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Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio L’esclusione dell’altro: un dialogo tra un grande scienziato e una studiosa della Shoah
Ambiente e Benessere Ogni settimana muoiono due persone per non essere riuscite a sottoporsi a un trapianto: parte la nuova campagna di sensibilizzazione per la donazione di organi
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXX 23 gennaio 2017
Azione 04 Politica e Economia Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca parte la grande sfida Usa-Cina
Cultura e Spettacoli Storia sociale della Svizzera in due recenti pubblicazioni di Armando Dadò
pagina 11
ping M shop ne 33-38 / 53 i alle pag pagina 5
pagina 17
di Marzio Rigonalli pagina 21
Keystone
Un’amicizia strategica
pagina 25
Ruoli rovesciati nell’éra della confusione di Peter Schiesser L’«éra della confusione», in cui senza dubbio siamo entrati, non è povera di paradossi, di situazioni inaudite nel vecchio ordine mondiale. Ecco il presidente e segretario generale del partito comunista cinese difendere accoratamente la globalizzazione economica dal pulpito del Forum economico di Davos, luogo simbolo del potere capitalista. Contemporaneamente, abbiamo un presidente americano che non crede nel valore e nell’utilità della Nato e dell’Unione europea e mostra un approccio protezionista in economia. Non esattamente uno scenario da sogno per la stabilità mondiale e per la libertà di commercio, questa scelta fra un protezionismo alla Trump e una globalizzazione il meno regolamentata possibile, come si presenta il capitalismo cinese in patria. Per Xi Jinping i quattro giorni in terra elvetica sono stati un successo internazionale: la Cina si è presentata sul palcoscenico come una potenza consapevole degli obblighi che le spettano nei consessi mondiali, aperta ai commerci e agli investimenti, ma anche agli scambi culturali, tecnologici, a collaborazioni in campo ambientale.
La strategia di seduzione ha funzionato alla perfezione. Affiancato da una first lady carismatica (in Cina si ironizza che Peng Liyuan sia più conosciuta di lui, grazie alla sua carriera di cantante), Xi Jinping ha giocato secondo le regole dello show politico-mediatico mondiale. Si sarà ben visto qualcuno di più sciolto sul palcoscenico (ma la scuola comunista non è proprio un modello di spontaneità), comunque il presidente cinese se l’è cavata bene, i suoi messaggi, mediaticamente azzeccati, hanno toccato corde sensibili in Occidente: chi non vuole una globalizzazione più inclusiva (visti i risultati à la Trump e à la Brexit)? Chi non auspica una Cina impegnata in prima linea contro i cambiamenti climatici? Chi non vuole intingere le mani nel miele dell’economia cinese? Le parole hanno ancora un potere alchimistico in Occidente, facile dunque cedere alla tentazione di credere alle buone intenzioni espresse dal rinascente Impero celeste. E così, al paradosso iniziale di uno Xi Jinping comunista ma paladino del capitalismo e di un Donald Trump miliardario ma anti-establishment politico ed economico, se ne aggiunge un altro: un innato ottimismo umano porta a voler credere agli auguri di maggiore prosperità ed armonia mondiale pronunciati dal presiden-
te della Cina, paese non propriamente noto per essere uno stato di diritto che rispetti la libertà d’espressione, i diritti umani, e per avere strutture e processi democratici all’occidentale; al contempo induce a sperare che Trump non faccia seguire i fatti alle sue parole. Non sarebbe un ottimismo privo di basi: la Cina si sta davvero impegnando per il clima e da una maggiore apertura economica può trarre molto profitto; le strutture istituzionali degli Stati Uniti prevedono dei correttivi che limitano le azioni del presidente. Tuttavia, da una potenza mondiale, come oggi è la Cina, bisogna attendersi che alle parole seguano i fatti. Nel caso specifico, che acconsenta davvero a garantire reciprocità nelle relazioni economiche, che mostri al mondo un suo specifico e funzionante modello di coesione e benessere socio-economico, che dia un rapido e consistente contributo alla lotta sul clima, ma anche che renda meno inquinanti la sua produzione industriale e i consumi. Con l’augurio che la dirigenza cinese cominci a riconoscere il valore dei diritti individuali e delle minoranze, perché da una nascente superpotenza ci si aspetta che oltre alla ricchezza materiale possa offrire al mondo dei canoni morali non inferiori a quelli di chi l’ha preceduta.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Attualità Migros
M In crescita la richiesta di prodotti della regione
Cifra d’affari 2016 FCM Pubblicato negli scorsi giorni il resoconto sull’attività Migros dell’anno appena concluso
Lo scorso anno la Comunità Migros ha realizzato un fratturato di 27,7 miliardi di franchi. Rispetto all’anno precedente ciò corrisponde a una crescita di 274 milioni di franchi, pari all’1 per cento. «Nel 2016 lo sviluppo della cifra d’affari è stato nuovamente influenzato dal rincaro negativo, dal persistere del turismo degli acquisti e da una serie di eventi geopolitici negativi che hanno avuto effetti sul settore dei viaggi. Con queste premesse possiamo considerarci soddisfatti dei risultati conseguiti», ha affermato Herbert Bolliger, presidente della Direzione generale della Federazione delle cooperative Migros. Risultano particolarmente apprezzati dai clienti Migros, che lo scorso anno li hanno acquistati con maggiore frequenza, i prodotti naturali, locali e sostenibili. Questi includono gli articoli dei «Nostrani del Ticino» – Oltralpe ne fanno parte quelli del programma «Dalla regione per la regione» – e l’assortimento Alnatura. Quest’ultimo marchio biologico nel 2016 ha addirittura raddoppiato il suo fatturato. In totale i clienti hanno speso 2,8 miliardi di franchi per prodotti ad alto valore
Il fatturato stabile dimostra la fiducia dei clienti. (Keystone)
aggiunto ecologico e sociale, vale a dire il 6,6 per cento in più rispetto all’anno precedente. Nel 2016 le dieci cooperative regionali hanno generato un fatturato netto di 15,634 miliardi di franchi. Il core business di Migros ha così
realizzato una leggera crescita dello 0,1 percento. Oltre ai prodotti della regione, anche il settore del commercio online ha potuto contare su un anno di successo. In quest’ultimo comparto Migros ha rafforzato la sua posizione di leader di
mercato, registrando un fatturato complessivo di 1,946 miliardi di franchi, che corrisponde a un incremento del 21,6 percento. La forte importanza della digitalizzazione nel commercio al dettaglio
trova dimostrazione nell’evoluzione dell’App Migros, che è disponibile per la clientela fin dal 2014. Io scorso anno questo software per smartphone e tablet ha superato per la prima volta la soglia dei due milioni di utenti.
Confezioni da asporto che tutelano l’ambiente
Vinci una borsa piena di salute
stoviglie riutilizzabili nei suoi ristoranti e take away
di «iMpuls»
Gastronomia Migros è il primo dettagliante svizzero a proporre
Ogni settimana circa 1,2 milioni di persone mangiano in un ristorante o take-away Migros. Un terzo di loro non consuma sul posto, ma prende il cibo da portare in ufficio, a scuola o al parco. Fino a oggi utilizzando contenitori in plastica usa e getta. Ora Migros offre un’alternativa ecologica: pagando un deposito di 5 franchi a richiesta si può scegliere un contenitore da asporto riutilizzabile, contribuendo così a ridurre il volume dei rifiuti. Dopo l’uso le stoviglie riutilizzabili, non lavate, vanno riportate in un ristorante o take-away Migros. Qui contenitori e coperchi vengono lavati e controllati, per poi essere utilizzati fino a 100 volte. Considerato che una confezione monouso pesa tra i 20 e i 40 grammi, si risparmiano così in media 3 chilogram-
Domanda 1: che cos’è iMpuls?
SA iMpuls è la nuova iniziativa della Migros in favore della salute che fornisce un contributo importante per uno stile di vita sano con consigli stimolanti e offerte variegate. MA iMpuls è una nuova marca sportiva della Migros disponibile solo presso 10 filiali. Domanda 2: dove può informarsi la clientela in merito a iMpuls?
mi di materia plastica. Inoltre, quando scartate le nuove confezioni non vengono gettate bensì riciclate. Tutto ciò
Stoviglie riutilizzabili Buono a sapersi
Sul territorio svizzero 174 strutture Migros, tra cui tutti i ristoranti e take away in Ticino, offrono i prodotti da asporto nei contenitori riutilizzabili. Maggiori informazioni su migros.ch/ stoviglie-riutilizzabili Il deposito ammonta a 5 franchi e vie-
Concorso In palio una delle 20 gym-bags
ne rimborsato al momento della restituzione. I contenitori riutilizzabili possono essere restituiti non lavati. Se non vengono riportati in giornata, è opportuno sciacquarli. Ciotola e coperchio sono lavabili in lavastoviglie e sono idonei all’utilizzo del microonde.
permette di compensare il maggior utilizzo di materiale necessario per la loro produzione. Anche conteggiando produzione e lavaggio, il bilancio ambientale dei contenitori riutilizzabili risulta infatti molto più ecologico rispetto a quelli usa e getta. Ulteriore vantaggio, il fatto che il materiale robusto mantiene più a lungo il calore del cibo. Le stoviglie riutilizzabili sono prodotte in Svizzera. Progettate da Migros assieme alla start-up recircle.ch di Berna. Il codice presente sul fondo della confezione, indispensabile per la pesatura, è invece applicato dai collaboratori della fondazione grigionese Argo, attiva nell’integrazione di persone disabili.
Migros promuove la salute delle persone in Svizzera: con la nuova iniziativa iMpuls, fornisce un contributo importante per uno stile di vita sano con consigli stimolanti e offerte variegate. iMpuls mette in palio 20 borse con Acqua Aproz, Bio Quinoa Mix, Blevita Push Pop Müsli, Farmer Plus Cranberry Protein, Sun Queen Frutta Mista, Axanova Active Gel, Gel Doccia «I am», Sponser Protein Drink Vaniglia. Per vincerne una, invia un’email a giochi@azione. ch, con i tuoi dati, (nome, cognome, indirizzo, no. di telefono) la «parola magica» (che si forma unendo le sillabe legate alle risposte corrette delle tre domande qui di seguito), e il nome della filiale Migros in cui ritirerai il premio.
LU Sul nuovo sito web www.migrosimpuls.ch MU Da nessuna parte.
Domanda 3: di che colore è il nuovo logo di iMpuls?
SE Giallo. RE Verde. TE Turchese.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Società e Territorio L’autonomia del bambino Incoraggiare l’autonomia nei più piccoli li aiuta a sviluppare la propria autostima: intervista alla pedagogista Elena Urso pagina 7
Tener viva la memoria di un Paese La Svizzera e la Seconda guerra mondiale: l’Associazione ticinese degli insegnanti di storia presenta la traduzione del libro dello storico romando Pietro Boschetti pagina 8
Il popolamento del pianeta da parte dei sapiens. (© Geo4Map S.r.l. – Novara 2016)
La tentazione dell’egoismo
Riflessioni Un genetista e una studiosa della Shoah raccontano la storia del dominio di «noi» sugli «altri»
Lorenzo De Carli Genetista famoso in tutto il mondo, a Luigi Luca Cavalli-Sforza – oggi quasi novantacinquenne – dobbiamo un progetto di ricerca tra i più importanti per conoscere la storia evolutiva della nostra specie: la Storia e geografia dei geni umani. Il lavoro di ricerca, condotto con Paolo Menozzi e Alberto Piazza, aveva messo a profitto i risultati ottenuti con la ricostruzione dell’albero evolutivo del genoma umano, trovando una forte correlazione con i rami evolutivi delle superfamiglie linguistiche, e dimostrando in tal modo che genetica e linguistica erano in grado di farci osservare l’itinerario seguito dalla nostra specie (Homo sapiens sapiens), dopo aver lasciata l’Africa 60’000 anni fa. Sempre impegnato a raccontare la storia migratoria della nostra specie attraverso le più recenti evidenze scientifiche in un’ampia vastità di campi del sapere, che vanno da quelle paleoantropologiche a quelle ecologiche, passando dalle evidenze microbiologiche, da quelle linguistiche a quelle genetiche, senza trascurare le evidenze climatologiche, CavalliSforza ha recentemente curato, insieme a Telmo Pievani, la mostra Homo
Sapiens. Le nuove storie dell’evoluzione umana, in corso al Museo delle culture di Milano (fino al 26 febbraio, informazioni: www.mudec.it). La mostra interattiva e multidisciplinare propone una ricostruzione della grande storia della diversità umana letta attraverso i geni, i popoli e le lingue. Una scrittrice e saggista italiana, Daniela Padoan, che da anni si occupa di testimonianza della Shoah e di resistenza femminile alle dittature, ha scritto con Cavalli-Sforza un libro in forma di dialogo intitolato Razzismo e noismo, andando alla ricerca di come nel corso della nostra traiettoria evolutiva – e quindi anche prima della storia scritta – abbiamo vissuto il rapporto noi-altri, cercando di comprendere quando e perché sono apparse le forme di dominio che caratterizzano le società complesse e quando ha preso forma il razzismo. Si tratta di un dialogo non sempre facile perché il linguaggio dello scienziato, che vorrebbe essere neutro e descrittivo, è spesso come posto su un piano diverso, rispetto al linguaggio dell’umanista, il quale, per contro, è caratterizzato dalla fortissima presenza di «connotazioni» che fanno riferimento o a particolari orientamenti ideologici, o a particolari tradizioni culturali, oppure a speci-
fiche epoche storiche. Ciò nondimeno lo scambio di punti di vista è molto interessante perché contiene la riflessione filosofica e la ricostruzione storica dentro gli argini forniti da dati della scienza, e, nello stesso tempo, mette in evidenza come quest’ultima, non solo è sempre stata soggetta a forzature ideologiche (pensiamo, per esempio, al cosiddetto «darwinismo sociale» o all’eugenetica messa al servizio del dominio politico), ma è sempre stata anch’essa una pratica sociale dipendente dal contesto storico contingente. Cavalli-Sforza non dubita che la nostra specie conobbe un punto di svolta 10’000 anni fa, quando – domesticate piante e animali – con la cosiddetta «rivoluzione agricola» le popolazioni umane, prima tutte di cacciatori-raccoglitori, divennero sedentarie, dedite all’agricoltura e alla pastorizia. «Quella straordinaria invenzione ebbe un notevole effetto sulla demografia e quelle prime popolazioni di agricoltori e allevatori cominciarono a riprodursi di più» dice lo studioso italiano. In circa cinquemila anni, gli agricoltori «si irradiarono nei territori europei abitati da cacciatoriraccoglitori e poco per volta li soppiantarono». L’agricoltura fece emergere il con-
cetto di «proprietà privata», tutt’ora pressoché ignoto nelle popolazioni di cacciatori-raccoglitori rimaste. Essa consentì la produzione di un surplus alimentare che permise l’esistenza di gruppi umani liberi dalla necessità di procacciarsi cibo, specializzandosi in attività come la guerra, il commercio, la produzione e la diffusione di conoscenza; nonché la creazione di gerarchie sociali prima ignote. Anche il rapporto tra uomini e donne cambia: «con la nascita delle prime civiltà, la donna diventa generatrice biologica di una prole della quale il patriarcato si è assicurato la proprietà»; contemporaneamente, mano a mano che la ricerca di nuove terre da coltivare promosse le guerre, prese luogo una pratica anch’essa ignota ai cacciatori-raccoglitori: la schiavitù. «Tutto l’edificio della nostra cultura – dice Cavalli-Sforza – si è in larga misura fondato sulla schiavitù». Il dialogo tra Cavalli-Sforza e Daniela Padoan attraversa tempi storici, di cui non sempre abbiamo documentazione. Il genetista italiano osserva che tutte le civiltà fanno riferimento ad un’«età aurea», in cui l’esistenza era priva di conflitti e l’accesso al cibo garantito da una natura generosa. I dati paleolitici ci dicono che, nella nostra migrazione che ci ha portati in tutto
il pianeta, abbiamo spesso incontrato una situazione simile, quando i frutti erano facilmente disponibili e la megafauna di tutti i continenti era cibo che ci si poteva procurare quasi senza sforzo. Fu l’incremento demografico e la nascita di società più articolate e, soprattutto, la rottura dell’equilibrio con l’ambiente, che causò l’insorgere di una situazione paragonabile all’«uscita dal paradiso» e la manifestazione di conflitti tra popolazioni ritenute di «razze» diverse. «Eppure una serie di fenomeni ci mostrano che il razzismo non è altro che una modificazione patologica di tendenze piuttosto importanti per la vita dell’uomo», infatti il noi ha sempre avuto una funzione protettiva per la nostra specie, consentendo a gruppi di individui affini e coordinati di far fronte alle avversità con un’efficienza migliore. Oggi, educazione e cultura dovrebbero incoraggiare la costruzione di argini legislativi per contrastare comportamenti etnocentrici e xenofobi, i quali, se pure affondano in tendenze ataviche, in epoca di globalizzazione non sono più adattamenti bensì disadattamenti perché rischiano di creare conflitti o situazioni di degrado ambientali tali, da minacciare la sopravvivenza stessa della nostra specie.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Società e Territorio
Educare all’autonomia
Infanzia Attraverso la conquista dell’autonomia nelle piccole azioni quotidiane il bambino può sviluppare
una sana autostima e un positivo senso di fiducia e libertà. Intervista alla consulente familiare Elena Urso Elisabetta Oppo L’autonomia è un traguardo al quale il bambino arriva pian piano con l’esperienza, imparando a risolvere piccole difficoltà quotidiane e affrontando i problemi della vita di ogni giorno. Stimolare l’indipendenza del bambino da quando è molto piccolo, è fondamentale e darà i suoi frutti quando andrà a scuola e quando, da adulto, dovrà affrontare gli ostacoli della vita. Molti genitori spesso pensano che il figlio abbia bisogno di protezione in tutto, convinzione che li porta a sostituirsi a lui in ogni situazione, impedendogli in questo modo di percorrere alcune tappe fondamentali per il suo sviluppo. In realtà un bambino in ogni sua tappa della crescita ha sì bisogno di cure ma anche di essere protagonista delle proprie azioni. Abbiamo approfondito l’argomento con la pedagogista Elena Urso. Elena Urso, l’importanza di rendere i bambini autonomi già nei primi anni di vita è ormai pienamente riconosciuta, perché?
Oggigiorno ci sono sempre più genitori che nei primi anni di vita del figlio, vuoi con buone intenzioni, vuoi per i ritmi pressanti delle giornate, si sostituiscono ai figli nel fare anche le cose più semplici. Il risultato è che ci sono davvero bimbi che imparano molto tardi a sviluppare anche alcune autonomie pratiche quotidiane, dal vestirsi da soli al preparare la cartella per andare a scuola o a lavarsi da soli. E se ne vedono gli effetti quando i genitori manifestano poi una difficoltà a far fare le cose da soli ai bambini quando sono più grandi. Io direi che è particolarmente importante sviluppare l’autonomia perché è la base per una maggiore autostima e sicurezza. Un bambino che scopre di riuscire a fare da solo sarà un bambino che avrà sempre più fiducia nelle proprie capacità e non avrà paura di provare e di sperimentare e anche di sbagliare. Ci sono delle età specifiche nelle quali è bene avviare un percorso di autonomia del bambino?
Fin da quando i bambini sono molto piccoli si può promuovere un sano sviluppo dell’autonomia. A partire da gesti banali, ad esempio lasciare a portata di mano degli oggetti come il biberon, lasciargli fare dei tentativi per portarlo alla bocca, senza intervenire nell’istante in cui vediamo che si sta innervosendo perché non riesce. Un’altra cosa che purtroppo viene sempre meno è il camminare… ma qui bisogna fare i conti con la realtà
quotidiana. L’ideale sarebbe portare i bambini alla scuola dell’infanzia a piedi perché è un momento bellissimo da condividere. Se non è possibile per gli impegni di lavoro dei genitori, sarebbe bene appena è possibile uscire a piedi con i bambini. Anche se per un breve tragitto, si fa camminare il bambino, perché, a parte che è una delle attività fisiche migliori che ci siano, aiuta i piccoli a rafforzare la percezione del proprio corpo, e quindi ad acquisire più sicurezza in sé stessi. Un’altra cosa che si può fare, quando i bimbi sono ancora molto piccoli e iniziano a strisciare ancora prima di gattonare, è quella di lasciarli per terra e mettere dei giochi a portata di mano. È uno stimolo importantissimo perché sprona il movimento da un lato, e permette di soddisfare la curiosità e il bisogno di autonomia dall’altro.
Quando sono più grandi, nella quotidianità come si può insegnare l’autonomia a un bambino?
Ad esempio lasciando che si lavi da solo. È chiaro che all’inizio dobbiamo ripassare noi, perché se no non si lavano bene, però un primo lavaggio lasciamolo fare a loro, non aspettiamo i cinque anni. La tavola è un altro aspetto fondamentale… spesso non si lasciano mangiare i bambini da soli finché non sono in grado di mangiare bene, che è però un circolo vizioso perché se non si inizia mangiando male non si può imparare a mangiare bene. Per cui lasciamo a portata di mano delle posatine, lui ne sarà interessato e se all’inizio le userà in modo improprio, dopo averne studiato forma e consistenza le utilizzerà per mangiare. Anche questo è un progresso enorme perché c’è una coordinazione tra l’occhio la mano, e la capacità di centrare la bocca è uno sviluppo incredibile per l’autonomia. Un’altra cosa importante è il vestirsi da solo, ci sono tanti modi per insegnare ai bambini a vestirsi, scegliamo il momento più tranquillo, magari la sera prima di andare a letto, partendo dal pigiamino, iniziamo dai pantaloni che è più facile indossarli. Ci mettiamo di fianco a lui, non di fronte, perché è più facile per lui imitare i movimenti, e gli facciamo vedere come si fa, poi lasciamo che faccia da solo. È importante fare vedere come si fanno le cose, non spieghiamoglielo a parole, perché possono essere capite fino a un certo punto. Anche far svolgere ai bambini dei piccoli lavori domestici aiuta a sviluppare l’autonomia?
Sì, diamo dei compiti ai bambini. Piccoli, ma che possano compiere dall’inizio alla fine, ad esempio aiutare
Mangiare da soli: un progresso verso l’autonomia da incoraggiare il più resto possibile. (Marka)
ad apparecchiare la tavola, o altre attività manuali come stendere i panni, svuotare la lavastoviglie. Loro sono contenti perché per loro è un gioco tale e quale a quando ci mettiamo a giocare con loro sul tappeto e nello stesso tempo hanno la possibilità di acquisire una certa autonomia e imparare tutta una serie di movimenti che poi torneranno utili in altri contesti. La preparazione della cartella è un altro argomento che manda in crisi, non si può pretendere che da subito siano capaci di organizzarsi da soli… All’inizio prepariamo noi le cose che devono portare il giorno dopo e lasciamo che loro le mettano in cartella, poi progressivamente facciamo sempre meno. Al massimo noi possiamo dare un’occhiata per essere sicuri che ci sia tutto, però non sostituiamoci a lui per paura che dimentichino un quaderno, anche perché basta che il bambino dimentichi qualcosa una volta perché impari sulla propria pelle a prestare più attenzione.
impara a fare qualcosa. Questo fa sì che i bambini non si sentano bloccati per paura di sbagliare. Impareranno che alla maggior parte degli errori c’è rimedio. Poi alcuni semplici gesti come il portare un cucchiaio alla bocca è uno dei prerequisiti della coordinazione che permetterà al bambino di imparare a tenere in mano la matita per colorare, tenere in mano le forbici per ritagliare, arrivare a scuola e avere quella coordinazione oculo-manuale che servirà per scrivere. Sembra tutto scollegato, in realtà ogni movimento di cui si appropria il bambino serve poi ad altro, per capacità emotive e capacità fisiche, per cui è davvero un beneficio a 360 gradi lasciare fare da soli. Sapere che mamma e papà si fidano aiuta più di mille parole i bambini a sentirsi sicuri, e servirà da adulti a non sentirsi bloccati e spaventati quando si presenta una novità, per il timore di non essere all’altezza.
punto il bambino sarà impreparato. Si crea un senso di dipendenza e nel momento in cui viene meno la figura dalla quale si dipende ci si trova impreparati ad affrontare anche situazioni molto banali. Ogni età ha le proprie frustrazioni ed è meglio viverle nell’età adeguata, piuttosto che avere un’infanzia priva di frustrazioni o di sconfitte e ritrovarsi a un certo punto nella vita reale senza gli strumenti per affrontare le difficoltà. Il rischio è di diventare adulti spaventati dalla vita, aggressivi con la tendenza a dare sempre la colpa agli altri, sentirsi incompresi e vivere tutto come una grandissima ingiustizia, senza riuscire a reagire.
Viceversa la troppa autonomia concessa ai figli può avere conseguenze negative nella crescita e nello sviluppo del bambino?
Sì, innanzitutto la fiducia in sé stessi, che non significa sentirsi infallibili, ma sapere che si può provare, riprovare e riprovare ancora fino a che non si
Si crescono dei bambini insicuri. Per quanto i genitori si impegnino ad essere onnipresenti nella vita dei figli per eliminare ogni ostacolo, crescendo potranno esserlo sempre meno e a quel
Io farei una differenza tra libertà e autonomia. Occorre dare una libertà adeguata all’età del bambino, sempre essere inserita in un quadro chiaro e preciso di quelle che sono le regole da rispettare. L’autonomia è all’interno di questo quadro… Tutto quello che puoi fare da solo fallo, il che non vuole dire che puoi fare tutto quello che vuoi. Poi decide il genitore che cosa può fare e cosa no, ma questa è ovviamente la base dell’educazione.
mo, quanti passi abbiamo fatto, quanti battiti cardiaci... Facciamo qualche esempio. Plant Nanny, è un’app gratuita che ricorda di bere durante il giorno. È una sorta di tamagotchi (terribile!): basta adottare una delle piantine animate proposte, darle un nome e ogni volta che si beve un bicchiere d’acqua lo si deve registrare. A quel punto la piantina cresce bene. Se, invece, ci si dimentica di bere, la piantina inizia ad appassire. Poi c’è l’app Noom coach, un diario alimentare che sprona a seguire una dieta volumetrica scegliendo quei cibi che hanno maggior volume in fibre e acqua e meno calorie, come frutta e verdura. Si deve creare un account inserendo i dati personali come ad esempio età, altezza, peso attuale e peso forma, stile di vita e intensità della dieta. In base agli obiettivi che si vogliono raggiungere
l’app crea un limite di calorie da non superare. Anche qui, unico compito, ricordarsi di registrare tutto sul diario alimentare. Tra un po` inventeranno un’app che ci ricorderà pure cosa e quando dobbiamo registrare sulle altre app che utilizziamo. Sarò uno spirito libero, e in questo antitecnologico, ma non potrei mai sopportare i costanti alert del mio smartphone che mi dicono come e cosa fare. Le mie azioni e i miei comportamenti, per quanto piccoli, sono mie scelte dettate dai miei stati d’animo, dalle mie emozioni, dalle mie idee, dalla visione che quel giorno ho di me stessa e della mia vita. E se voglio osservare uno stile di vita sano e attivo, bene, se invece quel giorno voglio strafogarmi con un gelato alla crema con doppia panna montata, bene lo stesso. E non
ho bisogno di un’app o di un coach che mi dica se ho fatto la cosa più giusta, sta a me riconoscerlo, valutarlo e viverne le conseguenze. Tornando all’esempio dei numeri di telefono: se una persona opta per una vita fatta di alert e di coach digitali e all’improvviso perde lo smartphone, il pc e il tablet, come fa a vivere? Siamo noi gli unici fautori e responsabili del nostro bene e del nostro vivere secondo libertà interiore e meravigliosa, imprevedibile, mutevole autenticità del nostro essere e sentire. Va bene semplificare, ottimizzare e risparmiare tempo ma, come diceva Sartre, «l’uomo condannato ad essere libero porta il peso del mondo tutto intero sulle spalle: egli è responsabile del mondo e di sé stesso in quanto modo d’essere». E nulla, nessuna tecnologia, potrà mai cambiarlo.
Sviluppare l’autonomia nel bambino significa anche fornirgli strumenti preziosi che potrà poi utilizzare nello studio e nel lavoro.
Quando i genitori sono troppo protettivi e ostacolano la conquista di autonomia dei figli, quali possono essere le conseguenze?
La società connessa di Natascha Fioretti Senza il personal trainer siamo perduti Talvolta, se penso che nel prossimo futuro la televisione, conoscendo i nostri gusti, ci dirà quali film vanno in onda per noi, oppure, la vaporiera ci dirà quali verdure mangiare perché particolarmente adatte al nostro organismo, mi chiedo se invece di essere sulla fantasmagorica strada del progresso, abbagliati dalle mirabilanti performance delle nostre super tecnologie, non stiamo invece percorrendo quella del regresso e dell’involuzione umana. In particolare, mi chiedo se sia davvero necessario e sano, per il nostro vivere e convivere, delegare così tante funzioni e compiti a degli strumenti tecnologici o a terze persone. Insomma, non siamo in grado di pensare a noi stessi? Di fare le scelte più giuste per noi? Delegare
costantemente al nostro smartphone o PC non è anche un modo pericoloso per deresponsabilizzarci, fare meno fatica e allenare sempre meno la nostra memoria e il nostro cervello? Prendiamo i numeri di telefono: da ragazzina sapevo a memoria tutti i numeri delle mie amiche, oggi, se perdo il cellulare, a malapena so quello del mio fidanzato. E se vogliamo sgarrare, dobbiamo sorbirci i vari «bip» e messaggi che ci sgridano perché con quel pezzo di cioccolata abbiamo superato le chilocalorie giornaliere consentite? Basta guardarsi in giro o navigare in Rete, per scoprire come sia nel mondo digitale, sia in quello reale, siamo circondanti da un numero indefinito di personal trainer, personal coach, consulenti, applicazioni che ci dicono quanto e cosa mangiare, quante calorie brucia-
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Società e Territorio La fotografia scelta per la copertina, Ordine di mobilitazione, 1° settembre 1939, è tratta da K. Burri, T. Maissen, Bilder aus der Schweiz 1939-1945. (Neue Zürcher Zeitung Verlag, 1997)
L’officina-deposito dell’ex ferrovia Archeologia industriale A Viganello il
capolinea della Lugano-Cadro-Dino era stato progettato dall’architetto Giuseppe Ferla Laura Patocchi-Zweifel
Tener viva la memoria Storia L’Associazione ticinese insegnanti di storia presenta
la traduzione del libro di Pietro Boschetti dedicato al rapporto Bergier
Roberto Porta Una Svizzera isolata, senza alleati, costretta a guardare a sé stessa e al suo passato per placare la pressione internazionale che chiedeva incessantemente di fare chiarezza sul ruolo avuto dal nostro Paese nel corso della seconda guerra mondiale. Vent’anni fa era questa la sfida con cui la Svizzera si trovò a dover fare i conti. Erano gli anni in cui (ri)emerse la vicenda degli averi ebraici in giacenza nelle banche svizzere e appartenuti alle vittime dell’Olocausto, con le organizzazioni ebraiche di tutto il mondo a chiedere a gran voce un risarcimento finanziario. Un capitolo cupo della nostra storia recente a cui se ne affiancarono di riflesso diversi altri. Si tornò a parlare e a indagare sull’oro che dalla Germania nazista finì nei forzieri bancari elvetici. E della politica avuta dal nostro Paese nei confronti di chi cercava un rifugio, in fuga dalla guerra e dalle atrocità del nazionalsocialismo. Una politica di accoglienza, è vero, ma anche di porte chiuse, con quella «J» che dopo un accordo tra Berlino e Berna fu stampata sui passaporti degli ebrei tedeschi. Per la Svizzera fu poi più facile respingerli. Sono trascorsi soltanto vent’anni da quella vicenda degli averi ebraici e quel periodo appare oggi – diciamocelo – piuttosto lontano, quasi rimosso dalla memoria collettiva del nostro Paese. Per questo motivo l’Associazione ticinese degli insegnanti di storia ha deciso di tradurre e pubblicare un volume dello storico romando Pietro Boschetti. La Svizzera e la Seconda guerra mondiale nel rapporto Bergier, questo il titolo del libro che lo stesso Boschetti aveva pubblicato in francese nel 2010. Una pubblicazione che presenta e riassume le ricerche e i risultati ottenuti dalla Commissione Bergier, istituita nel 1996 dal governo e dal parlamento svizzeri proprio per far luce sul ruolo della Svizzera negli anni del secondo conflitto mon-
Conferenza Sul tema giovedì 26 gennaio alle ore 18 si terrà una conferenza alla Biblioteca cantonale di Lugano, in cui verrà presentato il volume di Pietro Boschetti, La Svizzera e la Seconda guerra mondiale nel rapporto Bergier. Alla conferenza parteciperanno oltre all’autore del libro, Georg Kreis, storico e membro della Commissione Bergier, Dick Marty, Consigliere agli Stati tra il 1995 e il 2011 e – in nome dell’Associazione ticinesi degli insegnanti di storia – Sonia Castro e Maurizio Binaghi.
diale. Ma che cosa rimane oggi del lavoro di quella Commissione indipendente di esperti (CIE) guidata dalla storico Jean-François Bergier? Cosa resta ben delle undicimila pagine pubblicate in sei anni di lavori, finanziati con un credito di 22 milioni di franchi? Domande che abbiamo dapprima rivolto all’autore del volume, Pietro Boschetti. «C’est une grande question – ci risponde lo storico romando – Dobbiamo distinguere due livelli. C’è l’aspetto della memoria e del dovere di tener viva la memoria di un Paese. Da questo punto di vista il lavoro della commissione Bergier è stato di grande importanza. Gli esperti hanno potuto accedere alle fonti primarie, per esempio ai documenti delle banche e delle industrie svizzere. Per permettere le loro ricerche è addirittura stato sospeso il segreto bancario, cosa impensabile in quegli anni. Tutto questo per avere una visione seria sull’attitudine avuta dalla Svizzera nel corso del secondo conflitto mondiale. Senza però voler apportare un giudizio, perché non è compito degli storici issarsi a giudici della storia. Fu un lavoro straordinario, per la qualità delle ricerche svolte e per la quantità degli ambiti analizzati». Le undicimila pagine pubblicate dalla Commissione, suddivise in 25 volumi, furono poi riassunte in un rapporto finale pubblicato nel 2002. Nelle conclusioni di questo rapporto si possono leggere frasi come queste: «Nel 1942 le autorità chiusero le frontiere in un momento cruciale, quando ragioni geografiche fecero della Svizzera l’ultima speranza di salvezza per molte persone in pericolo; esse rifiutarono pure di includere figli di ebrei fra i bambini accolti temporaneamente»; oppure, per quanto riguarda gli averi ebraici in giacenza in Svizzera e la loro restituzione ai sopravvissuti o ai loro famigliari «i banchieri videro il problema, ma si opposero a lungo con successo ad ogni tentativo di trovare una soluzione globale»; oppure sull’accusa rivolta alla Svizzera di aver contribuito a prolungare la guerra la CIE replica in questo modo «né forniture di armamenti, né il finanziamento di materie prime strategiche ebbero il tangibile effetto di prolungare la guerra. La CIE non ha trovato nessuna prova in questo senso». Questo immenso lavoro e le conclusioni che ne sono scaturite provocarono da subito una reazione di fastidio, se non di rigetto, in una buona parte del mondo politico svizzero. «E questo è il secondo livello, l’altro aspetto legato agli effetti e alle reazioni avute nel Paese in relazione alle ricerche svolte dalla Commissione – sottolinea lo storico Pietro Boschetti – E qui bisogna dire che non appena il rapporto conclusivo fu pubblicato, il primo riflesso
è stato quello di dimenticare il lavoro svolto dalla CIE. C’è stata molta fretta nel voler voltare pagina, affinché non se ne parlasse più. Le autorità hanno fatto tutto il possibile per dimenticare il rapporto Bergier». Una constatazione condivisa da uno dei membri della stessa CIE, lo storico Georg Kreis. «L’interesse iniziale per le nostre ricerche era molto alto, ma è andato via via calando, e questo già nel corso del nostro lavoro. Questo anche perché le banche avevano nel frattempo trovato un accordo per il risarcimento delle vittime dell’Olocausto e dei loro eredi. Non appena pubblicammo il nostro rapporto ci furono forti reazioni contrarie, quasi a voler tentare di correggere la nuova visione che il nostro lavoro portava sulla Svizzera e sul ruolo nel corso del secondo conflitto mondiale». Non più dunque soltanto l’immagine e il racconto di un piccolo Paese neutrale, che unendo le forze era riuscito a difendersi e anche a evitare una possibile invasione nazista. Il rapporto Bergier tracciò anche un altro ritratto della Svizzera, documentando i compromessi a cui diversi settori del paese erano scesi con il regime nazionalsocialista. «Riparare al danno significa pure ricordare, questo la Svizzera lo deve alle vittime – si legge ancora nella conclusione del rapporto finale della CIE – ma la riparazione rappresenta soprattutto un servizio alla comunità: alla società elvetica che deve conoscere la sua storia per portarne appieno la responsabilità, e alla comunità internazionale, che era in diritto di porre domande alla Svizzera e che lo fece con determinazione». «Credo che a medio e a lungo termine – fa notare Georg Kreis – il lavoro della Commissione continuerà ad avere effetti. Molto dipenderà dall’interesse che si vorrà avere per la storia e per il rapporto della nostra Commissione. In fondo basta solo volerlo». Uno sforzo in questo senso è dato proprio dal volume dell’Associazione ticinese degli insegnanti di storia che si compone di una traduzione del libro di Pietro Boschetti, con l’aggiunta in particolare di una postfazione dello stesso Kreis e di un capitolo dedicato alla «storia per immagini», per documentare anche con delle fotografie dell’epoca gli anni del secondo conflitto mondiale, visto dalla Svizzera. Tutto questo per continuare a tener viva la memoria del nostro Paese. Con sullo sfondo anche lo storico discorso al parlamento dell’allora presidente della Confederazione Kaspar Villiger, nel 1995, cinquant’anni dopo la fine della guerra. «Il Consiglio federale si rammarica profondamente e si scusa per quanto successo. Nella consapevolezza che un simile fallimento è di per sé non scusabile».
Il primo Novecento fu caratterizzato da un generale ottimismo, da una situazione economica effervescente e prospera per l’economia europea, dai grandi progressi tecnologici e un’apparente stabilità nelle relazioni internazionali. Anche il cantone Ticino, in questo periodo felice, denominato Belle Epoque, visse una fase d’intensa crescita promuovendo iniziative imprenditorali per lo sviluppo commerciale, alberghiero e l’insediamento di nuove e significative aziende industriali, favorite dall’ingente offerta di manodopera e dalle importanti fonti energetiche. Gli abitanti delle valli scendevano nei centri cittadini in cerca di lavoro provocando lo spopolamento delle aree marginali e il loro declino. Inoltre per agevolare il crescente movimento di viaggiatori e turisti, di trasporti e scambi di merci, le consegne di prodotti agricoli per i mercati e gli alberghi cittadini, occorreva dotarsi di nuove strutture viarie e mezzi di trasporto. Il problema venne risolto con la creazione di una rete di ferrovie regionali per collegare le zone periferiche con l’asse dei grandi traffici. Nel 1904 partì l’iniziativa per la costruzione della ferrovia regionale Lugano-Cadro-Dino: «lo scopo è quello di salvaguardare gli interessi di tutti i numerosi comuni posti sulla sponda sinistra del Cassarate». Ottenuta la concessione, il capitale necessario e costituita la Società, nel 1910 iniziarono i lavori, affidati all’impresa Crivelli-Bettosini di Viganello e diretti dall’ingegnere Alessandro Balli. La
gliettai. Sul piazzale si impartivano le prime lezioni di «scuola guida» con il capo deposito o un’altra persona competente. La Società disponeva fin dai primordi di macchinari e attrezzature indispensabili per le riparazioni necessarie alla manutenzione e al buon funzionamento dell’esercizio ferroviario. Coll’andar del tempo si era pure dotata di attrezzature che permettevano di effettuare anche delle modifiche al materiale rotabile senza dover ricorrere all’intervento di esperti e di macchinari estranei alla Società. Infatti nel 1927 venne assunto Ermanno Bianchi, meccanico e specialista di forgia che impresse una svolta decisiva alla gestione dell’officina ideando e realizzando meccanismi vari. Inventò il sistema per far passare all’interno della carrozza la corda che serviva ad avvertire il conduttore di fermarsi a richiesta, il tornio rettificatore delle ruote, il carro-scala per le riparazioni alla linea aerea costruito dalle maestranze della stessa officina. Mediamente vi lavoravano cinque operai che in casi particolari aiutavano per la manutenzione della linea, oppure fungevano da manovratori e da bigliettai. Inoltre l’officina collaborava con la vicina carrozzeria Regazzoni riparando veicoli incidentati e riverniciandoli talvolta con qualche sfizioso abbellimento. In via agli Orti di fronte al piazzale sorse lo stabile che ospitò la sottostazione delle Officine Elettriche Comunali di Lugano per la trasformazione della corrente adatta al funzionamento della ferrovia. Il piazzale dotato all’inizio di tre binari, diventati poi cinque, poteva
L’ex officina è ora la sede delle Autolinee Regionali Luganesi. (Zweifel-Patocchi)
ferrovia LCD con capolinea davanti alla movimentata Piazza Giardino (ora Manzoni), dopo 2 km di percorso cittadino lungo Corso Elvezia e Via Madonnetta, giungeva alla stazione La Santa di Viganello dove si trovavano anche l’officina-deposito e gli uffici. Da lì la linea s’inerpicava fra vigneti e boschi di castagno, toccando Pregassona, Soragno, Davesco e Cadro, per giungere infine alla stazione di Dino. L’imponente stabile che ospitava gli uffici e l’officina-deposito di Viganello e attualmente convertita in sede delle Autolinee Regionali di Lugano spicca ancora oggi ridipinta a nuovo. Progettato dall’architetto Giuseppe Ferla che disegnò pure l’Officina Termica di Cornaredo che oggi ospita il Cinestar, si distingue per la sua elegante sagoma allungata in classico stile liberty con portali ad arco in facciata e finestroni arcuati laterali. Nell’officina si preparavano gli apprendisti a diventare manovratori, conduttori e anche bi-
contenere quasi tutte le vetture disponibili ed era un museo all’aperto di materiale rotabile nuovo agli inizi: le automotrici, i vagoni, fra cui ul Pulée e la Giardiniera e il carro merci. Alcuni locomotori e carrozze erano di seconda mano come La Littorina arancione. Già negli anni 50 l’aumento del traffico motorizzato pose la LCD di fronte ad importanti problemi di transito. Dal 1. gennaio 1965 la LCD cede la tratta Lugano-La Santa all’Azienda Comunale dei Trasporti della città di Lugano che la effettua con un servizio di autobus. Il 31 maggio 1970 la Lugano-CadroDino cessa definitivamente la sua attività ed è sostituita il giorno dopo da un servizio di autobus che prolunga il percorso fino a Sonvico. Bibliografia
Alberto Polli e Angelo Ghirlanda, C’era una volta… la Lugano–Cadro– Dino, Pregassona, 2011.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni La lingua di Dante Sempre più spesso ho l’impressione che la lettura di un giornale mi diventi via via più difficile: quasi ogni giorno incappo in parole inventate di sana pianta dal giornalista creativo, oppure usate con un valore semantico ben diverso da quello d’uso definito dal dizionario. Una lingua, si sa, non è un monumento immutabile – a meno che sia una «lingua morta», di quelle che un tempo si studiavano al liceo. Una lingua viva evolve, si trasforma, si arricchisce (o s’impoverisce) di un lessico via via rinnovato, di parole importate da altre lingue e magari adattate alla pronuncia locale; ne sono prova i tanti «gallicismi» che da secoli costituiscono parole comuni del lessico italiano. Oggi è l’inglese a colonizzare le altre lingue, e si avvia a diventare la lingua comune internazionale, come per secoli sono stati il greco e il latino. Nulla di strano, è un’evoluzione naturale e
particolarmente comprensibile oggi, nell’era della globalizzazione. Ma quello che mi stupisce è che i giornalisti utilizzino parole del lessico inglese quando esiste l’equivalente italiano che dice esattamente la stessa cosa. E i politici non sono da meno – anzi, sono «da più»: da un lato, qui nel Ticino, si è sempre pronti a difendere la lingua italiana in quanto lingua nazionale e componente dell’identità elvetica; dall’altro, ci si dimentica che esistono parole italiane che andrebbero benissimo per esprimere la stessa idea senza dover ricorrere a forestierismi. Ad esempio: si decide di istituire un nuovo servizio pubblico, e il politico spiega l’utilità della nuova pensata ed elogia la celerità con la quale è stato approntato il progetto, ormai concluso; poi aggiunge che resta solo da definire la location. Ma, mi chiedo, la collocazione, o la destinazione non andrebbero altrettanto bene? Linguisti-
camente sì, ma è probabile che parlare di location accresca l’importanza del progetto – e anche la statura di chi lo difende. Poi ci sono le parole gonfiate – prendendole dal lessico già esistente e conferendo loro arbitrariamente tutt’altro significato. Leggo, ad esempio, su un quotidiano ticinese, che un nuovo progetto di legge che si sta approntando incontra il favore di alcuni partiti, mentre ci sono altri partiti «ad avere qualche criticità». «Criticità»? Be’, sì, la parola esiste ma, a detta dei dizionari, significa semmai una situazione di crisi, o l’instabilità di un particolare momento; mentre, ragionandoci sopra, appare evidente che il giornalista intendeva dire che alcuni partiti mostrano dubbi, riserve, o sollevano critiche nei confronti del progetto. Ma certo, dire che i partiti hanno una «criticità» suona ben più altisonante che dire che «avanzano critiche»!
Un altro esempio: le «problematiche». Ormai, di problemi non ce n’è più – e qui uno potrebbe tirare un respiro di sollievo; ma no, perché al posto dei problemi oggi ci sono le «problematiche». Ora, «problematica» significa – o meglio significava, fino a ieri – un complesso, una pluralità di problemi strettamente connessi tra loro; ma se si tratta di ripulire una fognatura, o di aumentare una tariffa di parcheggio, sarebbe forse più giusto parlare di un problema che va esaminato. Invece no: quel che è certo è che le autorità competenti «si chineranno sulla problematica»; e, a giudicare da quante volte si sente e si legge questa frase nelle cronache quotidiane, c’è da pensare che i politici siano in gran forma per il costante esercizio fisioterapico di chinarsi (e risollevarsi) sulle problematiche che spuntano ogni giorno. Così, dato l’inevitabile carattere contagioso delle frasi fatte e dei luoghi
comuni, questa espressione è dilagata nei media e nei discorsi dei politici: e si può star certi che il politico, dopo essersi chinato sulla problematica, la esaminerà «a 360 gradi» (roba da far girare la testa!), per concludere magari che «bisognerà pensarci ancora un attimino» (dove anche «attimino» non va inteso nel significato letterale – ossia una frazione infinitesimale di tempo – ma si deve ipotizzare un intervallo di parecchi mesi, o magari anni, prima che la «problematica» sia risolta). Così il linguaggio evolve di continuo, in attesa di sempre nuovi apporti di qualche innovatore; il che dimostra come sia sempre viva la «lingua di Dante». Ma, ora che ci penso: essendo «dante» il participio presente di «dare», è possibile e forse anche doveroso un aggiornamento in inglese; dunque, per procedere al passo con i tempi, suggerirei di chiamarla, d’ora innanzi, «la lingua di Giving».
mati gozzovigliano a un lungo tavolo di legno. Strabiliante la minuzia nei particolari: millimetrici tozzi di pane, pezzi di formaggio, minibottiglie di vino, coltelli, persino il discorso scritto tenuto in mano dal politicorana. In partenza ero un po’ scettico, eppure è proprio vero che certe cose vanno viste dal vivo. D’altra parte il nuovo allestimento, realizzato nel 2015 dallo studio museografico Kläfiger, mette in risalto la meticolosità umoristica di François Perrier. Su piedistalli antracite poggiano teche cilindriche retroilluminate con dentro queste scenette che procurano un piacere infantile. Il vetro ingrandisce appena alcuni dettagli. A bocca aperta mi lascia la partita di biliardo: uno dei cinque ranocchietti, pipa in bocca, appoggia il mento sul tavolino per seguire meglio il colpo. Accanto si svolge un poker su sedie biedermeier. Sbalorditive sono le lillipuziane carte acquarellate a mano che manco un orologiaio, per non parlare delle minuscole monetine in
una ciotola o del tipico panno verde ludico, macchiato con noncuranza per renderlo più reale. Un realismo surreale, visto il contrasto tra la precisione del décor unita al verismo delle pose e la buona dose di fantastico di questi anfibi qui dal maggio 1927. Perdipiù il capitano Perrier non era del mestiere. Tanti tassidermisti si sono chiesti, nel corso degli anni, come diavolo abbia fatto a ottenere amatorialmente un risultato del genere. Si suppone una delicata eviscerazione attraverso la bocca, poi dentro sabbia lacuale e un fil di ferro per le diverse posture. Un mistero rimane con cosa le abbia trattate perché si conservino così bene, mentre l’arte della miniaturizzazione sarà stato un dono innato perfezionato con la testardaggine di chi trasforma un hobby in ossessiva ragione di vita. L’umorismo nasce anche dalla rana in sé che si sa, fa ridere già solo così a vederla e da sempre si presta molto a un ruolo caricaturale dell’uomo. La quotidianità viziosa della piccola borghesia
dell’epoca ridotta a ranocchi aggiunge l’ultimo tocco, ricordando le vignette satiriche ottocentesche sui giornali. Mentre a rafforzare il rapporto uomorana c’è pur sempre il subconscio dove aleggia il meccanismo fiabesco del principe ranocchio. In un angolo è l’ora del domino, nell’altro s’incontra un pollaio, si passa dal barbiere. Le teche moderne illuminate a dovere, oltre a garantire una visione ottimale, quasi filmica, passo per passo, sono ora un habitat climatizzato che assicura lunga vita alle strampalate opere di Perrier. Altri esemplari antropomorfizzati di rana temporaria sono messi impeccabilmente in scena dal notaio, in camera da letto, come due comari che pettegolano o in veste di ubriaconi, e infine ancora durante una cena. Ma se siete dei veri amatori di rane, saltate sul primo treno per Payerne, nove minuti da qui. E andate al Cheval Blanc, il cui cavallo di battaglia, da anni, sono le cosce di rane a volontà: insuperabili a quanto pare.
religioso. Si assiste a una mobilitazione generale di opinionisti di ogni livello e competenza: dai ben noti Alessandro Meluzzi, Paolo Crepet, don Antonio Mazzi, alle firme del giornalismo, e, ormai bisogna tenerne conto, al popolo dei frequentatori dei social. È, insomma, difficile resistere alla tentazione di dire la propria, nei confronti di un reato che tocca i tasti della nostra curiosità più morbosa. Questa vicenda ne possiede tutti i requisiti: parla di sangue, di genitori innocenti, di adolescenti crudeli e forse inconsapevoli, e sfocia in un mistero indecifrabile. Viene spontaneo pensare a una finzione, uscita dalla fantasia di Doyle o Simenon. Cioè qualcosa di lontano e inconciliabile con la proverbiale bonarietà della provincia romagnola. Invece, salta fuori che, pure qui, un filo collega comportamenti e territorio, Come vuole una corrente di pensiero, socio-politico e morale, diffusa e culturalmente accreditata, di fronte a un reato, individuale o collettivo,
la ricerca delle possibili motivazioni denuncia la responsabilità dei luoghi. Per dimostrare come il fattore ambientale, cioè una periferia degradata, una strada troppo trafficata, o, al contrario, un angolo troppo isolato, possano spingere verso la devianza delinquenziale o sovversiva. E, quindi, come si è letto, anche quei due ragazzi, Riccardo e Manuel, erano, in fin dei conti, vittime delle circostanze: costretti a vivere in una località che, ai giovani, offre ben poco, anzi, una noia, da riempire con spinelli, playstation e discoteca. E che altro potrai mai fare nella soporifera Pontelangorino? Del resto, le presunte colpe dei luoghi non rappresentano un’esclusiva riservata al torpore provinciale. Anche Milano, secondo Sabina Guzzanti, è diventata «triste, deprimente, e cupa», tanto da indurre, per reazione, alla violenza. Per non parlare della correlazione, considerata addirittura determinante, che spinge gli abitanti delle periferie, ovviamente degradate,
verso le derive del terrorismo armato. Quasi una sorta di automatismo: con cui spiegare, alla bell’e meglio, fenomeni invece complessi e imperscrutabili. In proposito, vale la pena di riferire il giudizio di un testimone, in grado di smentire quest’accomodante argomentazione, attraverso un’esperienza personale e professionale vissuta, in diretta. Si tratta di Federico Rampini, che ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza a Bruxelles, e proprio nel quartiere di Molenbeek, oggi sbrigativamente definito «degradato», e quindi tale da provocare reazioni aberranti e disperate. E, giustamente, Rampini rileva l’uso improprio che si sta facendo del fattore ambientale. Una sorta di moda, a cui si ricorre nei casi più disparati, tentando di spiegare l’inspiegabile. Insomma, a Bruxelles, come nella nostra tranquilla Svizzera a Winterthur, diventata un centro di reclutamento per quasi un centinaio di foreign fighters, c’è il rischio, questo sì reale, di credere al condizionamento topografico.
A due passi di Oliver Scharpf Il museo delle rane a Estavayer-le-Lac Un pomeriggio gelido e nevoso verso fine gennaio arrivo a Estavayer-le-lac: comune medievale di seimila anime nel canton Friburgo affacciato sul lago di Neuchâtel. Su queste rive, tra i canneti, una sera d’estate del 1853, un ufficiale della guardia svizzera pontificia di nome François Perrier (1813-1860) acchiappa la prima delle centootto rane conservate nel museo comunale. Questa curiosa collezione di rane comicizzate in scenette di vita sociale, a furia di visitatori venuti qui apposta, ha soppiantato il nome del museo storico locale. Il Musée des grenouilles (453 m) si trova in una casa quattrocentesca, ex dimora di Humbert de Savoie detto Humbert le Bâtard. Tutta in sasso, tranne sei finestre ad arco carenato in pietra gialla di Neuchâtel che oggi mi sembra più che mai burrosa. Dal muro che spiove a fianco delle scale in pietra, spunta discreta, una testa arrugginita di rana stilizzata; tipo Kermit. Alle due in punto, in cima alle scale, si apre una porticina di legno
e una signora di mezza età caccia fuori la testa: «bonjour!». Le chiedo informazioni sulla testa di rana fuori, non sa nemmeno della sua esistenza. È un po’ mimetizzata, certo, ma la tipa, tra l’altro con la faccia da rana, si rivela «un po’ indietro di cottura» come diceva la mia prozia Ilda, perciò lascio perdere. Tralascio la sala d’armi e gironzolo buttando l’occhio su antichi gettoni da gioco in osso a forma di pesciolini, forme in zinco per cioccolatinimongolfiera, un gioco dell’oca-viaggio in Svizzera. Vari volatili impagliati dentro una credenza, un coccodrillo appeso, un tegu argentino che sembra un drago in miniatura, tele di ragno incorniciate da un certo Georges Hauchecorne definito «il domatore di ragni» in un articolo sottovetro apparso su «La Liberté», completano l’ambiente a metà strada tra brocante e gabinetto delle curiosità. Scendo nella sala delle rane. Ed eccola la prima combriccola di batraci burleschi intitolata La cena elettorale. Ventitré ranocchi imbalsa-
Mode e modi di Luciana Caglio Le colpe, presunte, dei luoghi A Pontelangorino, frazione di Codigoro, sulla strada che da Ferrara porta al Parco del Delta del Po, di sicuro, sono passata. Ma, le località, che s’incontrano, in questa pianura di campi intersecati da canali, non lasciano ricordi particolari. Ricalcano lo stesso schema: prima case coloniche sparse, poi villette in fila, qualche spaccio alimentare, un bar, magari una chiesetta, affacciati sulla via principale, e nient’altro. Si compone, così, quell’immagine di banale normalità che accomuna la stragrande maggioranza dei villaggi, delle borgate, delle cittadine di una provincia, dove proprio l’anonimato sembra garantire tranquillità e sicurezza, e persino una qualità di vita virtuosa. Meritando il silenzio mediatico che, abitualmente, le circonda. Dal quale, però, capita che siano strappate, con effetti ancora più sconvolgenti, rispetto a un territorio urbano, per sua natura preparato a eventi insoliti. Invece, anche un luogo, simbolo di una provincia che più pro-
vincia non si può, si trova scaraventata sulle prime pagine. Proprio nella scialba Pontelangorino, in uno scialbo villino, simile a ogni altro, una quotidianità prevedibile è stata interrotta da un fatto straordinario che sta fornendo un’inesauribile materia di riflessione, d’indagine e di perplessità agli addetti ai lavori della criminologia, della psichiatria, delle scienze educative, del pensiero
La casa del delitto di Pontelangorino.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Ambiente e Benessere L’origine di alberi e uomini Radici, ovvero l’inizio di un organismo vivente e anche dell’essere umano pagina 13
Le nuove mete turistiche del 2017 Per la Lonely Planet, il Canada è tra i paesi favoriti, mentre per la Rough Guide si riscoprirà anche la «Ruta del Che» pagina 14
Da Palermo a Malta Hotelplan organizza dal 16 al 23 aprile 2017 una crociera a bordo della Costa Fascinosa
pagina 15
Parliamone! Medicina La nuova campagna
di sensibilizzazione per la donazione di organi incoraggia al dialogo
Maria Grazia Buletti «La donazione di organi: parliamone!» è il messaggio dell’ultima campagna di sensibilizzazione sul tema del dono d’organi, avviata di recente dall’Ufficio della sanità pubblica (Ufsp) in partenariato con Swisstransplant. L’obiettivo è di motivare le persone a manifestare chiaramente la propria volontà sull’eventualità di donare i propri organi. Attualmente in Svizzera circa 1500 persone attendono di ricevere un organo donato e la lista di attesa si allunga con il trascorrere degli anni. L’Ufsp e Swisstransplant sono chiari: «Ogni settimana muoiono due persone per non essere riuscite a sottoporsi a un trapianto e, malgrado la maggioranza degli svizzeri sia favorevole alla donazione di organi, sono pochi coloro che informano i congiunti della propria volontà». Pertanto, nella metà dei casi la famiglia, in una situazione di lutto, non dà il consenso al prelievo degli organi. Si tratta di una campagna di sensibilizzazione che, oltre a dare gli strumenti e le informazioni importanti per farsi una propria opinione sul tema, invita e motiva a esprimersi in ogni caso. Che siamo favorevoli o meno ha la stessa valenza, basta che i nostri cari e i nostri conoscenti siano al corrente delle nostre idee e della nostra volontà. Si tratta altresì di una campagna che rientra in un piano d’azione mirato ad aumentare il consenso attorno a un tema di salute molto delicato, che tocca e interseca differenti sfere etiche, emotive, religiose, di convincimento personale e di vita. «Dal 2014 al 2015 il numero di donatori è passato da 14,4 a 17,4 persone per milione di abitanti (ndr: tenendo conto di tutti i gruppi della popolazione)». Tuttavia la tendenza nel 2016 è nettamente al ribasso e il numero di donatori si è ridotto a 11,7 persone per milione di abitanti: «La Confederazione si è posta l’obiettivo di raggiungere i 20 donatori per milione di abitanti entro il 2018 e a tale scopo, nel 2013, il Consiglio federale ha avviato il piano d’azione Più organi per i trapiantati di cui fa parte questa campagna».
Si tratta di un’operazione ad ampio raggio mirata a realizzare e coordinare le diverse misure suscettibili di aumentare il numero di persone che decidono di essere potenziali donatori. Per raggiungere i suoi obiettivi, la Confederazione si appoggia sugli attori principali del settore e sui Cantoni che, dice l’Ufsp: «Occupano una posizione decisiva di coordinazione delle attività negli ospedali». Attività di formazione specifica dei curanti e dei sanitari, ma pure di grande informazione della popolazione che passa attraverso la sensibilizzazione. A questo proposito, abbiamo incontrato l’infermiera del reparto Medicina intensiva e membro del Comité National du Don d’Organes (CNDO) Eva Ghanfili, pure membro di comitato di un sodalizio no profit ticinese i cui obiettivi sono indirizzati, per l’appunto, alla sensibilizzazione al dono d’organi: «La nostra associazione Insieme per ricevere e donare (www.riceveree-donare.ch) si impegna attivamente nella sensibilizzazione al dono d’organi e ci rivolgiamo alle persone attraverso conferenze pubbliche, partecipando con un seminario alle giornate autogestite dei licei, strutturato anche con la presenza di parenti di donatori e di persone trapiantate che portano la loro testimonianza diretta. Siamo presenti un po’ ovunque con bancarelle informative e persone competenti a disposizione per le domande e materiale divulgativo, talvolta partecipando a trasmissioni televisive o radiofoniche a tema, o rilasciando interviste sui giornali che chiedono di approfondire questo tema molto delicato e importante». Chiediamo alla nostra competente interlocutrice di parlarci dell’impatto che un tema così complicato suscita nel pubblico e ci viene detto che è sempre molto positivo parlarne perché «si chiariscono certi dubbi e noi facciamo del nostro meglio per dare degli “strumenti” di conoscenza a 360 gradi, che aiutino le persone a prendere una propria decisione sul voler o meno donare organi o tessuti». Eva Ghanfili ribadisce l’importanza di comprendere ogni aspetto della donazione d’organi, non
Eva Ghanfili, membro di comitato dell’associazione Insieme per ricevere e donare. (Stefano Spinelli)
tanto per diventare donatori, ma per farsi un’opinione precisa su cosa si vuole fare: «Che sia sì o no, è importante parlarne, in modo che i nostri cari sappiano cosa pensiamo e possano rispettare, in una remota e triste eventualità, tutte le nostre volontà espresse in vita». Attraverso i suoi relatori, l’associazione Insieme per ricevere e donare esercita un ruolo di sensibilizzazione con un particolare occhio ai giovani, che hanno spesso precise domande: «I ragazzi chiedono fino a che età si può donare (non ci sono limiti legati all’età), cosa e come si deve fare per diventare donatori (“Basta comunicare la decisione ai famigliari, e idealmente compilare la tessera”), dove si può trovare una tessera per donatore (“Su carta o scaricando su smartphone la MEDICAL ID-APP”)…». Mentre i timori più frequenti riguardano la presa a carico del paziente grave che giunge in
ospedale: «Si chiedono cosa succede se si arriva in Pronto soccorso incoscienti, con la tessera di donatore: “Mi salvano la vita o vanno nella direzione del bisogno d’organi?” E poi: “Sono davvero morto quando vengono prelevati gli organi?”». Eva sorride paziente mentre spiega che sono proprio le spiegazioni chiare sulla donazione che permettono di fugare ogni timore e di far sfumare ogni leggenda metropolitana che periodicamente viene a galla sul tema della donazione: «Solo attraverso gli strumenti della conoscenza ci si può rendere conto che non si tratta di nulla di speciale, e che in Svizzera dal 2007 vige una Legge federale che regola in modo capillare e inequivocabile la donazione d’organi. Infine, vale la pena di riflettere sul fatto che le probabilità di essere nella condizione di necessitare un organo sono molto superiori a quelle
di trovarsi in condizione di donarli». Secondo la nuova campagna di sensibilizzazione dell’Ufsp sono tre i buoni motivi per parlare di donazione d’organi: «Per me stesso, perché decido io cosa fare del mio corpo, sia in vita che dopo. Per i miei famigliari, perché talvolta la questione della donazione si pone all’improvviso ed è bene che i parenti conoscano la mia volontà e possano rispettarla senza dover prendere una decisione affrettata in una situazione di lutto. Per la vita: in Svizzera molte persone stanno aspettando un organo; dicendo sì alla donazione potrei salvare delle vite». Eva Ghanfili ribadisce l’importanza della libertà della propria decisione, che sarà sempre rispettata: «In Svizzera non esiste un Registro e ognuno è libero di cambiare la propria opinione in qualsiasi momento: basta poi informare nuovamente i famigliari».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Ambiente e Benessere
Insalata di scarola agli agrumi e ai gamberetti
Cucina di Stagione La ricetta della settimana
Antipasto Ingredienti per 4 persone: ½ limone · 200 g di gamberetti già cotti, tail-on · 2 prese
di noce moscata · sale, pepe · ½ scalogno · 2 pompelmi · ¼ di pomelo · 150 g di scarola · 1 cucchiaio d’aceto di vino bianco · 6 cucchiai d’olio d’oliva.
1. Grattugiate finemente la scorza di limone sui gamberetti. Condite con la noce moscata, sale e pepe. Tritate finemente lo scalogno e mescolatelo con i gamberetti. Spremete ¼ dei pompelmi (5 cucchiai). Spremete anche il limone (2 cucchiai) e versatelo nel succo di pompelmo. Pelate a vivo i pompelmi rimasti, dimezzateli e tagliateli a fettine sottili. Sbucciate il pomelo ed eliminate le pellicine dagli spicchi. Spezzettate l’insalata. Mescolate il succo degli agrumi con l’aceto e con 2/3 dell’olio. Condite con sale e pepe. 2. Rosolate i gamberetti nell’olio rimasto a fuoco medio per circa 2 minuti. Accomodate le fette di pompelmo e gli spicchi di pomelo sull’insalata. Irrorate con la salsa e servite l’insalata con i gamberetti.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Ambiente e Benessere
L’avventura comincia dalle radici Alberi Anche un pluri-centenario e gigantesco larice vive e prospera
Alessandro Focarile Roots, in inglese; racines, in francese; Wurzeln, in tedesco; korki, in russo. Radici, l’inizio di un organismo vivente. Negli esseri umani le radici simboleggiano l’origine di tutti gli eventi positivi e negativi nel decorso della loro vita. «D’una radice nacqui e io ed ella». (Dante Alighieri). Nel mondo vegetale le radici sono il primo stadio della vita originata da un seme, che può avere dimensioni millimetriche come nelle orchidee. Duplice e fondamentale è la loro funzione: assicurare l’ancoraggio della pianta al suolo; permettere la trasmissione dell’acqua e dei nutrimenti (organici e minerali) alla parte aerea della pianta stessa.
Le radici rilevano le varie esigenze ecologiche circa clima, apporto di acqua, nutrimenti nel suolo e contesti di impianto «Le radici formano un fronte in continuo avanzamento con innumerevoli centri di comando, cosicché l’intero apparato radicale guida la pianta come una sorta di cervello collettivo, o meglio un’espressione di intelligenza distribuita che, mentre cresce e si sviluppa, acquisisce informazioni importanti per la sua nutrizione e la sua sopravvivenza. Ogni pianta è una rete internet vivente». (Mancuso e Viola 2015). Nell’insieme della complessa e armonica architettura di un albero, la parte aerea di sostegno – quella che vediamo – ha un volume di gran lunga inferiore a quella – che non vediamo – sotto terra: la rizosfera, dal greco rhiza = radice. Conosciamo alberi socialmente «amichevoli», che non si fanno concorrenza, salvo per lo spazio che occupano. Per contro, conosciamo alberi che attivano, a livello radicale, una permanente lotta chimica per il predominio del territorio. Come l’ailanto (Ailantus altissima – di cui si parla
nell’articolo apparso su «Azione» n° 24 del 13 giugno 2016) che sta creando non pochi problemi in campo ambientale e forestale anche nel cantone Ticino. Oppure come il noce che non tollera la presenza di altri individui. Non sono noti boschi di noci. In questo caso, attraverso le radici, si crea un antagonismo biologico in virtù del quale sono elaborate e trasmesse sostanze tossiche quali lo juglone, un alcaloide, che impedisce la presenza di altri alberi e di altri vegetali, anche nello strato erbaceo. Una lotta continua a livello chimico inibitore, che si concretizza anche visivamente. Conosciamo alberi che hanno un apparato radicale superficiale, «a pizza». È ben nota la congenita modesta stabilità dell’abete rosso (Picea abies, peccio). E lo abbiamo constatato in occasione dei due uragani Viviane (1990) e Lothar (1999), spettacolari per i loro effetti ambientali ed economici, che hanno falcidiato l’abete rosso, i cui boschi di impianto artificiale, hanno subìto considerevoli danni in Francia, nell’Altipiano della Svizzera centrale e fino in Cechia e in Polonia. Per contro, vi sono alberi, come l’abete bianco (Abies alba) e i tigli, che hanno radici profondamente sviluppate verso il basso: «a cavaturacciolo». Le radici evidenziano le differenti esigenze ecologiche per quanto riguarda il clima locale, l’apporto di acqua e di nutrimenti nel suolo, e le situazioni di impianto. Quelle del Pino cembro (Pinus cembra) sono molto robuste e offrono un efficiente ancoraggio per la stabilità dell’albero nelle fessure delle rocce e tra i massi in alta montagna, fino a 2900 metri di altitudine. Nei boschi alluvionali si creano periodicamente variazioni di livello dell’acqua. Gli ontani, i salici e i pioppi possono produrre radici avventizie sui tronchi, che restano a indicare chiaramente il livello dell’acqua di fiumi e torrenti nel corso delle stagioni. Sono ben note le formazioni arboree tropicali tipiche dei litorali marini, legate alle maree: le mangrovie. Queste hanno radici avventizie sub-aeree che spuntano dal fusto e dai rami bassi degli alberi, a differenti altezze in funzione del livello dell’acqua. La profondità delle radici può essere notevole anche
Micorrize su radicelle di faggio. Larghezza immagine 35 millimetri. (Alessandro Focarile)
Aaron Escobar
grazie a milioni di radici millimetriche
in alcune erbacee: quelle del granoturco possono raggiungere 130 centimetri in due mesi, e quelle del verbasco (detto tasso-barbasso) fino a oltre tre metri! E parliamo ora delle micorrize (dal greco mykes = fungo, e rhiza = radice). Queste pullulano negli strati inferiori della lettiera decomposta di conifere e, soprattutto di latifoglie, dove il substrato è ben aerato, non compatto, e agevola gli spostamenti di una ricca e composita mesofauna di invertebrati, specialmente di insetti, che veicola le spore dei funghi e permette l’insediamento delle micorrize. E questo grazie anche al valido e determinante ausilio dei millimetrici (0,7 – 1,3) coleotteri ptiliidi, la cui presenza può raggiungere ben 320 individui in un chilo di lettiera decomposta. Ricordiamo che, nel corso di un anno, nei boschi ticinesi cadono al suolo 270mila tonnellate di materiale vegetale morto: fogliame, semi, ramaglia e legname. Le micorrize costituiscono una convivenza mutualistica tra le ife dei funghi superiori «a cappello» (come i boleti, le russule, le amanite) e anche i tartufi. Insieme a un altrettanto numeroso esercito di piante per lo più legnose e arbustive. Queste produzioni si insediano sulle giovani estremità delle radicelle dalle dimensioni di un capel-
lo (foto) che avvolgono come una sorta di manicotto (micorrize ectotrofiche = che si nutrono dall’esterno). Le micorrize costituiscono, per le piante che le posseggono, una necessità biologica, trattandosi di strutture nutrizionali e assorbenti. La micorriza è preziosa in quanto consente l’assorbimento di sostanze minerali indispensabili, presenti nel terreno ma poco mobili, quali il fosforo, il magnesio e il potassio. Infine, quelle benefiche impediscono l’insediamento eventuale di funghi patogeni, che potrebbero compromettere la vitalità del vegetale. In cambio di tutti questi favori biologici, il fungo (attraverso le micorrize) riceve dalle piante carboidrati e una struttura di sostegno. A un certo punto del cammino, l’uomo coltiva talvolta il desiderio ancestrale di conoscere le proprie origini: da quale più o meno lontano antenato egli discende, e dove si trovano le sue radici. Il famoso scrittore e giornalista nord-americano Alex Haley (19211992), discendente di un nero condotto schiavo dalla natia Gambia (Africa occidentale), pubblicava nel 1974 con grande successo (sei milioni di copie!) Roots, radici. Un libro straordinario che in cinquecento pagine ricostruisce la saga famigliare durante duecento anni e sei generazioni «americane» di schiavi e di uomini liberi. Per scrivere
quest’opera, Alex Haley percorse quasi 600mila chilometri in tre continenti (America, Europa, Africa) per ritrovare il villaggio natale del suo avo: le sue radici. E alla fine riuscì a scoprire non solo il nome del suo antenato africano, ma anche la località precisa della sua nascita, e dove era avvenuto il suo rapimento: il villaggio di Juffure, da dove nel 1767 all’età di 17 anni era stato rapito da negrieri mercanti di schiavi, trasportato con molti altri infelici nel Maryland, e qui venduto a un piantatore di cotone della Virginia, entrambi Stati degli allora nascenti USA. Anche i salmoni dal mare devono risalire alle sorgenti che li hanno visti nascere, per assicurare la continuità della loro vita. Bibliografia
Alex Haley, Roots, (Radici, traduzione italiana) Rizzoli Editore (Milano), 1978, 507 pp. Stefano Mancuso e Alessandra Viola, Verde brillante, Giunti Editore (Firenze, Milano), 2015, 142 pp. Janina Polomski e Nino Kuhn, Wurzelsysteme, Verlag Paul Haupt (BernStuttgart-Wien), 1998, 290 pp. E.F. Pfleger e R.G. Linderman (Eds.), Mycorrhizae and Plant Health, The American Phytopathology Society (St. Paul, Minnesota, USA), 1994, 344 pp. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Guardando anche a Oriente Viaggiatori d’Occidente Dove viaggeremo nel 2017?
Bussole I nviti
a letture per viaggiare «L’evoluzione del sapere geografico viene tradotta, con una certa efficacia, dalla storia delle sue carte. Per come sono state concepite e realizzate, esse mettono in luce tanto le lacune, i dubbi e gli interrogativi quanto le certezze degli uomini. Delimitando i paesi, indicando i mari, i fiumi e talvolta gli abitanti dei luoghi, le carte diventano più dettagliate e precise grazie alle relazioni, alle memorie e ai resoconti dei viaggiatori e degli esploratori. In seno o accanto a paesi reali, sono apparsi – sorti dagli oceani o inventati di sana pianta –, in diversi punti del globo e in epoche più o meno remote, paesi, terre, isole o continenti, regni avvolti da un’aura misteriosa, leggendari o totalmente sognati…»
Claudio Visentin «Orrore del domicilio», lo chiamava Baudelaire. È la malattia del nostro tempo. L’idea che si possa restare tranquillamente a casa è diventata quasi una stravaganza quando tutti si muovono incessantemente. Ed ecco che all’inizio dell’anno, con regolarità implacabile, nella stampa e in rete si moltiplicano le liste dei Paesi che dovreste visitare per conservare la reputazione di viaggiatori. L’elenco più autorevole è sempre quello di Lonely Planet, la principale guida turistica internazionale. Scorrendo le proposte, ci sono buone ragioni per credere che il Canada sarà il Paese dell’anno 2017: si presenta con un leader giovane e popolare come Justin Trudeau (non fate confronti coi loro vicini di casa, mi raccomando), una fascia di città vivaci a sud, a nord il respiro delle immense foreste. Soprattutto saranno numerose le iniziative per i centocinquant’anni dalla nascita della Confederazione, i primi passi verso il Canada contemporaneo. Anche la Finlandia festeggia l’indipendenza conquistata nel 1917 dall’ingombrante vicino russo. Per l’occasione, i finlandesi, ignari dei nostri tormentosi dubbi in quel campo, inaugureranno anche un nuovo parco nazionale a Hossa, di ben undicimila ettari. Sempre più spesso poi si guarda a oriente, verso l’Asia e il futuro. Da tempo il sud-est asiatico (Thailandia, Vietnam, Laos) intercetta la maggior parte dei turisti, specie i giovani viaggiatori indipendenti. Ma ora si affaccia sulla scena anche la Birmania; con la carismatica Aung San Suu Kyi cerca di lasciarsi alle spalle lunghi decenni di dittatura, dopo essere stato l’unico Paese al mondo ad aver subito per questo un boicottaggio turistico. I più coraggiosi potrebbero poi spingersi sino nella remota Mongolia, dove l’apertura del nuovo aeroporto internazionale nella capitale Ulan Bator è un segno inequivocabile della buona disposizione verso i turisti. E pazienza se i massicci investimenti immobiliari – cinquecento milioni di dollari per il complesso Shangri-La, con un gigantesco hotel, un cinema IMAX e l’Hard Rock Cafe – lasciano intravedere, alla fine della lunga strada, il volto sempre uguale della globalizzazione. Le proposte di un’altra guida importante, la Rough Guide, sono simili, con appena qualche aggiunta: l’Uganda famosa per i suoi gorilla di monta-
Paesi lontani, paesi sognati
Sulla via di Hogwarts, come Harry Potter: il treno a vapore The Jacobite sul viadotto Glenfinnan. (96tommy)
gna e la Bolivia dove, lungo la «Ruta del Che», si ricorda il mezzo secolo trascorso dalla morte di Ernesto Che Guevara. Se poi non vi siete stancati di guidare, la Scozia propone la sua North Coast 500, cinquecento miglia intorno alle Highlands settentrionali. E potreste celebrare il ventesimo anniversario del primo volume della saga di Harry Potter salendo sul treno a vapore The Jacobite, che i più conoscono come Hogwarts Express: sul viadotto di Glenfinnan, con le sue ventuno arcate srotolate nella brughiera, l’illusione sarà totale. In alternativa potreste adottare come bussola i nuovi musei che apriranno quest’anno. Per esempio la sede distaccata del Louvre ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, oppure il museo dedicato a Yves Saint Laurent a Marrakech o ancora il Museo della Rivoluzione americana a Filadelfia. L’arte contemporanea resta naturalmente il richiamo più forte e quest’anno per esempio si parlerà molto dello Zeitz Museum of Contemporary Art di Cit-
tà del Capo, in Sudafrica, il più grande museo costruito in Africa negli ultimi cento anni. Le ragioni di un viaggio sono molte, inevitabilmente diverse e non tutte spontanee. Se infatti ci chiediamo perché sentiamo raccontare così spesso di questi Paesi e non di altri, ci troviamo subito a fare i conti con gli effetti della promozione turistica. Da tempo peraltro i professionisti in questo campo hanno imparato a tirare il sasso e nascondere la mano: e quindi, invece di parlare in prima persona, suggeriscono, riprendono e amplificano quanto scritto da giornalisti, blogger e semplici turisti, sulla carta stampata (sempre meno influente) o nei Social Network. Ma il gioco nascosto si svela appunto quando nei più diversi ambiti ricorrono sempre gli stessi nomi… Per questo i Viaggiatori d’Occidente, che conoscono le regole del gioco, non si lasciano influenzare dalle sirene turistiche e cercano sempre di scegliere con la loro testa. Della Svizzera non s’è parlato
molto, ma forse per una volta va bene così. In un contesto internazionale tesissimo un Paese neutrale, sicuro e ben organizzato ha in mano delle buone carte. La promozione turistica (www. myswitzerland.com) presenta la Confederazione come un’Europa in miniatura, dove in uno spazio ridotto – nessun luogo dista più di 75 chilometri a volo d’uccello dalla frontiera più vicina e ben quindici cantoni confinano con altri Stati – ritroviamo la varietà di storia e paesaggi dell’intero continente; in poche ore di comodo viaggio si passa dal silenzio di una valle alpina con boschi e chiese antiche alla vita mondana di una moderna città come Zurigo. Un tocco di ironia aiuta a non sembrare troppo compassati: e così il nuovo testimonial da cinque milioni di visualizzazioni su YouTube è Bruno, lo sciatore pigro e millantatore che si fa bello grazie alle foto scattate da uno stuntman, suo sostituto nei passaggi più pericolosi. Una sottile presa in giro della furbizia italiana? Beh, per fortuna Bruno è anche un nome tedesco…
L’elenco dei Paesi da visitare in questo 2017 sconfina nella fantasia e si arricchisce con quelli immaginati da storici, eruditi e scrittori. Anche i viaggiatori hanno avuto un ruolo duplice in questo gioco: da un lato hanno corretto errori e dimostrato l’inesistenza di alcuni luoghi, dall’altro, strada facendo, hanno raccolto e amplificato voci di terre leggendarie. È il caso per esempio di Marco Polo. Nel suo lungo viaggio attraverso l’Asia sulla Via della seta mostra di credere al Regno del Prete Gianni, avamposto cristiano alle spalle degli odiati musulmani. E ancora alla fine del XVI secolo lo si cercava dalle parti del negus d’Abissinia. Fino a quando la geografia, minuziosa e implacabile, non reclamò per sé tutta la superficie delle carte, gli uomini ebbero uno spazio dove proiettare nuovi mondi rispondenti ai propri desideri. E tra tutti, più forte fu il sogno di Eldorado, il regno dove si sarebbe rifugiato il popolo degli Inca in fuga dagli europei, portando con sé i loro tesori: per almeno due secoli innumerevoli avventurieri cercarono invano Eldorado in ogni angolo del continente americano. Molti credettero all’esistenza di questi regni immaginari e ne descrissero le città, le campagne, i monti e i fiumi, l’aspetto e il carattere degli abitanti, contagiando con la loro fede i sovrani, che apprestarono costose spedizioni per trovarli: inesistenti, certo, ma al tempo stesso quanto reali… Bibliografia
Dominique Lanni, Atlante dei Paesi sognati, Bompiani, 2016, pp. 144, € 21,50.
Bisensi nascosti
Giochi di parole Q uando un cucchiaino diventa mezzo minuto di raccoglimento riuscire a risolverlo, bisogna cercare di individuare una frase di comune conoscenza che, oltre al suo senso più immediato, ne possegga un altro più debole, idoneo a definire l’esposto. Un classico esempio al riguardo è il seguente (di Tina): – Cucchiaino (5 6 2 13) La soluzione è: Mezzo minuto di raccoglimento. Infatti, il cucchiaino è uno strumento (mezzo), piccolo (minuto), che viene utilizzato per raccogliere qualcosa (di raccoglimento); inoltre, in accordo con il diagramma numerico: mezzo è composto da 5 lettere, minuto da 6, di da 2 e raccoglimento da 13. Infine, la stessa frase, può essere interpretata in maniera immediata come: «trenta secondi di meditazione».
Spero che abbiate prestato attenzione alla trattazione precedente. Dato e non concesso che ciò sia avvenuto, tale genere di enigma vi dovrebbe affascinare molto (se non è così: tanto piacere!). Ma, siccome questo è il gioco più amato dagli enigmisti, avrei dovuto proporvene qualche altro esempio, su soggetto a piacere. Purtroppo, devo ammettere, con prosa scarna ed essenziale: non c’è verso che riesca a farlo! Inizialmente, avevo pensato che vi potesse essere qualche possibilità, ma ora sono di parere contrario. È una verità amarissima: non è una trovata di pessimo gusto… Vi giuro che ho il morale sotto le scarpe. Ad ogni buon conto, mi sono accorto che, per qualche strano sortilegio, nell’ultima parte di questo articolo si sono materializzati sette
esposti di frasi bisenso, composti da una sola parola, seguiti a poca distanza dalla relativa soluzione (omettendo, ovviamente, i corrispondenti diagrammi numerici). Sapete trovare tutte queste frasi e, casualmente, anche qualcuna in più?
Soluzione
Il 1° aprile del 1876, sul mensile enigmistico torinese «La gara degli indovini» venne pubblicato un gioco, denominato crittografia mnemonica, che recava questo sintetico esposto: B.59. Nessuno riuscì a risolverlo e, il mese successivo, venne fornita la seguente incomprensibile soluzione: «L’Italia si prepara a festeggiar degnamente l’anniversario di Legnano». Non esistono elementi per interpretare quell’astrusa spiegazione, dato che l’autore dell’enigma, Gustavo D. Croce di Genova, non volle mai fornire chiarimenti al riguardo. L’unica notazione rilevabile è che la frase fornita è composta proprio da 59 lettere; probabilmente, però, si tratta di una coincidenza. In
definitiva, quel gioco è rimasto insoluto; anche se, forse, voleva essere solo un pesce d’aprile (considerando il giorno della sua pubblicazione). Per motivi altrettanto oscuri, verso la fine dell’Ottocento, lo stesso nome: crittografia mnemonica, passò a designare un particolare tipo di enigma, basato sull’ambiguità di significato. Una tale denominazione è sopravvissuta per circa un secolo, ma ultimamente è stata sostituita dalla più sintetica: frase bisenso. Come ho già avuto modo di riferire in queste pagine, un gioco del genere si presenta mediante la proposizione di un esposto (una breve frase o una sola parola), affiancato da un diagramma numerico (una successione di numeri, che indica la lunghezza in lettere delle parole componenti la soluzione). Per
Nell’ordine, le frasi bisenso nascoste sono: Prestato = dato e non concesso; Affascinare = tanto piacere (o: «piacere tanto»); Amato = soggetto a piacere; Prosa = non c’è verso; Essere = di parere contrario («essere» è il contrario di «parere»); Amarissima = trovata di pessimo gusto; Morale = ad ogni buon conto (ad ogni buon racconto, o «conto», si può ascrivere una morale).
Ennio Peres
Giochi per “Azione” - Gennaio 2017 Stefania Sargentini
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Ambiente e Benessere
Pasqua con i profumi del Mediterraneo
Tagliando d’iscrizione
GIOCO N.1di Capodanno (BUON ANNO) allegato a parte
Desidero iscrivermi alla crociera dal 16 al 23 aprile 2017: Nome
Viaggio Per i lettori di Azione, Hotelplan organizza dal 16 al 23 aprile 2017
SUDOKU PER AZIO
una crociera sulla Costa Fascinosa
valore 017 (N. 2 - “Cara fai vedere il dente al dottore”) l e d s o t3a Migr 4 315 gen6 naio 2 r a c 1 , 1 2 bina oni entro il a c a o i agg o7 tazi m n o e r 8 n p I n M co .– 0 5 di CHF 9 10
Bellinzona
Lugano Via Pietro Peri 6 6900 – Lugano T +41 91 910 47 27 lugano@hotelplan.ch
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La follia è fare sempre… Trova il resto della frase leggendo, a soluzione ultimata, le lettere evidenziate. (Frase: 2, 6, 4, 1, 10, 9, 7)
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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Giochi
VERTICALI 1. Parte di un’opera letteraria 2. Fa piacere riceverla
E D E S D T C D O V O R
Programma
Viale Stazione 8a 6500 – Bellinzona T +41 91 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch
ORIZZONTALI 1. Una famosa Ilary 5. Piccola dissertazione universitaria 10. Un fiore 11. Ampia via cittadina 12. Le iniziali del Duca della Vittoria 13. Il regno delle fiabe 15. Articolo francese 17. Preposizione articolata 19. Ardito, temerario 20. Sembra, dà l’impressione… 21. Va in questo chi si blocca 23. Bagna Firenze 24. Posto, collocato 25. Era il paramento del sommo sacerdote ebreo 27. Variante di «fino» 28. Sopra in Francia 29. Non cambia se letta da destra a sinistra o viceversa 31. Il perfetto tra i numeri 32. L’attrice Alt 34. Le iniziali della Tatangelo 35. Osso del braccio 37. In queste si schiudono le uova 39. Affiorato 40. Molto, parecchio
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telefono, minibar, cassaforte, asciugacapelli, servizio 24h/24. 15 12 13in cabina 14 La nave offre 5 ristoranti (di cui due a F pagamento su16prenotazione), 13 bar, 17 di 18 L cui un Cognac & Cigar Bar e un Cof19 Bar, 4 piscine20 21 22 fee & Chocolate (una con O copertura semovente), 5 vasche idro23 24 massaggio e centro benessere. R Attività di divertimento: la sera 25 26 avranno luogo spettacoli presso il teaA tro e proposte musicali nelle varie sale. Casinò e discoteca. Di giorno saranno invece variegate le attività per adul3 -attività ... macchina ti e bambini.(N. Come sportive calcolatrice) 1. giorno Savona, imbarco: ore 16.30 e benessere: pista di jogging e campo 6 7 8 14.00-20.00 polisportivo, 1oltre2 alla 3Spa Wellness 4 2. 5giorno Napoli: 3. giorno Palermo: 09:00-16.00 O Samsara di 6mila mq su due piani, con 9 10 11 4. giorno Malta: 09.00-14.00 palestra, piscina per talassoterapia, N 5. giorno 14 Barcellona: 09.30 -17.00 sale trattamenti, sauna, bagno turco e 12 13 15 7. giorno Marsiglia: 09.00-7.00 solarium UVA. T 16
Cruciverba
Via N. 5 FACILE NAP Schema
C A R M E L 1 R 2A U F O P A B E T I V5 I 6 S I R E S I3 V E N I E R 4 7 E S T O A T T O I T I O T E 5A Wolfgang Manousek
Viaggiare molto spesso vuole dire coniugare il relax con la scoperta di nuove culture: questa crociera è l’ideale per chi vuole riposarsi senza rinunciare alla scoperta delle bellezze del passato, da una Palermo ricca di monumenti suggestivi a Malta con la sua splendida Valletta città dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, per le sue bellezze artistiche. È questo in sintesi quanto proposte Hotelplan: un itinerario interessante che permetterà ai partecipanti di concedersi dei bagni di sole primaverili lungo le coste del Mediterraneo toccando, per l’appunto, mete affermate di grande interesse culturale, storico e artistico. Un viaggio che conquisterà e regalerà momenti indimenticabili, grazie anche all’offerta di Costa Fascinosa, con la quale si salperà per l’intera crociera. Un mondo sul filo dell’acqua composto da molte attrazioni, vediamo le principali. Equipaggiamento: le cabine sono spaziose e dispongono di bagno o doccia/WC, climatizzazione, TV,
Cognome
8 Prezzo per persona
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Località
A Telefono 8 4 M e-mail 1 A 7 2 R 3 Sarò accompagnato da … adulti eE … bambini (0-17 anni) 6 Sistemazione desiderata:
8❑ Cabina 5 interna 9 Premium 3 L E 4M 6
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❑ Cabina esterna con finestra Premium ❑ Cabina esterna con balcone Premium
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N. 6 MEDIO
In cabina doppia interna Premium: della nave e partecipazione alle attività di CHF 900.–. animazione a bordo, tasse portuali, carta In cabina doppia esterna finestra Migros del valore di CHF 50.– per cabina Premium: CHF 1050.–. per prenotazioni entro il 31.01.2017. In cabina doppia esterna balcone Premium: CHF 1220.–. La quota non comprende Attenzione: cabine quadruple, triple Spese di dossier Hotelplan CHF 60.–, e singole su richiesta. quote di servizio obbligatorie da pagare SUDOKU PER AZIONE - GENNAIO 2017eur 4.25 a bordo (eur 8.50 per adulto, La quota comprende per ragazzi fino a 14 anni); bevande ai N. 1 GENI Trasferimenti in torpedone dal Ticino bar e ai pasti; escursioni; assicurazione Schema Soluzione a Savona e ritorno, sistemazione nella annullamento CHF 91.– per persona e 1 3 7 4 2 5nella 9 voce 8 «la 6 7 8 cabina prescelta, trattamento di pensione ogni extra non menzionato 9 6 5 8 1 3 2 4 7 5 di tutte 1 le 3 completa, utilizzo attrezzature quota comprende».
R M E T A C C H I 6 5 O I M A L C E S 7 3 4 B P A O L O R O 8.18 giorno Savona, sbarco ore: 09.00 17 19 3 A E R E I E C O 7L 20 21 3 R U R O S A N N8 A Lugano 23 Via Emilio Bossi 1 A T A E S T 7 2 1 9 6 25 26 6900 – Lugano R A N E C I T +41 91 913 84 80 4 27 28 lugano-viabossi@hotelplan.ch 8 4 2 7 6 9 3 5 1 8 6 9 3 C D A K A R 3 7 1 5 9 4 18 6 2 3 5 6 A M A T O R E 2 8 6 3 7 1 9 5 3 franchi 1 Vinci una delle 3 carte regalo da 50 con il4 cruciverba
57 9 2 88 1 4 7 3 5 9 6 2 8 e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 2 5 9 1 4 6 7 3 8 9 4 8 Giochi per “Azione” - Gennaio 2017 (N. 4 - ... la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi) 9 29 7 2 5 1 4 64 8 3 2 4 Stefania Sargentini 1 2 3 4 5 6 7 8 9 7 1 4 3 5 8 6 2 9 7 4 2 9 Sudoku B LN. 2 GENI A S N. I 7 DIFFICILE T E S I N A 10 11 Soluzione: R O S a parte A 6 C 9O57 R S 4 4O8 71 3 R6 1 2 9 5 GIOCO N.1di Capodanno (BUON ANNO) allegato Scoprire i 3 numeri 2 1 6 5 9 7 8 3 4 7 8 12 13 14 15 16 corretti da inse-6 A D R E A M E 9 5 2 1 rire nelle caselle 9 5 3 L9 5E 8 S43 2 7 6 1 17 18 19 20 colorate. N E1 2 I 6 O S O P 1 A2 3R 6 E8 9 4 5 7 7 6 93 1 5 4 3 2 8 7 6 1 4 8 21 22 23 O T 8 I L T 9 A R 5 N4 8O7 2 3 6 1 9 24 25 26 S I1 T O E6 F O 68 7D37 41 92 R13 85 359 47 62 5 7 28(N. 2 - “Cara fai vedere 29il dente 30 27 al dottore”) 9 A 5 25 S I N2 O S U R L 4 A7 6 1 8 3 4 31 32 33 34 C A R M E L A T N.R3 GENI E U FC A7R R O L 9 A T8 6 O A M 5 9 8 7 5 9 6 4 3 8 1 2 35 36 37 38 T A I R PAA D4 B I63E O C 8 O1 46 V 7 E2 9 6 3 55 I V I S I R 39 40 EF EM3D EE RR S O 4EA S 3 S6 2A 8 I1 5 9 7 4 E8 S I 1 2 1
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3. Le iniziali dell’attore Siani 4. Sua Altezza Reale 5. È impegnativo leggerlo… 6. Desinenza verbale 7. Le iniziali dell’attore Seagal 8. Nome femminile 9. Bruciate 11. Un gruppo di attori 14. Re dei venti 16. Amò Leandro 18. In… corso d’opera 20. Tornaconto 22. È andato … fuori uso 23. Aspro, acre... africano 24. Titolo nobiliare 25. Una moneta 26. Attivi sono crediti 27. Vi si trasportano polli 28. Indumento per religiosi I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
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19 20 21 22 30. Fuoriesce da un camino 32. Sigla23di Codice Della Strada24 33. Abbreviazione di Letto Confermato 25 26 e Scritto 36. Le iniziali dell’attrice Rohrwacher 38. Bocca in latino calcolatrice) (N. 3 - ... macchina
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Vincitori del concorso Cruciverba su20«Azione 02», del219.1.2017
23 Zanon, S. Mattei E. Lavagno, G. 25
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Vincitori del concorso Sudoku 27 28 su «Azione 02», del 9.1.2017 B. Sala, C. Mallepell
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5 3 8 1 CERVELLONI D’ALTRI TEMPI – Pascal a soli 19 anni ideò la prima: 8 7 9 2 6 5 … MACCHINA6CALCOLATRICE.
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L S 4 D 8 5 V E 7N 1 I E R O T C E 2S T O 5 A L 9 R D O T 3T O 2 I T 8E 1 4 A V O R I O T E A M Soluzione della settimana precedente
N.84 GENI 7 6
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R M E8 T A C C H I O9 I 7 M A6 L C3 E1 S B3 P A O L4 O R2 O E7 R E I E C O L 4 5 2 R U9 R 6 O7 S A N1 N3 A T A E9 S T3 5 A N6 E C I7 4 8 4 D A K A1 R 9 M A2 T O R E
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(N. 4 - ... la stessa cosa e aspettarsi diversi) Partecipazione online: inserire risultati la luzione, corredata da nome, cognome,
soluzione sudoku 1 2 3 del 4 cruciverba 5 o del 6 7 8 nell’apposito formulario pubblicato 10 11 sulla pagina del sito. 12 13 14 postale: la lettera 15 o 16 Partecipazione la postale che riporti20la so17 cartolina 18 19
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è possibile un pagamento in contanti indirizzo, email del partecipante deve dei premi. I vincitori saranno avvertiti 9 B L Aa «Redazione S I TAzione, E S per I N A Il nome dei vincitori sarà essere spedita iscritto. Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». pubblicato R O S A C O R S O R su «Azione». Partecipazione Non si intratterrà corrispondenza sui riservata esclusivamente a lettori che A D R E A M E L E S concorsi. Le vie legali sono escluse. Non risiedono in Svizzera.
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Terrina di zucca con pesto
Antipasto per 6 persone Per 1 terrina o forma da cake di 1.2 l
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Ingredienti: 800 g di cubetti di zucca, 3 dl d’acqua, 1 confezione di brodo di verdure, 60 g di purè di patate in fiocchi, 6 uova, 1 dl d’olio d’oliva, sale, 2 cucchiai di semi di zucca, 1 mazzetto d’erbe miste, ad es. salvia, rosmarino e timo, 1 spicchio d’aglio
30% Tutto l’assortimento Mifloc per es. purea di patate, 4 x 95 g, 3.15 invece di 4.55
Preparazione: 1. Lessate la zucca con l’acqua e il brodo per ca. 10 minuti. Riducetela in purea nel brodo. Incorporate i fiocchi di patate e mescolate fino a ottenere un massa omogenea. Fate raffreddare. Sbattete le uova e unitele alla massa di zucca, assieme a 2 cucchiai d’olio d’oliva. Salate. Scaldate il forno a 150 °C. Rivestite la forma con la carta alu e spennellate d’olio. Riempitela con la massa di zucca. Mettete la forma in una teglia più ampia e versate l’acqua. Cuocete la terrina in forno per 50–60 minuti. Prova cottura: infilate uno stecchino nella terrina, se ne esce pulito, questa è cotta. Estraete dal forno e fate riposare 10 minuti. 2. Tostate leggermente i semi di zucca. Macinateli nel cutter con le erbe e l’aglio. Mescolate con l’olio restante e salate. Capovolgete la terrina, tagliatela a fette spesse e servite con il pesto. Tempo di preparazione 30 minuti + cottura 50–60 minuti
Da questa offerta sono esclusi gli articoli già ridotti. OFFERTA VALIDA SOLO DAL 24.1 AL 30.1.2017, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
Per persona 11 g proteine, 26 g grassi, 14 g carboidrati, 330 kcal
Ricetta e foto: www.saison.ch
Leggera bontà pronta in un baleno.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Politica e Economia Le future mosse di Trump Saprà mantenere le promesse su immigrazione e sanità, cavalli di battaglia della sua campagna elettorale? pagina 18
Temer in difficoltà Il Brasile non esce dalla spirale della crisi con una contrazione del Pil ai minimi storici. La popolarità del suo presidente, incrinata dalle indagini della magistratura e dalle proteste di piazza, non è mai stata così bassa
Dibattito sulla storia La Russia non ammette di rimettere in discussione i propri miti e continua a convivere con due storie parallele
Relazioni privilegiate La visita di Xi Jinping a Berna rafforza i legami economici fra la Svizzera e la Cina
pagina 19
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La Cina guarda con grande timore alla politica estera di Trump in Estremo Oriente. (AFP)
Secolo cinese o secolo americano bis? La sfida Usa-Cina L’assalto in piena regola lanciato dal presidente americano pone Xi Jinping e Donald Trump
in rotta di collisione, ma la vera posta in gioco sarà la supremazia dei due rivali geoeconomici
Lucio Caracciolo Donald Trump ha lanciato la sfida alla Cina. Un assalto in piena regola, per ora verbale, che potrebbe presto concretarsi in barriere tariffarie all’importazione di beni cinesi e in guerriglia diplomatica sulle questioni geopolitiche più sensibili per Pechino. A cominciare dalle dispute sul Mar Cinese Meridionale e su quello Orientale, dallo status di Taiwan e dalla minaccia atomica nordcoreana, dietro cui Washington vede la mano della Cina. Obama aveva a suo tempo avviato una postura di contenimento nei confronti della Repubblica Popolare, battezzata «Pivot to Asia». Trump intende portarla alle conseguenze estreme, ovvero al rollback. Fino a immaginare il cambio di regime a Pechino. Un assalto in grande stile, che però potrebbe sfuggire di mano al suo ideatore. Il rischio di un incidente nel Mar Cinese Meridionale fra navi Usa e cinesi non è affatto remoto. E la debolezza strutturale del loro sistema politico ed economico
potrebbe indurre i leader cinesi, messi alle strette, a giocare la carta della guerra. Perché quando è in gioco la sopravvivenza del regime e dello Stato, tutto diventa possibile. La Cina sa di essere un gigante vulnerabile, non così lontano dal punto di flesso. Forse esagera persino, nel foro interno, le minacce che potrebbero atterrarla. La diagnosi è stata certificata per tempo dai suoi massimi dirigenti. Un sintetico sguardo d’insieme conferma l’allarme. Il problema non è il calo del tasso di crescita del prodotto interno lordo, comunque attestato attorno alla misura prestabilita (+6,5%), quanto il modello che lo ha finora sorretto. Ovvero i grandiosi investimenti pubblici a sostegno di manifattura e infrastrutture. Volumi intenibili che alimentano un ciclo perverso: per drogare la crescita si gonfia il debito totale, che oggi supera di due volte e mezzo il pil. E si insiste su un modello energetico obsoleto, tuttora sbilanciato sul carbone, a spese dell’ambiente e della salute della popolazione, mentre si proiettano le aziende cinesi a
caccia di risorse e mercati in giro per il mondo. Con relativa sovraesposizione geoeconomica e geopolitica della Cina. Pechino si offre così alle puntute contromisure di concorrenti e avversari, sicché la deriva protezionistica volge a farsi globale. Ne deriva la crisi di fiducia dei mercati, accentuata dalle storture del sistema finanziario cinese e confermata dalla corposa fuga di capitali. Tanto che negli ultimi anni gli investimenti cinesi in terra straniera hanno superato quelli esteri in Cina. Soprattutto, resiste lo strapotere delle opache aziende di Stato, dove politica ed economia si sposano sotto il segno della corruzione sistemica. Le disuguaglianze sociali restano acute, con un terzo della ricchezza nazionale in mano all’1% della popolazione. Permane la partizione geoeconomica fra le depresse province nord-occidentali e le scintillanti metropoli sud-orientali (peraltro soffocate dallo smog), connesse via mare ai mercati mondiali. Quanto al welfare, appena l’ombra. La popolazione tende a ridursi ma invecchia. Nel
2040 il rapporto fra lavoratori e pensionati – oggi un invidiabile 5 a 1 – crollerà, attestandosi sull’1,6 a 1. Le faglie geopolitiche interne (Xinjiang, Tibet, Hong Kong) non sono in sicurezza, mentre la provincia ribelle di Taiwan, vellicata dalle sirene americane e giapponesi, potrebbe essere tentata dal decretare in punto di diritto l’indipendenza di fatto. Insomma: il modello economico che ha finora assicurato la vita del regime potrebbe domani sancirne la morte. Allo stesso tempo e malgrado tutto, la taglia della Cina è formidabile e continua a espandersi. Ma quel che le serve non è quantità, è qualità. Le patologie che ne affliggono l’organismo sarebbero più agilmente trattabili da uno Stato di dimensioni analoghe ma dotato di un regime politico meno dipendente dalla performance economica. Decisivo per la Repubblica Popolare Cinese è adeguare le istituzioni allo sviluppo della società. Solo in quanto espressione del sentire diffuso potranno diventare meno insicure di sé, dunque più aperte e trasparenti. E per
conseguenza rassicurare il mondo sulle intenzioni di Pechino, oggi imperscrutabili quanto il regime che le elabora. È però da escludere l’importazione della democrazia occidentale, in profonda crisi proprio nei paesi che ne hanno fatto una bandiera identitaria, quando non un marchio universale, da esportazione. La Cina non diventerà mai America gialla. Un impero plurimillenario non può copiare modelli altrui. Ma non può nemmeno sopportare a tempo indefinito il regime al potere solo perché è al potere. Trump e Xi Jinping sono dunque in rotta di collisione. Ma la loro navigazione è a vista. Un grande compromesso sino-americano non è affatto scontato. E comunque sarebbe preceduto da una fase di grave turbolenza, nella quale lo slittamento verso il ricorso alle armi non potrebbe essere escluso. Sullo sfondo resta infatti il duello fra il Numero Uno in carica e il suo aspirante successore. La posta in gioco è suprema: questo XXI secolo sarà il secondo secolo americano o il primo cinese?
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Politica e Economia
Prime crepe nel muro
Dimmi come ti vesti
che Donald Trump affronterà da presidente: manterrà le promesse?
scelgono i propri abiti per comunicare anche politicamente
Federico Rampini
Guilia Pompili
Angela Merkel ha fatto «un grosso errore» sui profughi, la sua politica di accoglienza è stata un disastro, parola di Donald Trump. Detto anche «Quarantacinque»: il 45esimo presidente degli Stati Uniti, da venerdì 20 gennaio. È proprio l’afflusso incontrollato di stranieri, la goccia che ha fatto traboccare il vaso dell’Unione europea, la causa ultima di Brexit. Trump si guarderà bene dall’imitare un simile disastro. Non è un caso se la bordata di accuse che Trump ha lanciato contro l’Europa, si concentri sull’immigrazione. Da lì ebbe inizio la fortuna politica del nuovo presidente degli Stati Uniti: quando nell’estate 2015 nessuno lo prendeva sul serio come candidato alla nomination, e l’establishment repubblicano era sicuro che il fenomeno Trump si sarebbe sgonfiato presto, nei suoi comizi i boati più entusiasti si levavano quando lui pronunciava la magica parola, The Wall, il Muro con il Messico. Immigrazione e insicurezza, i due temi per lui sono sempre incollati. «Il Messico ci manda qui i suoi peggiori soggetti, traficcanti e stupratori». Per lui «clandestino uguale criminale». E poi, nelle due stragi terroristiche avvenute in piena campagna elettorale – San Bernardino in California, Orlando in Florida – lui fu implacabile: «I terroristi si rivendicano islamici, perché Barack Obama e Hillary Clinton rifiutano di usare questa etichetta?» Lui non farà l’errore della Merkel sfociato nel Capodanno di Colonia 2016 (le aggressioni alle donne da parte di immigrati). Stop all’accoglienza di profughi dalla Siria. E non solo dalla Siria. Il neopresidente torna a ventilare un extreme vetting cioè filtri e controlli severi, accurati, su chiunque voglia entrare negli Stati Uniti in provenienza da paesi islamici, o anche da altre zone del mondo colpite dal terrorismo islamico. In quest’ultima categoria, stando alle cronache degli ultimi attentati, rientrano facilmente Germania Francia e Belgio. Di qui l’ipotesi di «restrizioni» anche per quei visitatori che godono di un regime facilitato, come il visto online Esta per i turisti dall’Europa. La svolta più grossa riguarda comunque gli immigrati dal Messico, e quelli che attraversano il confine messicano provenendo da altri paesi del Centramerica o Sud America. Trump aveva promesso: «Al primo giorno, alla prima ora in cui sarò al potere, quella gente la caccio». Quanta gente? Fece un numero preciso in agosto, durante un comizio a Phoenix in Arizona: tre milioni di clandestini saranno deportati subito, disse. Rastrellare tre milioni di persone ed espellerli in tempi rapidi è un’operazione militar-poliziesca (e logistica) di dimensioni immani in tempo di pace. Pochi credono che sia fattibile. Più modestamente quello che lui può fare è revocare il Deferred Action for Childhood Arrivals Program, un decreto del 2012 con cui Obama salvò dalla minaccia di espulsione gli immigrati senza permesso di soggiorno che sono arrivati qui da bambini. Si tratta di centinaia di migliaia di casi, non pochi, ma ben altra cosa dai milioni di cui parlava nei comizi. Poi c’è il mitico Muro. Di recente anche un ispiratore di Trump, l’esperto di destra Mark Krikorian che dirige il Center for Immigration Studies, ha cominciato a dire che il Muro è «una metafora, non una priorità operativa». E tuttavia qualche gesto simbolico andrà fatto. Va ricordato che un pezzo di Muro esiste già, lo fece costruire Bill Clinton al confine fra San Diego e Tijuana. Basterebbe aprire un cantiere per prolungarlo di qualche miglio e la capacità di comunicazione di Trump
Peng Liyuan, la moglie del presidente cinese Xi Jinping, è nota per essere tra le donne asiatiche meglio vestite, capace di stupire per eleganza e sobrietà ogni volta che appare sulle scalette di un aereo all’inizio di un viaggio di stato. È successo anche a Davos, la scorsa settimana, mentre accompagnava il marito Xi al summit svizzero. Per la prima volta, la coppia presidenziale di Pechino è stata ricevuta al World Economic Forum, e nonostante i difficili rapporti della Cina con l’America, a Davos l’élite economica ha steso tappeti rossi per Xi Jinping e Peng Liyuan, stretta in un lungo cappotto grigio e un foulard ardesia, e i capelli raccolti, come le donne cinesi usavano durante la dinastia Tang. Non è un modo di dire: la comunicazione politica passa anche attraverso gli abiti, e c’è ormai un filo conduttore che unisce moda e potere femminile, dai completi di Margaret Thatcher e la sua eredità stilistica fino al «pantone Merkel», la tavola cromatica dei tailleur della cancelliera tedesca. Perfino il primo ministro inglese Theresa May ha detto tempo fa: «Sono una donna, e mi piacciono i vestiti. Una delle sfide delle donne – che lavorino in politica, nel mondo del business – è quello di essere loro stesse, e comunicare il fatto che si può essere intelligenti e amare la moda allo stesso tempo». L’eleganza algida e austera ma estremamente tradizionale di Peng Liyuan sta a mostrare il volto gentile della potenza cinese, molto più eloquente dei messaggi di globalizzazione e apertura del marito Xi. E i summit di Davos – proprio come le cerimonie d’insediamento – sono anche questo, una sfilata di abiti e intenti, di icone di stile e di pensiero. Nel 2013 il settimanale «Vanity Fair» ha eletto Peng Liyuan la donna meglio vestita dell’anno, come lo era stata più di settant’anni fa Madame Chiang Kai-shek, moglie del generalissimo. Peng indossa soltanto abiti di designer cinesi, come Ma Ke, fashion designer poco più che quarantenne originaria del sud del Guangdong, «ma non è possibile comparare Occidente e Oriente nella scelta degli abiti del potere», spiega Fabiana Giacomotti, docente di Scienze della moda all’Università La Sapienza, «la differenza riguarda l’individualismo. È un modo di pensare diverso, per cui noi siamo centrati sull’io, mentre loro no, la first lady rappresenta la collettività». E infatti nell’ottobre del 2015 Peng si presentò al banchetto di stato organizzato dai reali londinesi in onore della coppia presidenziale cinese con un pasticcio sul viso. Il trucco era colato, per qualche strano effetto chimico, ma la gaffe fu prontamente censurata su Weibo. Da anni la stampa cinese tenta di con-
Casa Bianca Immigrazione e Obamacare sono i primi temi
Donald Trump con il vice presidente Mike Pence durante una serata di gala. (AFP)
farà il resto… Salvo quell’altra promessa spinosa, di far pagare il conto allo stesso governo messicano. Le resistenze che incontrerà Trump su questi fronti sono molteplici. Si sono moltiplicate le manifestazioni di protesta contro le sue promesse anti-immigrati. Si rafforza il movimento delle città-santuario, sono ormai trenta, da New York a San Francisco, le amministrazioni locali che garantiscono accoglienza e sicurezza ai clandestini. Le polizie locali obbediscono ai sindaci, se questi boicottano Trump le forze federali sono insufficienti per individuare e arrestare i clandestini. Forse per questo i ministri-chiave che dovrebbero occuparsene sono stati cauti nelle audizioni al Senato per la loro conferma. Spicca il generale John Kelly designato alla guida del superministero degli Interni, la Homeland Security, con questa battuta sul Muro: «Come militare capisco qualcosa delle strutture di difesa. Una barriera fisica non è la soluzione». E il suo collega Jeff Sessions che dovrebbe dirigere la Giustizia: «Non sostengo l’idea di negare l’accesso agli Stati Uniti ai musulmani in quanto fedeli di una religione». Per forza, è incostituzionale. Dopo l’immigrazione, la sanità è l’altro grande terreno su cui Trump ha preso un impegno preciso con la sua base: smontare Obamacare. Il suo predecessore lo ha avvertito: non sarà facile né indolore. «Abbiamo realizzato – ha detto Barack Obama poco prima di andarsene – ciò che nessun politico e nessun partito riuscì a fare per un secolo: 20 milioni di americani che non avevano assistenza sanitaria ora ce l’hanno; sono finite le discriminazioni contro i malati. «Abrogare la mia riforma senza varare un sistema che la sostituisca, è irresponsabile, folle». La maggioranza degli americani gli dà ragione: solo il 20% è d’accordo per l’eliminazione pura e semplice del sistema in vigore dal 2010. Lo stesso presidente uscente, in un bilancio sulla rivista scientifica «New England Journal of Medicine», riconosce i problemi: «La mancanza di alternative sufficienti in alcuni Stati; le tariffe assicurative ancora inaccessibili per certe famiglie; i medicinali troppo cari». Non è poco, come elenco di difetti della sua riforma. Quella che lui considera la sua eredità più importante, per alcuni suoi sostenitori fu invece un errore. Spese il capitale di consenso iniziale per una riforma impossibile, accelerò i tempi della rivincita repubblicana, perdendo le elezioni legislative fin dal novembre 2010. La nascita a destra del Tea Party, il vasto movimento di protesta che preparò il terreno a Trump, ebbe fra le cause iniziali Obamacare. Quella degli Stati Uniti rimane una sanità prevalentemente privata, dalle assicurazioni agli ospedali. Fanno eccezione due sistemi: Medicare fornisce
assistenza a carico dello Stato a 50 milioni di anziani sopra i 65 anni di età (ma usando assicurazioni private come erogatrici di prestazioni); Medicaid dà cure mediche pubbliche ai cittadini più poveri. Cosa è cambiato, e cosa no, con la riforma di Obama? Avere un’assicurazione è diventato obbligatorio. Questo ha creato un onere per le piccole imprese che non includevano la polizza sanitaria nel pacchetto retributivo; oppure per i singoli cittadini che siano lavoratori autonomi, liberi professionisti, freelance, precari. Questi ultimi ricevono sussidi pubblici se il loro reddito è basso. Obamacare ha vietato alle assicurazioni una consuetudine diffusa quanto odiosa: il rifiuto di vendere polizze a chi era già stato ammalato. Infine si è allungata l’età in cui si possono tenere i figli a carico della polizza familiare. I miglioramenti sono reali, anche se i costi sono in parte scaricati sui cittadini o sulle imprese. Non è cambiato il difetto più grave del sistema: i costi fuori controllo. Il vizio d’origine non venne affrontato con l’istituzione del Medicare nel 1966 sotto la presidenza di Lyndon Johnson. Già allora la lobby di Big Pharma era così potente che lo Stato si privò del suo potere maggiore: contrattare i costi dei medicinali con le case farmaceutiche. Lo stesso difetto è rimasto con Obamacare. Non c’è nella legge un’arma contro i comportamenti predatori dell’industria farmaceutica, al punto che gli stessi medicinali made in Usa talvolta costano meno in Europa. Le autorità pubbliche degli Stati Uniti non hanno potere su nessuno degli attori privati: né Big Pharma né le assicurazioni, né la classe medica né gli ospedali privati. Il sistema si avvita in un’iperinflazione, le tariffe assicurative 2016 in media sono salite del 25%. L’Organizzazione mondiale della sanità denuncia l’inefficienza degli Stati Uniti: in percentuale sul Pil spendono quasi il doppio dei paesi europei e del Giappone, eppure gli indicatori di salute della popolazione sono peggiori. Unici a non accorgersene sono i dipendenti delle grandi aziende, che hanno buone polizze incluse in busta paga: però le pagano senza saperlo, di fatto con un prelievo dal salario lordo. La battaglia dei repubblicani è ideologica; da sei anni promettono di smantellare Obamacare, è un punto d’onore. Trump li ha assecondati in campagna elettorale. Ora dovrà evitare che il Congresso gli consegni un’altra riforma maledetta, una bomba a orologeria destinata a creare nuove storture, iniquità, malcontento. Di toccare i grandi privilegi, i veri predatori della sanità americana, Trump ha fatto cenno: ha promesso che con lui certi rincari dei medicinali saranno impossibili. Prima di lui provò Hillary Clinton quando era solo First Lady, nel lontano 1993. La sua prima, memorabile disfatta.
Moda e potere Le donne dei leader
segnare a Peng lo scettro della first lady influente e capace di comunicare soltanto con il colore di un vestito, e la strada potrebbe essere in discesa adesso che la sua principale rivale, Michelle Obama, non è più alla Casa Bianca. Eletta dal popolo americano principessa di stile, per otto anni Michelle ha fatto dell’immagine (anche grazie alla rivoluzione dei social media, scrive Vanessa Friedman sul «New York Times») la cifra del suo ruolo. È lei ad aver rivoluzionato il sistema della moda intorno al potere: «È per l’intelligenza che esprime, e per una caratteristica dell’intelligenza che è la disinvoltura. Michelle è stata corteggiata da qualunque stilista, pur essendo fisicamente difficile da vestire, perché aveva abbastanza personalità per fregarsene», spiega Giacomotti. E dunque, col passare del tempo, gli americani hanno smesso di criticare la principessa in chief, accettando ogni abito e ogni fantasia. Un meccanismo inverso a quel che succede in Italia, dove l’ex first lady Agnese Renzi può essere oggetto di insulti e volgarità se indossa uno smanicato bianco a collo alto dello stilista Ermanno Scevrino. Mondi diversi, e diversi approcci alla favola dell’ascesa politica. Secondo il mondo della moda, il messaggio di Michelle Obama, nei suoi otto anni alla Casa Bianca, è stato anche: una first lady può essere riconosciuta nel suo ruolo pur indossando abiti che non sarebbero considerati tradizionalmente eleganti, o adatti alle occasioni formali. Già nel 2008 aveva detto al «Tonight show» di amare J.Crew, la grande catena di distribuzione multimarca americana, e Target, il secondo rivenditore low cost americano dopo Walmart. Le vendite avevano avuto un incremento vertiginoso. Michelle aveva spostato il mercato: «Melania è meno elegante perché non è illuminata. Ma ha fatto bene Armani a decidere di vestirla, i suoi abiti danno eleganza anche a chi non ce l’ha». Politicamente, la prima mossa vincente di Melania, secondo Giacomotti, è quella di non essersi messa in competizione con l’inarrivabile Michelle: «Ha lasciato la Casa Bianca e il ruolo di first lady a sua figlia Ivanka, che è di un altro mondo: è una ragazza intelligente cresciuta in un ambiente internazionale. Lei è la famosa ragazza che esprime prosperità, educazione e cultura. Essere a proprio agio ovunque è un’altra caratteristica dell’eleganza. Sa sempre cosa indossare, non è la governatrice venuta dall’Alaska. Non sbaglia occasione né vestito». La favola americana del duro lavoro e del riscatto sociale, delle battaglie per i diritti e contro l’obesità, rappresentata da Michelle, sta per trasformarsi nell’elegante ricchezza pro business di Ivanka. Forse è davvero tutta una questione di stile.
Ivanka Trump, figlia di Donald, modello di stile. (AFP)
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Politica e Economia
Temer sempre più in difficoltà Brasile Immobilizzato dalle inchieste della magistratura, da un consenso popolare che non arriva al 10 per cento,
da prospettive economiche nere, il presidente ha sempre di più le mani legate per riuscire a fare quadrare i conti Angela Nocioni Il prodotto interno lordo brasiliano è caduto di un altro 3,5% nel 2016, dopo un segno negativo 3,8% già nel 2015. Era dagli anni Trenta, da quando la crisi del 1929 a Wall Street ridusse la domanda globale di caffè e fece precipitare il prezzo dell’allora principale prodotto di esportazione brasiliano, che non si registrava una contrazione simile del pil per due anni consecutivi.
Il presidente Michel Temer, arrivato al Planalto dopo che con un discutibilissimo processo di impeachment il parlamento ha defenestrato il 31 agosto la presidente Dilma Rousseff di cui Temer era vice, di fronte al precipitare del pil e alle non rosee prospettive economiche per il prossimo anno (si vota nel 2018) ha deciso di anticipare alcune misure, come il rifinanziamento dei debiti fiscali per le imprese, nella speranza che una piccola ripresa possa cominciare dall’evitare almeno per adesso alle industrie piccole e grandi di pagare le tasse. Ma fino a quando il gioco del rimandare a domani i pagamenti di oggi potrà funzionare, in un Paese gigantesco in cui il governo ha chiesto e ottenuto dal parlamento la promessa del congelamento della spesa pubblica in salute, educazione e pensioni per i prossimi vent’anni? E che futuro può avere un Paese con le gigantesche differenze sociali e di sviluppo del Brasile con un congelamento ventennale della spesa pubblica? Philip Alston, osservatore Onu dell’estrema povertà e dei diritti umani è stato drastico nel giudizio: «Un’intera generazione è condannata da questa decisione». Con l’economia a pezzi e inchieste giudiziarie che tengono sotto scacco presidente e ministri con l’accusa di aver percepito tangenti dalla grande impre-
AFP
Per liberarsi della pressione delle proteste di piazza Temer ha preso alcune piccole misure ma non è andato oltre
sa di costruzioni Odebrecht (processo tutto ancora da celebrare) la popolarità di Temer naufraga sotto l’8% secondo i principali istituti di sondaggi. Sull’uscita dalla crisi economica nessuno azzarda far promesse. I dati ufficiali sono pessimi. La Banca centrale prevede per il 2017 una crescita di 0,5%. Dei più di 12 milioni di brasiliani che risultano disoccupati, l’11% della popolazione attiva, quasi 2 milioni hanno perduto il lavoro nel 2016. E la tendenza va verso il peggioramento. Secondo le previsioni della Banca Santander nel 2017 la disoccupazione arriverà al 12,7%. L’unica notizia buona per Temer viene per ora da Washington. Se il presidente statunitense Donald Trump, mostrerà di tradurre in gesti concreti gli sgarbi per ora solo accennati contro la Cina, per il Brasile si potrebbe spalancare una nuova quota di mercato cinese. Nei prodotti agricoli c’è già competizione tra Stati Uniti e Brasile per l’export verso la Cina. Il Brasile resta comunque una delle grandi economie più vulnera-
bili all’aumento del prezzo del dollaro e se la Federal Reserve deciderà una politica di alti tassi d’interesse negli Stati Uniti, in Brasile gli effetti saranno duri. Nemmeno le istituzioni finanziarie brasiliane che hanno politicamente appoggiato la caduta di Dilma Rousseff, che ormai da tempo si era avvitata in una crisi politica dalla quale probabilmente non sarebbe uscita neanche se non ci fosse stato l’impeachment, mostrano di aspettarsi misure efficaci dal governo Temer. Secondo uno studio pubblicato da Bradesco, una delle principali banche private brasiliane, cattivi segnali si registrano non solo nell’industria, ma anche nella vendita all’ingrosso e nei servizi. In dodici mesi l’attività manifatturiera si è contratta dell’8,4% e questo spiega il grosso aumento della disoccupazione. Per liberarsi dalla pressione delle proteste di piazza, che comincia a farsi sentire, Temer a Natale ha lanciato una serie di piccole misure di sollievo per la classe media, per esempio la riduzione dell’alto interesse delle carte di credito,
ma non è riuscito ad andare oltre. Ha poi promesso che la Banca nazionale per lo sviluppo economico e sociale, banca pubblica, farà piovere prestiti su medie e piccole imprese. Ma una misura simile l’hanno già presa in passato i governi del partito dei lavoratori, il partito degli ex presidenti Lula da Silva e Dilma Rousseff e si sono sempre lamentati poi dei miseri risultati ottenuti nella piccola impresa a causa, soprattutto, della natura di economia informale (cioè in nero, quindi non finanziabile da una banca pubblica) di questa grande porzione dell’economia reale brasiliana. Molto criticata anche la proposta di riforma del lavoro che prevede di aumentare da 44 a 48 le ore lavorative settimanali, permette giornate lavorative in alcuni casi di 12 ore compensate poi da riposi ed estende da 3 a 8 mesi la durata di contratti temporali nei quali il datore di lavoro non paga contributi. La «Folha de Sao Paulo», il quotidiano più prestigioso del Brasile con una grande attenzione alla sfera economica
e finanziaria, è stato severo nel giudizio: «Si tratta solo un annuncio per alleviare la crisi politica, di un insieme di misure che non hanno relazione l’una con l’altra e dalla dubbia efficacia». Comunque la si pensi, è comprensibile che un presidente con un gradimento popolare bassissimo non abbia la forza di varare quella riforma delle pensioni che annunciò appena insediatosi come la sua prima grande mossa (non si potrà andare in pensione prima dei 65 anni e con 45 anni di servizio). Rimasta per ora lettera morta. Il governo Temer è fragile, sempre sull’orlo della destituzione. A parte la quantità di inchieste per tangenti che lambiscono personaggi di spicco dell’esecutivo, la minaccia diretta viene da una possibile sentenza del Tribunale superiore elettorale (Tse). Se verrà stabilito che ci furono finanziamenti in nero alla campagna per le presidenziali del 2014, il Tse potrà chiedere la destituzione della lista risultata vincitrice delle elezioni, la lista Rousseff-Temer. I due insieme furono eletti e, se il Tse lo riterrà opportuno, insieme saranno destituiti, con la differenza che la Rousseff destituita è stata già, da uno sgambetto fattole dal suo infido vicepresidente, ex alleato ed attuale presidente, che prima si è candidato insieme a lei e poi le ha tramato contro. Sarebbe una deliziosa vendetta per Dilma. Il partito dell’ex presidente Dilma (Pt) non ha saputo tenere a bada né Temer né i suoi colonnelli di partito perché mai come in questa legislatura ha avuto bisogno dei voti avvelenati del partito di Temer, il Partito del movimento democratico brasiliano, il Pmdb, il partito del governo. Il Pmdb, fondamentale ago della bilancia del sistema politico brasiliano, non presenta mai un candidato presidenziale proprio, però governa sempre. Si allea con chi vince, lo decide sempre dopo il risultato. Mai prima. L’ultima volta si è schierato invece con la Rousseff fin dal primo turno. Ha una capillare presenza sul vastissimo territorio brasiliano. È riuscito ad imporre Temer come secondo, ed era stata per l’invisibile Pmdb una gran vittoria. Il conto salato di quell’alleanza l’ha pagato Dilma con l’impeachment. Tra poco potrebbe toccare a Temer.
La jihad Rohingya
Minoranze perseguitate Fuggono dalla Birmania dove non sono accettati in quanto musulmani per rifugiarsi
nei campi profughi del Bangladesh che si trasformano in bacini di reclutamento del terrorismo pakistano Francesca Marino È accaduto altrove e sta succedendo ancora nell’indifferenza generale che durerà, come è successo per Talebani e affini, fino al momento in cui sarà già troppo tardi. Per l’ennesima volta infatti i campi profughi, abbandonati e dimenticati, si trasformano in bacini privilegiati di reclutamento per vari gruppi jihadi trasformando una catastrofe umanitaria in una emergenza terrorismo. È già successo, e sta succedendo adesso con una delle etnie più neglette e dimenticate della storia recente: i Rohingya. E anche l’ennesimo allarme lanciato dall’Ufficio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite e dall’organizzazione Internazionale dei Migranti è caduto come d’abitudine nel vuoto. Eppure, le espressioni adoperate nei rapporti delle suddette organizzazioni sono di quelle che destano in genere indignazione: genocidio, crimini contro l’umanità, pulizia etnica. Le organizzazioni internazionali accusano ancora una volta il governo della Birmania di crimini contro la minoranza etnica e religiosa dei Rohingya dichiarando che: «Lo Stato ha ampiamente disatteso le
raccomandazioni delle organizzazioni internazionali» e ipotizzando, non per la prima volta, che sia in corso un vero e proprio genocidio. Così la pensa anche il premier malese Najib Razak, che si è messo alla testa di un corteo di solidarietà con i Rohingya, pronunciando a chiare lettere la parola genocidio e dichiarando che: «Quando è troppo è troppo». Secondo le agenzie umanitarie, tra il 9 ottobre e il 2 dicembre sono arrivati a Cox Bazaar, in Bangladesh, ventunomila Rohingya. Che si aggiungono ai più o meno 230’000 (dati ufficiali, ma si parla di cinquecentomila) che vivono già nel Paese: più o meno perché soltanto 32’000 sono registrati. Gli altri ci sono, ma non esistono sulla carta. In Birmania, sono considerati cittadini di serie C: anzi, non sono considerati affatto cittadini ma «stranieri residenti» pur essendo autoctoni. La loro colpa? Essere musulmani in un Paese a maggioranza buddista. I Rohingya sono stati privati della nazionalità birmana e fatti oggetto di una campagna persecutoria in grande stile: moschee distrutte, terre confiscate, stupri etnici e omicidi hanno costretto all’epoca più di duecentomila persone
ad abbandonare il Paese e a rifugiarsi all’estero. Quelli che sono rimasti sono stati dichiarati «stranieri residenti» senza diritto a possedere terra e senza diritti civili o legali. Al principio degli anni Novanta, in seguito all’ennesima campagna di stupri, omicidi e persecuzioni, altri 250mila Rohingya abbandonavano la Birmania per rifugiarsi principalmente in Bangladesh inseguendo l’illusione di poter essere meglio accolti in un Paese a maggioranza musulmana sunnita. Non è stato così, perché subiscono anche in Bangladesh discriminazioni, soprusi, violenze e ripetute violazioni dei diritti umani più di una volta denunciati dalle Nazioni Unite e caduti, come dicevamo, in un assordante silenzio. Nell’ultimo anno, le operazioni di pulizia etnica del governo birmano si ripetono con allarmante frequenza. Le analisi delle mappe aeree fatte dalle agenzie internazionali mostrano villaggi completamente rasi al suolo, e i rifugiati che arrivano in Bangladesh parlano di torture, stupri e violenze di ogni genere. Il governo del Bangladesh adotta in sostanza la politica dello struzzo. Così i Rohingya continuano a vivere abbandonati nei campi pro-
fughi, amorosamente assistiti soltanto da alcune organizzazioni umanitarie islamiche. Una per tutte? La Fala-I-Insaniyat, pakistana, prontamente accorsa in aiuto, fin dal 2012, ai fratelli musulmani perseguitati. Ma la Fala-I-Insaniyat, purtroppo, altro non è che una branca della Jamaat-u-Dawa, il «braccio umanitario» della Lashkar-i-Toiba, l’organizzazione terroristica pakistana accusata, tra le altre cose, dell’attacco di Mumbai del 2008. La JuD ha adottato con successo la stessa tecnica in Pakistan, dove è spesso stata l’unica organizzazione ad aver avuto dal governo il permesso di accedere in aree colpite da terremoti o alluvioni: porta soccorsi e arruola le vittime di catastrofi di varia natura. Fare leva sulla rabbia delle vittime, soprattutto dei giovani, è semplicissimo. Così, secondo rapporti dell’intelligence indiana e di quella birmana, i Rohingya sono felicemente entrati a far parte del progetto di jihad globale della LiT. Secondo i rapporti, esistono vari campi di addestramento, che hanno stretti legami con la LiT e con la JuD, sul confine tra Birmania e Bangladesh e tra Thailandia e Birmania. Non solo:
ha cominciato a operare nell’area un gruppo chiamato Aqa-ul-Mujahiddin i cui membri, secondo l’intelligence birmana, sono stati addestrati in Pakistan nei campi della LiT. Pare che le reclute, selezionate in loco, siano state inviate in Pakistan per poi tornare ad addestrare nuove leve in loco. Ci sono Rohingya che combattono ormai in Kashmir a fianco della Jaish-i-Mohammed e della Lashkar-i-Toiba, e ci sono cellule composte ormai esclusivamente di militanti Rohingya. I legami con i gruppi terroristici di matrice pakistana sono ormai ben consolidati, tanto che a capo di uno dei gruppi si trova un maulana pakistano di origine Rohingya, Abdul Hamid, strettamente connesso alla Lashkar-iToiba. Occuparsi della catastrofe umanitaria e del genocidio in corso dovrebbe essere, per l’Occidente, una priorità assoluta: Per ragioni umanitarie anzitutto, perché non si creino come spesso accade, vittime di serie A e di serie B. Ma anche per ragioni prettamente egoistiche: mentre tutti si affannano a concentrarsi su una particolare zona del mondo, fuori dal cono di luce si prepara la guerra di domani.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Politica e Economia
Russia, la storia non si tocca
Dibattito La verità storica viene censurata se entra in collisione con le mitologie della propaganda: lo dimostrano
le proteste intorno a film sul passato e a ricerche negli archivi che hanno scatenato polemiche sullo stalinismo
Anna Zafesova Doveva essere il «blockbuster storico dell’anno». Ma ancora prima di essere uscito, il sontuoso e romantico biopic Matilda rischia di diventare lo scandalo dell’anno, dopo che la deputata della Duma Natalia Poklonskaya – primo procuratore della Crimea annessa e icona del web «patriottico» per i suoi capelli biondi e gli occhioni da eroina dei manga – ha chiesto alla magistratura di indagare la pellicola ed eventualmente proibirla, in quanto «offende i sentimenti dei credenti». Contro la trasposizione cinematografica della storia d’amore tra il futuro Nicola II e l’étoile del balletto imperiale Matilda Kshesinskaya si sono schierate associazioni religiose e il potente vescovo Tikhon Shevkunov, considerato il «confessore di Putin». Poklonskaya non ha visto il film di Alexey Uchitel, che non è ancora completato, ma non ha nemmeno l’intenzione di farlo, «per non sporcarmi»: nella sua denuncia ha scritto che il fatto stesso di attribuire allo zar fucilato dai bolscevichi e proclamato santo martire una relazione adultera è già un’offesa.
Il nuovo manuale unico di storia voluto da Putin parla di Stalin come di un manager efficiente e di un grande stratega È solo l’ultimo, forse il più assurdo caso in cui interpretazioni di eventi del passato diventano in Russia materia di scontro moderno. Lo «scandalo» su Kshesinskaya sembra un episodio di «eccesso di zelo»: il fatto che la ballerina di origine polacca fu amante dell’erede al trono (così come di altri due gran principi Romanov, uno dei quali anni dopo la sposò) non è mai stato messo in dubbio, così come il fatto che riuscì a ottenere il titolo di prima ballerina grazie a pressioni altolocate, e che mezza Pietroburgo accorreva al teatro Mariinsky per vederla indossare in scena diamanti veri. Ma per i nazionalisti e i radicali della chiesa ortodossa raffigurare il giovane zar a letto con una ballerina è un sacrilegio. Qualche settimana prima della polemica su Matilda, il ministro della Cultura russo Vladimir Medinsky aveva già mostrato che la verità storica poteva essere censurata se entrava in collisione con le mitologie della propaganda. L’occasione è stata fornita dal film I 28 panfilovzy, uno degli episodi più famosi della battaglia di Mosca che avrebbe visto 28 soldati comandati da Gleb Panfilov fermare i carri tedeschi alle porte di Mosca al costo delle loro vite. La storia veniva raccontata ai sovietici fin dall’asilo, con libri, film, me-
I costumi del film Matilda esposti nel Palazzo di Caterina a San Pietroburgo. (Keystone)
daglie e canzoni. Purtroppo, era falsa, e lo sapeva perfino Stalin: non erano 28, non morirono tutti, anzi, qualcuno poi passò con i tedeschi, non fermarono nessuna avanzata, come racconta un’indagine del 1948, ripubblicata dal direttore dell’archivio di Stato Serghey Mironenko. Un falso, forgiato dal giornale dell’Armata Rossa nei giorni dell’autunno 1941 quando Mosca sembrava sul punto di cadere in mano nemica. Ma quando il giovane regista Andrey Shaliopa ha deciso di lanciare un crowdfunding per raccontare la vecchia storia con strumenti cinematografici da blockbuster, il ministro ne ha sposato la causa. Il direttore dell’archivio è stato costretto a dimettersi, e Medinsky ha imposto un nuovo standard storiografico: paragonando i 28 eroi inesistenti ai 300 spartani, ha stabilito che «anche se fosse inventata dall’inizio alla fine, è una leggenda sacra e intoccabile, e chi prova a toccarla è una feccia senza speranza». La «feccia» è avvertita di non riprendere le polemiche sull’autenticità in occasione del prossimo progetto sponsorizzato dal ministero della Cultura, Zoia, un’agiografia, la storia della giovanissima Zoia Cosmodemianskaya, partigiana spedita dal partito comunista a combattere i tedeschi, catturata, orrendamente torturata e impiccata. Anche su questa vicenda gli storici nutrono seri dubbi, ma Zoia fu un’icona della propaganda sovietica, riesumata ora come santa del pantheon staliniano. Come del resto è già successo al dittatore georgiano, la cui
effigie dopo decenni è tornata in piazza Rossa alle sfilate in onore della vittoria sui nazisti. Di Stalin dopo il 1953 in Russia si è cercato di non parlare, e con la fine del comunismo le rivelazioni sulle milioni di vittime del Gulag sembravano averlo collocato definitivamente tra gli innominabili della storia. Ma è tornato, tra libri, fiction, manifesti e monumenti, e il nuovo manuale unico di storia voluto da Vladimir Putin ne parla come di un grande stratega, menzionando sobriamente le purghe e mettendo in risalto il suo talento da «manager efficiente», come è stato definito da Putin. In assenza di fatto di un dibattito politico di attualità, dice il politologo Maxim Trudolyubov, «La storia della Russia moderna, specialmente del XX secolo, ha preso il posto della politica. In Russia non sei di sinistra o di destra, ma anti-Stalin o pro-Stalin». Le linee di frattura politiche che passano dietro a questi dibattiti sono comunque evidenti: da un lato, i più zelanti esponenti del regime, che fanno rivivere in versione nemmeno tanto aggiornata la triade di Alessandro III «Ortodossia, monarchia, popolo», dall’altro i «liberali filoccidentali». Le divergenze sono chiare, e non c’è alcun bisogno di vedere un film non ancora ultimato per sapere già se fa parte o meno del kit ideologico giusto. Anche lo scontro con l’Occidente passa in buona parte dai libri di storia, e qualche anno fa il governo ha perfino fondato una «Commissione contro le falsificazioni della storia», e il Ministero
degli Esteri ha scritto proteste formali contro governi dell’Europa dell’Est che osavano ricordare che nel 1945 l’Urss non solo liberò Praga e Varsavia dai nazisti, ma le sottomise anche al suo dominio per i 45 anni successivi. La «giustizia storica» è stata la giustificazione dell’annessione della Crimea, e nel 2015 gli storici russi ricevettero l’ordine di produrre una monografia sulla «Novorossia» per giustificare l’intervento a fianco dei separatisti ucraini. Della Novorossia non parla più nessuno, ma la storia, riletta sotto la lente contemporanea, resta uno strumento della politica. I russi dicono di vivere in un Paese dal passato imprevedibile, anzi, di due passati diversi e opposti, come ha dimostrato Denis Karagodin. Il giovane filosofo siberiano è riuscito in un’impresa che sembrava impossibile: dopo anni di ricerche negli archivi e braccio di ferro con la burocrazia, è stato il primo russo a ricostruire nei dettagli la morte di suo bisnonno Stepan, un contadino arrestato e fucilato nel 1937 con l’accusa di essere una spia giapponese. Una delle tante vittime dello stalinismo, riabilitato per «assenza di reato» dopo il XX congresso di Krusciov. Ma a Denis non bastava, e si è battuto per sapere tutto, fino alla sentenza, e i nomi degli esecutori. Nessuno era riuscito prima a violare gli ancora impenetrabili archivi dell’ex Kgb fino a questo punto, e mentre gli intellettuali discutevano se fosse giusto o meno chiamare i boia per nome, sul sito di Karagodin piove-
vano centinaia di richieste di pronipoti delle vittime di Stalin che gli chiedevano di fare la stessa cosa per loro. Ma la lettera più commuovente è stata quella di Yulia, nipote di uno dei carnefici: «Posso solo chiederle scusa, e pregare per suo bisnonno, senza chiamare le cose per nome non cambierà mai nulla». Un momento storico, e l’editoriale del quotidiano liberale «Vedomosti» dedicato a Denis («L’eroe solitario») spera che dalla prima ammissione di colpa per i crimini del passato possa iniziare una riconciliazione nazionale finora impossibile. Anche perché non sono fratture di un passato remoto, e Vladimir Yakovlev, fondatore del primo quotidiano indipendente russo, «Kommersant», dice: «Di solito parliamo dei morti. Ma bisogna parlare dei sopravvissuti, diventati poi genitori e genitori dei nostri genitori». Ci ha messo decenni a capire che suo nonno, ufficiale dell’Nkvd, era «un assassino», e che i mobili della sua famiglia «appartenevano a persone fucilate». E ha capito anche «le origini della mia paura immotivata, della mia ossessione per il segreto, dell’assoluta incapacità di fidarmi di nessuno, e del senso di colpa costante». Molti dei nipoti delle vittime del Gulag, come Karagonov, sono scesi in piazza con l’opposizione, e i nonni di molti personaggi di spicco del governo indossavano uniformi dell’Nkvd. La Russia continua ad avere due storie, che nell’anno del centenario della rivoluzione d’Ottobre sono destinate a scontrarsi ancora. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Politica e Economia
Luna di miele all’insegna degli affari
Svizzera-Cina La storica visita del presidente Xi Jinping rafforza i legami fra i due Paesi e sfocia in nuovi accordi
commerciali, culturali, sull’ambiente e sul turismo - La salvaguardia dei diritti umani discussa solo in privato
Marzio Rigonalli La settimana scorsa il presidente cinese Xi Jinping ha trascorso ben quattro giorni in Svizzera. La durata del soggiorno merita di essere sottolineata, perché forse è un fatto più unico che raro, che il numero uno di una potenza come è la Cina, che ha grande influenza nel mondo, trascorra così tanto tempo sul suolo elvetico. Il viaggio è stato diviso in due parti. La prima è stata dedicata alle relazioni bilaterali, la seconda ha avuto una dimensione prevalentemente internazionale, con il discorso di Xi Jinping al Forum di Davos e la sua visita al Comitato olimpico internazionale a Losanna ed alle istituzioni dell’ONU a Ginevra. Gli incontri tra il presidente cinese ed il Consiglio federale, presente quasi sempre al completo, e le dichiarazioni che sono state rilasciate, hanno mostrato una forte volontà reciproca di consolidare e, possibilmente, di migliorare i rapporti economici esistenti, nonché di estendere la collaborazione ad altri settori, come l’ecologia, la cultura ed il turismo. I due paesi vantano un rapporto di cooperazione che risale alla metà del secolo scorso. La Svizzera è stata uno dei primi paesi occidentali a riconoscere la Repubblica popolare cinese, fondata da Mao Tse-Tung, e ad allacciare con lei relazioni diplomatiche. Era il gennaio del 1950 e quell’anno il presidente della Confederazione era Max Petitpierre. All’inizio i contatti bilaterali non furono molto intensi, ma a partire dal 1979, anno in cui Deng Xiaoping lanciò la politica di apertura e di riforme, si svilupparono progressivamente. La volontà reciproca di cooperare sfociò nell’accordo di libero scambio, firmato nel 2013 ed entrato in vigore il 1. luglio 2014. La Svizzera è stato il primo paese europeo ad aver concluso un trattato con Pechino, destinato ad eliminare gli ostacoli al commercio. L’accordo è oggi il principale
Xi Jinping e Doris Leuthard: un brindisi che promette buoni affari. (Keystone)
pilastro su cui si poggiano i rapporti bilaterali. In questi pochi anni di esistenza ha consentito una forte crescita del commercio tra i due paesi. La Cina è diventata il principale partner commerciale della Svizzera in Asia, ed a livello mondiale è il nostro terzo partner commerciale, dopo l’Unione europea e gli Stati Uniti. I due giorni di colloqui sono sfociati nella firma di una decina di accordi e di dichiarazioni d’intenti che toccano diversi settori. Innanzitutto, si è cercato di migliorare l’accordo di libero scambio, che attualmente copre il 95% delle esportazioni svizzere verso la Cina, di accelerare i tempi necessari per ridurre le tariffe doganali e di dare una spinta agli investimenti reciproci. Poi, sono state raggiunte intese nei settori finanziario, energetico, del turismo, dell’innovazione e della proprietà intellettuale. Infine, si è trovato un avvicinamento
in ambiti meno legati all’economia, come quello degli scambi culturali, con la futura apertura di un centro cinese a Berna, o quello dello sport. Gli incontri bilaterali sono stati preceduti e accompagnati da numerose dichiarazioni di amicizia e di rispetto reciproco, nonché, da parte cinese, da lodi per il ruolo che la Svizzera sta svolgendo sul piano internazionale e per gli svizzeri giudicati coraggiosi, intelligenti e lavoratori. Un clima disteso in una cornice quasi idillica che, però, ha lasciato l’amaro in bocca a tutti coloro che si battono per la difesa dei diritti umani e che vorrebbero vedere la Svizzera sempre in prima linea in questa difficile battaglia. Per due ragioni. Dapprima perché la questione della salvaguardia dei diritti umani in Cina, in particolare dei diritti delle minoranze tibetana e uigura, e degli oppositori al potere del partito comunista, non
ha trovato spazio nelle dichiarazioni pubbliche. I consiglieri federali Doris Leuthard e Didier Burkhalter hanno detto che la questione è stata affrontata nei colloqui, ma nessuna informazione è trapelata sulla reazione cinese. Anche in questo caso, come è già successo più volte in passato, i responsabili della nostra politica estera hanno lasciato intendere che gli interventi dietro le quinte producono più risultati che le dichiarazioni pubbliche. In secondo luogo, perché la libertà di opinione e di manifestare è stata ristretta in maniera esagerata dalle autorità elvetiche. Per evitare di essere confrontati con incidenti simili a quelli avvenuti nel 1999, durante la visita dell’allora presidente Jang Zemin, e con le parole di sdegno che Zemin rivolse alla presidente della Confederazione Ruth Dreifuss, dopo gli incidenti, il Consiglio federale ha disposto un servizio di sicurezza severissimo. I permessi per manifestare sono stati rilasciati con cautela e sono stati accompagnati da significative restrizioni. Le manifestazioni dei tibetani e dei loro sostenitori sono avvenute in strade lontane da Palazzo federale ed in certi casi la polizia si è spinta fino a chiedere a privati cittadini di togliere dalle loro finestre la bandiera tibetana. Inoltre, durante le dichiarazioni rilasciate alla stampa, ai giornalisti presenti non è stato permesso di porre domande al presidente cinese, come avviene di solito quando un leader politico straniero viene in visita in Svizzera. Tutto è stato predisposto per non urtare la sensibilità dell’ospite cinese. È risaputo che una visita ufficiale deve poter avvenire in tutta sicurezza. Per raggiungere questo obiettivo, ci vogliono anche misure che spesso implicano la restrizione delle libertà dei cittadini. Restringere non significa però soffocare o cancellare. Significa trovare un equilibrio tra quelle che sono le esigenze del momento ed il valore attribuito alle libertà fondamentali.
Alla fine, la visita di Xi Jinping si è svolta senza incidenti e darà sicuramente un ulteriore impulso allo sviluppo delle relazioni bilaterali. Una domanda, però, resta in sospeso: al di là dei vantaggi economici che può trarre, perché la Cina, paese con 1 miliardo e 400 milioni di abitanti, mostra un così grande interesse per la Svizzera, piccolo Stato di 8 milioni di abitanti? Forse perché i rapporti con la Svizzera potrebbero diventare un esempio da proporre ad altri paesi europei? Forse perché la Svizzera costituisce una possibile apertura per meglio entrare nell’Unione europea? La risposta non è evidente e, probabilmente, va cercata nei piani strategici che Pechino intende seguire. La dimensione internazionale della visita del presidente cinese, invece, ha raggiunto il suo apice nel discorso che Xi Jinping ha tenuto all’apertura dell’annuale Forum economico di Davos. La difesa della globalizzazione economica, l’utilità di un’economia mondiale aperta, i danni che il protezionismo può provocare, l’orrore di una guerra commerciale dalla quale nessuno può uscire vincitore, la via reale della cooperazione internazionale fra gli Stati e il rispetto degli accordi internazionali, come quello di Parigi sul clima, approvato dalla COP 21, sono stati i punti forti del discorso. Xi Jinping ha dimostrato di avere una visione del mondo completamente diversa, opposta a quella sostenuta dal nuovo presidente americano Donald Trump, dal primo ministro britannico Theresa May e da tutte le forze populiste. È una visione che s’iscrive nella continuità di quanto è stato realizzato sul piano internazionale dopo la fine della seconda guerra mondiale, e che consente all’Europa di sentirsi un po’ meno sola. È una visione che trova spazio anche nei rapporti bilaterali con il nostro paese e che, quindi, non è in contraddizione con la politica estera della Svizzera.
Il Credit Suisse risolve la vertenza con gli USA
Crisi dei subprime D ovrà pagare una multa di 2,5 miliardi di dollari, con la novità di soccorrere i debitori ipotecari
La Barclays Bank invece non ci sta e si rimette al giudizio dei tribunali. Ci saranno novità? Ignazio Bonoli Era la vigilia di Natale quando i giornali pubblicavano la notizia che il Credit Suisse, e anche la Deutsche Bank, avevano trovato un accordo con la giustizia americana per mettere fine alle richieste di indennizzo, a seguito della grande crisi del «prime rate» americano nel 2008. Cosa che altre banche – e tra esse anche l’UBS – avevano già fatto da tempo a suon di miliardi di dollari. Le due banche citate avevano tirato le cose un po’ più per le lunghe, sperando di trovare un accordo che potesse accontentare i contendenti. L’accordo è stato raggiunto nel senso che il Credit Suisse dovrà pagare una multa di 2,48 miliardi di dollari e la Deutsche Bank di 3,1 miliardi. Si poteva pensare a un esito scontato, visti i precedenti accordi con altre banche. Ma questa transazione prevede una novità: le due banche dovranno aiutare finanziariamente i debitori ipotecari originali, vittime prime della crisi, anche se questi debitori non hanno mai avuto una relazione con le banche interessate. Questo perché le banche non hanno avvertito gli investitori della pessima qualità dei titoli che si basavano sulle loro ipoteche. Bisogna qui ricordare che le cartelle ipotecarie in America sono trattate su un apposito mercato e quando i debitori ipotecari hanno co-
minciato ad incontrare difficoltà nel pagare interessi e ammortamenti sui loro debiti, tutto il sistema è crollato. E così dopo aver conosciuto una crescita eccezionale, ha rischiato di trascinare con sé l’intero sistema finanziario globale. Alle banche si rimprovera di essere state a conoscenza della crisi del sistema, ma di non aver avvertito gli investitori della cattiva qualità dei titoli venduti. Resta comunque ancora da valutare l’entità dei costi che la banca dovrà sopportare a favore dei debitori ipotecari. Il Credit Suisse valuta questa cifra in circa 2,8 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni. Ma, come si può immaginare, si dovrà trovare una definizione esatta dell’impegno, che potrebbe assumere dimensioni magari superiori. Per quanto concerne la multa, in realtà appare un po’ superiore a quanto si pensava qualche mese fa. Tuttavia non ha sorpreso gli ambienti zurighesi e nemmeno la borsa, che ha reagito in modo pacato, ritenendo che il CS sia in grado di assorbire il colpo. Ovviamente questo si ripercuoterà sul bilancio del quarto trimestre del 2016, che potrebbe chiudersi con un risultato negativo e provocare una diminuzione della quota primaria di capitale proprio. In tutta questa faccenda, soggetta agli interventi delle autorità di sorve-
glianza degli istituti finanziari, il Credit Suisse è una delle banche che ne è uscita meglio. L’accordo con la giustizia americana dovrebbe essere l’ultimo impegno di questa portata. Ora però, su tutta la faccenda pesa un’altra grossa incognita. La britannica Barclays Bank non ha voluto concludere un accordo extra-giudiziale con il fisco americano, per cui ora quest’ultimo procederà con una causa di diritto civile contro la Barclays e due ex-banchieri dell’Istituto. Alla banca si rimprovera di aver venduto titoli basati su ipoteche per 31 miliardi di dollari senza avvertire gli investitori della pericolosità di questi investimenti, omettendo inoltre il dovere di accertarsi della qualità dei debitori. Secondo la banca, le accuse non corrispondono alla realtà dei fatti. È raro che una banca si lasci trascinare davanti ai tribunali. In caso di accordo il rischio finanziario è calcolabile e pone un termine alla contesa. Non si sa però quale cifra abbiano chiesto le autorità americane, mentre la banca era disposta a versare due miliardi di dollari. La Barclays sostiene che le perdite sui suoi titoli sono state inferiori a quelle di altre banche. Inoltre la banca stessa ha subito perdite. Dovrebbe perciò essere costretta a pagare una multa solo sugli utili realizzati o, al massimo, sulle perdite subite dai clienti. La banca non
Con questa multa, il CS chiude l’ultima vertenza miliardaria in corso. (Keystone)
ha altre pendenze con la giustizia americana, per cui potrebbe partire da una posizione migliore. Qualcuno pensa anche che sotto l’amministrazione Trump la giustizia americana potrebbe diventare meno severa con le banche. Il tribunale dovrà ora valutare attentamente le accuse delle autorità americane e la sua sentenza farà storia nelle travagliate vicende di molte banche. Se la Barclays dovesse vincere, le banche che hanno sottoscritto l’accordo si troverebbero a mal partito. Se da un lato le autorità ameri-
cane non mancano di creare sorprese nelle loro accuse, dall’altro proprio la Barclays, in un caso di manipolazione dei cambi delle divise a Londra, si è trovata a dover pagare 2,4 miliardi di multa, nel tentativo fallito di implicare le autorità di sorveglianza americane. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Politica e Economia
«Potere» d’acquisto, il solito (ig)noto Consumi Come si è evoluta la segmentazione fra spese individuali nel tempo? E, soprattutto, cosa è cambiato?
Edoardo Beretta Fra le domande più frequenti, che da sempre ci si pone, importanti sono quelle relative alla capacità di spesa individuale, cioè al «peso» del proprio salario per fronteggiare le necessità di consumo quotidiano. Il cosiddetto «potere d’acquisto», che dovrebbe forse essere ribattezzato in «capacità d’acquisto» (poiché il primo termine ha un’accezione monetaria legata alla «copertura» reale di ogni unità di moneta), assurge così a strumento di misurazione dell’(in)adeguatezza del compenso mensile. È fuor di dubbio che l’economia moderna offra prodotti, il cui prezzo sia sensibilmente diminuito nel tempo anche solo per il progresso tecnologico. La domanda principale rimane, però, sempre la stessa: come si è evoluta la «capacità d’acquisto»? Se le dinamiche dei prezzi da sempre sono decomponibili in base al breve e lungo periodo, solo il primo, cioè l’analisi di rincari e sgravi risalenti agli ultimi semestri, riscuote attenzione ed interesse diffusi. A mero esempio, il bene «salute» si conferma in crescita in termini assoluti (da 483 a 560 o da 607 a 718 CHF/ mese dal 2006 al 2013 a seconda che si aggiungano assicurazioni complementari) compensato altresì da risparmi cosiddetti «esterni» come dal minor prezzo di materie prime fondamentali quale il greggio. Non è indifferente l’apporto federale alla riduzione dei premi dell’assicurazione malattia per
le fasce reddituali più deboli – a livello rossocrociato pari a 2’479’532’415 CHF, mentre in Ticino a 105’136’540 CHF nel 2016. Approfondendo composizione (e variazione) di spesa delle economie domestiche svizzere nell’arco temporale 2006-2013, si evince come l’incidenza percentuale delle singole voci (in termini relativi) non abbia subito «scossoni». In altri termini, essendo il reddito disponibile aumentato da 6101 a 7130 CHF/mese, non soltanto il risparmio individuale pare averne tratto vantaggio, bensì anche la quota di spesa mensile. Tutto a posto, quindi? La risposta non è altrettanto univoca o meccanicisticamente determinabile. Infatti, il concetto di «capacità d’acquisto» non esaurisce l’esigenza di informazioni sulla qualità dei prodotti consumati dall’individuo medio, la cui incidenza statistica di spesa può essere comunque rimasta invariata. Sarebbe perciò riduttivo analizzare una voce quale «abbigliamento e calzature», compararne entità in franchi svizzeri (225 CHF) e percentuale di reddito disponibile (2,6% nel 2006 e 2,2% nel 2013) e desumerne che l’acquisto effettuato sia stato di pari qualità (ma a minor prezzo). Non c’è dato sapere, se l’economia domestica abbia speso meno per quella tipologia di prodotto o a causa di prezzi in diminuzione o a fronte di qualità inferiore. Paradossalmente, in tal caso, la voce di spesa ne risulterebbe sì diminuita, ma ci si troverebbe comunque di fronte ad un incremento di prezzo
2006
2013
% reddito lordo
Variazione (2006-2013)
Variazione % reddito lordo
Reddito lordo
8551
100,0
10’052
100,0
+17,55
–
Spese di trasferimento obbligatorie
–2265
–26,5
–2748
–27,3
+21,32
+3,02
– Assicurazioni sociali: contributi
–792
–9,3
–1008
–10,0
+27,27
+7,53
– Imposte
–990
–11,6
–1180
–11,7
+19,19
+0,86
– Assicurazioni malattia di base: premi
–483
–5,6
–560
–5,6
+15,94
–
Reddito disponibile
6101
71,3
7130
70,9
+16,87
+0,56
Altre ass., tasse, trasferimenti
–528
–6,2
–662
–6,6
+25,38
+6,45
– Ass. malattia complementari: premi
–124
–1,5
–158
–1,6
+27,42
+6,67
– Altre assicurazioni: premi
–185
–2,2
–197
–2,0
+6,49
–9,09
– Tasse
–63
–0,7
–84
–0,8
+33,33
+14,29 +22,22
– Donazioni, regali offerti, inviti
Budget delle economie domestiche (2006-2013), CHF/mese per economia domestica (media) e ripartizione % (100%: reddito lordo). (Elaborazione Edoardo Beretta)
% reddito lordo
–157
–1,8
–224
–2,2
+42,68
Spese di consumo
–5135
–60,1
–5481
–54,5
+6,74
–9,32
– Prod. alimentari, bevande analcoliche
–627
–7,3
–645
–6,4
+2,87
–12,33
– Bevande alcoliche, tabacchi
–103
–1,2
–106
–1,1
+2,91
–8,33
– Ristoranti, pernottamenti
–510
–6,0
–579
–5,8
+13,53
–3,33
– Abbigliamento, calzature
–225
–2,6
–225
–2,2
–
–15,38
– Abitazione ed energia
–1370
–16,0
–1521
–15,1
+11,02
–5,63
– Arredamento/manutenzione abitativi
–269
–3,1
–274
–2,7
+1,86
–12,9
– Spese per la salute
–266
–3,1
–261
–2,6
–1,88
–16,13
– Trasporti
–708
–8,3
–786
–7,8
+11,02
–6,02
– Comunicazioni
–173
–2,0
–188
–1,9
+8,67
–5,0
– Tempo libero, svago, cultura
–628
–7,3
–605
–6,0
+3,66
–17,81
– Altri beni, servizi
–255
–3,0
–289
–2,9
+13,33
–3,33
Risparmio
842
9,9
1329
–13,2
+57,84
+33,33
(non rilevabile numericamente). Non vi è persino contraddizione con la migliore attenzione qualitativa spesso dimostrata dal consumatore: piuttosto, non si può escludere che il settore produttivo – per mantenere margini di profitto sufficienti nonostante la globalizzazione «esasperata» – cerchi di ab-
battere i costi. Banalmente ed in modo altrettanto noto, non guasta ricordare il deterioramento pianificato di certi prodotti, che (per quanto marginale) si sa ormai essere realtà. La percezione di tutti derivante dalla quotidianità d’acquisto rimane (per quanto «spannometrica») di fondamentale impor-
tanza nella determinazione dell’evoluzione dei prezzi – si ricordi il dibattito successivo all’introduzione dell’Euro (ribattezzato Teuro per il suo asserito contributo all’ascesa dei prezzi nell’Area Euro). Certo è che la domanda sul «potere d’acquisto» rimarrà a lungo pressante. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Politica e Economia
Per un’economia con il cuore La consulenza della Banca Migros
Albert Steck Con il suo ultimo articolo per «Azione» Albert Steck esorta a un cambiamento di paradigma a favore di un’economia con più cuore e più moderazione, in piena sintonia con lo spirito di Gottlieb Duttweiler.
Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros
L’economia ha una brutta fama. Durante la crisi finanziaria i modelli elementari hanno fallito, in particolare l’ideale del mercato efficiente. Inoltre gli economisti sono considerati altezzosi e fuori dal mondo. Spesso argomentano con teorie astratte, che una persona comune non potrà mai capire. Per questo ritengo che gli economisti dovrebbero occuparsi molto di più dei problemi quotidiani della gente. E farebbero bene a formulare i loro pensieri in modo da renderli comprensibili a chiunque. Sono questi i due principi che mi hanno ispirato nei miei articoli per «Azione»: riferimento alla pratica invece della pura teoria, ragionamenti perfettamente comprensibili invece di un astruso linguaggio pseudoscientifico. Sono due le personalità che mi hanno ispirato. Da un lato Gottlieb Duttweiler, fondatore della Migros, che era un convinto fautore del «capitale sociale». Il suo leitmotiv era: «Il guadagno deve essere fondato sullo spirito di servizio». Questo credo è tornato di particolare attualità a causa dei profondi stravolgimenti economici. Ecco che cosa scriveva Duttweiler ben sessant’anni fa: «I conti tornano anche dove comanda
Gottlieb Duttweiler: «Il guadagno dev’essere fondato sullo spirito di servizio». (Keystone)
il cuore, dove la persona umana è posta al centro e non solo il freddo calcolo matematico con il franco». L’altro personaggio cui ci siamo ispirati è Friedrich August von Hayek, vincitore del premio Nobel per l’economia nel 1974. Von Hayek ha sempre messo in guardia contro i pericoli di considerare l’economia una scienza esatta, come la fisica, ad esempio. Infatti, il com-
portamento umano è imprevedibile. Hayek ha esortato gli economisti alla moderazione: « Il vero compito dell’economia consiste nel dimostrare alle persone quanto poco sappiano di ciò che credono di poter pianificare». Oggi osserviamo sempre più spesso una fede esagerata nella fattibilità, ad esempio nella politica monetaria o nella pretesa di abolire il denaro contante.
«Cuore» e «moderazione»: questi sono i due principi che ho cercato di seguire nei miei testi. Non sempre ci sono riuscito. Ecco perché le centinaia di lettere e commenti da voi ricevuti nel sito blog.bancamigros.ch mi hanno fatto molto piacere, fornendomi feedback e input preziosi. Cari lettori, vi ringrazio di cuore del vostro interesse. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi A proposito di «svizzeritudine» dei prodotti Dal primo gennaio di quest’anno è entrata in vigore la nuova legge federale sulla protezione delle marche che, tra le molte altre disposizioni, contiene anche i criteri che dovrebbero aiutare a giudicare se un prodotto è svizzero o no. Fino a un paio di decenni fa, nessuno si preoccupava di sapere quanto svizzera fosse la produzione svizzera. Oggi, soprattutto in seguito al dislocamento all’estero di importanti funzioni di produzione e all’importazione dall’estero di molti componenti o semiprodotti, la situazione è invece mutata. È diventato molto più difficile definire l’origine di un prodotto. Naturalmente poter dichiarare la propria produzione come svizzera costituisce per molte aziende un vantaggio competitivo importante, perché il «made in Switzerland» rappresenta sempre un valido argomento pubblicitario. La nuova legge sulla protezione delle marche è un testo che non può essere riassunto in poche righe. Quello che
maggiormente interessa l’opinione pubblica è però la questione della dichiarazione di origine, il cosiddetto problema della «Swissness», ossia della misura del grado di «svizzeritudine» di un prodotto o di un servizio offerto da un’azienda con sede in Svizzera. È questa anche la questione che ha sollevato, durante i dibattiti parlamentari, i contrasti maggiori. La ragione di questi contrasti è lampante: ne va della sopravvivenza di molte aziende. Facciamo un esempio: uno dei prodotti svizzeri più conosciuti all’estero e il cosiddetto «Swiss army knife» il coltello dei nostri soldati che viene oggi però offerto in molte versioni diverse. Che cosa succederebbe se a questo prodotto fosse tolta la dichiarazione «made in Switzerland» e quindi la possibilità di riprodurre la croce federale sul manico? Non è una questione oziosa: i dirigenti della Victorinox che produce il coltellino svizzero avevano infatti, a suo tempo,
dichiarato che, con grande probabilità, il loro prodotto non rispettava i criteri della dichiarazione d’origine contenuti nella nuova legge sulla protezione delle marche e che quindi temevano di dover rinunciare a dichiarare il loro prodotto come un prodotto svizzero. Ai lettori questo esempio potrà sembrare estremo. È certo però che, nel corso dei prossimi mesi, con il progresso della procedura di riconoscimento dell’origine dei prodotti e dei servizi alla quale dovranno sottoporsi le aziende, di situazioni di questo tipo, in cui a un prodotto che, fino ad oggi, è sempre stato considerato come svizzero viene tolto il diritto di dichiararsi tale, ne sorgeranno molte. Chi desidera ottenere maggiori informazioni sui criteri di provenienza consulterà con vantaggio l’articolo 48 e gli articoli da 48a a 48d come pure il 49.1 del nuovo testo di legge. Gli stessi differenziano dapprima tra prodotti e servizi. Per
i servizi la dichiarazione d’origine è abbastanza semplice. Per essere svizzero, un servizio qualunque, deve essere offerto da una persona che risiede in Svizzera. L’articolo che state leggendo, per esempio, può essere tranquillamente dichiarato come «made in Switzerland» perché il suo autore risiede in Svizzera. Molto meno semplice è invece giudicare se un prodotto è svizzero o no. La legge distingue in questo caso tra prodotti naturali, alimentari e altri prodotti, in particolare quelli industriali. Dove si trova l’origine dei prodotti naturali? Dipende dal tipo di prodotto. Per i minerali estratti dal suolo, il luogo dove vengono estratti. Per la carne, il luogo dove gli animali hanno passato la maggior parte della loro vita. Per i pesci o gli animali che vengono cacciati, il luogo dove sono passati a miglior vita. Per i prodotti vegetali, il luogo dove è stata effettuato il raccolto (saranno ancora svizzere le mele del
Grigioni raccolte in Valtellina?). E così via dicendo. Per applicare i criteri di questa legge è quindi probabile che in futuro ogni comune si doterà non solo di un controllo abitanti, ma anche di un controllo animali, piante e altri prodotti della natura. Scherzo, naturalmente! Ma andiamo avanti. I criteri per la dichiarazione d’origine aumentano poi per gli alimentari e toccano lo zenit della burocrazia per i prodotti industriali. In questo caso un prodotto viene riconosciuto come svizzero se il 60 per cento almeno dei suoi costi sono stati realizzati in Svizzera. Fortunati saranno quegli industriali per i quali i costi del personale coprono una larga parte dei costi di produzione. Non dovrebbero avere molte difficoltà a localizzare l’origine dei loro costi. Per gli altri, invece, sarà una corsa alla ricerca delle fatture pagate ai fornitori, sperando che, nel frattempo, gli stessi non abbiano traslocato.
o quel poco che gli europei hanno costruito in questi decenni. Il fatto che il primo politico europeo ricevuto da Trump – oltretutto in casa sua, nella casa torre di New York che porta il suo nome – sia stato Nigel Farage, leader dimissionario del partito per l’indipendenza del Regno Unito, è uno schiaffo all’europeismo, alla stessa premier euroscettica May, e in generale al senso comune. Ma il nuovo presidente non si è fermato lì. Nella prima intervista a due giornali europei, la «Bild» tedesca e il «Sunday Times» inglese, ha sparato a zero sull’Ue e sul suo vero leader, Angela Merkel. Ai singoli Paesi Trump offre patti separati, accordi di favore, rapporti bilaterali. Non vuole trattare con euroburocrati o con una cancelliera in declino; vuole suscitare e aiutare i populismi che l’Europa non la vogliono. Un atteggiamento offensivo e irresponsabile. Ma che parados-
salmente molti europei, sempre più insofferenti nei confronti di Bruxelles e di Berlino, accolgono con favore. Resta da capire se la politica estera da apprendista stregone di Trump è destinata a pagare, o se invece non imporrà agli americani un caro prezzo. La guerra commerciale con la Cina potrebbe rivelarsi un problema. È vero, l’America è un Paese importatore. Ma è anche il Paese che fornisce al resto del mondo i supporti indispensabili alla rivoluzione digitale e tecnologica, nata in California e da lì diffusa nel pianeta globale. Non a caso, mentre Wall Street è euforica, la Silicon Valley non è affatto entusiasta di Trump. Che saprà blandire anche i nuovi padroni delle anime, i Bezos e gli Zuckerberg. E saprà agitare anche davanti a loro il nodoso bastone da cui idealmente non si separa mai. Speriamo almeno che faccia loro pagare la tasse.
Ma un simile presidente è in grado di riunire l’America? Obama in questo ha fallito. Sognava di lasciare in eredità una società postrazziale; ma le violenze razziali oggi sono in aumento. Trump sembra intenzionato più a soffiare sul fuoco che a stemperare le tensioni. Oggi l’America ha il record di popolazione carceraria. E ha il Terzo Mondo in casa. È un Paese con un’élite incalcolabilmente ricca, un ceto medio impoverito e decine di milioni di poveri. Vedremo se con il presidente populista il popolo se la passerà meglio. O se invece le disuguaglianze sono destinate a crescere ancora; proprio come il debito pubblico, gonfiato sia dai tagli alle tasse, sia dai grandi progetti di nuove infrastrutture. Così i cinesi, grandi acquirenti dei titoli federali, diventeranno sempre più padroni dell’America. Non proprio quello che Trump promette.
nipolazione della pubblica opinione. Le false notizie sono antiche quante le notizie stesse. I giornali, ad esempio, sono stati associati alla menzogna fin dalla loro comparsa: meglio non leggerli, perché raccontavano solo frottole. «Io sono persuasissimo – osservava il redattore del “Popolo e Libertà” nel 1912 – che i giornali che si occupano di politica internazionale sono fatti apposta per stamparci tutto ciò che di men vero esiste in questo mondo guerrafondaio...». In seguito però il sistema si è perfezionato, secernendo i necessari anticorpi all’interno della dialettica democratica. Si è capito che la pluralità delle testate era un valore da tutelare e da promuovere, fondamentale per il buon funzionamento di una democrazia. La radio prima e la televisione poi non sovvertirono queste regole del gioco, ma le arricchirono con nuove voci e nuovi approcci, in un’ottica di servizio pubblico. Nato come propagandista di parte, e magari fazioso, anche il giornalista «aveva imparato il mestiere», dandosi una
deontologia, un codice di comportamento e anche delle istanze di verifica. Chi violava platealmene le regole veniva espulso dalla corporazione. Vero è che nel nostro cantone il giornalista non è mai stato considerato un vero e proprio mestiere, al pari del docente, del medico, dell’ingegnere. La storia del giornalismo locale – come dimostrano le ricerche di Enrico Morresi – è stata fatta soprattutto da dilettanti appassionati, militanti dell’ideale, volonterosi sottopagati; da penne anche brillanti ma con la tessera di partito in tasca. Si poteva essere cronista e deputato in Gran Consiglio, direttore di testata e presidente di una formazione politica, di un’associazione o di un sindacato. Difficile credere che in situazioni simili il sacro principio dell’«obiettività dell’informazione» fosse in cima alle preoccupazioni degli attori. Specifici corsi professionali e università (scienze della comunicazione) hanno trasformato, elevandolo, il profilo dei giovani candidati: fatto
estremamente positivo, che ha riportato riconoscimento sociale e dignità nelle redazioni. Purtroppo ora tutto questo sta nuovamente svanendo nel cestello della centrifuga mediatica, una gigantesca macchina i cui impulsi giungono da galassie remote. Chi produce e diffonde notizie è sempre più lontano e sempre meno identificabile, non persone in carne ed ossa ma «sistemi» anonimi fluttuanti nell’etere. Finora, nel nostro piccolo mondo, un servizio pubblico articolato per regioni linguistiche ha garantito un’informazione se non obiettiva perlomeno onesta, in grado di auto-correggersi in caso di errori ed omissioni. Chi propone di smantellarlo ha probabilmente in mente un modello diverso, alternativo, che non è necessario sottoporre al controllo dei canali pubblici; un modello che già vediamo all’opera ogni giorno nel regno miasmatico della «post-verità», con il cittadino ridotto a cliente-consumatore. In una parola, a suddito.
In&outlet di Aldo Cazzullo Che presidente sarà Trump? Ovviamente è presto per dirlo. Ma l’antica abitudine di correre in soccorso del vincitore non ci aiuterà a capire che presidente sarà Donald Trump. Non so in Svizzera; posso dire che in Italia sta prendendo vigore una corrente di pensiero convinta che Trump finirà per fare del bene all’Europa, mettendola di fronte alle sue responsabilità, riconciliandola con la Russia di Putin, proteggendola dall’invadenza commerciale cinese, frenando le migrazioni globali. E ponendo fine al ventennio della globalizzazione selvaggia. Non sono d’accordo. E non perché la globalizzazione selvaggia sia destinata a mancarci. Innanzitutto, è una pia illusione pensare che Trump, estremista per modi, natura e linguaggio, alla Casa Bianca diventi un agnellino moderato e dialogante. Trump ha promesso una rottura totale con il
passato; qualcosa dovrà mantenere. Non sarà un moderato, non sarà un uomo della continuità. Certo, è portatore di un grande conflitto di interessi, e incarna un’enorme contraddizione: il candidato antiestablishment ha fatto un governo di miliardari, pescando non tra outsider ma tra personaggi come Tillerson, nuovo segretario di Stato, alla guida di una multinazionale come Exxon che l’ha liquidato con una cifra con cui si potrebbe sfamare l’Africa per un anno. Ma proprio per questo Trump avrà la convenienza, oltre che l’istinto, a «fare il Trump». Che conseguenze avrà questo per l’Europa, lo scopriremo solo vivendo. Fin da ora dobbiamo riconoscere che siamo di fronte a una novità storica. Per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, alla Casa Bianca c’è un uomo che non vuole rafforzare l’Europa, ma distruggere quel tanto
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Nelle braccia della neo-lingua Anno nuovo, parole (semi)nuove. Da tener d’occhio con attenzione. Per capirle, ma anche per smontarle e smascherarle. La principale è «postverità», espressione che già di per sé insospettisce come un pacco inatteso. Già definire il concetto di «verità» – per limitarci al giornalismo – è impresa tutt’altro che facile, figuriamoci se poi ci anteponiamo «post-», prefisso tanto invitante quanto ambiguo. Si ricorderà quante diatribe sollevarono, a suo tempo, vocaboli composti come «post-industriale» o «post-moderno». Ma ora, con post-verità, siamo di fronte ad un ermafrodito lessicale che sfiora l’assurdità. Che non solo non spiega ma complica; che non solo non rasserena, ma turba. Siamo di fronte ad una nuova guerra semantica scatenata dalle forze mefistofeliche della Rete? Gli esperti ci dicono che siamo entrati in una nuova era, l’era delle «fake news», delle false notizie che diventano virali sfruttando lo straordinario potere di Internet, ormai presente
ovunque, in tutti i dispositivi che accompagnano e scandiscono le nostre attività quotidiane. Costruire bufale e metterle in circolazione è diventata la missione primaria per molte aziende che si muovono nell’ombra, mosse da burattinai invisibili, automi che si auto-riproducono al servizio di poteri opachi. Le ultime elezioni americane hanno rappresentato un primo collaudo di queste nuove forme di ma-
Vittima illustre di fake news. (Keystone)
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Cultura e Spettacoli Il caso John Williams Nel 1963 il suo libro Stoner fu un flop: dopo 40 anni è uno dei maggiori successi editoriali
La giornata della memoria Due articoli per ricordare la Shoa: un ritratto di Heidegger della filosofa ebrea Jeanne Hersch e un’intervista al pianista ungherese Andras Schiff pagina 27
Sulle scene ticinesi Al Sociale di Bellinzona Kubi di Stroppini; allo Spazio Officina di Chiasso la performance di Tiziana Arnaboldi
Regista dell’attualità Il commediografo bernese Milo Rau mette in scena come processi avvenimenti reali
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La coscienza di Gotthelf Pubblicazioni Tribolazioni inaudite
e infanzie rubate in due recenti libri editi da Dadò
Luigi Forte Aveva già trentanove anni Jeremias Gotthelf quando pubblicò nel 1836 il suo primo grande romanzo Lo specchio dei contadini che l’editore Dadò propone ora nell’ottima versione di Mattia Mantovani. Era nato a Morat nel Canton Friborgo e in realtà si chiamava Albert Bitzius, figlio di un pastore protestante e lui stesso pastore nel villaggio di Lützelflüh nell’Emmental bernese fino alla morte nel 1854. Ai parrocchiani si rivolgeva in dialetto, lo stesso che usò ampiamente nelle sue opere in 49 volumi redatte in soli diciotto anni. Elias Canetti ricordò nella sua autobiografia che «all’infuori del dialetto Gotthelf era assolutamente impensabile, la sua forza la traeva tutta da lì». Perché quello era il mondo del predicatore cocciuto e impaziente, guardato con diffidenza dalle stesse autorità ecclesiastiche per la sua eccessiva sensibilità verso il dolore e le miserie del mondo. Avrebbe desiderato una parrocchia in città, magari a Berna, si trovò invece a condividere l’amaro destino dei tanti contadini che popolano le sue pagine, deciso a combattere con la parola ogni forma di ingiustizia. Certo lui guardava alla scrittura con intento educativo e vocazione pastorale. Non per nulla assunse come nom de plume quello del profeta Geremia che nelle Lamentazioni stigmatizza il peccato come momento di squilibrio fra Dio e l’uomo. «Mi misi a scrivere per una necessità naturale – confessò – e, d’altra parte, non potevo scrivere che come ho fatto, se volevo conquistare il popolo». Ma per fortuna, fin da questo primo vigoroso «romanzo di formazione» che – come ricorda Peter von Matt nella premessa – inaugura la letteratura moderna in Svizzera, il predicatore scompare dietro lo scrittore e la fabulazione scivola negli angoli più umili e segreti della vita quotidiana per rigenerarli su un orizzonte di universali valori umani. Certo il pastore veglia nel sottofondo, lancia i suoi strali e istruisce con rigore pedagogico, ma lo scrittore, che Thomas Mann definì omerico, muove in superficie i propri personaggi con grande agilità, conferendo loro naturalezza ed epico respiro. Il protagonista di questa lunga e tormentata storia di emancipazione e riscatto, Jeremias Gotthelf (cioè Diotaiuti, in italiano), che poi diventerà lo pseudonimo dello scrittore, è uno dei tantissimi Verdingskinder, cioè dei
bambini dati in affidamento coatto perché provenienti da famiglie difficili o estremamente povere. Un fenomeno molto diffuso ancora nel secolo scorso in un paese come la Svizzera «esteticamente pacificata ed edificante, evocatrice di paesaggi bucolici», come ha ricordato Simona Sala nella sua introduzione all’interessante volume Anime rubate. Bambini svizzeri all’asta curato sempre per l’editore Dadò da Lotty Wohlwend e Arthur Honegger, ex bambino in appalto, che documenta il drammatico destino di molti fanciulli emarginati dalla famiglia e dalla società, vittime di destini impietosi. Così succede al piccolo Jeremias alla morte del padre. Anche lui, come molti altri, è solo una cosa, ein Ding, messa pubblicamente all’asta e affidata a contadini come forza lavoro a basso prezzo. Inizia così la sua via crucis, da una famiglia all’altra, dove svolge i lavori più umili e non viene chiamato neppure per nome. È semplicemente il «ragazzo», sfruttato e denigrato, che non gode di alcun diritto. Ad altre latitudini Charles Dickens, ribaltando il romanzo di formazione con il suo dissacrante umorismo nero, rappresentò una gioventù altrettanto malconcia nel romanzo Oliver Twist pubblicato a puntate fra il 1837 e il 1839 sulla rivista «Bentley’s Miscellany». Gotthelf segue invece il suo sventurato protagonista con affetto e pietas, attraverso infinite disavventure, ma con l’occhio ben rivolto ai mali del mondo. Servi e padroni, contadini e funzionari, stolti e scaltri, buoni e malvagi si alternano non senza sprazzi ironici nelle sue pagine: tipologie che non tramontano mai ma cambiano solo d’abito nel corso del tempo. È un intero sistema sociale che viene messo in discussione, il mondo ipocrita e corrotto di chi decide e amministra nel proprio interesse alienando braccia e menti dei più deboli e disperati. Non è forse un caso che fra mille esperienze presso diverse famiglie contadine il piccolo Jeremias trascorra il periodo più felice insieme ad un’anziana coppia di «zingari cristiani» che vivono in una misera capanna, fanno i venditori ambulanti e svolgono attività al di fuori della legge. A contatto con questi piccoli malviventi il ragazzino prova una gioia e una libertà che non conoscerà mai più in seguito. Ai margini della società sembra paradossalmente di poter ritrovare un guizzo di vera vita. Ma la speranza rinasce per un attimo con la figura della serva Anneli, che aspetta un figlio dal
Un Verdingbub svizzero tedesco fotografato nel 1954 da Walter Studer per la «Schweizer Illustrierte». (Keystone)
giovane e morirà di parto. Anche lei è una delle tante splendide figure femminili di Gotthelf come la coraggiosa Elsi e poi Vreneli, Meyeli, Bäbeli dai nomi dolci e un po’ mielosi. Anneli è una luce destinata a spegnersi nella vita ma a brillare per sempre nel cuore di Jeremias. Il quale, privo di prospettive, si arruola al servizio della monarchia francese, rischiando di soccombere, ma trova infine un vero maestro di vita in Bonjour, un ex coscritto napoleonico, che gli insegna a trasformare rabbia e tracotanza in ragionevolezza e fiducia verso se stesso. Grazie a Bonjour il ragazzo Jeremias diventa un uomo capace di comprendere le debolezze del prossimo e orientarsi nella follia del mondo. Come Kurt di Koppigen nell’omonimo splendido racconto, anch’egli, ai margini di una vita sciagurata, è un individuo alla ricerca della propria verità. Prospettiva che rientra in uno schema narrativo caro allo scrittore svizzero che nelle sue storie enfatizza
l’aspetto morale e la ricerca di se stessi, consapevole che per trovare la propria strada c’è bisogno di qualcuno disposto all’amore. Come Jeremias inselvatichisce e si dà al vagabondaggio per poi trovare in Bonjour e più tardi nel verificatore dei pesi e delle misure del villaggio i consiglieri ideali, così il protagonista del grande romanzo Uli il servo, uno scapestrato ubriacone, troverà la sua guida nel padrone Johannes che sa come riportarlo sulla retta via. Insomma, nelle pagine del pastore Gotthelf, l’ottimismo alla fine è di prammatica: le sue anime dolenti vengono traghettate verso sponde sicure, giacché lo scopo finale è insegnare al popolo la moralità del bel tempo andato, magari utilizzando anche la dottrina del suo grande compatriota Pestalozzi, fondatore della moderna pedagogia, come ricorda Goffredo Fofi in un breve scritto premesso al volume. Jeremias seguirà il consiglio dell’amico: diventare un educatore
del popolo, mettendo ovunque a disposizione la propria dura esperienza, persino fra i tavoli di una locanda, dove alla fine trova ristoro e quiete. Il pastore Bitzius di inferno se ne intendeva, come dimostra l’ambiente in cui proietta il suo protagonista e la disamina incalzante di una società ingiusta. Ma la sua parola si nutre di speranza e cerca la luce mentre evoca con mirabile tensione le pulsioni della vita e il ritmo segreto del mondo. Bibliografia
Jeremias Gotthelf, Lo specchio dei contadini, a cura di Mattia Mantovani. Con scritti di Peter von Matt e Goffredo Fofi, Armando Dadò editore, p. 527. Lotty Wohlwend-Arthur Honegger, Anime rubate. Bambini svizzeri all’asta, traduzione di Gabriella de’ Grandi, introduzione di Simona Sala, p. 193.
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Cultura e Spettacoli Gli inizi della sua carriera di scrittore non erano stati brillanti; fu utile iscriversi a un corso di scrittura. (fazieditore.it )
Tre vocabolari a Torino Linguistica Un’importante strenna
della casa editrice Utet dedica i suoi contenuti alla storia della lessicografia italiana La copertina della pubblicazione.
La scuola serve
Editoria Il caso di John Williams, il cui romanzo Stoner è diventato
un libro successo, ma solo dopo 30 anni dalla sua pubblicazione Mariarosa Mancuso «I don’t see a lot of money here», dice il produttore al cantante folk Llewyn Davis, che si è esibito in cerca di scrittura: «Non mi pare possa fare soldi». Succede nel film dei fratelli Ethan e Joel Coen A proposito di Davis, geniale meditazione sul talento e il successo, nel peggior intreccio immaginabile. Dio ti concede il talento, ma non il successo, e come se non bastasse mette sulla tua strada un giovanotto appena arrivato al Greenwich Village da Duluth, Minnesota. Uno che ha deciso di farsi chiamare Bob Dylan (quando il film uscì ancora non aveva vinto il Nobel e non aveva mandato a ritirarlo Patti Smith – cosa può avere uno di tanto importante da fare, per non riuscire a fare un salto a Stoccolma con mesi di preavviso? Questa sarebbe la vera domanda). «Non lo vedo come un romanzo dalle grandi potenzialità» disse nel 1963 un editor a John Williams, a proposito di un manoscritto intitolato Stoner. Pubblicato con fatica un paio d’anni dopo, andò infatti malissimo: duemila copie in tutto. Sarà riscoperto all’inizio degli anni Zero, e diventerà un grande successo internazionale, ritrovando il posto che gli spetta nella letteratura americana. In Italia uscì da Fazi nel 2012, tradotto benissimo da Stefano Tummolini (che è anche traduttore di Guillermo Arriaga, ha diretto il film Un’altro pianeta che costò mille euro soltanto e andò al Sundance Film Festival, scrive romanzi). Sempre Fazi pubblica ora la biografia di John
Williams, con il titolo L’uomo che scrisse il romanzo perfetto. La firma Charles Shields, che in precedenza si era dedicato a Harper Lee (la scrittrice di Il buio oltre la siepe, amica d’infanzia di Truman Capote laggiù nell’Alabama) e a Kurt Vonnegut di Mattatoio 5. Celebrato – tra gli altri da Ian McEwan e Bret Easton Ellis – e amatissimo dai lettori, Stoner ha un titolo che facilmente si dimentica. Più faticoso ancora tenere a mente il nome dello scrittore: John Williams è il più banale che si possa immaginare. Quanto alla trama, anche i fan più sfegatati hanno difficoltà a ripeterla: un giovanotto del Missouri studia agraria all’università (la letteratura nemmeno sa cosa sia); a una lezione di inglese scopre il Sonetto numero 73 di Shakespeare e se ne innamora. Diventa professore universitario. Si sposa (infelicemente) e tradisce (con una studentessa, dimostrando scarsa fantasia). Invecchia e muore. Niente di eccezionale. Conta la scrittura, semplice e piana, ma infallibile nel rivelare la noia, la tristezza, le delusioni di una vita come tante. John Williams non c’era arrivato subito, a capire che poche parole bastano (le altre fanno solo numero e rumore). Il biografo racconta il primo lavoro, speaker per una radio ascoltata da agricoltori e allevatori. Lo abbandonò perché non la considerava all’altezza, e con le borse di studio riservate ai reduci – aveva combattuto in India e in Birmania – si iscrisse all’università. Racconta anche i primi tentativi letterari, con un certo sadismo perché erano bruttini
(«Il corpo fremeva incontrollabilmente in balia degli spasmi», ridicolo anche anche al netto della traduzione non scorrevole, i traduttori sono due e non sappiamo a chi va la colpa). E infarciti di psicoanalisi: nella danzatrice che provoca gli spasmi il protagonista Arthur scorge il volto della madre. Servì la scuola di scrittura, con un professore che teneva in gran conto la bugia. «Se avete detto bugie facendo una pessima figura, non siete tagliati per il mestiere». Altra dote richiesta: «amare in modo appassionato i pettegolezzi» (da un pettegolezzo universitario viene appunto la faida tra i due professori in Stoner). Ultima, ma non meno importante, «la scheggia di ghiaccio nel cuore» (copyright Graham Greene): «Un vero artista non esiterà a privare i suoi personaggi di ogni felicità, a fargli del male, a mutilarli, a torturarli, perfino a ucciderli». E soprattutto: «La prosa è architettura, non decorazione d’interni. E il Barocco è finito». Avviso ai naviganti: già nel 1964 il critico Allen Tate lamentava la quantità e l’inutilità dei corsi di scrittura creativa (pensateci prima di ripeterlo, per Stoner è servito). Fa da contraltare alle fatiche di John Williams l’attività da scrittori a cottimo della sorella e del cognato, in Messico: entrambe le macchine da scrivere in azione, una boccia di tequila che si svuota, pseudonimi per i testi ben pagati di cui si vergognavano. Neppure lo scrittore più crudele avrebbe escogitato per John Williams una simile tortura. Per giunta in famiglia.
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Stefano Vassere «Tempo dopo, abbastanza inopinatamente, mi accadde di essere nominato ministro della Pubblica istruzione nel governo Giuliano Amato. Qualcuno eccepì col Presidente osservando che non avevo esperienza parlamentare e politica. E Ciampi avrebbe risposto allegramente ai critici: se ha saputo portare a termine un dizionario come il Gradit, può ben fare anche il ministro della pubblica istruzione».
Alcuni dei maggiori dizionari della nostra lingua sono stati prodotti nella capitale piemontese Il Gradit è il Grande dizionario italiano dell’uso e quell’antico ministro è ovviamente il da poco scomparso Tullio De Mauro, linguista, dei linguisti italiani il più grande. La storia sulla battuta del presidente Ciampi è in un capitolo dedicato al Gradit in un tanto elegante quanto ricco, interessante e colorato libro che si intitola Utet. Il laboratorio della parola, che esce nella collana «Strenne Utet» in queste settimane (a chi venga recapitata e donata una Strenna Utet non si sa bene: alle librerie, ai clienti, alle maestranze o semplicemente a chi la richiede, chi lo sa?). Il volume fa la storia delle imprese della casa editrice torinese nell’ambito della pubblicazione di vocabolari e porta due contributi (di Claudio Marazzini e di Massimo Fanfani), dedicati a come Torino e la Utet in particolare hanno configurato questa attenzione particolare al settore, e una serie di documenti e due testimonianze di curatori (De Mauro sul Gradit appunto e Raffaele Simone sul Grande dizionario analogico). Che Torino possa essere considerata una sorta di capitale dei grandi vocabolari italiani è ipotesi determinata dal fatto che dall’Ottocento ai primi anni Duemila la lessicografia del Paese ha prodotto in successione, in quella città e da quell’editore, tre opere poderose e da tutti rispettate: il grande Dizionario della lingua italiana di Nicolò Tommaseo e Bernardo Bellini, ritenuto la
maggiore opera del genere del periodo risorgimentale e pubblicato in otto volumi tra il 1861 e il 1874; l’enorme Grande dizionario della lingua italiana in ventuno volumi pubblicati tra il 1961 e il 2002 (si usa chiamarlo «il Battaglia», dal nome di Salvatore Battaglia, che lo avviò, ma almeno altrettanto merito va attribuito a Giorgio Bárberi Squarotti, che lo concluse); il Gradit, appunto. La questione di un genius loci della lessicografia è questione discussa e discutibile che interessa molto l’editore e può interessare meno il lettore e fruitore. Che però da par suo si appassionerà alle fabbriche e alle epopee. Per esempio al fatto che il Tommaseo definisce il cane sbrigativamente «quadrupede noto, il più familiare e il più intelligente degli animali domestici. Ce n’è di molte specie», mentre alla voce gatto riporta: «Nome di un genere di mammiferi dell’ordine de’ carnivori, della famiglia dello stesso nome, digitigradi, con unghie ritirabili, lingua ruvida, coda lunga, agile ecc.» e via per righe e righe di ulteriore definizione diffusa. O che lo stesso Tommaseo classifica locomotiva solo come femminile di locomotivo. O che il Battaglia, «formidabile documentazione storica ed estremo e supremo omaggio verso una tradizione straordinariamente ricca di testi d’arte», inventò letteralmente la citazione letteraria all’interno delle voci, una consuetudine che acquisì poi regolarità nella lessicografia non solo italiana. Il Gradit di Tullio De Mauro, infine, ha molte scelte che ne disegnano il primato: è il primo a fare altissimo omaggio a quella che i tedeschi chiamano Umgangssprache e che noi diremmo «lingua corrente», «lingua colloquiale»; è il primo a separare per la prima volta in modo massicciamente sistematico gli ambiti d’uso; è il primo a dichiarare con onestà le fonti usate per il lemmario, per la scelta delle voci; è il primo (giù giù) a non avere paura di registrare attimino, arancio (per arancia), redarre (per redigere). Insomma, in questi giorni nei quali la linguistica italiana perde il suo padre migliore, è il primo. Bibliografia
Utet. Il laboratorio della parola, «Strenna Utet 2017», Torino, Utet, 2016.
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Cultura e Spettacoli
Urge una riflessione
Giorno della Memoria Il controverso filosofo tedesco Martin Heidegger, autore dei Quaderni neri,
compare anche nei ricordi della filosofa svizzera Jeanne Hersch
Daniele Bernardi Tra le pagine di Eclairer l’obscur – Entretiens avec Gabrielle ed Alfred Dufour (L’Age d’Homme, 1986) Jeanne Hersch riporta un ricordo preciso, risalente all’epoca del suo viaggio in Germania nel 1933. La filosofa, allora poco più che ventenne, dopo un soggiorno di alcuni mesi in famiglia, si era voluta recare da Ginevra a Friburgo in Brisgovia per seguire i corsi di Martin Heidegger (Messkirch, 1889 – Friburgo, 1976); era l’anno della nomina di Hitler a Cancelliere e, da poco, l’autore dell’imprescindibile Essere e tempo aveva ottenuto la carica di Rettore a cui, di lì a dieci mesi, avrebbe rinunciato. Ebrea di origini polacche, già allieva di Karl Jasper a Heidelberg, Jeanne Hersch era partita contro il volere dei genitori che, in ogni modo, l’avevano esortata a desistere. Durante il soggiorno, si sarebbe presto resa conto, «in modo viscerale, come si instaura un regime totalitario»: «le ideologie», avrebbe dichiarato, «sono diffuse fisicamente in una specie di atmosfera che si respira da mattino a sera, letteralmente, ti avvelena l’anima a ogni fiato». Un giorno, racconta, i Rettori ricevettero l’ordine di celebrare una cerimonia pubblica in memoria di Albert Leo Schlageter, un «eroe nazista» divenuto martire della causa. Heidegger, come da programma, onorò l’anniversario alle undici del mattino, mentre la Hersch, intrappolata nella folla degli studenti, lo osservava allibita dalla gradinata: «Fu una piccola cerimonia, di circa un quarto d’ora. Il braccio destro alzato per il saluto hitleriano, la folla cantava la prima strofa di Horst WesselLied (col verso “annegare le strade nel sangue giudeo”, etc.); poi Heidegger pronunciò un discorso, dopo che venne cantata l’ultima strofa, e fu tutto».
Fu allora che la giovane, immobile in fondo alla massa, di fronte a quell’uomo che, giustamente, guardava come «un grande filosofo, che sapeva essere profondo e rigoroso», capì cosa comportasse «essere sola contro l’umanità». Alla fine rimase sul posto, gelata, incapace di andarsene – quasi che un esercito in marcia l’avesse calpestata coi suoi passi. Molti anni dopo, nel 1988, affrontando il «caso» attraverso l’articolo Les enjeux du débat autour de Heidegger, avrebbe dato una sua interpretazione delle problematiche scaturite dal rapporto tra la filosofia di Heidegger e il nazionalsocialismo. Nel testo, la Hersch mette in luce ciò che a suo avviso, in tale pensiero, «non cessa di dissimularsi, di tradire la filosofia, di sostituire seduzione e potenza alla verità»: la conclusione non potrebbe essere più lapidaria: «Non è un filosofo vero», scrive. Oggi, come certo molti sapranno, a distanza di un trentennio dall’uscita di Heidegger e il nazismo di Victor Farias (uno studio biografico, sovente attaccato e screditato, che fece riesplodere la polemica), il dibattito attorno alla filosofia di Martin Heidegger è stato investito da una nuova luce, gettata dalla comparsa degli Schwarze Hefte, i Quaderni neri (Bompiani, 2015-2016). Si tratta di una cospicua serie di meditazioni, risalenti al 1930-1970, di cui il filosofo aveva predisposto la pubblicazione al termine delle opere complete; si può quindi dire con certezza che non si è di fronte a una produzione marginale, ma a una parte imprescindibile del suo percorso. In più passi dei Quaderni neri, Heidegger rivela una componente antisemita del proprio pensiero e, addirittura, pare in qualche modo travisare, o non percepire con la necessaria chiarezza, la smisurata tragedia dei campi
Hans-Georg Gadamer e Martin Heidegger intenti a tagliare la legna in un’immagine del 1923. (Keystone)
di sterminio attraverso accostamenti, inversioni e paragoni inadeguati. Un esempio evidente lo si trova in un passo del volume 97 della Gesamtausgabe, dove, replicando ai volantini degli alleati, sui cui figuravano gli scenari spettrali dei lager, Heidegger volge lo sguardo alla mancata realizzazione del destino tedesco: «non sarebbe l’averci repressi nel nostro volere il mondo (...) una “colpa” ancor più essenziale e una “colpa collettiva”, la cui gravità in nessun modo – e nella sua essenza mai – può essere misurata all’orrore delle “camere a gas”, una colpa, più terribile di tutti i “crimini” pubblicamente “stigmatizzabili”, della quale nessuno, certo, potrà mai scusarsi nel futuro?» (come è stato fatto notare, si presti attenzione all’uso delle virgolette). Altra grave questione è il ruolo di cui viene investito l’ebreo, o, meglio,
«l’ebreo figurale», come sottolinea Donatella Di Cesare in Heidegger e gli ebrei (Bollati Boringhieri, 2014), all’interno della Storia dell’Essere. A causa della perenne condizione di «sradicamento», della sua propensione al «calcolo» e alla «macchinazione», l’identità ebraica si sarebbe fatta complice di una «tecnica» che, mentre accelera, «si autodivora» corrompendo lo spirito dell’Occidente. Ciò detto, per Heidegger, continua sempre la Di Cesare, la Shoah risulterebbe essere la diretta conseguenza di questa logica (il filosofo parla proprio di Selbstvernichtung: autoannientamento): «Agenti della modernità, complici della metafisica, gli ebrei seguono il destino della tecnica (...): gli usurai si usurano, i consumatori si consumano, i distruttori finiscono per distruggere se stessi. Se gli ebrei sono stati annientati nei la-
ger, è per via (...) di quel dispositivo, di quell’ingranaggio che, complottando per il dominio del mondo, hanno ovunque promosso e favorito». Ora, proprio quando, in Germania, dopo lunghe diatribe un’edizione commentata del Mein Kampf torna nelle librerie, è bene forse non prendere parte alle sterili polemiche che vogliono, da una parte, mettere al bando il filosofo e, dall’altra, assolverlo con formulette la cui banalità appare poco degna della complessità che la filosofia esige. La pubblicazione dei Quaderni neri è un evento che primariamente permette di rivedere, in modo drastico, l’idea di un silenzio di Heidegger dopo Auschwitz (con tutto ciò che questo comporta) e che offre, in secondo luogo, una nuova, urgente possibilità di riflessione attorno al peso di un pensiero centrale nella Storia del ’900.
«Sento Beethoven fisicamente»
Incontri A colloquio con il grande maestro magiaro Andras Schiff, i cui genitori
vissero sulla propria pelle la follia nazista Enrico Parola Il 27 gennaio è il compleanno di Mozart: «Come diceva il grande pianista Arthur Schnabel, un autore troppo facile da suonare per i bambini e troppo difficile per i grandi»; Andras Schiff lo ribadisce convinto e soprattutto consapevole: il maestro magiaro, 63 anni compiuti a dicembre, è uno dei massimi pianisti d’oggi e di Amadeus ha eseguito e inciso tutte le Sonate e tutti i Concerti, nella doppia veste di direttore e solista con la Camerata Salzburg. Ma per Schiff quella data non investe solo la sua dimensione di musicista: il 27 è la Giornata della Memoria e la sua storia familiare è legata a doppio
filo con la tragedia dei lager nazisti. «Entrambi i miei genitori erano ebrei di Debrecen e ognuno di loro, prima della seconda guerra mondiale, aveva già una sua famiglia; furono tra i primi ebrei ungheresi ad essere deportati dai nazisti, nel 1944» racconta Schiff «Mio padre era un dottore, quando arrivò nel lager continuò a fare il medico e così si salvò; ma sua moglie e il loro figlio di quattro anni furono spediti ad Auschwitz e lì morirono. Mia madre aveva un marito giovane che venne mandato in un campo di lavoro in Ucraina; lì scoppiò un’epidemia di tifo, lui e gli altri contagiati vennero rinchiusi in alcune baracche cui diedero fuoco, facendoli bruciare vivi».
È nato a Budapest nel 1953. (Keystone)
Una tragedia incancellabile, illuminata da casi fortuiti e fortunati che Schiff non esita a definire miracoli: «La sopravvivenza di mia madre fu un grande miracolo: anche lei, come la moglie di mio padre, era stata destinata ad Auschwitz; era già sul treno, ma gli alleati bombardarono le rotaie interrompendo i collegamenti e il treno venne deviato vicino a Vienna, a Magdalenenhof, un campo di lavoro e non di sterminio: tutti i passeggeri di quel treno sopravvissero». Ricordi, o meglio racconti tragici che mamma e papà gli confidarono negli anni; «poco alla volta, fecero lo stesso con la fede. Entrambi erano ebrei osservanti, ma all’inizio non mi trasmisero nessun insegnamento religioso»; dopo il nazismo arrivò il comunismo «e in Ungheria sotto il comunismo tutte le religioni erano soppresse, così i miei genitori non vollero consegnarmi una fede che li aveva fatto tanto soffrire e che avrebbe potuto causare parecchi problemi anche a me. La mia coscienza della mia identità ebraica è cresciuta col passare degli anni». E con gli episodi. Il termine «ebreo» gli venne insegnato da un bambino di tre anni: «A Budapest erano rimasti centomila ebrei, io ero l’unico bambino del quartiere, tutti gli altri erano cristiani e protestanti; i rapporti erano buoni perché papà era un medico stimato, ma una volta, mentre giocavo a pallone con i soliti amici, un bambino mi disse che non potevo più giocare con loro
perché ero ebreo. Io non sapevo neppure che cosa significasse, lui mi disse che gli ebrei avevano ucciso il loro Gesù. Tante volte mi sono chiesto da chi quel bambino così piccolo avesse ascoltato parole simili». Strascichi di nazismo e comunismo, ma Schiff ritiene una fortuna essere nato a Budapest «proprio nel 1953, l’anno in cui morì Stalin; gli anni peggiori erano passati, l’Accademia della città era un’oasi: non c’era ancora libertà di movimento o di parola, ma la musica, essendo più astratta di qualunque altra arte, non poteva essere controllata in modo totale. Arrivò addirittura un mito del pianoforte come Sviatoslav Richter, in migliaia si misero in coda per comprare i biglietti, dovette intervenire anche la polizia». Come insegnante ebbe György Kurtág, uno dei massimi compositori dell’epoca: «Alla prima lezione mi tenne per due ore e mezza su un’Invenzione a tre voci di Bach, un brano che dura due, tre minuti; non riuscivo a suonare tre battute che mi interrompeva: con lui capii che la musica non è una questione di vita o di morte, è qualcosa di più». Nonostante cotanto maestro, Schiff non ha mai pensato di diventare compositore: «Non avevo talento e pensavo che ci fosse già abbastanza brutta musica al mondo…». Pacata ironia, intelligenza tagliente: Schiff guarda con lucidità lo stato dell’arte della musica classica: «Alcuni colleghi non accettano il fatto che la clas-
sica sarà sempre per una minoranza; lo sarà, ma non è così piccola ed è comunque centinaia di volte maggiore rispetto a quella che applaudiva i Mozart, i Bach e i Beethoven». I numeri non contano, neanche quelli che vorrebbero descrivere la crisi della classica: «In crisi non è la classica ma le compagnie discografiche, che hanno esagerato con le incisioni: perché permettere a un direttore di registrare tre, quattro volte le sinfonie di Beethoven, tra l’altro in modo quasi uguale? Non so se le major sopravviveranno, ma non penso sarà necessariamente una cosa negativa». Ciò che rimarrà sempre saranno i giganti, a cominciare da Bach: «È il centro e tutta la musica che amo è legata a lui. Bach ha creato un sistema in cui ogni cosa, spirituale, emotiva e fisica, è connessa alle altre simultaneamente; c’è una grande economia di mezzi, ogni nota è importante e basta togliere un elemento che tutto collassa. Non è così in Liszt: è ungherese come me ma non riesco a identificarmi nella sua musica, la suono male perché non la amo». Si identifica invece in Beethoven, di cui ha inciso e suonato più volte tutte le 32 Sonate, come fatto anche con quelle di Schubert e Schumann: «Mi sento totalmente assorbito, mi sembra di sentire come lui, fisicamente e mentalmente. Chopin è un grande, ma non lo sento amico; Beethoven sì, è un amico generoso che mi arricchisce ogni volta che lo suono».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Cultura e Spettacoli
Martin Scorsese e il silenzio di Dio
Un aiuto a Lillian
Fabio Fumagalli
Le avvisaglie della situazione erano già evidenti la scorsa estate, durante i concerti tenuti a JazzAscona. Pur mostrando la verve e l’esuberanza che la caratterizzano da sempre, Lillian Boutté, doveva ricorrere molto spesso agli spartiti per seguire i testi delle canzoni. Persino per una filastrocca conosciuta come A Tisket, A Tasket (e lì per lì ci era sembrato uno scherzo divertente, una gag, ma non era così, purtroppo). A distanza di pochi mesi, ormai, la malattia mostra di aver compiuto il suo impietoso decorso e per la cantante di New Orleans non c’è più modo di sperare in un miglioramento. L’Alzheimer si è preso una delle più belle voci del jazz e per i numerosissimi appassionati che conoscono la grinta, la capacità e l’energia morale di Lillian Boutté, lo scherzo del destino sembra ancora più beffardo. Minuta di corporatura ma gigantesca nella sua personalità artistica, la Boutté è stata in fondo la madrina del jazz di New Orleans nel nostro cantone. Fin dalle primissime edizioni luganesi del festival che oggi è stabilmente ospitato da Ascona, Lillian Boutté aveva saputo attirare su di sé l’attenzione ma anche, e soprattutto, l’affetto del pubblico. Come ambasciatrice della musica della sua terra d’origine era stata anche una delle più attive nell’intervenire a favore della sua città dopo il disastro di Kathrina, nel 2005. Ma oggi è
Jazz La cantante di
Filmselezione Ambizione sconfinata nel film che il grande regista tentava di girare da anni
**(*) Silence, di Martin Scorsese, con Andrew Garfield, Adam Driver, Liam Neeson, Issei Ogata, Shinya Tsukamoto (Stati Uniti 2016) La vicenda di Silence si svolge nel Giappone del diciassettesimo secolo. In verità, essa ha origine cinquant’anni fa, nei pressi della Bowery, il quartiere più disastrato di Manhattan. Vi abitava la famiglia, nata da immigrati italiani, di Martin Scorsese: allora adolescente, cresciuto nella religione cattolica, destinato a diventare una figura emblematica del cinema moderno. Non solo per il linguaggio, un manierismo magistrale che influenzerà lo stile di tanti cineasti; ma per una sua inquieta introspezione morale, che mai lo abbandonerà. «Un ragazzino italiano per quelle strade: come diventare un individuo decente? Non avevo che due scelte, diventare un delinquente o farmi prete. A 14 anni, entrai in seminario». Tutto il cinema dell’autore di Quei bravi ragazzi è racchiuso in quella sua considerazione. Nato nella seduzione degli irripetibili fermenti creativi degli anni Settanta e Ottanta, il suo non sarà mai solo un viaggio nella creatività artistica: ma un itinerario, spesso sofferto, soprattutto interiore. Scandito dagli stessi interrogativi che animano Harvey Keitel e Robert De Niro nel 1973 del suo primo film di successo, Mean Streets. Nei tassisti che seguiranno (Taxi Driver), i pugili (Toro scatenato), musicisti (New York, New York), nottambuli (After Hours) e, inevitabilmente, goodfellas assuefatti alla violenza (Quei bravi ragazzi). Poveri, piccoli Cristi: che si guadagnano la loro fetta di paradiso, magari solo di purgatorio, attraverso un loro calvario privato. Un martirio fra le luci al neon, che poteva condurli alla redenzione. L’ultima tentazione di Cristo (1988) rappresenterà la conclusione ineluttabile di quell’itinerario, il passaggio dalla piccola alla grande martirologia. Il Cal-
Liam Neeson in una scena del film.
vario più celebre della nostra storia non poteva che essere filmato dall’autore di tutta quella serie di coscienti assunzioni, di autopunizioni redentrici. E Gesù non sarà un superman al quale tutto riesce facile, dal predicare al morire. Ma un essere che apprende con fatica e sofferenza la parola di Dio e la strada verso la perfezione. Nel film, la trasmetterà alla logica, così imperfetta in quanto umana, di Giuda. Lo spirito e la carne, scriveva Kazantzakis nel romanzo originale, sono due poli opposti, fra i quali la vita di un uomo può lacerarsi. Silence, il film che Scorsese voleva girare da anni senza trovare un produttore (forse comprensibilmente) che glielo permettesse, nasce dal desiderio di affinare quei sentimenti (e dell’altro suo film esplicitamente «religioso», Kundun). Un’esigenza che merita tutto il rispetto: affrontata però a trent’anni di distanza, da un artista settantacinquenne che nel frattempo ha girato tanto cinema, anche di grande qualità, ma dai contenuti meno sofferti. Non deve allora sorprendere il fascino così duraturo esercitato su Scorsese dal romanzo di Shusaku Endo: «La
verità storica è rappresentata da quei due missionari portoghesi che si recano nel Giappone del XVII secolo per evangelizzare, malgrado gli immensi pericoli. Ma ad affascinarmi è sempre stata la loro progressione spirituale: i dubbi, la possibilità di una rinuncia, gli interrogativi sul silenzio di Dio. Il dilemma di Padre Rodriguez è irrisolvibile. Essere un buon cristiano, ma sacrificando delle vite umane; oppure abiurare, rinunciare alla propria fede, salvando gli innocenti? È proprio in questa rinuncia che il protagonista ritrova la verità: la salvezza va ricercata in ogni minuto del presente, la redenzione non è mai compiuta. Io stesso, ho dubitato dell’esistenza di Dio; ed è una delle ragioni per le quali ho cercato così a lungo di fare questo film». I 160 minuti di Silence affrontano così i grandi temi cari a maestri come Dreyer o Ingmar Bergman, il silenzio di Dio nei confronti della sofferenza, la presunzione di chi ha la pretesa di detenere la verità. Altri, come la vanità nel martirio, l’inganno della fede nei confronti dei fedeli, sembrano invece affiorare con forza dall’odissea partico-
lare dei due gesuiti, confrontati con la persecuzione degli umili cristiani costretti a rinnegare la fede o affrontare il martirio. Nel privilegio della nobile, ma forse smisurata ambizione spirituale di questa prova qualcosa sembra però averne anche intaccato l’indispensabile sublimazione creativa. Forse nella preoccupazione di sfumare in tutto quel privato la celebre euforia espressiva scorsesiana, e malgrado la fedeltà dei vari collaboratori storici (primo fra tutti Dante Ferretti, autore della sapiente ambientazione giapponese ricreata a Taiwan) l’impegnativa durata del film fatica a concretizzarsi nella sua più significativa seconda parte. Non mancano ovviamente splendidi squarci, ma egualmente le situazioni ripetute e stagnanti; non tutto scorre facilmente nei dialoghi fra la divulgazione e l’approfondimento. E, quasi paradossalmente, è il cast nipponico (l’inquisitore di Issei Ogata, che permette di introdurre utilmente il tema dello scontro di civiltà; o l’umanissima presenza di Kichijiro, il Giuda giapponese) a risultare il più coinvolgente.
La rivincita di un eroe dei nostri tempi campione della porta accanto Teatro A l Sociale Kubi di Flavio Stroppini; a Chiasso i Dialoghi di Tiziana Arnaboldi Giorgio Thoeni Kubilai Türkilmaz ha segnato un altro goal richiamando numeroso pubblico per Kubi, lo spettacolo firmato da Flavio Stroppini con Monica De Benedictis, in scena con successo per sei serate al Teatro Sociale che lo ha prodotto in collaborazione con LuganoInScena e Nucleo Meccanico. C’era la platea che rimpiangeva la squadra del Bellinzona dei bei tempi, ma anche quella di una città che l’ha accolto con diffidenza. Lui, «l’emigrante», «il turco», insomma un «diverso» che il calcio trasformerà in un eroe. Se il libro di Flavio Stroppini, Kubi goal! (edizioni Casagrande), insegue una traiettoria narrativa semplice, discorsiva, la versione teatrale si muove su un piano diverso, ricordandoci una società che ancora oggi si confronta con il tema dell’integrazione. Sulla scena la silhouette di un bambino con la palla al piede attraversa l’immagine di lenzuola stese proiettate sul fondo: evocazione cinematografica di «una giornata particolare», speciale per Necla, la mamma di Kubi: simbolo di coraggio, dignità, di rivincita culturale e civile, per Kubi forza interiore per
il riscatto sociale. Lo spettacolo percorre questa dimensione dall’8 giugno 1996, giorno della partita inaugurale degli Europei di calcio a Wembley. La Svizzera gioca contro l’Inghilterra e pareggia grazie alla rete realizzata da Kubi su rigore. Quattro donne sono davanti al televisore in un appartamento delle Semine, il Bronx della Bellinzona di quegli anni: mamma Necla, Maddalena con la figlia Camilla e Luisa. Con
dialoghi serrati, Kubi è uno spettacolo ben scritto e interpretato. A cominciare dall’efficace pacatezza di Amanda Sandrelli (Necla) con la simpatica e irruente ironia di Tatiana Winteler (Maddalena), i misurati giovanilismi di Silvia Pietta (Luisa) e Jasmin Mattei (Camilla) e la voce off di Daniele Ornatelli. Suggestive le musiche di Andrea Manzoni. Un plauso alla regia nell’affrontare senza compiacimenti una sorta di denuncia che accompagna la consacrazione del campione nella conquista di un sogno identitario all’ombra della domanda: «Sono stato accettato per quello che ho fatto o per quello che sono?»: replica al LAC il 1. febbraio. Lungo il fiume della poesia
Amanda Sandrelli. (Nicola Demaldi)
Certe sensazioni hanno il sapore di un buon vino, sorseggiato senza fretta. Una metafora bacchica per accostarci alle impressioni raccolte dopo i Dialoghi sulla creatività delle arti allo Spazio Officina di Chiasso, luogo ideale per eventi alternativi alla liturgia tradizionale. L’operazione artistica si colloca nella visione di Tiziana Arnaboldi, con la sua linea di programmazione al San Materno che mette in relazione le arti
e la danza contemporanea. I Dialoghi sono un frutto dell’incontro fra due creazioni apparse separatamente e riunite in un unico evento: Il suono delle pietre e Motivo di una danza, diventate una sola performance coreografica e il segno della maturità artistica di Tiziana che per l’occasione raggiunge vette di grande intensità, un flusso di empatia che irrora i due emisferi cerebrali con un dialogo armonioso tra sensualità e concretezza. Dai versi di Fabio Pusterla letti con voce suadente, alla danza eterea di Pierre-Yves Diacon e Valentina Moar lungo l’argine di un fiume che ricerca il mare, alle fluide movenze di Claudia Rossi Valli. Il tutto avvolto da atmosfere sonore: le pietre di Beat Weyeneth dei suoi «litafoni» (lastre di granito disposte a tastiera e sfiorate dalle mani inumidite nell’acqua) e le suggestive soluzioni musicali elaborate da Mauro Casappa. L’immagine che accoglie lo spettatore è quella di una riva sinuosa di sassi: potrebbero appartenere al letto di un fiume, Breggia o Maggia poco importa. Sono il segno di un rito esoterico in una dimensione spazio-temporale che diventa teatro di poesia, di danza, di suoni.
New Orleans colpita da una grave malattia
Lillian Boutté ad Ascona con la nipote Tanya . (JazzAscona-Alessio Pizzicanella)
lei ad avere bisogno d’aiuto e la comunità musicale si sta muovendo. L’amico e ormai membro onorario della famiglia Boutté, Nicolas Gilliet, sta preparando un CD che contiene la registrazione di uno splendido concerto tenuto dalla cantante nel 2002 in Inghilterra. Il disco sarà messo in vendita durante una serata speciale prevista al Teatro del Gatto di Ascona il 6 aprile prossimo. All’evento parteciperanno musicisti provenienti da tutta Europa. Il ricavato della vendita dei CD andrà interamente alla famiglia della musicista. Nell’album inoltre saranno fornite indicazioni per eventuali ulteriori contributi volontari. Un altro canale per le donazioni alla famiglia Boutté, che sta con grandi difficoltà gestendo la situazione, è un’iniziativa di crowdfunding: sul sito https://www.gofundme.com/lillianboutte-music-friends si stanno raccogliendo le offerte di privati. Nicolas Gilliet tiene a precisare che tutte le donazioni raccolte andranno direttamente alla cantante, tramite la sua famiglia. Il direttore artistico di JazzAscona si offre comunque per fornire informazioni e si presta come tramite per mantenere i contatti tra Svizzera e Louisiana. / AZ
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Cultura e Spettacoli
Un miracolo musicale chiamato Islanda
Azione
Dibattito La politica culturale ticinese
e quella dell’isola nordica messe a confronto Zeno Gabaglio
Concorso
«Cos’hanno di più gli Islandesi rispetto a noi?» è stata la provocatoria, ma neanche troppo, domanda che il musicologo Carlo Piccardi si è posto in un recente articolo intitolato Il Ticino si merita un’orchestra? apparso su «La Regione». La riflessione ad ampio raggio prendeva spunto dai noti problemi finanziari dell’Orchestra della Svizzera italiana, messi in relazione con quanto accade in Islanda: un territorio che per numero di abitanti può essere comparato a quello del canton Ticino, ma che dal punto di vista della cultura musicale sembra essere meglio organizzato, più consapevole dei propri valori e più generoso nel creare e sostenere le proprie istituzioni. E il riferimento diretto è al nuovo centro per le arti performative di Reykjavik (l’Harpa, che può ospitare circa il doppio degli spettatori del LAC) e all’attività dell’Orchestra sinfonica islandese, che malgrado un organico stabile ben più ampio della nostra OSI non sembra condividerne la perigliosa sorte finanziaria. La domanda di Piccardi si rivolge quindi ai motivi profondi per cui simili condizioni di partenza abbiano portato a conclusioni diametralmente opposte. Forse che gli Islandesi sono più musicali? Che la loro tempra di isolani subpolari li abbia resi più forti e determinati di noi? Spunti di riflessione senz’altro fertili, ma che comprendono solo metà del problema. L’accento posto da Piccardi è infatti sulle virtù degli Islandesi – descritti nella loro situazione ideale – mentre poco o nulla (strano, per chi è stato capo di Rete Due e presidente della Commissione culturale cantonale) viene argomentato sul perché delle differenze ticinesi. E il nodo della questione è elementare: con una popolazione e un PIL paragonabili, che tipo di risorse dedichiamo noi alla nostra cultura musicale?
Se si analizza il flusso degli investimenti – un dato essenziale tanto quanto quello dell’indole culturale – ci si rende subito conto di come l’Islanda spenda tutto su quell’unico centro culturale nella capitale – l’Harpa appunto – e non su quattro teatri pubblici e cittadini come facciamo noi. Quattro teatri che, mutatis mutandis, conducono parallelamente una programmazione stagionale e che così facendo vedono quadruplicati i costi di amministrazione e di logistica. Nell’articolo, inoltre, non si ricorda come in Ticino la tanto criticata SSR/RSI finanzi anche un ensemble professionale di musica antica e barocca e un coro di alta levatura internazionale – assenti in Islanda – che inevitabilmente pure assorbono risorse sia nel personale musicale, sia in quello organizzativo, sia nella logistica. A guardare la programmazione dell’Harpa ci si accorgerebbe inoltre di come siano praticamente assenti le grandi orchestre internazionali ospiti, che invece in Ticino sono spesso accolte in almeno due delle principali rassegne musicali classiche. E non è un dato da poco, conoscendo gli ingaggi di tali orchestre. La coperta dei fondi destinati alla cultura musicale può quindi apparire di una grandezza simile, tra Islanda e Ticino; solo che noi abbiamo deciso di tirarla da una parte diversa rispetto a quanto stiano facendo a Reykjavik, e le gambe che rimangono fuori a prender freddo sono da noi quelle dell’OSI. Ma c’è un ulteriore dato che dovrebbe preoccupare: il fatto di misurare l’attività cultural-musicale di una regione solo nei suoi contenuti classicosinfonici del repertorio passato. Così facendo si rischia di non accorgersi che il vero miracolo della musica islandese è quello di aver portato alla ribalta e all’affermazione internazionali (in meno di un ventennio, l’ultimo) artisti fondamentali per tutto il mondo come Björk, Sigur Rós e Ólafur Arnalds. Possiamo dire di aver fatto altrettanto?
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Chi è di scena Rassegna teatrale Bellinzona, Teatro Sociale Giovedì 2 febbraio, ore 20.45 L’avaro di Molière Con: Alessandro Benvenuti, Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Dimitri Frosali, Massimo Salvianti, Lucia Socci, Paolo Ciotti, Gabriele Giaffreda e Desirée Noferini Adattamento e regia: Ugo Chiti Costumi: Giuliana Colzi Luci: Marco Messeri Musiche: Vanni Cassori Produzione: Arca Azzurra Teatro, 2016
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Cultura e Spettacoli
Milo Rau, di sinistra ma «old style»
Personaggi Per le sue controverse pièces il regista, saggista e giornalista bernese (classe 1977) si ispira a una realtà
sempre ricca di spunti violenti e scioccanti Giorgia Del Don Svezzato da un patrigno musicista jazz e militante trotzkista, protetto da un nonno materno ben conosciuto nel milieu culturale della Svizzera del Dopoguerra, di cui ha raccontato il quotidiano e le leggende, ispirato da padri putativi quali il sociologo Pierre Bourdieu o l’emblematico Jean Ziegler, in fuga da un padre biologico lontano anni luce dalla sua sensibilità ostinatamente rivolta verso un «umanismo di sinistra old style» (come lui stesso lo definisce), Milo Rau va per la sua strada trascinandosi dietro un bagaglio pesante. Figlio di una generazione idealista bagnata dalla speranza di un domani più umano, pronta a tutto per concretizzare i propri sogni, e allo stesso tempo ancorato a un presente disilluso e artificiale, Rau si nutre di contraddizioni, giocando con le illusioni che alimentano il nostro quotidiano. Se da un lato questo straordinario drammaturgo, regista, giornalista e molto altro ancora, si aggrappa in modo viscerale al presente di cui vorrebbe ritrascrivere l’essenza, la verità spogliata dall’egemonia mediatica, trasformandosi in una sorta di «cronista del suo tempo», dall’altro è attraverso lo spazio simbolico della scena che ha deciso di intervenire. Il teatro insomma come atto simbolico capace di aprirci gli occhi su una realtà diversa rispetto a quella che ogni giorno la nostra società ben organizzata mastica per noi. Spinto da quello spirito rivoluzionario che ha marcato la sua infanzia, Milo Rau usa la scena come fosse un ring sul quale si affrontano realtà possibili e si rivisitano momenti storici tanto emblematici quanto dimenticati (per comodo, per codardia). Milo Rau chiama in causa le nostre risorse nascoste, quel coraggio che potrebbe ribaltare il corso della storia. Emblematica in questo senso The Moscow Trials (2013), in cui mette in scena il contestato processo alle russe
Anne Rueffer, Milo Rau (al centro) e Giusep Nay nella seduta di apertura degli Zürcher Prozesse, andati in scena al Theater Neumarkt nel 2013. (Keystone)
Pussy Riots, utilizzando i veri «attori» del processo (giudici, testimoni,…), per trasformarne la sentenza iniettandogli una massiccia dose di giustizia sociale. In The Moscow Trials Milo Rau fa pronunciare a una giuria popolare la liberazione delle Pussy Riots un anno prima che ciò accadesse, interviene sulla realtà mostrandone una variante possibile, crea uno spazio utopico e catartico dove la giustizia può trionfare. Al di là della forma (che si adatta ad ogni fatto storico proposto e che differisce anche in modo significativo da un’opera all’altra), la parola d’ordine che marca tutte le sue creazioni, da The Last Days of the Ceausescus del 2009 (ricostruzione meticolosa e fedele del processo del temibile dittatore e di sua moglie, messa in scena con attori rigorosamente rumeni) al recente ed inquietante Five Easy Pieces del 2016 (che cerca di sondare il mistero del crudele pedofilo Marc Dutroux attraverso
la sensibilità di sette bambini belgi) è l’azione. Agire attraverso l’arte, che è la sua arma, sul presente, che è il suo terreno di sperimentazione. Grazie alla sua casa di produzione (teatrale e cinematografica) International Institute of Political Murders che dirige dal 2007, Milo Rau crea le sue ricostruzioni storiche tendendo l’orecchio per percepire suoni e voci che sembrano provenire dall’aldilà, da una realtà parallela soffocata, assetata non tanto di vendetta quanto piuttosto di giustizia. «La miglior arte è la realtà stessa, copiata, smontata e ricomposta, rispecchiata in se stessa, sottoposta allo spettatore affinché la riesamini» dice lo stesso Rau prestando all’arte, e al teatro più in particolare, un potere estremamente forte, quello di risvegliare (o per lo meno stuzzicare) le coscienze e contribuire così (forse) alla trasformazione sociale. In modo semplice e allo stesso tempo magnifico gli spettacoli di
Milo Rau creano delle utopie effimere ma vissute, portatrici di nuovi schemi sociali, di nuove interazioni, di nuovi automatismi, che dalla scena, si spera, si ripercuotano sul nostro quotidiano: formattato, disfattista, timoroso. A proposito di Five Easy Pieces Milo Rau parla chiaramente di catarsi (intesa come vera e propria cerimonia di purificazione): «Il nostro approccio è poetico e metafisico. Le persone escono dallo spettacolo colme di speranza. Si sono confrontate all’abietto, possono passare oltre. È ciò che chiamiamo catarsi. C’è una forza vitale nella presenza di questi bambini capaci di giocare con i tabù degli adulti». Gli attori che abitano letteralmente il presente storico di cui sono protagonisti, incarnano un’illusione tanto effimera quanto potente e liberatrice, si trasformano in paladini di un nuovo (e a tratti glaciale) realismo che ci fa pensare alla potenza di un Michael Haneke. Gli attori diven-
tano figure mitiche che evolvono sotto la lente di un microscopio, tanti piccoli microcosmi che acquistano grazie alla messa in scena di Milo Rau uno straordinario valore allegorico. Emblematica in questo senso The Civil Wars (2014) che, prendendo spunto dall’intimità di quattro ragazzi (le cui testimonianze sono state raccolte minuziosamente dal regista) partiti per la Jihad, si trasforma in racconto universale sullo stato attuale della nostra buona vecchia Europa. In scena gli attori ci raccontano le loro storie, perseguitate dai fantasmi di coloro che sono passati all’azione. Ancora una volta non è in modo frontale, esaustivo o moralizzante che Milo Rau accosta il suo scottante soggetto, ma piuttosto attraverso le piccole grandi crepe che intaccano le nostre corazze, che appartengono a tutti noi. Un dolore condiviso che prende corpo sulla scena. Ben cosciente dell’impossibilità del teatro di essere documentario, è attraverso la forma (una ricostruzione fedele e in presenza degli attori originali del processo per The Last Days of the Ceausescus, o più fittizia, come nel caso di Hate Radio, che ricostruisce l’emittente radiofonica Radio-Télévision Libre des Mille Collines, fomentatrice del genocidio dei Tutsi in Ruanda nel 1994) che Milo Rau accede alla verità di un presente complesso, contraddittorio e sfuggente. Milo Rau impersona la complessità che lo attornia trasformandosi in ricettacolo di un mondo che sembra impazzito. Un’attitudine la sua che diventa vera e propria vocazione. Noncurante del consenso generale, preferendo anzi fomentare la controversia e la discussione, Rau si è trasformato in «uno dei registi attualmente più sollecitati e controversi della sua generazione» (come lo definisce il «Tages-Anzeiger»). Che questa sua fiamma, così lontana da quel consenso tipicamente elvetico, possa ancora brillare a lungo (e anche a Sud delle Alpi)!
Una storia in nove scene, raccontata dalla fine all’inizio In scena Tradimenti di Harold Pinter, commedia sul tempo
e la memoria Giovanni Fattorini
Tradimenti è la poco avventurosa storia di un triangolo borghese formato da Robert, di professione editore, da sua moglie Emma, proprietaria e direttrice di una galleria d’arte, e da Jerry, agente letterario sposato con Judith (che non compare mai), nonché amante di Emma e migliore amico di Robert: tre personaggi di età compresa fra i trenta e i quarant’anni. Una storia con pochi accadimenti, raccontata a ritroso nei modi di una rarefatta conversation comedy. «A ritroso» non significa mediante un uso saltuario del flashback, ma attraverso nove scene che si succedono secondo una cronologia rigorosamente retrograda: si comincia cioè dall’incontro tra Emma e Jerry (Londra, primavera del 1977), che avviene due anni dopo la fine della loro relazione adulterina, e si risale all’inizio della stessa (Londra, inverno del 1968). L’idea di raccontare a ritroso non è un mero espediente inteso a catturare l’attenzione dello spettatore, ovviando allo scarso interesse dei fatti. Non a caso, in una nota liminare, Pinter ha scritto che la commedia può essere rappresentata senza intervallo, o con un intervallo dopo la quarta scena.
Raccontando a ritroso il progressivo allentarsi e sciogliersi del settennale legame erotico-sentimentale tra Emma e Jerry, le prime quattro scene diffondono infatti sulle altre cinque la grigia luce della fine, e in particolare su quella conclusiva, dove la dichiarazione d’amore di Jerry, stimolata dall’alcol, suona penosamente e risibilmente enfatica. Attraverso un procedimento drammaturgico inusuale, Pinter ci invita a seguire in senso inverso, con la distaccata curiosità di chi già ne conosce l’esito, la poco sorprendente vicenda di tre personaggi che appartengono all’agiata borghesia intellettuale inglese degli anni Settanta: una vicenda intessuta di frasi elusive, di reticenze, di bugie che inquinano antichi rapporti d’amicizia, di gesti e parole che appaiono spesso futili e banali, e che pure compongono una vita. Sulla bocca dei tre personaggi ricorrono di frequente le domande: «Non ricordi?», «Ti sei dimenticato?». Come Vecchi tempi e Terra di nessuno (scritte rispettivamente nel ‘71 e nel ‘75), Tradimenti (1977) è una commedia nella quale – sia pure in modo meno accentuato e ambiguo che nelle altre due - i ricordi sono molto pinterianamente inficiati da lacune, sfocature, distorsio-
ni, e perfino da invenzioni. Nell’ultima scena, ad esempio (quella in cui ha inizio la loro relazione adulterina), Jerry insiste nel dire, eccitato e incurante della smentita di Emma, che il giorno delle nozze lei indossava un abito bianco («Avrei dovuto prenderti col vestito bianco, prima della cerimonia. Avrei dovuto macchiarti in quel tuo vestito bianco da sposa, macchiarti nel tuo vestito da sposa, prima di accompagnarti all’altare come tuo testimone»). Tema non meno rilevante del tempo e la memoria è quello della menzogna che quasi incessantemente inquina i rapporti fra i tre personaggi. Qui tutti mentono e tradiscono (anche Robert, e forse pure Judith, la moglie di Jerry). Non c’è però intenzione di denuncia, in Pinter. Che sembra dirci: «Questo è un ambiente che conosco bene, perché ne faccio parte: così vanno le cose». (Forse è il caso di aggiungere che la commedia, secondo alcuni, ha preso spunto da una vicenda personale: il rapporto che Pinter, marito dell’attrice Vivien Marchant, ha intrattenuto per un decennio con la presentatrice televisiva Joan Bakewell). In una nota di regia, Michele Placido sottolinea il fatto che la storia prende l’avvio nel ‘68, l’anno che «rivoluzionò
Francesco Scianna, Ambra Angiolini, Francesco Biscione. (Federico Riva)
il comportamento di un’intera generazione di giovani». Il testo di Pinter, secondo Placido, si può leggere come un’esemplificazione del fallimento di un’utopia rivoluzionaria che voleva «cambiare il pensiero occidentale». Che dire? Certo non può essere casuale che la storia raccontata a ritroso dal drammaturgo inglese abbia inizio proprio in quell’anno turbolento e si concluda definitivamente nel ’77, mantenendo pressoché inalterati la mentalità e i comportamenti dei rappresentanti di una certa borghesia britannica. Però non mi sembra che Pinter sia particolarmente interessato al tema indicato da Placido, il quale dà prova di intelligenza astenendosi dal forzare didascalicamente il testo e occupandosi della psicologia dei personaggi, di come parlano e si muovono: in un pub e in un ristorante londinese, nel soggiorno e nella camera da letto di Emma e Robert,
in un albergo veneziano e nell’appartamento che gli amanti hanno affittato per i loro incontri clandestini: luoghi che lo scenografo Gianluca Amodio e il light designer Giuseppe Filipponio hanno saputo inventivamente fingere modificando un unico ambiente. Forse, chi conosce la versione cinematografica di Tradimenti sceneggiata dallo stesso Pinter e diretta da David Jones troverà che la recitazione di Ambra Angiolini, Francesco Scianna (Jerry) e Francesco Biscione (Robert) non ha le finezze squisitamente british di quella di Patricia Hodge, Jeremy Irons e Ben Kingsley. A me, nel complesso, la coloritura italiana della loro interpretazione non è dispiaciuta. Dove e quando
Milano, Teatro Manzoni, fino al 29 gennaio.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Paolo Conte, un immedicabile dandy Ad Asti lo struscio si faceva in corso Alfieri. Se mi avessero detto che il ragazzo che camminava su e giù al mio fianco sarebbe diventato Paolo Conte gli avrei chiesto: come saremo a 80 anni? Avrei preso appunti e adesso sarei in grado di scrivere un degno omaggio all’amico che il 6 gennaio ha compiuto 80 anni. Ricordo solo che la nostra generazione era infatuata da Cesare Pavese, mi ero fatto degli occhiali con il vetro al posto delle lenti per assomigliare allo scrittore e fare colpo sulle nostre compagne, figuriamoci! Paolo: «Mio padre ha letto Il mestiere di vivere e dice che Pavese non ci sapeva fare con le donne». Da quel giorno via gli occhiali! Ho lasciato Asti a 18 anni, ci torno per farmi raccontare Paolo da suo fratello Giorgio e dagli amici che hanno continuato a frequentarlo, mio cugino Ottavio Coffano, pittore e scenografo, sua moglie Gabriella Forno, attrice. Anni fa sono stato a un suo concerto, uno dei pochi dati ad Asti. Era all’aperto, nel cortile del Palazzo del Collegio, una volta lì c’era la nostra scuola elementare,
intitolata all’ammiraglio Umberto Cagni, una delle poche istituzioni di Asti che non porta il nome di Vittorio Alfieri, da noi chiamato confidenzialmente «Toju il Trageda». Toju festeggia il compleanno il 16 gennaio e tutti gli anni, in quella data, gli insegnanti ci portavano al teatro Alfieri per assistere a una sua tragedia con gli attori che indossavano un corto gonnellino a pieghe, i calzari sopra le gambone bianchicce e pelose, declamando quei versi dove un solo endecasillabo può contenere cinque battute. Paolo canta: «L’uomo che è venuto da lontano ha la genialità di uno Schiaffino»: anche la passione di Paolo per il calcio viene da lontano. Aveva fondato una squadra, disegnando le maglie e curando tutti i dettagli. Per me, che non ho mai saputo giocare, non c’era posto. Potevo solo stare ai bordi del campo a prendere appunti per scrivere la cronaca delle partite. Devo prendere l’ultimo treno della notte per ritornare a casa.«Attenzione al secondo binario. Treno in transito». Il merci che attraversa in piena velocità la stazione di
Asti straccia la nebbia portata dal Tanaro. Al termine della banchina deserta una ragazza vestita di rosso canta. Per farsi coraggio. La nebbia che ritorna a folate abita i ricordi degli amici di Paolo. Una sera di nebbia come questa Ottavio Coffano era in un’auto con lui; stavano andando a Torino per ascoltare del jazz. Guidava Ottavio che a un certo punto si è messo a canticchiare «Solo me ne vo per la città…». «Ferma! Ferma!», ha urlato Paolo, costringendo l’autista a inchiodare. Paolo è sceso: «E adesso vai avanti da solo. Questa canzone porta sfiga». In testa alla hit parade delle canzoni che portano male secondo Paolo Conte c’è Lili Marlene, in grado di farlo scappare via da qualunque ambiente se qualcuno accenna a cantarla e subito dopo viene Il valzer delle candele, una stilettata al cuore. Fin da ragazzo Paolo Conte ha difeso la sua vita privata con una fitta cortina fatta di silenzi, depistaggi, autoironie. Tutto inutile perché, trattandosi di un artista, vive dentro la contraddizione del nascondersi agli sguardi indiscreti e dell’esibirsi. Anche se le sue
canzoni sono proiezioni oniriche, storie fantasticate e non vissute, messe in scena nel teatrino della provincia. Il suo legame con Asti è fortissimo; lui stesso parla di un elastico che si tende man mano che si allontana fino al punto di costringerlo a tornare. Per Paolo anche gli oggetti hanno un’anima e se gli capita di sfiorare l’angolo di un tavolo, deve fare in modo di toccare anche gli altri tre, possibilmente senza farsene accorgere. Un tempo abitava al secondo piano di una casa di tre. Uscendo faceva in modo, con un delicato lavorìo di gomiti, di chiudere la porta senza toccare la maniglia. Se per disgrazia sfiorava il metallo, doveva salire al terzo piano e scendere al primo per completare i contatti e ristabilire l’equilibrio cosmico. Paolo è un bravissimo solutore di rebus. Ricorda Ottavio Coffano che andavano a Bra a cena da un avvocato che li attendeva sulla soglia di casa proponendo un enigma e non li lasciava entrare fintanto che Paolo non l’avesse risolto. Una sera li accolse toccandosi una gamba e dicendo: «Due e sei. Il polpaccio sinistro». Paolo
diede la risposta esatta: «La piovra». Io devo ancora capirlo adesso. Gabriella Forno ricorda gli inizi, quando Paolo radunava pochi amici attorno al pianoforte e diceva: «Proviamo a inventare delle storie senza capo né coda ma che abbiano un motivo conduttore». Gabriella respirava l’atmosfera della casa, con gli abat-jour, le opalines, i rumori ovattati, il giardino al di là dei vetri, gli antichi rituali dell’ospitalità e pensava: le storie che cerchiamo sono qui. Paolo Conte gioca al risparmio, come Eugenio Montale che dipingeva usando i fondi di caffè. Lui si mette al confine delle storie che racconta, un confine che sovente è una camera d’albergo vuota, affacciata sul nulla. Paolo costruisce le sue canzoni con materiali poveri, di scarto, vecchie cartoline, copertine di dischi, storie ascoltate mille volte nei bar. È un dandy polveroso e supremo, che si nega con squisita cortesia e nonchalance. Con le sue canzoni Paolo secerne un balsamo che sana le ferite degli altri ma non la sua che resta immedicabile. È il destino e la condanna di ogni vero artista.
poemi però devono educare, quindi presentare esempi di virtù. Nella storia è più difficile incontrarne, per esempio Alcibiade non dava certo retta a Pericle, suo zio e tutore. Nel Simposio di Platone, il giovane raggiunge i colti partecipanti al banchetto. È ubriaco, la sua bellezza leggendaria è stravolta dal vino e da un attacco di gelosia, ha visto Socrate giacere accanto a un altro bello, Agatone. La scenata che segue diventa un disperato grido d’amore e desiderio, dove Socrate viene raccontato come un uomo «bello dentro», per dirlo secondo le parole degli adolescenti di oggi. Brutto come un sileno, contiene oro puro nell’anima. Non è tutta bella né tutta cattiva, la cultura dei Greci, e dove leggiamo di un figlio ben poco affettuoso verso il padre, scorgiamo anche l’uomo che ci ha permesso di capire la nostalgia, parte costitutiva del nostro essere nel mondo. Ulisse infatti non ha grandi attenzioni per Laerte, però incarna con la sua vita
l’insoddisfatto ed eterno vagare della nostra anima. Ulisse è l’uomo che soffre per un ritorno a casa continuamente differito (nostalgia è infatti «dolore del ritorno»), che soffre anche nel ritorno, perché non viene riconosciuto e non riconosce, non subito, e soprattutto perché dopo la battaglia contro i Proci potrà godere ben poco della sua casa, della sposa, del letto scolpito in un albero antico. Come gli ha annunciato Tiresia negli Inferi, il re di Itaca deve subito ripartire, andare lontano dove non si conosce il mare, quindi il cibo è insipido e gli uomini confonderanno un remo per uno strumento agricolo. Là onorerà Poseidone, il dio del mare con cui è in lotta da quando gli ha accecato il figlio Polifemo, e poi potrà di nuovo tornare a casa. Ma noi sappiamo che non tornerà. Diverso dal quasi divino Ulisse, il pio Enea a sua volta affronta molte peripezie non per tornare in patria, ma per fondarne una nuova. Il
vecchio padre che si porta sulle spalle e che sopravvive a parte del viaggio è tutto ciò che ha con sé di Troia distrutta. In Lazio deve mescolare il suo sangue con quello latino, perché il suo discendente Romolo possa fondare Roma. Giunone non lo perseguiterà più, a patto che accetti di parlare solo la lingua latina, in una nuova patria di un nuovo popolo. Particolare è poi la diffusa credenza antica della capacità del vento di rendere gravidi alcuni animali, come i cavalli e gli avvoltoi. Omero diceva essere Zefiro il padre dei cavalli velocissimi Xanto e Balio, Aristotele dedusse questa legge di natura dall’osservazione degli uccelli e dei loro nidi. Qualche teologo riprese la credenza per rendere meno miracoloso il concepimento della Vergine per il soffio dello Spirito. Come se rispetto alla maternità di una vergine fosse più facile da accettare il vento del Nord che giace con le sue tremila cavalle.
Per smorzare il risentimento, l’aggressività, il rancore, potrebbe essere utile cominciare a smussare le diseguaglianze troppo sfacciate. Niente di impossibile: i 62 arcimiliardari rinuncino a un paio di panfili a testa (ci saranno sempre altri piccoli miliardari pronti a comperarli) e regalino l’incasso alla Caritas italiana che lavora a Lampedusa e in altri luoghi sensibili. Un modesto atto di generosità che contribuirebbe ad alleviare il problema epocale delle migrazioni. In compenso otterrebbero un bel 5+ nella rubrica «Voti d’aria»: mica poco. Se poi i panfili diventano tre, si può sempre salire a 5½. Notizie da capogiro sono quelle, in genere, che riguardano l’infanzia ferita. Avete mai sentito parlare di «soppressione di stato»? È un reato commesso da chi sottrae un neonato allo stato civile, occultandone l’identità. Per sette anni un bambino di Moncalieri (Torino) è rimasto invisibile pur essendo nato, nel 2009, all’Ospedale Santa Croce: è venuto alla
luce per rimanere nelle tenebre, non registrato all’anagrafe, dunque ufficialmente non esistente, trasparente come un fantasma. Mangiava, dormiva, si svegliava, parlava, piangeva, rideva, giocava (ma in solitudine?), cresceva, probabilmente aveva un nome, ma per il mondo non ha mai avuto un’identità, quella che gli avrebbe permesso di usufruire dei diritti civili fondamentali come la salute e l’istruzione. Il bambino invisibile ha una madre di 48 anni e un padre che ha sempre vissuto all’estero senza preoccuparsi di nulla, tanto meno di suo figlio. Sono stati i carabinieri, nel novembre scorso, a scoprire la sua presenza (e insieme la sua assenza), bussando all’appartamentino di Borgata Testona, in cui il ragazzino ha vissuto all’insaputa del mondo. Insomma, la vertigine è che in un mondo di spie in cui la riservatezza è non un diritto ma un pio desiderio, in un mondo in cui bastano poche tracce digitali per risalire alle identità anagrafiche, ai movimenti, agli incontri, alle amici-
zie, un bambino può vivere per anni senza essere visto. La vertigine è che la realtà è diventata apparenza intangibile, mentre il virtuale determina le nostre vite. Ora la beffa è che, una volta registrato nei documenti, l’ex bambino invisibile rischia di restare solo, visto che sua madre verrà condannata per «soppressione di stato». Capogiro è scoprire un capolavoro di purezza e di delicatezza, in fondo un inno alla bontà, nell’epoca acida del risentimento, della rabbia, del rancore. Sto parlando de La mia vita da zucchina (6–), il film di animazione diretto dal disegnatore svizzero Claude Barras, che ha lavorato mettendo in scena dolci personaggi di plastilina dai grandi occhioni a palla: racconto di orfanità infantile dal sapore dickensiano, storia di abbandoni, di dolore, di bullismo pentito, di solidarietà e amore, con un lieto fine non consolatorio, miracolosamente privo di sentimentalismo e pieno di sentimento. Per una volta, una piacevole vertigine.
Postille filosofiche di Maria Bettetini La mitologia, quasi un noir Mi è capitato tra le mani un libro che ho amato e amo tanto, che da quando mi fu suggerito alle elementari ancora rileggo: è Storie della storia del mondo (di Laura Orvieto, Giunti editore, Firenze), una versione per bambini dei principali miti greci e latini, dove «per bambini» significa solo l’uso di un linguaggio semplice, non certo la presentazione edulcorata dei sanguinosi e scandalosi fatti della mitologia. Tanto per cominciare, Crono divora i suoi figli e Zeus ingoia la sposa incinta, Metis (ma poi Zeus divenne marito di Hera, che era anche sua sorella). Per questo Atena nasce dalla testa del padre, preceduta da una forte emicrania. In altra occasione, il vento del Nord, Borea, si innamora delle tremila cavalle del re Erittonio, giace con loro, diventa padre di dodici puledre. Si sa, le vicende mitologiche non sono mai sdolcinate favole: la narrazione dell’inizio di questo mondo deve raccontare eventi che lo rispecchiano e lo superano, la violenza
bruta ne è una cifra essenziale. Lo era ai tempi di Omero, lo è oggi. Gli antefatti mitologici sono un affresco di efferati eventi da cronaca nera. Neonati divorati o costretti a non nascere, incesti, padri evirati. Con la conquista del potere da parte di Zeus si stabilisce una certa pace, un certo ordine, nel rispetto di parentele e nascite. Traditore seriale, spudorato bugiardo, Zeus era tuttavia riconosciuto come giusto giudice, ai tempi in cui anche la Grecia si dava delle regole e scandiva diritti e doveri. Sorsero i tribunali, si scrissero le leggi, si costruì una mitologia comune, fondata sulla trasmissione orale dei poemi omerici. Ancora commuove Ettore che toglie l’elmo per prendere in braccio il suo bambino, spaventato dal cimiero: lo aspetta il duello con Achille, la morte certa. Telemaco, a confronto dell’avventuroso Ulisse, sembra un adolescente svogliato; Fenice racconta di aver sedotto l’amante del padre su ordine della madre. I
Voti d’aria di Paolo Di Stefano La vertigine della zucchina Ci sono notizie che provocano vertigini, capogiri, lievi mancamenti. Prendete questa, che proviene da un rapporto dell’ong Oxfam, presentato nelle scorse settimane, in attesa del vertice economico di Davos: l’uno per cento della popolazione mondiale possiede una ricchezza pari a quella del restante 99. Detto con altri numeri: i primi 62 miliardari del pianeta detengono in totale la stessa ricchezza della metà del mondo. Inoltre: nel 2010 questi miliardari erano 388 e probabilmente, se la tendenza non cambierà, nel 2020 saranno solo 11. C’è da immaginare che gli altri 51 tra un decennio non faranno la fame anzi resteranno miliardari pur essendo ragionevolmente amareggiati dall’essere rimasti un po’ indietro nella classifica della sovrabbondanza sfacciata. D’altra parte, se possiedi una decina di panfili, devi essere consapevole che ci sarà sempre qualcuno che ne possiede una dozzina e se ne possiedi una dozzina devi comunque sapere che
prima o poi qualcuno ne possiederà una ventina, e così via. Per i tanti poveracci può essere pure consolante un pensiero del poeta latino Orazio secondo cui «con la ricchezza crescono le preoccupazioni», ma è pur vero che con la miseria le preoccupazioni diventano angoscia e disperazione. Per rendersene conto, basterebbe farsi un giro, in queste serate gelide, sotto i porticati nei pressi della Stazione Centrale della cosiddetta Capitale della Moda e del Design e vedere la fila dei sacchi a pelo (se va bene: di solito sono vecchie coperte) dentro cui si accucciano, a sotto zero, decine di anonimi migranti africani. Un panfilo disponibile per dare loro ospitalità? Rivolgersi a Flavio Briatore (1–, anzi –1, alla simpatia), che tiene un super yacht (vuoto) ormeggiato al largo di Crotone in attesa di invitare l’amico Donald Trump per una crociera estiva. Poi ci si lamenta: viviamo l’età del risentimento (bell’articolo di Pierluigi Battista sul «Corriere» del 18 scorso).
La costruzione svizzera del secolo nell‘edizione speciale
GOTTHARD 2016
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Sul retro viene incisa la numerazione
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Diametro: 4 cm
Con incisione della data d‘inaugurazione sul lato della cassa dell‘orologio
Grazie al forte dinamismo collettivo, dopo 17 anni di lavori, è nato un monumento lungo 57 chilometri, del quale noi svizzeri dobbiamo essere orgogliosi e che, nel cuore del nostro paese, unisce tutt‘Europa : si tratta del tunnel ferroviario più lungo del mondo - la galleria di base del San Gottardo, inaugurata il primo giugno 2016. Con l‘orologio da polso „GOTTHARD 2016“ vogliamo rendere debitamente omaggio a questa straordinaria costruzione svizzera del secolo. Il quadrante mostra un moderno treno rapido con la grafica delle diverse tappe di costruzione, mentre sulla cassa dell‘orologio è incisa la data dell‘inaugurazione.
BUONO D’ORDINE ESCLUSIVO Termine di ordinazione: 6 marzo 2017 ❒ Sì, ordino l'orologio
„GOTTHARD 2016” • Edizione speciale
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In omaggio alla galleria ferroviaria più lunga del mondo
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Idee e acquisti per la settimana
shopping Da Migros entro la fine del 2017 tutte le banane proverranno esclusivamente da coltivazioni sostenibili. Recentemente nell’assortimento sono state introdotte le banane di un progetto pilota del WWF, il quale si prefigge
Giovanni Barberis
Quando le banane sono sostenibili obiettivi importanti nell’ambito della protezione del clima, degli animali, della biodiversità e della tutela dei lavoratori. Vi proponiamo qui le impressioni di alcuni clienti di Migros Ticino. www.migros.ch/banane
Pamela Beltrametti, Dietista ASDD Il parere dell’esperta
Banane e proprietà alimentari
Agnese Marsicovetere «Acquisto queste banane ogni settimana. Presto attenzione anche all’aspetto sociale ed ecologico, oltre che al prezzo».
Michael Zucconi «Queste banane sono veramente buone. Le consumo regolarmente sul lavoro come spuntino energetico. E se rispettano l’ambiente e i lavoratori, tanto meglio».
Alla Migros entro la fine del 2017 solo banane sostenibili
«La banana è un frutto molto apprezzato per l’aroma e la dolcezza. Sono raccolte ancora verdi, e sono trasportate in navi frigorifero. Sono poi fatte maturare in ambienti appositi, finché assumono il loro inconfondibile colore giallo. Una volta maturate non si dovrebbero più conservare in frigorifero, perché al freddo perdono il loro aroma. Durante il processo di maturazione l’amido contenuto nella banana si trasforma in zucchero (carboidrati) grazie agli enzimi presenti nel frutto. Nello stesso tempo si sviluppano gli aromi e gli acidi, che compensano il sapore dolce del frutto. A livello nutrizionale la banana è spesso ingiustamente stata vista come un frutto da consumare con prudenza, pensando che fosse troppo ricco di energia. Il motivo è che il suo contenuto in zucchero appare maggiore per 100 g di polpa di frutto fresco, se paragonato ad altri frutti. La banana apporta 21 g di carboidrati per 100 g di polpa, mentre 100 g di polpa di kaki apporta 15.3 g di carboidrati. Le banane meritano di essere introdotte nella nostra alimentazione poiché, oltre a rappresentare un’importante fonte di energia, sono anche ricche in sali minerali come il potassio, e il magnesio. Una porzione corrisponde a una banana, e contribuisce a raggiungere con piacere le raccomandazioni della Società Svizzera di Nutrizione, ossia quelle di consumare ogni giorno due porzioni di frutta».
Michela Cozzatti «Le banane WWF le compero regolarmente. Sono gustose e della giusta grandezza, né troppo piccole né troppo grandi. Trovo positivo il fatto che vengano coltivate in modo sostenibile».
Degustazione di banane certificate WWF Mercoledì 25.01.2017
Venerdì 27 e sabato 28.01.2017
Migros Arbedo-Castione Migros Taverne Migros Pregassona Migros Bellinzona
Migros Locarno Migros Serfontana Migros Agno Uno Migros Lugano
Parte di
Da dove arrivano le banane del progetto pilota WWF? Inserendo il codice stampato sull’etichetta su migros.ch/banane, potrete ottenere informazioni sulla provenienza e sulla coltivazione, nonché sulle severe direttive ecologiche e sociali applicate.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Idee e acquisti per la settimana
Un olio di pregio Novità L’Olio Extravergine di Oliva Garda Orientale DOP per dare
quel tocco in più ai vostri piatti di tutti i giorni
Colore verde-giallo più o meno intenso, odore mediamente fruttato, sapore fruttato con note dolci e retrogusto mandorlato: queste sono le inconfondibili peculiarità dell’Olio Extravergine proveniente dalla zona del Garda orientale; regione in cui, grazie al clima favorevole, la tradizione della coltivazione dell’ulivo ha origini molto antiche. E antica è anche la storia dell’azienda olivicola Redoro, realtà imprenditoriale ancora oggi a conduzione famigliare, nata nel 1895 sulla sponda veneta del lago di Garda. Grazie alla centenaria esperienza e alla grande passione per l’olio d’oliva d’eccellenza l’azienda è riuscita a farsi conoscere in tutto il mondo. Qualità, genuinità e amore per i dettagli – dalla coltivazione delle olive alla raccolta a mano, fino alla trasformazione in olio tramite spremitura a freddo – sono i punti di forza dell’azienda veronese. L’Olio Extravergine di Oliva Garda Orientale DOP è particolarmente indicato per un uso a crudo, su carni bianche ai ferri, pesci di lago bolliti, pesci al forno, minestre e insalate.
Olio Extravergine di Oliva Garda Orientale DOP «Redoro» 50 cl Fr. 16.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros
Un grande classico di carnevale
Lo sapevate che le classiche frittelle della Migros sono prodotte sin dal 1935 con la medesima ricetta originale? Gli ingredienti principali sono semplici e genuini: farina, uova, olio di girasole, un pizzico di kirsch per l’aroma e una bella spolverata di zucchero a velo, prima di essere imballate e spedite in tutta la Svizzera. Le ondulate bontà sono prodotte sulle rive del lago di Zurigo, dalla Midor di Meilen, un’a-
zienda del gruppo Migros. Stagionalmente – da dicembre fino al «Morgestraich» di Basilea – l’azienda arriva a produrne qualcosa come 900’000 pezzi al giorno. Nei Supermercati Migros le Frittelle di carnevale sono disponibili nella versione classica, mini, o in quella «to go» nel barattolo richiudibile. Per i più golosi la scelta include ancora le Riccioline e le Frittelle di carnevale al cacao. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Idee e acquisti per la settimana
Noi Firmiamo. Noi Garantiamo
La star della settimana
Su il sipario, le star entrano in scena. Ogni settimana su noifirmiamo-noigarantiamo.ch un prodotto sarà messo sotto la luce dei riflettori. Ognuno con una sua unicità, ma tutti prodotti dall’Industria Migros. Inoltre ogni volta ci saranno premi da vincere Testo Thomas Tobler
Migros produce nelle proprie industrie qualcosa come 10’000 articoli. La paletta degli articoli spazia dagli alimentari, ai prodotti per la pulizia, fino ai dentifrici. Tutti si distinguono per la loro origine e per il loro carattere. Alcuni di essi sono diventati famosi a livello nazionale, altri sono quasi delle piccole star. Le qualità per essere delle celebrità le posseggono però tutti. Su www.noifirmiamo-noigarantiamo.ch ogni settimana vi presentiamo un nuovo prodotto. Le caratteristiche per cui esso è tanto amato, ve le rac-
conta direttamente il protagonista in un’intervista personale corredata da un breve ritratto. Inoltre grazie alla «star della settimana» potrete vincere premi per un valore complessivo di 150 franchi, semplicemente rispondendo a un indovinello. La parata di stelle inizia questa settimana con i Blévita Gruyère della grande famiglia Blévita. Vi sveleremo alcune curiosità sulla loro storia e sulla loro particolare origine. Pagina 36
M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche Blèvita.
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Idee e acquisti per la settimana
Storia
La grande famiglia
Floreana Mateu e i suoi Blévita Gruyère.
Partecipare e vincere
Benché mi senta ancora oggi un giovanotto, le mie origini risalgono al 1969. Qui vi presento i membri della mia famiglia con i relativi anni di nascita. Mi perdonino i più anziani se svelo la loro età.
Chi ha inventato Blévita Gruyère? www.noifirmiamonoigarantiamo.ch/ blevitagruyere
1969 Blévita ai 5 cerali
1981 Blévita Sesamo
1994 Blévita Semi di lino
2003 Blévita Bio spelta
2005 Blévita Pomodoro-Basilico
2007 Blévita Cioccolato-Sesamo
Star della settimana
2007 Blévita Timo-Sale Marino
2011
Blévita Gruyère
Il favorito dal pubblico Provengo da una famiglia svizzera tradizionale e sono stato scelto tra oltre 1100 partecipanti. Il mio nome: Blévita Gruyère Testo Thomas Tobler; Foto Paolo Dutto
2013 Blévita Sandwich Bacche & Erbette
2014 Blévita Minis
2015 Blévita Biscotti
Eduard Huber mi conosce bene e si ricorda di me. Da 35 anni lavora come addetto allo sviluppo di prodotti di panetteria presso il mio produttore, l’azienda Migros Midor di Meilen ZH. Ciò significa che sviluppa ricette, produce campioni da degustare, assaggia tutte le variazioni di gusto ed è stato responsabile per il lancio di molti dei miei antenati. E naturalmente era presente quando, sei anni orsono, vidi la luce nelle filiali Migros. Tuttavia, le origini della mia famiglia Eduard le conosce solo dai libri di storia. Tutto ebbe inizio nell’ottobre del 1969. A quel tempo i Blévita furono prodotti per la prima volta. Il nostro capostipite è ancora oggi un biscotto composto da frumento, segale, avena, orzo e spelta. Questo biscotto ai 5 cereali era ed è ancora oggi cotto in un forno riscaldato a gas. Naturalmente nel frattempo la tecnica è cambiata. In nuovi Blévita sono prodotti con farina di spelta poiché, avendo un sapore neutro, possono essere per esempio meglio combinati con erbette o formaggio. E nel frattempo va da sé che la nostra produzione si è automatizzata, sia nell’elaborazione che nel
tù parte integrante della mia attività professionale», afferma Eduard Huber. L’impasto dei Blévita lo produce lui stesso , «come un pasticcere che ogni mattina prepara i dolci per la sua pasticceria». E anche le erbette o i ripieni alla crema, sono lavorati manualmente e aggiunti ai campioni di Blévita.
Intervista
«Siamo un paese di formaggi»
Colloquio tra me e Floreana Mateu. È stata responsabile dei prodotti Blévita nel 2011, quando sono stato votato da ben 1100 clienti sulla piattaforma della community Migipedia
Nuove creazioni firmate Blévita
Eduard Huber, da 35 anni sviluppa i Blévita.
confezionamento. Soltanto le materie prime, come le erbette, sono aggiunte ancora a mano. Tutt’altra cosa avviene nel reparto di sviluppo di Eduard e i suoi colleghi. Qui c’è ancora molto lavoro manuale, dato che per motivi di degustazione servono solo piccoli quantitativi di prodotto. «Sono formato in qualità di panettiere-pasticciere e il lavoro artigianale è già dalla gioven-
Le idee per nuove saporite creazioni arrivano principalmente dal reparto Marketing della Migros. Ci sono ovviamente delle eccezioni, per esempio io. Sono stato scoperto dalla Comunità Migros online, sul portale Migipedia. Le indicazioni dei clienti sono però state sviluppate da Eduard Huber. «Apprezzo il fatto che il mio lavoro sia molto variato. Ci sono sempre nuove combinazioni di gusto da sviluppare e idee da realizzare», spiega Eduard. Anche dopo 35 anni alla Midor. Presto però dovrà appendere al chiodo i suoi guanti da addetto allo sviluppo: alla fine di febbraio andrà infatti in pensione. «Ovviamente terrò d’occhio i miei Blévita e il loro sviluppo e andrò a trovarli regolarmente alla Migros».
Floreana, perché la Migros ha deciso di farmi votare dal clienti?
Non è successo certo perché fossimo a corto di idee, ma bensì perché volevamo sviluppare insieme ai clienti un nuovo prodotto. Ancora oggi questa possibilità funziona molto bene nell’ambito della vicinanza di Migros alla clientela e, di conseguenza, anche per Blévita. La Migros ha un influsso sulla scelta oppure sono solo i clienti a decidere?
Si tratta di un’interazione tra Migros e la clientela. Quest’ultima ha deciso tramite la votazione online quali varianti di gusto andavano sviluppate. Inoltre durante le degustazioni dei quattro finalisti alcuni clienti Blévita si sono se-
duti al tavolo con noi ed hanno valutato i differenti gusti. Personalmente, cos’hai pensato dell’idea di produrre un Blévita con Gruyère?
Il concetto di un cracker al formaggio era per me interessante. Siamo di fatto un paese di formaggi. Penso che i clienti abbiano scelto bene e il tuo successo è qui a dimostrarlo. Qual è attualmente il tuo Blévita preferito? Dimmi la verità però…
(Ride) Apprezzo l’intera gamma Blévita e vario spesso le varietà proposte. Comunque i classici come sesamo e semi di lino restano i miei preferiti.
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Storia
La grande famiglia
Floreana Mateu e i suoi Blévita Gruyère.
Partecipare e vincere
Benché mi senta ancora oggi un giovanotto, le mie origini risalgono al 1969. Qui vi presento i membri della mia famiglia con i relativi anni di nascita. Mi perdonino i più anziani se svelo la loro età.
Chi ha inventato Blévita Gruyère? www.noifirmiamonoigarantiamo.ch/ blevitagruyere
1969 Blévita ai 5 cerali
1981 Blévita Sesamo
1994 Blévita Semi di lino
2003 Blévita Bio spelta
2005 Blévita Pomodoro-Basilico
2007 Blévita Cioccolato-Sesamo
Star della settimana
2007 Blévita Timo-Sale Marino
2011
Blévita Gruyère
Il favorito dal pubblico Provengo da una famiglia svizzera tradizionale e sono stato scelto tra oltre 1100 partecipanti. Il mio nome: Blévita Gruyère Testo Thomas Tobler; Foto Paolo Dutto
2013 Blévita Sandwich Bacche & Erbette
2014 Blévita Minis
2015 Blévita Biscotti
Eduard Huber mi conosce bene e si ricorda di me. Da 35 anni lavora come addetto allo sviluppo di prodotti di panetteria presso il mio produttore, l’azienda Migros Midor di Meilen ZH. Ciò significa che sviluppa ricette, produce campioni da degustare, assaggia tutte le variazioni di gusto ed è stato responsabile per il lancio di molti dei miei antenati. E naturalmente era presente quando, sei anni orsono, vidi la luce nelle filiali Migros. Tuttavia, le origini della mia famiglia Eduard le conosce solo dai libri di storia. Tutto ebbe inizio nell’ottobre del 1969. A quel tempo i Blévita furono prodotti per la prima volta. Il nostro capostipite è ancora oggi un biscotto composto da frumento, segale, avena, orzo e spelta. Questo biscotto ai 5 cereali era ed è ancora oggi cotto in un forno riscaldato a gas. Naturalmente nel frattempo la tecnica è cambiata. In nuovi Blévita sono prodotti con farina di spelta poiché, avendo un sapore neutro, possono essere per esempio meglio combinati con erbette o formaggio. E nel frattempo va da sé che la nostra produzione si è automatizzata, sia nell’elaborazione che nel
tù parte integrante della mia attività professionale», afferma Eduard Huber. L’impasto dei Blévita lo produce lui stesso , «come un pasticcere che ogni mattina prepara i dolci per la sua pasticceria». E anche le erbette o i ripieni alla crema, sono lavorati manualmente e aggiunti ai campioni di Blévita.
Intervista
«Siamo un paese di formaggi»
Colloquio tra me e Floreana Mateu. È stata responsabile dei prodotti Blévita nel 2011, quando sono stato votato da ben 1100 clienti sulla piattaforma della community Migipedia
Nuove creazioni firmate Blévita
Eduard Huber, da 35 anni sviluppa i Blévita.
confezionamento. Soltanto le materie prime, come le erbette, sono aggiunte ancora a mano. Tutt’altra cosa avviene nel reparto di sviluppo di Eduard e i suoi colleghi. Qui c’è ancora molto lavoro manuale, dato che per motivi di degustazione servono solo piccoli quantitativi di prodotto. «Sono formato in qualità di panettiere-pasticciere e il lavoro artigianale è già dalla gioven-
Le idee per nuove saporite creazioni arrivano principalmente dal reparto Marketing della Migros. Ci sono ovviamente delle eccezioni, per esempio io. Sono stato scoperto dalla Comunità Migros online, sul portale Migipedia. Le indicazioni dei clienti sono però state sviluppate da Eduard Huber. «Apprezzo il fatto che il mio lavoro sia molto variato. Ci sono sempre nuove combinazioni di gusto da sviluppare e idee da realizzare», spiega Eduard. Anche dopo 35 anni alla Midor. Presto però dovrà appendere al chiodo i suoi guanti da addetto allo sviluppo: alla fine di febbraio andrà infatti in pensione. «Ovviamente terrò d’occhio i miei Blévita e il loro sviluppo e andrò a trovarli regolarmente alla Migros».
Floreana, perché la Migros ha deciso di farmi votare dal clienti?
Non è successo certo perché fossimo a corto di idee, ma bensì perché volevamo sviluppare insieme ai clienti un nuovo prodotto. Ancora oggi questa possibilità funziona molto bene nell’ambito della vicinanza di Migros alla clientela e, di conseguenza, anche per Blévita. La Migros ha un influsso sulla scelta oppure sono solo i clienti a decidere?
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Idee e acquisti per la settimana
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Blévita Gruyère è attualmente sotto i riflettori. Ma molti altri prodotti Migros questa settimana brillano con lui
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Azione* Su tutto l’assortimento Blévita da 2 confezioni , ognuna –.60 di riduzione (senza Beef Chips), per es. Blévita Gruyère DOP 228 g Fr.3.– invece di 3.60
Azione* 20% di sconto sulle Foreste Nere Patisserie, per es. Foresta Nera 10 cm Fr.5.– invece di 6.30
Azione* 50% di sconto sul Succo d’arance Anna’s Best 2 l Fr. 3.70 invece di 7.40
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3.40 invece di 5.– Bistecche di manzo tagliate fini TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g
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11.90 invece di 14.90 Asia Snacks 640 g
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5.30 invece di 7.10 Rognonata di vitello TerraSuisse Svizzera, imballata, per 100 g
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15.80 invece di 23.10 Salmone affumicato bio d’allevamento, Irlanda/Scozia/Norvegia, 260 g
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4.20 invece di 5.70
40%
4.45 invece di 7.45 Prosciutto crudo di Parma Alta Salumeria Italia, affettato in vaschetta, per 100 g
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3.50 invece di 5.– Salame Strolghino di culatello Italia, pezzo da 250 g, per 100 g
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6.90 invece di 8.65
Filetto di tonno (pinne gialle) Carne secca affettata Oceano Pacifico, per 100 g, offerta valida fino al 28.1 Svizzera, 125 g
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6.80 invece di 9.80 Arance sanguigne Italia, rete da 4 kg
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15.60 invece di 26.– Pecorino Romano DOP Italia, in self-service, al kg
30%
3.40 invece di 4.90 Tutto l’assortimento Dimmidisì per es. minestrone di verdure, 620 g
20%
5.30 invece di 6.70 Zucca a cubetti Francia, imballata, al kg
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18.70 invece di 25.– Furmagèla (formaggella della Leventina) prodotta in Ticino, in self-service, al kg
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8.10 invece di 13.50 Tulipani M-Classic, mazzo da 20 disponibili in diversi colori, per es. rossi e gialli
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2.90 invece di 4.40 Patate resistenti alla cottura Svizzera, busta da 2,5 kg
30%
4.80 invece di 6.90 Lamponi extra Portogallo, conf. da 250 g
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5.90 invece di 11.85
M consiglia
Salsicce di maiale M-Classic in conf. da 3 Svizzera, 3 x 2 paia, 600 g
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1.55 invece di 2.60 Cordon bleu di maiale TerraSuisse per 100 g
COME APPENA SFORNATI I vari tipi di panini precotti, una volta infornati, diventano fragranti come quelli che escono dal forno del panettiere. Sono squisiti da soli, ma anche in compagnia non sono da meno. Provali insieme con la minestra di patate e porri al salmone. Trovi la ricetta su saison.ch/ consigliamo e tutti gli ingredienti freschi alla tua Migros.
20% Tutti i panini M-Classic, TerraSuisse in busta, per es. mini sandwiches, 300 g, 1.80 invece di 2.30
20% Bastoncini alle nocciole, fagottini alle pere e fagottini alle pere bio per es. bastoncini alle nocciole, 4 pezzi, 4 x 55 g, 2.60 invece di 3.30
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13.90 invece di 17.40 Raccard assortito in conf. da 2 2 x 350 g
conf. da 6
20%
2.40 invece di 3.– Flan in conf. da 6 6 x 125 g, per es. al caramello
20% Tutti i prodotti di pasticceria nella varietà Foresta Nera per es. torta Foresta Nera, 2 pezzi, 2 x 122 g, 4.20 invece di 5.30
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20% Grassi alimentari e burro per arrostire M-Classic, Léger e Balance, non refrigerati per es. preparazione a base di olio vegetale M-Classic Original, 50 cl, 2.80 invece di 3.55
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3.70 invece di 7.40 Succo d’arancia Anna’s Best bottiglia da 2 l
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conf. da 2
30%
a partire da 2 pezzi
5.30 invece di 7.60
1.–
di riduzione l’uno
Pizza Toscana M-Classic in conf. da 2 surgelata, 2 x 360 g
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7.80 invece di 15.60 Hamburger M-Classic in conf. speciale surgelati, 12 x 90 g
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4.95 invece di 9.90 Tutte le bevande dolci Jarimba in conf. da 6, 6 x 1,5 l per es. Himbo
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Pizza Toscana M-Classic in conf. da 2 surgelata, 2 x 360 g
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Tutte le miscele per dolci e i dessert in polvere (Alnatura esclusi), per es. flan al caramello, 2 x 102 g, 2.10 invece di 3.–
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L’INDUSTRIA MIGROS E I SUOI PRODOTTI. Latte, bevande a base di latte, yogurt, formaggio fresco, salse, maionese.
Caffè, caffè in capsule, frutta secca, spezie, noci.
Ice Tea, succhi di frutta, prodotti pronti, prodotti a base di patate e prodotti a base di frutta.
Carne fresca, pesce, salumi, pollame.
Pane, prodotti da forno, pasticceria, paste.
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20% Prodotti per la cura del viso e del corpo I am in conf. da 2 per es. salviettine detergenti per pelli secche, 2 x 25 pezzi, 5.40 invece di 6.80, offerta valida fino al 6.2.2017
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25% Tutti i prodotti Zoé (prodotti Sun esclusi), per es. crema da giorno rassodante Revital, 50 ml, 10.05 invece di 13.40, offerta valida fino al 6.2.2017
Formaggio per raclette Raccard, Gruyère AOP, Appenzeller, fondue.
Acqua minerale, sciroppo, succhi di frutta.
Biscotti, Blévita, gelati, dessert in polvere, frittelle di Carnevale, prodotti da forno per l’aperitivo.
Prodotti trattanti, sostanze cosmetiche attive, detersivi e detergenti, margarine, grassi commestibili.
Diverse varietà di riso, riso al latte, varietà speciali di riso.
Cioccolato, gomma da masticare.
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Altre offerte. Frutta e verdura
Pane e latticini
Altri alimenti
Pigiama corto da uomo John Adams, disponibile in diversi colori, taglie S–XL, per es. arancione, tg. M, 19.90 Hit ** Boxer aderenti da uomo John Adams in conf. da 3, disponibili in diversi colori, taglie S–XL, per es. blu chiaro, tg. M, 14.90 Hit **
Banane WWF, Colombia, al kg, 1.95 invece di 2.60 25% Papaya, Brasile, il pezzo, 2.50 invece di 3.80 33%
3 per 2
3.30 invece di 4.95
Carote, in busta da 1 kg, 1.30
Pesce, carne e pollame
20%
Gallette al granoturco Lilibiggs, tondelli di riso al cioccolato o tondelli di riso allo yogurt in conf. da 3 Tutti i Filets Gourmet Pelican, MSC per es. gallette al granoturco Lilibiggs, 3 x 130 g surgelati, per es. à l’amande, 400 g, 5.60 invece di 7.–
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Tovaglioli della serie prodotti mitici, 33 x 33 cm, FSC vaniglia, cioccolato o fragola, per es. vaniglia, 20 pezzi, offerta valida fino al 6.2.2017
Salmone affumicato bio, d’allevamento, Irlanda/Scozia/ Norvegia, 260 g, 15.80 invece di 23.10 30%
Tutti i sushi e tutte le specialità giapponesi, per es. Maki Mix: tonno, pesca, Filippine; salmone, allevamento, Norvegia, 150 g, 7.10 invece di 8.90 20%
Tutto l’assortimento Actilife per es. breakfast, 1 l, 1.45 invece di 1.85
Mini cornetti al burro e di sils precotti fuori frigo M-Classic, 200 g, 2.30 invece di 2.90 20%
Tutti i sughi al basilico e alla carne La Reinese, 350 g, per es. al basilico, 2.30 invece di 2.90 20%
Pane ai semi TerraSuisse, 350 g, 1.80 invece di 2.30 20%
Holi al frutto della passione, alla pesca e alla mela verde, a partire da 2 pezzi 50% *
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Near Food/Non Food
Focaccia alsaziana originale in conf. da 2, per es. 2 x 350 g, 7.80 invece di 9.80 20%
Biancheria intima da donna Ellen Amber in confezioni multiple, disponibile in diversi colori, taglie S–XL, per es. slip, in conf. da 3, neri, tg. S, 9.90 Hit ** Tutto l’assortimento di alimenti per cani Asco, per es. stick di manzo, 180 g, 1.45 invece di 1.85 20% Tutto l’assortimento di occhiali da sole e da lettura (articoli SportXX esclusi), per es. occhiali da sole, marrone marmorizzato, il pezzo, 39.90 invece di 49.90 20% **
Novità
Gnocchi e fettuccine Anna’s Best in conf. da 2, per es. gnocchi alla caprese, 2 x 400 g, 7.80 invece di 9.80 20% Treccia al burro TerraSuisse, 500 g, –.50 di riduzione, 2.90 invece di 3.40
Nuggets di tacchino, prodotti in Svizzera con carne di tacchino dal Brasile, conf. da 2 x 250 g, 500 g, 8.50 invece di 11.40 25%
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Piatti a base di riso Subito in conf. da 3, al pomodoro, ai funghi porcini e alla milanese, per es. al pomodoro, 3 x 250 g, 5.40 invece di 8.10 33%
Insalata mista Anna’s Best in conf. da 2, bustina, 2 x 260 g, 3.80 invece di 4.80 20%
Spezzatino e arrosto di maiale TerraSuisse, Svizzera, imballato, per 100 g, 1.05 invece di 1.50 30%
Hit
Fondue Swiss-Style moitié-moitié e Tradition in conf. da 2, per es. moitié-moitié, 2 x 800 g, 22.40 invece di 28.– 20%
Fiori e piante
Tutti i pannolini o i pannolini-mutandina Milette (inserti per pannolini monouso esclusi, offerta valida per 3 prodotti con lo stesso prezzo), per es. maxi 4+, 3 x 39 pezzi, 23.60 invece di 35.40 3 per 2 Asciugapiatti in set da 4 o tovaglie con motivo a fiori, per es. tovaglia con magnolie, 140 x 180 cm, il pezzo, 9.80 Hit **
Orchidee in vaso di ceramica da 12 cm, disponibili in diversi colori, la pianta, per es. rossa, 19.90 Hit
Salvapentole in set da 3, funbox o bicchiere graduato della serie prodotti mitici, per es. funbox vaniglia, il pezzo, 6.90 Hit ** Accendini elettronici della serie prodotti mitici, in set da 6, Limited Edition, 4.50 Hit Offerta valida fino al 13.2.2017
Tutto l’assortimento di biancheria da uomo da giorno e da notte per es. boxer aderenti Basic John Adams, neri, tg. M, il pezzo, 8.85 invece di 14.80
Quark affinato con yogurt, ai lamponi, alla stracciatella e alle more, per es. ai lamponi, 150 g, 1.35 Novità ** Torta Blond Sélection, 420 g, 8.60 Novità ** American Favorites Nuts Square, 70 g, 1.90 Novità ** Treccia di brioche, 400 g, 2.90 Novità ** Fagottino d’inverno, 340 g, 3.60 Novità ** Difesa naturale bio Yogi Tea, 17 bustine, 4.50 Novità **
Zaini Active, disponibili in diversi colori, per es. nero, 24.80 Hit ** *In vendita nelle maggiori filiali Migros. **Offerta valida fino al 6.2 Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 24.1 AL 30.1.2017, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 gennaio 2017 • N. 04
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Idee e acquisti per la settimana
Cucina & Tavola
La primavera sta arrivando… A volte non si riesce proprio ad aspettare: mancano ancora due mesi all’inizio della primavera ma la voglia di lasciarsi alle spalle l’inverno è già difficile da contenere. I prodotti dai vivaci colori pastello di Cucina & Tavola donano immediatamente un’atmosfera primaverile ad ogni spazio della casa. Abbinati, ad esempio, a un vaso di vetro con un bel mazzo di ranuncoli creano un ambiente gioioso in men che non si dica. Le tazze da caffè con decorazioni di rose rendono più dolce il brunch e la tovaglia con stampe di magnolie fa dimenticare il clima invernale.
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