Azione 30 del 23 luglio 2018

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Estate da genitori: a quale età i figli possono andare in vacanza da soli?

Ambiente e Benessere Un avamprogetto di Ordinanza federale prevede l’intensificazione dei controlli per i solarium, una migliore informazione sui pericoli di un’eccessiva esposizione alla radiazione UV e l’entrata in vigore del divieto di accesso ai solarium per i minorenni

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 23 luglio 2018

Azione 30 Politica e Economia La Cina è sempre più interessata a fare affari con l’Europa e ad allargare la sua influenza

Cultura e Spettacoli La Kunsthalle di Berna, in occasione del suo compleanno, omaggia Harald Szeemann

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di Alfredo Venturi pagina 20

Keystone

Migrazioni, destino dell’umanità

In Turchia, stabilità solo apparente di Peter Schiesser Una settimana dopo aver assunto il potere assoluto, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha posto fine allo stato di emergenza, rinnovato 7 volte dopo il fallito colpo di Stato del luglio 2016. Una buona notizia? La Turchia può lentamente ritrovare una sua normalità? No, Erdogan semplicemente non ha più bisogno di norme straordinarie: per decreto – da oggi Erdogan può persino stravolgere la Costituzione a colpi di decreto – ha introdotto un nuovo corpo di leggi che gli garantiscono più o meno lo stesso potere arbitrario di incarcerare e cacciare dagli impieghi pubblici i suoi avversari. Da colui che sulla terra detiene il maggiore potere sul proprio paese non ci si poteva aspettare altro. Sì, Erdogan ha più poteri di Trump, di Putin, forse anche di Xi Jinping: detiene ogni potere esecutivo e legislativo, presiede i gremi che nominano e destituiscono i vertici militari, che sanzionano e promuovono gli impiegati delle istituzioni pubbliche e private, nomina il presidente della banca centrale, controlla personalmente le università e le istituzioni culturali, la giustizia gli è sottomessa, i

media quasi tutti, i sindaci delle grandi città (non tutti schierati dalla sua parte) sono esautorati dai governatori nominati da Erdogan. E di questo potere fa uso; per esempio, ora ha messo a capo del ministero delle finanze suo genero Berat Albayrak e cacciato dal governo Mehmet Simsek e Naci Agbal, le ultime due figure che riuscivano a difendere una stabilità economica-monetaria; a capo del ministero della sanità ha messo il suo medico personale. Nella Turchia di oggi contano due fattori: la parentela e la lealtà assoluta. Il resto si può aggiustare con la propaganda. Per ora sta funzionando, nonostante la lira turca abbia perso un terzo del suo valore e l’economia cresca solo al prezzo di un forte indebitamento generalizzato. Infatti, Erdogan riesce tuttora a convincere i suoi elettori che il deprezzamento della lira è la conseguenza di un complotto internazionale. Teoria alla quale associa quella secondo cui sono i tassi alti a provocare l’aumento dell’inflazione, e non viceversa. In fondo, l’economia turca con Erdogan è cresciuta molto, in questi 15 anni. Ma la propaganda di governo nasconde il fatto che negli ultimi anni la crescita è stata sostenuta da un forte indebitamento pubblico e privato, che per le aziende private è calcolato in un debito verso l’estero

di oltre 300 miliardi di dollari, divenuto ancora più insostenibile con la perdita di valore della lira turca. Se poi aggiungiamo gli investimenti statali per sostenere la crescita, compresi quelli faraonici come il futuro aeroporto di Istanbul (per 12 miliardi di dollari), la solidità dell’economia turca risulta più apparente che reale. Alcuni analisti internazionali considerano già la Turchia come il perfetto, prossimo «Stato fallito». Eppure non è sempre stato così. Nei primi cinque anni di governo Erdogan aveva concretizzato le ricette del Fondo monetario internazionale imposte dopo la crisi del 2001, ristrutturando lo Stato e l’economia pubblica, riducendo il debito, favorendo un aumento della produttività e della trasparenza (con minore corruzione); aveva anche abolito la pena di morte, dato più libertà di espressione, migliorato la sanità e la scuola, creato le condizioni per un’Adesione all’Unione europea. Insomma, un esempio di successo. Tuttavia, man mano che il suo potere cresceva, Erdogan ha perso il contatto con la realtà. Oggi si crede davvero un novello sultano e si sente superiore a qualsiasi legge, anche a quelle economiche. Il finale ce lo si può immaginare: un brusco risveglio alla realtà.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 luglio 2018 • N. 30

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Attualità Migros

M Giovani talenti svizzeri della danza

Ultimo numero di «Vivai» FCM Uscirà il prossimo 1. ottobre

Percento culturale Migros Si è tenuto a Zurigo il concorso 2018

in cui sei ballerine e ballerini promettenti hanno saputo convincere la giuria internazionale

Il Percento culturale Migros sostiene i giovani artisti svizzeri dal 1969. Nell’ambito di concorsi nazionali riservati agli artisti di talento, conferisce premi di studio e premi d’incoraggiamento. Questi ultimi, in particolare, sono assegnati a vincitori e vincitrici di premi di studio che si dimostrano particolarmente capaci e brillanti. I premi di incoraggiamento comprendono misure individuali di promozione della carriera a lungo termine, la garanzia di avere delle possibilità di esibirsi, un coaching appropriato e una fattiva promozione della propria attività. I concorsi del Percento culturale (www.percento-culturale-migros. ch/concorsigiovanitalenti) si svolgono ogni anno nei seguenti settori: teatro del movimento, canto, musica strumentale, musica da camera (triennale), teatro e danza. Fino ad oggi sono stati sostenuti circa 3000 promettenti artisti di talento, con un totale di 41 milioni di franchi. I giovani artisti sono stati accompagnati lungo il loro percorso dalla formazione al mondo del lavoro con aiuti concreti alla loro carriera. Sulla sua piattaforma online per talenti (www.percento-culturalemigros.ch/piatta-forma-dei-talenti) il Percento culturale Migros presenta

Le misure di contenimento delle spese annunciate dalla FCM nelle scorse settimane riguardano anche la pubblicazione di alcune testate di Migros Medien. Tra queste la rivista dedicata alla sostenibilità e al benessere, «Vivai». Nata nel 2009, aveva una cadenza bimestrale e veniva pubblicata nelle tre lingue nazionali. Era distribuita come supplemento alle testate ufficiali della stampa Migros. Era inoltre a disposizione del pubblico, in particolare, nelle palestre e centri fitness. L’ultimo numero di «Vivai» sarà quello del prossimo ottobre.

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La ballerina Tilouna Morel ha ricevuto un premio di studio 2018 per la danza.

questi eccezionali artisti con la loro biografia e materiale audio e video. Gli organizzatori di eventi culturali, gli ar-

tisti e le agenzie per artisti hanno modo di prendere visione delle doti degli artisti prescelti. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 luglio 2018 • N. 30

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Società e Territorio Handicap e genitorialità Conoscersi, innamorarsi, avere dei figli: i desideri delle persone con disabilità sono quelli di qualsiasi adulto, ma ancora troppo spesso sono un tabù pagina 5

Scienza, scuola e fake news Una solida educazione scientifica accessibile a tutti è forse la più efficace strategia per gettare un ponte tra scienziati e popolazione pagina 6

La vacanza da soli fa parte del rito del distacco dai genitori ed è un’occasione di crescita. (Marka)

Quando i figli partono da soli Il caffè delle mamme Qual è l’età giusta per la prima vacanza con gli amici? Come devono comportarsi i genitori? Simona Ravizza In viaggio per crescere. Al Caffè delle mamme è impossibile non essere tutte d’accordo: la partenza per un’esperienza lontana da casa senza mamma né papà, ma solo con coetanei è fondamentale per crescere adolescenti – e poi futuri uomini e donne – consapevoli e liberi. Oltre che per farli divertire. Tenere i figli sotto una campana di vetro è l’errore più grosso che possiamo fare. Ma la domanda è: qual è l’età giusta per la prima vacanza da soli con gli amici? Lo psicoterapeuta Mario Beggiu – che con la collega Anna Rita Colasanti, anche lei docente all’Università Pontificia di Roma, è autore proprio del saggio In viaggio per crescere (ed. Franco Angeli) – mette sull’avviso: «Non esiste l’adolescenza, ci sono gli adolescenti – ricorda ad «Azione» –. Motivo per cui è difficile indicare un’età che valga per tutti. Ciascuno ha la propria storia». La sfida è capire quando il proprio figlio è pronto. Con una consapevolezza: la vacanza da soli fa parte – sia in modo pratico sia in modo simbolico – del rito del distacco che dev’essere preparato fin dalla prima infanzia. I figli devono

vivere il rischio, ma noi dobbiamo renderli capaci di non farsi schiacciare dai pericoli; i figli devono diventare indipendenti, ma noi li dobbiamo aiutare a vivere gradualmente la separazione; i figli devono godere della nostra fiducia, ma noi dobbiamo conoscere a fondo i loro valori. Così la vacanza da soli è una cartina di tornasole anche – e soprattutto – di come gli adolescenti si stanno preparando alla vita da adulti. Becciu fa riflettere: «Più i genitori controllano i bambini, meno loro sviluppano l’autocontrollo. Nello stesso tempo l’autonomia per crescere ha bisogno di essere guidata». Qual è, allora, il giusto equilibrio? Tra i 16 e i 18 anni, l’età in cui i giovanissimi manifestano di solito per la prima volta il desiderio di partire da soli, mamme e papà possono adottare una serie di accorgimenti per accontentarli, ma allo stesso tempo contenere i pericoli. «È importante – spiega Becciu – farli andare in vacanza con amici che si conoscono e di cui si frequentano le famiglie: è la regola fondamentale per evitare cattive compagnie. Bisogna poi avere testato – e non certo un mese prima della partenza, ma durante tutta la fase di crescita – la

loro capacità di dire no (per sottrarsi ad alcol, droghe, incidenti stradali e rapporti sessuali a rischio). È evidente: un figlio che fa la “pecora” si sottopone a più rischi. Bisogna, inoltre, averli abituati a non demoralizzarsi davanti ai problemi». Insomma: insegnare ai figli a viaggiare in sicurezza è insegnare loro a vivere. Per Daniele Novara, pedagogista e fondatore della Scuola Genitori a Piacenza, l’ideale è che la prima vacanza da soli avvenga sotto un minimo di controllo da parte di un adulto: «L’adolescenza è l’età in cui il senso del pericolo è il più basso in assoluto – rimarca ad «Azione» –. L’attrazione per la trasgressione è spesso inevitabile. Di qui, magari, l’adozione di qualche precauzione. L’ideale sarebbe mandarli in un posto dove nei paraggi c’è un familiare o un conoscente che può buttare un occhio su come sta procedendo la vacanza. È preferibile, poi, che ci siano già state esperienze lontano da casa in contesti protetti come campus estivi. Viaggi educativi di questo tipo possono essere fatti già dai 7-8 anni, iniziando da una settimana». Il timore maggiore è che il gruppo

possa fare da amplificatore alla voglia di «fare cretinate» come fumare e bere. C’è, poi, la questione dell’altro sesso: come comportarsi se il pargolo con gli ormoni impazziti vuole prendere le valigie con l’amore del momento? Novara sorride: «E che differenza fa? Comunque sia in vacanza si può conoscere qualcuno». I protagonisti del manuale In viaggio per crescere sono Angela, Greg, Gessica, Jonny, Singh, Tanino, Mario, Maria Pia e Ugo, tutti in piena adolescenza. Il loro viaggio in treno da Roma a Milano è l’occasione per riflettere su quanto avviene nella vita: «L’ipotesi di fondo è che, a parità di condizioni sfavorevoli della vita (come malattie, difficoltà familiari, difficoltà economiche, storie affettive, amare, tradimenti da parte di amici) coloro che riescono a far maggiormente leva sulle proprie risorse personali e sociali subiscono meno gli effetti dannosi delle avversità – sottolinea Becciu –. Di fronte ai problemi, alcuni ragazzi subiscono, si lasciano andare e peggiorano la loro situazione; altri, al contrario, sanno reagire trovando soluzioni intelligenti ed efficaci, ponendosi obiettivi realistici e raggiun-

gibili, traendo forza e sicurezza dai valori che orientano la propria vita». Così il viaggio è un banco di prova. Carolina Facchi, 23 anni di Arcisate, è una leader del Cisv (che sta per Children’s International Summer Villages), una delle più importanti associazioni internazionali senza scopo di lucro, specializzate in campi estivi e scambi in famiglia in oltre 70 Paesi per fare incontrare ragazzi di tutto il mondo (a partire dagli 11 anni). L’obiettivo è favorire l’amicizia tra culture diverse. Carolina è appena partita con quattro giovanissimi per Michigan City (a due ore da Chicago), dove per un mese vivranno in un campus insieme con compagni provenienti da ogni parte del mondo. Su un tabellone, prima di salire in aereo, ognuno scrive le proprie speranze e le proprie paure legate alla vacanza senza mamma e papà (anche se in un ambiente protetto). Un inizio per imparare a credere nelle prime e combattere le seconde. Del resto, come scrive il poeta statunitense Edgar Lee Masters ne l’Antologia di Spoon River, la vita non può essere affrontata come una barca con vele ammainate in un porto.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 luglio 2018 • N. 30

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Società e Territorio

Voglio un figlio, voglio una porta Handicap e genitorialità Le riflessioni di chi accompagna le persone con disabilità cognitive

nelle decisioni legate ai desideri, all’affettività e alla sessualità Sara Rossi Guidicelli Ci hanno insegnato delle categorie che oggi, nel nostro mondo, si stanno sgretolando. Il mio vicino di casa si chiama Guido, in Ticino non volevano mandarlo a scuola, perciò sua mamma ha dovuto trasferirlo in Italia. È nato sessantun anni fa, è ceramista e ha la sindrome di down. Oggi, persone come lui vanno all’università, lavorano, si sposano. La genitorialità nelle coppie con deficit intellettivo è molto rara e il tema sembra essere affrontato pochissimo, anche dagli addetti ai lavori. «Non se ne parla molto? Non si parla nemmeno di sessualità e handicap, se è per quello. Qui da noi siamo ancora in ritardo nel considerare veramente adulte le persone con disabilità cognitive». Parlo con Danilo Forini, direttore di Pro Infirmis, e Donatella Oggier-Fusi di Atgabbes, consulente per utenti, genitori e operatori su temi legati all’affettività e la sessualità. Mi dicono che siamo tutti fragili e tutti diversi. Che scagli la prima pietra la mamma che non ha mai avuto dubbi sulle sue capacità. Che certo, ci sono persone con difficoltà a rendersi conto di cosa comportano i propri desideri, ma queste persone vanno accompagnate nelle proprie decisioni, trattandole appunto come adulti, se adulte sono. Che vanno valutate le competenze di ognuno, senza mettere etichette a priori.

Esprimersi, conoscersi, innamorarsi e avere dei figli: i desideri delle persone con disabilità sono quelli di qualsiasi adulto ma ancora troppo spesso sono considerati un tabù Prima ancora di affrontare il tema dei figli, Donatella Oggier-Fusi mi dice che uno dei tabù con i quali la nostra società convive è il diritto alla sessualità. Mi spiega che «per tradizione» si ha tendenza a considerare le persone con handicap come eterni bambini, quindi esenti da bisogni sessuali. Molto spesso è sbagliato, ma la discussione e la ricerca di soluzioni a queste esigenze sono ancora timidi boccioli. «Qui si pone il problema di capire cosa sia una persona e quale sia il senso che si dà alla vita umana», spiega l’esperta. «Bisogna trovare un equilibrio tra protezione e autonomia. Sia i genitori sia gli operatori puntano molto sul “rendere indipendenti” le persone con

disabilità fisiche, psichiche o cognitive. Ma spesso, quando si tratta di deficit intellettivi, anche l’innamoramento è percepito come pericoloso. Si ha paura di abusi, sofferenze e gravidanze indesiderate. È chiaro che ci vuole un servizio di accompagnamento più presente, con operatori più formati in questo campo. Invece troppo sovente si cerca di contornare il problema». «Non ho mai smesso di chiedere una porta» sono le parole di Dilva, una donna di 63 anni, cresciuta in un istituto, che ha un compagno, un uomo che ama e che la ricambia. Dopo decenni di insistenza, nella struttura che li ospita hanno costruito una porta comunicante tra la camera di lei e quella di lui. Ora Dilva e il suo compagno possono vedersi e vivere un’intimità, «come chiunque», senza chiedere il permesso. Se ne parla nella mostra Tu! passata questa primavera al Castello di Bellinzona, voluta da Pro Infirmis e realizzata con L’ideatorio dell’Usi. «Penso che le prossime generazioni non dovranno aspettare tanto», continua Donatella Oggier-Fusi. «Credo che noi operatori saremo messi davanti al fatto compiuto: le persone, di solito vogliono esprimersi, conoscersi, avere relazioni, innamorarsi. Certe vogliono anche sposarsi e avere dei figli. È qualcosa di cui dobbiamo occuparci. Penso che non c’è da avere paura: chi non ce la fa a badare a se stesso, se è accompagnato in questo percorso di presa di coscienza di cosa significa far crescere e educare un bambino, rinuncerà in modo consapevole, anche se magari sofferto. Ma dato che viviamo in una civiltà che non sterilizza nessuno contro il suo volere, l’unica possibilità è parlarne, non girare la faccia. Ci sono persone con disabilità intellettive leggere che con una preparazione e un accompagnamento adeguati possono diventare bravissimi genitori, che non fanno mancare niente ai loro figli, mentre abbiamo purtroppo esempi di persone cosiddette “normodotate” che trascurano i propri bambini, senza che nessuno si sia mai posto la domanda sulla loro idoneità». Si tratta di un difficilissimo equilibrio tra diritti umani: dell’adulto, a decidere se procreare, e del bambino, che secondo le leggi deve «crescere in modo sano e normale sul piano fisico, intellettuale, morale, spirituale e sociale in condizioni di libertà e di dignità». E poi c’è la domanda: chi e come può decidere per gli altri se sono in grado di avere figli o no? Fino alla fine degli anni Ottanta in Svizzera avveniva ancora in alcuni casi la sterilizzazione coatta, oggi vietata.

Vita di coppia e sindrome di Down: come affrontare il desiderio di un figlio? (Keystone)

Dopo di allora, quando si pensa che i genitori non siano in grado di dare a eventuali figli un giusto ambiente, si è puntato soprattutto sulla contraccezione, ma non sempre con un’adeguata preparazione. Manca una formazione sia per il personale che lavora con ragazzi o adulti disabili, sia per gli interessati stessi. «Ci sarebbe piaciuto avere dei figli», hanno detto Marta e Mauro ai giornali nel 2014, la prima coppia con la sindrome di Down che si è sposata in Italia e di cui i media hanno parlato molto. «Ma poi abbiamo capito che per noi non è semplice e abbiamo accettato l’idea di un’adozione a distanza». Sabrina Necchi, educatrice per la Fondazione San Gottardo, mi racconta invece di una madre, qui da noi, ai nostri giorni: «Sono una delle sue educatrici di riferimento. Cristina [nome di fantasia] ha un leggero ritardo cognitivo ed è portatrice sana di distrofia muscolare: suo figlio è nato disabile. Vivono in uno spazio protetto, dove lavoro. Ho visto in lei una madre forte e affettuosa, che non faceva mancare niente al suo bambino. Ho visto un istinto materno fortissimo e una voglia di passare il tempo assieme, come se temesse sempre che qualcuno

potesse toglierle il figlio. Sicuramente ha capito che una come lei deve dimostrare più delle altre di essere una buona madre». A Zaira invece [altro nome di fantasia] hanno tolto la custodia dei tre figli a causa dei debiti, racconta Sabrina, e non a causa del suo leggero deficit cognitivo. «Secondo me», dice l’educatrice, «bisogna prevenire le situazioni che poi non andranno a buon fine, altrimenti si creano ingiustizie. Manca un posto dove parlare con calma della pianificazione famigliare quando sei in una situazione difficile. Bisogna anche lavorare sul modo di concepire e fare le perizie sulla capacità genitoriale, che per la mia esperienza non sono adeguate a capire se uno è in grado di tenere o no i suoi bambini». Cioè: è un lavoro che deve cominciare molto prima di quando ci si trova «a cose fatte»: l’educazione sessuale dovrebbe essere più presente negli istituti, nelle scuole speciali, nelle famiglie, tra gli utenti e i professionisti. A domanda diretta, se pensa che tutti possano diventare genitori, Danilo Forini risponde: «No. Però non penso nemmeno che sia possibile dire: un tetraplegico sì, un down no. E un ragazzo che ha fatto le scuole speciali? Una

questo con il libretto della di Leo, Zuckerberg e, soprattutto, con Lenin? Intanto, entrambi, sono dei rivoluzionari, vantano una sterminata massa di credenti al loro seguito e promettono il cambiamento. Nel caso dello statista del potere del lavoro e delle sue ideologie sappiamo come è andata. Sul finire del Novecento le sue statue sono state fatte a pezzi con l’accusa di non avere cambiato lo stato delle cose, ma con Zuckerberg e gli altri guru della Rete, come la mettiamo? Oggi, secondo Rita di Leo, viviamo in un tempo nuovo sorto sulle macerie del Novecento, delle sue ideologie e delle sue guerre, un tempo che definisce anomico, senza regole, dominato da una nuova ideologia, la teologia della tecnica, in cui tutto è creato, definito e regolato dagli algoritmi. Un tempo in cui l’uomo non è più l’ani-

male politico di Platone e Aristotele legato ad una vita comunitaria ma un animale asociale che si muove dentro la sua solitudine, non sa nulla del passato e si immedesima nel clima che si trova a vivere. Un tempo in cui non è permesso pensare come Aristotele o come Hobbes ma secondo il pensiero computazionale. Per secoli, nel Novecento europeo, a fare da spartiacque sociale è stato l’analfabetismo di massa, motivo per cui venne introdotto l’obbligo scolastico. Nell’era della democrazia della Rete, invece, il coding si può imparare solo in un corso universitario nelle facoltà d’avanguardia, quelle frequentate dalle élite mentre all’individuo-massa sono riservati i risultati del pensiero computazionale centrati sul materialismo realizzato per rendere sempre più tecnologica l’esistenza quotidiana. In so-

persona che è stata ricoverata una volta in un ospedale psichiatrico? È una faccenda delicata e anche pericolosa. Pensiamo ai genitori sordi, o ad altri genitori che sanno di essere portatori di una malattia trasmissibile. La genetica può dirti se sei a rischio tumore, tu e i tuoi figli. Cosa si fa? Se si allarga il dibattito filosofico si può arrivare ad ammettere la nascita solo di figli sani, normali, perfetti... ma cos’è la normalità? È un tema che riguarda tutti noi, come umanità intera, e non un gruppo di persone, i cosiddetti disabili». Alla fine non ci sono risposte, ma Forini e Oggier-Fusi concordano con Sabrina sul fatto che non siamo in una situazione d’emergenza ma che il dibattito va tenuto vivo; che bisogna giudicare caso per caso e che ci vuole più trasparenza e formazione. «Bisogna tenere conto dei bisogni affettivi e sessuali di ognuno e non soffocare ma discutere della voglia di avere bambini. Spesso basta una piccola prova con un pupazzo per rendersi conto che non è un gioco. Il desiderio di “metter su famiglia” può essere anche solo voglia di essere come gli altri, quindi talvolta è sufficiente far capire veramente: siamo tutti come gli altri. Tutti uguali, tutti diversi».

La società connessa di Natascha Fioretti La teologia della tecnica, nemica del tempo nuovo L’amicizia è uno dei tesori più preziosi della nostra umile esistenza, soprattutto se gli amici sono fonte di ispirazione e con i loro consigli e le loro idee ampliano i nostri orizzonti. Da qui nasce la riflessione di oggi, da un consiglio di lettura che con piacere, cari lettori, vi rigiro, Cento anni dopo: 1917-2017 Da Lenin a Zuckerberg a firma di Rita di Leo, professoressa emerita di Relazioni Internazionali alla Sapienza di Roma. Una lettura che come una goccia sulla roccia risuona nella testa e modella i pensieri leggendo le ultime notizie e l’appello di un anziano signore. Ricorderete il caso Cambridge Analytica: ebbene è scattata la prima multa di 565mila euro per Facebook per omesso controllo sulla società di consulenza accusata di aver raccolto per scopi di

propaganda politica i dati di 87 milioni di utenti di decine di Paesi del social network americano. «Fiducia e sicurezza nell’integrità dei nostri processi democratici rischiano di essere sconvolte perché l’elettore medio non ha idea di cosa succeda dietro le quinte», ha dichiarato la commissaria dell’Ico Elizabeth Denham. Sempre dal Web, nel giorno del Prime Day, arriva un’altra notizia: Jeff Bezos è l’uomo più ricco del mondo. Mentre su un banale foglio A4 appeso al bancone della farmacia di un paesino di mare leggo l’accorato appello di Piero a tutta la comunità: «curiamo le nostre strade e i nostri spazi, riappropriamoci degli spazi pubblici, dei momenti di incontro e di condivisione anziché nasconderci in casa dietro gli schermi di smartphone e computer». Vi chiederete cosa ha a che fare tutto

stanza si ha sempre meno bisogno degli uomini come produttori e sempre di più di clienti che comprano su online o danno sfogo alla propria asocialità con i mezzi della Rete. «I commenti di ignoti contro ignoti che si leggono sui social forum dimostrano la sconfitta delle utopie, delle teorie politiche, delle pratiche di governo, degli esperimenti sociali». L’ideologia del tempo nuovo, la teologia della tecnica, nella sua essenza è dunque simile alle altre ideologie che sostenevano il potere dei tempi precedenti. Un’ideologia che oggi appare invincibile nella sua concretezza, nella sua diffusione globale, nel suo essere senza obiettivi comuni se non quelli dei bisogni materiali comuni a tutti. Penso a Cartesio: Cogito ergo sum. Al diavolo Zuckerberg, la tecnica e i suoi algoritmi.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 luglio 2018 • N. 30

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Società e Territorio

La scienza nell’epoca delle fake news Scuola V iviamo in tempi di facile accesso alle informazioni ma solo una solida educazione scientifica

accessibile a tutti è in grado di gettare un ponte tra scienziati e popolazione

Marco Martucci I membri della Flat Earth Society, Società della Terra piatta, sostengono che la Terra non è sferica ma è piatta. Hanno un sito internet dove potrete trovare la risposta a ogni vostra domanda. Un altro gruppo interessante è quello dei «Chemtrails»: secondo loro, pure ben presenti in internet, fra le consuete scie di condensazione degli aerei ad alta quota, s’infiltrano «scie chimiche» non ben precisate, prodotte da un complotto internazionale che mirerebbe a impossessarsi del potere globale o a mettere in qualche modo in pericolo l’umanità. Possono far sorridere ma sono due esempi di come temi scientifici possano essere trattati in modi che di scientifico non hanno nulla. Viviamo in tempi di facile accesso all’informazione e questo è certamente un fatto molto positivo. Possiamo accedere agli open data, a informazioni aperte a tutti; dai grandi centri di ricerca, dalle università, possiamo ottenere dati sul clima, sull’alimentazione, sulla salute. Ma non ogni fonte è ugualmente affidabile e fra le informazioni si celano fake news, notizie false, diffuse per errore o con intenzione. I temi non sono tutti innocui come la Terra piatta o le scie chimiche ma questioni ben più rilevanti, che comportano scelte personali o politiche di ampia portata. Qualche esempio: i mutamenti climatici come conseguenza delle attività umane, la dannosità per la salute o per l’ambiente degli OGM, la sicurezza dei vaccini, per citarne solo tre. Sono tre temi chiaramente scientifici che in un sistema democratico possono richiedere scelte anche politiche. E c’è l’impressione che la voce della scienza, dei ricercatori, faccia un po’ fatica a farsi sentire. Non che il rispetto per gli scienziati sia diminuito, ma la gente si fida meno anche perché è più informata e sente tante

campane diverse. Le verità scientifiche si dimostrano non con le parole o con i «credo che» ma con i fatti, le misure, gli esperimenti. Come iniziò a fare quattro secoli or sono il grande Galileo Galilei che si attirò la condanna del potere d’allora. Anche i medici non hanno vita facile: non di rado il paziente arriva con la «sua» diagnosi già fatta, dopo ampie navigazioni fra google e wikipedia. Scienziati e medici cercano la via più adatta, il tono più convincente per far passare le loro motivazioni nate non da superficiali escursioni sulla rete o su qualche pubblicazione popolare, ma da anni di studi e di ricerche. Accanto a questa difficoltà di comunicazione fra scienza e popolazione, la cui soluzione sta forse anche in un nuovo modo di dialogare, c’è, almeno in Svizzera, un altro problema. In un rapporto del 2010, il Consiglio federale denunciava una grave carenza di personale specializzato, una penuria di diplomati – particolarmente donne – in scienze matematiche, informatiche, naturali e tecniche, in breve nel cosiddetto settore MINT, una minaccia per la nostra economia e il benessere della Nazione. Questo grido d’allarme non è caduto nel vuoto e da più parti si sono avute reazioni e si sono prese misure per contrastare questa tendenza, fra le quali il promovimento dell’educazione scientifica per rendere più attrattivo il settore MINT con tutte le sue professioni e per aumentare la cosiddetta scientific literacy, una base di sapere scientifico nella popolazione. Nel contempo, l’educazione scientifica è una, forse la più efficace strategia per gettare un ponte fra scienza e popolazione. È un’educazione per ogni età, praticabile in modo anche informale da attori extrascolastici, come già da tempo avviene. Ma il luogo privilegiato per una profonda, non puntuale bensì sistematica educazione scienti-

In classe: allievi impegnati a sperimentare una reazione chimica. (Martucci)

fica formale è la scuola. Per restare entro i nostri confini, quelli cantonali che c’interessano da vicino, la nostra scuola pubblica è ben attrezzata anche per l’educazione scientifica, inserita nei programmi, in particolare dal secondo ciclo – terza, quarta e quinta elementare – in avanti. Il momento ideale per educare alla scienza è il terzo ciclo, quello della scuola media. Per almeno due ragioni: ci passa tutta la popolazione e gli allievi sono abbastanza grandi da poter comprendere temi scientifici di una certa complessità e inoltre hanno ancora quella fresca curiosità del bambino, capace di meraviglia e passione. Da anni ormai l’insegnamento delle scienze naturali è fondato sul concetto delle «scienze integrate», che evita la distinzione, tipica dei licei, fra chimi-

ca, fisica e biologia. Ancor più importante è la modalità di apprendimento delle scienze naturali che non è nozionistico e cattedratico, non solo almeno, ma è soprattutto basato sull’esperimento, sulla misurazione, sull’osservazione compiuta dall’allievo, un atteggiamento, si direbbe oggi, di problem solving, di ricerca di risposte a una o più domande, com’è nello spirito del metodo scientifico. Questo è essenziale perché si vuol far comprendere all’allievo che la scienza non è una serie di dati da mandare a memoria, non solo almeno, ma un vero e proprio atteggiamento. Un obiettivo che traspare in modo evidente e chiaro dal nuovo e attuale Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese. Eccone qualche stralcio. Un allievo, alla fine della sua scolarità obbligatoria

dovrà essere in grado di «apprezzare la bellezza e la raffinatezza della natura, della scienza e della tecnica, avere un’idea di cosa sia la scienza e di come funzioni». Fra i processi chiave da sviluppare ecco «domandare e indagare», «utilizzare informazioni», «valutare e giudicare» e, fra i «saperi irrinunciabili», evoluzione e selezione naturale, biotecnologie, chimica e tecnologia, fonti di energia. Obiettivi elevati? Certamente. Ma raggiungibili attraverso la curiosità e l’impegno degli allievi e il paziente e competente lavoro dell’insegnante. Informazioni

www.educamint.ch www.ti.ch/pianodistudio

Non solo storie da bar Valle Verzasca U n patrimonio inedito di storie e testimonianze di vita verzaschese raccolte tra la popolazione

anima la mostra Senti questa! da poco inaugurata al Museo di Sonogno Paola Bernasconi «Ai tempi, a Vogorno, c’era una discoteca, il Disco Club. La creò la figlia dei gestori del Pizzo Vogorno. Pensi, veniva gente persino dalla Valle Maggia». Senti questa! Storie originali al bar, inaugurata domenica primo luglio, è una mostra temporanea del Museo della Val Verzasca di Sonogno, dedicata al patrimonio inedito di storia verzaschese. Una mostra creata dalla gente, direttamente nei ristoranti, a cui la popolazione può contribuire. Ce ne parla con entusiasmo la sua curatrice,

Veronica Carmine, convinta che una mostra deve «essere fatta in modo da rendere partecipativo il sapere: il pubblico che partecipa alla creazione di una mostra la sentirà più vicina e potrà ricevere più facilmente e con maggior coinvolgimento il messaggio che vuole essere trasmesso. L’arte dà strumenti per ragionare, divertendosi e mettendosi in gioco». Il Museo, ci dice, non aveva spazio per conferenze e laboratori e nello stesso tempo si stava ragionando su come farlo diventare un luogo sociale e d’incontro. L’idea di questa mostra ha tra-

Un allestimento semplice che vuole coinvolgere il pubblico. (Museo di Val Verzasca)

sformato così queste due debolezze in due punti di forza: si è andati fra la popolazione, uscendo dalle quattro mura del museo. «Abbiamo scelto nove ristoranti, il luogo di socializzazione per eccellenza in Valle, che partecipavano alla rassegna gastronomica. A ognuno abbiamo abbinato un tema: emigrazione, osterie e botteghe, hockey, scuola di valle, viticoltura, divertimenti giovanili, le frazioni sommerse dal lago artificiale, l’emigrazione oltreoceano, la pesca, la strada e i trasporti di un tempo. Tematiche molto diverse che attraversano il Novecento della Verzasca e raccontano una valle in continua evoluzione. Durante le serate, gli avventori erano invitati a partecipare per parlare dell’argomento e portare anche degli oggetti ad esso legati». La socializzazione e i racconti nascono al tavolo degli amici (lo «Stammtisch», come viene chiamato oltralpe). «Fra gli oggetti, sono arrivate la lettera di un emigrato in America e anche un tappetino per giocare alle carte appartenuto a un ristorante che è stato poi sommerso dall’acqua». Alcune serate hanno visto partecipare più persone, altre hanno registrato un andirivieni, altre generazioni a confronto. «Parlando della scuola, è stato bello veder confrontarsi un docente che insegnava negli anni 60 e uno pronto ad andare in pensione».

All’Alpino di Sonogno si è parlato di trasporti, e la signora Marilena, che vi lavora da sempre, ricorda una serata vivace, «si è riso parecchio, perché abbiamo sentito raccontare molti aneddoti divertenti, sono riemersi i vecchi ricordi degli autisti. C’era anche qualche giovane, che ha potuto imparare come funzionavano per esempio gli erogatori di biglietti di un tempo». Durante la rassegna gastronomica ogni oste stimolava i propri clienti ad annotare ricordi sul tema. «Qualcuno l’ha fatto, altri hanno portato a casa le schede su cui scrivere». Come è, esattamente, la mostra? «Si entra nel bar del museo, c’è una parete con una gigantografia di una foto scattata durante uno degli eventi, dall’interno del bancone: si vede una persona che beve, con le bottiglie da bar su una mensola. Si può sorseggiare un caffè, nel mentre si sfogliano dei porta menù dei nove ristoranti coinvolti, un testo contestualizza la tematica e le schede raccolte, le testimonianze. Gli oggetti affettivi sono accanto al bancone insieme a un touch screen dove si possono leggere ulteriori documenti consegnati, vedere le foto dell’evento o ascoltare le clip audio delle registrazioni. Sono registrazioni da bar, voci che si sovrappongono, rumore del caffè, la qualità non è pulita ma in fondo non era quello lo scopo», racconta Veronica Carmine.

Ma che immagine della Verzasca ne esce? Se la signora Paola del Grotto al Bivio, che ha ospitato il tema delle frazioni sommerse (conseguenza della costruzione della diga, fra il 1960 e il 1965), non ha dubbi nel vedere comunque una valle chiusa e divisa fra «alta e bassa», per la curatrice le cose stanno diversamente: «ho visto una Valle aperta a condividere. Tutti abbiamo una storia degna di essere raccontata, soprattutto nell’anno del patrimonio culturale. La storia nasce dalla base, il luogo non è solo fisico, ma è fatto anche di racconti, di cose capitate che sai solo se entri in relazione con altri». Senti questa! ha dato dunque vita a una performance attiva, dove lo spettatore è anche e soprattutto protagonista, prima, dopo e durante. Un evento e un allestimento per la popolazione e con la popolazione, un’ottima idea se è vero, come ci dice la signora Marilena che «il cambiamento che ho notato negli anni è che dopo cena si sta a casa davanti al pc e non si viene più al ristorante a prendere il caffè e a socializzare». Dove e quando

Senti questa!, Museo di Val Verzasca, Sonogno, fino al 28 ottobre, orari: ma-do 11.00-16.00 (lunedì chiuso). Info: www.museovalverzasca.ch


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 luglio 2018 • N. 30

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Libertà, in rete e in gabbia Un episodio recente e significativo: nei primi giorni di luglio il sito internet di Wikipedia – uno dei più consultati della Rete, e anche uno dei più utili – ha oscurato la sua home page, prima in Italia e poi in altri Paesi europei, per protestare contro una proposta di legge che il Parlamento europeo si accingeva a votare. L’oggetto in discussione era una nuova direttiva sul copyright intesa a garantire i diritti d’autore: a questo scopo la normativa europea prevedeva che ogni sito dovesse dotarsi di filtri automatici per tutti i contenuti da mettere online e che il consueto copiae-incolla di un brano (con il successivo rimando al sito interessato) fosse possibile solo sulla base di una licenza. Era inoltre previsto un upload filter – un filtro che impedirebbe di caricare in rete qualsiasi materiale protetto dai diritti d’autore. La proposta di avviare i negoziati necessari per giungere alla nuova

normativa per ora è stata bloccata da una maggioranza contraria, ma non è affossata definitivamente: il Parlamento europeo tornerà a discuterne nelle sedute di settembre. Il caso è interessante per la contraddittorietà che ne emerge. Quello che la proposta di legge intendeva proteggere è il diritto d’autore; dunque, la difesa di un diritto – il che è appunto il compito di una norma in un regime di libertà. Già alle radici del liberalismo moderno il concetto era stato chiaramente definito da John Stuart Mill, forse il più lucido teorico del nuovo concetto di libertà: nel suo saggio On Liberty (pubblicato nel 1859), Mill asseriva che «l’umanità è giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire sulla libertà di azione di chiunque soltanto al fine di proteggersi: il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata contro la sua

volontà è per evitare danno agli altri». Stando a questa premessa, la tutela del diritto d’autore è dunque una giusta restrizione di libertà al fine di non danneggiare chi ha prodotto qualcosa. Ma anche la protesta di Wikipedia e di numerosi intellettuali è avvenuta in difesa della libertà: il diritto di tutti all’informazione, che oggi la Rete consente con una facilità e un’ampiezza quali non si erano mai date prima dell’era digitale, verrebbe limitato e compromesso, e l’attuale libertà di condivisione potrebbe convertirsi in uno strumento per la sorveglianza automatica e il controllo degli utenti. In più, i costi richiesti per una valutazione preventiva di eventuali violazioni del copyright potrebbero essere sostenuti solo da piattaforme di grandi dimensioni – e questo condurrebbe ad una sorta di controllo monopolistico dell’informazione stessa. Dunque, la tutela di un diritto conduce

a una limitazione di libertà. Cosa tutt’altro che nuova: Norberto Bobbio, scrivendo L’età dei diritti, metteva in risalto come ogni tutela dei diritti comporti necessariamente una restrizione di libertà: nella misura in cui le società sono più libere sono meno giuste, e nella misura in cui sono più giuste diventano meno libere. Il pendolo oscilla tra libertà e sicurezza: lo si è visto chiaramente, anche qui nel Ticino, quando lo scorso giugno si è discusso della proposta di una modifica di legge che, attribuendo più potere discrezionale alla polizia, consentirebbe di sorvegliare, registrare conversazioni, effettuare riprese video, spiare gli accessi a Internet – e tutto questo senza l’autorizzazione preventiva della magistratura. Questo maggior potere poliziesco garantirebbe una maggiore efficacia nella prevenzione di possibili reati, ma violerebbe anche la libertà della vita privata dei cittadini. Sicu-

rezza o libertà? Se si dovesse ricorrere a una decisione democratica, sono propenso a credere che la maggioranza opterebbe per la sicurezza. Nel Settecento Montesquieu paragonava le buone leggi a delle grandi reti in cui i pesci sono prigionieri, ma si credono liberi; mentre sono cattive le leggi simili a reti tanto strette che fanno subito comprendere ai pesci di essere prigionieri. Ma il secolo di Montesquieu è lontano e i tempi sono radicalmente cambiati. L’incredibile aumento della complessità del mondo d’oggi comporta ovviamente una crescita dell’apparato burocratico incaricato di disciplinare, vigilare e tutelare la libertà riducendone progressivamente i confini. Perciò, come scriveva Ralf Dahrendorf già negli anni Settanta del secolo scorso, «la costruzione della libertà di domani si avvia ad essere diversa da quella di ieri e di oggi».

pre in ombra che terrorizza e attrae. «Mordwand» è stata ribattezzata a un certo punto la Nordwand dove sono morti finora più di sessanta alpinisti. Il wellness qui è una vasca da bagno d’epoca, di quelle con le zampe, restaurata a dovere, dove resto a mollo non so per quanto. Fuori dal tempo, senza wifi finalmente, non resisto a mettermi sotto le coperte. Rintontito dalla carta da parati tessile meglio nota come toile de Jouy a tema mongolfiera, cullato da un frammento della vista da sogno che entra dalla finestra, mi addormento. La cena qui è servita dalle sette alle otto. Esclusiva la rassegna stampa vicino al camino d’entrata, solo «Neue Zürcher Zeitung», due copie. Ne prendo una e sprofondo in una delle sedie di velluto floreale del salone stile vittoriano ricreato negli anni venti. Qui si svolge la scena dove si decide chi guiderà la cordata in Assassinio sull’Eiger (1975) di e con Clint Eastwood. Una foto splendida, nel corridoio, lo ritrae durante le riprese nel 1974, mentre bacia teatralmente, nei pascoli qui attorno, una

mucca. In un’altra, con il dolcevita, è in compagnia di Messner che era per caso qui in albergo. In un’altra ancora è a braccetto con Heidi von Almen, l’anima a lungo di questo campo base di lusso dove hanno dormito tutti i protagonisti che hanno scritto una pagina della storia della parete nord dell’Eiger che è poi il capitolo più drammatico della storia dell’alpinismo moderno. A raccontarvi tutti i volti qui alle pareti e le storie legate, finiamo domani e va a finire che vado a letto senza cena. Ma non posso omettere Anderl Heckmair (1906-2005): «eroe dell’Eiger» beato in terrazza anni fa con a fianco Silvia von Almen – moglie del nipote di Heidi von Almen – che ha in braccio un bebé. La sesta generazione, rappresentata stasera in sala da Lena von Almen la cameriera di oggi pomeriggio è infatti la figlia dei proprietari: Andreas von Almen, architetto, e la moglie flautista della foto di prima. Senza occhiali da sole ma con cravattino nero. Rosa confetto le pareti del salone scelto per cenare che in realtà è il dancing

dove si ballava il charleston. Rivive ogni capodanno quando tutto l’hotel è prenotato da ospiti inglesi di lunga data. A fianco del piano, da un finestra entra l’increspatura alla Caspar Wolf del ghiacciaio. Dopo cena contemplo il tramonto sulle montagne fino alle nove e ventuno. E colgo tre fiorellini rosa panna che salgono con me la scala sinuosa in legno scricchiolante fino al terzo piano. Persicaria bistorta, nel bicchiere al posto dello spazzolino, illuminata ora dall’abatjour sul comodino. Prima dell’alba, annunciata laggiù da un filo arancio sulla sagoma nera delle montagne, metto fuori la testa dal balcone ed ecco là a destra, nel buio, un quadratino di luce: la famosa finestrella del tunnel nell’Eiger. Da lì cercarono invano di soccorrere Toni Kurz (19131936) a penzoloni per tutta la notte. Ogni tragedia, ogni impresa, a volte con il binocolo da teatro, è sempre stata seguita dall’Hotel Bellevue des Alpes. Dove vedere sorgere il sole sopra il Wetterhorn attorno alle sei verso metà luglio, è da non morire mai.

dalla massa. Ciò che sta mettendo alla prova, appunto, gli «aspirazionali», decisi a proporre un modello di comportamenti controcorrente, a costo di fatiche e rinunce volontarie. Si tratta di piccoli gesti che si riallacciano alla tradizione, come allattare il più a lungo possibile, recarsi ai mercatini che vendono ortaggi, coltivati da contadini rispettosi dell’ambiente, dare la preferenza a prodotti di cui si conosce l’origine. L’impegno si sposta, poi, sul piano dell’educazione dei bambini, da affidare a scuole raccomandabili, per lo più private, su quello della salute da difendere con diete, ginnastiche, abbinate a sedute di meditazione. E, così, si sfocia nell’ambito spirituale vagamente orientale, che non è certo una novità. Tutte scelte, di per sé, difendibili, all’insegna, in teoria, di una giusta causa, di cui però, gli «aspirazionali» si servono per costruire l’immagine di una modestia che smentisce se stessa. Viene, infatti, esibita per dimostrare una di-

versità, insomma il marchio di un ceto elitario. Del resto, come rileva Elizabeth Currid-Halkett, si propone un cambiamento di vita che fa capo a una diversa concezione del tempo. Per procurarsi quei cibi genuini, per coltivare quegli orticelli, per prolungare l’allattamento, per lavare a mano le stoviglie, per seguire da vicino gli studi dei figli, ci vuole tempo. Una materia prima che, quella sì, rappresenta un privilegio sociale persistente. Come conciliare il lavoro in ufficio o in fabbrica o in un’aula scolastica con la ricerca dei cibi più genuini, fra le bancarelle dei mercati? Tuttavia, a proposito di tempo e di orari lavorativi, si sta assistendo a un evidente cambiamento di mentalità. Da parte femminile, ma anche maschile, si accentua la richiesta di più tempo libero, e quindi meno guadagno. «Il tempo è di nuovo denaro» s’intitolava, sul «Corriere della Sera», un commento al fenomeno. Una scelta tentante, se non comportasse un rischio: spesso, il tempo libero costa.

A due passi di Oliver Scharpf Hotel Bellevue des Alpes La parete nord dell’Eiger, a lungo considerata inviolabile e le cui prime tre scalate sono finite in tragedia con otto morti, viene vinta alle tre e mezza del ventiquattro luglio 1938. Alla stessa ora, quasi esattamente ottanta anni dopo, la scalo con gli occhi seduto sul balcone della camera numero quaranta-tré dell’Hotel Bellevue des Alpes (2070 m). Iconico hotel d’altri tempi che dalla seconda metà dell’Ottocento svetta con classe spartana in posizione improbabile: ai piedi della tremenda e sublime parete nord dell’Eiger che una mezzoretta fa, vista dalla terrazza giù davanti all’entrata, era coperta da nubi. Mentre accanto accecanti di neve eterna, si vedevano bene il Mönch e la Jungfrau che assieme all’Eiger, formano la triade più ammirata delle Alpi. Non per niente alla stazione della Kleine Scheidegg, appena sceso dal trenino a cremagliera salito da Lauterbrunnen, ho dribblato mandrie di turisti in estasi. Inaspettata quiete con vista ghiacciai, invece, sulla terrazza soleggiata dell’hotel a scandole rosso

mattone e persiane verde menta che appare nella luna di miele dell’ultimo film diretto non senza la consueta grazia da Paul Thomas Anderson con il sempre validissimo Daniel Day-Lewis: Il filo nascosto (2017). Ben più di un’ora sono rimasto lì imbambolato, sorseggiando due tazzoni di café crema. La giovane cameriera bionda con camicia bianca portava occhiali da sole a specchio non per vezzo, ma per via del riverbero provocato dal ghiacciaio della Jungfrau. Partendo dal nevaio d’attacco, individuo adesso alcuni dei punti cruciali della via Heckmair, dal nome di chi guidò la prima cordata vittoriosa. Il Bivacco della Morte, dove sono morti congelati i primi due che hanno tentato l’ascesa, la Traversata Hinterstoisser che prende il nome da Andreas Hinterstoisser (1914-1936), il Ragno Bianco su in alto, quasi in cima. E mi vengono di quelle vertigini che mi devo attaccare alla sediola sul balcone che guarda giù Grindelwald adagiato nella vallata. Ora le nubi avvolgono di nuovo, in parte, questa parete sem-

Mode e modi di Luciana Caglio Quando la modestia diventa un lusso Dietro la Casa Bianca, Michelle Obama curava un orto biologico che, lì dov’era, assumeva, per forza di cose, un significato politico. Agli americani, per definizione consumatori di hot dog e surgelati, simboli di cibo spazzatura, proponeva una riconversione alimentare, a base di prodotti genuini: come, appunto, frutta e verdure coltivati il più possibile vicino a casa. Un obiettivo non facile, per gli abitanti delle metropoli, dove tuttavia fu bene accolto, in particolare negli ambienti e negli Stati più evoluti degli USA, New York, Washington D.C, California. Proprio qui, l’alimentazione «organic» attecchì e creò una moda, sempre in auge. Oggi, appartiene alle abitudini che contrassegnano la quotidianità di un ceto sociale che sta facendo notizia. Anche grazie a un libro che l’«Economist» ha giudicato, nel suo genere, il migliore del 2017: s’intitola, nella fedele traduzione italiana, pubblicata dall’editore Franco Angeli, Una somma di piccole

cose: la teoria della classe aspirazionale. L’autrice, Elizabeth Currid-Halkett, vi spiega le origini storiche e le motivazioni morali che stanno dietro a uno stile di vita virtuoso, a prima vista. Gli «aspirazionali», lo dice il neologismo, aspirano a migliorarsi, con comportamenti diversi, persino opposti, rispetto a quelli correnti. Voltando le spalle al consumismo, considerato il

Elizabeth Currid-Halkett.

padre di tutti i vizi, questi cittadini, intendono ribaltare la scala dei valori che determinano lo «status», cioè il prestigio sociale, affidato, finora, a beni da esibire. La ricchezza non solo da accumulare, ma da mostrare, come aveva osservato criticamente, più di un secolo fa, il sociologo americano-norvegese Thorstein Veblen. Ora, nell’ultimo dopoguerra, con lo sviluppo industriale e tecnologico proprio quei beni che, un tempo, indicavano inequivocabilmente l’appartenenza a un ceto, dovevano perdere la loro funzione rappresentativa. Stiamo parlando di auto, elettrodomestici, televisori, cellulari, attrezzi sportivi, e via enumerando prodotti, resi accessibili praticamente a tutti. Da qui, l’immagine di una società livellata, dove ci si nutre, ci si veste, ci si sposta allo stesso modo. E, dove, a parte l’isola minuscola degli ultraricchi, che si concedono Ferrari, jet privati, yacht, nella realtà normale diventa difficile distinguersi


I Nostrani del Ticino sono la riscoperta dei sapori locali e provengono esclusivamente da aziende ticinesi che ne garantiscono la qualitĂ , la freschezza e la genuinitĂ . Oltre 300 tipicitĂ della nostra regione che rappresentano il nostro impegno concreto nel sostenere agricoltori, allevatori e produttori alimentari ticinesi.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 luglio 2018 • N. 30

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Ambiente e Benessere Mappando le emozioni Il prossimo anno a Matera, si potrà visitare la Camera secretissima de lo core

Equivoci artistici Come si fa a dire che quel giardino che noi vediamo ora, in questo momento, sia lo stesso voluto dal giardiniere o dall’artista dell’epoca? pagina 15

Un dessert raffinato A base di meringa e guarnito con panna montata, bacche miste, fiori e foglie di lampone

Il keniano bianco Un uomo gentile, un atleta serio, che ha il torto di correre sotto le insegne di un team potente

pagina 16

pagina 13

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Il sole sotto la lente Precauzione Se non usate in modo

appropriato, le radiazioni non ionizzanti di sole e solarium possono nuocere alla salute

Maria Grazia Buletti «Voglio andare al mare / Quest’estate voglio proprio andare al mare… / Voglio anche vedere / Le donne bianche diventare nere… / Quest’estate voglio proprio esagerare…». Ecco: che i raggi solari siano naturali o artificiali, non è il caso di seguire alla lettera ciò che Vasco Rossi canta nella sua Voglio andare al mare e soprattutto non conviene esagerare. Anzi: fa proprio male, al punto che lo scorso febbraio il Consiglio federale ha posto in consultazione, fra le altre Ordinanze, quella concernente la Legge federale sulla protezione dai pericoli delle radiazioni non ionizzanti che prevede di vietare ai minorenni l’accesso ai solarium. Il motivo è serio e pertinente: «A lungo termine la radiazione emessa da questi dispositivi può causare il cancro della pelle». Fra l’altro, le radiazioni non ionizzanti sono prodotte anche da puntatori laser, laser medicali e solarium. Nell’Ordinanza in consultazione il CF considera anche questi e parte dal seguente presupposto: «Tutti possono nuocere alla salute se non utilizzati in modo appropriato». Sempre secondo l’avamprogetto di Ordinanza, saranno perciò intensificati i controlli per i solarium e migliorata l’informazione sui pericoli di un’eccessiva esposizione alla radiazione UV. Quindi, il CF caldeggia l’entrata in vigore del divieto di accesso ai solarium per i minorenni e demanda ai Cantoni i relativi controlli. Ne abbiamo parlato con il dermatologo Gionata Marazza (pure responsabile della chirurgia dermatologica dell’Ospedale Regionale di Bellinzona e Valli) che sul tema del solarium per rapporto ai minorenni è perentorio: «Ad essi l’accesso ai solarium dovrebbe proprio essere vietato». Lo specialista osserva con sollievo che finalmente anche in Svizzera la legislazione si chini sulle problematiche inerenti le misure di protezione delle fasce di età più sensibili ai danni provocati dai raggi non ionizzanti emanati dai solarium. E porta ad esempio l’America e l’Australia: «Lì, l’accesso ai solarium è già da tempo vietato ai minorenni, pure in ragione

del fatto che l’accesso alle cabine solarium è libero, l’esposizione non è controllata come si dice, e le dosi di radiazioni non ionizzanti, sebbene possano corrispondere a quelle consigliate dal legislatore, sono sempre principalmente composte da raggi UVA, comunque nocive». La premessa è di quelle dalle quali non si può soprassedere: «I bambini e i giovani sono parte di quella fascia di età pediatrica più calda e sensibile per lo sviluppo di nei e melanomi, e i danni da raggi solari sono proprio quelli che predispongono all’insorgenza del melanoma». Per questo, ribadisce perentorio il medico, bisogna assolutamente insistere sulla fotoprotezione dei nostri giovani. Tanto più che «gli UVA sono raggi energetici dal serio potenziale di carcinogenesi e tutti gli studi clinici ci permettono di affermare con certezza che il loro effetto è aumentare l’invecchiamento cutaneo, oltre che innescare potenzialmente tutti i tipi principali di tumore come melanoma, carcinoma basocellulare e carcinoma squamocellulare». Alla nostra domanda se mai l’esposizione ai raggi del solarium possano arrecare qualche beneficio, il nostro interlocutore spiega che l’unico beneficio potrebbe relazionarsi alla produzione della vitamina D, per la quale del resto si segue la moda di considerarla una vera e propria vitamina protettrice contro parecchie problematiche: «La verità sta nel mezzo, come sempre, e d’altronde usare il marketing del solarium per promuoverne i benefici non è opportuno: basta esporre le zone fotoesposte (come viso, braccia e gambe) 15 minuti tre o quattro volte a settimana, senza fare le lucertole, per assicurarsi una produzione adeguata di vitamina D, la cui eventuale carenza può sempre essere compensata attraverso l’assunzione di gocce». Consiglio pertinente, dato che il 90 per cento della vitamina D è prodotta nella pelle sotto l’influsso dei raggi ultravioletti di tipo B, mentre quelli del solarium sono prevalentemente UVA. Secondo il dermatologo: «Non esiste un uso ragionevole del solarium. D’altron-

Chi si trova a lavorare all’aperto, nell’edilizia, nell’agricoltura, ecc, si espone indubbiamente a un rischio maggiore. (Pxhere)

de, parecchi studi scientifici confermano che chi si espone a sedute di solarium si assume un rischio superiore di sviluppare tumori cutanei. Per questo, come per ogni malattia o tumore, bisogna lavorare in modo preventivo e da qui la pertinenza dell’Ordinanza in consultazione sul divieto di accesso ai solarium per i minorenni». Anche l’esposizione solare non controllata, però, comporta rischi analoghi. Lo dimostrano i numeri emanati a inizio estate dalla Società svizzera di dermatologia e venerologia (SSDV) secondo cui: «Ogni anno circa 25mila persone contraggono forme aggressive di cancro». La Svizzera è perciò considerata una «Nazione ad alto rischio» per quanto riguarda i tumori della pelle. L’associazione di dermatologi rileva inoltre che: «una persona su tre in età di pensionamento presenta qualche for-

ma precoce di cancro della pelle (cheratosi attinica) che potrebbe tradursi in un vero tumore cutaneo (spinalioma o carcinoma spinocellulare): ogni anno vengono colpite tra le 20mila e le 50mila persone, mentre di melanoma maligno sono ogni anno colpite in Svizzera circa 2500 persone». Numeri che ci fanno riflettere su tutti quelli che si trovano a lavorare all’aperto, nell’edilizia, nell’agricoltura e quant’altro. A queste persone, che presentano indubbiamente un rischio maggiore, è dedicata la Campagna 2018 per la prevenzione del cancro della pelle «Malattia professionale per troppo sole», il cui obiettivo è sensibilizzare i lavoratori a proteggersi dai raggi UV, adottando alcune precauzioni di cui chiediamo conferma al dottor Marazza: «Cercare di restare all’ombra nelle ore più calde della giornata, indossare

vestiti adeguati, cappello a tesa larga e occhiali da sole, e applicare regolarmente e correttamente la crema solare». Proprio su quest’ultima chiediamo lumi, dato che si fa sempre più strada l’opinione derivante dall’inutilità delle creme solari. Con un esempio chiaro, lo specialista confuta quest’idea e invita ad applicarla: «Un recente studio indica che, se in Australia e negli USA da qui al 2030 il 100 per cento della popolazione applicasse la crema solare, l’incidenza del melanoma diminuirebbe del 35 per cento». Non si nasconde che alcuni studi in materia sono controversi e, per i detrattori, la discussione rimane aperta. Ma la posta in gioco è estremamente alta e riguarda la salute, ragione per la quale è auspicabile il buonsenso nell’esposizione ai raggi UV, rigorosamente naturali, insieme all’applicazione di una buona crema solare.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 luglio 2018 • N. 30

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Ambiente e Benessere

Atlanti delle emozioni

Viaggiatori d’Occidente Si inserisce in un’importante tradizione letteraria, l’atlante della

Città dei sassi, in allestimento grazie ad Alessandro Baricco e all’artista Stefano Faravelli

L’ispirazione viene da Le città invisibili di Calvino e ancor più dalla Carte du pays de la Tendre di Madeleine de Scudèry Il Novecento ha cancellato dagli atlanti gli ultimi spazi di mistero. Ogni luogo è stato esplorato, viaggiato, visto e rivisto dai turisti, raccontato in ogni dettaglio in rete su Google Maps. Eppure proprio mentre la fantasia sembra arrendersi alla realtà, nuovi atlanti hanno acceso l’immaginazione, creando un genere letterario in larga parte nuovo. Per esempio Judit Schalansky ha scritto un fortunato Atlante delle isole remote. Cinquanta isole dove non sono mai stata e mai andrò (Bompiani): porzioni di terra a volte minime, un atollo, uno scoglio sperduto, un anello di sabbia a

Bussole I nviti a

letture per viaggiare

Claudio Visentin «Per il ragazzo, amante delle mappe e delle stampe, / l’universo è pari al suo smisurato appetito. / Com’è grande il mondo al lume delle lampade!». Per Baudelaire (è la sua celebre poesia Il viaggio) il desiderio di conoscere il mondo prende forma nell’infanzia. Basta un atlante per schiudere nuovi orizzonti a menti annoiate da troppe nozioni. Il viaggio in India dello scrittore Guido Gozzano (Verso la cuna del mondo, Bompiani) iniziò proprio così: «Visitata cento volte con la matita, durante le interminabili lezioni di matematica, con l’atlante aperto tra il banco e le ginocchia: ora passando attraverso l’istmo di Suez e il Mar Rosso, l’Oceano Indiano, ora circumnavigando l’Africa su un veliero che toccava le Isole del Capo Verde, il Capo di Buona Speranza, Madagascar…». La stessa passione per gli atlanti anima Charles Marlow, il protagonista di Cuore di tenebra di Joseph Conrad. E proprio dopo aver a lungo esercitato l’immaginazione su una carta geografica dell’Africa, Marlow si troverà infine al comando di un vaporetto tra gli orrori coloniali del Congo belga, esplorando il lato oscuro della geografia, la sua natura nascosta di strumento di dominazione e potere. Una raccolta di carte geografiche nutrì anche l’immaginazione di Herman Melville nell’immaginare Moby Dick, soprattutto una «Carta delle balene», con i percorsi oceanici dei cetacei registrati sulla base dei resoconti di viaggio e dei diari di bordo delle navi baleniere.

Da povera a iperturistica sino alla fuga da sé stessa

«Barcellona. Raval. (…) Giù in strada una donna con un vestito a fiori sembra uscita da una foto d’epoca. Si allontana in compagnia di un uomo dall’aria grave e di un altro signore sulla sessantina, paffuto e coi baffi. Li precedono una donna matura, volitiva, che potrebbe essere bionda ma pure mora, e una cieca senza bastone, e perfino un guardingo gatto nero. Sopra di loro un colombo disegna volute nel cielo. La donna dal passo deciso tiene in mano una scheda bianca e verde: una scheda che la riguarda, la sua…»

L’artista Raffaele Pentasuglia ha immaginato la balena Giuliana sullo sfondo di Matera. (Vincenzo Cammarata / Fosphoro)

pelo d’acqua… Anche in questo caso è un progetto concepito durante l’infanzia, con il dito sull’atlante scolastico, in quella Germania Est protetta dal Muro e poi spazzata via dalla storia mentre loro, le piccole isole, sono ancora lì, da qualche parte nel vasto oceano. La Germania Est è solo una delle tante Terre scomparse 1840-1970 censite nell’atlante di Bjørn Berge (Ponte alle Grazie) a partire dalla sua collezione di francobolli, spesso l’unica eredità rimasta di Stati un tempo fiorenti: ci troverete nomi noti (il Regno delle Due Sicilie, Danzica) ma anche Obock, il regno dei Sedang, Capo Juby… Altri Paesi invece esisterebbero – se dipendesse solo da loro – ma non riescono a soddisfare i requisiti (a volte un poco capricciosi) della comunità internazionale. Nick Middleton, professore di geografia a Oxford, ha raccolto cinquanta esempi nel suo Atlante dei paesi che non esistono (Bompiani). Bastano i nomi, improbabili eppure reali, a sollecitare la fantasia: Forvik, Barotseland, Dinetah, Murrawarri… Altri Paesi invece furono creduti veri e non lo erano, nonostante i racconti di avventurieri, esploratori e mercanti troppo frettolo-

samente raccolti dagli autori di cronache: il paese delle Amazzoni, il regno del Prete Gianni, il Mangbetu abitato da mostri o l’impero sotterraneo dei Cimmeri (Dominique Lanni, Atlante dei Paesi sognati, Giunti). È diventato un caso editoriale Atlas Obscura. Guida alle meraviglie nascoste del mondo, trasposizione in volume di un popolare sito web (www. atlasobscura.com). Sono seicento luoghi tra i più bizzarri e misteriosi al mondo: prodigi naturali, umane follie e storie dimenticate. Infine pochi giorni fa, di passaggio a Matera, ho visto prendere forma davanti ai miei occhi l’Atlante delle emozioni delle città, pensato per il 2019, quando la Città dei sassi sarà Capitale europea della cultura. Il progetto, ideato dal Teatro dei Sassi, è affidato allo scrittore Alessandro Baricco e all’artista Stefano Faravelli, nostro abituale collaboratore. Trecento materani, di ogni età ed estrazione sociale, collaboreranno alla creazione di una mappa emozionale: ognuno disegnerà i luoghi, ancora esistenti o scomparsi, dove sono avvenuti gli avvenimenti più significativi della sua vita. Le singole mappe

si uniranno poi a formare un inedito atlante della città (Mappa emozionale madre), combinando geografia, anima dei luoghi e memoria. Il prossimo anno, presso la Biblioteca provinciale di Matera, si potrà così visitare la Camera secretissima de lo core, luogo interattivo di memorie e racconti. L’ispirazione viene naturalmente da Le città invisibili di Italo Calvino e ancor più dalla Carte du pays de la Tendre (Mappa del paese della Tenerezza) immaginata nel 1654 dalla scrittrice francese Madeleine de Scudèry e incisa da François Chauveau; in quest’opera per la prima volta due sentimenti, amicizia e amore, modellano il paesaggio e le varie fasi del loro svolgersi possono essere percorse come le tappe di un viaggio. E chissà, forse qualche materano racconterà di quella volta, nel 2006, quando nelle campagne fu trovato l’enorme scheletro della balena Giuliana (così fu chiamata), lunga venticinque metri, vissuta un milione di anni fa, quando le acque del Mediterraneo si spingevano sin qui. Un Moby Dick di pianura la cui storia sarebbe certo piaciuta a Herman Melville…

In un quarto di secolo, Barcellona è passata da due a trenta milioni di turisti; un’ascesa inarrestabile, cominciata con i giochi olimpici del 1992. È spesso considerata una storia di successo, un modello per altre città, ma molti abitanti protestano contro i troppi turisti, ricordano la Barcellona delle esposizioni universali, delle fabbriche, delle rivolte popolari e della guerra civile, certo più povera e tormentata, certo più autentica. Tra loro Amaranta Sbardella, scrittrice e traduttrice. Per riscoprire questa città smarrita nel vortice dell’iperturismo Amaranta Sbardella ha scelto la letteratura: scrittori assai noti, come Manuel Vázquez Montalbán, Alicia Giménez-Bartlett, Carlos Ruiz Zafón insieme a molti altri. Non ha però compilato la solita guida letteraria ai luoghi citati nelle opere o legati alla biografia degli autori. Ha invece immaginato una vicenda pirandelliana: i personaggi di opere ambientate a Barcellona – Petra Delicado, Clara Barceló, Pepe Carvalho – fuggono dalle schede di un bibliotecario svogliato e pasticcione e tornano ad aggirarsi per le strade della loro città, entrano in caffè e teatri, risvegliano dall’incantesimo turistico i luoghi conosciuti e amati. È un libro strano e interessante, preludio a viaggi, o forse solo a nuove letture. Bibliografia

Amaranta Sbardella, Barcelona desnuda. Fuga nella città: letteratura, luoghi comuni e insoliti cammini, Exòrma, 2018, pp.192, € 14,90.

Uguaglianze scolorite Giochi di ragionamento Come risolvere enigmi attraverso l’abduzione to un ragionamento abduttivo, solo se non esistono altre premesse che spiegano altrettanto bene i fatti osservati e se quella da noi scelta riceve tali e tante conferme, da poter essere considerata valida, con una probabilità vicina a una ragionevole certezza. È opportuno, quindi, non radicarsi mai nelle proprie opinioni in maniera preconcetta, ma avere sempre una mentalità aperta ad altre possibili spiegazioni. Per loro natura, i tradizionali esercizi matematici richiedono essenzialmente una logica deduttiva. Alcuni ragionamenti di tipo abduttivo, però, possono tornare utili per trovare soluzioni più rapide e originali.

Provate a cimentarvi con i seguenti esercizi di natura adbuttiva (ragionando solo a mente); ognuno di questi richiede di inserire due segni aritmetici tra i tre numeri esposti (senza utilizzare parentesi), in modo da risalire, da un’uguaglianza scolorita, ad una completa ed esatta. Ad esempio: 63 11 4 = 19 / 63–11x4 = 63–44 = 19 a) 89 78 13 = 95 b) 91 84 14 = 85 c) 91 13 12 = 84 d) 16 11 86 = 90 e) 51 14 47 = 84 f) 24 4 30 = 66 g) 42 7 14 = 20

h)14 28 20 = 22 i) 46 23 24 = 26 j) 80 2 13 = 27 k) 15 3 20 = 25 l) 72 12 27 = 32

Soluzioni

Il concetto di logica abduttiva (o abduzione) è stato introdotto per la prima volta da Aristotele, ma è stato rivalutato solo verso la fine dell’Ottocento, dal filosofo statunitense Charles Sanders Peirce. Per più di due millenni, questo tipo di ragionamento non è stato oggetto di studi specifici, essendo stato considerato erroneamente un caso particolare dell’induzione. Nelle applicazioni pratiche, l’abduzione può essere interpretata come una sorta di indagine, tesa a risalire alle cause che hanno generato un particolare effetto. Per questo motivo, è la forma di logica tipica, sia del medico che cerca

di individuare una malattia, analizzando i sintomi che questa ha generato, sia dell’investigatore che cerca di ricavare elementi utili a scoprire il responsabile di un delitto, analizzando le tracce che questo ha lasciato. L’adbuzione è la forma di logica che ci capita di utilizzare più spesso nella vita di tutti i giorni, spesso inconsapevolmente, ma è anche soggetta a rischio di errore. La conclusione a cui porta, non è mai è valida in assoluto, ma solo in termini di probabilità; di conseguenza, è opportuno che venga sempre confermata per via empirica, eventualmente prendendo in considerazione altre potenziali regole. Riusciamo a svolgere con profit-

a) 89+78/13 = 89+6 = 95; b) 91–84/14 = 91–6 = 85; c) 91/13x12 = 712 = 84; d) 16x11–86 = 176–86 = 90; e) 51– 14+47 = 37+47 = 84; f) 24x4–30 = 96– 30 = 66; g) 42/7+14 = 6+14 = 20; h) 14+28–20 = 42–20 = 22; i) 46/23+24 = 2+24 = 26; j) 80/2–13 = 40–13 = 27; k) 15x3–20 = 45–20 = 25; l) 72x12/27 = 72x4/9 = 84 = 32.

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Ambiente e Benessere

Che cosa rimane di un giardino?

Il seme nel cassetto L’architettura paesaggistica di spazi verdi tra equivoci e falsi storici nel nuovo libro

di Guido Giubbini

Laura Di Corcia Andiamo a vedere un giardino, un giardino di quelli inseriti nei manuali e nei libri di storia: lo guardiamo e siamo convinti che per incantamento attraverseremo i secoli, potremo fare un giro sulla macchina del tempo. È proprio questa una delle illusioni che vengono sgretolate dal Giardino degli equivoci di Guido Giubbini, critico d’arte e fondatore del Museo d’arte contemporanea di Genova, che dal 1990 si interessa di quella scatola verde che è anche oggetto di questa rubrica. Un libro che vuole tracciare una controstoria, laddove però manca addirittura una storia. Sì, perché farà strano sentirlo ma una vera e propria storia dei giardini non è ancora stata scritta (come apprendiamo dal libro); e per «storia» s’intende, ovviamente, qualcosa di filologicamente supportato, operazione difficile da compiersi in un contesto che è l’arte effimera per eccellenza. Che cosa rimane, infatti, di un giardino? Come facciamo a dire che quel giardino che noi vediamo ora, in questo momento, sia lo stesso voluto dal giardiniere o dall’artista dell’epoca? Il giardino cambia dalla sera alla mattina, perché magari nel frattempo sono sbocciati nuovi fiori o altri sono appassiti. Quindi, quando andiamo a vedere il giardino di Monet a Giverny dobbiamo tener conto che vedremo qualcosa che ha a che fare con l’origi-

Una parte del giardino del Generalife di Granada, Andalusia. (Pxhere)

nale ma al contempo ha subito delle modifiche – lo stile inglese, per esempio, è stato innestato a posteriori ed è un falso storico affermare, come invece viene puntualmente fatto, che Monet fosse un conoscitore del giardino all’inglese.

A proposito degli inglesi: Giubbini non mette in dubbio le loro grandi doti di giardinieri e il fatto che abbiano contribuito a innestare nei giardini un’enorme varietà di fiori, anche esotici (grazie all’invenzione della serra). Ma l’idea che siano stati loro a portare

i fiori nei giardini è un altro equivoco (se non un falso storico): in realtà la scienza botanica nacque in Italia con la prima cattedra nell’Università di Padova e i primi orti botanici a Padova stessa, Pisa, Bologna, Montpellier, Parigi e Heidelberg. «Ciò in cui l’In-

ghilterra ha eccelso e in parte ancora eccelle, ed è la vera e incontestabile ragione della sua superiorità, è un’altra ed è stata la capacità di creare nuovi modelli formali», si legge nel libro. Ma prima di arrivare al giardino all’inglese, si è passati per altre tappe: dall’hortus conclusus medievale, nel Rinascimento – che segnò la speranza di poter riabilitare la cultura classica sotto l’egida di una Chiesa di ispirazione mondana e temporale – si sperimentò il giardino aperto, che inglobava il paesaggio, il cui primo esempio è Villa d’Este a Tivoli. Il modello formale di questo cambiamento va cercato nella cultura islamica, e, nello specifico, nel Generalife (residenza estiva dei sultani) di Granada. Il giardino così rivisitato può affrancarsi dall’essere un luogo di rifugio e compensazione, qual era stato nel Medioevo, e diventa «simbolo di integrazione di controllo del territorio». Qualcosa che dal 1700 in avanti abbiamo nuovamente perso: il giardino borghese torna a essere chiuso, distinto dall’esterno, perché diventa luogo protetto dove cessa la legge universale dello sfruttamento del territorio ai fini del profitto capitalistico. Bibliografia

Guido Giubbini, Il giardino degli equivoci. Controstoria del giardino da Babilonia alla Land Art, Derive e Approdi, 2016, 127 pp. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Pavlova alle bacche miste

Migusto La ricetta della settimana

Dessert Ingredienti per 10 persone: 4 albumi di circa 35 g ciascuno · 200 g di zucchero

finissimo · 1½ cc d’amido di mais · 2 cc di aceto delicato. Farcia: 400 g di bacche miste, ad es. fragole, lamponi e ribes · 2,5 dl di panna · a piacere fiori commestibili e foglie di lampone dal giardino.

migusto.migros.ch/it/ricette

1. Scaldate il forno a 160 °C. Montate gli albumi ben fermi. Unite lo zucchero a pioggia e continuate a montare, finché la massa non risulti bella consistente e lucida. Incorporate l’amido di mais setacciato e l’aceto. In una teglia foderata con carta da forno formate delle quenelle (polpettina ovale) di meringa con 2 cucchiai e accomodatele una accanto all’altra formando un cerchio. 2. Abbassate la temperatura del forno a 100 °C e cuocete la pavlova in forno per circa 2 ore e mezzo, mantenendo lo sportello leggermente aperto con l’ausilio di un mestolo. Spegnete il forno e lasciatevi raffreddare la pavlova. 3. Per la farcia, tagliate le bacche più grandi a bocconi. Montate la panna ben ferma e distribuitela sulla meringa con un cucchiaio o con una tasca da pasticciere. Guarnite con le bacche, i fiori e le foglioline. Servite subito.

Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

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Giochi per “Azione” - Luglio 2018 e Benessere Ambiente Stefania Sargentini

Chi è senza peccato...

(N. 25 - “Molti ci lasciano le penne”)

Sport Christopher Froome, corridore da poco assolto dall’accusa di doping, è stato comunque accolto

da ululati, fischi e insulti

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Giancarlo Dionisio Dal Vangelo secondo Giovanni: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». Tradotto in termini etici o deontologici potrebbe significare: valuta, analizza, cerca di comprendere prima di giudicare. In troppi, lo ammetto, io compreso, abbiamo giudicato Christopher Froome prima che fosse emessa la sentenza. Chi segue regolarmente il ciclismo sa di cosa sto scrivendo. Riassumo per chi non conosce i risvolti della vertenza. Il corridore britannico, vincitore di quattro Tour de France, un Giro d’Italia e una Vuelta di Spagna, è risultato positivo al salbutamolo, in occasione di un controllo antidoping nel settembre dello scorso anno proprio durante la corsa iberica da lui vinta. Dall’esame era emerso nel suo organismo un quantitativo del broncodilatatore, doppio rispetto al consentito. Trattandosi di una sostanza ammessa dal regolamento dell’Agenzia Mondiale Antidoping (AMA) entro il limite di mille nanogrammi al millilitro, Froome, in attesa di giudizio, non è stato sospeso e ha potuto proseguire la sua attività agonistica. Il mondo del ciclismo, tendenzialmente, attendeva con trepidazione una sentenza di condanna con susseguente squalifica. Da un lato perché i precedenti casi analoghi di Alessandro Petacchi e Diego Ulissi si erano conclusi in tal modo. Dall’altro perché lo strapotere economico e politico della squadra di Froome, il Team Sky, risulta spesso irritante. Invece, proprio grazie all’enorme disponibilità finanziaria, Sky

Giochi Cruciverba L’uccello della foto è l’hoatzin, conosciuto anche come «uccello fetente»! Infatti ha un odore sgradevole dovuto al fatto che impiega circa… Troverai il resto della frase a cruciverba risolto, leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 14, 3, 3, 8)

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ha potuto accaparrarsi i migliori giuristi e i migliori medici, i quali sono riusciti a 18 19 20 convincere la Commissione giudicante della non colpevolezza del corridore. La22sentenza di assoluzione è giunta cinque giorni prima dell’inizio del Tour de France, poche ore dopo che la Direzione di corsa aveva definito25Froome persona non gradita, quindi non ammessa nella lista di partenza. Le motivazioni della sentenza, anche dopo svariate letture, risultano nebulose e complesse, al punto che noi comuni mortali, se volessimo schierarci dalla 32 inparte dei colpevolisti oppure degli nocentisti, lo faremmo in maniera puramente emotiva e irrazionale. Il caso merita alcune considerazioni. Anzitutto per la tempistica. La notizia che la sentenza fosse in dirittura d’arrivo era nell’aria e sono convinto che1 il dato2 non fosse sfuggito ai4 po3 tentissimi padroni del Tour de France. Chi ci dice che il direttore, Christian 7 9 il Proudhomme, non8abbia utilizzato pugno di ferro, proponendo l’esclusione 10 del vincitore di quattro 11 edizioni della Grande Boucle, nella consapevolezza che poco dopo, avrebbe dovuto ri13 ammetterlo? Se così fosse, il Boss 14 della corsa se ne uscirebbe con l’immagine di strenuo difensore dei valori etici, 15 16e di implacabile nemico di chi bara. In secondo luogo, una delle icone 21 22 23 del ciclismo mondiale di sempre, il bretone Bernard Hinault, fino allo scorso 28 29del anno 26 grande27maestro cerimoniere Tour, si è spinto fino a esortare il gruppo a scioperare, qualora 32 33 Chris Froome fosse stato al via, salvo poi correggere il tiro a sentenza avvenuta.

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I social media hanno rivoluzionato le modalità di comunicazione. Hanno soprattutto 21 favorito la perdita rapida e radicale del senso di responsabilità: nei 23confronti di ciò che si dice24e si scrive, e nei confronti di chi si prende come bersaglio. Questa mancanza di riguardo la 26 27 limiti legali, al si può concedere, entro comune cittadino, libero di sfogarsi e di sentenziare. Non la si può29 invece tolle28 rare, a mio modo di vedere, in chi riveste importanti ruoli istituzionali. 30 31 Le scelte e le affermazioni di Prudhomme e Hinault hanno messo Chris Froome in una situazione quando meno imbarazzante. Il corridore è stato accolto da ululati, fischi e insulti in occasione della presentazione della corsa e la sua caduta in occasione della prima tappa è stata sottolineata dal pubblico con un boato di entusiasmo e In passato, prima an5 di soddisfazione. 6 cora che scoppiasse il caso in questione, era stato omaggiato con sputi e gavettoni di urina. Il Keniano bianco è un uomo gentile, un atleta serio, che ha il torto di 12 correre sotto le insegne di un team ricco e potente, e di aver inalato una quantità eccessiva di Ventolin per placare l’asma. Tutto il resto: «vince perché sua équipe hanno 17bara», «nella18 19 trovato 20 nuove sostanze dopanti che non si possono rintracciare», sono solo illazioni, 24 25 ipotesi da bar, che andrebbero provate. Anche David Lappartient, pure 30 presidente31dell’Unione CicliBretone, stica Internazionale (UCI), ci ha messo rendere ancora 34del suo per 35 36più precario il rapporto tra Froome e il pubblico francese. Da un lato ha lanciato

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(N. 26 - ... acqua, aceto e bicarbonato)

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A C I Z N.Q25UFACILE L A I A VSchema E Christopher Froome durante un Tour de Romandie degli scorsi anni. (Thortuck) 1 Aticando 6 R però che anche 5 loro,2dopo il deC affinché I Lil corridore E fosse un appello rispettato sulle strade della Grande vastante caso Festina del 1998, si sono Boucle, 9 N sfuggire I dall’altro N siAè lasciato E fatti Bpizzicare1con le dita nel vasetto di che un atleta appartenente a una squa- marmellata. Vedi, ad esempio, il caso dra meno ricca e meno potente avrebbe Cofidis, vedi la recente sentenza esem9 O1 Franck O incassato R una sentenza T 6 RplareIdel PMPmarsigliese L8 Lagier, I probabilmente diversa. che ha considerato il corridore francese 1 B dell’evan2 3 I RémyNDi Grégorio 8 personaI4non C 5 Torno quindi alle parole degna E Y O gelista, che dovrebbero essere scritte di svolgere la professione di ciclista, sullo specchio davanti8al quale ogni a causa di un5suo plurimo3coinvolgiN ci laviamo A viso, mani R 6 eBdenOin questioni L Idi doping. E pensaA giorno mento ti. Negli ultimi 20 anni, nel ciclismo, i re che, poverino, imbrogliare, non gli 7spesso 5 1 2per A francesi hanno giocato ilR ruolo I è nemmenoOservito diventare I N N A M R un irritante dei primi della classe, dimen- campioncino. M A N 4 D 3 R I A5 2 O8 T O

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba 3 5 e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 7

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(N. 27 - ... quarantacinque ore per digerire) 1 7 9 11 13

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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26. Uno dei laghi più estesi del mondo 28. Mare del Mediterraneo 29. Il Morricone musicista VERTICALI 1 2 3 4 1. Porzioni di somme da pagare 2. Antico popolo dell’Asia centrale 9 3. La piantagrane dell’Olimpo 4. Le iniziali dell’Ariosto 5. Macerie in poesia 13 le gemelle negli occhi... 14 15 6. Segue 10. Si regola con l’alzo 12. Il nome dell’attore17 Reedus 13. In questo luogo… poetico 14. Pianeta del sistema solare 15. Si dice per19 incoraggiare ed esortare 16. Traslocare in centro 17. L’attore Gibson

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo Migros del valore 25 di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta 30 entro29 il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

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3 N O B N A T U R A 19. Un anagramma di poi 32 SUDOKU PER AZIONE - LUGLIO 2018 B N Oprecedente R M E 20. La minore delle isole Cicladi Soluzione dellaAsettimana 22. Si paga per la colpa UTILI CONSIGLI – Per togliere le incrostazioni da una pentola, bisogna far bollire N. 25 FACILE 23. Tutt’altro che mesti al suo interno… Resto della frase: …ACQUA, ACETO E BICARBONATO. (N. 26 - ...5acqua,6aceto e7 bicarbonato)8 Schema Soluzione 25. Fanno rima con ma... 4 2 1 2 3 4 5 6 A C1 6 Q U I 5 Z2 27. Simbolo chimico del radon 3 8 1 6 4 7 5 2 9 7 10 8 9 11 9 L 12A I A1 V 5 E 9 75 4 2 3 8 1 3 66 7 8 10 11 12 I vincitori C I 6 L E 9 A1 R8 2 7 6 5 3 9 1 8 4 13 14 16 B4 5 1 2 38 7 9 8 6 4 5 1 I 2 N3 A N E8 15 17 18 19 20 Vincitori del16concorso Cruciverba T5 R I 3 P O L I 8 6 9 4 2 5 7 3 1 8 6O R 2 5 3 7 su «Azione 28», 24del 09.07.2018 21 22 23 25 18 I2 N O I C 7 4 5 3 1 6 2 9 8 7 E 5 Y B1 T. Marazzi, E. De Pietro, E. Demarta 26 27 28 29 30 31 R5 B2 8 O L I 7 A 6 4 23 7 9 5 2 88 1 6 4 N3 A Vincitori del concorso Sudoku 32 33 20 35 36 su «Azione 28»,2134del 09.07.2018 I N N A R3 I 6 9 8 1 7 3 4 5 2 5 O2 M A R M. Del Bello, D. Scricciolo 38 37 M A N D R I A7 O T O 5 1 2 8 6 4 9 7 3 28

ORIZZONTALI 1. Nell’eventualità... 7. Consacrata da Dio 8. Dentro l’astuccio... 9. La metà di two 10. È ripetitivo 11. Una consonante 12. Il nome della cantante Zilli 13. Correlativo di tale 17. Si raccolgono nei boschi 18. Si caccia per paura 19. Tuttavia... 21. Tre «sorelle»... 22. Ha una trama 23. In genere... sono estremi 24. Due lettere in vena 25. Scorre... perfido

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N. 26QMEDIO U A L O R A

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U N 6T A U7 C 10 3O N 4E T5 I2C 12 1 5T I N I 6N A Giochi per “Azione” - Luglio 2018 17 Stefania Sargentini 2 Q U A L E M O R9E 19(N. 25 - “Molti ci lasciano le penne”) 20 3 4 7 5 8 U R L O P E R O D E R E M O C L I M A 23 1 T I V AI C EE C RF E NI L M G E I L A R S A A N T 4 5 6 26 27 C V O I N A T TR E NI T O I A R A L A S S O R 6 E V A C 8 2 29 L O E P O I O N I O E N N I O 13

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(N. 28 - Rispondono in settanta: “Vuoi la mia?”)

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N. 27 DIFFICILE

R I S M A P O N A T R I D O N I P I S O N D E E T E L A I T N E R I O T A 23 24 N. 26 MEDIO A cognome, T Iè possibile M4 unA5pagamento inOcontanti (N.Partecipazione 27 - ... quarantacinque per digerire) 2R online:ore inserire la luzione, corredataF da nome, 6 7 soluzione indirizzo, email del partecipante deve dei premi. 4 2I vincitori 8 6 5saranno 9 3 avvertiti 7 1 26 27del cruciverba o del sudoku 28 Q U A L O R A nell’apposito formulario pubblicato essere aR «Redazione Azione, per iscritto. dei 8vincitori sarà 3 spedita 4 53 2I T A S T9 7 3 IlV 6nome 4 A 1 5 21 U6315, N 6901 T A Lugano». U C pubblicato su «Azione». Partecipazione sulla pagina del sito. Concorsi, C.P. 1 5 6 1 esclusivamente 5 9 2 3 7a lettori 6 8 che 4 Partecipazione postale: la lettera o31 Non si intratterrà O corrispondenza N E T IsuiC riservata 9 1 7 4 9 2 A LN I INon C3 in8 Svizzera. O 4 7 R 6 5 E 9 1 A 2 la cartolina postale che riporti la so- concorsi. Le vie legali T I sono escluse. N A risiedono 1

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 luglio 2018 • N. 30

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 luglio 2018 • N. 30

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Politica e Economia Lo spirito di Helsinki Vertice disastroso per Trump per i suoi dietrofront ma positivo per le relazioni fra le due superpotenze pagina 19

Storia della migrazioni: 1.parte Il mondo così come lo conosciamo è il risultato di un secolare interscambio di popoli. Pensiamo al Continente americano dopo l’irruzione europea e l’importazione di milioni di schiavi

Contro l’isola dei prezzi alti Il Consiglio federale prepara un controprogetto all’iniziativa popolare per prezzi equi

In pensione gradualmente I consigli della consulente della Banca Migros su come pianificare la fine della carriera

Helsinki oltre il Russiagate Usa-Russia Lo spirito del summit finlandese non è stato annullato dalla rissa fra Trump e i media

pagina 20

sulle interferenze di Mosca Federico Rampini pagina 21

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Il premier cinese Li Keqiang a Berlino si è proposto come partner forte al posto degli Usa di Trump. (AFP)

Di ritorno da Helsinki dove ho seguito il vertice fra Donald Trump e Vladimir Putin, come giornalista italiano devo confessare una sensazione di «déjà vu». Non è la prima volta che accade, ma forse mai come in questo summit è apparso un parallelismo tra l’America trumpiana e i nostri anni con Silvio Berlusconi. Un leader impreparato che colleziona figuracce all’estero. Una stampa – da lui odiata e svillaneggiata – che lo insegue e lo tallona solo per fargli domande sugli scandali nazionali, ignorando l’oggetto del summit. Una conferenza stampa che diventa un match a fini di politica interna. Non proprio una sensazione gradevole, anche perché in questo caso stiamo parlando di quello che un tempo si sarebbe definito «il leader del mondo libero», alle prese con un autocrate. Su chi dei due abbia tratto beneficio dal summit, non esistono dubbi.

La correzione di rotta al ritorno da Helsinki era necessaria perché lo sdegno era diffuso anche fra i repubblicani

Gli interessi cinesi in Europa

Strategie L’unico paese che è riuscito a tenere testa a Pechino è la Germania, che da anni è il miglior partner

Il copione mi obbliga quindi a partire dall’aspetto domestico, che alla fine ha prevalso, anche se non è affatto il più importante. Ma è chiaro che lo stesso Trump appena ha lasciato Helsinki si è dovuto dedicare a un esercizio di «damage control», cioè riduzione del danno, perché si è accorto del disastro di immagine. «Volevo dire tutto il contrario». La retromarcia è clamorosa perfino per uno che ha l’abitudine di contraddirsi. Sorpreso dal boato di disapprovazione sul vertice di Helsinki – anche in casa repubblicana – 24 ore

dopo il presidente si stava rimangiando quel che aveva detto nella conferenza stampa finale con Putin. Nella quale, riassumendo e semplificando, Trump aveva attaccato l’Fbi, l’intelligence, la giustizia del suo Paese, sposando la versione russa sulle ingerenze nella campagna elettorale del 2016: tutte balle. Uno spettacolo senza precedenti, una resa al nemico, agli occhi di molti americani e non solo i suoi avversari di sinistra. Appena rientrato a Washington, è scattato il contrordine, Trump ha riabilitato le conclusioni dell’intelligence americana sull’interferenza di Mosca. La correzione di rotta era necessaria perché lo sdegno era diffuso anche tra i repubblicani. Il partito del presidente, per quanto in preda a una sorta di mutazione genetica nell’era del populismo, non ci sta ad avallare la svolta russofila in politica estera. La reazione più dura (come sempre) è stata quella del senatore John McCain: «Nessun presidente americano si era mai umiliato in modo così abietto davanti a un tiranno». Parole severe sono venute da tanti colleghi di McCain, i senatori Bob Corker del Tennessee e Jeff Flake dell’Arizona, Susan Collins del Maine e Charles Grassley dell’Iowa, Rob Portman dell’Ohio e Ben Sasse del Nebraska. Un punto basso per Trump, colto di sorpresa. Pare che lui stesso abbia cominciato a capire l’entità del disastro a bordo dell’Air Force One sulla via del ritorno, quando ha visto i notiziari televisivi sulla conferenza stampa. Per il suo orgoglio, il danno peggiore è stato il vedersi descritto come pusillanime di fronte a Putin, manipolato e soggiogato davanti alle telecamere. Trump si aspettava di poter sceneggiare un evento spettacolare come a Singapore con Kim Jong-un. Aveva sottovalutato le enormi differenze: la Russia è una superpotenza le cui truppe e arsenali nucleari sono al confine con la Nato; è il nemico storico della Guerra fredda;

un’inchiesta in corso sta accumulando prove sulla sua ingerenza nella campagna elettorale. I media in trasferta hanno affrontato l’evento di Helsinki con tutt’altra predisposizione rispetto a Singapore, decisi a chiedere conto a Trump sui sospetti di collusione. Lui ci è cascato in pieno, avallando quei sospetti, per la fiducia cieca che ha mostrato nei confronti dell’ex spia del Kgb. Salvo rinnegarla l’indomani a Washington.

Un ordine internazionale sembra sul punto di dissolversi a 70 anni dalla sua fondazione. Non solo per gli attacchi concentrici di Trump e Putin Ma il disastro avrà conseguenze politiche interne? È poco probabile. Il dissenso repubblicano è stato ampio ma rientrerà presto. Con l’avvicinarsi dell’elezione legislativa di mid-term (6 novembre), non conviene ai candidati repubblicani mettersi contro il presidente. La base di Trump preferisce lui rispetto ai repubblicani del Congresso. Lasciamo la politica interna, e torniamo alla nefasta prestazione di Helsinki. In quella conferenza stampa Trump ha toccato un punto basso ma non solo per le risposte sul Russiagate. I pasticci sono stati molteplici: imbarazzanti silenzi sui dossier più importanti della politica estera; un senso generale di soggezione e inferiorità di fronte a Putin. Quest’ultimo nei botta e risposta con la stampa appariva il vero padrone del gioco: Putin è arrivato a «spiegare» la posizione americana sulla Crimea, pur ribadendo che è diversa dalla sua. Trump non ne ha fatto cenno. Ha di-

menticato le sanzioni e l’Ucraina, le espulsioni di diplomatici come risposta all’attentato ordito da Mosca contro un agente russo sul territorio inglese. Ha evitato ogni accenno alla Nato. Per Putin il bilancio è trionfale. Trump ha aperto la sua dichiarazione finale constatando che le relazioni tra i due paesi «non erano mai state peggiori», l’abisso fu toccato in quest’ultimo periodo, altro che Guerra fredda. Tutta colpa del duo Obama-Clinton, insomma: ed è esattamente la versione di Putin, che finalmente regola il conto con l’odiato duo democratico. La conferenza stampa era stata preceduta da un summit in due atti. La prima parte top secret: c’erano solo i due leader affiancati dai rispettivi interpreti, nessun ministro o diplomatico o consigliere. Cosa si siano detti lo sanno solo loro e gli interpreti. Il colloquio ultra-riservato si è esteso ben oltre il previsto, due ore. Solo in seguito si è allargato alle delegazioni governative. Il formato inusuale eccita la dietrologia, viste le tante «connection russe» attribuite a Trump, e non solo in campagna elettorale. Il «Financial Times» ha rivelato legami pericolosi con la finanza criminale russa, all’epoca in cui l’immobiliarista newyorchese aveva fatto bancarotta, le banche rispettabili non lo finanziavano più, e trovò aiuto presso un oligarca. La rissa fra Trump e i media sul Russiagate, non intacca la portata vera del summit. Putin ha potuto affermare che «non c’era alcuna ragione solida» per il deterioramento delle relazioni tra i due Paesi. Ha elencato tutte le «crisi regionali» su cui la Russia può aiutare l’Occidente: dalla Siria al terrorismo islamico. Trump ha promesso che «il nostro dialogo darà frutti positivi per le nostre due nazioni ed anche per il mondo intero, fra le due superpotenze che controllano il 90% degli arsenali nucleari il dialogo è sempre preferibile».

commerciale della Cina pur ospitando praticamente tutti gli autorevoli esuli dalla Cina Giulia Pompili Quando nel 2011 due giornalisti politici d’esperienza, Steve Lewis e Chris Uhlmann, hanno iniziato a pensare a un romanzo ispirato al loro lavoro quotidiano nei corridoi dei Palazzi del potere di Canberra, non avrebbero mai immaginato che la fiction si sarebbe trasformata a breve in un racconto del reale. Gli omicidi irrisolti e i complotti del governo di cui è condito The Marmalade Files e la serie tv a cui è ispirato, Secret City, sono solo una parte della storia. Tutti i personaggi e le loro scelte politiche si muovono in un contesto che è il problema cruciale dell’Australia di oggi: la dicotomia tra America e Cina. Ogni decisione politica vuol dire schierarsi, scegliere la rassicurante e tradizionale alleanza del blocco occidentale oppure cedere all’influenza cinese, maggior partner commerciale del Paese. Sono almeno dieci anni che in Australia si dibatte sulla presenza di Pechino in qualunque attività della vita pubblica del Paese. All’inizio dei Duemila la Cina ha iniziato a penetrare il mondo del business australiano, poi ha allargato il tiro, e gli investimenti sono passati anche nelle università, nei think tank e nei luoghi del pensiero – dove il

soft power ha terreno fertile. Ha aspettato, con pazienza confuciana, fino ad arrivare a Canberra, nei corridoi della politica, dove oggi in un modo o nell’altro determina il dibattito pubblico. L’esempio australiano è quello più ricorrente in questi giorni, se si pensa all’Europa. La scorsa settimana, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker sono volati a Pechino per il ventesimo vertice Ue-Cina. Nella dichiarazione finale congiunta, Europa e Cina sono d’accordo su ogni punto, sulla necessità di aumentare gli scambi commerciali e di proteggere i mercati, ma quasi niente si dice sulle questioni più controverse che riguardano la Cina: i diritti umani, l’espansionismo militare, le minacce a Taiwan. Non era mai successo prima, perché l’Europa non aveva mai rinunciato ai suoi tradizionali valori occidentali: qualcosa sta cambiando. «Mentre tutti sono preoccupati per la Russia», scriveva a febbraio sul «Washington Post» Rick Noack, «la Cina sta silenziosamente espandendo la sua influenza nel Vecchio continente». Rispetto al Cremlino, però, la strategia di Pechino è ben più consistente e destinata a durare nel lungo periodo. Del resto,

la ritirata di Washington dalle questioni globali, l’ondata di protezionismo, ma soprattutto la difficoltà di comprendere la strategia di Donald Trump, che scappa dal G7 e schiaffeggia i membri della Nato, rendono la Cina di Xi Jinping un alleato perfetto per l’Europa. Xi è l’uomo che durante il Forum economico di Davos, mentre Trump usciva dal progetto del Trans PacificPartnership, diceva ai suoi alleati che la Cina sarebbe diventata l’avvocato difensore del globalismo e del libero mercato. Ma a che prezzo? Il problema, secondo vari report pubblicati nell’ultimo anno, è che l’élite politica europea non considera ancora la Cina come una minaccia, ma semplicemente ne prende il buono sul breve periodo: soldi, investimenti, infrastrutture e tecnologie ad alto tasso di rendimento. Il presidente francese Emmanuel Macron ha detto in passato di essere pronto a creare una «moderna alleanza» tra Pechino e l’Europa, e dopo il suo ultimo viaggio nella capitale cinese il primo ministro inglese Theresa May è tornata a casa con 13 miliardi di dollari in accordi commerciali. Entrambi non hanno mai fatto cenno alla questione dei diritti umani in Cina. A quanto pare, l’unica ad aver posto dei

limiti all’influenza di Pechino per ora sembra essere la Germania di Angela Merkel, pur essendo il maggior partner commerciale dei cinesi in Europa (nel 2017 gli affari totali tra Berlino e Pechino hanno raggiunto i 230 miliardi di dollari). Qualche mese fa, durante un vertice con il primo ministro della Macedonia Zoran Zaev, commentando l’enorme presenza della Cina nella regione dei Balcani la cancelliera tedesca ha detto: «A noi va benissimo che Pechino voglia fare commercio e investire. Quello che mi chiedo è: le questioni economiche nascondono poi delle richieste politiche? Perché questo non sarebbe nello spirito del libero commercio». Il 10 luglio scorso, la Cina ha rilasciato la poetessa e attivista Liu Xia, vedova di Liu Xiaobo, premio Nobel per la Pace morto in regime di detenzione in Cina un anno fa. Entrambi sono due tra i più famosi dissidenti politici cinesi, e da anni l’Occidente si interroga sulla necessità di fare la voce grossa con Pechino per chiederne la liberazione. Secondo vari media, l’unico paese ad aver fatto reali pressioni sulla Cina è stata la Germania, dove Liu Xia è volata non appena ha ricevuto l’autorizzazione a lasciare il Paese. Oggi la Germania

è la casa di numerosi dissidenti ed esuli cinesi. L’influenza di Pechino agisce su vari fronti – sul sistema accademico, su quello del business e dei media. Ai suoi più stretti alleati la Cina chiede di chiudere un occhio sulle violazioni dei diritti umani e sul sistema antidemocratico che decide chi governa. Ma non c’è solo questo: anche la tecnologia cinese è «un pericolo per la sicurezza nazionale», secondo il rapporto del Pentagono, che ha vietato l’acquisto di componenti delle compagnie tecnologiche parastatali cinesi perché potrebbero essere usate per rubare informazioni e spiare. La questione non sembra preoccupare i singoli paesi europei, e da Bruxelles arrivano segnali contrastanti. Su richiesta esplicita di vari funzionari cinesi di formare un fronte comune contro i dazi e il protezionismo americano, l’Europa avrebbe rifiutato. Eppure, la lettera firmata da 27 dei 28 ambasciatori europei a Pechino che chiedeva di controllare e frenare l’espansionismo cinese perché «contrario all’agenda liberale dell’Ue e sposta l’equilibrio del potere a favore di società cinesi sovvenzionate dal governo» è stata pressoché ignorata, sia dalla politica sia dai media.

Trump e Putin durante la conferenza stampa congiunta. (AFP)

Un ordine internazionale sembra sul punto di dissolversi a 70 anni dalla sua fondazione da parte di Franklin Roosevelt, Harry Truman, George Marshall, e una vasta famiglia di leader dell’Europa occidentale di estrazione democristiana, liberale, socialdemocratica. Quel sistema subisce l’attacco concentrico di Trump e Putin ma non solo quello. È minato al suo interno da una profonda crisi di fiducia. Molti americani ed europei, cittadini e leader, sembrano aver perso interesse verso l’integrazione europea, la cooperazione atlantica; ritengono che queste abbiano esaurito la propria funzione storica. Se quest’ordine tramonta, chi ci guadagna, chi vince e chi perde? Trump e Putin hanno piani alternativi? Gli assetti internazionali – alleanze, sistemi di regole condivise – non sono eterni. Pace di Vestfalia, Congresso di Vienna, le coalizioni variabili che cercarono di stabilizzare l’Europa e prevenire l’emergere di una potenza egemone, tutto ha avuto un inizio e una fine. La sensazione che la Nato abbia perso utilità, è evidente nei comportamenti di diversi paesi membri che da anni rifiutano di pagarne i costi. Adesso anche l’America trumpiana, più mercantilista che isolazionista, vede i partner europei come dei parassiti. Gli attacchi senza precedenti di Trump all’Europa «nemica» vengono solo a rafforzare dall’esterno una perdita di coesione e di convinzione. Che vantaggi possono ricavare i due protagonisti del vertice di Helsinki? Putin appare come un sicuro beneficiario della disgregazione a Ovest. Coglie l’occasione della rivincita, dopo aver costruito la sua leadership sulla narrazione di un accerchiamento occidentale. Ha raccontato al suo popolo che da Gorbaciov a Eltsin ci fu un lungo tunnel di umiliazioni, ora la grande Russia si riprende il suo ruolo fra le nazioni, e un rapporto di quasi-parità con l’America. Un concreto recupero d’influenza è già in atto in Medio Oriente e potrà estendersi all’Europa: dove le lobby confindustriali si uniscono ai diversi partiti russofili nel chiedere la fine delle sanzioni. Al momento opportuno Putin potrà rilanciare il suo vecchio progetto di una comunità economica Eurasiatica. L’obiettivo finale è spezzare l’aggancio «innaturale» Ue-Usa, risucchiare l’Europa nel suo alveo naturale: piccola propaggine del continente asiatico. Trump non ha una visione geostrategica. C’è però un elenco di benefici che lo attraggono verso la distruzione dell’atlantismo. Il risparmio sulle spese militari. Il ritorno a un bilateralismo nei rapporti commerciali che esalta il potere contrattuale dell’America. Se si va verso una sorta di G3 Usa-Russia-Cina, un direttorio delle superpotenze potrebbe stabilizzare alcune aree turbolente del globo, evitando all’America oneri e rischi legati al ruolo di gendarme mondiale. Questo scenario però implica la presa d’atto che la leadership americana è in declino e va condivisa; inoltre che gli unici interlocutori efficaci sono regimi autoritari o «democrature» illiberali. Il nuovo ordine sarebbe comunque instabile. Cina e Russia sono «potenze revisioniste»: cioè non accettano lo status quo, vogliono cambiare i rapporti di forze e rivedere le sfere d’influenza.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 luglio 2018 • N. 30

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 luglio 2018 • N. 30

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Politica e Economia Lo spirito di Helsinki Vertice disastroso per Trump per i suoi dietrofront ma positivo per le relazioni fra le due superpotenze pagina 19

Storia della migrazioni: 1.parte Il mondo così come lo conosciamo è il risultato di un secolare interscambio di popoli. Pensiamo al Continente americano dopo l’irruzione europea e l’importazione di milioni di schiavi

Contro l’isola dei prezzi alti Il Consiglio federale prepara un controprogetto all’iniziativa popolare per prezzi equi

In pensione gradualmente I consigli della consulente della Banca Migros su come pianificare la fine della carriera

Helsinki oltre il Russiagate Usa-Russia Lo spirito del summit finlandese non è stato annullato dalla rissa fra Trump e i media

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sulle interferenze di Mosca Federico Rampini pagina 21

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Il premier cinese Li Keqiang a Berlino si è proposto come partner forte al posto degli Usa di Trump. (AFP)

Di ritorno da Helsinki dove ho seguito il vertice fra Donald Trump e Vladimir Putin, come giornalista italiano devo confessare una sensazione di «déjà vu». Non è la prima volta che accade, ma forse mai come in questo summit è apparso un parallelismo tra l’America trumpiana e i nostri anni con Silvio Berlusconi. Un leader impreparato che colleziona figuracce all’estero. Una stampa – da lui odiata e svillaneggiata – che lo insegue e lo tallona solo per fargli domande sugli scandali nazionali, ignorando l’oggetto del summit. Una conferenza stampa che diventa un match a fini di politica interna. Non proprio una sensazione gradevole, anche perché in questo caso stiamo parlando di quello che un tempo si sarebbe definito «il leader del mondo libero», alle prese con un autocrate. Su chi dei due abbia tratto beneficio dal summit, non esistono dubbi.

La correzione di rotta al ritorno da Helsinki era necessaria perché lo sdegno era diffuso anche fra i repubblicani

Gli interessi cinesi in Europa

Strategie L’unico paese che è riuscito a tenere testa a Pechino è la Germania, che da anni è il miglior partner

Il copione mi obbliga quindi a partire dall’aspetto domestico, che alla fine ha prevalso, anche se non è affatto il più importante. Ma è chiaro che lo stesso Trump appena ha lasciato Helsinki si è dovuto dedicare a un esercizio di «damage control», cioè riduzione del danno, perché si è accorto del disastro di immagine. «Volevo dire tutto il contrario». La retromarcia è clamorosa perfino per uno che ha l’abitudine di contraddirsi. Sorpreso dal boato di disapprovazione sul vertice di Helsinki – anche in casa repubblicana – 24 ore

dopo il presidente si stava rimangiando quel che aveva detto nella conferenza stampa finale con Putin. Nella quale, riassumendo e semplificando, Trump aveva attaccato l’Fbi, l’intelligence, la giustizia del suo Paese, sposando la versione russa sulle ingerenze nella campagna elettorale del 2016: tutte balle. Uno spettacolo senza precedenti, una resa al nemico, agli occhi di molti americani e non solo i suoi avversari di sinistra. Appena rientrato a Washington, è scattato il contrordine, Trump ha riabilitato le conclusioni dell’intelligence americana sull’interferenza di Mosca. La correzione di rotta era necessaria perché lo sdegno era diffuso anche tra i repubblicani. Il partito del presidente, per quanto in preda a una sorta di mutazione genetica nell’era del populismo, non ci sta ad avallare la svolta russofila in politica estera. La reazione più dura (come sempre) è stata quella del senatore John McCain: «Nessun presidente americano si era mai umiliato in modo così abietto davanti a un tiranno». Parole severe sono venute da tanti colleghi di McCain, i senatori Bob Corker del Tennessee e Jeff Flake dell’Arizona, Susan Collins del Maine e Charles Grassley dell’Iowa, Rob Portman dell’Ohio e Ben Sasse del Nebraska. Un punto basso per Trump, colto di sorpresa. Pare che lui stesso abbia cominciato a capire l’entità del disastro a bordo dell’Air Force One sulla via del ritorno, quando ha visto i notiziari televisivi sulla conferenza stampa. Per il suo orgoglio, il danno peggiore è stato il vedersi descritto come pusillanime di fronte a Putin, manipolato e soggiogato davanti alle telecamere. Trump si aspettava di poter sceneggiare un evento spettacolare come a Singapore con Kim Jong-un. Aveva sottovalutato le enormi differenze: la Russia è una superpotenza le cui truppe e arsenali nucleari sono al confine con la Nato; è il nemico storico della Guerra fredda;

un’inchiesta in corso sta accumulando prove sulla sua ingerenza nella campagna elettorale. I media in trasferta hanno affrontato l’evento di Helsinki con tutt’altra predisposizione rispetto a Singapore, decisi a chiedere conto a Trump sui sospetti di collusione. Lui ci è cascato in pieno, avallando quei sospetti, per la fiducia cieca che ha mostrato nei confronti dell’ex spia del Kgb. Salvo rinnegarla l’indomani a Washington.

Un ordine internazionale sembra sul punto di dissolversi a 70 anni dalla sua fondazione. Non solo per gli attacchi concentrici di Trump e Putin Ma il disastro avrà conseguenze politiche interne? È poco probabile. Il dissenso repubblicano è stato ampio ma rientrerà presto. Con l’avvicinarsi dell’elezione legislativa di mid-term (6 novembre), non conviene ai candidati repubblicani mettersi contro il presidente. La base di Trump preferisce lui rispetto ai repubblicani del Congresso. Lasciamo la politica interna, e torniamo alla nefasta prestazione di Helsinki. In quella conferenza stampa Trump ha toccato un punto basso ma non solo per le risposte sul Russiagate. I pasticci sono stati molteplici: imbarazzanti silenzi sui dossier più importanti della politica estera; un senso generale di soggezione e inferiorità di fronte a Putin. Quest’ultimo nei botta e risposta con la stampa appariva il vero padrone del gioco: Putin è arrivato a «spiegare» la posizione americana sulla Crimea, pur ribadendo che è diversa dalla sua. Trump non ne ha fatto cenno. Ha di-

menticato le sanzioni e l’Ucraina, le espulsioni di diplomatici come risposta all’attentato ordito da Mosca contro un agente russo sul territorio inglese. Ha evitato ogni accenno alla Nato. Per Putin il bilancio è trionfale. Trump ha aperto la sua dichiarazione finale constatando che le relazioni tra i due paesi «non erano mai state peggiori», l’abisso fu toccato in quest’ultimo periodo, altro che Guerra fredda. Tutta colpa del duo Obama-Clinton, insomma: ed è esattamente la versione di Putin, che finalmente regola il conto con l’odiato duo democratico. La conferenza stampa era stata preceduta da un summit in due atti. La prima parte top secret: c’erano solo i due leader affiancati dai rispettivi interpreti, nessun ministro o diplomatico o consigliere. Cosa si siano detti lo sanno solo loro e gli interpreti. Il colloquio ultra-riservato si è esteso ben oltre il previsto, due ore. Solo in seguito si è allargato alle delegazioni governative. Il formato inusuale eccita la dietrologia, viste le tante «connection russe» attribuite a Trump, e non solo in campagna elettorale. Il «Financial Times» ha rivelato legami pericolosi con la finanza criminale russa, all’epoca in cui l’immobiliarista newyorchese aveva fatto bancarotta, le banche rispettabili non lo finanziavano più, e trovò aiuto presso un oligarca. La rissa fra Trump e i media sul Russiagate, non intacca la portata vera del summit. Putin ha potuto affermare che «non c’era alcuna ragione solida» per il deterioramento delle relazioni tra i due Paesi. Ha elencato tutte le «crisi regionali» su cui la Russia può aiutare l’Occidente: dalla Siria al terrorismo islamico. Trump ha promesso che «il nostro dialogo darà frutti positivi per le nostre due nazioni ed anche per il mondo intero, fra le due superpotenze che controllano il 90% degli arsenali nucleari il dialogo è sempre preferibile».

commerciale della Cina pur ospitando praticamente tutti gli autorevoli esuli dalla Cina Giulia Pompili Quando nel 2011 due giornalisti politici d’esperienza, Steve Lewis e Chris Uhlmann, hanno iniziato a pensare a un romanzo ispirato al loro lavoro quotidiano nei corridoi dei Palazzi del potere di Canberra, non avrebbero mai immaginato che la fiction si sarebbe trasformata a breve in un racconto del reale. Gli omicidi irrisolti e i complotti del governo di cui è condito The Marmalade Files e la serie tv a cui è ispirato, Secret City, sono solo una parte della storia. Tutti i personaggi e le loro scelte politiche si muovono in un contesto che è il problema cruciale dell’Australia di oggi: la dicotomia tra America e Cina. Ogni decisione politica vuol dire schierarsi, scegliere la rassicurante e tradizionale alleanza del blocco occidentale oppure cedere all’influenza cinese, maggior partner commerciale del Paese. Sono almeno dieci anni che in Australia si dibatte sulla presenza di Pechino in qualunque attività della vita pubblica del Paese. All’inizio dei Duemila la Cina ha iniziato a penetrare il mondo del business australiano, poi ha allargato il tiro, e gli investimenti sono passati anche nelle università, nei think tank e nei luoghi del pensiero – dove il

soft power ha terreno fertile. Ha aspettato, con pazienza confuciana, fino ad arrivare a Canberra, nei corridoi della politica, dove oggi in un modo o nell’altro determina il dibattito pubblico. L’esempio australiano è quello più ricorrente in questi giorni, se si pensa all’Europa. La scorsa settimana, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker sono volati a Pechino per il ventesimo vertice Ue-Cina. Nella dichiarazione finale congiunta, Europa e Cina sono d’accordo su ogni punto, sulla necessità di aumentare gli scambi commerciali e di proteggere i mercati, ma quasi niente si dice sulle questioni più controverse che riguardano la Cina: i diritti umani, l’espansionismo militare, le minacce a Taiwan. Non era mai successo prima, perché l’Europa non aveva mai rinunciato ai suoi tradizionali valori occidentali: qualcosa sta cambiando. «Mentre tutti sono preoccupati per la Russia», scriveva a febbraio sul «Washington Post» Rick Noack, «la Cina sta silenziosamente espandendo la sua influenza nel Vecchio continente». Rispetto al Cremlino, però, la strategia di Pechino è ben più consistente e destinata a durare nel lungo periodo. Del resto,

la ritirata di Washington dalle questioni globali, l’ondata di protezionismo, ma soprattutto la difficoltà di comprendere la strategia di Donald Trump, che scappa dal G7 e schiaffeggia i membri della Nato, rendono la Cina di Xi Jinping un alleato perfetto per l’Europa. Xi è l’uomo che durante il Forum economico di Davos, mentre Trump usciva dal progetto del Trans PacificPartnership, diceva ai suoi alleati che la Cina sarebbe diventata l’avvocato difensore del globalismo e del libero mercato. Ma a che prezzo? Il problema, secondo vari report pubblicati nell’ultimo anno, è che l’élite politica europea non considera ancora la Cina come una minaccia, ma semplicemente ne prende il buono sul breve periodo: soldi, investimenti, infrastrutture e tecnologie ad alto tasso di rendimento. Il presidente francese Emmanuel Macron ha detto in passato di essere pronto a creare una «moderna alleanza» tra Pechino e l’Europa, e dopo il suo ultimo viaggio nella capitale cinese il primo ministro inglese Theresa May è tornata a casa con 13 miliardi di dollari in accordi commerciali. Entrambi non hanno mai fatto cenno alla questione dei diritti umani in Cina. A quanto pare, l’unica ad aver posto dei

limiti all’influenza di Pechino per ora sembra essere la Germania di Angela Merkel, pur essendo il maggior partner commerciale dei cinesi in Europa (nel 2017 gli affari totali tra Berlino e Pechino hanno raggiunto i 230 miliardi di dollari). Qualche mese fa, durante un vertice con il primo ministro della Macedonia Zoran Zaev, commentando l’enorme presenza della Cina nella regione dei Balcani la cancelliera tedesca ha detto: «A noi va benissimo che Pechino voglia fare commercio e investire. Quello che mi chiedo è: le questioni economiche nascondono poi delle richieste politiche? Perché questo non sarebbe nello spirito del libero commercio». Il 10 luglio scorso, la Cina ha rilasciato la poetessa e attivista Liu Xia, vedova di Liu Xiaobo, premio Nobel per la Pace morto in regime di detenzione in Cina un anno fa. Entrambi sono due tra i più famosi dissidenti politici cinesi, e da anni l’Occidente si interroga sulla necessità di fare la voce grossa con Pechino per chiederne la liberazione. Secondo vari media, l’unico paese ad aver fatto reali pressioni sulla Cina è stata la Germania, dove Liu Xia è volata non appena ha ricevuto l’autorizzazione a lasciare il Paese. Oggi la Germania

è la casa di numerosi dissidenti ed esuli cinesi. L’influenza di Pechino agisce su vari fronti – sul sistema accademico, su quello del business e dei media. Ai suoi più stretti alleati la Cina chiede di chiudere un occhio sulle violazioni dei diritti umani e sul sistema antidemocratico che decide chi governa. Ma non c’è solo questo: anche la tecnologia cinese è «un pericolo per la sicurezza nazionale», secondo il rapporto del Pentagono, che ha vietato l’acquisto di componenti delle compagnie tecnologiche parastatali cinesi perché potrebbero essere usate per rubare informazioni e spiare. La questione non sembra preoccupare i singoli paesi europei, e da Bruxelles arrivano segnali contrastanti. Su richiesta esplicita di vari funzionari cinesi di formare un fronte comune contro i dazi e il protezionismo americano, l’Europa avrebbe rifiutato. Eppure, la lettera firmata da 27 dei 28 ambasciatori europei a Pechino che chiedeva di controllare e frenare l’espansionismo cinese perché «contrario all’agenda liberale dell’Ue e sposta l’equilibrio del potere a favore di società cinesi sovvenzionate dal governo» è stata pressoché ignorata, sia dalla politica sia dai media.

Trump e Putin durante la conferenza stampa congiunta. (AFP)

Un ordine internazionale sembra sul punto di dissolversi a 70 anni dalla sua fondazione da parte di Franklin Roosevelt, Harry Truman, George Marshall, e una vasta famiglia di leader dell’Europa occidentale di estrazione democristiana, liberale, socialdemocratica. Quel sistema subisce l’attacco concentrico di Trump e Putin ma non solo quello. È minato al suo interno da una profonda crisi di fiducia. Molti americani ed europei, cittadini e leader, sembrano aver perso interesse verso l’integrazione europea, la cooperazione atlantica; ritengono che queste abbiano esaurito la propria funzione storica. Se quest’ordine tramonta, chi ci guadagna, chi vince e chi perde? Trump e Putin hanno piani alternativi? Gli assetti internazionali – alleanze, sistemi di regole condivise – non sono eterni. Pace di Vestfalia, Congresso di Vienna, le coalizioni variabili che cercarono di stabilizzare l’Europa e prevenire l’emergere di una potenza egemone, tutto ha avuto un inizio e una fine. La sensazione che la Nato abbia perso utilità, è evidente nei comportamenti di diversi paesi membri che da anni rifiutano di pagarne i costi. Adesso anche l’America trumpiana, più mercantilista che isolazionista, vede i partner europei come dei parassiti. Gli attacchi senza precedenti di Trump all’Europa «nemica» vengono solo a rafforzare dall’esterno una perdita di coesione e di convinzione. Che vantaggi possono ricavare i due protagonisti del vertice di Helsinki? Putin appare come un sicuro beneficiario della disgregazione a Ovest. Coglie l’occasione della rivincita, dopo aver costruito la sua leadership sulla narrazione di un accerchiamento occidentale. Ha raccontato al suo popolo che da Gorbaciov a Eltsin ci fu un lungo tunnel di umiliazioni, ora la grande Russia si riprende il suo ruolo fra le nazioni, e un rapporto di quasi-parità con l’America. Un concreto recupero d’influenza è già in atto in Medio Oriente e potrà estendersi all’Europa: dove le lobby confindustriali si uniscono ai diversi partiti russofili nel chiedere la fine delle sanzioni. Al momento opportuno Putin potrà rilanciare il suo vecchio progetto di una comunità economica Eurasiatica. L’obiettivo finale è spezzare l’aggancio «innaturale» Ue-Usa, risucchiare l’Europa nel suo alveo naturale: piccola propaggine del continente asiatico. Trump non ha una visione geostrategica. C’è però un elenco di benefici che lo attraggono verso la distruzione dell’atlantismo. Il risparmio sulle spese militari. Il ritorno a un bilateralismo nei rapporti commerciali che esalta il potere contrattuale dell’America. Se si va verso una sorta di G3 Usa-Russia-Cina, un direttorio delle superpotenze potrebbe stabilizzare alcune aree turbolente del globo, evitando all’America oneri e rischi legati al ruolo di gendarme mondiale. Questo scenario però implica la presa d’atto che la leadership americana è in declino e va condivisa; inoltre che gli unici interlocutori efficaci sono regimi autoritari o «democrature» illiberali. Il nuovo ordine sarebbe comunque instabile. Cina e Russia sono «potenze revisioniste»: cioè non accettano lo status quo, vogliono cambiare i rapporti di forze e rivedere le sfere d’influenza.


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Politica e Economia

Ci si muove da sempre, come e perché Fenomeni migratori – Parte prima Nel diciannovesimo secolo e nei primi decenni del ventesimo

un grandioso fenomeno sconvolge due continenti, Europa e Stati Uniti

Alfredo Venturi È l’interfaccia fra miseria e ricchezza, fra sottosviluppo e opulenza, fra aree di crisi e paesi pacifici, fra insicurezza e prospettive di vita, fra demografia galoppante e regresso delle nascite. Il fenomeno delle migrazioni, che da qualche tempo è balzato alla ribalta delle cronache e certamente vi resterà a lungo, attraversa l’intera storia umana. Si migra fin dai tempi più antichi, fin da quando il rapporto fra comunità relativamente ridotte e immensi spazi geografici invitava a percorrere il mondo, a cercarvi il luogo ideale per la vita, la prosperità e il progresso. A volte un impulso religioso imponeva d’inseguire una meta indicata dalla fede; verso la terra promessa muovevano popoli interi che proprio sull’esodo costruivano la loro cultura e il loro destino. Altre volte la migrazione nasceva dall’espulsione di comunità considerate ostili, e quindi protese alla ricerca di approdi sicuri.

Fra gli inneschi dei movimenti di massa vi sono ragioni economiche e contrasti religiosi Il mondo così come lo conosciamo è il risultato di un secolare interscambio di popoli. Non sempre pacifico, si pensi al continente americano nel quale l’irruzione europea, e più tardi l’importazione di milioni di schiavi, hanno travolto le comunità precolombiane creando società nuove. Checché se ne dica le migrazioni di oggi non sono altro che la ricerca, purtroppo caotica e incontrollata, di migliori condizioni di vita, di sicurezza, di libertà. Di fronte a questa realtà la pretesa di chiudere le frontiere, di negare ad altri più favorevoli condizioni di vita, di concentrarsi sulla difesa passiva della propria compattezza etnica, culturale, religiosa, appare in tutta la sua goffaggine. L’articolazione politica del mondo non è che un sistema di vasi comunicanti, e non ci vuole molto a capire quale sia la direzione inevitabile del flusso. Che si deve governare ma che certo non si può impedire. I movimenti di massa presentano varie modalità. Fra quelle classiche è il nomadismo: allevatori che usano il terreno per le loro mandrie e una volta esaurite le risorse vegetali si spostano

alla ricerca di nuovi pascoli. Inevitabile il contrasto con i coltivatori stanziali, che praticano lo sfruttamento stagionale del suolo e dunque si radicano nel territorio e costruendo dimore permanenti inventano il villaggio, embrione della cultura urbana. È stato il primo scontro di civiltà: guerre cruente nacquero dal cortocircuito fra due modi opposti d’intendere il rapporto con la terra. Che sono sopravvissuti fin quasi ai nostri giorni, si pensi alle fence cutting wars negli Stati Uniti durante la corsa all’Ovest, le accese dispute nate dal taglio delle recinzioni che dividevano i terreni destinati al bestiame da quelli coltivati. O a certe lotte africane degenerate fino al genocidio, come quella che oppose nel Ruanda i gruppi tribali hutu, di tradizione contadina, agli allevatori tutsi. Altro storico movimento è l’urbanesimo, il grande travaso degli abitatori delle campagne verso le città, più sicure e più ricche di opportunità. Le città che garantendo protezione e accumulando risorse, sapere e potere proiettano l’umanità verso l’età moderna. È proprio dalla città, centro di scambi e contatti, che la percezione della vastità e varietà del mondo apre scenari nuovi e rivela nuove mete. L’orizzonte si è ampliato e le migrazioni non si dirigono più verso spazi vuoti ma prendono di mira paesi popolati, e così il fenomeno diventa critico dovendo fare i conti con le più disparate reazioni verso i nuovi arrivati. A volte si migra armi in pugno e l’accoglienza non è fra le più tenere, anche se spesso si fanno strada, accanto alla difesa armata, tentativi di cooptazione per assorbire il fenomeno e se possibile trarne vantaggio. È il caso delle invasioni barbariche che tendono a integrarsi, portandovi energie nuove, nelle cadenti strutture dell’impero romano. Nel diciannovesimo secolo e nei primi decenni del ventesimo un grandioso fenomeno sconvolge l’assetto di due continenti. Afflitta da una popolazione crescente e da ricorrenti crisi di produzione agricola l’Europa si riversa nelle Americhe. In una prima fase sono la Germania e i paesi del nord e dell’est ad alimentare la migrazione. In particolare si punta sugli Stati Uniti, dove spazi sconfinati si offrono alla penetrazione verso Ovest, motivata da circostanze che vanno dalla crescente offerta di lavoro legata all’industrializzazione fino alla corsa all’oro in California e Alaska. A metà Ottocento una micidiale carestia riempie l’America di

Benito Mussolini in Libia. (AFP)

immigrati irlandesi altrimenti ridotti alla fame. Più tardi è l’Europa meridionale, particolarmente l’Italia, ad alimentare un costante flusso migratorio verso l’America. Fra il 1910 e la grande guerra la media annua degli arrivi negli Stati Uniti supera il milione di persone, non soltanto provenienti dall’Europa ma anche dall’Asia. Il flusso riprende col dopoguerra fino agli anni Venti, quando viene ridimensionato da politiche restrittive. Ma ormai gli Stati Uniti hanno cambiato faccia, così come l’avevano cambiata nell’era coloniale, quando i primi europei si riversarono negli spazi in cui vivevano di caccia le tribù autoctone. Fu un esempio di colonialismo in senso stretto, volto a trasferire nei territori conquistati parte delle popolazioni conquistatrici. Il fenomeno coloniale è fra i grandi eventi formativi del mondo di oggi. Dietro il paravento della civilizzazione, e persino dell’evangelizzazione, si cercò di risolvere problemi di natura demografica ed economica, legati all’insoddisfacente rapporto fra tassi di natalità e indici dello sviluppo. Nel sentire comune non c’erano obiezioni. In Italia il poeta Giovanni Pascoli celebrò con un famoso discorso («La grande proletaria si è mossa!») la guerra contro l’impero ottomano per la conquista della Libia. Pascoli, che pure aveva una profonda sensibilità sociale, dava voce alle motivazioni del gover-

no di Giovanni Giolitti, che indicava nella «quarta sponda» una valvola di sfogo per l’esuberante demografia, da indirizzarsi non più verso paesi stranieri e talvolta ostili, ma verso territori sotto controllo. In realtà l’auspicato ripopolamento delle colonie, con la sola eccezione della Libia, fu tutto sommato marginale. Questo approccio si differenziò nettamente dalla prima fase del colonialismo italiano, dominata dalla figura di Francesco Crispi e naufragata nella disfatta di Adua, che puntava al prestigio nazionale, e dalla terza fase, quella mussoliniana, che avrà carattere tipicamente imperialista. Carattere comune alle esperienze di altri paesi a cominciare dalle massime potenze coloniali, Gran Bretagna e Francia. Concentrato su politiche di prestigio e sul dominio delle materie prime, l’imperialismo britannico e quello francese ebbero anche esperienze propriamente colonizzatrici con significativi trasferimenti umani: il primo in America e in Oceania, il secondo in alcuni paesi africani e soprattutto in Algeria. Con sviluppi nettamente diversi: mentre la decolonizzazione algerina fu determinata dalla rivolta delle genti autoctone, quella che diede vita agli Stati Uniti fu voluta proprio dai discendenti dei colonizzatori. Dunque soltanto la prima provocò un massiccio movimento migratorio: quasi un milione di

pieds-noirs costretti a lasciare il Paese. Paradossalmente altrettanti algerini muoveranno alla ricerca di lavoro in Francia. Anche i possedimenti spagnoli dell’America Latina avevano ricevuto forti afflussi dalla madrepatria, e anche qui saranno proprio i creoli, discendenti dei colonizzatori, a conquistare l’indipendenza. Fra gli inneschi dei movimenti di massa le ragioni economiche e i contrasti religiosi. Le prime hanno determinato consistenti migrazioni interne in Europa, dove l’industrializzazione aveva rivelato forti scompensi nella reperibilità di manodopera. Di qui i flussi dai paesi del Sud, con destinazioni principali la Germania, la Francia, il Belgio, la Svizzera. Fu invece una motivazione religiosa a produrre nel subcontinente indiano, a partire dal momento dell’indipendenza che lo divideva sulla base della fede, un drammatico scambio di popolazioni. Nel timore di essere perseguitati come minoranza, circa cinque milioni di musulmani lasciarono l’India diretti verso il Pakistan, che all’epoca comprendeva anche il futuro Bangladesh, mentre altrettanti indù compivano il pellegrinaggio inverso. Furono odissee contrassegnate da abusi e atrocità con un bilancio di almeno due milioni di vittime: senza contare il lascito permanente di una reciproca ostilità che porterà i due paesi ripetutamente alla guerra. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Iniziativa per prezzi equi: controprogetto del Consiglio federale Democrazia diretta Nel testo si vuole introdurre il concetto di posizione dominante relativa ed evitare che gli

esportatori esteri continuino ad applicare un «supplemento svizzero», tenendo elevato il livello dei prezzi in Svizzera Ignazio Bonoli Il Consiglio federale ha fatto sapere di voler presentare un controprogetto all’iniziativa popolare «Per prezzi equi». L’iniziativa, lanciata dagli ambienti delle arti e mestieri, promette di trovare un mezzo per combattere la prassi di chiedere, ai ricchi clienti svizzeri, prezzi più alti rispetto a quelli di altri paesi meno ricchi. Scopo dell’iniziativa è quindi anche quello di dare un contributo ad abbattere il mito di «Isola dei prezzi elevati», di cui approfittano soprattutto coloro che esportano prodotti in Svizzera. Come notavamo già in un precedente articolo (vedi «Azione 18» del 30.04.18) gli strumenti per combattere questo fenomeno, nel nostro paese, non sono molti, né molto efficaci. La sorveglianza dei prezzi si limita alle grandi intese cartellistiche che possono dominare il mercato. L’iniziativa vuole proprio estendere questa possibilità, introducendo il concetto di «imprese che hanno una posizione dominante relativa sul mercato». In sostanza si dovrebbero applicare, anche a imprese che hanno una dominazione «relativa» del mercato, criteri quali il rifiuto di fornire prodotti o servizi e la discriminazione nei prezzi. Ora, se già il concetto di «posizione dominante sul mercato» è difficile da stabilire e tan-

to più da applicare, quello di «posizione dominante relativa» presenta sicuramente difficoltà maggiori. Secondo gli iniziativisti, un’azienda ha un effetto dominante relativo sul mercato quando, sia in qualità di fornitore, sia in qualità di cliente, non lascia in pratica la scelta di alternative al partner commerciale. Per cercare di dare migliori possibilità concrete di applicazione all’iniziativa, il Consiglio federale aveva deciso, già lo scorso mese di maggio, di studiare un controprogetto. Quest’ultimo deve contemplare lo scopo essenziale dell’iniziativa, ma applicare l’estensione delle regole solo all’estero. Idea che ovviamente sa molto di discriminazione nei confronti delle aziende estere. Al Consiglio federale è quindi apparso subito che l’applicazione del principio sarebbe stata molto problematica. Ha perciò incaricato il Dipartimento dell’economia di chiarire se questo concetto sarebbe compatibile con il diritto umanitario e soprattutto con le regole dell’Organizzazione del commercio mondiale (WTO). Il Dipartimento dell’economia ha risposto affermativamente a queste domande e ne ha informato il Consiglio federale. È quindi previsto che nel mese di agosto venga preparato un progetto che potrà essere posto in consultazione. Il controprogetto non potrà introdurre un principio generale di non

Il comitato promotore dell’iniziativa (fra cui Fabio Regazzi) mentre porta le firme per l’iniziativa alla Cancelleria federale, nel dicembre 2017. (Keystone)

discriminazione di aziende nazionali o estere, ma dovrà limitarsi soltanto a constatare trattamenti discriminatori da parte di aziende sia nazionali, sia estere. Imprese svizzere con una dominazione relativa del mercato, che vendono all’estero beni e servizi a prezzi inferiori a quelli praticati in patria, verrebbero trattate alla stessa stregua

di aziende estere, che sono obbligate a praticare nei confronti di aziende svizzere le stesse condizioni applicate alle aziende locali. Recentemente, due giuristi hanno confermato che questa regola evita il rischio di un conflitto con le regole del commercio mondiale. Un’affermazione che però non cancella del tutto la sensazione che possa nascere

una sorta di protezionismo nazionale. In pratica, senza una simile eccezione, molte aziende svizzere sarebbero colpite dal provvedimento. Sul piano interno la limitazione potrebbe invece essere un vantaggio. Infatti, si colpirebbero quei fornitori esteri che praticano il cosiddetto «supplemento di prezzo svizzero». Per contro, il controprogetto non prevede regole per combattere la differenziazione dei prezzi nel settore del commercio online. Parecchi consumatori svizzeri hanno già potuto constatare che certe ordinazioni non vengono eseguite, poiché il fornitore non vende in Svizzera, oppure l’ordine viene deviato su un portale svizzero, dal costo superiore. Il Parlamento europeo ha già vietato questo blocco geografico, ma solo all’interno dell’Unione. Anche in Svizzera questo blocco geografico generalizzato è oggetto di discussioni, come prevede anche l’iniziativa. Il Consiglio federale vorrebbe però rinunciare a un simile divieto. Del resto il blocco geografico, tramite accordi tra produttori e commercianti, è già proibito dalla legge sui cartelli. Non lo è però per chi non ha una posizione dominante sul mercato. Da qui l’opportunità di non inserirlo nella legge sui cartelli. L’iniziativa chiede perciò di inserirlo nella legge sulla concorrenza sleale, ma questa legge non tratta di discriminazioni nei prezzi. Annuncio pubblicitario


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Politica e Economia

In pensione gradualmente La consulenza della Banca Migros

Jeannette Schaller

Jeannette Schaller è responsabile della pianificazione finanziaria alla Banca Migros

A partire dai 50 anni d’età molti pensano di ritirarsi dalla vita lavorativa. Ma un pensionamento anticipato è costoso, spesso fin troppo. Un’alternativa potrebbe essere il pensionamento parziale graduale. Le possibilità concrete di organizzazione dipendono dal regolamento della vostra cassa pensioni. Il principio del cosiddetto pensionamento parziale è sempre lo stesso: riducete gradualmente il vostro grado di occupazione e, allo stesso tempo, attingete a scaglioni all’avere di vecchiaia risparmiato, sotto forma di rendita parziale o di capitale parziale. Il grafico mostra un esempio di come questo può apparire nella pratica. L’uscita a tappe dal mondo del lavoro offre diversi vantaggi. Continuate a versare contribuiti alla cassa pensioni in misura proporzionale al reddito da attività lucrativa ridotto e stando assicurati nella cassa pensioni sino al pensionamento ordinario siete assicurati contro decesso e invalidità. E dato che andate avanti ad esercitare parzialmente un’attività lucrativa, beneficiate dell’interessante possibilità fiscale del versamento nel pilastro 3a. Ma i vantaggi fiscali del pensionamento graduale non finiscono qui. Se l’impiegata del nostro esempio

Esempio di pensionamento graduale di un’impiegata Grado di occupazione in %

all’età di 58 anni: riduzione del grado di occupazione da 100 a 70% e prelievo del 30% del capitale di vecchiaia

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all’età di 61 anni: riduzione del grado di occupazione a 50% e prelievo di un ulteriore 30% del capitale di vecchiaia

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all’età di 64 anni: prelievo del restante 50% del capitale di vecchiaia so o forma di rendita

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percepisce le prestazioni della cassa pensioni sotto forma di due o al massimo tre prelievi di capitale, deve pagare imposte nettamente inferiori a quelle che risultano dal versamento unico del capitale di previdenza. Affinché le possibilità di ottimizzazione fiscale non si estendessero a dismisura, le autorità fiscali cantonali hanno stilato condizioni quadro per il pensionamento graduale:

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■ a seconda del cantone, il grado di occupazione e il salario devono essere ridotti di almeno il 20-30% per ogni fase del pensionamento; ■ a seconda del cantone, sono ammessi da due a tre prelievi di capitale parziale che devono avvenire almeno a una distanza di sei-dodici mesi l’uno dall’altro; ■ spesso l’ultima parte dell’avere della cassa pensioni deve essere percepita

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età in anni

sotto forma di rendita; ■ prima della definitiva cessazione dell’attività lucrativa occorre che il grado di occupazione ammonti, a seconda del cantone, ad almeno il 20-30%. A causa della complessità delle regole, il pensionamento graduale deve essere ben pianificato. La Banca Migros sarà lieta di assistervi con consigli personali. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 luglio 2018 • N. 30

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Selezione o non selezione, questo è il problema È appena uscito il terzo rapporto sul sistema educativo svizzero, edito dalla Confederazione e dalla conferenza dei direttori cantonali dell’educazione. Il rapporto sull’educazione esce ogni quattro anni (dal 2010) ed è uno degli strumenti importanti dell’attività di monitoraggio che la politica fa in questo importante settore della sua attività. Informa quindi soprattutto sulle prestazioni del sistema educativo e sui risultati raggiunti dallo stesso. Come si sa, in Svizzera, la responsabilità in materia di educazione appartiene ai Cantoni che la difendono contro ogni tentativo di accentrare competenze da parte della Confederazione. Di conseguenza, è forse troppo grande pretesa voler parlare di un sistema educativo nel caso del nostro paese. Ogni Cantone ha il suo sistema che, per tradizione, o scelta recente, possiede caratteristiche spesso molto diverse

da quelle del sistema del Cantone suo vicino. Il coordinamento da parte della Confederazione si riduce a ben poco. Più efficace è quello che viene fatto all’interno della Conferenza dei direttori cantonali dell’educazione o attraverso accordi intercantonali. Questa situazione può creare qualche problema, soprattutto per quelle famiglie che sono costrette, magari diverse volte nel corso della carriera scolastica dei loro figli, a cambiare Cantone di domicilio. Nel medesimo tempo, però, la presenza di sistemi con caratteristiche diverse consente di comparare e quindi di mettere a fuoco vantaggi e svantaggi di ogni sistema. Una problematica sulla quale si concentra il nuovo rapporto sul sistema educativo è quella della selezione alla fine della scuola elementare o al termine di quella media degli allievi che intendono fare la maturità per poi proseguire

gli studi all’università. Non c’è oggi in Svizzera un Cantone nel quale – come capita in qualche paese scandinavo – il 100% degli allievi termina il suo ciclo di studi, al livello secondario, con la maturità. In ogni Cantone al liceo accede solo una minoranza dell’effettivo di allievi di una determinata annata. In testa alla classifica ci sono Cantoni latini come Ginevra, Vaud e il Ticino che hanno una quota di studenti che accedono ai licei, vicina se non addirittura superiore al 40%. In coda vengono invece Cantoni protestanti, con un passato industriale importante, come Glarona, Appenzello esterno e S. Gallo, che hanno una quota inferiore al 20% perché i loro giovani prediligono l’apprendistato. I redattori del rapporto considerano criticamente le quote di maturandi elevate. Pensano che le stesse vengano ottenute applicando criteri troppo generosi nella valutazio-

ne delle prestazioni degli allievi agli esami. Secondo loro quindi sarebbe più facile accedere al liceo nel Canton Ginevra, o in Ticino, che nel Canton S. Gallo o in quello di Glarona. Siccome i criteri con i quali gli insegnanti valutano le prestazioni degli allievi sono, in parte, soggettivi è inevitabile che nelle valutazioni si manifestino delle differenze. Ma non dovrebbero essere tali da rimettere in discussione la validità della formazione liceale di certi Cantoni. Vi è poi un altro aspetto critico al quale accennano gli autori del rapporto. Essi affermano che la quota degli studenti di un Cantone, che abbandonano gli studi universitari prima di terminarli, è tanto più grande quanto più elevata è la quota di allievi che vengono ammessi al liceo in quel Cantone. In altre parole: la conseguenza di criteri di selezione dei liceali blandi è una quota elevata di studenti che

non terminano gli studi universitari. Esiti di questo tipo, naturalmente, non li desidera nessuno. Non solo perché sono all’origine di molti drammi personali, ma anche perché determinano investimenti di risorse inutili per le famiglie e per i Cantoni. Secondo noi la soluzione di questo problema consisterebbe nell’equiparazione dei criteri di selezione al momento in cui si effettua la transizione verso il liceo. Non dovrebbe essere impossibile avvicinare i criteri di selezione dei Cantoni latini a quelli dei Cantoni protestanti di vecchia tradizione industriale anche se, nella scuola, la tradizione ha certamente il suo peso. Politicamente parlando questa soluzione sarebbe di sicuro più semplice che quella di introdurre una quota di maturandi valida per tutti i Cantoni come vorrebbe fare qualche partigiano della selezione obbligatoria.

del denominatore di questa operazione: crescete così tanto, voi potenze europee (la Germania in particolare), eppure pensate che sia sempre l’America a dover fare da scudo a qualsiasi problema, che sia militare e che sia commerciale. Il problema per Trump è tutto qui: l’Europa, come il Canada, approfitta della generosità americana, e non dà nulla in cambio, soprattutto in termini di scambi. Le trade wars, che sono guerre complicate dall’esito incerto, sono le uniche cause per cui Trump è disposto un po’ a tutto. La tappa londinese in questo senso è stata emblematica. Il presidente americano ha rilasciato un’intervista durissima al «Sun», il tabloid più letto del Regno Unito, in cui diceva: ho detto alla premier, Theresa May, che avrebbe dovuto gestire la Brexit in un altro modo, lei ha fatto di testa sua, e ora la volontà popolare rischia di non essere più rappresentata (ha anche

strizzato l’occhio all’amico Boris Johnson, affronto massimo per la May). Poi Trump si è rimangiato tutto, in conferenza stampa con la May si è scusato, ha detto di essere stato malinterpretato, ma ha aggiunto: «Qualsiasi Brexit a noi va bene, basta che restino gli scambi commerciali». La proposta del governo May è per i falchi delle guerre commerciali un grave ostacolo: se si replicano le stesse regole esistenti oggi tra Regno Unito e mercato unico europeo – questa è in sintesi l’area di libero scambio che Londra vorrebbe instaurare con il continente – vuol dire che anche i dazi saranno inflitti al Regno, come già accade ora. Washington vuole Londra libera dai legami europei per poter creare un accordo bilaterale vantaggioso per entrambi: se Londra resta impigliata nei regolamenti europei, il piano potrebbe non realizzarsi più. Quindi Trump è per la Brexit più hard possibile ed è arrivato a dire alla May – come lei

ha confessato quando ormai il presidente era ripartito – di «denunciare» l’Unione europea, in modo da sminuire le pretese di Bruxelles. Il commercio è per Trump determinante. Poi c’è il lato più ideologico, questo sì di un sovranismo purissimo, in stile Steve Bannon, l’ex guru della Casa Bianca che sta federando i movimenti nazionalisti in Ue: è la retorica sull’immigrazione. Nonostante il tema sia delicato in America per via delle separazioni dei minori dai genitori al confine con il Messico, Trump ha più volte detto agli europei, durante il viaggio, di «stare attenti», perché la più grande sfida è l’immigrazione e bene fanno i paesi che chiudono porti e frontiere: chi accoglie ha dato il via a una trasformazione culturale dell’Europa che cambierà per sempre il continente. La chiusura delle frontiere, come si sa, è una condanna per il progetto europeo: è per questo che sta tanto a cuore al Trump antieuropeo.

cantoni dopo la guerra civile (detta del «Sonderbund») del 1847. Con quella carta, approvata il 12 settembre, vedeva dunque la luce la «Svizzera moderna», una federazione d’ispirazione radicale che garantiva a tutti gli svizzeri l’uguaglianza dinanzi alla legge: «nella Svizzera non vi ha sudditanza di sorta, non privilegio di luogo, di nascita, di famiglia o di persona». Sarebbe dunque più opportuno festeggiare il 1848 anziché il 1291? La proposta è stata avanzata più volte negli ultimi anni. A prima vista potrebbe funzionare, dato che la carta parla di «unità, forza e onore della Nazione Svizzera». Di fatto bisognerebbe dimenticare o sottacere che quella Costituzione nasceva da un dissidio intestino segnato da profonde divisioni religiose (cattolici/protestanti) e che apriva la porta alla lunga stagione del radicalismo («Freisinn»), un regime monocolore le cui ambizioni egemoniche iniziarono a declinare soltanto verso la fine dell’Ottocento, a fronte delle resistenze prima dei cattolici e poi dei socialisti. Pare arduo, insomma, scovare una data che possa mettere d’accordo tutti, i

fondatori («paesi forestali») con territori assoggettati per secoli (tra cui il Ticino), i vincitori della guerra del Sonderbund con gli sconfitti. A dir la verità una ricorrenza in grado di raccogliere un largo consenso ci sarebbe: il 1948, anno in cui entra in vigore l’Assicurazione vecchiaia e superstiti, la benemerita Avs, approvata l’anno prima con percentuali altissime: 80% di sì sul piano nazionale, addirittura il 90,6% in Ticino. Un’adesione corale che introduceva anche in Svizzera l’architettura del «welfare», le cui basi erano già state poste nel periodo interbellico. Certo è quasi impossibile combattere i miti sedimentati nei secoli: il 1291, con le suggestioni che trasmette, l’aura che l’avvolge, le emozioni che accende, appare irremovibile dall’inconscio collettivo. Tuttavia l’Avs rimane una colonna della nostra legislazione sociale, un’istituzione che ha impedito, e tuttora impedisce, a molte famiglie di cadere nello stato d’indigenza. Il paese saprebbe oggi darsi un meccanismo analogo? L’interrogativo è lecito, visti i tempi che corrono, non certo propizi alla riforma e al rilancio dell’edificio sociale.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Trump antieuropeo È passato Donald Trump in Europa e ci si guarda ancora intorno per vedere che cosa è rimasto in piedi. Il presidente americano parla, smentisce, riparla: è difficile stargli dietro, il racconto di questa stagione geopolitica procede per scossoni, contraddizioni, grandissimi malumori. Però i pezzetti disseminati da questo Pollicino irruente alla fine riconducono a un punto fermo: l’America di oggi punta a destabilizzare l’Europa. Trump ha definito gli alleati europei dei «nemici», ha accusato direttamente la Germania, che dell’Unione europea è regina, di vivere e prosperare con immense ipocrisie nei confronti della Russia – il tic antitedesco in Europa funziona molto bene, e il presidente americano lo sa bene – e si è saputo anche che, durante l’incontro a Washington a fine aprile, Trump aveva cercato di convincere il presidente francese Emmanuel Macron a lasciare l’Europa, da soli è tutto più

semplice. Se si guarda l’esito del vertice della Nato, che era il motivo per cui il presidente è arrivato a Bruxelles, non si rileva tanta inimicizia, anzi: i paesi membri dell’Alleanza hanno scritto un comunicato congiunto molto duro nei confronti della Russia, minaccia comune. Nel comunicato non c’è nemmeno la questione economica: si chiede, come accade ormai dall’inizio degli anni Duemila, che tutti i paesi membri facciano la loro parte destinando il 2 per cento del proprio pil alla difesa entro il 2024. La Nato non sta venendo giù, come è parso prima dell’incontro, spesso durante, perché la questione militare interessa a Trump fintanto che è legata a quella commerciale: quando l’Amministrazione americana ha fatto sapere che la percentuale da destinare alla difesa dovrebbe essere al 4 per cento, e anzi, questo è quel che da oggi pretende Washington – anche se il documento non lo prevede – ha parlato

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Un primo agosto in onore dell’Avs Partito il tifoso, è tornato il patriota. Battuta nel calcio, la Svizzera rimane saldamente ancorata ai suoi princìpi repubblicani, con un occhio all’imminente Natale della Patria. Per questo la bandiera rossocrociata è rimasta a garrire sui balconi, a ribadire una fedeltà che nessuna sconfitta sportiva potrà mai scalfire. Il pallone passa, l’amor patrio resta. Il primo agosto è il giorno delle «allocuzioni». Per la fausta occasione i politici salgono sul podio per ricordare alla cittadinanza come nacque la Confederazione. Quest’anno, c’è da scommetterci, molti metteranno l’accento sul fattore «sovranità», appoggiandosi al celebre passaggio del Patto del 1291, là dove si dice che «ognuno deve pure obbedire al suo giudice e, se necessario, indicare quale sia nella valle il giudice sotto la cui giurisdizione egli si trova». Facile e immediato l’aggancio con l’iniziativa per l’autodeterminazione («il diritto svizzero anziché giudici stranieri») in votazione il prossimo 25 novembre. La pergamena del 1291, redatta in latino, è considerata la pietra angolare della Confederazione. A quest’atto fondativo

si fa risalire la «nascita della Svizzera». In realtà fino al Settecento faceva stato un altro documento, datato 1307 e registrato dallo storico glaronese Aegidius Tschudi nella sua opera del XVI secolo Chronicon Helveticum. L’autore l’aveva associata, ma senza apportare prove documentali, alle imprese di Tell e al

giuramento sul Grütli. Una data cara soprattutto agli urani: infatti il monumento dedicato all’eroe nazionale ed eretto sulla piazza di Altdorf nel 1895 (nella foto Keystone) reca inciso sullo zoccolo l’anno 1307 e non il 1291. La storia pullula d’incongruenze e quella svizzera non fa eccezione. Sull’autenticità della pergamena del 1291 storici, archivisti e scienziati dei materiali ancora litigano. Tutti invece concordano sulla non-eccezionalità dello scritto, dato che nel Medioevo questi patti, frutto di alleanze difensive, erano numerosi, sia nelle città che nelle campagne. Il concetto di «libertà» riguardava le comunità, non certo la singola persona: è solo dopo la Rivoluzione francese che si inizia a porre al centro l’individuo, il cittadino con i suoi diritti e doveri. Non è quindi corretto tracciare una linea continua tra il 1291 e i nostri giorni, come se nel campo della democrazia, delle istituzioni, dei sistemi giuridici e costituzionali non fossero intervenuti mutamenti sostanziali. Uno di questi si produsse nel 1848, con il varo della nuova Costituzione, sigillo di una ritrovata unità tra ventidue


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 luglio 2018 • N. 30

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Cultura e Spettacoli Lontano dagli schemi Il cantante francese Eddy de Pretto sfugge a qualsiasi categorizzazione

Il mestiere del fotografo Da molti anni e nonostante la grande esperienza, Alberto Flammer sperimenta con diverse tecniche – ora le sue opere sono celebrate in una mostra pagina 27

Volere volare Non solo Icaro ci ha provato: la storia è infatti piena di esempi (veri e fasulli) di uomini che hanno sfidato la forza di gravità – ce ne parla un libro pagina 28

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Il museo delle ossessioni

Mostre Harald Szeemann alla Kunsthalle

di Berna

Gianluigi Bellei La Kunsthalle di Berna compie cento anni. In occasione di questa ricorrenza ha organizzato un’esposizione dedicata al suo più celebre direttore: Harald Szeemann. Una circostanza unica per vedere i documenti del suo archivio e ripercorrerne le tappe della carriera. Ricordiamo che nel 2011 il Getty Research Institute (GRI) di Los Angeles ha acquisito l’immenso materiale che Szeemann aveva accumulato e che si trovava, in un disordine/ordinato, nella Fabbrica Rosa di Tegna dove lavorava. Qualcosa come 22’000 dossier di artisti, 50’000 fotografie e 25’000 volumi. Il GRI cataloga tutta la documentazione e la mette a disposizione dei ricercatori. Poi è nata l’idea di creare una mostra con una piccolissima parte del materiale che ripercorresse le tappe del suo pensiero e della sua vita. Nel febbraio di quest’anno nelle sale del GRI sono stati presentati Harald Szeemann – Museum of Obsessions e Grandfather: A Pioneer Like Us. L’esposizione giunge ora a Berna suddivisa in due sedi: Harald Szeemann – Museum der Obsessionen alla Kunsthalle e Grossvater: Ein Pionier wie wir nel suo appartamento in Gerechtigkeitsgasse. Sarà poi ripresentata alla Kunsthalle di Düsseldorf, al Castello di Rivoli a Torino e, infine, allo Swiss Institute di New York. Szeemann (1933-2005) è noto come uno dei più importanti curatori e innovatori nel settore dell’arte. Il suo pensiero e la sua metodologia sono oramai sulla bocca di tutti e chiunque voglia realizzare qualcosa lo cita come modello. Ci si dimentica dello scetticismo e delle proteste contro di lui, soprattutto per la sua mostra più citata e osannata: When Attitudes Become Form del 1969. In quell’occasione per protesta contro alcune opere – quelle di Michael Heizer, che aveva distrutto il marciapiede davanti alla Kunsthalle e di Lawrence Weiner che aveva raschiato l’intonaco di una parete – i bernesi avevano portato una tonnellata di concime davanti al museo e i politici iniziarono «a dire che bisognava mandare via il direttore». Alcuni curatori possono vantarsi di essere i suoi eredi. Fra questi Hans Ulrich Obrist, Maria Lind, Nicolas Bourriaud e Jérôme Sans, Vasiv Kortun, Maria Hlavajova, Jens Hoffmann. Ma in cosa consiste l’innovazione curatoriale di Szeemann? Citiamo, dal libro di Ambra Stazzone

a lui dedicato, gli aspetti principali: la storia degli stili sostituita dalla storia delle ossessioni con artisti sia insider che outsider; il museo non come luogo di conservazione ma come laboratorio; la mostra come mezzo di espressione autonomo, intesa come evento e non come semplice presentazione delle opere; infine una condizione di comunicazione visiva che suggerisca un atteggiamento attivo da parte del visitatore. Szeemann viene chiamato a dirigere la Kunsthalle nel 1961 all’età di 28 anni. Vi rimarrà per 8 anni e mezzo. Trasforma questo piccolo museo in una vetrina d’arte internazionale con 50 esposizioni che spaziano dall’art brut a quella cinetica, dal Surrealismo a Kazimir Malevič, da Marcel Duchamp a Robert Rauschenberg. Collabora con la Kunsthalle di Berna, il Moderna Museet di Stoccolma, allora diretto da Pontus Hulten, e soprattutto con lo Stedelijk Museum di Amsterdam il quale lo aiuta per i trasporti dei lavori dagli Stati Uniti ad Amsterdam, che per lo Stedelijk erano gratis. Nel 1961 propone Puppen – Marionetten – Schattenspiele una mostra sull’arte asiatica e parallelamente su quella sperimentale; Kunst aus Tibet l’anno successivo e Weiss auf Weiss nel 1966 con trecento lavori tutti di colore bianco. Poi nel 1968 con 12 Environments Szeemann invita Christo a impacchettare la Kunsthalle che diventa così un’opera d’arte. Oggi nella parete di fronte all’entrata sono esposti i manifesti delle varie mostre. Infine la svolta con When Attitudes Become Form (Quando le attitudini diventano forma). Ne abbiamo già scritto in occasione della sua ricostruzione curata da Germano Celant alla Fondazione Prada di Venezia nel 2013 («Azione», 22 luglio 2013). Un’esposizione scandalosa, tentacolare, incredibile che mette in scena i giovani artisti delle nuove tendenze americane ed europee. La mostra odierna propone i disegni preparatori del manifesto, il catalogo, alcune lettere e immagini delle opere. Dopo le aspre polemiche Szeemann decide di dare le dimissioni e diventa di fatto un conservatore indipendente. Fonda la sua «Agentur für geistige Gastarbeit». Questa «Agenzia per il lavoro spirituale all’estero» nasce dopo il ’68 e il movimento svizzero contro gli stranieri. Szeemann è figlio di emigrati ungheresi e nel 1974 dedica una mostra al nonno Étienne, Grossvater: Ein Pionier wie wir (Nonno: un pioniere come noi).

Harald Szeemann, Museum der Obsessionen, Kunsthalle Berna, 2018, veduta di un’installazione.

Nella sua casa con i suoi oggetti, i suoi strumenti da parrucchiere, le immagini che collezionava. Seguono progetti come quello dedicato all’Happening & Fluxus del 1970, con lavori di catalogazione storica, performance e manifesti. In questo caso è l’opera di Wolf Vostell, con una mucca incinta, che provoca proteste e l’intervento della polizia. In una bacheca possiamo leggere la lettera di reazione da parte di Szeemann e degli altri artisti contro la censura, poi disegni e fotografie. Seguono Documenta 5 a Kassel nel 1972 con più di 200 artisti che coprono una serie impressionante di pratiche estetiche, dal video alla performance, dalle utopie architettoniche all’art brut, con accanto le critiche di Daniel Buren, riportate in catalogo, che scrive: «Il soggetto di un’esposizione tende gradualmente a non essere più il soggetto di un’esposizione di opere d’arte, ma l’esposizione dell’esposizione come opera d’arte».

Documentate nelle sale sottostanti la Kunsthalle le sue visioni e le utopie che tanto amava: dalla patafisica all’anarchismo, all’interesse per i malati mentali. Fino a Monte Verità con l’esposizione del 1978 e Der Hang zum Gesamtkunstwerk – Europäische Utopien seit 1800 (L’aspirazione all’opera d’arte totale – Utopie europee dal 1800). L’arte totale, insomma – incarnata da Richard Wagner e Joseph Beuys – con opere di John Cage, Vasilij Kandinskij accanto a quelle di Armand Schulthess e di Ferdinand Cheval con il suo Palazzo ideale, del quale lo stesso Szeemann fa costruire la maquette: un misto fra occidente e oriente. Manca la documentazione relativa alle direzioni delle Biennali d’arte di Venezia del 1999 e del 2001. Szeemann sapeva come «governare il caos» e sapeva anche come gestire la vita e mostrarla agli altri, anche se a volte non è stato valorizzato. Soprattutto in Ticino dove abitava e dove,

probabilmente, si sentiva un po’ straniero nonostante il periodo di insegnamento all’Università di Mendrisio negli ultimi anni. Ricordiamo, però, la sua adesione al manifesto degli «Artisti per la pace», gruppo nato in Ticino nel 2002 in opposizione alla Guerra in Iraq, e soprattutto il suo scritto redatto per l’occasione che termina così: «Allora Bush dovrebbe essere all’Aja accanto a Slobo… e così via… Sharon, Saddam, Guantanamo, dov’è la differenza?». Una mostra, questa di Berna, documentaria, certo non facile, e destinata probabilmente a un pubblico curioso e già informato, ma da vedere. Dove e quando

Museum der Obsessionen. A cura di Glenn Phillips e Philipp Kaiser. Kunsthalle, Berna. Grossvater: Ein Pionier wie wir. Gerechtigkeitsgasse 74, Berna. Fino al 2 settembre. www.kunsthalle-bern.ch


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Cultura e Spettacoli

Eddy de Pretto, contro ogni conformismo Musica L’artista francese sembra impegnarsi a fondo al fine di sfuggire

a qualsiasi definizione ed etichetta

Muriel Del Don Chi è Eddy de Pretto, il giovane musicista francese che ha fatto del «no gender» il suo cavallo di battaglia? Inclassificabile, de Pretto adora confondere le piste rifiutando di definirsi e di definire la sua musica in base a uno schema binario di genere (donna/uomo). Scoperto ai Printemps de Bourges, la sua personalità atipica e misteriosa e le sue esibizioni sceniche di una potenza minimale destabilizzante (un batterista e il suo iPhone come soli compagni) lo stanno portando lontano, molto lontano. De Pretto fa parte di una nuova generazione di musicisti francesi che ha deciso di rompere con la tradizione. Juliette Armanet, Lescop, La femme, Flavien Berger o ancora Agar Agar, Camp Claude, Rover e Bagarre, ecco alcuni nomi di quella che potremmo definire come la «nouvelle vague» della musica francese. Poco importa la nazionalità e poco importa pure la lingua (francese, inglese, spagnolo o ancora turco), quello che conta è l’immediatezza della musica, la ruvida melodia delle strofe, gridate, sussurrate o letteralmente stravolte. Malgrado i suoi testi siano rigorosamente in francese (lingua che de Pretto ha scelto sicuramente più per la sua musicalità che per sciovinismo), la musica del nostro poeta urbano ha una portata universale che si traduce in ritmi ipnotici e ripetitivi, avvinghiati ad una voce tagliente dall’inconfondibile accento parigino. Nel suo EP Kid, uscito ad ottobre del 2017, de Pretto si confronta con onestà a problematiche che lo toccano da vicino: la dissolutezza della gioventù, la sessualità, la virilità (legata ai cliché machisti) e la difficile ricerca di un’identità propria al di fuori degli schemi socialmente imposti. Come ha confidato all’HuffPost «spes-

so sono stato zitto, soprattutto a scuola per nascondermi e non assumere quello che ero, per cercare in un certo modo di conformarmi. A casa potevo giocare con le macchine e Action-Man ma anche con le bambole e cantare le canzoni delle Spice Girls. Quando esci per strada non sono però delle cose che metti in avanti». De Pretto nelle sue canzoni non descrive di certo la Francia idealizzata tanto cara al Front National, quello che cerca è piuttosto il contatto diretto con la realtà, una realtà al contempo estremamente personale e decisamente universale. Cresciuto alla periferia di Parigi nel quartiere popolare di Créteil e dichiaratamente omosessuale, de Pretto non fa certo parte di quella gioventù dorata a cui il futuro non può che sorridere. I suoi testi stravolgono la Parigi da cartolina rimpiazzando la Tour Eiffel con i palazzoni delle banlieues. La società nella quale è cresciuto valorizza «l’uomo vero», quello che sa imporsi con la forza, quello che non cede ai sentimentalismi. Cosa fare quando non si è conformi alla «norma»? Questa pressione sociale, l’impossibilità di mostrare la propria vera identità è descritta con coraggio nel suo cavallo di battaglia Kid e più in generale nel suo primo album Cure (uscito in marzo di quest’anno). In linea con la sua personalità fuori dagli schemi, le influenze di de Pretto sono molteplici e sorprendenti. Se da un lato la sua vena hip hop è riconducibile ad artisti ascoltati da teenager quali Booba, Diam’s, e più recentemente Frank Ocean, XXXTentation o Damso, le melodie che accompagnano i suoi testi sono influenzate da personalità quali Jacques Brel, Claude Nougaro o ancora Edith Piaf (che sua madre ascoltava continuamente). Insomma, il nostro musicista di Créteil non si pone

Eddy de Pretto in un’immagine recente. (Keystone)

alcun limite per quanto riguarda i gusti musicali. Grazie alla sua attitudine da voyou moderno e alla sua gueule decisamente atipica, de Pretto è il degno erede di musicisti emblematici della controcultura francese quali Daniel Darc (Taxi Girl) o Philippe Pascal (Marquis de Sade). Come i suoi predecessori, quello che cerca non è certo il consenso ma piuttosto una comunicazione diretta e sincera con una gioventù della quale fa parte, nel bene e nel male. I clip che accompagnano i suoi brani sono in sintonia perfetta con il suo look, miscela tanto improbabile quanto seducente di dolcevita preppy e tute da ginnastica Lacoste e con la «multidisciplinarietà» propria della sua generazione. In Kid il nostro interprete di Créteil è filmato in penombra, in quella che sembra essere una palestra. Il sudore cola dal suo torso nudo e depilato in una scena che assomiglia a una parodia di James Bond versione homoerotic. La posa da macho che assume, associata alla sua pelle dia-

fana e lentigginosa, mette in evidenza il ridicolo della situazione, amplifica l’assurdità dei cliché di genere. De Pretto gioca con le stesse armi che l’hanno ferito e lo fa con grande godimento (suo ma anche nostro). Gli stereotipi legati a quella che comunemente chiamiamo «mascolinità» sono mostrati in tutto il loro grottesco splendore. E il risultato è decisamente all’altezza delle aspettative: De Pretto, come molti altri suoi colleghi (Robbing Millions, Le Colisée o Salut c’est cool) controlla il suo «personaggio» fino alla punta dei capelli (rigorosamente pettinati con un sublime bowl cut). Niente è lasciato al caso, in una ricerca costante di autenticità e sovversione. La musica diventa per il nostro kid parigino lo strumento ideale per mostrare al mondo quello che è veramente e poco importa se non piace a tutti. La musica è anche e soprattutto questo, uno schiaffo in pieno viso, un «douleur exquise» che vorremmo non finisse mai.

Riconoscimenti Il Premio Satira Politica di Forte dei Marmi, creato nel 1973,

quest’anno è stato assegnato al bravo vignettista Vincino

Prendersi in giro, esercitando l’ironia e il sarcasmo su se stessi, e immediate vicinanze, cioè famiglia e patria, non è una prerogativa spiccatamente italiana, ma lo sta diventando. Quando nel 1973, fu assegnato per la prima volta il Premio Satira Politica di Forte dei Marmi, il fatto incuriosì l’inviato del «Times», Peter Nichols, dichiaratamente scettico sul futuro di un’iniziativa cui mancava il retroterra adeguato. Anche sul «Corriere della sera», Giampaolo Pansa dubitava che l’Italia sapesse ridere di se stessa. Previsioni e pregiudizi smentiti proprio dal crescente prestigio di una manifestazione che, l’8 luglio scorso, ha attribuito, per la 46esima volta, il suo ormai ambitissimo premio a Vincino, vignettista tutto particolare. Non a caso, dopo un percorso politico e professionale a zig zag , fra ideologie e testate contrastanti, è approdato al «Foglio» di Giuliano Ferrara, che ne apprezza appunto la complessità di «aristocratico, svagato, estremista, cedevole…» Insomma, le caratteristiche di uno che fa «quel che gli pare». A suo rischio e pericolo. In effetti, anche dal profilo creativo, il linguaggio grafico di Vincino, che associa figure e parole in un intreccio ingarbugliato, può sconcertare. Come, del resto, sconcerta un’esperienza di vita scombussolata, che emerge dall’au-

L’autobiografia di Vincino.

tobiografia, pubblicata in occasione del premio. Dal titolo depistante: Mi chiamavano Togliatti… (edizioni UTET). Ma l’autore chiarisce subito l’equivoco. In realtà, da piccolo, odiava Togliatti: «Siccome avevo il naso buffo e gli occhialini tondi, a scuola i compagni mi chiamavano Togliatti.» Quel nome, del resto, stava diventando scomodo. Si era nel 1956, i carri armati sovietici avevano soffocato la rivolta di Budapest e il Pci ne subì i contraccolpi. Nasceva una nuova stagione politica, all’insegna

Netflix

I sopravvissuti, il punto di non ritorno, la forza della solidarietà Alessandro Panelli

La satira come rifugio dai guai Luciana Caglio

Parigi sotto attacco

della contestazione e della ribellione. E Vincino, classe 1946, aveva inevitabilmente respirato quell’aria dissacrante, che caratterizzò un’intera generazione. Figlio di una famiglia dell’alta borghesia palermitana, non tradì le sue origini. Seguì, agli inizi, un itinerario tradizionale, frequentando la facoltà di architettura, dove si laureò «con il minimo dei voti», ma allenò il suo precoce talento per il disegno. Che poi diventò l’obiettivo di una carriera sul piano nazionale, a contatto con gli esponenti di una cultura in pieno rinnovamento. Cadevano le barriere dei generi, e, sotto l’etichetta dell’impegno politico, scrittori, registi, attori e artisti riscoprivano anche la satira come strumento di lotta contro l’establishment. Ma non soltanto. Si tratta, infatti, di dare spazio e prestigio a una forma espressiva d’impareggiabile efficacia, sinonimo di sintesi. Con una vignetta, si definisce una situazione complessa. Con una battuta, si riassume un lungo discorso. Ma bisogna saperci fare, sviluppando capacità specifiche: una manualità che traduce l’osservazione in pensiero. Fa opinione. Vincino impara il mestiere, rifacendosi a esempi storici, che non mancano, anche in Italia. A cominciare da «L’Asino», fondato, a Roma, nel 1892, nell’era Giolitti, agli albori della democrazia, e soppresso nel 1923, nell’era Mussolini, agli albori della dittatura.

Come dire, la satira chiede libertà e indipendenza dal potere. Tira proprio quest’aria, negli anni 70, quando nasce il settimanale satirico più rappresentativo del momento: «Il Male», creato dai disegnatori Pino Zac e Vauro, dallo scrittore Sergio Saviano e poi diretto da Vincino. Ottiene un successo imprevedibile, lanciando «fake news» assurde: «Arrestato Ugo Tognazzi, capo delle BR» o «Lo Stato si è estinto», firmato da un falso Eugenio Scalfari o, ancora, sotto una finta testata della «Gazzetta dello sport» la notizia: «Mondiali annullati!» I calciatori olandesi erano dopati. Insomma, con la satira si denunciano scandali veri e ci si diverte a inventarne. Sono le due facciate di quest’arte. Ora, l’esperienza di Vincino e, più in generale, la popolarità e l’autorevolezza conquistate da vignettisti e comici dovevano rivelare un nuovo aspetto della creatività italiana, o meglio del modo d’intendere l’italianità. Il successo di Forattini, Giannelli, Giannini, sulle pagine dei quotidiani, e di Begnini, Crozza, Gene Gnocchi, e tanti altri, confermano una disponibilità all’ironia, anzi all’autoironia, che è un buon indizio, dal profilo umano: l’ammirevole virtù di non prendere tutto sul serio, di considerarsi i primi e i migliori. D’altro canto, però, la risata potrebbe essere la risposta ai guai, un rifugio consolatorio, quando tutto va a rotoli.

Netflix affida il timone ai fratelli Gédéon e Jules Naudet per la realizzazione dell’affascinante documentario che narra le vicende dei sopravvissuti alla strage terroristica del 13 novembre 2015 a Parigi. L’opera è divisa in tre episodi dalla lunghezza di un’ora circa. Il primo capitolo si apre con le parole di uno speaker radiofonico che introduce quello che apparentemente è un soleggiato venerdì mattina qualsiasi. Interessante è il modo in cui il documentario accentua il sentimento di beatitudine di cui Parigi era permeata poco prima dei fatti: una sensazione di spensieratezza, ove gli abitanti pensavano solamente al divertimento dopo una settimana di lavoro. Si è inondati dalle emozioni positive, quasi si trattasse dell’ultimo respiro prima di entrare nell’abisso della tragedia. Il primo episodio si focalizza sulla partita di calcio fra Francia e Germania allo Stade de France, mettendo in evidenza lo stato d’animo degli spettatori e degli addetti alla sicurezza prima dell’attentato raccontato attraverso le loro testimonianze. Improvvisamente dallo stadio si sente la prima esplosione, proveniente da un bar appena fuori, cui seguono le prime drammatiche dichiarazioni da parte di un uomo che per miracolo ha ritrovato sano e salvo il figlio. Poi il documentario sposta l’attenzione sui caffé francesi poco prima che venissero colpiti dagli attentati. La formula adottata è sempre la medesima: preludio iniziale sulla serenità delle persone prima della tragedia e l’impatto che quest’ultima ha sulle loro vite. È un tipo di narrativa molto funzionale, lo spettatore si immedesima nelle testimonianze sincere, mai caricaturali e sempre differenti da un sopravvissuto all’altro. Si ha la possibilità di entrare nell’ottica degli attentati, in modo diretto e confidenziale, come se si stesse parlando personalmente con i superstiti. Il vero momento di commozione e terrore lo si prova negli episodi che si concentrano sull’attentato al Bataclan durante un concerto. I registi si affidano qui ad una decina di testimoni, che raccontano l’incubo tra platea e balconate, paragonandolo all’inferno di Dante, focalizzandosi su suoni, odori e visioni: dal silenzio inverosimile tra una scarica e l’altra dei Kalashnikov, all’odore della polvere da sparo e del sangue che infiamma le narici penetrando per sempre nel ricordo dei sopravvissuti, alla visione finale dei cadaveri impilati l’uno sopra l’altro. Ed è proprio in queste situazioni di fragilità umana che emerge il pensiero di considerare veramente la vita di chi ti sta attorno. Nella serie a ricordarcelo ci sono quelle centinaia di telefoni che squillano, alla disperata ricerca di chi spesso non c’è più.


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Cultura e Spettacoli

Quando la copertina è un’opera d’arte

Non sempre bisogna fare clic Mostre A Intragna gli ultimi sorprendenti

CD Due produzioni musicali che puntano anche sull’originalità

lavori di Alberto Flammer

Alessandro Zanoli

Giovanni Medolago

Le statistiche predicono, irrevocabile, il declino del Compact Disc. Eppure ci sono musicisti che sembrano volersi opporre alla tendenza generale. E, anzi, per valorizzare il contenuto delle loro opere puntano a rendere la loro stessa copertina un oggetto d’arte. Ecco due esempi usciti di recente alle nostre latitudini. Sergio Fabian Lavia è un chitarrista di origine italiana, nato a Buenos Aires. Da diversi anni è docente al Conservatorio di Lugano. E come molti suoi colleghi conduce parallelamente una sua carriera concertistica indipendente, lungo un percorso di ricerca molto impegnato e concreto. Nella doppia veste di compositore e di esecutore ha realizzato fino ad oggi numerosi album. Il più recente, Saudalgia (Sinfonica SCD-025, 2018) concretizza un’operazione ambiziosa. È contenuto infatti in un lussuoso volumetto in carta patinata che ospita la versione in CD e quella in DVD dell’opera. Il libro, poi, è illustrato con riproduzioni fotografiche di dipinti dello stesso Lavia e contiene testi poetici ispirati dalle varie tracce. Oltre a ciò, 21 delle sue pagine contengono la trascrizione completa del primo brano, Saudalgia I. Il disco insomma possiede un intento editoriale multimediale, racchiudendo in sé oltre alla musica (nei suoi aspetti acustici e in quelli, diremmo, stenografici, della partitura), la pittura, la poesia e la sperimentazione video. La confezione accurata, in altre parole, ci aiuta a entrare gradualmente in un universo sonoro personalissimo, e ad abbracciarlo nella sua profonda complessità. E se «l’aria del tempo» mediatizzato invita le band a pubblicizzare il più possibile le loro doti, esistono anche gruppi che vivono la propria carriera artistica con umiltà e quasi con timidezza. Uno dei gruppi meno conosciuti del cantone, ma non dei meno dotati, è sicuramente quello composto da Franco Mondia e da Antonio Lo Menzo. Un duo a geometria variabile, in realtà, perché si accompagna di volta in volta a esecutori di ottimo calibro, come il contrabbassista e fisarmonicista Peter Zemp. Il nucleo musicale è affidato alle chitarre dei due membri originari. La loro formazione non possiede un nome vero e proprio ma assume di volta in volta una fisionomia legata alle produzioni discografiche messe in cantiere. Sono dischi

Fare clic senza poter vedere subito il risultato sembra sia il vero incubo dei nativi digitali, migliaia dei quali trasformatisi improvvisamente in fotografi – sovente compulsivi – da quando lo smartphone permette loro di scattare foto à gogo. Probabilmente ignorano (beata gioventù!) che per oltre un secolo la fotografia si è basata sulla sperimentazione e la perseveranza, per non dire sulla pazienza; e che i frutti migliori si coglievano solo dopo una pratica assidua nel misterioso universo dove l’incontro «tra un raggio e un veleno» (A. Boito) dà vita a una nuova forma d’arte. Dall’alto dei suoi 80 anni, con alle spalle una carriera che l’ha pur visto testimone di parecchie quanto importanti innovazioni tecnologiche, Alberto Flammer ha potuto rimanere assolutamente sordo alle sirene del digitale, che hanno bussato troppo tardi alla sua porta, come scrive Antonio Mariotti nel catalogo che accompagna la «personale» dedicata all’artista locarnese dal Museo delle Centovalli e Pedemonte di Intragna. Ma non solo! Flammer ci dimostra come sia possibile – quando si è sorretti da esperienza, talento e creatività – realizzare immagini sorprendenti quanto esteticamente mirabili rinunciando addirittura all’apparecchiatura fotografica. I lavori esposti a Intragna, infatti, sono stati realizzati con il cosiddetto «foro stenopeico», un buchetto di pochi millimetri di diametro attraverso il quale la luce impressiona una pellicola che poi sarà sviluppata secondo le tecniche tradizionali. Ma non è ancora tutto: non contento di usare una classica Camera obscura (una Linhof 13x18), Flammer ne realizza una ultradomestica, andando a piazzare il suo bel foro stenopeico in barattoli svuotati del loro contenuto (piselli e carote, lenticchie, fagiolini, ecc) e della loro utilità primaria per far risorgere quel primordiale obiettivo studiato e usato anche da Leonardo da Vinci oltre cinque secoli fa.

e la bellezza della loro confezione

Sopra, il libro multimediale di Fabian Lavia; in basso, il disco di Mondia/Lo Menzo.

artigianali, nel vero senso della parola. Le copertine sono realizzate manualmente, una alla volta, come tante opere uniche. Quella del loro penultimo disco Orodingos, riproduceva nel dettaglio la tenda trasparente in cui il duo teneva i propri concerti fino a qualche anno fa.

Per l’ultimo album invece, Sei in un paese meraviglioso, Mondia e Lo Menzo hanno realizzato una splendida sfera in legno di ulivo che racchiude il CD, dando luogo a un curiosissimo oggetto a forma di Saturno. L’album, completato da poco, sarà in vendita quanto prima tramite il sito web www.enso-musica. ch. Si tratta di un lavoro che ha per certi versi delle affinità con le sonorità new age, un dialogo tra chitarre tranquillo, rarefatto e raffinato, non privo di alcuni spunti ritmici interessanti. Il progetto, grazie anche a numerose interferenze con spezzoni audio tratti dalla realtà, ha quasi assonanze con certe atmosfere alla Pink Floyd. Ma il paragone va preso molto alla lontana, evidentemente. Alcuni spunti sono davvero divertenti e danno all’album una fisionomia originale e meritevole di attenzione.

L’illustre decano dei fotografi ticinesi – restano imprescindibili le sue immagini anni 70 del secolo scorso che accompagnano sia in Pane e coltello sia in Occhi sul Ticino i racconti della nostrana «meglio letteratura» (Bianconi, Martini e gli Orelli) – non si accontenta tuttavia di questa lezioncina al digitale, poiché dimostra fantasia e ironia invidiabili nella scelta dei suoi soggetti. Indossati i panni dello scenografo, Flammer crea delle «Isole» dove accanto a uno spiccato senso dell’umorismo (vedasi Isola con poco vento: un vaso con una decina di soffioni intatti) dimostra come i suoi interessi spazino ben oltre la fotografia: due isole sono dedicate a Philibert Commerson e Caspar Friedrich. Ebbene, chi tra i miei 25 (mila) lettori conosce questi due personaggi? «Cacciatore di piante» il primo, che dal Brasile portò in Europa la bouganvillea; pittore tedesco del romanticismo il secondo. Tra le righe, si può cogliere un’altra lezioncina ai millennials che scattano senza pensare: non si diventa buon fotografo senza letture, scoperte, voglia di curiosità. Lasciamo le «Isole» per tornare sulla terraferma, per la precisione a Verscio. È qui, nella sua casa/atelier che entrano in scena i barattoli di pesche sciroppate, indispensabili per ottenere quegli Anamorfismi (effetti ottici che distorcono i precisi contorni del soggetto ripreso) che – tanto per restare nell’ambito della fotografia d’antan – ricordano le sperimentazioni della Scuola del Bauhaus (Laszlo Moholy-Nagy in particolare). Scale con le arcane architetture alla M.C. Escher, cuoricini fatti d’ombra, fiori che diventano punti di domanda: «Se questa non è magia…» (A. Mariotti). Dove e quando

Camera obscura. Fotografie di Alberto Flammer. Intragna, Museo delle Centovalli e del Pedemonte. Orari: 14.00-18.00; lu chiuso. Fino al 19 agosto 2018. www.museocentovallipedemonte.ch

Sondare il mondo, ballando Danza Quattro appuntamenti di danza diversi dal solito Come scritto nella dichiarazione d’intenti sul sito, la rassegna «Ticino in danza. Festival di danza contemporanea», giunta alla sesta edizione, intende portare il teatro dal pubblico piuttosto che il pubblico a teatro. E lo fa offrendo una serie di imperdibili appuntamenti nel corso dei quali, oltre a godere della proposta artistica, si ha anche modo di riflettere sull’arte contemporanea. Ecco dunque che si esce dalle clas-

siche sale votate alla rappresentazione per tuffarsi in scenari diversi, che a loro modo diventeranno i protagonisti indiscussi di performance, letture e momenti musicali. Il primo appuntamento ha avuto luogo domenica 22 luglio nella sede di San Pietro di Stabio di ProSpecieRara (ore 18.30), dove allo spettacolo Al lupo! si sono aggiunte le letture di testi di Perrault, Pennac e Roberta Nicolò. La manifestazione riprenderà, occupan-

dolo tutto, il prossimo week end, con l’appuntamento del 27 luglio (ore 21.00) allo Spazio Veicolo Danza di Ligornetto, quello del 28 luglio al Chiostro dei Serviti di Mendrisio (10.00-13.00) e quello di domenica 29 luglio alla SACEBA di Morbio Inferiore (18.30).

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Una delle suggestive immagini di Alberto Flammer. Tiratura 101’766 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

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Cultura e Spettacoli

Tutti lo sognano, alcuni lo fecero: volare senz’ali Editoria/1 Una galleria di personaggi che sconfissero la forza di gravità Giovanni Fattorini «Forse s’avess’io l’ale / da volar su le nubi / e noverar le stelle ad una ad una, / o come il tuono errar di giogo in giogo, / più felice sarei, dolce mia greggia, / più felice sarei, candida luna». Così canta il leopardiano pastore errante dell’Asia. Desiderio e immagini di volo accompagnano da sempre gli esseri umani, che guardano con invidia il variegato popolo degli uccelli, capaci di staccarsi dal suolo e muoversi agevolmente nell’aria, osservando dall’alto il labirintico pianeta dove Anthropos apteros (Uomo senz’ali) – perplesso personaggio di una poesia di Auden – si aggira ponendosi domande per loro incomprensibili.

L’uomo ha sempre cercato di imitare gli uccelli nel loro volo, con risultati alterni, come mostra la storia Nel libro Vite straordinarie di uomini volanti, Errico Buonanno ci parla inizialmente di personaggi, realmente esistiti o leggendari, che secoli or sono hanno tentato il volo con strumenti diversi. A cominciare dallo scienziato berbero Abbas ibn Firnas, che nel IX secolo si lanciò con una macchina di sua invenzione da una torre di Cordova, riportando ferite non gravi durante il brusco atterraggio. Finì invece tragicamente, nel 1002 o 1008, il tentativo di volo del lessicografo turco Ismail ibn Hammad al-Jawhari, che dopo essersi incollato delle penne di gallo sulle braccia cosparse di pece si lanciò dal minareto di una moschea di Nishapur. Meno grave fu la conclusione dell’esperimento «ufficiale» di Giovan Battista Danti – inventore di una macchina con cui eseguiva dei voli planati – che nel 1498, a Perugia, cadde sul tetto della chiesa di Santa Maria spezzandosi una gamba. Se le ruppe invece tutte e due il monaco benedettino e astronomo inglese Eilmer di Malmesbury, lanciandosi con delle ali artificiali – probabilmente nella prima decade del secolo XI – dalla torre dell’abbazia.

Ma sono gli «uomini volanti» gli eroi del libro di Buonanno: «gente capace di librarsi senza strumenti e senz’ali, senza un autentico perché», cioè senza volerlo e senza uno scopo da raggiungere. «Circa duecento, solo quelli attestati. Duecento, fra principi, villani, dottori di chiesa o miscredenti, che solcarono i cieli di un’Europa bambina». L’uomo volante di cui Buonanno ci racconta più diffusamente la storia è Giuseppe Maria Desa, nato a Copertino, vicino a Lecce, il 17 giugno 1603. Negli anni della fanciullezza, una grave malattia lo costrinse per lungo tempo a letto, impedendogli di ricevere un’istruzione. Rimase ritardato. I compaesani, malignamente, lo definivano «idioto», e vedendolo spesso «imbambolato, lo sguardo perso chissà dove», lo soprannominarono «Boccaperta». A diciassette anni, poiché desiderava farsi frate, fu accolto come confratello laico dai Cappuccini di Martina Franca, che trovandolo ben presto «inetto a qualsiasi mansione», e giudicandolo «stolido di mente», lo cacciarono dal convento. Dopo un anno trascorso girovagando in solitudine nella campagna, fu preso come sguattero dai Francescani del piccolo convento adiacente alla chiesa di Santa Maria della Grottella, dove con enorme fatica si preparò all’esame (che superò quasi per miracolo) necessario per prendere i voti ed entrare a far parte dell’Ordine dei frati minori conventuali. Il 4 ottobre 1630, durante la celebrazione della festa di San Francesco, Giuseppe si alzò improvvisamente da terra e sorvolando i fedeli andò a posarsi sul bordo del pulpito. «Da quel momento, svolazzò di continuo. Duecento volte. Grossomodo. Volava seduto o ginocchioni. In verticale e orizzontale. […] Volava davvero, non levitava soltanto. Non gli bastava sollevarsi in aria – dai tre ai dieci metri – , ma compiva dei tratti», anche di trenta metri, portando a volte con sé la persona che gli stava accanto. Bastava una forte emozione, un’occasione di stupore, un’immagine (soprattutto quella della Madonna, a cui si rivolgeva dicendo «bella Maria!») a provocare il subitaneo decollo. Com’era prevedibile, la fama dei suoi voli estatici (e dei miracoli che gli venivano attribuiti) richiamò l’atten-

Giuseppe da Copertino nella raffigurazione di Ludovico Mazzanti (16861775). (Marka)

zione del Sant’Uffizio. Sospettato di abuso della credulità popolare, dovette affrontare due processi. Assolto, venne però relegato in conventi sempre più isolati, l’ultimo dei quali a Osimo, non lontano da Ancona, dove morì il 18 settembre 1663. Beatificato da papa Benedetto XIV nel 1753, proclamato santo da papa Clemente XIII nel 1767, i cattolici lo venerano come protettore dei piloti e dei passeggeri di aerei, degli astronauti, degli studenti e degli esaminandi.

Dotati di una levitas spirituale che è l’opposto della gravitas di chi sta «coi piedi piantati per terra», gli eroi del libro di Buonanno (in mezzo a loro ci sono anche alcune donne: Teresa d’Avila, ad esempio) «erano in bilico, sospesi, sul baratro della modernità». Tre anni dopo la morte di Giuseppe da Copertino, Isaac Newton «vedeva cadere la sua mela. Il mondo, ad un tratto, si scopriva pesante. Scopriva la propria gravità. Iniziava l’età della Ra-

gione, dell’empirismo, della materia, dei Lumi. […] Nessuno pensava che si potesse volare. Nasceva la scienza, e si estingueva una razza che il desiderio di volare aveva saputo soddisfarlo davvero». Bibliografia

Errico Buonanno, Vite straordinarie di uomini volanti, Sellerio, pp. 176, € 13.

La canzone perfetta Editoria/2 Il romanzo-mondo di Sergej Roić: dalle canzoni dei Pink Floyd alla nascita dell’umanità,

un testo lungo e denso che chiede l’impossibile al lettore Stefano Vassere «Il mondo non ha parole. È una distesa di conifere (ad alcune piante di alto fusto sarà dato questo nome), di cime anelanti luce e nel sottobosco di pigne. Senza parole, in attesa dell’osservatore che lo descriverà, il mondo cresce attorno, sopra, sotto, dentro di sé». La versione originale di Wish You Were Here dei Pink Floyd, quella sul disco in studio che porta lo stesso nome, ha un inizio faticoso: si sentono sullo sfondo rumori, fischi e colpi di tosse e il suono è come precario, generato da amplificazioni e sintonizzazioni fuori fase; poi, piano piano, il brano prende quota e voci e impasti di strumenti sembrano come pacificati. Certo è che nella storia del rock questa canzone suona un po’ come una specie di canone ideale e supremo, un canto naturale, alla portata di tutti: la canzone perfetta, insomma. Deve avere pensato qualcosa del genere, Sergej Roić, nello scrivere quest’ultimo e impegnativissimo ro-

manzo che porta lo stesso titolo della canzone; anzi lo ha pensato per forza, visto che la melodia primordiale percorre tutta la vicenda e anzi ne so-

stanzia la continuità, accompagnando l’evoluzione dell’uomo come un archetipo culturale per millenni e saltando fuori grazie alla mente malata e quindi quasi «eletta» di un musicista maledetto come Syd Barrett. È questo libro, semplificando, una storia dell’umanità e di alcune sue tappe fondanti. Il salto temporale (macro-temporale, si potrebbe dire) è una delle possibili prospettive per abbordare questa storia che, va detto subito, potrebbe risultare illeggibile se il lettore non fosse pesantemente chiamato a tracciarne possibili strade di accesso e di interpretazione. Il semplice elenco degli spunti del romanzo di Roić consumerebbe da solo le battute di questo stesso testo, ragione per cui converrà eleggerne qualcuno. Nella sezione «Uno», ad esempio, tre trame contenutistiche parallele sono come intrecciate: ognuna di esse è lasciata sospesa per far spazio alle altre due e poi ritrovare il proprio filo a turni di tre a tre, come certo procedere narrativo che hanno per esempio in tutt’altro

ambito alcuni romanzi gialli moderni. Così, a questo lettore è piaciuto molto il filone intitolato «Il principio antropico», dove si narra, certo con scarti e divagazioni, della nascita dell’umanità e, tra il molto altro, del linguaggio naturale. Una specie di genesi biblica: dal mondo senza parole delle origini, alla facoltà fisica di articolare suoni linguisticamente rilevanti, alla conseguente capacità di astrazione, alla parola così come la conosciamo. Un certo continuo alternare presente e passato remotissimo ha ovviamente ampia cittadinanza nella letteratura e nelle letterature; torna però alla mente un’opera di finzione che si potrebbe pensare quasi sorella di questo romanzo: 2001. Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1968, qui citato un po’ distrattamente a pagina 81), con la scena iniziale del combattimento degli ominidi a prima vista così incongrua rispetto all’ambientazione nello spazio del resto del film. Correvano a quei tempi interpretazioni affascinan-

ti sull’origine del linguaggio, legato da taluna antropologia alla conquistata capacità di ricorrere, per la sopravvivenza, a elementari utensili e non è casuale che, nella memorabile scena, a imporsi nella guerra sia proprio quello che comincia a menare bastonate in giro a destra e sinistra usando un femore come arma. Ecco, a stagioni e contenuti come questi, viene da associare il romanzouniverso di Sergej Roić. Dai primi tentativi di delimitare il mondo con le parole, al basket croato degli anni Settanta, ai laghetti alpini, al nazionalismo, ai Pink Floyd; al lettore è richiesto uno sforzo che potrebbe sembrare insostenibile e qua e là si ha l’impressione di non farcela. La pazienza, alla fine, premierà i pazienti e gli audaci. Bibliografia

Sergej Roić, Vorrei che tu fossi qui. Wish You Were Here, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2017.


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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta La Bibbia, cornucopia di meraviglie Un giornalista, non avendo niente di meglio da fare, va in giro a chiedere agli amici: qual è il tuo rapporto con la Bibbia? Ecco la mia risposta. Fin da piccolo ho sempre vissuto la Bibbia come un fantasma incombente. Mio padre tipografo mi aveva regalato, comprandola a rate, L’Enciclopedia del Ragazzo Italiano della Utet. In tre diversi volumi, degli otto che la componevano, compariva una classifica, prima di cento, poi di duecento e infine di cinquecento titoli di opere. Non ricordo le parole che accompagnavano le classifiche ma in sostanza dicevano: questi sono i libri imperdibili per farsi una cultura degna di questo nome. Tutte e tre le classifiche iniziavano con la Bibbia. Ogni volta ho preso la rincorsa e ho iniziato dalla seconda in classifica che, se non ricordo male, era l’Iliade di Omero. Ma, sia chiaro, non sono mai arrivato in fondo. È nato su quegli elenchi il mio odio inscalfibile per l’aggettivo «imperdibile». Ma tor-

niamo alla Bibbia e al motivo per cui ho letto finora un solo libro dei tanti (81?) che la compongono. Si è trattato di un avvicinamento laterale. Sono nato ad Asti e nella ridente cittadina piemontese ho frequentato le scuole elementari e le medie. Anche Vittorio Alfieri è nato ad Asti, un po’ prima di me (1749). Ogni anno avevano luogo le Celebrazioni Alfieriane, in coincidenza del genetliaco del Trageda, culminanti nell’allestimento, al teatro Alfieri, di una delle sue tragedie. Nei tre anni delle medie la mia classe è stata accompagnata, camminando in fila per due lungo il corso Alfieri, sfilando prima davanti al palazzo Alfieri dove era collocata la biblioteca civica Vittorio Alfieri e poi davanti al liceo ginnasio Alfieri, ad assistere alla recita della tragedia di Alfieri prescelta in quell’occasione. Storie lontane, versi aspri, martellanti, capaci di contenere cinque battute in un solo endecasillabo, interpreti in costumi antichi, con il peplo o la corazza, il gonnellino a pieghe, i

calzari attorno a gambe adorne di vene varicose. Un impatto brutale che avrebbe potuto generare un rigetto totale verso ogni genere di impresa culturale. Invece no, per alcuni di noi è stato uno choc salutare, tale da inocularci l’idea che la strada per accedere all’alta cultura non è una passeggiata ma una scalata faticosa lungo sentieri che si affacciano sul baratro, impresa però in grado di regalare grandi soddisfazioni. Da quegli anni lontani la mia amicizia per Vittorio non è mai venuta meno e così l’interesse per il suo lavoro. Delle sue diciannove tragedie, una sola trae il soggetto dalla Bibbia, tutte le altre derivano dalla classicità greca e romana. Ma quella sola, il Saul, la quattordicesima, è da tutti considerata il suo capolavoro, per un autore che mai, in nessuna circostanza, ha manifestato interesse per la sfera religiosa dell’animo umano. Ecco perché, venendo per una volta meno ai miei principi, ho preso in mano la Bibbia. Ho letto solo il primo

libro di Samuele, che narra una storia feroce, dove il sangue scorre a fiumi, con un dio capriccioso e vendicativo e il protagonista di una vera tragedia, Saul, che si suicida per non finire prigioniero in mano ai Filistei. Tutto ha inizio quando gli Israeliti chiedono a Samuele «un re che ci governi, come avviene per tutti i popoli». Cosa ve ne fate di un re? è la risposta, voi avete già Dio dalla vostra parte, siete il suo popolo prediletto. Loro insistono e Samuele cede. Obbedendo al Signore, unge Saul nominandolo re d’Israele. Noi diremmo a sua insaputa, poiché Saul non aveva mai posto la sua candidatura. L’inizio è l’avventura di un ragazzo che, uscito di casa accompagnato da un servo per rintracciare delle asine che si erano smarrite, quattro giorni dopo fa ritorno a casa consacrato re d’Israele, tenuto all’oscuro del fatto che al Signore dispiaceva che coloro diventati suoi sudditi sentissero il bisogno di essere governati da un re. Saul tuttavia si met-

te all’opera, riorganizza l’esercito, vince uno dopo l’altro i nemici di Israele. Ma commette l’errore di non ubbidire ciecamente agli ordini del Signore che gli arrivano tramite Samuele. Risparmia con un gesto di umanità il suo nemico re Agag, solo per sentirsi dire che, per non averlo sterminato insieme a tutto il suo popolo, ha frodato di un sacrificio la feroce divinità di Samuele che gli fa credere che Dio l’ha deposto, nominando Davide. Avete presente chi è Davide? Ha tutte le virtù, suona divinamente la cetra, sconfigge Golia, fa innamorare di sé i figli di Saul, Micol che lo sposerà e Gionata che arriva a tradire il padre per lui. Saul si avvolge in una micidiale rete di tentativi falliti per liberarsi di Davide, fino a rivolgersi al mago di Endor per farsi predire il futuro. È la fine. Anche Shakespeare deve aver letto il libro di Samuele quando scrive il Macbeth. Ditemi: voi che, a differenza di me, l’avete letta: è tutta così la Bibbia, una cornucopia di storie meravigliose?

istruite, chissà se saranno mai state capaci di pensare, queste donne greche. Il primo volume della finora unica History of Women Philosophers (a cura di Mary Ellen Waithe, Martinus Nijhoff Publishers, Dordrecht, 4 voll.) dice di sì, rintraccia molte donne pensatrici nel millennio che parte dal sesto secolo a.C., dall’epoca di Pitagora. Ecco, per esempio, anche di Pitagora, dell’uomo, non sappiamo quasi nulla, sommersi dalle numerose e agiografiche Vite di lui scritte nei primi secoli della nostra era. Sembra comunque che la moglie e le figlie fossero filosofe, con una preferenza per le leggi della pitagorica armonia applicate alla vita pratica. Non proprio come lucidare meglio un pavimento o far lievitare il pane, ma come guidare una famiglia e una casa, come educare i figli, come gestire l’economia domestica (che poi anche l’economia più astratta deriva da oikos e nomos, le leggi della casa, la gestione di una casa). Oggetto di scherno, questi ultimi argomenti, da parte dei filosofi di tutte le epoche,

dediti a ben altro, alla metafisica alla cosmologia all’analisi del linguaggio. Come se gestire una casa fosse molto diverso dal gestire la vita di un comune, di una città, di uno Stato. I principi dell’armonia sono sempre gli stessi. Piuttosto, sono le menti sclerotizzate a non comprendere. Non è che non siano mai esistite donne filosofe, anche se la storia ne reca pochi frammenti. Forse qualcuno non ne ha tenuto traccia, forse dopo un distratto ascolto ha detto va bene, ora lasciaci che dobbiamo parlare di cose serie, non affaticarti che perdi il tuo grazioso colorito, il bambino piange. Senza comprendere che cose serie, colorito, bambino, nessuna di queste realtà fa paura a una donna intelligente. Non un piccolo, che si sente a casa tra le nostre braccia, non il colore delle nostre guance, che gestiamo con la perfezione del piccolo chimico, in pochi secondi. E certo non le cose davvero importanti nella vita. Ma, scusate, riprenderemo l’argomento, devo correre a spegnere il forno...

regioni bisognerebbe inserire sottopelle a ogni soggetto un microchip di ultima generazione. Intanto, dopo aver fatto un sondaggio sui social network per valutare il sentiment del popolo di internet, si è deciso appunto in via sperimentale di costruire dei muri di cemento armato alti sessanta metri (l’altezza minima invalicabile dalle formiche) in diverse banlieue delle capitali europee al motto: «Aiutiamo le formiche nei loro paesi». Il problema è che non si sa ancora quale sia esattamente il luogo di origine in cui aiutarle, anche se si sospetta che provengano da una piccola regione tra il Mali, il Niger e il Ghana. Quanto agli scarafaggi, disgustosa piaga crescente delle nostre città, i leader delle destre populiste si oppongono a un’accoglienza indiscriminata e chiedono agli organi europei la regolamentazione e la redistribuzione dei flussi, in deroga ai criteri previsti dalla Convenzione di Dublino. In attesa che vengano presi adeguati provvedimenti

al riguardo, si è deciso di imbarcare le blatte, a singoli gruppi di 3-4 milioni, su apposite carrette del mare e di respingerle, assistite da motovedette della Guardia Costiera, verso le coste africane da dove certamente provengono, stando a recentissimi studi realizzati nei centri di ricerca etologici neonazisti austriaci e ungheresi. In questo caso, lo slogan è: «Aiutiamo gli afro-blattoidei nei loro scarichi e nelle loro fessure». Gli stessi centri di ricerca consigliano, in un’ottica di risparmio economico, di unire, nelle stesse carrette, di preferenza ma non obbligatoriamente in ambienti separati, uomini, donne e bambini che pur dichiarandosi profughi purtroppo non abbiano ottenuto il diritto d’asilo presso i nostri paesi. Si tratta peraltro di individui che presentano maggiori difficoltà di integrazione degli orsi extracomunitari, delle zanzare velate, delle api arabe, delle formiche rosse, delle afro-blatte. Hashtag: #per-caritanon-aiutiamoli-neanche-a-casa-loro.

Postille filosofiche di Maria Bettetini Donne e filosofia «Ho avuto una maestra di retorica tutt’altro che mediocre e che ha formato molti altri valenti oratori e, eccellente tra tutti i Greci, Pericle». Leggendo un dialogo quasi sconosciuto di Platone, il Menesseno, salto sulla sedia: Socrate, già per Nietzsche colpevole di asettica razionalità; Socrate, quel misogino che in punto di morte fa allontanare l’inconsolabile e fastidiosa moglie Santippe, dichiara di avere avuto una grande maestra di retorica, una donna, che insegnò la stessa arte nientemeno che a Pericle. Forse finora non abbiamo capito nulla, forse qui come nel Simposio la filosofia sembra avere avuto inizio dalle donne. Nel Simposio infatti la vera sapienza sul bello e sull’eros non viene dagli apologhi di Erissimaco o Aristofane, e nemmeno dalle poesie di Agatone. La verità sull’amore deriva dal racconto che Socrate fa delle parole di una donna, Diotima di Mantinea. Una sacerdotessa che gli aveva svelato il senso del desiderio, del cercare ciò che non si possiede, di Eros come demone

nudo e privo di tutto, sempre in cerca di ciò che è bello e buono. Solo il desiderio, questo eros perennemente insoddisfatto, può agognare ai corpi belli e da lì alle anime belle, a ciò che le intelligenze sanno fare di bello, fino a giungere al Bello in sé e per sé, quel momento, «o Socrate, per cui vale la pena essere vissuti». Tutta la maschia filosofia di Socrate e Platone e poi tutto il pensiero che nei secoli mai lasciò spazio alle femmine, tutto deriverebbe dunque dalle illuminazioni di Diotima e dagli insegnamenti di Aspasia, una sacerdotessa, l’altra prostituta, secondo quel che sappiamo, colta e intelligente compagna o seconda moglie di un grandissimo uomo di stato come Pericle, però sempre etera o tenutaria di bordelli? Sembrerebbe. Perché il condizionale? Non solo perché sappiamo poco dal punto di vista storico: in fondo anche di Fedone, Fedro, Agatone, altri protagonisti dei dialoghi platonici, sappiamo ben poco, potrebbero perfettamente essere personaggi inventati. Nemmeno

perché Menesseno continua a dare del buontempone a Socrate, solo tu sai prenderti gioco dei retori, adesso per esempio citi una donna come maestra di retorica. Piuttosto perché è davvero strana questa veste intellettuale di due donne nella Grecia del quinto-quarto secolo a.C. Non che dopo diventi normale, anche la prima moglie di Albert Einstein svolgeva la parte matematica delle dimostrazioni del marito senza mettere il nome come co-autrice degli articoli, addirittura scherzando sul fatto: noi siamo Ein-Stein, una pietra sola, non importa quale nome appaia. Fino a quando il marito riparò negli Stati Uniti con una più giovane e vezzosa cugina, senza per questo sentire il bisogno di riconoscere il ruolo della prima signora nel suo lavoro. E siamo in pieno Novecento, e l’unica soddisfazione è che i denari del Nobel del 1921 dovettero essere devoluti alla moglie e a uno dei figli malato di mente, entrambi rimasti in Europa, a Zurigo. Ma torniamo ad Aspasia, ai suoi tempi. Anche se non

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Non aiutiamoli neanche a casa loro Nella sua «Satira preventiva» (5½), la rubrica de «L’Espresso», Michele Serra invitava i governi occidentali di orientamento sovranista ad abbattere gli orsi bruni, a giudicare dal colore del pelo visibilmente immigrati, e a salvare i lupi, visibilmente cittadini europei. In effetti bisognerebbe opporsi alla ormai insostenibile invasione degli orsi nelle nostre strade e piazze, evitando con provvedimenti urgenti che riscuotano un’indennità di 35 euro al giorno come rifugiati, che vadano a vivere nelle nostre case, che rubino il posto di lavoro ai nostri concittadini disoccupati, che accrescano il crimine e il terrore nelle città, che minaccino di stuprare le nostre donne e magari che, pur dichiarandosi poveri, esibiscano sfacciatamente i loro smartphone per telefonare ai parenti plantigradi lontani. La campagna antiorso è partita la settimana scorsa con l’hashtag #aiutiamo-i-mammiferibruni-a-casa-loro. È ora di finirla con il buonismo anima-

lista di maniera. Un po’ di sano cattivismo sarebbe la soluzione ideale, non solo contro gli orsi ma anche contro le api. Mi trovo in Sicilia in ferie da qualche settimana e api di provenienza ignota ma dall’inequivocabile aspetto arabeggiante stanno invadendo le spiagge minacciando di pungere intere famiglie di tranquilli bagnanti che avrebbero il sacrosanto diritto di godersi le ferie dopo un anno di lavoro. La ragionevole proposta di alcuni amministratori locali, ispirati dal ministero dell’Interno centrale, è quella di liberalizzare, per legittima difesa, il porto d’armi e di riesumare l’uso della lupara (ingiustamente demonizzata per decenni), in modo che ogni cittadino che si senta intimidito dal pungiglione possa colpire all’impronta, senza troppi riguardi pseudo sentimentali o neo ambientalisti, gli imenotteri che pretendono asilo fuggendo da presunte zone di povertà e di guerra. Idem per debellare le zanzare subsahariane che sbarcano ogni giorno

nei porti del Mediterraneo, soccorse dalle Ong internazionali notoriamente colluse con i trafficanti di insetti. È finita la pacchia anche per le formiche immigrate. Se non c’è trippa per i nostri bei gattoni domestici, non c’è seme e neanche briciola per le formiche straniere. Ma siccome anche il ministero dell’Interno riconosce che concedere l’uso della lupara anche contro le singole formiche esporrebbe la popolazione a inutili rischi di autoestinzione precoce, alzare i muri rimane l’unica soluzione per non fare delle nostre periferie i formicai del futuro, noti terreni di coltura del terrorismo islamista. Intanto, sarebbe opportuno conoscere la percentuale delle rosse, nettamente più ideologizzate e violente delle nere, e a questo scopo è stato avviato un censimento in modo da poter segnalare le formiche extracomunitarie. Il risultato (provvisorio) di tali indagini è che per creare un mappa affidabile che fotografi la presenza della popolazione formichiera nelle nostre


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Idee e acquisti per la settimana

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Un frutto simbolico

Attualità Le vellutate albicocche vallesane conquistano le nostre tavole con la loro assoluta bontà

Azione 25% sulle Albicocche del Vallese imb. 500 g Fr. 3.95 invece di 5.50

Simbolo per eccellenza della produzione frutticola del Vallese, la coltura delle albicocche si è sviluppata in questo magnifico cantone in modo significativo a partire dalla metà del 19° secolo con la varietà Luizet. Oggi la superficie dedicata agli albicoccheti raggiunge i 700 ettari e si estende principalmente tra Sierre e Vernayaz, dove le piante sono coltivate nel rispetto dell’ambiente e trovano un clima favorevole al loro sviluppo. Negli ultimi decenni, per poter garantire la produzione su tutto l’arco della stagione, che va da metà giugno fino ai primi di settembre, sono state introdotte anche altre varietà di albicocco, come Orangered, Kioto, Robada, Bergeron e Bergeval. Il 97% della produzione svizzera di albicocche si concentra in Vallese, cantone che quest’anno, grazie a condizioni meteorologiche ottimali, può contare su un raccolto

squisito: si stima una produzione di circa 8600 tonnellate. Gustate da sole, le albicocche vallesane sono un vero piacere per il palato, ma sono ottime anche in moltissime ricette, sia dolci, sia salate: dalle marmellate alle torte, dai succhi ai sorbetti, dalle mousse agli sformati, passando per le carni fino addirittura alla pasta e al riso. Inoltre in Vallese a fine pasto non può mancare un goccetto di Abricotine, il distillato locale di albicocche. Le albicocche posseggono molte qualità benefiche per il nostro organismo: sono ricche di vitamine, ferro, potassio e betacarotene, sostanza, quest’ultima, utile per aumentare le difese naturali del corpo e per proteggere la pelle dalle aggressioni del sole e dell’aria. Infine, segnaliamo che alla Migros le albicocche 100% vallesane saranno disponibili ancora per diverse settimane.

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Keystone

dal 24 al 30 luglio

Galette alle albicocche Ingredienti per 8 pezzi 1 pasta per torte integrale, già spianata da 270 g 600 g di albicocche 1 cucchiaio di farina 3 cucchiai di latte condensato zuccherato 2 cucchiai di pistacchi tritati 1 cucchiaio di zucchero a velo Preparazione Scaldate il forno a 200 °C. Dimezzate le albicocche e snocciolatele. Mettetele in una scodella e cospargetele di farina. Accomodate la pasta con

la carta da forno in una teglia. Spalmate il latte condensato sulla pasta e distribuite le albicocche, lasciando libero un bordo di circa 5 cm. Ripiegate la pasta del bordo all’interno e schiacciatela leggermente. Cuocete al centro del forno per ca. 40 minuti. Lasciate raffreddare la galette. Guarnite con i pistacchi tritati e spolverizzate di zucchero a velo. Tempo di preparazione Preparazione ca. 20 min + cottura in forno ca. 40 min.


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Idee e acquisti per la settimana

La trota in carpione

Attualità Una specialità che non può mancare durante l’estate, disponibile al vostro

Angolo del Buongustaio

Azione 20% sulle Trote nostrane in carpione 100 g Fr. 2.70 invece di 3.40 dal 25 al 30 luglio

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Con le alte temperature estive di questi giorni, la voglia di stare davanti ai fornelli non è certo alle stelle. Per fortuna ci sono dei piatti gustosi e veloci da portare in tavola che arricchiscono i nostri menù senza dover cucinare a lungo. Tra questi troviamo la trota intera in carpione, una specialità tipica, molto diffusa anche nella nostra regione, che trovate già pronta nei supermercati Migros Ticino. Il pesce è preparato da cuochi esperti secondo una ricetta che prevede l’impiego di trote biologiche ticinesi della varietà iridea, allevate in acqua di sorgente. Secondo la disponibilità, anche le verdure utilizzate sono di provenienza nostrana. Oltre ad essere un metodo di conservazione del pesce con aceto, verdure e spezie, il carpione è anche un pesce pregiato d’acqua dolce appartenente alla famiglia dei salmonidi. Inoltre, in altre regioni d’Italia si usa «carpionare» anche altri ingredienti oltre al pesce, come carni, ortaggi vari e uova. Conosciuto fin dal Medioevo, il procedimento nasce come esigenza di prolungare la durata degli alimenti. Oltre alla trota intera, all’Angolo del Buongustaio di Migros Ticino troverete anche i filetti di trota in carpione.

Passata di pomodoro Bio

Conserve come da tradizione

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Se state cercando un antipasto o un contorno di qualità ricco di gusto, allora le quattro nuove conserve di verdura Coelsanus sono la soluzione perfetta. Azienda familiare fondata nel 1955 in Veneto, Coelsanus da sempre si distingue per i suoi prodotti genuini, sani e dal sapore autentico, realizzati a partire da una scrupolosa selezione delle materie prime e coltivati da contadini locali. Quando tutte le ver-

dure raggiungono il grado di maturazione, sono raccolte e lavorate entro 24 ore. Poi, vengono grigliate lentamente, in tre passaggi, per conservarne al meglio la fragranza e il sapore originale. Oltre alle melanzane, ai peperoni e ai pomodori secchi grigliati, tra questi prodotti si trovano pure i deliziosi funghi champignons alla mediterranea, una ricetta fedele alla tradizione che conquista qualsiasi buongustaio.

Melanzane a filetti grigliate Coelsanus 280 g Fr. 3.90 Peperoni a filetti grigliati Coelsanus 280 g Fr. 3.90 Pomodori secchi grigliati Coelsanus 280 g Fr. 3.90 Champignons alla mediterranea Coelsanus 280 g Fr. 3.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros

Perfetta per arricchire i piatti quotidiani con genuinità, cremosità e tanto gusto, la nuova passata di pomodoro Bio firmata Valfrutta preserva tutta la naturale freschezza dei migliori pomodori biologici italiani maturati al punto giusto. Per poter ottenere un prodotto sano e genuino, in ogni fase della pro-

duzione, dalla coltivazione sostenibile alla raccolta, dalla trasformazione al confezionamento, sono garantiti accurati e rigorosi controlli di qualità. La passata di pomodoro Bio è ideale per la preparazione di deliziosi sughi per la pasta, ma anche per pizza, riso, vellutate fredde, uova, carne e pesce al sugo.


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Idee e acquisti per la settimana

Premiazione di «Gustando... il risciò» Sono stati moltissimi gli ascoltatori della nostra Rete Uno che, dal 4 al 15 giugno scorsi, hanno seguito l’avventura in giro per il Ticino dei simpaticissimi Fabrizio Casati e Julien Carton. A bordo di un risciò, i due conduttori avevano raccontato diversi aspetti del nostro bel Cantone, visitando luoghi inconsueti e scoprendo l’incredibile ricchezza dei prodotti tipici del territorio firmati Nostrani del Ticino. Inoltre, tutti coloro che avevano seguito il programma, potevano partecipare a un grande concorso che chiedeva di scoprire quanti km avevano macinato sull’arco di due settimane Fabrizio e Julien. Il premio principale, messo in palio dal negozio specializzato SportXX di Migros Ticino, consisteva in una fiammante bicicletta elettrica da città Crosswave ECO-Wave del valore di ben CHF 1999.–. Tra i tanti partecipanti che hanno tentato di stimare

i km percorsi, colei che più si è avvicinata alla soluzione è stata la signora Barbara Astrelli di Vezio. Nei giorni scorsi la fortunata vincitrice ha potuto ritirare l’ambito premio allo SportXX di S. Antonino, dove è stata accolta dal responsabile del negozio di S. Antonino, Igor Biolzi (nella foto). Congratulazioni! Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana Vegetariani, pescetariani, flexitariani o amanti della carne: in estate si risveglia in noi il griglietariano. Mangiamo solo ciò che è passato dalla griglia. Siamo pignoli anche con gli ingredienti per il perfetto menu preparato sul grill. Informazioni: www.griglietariani.ch

TerraSuisse

Il buono dalla natura

Una grande quantità di prodotti Migros, dal pane ticinese al succo di mele, passando dalle costolette di vitello, portano il marchio «TerraSuisse». I prodotti Migros o le materie prime di cui sono composti provengono da oltre 11’000 agricoltori svizzeri che producono secondo le direttive IP-Suisse

e Tutto l’occorrent

Per colture rispettose dell’ambiente Nelle loro aziende familiari, oltre 11’000 contadini IP-Suisse coltivano prodotti per il marchio «TerraSuisse». Nella coltivazione di cereali e colza rinunciano all’utilizzo di insetticidi, fungicidi e regolatori della crescita.

per i

Testo Melanie Michael; Illustrazione Patrick Oberholzer

Per la biodiversità In collaborazione con la Stazione ornitologica di Sempach, IP-Suisse ha sviluppato misure per promuovere la biodiversità, come aree con fiori selvatici, siepi e mucchi di sassi, che offrono spazi vitali a insetti, uccelli e rettili.

Questo è «TerraSuisse» Dal 2007 il marchio contraddistingue il partenariato tra Migros, IP-Suisse, l’associazione svizzera dei contadini che praticano la produzione integrata, e la Stazione ornitologica di Sempach. Il loro obiettivo: un’agricoltura svizzera naturale e rispettosa degli animali.

Per il benessere degli animali I contadini che forniscono la carne «TerraSuisse» allevano manzi, vitelli e maiali in stalle rispettose degli animali, che hanno la possibilità di accedere agli spazi esterni. Gli agnelli vanno al pascolo o addirittura sugli alpeggi. Con un foraggiamento adeguato viene inoltre promosso il benessere degli animali, ciò che ha un effetto positivo anche sulla qualità della carne.

Costolette di vitello TerraSuisse per 100 g prezzo del giorno

Pane alla ticinese TerraSuisse 400 g Fr. 2.50

Olio di colza TerraSuisse 50 cl Fr. 3.35

Tagliatelle Tricolore Tradition TerraSuisse 500 g Fr. 3.95

Polenta fine TerraSuisse aha! 500 g Fr. 1.80

Fiocchi di avena M-Classic TerraSuisse 500 g Fr. 1.45 Nelle maggiori filiali

Succo di mele diluito TerraSuisse 6 x 1,5 l Fr. 13.20

Rösti al burro Bischofszell TerraSuisse 400 g Fr. 2.80

I prodotti TerraSuisse provengono da agricoltura svizzera sostenibile. Le materie prime vengono coltivale da contadini che si impegnano per il benessere degli animali e per colture rispettose dell’ambiente.

L’impegno Migros a favore della sostenibilità è da generazioni in anticipo sui tempi.


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Idee e acquisti per la settimana Vegetariani, pescetariani, flexitariani o amanti della carne: in estate si risveglia in noi il griglietariano. Mangiamo solo ciò che è passato dalla griglia. Siamo pignoli anche con gli ingredienti per il perfetto menu preparato sul grill. Informazioni: www.griglietariani.ch

TerraSuisse

Il buono dalla natura

Una grande quantità di prodotti Migros, dal pane ticinese al succo di mele, passando dalle costolette di vitello, portano il marchio «TerraSuisse». I prodotti Migros o le materie prime di cui sono composti provengono da oltre 11’000 agricoltori svizzeri che producono secondo le direttive IP-Suisse

e Tutto l’occorrent

Per colture rispettose dell’ambiente Nelle loro aziende familiari, oltre 11’000 contadini IP-Suisse coltivano prodotti per il marchio «TerraSuisse». Nella coltivazione di cereali e colza rinunciano all’utilizzo di insetticidi, fungicidi e regolatori della crescita.

per i

Testo Melanie Michael; Illustrazione Patrick Oberholzer

Per la biodiversità In collaborazione con la Stazione ornitologica di Sempach, IP-Suisse ha sviluppato misure per promuovere la biodiversità, come aree con fiori selvatici, siepi e mucchi di sassi, che offrono spazi vitali a insetti, uccelli e rettili.

Questo è «TerraSuisse» Dal 2007 il marchio contraddistingue il partenariato tra Migros, IP-Suisse, l’associazione svizzera dei contadini che praticano la produzione integrata, e la Stazione ornitologica di Sempach. Il loro obiettivo: un’agricoltura svizzera naturale e rispettosa degli animali.

Per il benessere degli animali I contadini che forniscono la carne «TerraSuisse» allevano manzi, vitelli e maiali in stalle rispettose degli animali, che hanno la possibilità di accedere agli spazi esterni. Gli agnelli vanno al pascolo o addirittura sugli alpeggi. Con un foraggiamento adeguato viene inoltre promosso il benessere degli animali, ciò che ha un effetto positivo anche sulla qualità della carne.

Costolette di vitello TerraSuisse per 100 g prezzo del giorno

Pane alla ticinese TerraSuisse 400 g Fr. 2.50

Olio di colza TerraSuisse 50 cl Fr. 3.35

Tagliatelle Tricolore Tradition TerraSuisse 500 g Fr. 3.95

Polenta fine TerraSuisse aha! 500 g Fr. 1.80

Fiocchi di avena M-Classic TerraSuisse 500 g Fr. 1.45 Nelle maggiori filiali

Succo di mele diluito TerraSuisse 6 x 1,5 l Fr. 13.20

Rösti al burro Bischofszell TerraSuisse 400 g Fr. 2.80

I prodotti TerraSuisse provengono da agricoltura svizzera sostenibile. Le materie prime vengono coltivale da contadini che si impegnano per il benessere degli animali e per colture rispettose dell’ambiente.

L’impegno Migros a favore della sostenibilità è da generazioni in anticipo sui tempi.


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Idee e acquisti per la settimana

Pane di stagione

Pane con brio

Maggiori informazioni sul tema pane: www.migros.ch/ pane

Il nuovo pane presente sugli scaffali Migros ha in sé qualcosa di brioso, vale a dire i peperoni. Il pane barbecue non è perfetto solo per accompagnare una grigliata, se accompagnato da un’insalata ne risulta un pasto completo Testo Claudia Schmidt; Foto Veronika Studer, Gaetan Bally

Una crosta croccante e una mollica con pezzetti di peperone caratterizzano il nuovo pane barbecue. La colorazione gialla dell’impasto è da ricondurre al mais e alle spezie, che ne supportano il raffinato aroma. È un pane versatile che ben si abbina alle grigliate, così come alle insalate. Grazie alla sua consistenza morbida dai piccoli pori, il pane si adatta a essere grigliato sul barbecue. Per esem-

pio per preparare le bruschette, poiché le pregiate farciture non filtrano attraverso il pane e non gocciolano sul piatto o sui pantaloni. Barbara Bechtiger, che sviluppa prodotti presso Jowa, la panetteria Migros, elogia esplicitamente la conservabilità del pane barbecue: «Il suo gusto si mantiene perfetto anche il giorno successivo, in modo particolare se lo si mette brevemente sulla griglia o lo si tosta».

Serie Specialità dalle panetterie Migros Novità: Pane Barbecue Barbara Bechtiger (28) sviluppa nuovi prodotti presso Jowa, la panetteria Migros. È un’esperta panettiera e pasticciera e ha un bachelor in tecnologia alimentare.

Barbara Bechtiger

«Il pane viene sviluppato in team» Quale orientamento ha ispirazione la creazione del pane barbecue?

e per i Tutto l’occorrent

Si trattava di sviluppare un pane che si adattasse bene all’estate, periodo durante il quale la griglia è un tema centrale. Sviluppate più ricette di pane prima di decidere quale entrerà in assortimento?

Il processo di sviluppo avviene sempre a livello di team. Sono coinvolti diversi specialisti: si tratta di verificare la fattibilità della produzione, l’imballaggio e anche la comunicazione. Si perfeziona la ricetta, gli ingredienti vengono modificati e ogni volta se ne degusta nuovamente il risultato, fino al momento in cui il pane risulta come lo si voleva. Quale è stata la sfida principale con il pane barbecue?

Il pane barbecue contiene peperoni. Se li si mettono troppo presto nell’impasto, nel pane finito non si vedono più. Se invece si mettono troppo tardi non si distribuiscono bene. Pane Barbecue 340 g Fr. 3.70

Quanto dura la fase di sviluppo di un nuovo pane?

Dai sei ai nove mesi.

Come mai è diventata panettiera?

L’apprendistato come panettiere mi è piaciuto molto. Ho sempre preparato volentieri prodotti da forno. Successivamente ho studiato tecnologia alimentare. Qual è il pane che preferisce?

Non ne ho uno solo: i bürli, la treccia al burro e il twister rustico dal forno di pietra. Quando sono in ferie all’estero la treccia al burro è quella che mi manca maggiormente. Molti panettieri per hobby ci provano a lungo ma raramente i loro prodotti raggiungono una qualità professionale: perché?

In una panetteria tutto gira attorno al pane: l’impasto ha la temperatura perfetta e la giusta umidità quando lievita. E naturalmente in un panificio i forni possono essere regolati in modo ottimale secondo il tipo di pane. Si può attivare il vapore, raggiungere temperature molto alte e regolare separatamente il calore superiore rispetto a quello inferiore. Ciò va ben oltre le prestazioni della maggior parte dei forni casalinghi.


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Idee e acquisti per la settimana

Pane di stagione

Pane con brio

Maggiori informazioni sul tema pane: www.migros.ch/ pane

Il nuovo pane presente sugli scaffali Migros ha in sé qualcosa di brioso, vale a dire i peperoni. Il pane barbecue non è perfetto solo per accompagnare una grigliata, se accompagnato da un’insalata ne risulta un pasto completo Testo Claudia Schmidt; Foto Veronika Studer, Gaetan Bally

Una crosta croccante e una mollica con pezzetti di peperone caratterizzano il nuovo pane barbecue. La colorazione gialla dell’impasto è da ricondurre al mais e alle spezie, che ne supportano il raffinato aroma. È un pane versatile che ben si abbina alle grigliate, così come alle insalate. Grazie alla sua consistenza morbida dai piccoli pori, il pane si adatta a essere grigliato sul barbecue. Per esem-

pio per preparare le bruschette, poiché le pregiate farciture non filtrano attraverso il pane e non gocciolano sul piatto o sui pantaloni. Barbara Bechtiger, che sviluppa prodotti presso Jowa, la panetteria Migros, elogia esplicitamente la conservabilità del pane barbecue: «Il suo gusto si mantiene perfetto anche il giorno successivo, in modo particolare se lo si mette brevemente sulla griglia o lo si tosta».

Serie Specialità dalle panetterie Migros Novità: Pane Barbecue Barbara Bechtiger (28) sviluppa nuovi prodotti presso Jowa, la panetteria Migros. È un’esperta panettiera e pasticciera e ha un bachelor in tecnologia alimentare.

Barbara Bechtiger

«Il pane viene sviluppato in team» Quale orientamento ha ispirazione la creazione del pane barbecue?

e per i Tutto l’occorrent

Si trattava di sviluppare un pane che si adattasse bene all’estate, periodo durante il quale la griglia è un tema centrale. Sviluppate più ricette di pane prima di decidere quale entrerà in assortimento?

Il processo di sviluppo avviene sempre a livello di team. Sono coinvolti diversi specialisti: si tratta di verificare la fattibilità della produzione, l’imballaggio e anche la comunicazione. Si perfeziona la ricetta, gli ingredienti vengono modificati e ogni volta se ne degusta nuovamente il risultato, fino al momento in cui il pane risulta come lo si voleva. Quale è stata la sfida principale con il pane barbecue?

Il pane barbecue contiene peperoni. Se li si mettono troppo presto nell’impasto, nel pane finito non si vedono più. Se invece si mettono troppo tardi non si distribuiscono bene. Pane Barbecue 340 g Fr. 3.70

Quanto dura la fase di sviluppo di un nuovo pane?

Dai sei ai nove mesi.

Come mai è diventata panettiera?

L’apprendistato come panettiere mi è piaciuto molto. Ho sempre preparato volentieri prodotti da forno. Successivamente ho studiato tecnologia alimentare. Qual è il pane che preferisce?

Non ne ho uno solo: i bürli, la treccia al burro e il twister rustico dal forno di pietra. Quando sono in ferie all’estero la treccia al burro è quella che mi manca maggiormente. Molti panettieri per hobby ci provano a lungo ma raramente i loro prodotti raggiungono una qualità professionale: perché?

In una panetteria tutto gira attorno al pane: l’impasto ha la temperatura perfetta e la giusta umidità quando lievita. E naturalmente in un panificio i forni possono essere regolati in modo ottimale secondo il tipo di pane. Si può attivare il vapore, raggiungere temperature molto alte e regolare separatamente il calore superiore rispetto a quello inferiore. Ciò va ben oltre le prestazioni della maggior parte dei forni casalinghi.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 luglio 2018 • N. 30

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 luglio 2018 • N. 30

53

Idee e acquisti per la settimana

Bio

Facile, veloce, buono

Per quando si ha fretta: con i nuovi prodotti bio della Migros si possono preparare in un battibaleno piatti semplici ed equilibrati

Suggerimento 2

Testo Melanie Michael; Foto Ruth Küng

Preparare la quinoa seguendo le indicazioni presenti sulla confezione. Servire con insalata fresca di spinaci o bietola rossa, scaglie di parmigiano e noci tostate.

Suggerimento 1

Suggerimento 3

La «good life bowl» è una prelibatezza dai colori vivaci: scaldare il brodo e versarlo sul cuscus: spremere il lime e aggiungere al cuscus. Condire con sale, pepe, olio di oliva e mischiare. Servire con fettine di avocado, pomodori multicolore, salmone affumicato e crescione.

Arrostire le polpettine vegane di piselli e fagioli e servire con una salsa muhammara fatta in casa. Per prepararla mettere nel mixer dei piquillo senza pelle (peperone rosso dolce arrostito), con noci, olio di oliva, sale e pepe e tritare finemente.

*Nelle maggiori filiali

L’assortimento bio della Migros è stato arricchito con un cuscus integrale, un mix di quinoa con funghi porcini e delle polpettine vegane di piselli e fagioli. In un attimo si preparano pietanze leggere, che possono essere guarnite con ingredienti freschi o condite con una salsa preparata in casa. Va ancor più velocemente con entrambi i prodotti bio in scatola: lenticchie alla salsa di pomodoro e ravioli Napoli. Basta scaldarli leggermente e aggiungere a piacere formaggio grattugiato.

Novità Couscous integrale bio 500 g* Fr. 3.20

Novità Quinoa Mix con funghi porcini bio 250 g* Fr. 3.50

Lenticchie alla salsa di pomodoro bio 320 g Fr. 2.30

Ravioli Napoli bio 435 g* Fr. 2.30

Novità Polpettine di piselli e fagioli bio 200 g* Fr. 4.90

Gli agricoltori bio lavorano in armonia con la natura. Si prendono cura di animali, piante, terreno e acqua.

L’impegno Migros a favore della sostenibilità è da generazioni in anticipo sui tempi.


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Bio

Facile, veloce, buono

Per quando si ha fretta: con i nuovi prodotti bio della Migros si possono preparare in un battibaleno piatti semplici ed equilibrati

Suggerimento 2

Testo Melanie Michael; Foto Ruth Küng

Preparare la quinoa seguendo le indicazioni presenti sulla confezione. Servire con insalata fresca di spinaci o bietola rossa, scaglie di parmigiano e noci tostate.

Suggerimento 1

Suggerimento 3

La «good life bowl» è una prelibatezza dai colori vivaci: scaldare il brodo e versarlo sul cuscus: spremere il lime e aggiungere al cuscus. Condire con sale, pepe, olio di oliva e mischiare. Servire con fettine di avocado, pomodori multicolore, salmone affumicato e crescione.

Arrostire le polpettine vegane di piselli e fagioli e servire con una salsa muhammara fatta in casa. Per prepararla mettere nel mixer dei piquillo senza pelle (peperone rosso dolce arrostito), con noci, olio di oliva, sale e pepe e tritare finemente.

*Nelle maggiori filiali

L’assortimento bio della Migros è stato arricchito con un cuscus integrale, un mix di quinoa con funghi porcini e delle polpettine vegane di piselli e fagioli. In un attimo si preparano pietanze leggere, che possono essere guarnite con ingredienti freschi o condite con una salsa preparata in casa. Va ancor più velocemente con entrambi i prodotti bio in scatola: lenticchie alla salsa di pomodoro e ravioli Napoli. Basta scaldarli leggermente e aggiungere a piacere formaggio grattugiato.

Novità Couscous integrale bio 500 g* Fr. 3.20

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Ravioli Napoli bio 435 g* Fr. 2.30

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Gli agricoltori bio lavorano in armonia con la natura. Si prendono cura di animali, piante, terreno e acqua.

L’impegno Migros a favore della sostenibilità è da generazioni in anticipo sui tempi.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 luglio 2018 • N. 30

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Idee e acquisti per la settimana Partecipa!

Vincitori

«Sono un griglietariano perché…»

#Griglietariani

Fortunati al grill

I fortunati sorteggiati al concorso #Griglietariani hanno vinto una festa privata con l’affermato cuoco David Geisser o altri premi. Partecipa al concorso, ne vale la pena!

Fino al 1° settembre ogni settimana vengono sorteggiati dei premi. Questa settimana ci sono 200 pacchetti per griglietariani, che consistono in una borsa e una carta regalo Migros da 20 franchi. Partecipazione su www.griglietariani.ch e per i Tutto l’occorrent

…durante le serate estive mi piace organizzare delle grigliate con gli amici». Manuela Frey (25) di Mülenen BE ha vinto un acquisto stagionale di prodotti da grill (Fr. 2000.–). La ventinovenne Mylène Wild di Zurigo partecipa raramente ai concorsi. Per questo è stata ancor più contenta della sua vincita al concorso #Griglietariani: ha potuto invitare amici e famiglia a una grigliata nel giardino dei suoi parenti. Con i suoi ospiti Mylène Wild

ha gustato l’entrecôte di manzo con melone preparati al grill da David Geisser.

Anche alla grigliata del vincitore Thomas Wyss (56), a sinistra nella foto, sulla griglia sono approdate delle prelibatezze: bistecche, agnello, pollo e salsicce. Con gli ospiti ha festeggiato a casa sua, a Wilderswil BE. Lo chef della griglia David Geisser ha mostrato a Thomas Wyss

come si prepara una perfetta salsa per l’insalata e ha dimostrato che il pane all’aglio riesce magnificamente anche al grill.

«Sono una griglietariana perché in estate non c’è niente di più bello che gustare con amici e familiari qualcosa di buono preparato alla griglia».

… sono una donna che riesce a grigliare meglio di alcuni uomini», Sue Danz (43) di Flumenthal SO ha vinto delle spezie e un berretto.

…è la stagione del grill e anche della carne». Yannis Muller (35) di Sorens FR ha vinto un berretto e una pinza per grill.

… grigliare mi dà una sensazione di libertà». Urs Achermann (38) di Richterswil ZH ha vinto un berretto e delle spezie.

…mi piace mangiare all’aperto in buona compagnia». Simone Malingamba (44) di Claro TI ha vinto un berretto e delle spezie.

Dal professionista del grill David Geisser, Peter Eicher ha raccolto suggerimenti su come grigliare, per esempio che la marinata per la carne di agnello non dovrebbe essere troppo piccante.

«Sono un griglietariano, perché amo la carne e perché le grigliate sono sempre bei momenti».

Foto zVg

Peter Eicher (71) di Neerach ZH per organizzare la grigliata ha affittato la locale sede della società di tiro, dove fino a mezzanotte ha festeggiato con 15 ospiti. Ha apprezzato il cibo e l’allegra compagnia.

«Sono un griglietariano perché preferisco mangiare carne, pesce e verdure che sono state preparate su una griglia bella calda».


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Vincitori

«Sono un griglietariano perché…»

#Griglietariani

Fortunati al grill

I fortunati sorteggiati al concorso #Griglietariani hanno vinto una festa privata con l’affermato cuoco David Geisser o altri premi. Partecipa al concorso, ne vale la pena!

Fino al 1° settembre ogni settimana vengono sorteggiati dei premi. Questa settimana ci sono 200 pacchetti per griglietariani, che consistono in una borsa e una carta regalo Migros da 20 franchi. Partecipazione su www.griglietariani.ch e per i Tutto l’occorrent

…durante le serate estive mi piace organizzare delle grigliate con gli amici». Manuela Frey (25) di Mülenen BE ha vinto un acquisto stagionale di prodotti da grill (Fr. 2000.–). La ventinovenne Mylène Wild di Zurigo partecipa raramente ai concorsi. Per questo è stata ancor più contenta della sua vincita al concorso #Griglietariani: ha potuto invitare amici e famiglia a una grigliata nel giardino dei suoi parenti. Con i suoi ospiti Mylène Wild

ha gustato l’entrecôte di manzo con melone preparati al grill da David Geisser.

Anche alla grigliata del vincitore Thomas Wyss (56), a sinistra nella foto, sulla griglia sono approdate delle prelibatezze: bistecche, agnello, pollo e salsicce. Con gli ospiti ha festeggiato a casa sua, a Wilderswil BE. Lo chef della griglia David Geisser ha mostrato a Thomas Wyss

come si prepara una perfetta salsa per l’insalata e ha dimostrato che il pane all’aglio riesce magnificamente anche al grill.

«Sono una griglietariana perché in estate non c’è niente di più bello che gustare con amici e familiari qualcosa di buono preparato alla griglia».

… sono una donna che riesce a grigliare meglio di alcuni uomini», Sue Danz (43) di Flumenthal SO ha vinto delle spezie e un berretto.

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Dal professionista del grill David Geisser, Peter Eicher ha raccolto suggerimenti su come grigliare, per esempio che la marinata per la carne di agnello non dovrebbe essere troppo piccante.

«Sono un griglietariano, perché amo la carne e perché le grigliate sono sempre bei momenti».

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Idee e acquisti per la settimana

Blévita

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Per la carne da grigliare i scelgono TerraSuisse. Così sostengono l’agricoltura svizzera in sintonia con la natura e rispettosa delle esigenze degli anim ali. Infatti più di 11’000 contadini TerraSuisse producono secondo diret tive severe che danno grande importanza al benessere degli animali e a metodi di coltivazione rispettosi dell’ambiente. Per una Svizzera meravigliosa e una grigliata meravigliosa.

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