak da Andy Rihs, Migros da Gottlieb Duttweiler. Con prodotti pregiati entrambe le aziende offrono ai loro clienti qualità di vita e grazie a ciò sono diventate leader del mercato. Nel tempo Sonova ha esteso le sue attività al mercato globale. Ma anche Migros impiega circa 15’000 collaboratori all’estero e in più coniuga un grande impegno sociale, valori forti, una solida cultura aziendale e l’alto grado di identificazione dei collaboratori nei confronti del proprio datore di lavoro. E sia Sonova che Migros sono aziende decisamente innovative. Le cooperative non sono necessariamente innovative.

Non sono d’accordo. Le cooperative sono molto vicine ai clienti e ciò favorisce la loro forza innovativa. Le aziende di produzione Migros in media ogni mese propongono 30 prodotti innovativi. Anche per quanto riguarda processi e modelli gestionali Migros è alla pari con le più moderne aziende tecnologiche. Penso per esempio all’attuale progetto di spesa social «Amigos» o al programma Cervelo di Engagement Migros.

Si ha l’impressione che lei sia già completamente immersa nel mondo Migros. Ha mantenuto una visione esterna?

Al momento ho un buon equilibrio. Ho già appreso parecchio della storia Migros e capisco le motivazioni di fondo di determinati sviluppi. Nel contempo ho ancora una visione esterna e posso così portare in azienda altre visioni. Può dare un esempio concreto?

Quando un’azienda da lungo tempo è leader del mercato, in ogni organizzazione sussiste il rischio dell’autocompiacimento. È comprensibile ma pericoloso. Desidero che noi tutti si

In montagna la maggior parte degli incidenti avviene durante la discesa. E vedo ciò come allegoria della vita intera: quando si raggiunge qualcosa, sussiste il grande pericolo che si inizi a sedersi sugli allori. Ragione in più per mantenersi «desiderosi», porsi nuovi e ambiziosi obiettivi, evolvere e così rimanere competitivi.

Lei è un’appassionata di alpinismo, si può subito notare.

Qual è l’ultima montagna che ha scalato?

L’ultimo 4000 è stato l’attraversamento della Punta Dufour. Ma non sono a caccia di trofei, mi godo invece l’esperienza, senza distrazioni e con il poco che si porta con sé nello zaino. Ogni volta ciò mi permette di mettere ogni cosa nella giusta relazione. Attualmente sono però più occupata con la bici da corsa, la mia seconda grande passione, e pedalo con grande piacere su e giù per i passi alpini.

Dice che un’organizzazione dovrebbe costantemente evolversi. Cosa deve assolutamente mantenere Migros?

I nostri collaboratori ci rendono il numero uno: la loro grande identificazione con Migros è unica. È qualcosa che non si può semplicemente acquistare, ma si sviluppa nel corso di decenni. Di ciò vogliamo prenderci cura; tra l’altro con la definizione di obiettivi comuni, che realizziamo in breve tempo. Le aziende con una struttura gestionale centralizzata sono avvantaggiate. Migros è composta da cooperative regionali che in parte hanno visioni diverse.

Il federalismo della Migros è anche la sua forza. Le attuali modalità di lavoro sono piuttosto decentralizzate e quindi più vicine al cliente. A mio avviso è nel contempo molto importante riflettere insieme sui punti comuni e vivere una cultura Migros unica, che unisce tutte le nostre aziende e le cooperative.

Lei è anche la responsabile delle risorse umane della FCM. Dove vede la più importante sfida?

Così come molte altre aziende, anche Migros ha davanti a sé una trasformazione. La digitalizzazione sta cambiando ogni ambito della vita, anche il comportamento dei consumatori. Il mio obiettivo è di accompagnare i nostri collaboratori in questo viaggio e nel contempo prendermi cura del valori sociali della Migros. In ciò vedo uno dei miei compiti principali.

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Sarah Kreienbühl mette in particolare evidenza l’impegno sociale della Migros. (Sandra Blaser) Migros offre condizioni eccellenti ai suoi collaboratori. Sarà possibile mantenerle?

Per quanto possibile, questo è l’obiettivo. Per questo mi rallegro del fatto che, nonostante il difficile contesto di mercato, con i nostri partner sociali abbiamo recentemente potuto prolungare il contratto collettivo di lavoro per la Comunità Migros. E la molteplicità dell’offerta proposta da Migros tramite il Percento culturale e la Scuola Club?

L’impegno del Percento culturale è ancorato statutariamente. Una percentuale fissa della cifra d’affari – e non dell’utile – va a favore di progetti sociali e culturali. Verifichiamo in modo sistematico la nostra offerta, con l’obiettivo di raggiungere il gruppo più ampio possibile di persone. Anche in questo settore facciamo dell’equilibrismo: manteniamo un’ampia offerta e nel contempo copriamo i più possibili e particolari ambiti di interesse. Ciò ha una motivazione: vogliamo essere una Migros per tutti.

Percento culturale, centri per il tempo libero, stampa Migros e comunicazione: quali le priorità?

I primi tre settori hanno un denominatore comune: forniscono importanti contributi alla società e al bene comune – arte, musica, danza, corsi e formazioni o contenuti giornalistici per tutti. Ciò va ben oltre gli interessi puramente economici dell’azienda. Il mio desiderio è che queste prestazioni siano maggiormente conosciute, anche grazie al supporto della comunicazione. Non è già noto cosa fa Migros?

Soprattutto quando parlo con i giovani, constato che molti di loro non conoscono il grande contributo che Migros apporta alla società. Mi chiedo quindi come sia possibile raggiungere queste persone e far loro conoscere i nostri valori. È d’aiuto il fatto che le giovani generazioni sono sempre più orientate al pensiero sociale e alla sostenibilità. Quasi ogni azienda si definisce sostenibile.

È vero che molte aziende si attengono a standard minimi. Anche qui Migros

è un passo avanti. Siamo per esempio il maggior produttore di energia solare in Svizzera e molte filiali Migros producono più elettricità di quanta ne consumino.

Quale il modo migliore per descrivere Migros?

In verità è molto semplice: rendendo consapevoli i nostri clienti che con ogni loro acquisto alla Migros danno un importante contributo personale alla società. Il grande impegno sociale Migros, sia esso attraverso il Percento culturale, il Fondo di aiuto o i nostri sforzi a favore della sostenibilità, ci distingue dalle altre aziende e ci rende unici. Oltre a ciò, con ogni acquisto i nostri clienti promuovono l’occupazione in Svizzera. Lei è responsabile anche della comunicazione e di «Migros-Magazin». Il giornale ci sarà ancora tra dieci anni?

A questa domanda risponderanno i nostri lettori. Il panorama dei media è particolarmente toccato da sconvolgimenti. Ma mentre la maggior parte dei media subisce pesanti perdite, «Migros-Magazin» ha mantenuto i suoi lettori. Evidentemente stiamo facendo le cose giuste e continueremo a fare il possibile affinché i giornali di Migros continuino a godere di grande popolarità.

Ancora una parola sulla promozione delle donne: come si sente a essere l’unica donna nella Direzione generale?

Per me non è un grande tema, da sempre. Sono fiduciosa che la percentuale di donne con funzioni dirigenziali continuerà a crescere. Ridurre la diversità a una questione di genere non rientra tuttavia nel mio modo di considerare le cose. Altri aspetti – per esempio un salutare equilibrio nella piramide delle età o la varietà delle esperienze – dovrebbero anch’essi essere considerati, così da riflettere nel modo più esteso possibile gli interessi dei nostri clienti. Per me sono importanti condizioni quadro favorevoli per le famiglie, modelli adeguati e l’offerta di opportunità, per consentire a quante più persone

possibile – donne e uomini – di entrare nei quadri dell’azienda e realizzare così il loro potenziale. Per concludere alcune domande personali: qual è l’ultimo libro che ha letto?

Gli ultimi libri scritti da Bertrand Piccard, Ueli Steck e Rolf Dobelli. In aggiunta al piacere della lettura, sono altrettanto stimolanti le vivaci discussioni sul contenuto dei libri che da sempre intrattengo con i miei amici. Che genere di musica ascolta?

Sono cresciuta con la musica da camera. Più tardi ho ampliato i miei gusti musicali: oggi ascolto jazz, funk e soul e scopro volentieri ciò che non ho mai ascoltato. Per esempio il formidabile duo Matthieu Michel e Heiri Känzig, che ha da poco suonato alla rassegna jazz del Percento culturale. Cucina?

Sì, e anche con molto piacere, preferibilmente con i prodotti freschi dell’orto. Traggo volentieri ispirazione, tra l’altro, dalla nostra rivista di cucina «Migusto». Di cosa si occupa all’infuori della Migros?

Sono attiva nel Consiglio di fondazione della «Hear-the-WorldFoundation». Questa fondazione era sotto la mia responsabilità alla Sonova e aiuta principalmente bambini in paesi in via di sviluppo con problemi di udito e i cui genitori non possono permettersi alcun supporto. Mettiamo loro gratuitamente a disposizione gli apparecchi acustici, in modo che possano frequentare la scuola, seguire una formazione e più tardi condurre una vita indipendente. Ho visitato diversi paesi e ho potuto verificare personalmente quanto impressionante sia il cambiamento di vita per questi bambini grazie all’operato della fondazione. Sono molto contenta non solo di poter continuare con questo importante impegno, ma di potermi ora ingaggiare attivamente anche nelle diverse fondazioni Migros. * Redattori di Migros Magazin


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 maggio 2018 • N. 21

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Società e Territorio Il Cantone garantisce le gite scolastiche Uscite didattiche, culturali o sportive programmate dalle scuole medie peseranno meno sulle spalle delle famiglie, ma anche i Comuni dovranno fare la loro parte pagina 4

Oltre Metoo Dal movimento #metoo a #quellavoltache: la gravità e l’estensione del fenomeno delle molestie sessuali ora è evidente, la lotta delle donne continua pagina 5

Tra i compiti del custode oltre alla gestione tecnica delle infrastrutture e degli impianti, c’è la collaborazione con gli organizzatori degli eventi. (Stefano Spinelli)

Il custode dei castelli

Incontri Luca Sandrinelli è responsabile tecnico della cura generale di Castelgrande, Montebello e Sasso Corbaro Sara Rossi Guidicelli Luca, come Luciano prima di lui, sembra avere un segreto in fondo agli occhi. Raccontano entrambi apertamente del loro mestiere di custode dei castelli di Bellinzona e anche se questo comporta molti aspetti pratici, alcuni persino ripetitivi, c’è qualcosa che sfugge alla parola, qualcosa di irraccontabile, una soddisfazione interna che li colma. È evidente che lavorare in un castello non è come lavorare in qualsiasi altro posto. Su Luciano Rossi, che vi ha abitato e lavorato per 25 anni, il regista Niccolò Castelli ha girato un documentario alcuni anni fa. Poi Luciano è andato in pensione e gli è subentrato Luca Sandrinelli, che incontriamo a Castelgrande per una chiacchierata. Cresciuto nel Bellinzonese, fino a due anni fa era custode in una scuola, lavorava a metà tempo e nell’altra metà faceva il papà. Quando suo figlio è cresciuto ed è andato alle elementari, all’Organizzazione Turistica Regionale Bellinzonese e Alto Ticino è uscito il concorso per custode dei castelli e Luca ha partecipato. Lo affascinava l’idea e inoltre il suo rapporto con i castelli di Bellinzona era sempre stato speciale: da piccolo viveva a Daro e la sua piazza di gioco, in ogni stagione, era Montebello. «Che parti-

te di calcio abbiamo fatto! Anche con un metro di neve... E poi slittavamo, giocavamo a prenderci, a nascondino, esploravamo», racconta. Se per i bambini un castello è uno scrigno magico pieno di avventure, da adulti basta ripescare quel bambino che siamo stati per emozionarci di nuovo. A Sasso Corbaro Luca ha organizzato la propria festa di matrimonio e ora il luogo principale del suo lavoro è Castelgrande. Regolarmente, com’è ovvio, va anche negli altri due castelli a effettuare supervisioni, riparazioni o ciò di cui c’è bisogno. I castelli sono di proprietà del Cantone ma è l’Organizzazione Turistica che li ha in gestione. Nel marzo del 2016 dunque l’Otr ha assunto Luca Sandrinelli e per i primi due mesi il nuovo custode ha affiancato quello che andava in pensione, Luciano. Questi gli ha trasmesso consegne, informazioni sulle tante stanze e gli oggetti di cui dispongono le fortezze di Bellinzona e i segreti, quelli che forse si possono tramandare solo con il tempo trascorso insieme e con il silenzio. La mattina il custode apre i cancelli a Castelgrande, mentre a Montebello c’è una persona preposta per l’apertura e la chiusura e a Sasso Corbaro se ne occupa il personale del Ristorante. «I primi ad arrivare, già verso le

otto, sono i turisti asiatici», spiega Luca. «Spesso viaggiano in gruppo, scattano qualche foto e ripartono, di corsa... probabilmente stanno facendo il giro dell’Europa e alcuni pullman si fermano per ammirare questo patrimonio dell’Unesco racchiuso tra le nostre montagne». Poi, un po’ più tardi, arrivano i bellinzonesi con il cane e altri turisti, molti svizzero tedeschi ma non solo. Vengono anche classi di studenti in gita scolastica e al pomeriggio gruppi di ragazzi e coppie che passeggiano. «La sera si chiudono le porte alle 19 e d’estate c’è chi si lamenta: molti vorrebbero potersi godere il tramonto, il fresco e il prato più a lungo», riferisce Luca, ricordando che comunque i ristoranti e il grotto restano aperti. Luciano è andato in pensione a maggio di due anni fa; Luca si è dunque ritrovato sulle spalle la responsabilità dei luoghi proprio quando iniziava la bella stagione e prendono avvio le manifestazioni che si svolgono ai castelli. Tra i compiti principali del custode, infatti, oltre alla gestione tecnica di tutte le infrastrutture e degli impianti, c’è la collaborazione con gli organizzatori degli eventi. Tutto l’anno ci sono le mostre a Sasso Corbaro e Castelgrande, a maggio c’è La Spada nella Rocca, in giugno iniziano i concerti, a luglio c’è

il Montebello Festival, il festival di Teatro Territori e in agosto il Cinema open air di Castelgrande. A fine stagione poi si festeggia proprio qui la Giornata dei Castelli Svizzeri. Da quando Luca ha iniziato il suo mandato, Bollywood è già venuta due volte a girare qualche scena di film qui tra queste mura. Il custode accompagna gli organizzatori nei sopralluoghi, sta a disposizione durante i lavori di preparazione ed è presente anche durante le manifestazioni, i concerti e gli spettacoli. Luca è diplomato come Operatore in infrastrutture ed immobili: è quindi in grado di occuparsi di problemi semplici di elettricità e idraulica, sa fare riparazioni e piccole costruzioni ma soprattutto conosce i castelli. Sa cosa c’è nei magazzini, sa dove si trovano tutte le cose di cui si potrebbe avere bisogno in uno spazio dove si allestiscono esposizioni e spettacoli e ha le chiavi di tutte le porte. O meglio: ha il passepartout che apre tutte le porte. «Non ho mai avuto problemi: le persone che vengono qui per lavorare, ma anche i visitatori in generale, sono molto beneducati. Capita che qualcuno lasci resti di picnic o peggio bottiglie rotte nel prato, ma sono avvenimenti rari». Luca mi dice che all’inizio ha sentito un po’ la vertigine della responsabilità,

ma è sempre stato entusiasta della sua scelta e della sfida che comportava. Ora si sente perfettamente a suo agio, fa del suo meglio per preservare tutta questa meraviglia architettonica, mettendoci tutta la cura e la sorveglianza che necessita. «Quando arrivo al mattino presto e quando chiudo la sera, spesso non c’è nessuno. Allora il fascino di questo posto è palpabile nell’aria e mi vien voglia di camminare piano senza far rumore e di stare qui un attimo in più a guardarmi in giro e a sentire questi posti». Gli chiedo se avrebbe un’idea per i castelli, qualcosa che magari in futuro si potrebbe fare per valorizzarli ancora di più. «Sì, un’idea ce l’ho», mi risponde. «Quando salgo sulla Torre Bianca e vedo il panorama pieno di industrie e palazzi moderni mi dispiace. Penso che nell’epoca in cui viviamo possiamo sicuramente creare una realtà virtuale da offrire ai nostri ospiti per mostrare loro cosa si vedeva nel Medioevo, quando i castelli sono stati costruiti. Diventerebbe allora un’esperienza ancora più importante». Lo lasciamo al suo lavoro: raggiunge il suo atelier, dove sta costruendo dei mobiletti dove appoggiare i nuovi tablet con le traduzioni dei pannelli informativi per le mostre di Castelgrande e Sasso Corbaro.


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Società e Territorio

Il tempo delle gite Scuola Dopo la sentenza del Tribunale federale le spese delle uscite didattiche,

culturali o sportive graveranno meno sulle famiglie

Il Cantone per garantire l’offerta di attività e uscite ha approvato un sostegno di un milione all’anno ma anche i Comuni sono chiamati a fare la loro parte Anche in Ticino ci sono state lamentele da parte delle famiglie sul costo delle gite, come è avvenuto nel Canton Turgovia? «No. Questo perché il Ticino è sempre stato piuttosto nella norma: non ci siamo mai spinti in spese troppo elevate quanto nel Canton Turgovia che aveva accollato alle famiglie persino spese delle scuole per alloglotti che da noi sono invece sempre state gratuite». Implicitamente il governo ticinese, adeguandosi alla sentenza del Tribu-

Il numero delle attività previste in Svizzera in occasione di questo particolare festival colpisce per la sua ricchezza. Sono più di un centinaio e il sito web dell’iniziativa, www.festivaldellanatura.ch, li elenca con grande evidenza su una cartina geografica interattiva. Solo in Ticino gli appuntamenti sono ben quarantuno e il loro elenco completo è davvero ricco e pieno di suggestioni inattese. Ecco alcuni dei titoli degli incontri: «Cinemasseria»; «Alla scoperta degli uccelli e gli altri animali delle Bolle di San Martino e del monte San Rocco»; «A tu per tu con i pipistrelli»; «Impariamo di più su alcune delle specie comuni del territorio ticinese»; «Porte aperte e visita guidata al Vivaio Forestale Cantonale», ecc. Tanta ricchezza di iniziative è a disposizione di tutti coloro che sono interessati a conoscere la grande biodiversità presente sul nostro territorio.

Bambini delle elementari percorrono il sentiero del Parco Valle della Motta: le gite scolastiche favoriscono la conoscenza del territorio. (Ti-Press)

nale federale, evidenzia l’importanza e l’utilità delle gite scolastiche. «Le scuole medie hanno a disposizione un credito di istituto e con quel credito possono realizzare uscite didattiche, culturali, sportive e ricreative. Le attività sono importanti: consentono di sviluppare le relazioni tra i ragazzi, per il solo fatto di andare fuori di casa, di vivere un momento comunitario. E sono sempre momenti dove l’offerta è piuttosto consistente. Le proposte, va evidenziato, non sono esclusivamente ricreative – c’è anche il divertimento, per carità – ma non solo: sono esperienze che durante l’adolescenza contano molto. Lo stesso, anche se in maniera differenziata, vale nei Comuni alle Elementari: dalla scuola verde alla scuola montana». Rappresentano anche opportunità valide per favorire la conoscenza del territorio? «Sì – risponde Bertoli – io ricordo che, venendo dal Mendrisiotto si andava in passeggiata a vedere il Ticino del nord. Mia moglie che lavorava in Valle Maggia come maestra veniva invece nel Mendrisiotto con la sua classe per conoscere la regione più lontana». Dopo questa sentenza del Tribunale federale limiterete il numero delle attività e delle gite nelle scuole Medie? «No. Per le scuole medie il meccanismo voluto dalla legge rimane quello di un credito-budget composto da un somma fissa alla quale si aggiunge un importo per studente. Oggi questa cifra è

WWF Il Festival della

Natura 2018 si tiene dal 24 al 27 maggio

Guido Grilli «Viva la gita scolastica»: è proprio il caso di dirlo non solo per gli allievi, ma anche per i genitori, dal momento che alle famiglie molti costi d’ora in poi saranno in buona parte risparmiati. La novità è intervenuta di recente con una sentenza del Tribunale federale che, ribadendo il principio della gratuità della scuola dell’obbligo, ha accolto le obiezioni mosse nel Canton Turgovia sulle spese delle uscite di studio ritenute eccessive. Un verdetto al quale il governo ticinese non solo ha aderito nel principio, ma pure concretamente, risolvendo di investire un milione di franchi all’anno per supplire ai mancati introiti delle famiglie, così da mantenere immutato e garantito l’ampio ventaglio delle escursioni scolastiche e delle visite di studio. Manuele Bertoli, direttore del Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport illustra i passi intrapresi. «Per le scuole Medie il nostro intervento è stato di introdurre un limite di richiesta finanziaria alle famiglie, sulla base della sentenza del Tribunale federale, e nel contempo di garantire i soldi per compensare questo mancato introito – si tratta di 1 milione all’anno – affinché l’offerta delle escursioni possa rimanere invariata. Lo stesso principio lo abbiamo fissato per le Scuole comunali, per cui saranno i Comuni che dovranno provvedere a compensare il mancato introito, in ottica soprattutto della settimana verde o delle giornate di sci».

Una giornata per conoscere la biodiversità

di 15mila franchi, più 15 franchi per allievo, che da settembre saranno decisamente di più, dal momento che è stato stanziato questo milione di franchi che sarà suddiviso tra le 35 sedi delle medie. Ogni sede dovrà gestire questa disponibilità finanziaria, praticando un bell’esercizio di autonomia che ritengo un aspetto molto positivo: ogni sede dovrà decidere se preferisce ad esempio proporre una gita o un progetto sull’arco di tre giorni oppure optare per due o tre uscite di un solo giorno. Deciderlo sarà compito del plenum dei docenti». Il budget sarà dunque immutato oppure da settembre la coperta si farà più corta? «In teoria a settembre le sedi potranno confermare quanto hanno proposto finora, perché quanto non sarà coperto dalle famiglie arriverà dallo Stato». Ma le escursioni scolastiche non si misurano solo in termini finanziari. Tra i 35 istituti di scuola media presenti in Ticino, uno si distingue particolarmente per essere la sede più piccola del Cantone e quella posta ad una maggiore altitudine, a mille metri sopra il livello del mare, e immersa nella natura: è la scuola media di Ambrì che accoglie 116 allievi provenienti dai comuni di Airolo, Bedretto, Dalpe, Prato Leventina e Quinto. «Noi teniamo soprattutto che gli allievi conoscano il nostro territorio» – evidenzia Marco Costi, direttore di sede da dieci anni e docente di ma-

tematica. «Ogni inizio di anno scolastico organizziamo un’escursione in una delle località del nostro comprensorio. Questi momenti hanno il pregio di rinsaldare il nostro legame con il territorio. Anche il nostro progetto di istituto è incentrato su questo punto. Siamo in contatto con i patriziati, con l’azienda forestale e con le imprese artigianali per cui gli allievi hanno l’occasione di assistere in modo concreto alla conoscenza delle diverse professioni, dai falegnami ai contadini. Inoltre abbiamo sviluppato il progetto dell’orto». L’autonomia conferita alle scuole medie vede un ventaglio ampio di proposte e itinerari nelle diverse sedi. Come a Mendrisio, dove le quarte classi sono appena tornate da un’uscita di studio questa volta transfrontaliera: quattro giorni all’Isola d’Elba. Alla voce escursioni, sono contemplate anche visite guidate che guardano invece ancora una volta alla nostra realtà. È il caso della recente proposta realizzata dalla scuola media di Bedigliora che ha accompagnato i propri allievi alla Rsi, dentro gli studi televisivi per provare l’emozione di microfoni e telecamere. D’altra parte lo stesso Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese ormai adottato in ogni sede contempla, fra le diverse competenze trasversali, la conoscenza di sé, lo sviluppo dell’autostima, il rispetto di sé, degli altri e delle regole, l’educazione alla cittadinanza.

un’avventura e si concatena al successivo, ogni volta la quotidianità più normale viene mescolata con divertenti scenette surreali, come quando Dory decide facciamo-che-ero-un-cane e continua a farlo anche dalla pediatra, o come quando incontra uno gnomo che le dice di essere la sua fata madrina, o quando – rimboccandosi le maniche del pigiamino – «salva» la pallina rimbalzina che era finita nel gabinetto. La storia è raccontata con tre linguaggi, ben orchestrati dall’autrice/illustratrice: i disegni, il testo narrato e i fumetti che, qua e là, potenziano l’effetto umoristico. Ad esempio, se i fratelli dicono a Dory di smetterla di fare domande, il contrappunto del fumetto ce la presenta mentre chiede a Mary: «perché abbiamo le ascelle?» o «qual è il contrario di panino?» e la condiscendente Mary, sorseggiando il tè del servizietto delle bambole, o coricata sotto il letto, risponde «che domanda interessante», o «me lo sono sempre chiesta anch’io».

La serie, che ha ottenuto molti riconoscimenti ed è pubblicata in 17 paesi, è giunta al suo terzo volume.

La locandina della manifestazione.

Questa ricchezza di habitat è la base del nostro benessere, ma la maggior parte di essi è gravemente a rischio e la loro qualità è in continuo declino. Il festival quindi riunisce a livello nazionale organizzazioni e attori che nelle tre regioni linguistiche operano nel campo della protezione della natura, del turismo e dell’amministrazione in un’unica piattaforma incentrata sulla biodiversità. Il programma completo delle giornate è scaricabile dal sito dell’iniziativa: per ognuno degli appuntamenti sono indicati gli indirizzi di contatto a cui annunciarsi e il punto di ritrovo per partecipare all’incontro.

Festival della Natura, dal 24 al 27 maggio, Varie località della Svizzera

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Abby Hanlon, Dory Fantasmagorica, Terre di Mezzo. Da 7 anni «La fantasmagoria è quando, come in un sogno, realtà e fantasia sono fuse insieme». E Dory, la bambina protagonista di questa fortunata serie dell’autrice americana Abby Hanlon, è proprio fantasmagorica. Con questo termine così giocoso anche solo da pronunciare si può intendere un tratto specifico, e forse il più intenso e illuminante, del pensiero infantile: quel suo situarsi nel limbo tra il Qui razionale e l’Altrove fantastico, quel suo essere fluido, di soglia, quel suo avere un’intima dimestichezza con le magiche possibilità dell’immaginario e con le prospettive inconsuete da cui guardare il mondo. Dory ha sei anni e i fratelli la escludono dai loro giochi perché è «una bambina piccola». Lei comunque può contare su un’amica che c’è sempre, e che è Mary, la sua amica immaginaria «mostra» (con due piccole corna e degli adorabili canini sporgenti). Con Mary,

ma anche con molti altri personaggi «fantasmagorici», Dory trascorre le sue vivaci giornate: in sei agili capitoli scritti e illustrati, viene suddivisa la storia, narrata in prima persona dalla stessa Dory, con effetti umoristici efficaci. Nel primo capitolo, ad esempio, i fratelli di Dory, per prenderla in giro, le dicono che potrebbe arrivare la Signora Arraffagracchi, che ruba le bambine piccole e sta cercando proprio lei. Ma sarà proprio la Signora Arraffagracchi, creata per l’occasione dalla mirabolante immaginazione di Dory, a diventare l’antagonista del secondo capitolo, la cattiva da sconfiggere nei suoi fantasmagorici giochi. Ogni capitolo è

Guido Sgardoli, Supergatta, Lapis. Da 5 anni Guido Sgardoli, che ha appena vinto il premio Andersen con il romanzo L’isola del muto, per lettori adolescenti, è un autore capace di rivolgersi a tutte le fasce d’età, compreso il pubblico dei primi lettori. Come quello a cui sono destinate le avventure di Cipollina, miciona sovrappeso e apparentemente pigra e fifona, che invece, quando un pericolo incombe sul quartiere, è in grado di trasformarsi in coraggiosissima Supergatta e risolvere tutti i guai. Nella prima avventura, Supergatta salva il gattino di Luca, un vicino di casa, e ha la meglio su Peppo, il bulletto della zona. La vicenda è raccontata con toni rocamboleschi, tra fughe, arrampicate e lotte, e il bello è che alla fine ritroviamo Cipollina acciambellata

sul suo cuscino, salvatrice in incognito come ogni supereroe che si rispetti. La sua padroncina Zoe le dice: «Cipollina, sapessi cos’è successo! C’è un supergatto nel nostro quartiere! Ma tu che ne puoi sapere di misteriosi salvatori e di gatti eroi! Continua pure a dormire, patatina mia». Ma la «patatina» in questione, appena uscita Zoe, solleva una palpebra ammiccando al lettore... Eh sì, la vita dei supereroi è questa: «non c’è tempo per gloria e medaglie. Fatto il proprio dovere ci si mette da parte». Le avventure di Supergatta sono illustrate con tratto fumettistico da Enrico Lorenzi e sono scritte in stampatello maiuscolo, con font ad alta leggibilità.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 maggio 2018 • N. 21

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Società e Territorio

La lotta delle donne

Oltre #metoo Il movimento di protesta partito dalle star hollywoodiane si posiziona all’interno della lotta

che molte donne di tutte le generazioni continuano a combattere contro la violenza Laura Marzi La realizzazione di un videogioco amatoriale può essere piuttosto semplice: è sufficiente scaricare un programma, scegliere gli scenari e poi proseguire con la creazione delle funzionalità del personaggio, si tratterà di un prodotto limitatissimo rispetto a ciò che c’è sul mercato, ma si può fare. Ci è riuscita nel 2010 la liceale Suyin Looui, creando un videogioco in cui la protagonista, armata fino ai denti, si aggira per le strade di un sobborgo e trucida coloro che le si rivolgono per infastidirla o molestarla. Si chiama Hey Baby e nacque a seguito di un sentimento di impotenza da parte della sua ideatrice che all’ennesima frase oscena che si era sentita mormorare, mentre passeggiava da sola, impaurita e impotente è tornata a casa e ha pensato bene di creare un luogo, certo virtuale, in cui fosse possibile vendicarsi, fare giustizia.

L’ampiezza del fenomeno delle molestie sessuali contro le donne è testimoniata dall’elenco di #quellavoltache Una volta in rete piovvero reazioni molto diverse: da chi sosteneva che si trattasse di un modo per vedere i molestatori finalmente puniti a chi argomentava che la violenza non è la soluzione, insistendo sulla disparità tra un insulto detto in strada e la vendetta di essere ammazzati con un lanciafiamme. Di certo Suyin Looui era piuttosto stanca di sentirsi vittima solo perché si muoveva nel mondo da sola, così ha deciso di creare un avatar che potesse diventare carnefice. Troppo spietato? O forse non a sufficienza, se si pensa che in quel personaggio armato c’erano la rabbia e la frustrazione di milioni di donne che avevano dovuto, come lei, stare zitte e correre via, almeno provare a farlo. Già, perché la gravità e la trasversa-

lità del fenomeno delle molestie sessuali contro le donne è sconfinata. Basta sfogliare la raccolta di #quellavoltache, pubblicata per Manifesto Libri, risultato della campagna web lanciata da Giulia Blasi, che invitava tutte le donne a raccontare le esperienze di molestie subite. Nella postfazione le curatrici spiegano perché hanno scelto di non intervallare le testimonianze con cuciture di nessun tipo, solo: «calci nello stomaco in sequenza rapidissima». L’effetto è infatti esattamente questo: far risaltare la gravità di quello che sta accadendo nel mondo occidentale, a partire dalle denunce di Asia Argento contro Harvey Weinstein. In Italia 124 fra attrici e lavoratrici dello spettacolo sono firmatarie di una lettera che denuncia un sistema improntato al ricatto sessuale: Dissenso Comune, questo il nome del manifesto, è stato al centro della premiazione dei David di Donatello 2018. Non si tratta, però, solo della eco della lotta di donne dello spettacolo, è un sopruso, una sorta di condanna a cui le femmine, dalle bambine alle donne, possono essere sottoposte, che lavorino in un negozio o su un set cinematografico, che si trovino su un bus prede di un perfetto maniaco sconosciuto o a casa, alla mercé di un parente più o meno prossimo. Si tratta della realtà. Per questo gli attacchi di femministe e non, che si sono schierate contro #metoo e si sono dette indignate che la battaglia delle donne si arretrasse su quello che è stato definito un posizionamento vittimistico, negano banalmente l’evidenza: le donne non si stanno ponendo sulla scena pubblica come vittime, le donne sono vittime di molestie. Anna Bravo ha rilasciato un’intervista in cui ricorda che «avere un potere piccolo non significa averne alcuno». Però significa non averne abbastanza per impedire che la propria carriera possa dipendere dal sottostare a ricatti sessuali, di non averne neanche a sufficienza per tornare a casa in autobus da sola, o da scuola. Poi, ha dichiarato anche che uno dei suoi sogni è vedere una

Le proteste non si placano, le testimonianze si moltiplicano e la lotta di molte donne continua. (Keystone)

ragazza che insidiata minaccia il suo molestatore dicendo «ti do un pugno se non la smetti». Sa molto più questo di realtà virtuale che il videogioco di Suyin Looui. Non ci si chiede, infatti, che cosa potrebbe accadere quando si reagisce, che cosa è accaduto le centinaia di milioni di volte in cui le donne molestate o violentate hanno reagito? Davvero può essere questo il punto: dimostrare di essere forti? Ancora? Sarah Solemani su «The Guardian» ha ben altri sogni: andare in un nightclub da sola per ascoltare la musica, prendere un autobus la sera senza doversi preoccupare di essere l’unica donna, potersi distrarre a guardare fuori dal finestrino. L’attrice attivista e scrittrice inglese conclude con il desiderio che per le donne i tipi a posto siano la norma invece che l’eccezione e che lo

stesso accada per un buon orgasmo. Altro che il diritto di essere importunate! Del movimento #metoo si è anche scritto che è una nuova ondata del femminismo, a partire dal dato che rimette al centro del dibattito pubblico la questione della sessualità femminile, che è lungi dall’essere stata risolta quarant’anni fa perché il genio di Carla Lonzi ha scritto cose mai superate. A quanto pare la pratica eterosessuale è rimasta piuttosto invariata, con l’aggravante che molti uomini hanno creduto che la liberazione sessuale delle donne le rendesse solo più disponibili a sottomettersi al loro desiderio. Sicuramente è bene sottolineare che il movimento si posiziona all’interno della lotta che molte donne di tutte le generazioni continuano a combattere contro la violenza, contro una divi-

sione iniqua e criminale del potere. Si inscrive nella pratica politica dei centri antiviolenza femministi che lottano sul territorio, grazie al lavoro spesso volontario di molte donne di tutte le generazioni che resistono alle regolari minacce di chiusura. Sono uno dei tanti e fondamentali frutti del femminismo degli anni 70: sono le donne che offrono ascolto e casa alle vittime di violenza, che danno una soluzione. E coloro che hanno deciso di testimoniare per la campagna #quellavoltache, anche se a qualcuna può non piacere il gusto retrò della parola, hanno fatto un atto di autocoscienza, perché hanno sentito e capito che altre donne erano lì per ascoltarle e che non si sarebbe trattato solo di uno sfogo che magari comporta più danni che altro, ma di un passo verso una rivoluzione.

Per un mondo che contiene il paese di Utopia lanostraStoria.ch Nel portale è ora custodita la più grande raccolta di documenti audiovisivi dedicati

al Sessantotto nella Svizzera italiana Lorenzo De Carli Cinquant’anni fa, un po’ ovunque nelle maggiori città dell’Occidente, ebbe inizio tutta quella serie di manifestazioni, che caratterizzarono il Sessantotto. In questi giorni e verosimilmente per tutto il resto dell’anno, giornali, radio, televisione e web riandranno a quell’anno che diede avvio ad una miriade di cambiamenti che trasformarono profondamente la nostra vita sociale. Nulla ne fu escluso: le relazioni famigliari, la sfera sessuale, lo stile educativo, il rapporto con l’autorità, la scuola, la musica, la politica, l’impegno e il disimpegno sociale, il rapporto con il corpo, la rinegoziazione continua dei valori tradizionali: fu l’inizio di trasformazioni che portarono all’odierna società fluida. Nel sito web di storia partecipativa «lanostraStoria.ch» è stato completato un dossier – intitolato «Il sogno di una cosa» – che raccoglie più di un centinaio di documenti delle Teche RSI selezionati perché afferenti in vario modo al Sessantotto: o perché documentano eventi nei quali possiamo scorgerne i prodromi, o perché seguono alcune vie direttrici di trasformazione sociale che

proprio dalle contestazioni studentesche presero sviluppo. Ci sono documentari che illustrano il rinnovo conosciuto da molti ordini scolastici – e in particolare dalle Università – sotto la pressione delle contestazioni, altri che si soffermano su esperienze di convivenza comunitaria in stretto rapporto con la natura, così come ci sono cronache radiofoniche o televisive dedicate all’emergere di una cultura «alternativa» ieri, oggi ovunque diffusa perché accettata dall’eterogeneo mercato degli «stili di vita». Sul portale ha così preso forma la più grande raccolta di documenti au-

diovisivi dedicati al Sessantotto nella Svizzera italiana mai resa disponibile al pubblico. È nondimeno bene dire che non si tratta, propriamente, di una storia del Sessantotto, nemmeno limitatamente alla nostra regione. Il criterio di selezione è stato un altro: quello di usare i programmi radiotelevisivi della RSI come «voce e specchio» di quegli eventi che cambiarono il mondo. Non è un caso che Voce e specchio è il titolo di un’opera curata dallo storico dei media Theo Mäusli dedicata alla storia della Radiotelevisione svizzera di lingua italiana pubblicata da Armando Dadò nel 2009. La pro-

Daniel CohnBendit. (lanostrastoria.ch)

spettiva assunta da chi ha compilato il dossier su «lanostraStoria.ch» non è stata quella di raccontare il Sessantotto bensì di collezionare programmi radiofonici e televisivi che furono fruiti prima, durante e dopo il Sessantotto, ritenendo fondato il presupposto che, se per un verso radio e TV concorsero a formare l’immaginario collettivo di allora, per l’altro verso esse, proprio come uno specchio, rifletterono (magari intercettando anche visioni che giungevano da lontano) i pensieri, le emozioni e le riflessioni di chi era contemporaneo a quegli eventi. È compito degli storici raccontare il Sessantotto. Compito di «lanostraStoria.ch» è farci vedere e sentire che cosa videro e sentirono i telespettatori e radioascoltatori di cinquant’anni fa. Per esempio, già nel 1965, essi videro studenti in piazza a Lugano manifestare in sostegno degli studenti oppressi dalla dittatura franchista in Spagna. Sentirono alla radio Giairo Daghini raccontare il Maggio parigino. In immagine, videro la Sorbona occupata ripresa dalla cinepresa di Alain Tanner, che fece la cronaca delle manifestazioni insurrezionali ma anche quelle di sostegno al governo francese, mostrando

le assemblee studentesche e operaie ma anche la disapprovazione di tanti cittadini smarriti di fronte a rivolgimenti così rapidi. Ma non solo, attraverso le interviste a intellettuali come Max Horkheimer, Alain Touraine, Roland Barthes o Edgar Morin i telespettatori di allora ebbero anche la possibilità di avere chiavi interpretative per descrivere quanto raccontato dalla cronaca. Il portale documenta anche quanto «perturbante» seguitò ad essere il Sessantotto nel corso degli anni: allo scadere di ogni decennio, radio e televisione non poterono esimersi di tornare sull’argomento e lo stile di volta in volta diverso non è solo segnale di un mutato modo di fare televisione (per esempio coinvolgendo o no i giovani), ma anche di approcci ideologici diversi nel tempo. Tra le interviste che gli telespettatori di allora videro, spiccano quella a Joan Baez e quella a Daniel Cohn-Bendit: la cantante che fu voce del pacifismo statunitense e l’anarco-comunista che guidò l’occupazione della Sorbona. Joan Baez chiedeva impegno civile, «Dany il Rosso» che non si disegnasse una carta del mondo senza il paese di Utopia.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 maggio 2018 • N. 21

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Totem e jazz Fra i temi dibattuti dall’antropologia classica fino ad un punto di sofisticatezza teorica e filosofica da non capirci quasi più nulla vi è quello del totemismo. «Ototeman» è un termine dei dialetti Algonchini (Canada) che semplicemente significa «parente». Nella terminologia concettuale dell’antropologia ottocentesca «totemismo» venne ad indicare i sistemi di credenze diffusi un po’ in tutto il globo secondo i quali esisterebbe un legame di parentela fra una data linea di discendenza umana ed una specie animale. Questo legame comporterebbe tutti gli obblighi che si devono fra parenti – aiuto in caso di difficoltà, divieto di contrarre matrimonio, solidarietà contro i nemici e – non ultimo – la proibizione di mangiarsi reciprocamente. Insomma, tradotto in termini occidentali, sarebbe come se chi si chiama Orsi, Leoni, Corvo o Cavalli avesse come tabù alimentare l’orso, il leone, il corvo o il cavallo – il che, diranno i lettori più attenti, non è gran rinuncia a livello gastrono-

mico. Ma provate a pensare cosa succederebbe se uno si chiamasse Pollo... – o forse è proprio per questo che ci sono in giro pochi cognomi del tipo Prosciutti o Fiorentina... Insomma: nelle formazioni sociali tradizionali il rapporto fra uomini e animali è spesso giustificato dal fatto che in tempi ormai mitologici il rapporto fra l’Antenato Fondatore di una linea di discendenza si costituì sulla base di un patto di aiuto reciproco in caso di difficoltà sancito da un patto di non aggressione a livello alimentare. Per una certa scuola classica questo sistema di credenze aiuterebbe a pensare e ad organizzare il rapporto fra mondo umano e mondo animale. Per esempio: i Vagla del Ghana Nordoccidentale, fra i quali il vostro Altropologo preferito conduce le sue ricerche, pensano che i loro vicini Lobi siano un popolo molto primitivo in quanto tabuizzano l’ippopotamo (che per loro invece è un cibo squisito) in quanto credono che l’ippopotamo abbia un tempo aiutato l’Antenato Fondatore

a cavarsi dai guai. Replicano i Lobi: «I Vagla sono così primitivi da proibire il consumo alimentare dei pipistrelli (che per i Lobi sono il massimo) perché credono che siano i loro antenati reincarnati». Ora, chi dovesse pensare che questo modo di pensare e di credere sia «primitivo» sospenda un attimo il giudizio fino a quando avrà valutato la notizia che segue sulle modalità «occidentali postindustriali» di concepire il rapporto fra uomini e animali. Circola sul web da qualche giorno, cotto in varie salse in una varietà di siti (alcuni seri), il risultato di una ricerca (seria) di una Università australiana (seria – pare) che ha deciso di investire tempo e denari nello studio delle capacità cognitive degli squali (sì, proprio così: ancora gli squali, i nostri pet più amati ed odiati, come ricorderanno i lettori più fedeli di questa rubrica). Cosa hanno pensato bene di fare i ricercatori della Macquarie University di Mansfield, Australia guidati dalla Professoressa Catarina

Vila-Pouca per testare l’intelligenza degli squali? Hanno immerso un tot di speakers in una zona frequentata da un certo simpatico squaletto dal nome promettente di Heterodontus Portusjacksoni (di più fra un attimo) e hanno cominciato a sparare a tutto volume, sottacqua, ora musica jazz ora invece musica sinfonica. Contemporaneamente all’inizio dei concerti sono state buttate in acqua secchiate del cibo preferito dal suddetto HP. Risultato del test: si è notato che HP reagisce prontamente al richiamo della musica jazz accorrendo verso i distributori di cibo, mentre il richiamo della musica sinfonica lo lascia indifferente quando non addirittura «confuso». Che gli squali preferiscano il jazz alla sinfonica è ovvio e non occorre investire denari per capirlo: la musica sinfonica è per persone severe, pensose e seriose – gravi e sobrie. Il jazz è per persone esuberanti e buontempone, goderecce e tiratardi, amanti del cibo e dell’alcool. Proprio

come era il caso del «pensiero totemico primitivo», il «primitivo postmoderno» riproduce mutatis mutandis le stesse forme di pensiero dei suoi antenati: individua fra i tanti un animale che lo colpisce in particolare e comincia ad elaborarci sopra proiettando sul prediletto i suoi propri desiderata e pregiudizi. Infatti – obietta l’Altropologo, perché testare jazz e sinfonica sugli squali e non tarantella e dodecafonica sulle sogliole? O perché no canto mongolico e Wagner sulle lumache? E poi – e poi. Sfido io: l’Heterodontus Portusjacksoni è uno squaletto dal muso simpatico mai più lungo di un metro e qualcosa. Perdipiù presenta una livrea variegata che lo fa assomigliare un poco al Pesce Pagliaccio. Ovvio che preferisca il jazz. Però – sostiene l’Altropologo – se si proponesse l’attacco della Quinta di Beethoven a uno Squalo Bianco Carcharodon Carcharias di sei metri vedreste voi come si fionderebbe sulla preda... Chi scommette sui gusti musicali degli squali?

attesa della condanna e dell’espiazione, mettono a rischio, senza motivo, quanto di positivo è stato costruito con determinazione e fatica. Ed è proprio l’eccitazione della possibile rovina che rende l’adulterio un rapporto eccitante, coinvolgente, insostituibile, sino a trasformarsi in una forma di dipendenza. Uno stato d’animo, quello della donna che tradisce, descritto in modo impareggiabile da grandi scrittori, quali Tolstoj in Anna Karenina e Flaubert in Madame Bovary. La vicenda delle due protagoniste, entrambe suicide, si svolge sotto il segno dell’amore romantico, retto dal binomio amore-morte. Temo, nel suo caso, non si tratti di amore, un termine spesso abusato, quanto del tentativo di sfuggire alla monotonia di una esistenza già risolta, prevista e prevedibile. La chiave di un comportamento che risulta incomprensibile persino a lei, si trova racchiusa nella frase: «ho tutto quello che dalla vita una persona potrebbe desiderare». Siamo esseri di desiderio e la sazietà ci annoia. Mentre gli animali, appagati i bisogni essenziali, come bere, mangia-

re, dormire e accoppiarsi, si addormentano, noi diventiamo inquieti, ci agitiamo, cerchiamo nuovi oggetti e nuovi scopi. Sfuggiamo ogni conclusione in quanto evoca ciò che più temiamo: la nostra fine. Per evitare di cadere in questo tranello dovremmo alzare l’asticella dei valori, individuare obiettivi più alti rispetto a quelli raggiunti. Secondo Dante, Ulisse, simbolo della vita umana, non si limita a tornare a casa, come racconta Omero. Giunto a Itaca, abbraccia i suoi cari, ristabilisce legalità e giustizia, e riparte. Anziché riposare le stanche membra sul grande letto matrimoniale e insediarsi sul riacquistato trono, si rimette in viaggio. E, dispiegate le vele, affronta il mare aperto sino a oltrepassare le Colonne d’Ercole e inoltrarsi verso l’ignoto. Dante commenta questo famosissimo passo con l’ammonizione: «Considerate la vostra semenza, fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza». Nell’inganno che lei sta vivendo, la «virtute» è offesa dal disinteresse nei confronti della sua famiglia, in particolare dei figli che hanno più che mai

bisogno di aver accanto una mamma attenta e partecipe. Aggiungerei anche il danno che, rendendosi complice del suo amante, arreca alla di lui fidanzata, indubbiamente trascurata e umiliata. Quanto alla conoscenza, il suo sguardo, polarizzato sulla relazione clandestina, sulla volontà di mantenere il segreto, non si volge certo ad ammirare il mondo né a comprendere e aiutare gli altri. In fondo, concentrandosi su se stessa, appaga il suo narcisismo ed evita di interrogarsi sul senso della vita, la domanda radicale che ci rende umani. Forse m’illudo ma ritengo che la sua lettera segni una svolta e inauguri una nuova narrazione della sua esistenza. La primavera invita alla rinascita e confido che lei, per quanto fragile e stanca, trovi in sé la forza e il coraggio di ricominciare.

diverse e vaghe. Lo stesso avviene nei confronti della paga, considerata corretta o scarsa, secondo gli umori di chi la riceve. Ma c’è dell’altro. Una semplice cifra, stabilita da un contratto di categoria, assume, non di rado, connotati qualificanti sul piano sociale e psicologico. È vista come un attestato di merito e capacità e, addirittura, come una sorta di biglietto da visita, un lasciapassare verso gli ambienti di chi conta. Soprattutto, questa cifra diventa lo specchio che riflette il nostro valore di «Homo faber»: quello del cittadino che si mette alla prova lavorando. Logico, allora, domandarsi: io quanto valgo, in termini salariali? Proprio a quest’interrogativo era dedicato il mensile illustrato della «NZZ» dello scorso aprile, in cui il tema equo salario era affrontato, certo sulla scorta di dati statistici e documenti ufficiali,

ma anche come fatto di costume e di mentalità. Registrando addirittura «un’anomalia» che distingue i rapporti umani, persino quelli familiari, rispetto a quanto avviene in altri paesi, soprattutto in quelli nordici. Si tratta della riservatezza che, da noi, circonda l’ammontare dei propri introiti. Se ne discute, nell’ambito politico ed economico, ma nell’ambito della quotidianità, rimane un argomento tabù. Secondo uno studio della Consors Bank, nel 40 per cento delle coppie vige questo tabù fra coniugi o partner. E, ovviamente, questa particolarità non manca di stupire gli osservatori stranieri. Ecco che, sul citato «Folio NZZ», il giornalista tedesco Peter Haffner ironizza: «La parte più intima del corpo dello svizzero è il suo portamonete». E paragona il silenzio sul salario al segreto della ricetta dei formaggi, come

si vede nel delizioso spot degli alpigiani in costume. A sua volta, il giornalista inglese, Diccon Bewes, osserva: «Di soldi si parla, ma a bassa voce. Un po’ come per un amore segreto, di cui non si dice il nome». Per poi concludere che, comunque, il danaro c’è sempre, ma dietro le quinte. Segretezza, prudenza , se sono parenti prossimi dell’ipocrisia, hanno però prodotto anche forme di comportamento improntate alla sobrietà che, non di raro, contrassegna i ceti facoltosi, soprattutto oltre Gottardo, capaci di evitare esibizionismi arroganti. Ma succede pure l’opposto: il ricco che vive modestamente, camuffato da povero. Ciò che, a ben guardare, rappresenta sempre una scelta da privilegiati. Il ricco può concedersi anche questo lusso. C’è da dubitare che l’equo salario riesca a cancellare queste disparità.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Una relazione clandestina Cara Silvia, innanzitutto mi complimento con lei, leggo costantemente la sua rubrica che trovo davvero molto utile e interessante. Ho vergogna di farlo ma mi spingo a scriverle perché, da un anno circa, sto vivendo male una situazione nella quale io stessa, ahimè, mi sono cacciata. Partiamo dall’inizio: sono una donna ormai quarantenne, sposata con un uomo che mi vuole bene, due splendidi bambini, una casa. Insomma tutto quello che dalla vita una persona potrebbe desiderare. Dovrei essere felice ma così non è. Da un anno circa nella mia vita è entrata, o meglio rientrata, una persona con la quale ho avuto una relazione prima del matrimonio. La relazione era finita molto male. Pensavo l’avessi superata ma quando ci siamo rivisti ci siamo ritrovati, piaciuti e abbiamo iniziato quasi subito una storia da amanti (lui è fidanzato con una sua coetanea 45enne). Ci sono ricascata e, se all’inizio mi sentivo molto euforica e lusingata da questa novità, con il passare del tempo mi rendo conto che ora penso a lui in modo ossessivo, non mi sembra conti nient’altro. A casa

sono spesso nervosa e vivo in una sorta di paralisi mentale, uno stato di standby dal quale non riesco ad uscire. Il mio amante dice di volermi bene ma credo che mai si sognerebbe di impegnarsi in modo serio con me. Non ho la forza di troncare ma nemmeno quella di lasciare mio marito con il quale, in tutti questi anni ho costruito, con tanti sacrifici e fatica, una famiglia. Non è giusto né corretto quello che sto facendo e, anche se razionalmente sono perfettamente consapevole che ogni colpo di testa mi porterà soltanto alla rovina, non ho la forza di prendere in mano le redini della mia vita e dire basta a questa storia clandestina. La prego mi aiuti perché davvero ci sto molto male. Grazie di cuore. / S. Cara S., nel momento in cui la sua vita sembrava pienamente realizzata – un marito affezionato, due splendidi bambini, una casa su misura – ecco apparire, come talora avviene, il «demone del meriggio». Un’inquietudine strana, una voglia di cambiamento, il gusto della trasgressione, l’inconsapevole

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Salario equo: ma qual è mai? Diventa sempre più consistente, in Svizzera, la busta paga dei salariati. Secondo i dati pubblicati dall’Ufficio federale di statistica, quello mediano è di 6500 franchi mensili. Ciò che attribuisce un potere d’acquisto, del 40 per cento più alto, rispetto ai cittadini dei paesi confinanti, e quindi compensa largamente gli elevati prezzi elvetici. A prima vista è una buona notizia, viziata però da quel marchio di ufficialità, destinato, inevitabilmente, a sollevare contestazioni, sospetti, persino rabbia. Diffondendo una cifra, che in sé rappresenta un primato mondiale, le nostre autorità sembrano, infatti, alla caccia di consensi, proprio nell’ambito dove si tocca dal vivo la sensibilità, individuale e collettiva: cioè l’equo salario. Ora, stando a Berna, l’obiettivo, se non pienamente raggiunto, sarebbe ormai vicino. Anche se, dopo l’ini-

ziale trionfalismo, anche il cosiddetto «miracolo salariale elvetico», è stato relativizzato, alla luce di disuguaglianze persistenti, fra uomini e donne, fra Cantoni, fra professioni. Rimane, quindi, sempre attuale il dibattito intorno a un tema inesauribile che, giustamente, mobilita gli addetti ai lavori: imprenditori, sindacalisti, politici, in cerca di soluzioni possibili. Ma il loro intervento si ferma qui. Infatti, il salario, o stipendio, reddito, onorario, chiamiamolo come si vuole, riveste significati, che superano i buoni intenti degli specialisti in materia finanziaria e organizzativa. A questo punto, ci s’inoltra, invece, nella sfera delle cosiddette percezioni, per usare un termine corrente nelle previsioni meteo, quando si parla di 30 gradi reali e 35 percepiti, cioè un fatto concreto subisce interpretazioni individuali,


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 maggio 2018 • N. 21

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Ambiente e Benessere La DS, auto da sogno Modello storico della Citroën, dal 2014 è una marca che guarda al futuro della mobilità elettrica

I vini della Nuova Zelanda Negli ultimi decenni l’isola del Pacifico ha saputo migliorare le proprie tecniche di coltivazione e oggi propone varietà di altissimo pregio

Olive dai mille sapori Un frutto d’elezione della tradizione gastronomica mediterranea pagina 17

I quasi innocui ragni I vecchi pregiudizi sono duri da sfatare: un’esperta ci spiega che dobbiamo stare tranquilli

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Una postazione interattiva aiuta a scoprire i segreti del laghetto. (E. Stampanoni)

Ma chi vive a Muzzano?

Biodiversità Un’esposizione di Pro Natura offre l’opportunità di conoscere un ambiente naturale di valore,

di scoprirne la flora e la fauna, ma anche di ripercorrere la storia di questo biotopo

Elia Stampanoni Il laghetto di Muzzano, gemello di quello di Origlio, è un raro esempio di bacino glaciale della fascia collinare. Formatosi durante l’ultima glaciazione, si trova in un contesto naturale particolare, a pochi passi dalla città e da trafficate vie di comunicazione, ma comunque sufficientemente discosto per garantire lo sviluppo di un ambiente caratteristico. Dallo scorso aprile e almeno fino al 9 giugno, presso la Casa del Pescatore sulle rive del laghetto è stata allestita un’esposizione per far conoscere la biodiversità e la storia del laghetto: «Laghetto di Muzzano: ma chi ci vive?». Parallelamente, nel corso dell’estate, ci saranno anche una serie di escursioni e attività per osservare insieme a dei biologi le specie presenti lungo le rive di questa riserva naturale. La mostra è aperta al pubblico in concomitanza con le porte aperte della Casa del Pescatore, ma su richiesta viene aperta anche al di fuori delle date indicate, come ci spiega Martina Spinelli, responsabile comunicazione e progetti di Pro Natura Ticino, promotore dell’iniziativa con il sostegno di Confederazione, Cantone e Pro Natura svizzera: «Sono molte le scolaresche e i gruppi che approfittano di quest’esposizione

per avvicinarsi al laghetto di Muzzano. La maggior parte delle postazioni è comunque all’aperto e i pannelli informativi restano pertanto sempre accessibili al pubblico». Nei giorni d’apertura la mostra è però decisamente più allettante, dato che sul posto il visitatore troverà, oltre agli animatori di Pro Natura, pure del materiale interattivo. Ognuna delle nove postazione è infatti caratterizzata da una breve spiegazione su differenti temi legati al laghetto di Muzzano, a cui segue un’attività ludica indirizzata soprattutto ai bambini e ragazzi, ma non solo. Ci sono quiz, giochi, modellini, materiale da osservare con il binoculare o da toccare con le mani, animali da cercare oppure canti d’uccelli da ascoltare. I pannelli sono semplici e sintetici e fanno capire al visitatore chi vive attorno al laghetto di Muzzano che, con le sue modeste dimensioni, 780 metri di lunghezza e 337 metri di larghezza, propone diversi ecosistemi. Gli ambienti umidi relazionati al bacino, che copre circa 2.5 km2, sono caratteristici, come riferisce Martina Spinelli: «Al laghetto sono legati ambienti particolari, come quello del canneto, del bosco e dei prati umidi o delle acque libere, ognuno con la sua flora e la sua fauna caratteristici. Quello attualmente più

sotto pressione è di certo l’ultimo, a causa della forte eutrofizzazione avvenuta negli anni». L’eutrofizzazione, ossia l’eccesso di nutrienti nelle acque, negli anni ha causato una crescita esagerata di alghe e cianobatteri che hanno soffocato lo sviluppo di altre specie, come ninfee e brasche, due tra le piante acquatiche. Mentre le brasche stanno ritornando a proliferare a Muzzano, indice di un miglioramento di salute delle acque del lago, le ninfee sono state salvate e si progetta un reinserimento nei prossimi anni. L’allestimento della riserva naturale di Muzzano nel 1945 permise di salvare questa pregiata zona umida dall’avanzata della cementificazione, mentre i vari piani d’intervento e le misure che seguirono permisero più tardi, attorno all’anno 2000, di rallentare il degrado in cui si trovava. Mentre le acque sono ancora in uno stato precario, gli effetti su flora e fauna sono stati più rapidi e oggi ben visibili, come emerge da uno studio sulla biodiversità condotto dal 2014 al 2016. Tra gli ambienti più rigogliosi spicca di certo il canneto, dove la cannuccia palustre ha colonizzato le rive creando un ecosistema privilegiato per l’insediamento di libellule, pesci, anfibi, rettili e molti uccelli. Le postazioni dell’esposizione «Laghetto di Muzzano:

ma chi ci vive?» sono dedicate anche a questi aspetti e per esempio alla numero sette scopriamo come vivono e come volano le circa venti specie di libellule di casa nella riserva naturale di Muzzano. Il Martin pescatore è invece uno dei tanti uccelli che abita in stretto legame con il laghetto e anche uno dei più noti e amato grazie ai sui colori. «Anche se nel 2010 è stata creata una parete artificiale ideale per la sua nidificazione, non è ancora tornato a riprodursi a Muzzano, ma è possibile osservarlo sporadicamente mentre sfreccia sul laghetto», conferma la biologa Martina Spinelli, ricordando che le specie di volatili nidificanti al laghetto sono oltre 30 e altrettante quelle che visitano la riserva naturale durante l’anno per alimentarsi e riposarsi. Strettamente legati agli ambienti acquatici sono di certo gli anfibi, come i numerosi rospi o le più sporadiche rane rosse che stanno lentamente tornando sulle rive del lago. In questo contesto rientrano i lavori di rimessa a cielo aperto del ruscello Restabbio e la creazione di un sottopasso faunistico (sotto la ferrovia e la strada) che permette la migrazione degli anfibi ma anche di altri animali tra i vari ecosistemi. Altro emblema di Muzzano è sicuramente la castagna d’acqua Trapa natans muzzanensis, una specie unica

al mondo. Fu proprio grazie a lei che nel 1945 Pro Natura decise di acquistare il laghetto con l’intento di tutelare questa particolarità. Un proposito che non è andato a buon fine, ma che ha permesso all’associazione di raggiungere altri importanti traguardi a tutela di un’area di grande pregio naturalistico. Grazie alla presenza di differenti ambienti, il laghetto di Muzzano offre infine ospitalità anche a numerosi rettili e mammiferi che durante la visita si possono scoprire partecipando a un simpatico gioco di ricerca allestito nei dintorni della Casa del pescatore, oppure leggendo più tranquillamente le informazioni presentate. La Casa del pescatore, restaurata nel 2010, oltre ad accogliere quest’esposizione, è utilizzata da giovani, scolaresche o gruppi come luogo d’incontro a stretto contatto con la natura. La si raggiunge comodamente con una camminata lungo l’argine del laghetto scendendo alla fermata «Sorengo laghetto» della ferrovia Lugano-Ponte Tresa. Dalla stazione Cappella-Agnuzzo, dove ci sono pure dei parcheggi a disposizione, la camminata si raccorcia e presto ci si trova immersi nell’ambiente naturale del laghetto di Muzzano, caratterizzato da canneti, alberi, flora e fauna da scoprire. Informazioni, date e orari su www.pronatura-ti.ch


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Ambiente e Benessere

Una «dea» dalla lunga storia

Una tragica fine a Santa Petronilla Reportage online

Motori La DS è stata un modello avveniristico fin dalle sue origini nel 1955,

dal 2014 è una marca indipendente, proiettata verso il futuro della motorizzazione elettrica

Su www.azione.ch, Romano Venziani ci porta sulle tracce di Matthew Fortescue Brickdale, perito in circostanze tragiche durante una passeggiata a Santa Petronilla, sopra Biasca, nel lontano 1894. Brickdale era conosciuto in Inghilterra per essere stato il padre dell’artista preraffaellita, Eleanor Fortescue Brickdale, allieva di John Ruskin. Ma la storia è anche il pretesto per visitare la chiesa medioevale dei SS. Pietro e Paolo, chiesa madre delle tre valli ambrosiane e uno dei monumenti romanici più significativi della Svizzera, risalente al tardo XI secolo e più volte rimaneggiato, da ultimo nel 1967 dall’architetto Albert Camenzind. Come pure per compiere una passeggiata fino a Santa Petronilla per godersi una natura selvaggia e ricca di angoli magici – stando attenti a non far la fine di Matthew Fortescue Brickdale...

Mario Alberto Cucchi Era il 6 ottobre del 1955 e a Parigi si stavano per aprire le porte del 42esimo Salone dell’auto francese. Quell’edizione viene oggi ancora ricordata perché fu scelta da Citroën per il debutto della sua DS. Una vettura che è passata alla storia sin da subito. Basti pensare che quel sabato mattina nei primi 45 minuti di apertura del Salone furono siglati 749 contratti di vendita che diventarono 12mila alla fine del primo giorno e 80mila alla chiusura della manifestazione. La produzione di DS terminò il 24 aprile del 1975, a causa anche della crisi petrolifera, dopo circa un milione e mezzo di esemplari venduti. Auto avveniristica sia per la tecnologia, che per il design e per i colori. Quasi tutte le auto all’epoca erano grigie, nere o blu mentre la DS sfoggiava tra i suoi colori il verde mela abbinato al tetto bianco, oppure il giallo champagne con il tetto melanzana. Gli interni non erano da meno, con il caramello o il lilla. La sigla DS sta per Désirée Spéciale, ossia Desiderata Speciale. La storia racconta che, voluto o meno, quando i francesi pronunciano tutto d’un fiato DS, l’acronimo suona come «déèsse» che significa «dea». Bisogna aspettare il nuovo secolo per rivedere il marchio DS. Infatti Citroën solo a fine 2008 decide di rispolverare l’antica sigla con un concept presentato a Parigi nel 2009 in occasione dei 90 anni della Casa francese. Nel 2014

La «dream car» DS X E-Tense 2035, elettrica da 540 CV.

il brand DS acquista la sua indipendenza diventando una Casa automobilistica a se stante e non più solo una sigla che identifica dei modelli Citroën. DS è ancora protagonista di una bella storia che ci porta sino ad oggi e all’eprix di Parigi dell’ecologica Formula E. La gara si è svolta sabato 28 aprile e sul podio c’era Sam Bird, pilota del team DS Virgin Racing (www. ds-virginracing.com). Il terzo podio consecutivo del campionato per la Casa francese. Il Gran Premio elettrico che si è corso nella capitale è stata l’occasione scelta dall’amministratore delegato,

Notizie scientifiche Medicina e dintorni Marialuigia Bagni Ecco il chirurgo «commestibile» Un’équipe statunitense del Mit di Boston ha sviluppato un robot sorprendente: della taglia di una capsula di medicinale, una volta ingerito, muovendosi come una calamita, è in grado di «acchiappare» piccoli oggetti ingeriti per errore. Ad esempio, è in grado di recuperare una pallina mangiata da un bambino o una lisca di pesce, senza bisogno di intervento chirurgico. Presto il caffè naturalmente decaffeinato Nella «decaffeinizzazione» del caffè, sia ad acqua che ad anidride carbonica, se ne vanno, insieme alla caffeina, parte dei nutrienti e, quindi, anche degli effetti benefici. Una soluzione potrebbe arrivare da una varietà di piante scoperta in Africa dal botanico André Charrier. Riconosciuta dalla scienza nel 2008, la pianta produce naturalmente chicchi senza caffeina. Gomma da masticare per scoprire il cancro L’idea è venuta ad una società statunitense dell’Alabama: nella saliva ci sono composti organici volatili che differiscono da un tumore all’altro. Un chewing-gum masticato per un quarto d’ora li può concentrare facilmente e cani appositamente addestrati possono «fiutarli», con un’affidabilità prossima al cento per cento. Su questa base sono state sperimentate apparecchiature per identificare gli stessi composti. Saranno in vendita a partire dall’anno prossimo. Le nostre decisioni al casinò dipendono dagli altri Uno studio, pubblicato sulla rivista «Journal of Computation Biology», mostra che il comportamento dei soggetti, soprattutto tra chi gioca d’azzardo, si allinea a quanto fatto dal pre-

cedente giocatore. Questo consente, secondo la ricerca, di posizionare meglio le proprie strategie di gioco. Meno dolori alla schiena con il trolley Una ricerca dell’Università di Granada, in Spagna, ha dimostrato che il trolley risparmia giunture e muscoli degli alunni, affaticandoli meno, a patto, però, che il carico dei libri non superi il 10-15 per cento del peso corporeo. Lo studio, inoltre, grazie a sensori sistemati sul corpo dei ragazzi, ha misurato l’effetto dei diversi tipi di «sacchi»: il 43 per cento di chi usa lo zaino soffre di mal di schiena contro il 31 per cento di chi ricorre al trolley. I topi «ridono» per il solletico Per studiarne la sensibilità al solletico, ricercatori tedeschi dell’Università di Berlino hanno usato elettrodi posti nel cervello di roditori. Hanno potuto così identificare sia il gruppo di neuroni sensibili al solletico che i suoni emessi, molto simili alle «risatine» degli esseri umani.

Yves Bonnefont, per anticipare che dal 2025 ogni nuova DS sarà esclusivamente elettrica. Ecco allora che la dream car DS X E-Tense 2035 mostra concretamente la visione DS per i prossimi anni. Una sfida che guarda al 2035 in cui i progettisti hanno immaginato un abitacolo dedicato al passeggero che si apre con una porta ad ali di gabbiano in carbonio e pelle. Una vettura asimmetrica: metà spider e metà coupé. Per il pilota ecco il sedile avvolgente di una monoposto, pensato per la guida all’aria aperta. Non manca la guida autonoma e la

possibilità di accomodarsi «al coperto» sul sedile dotato di funzione massaggiante pensato per il passeggero. Insomma, estrema. L’esperienza delle piste di Formula E arriva su questo prototipo che adotta una motorizzazione elettrica. I due propulsori garantiscono una potenza di ben 540 cavalli. Presente inoltre una modalità studiata per l’utilizzo in pista che permette di passare a 1360 cavalli. Sogni a parte, è in arrivo la prima auto al 100 per cento elettrica marchiata DS. Verrà presentata il prossimo ottobre al Salone dell’auto di Parigi. Proprio come nel 1955. Annuncio pubblicitario

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Questo cuoio è fatto di funghi Dopo aver realizzato statue, mobili e mattoni a base di micelio dei funghi, un’azienda americana l’ha utilizzato per una «pelle» simile al cuoio. Coltivati sui rifiuti agricoli, i filamenti vengono fatti seccare e compressi per farne oggetti quali scarpe e borsette. I primi prodotti saranno presto in vendita. Le vitamine B proteggerebbero dall’inquinamento Uno studio condotto in paesi diversi e pubblicato sulla rivista «PNAS» suggerisce che l’assumere regolarmente vitamine quali B6, B9 (acido folico) e B12 può attenuare i danni provocati dalle polveri sottili sulle cellule del nostro Dna. Queste vitamine si trovano negli spinaci, nelle lenticchie, nei fagiolini, nelle noci e nella carne.

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Ambiente e Benessere

Un secolo in palestra

Sport popolare Il 26 e 27 maggio a Biasca

si terrà la finale dei campionati svizzeri di ginnastica ritmica, uno degli appuntamenti legati ai festeggiamenti per il centenario della SFG Biasca Raggiungere il traguardo del secolo d’esistenza è, per un’associazione, un risultato tutt’altro che scontato. Motivo di fierezza, certamente, e anche garanzia di solidità, che influisce in modo positivo sulla motivazione del gruppo che la anima. È vero che in un secolo le cose sono molto cambiate e osservare

le vecchie fotografie che ritraggono gli animatori della Società Federale di ginnastica di Biasca in quel lontanissimo 13 luglio 1918 ci rende ancora più chiara l’evoluzione compiuta dallo sport e dalla società ticinese. Consci dell’importante lavoro svolto dal loro sodalizio e desiderosi di

Le giovani leve della SFG Biasca.

cogliere l’anniversario secolare come stimolo per dare nuova spinta alle attività, ecco che i responsabili della SFG biaschese hanno deciso di proporre un

Biglietti in palio per il musical Un altro pianeta Per sottolineare in modo creativo l’anniversario compiuto dalla SFG Biasca è stato commissionata a Christian Pezzatti del Teatro Tan la creazione di uno spettacolo teatrale con musiche originali di Simone Menozzi e con il testo di Luca Chieregato. La pièce sarà proposta nell’ampio spazio della pista di ghiaccio di Biasca e vedrà impegnati, oltre ad alcuni attori professionisti, anche alcuni gruppi di membri delle sezioni attrezzistica e ritmica della SFG Biasca. In totale si muoveranno nello spazio scenico oltre 100 comparse. Lo spettacolo, che si terrà sabato 2 giugno ore 20.00 e domenica 3 giugno

ore 15.00 e 20.00, racconterà una storia fantascientifica in cui gli abitanti della terra cercano nuove possibilità di sopravvivenza nello spazio, e nel loro viaggio portano con sé la speranza di raggiungere un mondo nuovo in cui siano rispettati i valori importanti della vita, il rispetto della natura e del sentimento. «Azione», in collaborazione con gli organizzatori, offre ai suoi lettori alcuni biglietti gratuiti per lo spettacolo di domenica 3 giugno alle 15.00. Per partecipare al concorso basta osservare le istruzioni contenute nella pagina web www.azione.ch/concorsi. Buona Fortuna!

programma di iniziative (sostenute dal Percento culturale di Migros Ticino) che vogliono scandire quest’annata così speciale. Da gennaio a dicembre sono previste dunque varie attività, non soltanto sportive, che intendono coinvolgere tutta la popolazione nei festeggiamenti di questo rarissimo compleanno. Oltre a un nutrito programma di appuntamenti sportivi, di cui fanno parte i prossimi 26-27 maggio la finale del Campionati svizzeri di ginnastica ritmica, e il 10-11 novembre prossimi i Campionati svizzeri di attrezzistica maschile, sono previsti la pubblicazione di un libro (100 anni di emozioni, presentato lo scorso febbraio) e la produzione di un musical che vedrà coinvolti ben 120 figuranti, tutti ginnasti della sezione biaschese (vedi box a lato). Inoltre, la storica data del 13 luglio sarà festeggiata con un programma di animazione del borgo, una manifestazione di due giorni, denominata «SFG Biasca tra la gente». Per l’occasione sarà

creato un villaggio del Centenario e saranno tenute varie manifestazioni di contorno, tra cui una corsa podistica, dimostrazioni ginniche, film, musica e intrattenimenti. Momento clou sarà il concerto del cantautore ticinese Sebalter proprio il 13 luglio. Per quello che riguarda l’evento più vicino a noi, che si svolgerà il prossimo finesettimana alla Palestra SPAI di Biasca, la gara ospiterà 150 ginnaste, le migliori atlete della scena nazionale, presenti in competizioni legate a diverse categorie, a livello individuale o di gruppo. Per i colori del sodalizio biaschese sarà presente anche la pluricampionessa svizzera Tina Celio. Informazioni sullo svolgimento della manifestazione sono pubblicate sul sito web www.sfg-biasca.ch.

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Ambiente e Benessere

Il fiore della Passione

Fitoterapia La passiflora è una pianta dal sicuro effetto sedativo in grado di donare un sonno sereno e profondo lante e antispasmodica. Induce un sonno naturale, privo di effetti collaterali: non ha controindicazioni, scioglie leggere tensioni psichiche, combatte il circolo vizioso dell’ansia che tende ad autorigenerarsi. Nel corso della prima guerra mondiale fu utilizzata con successo come sedativo nervoso (purtroppo) nella cosiddetta «angoscia da guerra». Le sue proprietà sono state segnalate per la prima volta da David Lewis Phares (I817-1892) un ricercatore statunitense autore della Synopsis of medicinal flora of Mississippi. Phares individuò la sua azione depressiva a livello della zona motrice del midollo spinale unita a una contemporanea azione stimolatrice dell’attività respiratoria. Estratti di passiflora hanno prodotto variazioni nell’elettroencefalogramma, a dimostrazione del suo effetto sedativo. Si assumono gocce di Tintura madre nei casi di insonnia, disturbi della menopausa, stati ansiosi, tachicardia, disassuefazione da benzodiazepine, eccessiva contrattilità gastrointestinale. Gli Inca prescrivevano un decotto di foglie contro la diarrea. Come estratto secco unito a biancospino, valeriana e luppolo è un tranquillante per ansia e insonnia; come Infuso o Infuso composto, cioè in associazione con altre piante come ad esempio boldo, equiseto, eleuterococco, altea, rientra in numerose analoghe preparazioni.

Eliana Bernasconi Dalla notte dei tempi le piante, i nostri potenti alleati vegetali, sono pronte a offrirci sostegno. Sono d’altronde alle origini della moderna farmacopea, ma occorre conoscerle, avvicinarle, individuare «quella» pianta, fra le molte, che agisce sul nostro organismo, sulle nostre caratteristiche individuali. Purtroppo, ci informa il dott. Gabriele Peroni, farmacista e fitoterapeuta, non esiste allo stato attuale un metodo a priori che a colpo sicuro indichi la pianta esatta per ognuno di noi: rimane sempre valido il metodo della sperimentazione galileiana. Inoltre, e non lo ripeteremo mai abbastanza, serve sempre ricorrere alla competenza di fitoterapisti, erboristi, farmacisti. Le piante, se assunte in dosi errate, possono diventare pericolosi veleni. La complessità del nostro vivere che comporta ritmi rapidi, sollecitazioni, esigenze sempre diverse, sottopone molti a dura prova. Mantenere una calma olimpica non è sempre scontato. È noto quanto siano diffusi stati ansiosi o di ipertensione, tachicardia, insonnia, e, a motivo delle tante cose da ricordare, momentanei smarrimenti di memoria causati da stress generalizzato, anche se in forme non gravi. Sappiamo già quali sono le amiche preziose, ricche di proprietà sedative e rilassanti per questi casi. Le tisane di tiglio, o melissa, biancospino, valeriana, verbena, iperico, menta, ad esempio. Sappiamo poi che tisane, decotti e infusi hanno un effetto più blando di quello prodot-

Il suo nome richiama le sofferenze di Gesù. (Wikipedia)

to dai macerati glicolici e dalle tinture madri, ottenute per macerazione in acqua o per estrazione idroalcolica, in cui i principi attivi sono maggiormente concentrati. Fra le piante con questi effetti la Passiflora non è forse sufficientemente conosciuta. Della famiglia delle Passifloraceae, originaria dei paesi tropicali, America centro-meridionale e Australia, è una pianta rampicante che raggiunge 6-8m. di altezza: ne esistono varietà innumerevoli. Per lo strano fascino dei suoi fiori, bianco azzurri

tendenti al porpora è spesso coltivata a scopo ornamentale anche alle nostre latitudini: la troviamo sul lago di Como o di Garda, dove può diventare selvatica. Come medicinale si utilizza tutta la parte aerea della pianta, ricchissima di flavonoidi e alcaloidi che agiscono sui disturbi del sonno. Il fiore si raccoglie a maggio o da luglio a settembre. Si impiega fresca per la preparazione di Tinture, seccata e conservata per la preparazione di infusi e decotti. Parecchi secoli fa fu chiamata

Fiore della Passione. Ma non si pensi a passioni amorose o profane: fu scoperta dai colonialisti europei spagnoli nel XVI secolo e introdotta nell’Europa cattolica da un padre agostiniano che la descrisse in un trattato. Il bellissimo fiore viola divenne così il simbolo della Passione di Gesù, i filamenti disposti a raggera ricordavano la corona di spine, l’ovario posto al centro era a forma di croce, gli stami e gli stili ricordavano i chiodi, le foglie lanceolate le lame. La Passiflora è sedativa, tranquil-

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Da DRIOPE –Trattato di Fitoterapia, di Gabriele Peroni, Nuova Ipsa ed.

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Ambiente e Benessere

La Nuova Zelanda vitivinicola

Bacco Giramondo Negli ultimi decenni la cura della produzione è migliorata ed oggi l’isola può contare

su alcune qualità eccellenti di Sauvignon Blanc e di Chardonnay

Davide Comoli Scoperta dal navigatore olandese Tasman (ed è appunto dalla Zelanda regione dei Paesi Bassi, che arriva il nome Nuova Zelanda), il paese fu meta di esplorazione oltre 120 anni dopo dal famoso capitano inglese J. Cook (17281779). Oggi la Nuova Zelanda è popolata prevalentemente da discendenti europei (principalmente inglesi) che colonizzarono il territorio a partire dalla seconda metà del 1800, emarginando i preesistenti abitanti, i Polinesiani Maori. Lo sfruttamento delle risorse agricolopastorali ha rappresentato e continua a rappresentare il fondamento dell’economia neozelandese e ancora oggi più del 75 per cento delle esportazioni è costituito da carni, lana e prodotti caseari. Le prime barbatelle di vite furono messe a dimora all’inizio dell’800 dal missionario anglicano Samuel Marsden, nei pressi della Bay of Islands. Nel 1833 un certo James Busby, introdusse dall’Australia alcuni ceppi di vitigni francesi ed iniziarono ad essere impiantati vigneti di una certa consistenza. Lo stesso Busby diventò in seguito il primo agente britannico alle dipendenze del Governo del Nuovo Galles del sud australiano. I padri marinisti, sempre in gara colonizzatrice con i missionari anglicani, introdussero la coltivazione della vite ad Hawkes Bay nel 1835. Erano questi gli anni in cui si andava affermando la sovranità britannica, che sfociò nel 1852 nella Nuova

Costituzione con successiva divisione della colonia in sei province. Gli emigranti britannici della prima ora ed in seguito francesi, tedeschi e slavi, arrivati in Nuova Zelanda per sfruttare l’albero della gomma. Ma, mancando il vino, finirono indirettamente per occuparsi di viticoltura e dare il loro contributo alla crescita vitivinicola. La filossera giunse in Nuova Zelanda dal 1895 e un contributo fondamentale alla lotta a questo afide fu dato da Romeo Bragato, un emigrato italiano che alla fine del XIX secolo iniziò un’accurata analisi dei suoli e dei microclimi, si prodigò nella diffusione dell’innesto su piede americano, prodigandosi per il miglioramento qualitativo dei vini. All’inizio del XX secolo si dovette assistere a una decisa caduta dei consumi di vino, dovuta ad un movimento proibizionista che fece sentire i suoi effetti fino al 1989, anno in cui ai supermercati fu rilasciata l’autorizzazione a vendere bevande alcoliche, mentre ai ristoranti il permesso di vendere vino era stato rilasciato solo nel 1960! E curiosità: fino al 1980 la legge vietava di mescolare il vino all’acqua minerale. La viticoltura prese lo slancio solo nel 1970, partendo dalla regione di Auckland che si trova a settentrione del Paese, diviso in due isole. L’Isola del Nord, appunto, ha un clima marittimo freddo, simile a quello che troviamo a Bordeaux, ma con più piogge. I momenti critici dell’autunno (ricordiamo che le vendemmie si fanno tra marzo e

aprile) sono raramente secchi: le forti piogge e l’alta umidità causano problemi all’uva come il marciume. Al Nord troviamo oltre la già citata Auckland, le zone di Gisborne Valley, Hawke’s Bay e Wairarapa-Martinborough. L’isola del Sud è decisamente più fredda, ma più soleggiata e con un clima più secco. Marlborough è l’area più calda e quella che conta più ore d’insolazione. È questa la più estesa ed importante zona viticola della Nuova Zelanda. Si estende attorno alla città di Blenheim, su terreni pietrosi e gode del fresco clima dell’Oceano Pacifico. È famosa per i suoi Sauvignon Blanc, molto intensi, di una straordinaria forza aromatica. Le precipitazioni sono molto variabili, soprattutto vicino a Nelson, dove si produce un vigoroso Chardonnay e un buon Pinot Noir nella zona di Canterbury, vicino alla città di Christchurch. La rapida evoluzione della vitivinicoltura in Nuova Zelanda, ha portato ad una produzione di alto livello qualitativo e di ca. 2,5 milioni di ettolitri di vino all’anno. Le tecniche di vinificazione, eseguite da competenti enologi che si sono formati in Australia e in Europa, tendono a creare vini dal grande corredo aromatico, limitando drastiche filtrazioni e fermentazioni di parte del mosto con lieviti selvatici, ottenendo in questo modo vini con un ampio ventaglio di profumi e sfumature odorose, che si formano con temperature di fermentazione basse. In questo Paese dove evidente è il legame tra uomo e na-

Suggestiva immagine della zona del Marlborough.

tura, la passione che i viticoltori ripongono nella terra, si ritrova spesso anche nei vini neozelandesi, che amalgamano o meglio fondono l’essenza della terra e del frutto. Già nel 1984 provammo un vino di un certo interesse che proveniva dalla Nuova Zelanda, prodotto con le uve più diffuse dell’epoca: l’Albany Surprise, questo vitigno fu scavalcato poi dal Müller Thurgau, perché qualcuno era convinto che il clima della Germania fosse analogo a quello della Nuova Zelanda. Da una quindicina d’anni però la Nuova Zelanda ha sbalordito il mondo intero con i suoi Chardonnay complessi e strutturati, ma soprattutto con il suo Sauvignon Blanc che è la vera

punta di diamante dei vitigni neozelandesi. Il Sauvignon Blanc trova la sua zona prediletta nel Marlborough, dove esprime un’incredibile personalità, vini di grande sapidità e una lunga persistenza aromatica che riescono a competere alla pari (ma anche a vincere), con i migliori Sancerre. Tra i rossi spiccano il Pinot Nero che ha trovato un clima favorevole nell’Isola del Sud (Otago e Waipara), il Cabernet Sauvignon coltivato al Nord nell’Auckland, dove troviamo pure il Merlot, il Cabernet Franc, il Syrah, il Malbec e il Pinotage, da provare con i classici piatti di carne d’agnello della Nuova Zelanda. Sarete di sicuro sedotti dalle note schiette ed avvolgenti di questi vini. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 maggio 2018 • N. 21

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Ambiente e Benessere

Il frutto del Mediterraneo Allan Bay Parliamo delle olive. Sono il frutto dell’olivo, pianta molto longeva originaria, secondo alcuni, delle regioni a sud del Caucaso, ma fin dall’antichità diffusasi e coltivata in tutto il bacino mediterraneo: anzi, sono quasi l’emblema del Mediterraneo. L’oliva è una drupa ovale, verde nella fase dello sviluppo e nero-violacea a maturazione, sfruttata sia per la produzione di olio sia per il consumo diretto, a tavola: e oggi parleremo di questo uso. Nel Mediterraneo, esistono tantissime varietà di olive, divise tra quelle da olio (che si raccolgono prima della completa maturazione) e quelle da tavola; a volte, ma è raro, una stessa varietà è adatta a entrambi gli usi.

Il loro sapore originale è molto amaro: le drupe dell’olivo quindi possono essere trattate con sale, salamoia, olio, con acqua, cotte in forno o anche fatte seccare Le olive vanno sempre trattate prima dell’uso, per eliminare il sapore amaro. Quelle verdi vengono raccolte ancora acerbe e sottoposte a un processo di fermentazione lattica che le addolcisce e le rende esenti da microrganismi: se il processo non è effettuato con la cura necessaria, le olive saranno poco saporite, ma non nocive alla salute. Il mercato ne offre vari tipi: quelle deamarizzate in acqua, piccole o grandi, vengono tenute per dieci giorni in acqua fresca più volte cambiata, e poi conservate in acqua salata; le olive verdi dolci, sono trattate con calce e soda caustica; quelle verdi in salamoia, invece, sono trattate come le precedenti ma meno intensamente, e conservate in salamoia; le cosiddette bianche,

si sbiancano perché tenute a lungo in una salamoia forte, seguita da addolcimento in acqua e conservazione in salamoia leggera; infine, ci sono le olive conciate, che sono dolcificate in salamoia e poi ammaccate e fatte fermentare lievemente con aromi. Anche di olive nere – che vengono raccolte mature – esistono vari tipi: le grosse e lucide sono dolcificate con soda e calce; quelle cosiddette di Grecia, grosse, bruno scuro o violette, vengono lavorate in una salamoia con aceto di vino e conservate in una salamoia con olio; quelle seccate, dalla buccia raggrinzita, sono tenute in acqua e poi fatte asciugare al sole o in forno; le olive cosiddette di Gaeta, piccole, violette o bruno chiaro, amarognole e acidule, sono addolcite in acqua, poi messe sotto sale, poi nuovamente in acqua e infine tenute in una salamoia di acqua bollita con sale; le olive nere in salamoia, in genere piccole, più o meno bruno-nerastre e lucide, sono lavorate con diversi trattamenti; quelle al sale secco, di grossezza media, opache e un po’ avvizzite, sono dolcificate, conservate sotto sale e poi lavate in acqua ed essiccate appena in forno. Questi ultimi due tipi sono spesso aromatizzati, alcuni giorni prima del consumo, con cipolla, fette di arancia o limone, finocchio, origano, peperoncino, timo e condite con olio. Per utilizzare le olive non immerse in un liquido vanno solo sciacquate rapidamente; lo stesso vale per le olive verdi conservate in una salamoia leggera. Quelle nere, che sono quasi sempre in una salamoia più forte, vanno sciacquate molto bene. La pasta di olive bisogna stemperarla in un liquido prima di usarla e poi aggiungerla all’ultimo momento; è già molto salata e saporita, quindi attenzione a non condire il piatto con una dose di sale eccessiva. Se avete la possibilità di trovare delle olive verdi fresche, per poterle gustare dovete toglier loro l’amaro: ma è un processo lungo e complesso, io non l’ho mai fatto.

Marka

Gastronomia Conosciutissime e apprezzate, per essere gustate le olive richiedono particolari preparazioni

CSF (come si fa)

La paiata, detta anche pagliata, è una preparazione tipica della cucina romana e laziale a base di intestino tenue di agnello, capretto, manzo o vitello, cucinato intero, ossia con il chimo al suo interno: il chimo è un prodotto della digestione degli alimenti ed è composto dai succhi gastrici e dagli alimenti da questi modificati; si presenta come sostanza lattiginosa, ricca d’acqua.

Le paiate di agnello e capretto vanno solo lavate prima dell’uso, mentre quelle di bovino vanno private del rivestimento esterno, che è piuttosto duro. Ma in genere è il macellaio a eseguire questa operazione. Tutti i tipi di paiata vanno tagliati a pezzi lunghi al massimo una spanna e annodati alle due estremità per impedire la fuoriuscita della sostanza cremosa che si trova all’interno, particolarmente saporita. Una volta lavati, si cuociono in tegame o alla griglia con verdure aromatiche e si consumano come pietanza o come condimento per la pasta. Vediamo come si fa. Paiata al sugo. Per 4 persone. In un pentolino stufate una cipolla, mezza carota e un gambo di sedano mondati e tagliati a dadini con poca acqua per 20’, alla fine se volete frullate, se vo-

lete tenete a dadini. In una casseruola rosolate 50 g di guanciale (ma anche pancetta se preferite) tritato con un filo di olio, 1 o 2 spicchi di aglio e una manciata di prezzemolo tritato. Unite 1 kg di paiata mondata, fatela insaporire per 10’ poi eliminate l’aglio. Sfumatela con un bicchiere di vino bianco secco sobbollito per 3’. Unite 2 cucchiai di concentrato di pomodoro stemperati in un bicchiere di acqua e le verdure stufate, mescolate, coprite e cuocete a fuoco basso per circa 2 ore mescolando di tanto in tanto e aggiungendo poca acqua solo se il fondo asciugasse troppo. A fine cottura il sugo deve risultare denso. Regolate di sale e di pepe. Servite la paiata accompagnata con rigatoni scolati al dente e conditi con parte del fondo di cottura.

Ballando coi gusti Oggi due pasticci: che in italiano vuol dire solo piatti mescolati, un po’ disordinati e cotti in forno.

Pasticcio di melanzane

Pasticcio con uova

Pasticcio di melanzane: 4 melanzane · 2 peperoni rossi · 4 pomodori · 1 cipolla · mozzarelle g 200 · grana grattugiato · olio per friggere · sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: 2 patate · pane casereccio a fette · 4 pomodori · 1 peperone rosso · 1 peperone giallo · 4 uova · prezzemolo · olio di oliva · sale.

Tagliate a fette le melanzane. Fate stufare la cipolla a fette in poca acqua. Unite i pomodori sbollentati, scolati, pelati e privati di costole bianche e semi e poi sminuzzati e i peperoni mondati e privati di picciolo, costole e semi e tagliati a julienne. Cuocete per 30 minuti, a pentola coperta, mescolando ogni tanto. Sciacquate e asciugate le melanzane, friggetele in olio bollente e poi scolatele su carta assorbente da cucina. Mettete uno strato di melanzane in una pirofila, coprite con il sugo, una spolverata di grana, la mozzarella tagliata a fette sottili e regolate di sale e di pepe. Ripetete gli strati fino a esaurimento degli ingredienti, terminando con abbondante grana. Cuocete in forno a 180° per 30 minuti. Fate intiepidire un poco e servite.

Cuocete a vapore le patate, levatele, sbucciatele e tagliatele a dadini. Mondate e lavate pomodori e peperoni e tagliateli a listarelle. Spennellate con poco olio una padella antiaderente, versatevi le patate e, quando saranno dorate, unite i peperoni e i pomodori. Cuocete per 5 minuti mescolando. Togliete dal fuoco, unite il prezzemolo tritato e regolate di sale. Mettete le verdure in una pirofila pennellata di olio; con il dorso di un cucchiaio praticate 4 incavi, sgusciate un uovo in ciascuno, salate leggermente e cuocete in forno a 180° per circa 20 minuti, finché gli albumi si sono rappresi mentre i tuorli devono rimanere morbidi. Servite con fette di pane casereccio tostate.



Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 maggio 2018 • N. 21

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Ambiente e Benessere

La sorpresa fra le banane

Mondoanimale Conoscere i ragni permette di non enfatizzare le nostre paure nei loro confronti Maria Grazia Buletti «Un ragno letale spunta dalle banane», era la notizia dello scorso febbraio, quando il comandante dei pompieri di Baar (nel canton Zugo) riceveva un’insolita chiamata di intervento a cui egli stesso faticava a credere. «In 31 anni di servizio credevo di aver visto di tutto, ma questa operazione è stata singolare», ha ammesso riferendosi all’intervento effettuato in un supermercato della regione riguardo a un ragno sbucato da una scatola di banane. I dettagli di quei fatti sono subito stati riferiti dalla «Zentralschweiz am Sonntag», sulla base del rapporto dei pompieri secondo il quale un cliente stava prendendo delle banane da una scatola quando ha notato un ragno cadere sul pavimento. Prontamente lo ha ucciso schiacciandolo con un piede. Gesto spropositato a causa della paura dei ragni? Secondo i pompieri di Zugo non è così perché non si trattava di un ragno qualunque: «Esso apparteneva a una specie “altamente velenosa” che vive nell’America del Sud. Il morso di questo “ragno banana”, il cui nome scientifico è Phoneutria, può causare insufficienza respiratoria nell’essere umano, crampi muscolari, nausea e palpitazioni cardiache. Nel caso peggiore il velenoso aracnide può provocare anche la morte della persona morsicata». Come questo ragno sia «immigrato» nel canton Zugo è solo un’ipotesi: «Succede raramente, ma può capitare che questi ospiti arrivino come passeggeri nascosti all’interno delle scatole di frutta che viaggiano via mare verso l’Europa», spiega chi ha diretto l’intervento di emergenza, rassicurando sul

Giochi Cruciverba Pare che il significato del nome eschimesi sia... Scoprirai il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 10, 2, 5, 5)

fatto che i dipendenti del negozio hanno subito sigillato tutte le casse di banana con una pellicola di plastica e, dopo le verifiche, nessun altro ragno o uovo di ragno è stato trovato. Naturale porsi, a bocce ferme, qualche domanda a proposito della frequenza di episodi come questi, ma soprattutto se in Svizzera e in Ticino esistono ragni autoctoni così pericolosi. Ma una rondine non fa primavera, recita la saggezza popolare, e l’esotico e inquietante episodio raccontato dai pompieri intervenuti nel supermercato del canton Zugo non dovrebbe amplificare l’irrazionale timore che parecchi nutrono nei confronti dei ragni. Ne è assolutamente convinta l’esperta Françoise Liloia da noi interpellata per fare chiarezza su questi mostriciattoli a 8 zampette che troppo spesso ci mandano in panico o ci fanno schifo. «La paura dei ragni si chiama aracnofobia e appartiene a parecchie persone, 1 figlia di un retaggio probabilmente ar-2 chetipico e certamente di un’immaginazione distorta che ci fa vedere7 questo innocuo animaletto come un mostro dal quale non ci sappiamo difendere», 9 esordisce la nostra interlocutrice. Eppure il ragno giunto a Zugo da molto 11 lontano era velenoso e ci chiediamo se possiamo parlare di un caso davvero raro dal capo 13(come14del resto 15 affermato 16 dei pompieri di Zugo), oppure se dobbiamo preoccuparci. «Qui in Svizzera, 18 pure in Ticino, possiamo dormi-19 come re sonni tranquilli: i nostri ragni autoctoni20non sono di rilevanza medica». 21 Ciò significa che possono essere velenosi: «Ma lo sono esclusivamen23 24 te per le loro prede, mentre per l’essere umano si potrebbe verificare l’effetto 27 puntura di vespa e niente di più». E se-28

che se ne nutrono, ci troveremmo a dover fare i conti con molti altri insetti per noi nocivi o fastidiosi». Dunque niente paura dei ragni, che sono timidi, ci liberano da animaletti e insetti nocivi, ci rifuggono, non ci morsicherebbero e, se dovesse succedere, non sono né velenosi né nocivi. «Nella nostra insalata, dovessimo trovare qualcosa, penso si tratterebbe piuttosto di scarafaggi che non ragni che, tra l’altro, non mangiano verdura», rassicura la nostra interlocutrice. Ricorda come sia possibile, per chi teme i ragni, seguire un corso di desensibilizzazione: «Per non temerli bisognerebbe averne una maggiore conoscenza, anche perché bisognerebbe avere paura più di una zanzara tigre, ad esempio, che non di un ragnetto innocuo. Ad ogni modo, chi volesse cimentarsi nell’acquisire coraggio nei confronti dei ragni potrebbe quindi provare a seguire uno dei corsi di desensibilizzazione di cui parla davvero molto bene la gente che ci ha provato, come dimostra la testimonianza di una ripeto assolutamente poco probabile, persona (nome noto alla redazione): «Il sarebbe innocua», ribadisce la Liloia. corso mi ha cambiato la vita e oggi, se Sfatata dunque la demonizzazione vedo un ragno, riesco almeno a prenche spesso facciamo di questi mostri- derlo in un bicchiere e portarlo altrociattoli che si intrufolano nelle nostre ve». Dal canto suo, l’esperta è perplessa case unicamenteSUDOKU perché sono calde: «E a-proposito lungo viaggio affrontato PER AZIONE APRILEdel 2018 trovano le pulci del letto di cui si nutro- dal ragno di Zugo: «Sono animali che N. così 13 FACILE no, come degli acari, delle cutigere non sopravvivono al freddo; pensate Schema varie, delle blatte (scarafaggi da casa): che anche Soluzione tra i nostri autoctoni, una questi sì sono insetti invasivi di cui grande parte dei maschi non sopravvi8 9 5 2 7 6 4 8 1 9 5 2 3 però i ragni si nutrono, liberandoci da ve all’inverno». Conoscerli per apprez6 che 4 parecchie perso3 lo5meno 2 per 6 4 7 9è essi». Allora, pare zarli, 1 o per non8temerli, ne temano i ragni che invece sono utili la via più ragionevole da perseguire 2 8 3 7 1 9 2 8 3 7 5 6 4 per 1 proprio all’uomo: «Come tanti altri convivere con i ragni autoctoni che, ri2 8 5 9 6 1 4 2 3 8 7 animali autoctoni, i ragni sono utili al cordiamolo, ci liberano le case da altri 7 1 5 3 7 1 9 8 6 2 5 4 nostro ecosistema e, non ci fossero loro fastidiosi animaletti.

Giochi per “Azione” - Maggio 2018 Stefania Sargentini

(N. 17 - Personaggi famosi) 3 innocui: 4 Sono lo dice l’esperta. (Françoise Liloia)

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condo la nostra interlocutrice possia10 mo proprio dormire sonni tranquilli: «È rarissimo che un ragno ci morsichi: 12 un animale davvero schisi tratta di vo, a cui non interessa l’essere umano come 17 è invece il caso della zanzara (che punge per succhiare il sangue), gli acari (che mangiano la nostra pelle morta) e lo scarafaggio, per fare altri esempi». Secondo Françoise, i ragni non hanno bisogno dell’uomo per 22 nessuna ragione e potrebbero morsicarci solo nella davvero remota eventualità di es25 26 sere disturbati: «Anche in un caso così remoto, non necessiteremmo di un intervento medico perché la morsicatura,

M O O P T R T A T A C C O O C H E S Z I I D I Z N S T O I8 O 5N3 I 1 6 N

L E S E N E U E T C U O E R P P O I P C 8 4 O 2 I C

T A R A R E

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5 4 2 6 I N O 6 8 9 2 3 5 8 6 4V 1 24 3 7 O 5 4 2 7 1 3 7 4 3 5 8R9 7I 4 7 6 3 1 8 9 1 6 4C 7 6O3 9L 8 8 9 1 5 6 2 1 E2 4N8 5E 7

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4 7 6 8 SUDOKU 7 6 2 3 9 1 PER 5 Vinci una delle 3 carte regalo da 50 49franchi con il24 cruciverba 3 6 8 5 3 7 9 1 4 6 8 delle 2 carte regalo1 da 505 franchi 8 2con il sudoku 6 1 9 4 5 8 7 3 2 (N. 18 - Per saperneediuna più)

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Sudoku

T4 A M Soluzione: Scoprire i3 A9 G I7 numeri corretti 2 da inserire nelle T colorate. R3 E caselle 2 6 A5 I 7 7 8 1 N 1 G N. 15 DIFFICILE G I 1 A3 2 E R T 1 9 5 L T 8 1 O D I9 9

ORIZZONTALI 1. Nome femminile 6. C’è anche quello da taglio 9. Anagramma di gaio 10. Indumento per religiosi 12. Numero delle virtù teologali 13. Grava sul basto 14. Fanno rima con ma... 15. Preposizione articolata 16. Noto pittore spagnolo 17. C’è quel di Tenda 18. Anagramma di agra 19. Soggette a flebiti 20. Pietra ornamentale 23. Ripido, scosceso 24. La valuta meno alta

25. Si spinge alla partenza 26. Notizia di oggi

18. Quarantaquattro in una nota canzone per bambini 21. Nelle gare fa... girare 22.17 La -sua capitale è l’Afamosi) vana (N. Personaggi 6 Il «de» 7 dei tedeschi 8 9 10 24. 1 2 3 4 5 6 25. Le iniziali della Rodriguez

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo29Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che 32 avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblica34 zione del gioco.

(N. 19 - Olfatto da record)

VERTICALI 1 Anna 2 cantante 3 4 5 1. Una 2. Acerbi 3. Aggettivo possessivo 11 4. Sono nel caos 5. Un buco nella stoffa... 14 6. Una maestra... che non sa niente 7. Unito ad altri diventa noi 18 8. È17 una stalla 11. Dei ganci sinistri... 13.21 Biblica madre di Isacco 22 14. Il cantante Rosalino Cellamare 16. Impiegato sui tavoli del Casinò 25 17. Le iniziali dell’attore Eastwood

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I vincitori 9

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17 Vincitori del concorso Cruciverba 20 19 07.05.2018 su «Azione 19», del 14

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T. Ammann, G. Cavadini, F. Stevens 22 21

Vincitori del concorso 23 24 Sudoku

24 25 su «Azione 19», del 07.05.2018 28 I. Fanny, G. Bottaro

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30 18 - Per saperne 31 (N. di più)inserire la Partecipazione online:

soluzione del o 6del 7sudoku8 1 2 3 4 cruciverba 5 nell’apposito 33 formulario pubblicato 9 10 11 sulla pagina del sito. 12 13 14 Partecipazione postale: la lettera o 35 la 15 cartolina16postale che riporti 17 la so-

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N. 17 FACILE Schema 3 7 9 1

A 5R A 6 O1 6 S 9 S82 O 5 D 8A L 2 2 4 7 R3 A 8A D A 7 6 O4 V 2 5 B7 O 3 E R8 N 2 9

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6 8 Giochi persettimana “Azione” -precedente Maggio 2018 Soluzione della 5 3 2 8

V 1 4 A 58 I89 9 6 11 M A 4 2 8 I 2 5 7 3 9 V 6 C4 6 U2 5 5 3 1 B8 9 7 94 A5 3 7

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N. 18 MEDIO1

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7 5 3 2 6 8 9 4 Stefania Sargentini PERSONAGGI FAMOSI – Alessandro Manzoni aveva... Resto della frase: ...MOLTE PAURE E ATTACCHI DI PANICO. N. 16 GENI 2 8 5

C O1 V T EO 8 Z RZ

E NM N O T O M I A 9 3 8 4 1 2 5 6 7 O L5 E S T E 1 4 5I 6 D 8 7 I9 2 3 P7 E S N 7O A B 9 N L5 I O O 7 6 2 5 9 3 8 1 4 T R E8 1 U R E 7 6 8 3 2 5 9 64 7 21 8 E T1 L A TE S T AT9 34 O S I D A C C3 O6 C U O9 R 1E 3 4 1 79 3 6 8 2 5 69 S S 5 2 E 9 7 4 1A 3 8 6 S E R P E E C2T H E 4 T 8 9 4 1 2 6 7 3 95 I 4I D2 I 8 P7 O I A 7U 2I 7 R 6 9 I3 5 1 4 8 N SP T O5I P1 E C8 O D T 6 5 N I C9 O L A 3I O N I 3 5 1 8 7 4 7 6 9 2 O R T E L A 3 7 luzione, corredata da nome, cognome, è possibile un pagamento in contanti L deve I Ndei premi. O I vincitoriAsaranno S avvertiti indirizzo, email del partecipante T Aspedita M A a R«Redazione A V Azione, I N3 O per iscritto. 4 Il nome 1dei vincitori 5 sarà essere Concorsi, pubblicato suA «Azione». Partecipazione A G I C.P. O 6315,S 6901 A I ILugano». OT VO R aSlettori che Non sui 1 T siR intratterrà E S corrispondenza O M A R I riservata esclusivamente concorsi. Le vie legali sono escluse. Non risiedono in Svizzera. A I D A L I E C IO L T R I O


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Foto: Fabian Biasio

Pubbliredazionale

Integrazione grazie alla formazione Attualmente i rifugiati hanno pochissime possibilità di integrarsi nel mondo professionale svizzero. Il pericolo è particolarmente elevato per i 16 – 25enni che hanno dovuto interrompere il proprio ciclo di studi e formazione per lasciare il loro Paese. La maggior parte dei giovani interessati non è in possesso dei prerequisiti di scolarità necessari per seguire con successo una formazione.

Yohannes sta terminando con successo la sua formazione d’assistente meccanico in un garage friburghese e proseguirà il percorso formativo per conseguire un AFC. La sua formazione gli permette di integrarsi bene.

«Voglio essere indipendente.» Yohannes Berhane* aveva 16 anni quando è arrivato in Svizzera. Questo rifugiato eritreo ha dovuto adattarsi a un mondo totalmente nuovo. Con tenacia ha imparato il francese e ha preso parte ad alcuni tirocini. Attualmente segue una formazione come meccanico in un garage di Friburgo e la sua integrazione procede con successo.

I meccanici sono molto indaffarati in questa grande autorimessa della regione di Friburgo. C’è molto lavoro. Quando Yohannes Berhane* entra in officina, i suoi colleghi lo salutano con una pacca sulla spalla. Yohannes è un giovane rifugiato eritreo di 22 anni e sta terminando un apprendistato di due anni come assistente meccanico. È arrivato in Svizzera con sua madre e sua sorella nel 2012. All’epoca aveva 16 anni e sua sorella 5. D’indole riservata, non racconta volentieri le peripezie particolarmente estenuanti che lo hanno portato nel nostro Paese. Gli esordi sono stati difficili. «Non parlavo la lingua, la cultura era diversa, non conoscevo quasi nessuno» racconta il giovane.

Arrivato a Friburgo, segue un corso preparatorio alla Scuola professionale artigianale e industriale (EPAI) della durata di un anno prima di effettuare degli stage in diverse imprese. Formazione duale «Volevo essere meccanico fin da piccolo» dichiara Yohannes. Caritas Svizzera, che lo sostiene nel suo percorso, contatta allora i proprietari di una grande autorimessa della regione friburghese che impiega 25 persone. «Abbiamo subito notato che era motivato» ricordano Corinne e Jean-François Lacilla, i suoi datori di lavoro. Yohannes viene assunto per diventare assistente meccanico, una formazione che dura due anni.

Il giovane beneficia di una formazione cosiddetta duale: lavora nel garage quattro giorni alla settimana e ogni lunedì segue dei corsi. Corinne Lacilla è entusiasta: «Yohannes è rispettoso, puntuale e molto motivato.» Vedendo la sua grande voglia di imparare e gli ottimi voti che ottiene, i datori di lavoro gli propongono di proseguire la formazione e di ottenere in tre anni un AFC (attestato federale di capacità) come meccanico di manutenzione per le automobili. Un aiuto per il francese Per questa nuova sfida, Yohannes deve migliorare la lingua francese, indispensabile per capire meglio le istruzioni impartite nel suo mestiere. A questo punto Caritas interviene nuovamente: si cercano soluzioni per farlo progredire rapidamente, tramite un corso intensivo in estate o di sera, oppure grazie all’aiuto di un volontario.

Eppure esistono delle soluzioni. Per questo, Caritas Svizzera accompagna attualmente a Friburgo 1600 rifugiati riconosciuti, 342 dei quali hanno un’età compresa tra i 16 e i 25 anni. Questi giovani seguono dei corsi intensivi e dei consulenti in integrazione professionale li sostengono nella ricerca di tirocini e posti di formazione o lavoro. Così, da marzo 2018, Caritas Svizzera gestisce la Casa dell’istruzione e dell’integrazione di Matran, che ospita e guida nella formazione professionale alcuni giovani rifugiati.

Il Centro per la gioventù di Immensee (SZ) accoglie anche richiedenti asilo minorenni non accompagnati. Caritas Svizzera garantisce il sostegno e l’accompagnamento socio-pedagogico di cui hanno bisogno.

«Yohannes parlava molto poco all’inizio» racconta Corinne Lacilla. «Ma in seguito abbiamo visto una bella trasformazione. Non ci pentiamo assolutamente di quest’esperienza.» Oggi ben integrato, il giovane va d’accordo con i suoi colleghi: «Ci scriviamo, ci chiamiamo, a volte andiamo anche a bere qualcosa insieme.» Il suo obiettivo è quello di finire la formazione. «Voglio essere indipendente e non dipendere dagli altri» afferma Yohannes. * nome di fantasia

Per saperne di più su Yohannes: farelacosagiusta.caritas.ch

Conto donazioni: 60-7000-4 Per donazioni online: caritas.ch/integrazione-donare


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 maggio 2018 • N. 21

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Politica e Economia Politica estera Usa Trump impegnato su più fronti: in Medio Oriente ma guardando all’incerto vertice di Singapore

Scenari mediorientali Il futuro del Medio Oriente si va definendo sull’onda delle avvenute elezioni in Libano, Iraq e prossimamente anche in Turchia. E saranno soprattutto cruciali per il consolidamento dell’Iran a livello regionale

Scandalo immigrazione La politica di tolleranza zero verso l’immigrazione illegale colpisce i diritti di coloro giunti in Gran Bretagna dai Caraibi negli anni 50

La moneta del futuro? Primo articolo di due sulle criptovalute, per cercare di far luce su un argomento complesso pagina 29

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Nuovi scismi alle porte? Cinque anni di Francesco Il papa è in

Lucio Caracciolo Cinque anni sono pochi per giudicare un papa, capo di un’istituzione storicoreligiosa fondata duemila anni fa. Ma sono abbastanza per valutare, oggi e senza pretesa di prevedere il futuro, se le aspettative create dall’elevazione del cardinale Bergoglio al soglio papale, nel marzo 2013, siano state avvicinate o meno. Per questo occorre ricordare tre fattori: quale fosse lo stato della Chiesa al momento dell’avvento di papa Francesco; quali orizzonti si prevedeva aprisse l’elezione del primo papa americano, del primo gesuita alla massima responsabilità ecclesiastica insita nel magistero petrino; e quali risultati abbia prodotto in questo quinquennio. Per ordine. L’avvento di Bergoglio è figlio di un gravissimo trauma, le dimissioni di Benedetto XVI. Pontefice di rara cultura teologica, piuttosto tradizionalista e non audace nello stile e nel carattere, costretto a rinunciare alla sua funzione perché incapace di gestire gli scandali sessuali e affaristici, e quindi il discredito, che avevano colpito la curia romana e ampi settori della Chiesa universale. Un gesto criticato da molti cattolici, anche fra l’alto e il basso clero, perché di norma i papi muoiono, non si dimettono per farne un altro. Insomma, l’accusa era di viltà. Altri invece, sempre in quel mondo, videro nella rinuncia di Ratzinger l’opportunità di rinnovare e rilanciare un’istituzione in profonda crisi di credibilità, tuttavia riferimento di circa 1 miliardo e 250 milioni di fedeli sparsi nei cinque continenti. Di fatto, sempre meno diffusi in Europa – un tempo giardino della Chiesa – sempre più nelle Americhe e in Africa, con una presenza tuttora marginale in Asia, dove pure nacque, visse e predicò Gesù Cristo. Ratzinger rappresentava l’ultimo tentativo di salvare le radici europee

della Chiesa, nel senso della rievangelizzazione – sulla base della più ferrea applicazione della dottrina – del Vecchio Continente. Impresa assai improbabile, visto il grado di secolarizzazione ormai dominante persino nei paesi di più antico radicamento cattolico, dalla Spagna alla Francia, dall’Italia alla Polonia. Poco prima che Bergoglio fosse chiamato a guidare la Chiesa, un altro grande gesuita, il cardinal Martini, già arcivescovo di Milano poi ritiratosi a Gerusalemme per coltivare la sua passione – lo studio della Bibbia – pronunciò una sentenza terribile: «La Chiesa è indietro di duecento anni». Certo Martini non immaginava che Bergoglio fosse l’uomo capace di stimolarne la sintonizzazione con i nuovi tempi. Nel conclave del 2005, quello che alla morte di Giovanni Paolo II elesse Benedetto XVI, Martini impedì che Bergoglio venisse eletto, facendo convogliare i suoi elettori verso Ratzinger. A dimostrazione della scarsa stima nei confronti del confratello gesuita. L’arrivo a Roma di un prelato argentino, presentato in genere come moderato se non conservatore, avversario della teologia della liberazione, con una marcata vena populista alimentata dalla sua esperienza a Buenos Aires e un carattere assai chiuso, portò invece subito una boccata di aria fresca nell’universo cattolico. La scelta rivoluzionaria del nome Francesco, l’idea di «Chiesa dei poveri», la «teologia del popolo», il tratto diretto e aperto con cui si rivolgeva alla sua gente e al mondo, i suoi accenni alla necessità di un approccio più sinodale e meno centralistico nella guida della Chiesa – tutto lasciava immaginare che con Bergoglio si avviasse una stagione di riforme. Inoltre, il papa si lanciava da subito in una campagna di «de-costantinizzazione» del potere pontificio. Ovvero nella rinuncia a quei simboli imperiali,

AFP

stallo, attaccato da più parti, persino da cardinali che lo rimproverano in pubblico, mentre le promesse riforme sono rimaste tali

derivati dall’opzione cristiana compiuta dai reggitori dell’imperium romanum già nel IV secolo dopo Cristo, che avevano segnato la Chiesa cattolica anche dopo il Concilio Vaticano II. La scelta stessa di non abitare nel Palazzo Apostolico ma nell’alberghetto di Santa Marta, la definizione della Chiesa come «ospedale da campo», l’assai originale prima messa (con omelia dall’ambone, avendo eliminato i tre gradini imperiali, la pedana, il rosso porpora) – insomma tutto ciò che ha sempre marcato le origini costantiniane dell’istituzione ecclesiastica – volevano segnalare l’apertura al mondo della «Chiesa in uscita». Di nuovo concentrata sull’evangelizzazione, meno condizionata dal suo apparato storico e dalla curia.

Il successo di pubblico è stato immediato. Papa Francesco è diventato un’icona. La popolarità di cui tuttora gode fra molti cattolici, ma anche fra altri cristiani e persino atei o agnostici progressisti, è apparsa subito fattore marcante del suo papato. Ma da un paio d’anni il vento è cambiato. Il papa è in stallo, attaccato da più parti, persino da cardinali che lo rimproverano in pubblico. Le promesse riforme sono rimaste in gran parte tali. Francesco tende a concentrare su di sé le decisioni, quando ha il tempo e la voglia di prenderle. Il C9, ovvero il consiglio dei nove cardinali rappresentanti dei cinque continenti, si è rivelato un bluff. La riforma delle strutture finanziarie, appena

abbozzata, non è decollata. Persino sul fronte della denuncia dei prelati accusati di pedofilia il papa è incorso in qualche incidente, certo per mancanza di informazioni. In generale, lo slancio riformatore sembra ridotto. Di qui un doppio genere di attacchi: dalla «destra», che lo considera populista e anche discretamente ignorante in punto di dottrina, e dalla «sinistra», che si sente tradita. Francesco non sembra curarsene troppo. Forse l’impatto di un papa proveniente dalla «fine del mondo» a Roma non poteva che essere fomite di nuove crisi. Certo molti cardinali e fedeli temono che l’unità della Chiesa universale sia in pericolo. Nuovi scismi alle porte?


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 maggio 2018 • N. 21

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Politica e Economia

I fronti caldi di Trump

Politica estera americana In Medio Oriente si profila l’asse Usa-Israele-Arabia Saudita in chiave anti-Iran,

mentre rischia di saltare il vertice di Singapore del 12 giugno con la Corea del Nord

Federico Rampini L’inaugurazione della nuova ambasciata americana a Geruslamme la scorsa settimana ha segnato il trionfo di Benjamin Netanyahu. Ed è «un’altra promessa mantenuta», per il presidente degli Stati Uniti. Forse prelude all’apertura di un nuovo capitolo nella storia del Medio Oriente, con l’asse Usa-Israele-Arabia Saudita che vuole trasformare in profondità i rapporti di forze nell’area, e andare alla resa dei conti contro l’Iran. Non solo per il governo Netanyahu ma anche per una maggioranza degli ebrei israeliani, e per la Casa Bianca che ha voluto dare questo segnale forte, lo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv è un atto dovuto, è il riconoscimento di una realtà. Ha coinciso però con una terribile strage a Gaza, dove alle proteste dei palestinesi i militari israeliani hanno risposto col fuoco: il bilancio finale sfiora i 60 morti e duemila feriti. Di qui il coro di critiche dei media americani, compreso l’editoriale della direzione del «New York Times» dal titolo inequivocabile: «Hai allontanato la pace». Ricorre in tutte le analisi e gli scenari questa contraddizione: Trump ha mostrato una coerenza totale, ha realizzato una promessa elettorale, ma la sua strategia incendia il Medio Oriente. La risposta della Casa Bianca a queste critiche è identica a quella di Netanyahu. Le proteste si limitano a Gaza – fanno notare i collaboratori di Trump – mentre da Gerusalemme Est alla Cisgiordania non vi sono segnali di una Terza Intifada. Sempre le stesse fonti americane sottolineano l’isolamento palestinese (in particolare Hamas-Gaza) rispetto ai sostenitori di una volta, non solo l’Arabia Saudita ma anche l’Egitto e la Giordania.

Lo strappo su Gerusalemme si inserisce in una serie di scossoni, ultimo dei quali il ritiro Usa dall’accordo sul nucleare iraniano A rappresentare Trump alla cerimonia di Gerusalemme è andata una delegazione di primissimo ordine: la figlia Ivanka con il marito Jared Kushner, il segretario al Tesoro Steve Mnuchin. Più ovviamente l’ambasciatore David Friedman, il primo rappresentante degli Stati Uniti che lavorerà nella sede di Gerusalemme. Il trasferimento ufficiale è stato fatto coincidere con il 70esimo anniversario della nascita dello Stato d’Israele. E lo stesso Trump ha voluto essere presente alla solenne inaugurazione, con un collegamento in video dagli Stati Uniti: «Oggi – ha detto il presidente – Gerusalemme è la sede del governo d’Israele, della sua assemblea legislativa, della sua Corte suprema, della sua presidenza. Israele è una nazione sovrana e come ogni altra nazione sovrana ha il diritto di scegliersi la capitale, eppure per molti anni non abbiamo riconosciuto l’ovvia realtà che questa capitale è Gerusalemme».

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Ivanka Trump inaugura la sede dell’ambasciata Usa trasferitasi a Gerusalemme. (Keystone)

La strage di Gaza, poi le proteste della Turchia che ha espulso l’ambasciatore israeliano, s’inseriscono in un quadro dov’è essenziale ricordare la decisione precedente di Trump in Medio Oriente: il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo nucleare con l’Iran. Un passo gravido di conseguenze anche per l’Europa. L’Amministrazione Trump infatti oltre a ripristinare le sanzioni economiche che Barack Obama aveva levato, ha precisato che queste colpiranno anche imprese dei paesi terzi che facciano affari con Teheran. Enorme l’imbarazzo dei governi europei che non sanno come reagire. Il mondo del business, con rarissime eccezioni, non ha dubbi: dovendo scegliere se investire sul mercato americano o rimanere attive su quello degli Stati Uniti, preferiscono non rovinarsi i rapporti con l’America. La minaccia di Total di abbandonare l’Iran è l’ultima prova che le sanzioni Usa stritolano le imprese europee, costrette ad applicarle se non vogliono perdere l’accesso al mercato americano. La compagnia francese è rimasta la più grande investitrice nel settore petrolifero iraniano. Lo strappo su Gerusalemme è un classico di Trump, colui che rivendica il non essere «politically correct», che calpesta le convenzioni diplomatiche, denuncia le ipocrisie, vuol essere sempre il primo a gridare «il re è nudo». Così lui risponde indirettamente alle critiche della comunità internazionale, oltre che alle proteste dei palestinesi. Quasi tutti i governi del mondo hanno le ambasciate a Tel Aviv per segnalare la volontà di mantenere aperto lo status di Gerusalemme, in attesa di una decisione finale da concordare con i palestinesi. Gerusalemme Est dovrebbe essere la loro capitale, se mai vedrà la luce un vero Stato della Palestina. Lo strappo americano è netto. S’inserisce in una serie di scossoni con cui l’Amministrazione Trump interviene pe-

santemente negli equilibri geostrategici del Medio Oriente. Il trionfo non è solo di Netanyahu ma anche del principe saudita Muhammad Bin Salman, terzo polo del nuovo triangolo strategico. Se Bin Salman (detto Mbs) accentua il distacco saudita dalla causa palestinese – peraltro già in atto da anni – è perché ha incassato quel che voleva sul tema che più gli sta a cuore. Proprio come Israele, anche l’Arabia considera l’Iran il pericolo numero uno. La decisione di Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano e di ripristinare le sanzioni su Teheran è stata annunciata la settimana prima l’evento di Gerusalemme capitale. Dall’intervento di Kushner all’inaugurazione dell’ambasciata traspare quest’idea che il Medio Oriente possa essere trasfigurato grazie alle «nuove opportunità» che si aprono con questa politica estera Usa: «L’aggressione iraniana – dice il Primo Genero – minaccia tutti gli amanti della pace, in questa regione e nel mondo. Da Israele alla Giordania all’Egitto all’Arabia Saudita e oltre, molti leader lottano per modernizzare le loro nazioni e creare migliori condizioni di vita per i cittadini. Nel confrontare le minacce, e nel perseguire gli interessi comuni, cominciano ad emergere opportunità e alleanze un tempo inimmaginabili». Da parte di un trentenne che ha scarsa conoscenza del Medio Oriente ma gode della fiducia del suocero, questo appare come l’embrione di un vasto programma, molto simile alla visione di John Bolton, il neo-consigliere per la sicurezza nazionale. È una variante del piano neo-conservatore che sfociò nell’invasione dell’Iraq nel 2003. Niente «regime change», basta con l’illusione di esportare democrazia, ora il vero obiettivo è ricacciare indietro la Rivoluzione islamica khomeinista del 1979. Dalla Siria allo Yemen non mancano le occasioni di conflitto militare diretto.

Al bilancio di questo folle mese di politica estera trumpiana bisogna aggiungere una coda nordcoreana. Kim Jong-Un gioca a fare Doctor Jekyll e Mr Hyde, rispolvera la sua cattiveria di una volta e minaccia di far saltare il summit della pace. Chi semina vento raccoglie tempesta? Il quadro non è del tutto completo senza qualche pennellata di dettaglio. In mezzo a tanto caos il dollaro si sta rafforzando sensibilmente: i mercati sono ormai assuefatti e considerano il disordine globale come la nuova normalità? Altra evoluzione degna di nota, Trump continua la sua lenta risalita nei sondaggi. Sia pure partendo da livelli bassissimi, comincia a riavvicinarsi alla media dei presidenti quando arrivano alla metà del primo mandato. La politica estera può incassare delle débacle, ma gli americani notoriamente se ne disinteressano. Poi il conto, quando arriva, magari lo paga un altro presidente.

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

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Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Era irreale l’atmosfera di sereno ottimismo delle ultime settimane fra Trump e Kim in nome della Pace mondiale La tragedia di Gaza lascia serenamente indifferente questa Casa Bianca, intanto alcuni paesi europei si apprestano a spostare le loro ambasciate da Tel Aviv: altro effetto collaterale che a Trump non dispiace è aver spappolato la coesione delle politica estera europea in Medio Oriente. C’è molto più imbarazzo di fronte al voltafaccia di Kim Jong Un, che sconvolge i preparativi per il summit del 12 giugno a Singapore. Incredibilmente, Trump si è astenuto dal reagire via Twitter. Ha cercato d’ignorare le minacce nordcoreane, con un’auto-

Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

disciplina che non gli appartiene per niente. Incalzato dai giornalisti sull’eventualità che salti il vertice della pace, si è limitato a dire «Vedremo, vedremo». La scoperta del «no comment» da parte di questo presidente ha del sensazionale. È chiaro che Trump e i suoi collaboratori (Mike Pompeo, John Bolton) sono in un vortice di dubbi: prima di tutto sull’interpretazione dell’irrigidimento improvviso di Pyongyang, poi sul come reagire. È un vero dietrofront, o è solo una delle tante maschere che Kim ha deciso d’indossare in questa messinscena? Prima Pyongyang ha denunciato le manovre militari congiunte Usa-Corea del Sud (alle quali aveva dato una sorta di avallo in precedenza), e per rappresaglia ha cancellato una riunione fra delegazioni governative delle due Coree. Poi ha escluso che sul tavolo del summit ci possa essere il «disarmo nucleare unilaterale» del suo Paese. Il pre-vertice comincia alzando la posta: alla luce delle ultime minacce, l’incontro stesso si trasforma in un «favore» fatto a Trump, che può essergli negato se quello pretende troppo o non concede abbastanza. Da notare infine il violento attacco ad personam contro il neo-consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton: viene definito «ripugnante» nell’ultimo comunicato nordcoreano. Kim vuole anche scegliere la composizione della delegazione americana? Ora tutti ricordano gli innumerevoli precedenti in passato: Pyongyang ha una consolidata tradizione in fatto di strappi. D’altronde era irreale l’atmosfera di sereno ottimismo delle ultime settimane: davvero si poteva credere che la Corea del Nord avrebbe rinunciato al suo deterrente nucleare (trasformandosi in una Libia, cioè esponendosi a tentativi di rovesciamento del regime dall’esterno) in nome della Pace Mondiale? Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 maggio 2018 • N. 21

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Politica e Economia

Elezioni cruciali per l’Iran Scenari mediorientali I tre turni elettorali in Libano, Iraq e Turchia sono fondamentali

per il consolidamento del Paese degli ayatollah a livello regionale

Con l’eccezione di Israele, in Medio Oriente è molto difficile parlare di democrazia, eppure il futuro dell’intera regione si va definendo sull’onda di tre turni elettorali che – belli o brutti, corretti o drogati – saranno cruciali per le sorti di tre paesi-chiave: il Libano alle urne il 6 maggio, l’Iraq il 12 maggio e la Turchia il 24 giugno. Dimenticate per un momento i diversi giochi geostrategici che devastano lo scenario mediorientale e concentratevi solo sul vero big match, quello che oppone sunniti e sciiti, ovvero le due potenze regionali: l’Arabia Saudita e l’Iran. Ebbene, i tre turni elettorali di cui parlavamo sono cruciali per il consolidamento dell’Iran a livello regionale in un momento in cui Teheran deve affrontare le conseguenze dell’uscita degli Usa dall’Accordo nucleare del 2015 e la probabile nuova ondata di sanzioni voluta da Trump per tarpargli le ali. Se, dopo le elezioni libanesi del 6 maggio, Teheran ha tirato un sospiro di sollievo perché il blocco sciita Hezbollah-Amal è uscito vincente dalle urne, i risultati delle legislative in Iraq del 12 maggio hanno seriamente preoccupato il regime degli ayatollah. Delle cinque coalizioni sciite presenti sulla scheda elettorale, infatti, ha prevalso quella più ostile a Teheran: «In marcia per le riforme», volgarmente i Marciatori (al-Sairoon), guidata da Muqtada al-Sadr, che ha guadagnato 55 seggi sui 329 del parlamento federale. Una vittoria risicata che costringe ora l’ex enfant prodige della politica irachena a stringere solide alleanze se vuole formare un governo con qualche chance di durare nel tempo, di fronte alle immani sfide cui si troverà: innanzitutto quella della ricostruzione del Paese dopo cinque anni di guerra all’Isis e continui conflitti settari che peraltro non sono ancora terminati.

Le complesse dinamiche politiche di questa regione vanno lette in chiave di rivalità tra sunniti e sciiti L’anno scorso, dopo aver celebrato in gran pompa la sconfitta del Califfato, il primo ministro uscente Haider alAbadi, sciita, si era illuso di raccogliere i frutti del suo impegno nella lotta al terrorismo islamico, ma ha fatto male i suoi calcoli. Alla Conferenza per la ricostruzione dell’Iraq – che si è tenuta dal 12 al 14 febbraio scorso in Kuwait – i 76 paesi presenti si sono impegnati a versare solo 30 degli 88 miliardi di dollari necessari a rimettere in piedi il paese, un’impresa che va realizzata in fretta se si vuole evitare che i jihadisti dell’Isis riprendano a sfruttare lo scontento della popolazione. La seconda scommessa di al-Abadi, forte dell’appoggio internazionale, era quella di vincere le elezioni del 12 maggio e ci credeva al punto di aver battezzato la propria coalizione «Vittoria» (Nasr). Vittoria invece è arrivata solo seconda con 51 seggi, distanziata di un solo seggio dal vero perno della presenza iraniana in Iraq: Hadi al-Amiri, che con la sua coalizione «Conquista» (Fatah) è arrivato terzo (50 seggi). Gli altri partiti, sciiti, sunniti o altro, hanno ottenuto ancora meno. D’altronde nella scheda-lenzuolo che gli elettori si sono trovati di fronte ce ne erano ben 87 a riprova dell’estrema frammentazione e confusione della scena politica. Non meraviglia nemmeno la scarsa affluenza alle urne che

AFP

Marcella Emiliani

si è attestata al solo 44,52% dei 22 milioni degli aventi diritto al voto. Una affluenza davvero scarsa per le prime elezioni post-Califfato e la peggiore dalla caduta di Saddam Hussein. Gli iracheni hanno così voluto punire non solo la corruzione dilagante, ma soprattutto le lobby che dalla fine della dittatura monopolizzano il potere a Baghdad: le «solite vecchie facce» come le chiamano loro. Questo aiuta a capire anche la vittoria di Muqtada al-Sadr e dei suoi Marciatori. Muqtada, infatti, gode della fama di incorruttibile che in parte gli deriva dal carisma storico della sua famiglia di «martiri» (il cugino di suo padre, il grande ayatollah Mohammed Baqir, venne giustiziato da Saddam Hussein nel 1980, che nel 1999 fece uccidere anche suo padre il grande ayatollah Mohammed Sadeq al-Sadr e due suoi fratelli) e in parte dall’essersi sempre schierato dalla parte dei più deboli. E per ribadire la sua ferma intenzione di essere al fianco dei «diseredati», per le elezioni si è addirittura alleato col Partito comunista iracheno. I suoi esordi in politica, del resto, – dopo l’Operazione Iraqi Freedom del 2003 con cui Bush jr. spazzò via la dittatura di Saddam – li ha fatti nella peggior periferia di Baghdad, Sadr City, dove ha reclutato i miliziani del suo Esercito del Mahdi con cui sfidava tanto gli Stati Uniti quanto l’Iran. Detto in altre parole Muqtada al-Sadr è sempre stato un fiero nazionalista arabo e ha lottato per l’indipendenza del suo Paese da tutte le grandi e piccole potenze internazionali e regionali. La sua campagna elettorale è stata improntata a questa «indipendenza» con lo slogan trumpeggiante «l’Iraq innanzitutto», alla lotta alla corruzione, alla carità verso i più deboli e – cosa molto importante – al dialogo coi sunniti. Se gli iracheni gli hanno creduto, gli iraniani si sono seriamente preoccupati. Considerano Muqtada imprevedibile e anche pericoloso soprattutto dopo che nel luglio scorso se ne è andato a far visita al nemico no. 1 dell’Iran: Mohammed bin Salman, erede al trono dell’Arabia Saudita. I due – a quanto si dice – hanno gettato le basi per una

collaborazione che se non oggi, domani si spera arrivi a debellare il settarismo religioso nel Golfo. Inutile dire che una mossa del genere ad Ali Khamenei, la Guida della rivoluzione iraniana, non è piaciuta per niente perché disturba i disegni dell’Iran a livello non solo iracheno ma regionale e internazionale. Tanto più quanto l’Iran non ha più un rial da elargire per la ricostruzione dell’Iraq, mentre Riad e gli Emirati del Golfo fremono per acquisire un maggior peso a Baghdad a suon di dollari. Teheran perciò sta lavorando per impedire non che Muqtada diventi premier (perché non si è nemmeno candidato alle elezioni) ma formi un governo di coalizione, se non ostile, comunque non acquiescente ai propri diktat. Per questo, dal 15 maggio scorso il generale Ghassem Suleimani, capo della Brigata al-Quds dei Pasdaran incaricata delle missioni all’estero, sta incontrando tutte le forze politiche sciite in Iraq proibendo loro di allearsi con i Marciatori e ovviamente coi partiti sunniti più ostili al regime degli ayatollah. Tra i partiti con cui non allearsi Suleimani ha indicato anche il Partito democratico del Kurdistan (Pdk, 24 seggi) di Massud Barzani. Scottato dal mancato appoggio degli Stati Uniti al referendum per l’indipendenza del Kurdistan del settembre scorso, umiliato dall’annullamento del risultato positivo del referendum stesso da parte del parlamento iracheno, nonché sconfitto e punito dal governo di al-Abadi per aver «annesso» al Kurdistan l’area petrolifera di Kirkuk strappata all’Isis, Barzani potrebbe essere tentato di rientrare in gioco coalizzandosi proprio con gli sciiti in funzione anti-Muqtada, ma a quanto pare l’Iran non gradisce. Non gradisce che si crei in Iraq un Kurdistan più forte e indipendente di quanto già non lo sia per Costituzione: un esempio che i curdi iraniani potrebbero essere tentati di imitare. Non gradisce soprattutto che si intralcino, oltre ai suoi, anche i disegni di quel suo prezioso alleato che è la Turchia di Erdoğan. In un momento come questo, in cui Ankara si accinge a colpire – dopo quelli siriani – anche i curdi

iracheni con un’altra invasione e ruggisce contro gli Stati Uniti per il loro appoggio ad Israele. Israele che non più tardi del 10 maggio scorso ha bombardato l’ennesima base militare iraniana in Siria e dal 30 aprile – come accusa Erdoğan – «massacra i palestinesi a Gaza». Per questo il presidente turco sta rompendo le relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico che definisce «Stato terrorista», poiché compie un «genocidio» nei confronti dei palestinesi, mentre gli Stati Uniti sono «parte del problema» perché hanno spostato la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme non capendo che «il mondo islamico non permetterà mai che Gerusalemme sia perduta». Inutile ripetere che l’Iran conta tra i suoi protetti anche Hamas, che sta orchestrando la Marcia del ritorno nella Striscia. Nella virulenza di Erdoğan contro Israele si legge però la stessa voglia dell’Iran di strumentalizzare la causa palestinese ai propri fini. Per tutta la Guerra fredda questo gioco perverso è stato fatto dagli Stati arabi: oggi è la volta dei persiani e dei turchi. Ma tant’è. Prima o poi su questi disegni egemonici regionali arriveranno a scontrarsi anche Iran e Turchia. Per ora l’Iran aspetta con trepidazione di conoscere i risultati delle elezioni anticipate in Turchia del 24 giugno prossimo. In ballo, infatti, se dovesse vincere il Partito per la giustizia e lo sviluppo di Erdoğan, non c’è solo la morte della democrazia turca con il totale accentramento del potere nelle mani del presidente. Erdoğan vuol vincere per avere mano libera in politica interna ed estera, per cancellare definitivamente la laicità dello Stato turco (assai invisa a Teheran, a prescindere), seppellire il kemalismo e vendicarsi fino in fondo delle forze armate colpevoli non solo del tentato golpe del 15 luglio 2016 ma anche di costituire ancora il legame più vincolante tra la Turchia e gli Stati Uniti-Nato, che non gradiscono l’involuzione dittatoriale del regime turco e la sua nuova politica imperial-ottomana. Gli stessi Stati Uniti che per l’Iran sono tornati a rappresentare il Grande Satana.

Notizie dal mondo Putin inaugura il ponte che collega Russia e Crimea Un’altra immagine si va da aggiungere alla photo gallery personale del leader del Cremlino, quella di Putin camionista. Il presidente russo ha inaugurato il colossale e controverso ponte sullo stretto di Kerch che collega la Crimea alla Russia guidando personalmente un «Kamaz», alla testa di un corteo di 36 mezzi pesanti. Il ponte apre con sei mesi di anticipo rispetto alle scadenze, mentre l’inaugurazione della parte dedicata al traffico ferroviario è in programma tra un anno. Con 19 chilometri, ha il primato di ponte più lungo d’Europa. Una maniera simbolica di sancire la potenza della Russia, ma anche l’irreversibilità del suo controllo sulla penisola ucraina annessa nel 2014. Per sottolinearlo, montando sul veicolo, Putin ha citato l’esclamazione di Jurij Gagarin prima dello storico volo nello spazio: «Poekhali», «Andiamo!». Ma Kiev e l’Unione europea protestano. La Crimea, quando il ponte aprirà al pubblico, sarà infatti collegata direttamente alla Russia, dopo quattro anni e due mesi dalla contestata riunificazione. Kiev naturalmente non ha gradito. Il Ministero degli esteri ha diffuso una nota in cui definisce «illegale» la costruzione del ponte e torna ad accusare Mosca di aver occupato la penisola, ritenuta a tutti gli effetti parte integrante del territorio ucraino. L’Unione Europea, per bocca dell’Alto rappresentante per la politica estera, Federica Mogherini, le ha dato manforte, accusando la Russia «dell’ennesima violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina». I cinesi in Iran al posto di Total? Era stata la prima major petrolifera occidentale a rientrare in Iran, firmando a fine 2016 un contratto per il giacimento South Pars, il più grande del mondo, sito al largo delle coste dell’Iran che si affacciano sul Golfo Persico. Ora Total avverte che sarà probabilmente costretta a ritirarsi, perché «non può permettersi di incorrere in nessuna sanzione secondaria» da parte degli Stati Uniti. Total non ha ancora perso del tutto le speranze. La compagnia ha confermato che sta trattando, con l’assistenza del governo francese, per ottenere un’esenzione dalle sanzioni Usa. Nel frattempo ha però sospeso ogni attività relativa a South Pars, perché se non riuscirà a convincere Washington «non sarà nella posizione di continuare il progetto». Il comunicato della compagnia francese arriva proprio mentre l’Unione europea sta lavorando per trovare «soluzioni pratiche» che consentano di proseguire gli investimenti nella Repubblica islamica e le importazioni di greggio iraniano: un passaggio essenziale per sperare di tenere in piedi l’accordo sul nucleare. Intanto secondo il ministro del Petrolio della Repubblica islamica, Bijan Zangeneh, citato dall’agenzia di stampa iraniana Shana, la compagnia energetica cinese Cnpc potrebbe sostituire la francese Total nel contratto per lo sviluppo della fase 11 del giacimento di gas naturale South Pars. Le nuove sanzioni degli Usa contro l’Iran, adottate a seguito del ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul programma nucleare iraniano (Jcpoa) annunciato l’8 maggio scorso dal presidente Donald Trump, colpiscono infatti anche la presenza delle compagnie energetiche internazionali nella Repubblica islamica. Il contratto per lo sviluppo di South Pars è stato il primo firmato dall’Iran dopo l’entrata in vigore del Jcpoa e la rimozione delle sanzioni internazionali contro la Repubblica islamica.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 maggio 2018 • N. 21

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Politica e Economia

Londra: l’ingiustizia della tolleranza zero

Il giudice Sergio Moro ha condannato Lula per corruzione e riciclaggio di denaro in primo grado. (Keystone)

Lo scandalo Windrush Le riforme sull’immigrazione degli ultimi

governi conservatori fanno perdere i diritti di cittadinanza a migliaia di afrocaraibici arrivati regolarmente nel Regno Unito negli anni ’50 Cristina Marconi Non capita spesso che i politici siano costretti ad occuparsi di immigrazione in maniera seria, concentrandosi sui fatti concreti e senza nascondersi dietro agli slogan populisti. Per una strana congiuntura, è quello che sta toccando in questi mesi al governo del Regno Unito, dove uno scandalo che aleggiava da tempo è esploso tutt’a un tratto in maniera violenta: quello del trattamento degli immigrati afrocaraibici della cosiddetta generazione Windrush, arrivati tra il 1948 e l’inizio del 1973 su invito del Paese stesso, messo in ginocchio dalla guerra e bisognoso di nuove energie per ricostruirsi.

Il caso Windrush ha messo in allarme anche i 3 milioni di europei che vivono nel Regno Unito e non si fidano delle politiche del governo per regolarizzarli Alle migliaia di nuovi arrivati era stata assicurata la cittadinanza britannica e per decenni queste persone hanno vissuto in relativa tranquillità, fino a quando la stretta sull’immigrazione illegale, voluta ai tempi in cui Theresa May era ancora ministro dell’Interno, ha portato a galla i primi problemi: molta gente non aveva documenti per dimostrare di essere legalmente nel Paese e, anche dopo una vita nel Regno Unito, in tanti sono finiti vittima di incubi burocratici per avere assistenza sanitaria e trovare lavoro. In 63 sono stati addirittura rimpatriati. Con una mossa surreale, le carte di sbarco, unica prova del loro arrivo legale, erano state distrutte qualche anno fa: nel 2010 dai Tories, dice il Labour, nel 2009 dai laburisti, ha detto una premier May in grave difficoltà. Uno scaricabarile che serve a poco e che dà il senso di un atteggiamento diffuso e radicato di mancanza di accettazione di una parte della società: migliaia di immigrati e i loro figli si sono ritrovati ad essere trattati come fantasmi. Più o meno negli stessi giorni in cui è emerso il caso Windrush, Londra è finita al centro delle cronache di

tutto il mondo per aver superato New York nel tasso di omicidi, con 62 morti violente dall’inizio dell’anno – 36 accoltellamenti e almeno sei sparatorie mortali – e un numero ancora più inquietante di accoltellamenti non mortali, calcolati tra i 300 e i 400 solo nel 2018. È servito il confronto con la metropoli americana per portare l’opinione pubblica a fare i conti con una verità nota da tempo e sorprendentemente trascurata per un semplice motivo: la violenza è legata alle gang e in una certa forma riguarda i ragazzi neri che sono vittime e carnefici di una strage che va avanti da anni e che, non mettendo a repentaglio la «gente comune», non fa notizia. Una violenza tra fantasmi, tra ragazzi senza prospettive che temono un’umiliazione sui social network più della prigione e forse della morte stessa, che sono costretti a proteggersi dall’ambiente in cui vivono mostrandosi duri e spietati come nei popolarissimi video di musica «drill» che inneggiano alla violenza. Video che, con i loro milioni di click su youtube, rappresentano anche l’unico orizzonte di successo per delle vite che gli assistenti sociali descrivono come caratterizzate da una sola parola: «hopelessness», disperazione. C’è una terza vicenda che seguendo un fil rouge ideale si inanella con le due precedenti, ed è quella dell’omicidio del giovane nero Stephen Lawrence, avvenuto per motivi razziali venticinque anni fa e oggetto di una delle pagine più vergognose della storia della polizia di Londra, tra i cui ranghi sono emersi «razzismo istituzionale», incompetenza e addirittura corruzione per coprire i balordi bianchi che avevano aggredito a coltellate il diciottenne di origine giamaicana mentre aspettava ignaro l’autobus una fredda sera di fine aprile del 1993. Ci sono voluti quasi vent’anni perché la verità venisse finalmente a galla e perché alcuni dei colpevoli finissero in carcere. La BBC ha dedicato alla vicenda un bellissimo documentario intitolato Stephen: l’omicidio che ha cambiato il Paese e sicuramente è vero, sicuramente da allora nelle istituzioni non è più tollerabile nessuna forma di discriminazione e la sensibilità è cambiata, anche se il memoriale costruito per il ragazzo nel 2008 ha avuto i vetri spaccati dopo poche settimane. Però il problema degli accoltellamenti nel Regno Unito non è

Un supporter della Windrush Generation manifesta nelle vie di Londra. (AFP)

sparito, solo che invece di essere a sfondo razziale, si è concentrato sui regolamenti di conti tra bande. Tornando ad essere ignorato, cancellato via da una popolo insuperato nell’arte di rimettersi in piedi dopo i traumi e tornare a fare come niente fosse. L’ambiguità costruttiva con cui spesso Londra gestisce i suoi dossier, non ultimo quello della Brexit, può essere molto efficace, ma ha un grave limite: a un certo punto i nodi vengono al pettine, e in questa primavera in cui si dovrebbe parlare solo di futuro dopo l’Europa tutti i problemi sono emersi contemporaneamente. Il caso della generazione Windrush ha portato alle dimissioni del ministro degli Interni Amber Rudd, fidatissima collaboratrice della May, e alla sua frettolosa sostituzione con Sajid Javid, conservatore di ferro di famiglia immigrata e quindi naturalmente in grado di cogliere un certo tipo di sensibilità. Sono stati promessi risarcimenti, vie preferenziali alla nazionalità, e Javid ha anche preso le distanze da un «contesto ostile» definito «così poco britannico», che ha segnato gli anni della May e della Rudd all’Home Office. Il Regno Unito ha disperato bisogno di alleati all’interno del Commonwealth, famiglia alternativa a quella Ue che si accinge a lasciare, e ha bisogno di proiettare un’immagine giusta, tollerante, aperta se vuole guardare oltre i confini europei. Il trattamento della Windrush Generation, con tutte le sue particolarità, ha messo in ulteriore allarme i tre milioni di cittadini europei che vivono nel Regno Unito e che nel clima attuale non si fidano delle mosse del governo per regolarizzarli. I britannici, popolo fiero di non avere una carta d’identità, sta facendo i conti con l’idea di dover introdurre una qualche forma di documento che non sia il passaporto per evitare che si crei una confusione che molti ritengono non casuale, strategica e fatta apposta per poter rispettare le promesse politiche sulla riduzione dell’immigrazione a «decine di migliaia» di persone all’anno. Tra europei e afrocaraibici c’è però una differenza, dolorosa. Questi ultimi hanno contribuito al Paese in maniera sostanziale, ma spesso non hanno raggiunto quello status economico che ha permesso loro di ottenere un rispetto diverso da parte delle autorità. Non stupisce che un clima ostile e la mancanza di riconoscimento abbia peggiorato la loro situazione: membri della società, ma solo a metà, alcune minoranze etniche sono ancora vittime di pregiudizi e le ultime generazioni, come dimostrano i casi di violenza e il tasso di disoccupazione altissimo, non se la passano meglio dei loro padri. Al contrario, per molti ci sono meno speranze, più disincanto e questo è uno dei grandi temi che il Regno Unito post-Brexit deve dedicarsi a risolvere. Del Royal Wedding e di Meghan Markle si è detto molto, forse tutto. Ma è dietro la frivolezza e la fatuità dei vestiti, dei fiori e delle torte delle grandi rappresentazioni pubbliche che si annidano i simboli più potenti e il fatto che il principe Harry abbia scelto di sposare una intraprendente ragazza con una madre single afroamericana che lavora come assistente sociale e insegnante di yoga e che fino a qualche giorno prima del matrimonio è rimasta a Los Angeles a fare la sua vita di sempre è l’evento più progressista di questo 2018 alla disperata ricerca di una direzione.

Una guerra politica con mezzi giudiziari Brasile Nessun diritto alla presunzione

d’innocenza per i coinvolti in una nuova inchiesta denominata Operazione Abisso Angela Nocioni Alle elezioni presidenziali brasiliane del prossimo ottobre l’ex presidente Lula da Silva, detenuto dal 7 aprile scorso con una condanna di secondo grado a 12 anni di reclusione per corruzione passiva e riciclaggio, prenderebbe da solo quasi gli stessi voti degli altri quattro principali candidati messi insieme: Lula 32,4%; Jair Bolsonaro, ex militare di estrema destra, 16,7%; Marina Silva, icona ecologista, 7,6%; Ciro Gomes, centrista, 5,4%; Geraldo Alckmin, governatore liberal di San Paolo, 4%. Trionfo di Lula al ballottaggio con il doppio dei voti contro qualsiasi di questi sfidanti e addirittura con il 49% contro il 6% se lo sfidante fosse l’attuale presidente della repubblica Michel Temer. È questo il risultato del sondaggio CNT/MDA che ritrae il teatro dell’assurdo del quadro politico brasiliano in un’appassionante quanto insolita campagna elettorale. Risultato assurdo perché la legge brasiliana impedisce a un condannato in secondo grado di ricoprire incarichi elettivi. Ma realistico perché il Partito dei lavoratori (Pt), il partito fondato da Lula, sta seriamente discutendo se presentare comunque Lula in attesa che i giudici si pronuncino su tre ricorsi ancora in ballo presentati dall’ex presidente. Molto probabile che, intanto, Lula registri la sua candidatura. C’è tempo fino ad agosto. Poi si vedrà, questa è la strategia al momento del Pt che spera di riuscire a incassare in qualche modo la possibilità di candidare Lula anche da detenuto, puntando sul diritto alla presunzione di innocenza fino all’esaurimento dei tre gradi del processo. Il risultato sarebbe politicamente schiacciante e al tempo spesso esposto al rischio di essere invalidato da future decisioni giudiziarie. Come si è arrivati alla condanna di secondo grado e a una campagna elettorale giocata tutta intorno all’arresto dell’ex presidente? Il 12 luglio del 2017 il giudice federale Sergio Moro ha condannato Luiz Lula da Silva a nove anni e mezzo di prigione, diventati dodici e un mese in appello nel gennaio scorso. Lula è stato considerato responsabile di aver ricevuto come tangente dalla impresa edile Oas un attico con superattico a Guaruja, litorale di San Paolo, in cambio di appalti in contratti pubblici. La sentenza non ha precisato né quale affare della Oas sarebbe stato facilitato da Lula, né in quale momento. L’ex presidente non era più nemmeno al governo per la gran parte del periodo considerato, ma questo può essere giudicato irrilevante vista la sua influenza

sul governo Dilma, sua erede politica. Lula è così stato condannato per una tangente di un milione e duecentomila dollari, valore stimato dell’appartamento. Che non risulta però essere mai stato di sua proprietà. Non è saltata fuori una sola prova sulla sua colpevolezza, solo una serie di indizi. Non esiste un contratto di acquisto, l’appartamento non è stato mai abitato né da lui né dalla sua famiglia, che non risulta averne mai posseduto le chiavi. Nel 2005 la moglie di Lula, Marisa Letizia, allora first lady, comprò una quota per l’acquisto futuro di un appartamento nell’edificio in costruzione e proprietà di una cooperativa, la Bancoop. Questo è l’unico documento firmato mostrato al processo. Ma si tratta di una quota per l’acquisto futuro di un appartamento ancora da costruire, non di un documento di proprietà. La cooperativa fallì. L’edificio nel 2009 fu comprato dalla Oas che, secondo testimoni dell’accusa, avrebbe cominciato a ristrutturarne l’attico per metterlo a disposizione di Lula. Lui dice invece che andò sì a visitare l’attico (un video lo riprende durante la visita), ma non gli piacque e non lo comprò. Dice di essere stato lì dentro in tutto un’ora nella sua vita. La condanna si regge interamente sull’accusa di Leo Pinheiro, presidente di Oas, condannato nello stesso processo – come correo ha diritto a mentire secondo la legge brasiliana – che ha detto ai giudici di aver assecondato la richiesta di Lula di far sparire i documenti della proprietà. Non potendo dimostrare che l’appartamento era di Lula o della sua famiglia, si è stabilito che gli era stato messo a disposizione. Testimoni dell’accusa sostengono di aver visto l’allora first lady suggerire modifiche all’arredamento, questo è l’indizio fondamentale. Si è deciso quindi che l’appartamento sia stato in qualche modo attribuito a Lula. Non si capisce come la tangente possa essere di un milione e duecentomila dollari, visto che un appartamento messo a disposizione non può essere né venduto né dato in eredità. Risulta poi che quel famoso attico sia stato usato dalla Oas come garanzia per chiedere prestiti. Se l’impresa l’usava come garanzia per farsi dare soldi dalle banche, ha chiesto invano la difesa, come poteva essere di Lula? Tutto ciò accade mentre un nuovo filone delle inchieste sull’intreccio tra corruzione e appalti sta tenendo incollati i brasiliani alla tv. Operazione Abisso si chiama la pubblicizzatissima inchiesta, la cui ultima puntata ha visto il giudice Sergio Moro condannare a 9 anni e 10 mesi di carcere per corruzione l’ex tesoriere del Pt Paulo Ferreira.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 maggio 2018 • N. 21

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Politica e Economia

Un piccolo paese a disagio Il ’68 in Svizzera – 2 In quale contesto storico matura nel nostro paese la protesta giovanile

e studentesca? Un’analisi in due tappe Orazio Martinetti Gli anni delle «trente glorieuses» (19451973) smossero anche gli intellettuali, almeno i pochi che non si erano fatti assorbire dalla «difesa spirituale». I primi segnali di risveglio si ebbero alla metà degli anni ’50. Nel 1955 lo scrittore-architetto Max Frisch, assieme a Lucius Burckhardt e Markus Kutter, redassero un libro-manifesto in cui proposero di ridisegnare la Svizzera a partire dall’urbanistica. L’idea era di fondare una città-modello che non replicasse i collaudati stilemi dell’esposizione nazionale, ma che ponesse al centro un nuovo modo di abitare, di vivere, di lavorare; una città al servizio del cittadino, non il contrario. Progetto ambizioso, anzi temerario, che però permise a Frisch di lanciare alcuni sassi nelle acque stagnanti del dibattito culturalpolitico. L’opuscolo, divulgato sotto il titolo achtung: die Schweiz, chiamava alla sbarra la ristrettezza di mente di cui il paese soffriva per mancanza di ossigeno. «Viviamo alla giornata, ossia: senza un piano che guardi al futuro. I nostri partiti politici sono passivi. Si occupano soltanto del presente, della legislatura in corso e delle prossime elezioni. Manca loro ogni grandezza della volontà plasmatrice, perciò sono così noiosi, al punto che i giovani nemmeno ne parlano. La nostra politica non è progettazione, bensì amministrazione… Noi vogliamo una Svizzera che non sia un museo, un centro termale europeo, un ospizio per vecchi, un’autorità di passo, una cassaforte, un luogo d’incontro di bottegai e spie, un idillio; noi vogliamo una Svizzera certamente piccola, ma attiva, che appartenga al mondo…». Il 1964 – l’anno dell’Expo nazionale di Losanna – fu l’anno in cui la parola «malaise» fece irruzione nel dibattito politico. «Helvetisches Malaise», così un professore di diritto pubblico attivo all’università di Basilea, Max Imboden, definì lo stato d’animo in cui la Confederazione era lentamente scivolata. I sintomi erano l’elevato astensionismo,

29 giugno 1968: a Zurigo la polizia carica i dimostranti che chiedono un centro giovanile autonomo. Gli scontri verrano ricordati come «die Globuskrawallen». (Keystone)

ovvero il calo della partecipazione al voto, ormai precipitata sotto il 50% nelle consultazioni federali; il peso crescente della propaganda, alimentata da fondi di oscura provenienza; la scarsa efficienza dello Stato e dell’amministrazione. Mancanze e ritardi che Imboden faceva discendere da una carta costituzionale non più al passo coi tempi. Di qui la proposta di por mano ad una revisione totale della Costituzione federale. La stessa Expo fu oggetto di controversie; contestato, per il suo impianto a forma di istrice, fu soprattutto il padiglione dell’esercito, una costruzione che, per sineddoche, finiva per estendere la simbologia militare alla Svizzera intera: un paese chiuso, aculeato, guidato da logiche meramente difensive. Segnali d’insofferenza giungevano anche dal fronte della letteratura «engagée», da scrittori come Paul Nizon e Peter Bichsel. Notevole successo riscosse, nell’agosto del 1967, un breve intervento di Bichsel sulla «Svizzera dello svizzero», un testo che, con tocchi lievi e apparentemente candidi, mette-

va a nudo le quotidiane nevrosi del cittadino medio, la sua indole sospettosa. «Una democrazia senza discussioni sarebbe una democrazia da museo. Il nemico interno della Svizzera è il senso civico stravolto. La posizione del riccio – arrotolato su se stesso con gli aculei verso l’esterno – è diventata il simbolo della nostra indipendenza. Ma anche un riccio deve srotolarsi per procurarsi da mangiare». Individuare e capire i fattori di «disagio» divenne urgente anche per l’intellighenzia liberale più sensibile alle istanze giovanili. La maggioranza, per la verità, non comprendeva in alcun modo le ragioni dei contestatori, anzi le condannava senza appello. Non così lo storico d’origine grigionese JeanRudolf von Salis, che nella sua raccolta di saggi Schwierige Schweiz [Difficile Svizzera], edita nel 1968, invitava le autorità a prendere sul serio le rivendicazioni della gioventù: «Quando partiti e giornali sanno rispondere soltanto con minacce di rappresaglie ad una determinata arroganza giovanile che da numerosi lati è appunto così confusa e

disorientata, essi non rendono servizio né agli anziani, né ai giovani e tanto meno all’avvenire del paese. Chi sa soltanto minacciare o vorrebbe opprimere, dimostra soltanto di essere lui stesso disorientato». Agli occhi della maggioranza moderata («benpensante»), i giovani che sfilavano nelle strade o che organizzavano sit-in erano solo degli sbandati inclini alla violenza: capelloni, drogati, mestatori al servizio del comunismo. A comprova i giornali esibivano le foto dei disordini che si erano verificati all’Hallenstadion di Zurigo al termine dei concerti dei Rolling Stones (1967) e di Jimi Hendrix (1968). L’occupazione dei vecchi magazzini Globus nel giugno del 1968 per ricavarne un centro giovanile («Globus-Krawall») suscitò in tutto il paese un’ondata di indignazione. In realtà gli episodi di violenza furono rari; la maggior parte delle iniziative si svolse in un clima di tensione controllata, in cui prevaleva il bisogno di denunciare pubblicamente le ingiustizie subite da parte di un «sistema» dominato dalle vecchie oligarchie.

Il ’68 fu una camera di combustione in cui confluirono elementi di varia natura e matrice ideologica. Nel corso degli anni erano emersi soggetti che rivendicavano il diritto di parola: femministe, terzomondisti, neomarxisti, antinucleari, anarchici, attivisti stanchi della politica fondata sulle clientele. Movimenti spesso magmatici, influenzati dalle teorie della Scuola di Francoforte (con una predilezione per Marcuse) o addirittura dagli echi della rivoluzione culturale cinese. L’impatto sulla creazione culturale e sul costume fu comunque enorme. Si pensi al cinema, al teatro, alla musica, alla letteratura; all’abbigliamento, alle acconciature, al modo di socializzare. I fermenti maggiori giunsero comunque dal mondo della scuola, istituzione – com’era il caso della Magistrale di Locarno – ch’era rimasta allo stadio di educandato, prigioniera di precetti pedagogici desueti e retta da regole simili a quelle in uso nelle caserme. Comitati d’azione e di lotta spuntarono in tutti gli atenei; nel mirino della mobilitazione finirono di volta in volta le tasse d’immatricolazione, il numerus clausus per la facoltà di medicina, i piani di studio, la finalità dell’insegnamento, il dialogo (assente) con il corpo docente, la libertà di riunione. Politicamente il decennio vide imporsi la «nuova sinistra», in polemica con i partiti socialisti (o socialdemocratici) storici, accusati d’immobilismo e di acquiescenza. Il PSA, nato formalmente nel 1969, poteva già contare sull’esperienza di «Politica Nuova», trimestrale fondato nel 1965. A Basilea un gruppo di studenti del locale ateneo dette vita alla prima cellula delle Organizzazioni progressiste svizzere (POCH); nel canton Vaud sorse la Lega Marxista Rivoluzionaria. Dissensi profondi investirono anche le comunità ecclesiali. Sotto la superficie dei gesti plateali o esemplari c’era insomma una società che lentamente mutava pelle, determinando negli uni sconcerto, negli altri euforia. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Le criptovalute, argomenti a favore

Valute virtuali – 1 Parlare di «soldi» è, da sempre, un argomento delicato quanto interessante − ancor più,

se lo strumento in esame è particolarmente innovativo e complesso

Edoardo Beretta Chiunque abbia già sentito discutere di Bitcoin, cioè della principale criptovaluta (cripto-token come ribattezzata recentemente in una conferenza sul futuro dei mezzi di pagamento contanti tenuta a Francoforte sul Meno alla presenza del Presidente della Deutsche Bundesbank) sa bene quanto la tematica sia tecnicamente complessa oltre che polarizzante in termini di opinioni contrastanti. Per esplorarla nella sua interezza si procederà a farlo in due «puntate»: nella prima si affronteranno gli argomenti proposti a sostegno di tale innovazione finanziaria ed una successiva ne esplorerà le voci levatesi a suo sfavore. Prima di ciò, però, risulta essenziale procedere con una semplice illustrazione − con franchezza al lettore: la tematica è di difficile trattazione anche per gli «addetti ai lavori» − di cosa si intenda per «criptovaluta». Trattasi di uno strumento finanziario di recente creazione e, più precisamente, risalente al 2009, cioè (forse non a caso) al periodo di piena crisi economico-finanziaria globale, di emissione privata, cioè potenzialmente «estraibile» o «minabile» − in gergo si parla di mining, appunto − da ciascun soggetto per mezzo della mera capacità computazionale della scheda grafica del proprio PC collegato ad una rete di altri processori. In altre parole, con la giusta potenza (oltre che conoscenza) informatica oltre che lasciando per molte ore acceso il proprio PC con le modalità di cui sopra è possibile generare un numero di criptovalute,

cioè di strumenti finanziari (o «monete», come ricorda il termine) a carattere meramente elettronico, a cui è attribuito un prezzo positivo determinato da una relativa quotazione aggiornata in tempo reale. Ad esempio, ha fatto notizia quest’anno il primo caso di compravendita immobiliare avvenuto in Italia e, più precisamente, a Torino saldato da un acquirente cinese in Bitcoin1. Ma perché chiamarle «criptovalute»? Evitando approfondimenti di natura linguistica sul termine, tale denominazione è da attribuirsi al fatto che ogni unità di essa sia costituita da un codice numerico a blocchi, che dopo ciascun trasferimento (ad esempio, a saldo di una transazione commerciale/finanziaria) si aggiungerà ai precedenti, accrescendone la dimensione, ma garantendo nel contempo una cronistoria numerica delle operazioni effettuate (sebbene, a fronte di tanta complessità, la tutela dell’anonimato sia assai elevata). I sostenitori delle criptovalute – ne esistono più di 1500 diverse3, fra cui il Bitcoin nato nel 2009 è sicuramente l’esponente di maggiore fama (oltre che quotazione) – sottolineano non soltanto la particolare innovatività della tecnologia sottostante, cioè della cosiddetta blockchain (cioè di tale catena di blocchi numerici sopra descritta), ma anche il fatto di essere svincolate da banche centrali e sistemi bancari nel loro complesso, sfuggendo al cosiddetto «monopolio dell’emissione monetaria» in capo agli stessi. Nel contempo, operare tramite criptovalute garantisce la semi-simultaneità del tra-

sferimento di quanto dovuto alla controparte, che potrebbe ad esempio trovarsi anche in un altro emisfero. Fra le argomentazioni a particolare sostegno spicca la potenziale non-dipendenza da possibili crisi del sistema bancario in quanto (perlomeno, allo stato attuale) le criptovalute non sono emesse da esso, ma da singoli individui. Stando all’analisi fornita dai suoi sostenitori, esse incarnerebbero, inoltre, perfettamente le tre funzioni normalmente detenute

dalla «moneta» come tradizionalmente definita, cioè di: 1. «mezzo di pagamento» (con cui saldare transazioni commerciali/finanziarie (inter)nazionali); 2. «unità di conto» (con cui denominare titoli, depositi o ulteriori strumenti finanziari); 3. «riserva di valore» (cioè di possibilità di detenzione alternativa dei propri risparmi). In altre parole, non soltanto Bit-

coin & co. fungerebbero da strumento di pagamento (oltre che numéraire), bensì anche da possibilità parallela di investimento. A fronte dell’apparente svolgimento delle tre funzioni poc’anzi menzionate le criptovalute sono da molti viste anche quale vera e propria innovazione strategica nel panorama monetario-finanziario futuro. Nel contempo, essendo le criptovalute perlopiù soggette ad un limite massimo di emissione per evitarne perdita di valore – nel caso dei Bitcoin esso sarebbe di circa 21 milioni di unità, che visto il suo prezzo (cfr. tabella) raggiungerebbe un volume di circa 170 miliardi di dollari statunitensi –, i loro sostenitori ne sottolineano la loro non-inflazionarietà. Inutile dire che, a contrappeso rispetto agli aspetti di innovatività sottolineati dai «minatori» delle cryptocurrencies e da una parte del settore finanziario, fra gli attori istituzionali (ma non solo) regni sovrano lo scetticismo o perlomeno grande prudenza. Ma l’analisi di tali argomentazioni sarà affrontata nella prossima puntata. Note

1. https://www.agi.it/economia/ comprare_casa_bitcoin-3415428/ news/2018-01-26/. 2. Elaborazione propria sulla base di: https://coinmarketcap.com/all/views/ all (quotazioni come riportate a metà giornata del 13 aprile 2018). 3. https://coinmarketcap.com/all/ views/all/. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Le casse pensioni migliorano ma i problemi strutturali restano

Previdenza professionale Sarebbero oltre 7 miliardi di franchi all’anno, in quattro anni, i trasferimenti

dalle giovani generazioni a quelle anziane. Un problema difficile da risolvere sul piano politico Ignazio Bonoli La Commissione di alta vigilanza della previdenza professionale ha pubblicato i dati (in buona parte già noti) sulle casse pensioni nel 2017. Il forte aumento dei rendimenti patrimoniali, rispetto a quelli dell’anno precedente, ha nettamente migliorato la situazione finanziaria di tutte le casse. Il rendimento dei titoli azionari è praticamente raddoppiato, passando dal 3,6% nel 2016 al 6,9% nel 2017. La buona tenuta di altri settori, benché a livelli bassi, ha permesso un netto miglioramento della situazione. Per quanto interessa la sorveglianza, si può quindi constatare un chiaro miglioramento del grado di copertura degli impegni delle casse che non godono di una garanzia dello Stato. Il loro grado di copertura è, infatti, passato dal 107,1% nel 2016 al 110,8% nel 2017. Per gli istituti di previdenza con garanzia dell’ente pubblico, il rendimento patrimoniale netto è stato perfino superiore e ha toccato l’8,2%, contro il 3,9% nel 2016. Il tasso di copertura medio di queste casse è quindi migliorato dal 79,7% del 2016 all’82,6%. Mediamente queste casse sono però ancora lontane dal 100% a cui dovrebbero tendere a lunga scadenza. Ciò è dovuto alla struttura particolare delle casse, che privilegiano le rendite e i diritti acquisiti, con-

tando appunto sull’intervento dell’ente pubblico in caso di bisogno. È quanto avviene anche per la cassa pensioni dei dipendenti dello Stato del canton Ticino che, nonostante il miglioramento, chiede ancora un’iniezione di 300 milioni di franchi. Il miglioramento dello scorso anno non permette però ancora di risolvere il problema strutturale, col quale sono confrontate tutte le casse: quello dell’invecchiamento della popolazione e, quindi, per le casse pensioni, l’aumento dei beneficiari di rendite che è superiore all’aumento (quando c’è) del numero di coloro che pagano i contributi. In pratica, gli assicurati attivi devono così pagare, con i loro contributi, una parte delle rendite dei pensionati. La cosa non è così grave, ma non per tutte le casse, se il fenomeno fosse di breve durata e, in altrettanti tempi brevi, si potessero così recuperare i fondi trasferiti. Comunque questi trasferimenti non rispettano il principio, insito nel sistema svizzero, per cui ogni assicurato si costituisce il proprio capitale di vecchiaia, sul quale calcolare l’ammontare della sua rendita di pensione, a un tasso pure fissato nella legge. Per questo si sente spesso dire che il sistema attuale non è in grado di garantire le promesse di rendita di pensione, al momento dell’inizio del versamento dei contributi.

Un pubblico intergenerazionale segue una sessione delle Camere federali: come verranno finanziate le rendite dei giovani di oggi e domani? (Keystone)

La citata commissione ha valutato l’ampiezza di questi trasferimenti: si tratta di oltre 7 miliardi di franchi all’anno, nell’ultimo quadriennio. Anche se questo importo equivale a soltanto l’1% circa del capitale di previdenza totale, il perdurare di questa situazione potrebbe provocare tra qualche anno la necessità di ridurre l’ammontare delle pensioni. L’AVS, che ha una struttura in gran

parte distributiva, vi può far fronte con i sussidi dello Stato e con i contributi degli attivi. Le casse pensioni devono invece ridurre costantemente il tasso di conversione per la parte di assicurazione non obbligatoria. La riduzione del tasso di conversione, attualmente del 6,8%, anche per la parte obbligatoria, incontra invece forti opposizioni politiche. Sta di fatto che, secondo la commissione, i rendimenti patrimo-

niali attuali permetterebbero un tasso di conversione del 4,7%, mentre le previsioni di rendita degli investimenti per i prossimi 20 anni sono inferiori al 2% in media. Al resto provvede il trasferimento dai fondi degli attivi a quelli dei pensionati. Una parte della soluzione potrebbe essere trovata in ulteriori diminuzioni del tasso di conversione della parte non obbligatoria. Secondo l’Alta vigilanza, l’85% degli assicurati, con il 30% almeno del loro capitale, sarebbero in questa situazione. Ma le casse non fanno volentieri queste operazioni. Ora, dal momento che né la riduzione del tasso di conversione, né l’eventuale aumento dell’età di pensionamento sembrano incontrare il necessario sostegno politico, l’unica porta aperta per evitare la riduzione delle rendite è quella della diminuzione del tasso di conversione del capitale di vecchiaia in rendita, prevista dalla legge. Oggi sarebbe auspicabile il 5% (invece del 6,8%), che sarebbe però politicamente irrealizzabile. Due tentativi (2010 e 2017), molto più modesti, sono caduti in votazione popolare. Si sta preparando il prossimo tentativo con molta prudenza e pensando a come «compensare» questo sacrificio. Se lo si fa a carico delle giovani generazioni, saremo di nuovo ai piedi della scala nel risolvere il problema di fondo dell’invecchiamento. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Un requiem per la Publicitas E così se ne andata anche la Publicitas la maggiore società, anzi una vera e propria istituzione, nel campo della pubblicità per i media. Ha dichiarato il suo fallimento, una decina di giorni fa, presso il tribunale distrettuale di Bülach. La fine di questo gigante della pubblicità svizzero era definitivamente prevedibile da quando, in aprile, i maggiori quotidiani del paese avevano disdetto i loro contratti, perché la società zurighese era in ritardo con i pagamenti, decidendo di crearne una nuova per i loro bisogni. Ma Publicitas si può dire sia stata in coma quasi trent’anni. È probabile che, per il modo in cui si è svolta, la storia della sua decadenza diventi in futuro uno studio di caso esemplare nei corsi di economia aziendale sulle conseguenze del cambiamento tecnologico. Publicitas era la società-guida nel mercato delle inserzioni elvetico

un mercato che, nel corso degli ultimi trent’anni, è andato purtroppo riducendosi, ad ogni nuova contrarietà, come la famosa «pelle di zigrino» dell’omonimo romanzo di Balzac. Trent’anni fa, quando il mercato pubblicitario delle inserzioni nei media svizzeri (vale la pena di ricordare che, ancora oggi, solamente quelli in carta stampata sono quasi 2000) andava per il meglio, la maggior parte del fatturato era diviso tra la Publicitas, l’Orell-Füssli , e l’Assa. La Publicitas era già l’azienda più importante e contava allora 3450 collaboratori in tutto il paese. Poi, nel 1992, per l’inasprirsi della concorrenza, si fece sentire il primo crac nel grande edificio della pubblicità per i media. A queste prime contrarietà si reagì come l’economia di mercato reagisce sempre in questi casi e cioè con la concentrazione. Dapprima l’Assa venne assorbita

dall’Orell-Füssli e poi quest’ultima azienda dalla Publicitas. La Publicitas restava così padrona del mercato controllando due terzi della domanda circa. Si pensò che questo processo di concentrazione fosse una risposta sufficiente ai cambiamenti tecnologici in atto. Ma il peggio doveva ancora venire. Nel 2002 in seguito alla continua diminuzione delle pagine pubblicitarie e anche a causa di investimenti sbagliati nel settore online, Publicitas dovette ristrutturarsi. Nel corso degli anni seguenti l’azienda ridusse progressivamente il suo personale di 1000 unità. Così gli affari poterono andare avanti, più male che bene però. Nel 2007 la società dovette pagare una multa di 2,5 milioni di franchi impostale dalla commissione per la concorrenza per abuso della sua posizione dominante nel mercato. Sette anni dopo, nel 2014,

la società venne venduta a una società di partecipazioni tedesca, la Aurelius AG, che la sbolognò subito alla Swisscom. A questo punto il numero dei collaboratori era già sceso a 860. Purtroppo anche la soluzione Swisscom non durò molto. Nel 2016, Publicitas venne così rilevata da due suoi manager, il direttore e il responsabile delle finanze, che di strategia in strategia, di progetto di ristrutturazione in progetto di ristrutturazione, di modello di gestione in modello di gestione, la portarono avanti fino all’aprile di quest’anno quando, come abbiamo già ricordato, i maggiori quotidiani le hanno voltato le spalle. Siamo oramai alla fine. Publicitas ha lanciato ancora un appello alla collaborazione alla riunione degli editori svizzeri del 3 maggio u.s. Ha sollecitato, entro il 10 maggio, il sostegno di almeno 400 editori, nella forma di una dichiarazione di intenti.

Nel suo appello agli editori ha accennato alle conseguenze negative che avrebbe potuto avere, in particolare per i piccoli editori, un eventuale fallimento della società. Detto in parole povere, la scomparsa di Publicitas potrebbe determinare un’ulteriore riduzione della pubblicità per i media e difficoltà di accesso al mercato per gli editori minori. Purtroppo gli editori non sembra siano stati impressionati da questi rischi e hanno fatto orecchie da mercante. La società ha prolungato il termine per la dichiarazione di intenti degli editori fino al 14 maggio. Alla fine, però, senza aspettare la scadenza di questo termine, l’11 maggio, Publicitas ha deposto il suo bilancio. Ricorderemo ancora che, al momento del suo fallimento, la società contava, in Svizzera, 270 dipendenti, ossia meno di un decimo dell’effettivo di trent’anni fa.

l’ala dura appollaiati sulla spalla, pronti a riprendersi la scena. Di Maio in effetti è tra i due quello che rischia di più. Salvini ha il futuro davanti: dopo la resa di Berlusconi è più che mai il capo del centrodestra, vale a dire dello schieramento storicamente maggioritario nel nostro Paese. Ma i Cinque Stelle, alleandosi con un partito di destra dura, con Centinaio che il 25 aprile festeggia solo San Marco e non la Resistenza, con Siri e Borghi che vogliono tagliare le tasse al 15%, con Borghezio e altri personaggi in odore di xenofobia, perdono la loro trasversalità. E quando gli antisistema vengono schiacciati troppo a destra, come Marine Le Pen in Francia (o troppo a sinistra, come Podemos in Spagna), il 33% non lo prendono più. Qualche rischio, però, lo corre pure il Paese. Cinque Stelle e Lega hanno promesso tutto a tutti. Hanno fatto la campagna elettorale sui provvedimenti di spesa – il reddito di cittadinanza o come si chiama adesso – o sui mancati introiti, dall’abolizione della Fornero alla flat-tax, alla cancellazione degli studi di settore. O i sovranisti faranno le cose che hanno promesso, facendo impazzire il bilancio dello Stato; o non le faranno, perdendo voti. È quel che sperano Renzi e Berlu-

sconi, nel loro calcolo un po’ disperato e un po’ cinico che si può così riassumere: gli italiani hanno voluto questi dilettanti senz’arte né parte e li avranno; tanto andranno a sbattere, e saremo richiamati noi. Ma nel frattempo il conto rischiano di pagarlo gli italiani. Tutti si augurano che stia per nascere davvero un governo di cambiamento, più vicino alle istanze popolari, più efficace nel rappresentare gli interessi italiani in Europa. Ma molti temono, dai primi segni, che assomigli sinistramente, se non al vascello dei folli, al battello ebbro di Rimbaud, che vaga senza timoniere né timone, mettendo a repentaglio l’equipaggio. Cinque Stelle e Lega sono gli unici partiti in crescita; quindi possono rivendicare di aver vinto le elezioni. Ma non le hanno vinte insieme. Il 4 marzo si è votato con un sistema imperniato sulle coalizioni; e Di Maio e Salvini non ne hanno formata una. Possono legittimamente tentare di dar vita a un governo, visto che uniti hanno la maggioranza dei seggi (sia pure risicata al Senato); ma non godono di un’investitura irrinunciabile, né di un tempo illimitato. Per intenderci, non sarebbe un «governo votato dagli italiani»; né potrebbe esserlo, visto che secondo

la Costituzione gli italiani eleggono il Parlamento, non il governo. Alcuni temi che emergono dalle comunicazioni di questi giorni, affidate più ai social che al confronto con i media – quindi proclami più che risposte –, sono molto sentiti dall’opinione pubblica. Non c’è nessuno scandalo ad approfondirli, anzi. È giusto prevenire una nuova ondata di sbarchi e dare un segnale sul rimpatrio dei clandestini. Imprimere una stretta sulla sicurezza, infoltendo i ranghi di polizia e magistratura e costruendo nuove carceri anziché svuotare le vecchie. Ma un conto è alleggerire il peso del fisco e della burocrazia; un altro annunciare di fatto l’abolizione delle tasse, con tagli dell’Irpef insostenibili per il bilancio pubblico, e la rinuncia ai meccanismi magari impopolari ma necessari per far pagare chi tende a evitarlo. Un conto è affrontare Bruxelles e Berlino senza certe arrendevolezze del passato; un altro è denunciare unilateralmente i trattati europei, come neppure Orban, per citare un leader molto ammirato dai sovranisti, ha mai pensato di fare. Insomma: gli italiani farebbero bene a preoccuparsi. E un poco anche gli altri europei.

gastronomia negli altri due lavori sono un pretesto per una più estesa radiografia antropologica di noi svizzeri: i Rösti diventano mito collegati ai vari fossati che separano romandi e svizzero-tedeschi, mentre la zuppa servita a Kappel è elevata a simbolo della diplomazia e della riconciliazione. La storia con il taglio socio-politico più marcato è quella di Erich Weiner. Lo scrittore americano spiega il «Röstigraben» come mito originato dalla divisione iniziata durante la prima Guerra mondiale, quando i romandi parteggiavano per la Francia e gli svizzero-tedeschi per la Germania, ma fa risalire sino all’antichità le radici di questo fenomeno. Presentando diversità e divisioni fra le quattro Svizzere, Weiner evidenzia anche ciò che ci unisce, in particolare il nostro multilinguismo, un tesoro che oltre a suscitare invidia in molti paesi (in particolare in Belgio e in Canada),

contribuisce anche a rafforzare la consapevolezza degli svizzeri di formare una «Willensnation», cioè «una nazione con la volontà di rimanere unita». A questo proposito l’autore cita lo scrittore Christophe Büchi, per ricordare che, anche se la prevalenza del tedesco crei delle frizioni, il pragmatismo che guida le idee politiche elvetiche riesce sempre a garantire la convivenza e la riconciliazione. E di riconciliazione parla anche Mike MacEacheran che, muovendosi un po’ come Dante all’inferno (suo Virgilio è la teologa e storica Susanne Wey-Korthals dell’Abbazia di Kappel am Albis), al termine di un lungo trattato sulle nostre due principali confessioni religiose, trova strabiliante che, anche mezzo millennio dopo la riforma protestante, la coesistenza religiosa in Svizzera continui a essere riconducibile al mito dei cucchiai di legno e della minestra di latte condivisa a Kappel.

In&outlet di Aldo Cazzullo Due politici Whatsapp Ci siamo. Sta per nascere il governo più pazzo del mondo. L’incrocio tra due populisti. Uno è di Avellino come De Mita, l’altro milanese come Craxi. Uno è figlio di un militante missino e ha fatto il pieno di voti a sinistra, l’altro fu comunista padano ed è il capo della nuova destra italiana. Non sono neppure della stessa generazione: li separano tredici anni; non hanno visto gli stessi film, ascoltato la stessa musica, letto gli stessi libri (pochini, i libri). Eppure si sono incontrati e si sono riconosciuti. Luigi Di Maio e Matteo Salvini si piacciono. Si capiscono. E si prendono. Il governo che sta per nascere in Italia non assomiglia a nessuno dei tanti che reggono le democrazie occidentali. Esistono altri governi populisti e sovranisti; si pensi a Trump; che però ha dietro la macchina del partito repubblicano e l’establishment militare della più grande potenza mondiale; infatti non amministra con Steve Bannon ma con i generali. Il governo Di Maio-Salvini si regge innanzitutto sulla psicologia dei due leader, e sul modo in cui si è intrecciata sino a costruire un’alleanza: improbabile, per certi versi rischiosa; eppure l’unica risultata possibile. Sono i primi due politici Whatsapp

della nostra Repubblica. Berlusconi non ha neppure il cellulare. Renzi lo usa compulsivamente, finendo per alimentare il suo solipsismo e quindi la sua solitudine. Di Maio e Salvini chattano tra loro come diavoli. «Mi messaggio più con Luigi che con mia madre» dice Matteo. «Il mio telefonino è sempre acceso, anche la notte» gli fa eco l’altro. Ogni tanto si vedono di persona in incontri velocissimi: si parlano otto minuti e subito s’intendono. Non sentono il bisogno antico di farsi fotografare insieme. Alla fine forse faranno davvero la staffetta, quella mancata proprio a Craxi e De Mita. Sono nuovissimi e nello stesso tempo antichi. Parlano politichese puro. Saranno anche giovani e antisistema; ma a tenerli insieme è il potere. Non si accontentano di sovvertire il vecchio establishment; vogliono prenderne il posto. Resta da capire chi comanda davvero nei Cinque Stelle (chi comandi nella Lega si capisce benissimo). Di Maio si è rivelato abile; ma non riesce a cancellare del tutto l’impressione di aver imparato una parte a memoria. Di sicuro è saldo il suo asse con Davide Casaleggio, l’azienda, la piattaforma, l’algoritmo; ma Luigi non può fallire, perché ha Grillo, Di Battista e

Zig-Zag di Ovidio Biffi Älplermagronen, Rösti e zuppa di Kappel Rubrica dedicata a tre ricette della tradizione culinaria svizzero-tedesca? Tranquilli, faticheremmo persino a proporvi quella di un risotto, figuriamoci l’andare in cucina oltralpe. Niente «Masterchef». Niente ricette. Mi limito a riferire la scoperta delle tre celebri pietanze svizzerotedesche nei titoli di articoli dell’edizione online della Bbc, usate anche lì non per ricette, bensì per magnifiche relazioni proposte da tre noti giornalisti di viaggi. E i titoli bastano a far scattare la domanda: come mai un così bizzarro approccio per descrivere un paese che non ha una cucina eccelsa? L’unica cosa certa è il risultato: Adam Graham, giornalista residente a Zurigo, collaboratore di «Condé Nest» e di una decina di altre riviste dagli Usa alla Cina, a fine gennaio ha esordito su Bbc.com con un articolo riguardante l’Aelplermagronen, il piatto di pasta, patate e cipolle degli alpigiani; successivamente (fine marzo) arriva

l’americano Eric Weiner (collaboratore del «NY Times», autore di Geography in Bliss, bestseller tradotto in 20 lingue e pluripremiato) con un trattato sui rösti; infine a metà aprile lo scozzese Mike MacEacheran, editore e «travel writer» collaboratore oltre che della Bbc, anche di Lonely Planet e di una dozzina di prestigiose testate, ha chiuso il trittico (ma c’è quasi da augurarsi che la serie prosegua) dedicandosi alla zuppa di Kappel, nota in gastronomia come Milchsuppe. Ho definito bizzarra la scelta di riunire questi tre articoli. In realtà, come sovente capita quando in campo scendono validi scrittori di viaggio anglosassoni, il trittico elvetico alla fine risulta un geniale assemblaggio giornalistico. Infatti partendo dalle tre tipiche pietanze e dalla storia dell’alimentazione elvetica (MacEacheran ad esempio cita il celebre dipinto di

Albert Anker con la grande marmitta di Milchsuppe; Adam Graham risale fino alle ricette dei primi maccheroni di maestro Martino, il bleniese autore nel 1400 del Libro de arte coquinaria) i tre collaboratori della Bbc riescono a offrire un grandioso affresco delle peculiarità che caratterizzano le diversità e al tempo stesso risultano essere il collante che contrassegna la convivenza degli svizzeri. La maggior parte dei lunghi articoli è dedicata a ricostruzioni storiche e citazioni, raccolte da studiosi della gastronomia svizzera come Paul Imhof, o dedotte da spiegazioni e precisazioni di anfitrioni occasionali (la manager Manuela Bianchi) o ricercati (la teologa Suzanne Wey-Korthals). Ma mentre l’articolo di Adam Graham dedicato all’Aelplermagronen si sofferma con Imhof sull’importanza di questo piatto offrendo uno spaccato del mondo rurale e alpestre elvetico, pietanze e


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Cultura e Spettacoli Un’Italia raccontata per immagini Storia d’Italia in 100 foto è molto più di una mera raccolta di (meravigliose) immagini: è anche un viaggio attraverso una vicenda che in parte ci appartiene

Le figure di Franca Ghitti Il Museo di Mendrisio celebra l’arte della scultrice della Valcamonica Franca Ghitti pagina 35

Sorprese festivaliere Molte le proposte interessanti a Cannes: il ritorno di Panahi, Pawlikowski, e Jia Zhang-ke

Berlino d’arte Il giornalista Luigi Forte ci invita a ripercorrere la storia di Berlino e dei suoi artisti

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Cento, mille, seimila pensieri

Mostre Matt Mullican all’Hangar Bicocca

di Milano

Gianluigi Bellei Se volete trascorrere una giornata curiosa e intrigante, oltretutto senza pagare il biglietto, dovete senz’altro andare all’Hangar Bicocca a Milano per immergervi nelle opere di Matt Mullican. Arriva il caldo e all’Hangar si sta bene. Potete anche fermarvi a mangiare al Bistrot all’ingresso. La mostra ha dell’incredibile. Occupa tutta la parte destra dell’Hangar. In quella sinistra c’è sempre Anselm Kiefer con i Sette Palazzi Celesti. Incredibile perché ci sono circa seimila (dico seimila) oggetti. Dai grandi ai minuscoli. Di tutti i tipi: installazioni, opere su carta, in vetro, frottage, video, performance, neon, multipli, lightbox, realtà virtuale, ossi, animali, foto, matrici tipografiche… Insomma, un mondo nel mondo, un’enorme Wunderkammer che piacerà a grandi e piccini (per i più piccoli dovete sapere che ci sono immagini esplicite). Potete girovagare come in una foresta o in un grande magazzino in una sorta di divertente flânerie. Sembra di stare da Tati a Parigi dove tutto è in un disordine organizzato. Oppure potete immergervi nella cosmogonia dell’artista con i suoi rimandi e i suoi retropensieri. Ma in questo caso avrete bisogno di più tempo e magari resterete delusi. Se preferite potete fare tutte e due le cose. Quello che è certo è che ogni singolo oggetto di per sé è di scarso valore estetico. Acquista valore nell’integrità complessiva di tutto l’allestimento che risulta essere una grande opera in divenire che rappresenta oltre quarant’anni di lavoro dell’artista, dagli inizi degli anni Settanta a oggi. Mullican è definito da Chris Wiley, nel catalogo della Biennale di Venezia 2013, un trasognato novello Don Chisciotte. Cerca sia di dare «un ordine al

mondo, sia (di) visualizzare le discrepanze tra esperienza vissuta e realtà oggettiva». Lo so, state entrando nel panico; la questione diventa complessa. D’altronde qualcosa bisogna estrarre da questo magma differenziato. Anche perché, a dire il vero, l’artista stesso non aiuta, dato che rilascia dichiarazioni quali «amo lavorare per la verità e la bellezza». Una sorta di profeta illuminato, insomma. Difficile però credere che sia un novello Platone. Ma forse è più vicino a una concorrente di Miss Italia che sostiene di volere la pace nel mondo. Matt Mullican nasce a Santa Monica in California nel 1951 e vive a Berlino e New York. Ha esposto, tra gli altri, al Metropolitan Museum di New York nel 2009, alla Tate di Londra nel 2007, allo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1988, alla Nationalgalerie di Berlino nel 1995, al Moca di Los Angeles nel 1989 e nel 1986. L’esposizione milanese è divisa in cinque aree di diversi colori. Ogni area, posta simmetricamente all’interno della struttura complessiva, è circondata da un muro alto un metro. Le opere sono posizionate su tavoli, per terra o su piani di legno inclinati. Lo spazio è enorme (5500 metri quadrati) e l’artista si è dovuto impegnare per, come dice lui, «vestire la balena». L’area rossa è quella dedicata alla psiche; l’area nera alla comunicazione e al linguaggio; l’area gialla alla cultura, alla scienza e all’arte; l’area blu alla vita quotidiana e infine l’area verde rappresenta il mondo naturale della materia e degli eventi. La mostra termina nell’ultima sala a forma di cubo. Area rossa. È quella della psiche e della soggettività. Qui incontriamo That Person che abbiamo già visto all’entrata negli stendardi appesi al soffitto con dentro numeri, testi, im-

Matt Mullican, Untitled (Colored Elements), 2016 Courtesy dell’artista e Peter Freeman, Inc. New York / Parigi. (Nick Knight)

magini e diagrammi. That Person è una sorta di alter ego dell’artista che all’inizio si chiamava Glen. Un personaggio immaginario, asessuato, che gli appare – o nel quale si identifica, o dal quale si sdoppia – durante le performance attuate in stato di trance o di ipnosi. È lui che crea questi viaggi e queste opere. Area nera. Questa è dedicata alla comunicazione e al linguaggio. Mullican indaga il mondo materiale e la sua costruzione psicologica. In pratica quello che vediamo e quello che pensiamo di quello che vediamo. Nelle immagini, tratte da fumetti, l’artista entra nel personaggio rappresentato prima che questo faccia parte della storia. «Tutto è astratto, dice, è possibile costruire la realtà solo attraverso la nostra storia e cultura». Che cosa è la vita? Che cosa è la morte? si chiede. Per scoprirlo entra nella vita di un cadavere – una persona non più in vita ma che è vissuta – e nello stesso tempo di una bambola, un oggetto inerte ma che per noi vive di una vita propria. Ora entra in scena Glen, il suo alter ego. Le fantasie dell’artista partono da quando era bambino e si interrogava sulla vita e sulla morte. È il destino che le lega? Dove ero prima di nascere? Dove sarò dopo la morte? In paradiso o all’inferno? Area gialla. Siamo al centro del percorso, in un rettangolo. Mullican indaga l’arte, la scienza e la cultura; il mondo non è più simbolico ma reale.

Questa zona è divisa in cinque sottozone, con cinque diversi livelli di significato, rappresentati da ulteriori cinque colori. Il verde legato a elementi naturali e materiali; il blu alla vita quotidiana; il giallo alle arti e alle scienze; il nero al linguaggio e il rosso alla spiritualità. Area blu. Siamo nel mondo della vita quotidiana e della città. Dal 1986 Mullican lavora con una società informatica per realizzare una mappa virtuale della sua città ideale. Computer Project, è il titolo del progetto realizzato fra il 1986 e il 1990. All’interno di questa città troviamo ristoranti, negozi, ospedali... Gli anni successivi realizza Five into One con una tecnologia più potente e avanzata che gli permette di entrare in un ambiente virtuale e passeggiare nella sua camera. In quest’area troviamo un box giallo (dove non si può entrare) che contiene gli oggetti reali appartenenti all’altro Mullican: un letto, una sedia, una pentola, una radio... Area verde. La Grande Navata si conclude con l’area verde che rappresenta il mondo naturale della materia e degli elementi. Qui troviamo ossi, animali impagliati, insetti, semi. Tutto il suo mondo. Poi una serie di cartoncini colorati che esposti a differenti fonti di luce cambiano la percezione del colore originario a dimostrazione che questo non è determinato in sé, ma è solo una nostra rappresentazione.

Per finire troviamo il cubo – che altro non è che l’ultima grande sala dopo la navata – che l’artista ricopre completamente di rubbing: una tecnica che include pittura, disegno, stampa. Serve a rappresentare l’idea centrale dell’artista e cioè che il mondo non è quello che vediamo ma la sua ombra. Un po’ come nella famosa immagine della caverna di Platone. «Ciò che osservo, quello che qualsiasi occhio percepisce – precisa l’artista – altro non è che un’immagine sulla retina: ma il mondo reale non è così. Il rubbing rappresenta quello che l’occhio vede: è il rilievo». Al centro del cubo 449 tavole tratte dalla New Edinburgh Encyclopedia, un’enciclopedia del 1825 replicata su lastre di magnesio. Nella sala antecedente il grande spazio dedicato a Mullican possiamo vedere, fino al 22 luglio, la mostra di Eva Kot’átková The Dream Machine is Asleep le cui opere, legate a una sorta di Dadaismo e Surrealismo, si snodano fra collage, sculture, fotomontaggi, video, performance, disegni e installazioni. Dove e quando

Matt Mullican. The Feeling of Things. A cura di Roberta Tenconi, Milano, Hangar Bicocca. Fino al 16 settembre. Orari: gio-do 10.00-22.00. Ingresso libero. www.hangarbicocca.org


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Cultura e Spettacoli

Il Bel Paese raccontato in immagini Fotografia Laterza ha pubblicato un volume in cui sono raccolte cento fra le immagini più significative

della storia recente d’Italia Giovanni Medolago Pochi anni separano la nascita della fotografia (1839) da quella dell’Unità d’Italia (1861). Due decenni, nell’ottica della Storia, sono quantité négligeable e dunque possiamo dire che la scoperta tecnica e la creazione politica sono cresciute insieme. In questi 157 anni, come capita tra veri coetanei, si sono aiutati e scontrati più volte: diffuse in tutta il Paese, le immagini dello tsunami che sconvolse Messina e Reggio Calabria (oltre 100mila morti) crearono dapprima vivissima emozione, poi spinsero a partire verso la Sicilia una moltitudine di giovani e meno giovani desiderosi di portare soccorso. Durante il ventennio fascista, viceversa, il Duce e i suoi ministri della propaganda usarono la fotografia per esaltare le doti di Mussolini (celebre l’immagine del dittatore impegnato a torso nudo nella mietitura). Più vicino a noi, l’immagine di Roberto Benigni che tiene in braccio Enrico Berlinguer (1984) rappresenta in qualche modo il massimo del consenso popolare raggiunto dal PCI; mentre il clic del ragazzo che spara con la sua P 38 in una Milano spettrale è divenuta vera e propria icona degli Anni di Piombo. Recentemente pubblicato da Laterza, il volume Storia d’Italia in 100 foto, analizza da vicino la relazione biunivo-

Paul Strand, The Family, Luzzara 1953.

ca tra il lavoro dei fotografi e le vicende spesso tormentate della vicina Repubblica. Un libro che si sfoglia piacevolmente vuoi perché non richiede certo l’impegno necessario quando si affronta un saggio storico, vuoi d’altro canto per le sorprese che attendono il lettore. Qualche esempio: fino al 1866 ogni città d’Italia aveva il suo mezzodì, basato sull’ora solare locale. Solo l’avvento di diversi mezzi di comunicazione (ferro-

vie, telegrafi, piroscafi) impose un’unica misura del tempo, che fu regolata su quella di Roma prima ancora che la Città Eterna divenisse – con la presa di Porta Pia nel 1870 – l’effettiva capitale italiana. Sappiamo che la manipolazione delle immagini è nata ben prima del Photoshop, ma è tuttavia sorprendente quanto riuscì a fare nel lontano 1904 Luca Comerio, fotografo ufficiale di

corte: nella sua immagine, il re Vittorio Emanuele III, la regina Elena e Giovanni Giolitti sembrano tutti della stessa statura, quando in realtà il sovrano era alto solo 1,53 (lo chiamavano sciaboletta perché munito di una spada più corta del solito per evitare che strusciasse per terra), la sua sposa montenegrina lo sovrastava di una spanna buona e Giolitti sfiorava il metro e novanta! Pure curioso è apprendere perché le US

Combat Film ci hanno lasciato solo poche foto a colori dell’ultimo conflitto: da Washington era partito l’ordine di usare le nuove pellicole Kodachrome solo per immortalare i momenti davvero salienti della II Guerra mondiale. Sono di autore rimasto ignoto parecchie immagini del libro, ma non mancano certo i nomi illustri: Wilhelm von Gloeden, che nella «sua» Taormina creò a inizio ’900 un inedito genere, quello del nudo maschile; Paul Strand che, chiamato da Cesare Zavattini, esplora il paesino natale di quest’ultimo, Luzzara. Ugo Mulas, che coglie Lucio Fontana nell’atto di tagliare una sua tela. O ancora Gianni Berengo Gardin che lancia un grido d’allarme per la sua Venezia, soffocata da un’imponente nave da crociera (è di poche settimane fa un decreto che vieta finalmente tale scempio). I quattro storici chiamati al commento delle immagini sono invece Vittorio Vidotto, Simona Colarizi, Giovanni De Luna ed Emilio Gentile, ben noto agli ascoltatori di Rete 2 e autore d’un libro sulla prima Guerra mondiale dal titolo formidabile: Due colpi di pistola, dieci milioni di morti. Il team è stato coordinato da Manuela Fugenzi, docente di Fotografia all’Università di Roma 3 e già autrice de Il secolo delle donne, l’Italia del Novecento al femminile. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

La materia e l’uomo

L’ascesa del genio Childish Gambino

Mostre Il Museo d’arte Mendrisio ospita le sculture di Franca Ghitti Alessia Brughera Nonostante gli esordi come pittrice, la sua irresistibile attrazione per la matericità conduce presto Franca Ghitti, nata in Valcamonica nel 1932 e scomparsa nel 2012, a dedicarsi all’arte scultorea. Complice la grande segheria paterna, dove fin da piccola osserva i processi e le tecniche di lavorazione del legno, l’artista lombarda trae ispirazione dagli elementi della tradizione avvicinandosi soprattutto alle componenti di scarto e agli oggetti più umili o logorati dall’uso. La Ghitti recupera vecchie assi lignee, avanzi di falegnameria, chiodi, residui metallici abbandonati nelle antiche fucine della sua valle per poi ricomporli in nuove sagome, ampliandone la valenza di materiali fortemente legati a quelle attività artigianali primarie e universali che hanno costruito l’identità dell’uomo nel corso dei secoli. È il modo, questo, che l’artista sceglie per soddisfare il bisogno di sviscerare e insieme conservare la cultura della propria terra, di riscoprire la propria storia svelandone memorie, riti e misteri. Nella sua vita di spirito appartato e schivo, amante della solitudine, non mancano affacci importanti su scenari ricchi di stimoli: la Ghitti studia all’Accademia di Brera, frequenta l’Académie de la Grande Chaumière a Parigi, segue i corsi di incisione dell’irrequieto maestro austriaco Oskar Kokoschka a Salisburgo, vive in Kenya per due anni confrontandosi con gli idiomi delle comunità tribali. Eppure il mondo costantemente richiamato nelle sue sculture rimane quello della Valcamonica, esplorato e traslato nello spazio e nel tempo odierni per farne emergere i tratti più autentici. L’universo della Ghitti è quello dell’antichissima popolazione dei Camuni, che per millenni ha inciso i massi di arenaria levigati dai ghiacciai facendone immense lavagne su cui lasciare tracce della propria vita quotidiana e spirituale. È quello delle pievi medioevali, delle edicole votive lungo le strade e degli affreschi nelle chiese, dei magli e dei mulini, del povero mobilio rurale e

dei semplici strumenti del mestiere artigianale. L’artista riconosce la ricchezza del proprio territorio e ne raccoglie le suggestioni edificandoci sopra tutta la propria poetica. Le sue sculture rimandano ai saperi e alla laboriosità della civiltà di un tempo, riproponendone i valori con un linguaggio peculiare in cui l’eredità del passato convive con l’estetica moderna. Le iconografie e i simboli di culture antiche vengono ripresi e attualizzati dall’artista attraverso uno stile fondato sul senso della misura e su una precisa organizzazione compositiva. L’obiettivo, come dichiarava la scultrice stessa, è quello di «trasformare uno spazio geometrico in uno spazio storico» intriso dei gesti e delle cadenze di un mondo contadino innalzato a emblema dell’umanità. La Ghitti sbozza forme semplici, essenziali, in cui il volume viene bandito a favore di una bidimensionalità dalla primitiva immediatezza: con il legno e con il ferro crea superfici e tavole su cui si dispiega silenziosa la vicenda umana. A organizzare la prima mostra antologica svizzera dedicata all’artista camuna è il Museo d’arte Mendrisio, nelle cui sale sono raccolti oltre cinquanta lavori della Ghitti che ripercorrono le tappe salienti della sua produzione plastica. L’itinerario espositivo ha inizio con la serie delle Mappe, soggetto molto caro alla scultrice, proposto fin dai primi anni Sessanta e ripreso più volte nel corso del tempo. Si tratta di opere ispirate alle incisioni rupestri della Valcamonica reinventate dalla Ghitti con un personale alfabeto segnico impresso su grandi legni di recupero. Qui forme geometriche imperfette rimandano ai graffiti preistorici, tracciando percorsi misteriosi e senza meta che riportano a un’epoca lontana in cui la misurazione dello spazio era precaria e approssimativa. Altro gruppo di sculture lignee particolarmente significativo è quello delle Vicinie, evocativo già nel nome del senso sociale di appartenenza tipico delle comunità del passato, legate da solidi vincoli di aiuto reciproco. Sono lavori che mettono in scena, come pic-

Parliamone Di un

brano che è anche molto politico Simona Sala

Franca Ghitti, Vicinia. La tavola degli antenati n. 1, 1976 legno. (Archivio Franca Ghitti, Cellatica, foto Fabio Cattabiani)

coli teatri, il mondo contadino con i suoi culti e le sue credenze: le strutture, scandite con estremo rigore dall’artista, sono popolate da processioni di figure arcaiche austere e insieme concrete, a richiamare una devozione rispettosa e schietta. Analoghi nel loro restituire il vissuto agreste sono anche le serie delle Madie e delle Edicole, opere in cui la Ghitti attua un vero e proprio colloquio con le cose raccontando attraverso oggetti di uso quotidiano intagliati nel legno e collocati meticolosamente in ordinati scomparti le esistenze misere ma dignitose delle antiche collettività rurali. Quanto l’artista si misuri anche con un repertorio formale più dinamico e in dialogo con l’ambiente circostante lo dimostrano i Tondi , sculture circolari realizzate con carta chiodata, legno inciso o tessere di rame, e le opere appartenenti al ciclo Alberi e Bosco, in cui le geometrie squadrate e orizzontali lasciano il posto a profili ascensionali, vicini ai fluidi ritmi di Constantin Brâncuși conosciuti e apprezzati dalla Ghitti nel periodo parigino. La rassegna mendrisiense dà testimonianza anche delle sculture eseguite con gli scarti del metallo, materiale utilizzato dall’artista in maniera prepon-

derante dalla fine degli anni Ottanta: con gli sfridi, i residui caduti dall’incudine, crea installazioni leggere e luminose, come la Cascata (1995) o gli Alberi-Vele (2000) che accolgono il visitatore nel cortile del museo. Una piccola ma interessante sezione è dedicata a fine percorso alle edizioni d’arte, campo d’indagine molto amato dalla Ghitti, che tirava personalmente a mano le incisioni con il suo torchio e progettava le copertine. Tra le opere presenti troviamo volumi legati all’Africa e a scrittori e poeti a cui l’artista si sentiva affine, spesso pubblicati dall’amico editore Vanni Scheiwiller. La Ghitti ambiva a una scultura che fosse linguaggio assoluto: con i suoi lavori ha ritrovato nelle proprie radici una conoscenza universale, ha arricchito i segni del passato di nuovi significati e così facendo ha custodito le ataviche memorie della storia dell’uomo. Dove e quando

Franca Ghitti scultrice. Museo d’arte Mendrisio. Fino al 15 luglio 2018. Orari: ma-ve 10.00-12.00/14.00-17.00; sa, do e festivi 10.00-18.00; lu chiuso, tranne festivi. www.mendrisio.ch/ museo

Un giorno, tutto questo... Salone del Libro 2018 Nonostante le numerose insidie – dal mondo e dalla concorrenza –

la manifestazione è stata un successo Eliana Bernasconi Il desiderio di un certo tipo di cultura accessibile e felicemente fruibile da tutti sembra non cessare, ma al contrario espandersi. Basta pensare a tutti quei festival, in Italia e altrove, generalisti o specifici e su temi sempre diversi, che producono conoscenze, riscontro economico, turismo. Parlare del recentissimo 31° Salone internazionale del libro di Torino da poco concluso è tornare alle origini di questo, a un’istituzione antesignana di quanto sarebbe avvenuto in seguito, che oggi, con 36 paesi rappresentati, è una celebre manifestazione italiana e internazionale nel campo della letteratura e dell’Editoria. Partita nel 1988 al Lingotto, quartiere di Torino, nello spazio dove, nel lontano 1915, prendeva avvio il celebre stabilimento della Fiat, trasformato poi in un grande centro fieristico congressuale da Renzo Piano nel 1985. Ore 9 del primo giorno, mattino presto, le code per l’ingresso sul grande piazzale superano i 100 metri, ci sono centinaia di scolaresche, le misure di sicurezza incombono. Lo scorso anno i visitatori furono oltre 300’000. Il Sa-

il manifesto della manifestazione.

lone occupa 51’000 metri quadrati di superficie, con 27 sale convegni, 1500 stand di libri e almeno 43 case editrici. All’interno l’accesso ai Padiglioni è un po’ impedito, una lunghissima coda attende di ascoltare Limonov, il famoso scrittore, poeta, politico e intellettuale russo invitato in Italia dopo 20 anni di assenza, qualche ora dopo numerosi giovani attendono trepidanti di sentire Alessandro D’Avenia parlare del suo recente L’arte di essere fragili. Ma oltre a loro ci saranno anche Saviano, Augias, Bertolucci, Travaglio... In un mondo dove il futuro non è più una certezza e immaginarlo provoca disagio, per costringerci a riflettere gli organizzatori hanno dato un nome al Salone: Un giorno, tutto questo. Si sono ispirati al concetto ponendo cin-

que domande essenziali a scrittori, storici, scienziati, filosofi, economisti, artisti, registi, ecc, ossia «alle menti più brillanti del pianeta»: «Chi voglio essere?», «Perché mi serve un nemico?, «A chi appartiene il mondo?», «Dove mi portano spiritualità e scienza?, «Che cosa voglio dall’arte, libertà o rivoluzione»? Il Salone intende dunque produrre anche idee e contenuti, essere una forza trasformativa che guarda negli occhi il futuro. Se la narrativa domina con autori provenienti dai cinque continenti, anche i temi trattati si ripetono, offrendoci riflessioni come: «We have one another» (Abbiamo l’un l’altra), cioè racconti delle donne sulle donne, narrazioni che la storia della letteratura femminile non aveva trattato a sufficienza. La Francia, paese ospite presente con molti autori, è uno dei paesi europei che più deve riflettere sull’identità, sulla convivenza e sul conflitto. Nel Bookstock Village che il Salone dedica alle scuole, tra storie di ufo, droni, robot, mondi virtuali e laboratori per bambini e adolescenti, due giovani cantanti originari dell’Africa raccontano delle frontiere costruite dalle parole,

prima di tutto dentro di noi, del «politicamente corretto», delle molte interpretazioni di termini come «extracomunitario» o «straniero»: «Patria sarà», concludono, «quando tutti quanti ci diremo stranieri». Ma è ai mestieri del libro e dell’editoria, (che oggi significa anche fumetti, graphic novel, fotografia, forme sempre creative di nuove contaminazioni con l’immagine) che il Salone ha dedicato grande attenzione, con approfondimenti e progetti innovativi. Gli editori, è stato detto, producono troppo, le novità sono 66’000 all’anno, le librerie sono intasate e alcuni libri non raggiungono mai gli scaffali. L’editore deve dunque trasformarsi, farsi curatore e inglobare nuove figure professionali. E infine con un’area apposita dedicata a un mondo di autori, traduttori, agenti, promotori di cinema tv, di storytelling e video, era presente lui, il colosso della multimedialità Amazon. Piaccia o meno, Amazon ha molto da insegnare sotto l’aspetto imprenditoriale. Basti solo un esempio: come saper proporre o riproporre a chi ha mostrato interesse per uno specifico titolo un altro simile, e molto altro ancora.

Al di là della solita gara per il numero di visualizzazioni online (per la cronaca, su YouTube sono state oltre 100 milioni in una settimana), la sfida per chiunque guardi l’ormai virale This is America di Childish Gambino è un’altra. Alzi la mano chi, alla prima visione del video che accompagna la canzone, è riuscito a individuare l’uomo a cavallo, la guerriglia urbana sullo sfondo, le continue allusioni alla televisione-spazzatura, i tizi intenti a chattare.... Ma andiamo per ordine. Il video di This is America si apre con un musicista barbuto che prende posto su una sedia di plastica e inizia a suonare la chitarra. E fin qui tutto bene. Siamo in un enorme e disadorno magazzino, riecheggiano le note di un coro gospel e Childish è (ancora) nascosto. Quando si rivela, danzando con bizzarre espressioni, è a torso nudo, indossa pantaloni che ricordano le uniformi degli Stati Confederati (quelli che si opposero alla liberazione degli schiavi di colore) e mocassini di daino gialli. Con movimenti sinuosi si avvicina a un altro uomo, incappucciato, estrae una pistola dai pantaloni e gli spara da dietro, non senza avere prima assunto una posa caricaturale che ricorda Jim Crow – noto personaggio delle coon songs americane di fine Ottocento. Il sangue schizza, e la pistola viene presa in consegna da un ragazzo di colore che regge un cuscinetto di seta. I gospel tacciono di colpo: la frase This is America ci fa capire che l’idillio è finito: parte la trap (con omaggi vari a protagonisti della scena contemporanea come Young Thug o Slim Jxmmi), e ha inizio il lunghissimo piano sequenza che mette in evidenza l’incredibile arte coreografica del giovane Donald Glover (questo il vero nome dell’artista 34enne), il quale si esibisce in un’infinita serie di movenze ipnotiche che ricordano le danze tribali africane. Ancora spari, danza, risate, poi un joint, perché così vuole l’America, ci suggerisce Gambino. Un coacervo di violenza, brama di soldi, sciagurata spensieratezza mediatica, ma soprattutto discriminazione razziale. Da sempre impegnato politicamente e culturalmente, GambinoGlover denuncia le ingiustizie subite dagli afroamericani per mano della polizia e della società, ma non si limita a questo, la sua verve creativa l’ha infatti portato a farsi un nome, oltre che come ballerino e rapper, anche come regista, produttore, sceneggiatore, attore – sua è anche la pluripremiata serie Atlanta. Questa dimostrazione di immenso spessore artistico grazie alla sua modernità ha messo d’accordo il mondo intero, e il timing non poteva essere migliore. Avviene infatti proprio nei giorni in cui Kanye West, altro rapper su cui si puntava molto, sembra essersi scavato la fossa da solo, schierandosi con Trump e affermando che da qualche parte gli schiavi siano stati responsabili della propria condizione.

Una delle scene più toccanti di This is America di Gambino. (youtube)


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Cultura e Spettacoli

Corpi e poesia per emozioni che pulsano verità Teatro Il lavoro interdisciplinare di Tiziana Arnaboldi e il dilemma della colpevolezza

a partire da un testo del giurista e scrittore germanico Ferdinand von Schirach Giorgio Thoeni Gran festa la scorsa settimana sul palco del LAC per ricordare i 30 anni di carriera di Tiziana Arnaboldi. Con il titolo Motivo di una danza sono andati in scena due viaggi, percorsi che esplorano l’orizzontalità e la verticalità, sentieri contrassegnati dalla vena poetica accanto a una ricerca sulla natura umana che, in un certo senso, celebrano un’esplorazione artistica coraggiosa condotta sempre all’insegna della libertà. Il primo viaggio è parte di un trittico realizzato con Fabio Pusterla e iniziato tre anni fa al San Materno, poi ripetuto in una nuova versione allo Spazio Officina di Chiasso e ora al LAC: è il risultato di un processo creativo che ha contrassegnato la cifra stilistica della coreografa da quando ha assunto la direzione del Teatro San Materno con progetti centrati sul dialogo della danza con altre discipline. Nasce come «reading» poetico accompagnato da movimenti danzati. L’anno dopo subisce la prima trasformazione nell’incontro con Il suono delle pietre, spettacolo che la Arnaboldi aveva ricamato sul canto dei litofoni, piastre di pietra intonate e disposte a tastiera, uno strumento inventato dal musicista Beat Weyenet. L’unione delle due esperienze ha poi generato una nuova visione nella ricerca della natura umana e dell’abbandono della gravità per ritrovare una ritualità e

desideri su memorie, abbandonando i manierismi che spesso accompagnano la verticalità dei danzatori. Messi così a contatto con l’orizzontalità di pietre colte dal greto della Maggia, con la poesia di Pusterla nasce un’opera che Tiziana non esita a definire «la sua produzione più vera e autentica, che mette i corpi dei danzatori nella verità accanto alla poesia di Fabio che, grazie alla sua generosa disponibilità, sono riuscita a scomporre trasformandola in una tessuto coreografico». Strutturata in due parti, la serata è poi proseguita con un secondo viaggio, Danza e mistero, una verticalizzazione sulle tracce di Charlotte Bara e la forza del suo lirismo, della sua spiritualità, sulla vita e sulla morte, sull’elevazione dei corpi e quella particolare gestualità gotica dall’intreccio di mani e braccia, nei versi delle sue poesie, nelle sue musiche, nel suo canto, nei suoi fiori. La bellezza fotografica dell’artista belga si libera sul grande palco luganese trasformando il rigore statuario delle posture in un affascinante happening di danza contemporanea. Per questo spettacolo l’Ufficio federale della Cultura ha attribuito a Tiziana Arnaboldi il Premio svizzero Patrimonio della Danza 2018. Tanto pubblico e numerosi applausi per Tiziana Arnaboldi con i suoi eccellenti danzatori: Eleonora Chiocchini, Marta Ciappina, Claudia Rossi-Valli, Francesca Zaccaria, Pierre-Yves Diacon, Da-

Motivo di una danza di Tiziana Arnaboldi.

vid Labanca, Faustino Blanchut. E per le musiche e le elaborazioni sonore di Mauro Casappa con il progetto luci di François Gendre, Christoph Siegenthaler e Andrea Margarolo. Dilemma con verdetto del pubblico

C’è verità storica e tragica attualità in Terror, copione del giurista e scrittore tedesco Ferdinand von Schirach, nipote di Baldur von Schirach, gerarca nazista condannato dal Tribunale di Norimberga. L’autore immagina un processo penale ai danni di un maggiore dell’aeronautica militare incaricato di scortare con il suo velivolo un aereo dirottato da terroristi con a

bordo 164 passeggeri che sta puntando su uno stadio dove 70mila persone assistono a una partita di calcio. Il pilota deve prendere una decisione: condannare 160 persone per salvarne 70 mila oppure lasciare che l’aereo compia una strage? Deciderà di far saltare in aria l’aereo. Ma come giudicare la sua responsabilità? Il caso immaginato dall’autore ovviamente è fittizio ma la sua originalità sta nell’affidare al pubblico il verdetto con una votazione a fine spettacolo. L’artista e mediatrice culturale Kami Manns, dopo la breve e burrascosa esperienza nella direzione artistica del Teatro di Verscio, lo scorso anno ha

fondato «Paradise is here», un centro artistico di arti performative con sede a Giubiasco negli spazi della ex fabbrica Linoleum dove recentemente ha portato al debutto Terror come prima produzione teatrale con la sua regia. Mettere in scena un processo non è facile: fra deposizioni, interventi di giudice e avvocati ci vogliono idee forti per alleggerire scene generalmente statiche e verbose. La regia ci prova con un’iniziale pantomima, una sorta di minuetto che parafrasa la natura aleatoria di quanto sta per succedere. Se per un dilemma morale le sorprese da mettere in scena sono quasi inesistenti, è meglio lasciare il posto alla tematica forte e complessa, allo scontro etico fra moralità pubblica e privata, fra legge e giustizia. È il messaggio del testo che arriva chiaro e netto soprattutto grazie alla recitazione: lineare, senza enfasi. Come da protocollo per Antonella Attili (PM), Paolo Musio (Difesa), Giampaolo Gotti (Giudice), Margherita Coldesina e Pietro Faiella (Testi), Andrea Dolente (imputato). Terror sarà replicato a Milano per La Triennale Teatro dell’Arte dal 24 al 27 maggio e tornerà a Bellinzona in autunno per essere allestito al Tribunale Penale Federale. In molti paesi dove questo testo è stato messo in scena la maggioranza dei giurati ha optato per l’innocenza, mentre a Giubiasco, per i sedici spettatori presenti alla Prima ha prevalso la colpevolezza. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 maggio 2018 • N. 21

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Cultura e Spettacoli Joanna Kulig, protagonista di Guerra fredda di Pawel Pawlikowski. (tvn24.pl)

Quel mistero nebuloso Incontri Anche Pippo Delbono nel nuovo

film dell’astigiano Giuseppe Varlotta, il 24 maggio al Lux di Massagno Nicola Falcinella Un insolito thriller ambientato in Ticino, principalmente tra Bellinzona e la Val di Blenio, con riprese anche in altre località del cantone e in Piemonte. È Oltre la nebbia – Il mistero di Rainer Merz dell’astigiano Giuseppe Varlotta, partendo da un’idea di Giovanni Casella Piazza.

A due passi dalla Palma d’oro

Festival di Cannes Vi proponiamo le schede di tre delle migliori

opere viste durante il Festival di Cannes

Fabio Fumagalli Mancano un paio di giorni al termine di Cannes 2018. Ma, come succede da quando i festival cinematografici sono stati inventati, sono spesso le ultime cartucce a risultare le più letali. Nel prossimo numero di «Azione», il tempo delle conclusioni su un’edizione – questo perlomeno lo possiamo già anticipare – che, se non ha scoperto il capolavoro assoluto (Nuri Bilge Ceylan?), nella sua volontà di rinnovamento ha comunque riproposto una selezione difficilmente eguagliabile altrove. ***(*) Cold War (Zimna Wojna), di

Pawel Pawlikowski, con Tomasz Kot, Joanna Kulig, Agata Kulesza, Cédric Kahn, Jeanne Balibar (Polonia 2018)

Non era facile ritornare dietro alla cinepresa dopo un film come Ida. Non tanto per ripetere la prodezza di quell’Oscar del 2015, ma perché Ida pareva irripetibile. Dalla novizia in libertà provvisoria dal convento, quel road movie della memoria ambientato negli incerti Anni Sessanta, e infine lo sfociare in un poetico, tardivo processo di formazione esistenziale. Eppure, Cold War quasi ci riesce. Grazie alla medesima arte della composizione, al rigore mai artificioso del recuperato formato 4:3, al bianco e nero sfumato del naturalismo di Lukasz Szal che ricorda quello del maestro Koudelka. Una raffinatezza sontuosa nei chiaroscuri: che mai scade, proprio come accadeva in Ida, nella decorazione vanesia. Pawlikowski ha poi l’intuizione, così urgente nel dilagare attuale delle immagini, di limitarsi a 84 minuti: e questo grazie anche al suo ricorso nel montaggio a un’arte memorabile dell’elisse che gli permette di evitare il superfluo; riesce così a ricostruire la storia d’amore tra il musicista e ricercatore del folclore nazionale Wiktor e la sua bella, quanto un poco sconcertante allieva Zula. Una Joanna Kulig, alla quale molti già predicono una Palma per l’interpretazione. Dieci anni di relazione: dalla campagna polacca a Berlino, passando per la Jugoslavia e Parigi, per poi ritrovarsi in una Polonia nuova, ma non certo accogliente. Amarsi e abbandonarsi, cercarsi e sfuggirsi: una migrazione

dei sentimenti che finisce per coincidere con un rapporto di amore e odio con l’ambiente e in senso lato le proprie origini. Una splendida e originale parte iniziale, con la formazione dei cori di musica popolare sulla quale viene a stagliarsi progressivamente l’ombra di Stalin. Poi, una seconda, più convenzionale nei suoi alti e bassi sentimentali, ma con la Parigi dei jazz club. Qui, Pawlikowski ritrova una comunione espressiva nella quale, come già in Ida, riesce meravigliosamente a perdersi, per poi tornare a manifestarsi. Prima di un finale nel quale gli incerti del melodramma sembrano dolorosamente, ma anche serenamente, stemperarsi.

mente il sottofondo di tanti capolavori dell’autore de E la vita continua o Il sapore della ciliegia, Panahi abbraccia subito un altro tono, splendidamente rigoroso nelle immagini, certamente non noncurante nei confronti di una possibile tragedia latente. Ma assai più disinvolto, a tratti quasi umoristico, deliziosamente libero. Siamo all’omaggio: ma a partire da quel momento sarà il tono di Panahi ad imporsi, mettendo in luce il contrasto tra la grande popolarità dell’attrice Benaziah Jafari tra la popolazione (dalla semplicità arcaica) e una permanente diffidenza. Che il regista, grazie all’insolente ironia nell’osservazione della società che lo circonda, manipola a meraviglia.

*** 3 Faces, di Jafar Panahi, con

*** Les Eternels (Uomini e donne di fiumi e laghi), di Jia Zhang-ke, con

Behnaz Jafari, Jafar Panahi, Marziyeh Rezaei (Iran 2018)

Zhao Tao, Liao Fan (Cina, 2018)

L’avvio dell’ultimo film girato, malgrado i divieti, dal grande cineasta iraniano lo si percepisce subito come un formidabile pugno nello stomaco. Ripresa in primissimo piano mentre si accosta alla cinepresa, un’adolescente invia alla celebre attrice Behnaz Jafari un appello disperato via cellulare: poiché questa non risponde, l’adolescente s’impiccherà con il cappio già predisposto all’uscita della grotta. Sconvolta, l’attrice convince l’amico Jafar Panahi ad accompagnarla nel segreto di una automobile. Eccoci quindi ritrovati nel medesimo spazio dello splendido Taxi Teheran, il capolavoro precedente di Panahi: il che spiega solo in parte come il cineasta (cui hanno impedito di recarsi a Cannes) riesca a eludere le imposizioni e i divieti (sei anni di confinamento a domicilio, venti di divieto di girare). Si tratterà di un suicidio o di una fake news, di una realtà, oppure di un espediente d’invenzione tecnologica, cinematografica? Sapendo come in Iran l’arte cinematografica sia altamente rispettata, ma egualmente osteggiata perché perturbatrice dell’ordine sociale… Ai due non rimarrà che avviarsi verso Marzieh, uno di quei villaggi sperduti nelle montagne tanto cari a Abbas Kiarostami, cineasta da sempre innamorato delle dimensioni dell’anima. E sebbene quello spazio non possa che richiamare alla

Jia Zhang-ke continua a parlare della Cina, e di come si stiano trasformando la società, l’economia e di conseguenza la moralità dei propri abitanti. Di una migrazione, intima e più concreta nello spazio, come vana soluzione a una perenne situazione di sottomissione dell’individuo. E, come sempre, il fascino di questa sua visione nasce dal connubio fra il documento più reale e la finzione a tratti più crudele. Così come in questa storia, che inizia nella zona mineraria di Datong di recente impoverita, e dove Qiao, la donna del capo gang locale, tenterà d’imbrigliare le carte di una condizione destinata ad essere eterna. Un arduo cammino, che per Qiao inizierà male: per proteggere il suo capo banda Bin durante una rissa, sparerà a vuoto sugli assalitori. Ma in Cina non si va per il sottile: Qiao prende cinque di anni di prigione. Al suo ritorno nulla sarà come prima, anche perché il film si sarà protratto sull’arco di quasi 20 anni. Zhangke ha recuperato materiale scartato in Piaceri sconosciuti, Still Life, fino a Al di là delle montagne, per dimostrare come in un Paese di furibonda espansione l’ambiente, ma anche gli individui mutino. Un mix di noir e fantascienza, commedia musicale e documentario illuminato, oltre che dall’arte del cineasta, dalla presenza di quella che è la sua donna dal 2000 di Platform: la magnetica e inconfondibile Zhao Tao.

Ad ispirare la vicenda gli spazi dello stabile Cima Norma, l’antica fabbrica di cioccolato in Val di Blenio Il film, che ha come protagonista Pippo Delbono, sarà proiettato giovedì 24 maggio al Cinema Lux di Massagno e successivamente nelle altre sale ticinesi. La vicenda ruota intorno a una serie di eventi enigmatici legati alla scomparsa improvvisa di un attore affermato dal set di un film in costume, sul rapporto tra Federico II e un monaco. A indagare è chiamato un investigatore un po’ ammaccato, Giovanni Andreasi. Un uomo segnato dalla vita, che porta addosso i segni del passato, un detective che sta nella lunga tradizione letteraria e cinematografica eppure è originale nel suo tormento, grazie anche alla scelta di Delbono come interprete. Il protagonista riconoscerà nel luogo dove si gira la pellicola, l’ex Fabbrica di cioccolato di Cima Norma, il teatro della morte di una bambina avvenuta anni prima e dovrà scavare anche nel proprio passato oltre che nella vita di Rainer Merz. Nel cast figurano anche Corinne Clery, Luca Lionello e Cosimo Cinieri. «Da parte di madre – dichiara l’ideatore del progetto Giovanni Casella Piazza – sono della Val di Blenio, dove fino al 1968 è stata attiva la manifattura di cioccolato ora designata dalla pianificazione regionale come centro culturale capace di concorrere allo sviluppo della valle. Nell’ex opificio, gradevole e ispirante luogo di lavoro e di creazione, è stata concepita la storia narrata nel film. Ciò è avvenuto parallelamente alla costituzione della Fondazione la Fabbrica del Cioccolato, che funge da promotore e patrocinatore di attività culturali multidisciplinari, come è stato in questo caso». «Ho conosciuto Giovanni grazie ai miei lavori precedenti» afferma il regista, che aveva esordito nel lungometraggio nel 2010 con Zoé «mi parlò dell’idea di un film lassù. La prima volta

Una scena del film.

che ci andai, vedendo la Fabbrica spuntare da dietro una curva e la cascata vicina mi fece un effetto Shining. Quella sensazione mi rimasta. Sono architetto di formazione e ho pensato a ciò che il luogo suggeriva, così è nata la storia. Un mese prima di girare mi è stato rivelato che un passato una ragazzina era morta lì in circostanze misteriose, ma era già in sceneggiatura. Mi sono ispirato ai luoghi, molta luce e ombra. Ed è stato importante per noi realizzarlo in Ticino, grazie anche al sostegno della Ticino Film Commission». «All’inizio non avrei mai pensato che avrei realizzato un film di questo genere» aggiunge Varlotta «sebbene mi interessino tutti i tipi di cinema, non mi sarei aspettato di fare un thriller. È stata proprio l’influenza degli ambienti a guidare l’atmosfera del film. Ho cercato di mostrare una Svizzera che di solito non si vede. Anche dentro la fabbrica c’è un mondo che non si vede, così come l’animo umano contiene lati che non appaiono». Sul significato del titolo, l’autore spiega: «è simbolico, indica un andare oltre, superare la nebbia che può anche essere mentale, non solo fisica. I significati simbolici di un film devono essere presi ed elaborati, molte cose si capiscono solo dopo. Lo spettatore riceve l’emozione, ma non coglie subito la ragione dell’emozione; dalla visione passiva, diventa attore attivo e fa un suo percorso. I simboli gli entrano nel subconscio. Credo che in questo film sia più importante lasciarsi emozionare che voler capire tutto». Tutta la storia si svolge nel periodo pasquale, dalla domenica delle Palme a Pasqua. «Giovanni è per me un povero cristo, volevo che vivesse una sorta di Passione. L’ho chiamato così per collegarlo all’apostolo più vicino a Gesù. Nello scrivere il film mi sono chiesto che religioni ci fossero prima di quella cristiana e ho scoperto che, prima della Pasqua, esisteva un rito della dea madre e ho cercato di recuperarlo, anche per denunciare la violenza dell’uomo sulla donna. Volevo dare anche un messaggio provocatorio, che dopo 2000 anni il messaggio di Cristo non è ancora stato compreso». A Oltre la nebbia partecipa anche il cantautore Giorgio Conte, astigiano come il regista, cui è legato un aneddoto curioso. Ricorda Varlotta: «L’abbiamo coinvolto per una combinazione. Mentre ero a Bellinzona, mi hanno segnalato che era al Teatro Sociale per un concerto e sono andato a incontrarlo. Ci conoscevamo già, abbiamo parlato del progetto e abbiamo inserito la canzone Je reste là».


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Cultura e Spettacoli

La più americana delle città d’Europa Recensioni Da Walser a Kafka, da Roth a Zweig: Berlino negli scritti di una generazione eccezionale

raccontata da Luigi Forte

Pietro Montorfani Ha voluto chiederlo a Robert Walser e Franz Kafka, a Sandor Marai, Christopher Isherwood e Gottfried Benn. Ha sentito il parere di Walter Benjamin e si è intrattenuto a lungo con Alfred Döblin, Vladimir Nabokov e Bertolt Brecht. Ha ascoltato persino qualche intellettuale italiano dei meno legati alle muse mediterranee (Marinetti, Boccioni, Pirandello, Borgese). Ma l’obiettivo era uno, e uno l’intento: ricostruire il multiforme prisma dell’i-

Luigi Forte è da anni collaboratore di «Azione».

dentità di Berlino, la più americana delle città d’Europa, la più moderna, forse, anche perché, da sempre, meno caratterizzata di altre (Parigi, Roma, Londra) e perciò meno segnata da un’estetica, meno radicata in una storia, meno stratificata nei secoli. L’idea di raccontare la capitale tedesca attraverso gli occhi di autori stranieri era venuta già, nel suo piccolo, alla rivista svizzera «Viceversa» (2004, vi partecipò anche chi scrive) e davvero non sono mancati negli ultimi decenni gli scrittori che abbiano sentito la necessità di testimoniare l’incontro con una città al fuori di qualunque schema, eppure quasi banale, in apparenza, perché così prossima all’essenza stessa di una metropoli cosmopolita. Con un’unica, inevitabile postilla: che ogni narrazione di Berlino successiva alle devastazioni della seconda guerra mondiale, cristallizzata per sempre nell’«Ich bin ein Berliner» di John Fitzgerald Kennedy, parla di una città diversa da quella indagata da questo libro. Qui sta, io credo, il grande merito di Luigi Forte, apprezzato germanista già attivo nelle università di Tübingen, Firenze, Bari e Torino: l’aver spinto indietro il nastro del tempo fino a poco prima dell’immagine tragedia, in un’epoca, quella della Repubblica di Weimar (1919-33), che contiene già in sé i prodromi di quello che sarebbe venuto dopo, ma che pure non aveva

Il dipinto sulla copertina del volume.

ancora perso del tutto il suo slancio utopistico, ottimista, teso verso un futuro possibile. Di qui la natura ibrida di molte testimonianze, soprattutto quelle di parte ebraica (Roth, Zweig), di chi vedeva in Berlino una città «che non conosce tregua», «la New York della vecchia Europa», un luogo «in cui domini – scriveva Brecht – la dura, spietata lotta per la vita». Il libro di Forte si muove lungo molteplici piste d’indagine, in taluni casi segue passo passo autori celeber-

rimi (Walser, Kafka, Roth) e in altri cerca invece di considerare nel complesso alcuni gruppi nazionali: i tedeschi doc, innanzitutto, capitanati dall’autore di Berlin Alexanderplatz (Alfred Döblin), ma anche gli esuli russi che ruotavano attorno al quartiere Charlottenburg, gli scrittori inglesi amanti della vita notturna (Auden, Spender, Isherwood, Layard), gli italiani, i francesi. Oltre a un canone di consigli di lettura che sarebbe bene tenere sempre presente, dalle loro voci

e dalle loro vicende personali, tristi e liete, emerge la complessa anima di una città sfuggente e misteriosa, veramente, come propone l’autore nel risvolto di copertina, «un sito archeologico della modernità e delle sue tragedie». Bibliografia

Luigi Forte. Berlino città d’altri. Il turismo intellettuale nella Repubblica di Weimar. Neri Pozza 2018, 299 pagine. Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

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Primi piatti subito in tavola Attualità Le pietanze pronte «I Primi» con la coccarda dei Nostrani del Ticino

prodotte dal pastificio l’Oste di Quartino con ingredienti locali sono davvero molto apprezzate dai consumatori. Davide Mitolo, titolare dell’azienda, ci spiega il perché Signor Mitolo, cosa proponete nei negozi Migros sotto il marchio I Primi Nostrani?

L’assortimento comprende cinque primi piatti tra i più classici, per la precisione Cannelloni ricotta e spinaci, Parmigiana di melanzane, Lasagne alla bolognese, Cannelloni alla carne di vitello e verdure e Lasagne alle verdure.

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Chi si occupa della loro preparazione?

La nostra brigata di cucina è composta, oltre il sottoscritto, da una ventina di collaboratori. I responsabili della preparazione sono tutti cuochi qualificati con alle spalle una lunga esperienza nel settore. Cosa apprezza in particolare del suo lavoro?

Il fatto che i compiti siano ogni giorno diversi e variati e il piacere di lavorare con una squadra di collaboratori affiatati e motivati. Inoltre, per me è motivo di gioia poter trasmettere tutta la mia passione per la buona cucina alla clientela di Migros Ticino. Ha un prodotto preferito tra i suoi cinque dell’assortimento Migros?

Difficile vista la mia golosità per la cucina tipica mediterranea. Ma se proprio devo scegliere, scelgo le Lasagne alla bolognese, perché mi ricordano quelle che mia mamma mi faceva da bambino.

I Primi in degustazione I piatti pronti del Pastificio L’Oste si potranno assaggiare da giovedì 24 a sabato 26 maggio nei supermercati Migros di Agno, Locarno, Lugano, S. Antonino, Grancia e Serfontana. Davide Mitolo sarà inoltre felice di accogliervi alla filiale di Lugano, durante la giornata di sabato. Davide Mitolo presenta alcuni dei suoi piatti pronti. (Flavia Leuenberger Ceppi)


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Idee e acquisti per la settimana

Una bistecca che conquista occhi e palato Novità Le principali macellerie Migros con banco a servizio vi invitano a gustare

uno straordinario taglio di carne: il Tomahawk

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Chiamato così perché la sua forma ricorda quella dell’omonima ascia di guerra dei nativi americani, il Tomahawk è una bistecca di manzo «gigante» con l’osso in bella vista, ricavata dalla zona lombare anteriore dell’animale. Succosa e tenerissima, questa carne deve il suo ricco sapore al lungo processo di frollatura a secco all’osso almeno tre settimane - e alla marmorizzazione di grasso ben distribuita. Il pregiato taglio, disponibile in quantità limitate nelle filiali Migros di Locarno, Serfontana, Agno, Lugano, S. Antonino, Biasca, Taverne e Pregassona, viene affettato a 5 cm di spessore e può raggiungere un peso di oltre 1 kg, per questo è ideale per due persone o per essere condiviso. Sprigiona al meglio i suoi aromi condito con ingredienti semplici come sale, pepe e un poco di olio di colza, e cotta alla griglia. Si consiglia di spennellare la carne con l’olio e insaporirla con il sale e il pepe, poi grigliarla su entrambi il lati a fuoco vivo per circa 10-15 minuti fino al raggiungimento di una temperatura al cuore di 50-55°C, corrispondente alla cottura al «sangue».

Per stuzzicanti grigliate

Le quattro nuove aromatiche marinate in tubetto promettono delle grigliate fenomenali. A base di ingredienti naturali e olio di colza 100 per cento svizzero, non contengono né additivi, né tantomeno olio di palma e glutammato. Super versatili, sono indicate per insaporire tutti i tipi di carne, tra cui anche il pollame, ma non solo:

rendono gustosi pure pesce, verdure e patate. Per un risultato ottimale basta spalmare sulla pietanza la marinata e lasciare riposare qualche ora prima di grigliare, poi durante la cottura, di tanto in tanto, spennellare ancora con la marinata. *Nelle maggiori filiali

Trionfo d’aromi Questa marinata spicca per la sua intensa nota di erbette aromatiche quali origano, salvia, basilico, rosmarino, timo e santoreggia.

Per grigliate da re Una marinata universale che soddisfa i gusti più disparati grazie ai suoi delicati aromi di paprica, rosmarino, aglio e levistico.

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Idee e acquisti per la settimana

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1.45 invece di 2.10 Costine di maiale Svizzera, imballate, per 100 g

33%

9.– invece di 13.50 Ali di pollo Optigal Svizzera, in vaschetta, al kg

30% Prodotti selezionati di pesce per il grill Filetto di salmone American Barbecue, filetto di salmone selvatico marinato MSC o gamberetti Yin & Yang, per es. filetto di salmone American Barbecue, d’allevamento, Norvegia, per 100 g, 3.– invece di 4.40

HIT DELLA SETTIMANA PER IL GRILL.

20% Tutti i sushi per es. sushi Nigiri Classic prodotto in Svizzera, in conf. da 180 g, 9.50 invece di 11.90, offerta valida fino al 26.5

20%

1.40 invece di 1.75 Spalla di maiale Svizzera, al banco a servizio, per 100 g, dal 23.5

Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 22.5 AL 28.5.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

25%

4.95 invece di 6.60 Prosciutto crudo di Parma stagionato 14 mesi Italia, affettato in conf. da 90 g

50%

1.35 invece di 2.70 Orata reale (bio esclusa), d’allevamento, Grecia/ Croazia, per 100 g


40%

4.90 invece di 8.90 Albicocche Spagna, al kg

a par tire da 2 pe z zi

40%

Mirtilli bio Spagna, vaschetta da 250 g, per es. a partire da 2 pezzi, 7.10 invece di 11.80, a partire da 2 pezzi, 40% di riduzione

Hit

17.90

Bouquet di peonie Magique il mazzo

Hit

2.95

Avocado bio Perù, al pezzo

2.40 invece di 3.05

Formaggella ticinese 1/2 grassa prodotta in Ticino, in self-service, per 100 g

6.20 invece di 7.80

Cetrioli Ticino, al pezzo

Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 22.5 AL 28.5.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

1.65 invece di 2.10

20%

1.95

Minirose Fairtrade, mazzo da 20 lunghezza dello stelo 40 cm, in diversi colori, per es. arancione, il mazzo, 9.90 invece di 12.90

20%

San Gottardo Prealpi prodotto in Ticino, in self-service, per 100 g

Conf. da 2

Hit

20%

20%

Insalata del re Anna’s Best in conf. da 2 2 x 150 g

30% Tutte le orchidee Phalaenopsis, 2 steli, vaso, Ø 12 cm disponibili in diversi colori, per es. fucsia, 11.80 invece di 16.90

20%

2.70 invece di 3.40 Rapanelli bio Svizzera, al mazzo

35% Lattuga foglia di quercia rossa o verde Ticino, per es. rossa, il pezzo, 1.20 invece di 1.95

–.90

di riduzione

4.50 invece di 5.40 Uova svizzere da allevamento all’aperto 9 x 53 g+

20% Formaggio fresco Philadelphia disponibile in diverse varietà, per es. nature, 200 g, 1.80 invece di 2.30

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20%

Tutte le mozzarelle Alfredo a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione


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. re e c ia p ro e v n u è ì s o c a Far la spes Conf. da 3

Conf. da 4

20%

40%

Pasta bio in confezioni multiple per es. agnolotti all’arrabbiata in conf. da 3, 3 x 250 g, 11.70 invece di 14.70

Pizza M-Classic in conf. da 4 per es. pizza del padrone, 4 x 400 g, 12.90 invece di 21.60

50%

7.65 invece di 15.30 Cosce di pollo M-Classic al naturale in conf. speciale surgelate, 2 kg

a par tire da 2 pe z zi

30%

Tutti i burger surgelati, a partire da 2 pezzi, 30% di riduzione

CONSIGLIO

GOLOSA COPPIA DI PRIMAVERA

Quando le giornate si allungano e i pomeriggi si scaldano, non esiste merenda migliore di uno snack alla crema accompagnato da un dissetante caffè estratto a freddo. Trovate la ricetta su migusto.ch / consigli

conf. da 4

20% Berliner e cornetti alla crema in conf. da 4 per es. cornetti, 4 x 70 g, 4.30 invece di 5.40

25%

5.40 invece di 7.25 Mini Babybel retina da 15 x 22 g

20% Tutto l’assortimento Mister Rice per es. Riso profumato Jasmin, 1 kg, 3.– invece di 3.80

30%

3.95 invece di 5.70 Evian in conf. da 6 x 1,5 l

Conf. da 2

20%

3.90 invece di 4.90 Mezza panna UHT Valflora in conf. da 2 2 x 500 ml

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20%

Tutti i tipi di Caffè Latte Emmi a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione

OFFERTE VALIDE SOLO DAL 22.5 AL 28.5.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

20% Tutti gli yogurt Passion per es. stracciatella, 180 g, –.75 invece di –.95

50% Tutti gli Ice Tea in bottiglie di PET in conf. da 6 x 1,5 l per es. all’aroma di limone, 4.05 invece di 8.10

40% Succo di mela M-Classic e succo multivitaminico Fairtrade in conf. da 10 x 1 l per es. succo di mela, 7.20 invece di 12.–


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Conf. da 2

20% Kellogg’s in conf. da 2 Special K, Choco Tresor o Chocos, per es. Choco Tresor, 2 x 600 g, 10.40 invece di 13.–

Gherigli di noci e mandorle sgusciate nonché albicocche secche Sun Queen in conf. da 2 per es. mandorle sgusciate, 2 x 200 g, 5.20 invece di 6.50

30% Tavolette di cioccolato Frey da 100 g in confezioni speciali, UTZ per es. Noir Special 72% in conf. da 6, 6 x 100 g, 8.80 invece di 12.60

Conf. da 4

30x PUNTI

Tutti i Ragusa e Torino in confezioni multiple per es. Ragusa Classique in conf. da 5, 5 x 25 g, 4.70

Chips Zweifel e Chips Graneo Zweifel in conf. speciale disponibili in diversi gusti, per es. alla paprica, 380 g, 5.95 invece di 7.75

Hit

11.–

Trolli all in one in conf. speciale 1 kg

conf. da 16

Conf. da 2

20%

20%

40%

6.– invece di 10.– Petit Beurre con cioccolato al latte in conf. da 4 4 x 150 g

OFFERTE VALIDE SOLO DAL 22.5 AL 28.5.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

a par tire da 2 pe z zi

20%

Tutte le confetture e le gelatine in vasetti e bustine da 185-500 g (Alnatura escluse), a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione

s e t da 2

50%

Hit

9.80 invece di 19.60

9.80

Cornetti Fun in conf. da 16 alla fragola e alla vaniglia, 16 x 145 ml

Bottiglie per gasare SodaStream in set da 2 2 x 0,5 l, offerta valida fino al 3.6.2018

a par tire da 3 pe z zi

33%

Tutte le capsule Café Royal in conf. da 10 o da 33, UTZ a partire da 3 pezzi, 33% di riduzione

Conf. da 3

33% Cartucce per filtro Cucina & Tavola, M-Classic o Brita in conf. da 3 per es. Brita Maxtra+, 3 x 3 pezzi, 41.90 invece di 62.85, offerta valida fino al 4.6.2018

a par tire da 2 pe z zi

50%

Tutto l’assortimento Migros Topline e Sistema Microwave a partire da 2 pezzi, 50% di riduzione, offerta valida fino al 4.6.2018, in vendita solo nelle maggiori filiali


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conf. da 3

Hit

Conf. da 3

20%

8.90

Slipper da donna Ellen Amber in conf. da 3 disponibili in nero o antracite, numeri 35-38 o 39-42, per es. neri, numeri 35-38, offerta valida fino al 4.6.2018

Prodotti Elmex e Meridol in confezioni multiple per es. dentifricio anticarie Elmex in conf. da 3, 7.90 invece di 9.90, offerta valida fino al 4.6.2018

conf. da 3

Hit

14.90

Boxer da uomo John Adams in conf. da 3 disponibili in blu marino o nero, taglie S–XL, per es. blu marino, tg. M, offerta valida fino al 4.6.2018

conf. da 3 Conf. da 3

33% Shampoo Nivea in conf. da 3 per es. Classic Care, 3 x 250 ml, 6.50 invece di 9.75, offerta valida fino al 4.6.2018

Conf. da 5

20% Salviettine igieniche umide Soft in confezioni multiple per es. Comfort Deluxe in conf. da 5, 7.60 invece di 9.50, offerta valida fino al 4.6.2018

20% Tutto l’assortimento Zoé (Zoé Sun escluso), per es. crema da giorno rassodante Revital, 50 ml, 10.80 invece di 13.50, offerta valida fino al 4.6.2018

a par tire da 2 pe z zi

50%

Tutto l’assortimento Hygo WC a partire da 2 pezzi, 50% di riduzione, offerta valida fino al 28.5.2018

20% Tutti gli Huggies DryNites e Little Swimmers per es. DryNites Boy, 4–7 anni, confezione, 10 pezzi, 10.20 invece di 12.80, offerta valida fino al 4.6.2018

a par tire da 3 pe z zi

25%

Tutto l’assortimento di prodotti igienici Secure (sacchetti igienici esclusi), a partire da 3 pezzi, 25% di riduzione, offerta valida fino al 4.6.2018

OFFERTE VALIDE DAL 22.5.2018. IL PERIODO DI VALIDITÀ È INDICATO NELL’OFFERTA. FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK.

Conf. da 2

20% Prodotti di ovatta Primella in conf. da 2 per es. dischetti di ovatta, 2 x 80 pezzi, 3.– invece di 3.80, offerta valida fino al 4.6.2018

30% Tutto l’assortimento di borse e valigie e di accessori da viaggio Travel Shop per es. valigia Titan Tech, nera, 67 cm, il pezzo, 68.60 invece di 98.–, offerta valida fino al 4.6.2018

Hit

9.90

Fantasmini da uomo in conf. da 3 disponibili in nero o antracite, numeri 39–42 o 43–46, per es. neri, numeri 43–46, offerta valida fino al 4.6.2018

25%

29.80 invece di 39.80 Zaino Cockpit Commuter disponibile in diversi colori, per es. nero, il pezzo, offerta valida fino al 4.6.2018

Hit

24.90

Sandali per bambini disponibili in diversi colori e numeri, per es. blu, n. 33, il paio, offerta valida fino al 4.6.2018

3 0. –

di riduzione

69.80 invece di 99.80 Microonde Mio Star Wave 100 Potenza 700 W, volume 17 litri, con piatto rotante di vetro e griglia, offerta valida fino all’11.6.2018


conf. da 3

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2.55 invece di 3.65 Mini filetti di pollo Optigal in confezione speciale Svizzera, per 100 g

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 maggio 2018 • N. 21

59

Idee e acquisti per la settimana

M-Classic

Così buoni da averne sempre una scorta

Per coloro che amano i dolci: delizie con limone, caramello o cioccolato.

Quando al pomeriggio arrivano delle visite inaspettate, gli ottimi biscotti M-Classic vi faranno preparare la merenda per i vostri ospiti in un baleno. Il ricchissimo assortimento di biscotti della Migros soddisfa proprio ogni gusto: croccanti mini cialde al caramello, classiche cialde con cioccolato al latte o Taragona e tranci friabili farciti alle nocciole. Le Madeleine sono un altro sfizioso dolcetto che ben si accompagna al tè o al caffè: con il loro delicato aroma di limone queste tortine promettono un piacere leggermente fruttato. Sarà un piacere accogliere visite a sorpresa!

M-Classic Taragona 150 g Fr. 3.20 Nelle maggiori filiali

M-Classic Cialde con cioccolato al latte 150 g Fr. 1.65

M-Classic Mini cialde al caramello 200 g Fr. 3.– Nelle maggiori filiali

M-Classic Magdalenas al limone 225 g Fr. 2.25


Novità

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No Added Sugar

4.95 W.K. Kellogg Crunchy Müsli diversi tipi, 400g

3

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Ancient Grains

4.00 W.K. Kellogg Flakes & Clusters 300g

In vendita nelle maggiori filiali Migros. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 22.5. AL 4.6.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

3

squisiti gusti


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 maggio 2018 • N. 21

61

Idee e acquisti per la settimana

Frey

Uno snack celestiale Arriva una nuova nuvoletta croccante: bacche, cornflakes e riso soffiato ricoperti di finissimo cioccolato al latte. Come le tre altre varietà della linea Crunchy Clouds, anche il nuovo mix fruttato e al cioccolato di tanto in tanto è uno spuntino molto apprezzato. Nella nuova confezione richiudibile sono ora ancora più pratici da portare ovunque con sé. Semplicemente celestiali queste nuvolette - anche grazie al prezzo allettante.

Frey Crunchy Clouds Mix di bacche 150 g* Fr. 4.90 Frey Crunchy Clouds Nocciole 150 g Fr. 4.90

Frey Crunchy Clouds Granoturco salato 150 g* Fr. 4.90

Frey Crunchy Clouds Mandorle 150 g Fr. 4.90

Così leggeri, così buoni: prelibati ingredienti croccanti ricoperti di finissimo cioccolato.

*nelle maggiori filiali

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche i Crunchy Clouds della Frey.


Un inizio d’estate in tutta leggerezza.

Conf. da 2

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1.90 invece di 3.80 Pomodorini ciliegia a grappolo Svizzera/Italia/Spagna, vaschetta da 500 g

Migros Ticino Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 22.5 AL 28.5.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

Tutte le mozzarelle Alfredo a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione

I amano i pomodorini a grappolo grigliati a fuoco medio. Sono deliziosi gustati direttamente dal grill oppure con dell’insa lata verde, con dei funghi, con della mozzarella o conditi con una leggera vinaigrette. Accompagnate da un panino, queste leggere insalate estive sono anche indicate per la pausa pranzo. Buon appetito!


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