Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 15 gennaio 2018
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Società e Territorio La Società Genealogica della Svizzera italiana ha compiuto 20 anni
Ambiente e Benessere Dall’Agenda 2030, novità anche svizzere sullo sviluppo responsabile: ecco gli obiettivi ambientali per l’anno nuovo e quelli a venire
Politica e Economia Contemporaneamente al disgelo fra le Coree si riaccendono le minacce cinesi di riprendersi Taiwan
Cultura e Spettacoli La Berlino spettacolare e ambigua, anticamera di ogni deriva, dei romanzi di Kutscher
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La prossima sfida: estrarre CO2 dall’aria
Un paladino a Berna della lingua italiana
di Peter Schiesser
di Luca Beti
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Stefano Spinelli
Ricordate le promesse del presidente degli Stati Uniti di salvare e portare a nuovo splendore l’industria nazionale del carbone, creando 50mila nuovi impieghi a suon di sovvenzioni miliardarie? Non se ne farà nulla. La commissione nazionale per l’energia ha deciso all’unanimità – democratici e repubblicani – di respingere il piano dell’Amministrazione Trump, perché non ha senso, dal punto di vista dell’economia di mercato, penalizzare le energie rinnovabili. Si può aggiungere che dal punto di vista della pura realtà non ha più senso investire nel carbone quando persino Stati come il Wyoming e il Colorado, che fino a ieri puntavano su questa fonte fossile, oggi investono massicciamente nell’energia eolica («Tages Anzeiger» 10.1.2018). Si può uscire dagli Accordi di Parigi sul clima, come ha platealmente fatto Donald Trump, ma la realtà ormai anche economica dei fatti spinge autorità e investitori in una direzione precisa, quella delle energie rinnovabili. I costi di produzione si sono fortemente ridotti e lo saranno ulteriormente in futuro. C’è un importante sforzo globale nel creare le basi per una trasformazione verde dell’economia, pur fra molte difficoltà. Anzi, ad oggi gli ostacoli sono ancora tali da far dubitare di poter raggiungere l’obiettivo di mantenere entro i due gradi centigradi il riscaldamento dell’atmosfera rispetto all’era pre-industriale: un consumo tuttora importante di carbone (in India e in Cina in primis), la lentezza nell’adozione di misure efficaci, la congiuntura economica mondiale (che volge di nuovo al bello, quindi si produce e si consuma di più) fanno accumulare altri ritardi sulla tabella di marcia. Ma anche se tutti gli Stati concretizzassero nei tempi annunciati le misure di riduzione delle emissioni di CO2, saremmo solo a metà dell’opera: per raggiungere l’obiettivo minimo di un riscaldamento non superiore ai 2 gradi non basta ridurre le emissioni, va tolto dall’atmosfera il CO2 che si è accumulato in eccesso in questi ultimi due secoli. Questo è un aspetto su cui non è ancora stato messo l’accento, politici e governanti non ne hanno ancora colto la portata. Lo sottolinea invece il settimanale «The Economist» (18.11.’17), ricordando che 101 dei 116 modelli considerati dall’Intergovernmental Panel on Climate Changes (IPCC) dell’ONU per riuscire a contenere il riscaldamento del clima in 1,5 gradi centigradi partono dal presupposto di un saldo delle emissioni di CO2 negativo, ossia che dall’atmosfera venga tolta più anidride carbonica di quanta ne viene immessa. In pratica, scrive «The Economit», si tratta di risucchiare 810 miliardi di tonnellate di CO2 entro il 2100, l’equivalente di 20 anni di emissioni al ritmo attuale – e per avere una speranza di riuscirci, bisogna cominciare a farlo su larga scala nel prossimo decennio. Ossia domani. Se ne parla poco, ma idee e tecnologie esistono già. «The Economist» cita tre importanti società mondiali attive in questo campo e una di queste, la Climeworks, ha sede a Zurigo. Il problema è che si tratta di tecnologie o approcci che richiedono un importante impiego di capitali o di superfici. Si possono creare nuove vaste foreste e investire in impianti che trasformano biomassa in energia e al contempo stoccano (nel terreno) il CO2, ma servirebbe una superficie grande come l’India. Oppure si possono esporre al sole quantità enormi di olivina, un minerale silicato che assorbe il CO2, o «catturare» il CO2 in aria, o arare meno in profondità i terreni agricoli. Si potrebbe anche sviluppare del carburante sintetico per gli aerei, alternativo al kerosene. Altre tecnologie vedranno sicuramente la luce nei prossimi anni. Come è stato il caso per le energie rinnovabili, un’importante sovvenzione statale iniziale potrebbe creare le basi per uno sviluppo tecnologico, il quale poi si autoalimenta, abbattendo i costi. Ma come finanziarlo? Come rendere interessanti simili investimenti? «The Economist» suggerisce una tassa sul CO2, affinché siano compresi anche i costi di «estrazione» dall’atmosfera. Eppure, se l’importanza di risucchiare il CO2 dall’atmosfera non è ancora riconosciuta globalmente, «The Economist» ricorda che ci sono Stati che si sono già posti un tale obiettivo: nel giugno del 2017 il parlamento svedese ha adottato una legge che obbliga il paese ad avere emissioni nette di CO2 pari a zero entro il 2045, attraverso la riduzione dell’85 per cento delle emissioni e l’estrazione di CO2 dall’atmosfera. Qualcuno deve fare da pioniere, e generalmente quel qualcuno poi ne ricava un vantaggio tecnologico ed economico sul lungo periodo. In questo caso anche a beneficio del clima. Vedremo se anche in Svizzera sorgerà un dibattito in proposito nei prossimi anni.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Società e Territorio Saper aspettare La giornalista Andrea Köhler riflette sul tempo dell’attesa nell’era della velocità tecnologica
Le donne e il gioco d’azzardo Il gioco d’azzardo problematico presenta differenze tra uomini e donne: un saggio indaga il tema da una prospettiva femminile pagina 4
Il paesaggio, patria dei pensieri Intervista a Vittorio Lingiardi che nel suo libro intitolato Mindscapes analizza il rapporto tra psicoanalisi, poesia e paesaggio pagina 5
Ritrovare il gusto dell’attesa
Pubblicazioni Nel suo ultimo saggio la giornalista Andrea Köhler riflette sul tempo e su come il legame costante
con le nuove tecnologie ci rende sempre meno tolleranti nei confronti dell’attesa
processo creativo. Pensiamo ai periodi dello sviluppo, a quei momenti della nostra esistenza che scandiscono un passaggio, e contemporaneamente, sono un momento doloroso, ad esempio la pubertà, la gravidanza. Kafka definiva questo momento l’esitazione prima della nascita. In generale, penso che gioverebbe molto a tutti noi riacquistare una maggiore tolleranza e sensibilità per questi momenti.
Natascha Fioretti Il tempo che vorremmo avere, il tempo che viviamo, il tempo che percepiamo, il tempo che immaginiamo, il tempo che ci viene regalato e quello che ci viene preso, il tempo che finisce, che non basta e, nel mentre, talvolta dolce, talvolta tremenda, l’attesa: «Su tutte le vette è quiete; in tutte le cime degli alberi senti un alito fioco; gli uccelli sono muti nel bosco. Aspetta, fra poco riposi anche tu». Ed è con i versi lievi di Goethe che Andrea Köhler, in quello che è un saggio intenso sull’esperienza personale e soggettiva del tempo nel XXI secolo, ci dà le note di avvio per imparare o, forse, riflettere soltanto, sull’arte dell’attesa, sulla capacità di vivere e di sentire ma, ancor prima, di concederci quei momenti di passaggio, di non tempo, parentesi sospese nelle quali annoiarci, perché no, lasciarci trasportare dai pensieri, dai desideri e dai sogni. In fondo, nell’epoca dell’accelerazione, dell’ubiquità e dell’iperconnessione, chi è disposto ad accettare, che tra tante pianificazioni e sollecitazioni, vi siano tempi sospesi senza nome e senza appartenenza? Chi è disposto a fermarsi, a sottrarsi al flusso? A lasciarsi sorprendere? Ce lo racconta Andrea Köhler, corrispondente culturale da New York per la «Neue Zürcher Zeitung» e autrice del saggio L’arte dell’attesa uscito di recente in italiano per add editore.
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Dare un volto ai fatti storici
Alberi genealogici La Società Genealogica della Svizzera italiana ha compiuto 20 anni Stefania Hubmann Perché Carlo e Maria sono diventati Charles e Mary? Come si è passati da 16 figli nella prima metà dell’Ottocento a uno ai giorni nostri? Qual è stata la prima cartiera del Luganese? L’albero genealogico, al di là dei dati anagrafici e dei legami di parentela, permette di rispondere a questi interrogativi, rivelando non solo la cronaca di un casato, ma anche il suo contributo alla storia del Paese. Benché lunghe e laboriose, le ricerche in ambito genealogico appassionano molte persone, diverse già anziane, altre più giovani. Ed è proprio per presentare soprattutto alle nuove generazioni questo tipo di studio che la Società Genealogica della Svizzera italiana (SGSI), in occasione del ventesimo anniversario di fondazione, ha allestito un’esposizione commemorativa già presentata con successo nel corso del 2017 in diverse località del Cantone a cominciare da Locarno, luogo di costituzione dell’associazione. Scuole, Comuni, Patriziati e altri enti interessati possono ospitarla anche durante l’anno nuovo. La mostra, che abbiamo visitato lo scorso novembre a Muzzano con la guida del presidente della SGSI Renato Simona, permette di immergersi nella storia ticinese attraverso i suoi protagonisti. «L’albero genealogico dà un volto ai fatti storici, quello delle persone che li hanno vissuti», spiega il presidente. «In questo modo eventi di grande portata come le carestie o l’emigrazione diventano più concreti, ciò che permette ai ragazzi di comprenderli con maggiore facilità». Composta da 29 pannelli (l’allestimento può essere ridotto e mirato secondo interessi e area geografica), la presentazione spazia dalla storia della Società Genealogica alle informazioni pratiche su come avviare una ricerca, alla presentazione di alberi genealogici provenienti da tutte le regioni della Svizzera italiana. Oltre a garantire assistenza e accompagnamento, gli appassionati membri della Società, oggi circa duecento, propongono in abbinamento un pomeriggio genealogico per spiegare come questa scienza sia alla portata di tutti. Di questo concetto è spesso portavoce negli incontri pubblici Giovanni Maria Staffieri, oggi presidente onorario della SGSI che ha contribuito a fondare e che ha guidato per quindici anni. La sua testimonianza: «È una ricerca che non finisce mai. Più si allargano i rami dell’albero genealogico, più la documentazione e le possibili connessioni aumentano. Io, ad esempio, mi occupo della mia famiglia da oltre 50 anni. Certo ci vuole volontà e pazienza, ma le scoperte sono a volte molto curiose e la soddisfazione compensa l’impegno profuso. Ognuno può provare a costruire l’albero gene-
Signora Köhler, si tratta del suo secondo libro sul tema del tempo, da dove nasce questo suo interesse?
È una questione umana con la quale filosofi e letterati si confrontano sin dalla notte dei tempi legata all’eterna domanda: da dove veniamo? Dove andiamo? Tra questi due momenti vi è il nostro tempo, la vita che dobbiamo gestire, un tempo nel quale essere dannati nell’eterna attesa o nel quale utilizzare attivamente il tempo. È sicuramente una riflessione legata all’avanzare dell’età, più invecchiamo e più diventa cruciale decidere come passare il tempo che ci viene dato, un tempo che non sappiamo quando si esaurirà. In particolare la mia riflessione si concentra sul tempo dell’attesa e sulla sua ambivalenza. Una cosa è l’attesa angosciosa per il
Albero genealogico della famiglia Turconi di Mendrisio. (Ti-Press)
alogico della propria famiglia, iniziando dai dati anagrafici dei parenti più stretti. La nostra società informa sulle modalità di svolgimento della ricerca che rimane però un lavoro individuale. Nel Bollettino annuale della SGSI sono raccolti interessanti contributi genealogici e storici a disposizione per nuovi studi. Altro punto di riferimento è il volume Famiglie ticinesi – Notizie e stemmi raccolti da Giampiero Corti, codice genealogico redatto dallo storico italiano all’inizio del Novecento e da noi pubblicato nel 2012». Anche l’attuale presidente sottolinea la necessità di molta costanza nell’attività di ricerca. Solo così si trovano notizie particolari e i collegamenti che permettono di ricostruire percorsi individuali ed eventi di portata più ampia. Tutto questo richiede ovviamente molto tempo. Renato Simona ha investito circa 1200 ore nell’albero genealogico della sua famiglia, originaria di Locarno, ampliando lo studio anche a quella della moglie, nata Tunzi. Quali i primi passi da compiere? Risponde il presidente: «Come affermato da Staffie-
ri, si parte dalle testimonianze familiari, utilizzando vecchie fotografie, carte d’identità, lettere, attestati. Le indagini di solito proseguono negli archivi regionali, ossia Comune, Parrocchia e Patriziato. Possono rivelarsi molto utili anche gli archivi dei giudici di pace e dei notai. Ad un livello superiore troviamo l’Archivio di Stato del Cantone Ticino, come pure la Biblioteca nazionale svizzera a Berna. Oggigiorno un grande aiuto lo fornisce la documentazione online, disponibile anche su siti internet specializzati. Per alcuni Paesi, come ad esempio Olanda e Australia, ne esistono di molto validi». L’Australia ci riporta al tema dell’emigrazione ticinese, che troviamo in diversi alberi genealogici presentati dalla SGSI nell’esposizione commemorativa. Proprio la famiglia Tunzi di Lodano è un esempio significativo a questo proposito. Racconta Renato Simona: «Nel 1855 Filippo Lorenzo Tunzi partì per l’Australia. Il fratello che voleva seguirlo riuscì a lasciare la Vallemaggia alcuni anni dopo, andando però in California. Nei
due continenti i rispettivi discendenti sono in contatto ancora oggi e si rendono visita in occasione di feste familiari particolari quali possono essere i matrimoni». La miseria che i due giovanissimi Tunzi si lasciarono alle spalle è tangibile – lo dimostrano le focacce a base di corteccia di faggio macinata – così come le disavventure in mare e i difficili inizi su suolo americano e australiano. Gli studi genealogici svolti dai membri della SGSI permettono di inquadrare anche interessanti vicende locali, come quella delle cartiere del Luganese. Attraverso la storia della famiglia Bettelini si è scoperto che la prima cartiera della regione fu quella aperta dalla famiglia Fumagalli a Canobbio. Lì si formò Giovanni Paolo Cristoforo Bettelini, il quale iniziò l’attività per conto proprio nel 1760 a Magliaso, sfruttando a proprio vantaggio il segreto di fabbricazione della carta prodotta dai Fumagalli e sottraendo loro anche il cliente principale. Ciò creò ovviamente dissidi fra le due aziende. La cartiera Bettelini rimase
attiva per 115 anni, fornendo diversi editori di giornali, come pure le stamperie di Luino e Varese. Queste e altre storie, oltre ad essere presentate nell’esposizione itinerante, che nell’estate 2018 toccherà anche il Grigioni italiano (Poschiavo), sono custodite nella sede della Società genealogica, ospitata negli spazi della Corporazione Patrizi di Mendrisio in via Noseda 5. L’intenzione del comitato è di rendere accessibile al pubblico la ricca biblioteca. Il comitato mantiene inoltre contatti sia con le società genealogiche italiane, sia con l’associazione mantello svizzera, la cui fondazione risale al 1934. Dal resto del Paese e dall’estero giungono spesso anche richieste di informazione, legate in particolare al fenomeno migratorio. Scoprire i fili che legano le varie storie e gli intrecci più impensabili è la ricompensa maggiore per il meticoloso e lungo lavoro del ricercatore genealogico. Informazioni
www.sogenesi.ch
La tecnologia non solo ci illude di tante cose, talvolta persino di essere immortali. È per questo che all’inizio e alla fine del suo saggio ci sono i versi di Goethe, per rammentarci che siamo esseri mortali e finiti? La splendida attesa di Bruno Ganz in Pane e tulipani. (Keystone)
responso di un referto medico, diversa è la dolce attesa per la telefonata del proprio amato. E poi ragiono sul tempo regalato, quel tempo in cui non siamo già pianificati e che possiamo utilizzare per ciò che è imprevedibile.
Non le sembra che nella velocità tecnologica nella quale siamo immersi abbiamo disimparato ad aspettare?
Da un lato penso che siamo sempre meno capaci di aspettare, dall’altro noto come non possiamo farne a meno: non appena vogliamo qualcosa ci tocca cliccare non so quanti programmi che poi ci dirottano su altre pagine fino a quando riusciamo ad arrivare in fondo al nostro intento. Voglio dire che le occasioni di attesa non sono diminuite, si vedono code ovunque, basta pensare alle persone radunatesi ore prima davanti ai negozi e ai centri commerciali per essere i primi ad approfittare del Black Friday. D’altro canto viviamo questa incredibile accelerazione e siamo sempre meno disposti ad aspettare, siamo meno tolleranti di fronte ai tempi di attesa di risposta di una mail o di un messaggio. Il legame permanente che abbiamo con la tecnologia ci rende intolleranti verso i tempi di attesa, i tempi morti, e questo è uno dei punti centrali del libro perché a mio vedere
in questo processo si perde qualcosa. Si perdono i tempi sospesi, i tempi vuoti che potremmo riempire in mille modi se non ci attaccassimo senza sosta allo schermo luminoso del nostro dispositivo mobile. Ci sono sempre meno spazi di intermezzo nei quali può accadere qualcosa di incalcolato e inaspettato, ogni cosa della nostra giornata è così pianificata, compressa che non vi è più tempo per altro. Qui negli Stati Uniti basta guardare i bambini, le loro giornate sono organizzate in tutto e per tutto, sono convinta che così facendo vada persa una grossa fetta del loro spazio-tempo creativo.
Ci manca il tempo ma anche la voglia di farci stupire?
Adoro fare l’esempio della fotografia che rende bene l’idea di ciò che stiamo perdendo e cioè quel tempo dell’attesa in cui non sappiamo cosa uscirà, quale foto otterremo dopo i nostri preparativi per cogliere la tal luce e tutto il resto. Questo momento sospeso, indefinito, inconsapevole, è quello che in molti ambiti della nostra vita sta scomparendo. Penso che dobbiamo riappropriarci di queste dimensioni soprattutto adesso che ci sono note le controindicazioni delle nuove tecnologie. Non è un caso che da qualche tempo vi sia un fiorire di attività legate al benessere personale e
interiore, corsi di Yoga e di meditazione per rallentare i tempi del quotidiano.
Dunque non tutto è perduto?
Il mio non è un testo pessimista, al contrario, sono convinta che abbiamo raggiunto il punto in cui le persone sono consapevoli dell’insostenibilità della condizione attuale. Il continuo consumo di informazioni, la permanente connessione a Internet portano ad un grande svuotamento interiore e ad una immensa solitudine. Nietzsche definiva la noia «la bonaccia dell’anima che precede il viaggio felice e i venti giulivi», noi invece la evitiamo, perché?
I processi creativi hanno bisogno di tempo. Se ad un tratto ci blocchiamo e non sappiamo più andare avanti non si può fare altro che prendere tempo e fare una passeggiata. La scrittura vive di ispirazione e ha bisogno di tempi sospesi, di intermezzi. La noia, è vero, ha una connotazione negativa, in tedesco si dice Langeweile, ma si può scrivere anche lange Weile e allora diventa un tempo lungo, un tempo di cui disporre. Per diversi scrittori come Walter Benjamin, Franz Kafka ma anche contemporanei come Dieter Wellershoff il tempo angoscioso della noia, il tempo duro è in realtà un attimo di ispirazione, un attimo dal quale può scaturire un
Amo questa poesia, con le sue semplici e lievi parole ci ricorda quanto siamo fragili evocando con malinconia il momento della fine. Si dice che Goethe durante una passeggiata nel bosco vide una vecchia iscrizione che metteva in guardia dal passare del tempo ricordando la fragilità e la finitezza dell’uomo. I romantici sapevano esprimersi con tale armonia di suoni e di significati creando un cosmo poetico intenso che in questo caso somiglia a una ninna nanna. L’accelerazione delle nostre vite e il nostro rapporto sempre più stretto con le tecnologie mette in crisi il rapporto con noi stessi?
Corriamo davvero il pericolo di perdere il contatto con noi stessi, le nostre risorse interiori, con quella parte di noi che ci fortifica, ad esempio il nostro rapporto con la letteratura, l’arte, la musica un rapporto che necessita tempo, tutto ciò che implica una riflessione ha bisogno di tempo. Se si cancella subito ogni cosa per fare posto ad un’altra le persone non possono maturare. Questo penso sia uno dei grossi problemi di oggi,in particolare delle giovani generazioni. Negli Stati Uniti sempre più giovani soffrono di disturbi d’ansia, un professore di Stanford mi ha raccontato che i suoi studenti non escono più dal campus e comunicano prevalentemente attraverso Internet. Ma questo contatto liquido non basta, siamo esseri fisici. Le tecnologie cambiano e ci cambiano ma la nostra nostalgia, l’impazienza, la paura, l’attesa restano immutati.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Beatrice Masini, Corale greca, Einaudi Ragazzi. Da 11 anni Alle «voci segrete / che nessuno sente / le voci delle donne / le parole che non si leggono nei poemi» è dedicata questa Corale greca, omaggio alle donne del mito e dell’epica, eroine antiche «belle stanche giovani vecchie pensose», a cui Beatrice Masini presta una voce per raccontare, dalla loro prospettiva, la loro storia. E sono eroine meste e dolci come Alcesti, che si è offerta di scendere nell’Ade al posto del marito; o lucide e timide come Ismene, la sorella «obbediente» di Antigone; fiduciose e disilluse come Arianna; selvagge e indomite come Atalanta. Questo solo per elencarne qualcuna tra le prime, alla lettera A, perché l’elenco continua lungo l’alfabeto, fino a Penelope, Prassagora e Zenaide, che è l’unica donna non proveniente dai miti, ma inventata dall’autrice: Zenaide, la panettiera ateniese che dice che le storie nutrono,
proprio come il pane. E che aggiunge un registro basso, quotidiano, al tono lirico o più drammatico delle eroine mitiche. Ma anche ogni storia di eroina mitica ha un registro e un tono tutto suo: alcune sono narrate in prima persona, altre in terza, oppure in dialogo; il ritmo si adegua alla personalità della protagonista e al contesto della narrazione. Filo conduttore di ogni storia è la rilettura intensa che Beatrice Masini fa di ogni figura femminile della tragedia, della commedia, del mito e dei poemi omerici: una rilettura in grado di darcene una luminosità, una tonalità emotiva che rinnovano e rendono sempre attuali,
sempre profondamente nostre, quelle storie antiche. Corale greca era uscito nel 2002 da EL, nell’ambito di quella lungimirante collana che era «Sirene», dedicata a donne coraggiose e forti della storia e della letteratura; ora Einaudi Ragazzi lo ripubblica in nuova veste e con nuove illustrazioni di Sara Not. Un’occasione preziosa per scoprire o riscoprire un piccolo classico della letteratura mitologica per ragazzi. Jane Clarke & Britta Teckentrup, Leone camaleonte arancione, De Agostini. Da 3 anni Un albo brioso sul consueto tema dell’animale inadeguato: dopo pinguini freddolosi, lupetti miti, gufetti che temono il buio, ecco un camaleonte che non cambia colore, ma rimane sempre di uno squillante color arancione. Povero Leone, camaleonte arancione: per lui mimetizzarsi è un’impresa difficile,
non ce la fa nella giungla, dove tutti gli altri camaleonti assumono vari toni di verde, non riesce nel deserto, dove tutti sono color sabbia, e nemmeno tra le rocce grigie della montagna. Solo quando si avvicina a un gruppo di uccelli tropicali riesce a trovare un colore simile al suo! Peccato che il mimetismo sia di breve durata, perché gli uccelli non stanno fermi come le rocce, la sabbia o le piante. E quando prenderanno il volo, Leone resterà lì, visibilissimo e sgargiante più che mai. Anzi quasi fluorescente, come ben enuncia il titolo originale, Neon Leon, di questa storia scritta con grazia dall’autrice e poetessa
inglese Jane Clarke. Ma altre sorprese sono in arrivo per Leone, e anche per il piccolo lettore, che vorrà girare le pagine incuriosito dalle vicende e interpellato direttamente dal testo: «dove credi che siano in questo momento? Per scoprirlo, ti basta girare la pagina», «ti va di dargli una mano? Digli di che colore deve diventare. Non credo ti abbia sentito. Su, dai, diglielo più forte». Sono inviti ad interagire con i personaggi, che rafforzano ed esplicitano quelli che l’adulto lettore, in ogni lettura condivisa, già dovrebbe fare spontaneamente con il bambino. Le illustrazioni piene di humour di Britta Teckentrup, a cominciare dai deliziosi risguardi di copertina (totalmente arancioni con l’occhietto che occhieggia in quello di apertura, e con un’ulteriore sorpresina in quello di chiusura), contribuiscono a farne un libro interessante sull’apprendimento dei colori e sul valore della diversità, oltre che divertente e certamente gradito.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Società e Territorio Saper aspettare La giornalista Andrea Köhler riflette sul tempo dell’attesa nell’era della velocità tecnologica
Le donne e il gioco d’azzardo Il gioco d’azzardo problematico presenta differenze tra uomini e donne: un saggio indaga il tema da una prospettiva femminile pagina 4
Il paesaggio, patria dei pensieri Intervista a Vittorio Lingiardi che nel suo libro intitolato Mindscapes analizza il rapporto tra psicoanalisi, poesia e paesaggio pagina 5
Ritrovare il gusto dell’attesa
Pubblicazioni Nel suo ultimo saggio la giornalista Andrea Köhler riflette sul tempo e su come il legame costante
con le nuove tecnologie ci rende sempre meno tolleranti nei confronti dell’attesa
processo creativo. Pensiamo ai periodi dello sviluppo, a quei momenti della nostra esistenza che scandiscono un passaggio, e contemporaneamente, sono un momento doloroso, ad esempio la pubertà, la gravidanza. Kafka definiva questo momento l’esitazione prima della nascita. In generale, penso che gioverebbe molto a tutti noi riacquistare una maggiore tolleranza e sensibilità per questi momenti.
Natascha Fioretti Il tempo che vorremmo avere, il tempo che viviamo, il tempo che percepiamo, il tempo che immaginiamo, il tempo che ci viene regalato e quello che ci viene preso, il tempo che finisce, che non basta e, nel mentre, talvolta dolce, talvolta tremenda, l’attesa: «Su tutte le vette è quiete; in tutte le cime degli alberi senti un alito fioco; gli uccelli sono muti nel bosco. Aspetta, fra poco riposi anche tu». Ed è con i versi lievi di Goethe che Andrea Köhler, in quello che è un saggio intenso sull’esperienza personale e soggettiva del tempo nel XXI secolo, ci dà le note di avvio per imparare o, forse, riflettere soltanto, sull’arte dell’attesa, sulla capacità di vivere e di sentire ma, ancor prima, di concederci quei momenti di passaggio, di non tempo, parentesi sospese nelle quali annoiarci, perché no, lasciarci trasportare dai pensieri, dai desideri e dai sogni. In fondo, nell’epoca dell’accelerazione, dell’ubiquità e dell’iperconnessione, chi è disposto ad accettare, che tra tante pianificazioni e sollecitazioni, vi siano tempi sospesi senza nome e senza appartenenza? Chi è disposto a fermarsi, a sottrarsi al flusso? A lasciarsi sorprendere? Ce lo racconta Andrea Köhler, corrispondente culturale da New York per la «Neue Zürcher Zeitung» e autrice del saggio L’arte dell’attesa uscito di recente in italiano per add editore.
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Dare un volto ai fatti storici
Alberi genealogici La Società Genealogica della Svizzera italiana ha compiuto 20 anni Stefania Hubmann Perché Carlo e Maria sono diventati Charles e Mary? Come si è passati da 16 figli nella prima metà dell’Ottocento a uno ai giorni nostri? Qual è stata la prima cartiera del Luganese? L’albero genealogico, al di là dei dati anagrafici e dei legami di parentela, permette di rispondere a questi interrogativi, rivelando non solo la cronaca di un casato, ma anche il suo contributo alla storia del Paese. Benché lunghe e laboriose, le ricerche in ambito genealogico appassionano molte persone, diverse già anziane, altre più giovani. Ed è proprio per presentare soprattutto alle nuove generazioni questo tipo di studio che la Società Genealogica della Svizzera italiana (SGSI), in occasione del ventesimo anniversario di fondazione, ha allestito un’esposizione commemorativa già presentata con successo nel corso del 2017 in diverse località del Cantone a cominciare da Locarno, luogo di costituzione dell’associazione. Scuole, Comuni, Patriziati e altri enti interessati possono ospitarla anche durante l’anno nuovo. La mostra, che abbiamo visitato lo scorso novembre a Muzzano con la guida del presidente della SGSI Renato Simona, permette di immergersi nella storia ticinese attraverso i suoi protagonisti. «L’albero genealogico dà un volto ai fatti storici, quello delle persone che li hanno vissuti», spiega il presidente. «In questo modo eventi di grande portata come le carestie o l’emigrazione diventano più concreti, ciò che permette ai ragazzi di comprenderli con maggiore facilità». Composta da 29 pannelli (l’allestimento può essere ridotto e mirato secondo interessi e area geografica), la presentazione spazia dalla storia della Società Genealogica alle informazioni pratiche su come avviare una ricerca, alla presentazione di alberi genealogici provenienti da tutte le regioni della Svizzera italiana. Oltre a garantire assistenza e accompagnamento, gli appassionati membri della Società, oggi circa duecento, propongono in abbinamento un pomeriggio genealogico per spiegare come questa scienza sia alla portata di tutti. Di questo concetto è spesso portavoce negli incontri pubblici Giovanni Maria Staffieri, oggi presidente onorario della SGSI che ha contribuito a fondare e che ha guidato per quindici anni. La sua testimonianza: «È una ricerca che non finisce mai. Più si allargano i rami dell’albero genealogico, più la documentazione e le possibili connessioni aumentano. Io, ad esempio, mi occupo della mia famiglia da oltre 50 anni. Certo ci vuole volontà e pazienza, ma le scoperte sono a volte molto curiose e la soddisfazione compensa l’impegno profuso. Ognuno può provare a costruire l’albero gene-
Signora Köhler, si tratta del suo secondo libro sul tema del tempo, da dove nasce questo suo interesse?
È una questione umana con la quale filosofi e letterati si confrontano sin dalla notte dei tempi legata all’eterna domanda: da dove veniamo? Dove andiamo? Tra questi due momenti vi è il nostro tempo, la vita che dobbiamo gestire, un tempo nel quale essere dannati nell’eterna attesa o nel quale utilizzare attivamente il tempo. È sicuramente una riflessione legata all’avanzare dell’età, più invecchiamo e più diventa cruciale decidere come passare il tempo che ci viene dato, un tempo che non sappiamo quando si esaurirà. In particolare la mia riflessione si concentra sul tempo dell’attesa e sulla sua ambivalenza. Una cosa è l’attesa angosciosa per il
Albero genealogico della famiglia Turconi di Mendrisio. (Ti-Press)
alogico della propria famiglia, iniziando dai dati anagrafici dei parenti più stretti. La nostra società informa sulle modalità di svolgimento della ricerca che rimane però un lavoro individuale. Nel Bollettino annuale della SGSI sono raccolti interessanti contributi genealogici e storici a disposizione per nuovi studi. Altro punto di riferimento è il volume Famiglie ticinesi – Notizie e stemmi raccolti da Giampiero Corti, codice genealogico redatto dallo storico italiano all’inizio del Novecento e da noi pubblicato nel 2012». Anche l’attuale presidente sottolinea la necessità di molta costanza nell’attività di ricerca. Solo così si trovano notizie particolari e i collegamenti che permettono di ricostruire percorsi individuali ed eventi di portata più ampia. Tutto questo richiede ovviamente molto tempo. Renato Simona ha investito circa 1200 ore nell’albero genealogico della sua famiglia, originaria di Locarno, ampliando lo studio anche a quella della moglie, nata Tunzi. Quali i primi passi da compiere? Risponde il presidente: «Come affermato da Staffie-
ri, si parte dalle testimonianze familiari, utilizzando vecchie fotografie, carte d’identità, lettere, attestati. Le indagini di solito proseguono negli archivi regionali, ossia Comune, Parrocchia e Patriziato. Possono rivelarsi molto utili anche gli archivi dei giudici di pace e dei notai. Ad un livello superiore troviamo l’Archivio di Stato del Cantone Ticino, come pure la Biblioteca nazionale svizzera a Berna. Oggigiorno un grande aiuto lo fornisce la documentazione online, disponibile anche su siti internet specializzati. Per alcuni Paesi, come ad esempio Olanda e Australia, ne esistono di molto validi». L’Australia ci riporta al tema dell’emigrazione ticinese, che troviamo in diversi alberi genealogici presentati dalla SGSI nell’esposizione commemorativa. Proprio la famiglia Tunzi di Lodano è un esempio significativo a questo proposito. Racconta Renato Simona: «Nel 1855 Filippo Lorenzo Tunzi partì per l’Australia. Il fratello che voleva seguirlo riuscì a lasciare la Vallemaggia alcuni anni dopo, andando però in California. Nei
due continenti i rispettivi discendenti sono in contatto ancora oggi e si rendono visita in occasione di feste familiari particolari quali possono essere i matrimoni». La miseria che i due giovanissimi Tunzi si lasciarono alle spalle è tangibile – lo dimostrano le focacce a base di corteccia di faggio macinata – così come le disavventure in mare e i difficili inizi su suolo americano e australiano. Gli studi genealogici svolti dai membri della SGSI permettono di inquadrare anche interessanti vicende locali, come quella delle cartiere del Luganese. Attraverso la storia della famiglia Bettelini si è scoperto che la prima cartiera della regione fu quella aperta dalla famiglia Fumagalli a Canobbio. Lì si formò Giovanni Paolo Cristoforo Bettelini, il quale iniziò l’attività per conto proprio nel 1760 a Magliaso, sfruttando a proprio vantaggio il segreto di fabbricazione della carta prodotta dai Fumagalli e sottraendo loro anche il cliente principale. Ciò creò ovviamente dissidi fra le due aziende. La cartiera Bettelini rimase
attiva per 115 anni, fornendo diversi editori di giornali, come pure le stamperie di Luino e Varese. Queste e altre storie, oltre ad essere presentate nell’esposizione itinerante, che nell’estate 2018 toccherà anche il Grigioni italiano (Poschiavo), sono custodite nella sede della Società genealogica, ospitata negli spazi della Corporazione Patrizi di Mendrisio in via Noseda 5. L’intenzione del comitato è di rendere accessibile al pubblico la ricca biblioteca. Il comitato mantiene inoltre contatti sia con le società genealogiche italiane, sia con l’associazione mantello svizzera, la cui fondazione risale al 1934. Dal resto del Paese e dall’estero giungono spesso anche richieste di informazione, legate in particolare al fenomeno migratorio. Scoprire i fili che legano le varie storie e gli intrecci più impensabili è la ricompensa maggiore per il meticoloso e lungo lavoro del ricercatore genealogico. Informazioni
www.sogenesi.ch
La tecnologia non solo ci illude di tante cose, talvolta persino di essere immortali. È per questo che all’inizio e alla fine del suo saggio ci sono i versi di Goethe, per rammentarci che siamo esseri mortali e finiti? La splendida attesa di Bruno Ganz in Pane e tulipani. (Keystone)
responso di un referto medico, diversa è la dolce attesa per la telefonata del proprio amato. E poi ragiono sul tempo regalato, quel tempo in cui non siamo già pianificati e che possiamo utilizzare per ciò che è imprevedibile.
Non le sembra che nella velocità tecnologica nella quale siamo immersi abbiamo disimparato ad aspettare?
Da un lato penso che siamo sempre meno capaci di aspettare, dall’altro noto come non possiamo farne a meno: non appena vogliamo qualcosa ci tocca cliccare non so quanti programmi che poi ci dirottano su altre pagine fino a quando riusciamo ad arrivare in fondo al nostro intento. Voglio dire che le occasioni di attesa non sono diminuite, si vedono code ovunque, basta pensare alle persone radunatesi ore prima davanti ai negozi e ai centri commerciali per essere i primi ad approfittare del Black Friday. D’altro canto viviamo questa incredibile accelerazione e siamo sempre meno disposti ad aspettare, siamo meno tolleranti di fronte ai tempi di attesa di risposta di una mail o di un messaggio. Il legame permanente che abbiamo con la tecnologia ci rende intolleranti verso i tempi di attesa, i tempi morti, e questo è uno dei punti centrali del libro perché a mio vedere
in questo processo si perde qualcosa. Si perdono i tempi sospesi, i tempi vuoti che potremmo riempire in mille modi se non ci attaccassimo senza sosta allo schermo luminoso del nostro dispositivo mobile. Ci sono sempre meno spazi di intermezzo nei quali può accadere qualcosa di incalcolato e inaspettato, ogni cosa della nostra giornata è così pianificata, compressa che non vi è più tempo per altro. Qui negli Stati Uniti basta guardare i bambini, le loro giornate sono organizzate in tutto e per tutto, sono convinta che così facendo vada persa una grossa fetta del loro spazio-tempo creativo.
Ci manca il tempo ma anche la voglia di farci stupire?
Adoro fare l’esempio della fotografia che rende bene l’idea di ciò che stiamo perdendo e cioè quel tempo dell’attesa in cui non sappiamo cosa uscirà, quale foto otterremo dopo i nostri preparativi per cogliere la tal luce e tutto il resto. Questo momento sospeso, indefinito, inconsapevole, è quello che in molti ambiti della nostra vita sta scomparendo. Penso che dobbiamo riappropriarci di queste dimensioni soprattutto adesso che ci sono note le controindicazioni delle nuove tecnologie. Non è un caso che da qualche tempo vi sia un fiorire di attività legate al benessere personale e
interiore, corsi di Yoga e di meditazione per rallentare i tempi del quotidiano.
Dunque non tutto è perduto?
Il mio non è un testo pessimista, al contrario, sono convinta che abbiamo raggiunto il punto in cui le persone sono consapevoli dell’insostenibilità della condizione attuale. Il continuo consumo di informazioni, la permanente connessione a Internet portano ad un grande svuotamento interiore e ad una immensa solitudine. Nietzsche definiva la noia «la bonaccia dell’anima che precede il viaggio felice e i venti giulivi», noi invece la evitiamo, perché?
I processi creativi hanno bisogno di tempo. Se ad un tratto ci blocchiamo e non sappiamo più andare avanti non si può fare altro che prendere tempo e fare una passeggiata. La scrittura vive di ispirazione e ha bisogno di tempi sospesi, di intermezzi. La noia, è vero, ha una connotazione negativa, in tedesco si dice Langeweile, ma si può scrivere anche lange Weile e allora diventa un tempo lungo, un tempo di cui disporre. Per diversi scrittori come Walter Benjamin, Franz Kafka ma anche contemporanei come Dieter Wellershoff il tempo angoscioso della noia, il tempo duro è in realtà un attimo di ispirazione, un attimo dal quale può scaturire un
Amo questa poesia, con le sue semplici e lievi parole ci ricorda quanto siamo fragili evocando con malinconia il momento della fine. Si dice che Goethe durante una passeggiata nel bosco vide una vecchia iscrizione che metteva in guardia dal passare del tempo ricordando la fragilità e la finitezza dell’uomo. I romantici sapevano esprimersi con tale armonia di suoni e di significati creando un cosmo poetico intenso che in questo caso somiglia a una ninna nanna. L’accelerazione delle nostre vite e il nostro rapporto sempre più stretto con le tecnologie mette in crisi il rapporto con noi stessi?
Corriamo davvero il pericolo di perdere il contatto con noi stessi, le nostre risorse interiori, con quella parte di noi che ci fortifica, ad esempio il nostro rapporto con la letteratura, l’arte, la musica un rapporto che necessita tempo, tutto ciò che implica una riflessione ha bisogno di tempo. Se si cancella subito ogni cosa per fare posto ad un’altra le persone non possono maturare. Questo penso sia uno dei grossi problemi di oggi,in particolare delle giovani generazioni. Negli Stati Uniti sempre più giovani soffrono di disturbi d’ansia, un professore di Stanford mi ha raccontato che i suoi studenti non escono più dal campus e comunicano prevalentemente attraverso Internet. Ma questo contatto liquido non basta, siamo esseri fisici. Le tecnologie cambiano e ci cambiano ma la nostra nostalgia, l’impazienza, la paura, l’attesa restano immutati.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Beatrice Masini, Corale greca, Einaudi Ragazzi. Da 11 anni Alle «voci segrete / che nessuno sente / le voci delle donne / le parole che non si leggono nei poemi» è dedicata questa Corale greca, omaggio alle donne del mito e dell’epica, eroine antiche «belle stanche giovani vecchie pensose», a cui Beatrice Masini presta una voce per raccontare, dalla loro prospettiva, la loro storia. E sono eroine meste e dolci come Alcesti, che si è offerta di scendere nell’Ade al posto del marito; o lucide e timide come Ismene, la sorella «obbediente» di Antigone; fiduciose e disilluse come Arianna; selvagge e indomite come Atalanta. Questo solo per elencarne qualcuna tra le prime, alla lettera A, perché l’elenco continua lungo l’alfabeto, fino a Penelope, Prassagora e Zenaide, che è l’unica donna non proveniente dai miti, ma inventata dall’autrice: Zenaide, la panettiera ateniese che dice che le storie nutrono,
proprio come il pane. E che aggiunge un registro basso, quotidiano, al tono lirico o più drammatico delle eroine mitiche. Ma anche ogni storia di eroina mitica ha un registro e un tono tutto suo: alcune sono narrate in prima persona, altre in terza, oppure in dialogo; il ritmo si adegua alla personalità della protagonista e al contesto della narrazione. Filo conduttore di ogni storia è la rilettura intensa che Beatrice Masini fa di ogni figura femminile della tragedia, della commedia, del mito e dei poemi omerici: una rilettura in grado di darcene una luminosità, una tonalità emotiva che rinnovano e rendono sempre attuali,
sempre profondamente nostre, quelle storie antiche. Corale greca era uscito nel 2002 da EL, nell’ambito di quella lungimirante collana che era «Sirene», dedicata a donne coraggiose e forti della storia e della letteratura; ora Einaudi Ragazzi lo ripubblica in nuova veste e con nuove illustrazioni di Sara Not. Un’occasione preziosa per scoprire o riscoprire un piccolo classico della letteratura mitologica per ragazzi. Jane Clarke & Britta Teckentrup, Leone camaleonte arancione, De Agostini. Da 3 anni Un albo brioso sul consueto tema dell’animale inadeguato: dopo pinguini freddolosi, lupetti miti, gufetti che temono il buio, ecco un camaleonte che non cambia colore, ma rimane sempre di uno squillante color arancione. Povero Leone, camaleonte arancione: per lui mimetizzarsi è un’impresa difficile,
non ce la fa nella giungla, dove tutti gli altri camaleonti assumono vari toni di verde, non riesce nel deserto, dove tutti sono color sabbia, e nemmeno tra le rocce grigie della montagna. Solo quando si avvicina a un gruppo di uccelli tropicali riesce a trovare un colore simile al suo! Peccato che il mimetismo sia di breve durata, perché gli uccelli non stanno fermi come le rocce, la sabbia o le piante. E quando prenderanno il volo, Leone resterà lì, visibilissimo e sgargiante più che mai. Anzi quasi fluorescente, come ben enuncia il titolo originale, Neon Leon, di questa storia scritta con grazia dall’autrice e poetessa
inglese Jane Clarke. Ma altre sorprese sono in arrivo per Leone, e anche per il piccolo lettore, che vorrà girare le pagine incuriosito dalle vicende e interpellato direttamente dal testo: «dove credi che siano in questo momento? Per scoprirlo, ti basta girare la pagina», «ti va di dargli una mano? Digli di che colore deve diventare. Non credo ti abbia sentito. Su, dai, diglielo più forte». Sono inviti ad interagire con i personaggi, che rafforzano ed esplicitano quelli che l’adulto lettore, in ogni lettura condivisa, già dovrebbe fare spontaneamente con il bambino. Le illustrazioni piene di humour di Britta Teckentrup, a cominciare dai deliziosi risguardi di copertina (totalmente arancioni con l’occhietto che occhieggia in quello di apertura, e con un’ulteriore sorpresina in quello di chiusura), contribuiscono a farne un libro interessante sull’apprendimento dei colori e sul valore della diversità, oltre che divertente e certamente gradito.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Società e Territorio
Se il gioco è un problema
M La raccolta fondi del 2017 dà 3,2 milioni
in Ticino, sul gioco d’azzardo problematico visto da una prospettiva femminile
Solidarietà Grande
Donne giocatrici Un saggio raccoglie studi internazionali, tra i quali uno condotto
Roberta Nicolò Esistono differenze tra uomini e donne nell’ambito del gioco d’azzardo problematico? Le donne hanno un diverso approccio al gioco rispetto agli uomini? A queste domande cerca di dare una risposta il saggio curato da Henrietta Bowden-Jones e Fulvia Prever, dal titolo Gambling Disorders in Women: An International Female Perspective on Treatment and Research, che offre appunto la prospettiva femminile sul tema del gioco d’azzardo. Il libro raccoglie studi internazionali di professioniste provenienti da ogni continente per mettere a sistema e sviluppare delle strategie d’intervento adatte alle donne.
Le donne giocatrici hanno caratteristiche peculiari e hanno maggiore difficoltà a chiedere aiuto «Le donne giocatrici hanno caratteristiche peculiari e nella maggior parte dei casi abbiamo notato che hanno maggiore difficoltà a chiedere aiuto ai servizi preposti – racconta Fulvia Prever – per le donne è più difficile fare outing e per potersi affidare hanno bisogno di un contesto meno connotato. All’interno della famiglia la donna ha un ruolo diverso da quello dell’uomo e, laddove si sviluppa una dipendenza, abbiamo notato che è perlopiù legata a problemi relazionali. Queste differenze sono uno dei motivi per i quali il numero di casistica riscontrato dagli studi classici, sviluppati all’interno dei servizi e dei percorsi presenti nella maggior parte dei paesi, evidenzia un basso numero di giocatrici problematiche rispetto al numero di uomini. La realtà è che le donne con problemi di gioco sono presenti nei vari paesi, ma spesso non rientrano nella casistica studiata: ecco perché servono degli studi di genere su questo tema. Un team di esperte al femminile favorisce la presa di contatto e garantisce un risultato migliore». Le esperienze sviluppate in ambito CH10972_MAJ ANNONCE MIGROS ELSEVE
di accompagnamento delle donne con problemi di gioco ha messo in evidenza questa necessità. Gruppi di ascolto con percorsi terapeutici che vadano in profondità e che comprendano una narrazione di sé, sono basilari per dare alle giocatrici il giusto contesto per poter chiedere aiuto. «Spesso – spiega la nostra interlocutrice – la donna non ha alle spalle il supporto necessario per affrontare il suo problema, le manca una rete famigliare capace di darle sostegno. In molti casi la storia delle giocatrici denota una situazione di disagio dato da violenza psicologica o fisica, da relazioni problematiche o dalla solitudine. La donna ricerca nel gioco una fuga. Uno sfogo. L’incidenza ha anche una connotazione fortemente legata alle tappe della vita: l’arrivo della menopausa, il pensionamento, la vedovanza o la sindrome del nido vuoto sono momenti delicati nella vita di una donna che possono metterla in una situazione di maggiore fragilità emotiva. Infatti la maggior parte delle donne con problemi di gioco ha un età che supera i cinquant’anni. Ecco perché nell’accompagnamento occorre lavorare molto sulle relazioni. C’è anche una sostanziale differenza nella tipologia di gioco scelto dalle donne rispetto agli uomini. Le prime prediligono giochi che hanno una funzione compensativa, sono giochi alienanti, mentre per l’uomo la ricerca di stimolo è una delle maggiori attrattive. Nella mia esperienza “sganciare” una donna che ha sviluppato una problematica di gioco è spesso più difficile». Per la Svizzera il contributo a questo saggio arriva da uno studio ticinese condotto da Anna-Maria Sani del Gruppo Azzardo Ticino Prevenzione e dell’Istituto di Ricerca sul Gioco d’Azzardo. Lo studio ha evidenziato le particolarità e le differenze delle giocatrici fra chi richiede un supporto terapeutico specializzato e in particolare sull’uso fatto dalle donne dello strumento dell’esclusione volontaria. L’esclusione volontaria è un contratto stipulato tra il giocatore e la casa da gioco, in cui il giocatore si impegna a non accedere alla sala da gioco per un determinato periodo di tempo. L’obiettivo principale dell’esclusione volontaria è di impeVECTO E2 HD.pdf 3 10/01/2018 11:14
In generale le donne preferiscono le slot machines. (Keystone)
dire l’accesso fisico ai giochi in modo da permettere un autocontrollo sul proprio comportamento. La popolazione dello studio comprende 86 giocatrici che hanno richiesto e ottenuto una riammissione al gioco (dopo un periodo di esclusione) nei Casinò ticinesi di Mendrisio, Lugano e Locarno tra il 2007 e il 2014. «Con questa analisi abbiamo potuto tracciare il profilo sociale delle donne giocatrici e comprendere l’efficacia dello strumento dell’esclusione volontaria per questa categoria – spiega Anna-Maria Sani – Abbiamo potuto constatare che, anche nel nostro paese, le fasce di età più presenti tra le donne sono quelle dai 41 ai 50 anni (38%) e dai 51 ai 60 anni (24%).Tra coloro che hanno fatto richiesta di esclusione volontaria il 49% è sposato, il 19% divorziato e il 15% celibe. Il 72% delle donne coinvolte nell’indagine ha figli e il 30% ha figli minorenni. Il gioco che viene prediletto dalle donne che frequentano i Casinò è quello delle slot machines, un gioco che non prevede abilità e che dà un risultato immediato. Durante i colloqui di riammissione è emerso che più della metà delle donne giocatrici utilizzava il gioco come mezzo di fuga
dai problemi quotidiani esistenziali. Una tipologia simile è stata riscontrata nelle giocatrici che richiedevano un supporto terapeutico specializzato a Losanna. Un dato per noi importante è che la maggior parte di queste giocatrici richiedono l’esclusione volontaria per motivi preventivi. Vedono quindi questo come uno strumento utile a prevenire comportamenti potenzialmente problematici, mentre solo per una piccola percentuale si tratta di uno strumento di effettivo controllo su un problema già esistente. Un dato che dimostra che il programma di esclusione volontaria nei casinò ticinesi viene utilizzato in maniera importante anche da giocatori sociali. Sicuramente la buona informazione alla clientela sui programmi di esclusione da parte dei casinò svizzeri ha un ruolo importante per la prevenzione del gioco in Svizzera» conclude Sani. Il testo cerca dunque di costruire una cultura di confronto e di integrazione, che trovi, anche attraverso le differenze socioculturali e antropologiche, una via per promuovere nuove indagini e strumenti di cura mirati rispetto ad un problema che la globalizzazione ha reso trasversale.
risultato per Migros e la campagna natalizia In occasione del Natale 2017 i clienti Migros hanno nuovamente dimostrato grande solidarietà con le persone in difficoltà abbandonate a se stesse. Acquistando cuori di cioccolato hanno infatti donato oltre 2,245 milioni di franchi. Migros ha aumentato di un milione l’importo della donazione, raggiungendo così una somma di 3,245 milioni di franchi da devolvere a Caritas, Heks – Aiuto alle chiese protestanti, Pro Juventute, Soccorso d’inverno e Pro Senectute. Ognuna delle organizzazioni caritatevoli riceve quindi un importo pari a 649’000 franchi. Migros si rallegra della generosità della sua clientela, che ha nuovamente dimostrato la propria solidarietà con le persone bisognose. Il ricavato della vendita di cuori di cioccolato del valore di 6, 10 e 15 franchi viene devoluto interamente e in parti uguali a cinque enti assistenziali svizzeri che utilizzeranno la somma donata per progetti destinati a sostenere persone con problemi sociali o finanziari. Anche Fabrice Zumbrunnen, presidente della Direzione generale della Federazione delle Cooperative Migros, è soddisfatto: «La raccolta fondi natalizia di quest’anno, sostenuta dal nostro spot televisivo con il folletto Finn, ha toccato molti clienti. Li ringraziamo tutti di cuore anche da parte degli enti assistenziali».
Un testimonial molto apprezzato, in particolare dai bambini. (MM) Annuncio pubblicitario
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Società e Territorio
Il paesaggio richiede immersione Intervista Nel suo ultimo saggio, intitolato Mindscapes, Vittorio Lingiardi indaga il rapporto
fra psicoanalisi, poesia e paesaggio Laura Di Corcia Che cosa cerchiamo in un paesaggio? E che tipo di esperienza è quella che ci porta a immergerci in ciò che vediamo fuori di noi? Il saggio dello psicanalista Vittorio Lingiardi, professore ordinario di psicologia dinamica presso la facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza Università di Roma, si intitola Mindscapes ed è stato pubblicato da Raffaele Cortina editore. Pagine dense e pregne che ci raccontano del legame fra poesia, psicoanalisi e paesaggio, svelandoci quanto di noi ci sia in quello che vediamo. Una geografia sentimentale che abbiamo voluto approfondire con l’autore stesso. Professor Lingiardi, questo libro – così si legge dalla prefazione – nasce da uno di quei vizi sani: quello di raccogliere, prendendole nei musei, alle mostre, cartoline con quadri di paesaggi. Perché?
In effetti, questo libro porta i segni della mia inclinazione ossessiva per la raccolta, la collezione, la ricerca di corrispondenze intime tra le cose. Ma contiene anche la disinvoltura che mi rende insofferente alle gabbie disciplinari e mi permette di passare da un campo all’altro per costruire dialoghi. Mindscapes contiene tre «p»: poesia, psicoanalisi, paesaggio. Perché raccolgo cartoline di paesaggi? Perché i luoghi sono memoria. I paesaggi di cui parlo, questo mondo di mezzo in cui noi siamo là ma quel là è anche in noi, sono per
me vere e proprie strutture psichiche. Il paesaggio non è semplice «bel-vedere» (quindi in tal senso non è una cartolina), è un’esperienza fisica, e quindi psichica. Il paesaggio richiede immersione. Una parola che mi ha aiutato a mettere a fuoco questa predilezione è quella coniata da uno dei più grandi poeti italiani, Andrea Zanzotto, il quale parlava di «paesaggire» per descrivere l’esperienza umana nel paesaggio, il nostro stare fisico nel paesaggio inteso come «deposito di tracce». Il paesaggio è la patria dei nostri pensieri, possiamo anche non vederlo. Il filosofo Merlau Ponty parlava del bastone del non vedente come dell’estensione del suo sguardo, estremità che si è trasformata in zona sensibile. Il panorama non è necessario, conoscere il paesaggio è stare al mondo.
C’è sempre una prima volta. Qual è il primo paesaggio che abbiamo visto, che abbiamo conosciuto?
Quello di chi si è preso cura di noi. Quando parla del neonato che guarda la madre, Winnicott usa un’immagine meravigliosa: dice che è come un meteorologo, scruta il volto materno per vedere se è illuminato dal sole o attraversato dalle nuvole. La presenza della meteorologia nella relazione primaria non può che evocare il tema del paesaggio. Leggendo saggi di psicoanalisi (Freud e la Klein, per esempio) si incontrano affascinanti descrizioni di bambini che si arrampicano sul corpo materno, scoprono i seni, la pancia, le gambe, il viso, e fanno dello stesso corpo materno, oppure di quello paterno,
Secondo Vittorio Lingiardi il paesaggio è la patria dei nostri pensieri. (Pixabay)
una geografia di esperienze sensoriali. In altre parole potremmo dire che la struttura del legame di attaccamento è geografica.
Il paesaggio è presentissimo anche nei sogni.
Sì. Una delle scoperte più belle che ho fatto andando a rileggere la letteratura psicoanalitica durante l’ideazione e la stesura di questo libro, riguarda proprio la presenza del paesaggio nei sogni. I sogni sono pieni di traversate, gole, mari, immersioni, deserti. L’analista deve viaggiare tra paesaggi reali e psichici, esterni e interni. Vi sono strutture fon-
danti la psicanalisi, per esempio il mito, che sono assolutamente inserite nel paesaggio. Il mito di Edipo, per esempio – e lo vediamo nei tanti dipinti che lo raccontano, da De Chirico a Bacon – è immerso nel paesaggio: l’incrocio delle strade, la rupe. Il materiale onirico, l’elemento inconscio, è anche l’esperienza primaria del sogno.
Quando si incontra una persona che inizia l’analisi, dove si finisce?
È come entrare in una città. Ogni mondo psichico ha i suoi parchi, i suoi vicoli, le sue piazze, le sue aree dismesse. Il mondo interno è come una città
che può essere percorsa attraverso l’analisi. Camminare nella città perdendo tempo coincide con l’importanza di disorientarsi nel paesaggio per infine ritrovarsi.
Mare o montagna?
Mi sono posto questa domanda che sembra apparentemente banale, ma non lo è. Perché preferiamo andare in un posto piuttosto che in un altro? Perché in quel paesaggio è custodito un «oggetto perduto», forse il viso di chi per primo ci ha guardato, o ha distolto lo sguardo. È un luogo che non può che essere dentro di noi. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Anno nuovo, altropologo nuovo Il 2018 sarà un anno speciale nella vita dell’Altropologo. Cadrà infatti il decennale dalla prima apparizione del medesimo su queste pagine. Di più, in chiave celebrativa, quando (e se!) conquisteremo il traguardo di settembre, scadenza cronologica dell’anniversario. Ma il 2018 è data storica anche perché – con giubilo dei suoi lettori – l’Altropologo è finalmente diventato virale. Esiste, ovvero, nella forma più piena dell’esistenza – quella mediatica. Sì, poiché nell’era geologica del Mediacene che segue, com’è noto, Neocene e Pleistocene, altra forma di esistenza non è data se non in quella forma di vita non-reale manifestatasi prima nel cartaceo, quindi nel telegrafaceo e dunque nel televisivo – per poi svilupparsi nelle glorie del virtuale. Già i più attenti esploratori dell’universo mediatico avevano avuto il sospetto che qualcosa stesse per succedere quando, nel 2015, fu pubblicato quel best seller a cura di Claudio Nori che ha per titolo Repertorio dei Matti della Città di Bologna. Qui, a firma di Mauro
Orletti, si (s)parlava di uno squinternato antropologo bolognese finito fra i Dayaki tagliatori di teste del Borneo con lo scopo di convertirli/riciclarli al taglio della mortadella – o qualcosa di simile. Erano peraltro costoro già stati allertati qualche anno prima. Deboli tracce in forma di onde radio captate nell’etere e trasmesse da un’emittente localizzata nelle cantine delle Due Torri – che peraltro si faceva chiamare Radio Città del Capo – avevano rivelato al mondo l’esistenza di un certo Professor Furio de’ Veloppi, docente al corso di Antropologia dello Sviluppo (Development Anthropology, in inglese) dell’Alma Mater bolognese. Dalle profondità della Groenlandia il professore antropologo vaneggiava di essere furiosamente impegnato in un progetto di sviluppo che prevedeva la diffusione del gelato presso gli Inuit (un tempo esquimesi, ma oggi si dice così per il politically correct) in lungimirante previsione – pensate – del riscaldamento globale. Insomma, i più scaltri scrutatori futurologi già avevano
sospettato che – prima o poi – quelli che sembravano solo episodici indizi si sarebbero prima o poi concretizzati – ben sempre virtualmente, s’intende – nella figura dell’Altropologo. Altropologo: s.m. Individuo di inscalfibile indolenza che, invece di dedicarsi assiduamente allo studio approfondito dell’antropologia, si dedica ad altro. La definizione si trova in rete (www.ilcalidrino.it) come uno dei primi lemmi del Calidrino, che si definisce «...piccolo dizionario anomalo di neologismi creati per descrivere cose che esistono ma non hanno nome e cose che hanno un nome ma non esistono». Andremo più tardi a scrutare nei dettagli l’autodefinizione del Calidrino, ma ora dobbiamo chiederci se – o meno – l’Altropologo in questione sia o meno l’Altropologo realmente esistente o chi/quant’altro. In web conducono esistenza virtuale almeno due suddetti personaggi: l’Uno, che si manifesta cartaceamente sul vostro settimanale preferito da una decina d’anni ed un Altro che – a quanto
pare – è apparso fra il 2014 ed il 2015, si chiama/fa chiamare Joe Barba, vive in Valsugana (Trentino) dove si fanno ottimi salami e – dice – fa di mestiere l’Altropologo (da notare un particolare cruciale: non corsivizza la prima «l»). Dunque: chi è il vero Altropologo? E di chi parla veramente il Calidrino? Il dibattito sulla diffusione dei tratti culturali o della loro origine indipendente è un classico della storia dell’antropologia. Da Franz Boas ad Alfred Kroeber e tanti altri ci si è domandato se il fuoco sia stato inventato una sola volta – per poi diffondersi... come il fuoco – oppure se sia stato inventato qua e là per poi spegnersi e ricominciare altrove. Insomma, la storia insolubile dell’acqua calda. Per fortuna con l’Altropologo le cose sono più semplici: è attestato nei formati «cartaceo» e «virtuale» dal settembre 2008 e deve pertanto essere considerato a tutti gli effetti l’Ur-Altropologo, l’Altropologo originale – che scritto in tedesco suona più autorevole. Ma quanto taglia la testa al toro e mette
tutti in pace è che nessuno – questo lo garantisco – è, può essere e mai sarà tanto più indolente del Vostro. Con la specifica, a quanto sembra sfuggita al Calidrino , che soltanto l’indolenza apparente – lo stato ovvero per il quale uno pare non interessarsi a nulla di normale e quotidiano – acuisce per contrasto l’interesse per quanto è Altro rispetto al normale ed al quotidiano. E da qui, solo da qui – insisterei – da questa assidua anomala pratica, la capacità di rendere il famigliare esotico e l’esotico famigliare – che è poi l’essenza dell’antropologia. E il Calidrino? Il suo Autore specifica che il termine è costruito da una combinazione del latino calidus e del greco hydōr, acqua e dunque – cito da www. frizzi-frizzi.it «letteralmente l’invenzione dell’acqua calda»: ipsissima verba. Domanda: quale forma di inscalfibile indolenza può mai superare quella che spinge ad inventare e reinventare l’acqua calda fino a farne un dizionario? Chi di Calidrino ferisce...
ancora oggi, dopo tanti anni, quelle dieci caramelle risplendano come gemme nella cassaforte dei vostri ricordi. Di solito gli ingrati hanno la memoria corta e dimenticano in fretta quanto ricevuto. Ricordare è già una forma di gratitudine. Ora mezzo secolo ci separa dagli anni Sessanta, ma voi siete sempre insieme e, mi pare di capire, innamorati come allora. Anche grazie a quell’episodio, tutto vostro che, generosamente, lei ha voluto condividere con noi: un regalo che ci aiuta a essere migliori. Nel frattempo le vostre condizioni economiche sono cambiate, in meglio, decisamente in meglio mi sembra di capire. Non per questo negate il passato, come spesso accade, nel timore che faccia ombra al presente. Se, come amo ripetere, più che la vita vissuta conta quella che ci siamo narrata, il vostro «romanzo» è davvero molto bello. Soprattutto oggi che il dissolversi delle buone maniere ha riposto la gratitudine tra i gesti superati, come l’inchino e
il baciamano. Si è ingrati senza neppure accorgersene e si è riconoscenti quanto basta per ottenere favori, all’insegna dei più spregiudicati rapporti di scambio. Tuttavia, come scrive il filosofo Pier Aldo Rovatti: «Ogni dono che facciamo è naturalmente legato all’intenzione di donare e all’attesa della restituzione, dunque al circolo del dare e dell’avere: ma se tutto si riducesse a quest’ultimo legame, non ci sarebbe alcun dono. Il dono, se c’è, deve essere anche slegato dal circolo, dal calcolo. Come il tabacco, il dono, deve andare in fumo». Ma spero, aggiungo io, che quel fumo profumi i vostri ricordi, per sempre. Buon anno e grazie a lei e a tutti i lettori.
allora, ci s’impegna, ormai da decenni, in un’operazione di restyling, assurda e patetica. Il termine inglese è d’obbligo, perché, proprio in quest’ambito, USA e Regno Unito sono all’avanguardia: correggendo fiabe, il lupo di Cappuccetto rosso diventa vegetariano, mettendo sotto processo romanzi, in cui le eroine sono perdenti, da Madame Bovary ad Anna Karenina. Arrivando a modificare persino il vocabolario: abolendo il prefisso «man». Ad esempio maschio craftmanship, abilità, diventa skillapplication. Si finisce, inevitabilmente, per sbandare nel fanatismo e nell’isterismo, sia pure motivato, in origine, da una buona causa. Qual è stata la correttezza politica, nata negli anni 30, negli ambienti universitari americani, con l’intento di favorire l’emancipazione di categorie svantaggiate già nella loro definizione. Quella di «negro», innanzi tutto. Da qui è partita anche la lunga marcia della parità dei sessi. Costellata
di conquiste sempre, però, da perfezionare. Ecco che, in questi giorni, le giornaliste della prestigiosa BBC stanno conducendo una battaglia che si credeva conclusa: obiettivo l’uguaglianza degli stipendi. Certo, la parità non è soltanto una questione salariale. Si allarga alla richiesta di rispetto, di protezione da offese e prevaricazioni. Ma evito di proposito la parola molestie, il cui usoabuso rischia di avere effetti deleteri. Anziché servire una giusta causa, c’è, infatti, chi se ne serve per riaffacciarsi alla ribalta. Indicativa, in proposito, la ricomparsa della conduttrice televisiva Oprah Winfrey, protagonista, nell’estate 2016, in un negozio di Zurigo, di un piccolo incidente, rivelatore: insultando una commessa che non l’aveva riconosciuta. L’Ufficio nazionale del turismo fu costretto a chiedere scusa. Adesso, Oprah si candida addirittura per la Casa Bianca. In nome della parità. Che ha bisogno di ben altri sostenitori, e fortunatamente li trova.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Il dono e la gratitudine Gentile signora Vegetti Finzi, eccomi ancora qui sperando di non disturbare. A proposito di regali. È stato un tempo che non ricevevo regolarmente la paga e questo negli anni Sessanta ed in Svizzera tedesca con tre figli da mantenere. Fare regali era alquanto difficile. Così un anno per l’anniversario di matrimonio non potendo spendere portai a mia moglie un pacchettino di caramelle Charms incartato e con un nastrino. Poi negli anni ho fatto tanti «regali» a mia moglie. Ebbene, pur avendo apprezzato gli altri «regali» di quando si stava bene, lei si ricorda sempre di quel piccolo pacchetto con 10 caramelle che definisce: l’unico regalo perché fatto quando non si poteva. Cordiali saluti. / Bruno Caro Bruno, non disturba di certo. Ogni lettore è il benvenuto nella «Stanza del dialogo», che tiene la porta sempre aperta. E grazie per aver ripreso il tema del dono con questo tenero, amabile ricordo. Lei
ci insegna, in un’epoca di sprechi e di eccessi, che non è tanto importante che cosa si dona ma come si dona. Il suo gesto, accaduto in anni difficili, rivela ciò che non sappiamo vedere: che nell’esistenza più semplice, nella vita quotidiana, si celano tesori senza prezzo, ove «quello che conta non si conta». Mi sembra di vederla mentre, percorrendo le vie del centro traboccanti di merce preziosa e costosa, torna a casa tenendo in tasca un tubetto di caramelle Charms, quelle col buco. La immagino mentre guarda le vetrine colme di oggetti preziosi e fantastica su che cosa regalare a sua moglie per ripagarla dell’amore e delle cure che dedica alla vostra famiglia. Nel confronto tra il tutto e il niente, qualcuno avrebbe potuto sentirsi umiliato, un altro esasperato, un altro ancora arrabbiato. Ma lei non è caduto nella trappola del rancore e ha fatto tesoro della gratitudine che provava per la compagna della sua vita. Una vita che, come tutte, avrà incontrato la
gioia e il dolore, la speranza e il timore, la voglia di andare avanti e la tentazione di mollare tutto. Ma la capacità di dire «grazie» fa comunque pendere la bilancia del destino verso il meglio. Vi sono tanti modi per dire «grazie» e quando questo accade, comunque avvenga, cambia il mondo attorno a noi: il buio rischiara, il gelo si scioglie, il cuore batte all’unisono con quello della persona che vogliamo onorare. Vi è differenza tra «riconoscenza» e «gratitudine». Mentre la prima conclude un ragionamento formale e compie un atto razionale, la seconda esprime un sentimento profondo, intenso, decisivo, travolgente. Che sua moglie, cui era rivolto quel dono, sia davvero una «bella persona» lo rivela la gioia con cui l’ha ricevuto e apprezzato senza fare paragoni, senza lasciarsi appannare dall’invidia e dalla gelosia nei confronti di parenti e amiche più fortunate, almeno apparentemente. Ed è significativo che non se ne sia mai dimenticata e che
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio La parità, percorso a rischio d’incidenti Il più recente è avvenuto domenica 7 gennaio, al teatro del Maggio fiorentino, dove andava in scena la prima della Carmen di Bizet, un classico del repertorio operistico, qui però in edizione aggiornata. Il regista, Leo Muscato, aveva deciso di modificare la vicenda, ricavata da un racconto di Mérimée, scritto nel 1845, rovesciando il finale. Così, ad afferrare la pistola, doveva essere lei, Carmen, la bella e libera sigaraia, che si ribella a lui, l’ufficiale don José, corteggiatore assillante e violento, e impara a farsi giustizia. Tutto ciò, nei propositi dei responsabili dello spettacolo, in nome della parità dei sessi, causa in sé sacrosanta, e per giunta più che mai attuale. Anzi, chiacchierata. Da qui, i rischi impliciti in ogni sovraesposizione mediatica: il tema si logora, si presta a malintesi, a equivoci e persino al ridicolo. Com’è, successo, imprevedibilmente, a Firenze. Nelle mani della soprano Veronica Simeoni, l’arma s’inceppa e il colpo non parte provocando
l’imbarazzo della cantante e l’ilarità del pubblico. Ma, a ben guardare, proprio quest’episodio involontario, il mancato funzionamento di un’arma affidata a una donna, finisce per assumere un significato simbolico. Sembra confermare che l’uso della violenza non è di pertinenza femminile. E, quindi, le sorti della parità non si giocano su questo
Oprah Winfrey. (Youtube)
terreno, attraverso una sorta di scambio: Carmen non subisce la violenza ma la esercita. Ora, se questa pistola inceppata ha fatto largamente notizia di cronaca, rimane, tuttavia, l’aspetto marginale di un infortunio, tutt’altro che casuale. È, invece, il frutto di una tendenza culturale che va per la maggiore: proporre, in particolare, sulle scene teatrali e operistiche spettacoli in versione, riveduta e corretta, ma si fa per dire. In realtà, lasciano perplessi i risultati di interventi che non si limitano a rinnovare la scenografia ma intaccano i contenuti di vicende, personaggi, situazioni appartenenti a epoche diverse. E come tali sono testimonianze storiche preziose: un plusvalore che spetta alle pagine immortali. Non così, secondo i sostenitori del revisionismo. Commentando la Carmen pistolera, Teresa Megale, docente universitaria di storia del teatro dichiarava: «Anche i capolavori della lirica devono vivere lo spirito dei tempi». Cioè i nostri tempi. E,
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Ambiente e Benessere Sulla via del cielo Un viaggio tra Cina, Tibet e India, attraverso deserti, valli e montagne pagina 11
Le origini del Tokaj Aszú Nato sulle colline ungheresi tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo, questo vino d’acini d’uva botritizzati conquistò i favori della nobiltà
Renault anticipa i tempi Giornalisti invitati a provare su strada la Symbioz 2 demo car, un’auto che uscirà nel 2023
L’animale dell’anno Pro Natura incorona per il 2018 la bestiola ritratta da Leonardo Da Vinci, cioè l’ermellino
Nel Far West cinese
Viaggiatori d’Occidente Lungo i confini più remoti della Cina, sulla strada del cielo
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I buoni propositi ambientali Ecologia Nella classifica della competitività
sostenibile la Svizzera è ben piazzata
Paolo Brovelli, testo e foto
Loris Fedele Quale deve essere il mondo a cui tendere per il bene di tutti? Gli obiettivi delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Sostenibile (OSS) e l’accordo sul clima siglato a Parigi nel 2015 hanno fornito al mondo l’Agenda 2030, la più potente agenda comune mai vista. Utopica, forse, ma una base su cui lavorare. Avere obiettivi comuni vuol dire che nessuno può autoescludersi. La Terra è una sola e per portare il mondo sulla strada della sostenibilità bisogna trascinare anche chi è reticente. Succede quindi che mentre Trump proclama di non credere ai cambiamenti climatici e ritira la firma americana dall’accordo di Parigi, proprio in casa sua parecchi Stati non seguano il suo esempio e, sconfessandolo, sostengano con azioni e finanziamenti i programmi che mirano alla salvaguardia dell’ambiente. Grandi associazioni e ONG ecologiste stanno beneficiando di questo effetto boomerang seguito ai proclami del presidente Trump. Sulla base di indicatori stabiliti dalla Banca Mondiale e con dati raccolti dall’ONU, è stato redatto un rapporto che assegna una graduatoria di merito alle nazioni impegnate nel promuovere azioni di sviluppo sostenibile. La classifica del Global Sustainable Competitiveness Index del 2017 è dominata dalle nazioni nord europee. Dei 135 Paesi elencati la prima è la Svezia, poi Norvegia, Islanda, Finlandia. La Svizzera occupa un lusinghiero 7° posto, davanti all’Austria (8°), alla Germania (14°), alla Francia (19°), all’Italia (31°), solo per citare le nazioni che confinano con noi. In questa classifica di competitività sostenibile la più grande economia mondiale, gli Stati Uniti, occupa il 29° posto. La Cina è al 32°, la Russia al 43°. L’India, seconda nazione più popolata del mondo, figura solo al 121° posto. La Svizzera si è assunta impegni molto ambiziosi di sostenibilità economica, sociale e ambientale. Ha attivamente partecipato al Forum politico di alto livello sullo sviluppo sostenibile del luglio 2017 a New York. La delegazione era guidata dall’ambasciatore Michael Gerber, incaricato speciale per
lo sviluppo sostenibile globale. Per la prima volta si è dato spazio alla verifica tematica di singoli obiettivi contenuti nell’OSS: la riduzione della povertà e della fame, l’alimentazione e la salute, la parità tra donne e uomini, le infrastrutture, l’industria e l’innovazione. Infine vi è stato uno sguardo critico sugli oceani e le riserve marine in generale. Le azioni in atto appaiono positive ma resta ancora molto da fare. In Svizzera c’è un processo interdipartimentale per l’attuazione dell’Agenda 2030. Nella primavera del 2018 il Consiglio federale presenterà un rapporto sui progressi fatti nella realizzazione dei vari obiettivi e deciderà le tappe successive, chiamando tutti a dare il proprio contributo. L’Obiettivo numero 1 dell’OSS è: porre fine a ogni forma di povertà nel mondo. Le crude cifre ci dicono che una persona su cinque nelle regioni in via di sviluppo vive con meno di 1,25 dollari al giorno. Questo succede soprattutto nell’Asia meridionale e nell’Africa subsahariana. Il traguardo per il 2030 è di dimezzare il numero di questi poveri, tanto più che milioni di persone vivono poco sopra questa soglia e rischiano di ricadere nella povertà: che va oltre la mancanza di guadagno e di risorse per assicurarsi da vivere. Tra le sue manifestazioni vi è anche la malnutrizione, l’accesso limitato all’istruzione, l’esclusione sociale. A ciò si lega l’Obiettivo numero 2: porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere un’agricoltura sostenibile. Circa 795 milioni di persone al mondo, una su nove, sono denutrite. Se gestite bene, l’agricoltura e la selvicoltura possono offrire cibo per tutti, ma ci vuole un cambiamento profondo nel sistema mondiale agricolo e alimentare. In più il degrado dei nostri suoli, fiumi, oceani, foreste, oltre alla perdita della biodiversità non ci stanno aiutando. Il cambiamento climatico sta esercitando pressioni crescenti sulle risorse. L’agricoltura fornisce mezzi di sostentamento per il 40% della popolazione mondiale: è bene ricordarcelo. Ma sono mal distribuiti. L’Obiettivo numero 3 è quello di garantire una vita sana e promuovere il benessere di tutti a tutte le età. L’Obiet-
Qui, nello Xinjiang, la roccia s’è fatta sabbia, emersa da un vecchio mare prosciugato dagli eoni: è il Taklamakan, il «deserto da dove non si torna indietro». Custodito da una corona di monti eccelsi, un fiume gli scorre in mezzo: è il Tarim, dal corso errante come il lago in cui si getta, il Lop Nur. Intorno stanno le oasi, coi pioppi e i canali e i coltivi. Le oasi violentate, sul filo del deserto, gridano rabbia. L’antico aspetto dei paesi è sciolto, sostituito da uno finto, con l’anima in cemento, che vorrebbe somigliare al vecchio. Tra cubi di piastrelle bianche, vuoti e casematte antiproiettile (zeppe di armi e di soldati portati da oriente dai nuovi padroni, quelli di Pechino o di Shanghai), le moschee sanno di voglia di libertà. Gli Uighuri, i turchi insediati qui da più di mille anni, già più volte signori dell’Asia Centrale, chinano la testa di fronte al progresso del Partito «che pensa per il tuo bene» (com’è scritto sui muri a rosso vivo) e ai manganelli ormai onnipresenti, qui nello Xinjiang come da tempo in Tibet, provincia cugina d’attenzioni nemiche.
Il degrado dei suoli, fiumi, oceani, foreste, oltre alla perdita della biodiversità fa a pugni con i buoni propositi. (Thames)
tivo numero 4 mira a garantire l’istruzione di qualità, inclusiva ed equa, e promuovere opportunità di apprendimento continuo per tutti. È chiaro che per molti di questi punti si impone una visione d’insieme. L’istruzione e la sicurezza alimentare, per esempio, incidono molto sull’eventuale successo dei programmi in ambito sanitario. Di cruciale importanza è il contenuto dell’Obiettivo numero 5: raggiungere l’uguaglianza di genere e l’autodeterminazione di tutte le donne e ragazze. La disparità tra i sessi nel mondo, in particolare proprio in quelle aree povere già ricordate, costituisce uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo sostenibile, alla crescita economica e alla lotta contro la povertà. La scolarizzazione delle ragazze e l’inserimento delle donne nel mondo del lavoro ha con-
sentito significativi progressi in molti paesi. Se da noi il tema della parità dei sessi ha ottenuto grande visibilità negli ultimi anni, altrettanto non si può dire nei paesi più poveri, dove disparità economica, violenza sulle donne pubblica e privata, discriminazione e assenza di diritti, stanno ostacolando vistosamente qualsiasi forma di progresso. Le pari opportunità per le donne sono nel mondo una tappa obbligata sul cammino della sostenibilità. A questo si aggiunge, come sostiene qualcuno, che i cambiamenti climatici in atto penalizzino soprattutto le donne. Sono più vulnerabili, particolarmente se vivono in povere aree rurali. Lì vanno a prendere l’acqua, la legna per cucinare, cercano cibo nella foresta. La siccità oppure le inondazioni le colpiscono duramente. Se le risorse diminuiscono, sono
le prime a essere lasciate a occuparsi della casa e dei figli e a dover abbandonare la scuola. In presenza di disastri ambientali sono le prime a morire: in parte per fragilità fisiologica, in parte perché se gravide hanno difficoltà di fuga durante evacuazioni forzate, in parte perché per indole naturale in questi casi pensano prima agli altri che a se stesse. Per ragioni di spazio abbiamo qui elencato solo 5 obiettivi, l’Agenda ne contempla 17. Gli altri temi toccano l’acqua pulita e l’igiene, l’energia pulita, il lavoro dignitoso, le infrastrutture, le disuguaglianze tra Paesi, le città sostenibili, i consumi e la produzione, le azioni per il clima, le risorse marine, gli ecosistemi terrestri, la pace e la giustizia, il partenariato globale. Auguriamoci che il 2018 ci faccia avanzare sulla buona strada.
Un ramo dell’antica Via della seta si snoda tra monti e deserto; attraverso posti di blocco dalle facce scure mi porta da Kashgar, crocevia d’Asia centrale sempre inevitabile per chi parli d’Oriente (persino adesso, con la nuova Via della seta cinese, One Road One Belt), fino a Yarkand e a Hotan, sedi d’antichi regni buddisti, tra i primi al di qua dell’Himalaya (I-IX secolo d.C.). Nulla resta del loro passato remoto, di templi e mandala, se non sotto sabbie lontane, e ora nemmeno di quello più recente, se non sotto il cemento, a parte la maestria dei setaioli, i primi fuori dell’antica Cina, e i giacimenti di giada. Ma è lassù – vedi? – lassù che la sabbia torna a essere roccia, pietra, e sale, e sale fin tra le nuvole, e arrampicandoti lungo i canaloni delle acque che caracollano rapide ci trovi un altopiano a perdita d’occhio; ci trovi dragoni a far la guardia ai templi, ora preservati, o ricostruiti... per amor del turismo. La strada si chiama G219, nel freddo gergo del catalogatore, ma mi piace chiamarla col nome più romantico di Strada del cielo, perché è una delle più elevate al mondo, attraverso deserti, pianure sassose, villaggi di ba-
racche, altissime montagne innevate, laghi da sogno, vestigia d’antichi regni perduti; e polvere. Il Tibet m’accoglie con l’Aksai Chin (foto in basso; sul sito www.azione.ch, una gallery completa), landa di soda battuta dal vento contesa da decenni tra la Cina e l’India, che la rivendica come regione del vicino Ladakh. È l’inizio del Tetto del mondo, che qui s’eleva fino a oltre cinquemila metri e il fiato lo mozza davvero, anche a star fermi. Quassù non si vive e non
s’è mai vissuto. Bisogna scollinare e scendere almeno di qualche centinaio di metri per trovare i primi sparuti abitati, eredità di centri carovanieri come Rutok, per esempio, sull’antica via per Leh, in Ladak, o sinistre mutazioni dei tanti acquartieramenti dell’Esercito popolare di liberazione, come Domar, che qui le nuove città le fondano i militari, come i castra nell’antica Roma. A Rutok stanno appunto ricostruendo il monastero, splendente nelle
sue nuove pitture parietali di Buddha, Bodhisattva e svastiche e pagode. Tutto splende dorato e rosso vivo, tutto odora d’incenso, i monaci presi nelle faccende quotidiane come in ogni monastero che si rispetti. E dalle finestre, alte sulla rocca, s’apprezza la traccia che porta a una delle tante frontiere chiuse con l’India. La Strada del cielo è un filo tra i monti, una via obbligata, come tutte le altre qui. Seguono le valli, aggirano i guadi più pericolosi, scavalcano passi evitando i cocuzzoli come prima evitavano i nemici. Una conduce verso il mitico Regno di Guge, sul trono delle sceniche rovine di Tsaparang, l’antica capitale, affacciata sul canyon del fiume Langchen Tsangpo, tra lo spettacolo roccioso della Zanda Earth Forest. Templi, stupa, sale di ricevimento, palazzi che affiorano dalla terra della montagna fieri come quando, nel X secolo, controllavano un’altra carovaniera per il subcontinente indiano, e generavano i monaci che avrebbero riportato la parola del Buddha per tutto il Tibet. Più avanti il monte Kailash, la montagna sacra, è un’altra perla sulla mia strada (foto a centro pagina). Fonte di vita, dalla sua punta austera sgorgano alcuni dei maggiori fiumi dell’Asia, a cominciare dal Brahmaputra e l’Indo. Buddisti, bon, induisti, giainisti... tutti arrivano infervorati a compiere la circumambulazione rituale, detta kora o yatra, a seconda del credo. Gli indiani sono coperti come al Polo: questi vengono da Mumbai, sono tropicali, e non si tolgono mai il piumino e gli scarponi neanche coi 20 °C delle ore diurne. E i camion rombano carichi. Vengono da Est, sono tanti, e portano la Cina a Ovest, per far città, per far la Cina grande. Per questo la strada adesso è bella, e larga, che ci devono arrivare le ruspe per prelevare i minerali, o le armi perché tutto resti in ordine, là sui pasturi, tra le tende nere di pelli di yak, tra le mandrie e le greggi, coi bimbi mocciosi e sporchi che corrono a nascondersi, le donne che filano o cuociono brodi nei mastelli, e gli uomini incartapecoriti che lasciano il lavoro per offrirti quel tè fatto di burro salato a cui sorridi a mezzo. Tante saranno le montagne da record che sfileranno alla mia destra, persino l’Everest. E tanti i monasteri e i templi del mio viaggio fino a Lhasa, la capitale del Tibet. Poveri, ricchi, splendidi o fatiscenti, non importa. Ci sarà sempre qualcuno che mi lascerà qualcosa: qualcosa che mi farà pensare.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Ambiente e Benessere Sulla via del cielo Un viaggio tra Cina, Tibet e India, attraverso deserti, valli e montagne pagina 11
Le origini del Tokaj Aszú Nato sulle colline ungheresi tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo, questo vino d’acini d’uva botritizzati conquistò i favori della nobiltà
Renault anticipa i tempi Giornalisti invitati a provare su strada la Symbioz 2 demo car, un’auto che uscirà nel 2023
L’animale dell’anno Pro Natura incorona per il 2018 la bestiola ritratta da Leonardo Da Vinci, cioè l’ermellino
Nel Far West cinese
Viaggiatori d’Occidente Lungo i confini più remoti della Cina, sulla strada del cielo
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I buoni propositi ambientali Ecologia Nella classifica della competitività
sostenibile la Svizzera è ben piazzata
Paolo Brovelli, testo e foto
Loris Fedele Quale deve essere il mondo a cui tendere per il bene di tutti? Gli obiettivi delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Sostenibile (OSS) e l’accordo sul clima siglato a Parigi nel 2015 hanno fornito al mondo l’Agenda 2030, la più potente agenda comune mai vista. Utopica, forse, ma una base su cui lavorare. Avere obiettivi comuni vuol dire che nessuno può autoescludersi. La Terra è una sola e per portare il mondo sulla strada della sostenibilità bisogna trascinare anche chi è reticente. Succede quindi che mentre Trump proclama di non credere ai cambiamenti climatici e ritira la firma americana dall’accordo di Parigi, proprio in casa sua parecchi Stati non seguano il suo esempio e, sconfessandolo, sostengano con azioni e finanziamenti i programmi che mirano alla salvaguardia dell’ambiente. Grandi associazioni e ONG ecologiste stanno beneficiando di questo effetto boomerang seguito ai proclami del presidente Trump. Sulla base di indicatori stabiliti dalla Banca Mondiale e con dati raccolti dall’ONU, è stato redatto un rapporto che assegna una graduatoria di merito alle nazioni impegnate nel promuovere azioni di sviluppo sostenibile. La classifica del Global Sustainable Competitiveness Index del 2017 è dominata dalle nazioni nord europee. Dei 135 Paesi elencati la prima è la Svezia, poi Norvegia, Islanda, Finlandia. La Svizzera occupa un lusinghiero 7° posto, davanti all’Austria (8°), alla Germania (14°), alla Francia (19°), all’Italia (31°), solo per citare le nazioni che confinano con noi. In questa classifica di competitività sostenibile la più grande economia mondiale, gli Stati Uniti, occupa il 29° posto. La Cina è al 32°, la Russia al 43°. L’India, seconda nazione più popolata del mondo, figura solo al 121° posto. La Svizzera si è assunta impegni molto ambiziosi di sostenibilità economica, sociale e ambientale. Ha attivamente partecipato al Forum politico di alto livello sullo sviluppo sostenibile del luglio 2017 a New York. La delegazione era guidata dall’ambasciatore Michael Gerber, incaricato speciale per
lo sviluppo sostenibile globale. Per la prima volta si è dato spazio alla verifica tematica di singoli obiettivi contenuti nell’OSS: la riduzione della povertà e della fame, l’alimentazione e la salute, la parità tra donne e uomini, le infrastrutture, l’industria e l’innovazione. Infine vi è stato uno sguardo critico sugli oceani e le riserve marine in generale. Le azioni in atto appaiono positive ma resta ancora molto da fare. In Svizzera c’è un processo interdipartimentale per l’attuazione dell’Agenda 2030. Nella primavera del 2018 il Consiglio federale presenterà un rapporto sui progressi fatti nella realizzazione dei vari obiettivi e deciderà le tappe successive, chiamando tutti a dare il proprio contributo. L’Obiettivo numero 1 dell’OSS è: porre fine a ogni forma di povertà nel mondo. Le crude cifre ci dicono che una persona su cinque nelle regioni in via di sviluppo vive con meno di 1,25 dollari al giorno. Questo succede soprattutto nell’Asia meridionale e nell’Africa subsahariana. Il traguardo per il 2030 è di dimezzare il numero di questi poveri, tanto più che milioni di persone vivono poco sopra questa soglia e rischiano di ricadere nella povertà: che va oltre la mancanza di guadagno e di risorse per assicurarsi da vivere. Tra le sue manifestazioni vi è anche la malnutrizione, l’accesso limitato all’istruzione, l’esclusione sociale. A ciò si lega l’Obiettivo numero 2: porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere un’agricoltura sostenibile. Circa 795 milioni di persone al mondo, una su nove, sono denutrite. Se gestite bene, l’agricoltura e la selvicoltura possono offrire cibo per tutti, ma ci vuole un cambiamento profondo nel sistema mondiale agricolo e alimentare. In più il degrado dei nostri suoli, fiumi, oceani, foreste, oltre alla perdita della biodiversità non ci stanno aiutando. Il cambiamento climatico sta esercitando pressioni crescenti sulle risorse. L’agricoltura fornisce mezzi di sostentamento per il 40% della popolazione mondiale: è bene ricordarcelo. Ma sono mal distribuiti. L’Obiettivo numero 3 è quello di garantire una vita sana e promuovere il benessere di tutti a tutte le età. L’Obiet-
Qui, nello Xinjiang, la roccia s’è fatta sabbia, emersa da un vecchio mare prosciugato dagli eoni: è il Taklamakan, il «deserto da dove non si torna indietro». Custodito da una corona di monti eccelsi, un fiume gli scorre in mezzo: è il Tarim, dal corso errante come il lago in cui si getta, il Lop Nur. Intorno stanno le oasi, coi pioppi e i canali e i coltivi. Le oasi violentate, sul filo del deserto, gridano rabbia. L’antico aspetto dei paesi è sciolto, sostituito da uno finto, con l’anima in cemento, che vorrebbe somigliare al vecchio. Tra cubi di piastrelle bianche, vuoti e casematte antiproiettile (zeppe di armi e di soldati portati da oriente dai nuovi padroni, quelli di Pechino o di Shanghai), le moschee sanno di voglia di libertà. Gli Uighuri, i turchi insediati qui da più di mille anni, già più volte signori dell’Asia Centrale, chinano la testa di fronte al progresso del Partito «che pensa per il tuo bene» (com’è scritto sui muri a rosso vivo) e ai manganelli ormai onnipresenti, qui nello Xinjiang come da tempo in Tibet, provincia cugina d’attenzioni nemiche.
Il degrado dei suoli, fiumi, oceani, foreste, oltre alla perdita della biodiversità fa a pugni con i buoni propositi. (Thames)
tivo numero 4 mira a garantire l’istruzione di qualità, inclusiva ed equa, e promuovere opportunità di apprendimento continuo per tutti. È chiaro che per molti di questi punti si impone una visione d’insieme. L’istruzione e la sicurezza alimentare, per esempio, incidono molto sull’eventuale successo dei programmi in ambito sanitario. Di cruciale importanza è il contenuto dell’Obiettivo numero 5: raggiungere l’uguaglianza di genere e l’autodeterminazione di tutte le donne e ragazze. La disparità tra i sessi nel mondo, in particolare proprio in quelle aree povere già ricordate, costituisce uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo sostenibile, alla crescita economica e alla lotta contro la povertà. La scolarizzazione delle ragazze e l’inserimento delle donne nel mondo del lavoro ha con-
sentito significativi progressi in molti paesi. Se da noi il tema della parità dei sessi ha ottenuto grande visibilità negli ultimi anni, altrettanto non si può dire nei paesi più poveri, dove disparità economica, violenza sulle donne pubblica e privata, discriminazione e assenza di diritti, stanno ostacolando vistosamente qualsiasi forma di progresso. Le pari opportunità per le donne sono nel mondo una tappa obbligata sul cammino della sostenibilità. A questo si aggiunge, come sostiene qualcuno, che i cambiamenti climatici in atto penalizzino soprattutto le donne. Sono più vulnerabili, particolarmente se vivono in povere aree rurali. Lì vanno a prendere l’acqua, la legna per cucinare, cercano cibo nella foresta. La siccità oppure le inondazioni le colpiscono duramente. Se le risorse diminuiscono, sono
le prime a essere lasciate a occuparsi della casa e dei figli e a dover abbandonare la scuola. In presenza di disastri ambientali sono le prime a morire: in parte per fragilità fisiologica, in parte perché se gravide hanno difficoltà di fuga durante evacuazioni forzate, in parte perché per indole naturale in questi casi pensano prima agli altri che a se stesse. Per ragioni di spazio abbiamo qui elencato solo 5 obiettivi, l’Agenda ne contempla 17. Gli altri temi toccano l’acqua pulita e l’igiene, l’energia pulita, il lavoro dignitoso, le infrastrutture, le disuguaglianze tra Paesi, le città sostenibili, i consumi e la produzione, le azioni per il clima, le risorse marine, gli ecosistemi terrestri, la pace e la giustizia, il partenariato globale. Auguriamoci che il 2018 ci faccia avanzare sulla buona strada.
Un ramo dell’antica Via della seta si snoda tra monti e deserto; attraverso posti di blocco dalle facce scure mi porta da Kashgar, crocevia d’Asia centrale sempre inevitabile per chi parli d’Oriente (persino adesso, con la nuova Via della seta cinese, One Road One Belt), fino a Yarkand e a Hotan, sedi d’antichi regni buddisti, tra i primi al di qua dell’Himalaya (I-IX secolo d.C.). Nulla resta del loro passato remoto, di templi e mandala, se non sotto sabbie lontane, e ora nemmeno di quello più recente, se non sotto il cemento, a parte la maestria dei setaioli, i primi fuori dell’antica Cina, e i giacimenti di giada. Ma è lassù – vedi? – lassù che la sabbia torna a essere roccia, pietra, e sale, e sale fin tra le nuvole, e arrampicandoti lungo i canaloni delle acque che caracollano rapide ci trovi un altopiano a perdita d’occhio; ci trovi dragoni a far la guardia ai templi, ora preservati, o ricostruiti... per amor del turismo. La strada si chiama G219, nel freddo gergo del catalogatore, ma mi piace chiamarla col nome più romantico di Strada del cielo, perché è una delle più elevate al mondo, attraverso deserti, pianure sassose, villaggi di ba-
racche, altissime montagne innevate, laghi da sogno, vestigia d’antichi regni perduti; e polvere. Il Tibet m’accoglie con l’Aksai Chin (foto in basso; sul sito www.azione.ch, una gallery completa), landa di soda battuta dal vento contesa da decenni tra la Cina e l’India, che la rivendica come regione del vicino Ladakh. È l’inizio del Tetto del mondo, che qui s’eleva fino a oltre cinquemila metri e il fiato lo mozza davvero, anche a star fermi. Quassù non si vive e non
s’è mai vissuto. Bisogna scollinare e scendere almeno di qualche centinaio di metri per trovare i primi sparuti abitati, eredità di centri carovanieri come Rutok, per esempio, sull’antica via per Leh, in Ladak, o sinistre mutazioni dei tanti acquartieramenti dell’Esercito popolare di liberazione, come Domar, che qui le nuove città le fondano i militari, come i castra nell’antica Roma. A Rutok stanno appunto ricostruendo il monastero, splendente nelle
sue nuove pitture parietali di Buddha, Bodhisattva e svastiche e pagode. Tutto splende dorato e rosso vivo, tutto odora d’incenso, i monaci presi nelle faccende quotidiane come in ogni monastero che si rispetti. E dalle finestre, alte sulla rocca, s’apprezza la traccia che porta a una delle tante frontiere chiuse con l’India. La Strada del cielo è un filo tra i monti, una via obbligata, come tutte le altre qui. Seguono le valli, aggirano i guadi più pericolosi, scavalcano passi evitando i cocuzzoli come prima evitavano i nemici. Una conduce verso il mitico Regno di Guge, sul trono delle sceniche rovine di Tsaparang, l’antica capitale, affacciata sul canyon del fiume Langchen Tsangpo, tra lo spettacolo roccioso della Zanda Earth Forest. Templi, stupa, sale di ricevimento, palazzi che affiorano dalla terra della montagna fieri come quando, nel X secolo, controllavano un’altra carovaniera per il subcontinente indiano, e generavano i monaci che avrebbero riportato la parola del Buddha per tutto il Tibet. Più avanti il monte Kailash, la montagna sacra, è un’altra perla sulla mia strada (foto a centro pagina). Fonte di vita, dalla sua punta austera sgorgano alcuni dei maggiori fiumi dell’Asia, a cominciare dal Brahmaputra e l’Indo. Buddisti, bon, induisti, giainisti... tutti arrivano infervorati a compiere la circumambulazione rituale, detta kora o yatra, a seconda del credo. Gli indiani sono coperti come al Polo: questi vengono da Mumbai, sono tropicali, e non si tolgono mai il piumino e gli scarponi neanche coi 20 °C delle ore diurne. E i camion rombano carichi. Vengono da Est, sono tanti, e portano la Cina a Ovest, per far città, per far la Cina grande. Per questo la strada adesso è bella, e larga, che ci devono arrivare le ruspe per prelevare i minerali, o le armi perché tutto resti in ordine, là sui pasturi, tra le tende nere di pelli di yak, tra le mandrie e le greggi, coi bimbi mocciosi e sporchi che corrono a nascondersi, le donne che filano o cuociono brodi nei mastelli, e gli uomini incartapecoriti che lasciano il lavoro per offrirti quel tè fatto di burro salato a cui sorridi a mezzo. Tante saranno le montagne da record che sfileranno alla mia destra, persino l’Everest. E tanti i monasteri e i templi del mio viaggio fino a Lhasa, la capitale del Tibet. Poveri, ricchi, splendidi o fatiscenti, non importa. Ci sarà sempre qualcuno che mi lascerà qualcosa: qualcosa che mi farà pensare.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Ambiente e Benessere
Tokaj, «il re dei vini»
Il vino nella storia L’origine del nettare d’uva appassita, frutto della pigiatura di acini botritizzati
Davide Comoli Tra il XVI e il XVII secolo sulle colline ungheresi della zona del Tokaj, si cominciò a vendemmiare separatamente i grappoli appassiti per la produzione di un vino conosciuto come «aszú bon» (vino passito). L’elaborazione di questo nuovo tipo di vino è legata secondo leggenda, al nome del pastore evangelico Maté Szepsi Laczkó. Il mito delle origini del Tokaj, racconta che dopo una vendemmia ritardata per il timore di un attacco da parte degli Ottomani, Laczkó fece pigiare gli acini botritizzati, separati dagli altri e con questi fece un vino squisito che in occasione della Pasqua del 1650, offrì in omaggio alla principessa Zsuzsanna Lorántffy consorte del Re ungherese György Rákóczi I. Quello venne considerato il giorno della nascita ufficiale del vino che fu battezzato Rex Vinorum: il Tokaj Aszú. Tuttavia già nel 1576 S.F. Balazs nella sua «Nomenclature» accennava a un vino prodotto con uve aszú e recentemente sono stati trovati documenti risalenti al 1571, dove si parlava di una spartizione di eredità e si accennava a delle botti di «vino fatto con aszú». La pratica di produzione di questo tipo di vino si estese rapidamente nella Tokajhegyalia. Nel 1700, Ferenc Rákóczi, grande e ricco possidente terriero, emanò una legge che regolamentava la viticoltura e la produzione di Tokaj. Questa legge durò per molto tempo e prevedeva tra l’altro l’istruzio-
ne professionale dei responsabili della cantina. Il principe Rákóczi, capo dei nobili regnanti in Transilvania, divenne il leader degli ungheresi nella loro rivolta contro gli Asburgo. Alla ricerca di alleati, prese contatto con lo Zar Pietro il Grande. L’invio degli emissari in Russia alla corte dello Zar fu naturalmente accompagnato da qualche barile del miglior Tokaj, tanto che lo stesso Zar, divenne promotore del suo consumo e del commercio in Russia. A partire dal XVII sec. la regione di Tokajhegyalia sviluppò ampiamente il commercio con altre nazioni, rivolgendosi in modo particolare verso la Polonia. Il commercio con il nord e con l’est si estese animato da mercanti ebrei, verso Varsavia, Danzica, Vienna, San Pietroburgo e Parigi, dove pare che Luigi XIV amasse in modo particolare questo nettare. Si arrivò addirittura a trovare un accordo con le esigenze connesse alle regole religiose degli Ebrei Ortodossi così da produrre anche un Tokaj Kosher. Di sicuro questo vino fece breccia in modo positivo su molte personalità politiche, artisti e scrittori dei secoli passati; Voltaire e Goethe cercarono spesso l’ispirazione in un bicchiere di questo liquido dorato, cui addirittura è stato reso omaggio nell’inno nazionale ungherese. La particolarità di questo celeberrimo vino, è quello di essere vinificato con uve botritizzate, cioè attaccate dalla Botrytis Cinerea, meglio conosciu-
ta sotto il nome di «Muffa Nobile». Alla fine del 1500, le varietà di uve più diffuse nell’area erano il: Fehér Szolo e il Purcsin. Solo nel 1700 il Furmint diventò il vitigno principale della regione; ancora oggi si discute sull’origine del nome: alcuni sostengono che derivi dall’antico francese forment (frumento) parola che ricorda il colore del vino, altri sostengono che l’etimologia del nome derivi dalla città di Formia, luogo d’origine di viticoltori italiani chiamati in loco. Alla fine del secolo cominciò ad affermarsi un altro vitigno l’Harslevelu (foglia di tiglio); altre varietà diffuse all’inizio dell’800 furono anche il Gohér e il Muskotály: ma Furmint e Harslevelu, dopo l’invasione filosserica del 1885, divennero i vitigni principali. Alcuni studiosi di ampelografia ungheresi, sostengono che la prima citazione del Furmint risalga al 1623 e si trovi in documenti relativi del pastore M.S. Laczkó. Il Furmint si affermò in modo particolare perché era molto adatto alla sovramaturazione e alla botritizzazione, e noi aggiungiamo con le conoscenze odierne, per la sua aromaticità. Nell’Harslevelu si nota invece un’elegante speziatura e morbidezza. Nei moderni Tokaj entra anche un cinque per cento di Muscat de Lunel (il Muskotály) che arricchisce i vini con note fruttate e floreali. Questo è il metodo elaborato della tradizione: nella vendemmia si asportano i grappoli e gli acini attaccati da
Una cantina dove il Tokaj invecchierà almeno una decina di anni . (Pxhere.com)
Botrytis. Si tengono separati dagli altri e si mettono nei puttonyos, recipienti di legno dalla capienza di circa 25 kg di aszú. I Tokaj possono contenere da due sino a sei e alle volte otto puttonyos. L’unità di misura è un fusto da 136 litri. Più alto è il numero dei puttonyos aggiunti, più alta è la concentrazione di zucchero nel vino. Ai mercati, i contadini vendevano l’aszú o andavano a proporlo ai vinificatori che immergevano la mano nei contenitori, schiacciavano l’aszú e lo annusavano affinché non ci fosse «muffa» non nobile.
Gli acini botritizzati, dopo la vendemmia vengono accumulati insieme e messi in un recipiente forato nella parte inferiore. Il succo che ne cola, per il peso dell’uva sovrastante, va a formare la preziosissima eszencia che viene consegnata in damigiane di vetro e può raggiungere 850 g/l di zucchero. Il vino così prodotto richiede in genere almeno dieci anni di evoluzione: è un vino, inutile aggiungere, estremamente dolce, con profumi di marzapane, datteri, mele al forno e confettura d’albicocca; provatelo con il Somloi-Galuska, una delizia di torta cioccolato e panna. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Ambiente e Benessere
Il Cassoulet con la variante «de Castelnaudary» Sono, sul lavoro e in cucina, molto ordinato: una grande virtù. Tutti gli articoli che ho scritto in questi anni per «Azione» stanno in un’unica cartella, dove ci metto un nonnulla di tempo a scoprire di cosa ho parlato e quando e come. Senza questo aiuto, il mio lavoro qui sarebbe quasi impossibile.
Il Cassoulet de Castelnaudary si trova anche già pronto: di fatto è una delle preparazioni che regge meglio la precottura e la conservazione Questo detto, stamane mi è venuta, così, mentre facevo colazione, voglia di mangiare un piatto che veramente amo alla follia: il cassoulet. È la più famosa ricetta della Linguadoca, a base di carne di oca (ma a volte di maiale) e fagioli. Le varianti sono parecchie, quella più nota è il Cassoulet de Castelnaudary. Nei miei viaggi in terra di Francia ne ho mangiato tantissimo, sempre con immenso piacere. Là si trova anche già pronto in barattolo, pastorizzato, dura tanto: permettetemi di dire che è una delle preparazioni che regge meglio la precottura e la conservazione. Non è poco. Bene, visto che poi mi sono messo al computer ho verificato quando ve ne avevo parlato e il computer ha risposto in maniera assurda: mai! Ho controllato tante volte, la cosa mi è sembrata e continua a sembrarmi impossibile. Chiedo scusa a voi e al cassoulet, rimedio dandovi oggi le due ricette che più amo – la prima più facile da fare, la seconda più sontuosa e complessa. Cassoulet – Ingredienti per 8 persone. Mondate una cipolla, una carota e un gambo di sedano, tagliateli a ju-
lienne e stufateli in poca acqua per 20’. Lessate per il tempo necessario 1 kg di fagioli bianchi secchi rinvenuti in acqua per 24 ore con una cipolla, una carota, un gambo di sedano e una foglia di alloro. In una pentola meglio se di ghisa fate saltare in poco burro, 2 kg di carne di oca tagliata a dadi. Dopo 5’ sfumate con un bicchiere di vino e unite il soffritto, 2 bicchieri di brodo dei fagioli, 2 cucchiai di concentrato di pomodoro stemperati in poca acqua, 2 spicchi d’aglio e un mazzetto guarnito. Cuocete coperto per 2 ore, a fuoco dolcissimo unendo poco brodo, se asciugasse troppo. Alla fine mescolate con i fagioli lessati e proseguite la cottura ancora per 20’, unendo poco brodo se necessario. Regolate di sale e di pepe ed eliminate il mazzetto. Cassoulet de Castelnaudary – Per 8 persone. Mettete in una pentola 1 kg di fagioli bianchi secchi rinvenuti in acqua per 24 ore, una carota, una cipolla picchiettata con 2 chiodi di garofano, un mazzetto guarnito, 100 g di cotenne sbollentate per 5’, 200 g di lardo tagliato a cubetti, 3 spicchi d’aglio e coprite a filo d’acqua fredda. Portate al bollore e cuocete per 1 ora e 30’. Nel frattempo, rosolate in una capace casseruola 500 g di lonza di maiale e 500 g di carré di montone tagliati a dadi con un cucchiaio di grasso d’oca o 40 g di burro. Unite 8 cucchiai di soffritto di cipolle, 2 spicchi d’aglio schiacciati e cuocete coperto per 1 ora e 30’, bagnando di tanto in tanto con brodo vegetale bollente. Quando i fagioli sono quasi pronti, eliminate il mazzetto, la carota e la cipolla e versateli nella casseruola con la carne, aggiungendo anche un piccolo cotechino spellato, 400 g di confit d’oca e una punta di concentrato di pomodoro stemperata in poca acqua. Proseguite la cottura, con il coperchio, per un’altra ora, sempre bagnando con brodo se necessario. Alla fine levate il cotechino, tagliatelo a fette e rimettetele nella casseruola; eventualmente spezzettate il confit. Regolate di sale e di pepe e servite.
CSF (come si fa)
Pxhere.com
Allan Bay
Ignis
Gastronomia La ricetta più famosa della Linguadoca
Oggi vediamo come si fanno tre ricette a base di calamari. Quelli decongelati vanno benissimo. Calamaretti fritti. Ingredienti per 4 persone. Infarinate 600 g di calamaretti puliti e friggeteli, pochi alla volta, in abbondante olio di semi di arachide ben caldo per circa 4’. Scolateli e metteteli ad asciugare su carta assorbente da cucina. Regolate di sale solo al momento di servirli, altrimenti il fritto
diventa molle. Accompagnate con maionese o salsa tartara. Calamari e carciofi. Per 4. Mondate 4 carciofi e tagliateli a spicchi, i gambi pelateli. Scaldate in una casseruola un filo d’olio con uno spicchio d’aglio mondato e leggermente schiacciato e saltate i carciofi per 2’, poi bagnateli con un mestolo di brodo vegetale e cuoceteli per 20’. Levateli e frullatene un quarto e tutti i gambi con poca acqua. Mondate 600 g di calamari e spezzettateli. Scaldate nella stessa casseruola ancora un filo d’olio e saltate i calamari per 2’. Sfumate con un bicchierino di vino bianco sobbollito per 3’ e unite 4 cucchiai di soffritto di cipolle, i carciofi e la crema di carciofo. Portate i calamari a cottura unendo poco brodo bollente, se necessario. Regolate di sale e di peperoncino
e profumate con prezzemolo tritato. Calamari e fagioli. Per 4. Mettete a mollo 150 g di fagioli secchi per 12 ore. Scolateli e lessateli per un paio di ore unendo solo 2 foglie di alloro. Mondate 600 g di calamari e spezzettateli. Scaldate in una casseruola un filo d’olio con uno spicchio d’aglio mondato e leggermente schiacciato e saltate i calamari per 2’. Sfumate con un bicchierino di vino bianco sobbollito per 3’ e unite 4 cucchiai di soffritto di cipolle, una punta di concentrato di pomodoro stemperata in poca acqua e i fagioli scolati. Portate i calamari a cottura unendo poco brodo dei fagioli bollente, se necessario. Regolate di sale e di peperoncino e profumate con prezzemolo tritato. Servire irrorando con olio. Al posto dei fagioli potete utilizzare qualsiasi legume.
Ballando coi gusti Oggi due saporiti piatti di carne, semplici da fare. Accompagnate entrambi con purea di patate o di sedano rapa.
Carré di maiale alla birra
Coniglio con olive e vermut
Ingredienti per 4 persone: 1 kg di carré di maiale · 500 g di cipolle · 1 litro di birra chiara · 1 cucchiaio di farina · semi di finocchio · 40 g di panna · burro · sale e pepe.
Ingredienti per 4 persone: 1 coniglio da 1,2 kg · 100 g di olive nere · 1 porro · 1 spic-
Mondate e tagliate a fettine le cipolle. Stufatele con poca acqua per 20’ e frullatele. In una casseruola fate rosolare uniformemente il maiale con burro. Unite le cipolle e la birra bollente e cuocete e a fuoco medio fino a quando la birra sarà evaporata, girando la carne di tanto in tanto. Quando la carne sarà morbida, scolatela e tenetela in caldo. Aggiungete nella casseruola la farina, qualche seme di finocchio e la panna e cuocete mescolando per 3’. Regolate di sale e di pepe. Tagliate il carré a fette e servitelo nappato con il sugo.
chio di aglio · 1 rametto di rosmarino · timo · vermut dry · brodo di vitello o vegetale · olio di oliva · sale e pepe.
Mondate, lavate e tagliate a pezzi il coniglio. Spezzettate il porro e cuocetelo con poca acqua per 20’, poi frullate. Scaldate in una casseruola 1 giro di olio con l’aglio mondato e leggermente schiacciato e aghi di rosmarino, unite il coniglio e rosolatelo in maniera uniforme. Sfumate con il vermut dealcolato in un pentolino per 3’, aggiungete il porro tritato e poco brodo bollente e cuocete per 45’, unendo brodo se necessario. Unite le olive e cuocete per altri 15’, mescolando. Profumate con timo, regolate di sale e di pepe e servite.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Ambiente e Benessere
Un vero salotto su quattro ruote Motori Si chiama Symbioz 2 ed è prodotta dalla Renault, ma è ancora solo una demo car
Mario Alberto Cucchi Showcar, concept, prototipi, demo car. Vengono svelati ogni anno dai costruttori automobilistici ai Saloni di Ginevra, Detroit, Francoforte, Parigi. Auto il cui arrivo nelle concessionarie è al di là da venire. Auto che non si possono ancora comprare e che in alcuni casi non avranno un futuro. La differenza
più grande si ha tra prototipi non funzionanti e automobili marcianti. Spesso, infatti, i concept, le showcar mostrate durante i saloni non sono altro che esercizi di stile il cui scopo è valutare la reazione del grande pubblico per poi decidere se proseguire o meno con il progetto. Quando invece i costruttori automobilistici implementano motori e tecnologie fino a rende-
re questi mezzi marcianti, ebbene la strada che li separa dal debutto nelle concessionarie diventa più semplice e veloce. Facciamo un esempio concreto. All’ultimo Salone di Francoforte, nel 2017, sullo stand Renault è stata svelata una delle più affascinanti interpretazioni del futuro a guida autonoma: la concept Symbioz. Un prototipo che non si poteva guidare. Ma ecco che
a fine dicembre la Casa francese ha invitato i giornalisti a provare su strada la Symbioz 2 demo car. Un veicolo autonomo, elettrico e connesso. Si tratta sempre di un prototipo, ma questa volta funzionante al cento per cento e dotato di guida autonoma di quarto livello. Un mezzo che prefigura un futuro non molto lontano. Il 2023 secondo Renault. La prova di guida autonoma si è svolta in Normandia su un tratto di autostrada lungo 47,6 chilometri e aperto alla normale circolazione. La guida autonoma di quarto livello, conosciuta anche come mind off ovvero «a mente spenta», non è per ora autorizzata dal codice della strada se non a livello sperimentale. Il Ministero dei Trasporti francese, dopo sei mesi di negoziati con il costruttore, ha autorizzato il test a condizione che a bordo ci fosse un supervisore ovvero un ingegnere della Casa con i doppi comandi a portata di mano pronto a intervenire in caso di emergenza. Sì, perché a guidare non era il pilota, ma l’automobile stessa a cui era delegata la guida. Accelerazioni, frenate, sorpassi, cambi di corsia, il tutto mentre il guidatore faceva qualsiasi cosa fuorché tenere il volante e prestare attenzione alla strada. A controllare l’auto ci pensa l’elettronica grazie ai radar e ai sensori a ultrasuoni situati sotto la carrozzeria, alla telecamera frontale posizionata sotto il parabrezza, alla telecamera posteriore integrata nella losanga Renault, alle telecamere laterali integrate nelle maniglie delle porte.
Symbioz demo car viaggia grazie a due motori elettrici situati sul retro del veicolo e ognuno dedicato a una ruota posteriore. Le prestazioni? Il veicolo passa da 0 a 100 km/h in soli sei secondi e vanta una coppia massima pari a 660 NewtonMetro. La potenza massima? 500 kW. Le batterie che hanno una capacità di 72 kWh si possono ricaricare all’80% in meno di trenta minuti. L’autonomia per ora non è stata dichiarata. Altra particolarità da evidenziare è il telaio 4Control a quattro ruote sterzanti che ottimizza la tenuta di strada del mezzo. Il comfort di bordo è garantito dalle dimensioni importanti: 4,92 metri di lunghezza per 1,92 di larghezza e 1,44 di altezza. Quando si opta per la guida autonoma il volante e il cruscotto arretrano di 12 centimetri e i sedili anteriori possono ruotare uno verso l’altro di dieci gradi. Un vero salotto marciante che per ora non si può ancora comprare.
Filmato Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch il video di un test con la Renault Symbioz Demo Car.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Ambiente e Benessere
(N. 49 - ... trenta metri, ventisei ruote)
L’ermellino della Dama 1
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S T O P 9 10 O U T Natura G Mondoanimale Riflettori11accesi sul piccolo mustelide, portabandiera del 2018 di Pro 12 13 R A V I 14 15 no, stavolta eletto animale dell’anno da T R E A Maria Grazia Buletti Pro Natura: «Scegliendo questo piccolo 16 17 18 Alzi la mano chi non conosce il dipin- mustelide come animale del 2018, lanE L I T R to La Dama con l’ermellino: una tavola ciamo un appello a favore di paesaggi di pressappoco cinquanta centimetri rurali interconnessi e ricchi di struttu19 20 quadrati del grande Leonardo da Vinci re che vanno a vantaggio di numerose A N T A che rappresenta la quindicenne Cecilia specie animali e vegetali, non solo del 21 predatore». In questo modo, 22 Gallerani, allora concubina di Ludovi- piccolo A S I A co Sforza, che tiene in braccio proprio l’associazione porta avanti progetti di questo simpatico animaletto. Databile «rimessa in rete» degli ambienti 23 e nelle al 1488-1490, il dipinto è oggi esposto sue riserve naturali crea le condizioni U T D a Cracovia ed è ritornato alle cronache ideali per quel cacciatore che è, per l’ap24 l’ermellino (Mustela erminea). qualche anno fa, quando si è scoperto punto, che in realtà gli ermellini erano due, Slanciato, dal peso medio di apT R E M I
non uno: il primo lo si vede a occhio nudo, mentre l’altro, appena sotto il bianco dell’animale, è invisibile anche ai raggi X, agli infrarossi e alla fluorescenza. Lo ha rivelato un’attenta analisi che ha fatto capo a una particolare tecnica (Layer Amplification Method) messa a punto nel 1998 dall’ingegnere ottico francese Pascal Cotte. Gli storici dell’arte hanno trovato le loro spiegazioni ai tre rimaneggiamenti che il grande Leonardo ha apportato al suo quadro nel quale pare che l’ermellino non figurasse affatto, almeno nella prima versione. Fu per volere del Duca Ludovico Maria Sforza, riconosciuto dal Re di Napoli nel 1488 come membro dell’ordine dell’ermellino, a far apparire l’animale nel quadro. Infine, la presenza dei due ermellini si spiega con li fatto che nella terza e ultima versione il nostro mustelide diventa più grande, sempre a causa dell’ambizione del Duca di Sforza che voleva ben rappresentato questo suo simbolo di forza e potere. Arrivando ai giorni nostri, e alle nostre latitudini, scriviamo una nuova storia e diamo nuova luce all’ermelli-
pena 300 grammi per una lunghezza di 30 centimetri, è uno dei più piccoli predatori indigeni della Svizzera che per sopravvivere necessita di un ambiente molto variegato. Abile cacciatore di topi, se non dispone di corridoi costellati di strutture in cui nascondersi 1 nemici, 2 esso3 diventa 4 facile5 preda dai di parecchi nemici naturali fra i quali la 9volpe, la cicogna, l’airone cenerino e parecchi altri rapaci fra cui gufo e poiana, per i quali è un boccone prelibato. 12Predatore e preda al tempo stesso,13 questo piccolo carnivoro in Svizzera si 15 è specializzato in arvicole terrestri: 16 paffuti topolini che vivono e scavano cunicoli sotto i prati, costellandoli di 17 «Per gli agricoltori mucchietti di terra. l’ermellino, che si nutre in media di un roditore al giorno, è un prezioso 19alleato, mentre se il suo cibo scarseggia non disdegna la caccia di altri roditori, uccelli e insetti o persino qualche21 spuntino vegetariano». È un animale territoriale e conduce un’esistenza solitaria oppure in famiglie matriarcali. Parlando di habitat e 24 dell’importanza della sua diversificazione, Pro Natura ne sottolinea le pecu-
ne, l’ermellino torna anche nelle zone dalle quali era sparito, bloccando in tal modo l’esplosiva diffusione dei topi. L’incremento demografico di questi animaletti è tuttavia di breve durata: «Almeno la metà dei piccoli muore già durante il primo inverno, mentre la sua 6 7 8 età media in natura è comunque di soli uno o due anni, anche se in cattività può raggiungere gli 8». 10 11 In inverno la sua livrea è candida, mentre d’estate è marrone sul dorso 14 e bianca sul ventre, ciò che può farlo confondere con la donnola (Mustela nivalis): «Sono due specie indigene molto simili di aspetto, per distinguere le quali bisogna osservare la coda: 18 quella dell’ermellino ha sempre l’estreUn esemplare di ermellino. (ProNatura-Stefan Gerth) mità nera, quella della donnola è intemarrone. SUDOKU PER AZIONE -ramente NOVEMBRE 2017Inoltre, in inverno 20 liarità: «Vive in un paesaggio aperto e la lunga e spesso pericolosa ricerca di il mantello della donnola non diventa ricco di piccole strutture ben connesse una femmina disposta ad accoppiarsi». bianco come quello dell’ermellino che N. 41 FACILE Schema Soluzione tra di loro,22 in modo da offrire moltissiSebbene in Svizzera, fuori dagli risulta essere comunque imparentami nascondigli, territori di caccia e assi 2insediamenti e dai to anche con faina, martora, puzzola, 5 4 boschi, 8 l’animale 3 2 9 5 6 1 4 7 8 di 23 migrazione. L’ermellino si procura dell’anno 2018 sia presente quasi ovun- lontra e tasso». Vuoi vedere che il gossip 8 6 4 dei 1 giorni 7 8 nostri, 9 3 secondo 5 2 il cibo nei prati, mentre i piccoli sono6 que1dai7fondovalle fino ai 23000 metri di leonardesco 7 in Ticino 4 2 lo si 6 partoriti al riparo di cataste di legna o5 8quota, trova attualmen- cui l’ermellino 5 8 7 tenuto 3 4 in2braccio 1 6 dalla 9 mucchi di pietre. Siepi, strisce erbose o 7te solo 9in altitudine. Dama1in realtà è un furetto, sia dovuto 5 6 2 Il territorio di un 7 3 9 5 6 2 8 4 rive di ruscelli semplificano al maschio individuo può raggiungere i 40 ettari e a questa grande famiglia allargata?
(N. 50 - Marte, Monte Olimpo, Ventidue)
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N O C5 C H I Schema O7 3 6 2 4 5 4 2 8 3 4Soluzione: 1 4 7 Scoprire i 3 9 E1 C H4 I N S9 8 15 6 97 numeri corretti 4 9 5 1 6 5 6 da inserire nelle 5 1 6 3 1 8 5 2 A E S T O 6 4 caselle colorate. Giochi per “Azione” - Dicembre 2017 2 6 7 4 4 9 2 4 8 1 Stefania Sargentini A F 7 R8 A L6 5 9 3 1 3 8 7 4 9 5 7 5 3 18 19 20 (N. 49 - ... trenta metri, ventisei ruote) I C S 1 2U3 7N8 1 2 R 7O 6 S T O P R E T 6I N2A 9 N. 43 DIFFICILE CU3 R T O N1 O O T GI A C M E S T 9 8 4 1 4 8 3 2 26 27 R A V I S P O V E 9 1 7 9 5A3 8T1 A RT E AT T II M T C O3NI 5 9 2 7 6 5 9 30 31 E L I T R A L I S E 6N I8 N3 A M 2 E416 1 7 I 8 A N5 T A 1 4 O 9 8 9 2 6 5 33 A S I 4 A1 9 L R 6 A S S O L A T573O7 2 4 U T D O S
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6 1 5 4 7 8 2 3 22. Sono uguali nel diritto 25. C’è anche quello di testa TROVA LE RISPOSTE – 5 Pianeta: 4 MARTE – La sua vetta 7 più8alta:9 MONTE 1 3 OLIMPO 2 6 5 (N. - Marte,del Monte 27. 50 La memoria PC Olimpo, Ventidue) Alto chilometri: VENTIDUE. N. 44 GENI 30. Le3iniziali di Torricelli 1 2 4 5 6 7 8 4 9 1 8 5 2 7 6 M A R T I7 R E M O N 9 10 11 3 7 5 6 4 1 9 2 E T6 E R O L O I R 3
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VERTICALI 1. A fin di bene... 2. Giocare senza… ali 3. Determina il successo del ristorante 4. 101 romani 5. Interno in breve 6. Uno strato del nucleo terrestre 10. Borsa a Parigi 11. Occulta, misteriosa 13. Pianta dalla quale si estrae un famoso olio 15. Lo Jacopo foscoliano 17. Gli amici ne godono reciprocamente 18. Contrapposta all’altra 19. Lo sono i personaggi pubblici 20. Grasse
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
T I R R O A M L A V E N C I I A T E L
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il7 cruciverba 3 8 1 2 5 9 2 6 9 3 5 2 1 4 6 9 8 7 N. il45 FACILE e unaarrosto delle 2 carte regalo da 50 franchi con sudoku (N. 51 - “No, ho chiesto con patatine”) 3
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ORIZZONTALI 1. Nodo su rami e tronchi 7. Danno ripetizioni a voce... 8. Le iniziali del conduttore Savino 9. Due di spade 10. Un mezzo di questo... 12. In posizione intermedia 14. Il cuore degli eroi 16. In alcune espressioni... 18. Prescelto da Dio 21. Accessorio per auto 23. Può offendere 24. Istanti 26. Neri, oscuri 28. Tredicesima lettera dell’alfabeto greco 29. Nome inglese 31. Già in latino 32. Illuminato dal sole 33. Pronome personale
R E T T E
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Cruciverba Al ristorante un violinista si avvicina a un tavolo: «Ha chiesto lei un pezzo di Paganini?» Trova la risposta dell’interlocutore leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere evidenziate. (Frase: 2, 2, 7, 7, 3, 8)
R E T I N A A M E S T S P O V E invaTviene IstrenuamenteCdifesoOdagli N sori dello stesso sesso. Malgrado ciò, la variabile: «A interApopolazione Lrisulta I S delleEanvalli irregolari, si verificano nate favorevoli ai topi, durante le quali l’arvicola O terrestre si riproduce con maggiore frequenza. L’ermellino reagia quest’abbondanza di cibo con una Lsce R altrettanto potenziata. riproduzione Dunque: negli anni normali una femOmina Spartorisce da 4 a 6 cuccioli, mentre in quelli con molte prede i piccoli possono arrivare fino a 13». T Con I l’aumento della popolazio-
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T R E M8 I T I 6 1Soluzione della settimana precedente
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I vincitori
S2 E T A9 M E5 S3S 16 L2 A T T E 7 3 T O1 T 8 17 18 Vincitori del concorso Cruciverba O4 E V E6 N 2T7 I 19 20 su «Azione 50», dell’11.12.2017 C I A 5 I. Medici, C.V. Bertolini,22R. Terzi 9UP 21 I A D 7 Vincitori del concorso Sudoku 23 su «Azione 50», dell’11.12.2017 S6 A L 5 4T S. Hüssy, A.24Beye 1 8 E L 3 E9 N A 13
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I premi, cinque carte regalo Migros (N. Partecipazione online: inserire luzione, corredata da nome, cognome, 51 - “No, ho chiesto arrosto conlapatatine”) del valore di 50 franchi, saranno sor- soluzione del cruciverba o del sudoku indirizzo, email del partecipante deve 2 3 4 5 6 teggiati tra i partecipanti che avranno 1 nell’apposito formulario pubblicato essere Azione, N O spedita C C aH «Redazione I O 8 fatto pervenire la soluzione corretta 7 sulla pagina del sito. Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». E C H I N S entro il venerdì seguente la pubblica- Partecipazione postale: la lettera o Non si intratterrà corrispondenza sui 9 10 A ELe vie legali S Tsono O escluse. Non zione del gioco. la cartolina postale che riporti la so- concorsi. 11 12 13 A F R A L
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è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Il nome dei vincitori sarà pubblicato su «Azione». Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Politica e Economia Diario da Israele Gerusalemme e Tel Aviv, 1. parte: come si svolge la vita dopo la decisione di Trump?
Un piccolo re scomodo Sono rientrate in Italia le spoglie di Vittorio Emanuele III, re non amato a causa del suo atteggiamento passivo verso il fascismo pagina 19
Il Papa in Cile e Perù Venerdì 19 il pontefice farà tappa a Puerto Maldonado. Sarà l’inizio simbolico del cammino del Sinodo speciale che ha indetto per il 2019 sull’Amazzonia
In difesa dell’italiano A colloquio con Verio Pini, per anni consulente della Cancelleria federale per la politica linguistica
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Le due Coree hanno raggiunto un’intesa di negoziati militari per avviare una parziale distensione della penisola. (AFP)
Usa-Cina, la vera questione è Taiwan
Asia Contemporaneamente al parziale disgelo fra le due Coree si riaccendono le minacce cinesi di riprendersi l’isola Lucio Caracciolo C’è una regola quasi fissa nella geopolitica dell’Asia orientale: ciò che accade a Taiwan si riflette sulla Corea e viceversa. Le ultime settimane hanno portato al significativo riavvicinamento tra le due Coree, segnalato dalla riapertura di un dialogo pragmatico sulle Olimpiadi di Pyeongchang. Questo è il frutto di una doppia scelta. Anzitutto, quella sudcoreana di non cedere alle pressioni americane che sarebbero potute sfociare in una vera e propria guerra preventiva contro il Nord. Secondo, il successo tattico ottenuto da Kim Jong-un, che facendo leva proprio sull’opposizione sudcoreana alla guerra ha costretto almeno per ora Trump a rinviare ogni ipotesi bellica nella penisola divisa. Per la prima volta da oltre un anno, da quando cioè gli Stati Uniti hanno pubblicamente denunciato la capacità nordcoreana di attaccare con armi atomiche il territorio nazionale, l’opzione militare viene di fatto sospesa. Anche perché, di tanto in tanto, i coreani si ricordano di essere una nazione divisa in due e non solo due Stati ideologicamente e geopoliticamente rivali. Contemporaneamente a questo parziale disgelo intercoreano, ecco riaprirsi d’improvviso la questione di Taiwan. Già da alcuni anni in Cina è av-
viato un pubblico dibattito sulla scelta strategica compiuta da Mao Zedong nel 1950, quando decise di appoggiare Kim Il-sung nella sua avventura di riconquista dell’intera penisola coreana, piuttosto che inseguire le truppe del Guomindang fuggite e arroccate a Taiwan per difendere l’ultimo lembo di quella che ancora oggi si definisce Repubblica di Cina. Evidentemente Mao pensava di poter regolare la questione formosana dopo che i suoi alleati nordcoreani avessero preso il controllo totale del loro Paese, di fatto però facendone ancora una volta uno Stato tributario dell’Impero del Centro. Errore grave. Non solo Kim Il-sung dovette arrestarsi al 38° parallelo, ma la Repubblica Popolare Cinese dovette fare i conti con la decisione americana di considerare Taiwan parte fondamentale della propria sfera di influenza in Asia. Fino a ieri la discussione sull’intelligenza strategica o meno di Mao in quella fase era rimasta circoscritta a circoli accademici o mediatici. Oggi è diventata affare di Stato. Lo stesso Xi Jinping vi ha accennato nel corso del 19° Congresso del Partito, in cui ha fissato per il 2050 l’appuntamento con il «grande ringiovanimento della nazione cinese». Tesi che, nell’interpretazione dominante, significa che quella Cina dovrà essere riunita nei suoi confini nazionali. Si dovrà cioè dare sanzione
pratica all’affermazione per ora propagandistica di Pechino per cui Taiwan altro non è che un’isola ribelle, da riportare prima o poi nel grembo della patria, cui appartiene. Un autorevole studioso cinese, a capo di un importante think-tank governativo, già collaboratore di Xi Jinping quando questi guidava la scuola centrale del Partito comunista cinese, ha tratto dalle mezze frasi del presidente una sua tesi, recentemente pubblicata, secondo cui la Cina riconquisterà Taiwan entro il 2020. Con la forza. L’autore di questo scritto strategico si chiama Deng Yuwen e non ha peli sulla lingua. Secondo lui è inevitabile che entro quella data l’Esercito Popolare Cinese muova alla riconquista dell’arcipelago ribelle. Perché una scadenza così ravvicinata? Per almeno quattro ragioni. Primo, ogni anno che passa sull’isola si rafforza l’identità taiwanese e si disperde quella originaria cinese. La propaganda di Pechino non riesce a fare breccia nei cuori e nelle menti dei taiwanesi. Secondo, i partiti politici taiwanesi contano sempre meno e in particolare quelle forze che guardano con qualche simpatia a una futura riunificazione con la madrepatria si stanno indebolendo. Terzo, anche se il partito del Guomindang dovesse riconquistare il potere, oggi gestito da dirigenti inclini all’indipen-
dentismo o quantomeno indisponibili alla riunificazione, il partito pro-cinese non avrebbe la forza di promuovere la riunificazione. Quarto, l’opinione pubblica nella Repubblica popolare cinese reclama il ritorno di Formosa a casa. Si tratta evidentemente di un obiettivo improbabile, non fosse che per i rapporti di forza aereo-navali tra Cina e Stati Uniti e per la decisione con cui l’America ha sempre difeso l’indipendenza di Taiwan, pur essendosi accomodata alla formula della One China (Cina unica), che consente il riconoscimento reciproco e una convivenza competitiva tra Washington e Pechino. Ma non bisogna dimenticare che il presidente Xi Jinping è un idealista. Ed è profondamente convinto di dover portare a termine nei prossimi anni contemporaneamente la riunificazione della Cina e la sua affermazione come prima potenza mondiale. Per questo, come tutti gli idealisti, è disposto a correre rischi che razionalmente appaiono eccessivi. Sul fronte americano, intanto, Trump sta stringendo i bulloni della sua strategia di contenimento della Cina. Alla Casa Bianca, ma anche al Congresso, si sta rafforzando il partito di coloro che vorrebbero tornare a agitare lo spettro delle «due Cine» per tenere sotto scacco le ambizioni di Xi Jinping. Già la famosa telefonata di
Trump, prima di insediarsi alla Casa Bianca, alla leader di Taiwan segnalava questa tendenza, poi momentaneamente repressa. Oggi però l’ago della bilancia strategica americana pare di nuovo inclinare verso la sfida piuttosto che verso il compromesso con Pechino. Si annunciano barriere daziarie, miranti a soffocare la crescita dell’economia cinese, e allo stesso tempo si sollecitano i vicini della Cina a opporsi alla strategia delle nuove vie della seta. Progetto cui Xi Jinping ha legato il suo nome, che apparentemente mira a stringere commercialmente e infrastrutturalmente la Cina al resto dell’Eurasia e anche all’Africa, ma di fatto si offre come un vero e proprio movimento di contro-globalizzazione in salsa cinese. La partita coreana e quella taiwanese si svolgono parallelamente e forse un giorno si incroceranno. È chiaro che un compromesso oppure una guerra in uno dei due teatri molto probabilmente comporterà un compromesso oppure una guerra anche nell’altro. Ma dal punto di vista sia cinese che americano fra le due questioni quella davvero decisiva è Taiwan. Perché lì si decide dell’unità o meno della Repubblica Popolare Cinese, idolo al quale il Partito comunista e in maniera particolarmente robusta il suo attuale leader si sacrificano quotidianamente.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Politica e Economia
Diario da Israele
Gerusalemme-Tel Aviv – 1. parte In questo reportage si vuole sondare l’impatto subìto dalle due città
in seguito al riconoscimento americano della nuova capitale israeliana Federico Rampini La prima sorpresa è all’atterraggio. Mia moglie era stata in Israele una volta sola, 38 anni fa. Conservava un ricordo allucinante dei controlli di sicurezza: lunghi e severi interrogatori ai passeggeri in arrivo, una perquisizione dei bagagli, guai ad avere un tubetto di dentifricio, l’addetto alla sicurezza te lo spremeva davanti agli occhi. Io c’ero stato ben più di recente ma sempre al seguito di presidenti americani; quindi presumevo di aver goduto di un trattamento privilegiato, dentro la carovana della Casa Bianca. Dunque eravamo preparati al peggio. E invece l’aeroporto Ben Gurion ci ha lasciati scivolare via senza controlli particolari, anche la formalità del visto è stata veloce, l’esame del passaporto è passato in un lampo, nulla a che vedere con le file estenuanti a cui viene sottoposto un turista in arrivo al JFK di New York. Primo mito infranto: Israele non ti accoglie come un paese in stato di assedio. Non lo è.
In generale, l’effetto Trump che sembrava tremendo da lontano, è pressoché inesistente La decisione di fare questo viaggio per me aveva un significato particolare. L’ultima volta ero stato a Gerusalemme seguendo Donald Trump nel suo primo viaggio all’estero. Maggio 2017. La tappa precedente l’avevamo fatta a Riad dove era sbocciato l’idillio fra questo presidente e la monarchia saudita. Ma nessuno immaginava la «rivoluzione» del principe Mohammad bin Salman. O la sconfitta dell’Isis in Siria, con il conseguente ritorno in forze della Russia in quell’area. O le rivolte in Iran. L’impatto di Trump in Medio Oriente ancora non è chiaro ma potrebbe essere significativo. Tornare per una decina di giorni in Israele senza i vincoli del lavoro al seguito di un presidente americano, mi attirava. Poi c’era stata, alla vigilia della nostra partenza dagli Stati Uniti, la mossa su Gerusalemme. Il riconoscimento americano che quella è la capitale d’Israele. Per certi versi un atto dovuto: il Congresso di Washington votò in tal senso nel 1995. Oppure un’ovvietà, visto che Parlamento e governo si trovano a Gerusalemme e non a Tel Aviv. Per altri versi l’annuncio di Trump era stato una bomba. La stragrande maggioranza dei governi mondiali, compresa l’intera Unione europea, rimane fedele a un principio: lo status di Gerusalemme non può essere deciso finché non c’è un accordo di pace con i palestinesi che sistemi tutte le questioni territoriali. Punto di partenza dovrebbero essere i confini precedenti alla Guerra dei Sei Giorni (1967) e quindi il futuro Stato palestinese dovrebbe avere Geusalemme Est come capitale. Inoltre lo statuto di Gerusalemme è gravido di significato per le tre religioni monoteiste che se la contendono: l’ebraica, l’Islam, i cristiani. Da New York dove avevo seguito lo strappo di Trump, l’impressione era di un finimondo. Un’organizzazione palestinese, Hamas, aveva annunciato «la Terza Intifada» (rivolta), i media descrivevano una situazione esplosiAnnuncio pubblicitario
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va. Con mia moglie e i miei figli, ci eravamo interrogati sul da farsi. Molti ci consigliavano di cancellare il viaggio. Per fortuna non lo abbiamo fatto. Tel Aviv ci ha accolto calorosamente, e non solo per il clima ben più mite dell’inverno nordamericano. È la città più emblematica del volto che Israele vuole esibire per sedurre gli investitori stranieri. Giovane, eccitata, mondana, modaiola. Piena di locali dove si mangia e si beve, si ride e si balla fino a tarda notte. Un po’ Miami e un po’ Barcellona, un po’ Brooklyn e un po’ Rio. Bruttissima dal punto di vista architettonico: si salvano solo l’antica Jaffa che fu un porto pre-romano e conserva un’impronta araba; e il quartiere Bauhaus dove ebrei tedeschi in fuga dalle persecuzioni portarono lo stile architettonico degli anni Trenta. Per il resto, orridi grattacieli costruiti sulla spiaggia proprio come in Florida. Folle di runner ciclisti e surfisti. In questo anche californiana, perché gli stessi ragazzi che corrono e fanno surf, o a sera tarda si divertono nei mille ristoranti, li ritrovi nelle start-up del miracolo tecnologico israeliano. «Nazione start-up», ama definirsi oggi Israele, divenuto uno dei poli più avanzati dell’innovazione tecnologica. Non è solo marketing. Al Nasdaq, la Borsa americana dove si quotano le aziende hi-tech, ci sono più società israeliane di quante ne abbia l’intera Unione europea. Tel Aviv è anche città laica, dove il sabato ci sono tanti negozi aperti e in quanto a ristoranti l’unico rischio è il tutto esaurito, troppe prenotazioni. Ma proprio per questo Tel Aviv sta ad Israele un po’ come New York sta all’America: non è rappresentativa. Gli equilibri demografici, ideologici, valoriali, si sono spostati altrove. La religione che a Tel Aviv è una presenza fra tante altre, non particolarmente invasiva o ingombrante, detta legge in molte altre aree del paese. Tel Aviv è l’eccezione, non la regola. Spostarsi a Gerusalemme è un viaggio breve (un’ora di autobous, 25 minuti quando entrerà in funzione la nuova ferrovia veloce) ma è come trasferirsi in un paese diverso. Il fascino di questa città è formidabile. Quando ci sei, ti prende allo stomaco. Perfino Roma, Città Eterna per definizione, non compete alla pari: qui ci sono tre religioni che hanno messo radici profonde e inestricabili tra loro, hanno impresso strati di paesaggio e di storia. La prima di queste religioni in ordine di nascita, con i «rotoli del Mar Morto» scoperti nel deserto del Negev viene fatta risalire a otto secoli prima di Cristo, quando neppure Roma esisteva. Solo i cinesi possono vantare una continuità così antica nella loro civiltà, e non è un caso se ne incontro tanti che visitano Gerusalemme. La potenza simbolica di Gerusalemme è tale, che per alcuni visitatori è insopportabile. Esiste una «sindrome di Gerusalemme», patologica, per cui ogni anno qualche visitatore viene ricoverato in stato confusionale, convinto di essere un profeta o che l’Apocalisse sia imminente. Non scherzo. Io l’avvicino gradualmente, da lontano. Un approccio classico, la più tradizionale delle vedute d’insieme, è dal Monte degli Ulivi dove Gesù Cristo avrebbe passato l’ultima sera della sua vita nell’orto del Getsemani. Da lì hai una prospettiva sull’immenso cimitero ebraico sottostante, seguito poi da un cimitero islamico: quasi una metafora di una città che ha fatto scorrere tanto sangue in nome di Dio. Più in là c’è il gioiello celebre, il monte che sorregge il duomo dorato costruito da Solimano il Magnifico, da dove Ma-
Il Muro Occidentale o Muro del Pianto, nel cuore della Città Vecchia. Secondo le credenze ebraiche, sorreggeva il primo tempio, di Salomone, e il secondo, ricostruito dopo il ritorno dall’esilio babilonese. (AFP)
ometto sarebbe asceso in cielo. E poi la terza moschea più importante per i musulmani dopo Mecca e Medina. E la Chiesa del Santo Sepolcro. Ma al Monte degli Ulivi è vicina un’immensa costruzione moderna, della Chiesa dei Mormoni: dallo Utah a qui, buoni ultimi, anche loro hanno sentito l’insopprimibile esigenza di esserci. Qualche giornale aveva descritto una Gerusalemme piena di manifesti che inneggiano a Trump. Dopo lunghe ricerche, con fatica ne trovo un paio, non molto visibili. In generale, l’effetto-Trump che sembrava tremendo da lontano, è pressoché inesistente. Gli israeliani per lo più lo approvano ma considerano che quella sua dichiarazione non fa che riconoscere una realtà. Le proteste palestinesi al nostro arrivo sono già finite. Come noi tantissimi turisti non si sono fatti impressionare dagli annunci della Terza Intifada. La città trabocca di visitatori, il
boom degli arrivi quest’anno (+20%) è in netto contrasto con quel che accade nei paesi vicini. La paura di attentati ha ridotto il turismo in Egitto Tunisia Turchia. In Israele no, anzi. Gerusalemme come Tel Aviv colpisce per la rilassatezza, la normalità dei controlli di polizia. Per chi arriva da città blindate per prevenire gli attentati come New York, Londra, Parigi o Bruxelles, i controlli di sicurezza israeliani non sono appariscenti. C’è più polizia in divisa sotto casa mia a Manhattan che nel centro di Gerusalemme. Le spiegazioni variano a seconda delle fonti interrogate. C’è chi sottolinea il salto tecnologico israeliano, con videocamere onnipresenti. C’è chi ricorda la militarizzazione ormai «normale» (in visita-premio ai monumenti storici sfilano gruppi di militari di leva con mitra a tracolla) e l’addestramento a intervenire nelle emergenze da parte dei civili, spesso anch’essi armati. C’è
Donne palestinesi fanno il bagno sulla spiaggia di Tel Aviv. (AFP)
chi evoca un altro paradosso: il governo di destra guidato da Netanyahu mantiene una cooperazione costante con le forze dell’ordine palestinesi, interessate a evitare gli attentati. Sono partito dagli Stati Uniti prima di Natale in una situazione di isolamento e condanna verso Trump dopo il riconoscimento di Gerusalemme. Da Israele devo considerare una prospettiva diversa. Nel frattempo non è nei territori palestinesi bensì in Iran che è esplosa la rabbia della società civile. La novità sembra convalidare le accuse di Trump al regime degli ayatollah. I manifestanti scesi in piazza nei giorni scorsi accusano la classe dirigente di foraggiare gruppi armati in Siria e in Libano, mentre la situazione economica iraniana resta pessima, con inflazione e disoccupazione ai massimi. In poche settimane a cavallo dell’anno nuovo la percezione sembra capovolta. Invece dell’isolamento di Trump, è evidente la terribile solitudine dei palestinesi. L’Arabia saudita che era uno dei pilastri a loro sostegno, ha espresso una condanna puramente rituale contro le parole di Trump su Gerusalemme. Nella realtà continua a consolidarsi la triangolazione fra Trump, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, e l’uomo forte del nuovo corso saudita Mohammad bin Salman. Tutti d’accordo nel considerare l’Iran il nemico numero uno in quest’area del mondo. Il sostegno saudita ai palestinesi è sempre più evanescente, la loro causa ha perso priorità anche in altre aree del mondo arabo. Netanyahu approfitta di questi rapporti di forze per rafforzare lo status quo. Ma la seconda parte del mio viaggio, nei territori occupati, mi confermerà quanto lo status quo sia insopportabile, inaccettabile, immorale.
.Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Politica e Economia
Il rientro di un Savoia imbarazzante
Vittorio Emanuele III Gli è stata rifiutata la sepoltura nel Pantheon
e le spoglie del penultimo monarca italiano sono ora in Piemonte Alfredo Venturi Dunque il piccolo re riposa nella basilica barocca di Vicoforte nel vecchio Piemonte sabaudo che già da quattro secoli custodisce i resti di Carlo Emanuele, il cinque-seicentesco principe guerriero soprannominato «Testa di fuoco» che vantava fra i suoi antenati. Ma alcuni fra i famigliari, oltre ai nostalgici della monarchia sabauda che ancora sognano la restaurazione, avrebbero voluto un’altra compagnia per Vittorio Emanuele III, quelle del padre Umberto I e del nonno Vittorio Emanuele II, i suoi predecessori sul trono d’Italia le cui tombe monumentali si offrono ai turisti che a milioni visitano il maestoso recinto del Pantheon nel cuore di Roma. Per quasi mezzo secolo re d’Italia: non è forse un requisito sufficiente per la trionfale sepoltura nel tempio che i romani dedicarono a tutti gli dei dell’Olimpo? Non proprio, se consideriamo come svolse il suo ruolo nei 46 anni compresi fra il regicidio di Umberto I e l’abdicazione del successore nel paese sconvolto dal delirio fascista e da una guerra catastrofica. Un bilancio segnato da un paio di generazioni devastate da due conflitti mondiali, due guerre coloniali, vent’anni di tirannide. Alla fine, la faticosa riconquista di un assetto democratico non poteva che prescindere dal sovrano che aveva assecondato quegli eventi. Dal re che rifiutò di firmare la proclamazione dello stato d’assedio per bloccare l’assalto fascista al potere, e che più tardi firmò le scellerate leggi dell’arbitrio a cominciare da quelle che sancivano le discriminazioni sulla base di presunte inferiorità razziali. Del capo di Stato che nel turbine della guerra lasciò la sua capitale in balia degli eventi abbandonando al loro destino le forze armate prive di istruzioni. I monarchici sostengono che la tumulazione al Pantheon poteva essere un gesto di riconciliazione nazionale, una pietra sopra le laceranti divisioni del passato. Riconciliazione sì, ribattono le istituzioni di Roma e la netta maggioranza dell’opinione pubblica, ma non oltre il consenso al ritorno in Italia dei resti regali, alla loro traslazione nella basilica di Vicoforte.
Molti, come la comunità ebraica e l’associazione che difende la memoria della guerra partigiana, sostengono che anche questo consenso contraddice una giusta lettura della storia e delle personali responsabilità del penultimo re d’Italia. Anche perché il retour des cendres è avvenuto con un volo di Stato e un reparto militare ha reso gli onori al feretro regale. Tutto questo sulla base di un accordo seguito a lunghi anni di negoziato fra alcuni esponenti dei Savoia e le autorità italiane. Faceva parte dell’intesa la rinuncia alla pretesa di portare quei resti al Pantheon: ma è proprio su questo punto che i famigliari del re si sono divisi, con il pronipote Emanuele Filiberto, uomo di mondo e di televisione, in prima fila a sostenere che una sepoltura davvero regale spettava al bisnonno. E alla bisnonna, la regina Elena di Montenegro, che ha preceduto di pochi giorni l’approdo a Vicoforte del marito Vittorio Emanuele. La coppia aveva condiviso l’esilio ad Alessandria dopo l’abdicazione e il passaggio delle consegne al figlio Umberto, il «re di maggio» detronizzato dalla scelta repubblicana degli italiani nel referendum del 2 giugno 1946. Il 28 dicembre 1947 il re esule morì e venne sepolto nella cattedrale cattolica della città egiziana, dopo un solenne funerale di Stato con tanto di feretro trasportato su un affusto di cannone, per volontà del re d’Egitto Faruk, anche lui presto destinato all’esilio. La regina vedova si trasferì a Montpellier dove morì nel 1952, e proprio di qui i suoi resti hanno raggiunto Vicoforte. Nei primi anni della repubblica c’era in Italia un partito monarchico relativamente forte che reclamava il ritorno delle salme regali e la loro traslazione al Pantheon, arrivando a immaginare una restaurazione tale da restituire la corona a Umberto II, che fino alla morte nel 1983 aspetterà invano la sua ora nell’esilio portoghese di Cascais. Poi pian piano la nostalgia monarchica scompare dal panorama ideale e politico, riducendosi all’ostinazione più o meno folkloristica di pochi irriducibili, a loro volta divisi fra chi parteggia per la linea dinastica dei Savoia, considerando re in pectore dapprima Umberto,
quindi il nipote omonimo di Vittorio Emanuele, e chi invece attribuisce la dignità sovrana al ramo collaterale dei duchi d’Aosta, molto meno compromessi con il fascismo. Ma ormai si tratta di dibattiti fra pochi intimi, tanto che nel 2002 il parlamento italiano può tranquillamente abrogare la norma transitoria della Costituzione che vietava ai discendenti di sesso maschile dei re d’Italia l’ingresso nel territorio nazionale. La norma era stata inserita nella legge fondamentale per evitare che si organizzassero manifestazioni monarchiche attorno ai pretendenti al trono. Ma ormai da tempo la forma repubblicana dello Stato si è consolidata e l’ombra della restaurazione è definitivamente scomparsa dall’orizzonte politico. Siamo ai primi anni del terzo millennio, oltre un secolo è passato dall’ascesa al trono del penultimo re d’Italia. Il principe di Napoli, come era stato chiamato per sottolineare l’impegno unitario della corona, aveva trent’anni in quella torrida estate del 1900, quando a Monza l’anarchico Gaetano Bresci volle vendicare le politiche repressive degli anni precedenti uccidendo il re Umberto I. Automatica la successione ereditaria, e così il piccolo principe schivo e introverso, che si dilettava di numismatica e adorava immergersi nel fragore delle grandi manovre militari, divenne il terzo sovrano del regno d’Italia. Quattro anni prima aveva sposato Elena di Montenegro: un matrimonio fortemente voluto dalla madre del principe, la regina Margherita, e dal governo di Roma per ragioni insieme eugenetiche e diplomatiche. Si trattava da un lato d’interrompere la consuetudine delle nozze fra consanguinei (la stessa Margherita era cugina del marito Umberto) migliorando la struttura genetica della dinastia, dall’altro di sottolineare, facendo della principessa montenegrina la futura regina d’Italia, l’attenzione italiana all’area balcanica. Fu una coppia tutt’altro che mondana. A re Vittorio non interessava la vita di società, preferiva studiare le sue monete (è autore di un ponderoso trattato sulla numismatica italiana) e seguiva con solenne distacco le vicende della politica. Lo faceva sulla falsariga
La statura era oggetto di ironia: Alberto I del Belgio con V. Emanuele III. (Wikimedia)
dello statuto che a suo tempo il bisnonno Carlo Alberto aveva introdotto nel regno di Sardegna, nucleo originario della futura Italia unita, mettendolo al passo con i tempi. Re costituzionale, almeno fino a quando ritenne di rassegnarsi all’irruzione sulla scena del fascismo. Eppure l’esperienza della prima guerra mondiale aveva promosso la sua immagine rendendola popolare: il «re soldato» amava trattenersi al fronte, spesso ispezionava le prime linee spingendosi fino alle trincee avanzate. Era un uomo coraggioso: scherzando sulla sua bassa statura, un metro e cinquantatré, diceva di considerarsi un bersaglio assai difficile da centrare. Era anche piuttosto permaloso: quando suo cugino, il duca Amedeo d’Aosta che era alto quasi due metri, osò definire la coppia reale «Curtatone e Montanara», con beffardo riferimento non solo alla storica battaglia ma anche alla statura del re e alla rustica provenienza della regina, lo bandì dalla corte, quasi a confermare gli antichi dissapori fra i due rami della dinastia. Quel tratto fisico non cessava di perseguitarlo: lo chiamavano «Sciaboletta» perché era stata realizzata per lui un’arma di ridotte dimensioni, che potesse cingere senza che passando in rassegna le truppe o in altre circostanze formali strisciasse rumorosamente sul terreno. Il destino ha voluto che quest’uomo così ritroso, di poche parole che
spesso pronunciava in piemontese, fosse confrontato alle vicende di uno dei secoli più cruenti della storia. Le sue scelte rivelano un’impronta di fatalistica inerzia. Avrebbe potuto stroncare il fascismo sul nascere, ma non volle saperne di mobilitare l’esercito: non lo fece per sfuggire alla responsabilità di scatenare una guerra civile. Del resto credeva che il paese sarebbe guarito presto dalla febbre squadrista, e dunque ritenne opportuno non ostacolare il governo del duce, arrivando fino ad avallare la vergogna delle leggi razziali. Con Mussolini ebbe rapporti spesso burrascosi, ma generalmente i brontolii regali erano determinati dal fatto che re Vittorio teneva più all’etichetta che all’etica. Per esempio lo faceva infuriare la condivisione con il duce del titolo di Primo maresciallo dell’Impero (io, il re, pari grado con quel plebeo!), ma dovette ingoiare il rospo. Quanto a Mussolini, più volte sollecitato da Hitler a sbarazzarsi dell’ingombrante sovrastruttura monarchica, un giorno confidò a Galeazzo Ciano che ne aveva abbastanza di quella coabitazione istituzionale, ma in fondo «il re ha settant’anni e spero che la natura mi aiuti». Alla fine Vittorio Emanuele lo fa arrestare dai carabinieri ma ormai è troppo tardi, quel gesto non può bastare per garantire al piccolo re la gloria del Pantheon.
Amazzonia, un viaggio e poi il Sinodo
Vaticano Papa Bergoglio di nuovo in America Latina: al centro la difesa delle foreste e il sacerdozio di uomini sposati Giorgio Bernardelli A pochi mesi dal viaggio in Colombia papa Francesco torna di nuovo nella sua America Latina: una settimana tra il Cile e il Perù, per un viaggio che avrà il suo momento culminante venerdì 19 nell’incontro a Puerto Maldonado con le popolazioni dell’Amazzonia. Il primo Papa ad aver voluto dedicare un’enciclica al tema della salvaguardia dell’ambiente (la Laudato Sì, pubblicata nel giugno 2015) farà tappa nel luogo simbolo per eccellenza della corsa al consumo di terra e risorse che sta compromettendo gli equilibri ecologici del Pianeta. Puerto Maldonado è il capoluogo della regione di Madre de Dios, una delle regioni amazzoniche del Perù, che dopo il Brasile è il secondo Paese per estensione di aree della grande foresta dell’America Latina. Ma Puerto Maldonado è anche uno spaccato interessante delle contraddizioni e delle ferite che l’Amazzonia continua a subire in nome di un modello di sviluppo ma-
lato, che depreda inquinando e senza portare vantaggi reali alle popolazioni locali. Nonostante sulla carta sia un’area protetta, la regione di Madre de Dios ha perso negli ultimi anni 100 mila ettari di foresta. E li ha persi principalmente per il richiamo della corsa all’oro, presente in quantità rilevanti nel suo sottosuolo. Le stime più attendibili dicono che da questo angolo del Perù si estraggono tra l’11 e il 14% delle quantità del metallo prezioso per antonomasia immesse ogni anno sui mercati globali. Ed è un’estrazione che intorno a Puerto Maldonado avviene nell’illegalità più assoluta: sono tuttora i piccoli cercatori d’oro ad estrarre bruciando zone di foresta e utilizzando metodi fortemente inquinanti per separare l’oro dal fango. Nella città dei cercatori d’oro, quindi, papa Francesco incontrerà le delegazioni delle popolazioni native dell’Amazzonia, che arriveranno qui non solo dal Perù ma anche dal Brasile e dagli altri sette Paesi su cui si estende
la grande foresta. Si calcola che siano oggi circa 900 mila gli indios che la abitano, appartenenti a 240 gruppi diversi, con lingue e culture proprie. Papa Francesco li incontrerà per ripetere al mondo quanto scritto nell’enciclica Laudato Sì e cioè che la violenza commessa nei confronti dell’ambiente va di pari passo con quella che colpisce le popolazioni originarie dell’Amazzonia. Non è solo un’immagine ad effetto: si tratta di una cruda realtà. Anche il 2017 è stato un anno pesantemente segnato dagli omicidi ai danni degli attivisti delle comunità indigene, impegnati in battaglie contro nuove concessioni per latifondi o imprese minerarie o progetti di mega-dighe idroelettriche in Amazzonia. In America Latina negli ultimi anni si è ucciso sempre di più pur di continuare a soddisfare la sete di materie prime a basso costo richieste dai mercati globali. Insieme alla sua carica di denuncia l’incontro di Puerto Maldonado segnerà per la Chiesa cattolica anche l’inizio di un cammino: papa Francesco ha
infatti già annunciato che nell’ottobre 2019 terrà a Roma un Sinodo dedicato specificamente all’Amazzonia. Un appuntamento che avrà certamente al centro la questione della difesa della foresta, ma assumerà anche altri significati per il mondo cattolico. Perché quest’area del mondo è tuttora una delle frontiere missionarie più difficili per la Chiesa cattolica: anche in Paesi cattolicissimi come sono quelli dell’America Latina, gli indios che vivono fuori dalle aree urbane restano un mondo a sé che richiede un’attenzione particolare. Così sta crescendo, ad esempio, il tema della teologia india, cioè un modo di ripensare il cristianesimo che sappia valorizzare anche la storia, le culture e le stesse visioni religiose ancestrali dei popoli dell’Amazzonia. Dentro a questa sfida si colloca anche la questione dell’ammissione al sacerdozio di uomini sposati, un tema che proprio i vescovi e i missionari che operano in questa regione chiedono da tempo sia posto all’ordine del giorno nella Chiesa cattolica. Dietro a questa
richiesta c’è una questione pratica: i preti sono pochi e raggiungere tutti i villaggi nella foresta è una sfida oggi impossibile. Ma sotto c’è anche una questione ben più profonda: per le culture dell’Amazzonia – così legate all’idea della Pachamama, la Madre terra, con la sua fertilità – l’idea del celibato dei preti è semplicemente inconcepibile. E questo ha fatto sì che – nonostante la presenza di missionari, parrocchie, battesimi – le vocazioni indigene al sacerdozio restino una rarità. Ma come è possibile pensare a lungo termine una Chiesa locale se il sacerdozio rimane sostanzialmente qualcosa di straniero? Non sarà certamente l’incontro di Puerto Maldonado a offrire risposte definitive. Ma nel cammino verso il Sinodo per l’Amazzonia questo tema del sacerdozio anche per gli uomini sposati sarà uno dei nodi centrali. Del resto – per ragioni storiche – è già così nelle Chiese di rito orientale. E non è detto che quella di uniati e greco-cattolici resti a lungo un’eccezione isolata nelle Chiese cattoliche.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Politica e Economia
Siberia, ai confini dell’impero Russia Una mostra appena conclusa al British Museum di Londra offre il pretesto per riscoprire la provincia russa Luciana Caglio Ed è subito evento: l’abuso di una definizione, applicata a mostre, spesso insignificanti e forzate, sta animando, da qualche mese, una polemica, in particolare in Italia, e con effetti anche in un Ticino toccato dal fenomeno del fare tanto per fare. Ma, ovviamente, non mancano le esposizioni che la qualifica di evento la meritano, a pieno titolo, sul piano culturale, e non soltanto. Ne è stato un esempio da manuale la mostra, appena conclusa al British Museum, dove il tema «Sciti, guerrieri dell’antica Siberia», proposto in termini allargati, rappresentava un’esperienza da vivere in tanti modi. Non soltanto, come rievocazione storica, fine a se stessa, ma come un viaggio, tutt’altro che concluso, nel tempo e nello spazio, proposto a ogni visitatore. È, insomma, un valore aggiunto del museo contemporaneo, dove la scenografia creata dai mezzi tecnologici rende accessibile ciò che, un tempo, era riservato agli addetti ai lavori. E sollecita sensazioni, curiosità, riflessioni. Più che mai, in questo caso, dove compare un nome di per sé evocatore, la Siberia. Immensa (13 milioni di kmq), inospitale, crudele, e, in pari tempo, ricca di risorse naturali, di paesaggi intatti, carica di una storia ancora da decifrare, fra persistenti tracce di religiosità e superstizioni antiche e testimonianze politiche recenti. In un mondo tutto conosciuto e percorribile, sembra, ma forse è illusorio, un’isola al riparo dall’omologazione. Fatto sta che, al Bri-
tish Museum, gli Sciti possono persino diventare un pretesto. Qui, le vicende di un popolo, vissuto fra il 900 e 200 a.C., affiorate dagli scavi archeologici, si affiancano al destino di un territorio, a sua volta in cerca della propria identità. Nei nuovi spazi di questa mirabile istituzione britannica sempre in fieri, il parallelismo è evidente. Le armi, i gioielli, gli utensili, i capi d’abbigliamento, le sepolture che attestano l’alto grado di sviluppo di un popolo nomade e stanziale, s’inseriscono nella cornice spettacolare di paesaggi siberiani ricreati. Sembra di esserci, davvero. Ci s’inoltra fra boschi di betulle, praterie, dove risuona lo scalpiccio di cavalli, ci si trova al cospetto di laghi, colline, montagne innevate, seguendo le tracce di guerrieri, di artigiani, di artisti che, secondo Erodoto, ebbero contatti con le colonie greche sulle coste del Mar Nero, in Anatolia. Ipotesi confermata. Fu, anche la loro, una fatale alternanza di vittorie e sconfitte che rimane il filo conduttore della storia. Conclusa, per gli Sciti, nel 158182, quando, guidati da Ivan il Terribile, i russi conquistarono la Siberia meridionale segnandone la fine dell’autonomia. Con Pietro il Grande, precursore della Russia moderna, si apre l’era delle spedizioni scientifiche, destinate a definire la geografia e la topografia della regione. Nel dicembre 1724, il navigatore olandese Vitus Bering riceve dallo zar l’incarico di «scoprire dov’è la separazione fra Asia e America», cioè fra Siberia e Alaska. Mentre dagli scavi dei «kurgans», promontori che coprono
Un treno della Transiberiana nella stazione di Irkutsk, Siberia. (Keystone)
tombe, emergono i corpi di personaggi, presumibilmente illustri, circondati da oggetti di sorprendente splendore. Conservati grazie a un naturale processo d’ibernazione: le infiltrazioni d’acqua, poi gelate, hanno preservato armi, corazze, calderoni, anfore, pettini, fibbie, gioielli spesso d’oro. È un vero e proprio tesoro, che incuriosisce gli storici e attira i collezionisti. Ma c’è chi fiuta l’affare. Un certo Demidov riesce a presentare un buon numero di reperti allo zar che, nel 1715, emana un editto: tutto va portato a San Pietroburgo. Qui, saranno esposti nella «Kunstkam-
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mer» all’Hermitage, che sarà il primo museo nazionale dell’impero. Questa consacrazione ufficiale contribuirà a intensificare la ricerca sugli Sciti, antenati di cui la Russia deve andar fiera, e, a promuovere l’archeologia, in competizione con i tedeschi e gli inglesi che, con successo, stavano esplorando il mondo sotterraneo. Nei confronti della Siberia, cresce un’attenzione d’ordine culturale e commerciale. Un paese, dai confini ancora incerti, cela risorse da sfruttare: miniere, foreste e una fauna, fra cui zibellini dal pregiatissimo pelo. Nel 1690, l’olandese Nicola Witsen pubblica la prima mappa della Siberia e, lo stesso anno, il prete Andrei Lytzlov scrive una relazione sulle origini della regione, partendo dagli Sciti: di cui si ritrovano tracce a largo raggio, da nord a sud. In Crimea, incuriosiscono Caterina II, viaggiatrice ante litteram. Si accumulano, via via, ritrovamenti che confluiscono nel patrimonio dell’Hermitage, avviato a diventare un museo di prestigio mondiale. Ciò non basterà a proteggerlo dal furore rivoluzionario: nell’ottobre 1917, l’edificio subisce l’assalto d’insorti fuori controllo. E, adesso, niente sarà come prima. La svolta storica incide sulle sorti della Siberia, esposta a reazioni contrastanti. Nasce un comitato per la protezione delle 26 etnie, native o insediate nella regione: decreta l’esonero dall’obbligo militare e il rispetto del nomadismo. Durerà poco. Subentra, negli anni 30, la collettivizzazione comunista che impone il sedentarismo, espropria i possessori di greggi, deporta in campi di rieducazione preti e sciamani, promuove l’integrazione fra immigrati russi e popolazioni locali, introduce l’insegnamento in lingua russa. Anche l’archeologia si politicizza, con risvolti grotteschi. Cambia nome, diventa «Storia marxista del materiale culturale» e privilegia le sepolture della gente comune rispetto a quelle «regali», ovviamente più ricche. Vieta la collaborazione con colleghi stranieri. Persino il dibattito sull’origine degli Sciti, medioorientale o invece slava, diventa rischioso. Stalin taglia corto: lo studioso, accusato di «empirismo» o «classificazione borghese», finisce in galera. O spedito in Siberia, terra d’esilio forzato per definizione. È, infatti, la nefasta etichetta che spetta a quest’appendice dell’impero, prima zarista, poi sovietico, che accoglie, suo malgrado, le vittime di regimi sempre repressivi. Che, qui, riescono persino a crearsi un loro spazio, grazie al sostegno delle popolazioni locali. Una sfida, insomma, agli ordini impartiti da San Pietroburgo e da Mosca, e un indizio d’indipendentismo. Con ciò, la grande madre patria fa valere il proprio dominio, attraverso un incessante processo di russificazione. Lungo questo percorso, la costruzione della ferrovia transiberiana rappresenta una tappa addirittura simbo-
lica, giustamente illustrata nella mostra londinese. Nel 1891, lo zar Nicola inaugura il progetto: collegare San Pietroburgo con Vladivostock, coprendo la distanza di 5900 miglia. I lavori procedono anche sfruttando la manodopera degli esuli politici. Il 16 agosto 1898, il primo treno arriva a Irkutsk, la «Parigi della Siberia». Nel 1900, si apre la tratta lungo le rive del lago Baikal fino alla frontiera cinese. Sedici anni dopo, la ferrovia tocca le sponde del Pacifico. A questo punto, con la Transiberiana si apre un nuovo capitolo. Questo treno leggendario diventò il motore del turismo. Attirando, già nell’era sovietica, quando la cortina di ferro cominciava a sgretolarsi sotto l’urto della glasnost, i primi visitatori occidentali. Sapeva un po’ d’avventura quel viaggio che condivisi nell’ottobre del 1983 con un gruppo di turisti svizzeri, fra cui alcuni membri del Partito del lavoro, messi duramente alla prova, nell’impatto con il socialismo reale. Ma, com’è di regola nel turismo, il nostro itinerario intendeva mostrarci il meglio. Certo la Transiberiana procedeva lentissima, a scossoni, con lunghe fermate in stazioni, dove sui marciapiedi, i fornelletti cuocevano zuppe e polpette per i viaggiatori. A noi, in prima classe, spettava il vagone ristorante, riservato agli stranieri. Poi, via, verso, Irkutsk, città industriale appena sfiorata, per goderci la vicina Akademgorodok, «il cervello della Russia», dove si progettava il prestigio tecnologico del Paese: affidato a scienziati, cui spetta un ambiente esclusivo. Strutture ultramoderne, collocate nella cosiddetta Valle dorata, sulle sponde di sabbia dorata dell’Ob. La sensazione di trovarci in una bolla, separati dalla realtà, ci accompagna fino a Irkutsk, che offre una facciata elegante e mondana. Sulle sponde del Baikal, un villaggio di pescatori, con casette rosa e azzurre, tendine di pizzo, giardini fioriti, oche libere nelle strade, offre l’immagine di un idillio rurale. Lo completa la chiesetta di legno, dove un sacerdote ortodosso decanta il clima di fede, liberamente espressa, che lo circonda. Sarà poi, il libro-inchiesta In Siberia di Colin Thubron, fra i primi giornalisti occidentali a varcare la frontiera dopo la caduta del muro, a rivelarmi la realtà vera. Altro che Valle dorata per gli scienziati che, invece, sognano di andarsene. Lo sviluppo industriale va a vantaggio dei nuovi capitalisti di Mosca. Cresce la voglia d’indipendenza. Qui, conclude l’autore, ci si sente sempre in «un altrove». Qui, per sfruttare le ricchezze del sottosuolo si costringe una popolazione di addetti ai lavori a vivere a Norilsk, città fantasma, all’estremo nord, permafrost perenne, neppure un filo d’erba, e la neve che diventa rossa o nera per l’inquinamento. Una realtà assurda, documentata, in questi giorni, sulla «Neue Zürcher Zeitung» dal fotografo Beat Schweizer.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Politica e Economia
La lunga marcia dell’italiano nella Berna federale Intervista 100 anni del Segretariato di lingua italiana: con Verio Pini, autore della pubblicazione
Anche in italiano!, ripercorriamo le principali tappe verso la parificazione dell’italiano al tedesco e al francese nell’Amministrazione federale momenti di accelerazione, che corrispondono spesso con la presenza in governo di un consigliere federale ticinese. Quali ulteriori passi avanti ci dobbiamo aspettare con l’elezione in governo di Ignazio Cassis?
Luca Beti Le pareti dell’ufficio di Verio Pini sono nude. Poggiati per terra due quadri, sui tavoli pile di libri e documenti che attendono di essere inscatolati. Già, perché Verio Pini alla fine del 2017 è andato in pensione. Nel 2010 con l’entrata in vigore della legge sulle lingue ha assunto la funzione di consulente per la politica linguistica presso la Cancelleria federale a Berna. In questi sette anni si è prodigato nella tutela delle minoranze, sgomitando con le altre due lingue ufficiali per creare più spazio all’italiano. «Si è trattato, ad esempio, di curare l’applicazione della legge sulle lingue, la revisione di alcuni contenuti dell’ordinanza e soprattutto la ristrutturazione di tutto il Settore linguistico; oppure di seguire da vicino le attività dell’Istituto del plurilinguismo dell’Università di Friburgo», ricorda Pini. «A questa funzione di coordinamento si è aggiunta una vivace collaborazione con una serie di associazioni culturali attive a livello nazionale; collaborazione che, tra l’altro, ha dato vita a varie pubblicazioni, quali Italiano per caso, Italienisch ohne Grenzen, L’italiano sulla frontiera». Per motivi di risparmio si è deciso di sopprimere la figura del consulente per la politica delle lingue nell’Amministrazione. Con la partenza di Verio Pini, l’italianità in Svizzera perde un prezioso alleato, un paladino delle minoranze linguistiche nella Berna federale. L’italiano è ancora una lingua zoppicante, che rincorre il tedesco e il francese lungo i corridoi e negli uffici dell’Amministrazione federale?
Ci sono degli aspetti che hanno fatto grandi progressi in questi ultimi decenni, con un’accelerazione dal 2010, dopo l’entrata in vigore della legge sulle lingue. E ci sono altri elementi, che non sono zoppicanti, ma che sono legati alla realtà dei numeri. La Confederazione dà lavoro a circa 35mila collaboratori, di cui il nove-dieci per cento è di lingua italiana. Quindi la legge dei numeri fa sì che nella Berna federale si lavori e si discuta in maniera preponderante in tedesco, poi in francese e infine in italiano. Se da una parte abbiamo raggiunto il plurilinguismo istituzionale, dall’altra, scrive nel suo libro Anche in italiano!, il prossimo obiettivo è quello di migliorare il plurilinguismo individuale nell’Amministrazione federale. È questo il cantiere di oggi, la realtà di domani?
Secondo il nostro principale alleato, il Parlamento, il plurilinguismo individuale è uno degli obiettivi principali a cui l’Amministrazione federale deve puntare in futuro. Per plurilinguismo individuale si intendono le competenze, attive o passive, nelle varie lingue, quindi anche in italiano. Nell’ultima modifica dell’ordinanza sulle lingue del 2014 si chiede esplicitamente ai collaboratori, con l’aiuto del datore di lavoro, di migliorare le conoscenze linguistiche individuali; una situazione che dovrebbe permettere anche ai collaboratori italofoni di discutere e lavorare nella lingua madre. Da una parte perché i colleghi la capiscono, dall’altra perché, grazie al rafforzamento dei Servizi linguistici tedeschi e francesi, sarà possibile redigere parte dei testi in italiano; testi che saranno poi tradotti nelle altre due lingue ufficiali. Torniamo alla storia. È solo nel 1917 che l’italiano raggiunge, almeno sulla carta, la parificazione al tedesco
Tutti i consiglieri federali ticinesi, Motta, Enrico Celio, Lepori, Nello Celio e Cotti hanno avuto un ruolo importante. E sono persuaso che anche oggi, con un consigliere federale di lingua italiana in Governo, ci sarà una dinamica nuova. Tanto più che Ignazio Cassis ha partecipato da vicino agli ultimi sviluppi del plurilinguismo istituzionale: l’adozione della legge sulle lingue e della relativa ordinanza. In un recente libro Italiano per caso, di cui lei ha curato la pubblicazione, si ricorda che in Svizzera un residente su otto ha un legame con l’italianità. Non sono quindi solo gli italofoni entro i confini geografico-territoriali del Cantone Ticino e delle valli di lingua italiana dei Grigioni a nutrire grandi attese nei confronti del nuovo consigliere federale, bensì tutta la Svizzera di cultura italiana, anche quella che vive «in italiano» a Nord delle Alpi.
Verio Pini a Berna continuerà a svolgere il ruolo di segretario della Deputazione ticinese alle Camere federali. (Stefano Spinelli) e al francese. Dalla fondazione dello Stato federale nel 1848 ci sono voluti quasi settant’anni.
Sì, per settant’anni ci siamo accontentati di un regime minimo: in italiano veniva pubblicata unicamente la raccolta ufficiale delle leggi. Soltanto nel 1917, per il concorso di molteplici fattori, il Consiglio federale decide di creare un Segretariato di lingua italiana presso la Cancelleria e di pubblicare in italiano il Foglio federale svizzero. Una decisione presa anche per rafforzare la coesione nazionale, quando fuori dai nostri confini infuriava la prima guerra mondiale. E Giuseppe Motta fu uno dei principali artefici di questo primo passo volto a dare alla lingua italiana una certa «dignità». Quale clima politico e culturale si respira in quegli anni a Sud e a Nord delle Alpi?
Bisogna partire da lontano e dalle ineluttabili trasformazioni in atto. A Sud delle Alpi si assiste, da un lato, alla nascita del Regno d’Italia nel 1861 e alla conseguente creazione di una barriera doganale, dall’altro lato, al rafforzamento dello Stato federale, che riduce l’autonomia cantonale. Questa evoluzione crea scompensi e forti ripercussioni economiche, legate in particolare all’esercito centralizzato, ai trasporti e alle poste, e infine all’apertura della galleria del Gottardo nel 1882, con molti pregi ma anche un bagaglio di aspettative disattese. Per questi ed altri fattori, in Ticino la difesa dell’italianità diventa un tema chiave tanto sul piano identitario, quanto su quello economico e politico perché il cantone vuole avere un suo ruolo nel nuovo assetto federale. E a Nord delle Alpi come si guarda al nuovo Regno d’Italia e all’irredentismo culturale che si respira in Ticino?
Il Consiglio federale guarda con apprensione verso Sud, poiché dubita delle reali
intenzioni austro-ungariche e italiane nei confronti del Ticino, un territorio così stranamente esposto a Sud delle Alpi. In questo frangente, il ruolo di mediatore di Giuseppe Motta, nominato in Consiglio federale il 14 dicembre 1911, fu determinante: seppe mitigare la diffidenza e sciogliere le incomprensioni verso l’Italia e contribuì a evitare che la Svizzera si schierasse apertamente con l’Austria. Nel giro di pochi anni, a Berna ci si rende conto che bisognava fare un gesto importante per rafforzare la coesione nazionale e per coinvolgere maggiormente la Svizzera italiana. Una sequenza di fattori che favorisce la decisione del Consiglio federale di pubblicare il Foglio federale anche in italiano e pochi mesi dopo di creare le strutture necessarie in Cancelleria.
Dopo questa prima affermazione dell’italianità a Berna, la situazione rimane pressoché immutata fino agli inizi degli anni Sessanta. Come mai si è dovuto attendere quasi mezzo secolo per vedere accolte le rivendicazioni della Svizzera italiana?
Se c’è un relativo silenzio per quanto riguarda la rivendicazione linguistica nei confronti della Berna federale, lo si deve in parte al mutamento delle priorità. La Svizzera italiana – e in parte anche la Svizzera intera – attraversa un periodo economicamente difficile. La crisi del ’29, la disastrosa situazione in cui versava l’agricoltura, le gravi difficoltà economiche legate all’emigrazione dei primi decenni del secolo, come pure il riflusso, negli anni Trenta, di chi era partito, che crea problemi ancora maggiori, e infine il complicarsi della situazione politica internazionale spostano le rivendicazioni sul piano economico. In sintesi, nel periodo tra il primo conflitto mondiale e la fine del secondo, il tema dell’italiano presso le
autorità federali passa in secondo piano e l’attenzione di Ticino e Grigioni si sposta su priorità più urgenti.
E quale ruolo ha, a partire dagli anni Trenta, la radio?
In quegli anni, la radio ha un ruolo fondamentale per avvicinare le varie realtà linguistiche e culturali del Paese. È uno strumento nuovo e straordinario, che non ha confini territoriali e che si avvale del gioco delle lingue e della capacità di capirsi al di là della regione. Grazie al coinvolgimento di personalità di spicco, intellettuali, politici, ma anche della società, la radio contribuisce quindi in modo efficacissimo a rafforzare la vitalità della cultura italiana nella Svizzera italiana e a consolidare i suoi legami con Berna e con il resto della Svizzera. Nel dopoguerra, le rivendicazioni dell’italianità si fanno più insistenti. Con quale principale obiettivo?
Anche in questo caso bisogna considerare la situazione nel suo insieme. Da una parte si volta pagina rispetto alle difficoltà del periodo bellico, si assiste alla ripresa economica e a grandi cambiamenti di società, dall’altra grazie anche ai media si sente il bisogno di essere meglio informati e più in fretta, anche da Berna. Questo bisogno di informazione mette in evidenza le lacune non ancora colmate e rimaste sul tavolo dal 1917. In Parlamento, inoltre, il discorso si fa sempre più tecnico, giuridico, settoriale e così i rappresentanti italofoni nelle due Camere federali sentono con maggior urgenza il bisogno di ottenere testi tradotti in italiano non solo alla fine, bensì durante tutto l’iter procedurale e in particolare durante i dibattiti. Dopo una lotta durata oltre un decennio, nel maggio 1972 si raggiunge il trilinguismo ufficiale completo, nell’iter procedurale e a livello parlamentare. Nel corso dei cento anni d’italianità nella Berna federale si notano alcuni
Ignazio Cassis è consapevole della grande vitalità della lingua e della cultura italiane in Svizzera e di questi nuovi equilibri, che danno un profilo diverso alla minoranza italofona. La sua presenza in Consiglio federale darà visibilità all’italianità. Inoltre, nel quotidiano, avrà sicuramente un occhio di riguardo per le minoranze linguistiche nell’Amministrazione federale quando dovrà prendere delle decisioni. Ricordo che la lotta in favore del plurilinguismo individuale dei collaboratori nell’Amministrazione federale, condotta dalla delegata al plurilinguismo Nicoletta Mariolini, necessita del sostegno sia del governo sia del Parlamento. Ma sono persuaso che Ignazio Cassis sarà molto attento anche all’italianità diffusa in tutta la Svizzera: oltre ai 300mila italofoni che vivono nel Cantone Ticino e nelle valli italofone dei Grigioni, vi è infatti un’italianità molto più importante e sedimentata che vive oltre Gottardo. È un’italianità mobile e disinvolta, che parla quotidianamente lo schwitzerdütsch, il francese o altre lingue. Questa nuova realtà richiede un’applicazione più flessibile del principio di territorialità – secondo cui ogni cantone determina la lingua maggioritaria e la lingua d’insegnamento – poiché oggi questo limita la libertà di lingua e frena la vitalità dell’italiano. Questa massiccia presenza di italofoni a Nord delle Alpi rivendica la possibilità per i figli di imparare, oltre alla lingua del posto, anche l’italiano già a partire dalla scuola elementare. È un bisogno a cui dobbiamo rispondere anche per valorizzare meglio la pluralità linguistica in Svizzera. Biografia
Verio Pini è nato ad Airolo nel 1952. Laureato in lettere all’Università di Losanna, ha completato la formazione con studi di diritto all’Università di Berna. Dal 2003 al 2007 è stato responsabile della Segreteria per la Svizzera italiana, poi della Divisione italiana dei servizi linguistici centrali dal 2007 al 2010. Dal 2008 è segretario della Deputazione ticinese alle Camere federali, funzione che continuerà a svolgere, e dal 2010 è stato consulente per la politica linguistica presso la Cancelleria federale.
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Politica e Economia
Un collante per lo Stato federale
Servizio pubblico – 1. parte A ttorno ad esso si coagularono gli interessi divenuti comuni dopo il 1848, poste,
ferrovie, esercito ed infine la SSR ebbero un ruolo centrale nel consolidamento dello Stato e dell’identità nazionale
Enrico Morresi Nel 1991 – anno centenario del «patto del Grütli» – Roger de Weck, futuro direttore generale della SSR, allora corrispondente del grande settimanale «Die Zeit» di Amburgo, presentava un corposo dossier sul nostro Paese con queste parole: «La Svizzera è un Paese complicato. Chi non vuole leggere qualcosa di complicato, smetta di leggere qui». Aveva ragione, e l’avrebbe anche ora. Il nostro è un Paese complicato, gli stranieri faticano a capire quando si parla della Svizzera. Ma non è «colpa» di nessuno, e neppure di noi che non sappiamo farci capire. È della storia, della nostra storia. Le aggregazioni successive che hanno formato l’attuale territorio elvetico ebbero per origine cause e circostanze tanto diverse, e coagulato elementi tanto in contrasto tra loro, che più volte si è dovuto temere che fosse un’impresa impossibile conservare l’unione. Penso ai cantoni alpini della prima alleanza e al loro difficile rapporto con le città: con Lucerna dapprima, poi con Zurigo, Berna, Soletta, agli interessi divergenti che intralciavano l’azione delle antiche Diete e alla difficile ricerca della convivenza durante le guerre di religione... Penso all’estrema varietà delle aggiunzioni: di tipo coloniale (il Ticino, Vaud), di tipo strategico (il Grigioni trilingue), come esito finale di una tradizione di alleanza (Ginevra) e addirittura per un fortunoso affrancamento da potenze straniere (Neuchâtel). La Svizzera bisognò «inventarla» ogni volta, dall’estero qualcuno ci dava una spinta: come al tempo della Pace di Westfalia (1648) o dell’Atto di Mediazione napoleonico (1803). Eppure già esisteva. Il moto che ha fatto la Svizzera come la conosciamo noi conobbe un’accelerata a partire dal 1848. L’Esercito si sarebbe rivelato il più efficace sistema di conoscenza tra i cittadini dei vari cantoni, ma in origine comprendeva corpi di truppa, almeno formalmente, «cantonali». Concorse l’uniformazione delle leggi principali (fino al 1907 vigevano codici civili cantonali, fino al 1942 codici penali cantonali), in seguito ebbe un ruolo importante la legislazione sociale
(la Legge sulle fabbriche del 1877, quella sul lavoro del 1914, il sistema previdenziale creato all’inizio del Novecento e continuamente aggiornato). A coagulare gli interessi divenuti comuni concorse infine quello che oggi chiamiamo il servizio pubblico. La prima mossa spettò alle Poste. L’immagine stereotipata della diligenza del San Gottardo che scende a precipizio dai tornanti della Tremola è rimasta un simbolo: quello della cura che lo Stato federale voleva dimostrare anche alle regioni più discoste, mettendole in rapporto con un servizio uguale per tutti. Divenute privativa della Confederazione nel 1848, «le poste svizzere ebbero un’importanza centrale per il consolidamento del giovane Stato federale, dato che inizialmente furono l’unica istituzione presente sull’insieme del territorio nazionale. Uffici postali, diligenze e postini portarono la croce svizzera in tutto il Paese e rafforzarono la fiducia nell’amministrazione centrale» (K. Kronig, Un’istituzione nazionale, in Dizionario storico della Svizzera, vol. 9, p. 890). Lo stesso accadde con la nazionalizzazione delle Ferrovie, a partire dal 1901. Ogni mossa – è vero – si fece un po’ per voglia e un po’ per forza, e in qualche caso furono circostanze esterne a determinarla. Così avvenne per il servizio pubblico radiofonico, che la Confederazione, titolare per convenzione internazionale delle frequenze radio, si trovò tra le mani quando si trattò di contrastare l’invadenza delle radio nazionali germaniche da nord, italiane da sud, durante il ventennio fascista e poi nazista. Si decise di farlo creando l’unità nella diversità: quattro centri di programma, uno per ogni regione linguistica. Che esagerazione! No, bisognava evitare che il verbo estero raggiungesse anche solo poche decine di migliaia di svizzeri dispersi in zone discoste. Per questo i notiziari radiofonici erano letti da Berna. Gli storici hanno dimostrato che la radio difese capillarmente l’unità nazionale in quel periodo di burrasca e di incertezza. Passata la guerra, ci si trovò a disporre delle strutture tecniche necessarie per essere utilizzate dalla televisione. Tutto lo spazio
Un esempio di radio popolare: 26 gennaio 1970, l’albergatore bernese Fritz von Allmen osserva un salvataggio sulla parete nord dell’Eiger e lo commenta in diretta su radio Beromünster. (Keystone)
dell’etere (salvo gli impianti della difesa) fu perciò occupato dal servizio pubblico SSR e solo alla fine del Novecento, liberati dalla scarsità delle frequenze, fu possibile aprirlo alle emittenti private. Oggi pare che il servizio pubblico sia in ribasso nella considerazione del cittadino. Due relazioni presentate a un seminario di Coscienza Svizzera e raccolte in un volumetto (Servizio pubblico e coesione federale, www. coscienzasvizzera.ch) documentano e criticano «la sua trasformazione in uno spazio di mercato piegato alla concorrenza». Il giudizio può dipendere da dove si giudica: è un’involuzione poco avvertita nelle regioni urbane centrali (Zurigo, Ginevra-Losanna) ma penalizza le regioni di peso medio (Lucerna, San Gallo, Friburgo) e minaccia quelle discoste dai centri (Grigioni, Ticino, Vallese, Giura). Le stesse scelte politiche negli ultimi decenni si sono sempre più accentrate – verso la Berna federale, ma pure verso Bruxelles e Strasburgo, divenuti centri di produzione giuridica sovrannazionale. Diversamente
però da Paesi come l’Italia o la Francia, in Svizzera il moto può essere letale: le regioni decentrate (i cantoni) mantengono infatti una quota di potere decisionale importante. In altri Paesi, la norma dell’art. 142 della Costituzione («I testi sottoposti al voto del popolo e dei cantoni sono accettati se approvati dalla maggioranza dei votanti e dalla maggioranza dei cantoni») sarebbe un impedimento a governare: in Svizzera è la storia che giustifica un tale decentramento. E finora ha funzionato. Ma il mantenimento di una cultura pubblica di questo tipo implica tutta una serie di esigenze. Occorre che ci sia una «sfera pubblica» sufficientemente provvista di risorse. Che significa? Il filosofo Walter Privitera la distingue dall’ «opinione pubblica», intesa questa come registrazione delle convinzioni, inclinazioni o umori del pubblico: la «sfera pubblica» è più ambiziosa, consiste in un piano superiore di giudizio: è «opinione ragionata insieme ad altri su problemi di interesse generale» e per essere ricca e funzionante deve avere al
suo servizio mass media e giornalisti che – secondo la magistrale definizione di Jürgen Habermas – «ricevono imparzialmente problemi e stimoli espressi dal pubblico e poi espongono il processo politico all’obbligo di legittimarsi e di rispondere alle critiche». Occorre però badare alla buona salute degli strumenti in grado di alimentarla, la «sfera pubblica». A me pare che la SSR risponda bene al mandato di cooperare alla formazione e al mantenimento di tale sfera, raggiungendo tutti i comparti del Paese, anche i più discosti. Anche la stampa vi contribuisce, naturalmente. Già ora, su questo fronte si assiste a un fenomeno di concentrazione del potere (fusione della proprietà delle testate) e di depauperazione dei contenuti (concentramento delle redazioni) a netto danno delle regioni meno forti o periferiche. Avvenire della SSR e avvenire della stampa scritta non possono essere tenuti separati. È lo sfondo su cui si proietta la discussione nella votazione federale del 4 marzo 2018, e sarà il tema del prossimo articolo.
La Svizzera va bene, ma potrebbe far meglio OCSE Il rapporto 2017 chiede di migliorare la produttività, sopprimendo ostacoli doganali e amministrativi,
riducendo l’ingerenza dello Stato nell’economia e alleggerendo il mercato del lavoro Ignazio Bonoli Gli scenari di crescita per l’economia svizzera, nell’anno appena iniziato, sono positivi. Secondo la maggior parte delle previsioni dovrebbero aggirarsi attorno a un +2,3% del prodotto interno lordo (previsioni SECO), la disoccupazione dovrebbe mantenersi al livello del 2,9% e l’inflazione non dovrebbe allontanarsi dallo 0,3%. Come di regola, il tasso di crescita dell’economia svizzera dipende in gran parte dalle esportazioni. Queste ultime sono a loro volta favorite dal buon andamento delle economie mondiali. Anche in questo caso le previsioni sono molto favorevoli. Secondo il Fondo Monetario Internazionale e l’OCSE, l’economia mondiale dovrebbe crescere del 3,7%. L’economia svizzera sta quindi già beneficiando della ripresa mondiale (e in particolare europea), approfittando anche della ripresa dell’euro e in parte anche del dollaro sul franco. Se le previsioni restano buone anche per il 2019, non si deve dimenticare che il mantenimento di questi livelli, a media e lunga scadenza, va sostenuto con opportune misure. A questo proposito, l’Organizzazione per la cooperazio-
ne e lo sviluppo economico (OCSE), nel suo rapporto annuale per paese, sostiene che la Svizzera deve diventare più concorrenziale e abbattere ancora alcuni ostacoli che intralciano il libero scambio, con il preciso scopo di migliorare la produttività. Il rapporto OCSE constata che la Svizzera, anche durante il recente periodo di crisi finanziaria ed economica, ha saputo mantenere un ottimo livello di benessere, una buona concorrenzialità e un’ottima resistenza dell’economia,
Troppa ingerenza statale in settori vitali, secondo l’OCSE. (Keystone)
nonché un ottimo grado di preparazione della sua mano d’opera. Ma – secondo l’OCSE – il tasso di crescita dell’economia negli scorsi anni è stato troppo debole per poter aumentare in modo sensibile il reddito pro capite della popolazione. Inoltre, la politica monetaria della Banca nazionale potrebbe nascondere qualche insidia. In sostanza, tra i punti deboli dell’economia, l’OCSE segnala un troppo modesto miglioramento della produttività. Un tema che i rapporti dell’OCSE affrontano già da qualche anno con regolarità. Negli ultimi due decenni, infatti, la produttività dell’economia svizzera si è indebolita in media dello 0,3% all’anno, il che corrisponde ancora a un terzo della media dei paesi OCSE. Le cause individuate dall’OCSE per questo fenomeno sono molteplici. Tra queste si cita l’eccessiva ingerenza statale in settori strategici come l’energia, le telecomunicazioni e i trasporti. Settori che dovrebbero aprirsi maggiormente agli investitori privati, riducendo anche gli ostacoli che oggi frenano altre partecipazioni. Anche la politica di protezione doganale per i prodotti agricoli e le barriere nel settore dei servizi sono an-
cora troppo importanti. Negativi sono anche gli ostacoli amministrativi per la creazione di imprese, il che rende molto bassa in Svizzera la quota di giovani imprenditori. A questa situazione supplisce in parte il nuovo portale (One-StopShop) che dovrebbe alleggerire i lavori amministrativi. Nel rapporto, l’OCSE critica la composizione e la limitata indipendenza della Commissione della concorrenza (ComCo) e suggerisce di escludere dalla Commissione i rappresentanti delle organizzazioni economiche per rinforzarne l’indipendenza. Attira inoltre l’attenzione sul fatto che il rallentamento dell’immigrazione potrebbe provocare problemi sul mercato del lavoro. La Svizzera dovrebbe facilitare l’immigrazione di forze lavorative altamente qualificate, provenienti da paesi non-UE, per attenuare le minacce di carenza di personale qualificato. Inoltre, si dovrebbe utilizzare meglio il grande potenziale di mano d’opera femminile, magari anche introducendo il principio della tassazione individuale per le coppie sposate. Infine, impulsi positivi per la produttività potrebbero essere trovati negli accordi di libero scambio, in particolare in quel-
li già avviati con paesi sudamericani. Il rapporto OCSE affronta parecchi altri temi, tra i quali quello di un miglior coordinamento nella politica di bilancio tra Confederazione, Cantoni e Comuni. Tema piuttosto complesso e che deve comunque tener conto dell’impronta federalistica dello Stato elvetico. Su altri aspetti invece l’OCSE prende posizioni nette, come per esempio quando consiglia di sopprimere la garanzia statale per le banche cantonali, oppure di ridurre i sussidi all’agricoltura, o anche di adeguare l’età di pensionamento all’aumentata speranza di vita, creando incentivi che possano ritardare il pensionamento, e infine anche di garantire una formazione specialistica dinamica e l’aggiornamento continuo. Tutte buone cose, che però, calate nella realtà svizzera, creano non pochi problemi di attuazione. Si sa però che questi suggerimenti sono spesso già concordati con i responsabili elvetici dei vari settori, i quali talvolta approfittano dell’occasione per rinverdire l’attualità di certi problemi. In realtà, trattandosi di puri suggerimenti, questa parte del rapporto ha una sua attualità e non viene contestata nella stesura finale.
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi L’ambiente come va? Così, così! Quando sono nato io, l’ambiente, come involucro nel quale viviamo e della qualità del quale dobbiamo preoccuparci, era un termine sconosciuto. Né si sapeva qualcosa dell’ambiente, quando io avevo vent’anni. In effetti l’ambiente ha cominciato ad essere preso in considerazione, in Ticino, verso la metà degli anni Sessanta dello scorso secolo, quando – ve lo assicuro è proprio stato così – da un giorno all’altro, si scoprì che i nostri laghi erano inquinati. Questa scoperta sollevò un gran polverone: i ticinesi ne restarono impressionati non tanto perché l’inquinamento dei laghi comprometteva la loro qualità di vita (in quei tempi nessuno utilizzava questo termine) ma perché poteva influire negativamente sui flussi di turisti. Da allora in poi la presa di coscienza che l’ambiente nel quale viviamo è per noi indispensabile e che
la sua qualità può essere deteriorata da processi che noi stessi promoviamo ha fatto passi avanti da gigante. Negli anni Ottanta dello scorso secolo è poi arrivata la legge federale sulla protezione dell’ambiente e, in seguito, le sue numerose ordinanze, a precisare quando si può parlare di inquinamento dell’ambiente e cosa si deve fare per combatterlo. Ed è grazie a questa legge e a queste ordinanze che, poco a poco, si è cominciato a misurare l’impatto dei diversi processi inquinanti e, con il tempo, si è potuta costituire, in Ticino, una statistica dell’ambiente. Poiché i cambiamenti in materia di qualità ambientale si fanno lentamente, la statistica ticinese dell’ambiente esce solo ogni 4 anni. L’edizione pubblicata alla fine del 2017 comprende 24 schede che possono essere suddivise in tre categorie. La prima categoria comprende le schede
che informano sulla consistenza del possibile impatto umano sull’ambiente. La seconda categoria comprende le schede che informano sull’uso delle risorse naturali. La terza, invece, si concentra sull’impatto nocivo che deriva da questo uso. Oggetto di dibattito, anche in Ticino, è la questione a sapere se i processi inquinanti derivino da attività umane, solamente, o se invece si manifestino anche per effetto di inevitabili trasformazioni dell’ambiente naturale che non sono necessariamente da collegare con le attività dell’uomo (per esempio le eruzioni vulcaniche o certi tipi di incendi di boschi). È giusto precisare che la statistica ticinese dell’ambiente si occupa essenzialmente dei processi inquinanti derivanti da attività umane. Non meraviglia quindi constatare che la sua prima scheda concerne la popolazione e i posti di lavoro, la
seconda la struttura del territorio e la terza la mobilità. Vengono poi le schede dedicate agli usi del territorio come gli insediamenti residenziali, l’agricoltura, il bosco e il legno, la caccia e la pesca, l’energia, il consumo di acqua. Da ultimo la statistica raccoglie una serie di schede che misurano l’entità dei processi inquinanti come il rumore, i rifiuti, sostanze e prodotti chimici e gli incidenti che possono derivare dal loro uso, le radiazioni non ionizzanti, l’inquinamento luminoso e i siti inquinati. Da segnalare sono infine tre schede che si occupano di altri aspetti importanti collegati con il discorso ambientale come il clima, la biodiversità, i pericoli naturali e gli organismi patogeni, geneticamente modificati e alloctoni invasivi. La statistica ambientale non offre una valutazione d’assieme. Chi si interessa allo stato del nostro ambiente vi troverà però
molte informazioni su aspetti singoli che gli permetteranno per lo meno di farsi un’idea di quanto ampia sia la problematica, di quale sia la portata del degrado per singoli aspetti della stessa e di quali possano essere i rischi e i pericoli che minacciano la qualità ambientale. Troverà anche qualche indicazione sull’evoluzione nel tempo del degrado ambientale. Ma siccome questo è un fenomeno di lunghissimo termine è purtroppo difficile giudicare se le cose stiano andando poco bene o piuttosto male. Diciamo che l’impressione che emerge dalla visione dei molti grafici di cui è composta questa statistica sia che l’ambiente, in Ticino, va così, così. Tra le possibili carenze di questa statistica segnalo la mancanza di indicazioni sugli effetti delle molte misure di protezione che sono state prese sin qui e si continuano a prendere per evitare il peggio.
mucho. Me he equivocado. No volverá a ocurrir»; mi spiace molto, ho sbagliato, non succederà più». La Spagna – o almeno la maggioranza degli spagnoli – capì, e perdonò. Perché Juan Carlos, che ha appena compiuto ottant’anni, non è solo un monarca da cronaca rosa; nonostante alla cronaca rosa abbia fornito molto materiale. È il fondatore della democrazia spagnola. Una favoletta revisionista vuole che Franco avesse preparato libere elezioni e multipartitismo. Al contrario, il Caudillo aveva puntato sul giovane Borbone allevandolo non come monarca costituzionale, ma come continuatore di un’autocrazia. Juan Carlos ebbe l’intelligenza di capire che un tempo era finito, e barattò il potere con la discrezione sulle proprie spese e sulla tolleranza sulla propria vita privata; comprese le corse notturne nel centro di Madrid su una delle sue 72 vetture sportive o sulla prediletta Harley Davidson. La Spagna fu governata così prima dal centro con Adolfo Suarez, poi dalla sinistra con Felipe Gonzalez (e in seguito
Zapatero), quindi dalla destra con José Maria Aznar (e ora Rajoy). Quando il tenente colonnello Tejero tentò il colpo di Stato, aprendo il fuoco alle Cortes, Juan Carlos – dopo un’iniziale esitazione, ben raccontata dallo scrittore Javier Cercas in Anatomia di un istante – salvò la democrazia; l’esercito gli restò fedele; e il tentativo di ripristinare il regime degenerò in golpe da operetta, come tutti i golpe che non riescono. Il suo patrimonio personale è leggendario. Qualcuno lo valuta in due miliardi di dollari. Va detto che il monarca ha anche procacciato enormi affari alle aziende spagnole, in particolare nei Paesi del Golfo. Ma quando nel mirino della magistratura finì sua figlia Cristina, Juan Carlos comprese che era il momento di farsi da parte. Ha saputo scegliere l’attimo: la destra del partito popolare era ancora salda al potere, la secessione catalana di là da venire. Qualcosa però nel passaggio di poteri non ha funzionato. Il figlio Felipe VI, legatissimo alla madre Sofia, l’ha un po’ chiuso nel magazzino delle scope.
Juan Carlos dal canto proprio gli aveva sconsigliato il matrimonio con una borghese, Letizia Ortiz. Il successore gli ha negato un ufficio alla Zarzuela, la residenza ufficiale, e non l’ha invitato alla cerimonia per i 40 anni della prima seduta del Parlamento spagnolo dopo la dittatura. Lui si è consolato girando il mondo e seguendo lo sport, dalle partite del Manchester City – la squadra del suo amico sceicco Mansour bin Zayed al-Nahyan – ai gran premi di Formula Uno. Molti spagnoli, juancarlisti più che monarchici, continuano ad amarlo. Qualcuno pure lo rimpiange. Focoso quanto il figlio è asciutto, latino quanto l’altro – el niño rubio, il bambino biondo – pare nordico, Juan Carlos riconosce di non aver mai letto sino in fondo un libro in vita sua, ma ha saputo farsi voler bene da quasi tutta la gente che ha incontrato. La sua intelligenza era più fiuto che cultura, più istinto che ragionamento. «Qui sono scarso», confessò una volta a un politico toccandosi la testa; «ma qui», e si toccò il naso, «sono imbattibile».
gna aggiungere il centinaio prodotti dalla Fairchild Hiller negli Stati Uniti. Era il pilastro su cui l’azienda obvaldese ha costruito un successo internazionale che l’ha portata sino al varo di un jet d’affari bimotore, il PC 24 Super Versatile che, proprio a fine anno, ha ottenuto le certificazioni e può quindi essere consegnato ai primi degli 84 acquirenti che già lo hanno ordinato. Dal «papà» andato in pensione il jet privato ha ereditato perlomeno una caratteristica: può atterrare anche su piste corte e sterrate, quindi può arrivare e partire sulle piste di oltre 20’000 aeroporti di tutto il mondo. Altro «pensionato» non svizzero ma quasi, è il Jumbolino, il famoso Avro RJ con 4 reattori, in servizio anche in Ticino con la Crossair. Progettati in Gran Bretagna per il trasporto di truppe e poi usati anche nell’aviazione civile, una ventina di questi velivoli passarono nel 2002 alla neocostituita Swiss che li ha usati per oltre mezzo milione di voli, trasportando decine
di milioni di passeggeri a conferma dell’affidabilità di questi apparecchi ora rimpiazzati sulle brevi e medie tratte europee con i moderni e più economici Bombardier. Una notizia un po’ particolare giunge a rendere meno amaro il tramonto del Jumbolino. Siemens, Rolls Royce e Airbus hanno siglato in dicembre un accordo per realizzare un aereo passeggeri ibrido, jet ed elettrico. Airbus si occuperà del coordinamento del progetto e dell’avionica, Rolls Royce fornirà i motori a reazione e il generatore elettrico di bordo, mentre Siemens produrrà i nuovi motori elettrici come pure gli impianti di controllo e distribuzione. Come spiegano gli esperti de «Il Sole 24 Ore», le tre multinazionali intendono sviluppare un aereo ibrido in grado di abbinare la spinta dei classici turbofan a potenti elettroventole alimentate da generatori costituiti da turbine a gas. Il progetto riprende concetti già visti sulle navi e pensa di utilizzarli, riducendo pesi e consumi, su aerei
di linea. Il prototipo sarà mosso da quattro motori: due a reazione e due elettrici alimentati da una turbina a gas posta nella carlinga come se fosse un generatore simile, ma più potente, a quelli che a bordo dei jet forniscono corrente per i servizi di bordo. Test iniziali sul Jumbolino: dapprima con un motore elettrico assieme agli altri tre; poi, se l’abbinamento ibrido funziona, si passerà al previsto ibrido due + due. L’ultima notizia riguarda un nuovo Cessna, un biturbo a elica SkyCourier 408, velocità 350 km/h, raggio d’azione fra 700 e 1200 km. Progettato come cargo, essenzialmente per soddisfare l’ordinazione (50 velivoli, più altri 50 in opzione) del gigante delle spedizioni FedEx, prevede anche una versione per il trasporto di 19 passeggeri. Costo: 5 milioni di dollari. Se fosse in grado di superare le Alpi, si potrebbe pensare e sognare un futuro «diverso» per Lugano-Agno ordinandone tre o quattro...
In&outlet di Aldo Cazzullo Un re non solo da cronaca rosa L’allarme fu dato dagli uomini dei servizi segreti: «Presto, sta arrivando la regina!». La giovane modella con cui il re si stava intrattenendo venne presa per le braccia e le gambe e scaraventata in mare, dove fu prontamente soccorsa dai suddetti servizi; mentre Sofia veniva accolta dal marito sorridente, che aveva casualmente dello champagne in freddo, come nella canzone di Mogol&Battisti. L’ordine – da quando molti anni prima, per fargli una sorpresa, Sofia l’aveva raggiunto in un castello dove Juan Carlos (foto) avrebbe dovuto riposare dopo la caccia, trovandolo deserto – era salvare, se non il matrimonio, le apparenze. Nessuna delle 1500 donne che i biografi gli hanno attribuito avrebbe dovuto incrociare la regina: meno che mai Marta Gayà, la decoratrice catalana, e Barbara Rey, la soubrette, unite al re da storie ultradecennali. Un’altra amante elevata quasi al rango di seconda moglie è stata Corinna zu Sayn-Wittgenstein, nobildonna più giovane di 27 anni. Quando Juan Carlos (tra l’altro presidente onorario del Wwf
spagnolo) si fratturò l’anca durante una caccia all’elefante in Botswana, i giornali infransero lo storico patto del silenzio. «Il re era con l’austriaca, stavolta bisognerebbe scriverlo» dissero i cronisti ai direttori. La notizia uscì. Erano i mesi più duri della crisi spagnola, migliaia di famiglie avevano perso la casa, i portici di Plaza Mayor a Madrid si erano riempiti di senzatetto. Juan Carlos capì e pronunciò il discorso del re più breve di tutti i tempi: «Lo siento
Zig-Zag di Ovidio Biffi I piccoli volano meglio dei giganti Il primo zig-zag dell’anno è dedicato agli aerei. A suggerire la scelta non sono i primati in sicurezza (minor numero di incidenti e vittime) o di velocità a inizio anno degli aerei di linea dagli Usa all’Europa (1110 k/h, grazie al «main stream» sull’Atlantico) ma le tante notizie dell’autunno scorso, finite nell’oblio o subissate da un monopolio mediatico imposto da politica e economia, aiutate da gossip e cronaca nera. Eppure i temi passati inosservati non erano proprio irrilevanti: compagnie che falliscono, aerei vecchi in disarmo, prototipi rivoluzionari. Quasi ogni giorno c’erano poi informazioni indirettamente legate all’aviazione, dal traffico nei cieli alle vicende degli aeroporti. Utile perciò un recupero, scegliendo come «fil rouge» il... pensionamento. Iniziamo dai giganti dell’aria: il Jumbo della Boeing e il Superjumbo A380 dell’Airbus. Il primo è giunto alla fine: ne restano ancora molte centinaia in attività, utilizzati soprattutto come
cargo, ma la Boeing dopo 47 anni ha definitivamente cessato la produzione. L’Airbus 380 invece non se la passa bene. Utilizzarlo costa troppo, crea grossi problemi negli aeroporti che lo accolgono, inoltre alcune compagnie non riescono a mantenere gli impegni dei leasing contratti. Situazione grave, tanto che anche le linee di produzione di questo gigante dell’aria sono quasi ferme: 15 unità realizzare nel 2017 e solo 12 previste per l’anno prossimo. A Tolosa negano la crisi, anzi: dicono di progettare un A380 plus con consumi e costi assai ridotti. Ma una notizia fa tremare: Singapore Airlines ha fatto sapere che non riesce a vendere di seconda mano i suoi A380 e, nonostante abbiano meno di dieci anni di vita, pensa di... rottamarli. Nella lista di aerei vecchi e nuovi compaiono anche velivoli svizzeri. Sono quelli prodotti dalla Pilatus. Va in pensione il mitico PC 6 Porter, prodotto in 500 esemplari sull’arco di quasi sessant’anni, ammontare a cui biso-
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Cultura e Spettacoli L’arte di Derain a Parigi Una vita movimentata, quella di André Derain, pittore in mostra al Pompidou
Un omaggio a Crivelli A Minusio una doppia mostra celebra l’attività artistica dell’archeologo, storico dell’arte e giornalista di origini chiassesi
Un po’ di ordine A colloquio con lo storico dell’arte Eike Schmidt che dirige la Galleria degli Uffizi a Firenze
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Il meglio e il peggio del 2017 Musicalmente si passa dal glorioso album di Benjamin Clementine agli ormai ridondanti U2 pagina 31
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Berlino davanti al baratro
Editoria Gli avvincenti romanzi di Volker
Kutscher (diventati fiction di successo su Sky) raccontano una città piena di vizi
Luigi Forte A Berlino il commissario Gereon Rath c’era finito più per necessità che per piacere. Prima stava alla Omicidi di Colonia, ma dovette andarsene dopo un increscioso incidente. Grazie alle amicizie del padre ora lavora alla centrale di polizia della capitale, in quella città grande e fredda dove tutto è gravoso e difficile. Per di più l’hanno assegnato alla Buoncostume, e lui si sente un po’ umiliato, anche se il collega Bruno Wolter, detto «lo Zio» per i suoi modi affabili, pensa che sia un privilegio esplorare la vita notturna della metropoli più appassionante e malfamata del mondo. Come dargli torto? Alla fine degli anni Venti Berlino era veramente una città di eccessi, di trasgressioni e squilibri, dove, nonostante caos e miseria, un pubblico eclettico e stravagante folleggiava inconsapevole di fronte all’incombente apocalisse. Vi si aggiravano invalidi con la croce di guerra, avventurieri e trafficanti di ogni specie, nuovi ricchi che affollavano i ristoranti dell’elegante Kurfürstendamm, disoccupati dei quartieri orientali e passanti estasiati di fronte alle vetrine del grande magazzino KaDeWe mentre l’inflazione saliva alle stelle. È l’ambiente torbido e suggestivo che fa da sfondo allo splendido poliziesco del renano Volker Kutscher Babylon-Berlin, uscito nel 2008 con il titolo Il pesce bagnato e ora proposto da Feltrinelli nell’efficace traduzione di Palma Severi e Rosanna Vitale, il primo di una serie di otto romanzi con lo stesso protagonista che ruotano fra il 1929 e gli anni del nazismo. Ne è nata anche una fiction televisiva in sedici puntate diretta da tre registi e prodotta da Sky, Beta Film e dalla rete pubblica tedesca Ard, già acquistata da molti paesi europei e dagli americani. Kutscher stesso ha di suo l’estro del grande sceneggiatore: il ritmo in-
calzante, il gusto per i colpi di scena, l’ambiguità dei personaggi, la sottile magia delle atmosfere, il tocco felice dei dialoghi. Non gioca solo di fantasia il giornalista renano, è ben documentato e parla di fatti storici come i disordini del primo maggio, gli scontri fra polizia e gruppi comunisti, e ricostruisce con precisione l’ambiente urbano, richiamando alla memoria il capolavoro di Alfred Döblin, Berlin Alexanderplatz, dove la capitale weimariana diventa mito e tragedia, scenario di un’agonizzante paese irretito dalla violenza. Kutscher ha certo curiosato anche fra gli splendidi reportage berlinesi di Joseph Roth che descrivono una città in costante fibrillazione politica, una polveriera sul punto di esplodere, un sottobosco di personaggi cupi e minacciosi, di figure estreme: terroristi, nazionalisti e guerrafondai, cospiratori e baciapile lordi di sangue, sinistrorsi e borghesi in crisi, individui frustrati e fanatici pronti a ogni avventura. Quella Berlino enigmatica e minacciosa seduce lo scrittore renano e anima l’impresa solitaria del provinciale Rath, a cui tocca all’inizio inchiodare un paio di pornofotografi e la loro clientela che ama il sesso con qualche addobbo storico. Poi per fortuna il cadavere assai malconcio di un russo ripescato da un’auto finita nel Landwehrkanal (dove dieci anni prima galleggiava la salma di Rosa Luxemburg) mette in moto una complessa serie di eventi e ridà fiato alla voce della città. Perché tra le pagine del romanzo la vera protagonista è Berlino con i suoi locali notturni, i teatri di varietà, le catene di ristoranti come Aschinger, il tempio del divertimento Haus Vaterland, il grande magazzino Karstadt e la sua variegata topografia fra l’elegante Westen, le stradine del ghetto e i rioni proletari. Partendo magari dalla Centrale di polizia sull’Alexanderplatz, dove la città si apre e chiude in varie direzioni per poi sconfinare verso le aree industriali
Berlino, sede di intrighi, crimine, amore e peccato a valanghe. (Keystone)
di Tegel e Wedding, zone molto politicizzate, come anche il popoloso quartiere di Neukölln, abitato da lavoratori e piccoli artigiani, dove la polizia in quei giorni ha decretato lo stato d’assedio. Sullo sfondo ci sono i comunisti e il loro capo filosovietico Ernst Thälmann, che però nulla hanno da spartire con i russi che in vari ruoli finiscono sulla scena del romanzo. Come il cadavere ripescato di Boris o quello, più tardi, del suo amico, l’irraggiungibile Kardakov, che il commissario Rath insegue invano. Con la rivoluzione di ottobre quei due non c’entrano affatto, così come non c’entra la misteriosa contessa Sorokina, nascosta sotto falso nome nella capitale dove vorrebbe smerciare il patrimonio in oro della famiglia trasformandolo in marchi. Si tratta di milioni, un bottino che fa gola a molti e uno strumento perfetto per incrociare destini e vicende. Non lo cerca solo un boss della malavita come Johann Marlow, con cui bene o male
Rath troverà una sorta di accordo, ma anche la polizia segreta sovietica, e poi membri dello Stahlhelm, l’associazione parapolitica di ex combattenti a cui segretamente aderiscono anche poliziotti e affiliati delle SA. Insomma dietro le spalle di Rath si affrontano segretamente destra e sinistra, malaffare e politica nel breve spazio di due mesi, nella primavera del 1929. Un gioco che Kutscher sa dosare alla perfezione spostando, non di rado, la tensione sui personaggi dei vari corpi di polizia o sulla delicata e problematica love story fra il bel commissario Rath e l’attraente stenografa della Omicidi, Charlotte Ritter. Ci voleva un po’ di romanticismo fra tanta miseria umana, e anche il lettore si riprende un attimo di fronte allo smagliante sorriso della giovane collaboratrice. Sono brevi pause che rimettono in moto la curiosità: come può il paziente e determinato commissario, in forza alla Buoncostume, investigare su casi di omicidio non di
sua competenza? Ecco la felice anomalia che fa di Rath un combattente solitario, quasi un infiltrato, al margine del corpo di polizia ma sempre più addentro nei misteri della capitale, di cui scandaglia ogni angolo per comporre i tasselli della complessa vicenda. Naturalmente con non poche difficoltà, alienandosi simpatie e amicizie, manipolando ricerche altrui, accumulando insuccessi e sconfitte. È una storia parallela che alla fine consente a quel sagace e onesto provinciale di dare scacco non solo ai più astuti e maturi colleghi, ma a una aggressiva, violenta visione del mondo che di lì a poco contagerà milioni di persone. Chissà se Charlotte potrà fargli dimenticare il baratro che si sta scavando sotto i piedi di un intero Paese. Bibliografia
Volker Kutscher, Babylon-Berlin, traduzione di Palma Severi e Rosanna Vitale, pp. 477, €.
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Cultura e Spettacoli
Un decennio fondamentale
Mostre – 1 André Derain in un’intrigante esposizione aperta fino al 29 gennaio a Parigi
Gianluigi Bellei I primi decenni del secolo scorso sono di vitale importanza per comprendere i corsi e i ricorsi della storia dell’arte. A Parigi gli ex refusé ai vari Salon sono oramai istituzionalizzati. L’arte con gli Impressionisti è diventata tranquilla e «bella», mentre nuove nubi si scorgono all’orizzonte. I giovani se ne accorgono e vogliono capovolgere la situazione, che diventa esplosiva. In giro sta arrivando la banda Bonnot (un gruppo anarchico che rapina banche e semina il terrore) e gli artisti non sono da meno. André Derain afferma che bisogna far esplodere i colori come cartucce di dinamite e il suo amico anarchico Maurice de Vlaminck pensa che non possano esserci altro che due soluzioni: incendiare le tele o lanciare bombe. Fernand Léger d’altro canto scrive: «È nell’accettazione di uno stato di guerra contro la società, che queste opere viventi sono state concepite e realizzate». Sono gli anni del cubismo e dei fauve, che all’inizio coinvolgono gli stessi artisti quali per esempio Paul Cézanne, André Derain, Raoul Dufy. Ma sono
Il Centre Pompidou dedica una mostra al periodo 1904-1914, considerato il più fertile di André Derain i fauve che si impongono per una vera e propria rivoluzione estetica. Colori accesi, tinte piatte, tanto che il critico Louis Vauxcelles nel 1905 chiama la loro sala al Salon d’Automne «cage aux fauves» (gabbia di belve). Belve incendiarie che a loro volta diventano in seguito istituzione. Troviamo, come scritto, Derain, Dufy, de Vlaminck con Henri Matisse, Georges Braque. Il 1907 è l’anno decisivo. Questi artisti si frequentano e si scambiano le idee e realizzano, proprio nel 1907, altrettante opere molto simili: in questo caso parliamo di Henri Matisse, André Derain
e Pablo Picasso i quali con i loro nudi – per Picasso il celebre Les demoiselles d’Avignon – «svolsero un ruolo decisivo nelle trasformazioni del periodo»; in questo caso la nascita del Cubismo. La Baigneuses di Derain viene esposta al Salon des Indépendants del 1907 assieme al Nu bleu di Matisse suscitando la feroce critica di Louis Vauxcelles che li definisce «sacerdoti arroganti». André Derain negli anni Venti è uno dei più importanti artisti viventi, ammirato tanto dai classicisti che dai giovani surrealisti. Poi cade nel dimenticatoio perché, assieme all’anarchico de Vlaminck e ad altri artisti francesi, nel 1941 si reca a Berlino invitato da Propagande Staffel per esporre i suoi lavori e dimostrare l’amicizia con la Germania nazista. Questo dopo che Hitler, l’anno prima, fa requisire le collezioni d’arte francese, soprattutto ebree. Altre fonti sostengono che il viaggio a Berlino dovesse servire a intercedere a favore di alcuni artisti imprigionati in Germania o per riavere la casa sequestrata dai nazisti. Sia come sia, la decisione di prestarsi alla propaganda nazista non viene accolta molto bene dalla Resistenza parigina che lo inserisce nella lista nera dei collaborazionisti. Muore nel 1954, vecchio e malato, solo come un cane, a causa di un incidente stradale. Il Centre Pompidou di Parigi dedica al suo lavoro dal 1904 al 1914 un’esposizione particolarmente intrigante. Una settantina di dipinti con alcune sculture, incisioni, disegni e documenti. Gli anni migliori, cruciali, rivoluzionari, nel quale Derain scopre, inventa, ribalta la grammatica estetica del periodo. Gertrude Stein nel 1930 lo descrive come un avventuriero dell’arte, un Cristoforo Colombo dell’arte moderna che si muove fra genialità e dilettantismo. Il percorso inizia dalle sue simpatie verso l’ambiente libertario nate dalla vicinanza con de Vlaminck – anarchico non per sentimento, come molti artisti del periodo, ma per convinzione politica e lettore di Émile Zola, Friedrich Nietzsche, Max Stirner. Le bal à
André Derain, Baigneuses, 1907. (MoMA, New York, William S. Paley and Abby Aldrich Rockefeller Funds © Adagp, Paris 2017)
Suresnes del 1903 è un dipinto antimilitarista nel quale si vedono tre soldati che osservano con ironia un loro camerata che balla con una donna molto più alta di lui. Frequenta poi i caffè, i boulevard e le case chiuse che dipinge con tratti sempre più accentuati. Dopo il 1905 inizia una corrispondenza con Henri Matisse che in quel periodo si trova a Collioure. In giugno Derain lo raggiunge. Ne sortiscono dipinti fortemente accesi, pieni di luce e il famoso ritratto di Matisse con la pipa di terracotta in bocca. Matisse ha trentasei anni, Derain venticinque, de Vlaminck ventinove. Nel 1906 dipinge la grande tela La Danse: un paradiso lussureggiante ispirato ai colori di Paul Gauguin e alla statuaria cambogiana e indiana. Dopo un soggiorno a l’Estaque, il gallerista Ambroise Vollard lo invia a Londra per dipingere la città a segui-
to del successo della mostra di Monet Trente-Sept Vues de la Tamise alla galleria di Durand-Ruel nel 1904. Derain realizza ventinove dipinti, essenziali, a tratti un po’ brumosi. A partire dal 1911 ritorna ai modelli classici della pittura per donare alle sue opere un carattere spirituale e atemporale. Guillaume Apollinaire scrive che dopo le «truculenze giovanili, Derain torna verso la sobrietà e la misura». I suoi dipinti si fanno arcaici e si ispirano ai primitivi italiani, come Pietro e Ambrogio Lorenzetti; diventano melanconici e pieni di un realismo magico che sfocia nella grande composizione La Chasse (L’Âge d’or) del 1938-1944: allegoria di un passato mitico. Una parte importante dell’esposizione è dedicata alla fotografia dalla quale Derain prende spunto per dona-
re ai suoi lavori maggiori dettagli. Da anni oramai si sa che i più grandi artisti hanno utilizzato la fotografia per i loro dipinti. La mostra fa il punto sugli studi relativi a Derain. Risulta che nel 1910 l’artista abbia posseduto un apparecchio fotografico che ha usato come fonte d’ispirazione e contemporaneamente come strumento per fissare le immagini delle modelle per i suoi nudi o dei paesaggi; stregato dalla dimensione teatrale che l’oggetto registra. Ottimi l’allestimento e l’illuminazione. Utile il catalogo. Dove e quando
André Derain. 1904-1914, le décennie radicale. A cura di Cécile Debray. Centre Pompidou, Parigi. Fino al 29 gennaio. Catalogo, euro 42. Album, euro 9.50. www.centrepompidou40.fr
Il lungo viaggio delle porcellane cinesi verso l’Europa Mostre – 2 La storia di una serie di scambi proficui alle Collezioni Baur di Ginevra Marco Horat Correva il XVII secolo. In Cina governava ancora la Dinastia Ming (1368-1644) considerata ora da molti studiosi la più avanzata nella storia del Paese, mentre
in Europa i Paesi Bassi vivevano il loro cosiddetto Secolo d’oro. Le provincie olandesi erano infatti diventate una potenza economica, scientifica e artistica grazie alla libertà di pensiero che aveva attirato lì personalità
Pittore dei Paesi Bassi, La Visite, ca. 1630-1635. (Collection Lucien Baszanger, Genève, après 1954-1967 Dépôt permanent, 1967 Musée d’art et d’histoire de la Ville de Genève © MAH)
da tutta l’Europa e soprattutto grazie ai commerci internazionali, che facevano capo ai porti di Anversa e Amsterdam, sotto l’egida della Compagnia Olandese delle Indie orientali. Tra queste due culture, pur tra di loro lontane mille miglia, non poteva non nascere una reciproca attrazione, che si manifesterà attraverso intensi scambi culturali, di merci e di prodotti artistici di alto livello. È così che in Europa, se guardiamo dal nostro punto di vista, cominciarono ad affluire le famose porcellane Ming bianche e blu che la ricca borghesia e i mercanti olandesi iniziarono a collezionare come curiosità esotiche; una specie di status symbol ante litteram che doveva fare bella mostra di sé nelle residenze di Amsterdam, a testimonianza del benessere dei proprietari, della loro apertura sul mondo e del loro buon gusto. Non a caso queste preziose porcellane compariranno anche nelle pitture commissionate ai più famosi artisti dell’epoca quali elementi presenti nella vita quotidiana degli olandesi facoltosi. L’Oriente, a sua volta, sarà influenzato dall’arte e dalla tecnica occidentali; la corte e i notabili cinesi si circon-
deranno infatti volentieri di oggetti e manufatti provenienti dai nostri paesi, come ad esempio gli orologi svizzeri e gli automi. Quando poi verso la metà dello stesso secolo una guerra civile sconvolse la Cina e frenò le esportazioni di ceramiche, sui mercati europei apparvero porcellane provenienti dalla Persia e dal Giappone, copie degli originali ma anche che si ispiravano a quelle cinesi pur conservando caratteristiche proprie. Nella mostra viene proposto al visitatore uno straordinario viaggio in tre dimensioni tra paesi e culture diversi: vi sono le opere pittoriche di nature morte nelle quali sono rappresentate anche le famose porcellane bianco-blu in voga in quegli anni, che quindi avevano impressionato gli artisti occidentali oltre che i collezionisti. Vicine vengono esposte le porcellane originali che quelle opere hanno ispirato e infine le copie giapponesi e le preziose miniature persiane nelle quali rifanno capolino gli originali cinesi che quindi, si può facilmente capire, avevano influenzato il mondo intero. Un dialogo tra culture e reciproche influenze che hanno finito per arricchirsi
vicendevolmente; e che potrebbero farci riflettere, pur con mille differenze, anche su problemi attuali di convivenza tra le varie civiltà del nostro piccolo mondo. A proposito di prestiti: bisogna ricordare la storia degli oggetti esposti che provengono dalle stesse Collezioni che fanno capo alla Fondazione Baur, in particolare dalle donazioni recenti dei coniugi Blum e Müller (2002-2004), come pure da una serie di grandi musei e istituzioni svizzere e internazionali: Rietberg e Kunsthaus di Zurigo, MAH e Ariana di Ginevra, Victoria and Albert Museum di Londra, Guimet di Parigi e Prado di Madrid. La mostra è accompagnata da un catalogo illustrato a cura di Monique Crick e altri e da una serie di iniziative collaterali che si rivolgono agli appassionati, alle famiglie e alle scuole ginevrine. Dove e quando
Le bleu des mers. Dialogues entre la Chine, la Perse et l’Europe. Ginevra: Fondation Baur, Musée des arts d’Extrème Orient. Fino al 25 febbraio 2018. fondation-baur.ch
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Cultura e Spettacoli
L’uomo dallo sguardo multiforme Mostre Due esposizioni a Minusio ripercorrono l’intensa carriera di Aldo Crivelli
Alessia Brughera Nel panorama culturale ticinese del Novecento, la figura di Aldo Crivelli, nato a Chiasso nel 1907, è stata sicuramente singolare. Avido ed eclettico intellettuale, si è dedicato lungo l’intero arco della sua esistenza a numerose discipline, mosso da un’irrefrenabile curiosità e da una risolutezza d’intenti che gli hanno permesso di approfondire ciascuna materia con serietà e dedizione. Complesso è stato il suo percorso di uomo di cultura, costellato da impegni pubblici e da interessi personali nonché caratterizzato da una sorprendente libertà di movimento, che lo ha catapultato anche in territori inconsueti, e da un approccio diretto, lontano dalla retorica, che lo ha distinto dai suoi contemporanei. Pittore, archeologo, storico, storico dell’arte, insegnante, appassionato di matematica, giornalista, curatore di mostre, Crivelli è stato duttile nel pensiero e nell’azione, sorretto dalla convinzione che la cultura fosse una forma di responsabilità morale e civile. Alcuni lo ricordano per il piglio polemico dei suoi articoli, apparsi su tanti quotidiani e firmati con diversi pseudonimi, altri per il suo instancabile lavoro nell’ambito dell’archeologia, altri ancora per i suoi volumi sull’arte ticinese. Pochi, però, sono quelli che lo conoscono nella completezza del suo intenso operato. Proprio il suo impegno pratico e teorico su molteplici fronti, infatti, ha portato spesso a prendere in considerazione Crivelli in modo parziale, in riferimento di volta in volta a uno solo dei
vari settori di cui si è occupato, facendo perdere di vista l’insieme coerente della sua attività. Due mostre organizzate a Minusio, una presso il Centro culturale e museo Elisarion e una negli spazi della Fondazione Museo Mecrì, ci permettono di scoprire i legami e le correlazioni all’interno della poliedricità di Crivelli. Obiettivo della duplice rassegna è proprio quello di testimoniare quanto il suo universo, seppur molto vario, sia stato contrassegnato da un fitto intreccio di attinenze e di espliciti rimandi tra una disciplina e l’altra. L’esposizione all’Elisarion si focalizza sul «Crivelli pubblico», grande promotore delle risorse artistiche e culturali del territorio ticinese. Dal materiale raccolto emerge il suo tenace lavoro, svolto con trasporto e scrupolosità fin da quando, negli anni Trenta, gli viene affidato l’incarico di Ispettore onorario dei monumenti per il Distretto del Locarnese. A questo sono seguiti gli impegni istituzionali di Ispettore dei Musei e degli scavi del Canton Ticino e di Ispettore dei monumenti, mansioni in cui Crivelli ha dimostrato la forza innovativa delle sue idee e una lungimiranza fuori dal comune. Da caparbio e visionario qual era, aveva già intuito, con largo anticipo sui tempi, l’importanza di un sistema museale ticinese e la necessità di una forma di mediazione culturale capace di coinvolgere un pubblico più vasto. Crivelli studia, indaga, avanza proposte funzionali e coerenti riuscendo a instillare nelle autorità pubbliche così come nel cittadino comune il rispetto e la consa-
pevolezza del valore dei beni culturali del cantone. Un Crivelli più intimo, invece, è quello che ci viene presentato nella mostra allestita alla Fondazione Museo Mecrì, istituzione nata nel 2014 per volere della figlia Ilaria Merlini-Crivelli con l’intento di conservare il materiale che il padre ha lasciato e di ricordarne la figura con rassegne monografiche e tematiche. La chiave di lettura dell’esposizione è affidata al disegno, amatissimo compagno di vita di Crivelli che così annotava a margine di un suo autoritratto del 1929: «Tutte le mode trapassano, ma il disegno resta». È infatti il disegno a percorrere trasversalmente tutte le discipline da lui toccate, trovando declinazioni in varie forme – dall’arte all’archeologia, dalla cartellonistica alle pubblicazioni – e diventando per Crivelli un imprescindibile strumento per memorizzare, chiarire, approfondire e progettare. Nell’itinerario di mostra sono presenti alcuni disegni che manifestano la vicinanza allo stile di Ugo Zaccheo, pittore con cui Crivelli stringe una forte amicizia. È con lui che si reca spesso a Cimalmotto, in Valle Maggia, villaggio emblema della ruralità, frequentato e dipinto molte volte, come testimoniato da alcune tele esposte, con l’intento di recuperare le radici del proprio territorio. Una ricerca dell’identità, questa, che si esprime anche nelle opere a tema religioso che Crivelli, ateo, realizza per avvicinarsi alla cultura locale, o ancora negli studi degli abiti tradizionali ticinesi, i cui motivi decorativi vengono poi rielaborati per creare illustrazioni. Interessante è la sezione archeo-
Aldo Crivelli – Cimalmotto con contadine, 1931. (Collezione privata)
logica della rassegna, da cui si evince l’importanza di Crivelli nell’unire la figura di studioso a quella di disegnatore attraverso il diretto raffronto tra alcuni oggetti rinvenuti durante gli scavi (il più prezioso dei quali è la «coppa degli uccelli» di epoca romana, ritrovata a Muralto nel 1936) e gli schizzi eseguiti per analizzarli e per trarne un ricco patrimonio d’immagini da riproporre in pittura. Ben documentata è anche l’ultima fase del percorso di Crivelli, quella in cui, abbandonate tutte le cariche istituzionali, si dedica alla saggistica (i suoi volumi degli anni Sessanta sugli artisti ticinesi nel mondo sono ancora oggi testi di riferimento per gli addetti ai lavori) e all’arte, ambito dove libera con maggior vigore la sua straripante voglia di sperimentare. Da segnalare la pubblicazione della
monografia su Crivelli che raccoglie gli studi svolti dalla storica dell’arte Manuela Kahn-Rossi, il cui esaustivo lavoro è stato fondamentale per le due mostre di Minusio. Dove e quando
Aldo Crivelli – una vita per la cultura. Centro culturale e museo Elisarion, Minusio, fino al 28 gennaio 2018; Fondazione Museo Mecrì, Minusio, fino al 29 aprile 2018. Orari: ma, me 14.00-17.00 e do 10.00-12.00 / 14.0017.00. www.minusio.ch/elisarion; www.mecri.ch In collaborazione con
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Cultura e Spettacoli
Il circolo virtuoso di Eike Schmidt
Incontri A colloquio con il direttore della Galleria degli Uffizi
di Firenze, recentemente ospite dell’associazione «Nel» Ada Cattaneo È tedesco, ha 49 anni e dal 2015 è direttore degli Uffizi, dove rimarrà fino al 2020. La prossima tappa della sua carriera è già decisa: la direzione del Kunsthistorisches Museum di Vienna. Eike Schmidt è una persona elegante, di grande garbo e disponibilità; il suo italiano è perfetto. La nomina di uno straniero alla direzione del più visitato tra i musei italiani, avvenuta a seguito della riforma voluta dal ministro Dario Franceschini, fece a suo tempo molto scalpore. Se qualcuno avesse avuto dei dubbi al riguardo, egli si è finora destreggiato al meglio nella complessità che comporta dirigere un museo come quello fiorentino, fra pregevoli capolavori da tutelare, visitatori da accogliere (oltre 2 milioni nel 2016) e burocrazia da fronteggiare. Il pubblico ticinese ha avuto modo di ascoltare Eike Schmidt in novembre, in occasione di una conferenza a Lugano, organizzata dall’Associazione «Nel – Fare arte nel nostro tempo», dedicata al tema delle passioni. Schmidt ha risposto anche ad alcune domande per i lettori di «Azione». Signor Schmidt, quale situazione si è trovato di fronte nel 2015, al momento di iniziare il suo incarico come direttore della Galleria degli Uffizi?
Ho trovato una delle collezioni più fantastiche al mondo, fra le più belle e ampie che si possano immaginare. Ma ho anche trovato una situazione molto caotica per quanto riguarda la gestione, sale affollatissime e lunghe file. Non esisteva un sito internet: c’erano alcuni siti web con il nome degli Uffizi, ma erano tutti abusivi, di agenzie turistiche, ma soprattutto gestiti da «bagarini». Tutti cercavano di utilizzare il nome del museo per fini commerciali, in modo più o meno illecito, nella zona grigia fra legalità e illegalità. Le uniche informazioni ufficiali erano quelle sul sito del Polo Museale Fiorentino, all’interno del portale del Ministero dei Beni Culturali, ma erano solo per addetti ai lavori e non per il pubblico. E cosa lascerà di diverso nel 2020?
Da subito mi sono occupato di fondare un dipartimento per la comunicazione digitale così da colmare le lacune informative a cui accennavo: abbiamo inizialmente avuto un sito temporaneo, molto semplice. Abbiamo dovuto riacquistare il dominio «www.uffizi.it», che era detenuto da privati, con scopo commerciale. Poi ci siamo messi a lavorare per una campagna di branding, insieme allo studio di comunicazione visiva di Milano, Carmi e Ubertis, autori tra l’altro dell’immagine coordinata per Expo 2015. Con loro abbiamo sviluppato una nostra identità grafica, presentata a settembre 2017. In parallelo abbiamo sviluppato un sito internet vero e proprio che possa rispondere alle esigenze dei visitatori, non soltanto pratiche, ma anche conoscitive sulle opere d’arte. È tuttora in evoluzione: ogni settimana vengono aggiunte nuove pagine, nuove schede; è una struttura organica che crescerà ulteriormente. Per quanto riguarda gli interventi concreti volti a migliorare la situazione di affollamento al museo, abbiamo soprattutto operato nella serie di sale dedicate a Botticelli e al primo Rinascimento: sono state riallestite secondo principi non più basati sull’opera d’arte in astratto, ma sul rapporto concreto che lega opera, spazio architettonico e visitatore. Per questo motivo oggi possiamo avere tranquillamente anche cento persone di fronte alla Primavera di Botticelli e tutte saranno in grado di vedere il quadro, addirittura a pochi centimetri di distanza. Questo avviene grazie ad una nuova tecnologia che utilizza il vetro, creando anche un microclima adatto a proteggere la tela da sbalzi di temperatura e di umidità. Stiamo applicando gli stessi principi alle sale dedicate a Caravaggio e alle pitture del primo Seicento. Gli ambienti che ospitavano Botticelli erano le sale peggiori di tutto il museo: somigliavano più ad una bolgia dantesca che a un ambiente museale. Ma più o meno la stessa situazione si osservava anche di fronte alle opere di Caravaggio, verso la fine del percorso espositivo. Perciò nelle prossime settimane riallestiremo anche questi spazi, in modo da offrire
una nuova esperienza museale, molto più diretta e molto più tranquilla, oltre che di maggiore impatto. La scelta è anche quella di favorire una visione comparata delle opere esposte le une accanto alle altre: senza un’eccessiva preparazione dovrebbe essere già possibile per i visitatori leggerne alcuni aspetti grazie al confronto fra di esse. Il tentativo è quindi quello di stimolare l’attività intellettuale del visitatore e perfino il dialogo fra gli stessi visitatori. Come avete organizzato la gestione dei flussi di visitatori?
La tecnologia ci ha molto aiutati. Abbiamo iniziato un progetto di ricerca insieme all’Università dell’Aquila, specializzata proprio in questo settore, e con loro abbiamo sviluppato un nuovo sistema di gestione. Per ora è un protocollo ancora sperimentale: lo abbiamo applicato alle domeniche in cui il museo è aperto al pubblico gratuitamente, quando il numero di visitatori aumenta incredibilmente. Abbiamo potuto verificare che questo nuovo metodo è in grado di accorciare le code in maniera sostanziale. Presto saremo in grado di applicare il sistema anche ai giorni di normale apertura.
I numeri non sono certo la soluzione a tutto, ma le recenti statistiche dicono che i vostri visitatori sono sempre di più. Quali sono le ragioni?
I nostri numeri non sono cresciuti per un miracolo. Se si considerano le lunghe file di attesa, ci si può chiedere se sia veramente un bene che il pubblico aumenti. Ma la nostra crescita è avvenuta proprio nei mesi invernali, cioè nei quattro mesi di bassa stagione. A Firenze non esiste una mezza stagione: gli altri otto mesi dell’anno sono alta stagione. Da novembre a febbraio, invece, gli Uffizi erano piuttosto vuoti e i nostri numeri sono cresciuti proprio in questo periodo, grazie a una serie di nuove iniziative. Ora, nel corso dell’inverno presentiamo grandi mostre, che in precedenza erano concentrate nel periodo estivo. Inoltre, organizziamo una serie di concerti: per esempio, a Palazzo Pitti un festival dedicato a giovani musicisti classici, con due concerti al giorno che sono inclusi nel biglietto di entrata al museo.
Un patrimonio da salvaguardare, la Galleria degli Uffizi di Firenze. (Keystone) La sua gestione è anche frutto della riforma museale voluta da Dario Franceschini. Essa garantisce un’autonomia tutta nuova agli istituti. Questo ha effettivamente comportato dei benefici dal punto di vista gestionale?
Certamente. Il fattore principale di questa riforma è proprio l’autonomia economica, gestionale e scientifica. Prima era irrilevante quanti soldi si ricavavano dai biglietti e quanto si risparmiava grazie a investimenti oculati perché tutte le entrate venivano trasferite direttamente al Ministero, e i finanziamenti che tornavano l’anno successivo non erano calcolati in proporzione ai versamenti fatti. Non si era in alcun modo motivati a garantire una gestione razionale. Ora invece c’è una motivazione: se generiamo risorse possiamo anche permetterci di investirle per migliorare la situazione concreta. Lei si è anche impegnato per dare nuova importanza alle aree cosiddette periferiche, ma che rientrano nel patrimonio degli Uffizi.
Senz’altro. Per esempio Palazzo Pitti era frazionato in diverse gallerie, ciascuna con un biglietto diverso. Questo disincentivava il visitatore. Noi ci siamo preoccupati di unirle e di garantire un unico biglietto, che è entrato in uso dal maggio di quest’anno. Si tratta di una realtà straordinaria che ora è valorizzata e ciò avverrà sempre più anche nel prossimo anno. Il pubblico verrà incentivato con tariffe agevolate: il biglietto, se acquistato di prima mattina, costerà la metà. Poi abbiamo iniziato una serie di restauri, sia qui sia ai Giardini di Boboli, tutte aree neglette negli ultimi decenni. Passando ora all’incontro di Lugano, quali sono i temi affrontati?
Ho parlato del tema delle passioni nell’arte, esemplificandole con opere dalle Gallerie degli Uffizi. È chiaro che
parlando di questo, si debba iniziare da colui che per primo se n’è occupato, cioè Charles Le Brun (1619-1690), che per primo scrisse un’opera proprio sulla rappresentazione delle passioni nell’arte. Egli fu pittore alla corte di Luigi XIV e poi presidente dell’Académie de Peinture a Parigi e dell’Accademia di San Luca a Roma. Il suo trattato venne pubblicato postumo nel 1698 e fu poi la base per ogni discorso sulle passioni raffigurate nelle opere d’arte. Si trattava di un soggetto fortemente sentito nel periodo barocco e per questo era per lui di grande interesse. Egli osservava il movimento esteriore dei corpi, così come quello interiore, dell’animo. Nella conferenza ho proposto alcuni esempi, basandomi proprio su Le Brun. Ho concluso con una passione fortemente connessa con il mondo dell’arte, cioè quella per il collezionismo. Riguardo al tema delle passioni, mi sembra di capire che lei abbia trovato nel lavoro il modo per coltivare le sue: continua infatti a svolgere un’intensa attività di ricerca scientifica.
Secondo me è importante non scindere ambito gestionale e ambito storico-artistico: non credo che possa funzionare avere una persona che si occupi solo di gestione e un’altra che controlli solo gli aspetti scientifici dell’arte. Questo può condurre a un atteggiamento sterile. La ricerca e la gestione possono aiutarsi a vicenda, la ricerca può esser utile dal punto di vista collettivo. Inoltre, educazione e ricerca vengono troppo spesso separate. Qualcuno è incaricato di occuparsi solo di ricerca e qualcun altro solo di divulgazione, ma in realtà la ricerca può avere grande vantaggio se trae ispirazione dagli aspetti sociali del museo, quindi anche dalla gestione. Vale anche il contrario. È un circolo virtuoso che bisogna creare e coltivare.
Fandonie senza tempo Editoria Le bufale letterarie che anticipano e sostanziano le fake news moderne, in un contributo
sulla teoria del complotto presentato alla Milanesiana da Umberto Eco Stefano Vassere «La meridiana costituita dalla linea in ottone incastonata nel pavimento della chiesa è parte di uno strumento scientifico costruito durante il XVIII secolo. Contrariamente a quanto fantasiosamente dichiarato in un recente romanzo di successo, non si tratta delle vestigia di un tempio pagano, peraltro mai esistito in questo luogo. Nessuna nozione mistica può essere derivata da questo strumento astronomico ad eccezione della coscienza che Dio il Creatore è Signore del tempo». Hanno un bel daffare, i reggenti della chiesa di Saint-Sulpice a redigere avvisi che cerchino in un qualche modo di scoraggiare le velleità mistiche dei numerosi lettori di Dan Brown che da ormai una quindicina d’anni si affrettano ad andare nei luoghi inglesi, francesi e italiani narrati dal Codice da Vinci per cercare di dare sostanza a una serie di fake news sulla nascita e gli sviluppi del
Cristianesimo. In particolare, nell’enorme chiesa parigina cercherebbero invano, con il Codice sotto braccio, la Linea della Rosa, che attraverso il meridiano di Parigi, condurrebbe, secondo questa fandonia, ai sotterranei dei Louvre, dove, per non sbagliare, per giungere a capo di questa fantastica escalation, sarebbe custodito il Santo Graal, la coppa della celebrazione dell’Ultima Cena. Non è tanto la spiegazione di questa ostinata propensione a dar seguito alle bufale più disparate quanto il tentativo di capire quali tecniche «pseudosemiotiche» le governano l’intento di Umberto Eco nel Complotto, una delle lezioni alla rassegna «Milanesiana» raccolte nell’ultimo e postumo Sulle spalle dei giganti, pubblicato qualche mese fa dall’editrice La nave di Teseo. La serie è intestata a noto aforisma, che vede tutti noi potenzialmente promossi dalla possibilità di elevarci, aiutati (sulle spalle appunto) dal gigantesco apporto dei classici e genericamente da chi ne sa più
di noi e molto può insegnarci (c’è un capitolo intero, il primo, dedicato appunto a questa storia dei nani e dei giganti, attribuita a Bernardo di Chartres ma, sembra, ben più antica).
Ora, che le fake news siano pratica vecchia come il mondo e che solo in parte la loro portata risulti aumentata e urgente nei social attribuiti alle nuove tecnologie è banalità che ci si vergogna ormai quasi a pronunciare. La teoria del complotto è però, oltre che antica, molto parlante di certi processi psicologici, sociali, culturali e politici, che la rendono materia attuale e produttiva per chi si occupi di cultura comunicativa. «La psicologia del complotto nasce dal fatto che le spiegazioni più evidenti di molti fatti preoccupanti non ci soddisfano, e spesso non ci soddisfano perché ci fa male accettarle», o meglio, come dice Pasolini, «il complotto ci fa delirare perché ci libera dal peso di doverci confrontare con la realtà». Questo sul piano psicologico, mentre le teorie sociologiche di spiegazione del successo delle bufale partirebbero da una certa frustrazione delle comunità, che accolgono con favore anche una certa loro complessità in risposta a una informazione pubblica
e ufficiale percepita come insufficiente. Ci mette del suo anche il gusto della coincidenza (che rende queste storielle, va riconosciuto, almeno abbastanza divertenti). Lo sapevate che esattamente cento anni dividono l’elezione al Congresso di Lincoln e Kennedy? E che esattamente un secolo dopo l’elezione di Lincoln alla presidenza Kennedy veniva eletto alla presidenza? E che entrambe le mogli hanno perso un bambino alla Casa Bianca? E che il segretario di Lincoln si chiamava Kennedy? E che – aspetta aspetta! – il segretario di Kennedy si chiamava Lincoln? Eh? Lo sapevate? Il problema è cercare di sapere che cosa c’è dietro. Chissà quale potere occulto abbia apparecchiato tutte queste coincidenze. Bibliografia
Umberto Eco, Sulle spalle dei giganti. Lezioni alla Milanesiana 2001-2015, Milano, La nave di Teseo, 2017.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Cultura e Spettacoli
Il secolo delle donne
Appuntamenti Yvonne Pesenti Salazar terrà una conferenza a FORUM elle sugli importanti cambiamenti sociali
che hanno contraddistinto la condizione femminile nel corso del Novecento Il cambiamento è certamente avvenuto e le trasformazioni, profonde e radicali, ci sono state. Esse hanno toccato diversi ambiti: il lavoro, la cultura e la politica, e l’ambito famigliare, ma è soprattutto nel rapporto tra i sessi che ha avuto luogo uno stravolgimento. Ciò non toglie che il percorso sia ancora lungo: non abbiamo infatti ancora raggiunto la piena parità tra uomo e donna. Tuttavia oggi c’è una consapevolezza diversa riguardo alla presenza delle donne nel mondo del lavoro e non solo, per cui mi auguro che gli errori che ancora sussistono si potranno correggere.
Simona Sala Se nella storia dell’umanità c’è stato un momento in cui la sorte delle donne ha subito la svolta fondamentale che ha segnato la strada che ancora oggi percorriamo, esso è stato nel Novecento. Solo la storia recente ha infatti dato modo alle donne (e qui occorre fare un distinguo: ci riferiamo al mondo cosiddetto occidentale) di essere considerate prima di tutto come esseri umani, e proprio in quanto tali di godere di quei diritti che l’egemonia maschile ha sempre deliberatamente scelto di negare. La storica ticinese Yvonne Pesenti Salazar, per molti anni responsabile del Percento culturale Migros e della Scuola Club, nell’ambito di FORUM elle Ticino terrà una conferenza su questo argomento.
particolare Stati Uniti ed Europa). Sono infatti riconoscibili dei parallelismi per ciò che riguarda la conquista dei diritti politici o il ruolo delle donne nel mondo del lavoro. In Svizzera alla fine dell’800 ci sono movimenti femminili molto importanti, che tentano di accedere presto ai diritti politici. La conquista del diritto di voto arriverà tuttavia solo nel 1971. Questo ritardo non è però da imputare a una particolare arretratezza delle donne svizzere, ma piuttosto al sistema della democrazia diretta. Infatti nel campo dell’istruzione, nella vita professionale e anche per quanto riguarda i rapporti tra i sessi la Svizzera è sempre stata al passo con gli altri paesi occidentali.
Quali sono state le tappe di questo cambiamento?
Yvonne Pesenti Salazar, partiamo dal titolo di questa conferenza: perché il Novecento è da considerarsi il secolo delle donne?
Il 900 è un secolo che si contraddistingue per vari mutamenti epocali. Fra questi quello più importante e forse più duraturo è sicuramente rappresentato dai profondi cambiamenti che riguardano la condizione delle donne e l’emancipazione femminile.
Un contributo importante è stato dato dalle due guerre, il 1918 e il 1945 rappresentano altrettanti momenti di cesura, in quanto la guerra, con gli uomini al fronte ha permesso alle donne di entrare nel mondo del lavoro e di prendere parte alla vita pubblica. Un’altra grande accelerazione si è verificata a partire dal 1968. Se pensiamo all’Ottocento, un periodo di involuzione per quanto riguarda la condizione femminile, occorre riconoscere che i cambiamenti subentrati nel 900 sono stati enormi, radicali e irreversibili.
La strada è ancora lunga, anche se ne abbiamo già percorsa parecchia: Yvonne Pesenti Salazar.
Sono fondamentalmente quattro: l’entrata in massa delle donne nel mondo del lavoro salariato extradomestico; l’accesso all’istruzione; la conquista dei diritti politici e della parità sul piano istituzionale. L’ultimo fattore riguarda
la maternità e la sessualità: la maternità non è più una condizione che comporta pericoli e la contraccezione ha permesso alle donne di affrancarsi dal ruolo unicamente riproduttivo. Infine è cambiato il ruolo della donna nel rapporto di coppia e nella famiglia.
Quali sono stati i più importanti fattori del cambiamento?
Lei parla del Novecento come del secolo delle donne. Com’è possibile allora, che nel 2018 si lamentino ancora disparità salariali e, proprio in questi giorni, si denuncino tutta una serie di abusi nei confronti delle donne?
Cosa direbbe alle donne di oggi?
Non dobbiamo pensare che i diritti conquistati siano acquisiti una volta per tutte. Viviamo in un’epoca in cui il lavoro torna ad essere precario e per le donne il pericolo di tornare ad essere dipendenti economicamente è reale. E non dobbiamo poi dimenticare che in altre parti del mondo e in altre realtà sociali e culturali l’emancipazione femminile è ancora un traguardo lontano. Durante la conferenza il suo discorso si concentrerà anche sulla situazione svizzera?
Per quanto riguarda l’emancipazione femminile mi riferisco a quello che è riconosciuto come uno sviluppo comune alla società occidentale (in
Dove e quando
Novecento: il secolo delle donne. Lugano, Hotel Pestalozzi, giovedì 18 gennaio 2018, 16.30. Per iscriversi e informazioni: simona.guenzani@ forum-elle.ch; tel. 091 923 82 02. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Cultura e Spettacoli
Il coraggio disperato di Sufjan Musica Un sequel di tutto rispetto: Sufjan Stevens non sbaglia un colpo, e dona ai fan un emozionante
«dietro le quinte» del suo capolavoro del 2015 Benedicta Froelich Quando capita di aver seguito e amato per lungo tempo un artista della scena cosiddetta «indie» o «alternativa», e di aver ardentemente auspicato (pur non osando sperarci troppo) che anche il grande pubblico si accorgesse finalmente delle sue notevoli capacità, ecco che, nel momento in cui tale fenomeno infine si verifica, perfino il diretto interessato ne resta spiazzato. Come nel caso del 42enne americano Sufjan Stevens – il quale, già autore di diversi album di grande profondità lirica e musicale, è rimasto non poco sconcertato dal (meritatissimo) successo critico del suo capolavoro Carrie & Lowell (2015), lacerante concept album autobiografico incentrato sulla tragica figura di una madre assente e disperatamente instabile. Galvanizzato da un simile riscontro, l’artista ha oggi deciso di offrire ai suoi fan uno sguardo privilegiato sulla lavorazione di quest’opera tanto amata, presentando il nuovo The Greatest Gift come una collezione di quelli che, a prima vista, potrebbero considerarsi semplici «scarti» della lavorazione di Carrie & Lowell: demo, remix e cosiddetti outtakes, cioè brani rimasti esclusi dall’album per il quale erano stati originariamente concepiti. In realtà, come sempre accade con ogni singolo pezzo firmato dall’instancabile Sufjan, ciascuna di queste registrazioni si rivela essere una piccola gemma, più che meritevole di tale tardiva pubblicazione:
Uno sguardo privilegiato.
ne è esempio particolarmente elevato la straziante traccia d’apertura Wallowa Lake Monster, sfaccettata parabola biblica che tesse un’intricata metafora intorno alla vicenda della madre di Sufjan, qui dipinta come la vittima di una sorta di «possessione» – e destinata a divenire, al pari della protagonista di
una terribile allegoria d’altri tempi, la vittima del mostro del titolo, da sempre nascosto nelle profondità del lago Wallowa: «...e quando il drago si inabissò, capimmo che lei era morta». La complessità a tratti quasi eccessiva del testo e l’assoluta magia evocata dalla coda strumentale di chiusura fanno di que-
sto pezzo uno dei migliori mai firmati da Stevens, in una sorta di incrocio tra le atmosfere di Carrie & Lowell e quelle di brani memorabili e coraggiosi come John Wayne Gacy Jr., tratto dal disco Illinoise (2008) e incentrato su uno dei più celebri serial killer americani. Del resto, uno degli aspetti più interessanti di Carrie & Lowell, come dell’intera opera di Sufjan, risiede proprio nella capacità dell’autore di traslare e convertire l’assoluta sincerità autobiografica di testi quasi crudi (e degli scarni ritratti emotivi da essi intessuti) in una forma canzone di altissimo livello, in grado di sublimare l’intimo dolore dell’io narrante in immagini intense ma mai stucchevoli, e di schivare la facile trappola dell’eccesso descrittivo. In The Greatest Gift tale capacità brilla più che mai, offrendoci brani contraddistinti dall’abituale spirito intimista e autoreferenziale di Stevens, ma capaci di assumere le sfumature più disparate: si va così dal vibrante e ritmato The Hidden River of My Life al più spensierato City of Roses – celebrazione dell’amore di Sufjan per la città di Portland, scenario dei suoi anni formativi – fino all’indecifrabile ambivalenza della sublime «title track» The Greatest Gift, in cui l’apparente naïveté evangelica suggerita da testo e videoclip (un collage vintage di riviste care alla branca americana dei Testimoni di Geova) viene accostata a una certa, sotterranea ironia, lasciando all’ascoltatore il compito di interpretare le reali intenzioni dell’artista.
Il resto della tracklist è quasi interamente dedicato a remix di brani già presenti in Carrie & Lowell, come nel caso di Drawn to the Blood, qui presentata in ben due varianti: un Sufjan Stevens Remix a base di sintetizzatori mutuati dalla migliore tradizione della musica elettronica anni 80, e un Fingerpicking Remix, imperniato invece su un fine intreccio di accordi di chitarra. E se, come spesso accade con simili rimaneggiamenti, i risultati non aggiungono granché alle intenzioni dei brani originali, lo stesso non si può dire dei demo presenti nel disco, ovvero le prime prove «grezze» di registrazione di due delle tracce più toccanti di Carrie & Lowell: versioni scarne per sola voce e chitarra, che vedono Sufjan registrarsi da sé sul proprio iPhone, permettendoci così di assistere alla genesi di John My Beloved e della title track dell’album, i cui testi presentano qui diverse differenze rispetto alle versioni finali. Ecco quindi che, pur non rappresentando del tutto una nuova opera inedita, un disco di questo calibro non fa che dimostrare come il recente successo di Stevens sia più che meritato; e, oltre a permetterci di riacquistare una certa fiducia nella capacità critica delle masse, ci conferma come il cantautorato americano indipendente e cosiddetto «di spessore» abbia infine trovato, dopo tanto tempo, un nuovo, meritevole portavoce – qualcuno che, nelle speranze di molti critici, è destinato a tenerne alta la bandiera ancora per lungo tempo.
Mentre aspettavamo Benjamin Clementine Uscite discografiche Il meglio e il peggio dell’anno appena trascorso, tra nuove tendenze e coraggio
a una band che purtroppo sta invecchiando male (U2) Zeno Gabaglio Se c’è un esercizio particolarmente inutile con il volgere dell’anno, è quello dei bilanci e delle classifiche. Inutile perché non strettamente produttivo, inutile anche perché sorretto dall’arbitraria convenzione che ci fa cambiare calendario poco dopo il solstizio d’inverno. Ma siccome l’ambito dell’espressione artistica è – e sempre dovrebbe restare – il regno dell’inutilità, del non-spendibile, addirittura del puro, non ci sottraiamo al piacere di cercare nella produzione discografica del 2017 (sì: esiste ancora, e pure gode di buona salute) il meglio, l’ottimo, il discreto e il peggio. Il meglio: Benjamin Clementine – I Tell A Fly
Non succede quasi più che un disco sia realmente atteso, cioè che un’ampia comunità si svegli un giorno sì e uno no chiedendosi «chissà cosa starà facendo quel musicista, chissà a quali nuove idee sta lavorando». Una delle eccezioni più vistose e virtuose in tal senso è stata rappresentata – perlomeno nell’ultimo biennio – da Benjamin Clementine, e più precisamente da quel marzo 2015 in cui diede alle stampe At Least for Now: primo e travolgente album di un autore/performer poco più che ventenne. Poesia e
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
stile, delicatezza e viscere, sfrontatezza e controllo, pop, rock e classica: questi erano alcuni degli elementi dialettici e germinali del primo disco, che puntualmente si sono ripresentati – e pure amplificati – nel recente I Tell A Fly. Indescrivibile, inetichettabile. (E, tangenzialmente, era da un po’ che non capitava di sentire un clavicembalo usato in modo così intelligente, nel contesto della una canzone pop).
temporaneità, ascoltando Bologna Violenta troviamo una delle risposte più convincenti. Il discreto: Gianni Maroccolo – Nulla è andato perso
Non è un disco brutto, anzi, ma a renderlo solamente discreto è il sottotesto nostalgico che lo accompagna. Nulla è andato perso è il racconto del tour
del 2016 con cui Gianni Maroccolo ha proposto le canzoni dell’album Vdb23 realizzato assieme al compianto – e indefinitamente geniale – Claudio Rocchi. Se c’è un dato caratterizzante, a dir poco unico, nella personalità artistica di Gianni Maroccolo è proprio quello di essersi sempre prestato con notevoli esiti a progetti anche molto diversi: Litfiba, CCCP, Consorzio Suonatori Indipendenti, Marlene Kuntz, Timoria,
L’ottimo: Bologna Violenta – Cortina
Bologna Violenta – l’alias artistico del polistrumentista e compositore Nicola Manzan – è da anni un punto di riferimento nella scena underground internazionale. Violenza e disagio urbano sono alcuni degli elementi riconosciuti alla sua poetica, etichettata come «grindcore destrutturato, con una fortissima componente elettronica, industrial e hardcore». Un’evoluzione estrema del metal strumentale, quindi, con pezzi spesso molto brevi, molto veloci, molto incisivi. Con Cortina Manzan compie un ulteriore passo avanti, scarnificando ulteriormente gli arrangiamenti e portando in primo piano lo strumento di cui è incontestabile virtuoso: il violino. Ecco: se qualcuno si chiedesse cosa avrebbe potuto fare Niccolò Paganini nella nostra conSede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Colpo di genio, Benjamin Clementine. Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
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Diaframma e Bandabardò. E il problema è forse proprio qui: Nulla è andato perso è un percorso proiettato quasi esclusivamente nel passato – con brani propri o di autori amati – in un tacito consenso attorno all’idea che un tempo tutto era meglio. E non a caso i nostalgici degli anni Novanta hanno gridato al capolavoro, ma purtroppo i Novanta son finiti da quasi vent’anni. Il peggio: U2 – Songs of Experience
Invecchiare nel rock’n’roll non è certo facile. Forse perché la mitologia del genere ha visto morire i propri eroi (quasi) sempre giovani e belli, forse perché il nervo di novità e ribellione iscritto nel DNA rock difficilmente si sposa con il successo e la maturità antropologica. Sting – per fare il primo nome che viene alla mente – a invecchiare c’è riuscito benissimo, gli U2 decisamente meno. Il gruppo irlandese continua a confinarsi in un ideale rock (di rottura, ma anche pop) che – appunto – ormai è solo una loro idea. E lo stato di confusione poetica e creativa – che porta a risultati patinati di piatto conformismo – è rivelato anche dalle ventotto (28!) persone accreditate alla produzione artistica. Sono purtroppo lontanissimi i tempi in cui per produrre un capolavoro era sufficiente rivolgersi a Brian Eno o a Daniel Lanois. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Novità Il sapore armonioso dei due nuovi Brie dei Nostrani del Ticino
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Due prelibatezze speciali prodotte artigianalmente in Ticino con ingredienti genuini e 100% locali. I due nuovi Brie nostrani conferiscono varietà e colore a un ricco tagliere di formaggi misti o durante gli aperitivi, ma soprattutto un gusto del tutto esclusivo. Queste specialità sono farcite con una miscela di formaggio fresco che è stata arricchita con due pregiati ingredienti tradizionali del nostro territorio: il pepe aromatizzato della Valle Maggia e il tartufo nero estivo del Monte Generoso. L’elaborazione artigianale di questi due Brie è curata minuziosamente dalla Best Gourmet di Gravesano, azienda con oltre vent’anni di esperienza nella
lavorazione e nell’affinatura dei formaggi più ricercati. La produzione del formaggio a pasta molle è affidata alla LATI di S. Antonino, mentre dalla Fattoria del Faggio di Sonvico proviene il formaggio fresco utilizzato per la farcitura. Entrambi sono creati con latte vaccino raccolto da oltre un centinaio di allevatori attivi sul territorio cantonale. Infine, a fornire i raffinati aromi sono Virgilio Matasci di Bignasco, storico ideatore e produttore del noto pepe aromatizzato della Valle Maggia; e Fabio Marzioli di Vacallo, che raccoglie il delicato tartufo nero estivo sulle pendici del Monte Generoso nel rispetto dei tempi di maturazione.
Utile a sapersi
Il Brie è un formaggio originario dell’omonima regione francese (oggi Seine-et-Marne). Possiede una pasta molle e una crosta fiorita commestibile. È fatto con latte di mucca crudo pastorizzato e sottoposto ad un affinamento di almeno due settimane. Uno dei più famosi Brie è quello di Meaux. La pasta viene inseminata con muffe speciali del genere penicillium che nel corso dell’affinamento creano un «fiore» bianco che conferisce alla crosta il suo caratteristico aspetto vellutato. Al Congresso di Vienna del 1815 il Brie di Meaux fu incoronato «re di tutti i formaggi».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Idee e acquisti per la settimana
Voglia di sushi Attualità Sono numerose le stuzzicanti varianti di sushi disponibili da Migros Ticino
Azione 20% su tutto l’assortimento di sushi dal 16 al 20 gennaio
Gli amanti dei sapori orientali alla Migros trovano tutto ciò che serve per soddisfare la propria golosità. Dell’assortimento fa naturalmente parte anche una vasta scelta di sushi fresco, la stuzzicante specialità di origini giapponesi a base di pesce crudo, riso e verdure. Bello da vedere, salutare e irresistibile da gustare boccone dopo boccone, il nostro sushi è preparato quotidianamente da autentici specialisti di cucina asiatica con l’utilizzo di ingredienti freschissimi e di prima qualità. Accanto ai classici Sashimi, Nigiri, Hoso-Maki, Chu-Maki e Gunkan con pesce, la gamma include pure alcune varianti dedicate a chi predilige le pietanze vegane. Per gustare appieno tutta la prelibatezza del sushi, si consiglia di toglierlo dal frigorifero almeno 20 minuti prima del consumo. I bocconcini si possono gustare da soli, al naturale, oppure, come vuole la tradizione del paese del Sol Levante, accompagnandoli con della salsa di soia, del wasabi (pasta piccante a base rafano) e zenzero marinato a lamelle. Inoltre, segnaliamo che per dare un tocco di originalità agli eventi più variegati, i piatti assortiti di sushi si possono anche ordinare con almeno 2 giorni di anticipo presso la vostra filiale Migros di fiducia. Gli addetti dei banchi carne saranno lieti di consigliarvi personalmente. Infine, dal 18 al 20 gennaio, presso il supermercato Migros di Bellinzona è prevista una degustazione di sushi.
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Quest’anno il carnevale arriva presto. Già a partire da questo fine settimana nella Svizzera italiana i festeggiamenti entreranno nel vivo con, per esempio, i carnevali di Cadenazzo, Lostallo, Lumino e Medeglia; la settimana successiva con quelli di Rivera e Monte Carasso; mentre dall’8 al 13 febbraio si terranno
gli appuntamenti clou, il Rabadan di Bellinzona, Nebiopoli Chiasso, Lugano e Locarno, per poi concludersi con i carnevali ambrosiani di Biasca e Tesserete dal 14 al 17 febbraio. Accanto allo spirito goliardico, sulla tavola di carnevale non possono ovviamente mai mancare i dolci più tradizionali, nella fattispecie
le frittelle. I Pettegolezzi di Colombina e i Galani dei Dogi sono realizzate con ingredienti semplici quali farina di frumento, uova, zucchero e burro e, una volta fritte in olio di semi di girasole altoleico, vengono cosparse di zucchero a velo. Inoltre non contengono né grassi idrogenati né olio di palma.
La marca propria Migros M-Plast si arricchisce di una novità a livello svizzero: i cerotti con strato adesivo in silicone. Ideali per bambini e persone con pelle particolarmente sensibile, si rimuovono e riposizionano con facilità e in modo assolutamente indolore sulle ferite superficiali. I cerotti sono confezionati singolarmente, sono traspiranti e la confezione da 12 pezzi contiene 3
misure differenti. Utilizzo e avvertenze: prima di applicare il cerotto, pulire, disinfettare e lasciar asciugare la ferita e la pelle circostante. Posizionare il cerotto sulla ferita e premere. Il cerotto può restare incollato per alcuni giorni. In caso di irritazioni, togliere il cerotto e gettarlo. Il cerotto non è adatto per ferite che sanguinano abbondantemente e per bruciature.
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Prosciutto cotto Alta qualità, Italia, al banco a servizio, per 100 g, 3.90 invece di 4.90 20% Mortadella Beretta, Italia, al banco a servizio, per 100 g, 2.45 invece di 3.10 20%
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Tutta la pasta e i sughi per la pasta Agnesi, a partire da 2 confezioni 30%
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Ravioli alla napoletana e alla bolognese M-Classic in conf. multipla, per es. alla napoletana, 6 x 870 g, 12.90 invece di 17.40 25%
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Novità Tutte le millefoglie, per es. M-Classic, 2 pezzi, 220 g, 2.30 invece di 2.90 20%
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Panino rustico Pain Création, 85 g, 1.10 invece di 1.40 20% Veneziane, 4 pezzi / 220 g, 2.20 invece di 2.80 20%
Filetti di pangasio Pelican in conf. speciale, ASC, surgelati, in busta da 1 kg, 6.10 invece di 12.20 50% Cioccolatini Classics Frey in busta da 1 kg, UTZ, assortiti, 11.45 invece di 22.90 50% Caffè in chicchi Boncampo in conf. da 3, UTZ, 3 x 1 kg, 16.– invece di 26.70 40%
Detersivi per capi delicati Yvette in conf. da 2, per es. Care, 2 x 2 l, 17.80 invece di 22.40 20% ** Spelucchino Cucina & Tavola in conf. da 3, 6.90 Hit Offerta valida fino al 4.2.2018 Paraspifferi, il pezzo, 9.80 Hit ** Tutto l’assortimento di alimenti per cani, non refrigerati, a partire da 3 confezioni 30%
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
50
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
51
Idee e acquisti per la settimana
Gioco a premi
Vincere con lo scontrino di cassa Con un po’ di fortuna, fino al 29 gennaio i clienti Migros possono vincere carte regalo e punti Cumulus grazie al proprio scontrino di cassa. I primi vincitori sono già stati decretati. Tra questi alcuni condividono volentieri la loro contentezza con i lettori della stampa Migros Foto zVg
Christine Steiner (41)
Vincita: 10x punti Cumulus alla Migros di Ittigen (BE) «Dopo i giorni di festa era per noi urgente fare la spesa, dal momento che in casa siamo in sei. Userò il buono in occasione del prossimo grande acquisto. Ciò che sicuramente finirà nel carrello sono le frittelle di carnevale e gli snack al granoturco e alle arachidi. Apprezziamo particolarmente questi prodotti. Se sono baciata dalla fortuna? Sono una persona religiosa e come tale sono convinta che la mia sorte dipenda dal cielo. Ricevo regali ogni giorno, sia con questa vincita, sia per il fatto che abbiamo un tetto sopra le nostre teste, che ci possiamo prendere cura dei nostri bambini e che ci svegliamo ogni mattina».
Scansionare gli scontrini e vincere Con un po’ di fortuna, fino al 29 gennaio i clienti Migros possono vincere carte regalo per un valore totale di Fr. 250’000.– e 100 milioni di punti Cumulus*.
Ay Hakime (42)
Partecipare e vincere: migros.ch/win
Isabelle End (47) mit Lisanne (13)
Vincita: 5x punti Cumulus alla Migros di Steinhauser (ZG)
Vincita: 2x punti Cumulus alla Migros di Brügg (BE)
«Oggi ho comprato parecchie cose, tra le quali diversi portauova. Sono per mia figlia, che è sportiva e mangia molte uova. Anche mio figlio pratica sport e per lui ho comprato delle calze. E con questi acquisti oggi ho vinto alla ruota della fortuna Migros. Ne sono molto felice».
«Oggi abbiamo acquistato regali e decorazioni per il prossimo Natale. Ne vale davvero la pena. Ho risparmiato almeno 100 franchi, dal momento che molti articoli sono scontati. Siamo da sempre fedeli clienti e acquistiamo solo alla Migros. Per questo motivo ci rallegriamo ancor di più di aver vinto oggi alla ruota della fortuna Migros».
Come è possibile verificare se si ha vinto: Nella propria filiale Migros: appena conclusi gli acquisti, scansionare il codice a barre stampato sullo scontrino direttamente in filiale, utilizzando l’apposito apparecchio automatico da gioco. Se in una filiale non è presente, su migros.ch/win è possibile scoprire dove si trova il più vicino apparecchio automatico da gioco. Con l’app: attivare l’app Migros e scansionare il codice a barre presente sullo scontrino di cassa. Sul sito web: su migros.ch/win immettere il codice numerico stampato sullo scontrino di cassa sotto il codice a barre. Le vincite sono corrisposte direttamente in filiale nella forma di carta regalo Migros o di buono Cumulus. Partecipazione gratuita e condizioni di partecipazione su migros.ch/win * Stima basata su dati del passato.
Aslan Dalipi (46) con Riona (13) e Miron (14)
Beat Willimann (57)
Gertrud Scheidegger (72)
Vincita: 2x punti Cumulus alla Migros di Wallisellen (ZH)
Vincita: 5x punti Cumulus alla Migros di Steinhausen (ZG)
Vincita: 5x punti Cumulus alla Migros di Wallisellen (ZH)
Aslan: «Avevamo fame, così ci siamo comprati dei semplici panini. Siamo stati proprio fortunati perché alla fine Riona ha vinto». Riona: «Non vinco spesso. A dir la verità nessuno di noi. Sono molto contenta e lo racconterò ai miei compagni di scuola».
«Darò il buono Cumulus a mia moglie, perché normalmente è lei che fa la spesa. Oggi aspettiamo ospiti e siccome lei è impegnata nei preparativi, degli ultimi acquisti me ne sono occupato io. Non partecipo mai ai giochi a premi, motivo per cui sono ancora più contento della mia vincita».
«Anche se alla Migros ho già vinto a suo tempo l’importo totale della spesa fatta, volevo comunque mettere ancora una volta alla prova la mia fortuna. E ne è valsa assolutamente la pena. Sono sicura che in occasione delle prossime compere il mio nipote tredicenne mi accompagnerà».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 15 gennaio 2018 • N. 03
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Idee e acquisti per la settimana
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Vincere con lo scontrino di cassa Con un po’ di fortuna, fino al 29 gennaio i clienti Migros possono vincere carte regalo e punti Cumulus grazie al proprio scontrino di cassa. I primi vincitori sono già stati decretati. Tra questi alcuni condividono volentieri la loro contentezza con i lettori della stampa Migros Foto zVg
Christine Steiner (41)
Vincita: 10x punti Cumulus alla Migros di Ittigen (BE) «Dopo i giorni di festa era per noi urgente fare la spesa, dal momento che in casa siamo in sei. Userò il buono in occasione del prossimo grande acquisto. Ciò che sicuramente finirà nel carrello sono le frittelle di carnevale e gli snack al granoturco e alle arachidi. Apprezziamo particolarmente questi prodotti. Se sono baciata dalla fortuna? Sono una persona religiosa e come tale sono convinta che la mia sorte dipenda dal cielo. Ricevo regali ogni giorno, sia con questa vincita, sia per il fatto che abbiamo un tetto sopra le nostre teste, che ci possiamo prendere cura dei nostri bambini e che ci svegliamo ogni mattina».
Scansionare gli scontrini e vincere Con un po’ di fortuna, fino al 29 gennaio i clienti Migros possono vincere carte regalo per un valore totale di Fr. 250’000.– e 100 milioni di punti Cumulus*.
Ay Hakime (42)
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Isabelle End (47) mit Lisanne (13)
Vincita: 5x punti Cumulus alla Migros di Steinhauser (ZG)
Vincita: 2x punti Cumulus alla Migros di Brügg (BE)
«Oggi ho comprato parecchie cose, tra le quali diversi portauova. Sono per mia figlia, che è sportiva e mangia molte uova. Anche mio figlio pratica sport e per lui ho comprato delle calze. E con questi acquisti oggi ho vinto alla ruota della fortuna Migros. Ne sono molto felice».
«Oggi abbiamo acquistato regali e decorazioni per il prossimo Natale. Ne vale davvero la pena. Ho risparmiato almeno 100 franchi, dal momento che molti articoli sono scontati. Siamo da sempre fedeli clienti e acquistiamo solo alla Migros. Per questo motivo ci rallegriamo ancor di più di aver vinto oggi alla ruota della fortuna Migros».
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Vincita: 5x punti Cumulus alla Migros di Steinhausen (ZG)
Vincita: 5x punti Cumulus alla Migros di Wallisellen (ZH)
Aslan: «Avevamo fame, così ci siamo comprati dei semplici panini. Siamo stati proprio fortunati perché alla fine Riona ha vinto». Riona: «Non vinco spesso. A dir la verità nessuno di noi. Sono molto contenta e lo racconterò ai miei compagni di scuola».
«Darò il buono Cumulus a mia moglie, perché normalmente è lei che fa la spesa. Oggi aspettiamo ospiti e siccome lei è impegnata nei preparativi, degli ultimi acquisti me ne sono occupato io. Non partecipo mai ai giochi a premi, motivo per cui sono ancora più contento della mia vincita».
«Anche se alla Migros ho già vinto a suo tempo l’importo totale della spesa fatta, volevo comunque mettere ancora una volta alla prova la mia fortuna. E ne è valsa assolutamente la pena. Sono sicura che in occasione delle prossime compere il mio nipote tredicenne mi accompagnerà».
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