Azione 04 del 22 gennaio 2018

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 22 gennaio 2018

Azione 04 M sh alle p opping agine 33-3 7/

Società e Territorio Pro Juventute promuove la campagna «Meno pressione. Più infanzia»

Ambiente e Benessere L’etica della donazione: un’iniziativa popolare propone un modello di consenso implicito. Ne parliamo con il dottor Roberto Malacrida

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Politica e Economia Trump sospende gli aiuti militari al Pakistan, accusato di proteggere i terroristi

Cultura e Spettacoli Alla scrittrice ticinese Anna Felder il Gran premio svizzero di letteratura

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La versione del Maestro

di Simona Sala pagina 29

Davide Stallone

La politica europea esce dalle nebbie di Peter Schiesser Con un attacco frontale alla libera circolazione delle persone, l’iniziativa lanciata dall’UDC e dall’Azione per una Svizzera neutrale e indipendente infine fa chiarezza: dovremo dire sì o no agli accordi bilaterali conclusi con l’Unione europea. Da questo deriverà un sì o un no alla Via bilaterale nella politica europea, rispettivamente ad un isolazionismo nel continente in cui viviamo. Visto che nel dicembre del 2016 le Camere federali hanno votato una legge di applicazione che non rispetta i dettami dell’iniziativa del 9 febbraio 2014 contro l’immigrazione di massa, evitando contingenti e tetti massimi di lavoratori dall’UE, il fronte anti-europeista ha deciso che era tempo di sistemare la faccenda una volta per tutte. A parte l’ambiguità che resta nel nome – iniziativa popolare «per un’immigrazione moderata» –, il testo è molto chiaro: la libera circolazione deve essere abolita, il Consiglio federale ha tempo un anno per negoziare un accordo con la Commissione europea sulla sua abrogazione. Come nel caso dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa, esponenti dell’UDC si dicono certi che anche senza libera

circolazione delle persone l’UE resti interessata a mantenere in vigore gli altri accordi. Ma questa è tattica elettorale: Bruxelles ha sempre ribadito che la libera circolazione non è negoziabile, rappresenta uno dei cardini del mercato unico europeo. Quindi, realisticamente in ballo c’è la libera circolazione delle persone e gli altri 6 accordi dei Bilaterali I: ostacoli tecnici al commercio, appalti pubblici, trasporti terrestri, trasporti aerei, agricoltura e ricerca. Quasi superfluo aggiungere che le associazioni economiche, economiesuisse per prima, si oppongono all’iniziativa dell’UDC e dell’ASNI, e così fanno il Partito socialista, il PLR, il PPD, i Verdi e altri partiti minori. Ma non nascondono un senso di sollievo, poiché finalmente ci si avvicina ad un chiarimento nella politica europea, dopo i quattro anni di attesa e incertezze seguiti al 9 febbraio 2014. Potrebbe giocare a favore degli oppositori dell’iniziativa il fatto che dal 2014 l’immigrazione dai paesi dell’UE è calata da quasi 80mila persone a 53mila all’anno, il saldo migratorio è passato da quasi 60mila a 30mila. Ma per quale ragione? Da una parte il voto del 9 febbraio 2014 ha reso insicuri i lavoratori europei e le aziende svizzere, dall’altra la ripresa economica in atto in ampie zone dell’UE

trattiene numerosi cervelli dall’emigrare. Tuttavia, non è possibile prevedere come fluttuerà l’immigrazione negli anni che ci separano dalla votazione (nel 2021 al più presto). Ma salvare la Via bilaterale è solo metà dell’opera, l’altra metà è consolidarla. E qui non si sfugge ad un accordo quadro che faccia da solida cornice giuridica ai Bilaterali. Da tempo in Svizzera il dibattito si è avvitato attorno alla polemica sui giudici stranieri. Cioè sull’eventualità che in caso di disaccordo nel campo di uno degli accordi che concernono il mercato unico europeo sia la Corte di giustizia europea ad avere l’ultima parola. Come noto, prima di Natale, per fare pressione su Berna, la Commissione europea ha riconosciuto per un anno soltanto l’equivalenza della Borsa svizzera, in attesa di progressi sostanziali verso un accordo quadro. Ora però il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker propone anche una soluzione che viene incontro alla Svizzera (come aveva promesso a novembre): laddove non sia in discussione il diritto europeo, le vertenze fra Svizzera e UE verrebbero risolte da un tribunale arbitrale composto da un giudice europeo, uno svizzero e un terzo neutro scelto dalle due parti. Forse un avvicinamento rapido è possibile.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Società e Territorio Vacanze senza barriere Con l’Associazione Turismo Inclusivo per anziani e persone con disabilità andare in vacanza ora è un po’ più facile pagina 3

Le miniere su lanostraStoria.ch Il Museo del Malcantone si trova ora anche sul portale di storia partecipativa dove mette a disposizione le mappe delle miniere di oro e argento della regione

Una vacanza per tutti

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Turismo Inclusivo L’associazione, nata di recente nel Locarnese, organizza vacanze senza barriere,

con servizi di cura e di accompagnamento per persone con disabilità e anziani

Stefania Hubmann

Troppi programmi strutturati e poco tempo per se stessi: per i bambini e i ragazzi, a volte, lo zaino è troppo pesante. (Pro Juventute)

Un concetto innovativo di vacanza che parte dal Ticino per rendere inclusiva non solo la vita quotidiana delle persone disabili e anziane ma anche periodi di svago lontani da casa o dalle residenze che le ospitano. Grazie a soluzioni ad hoc e a una rete di partner cresciuta negli anni è oggi possibile offrire nel nostro Cantone e nel resto della Svizzera vacanze senza barriere, con servizi di cura e accompagnamento. L’associazione Turismo Inclusivo, nata di recente, è il risultato di un impegno ventennale che si è sviluppato nel Locarnese e il cui punto di riferimento è Anna Maria Sury, vicesindaco di Muralto, attiva professionalmente e come volontaria in diversi enti cantonali e nazionali che si occupano del sostegno a persone con difficoltà. Rappresenta, fra gli altri, al Sud delle Alpi la Fondazione Claire & George, che a livello svizzero ha promosso a partire dal 2013 il concetto di hotelspitex.

Ticino Inclusivo promuove anche la formazione di futuri accompagnatori turistici per persone disabili

Un’infanzia senza stress

Pro Juventute La nuova campagna «Meno pressione. Più infanzia» difende il diritto dei bambini al gioco libero

e mette in guardia dai pericoli di un carico eccessivo di impegni

Alessandra Ostini Sutto Bambini spensierati che giocano felici con i loro amici, dimenticando il tempo; ecco l’immagine che balza alla mente se sentiamo la parola «infanzia». Ma la realtà di molti bambini è ben diversa: ormai stress e ansia da prestazione hanno contagiato anche il loro mondo. Con ripercussioni sulla salute. Basti pensare che quasi un undicenne su tre soffre di disturbi del sonno. Conscia di questa situazione, Pro Juventute ha lanciato la campagna «Meno pressione. Più infanzia», che mira a rimettere i ragazzi al centro della loro crescita, sottolineando l’eccessivo carico a cui, a volte, sono sottoposti. «Ultimamente mi sento stanchissima, mi mancano le forze. Settimana prossima mi attendono tre esami, dovrei studiare, ma non ce la faccio più» Così una ragazzina di dodici anni si descrive in un messaggio al numero 147 di Pro Juventute, cui si possono rivolgere figli e genitori, tutti i giorni, 24 ore su 24. Se in passato la maggior parte delle consulenze concerneva amore e sesso, oggi i temi più frequenti sono le crisi, l’ansia, i disturbi depressivi e i pensieri suicidi. Gli studi che attestano quanto stress e pressione siano diffusi non mancano. Quello pubblicato nel 2015 da Juvenir mostra come in Svizzera cir-

ca la metà dei giovani tra i 15 e i 21 anni si senta spesso o molto spesso stressato o non all’altezza della situazione; mentre quasi tutti i giovani non stressati sono soddisfatti della propria vita, tra quelli stressati il 48% ha problemi di autostima, svogliatezza, sconforto o insonnia. Lo studio dell’OMS sulla salute degli scolari in Svizzera, riporta per esempio che il 15% degli undicenni si sente spesso nervoso, rispettivamente avvilito; dato che, per entrambi gli stati d’animo, nel 2002 si fermava all’11%. Sebbene i sintomi dello stress – come tristezza, mal di testa e mal di pancia – facciano parte dello sviluppo, il benessere dei soggetti toccati ne risente in particolare se diventano cronici o se si manifestano in contemporanea. Tra le nuove fonti di stress figurano i media digitali. I ragazzi vivono la cosiddetta «Fear of missing out», la paura cioè di perdersi qualcosa se non sono connessi o non controllano regolarmente lo smartphone, che li porta a vivere in uno stato di costante irrequietezza. Il 61% dei giovani attribuisce poi alla scuola il proprio stato di stress. E non solo alla pressione che deriva dai compiti a casa e dalla preparazione ai test. Rilevante è infatti pure l’aspetto sociale, dal momento che gran parte dei contatti dei ragazzi sono legati a questo contesto, il quale li porta a do-

versi inserire in un gruppo che non hanno scelto. Essendo per loro natura molto percettivi, i bambini fanno spontaneamente propri i valori della società. Psichiatri dell’età infantile testimoniano come i giovani pazienti di oggi vogliano essere perfetti, anche senza spinte esterne. Hanno la percezione che la società, con i suoi ritmi, espellerà quelli che non riusciranno a tenere il passo. Questo meccanismo è un’ulteriore fonte di stress: l’80% dei giovani stressati dichiara che la pressione è autoimposta. Oltre all’orientamento al rendimento, la nostra epoca si caratterizza per la molteplicità di opportunità che offre. Un bene, che comporta però un rovescio della medaglia: genera infatti la pressione di dover cogliere questo vantaggio per riuscire nella vita. «Spesso i genitori tendono a voler preparare i loro figli fin da piccoli alle esigenze della nostra società efficientista, di modo che abbiano accesso a tutte le opzioni», spiega Katja Wiesendanger, direttrice di Pro Juventute, «iniziano presto con l’inglese, la matematica, lo sport agonistico. Anche gli hobby devono soddisfare un obiettivo promettente e utile». Sulla piattaforma della campagna si legge che i bambini i quali seguono dei programmi strutturati e imparano a leggere, scrivere e calcolare prima

degli altri, avranno migliori risultati solo in un primo tempo, mentre a lungo termine il loro rendimento scolastico sarà inferiore. Perché «in questo modo il bambino non diventa più intelligente ma meno motivato. Se prescriviamo al bambino quello che deve fare, egli cercherà di soddisfare le nostre aspettative, però perderà la propria motivazione», sottolinea Urs Kiener, psicologo dell’età evolutiva presso Pro Juventute, in un articolo di Florian Blumer apparso sul «SonntagsBlick» nel mese di agosto. Oltre a ciò, caricando eccessivamente l’agenda dei più piccoli, si crea un accumulo di aspettative – da parte di genitori, scuola, associazioni sportive e per il tempo libero, entourage – che rischia di innescare il meccanismo dello stress. «Oggi molti bambini sono occupati per 60 ore la settimana, perché anche il loro tempo libero è super organizzato. Mediamente hanno a disposizione mezz’ora al giorno per il gioco libero all’aria aperta. Questo è davvero poco», commenta Kiener. Nel corso degli ultimi 15 anni il tempo per il gioco informale è diminuito circa del 30%. «La ricerca conferma che il gioco libero è fondamentale per lo sviluppo dei bambini. Per questo motivo, noi di Pro Juventute siamo convinti che oltre all’amore, ai nostri bambini dobbiamo fare un regalo: il tempo. Dobbiamo concede-

re loro tempo per riposarsi e muoversi, tempo per imparare a conoscere e ad approfondire i loro interessi. Sono della ferma convinzione che saranno meglio equipaggiati per il futuro se possono riprendersi il tempo per vivere la loro infanzia», afferma Katja Wiesendenger: «i bambini hanno un’innata motivazione all’apprendimento. Questa capacità va preservata. Poiché permette loro di acquisire autonomamente e in modo ludico competenze fondamentali». Per crescere e svilupparsi in modo sano un bambino ha bisogno di affetto e protezione, un ambiente stimolante e la possibilità di sperimentare le sue capacità di autonomia e auto-efficacia. Ma proprio quando si tratta di decidere sul proprio tempo, a molti bambini viene negata la possibilità di autodeterminazione. Disponendo di poco tempo per se stessi e per fare le cose che amano, la loro capacità di gestire autonomamente i momenti liberi ha poi poca possibilità di esprimersi. E questo non è un bene, dal momento che – secondo gli specialisti della Fondazione – quei bambini che a casa possono usufruire di diverse possibilità di gioco, riusciranno a sviluppare migliori capacità cognitive e linguistiche, avere una competenza sociale più forte, mostrare più empatia, essere più creativi e più inclini all’autocontrollo.

Ammirare un panorama, compiere una gita sul lago, fare acquisti in centro città sono piaceri che appagano e ai quali non si vorrebbe mai rinunciare. Come realizzarli quando una malattia, un incidente o anche solo l’invecchiamento riducono l’autonomia, in particolare a livello motorio? Per Anna Maria Sury, infermiera con formazione in ambito neurologico, la risposta è venuta dall’esperienza, unendo persone e informazioni provenienti da diverse associazioni. In effetti Turismo Inclusivo, presieduto da Sabina Behmen Iampietro, è composto da rappresentanti dell’Associazione Locarnese e Valmaggese di assistenza e cure a domicilio (ALVAD), dall’Associazione SLA Svizzera (ALS Schweiz) e dalla sezione della Svizzera Italiana (ASLASI), dalla già citata Fondazione Claire & George, dall’Associazione Muralto per Tutti e dall’Ente Regionale per lo Sviluppo del Locarnese e Vallemaggia.

Spiega Anna Maria Sury: «Per poter accogliere il turista di ogni età e abilità offrendogli le informazioni e i supporti di cui necessita per motivi di salute, è indispensabile la stretta collaborazione fra più settori, da quello turistico per le strutture a quello sanitario (ALVAD si occupa da anni di utenti in vacanza nella sua zona di intervento), alle organizzazioni specializzate come nel caso della SLA. È proprio organizzando da sette anni nella nostra regione una settimana di vacanza in agosto per persone affette da Sclerosi Laterale Amiotrofica, provenienti dal resto del Svizzera ma anche dallo stesso Ticino, che abbiamo capito il potenziale di questa attività. Ora l’associazione ci permette di strutturare queste possibilità, promuovendo nel contempo una formazione mirata destinata ai futuri accompagnatori turistici per persone con disabilità». Chi sono al momento gli accompagnatori? «Grazie all’associazione Muralto per tutti, impegnata in attività culturali, ricreative e sociali volte a prevenire il disagio, possiamo contare su diversi giovani interessati a partecipare a questo tipo di accompagnamento. In alcuni casi l’esperienza vissuta con la vacanza SLA ha persino permesso loro di maturare una scelta professionale nella medesima direzione. Partecipano inoltre adulti motivati e con tempo libero a disposizione. Grazie agli accompagnatori i turisti con problemi di salute possono muoversi nei dintorni, approfittando delle offerte della regione. Per chi viaggia in famiglia si tratta di un sostegno indispensabile per permettere a tutti i partecipanti di godere la vacanza, facilitando l’organizzazione di attività distinte. Agli accompagnatori avevamo finora assicurato un’istruzione individuale che Turismo Inclusivo ha trasformato in un apposito corso organizzato dalla Croce Rossa». La formazione è suddivisa in due moduli. Il primo, di dieci ore, si è svolto lo scorso novembre con una decina di iscritti. La seconda parte, dedicata all’approfondimento, è prevista la prossima primavera. Fra i partecipanti al corso anche Lara Mozzettini di Gambarogno, iscritta al terzo anno della Scuola superiore alberghiera e del turismo. «Il corso che ho seguito – spiega la giovane studentessa – è incentrato sul comportamento da seguire quando

In Svizzera si sta promuovendo il concetto di hotelspitex. (Marka)

si accompagnano persone disabili, ad esempio durante un’intera giornata. Indicazioni pratiche permettono di imparare a manovrare la carrozzella, a spostare correttamente gli utenti, ad accompagnarli alla toilette, a verificare il tipo di alimentazione adatto, il tutto a dipendenza della malattia. Quest’ultima può anche essere all’origine di reazioni particolari alle quali bisogna saper reagire in modo adeguato. Molto importante è pure la preparazione dell’uscita. Non si può improvvisare e il lavoro dietro le quinte è intenso ma essenziale». In collaborazione con Turismo Inclusivo Lara Mozzettini sta ora preparando il lavoro di diploma su questo tema nell’ottica però di proporre la formazione ad albergatori e operatori turistici. Una sensibilizzazione in questo ambito ancora manca. Capire quale approccio privilegiare con il turista disabile, sapere gestire al meglio la convivenza con gli altri ospiti, conoscere gli aspetti sui quali focalizzare l’attenzione per facilitare il soggiorno senza mettere a disagio nessuno, sono elementi essenziali di un accoglienza che deve saper bilanciare spontaneità e consapevolezza. Da rilevare, che «Salute e benessere» è uno specifico filone di promozione turistica dell’Ente Regionale per lo Sviluppo del Locarnese e Vallemaggia. Per trovare in Ticino e nel resto della Svizzera alberghi attrezzati per

persone con problemi di salute, si può consultare il catalogo della Fondazione Claire & George, in grado di organizzare soggiorni più o meno lunghi per persone sole o accompagnate. In Svizzera il servizio di cure a domicilio è garantito su tutto il territorio e può quindi essere programmato anche in un albergo fuori Cantone senza costi aggiuntivi. Di qui il termine hotelspitex usato dalla fondazione. Non sono invece incluse le spese per i mezzi ausiliari e per gli accompagnatori, sovente però coperte da enti benefici. «La fondazione – spiega la direttrice e iniziatrice del progetto Susanne Gäumann – è una sorta di agenzia specializzata che offre vacanze su misura, indipendentemente dall’età e dalle esigenze. Rispondiamo, attraverso una consulenza gratuita, ai bisogni specifici dei clienti, organizzando trasporto, soggiorno, mezzi ausiliari e cure». Il ruolo della Fondazione, con sede a Berna e sviluppatasi a partire da un progetto pilota, è riconosciuto a livello nazionale. Lo scorso novembre è stato premiato con l’attribuzione del Design Price Switzerland 2017 nella categoria Focus Ageing Society. «Questo premio – prosegue la direttrice – ha per noi grande valore, perché ci offre visibilità e rappresenta un incentivo per il turismo senza barriere. Viene infatti così riconosciuta l’esigenza anche da parte

trazione. Tutto questo mentre una videocamera lo riprende e trasmette ogni suo respiro sul web. Ho pensato che la signora Köhler ed io, molto probabilmente, abbiamo preso un grosso abbaglio. Anche perché Jan Lennarz non è un’eccezione ma parte di un movimento che estende le antiche tecniche meditative con l’ausilio delle moderne tecnologie. In completa contrapposizione, dunque, ai tradizionali guru questa nuova generazione di consapevoli punta sull’hight tech convinta che se la digitalizzazione ci allontana da noi stessi, se è la causa di depressioni e burnout, allora deve esserne anche la cura. Lo stesso Lennarz in passato è stato colpito da depressione e burnout per il troppo successo della sua startup che vendeva attrezzature sportive da combattimento. Chiusa l’azienda, dopo un anno

sabbatico in Messico è tornato con una convinzione: puntare sull’attenzione e sull’accuratezza delle persone sfatando il mito dello stress che si respira nelle startup di nuova generazione. In ogni caso, se davvero volete provare l’ebrezza di meditare con il vostro smartphone basta munirvi di cuffiette e scaricare qualche app tipo Buddhifi, il nome è già tutto un programma, pagare sei franchi e il gioco è fatto. Quello che però valorizza l’esperienza di Lennarz, e di altri come lui, nella nostra rincorsa al futuro, sono le cuffie e gli strumenti che indossa, grazie ai quali vengono misurate le onde del cervello, il battito del cuore e la frequenza del respiro. Da queste informazioni si calcolano degli algoritmi in grado di dire quanto chi medita sia concentrato per poi eventualmente intervenire

delle persone disabili di poter scegliere camere d’albergo non solo funzionali, ma pure curate nel design. Questo aspetto riveste un’importanza crescente in relazione all’invecchiamento della popolazione, realtà che tocca da vicino tutti noi». Il nome stesso della Fondazione rivela l’attenzione per i dettagli. Claire & George vuole richiamare le figure di chi cura (la versione inglese «care» è contenuta in Claire) e di chi assicura il servizio alberghiero come maggiordomo/ cameriere. In quattro anni di attività la Fondazione ha organizzato 10mila notti negli hotelspitex in tutte le regioni del Paese. La clientela, per il momento soprattutto svizzero tedesca, preferisce le zone caratterizzate da un bel paesaggio e della presenza del lago, per cui il Ticino è una meta ambita. Un altro elemento di valutazione importante – aggiunge Susanne Gäumann – è la durata del viaggio con relativi mezzi di trasporto. Importante pure che la destinazione non sia isolata. I clienti cercano svago, cercano vita. Negli ultimi anni Claire & George ha registrato un importante aumento delle persone anziane e grazie ad Internet le richieste giungono anche dall’estero, soprattutto da Germania e Stati Uniti. Senza un eccessivo aggravio del budget destinato alle vacanze e sfruttando in gran parte risorse esistenti, oggi anche chi è confrontato con problemi di salute può trascorrere le ferie in splendide località con o senza i familiari, vivendo esperienze emozionanti quali la minivacanza con i figli piccoli o la trasferta per una partita di calcio. Iniziative come quelle di Turismo Inclusivo e Claire & George stanno creando offerte innovative che si sviluppano velocemente proprio perché rispondono al bisogno di libertà e autonomia delle persone. Magari per alcune di loro non è più possibile compiere viaggi lunghi, ma possono comunque allontanarsi dalla routine in tutta sicurezza, trovando nel luogo di villeggiatura lo specifico sostegno di cui hanno bisogno. Informazioni

Turismo Inclusivo, c/o Giacomo Gilardi, Via San Gottardo 38, 6600 Muralto. Tel. 079 231 61 31. www.claireundgeorge.ch

La società connessa di Natascha Fioretti Meditare con uno smartphone La settimana scorsa con la giornalista Andrea Köhler, proprio sulle pagine di «Azione», si parlava della consapevolezza che stiamo acquisendo rispetto agli effetti negativi del nostro tormentoso rapporto con le tecnologie e di come sempre di più troviamo modi per ritagliarci degli spazi offline, scollegati da fili e onde elettromagnetiche. Anch’io la vedo così, o meglio, mi rendo conto di valorizzare sempre di più dei momenti di pausa liberi da connessione e preferibilmente all’aria aperta. Poi però ho letto della storia di un giovane imprenditore berlinese, Jan Lennarz, e mi è venuto qualche dubbio sul nostro presunto processo di consapevolezza, tanto da chiedermi se non è vero anche il contrario e cioè che l’evoluzione tecnologica e il suo impatto

sulle nostre vite non si può arrestare e, prima o poi, anche chi resiste ne sarà travolto. Mi spiego, voi praticate Yoga? Io ho fatto due lezioni di prova, una indimenticabile a Lipsia sull’erba del parco Clara-Zetkin, e mi è piaciuto moltissimo seppur, guardando gli altri, ho avuto la conferma di essere elastica come il torsolo di una mela. Difficoltà a parte, l’ho apprezzato perché si sta in silenzio e ci si concentra sul proprio respiro in un’atmosfera di grande pace. Potete quindi immaginare la mia sorpresa quando ho letto la storia dell’imprenditore berlinese Jan Lennarz, un giovane che medita con le cuffie, uno smartphone che gli dice come e quando respirare e un groviglio di fili che lo mettono in contatto con degli apparecchi in grado di misurare la frequenza del suo respiro e il suo livello di concen-

aiutandolo a ripristinare la concentrazione. Da molti anni i ricercatori di tutto il mondo studiano le modalità con le quali dirigere strumenti tecnici con la forza del pensiero. Si chiama Biofeedback, mira a misurare i nostri pensieri in forma di segnali elettrici perché possano guidare la tecnica intorno a noi. Questo metodo unito alle potenzialità del mondo virtuale può fare grandi cose: chi si deconcentra durante la meditazione all’improvviso non sarà più immerso in un paesaggio tranquillo ma si troverà nel mezzo di una tempesta. Per farla scomparire dovrà ristabilire la concentrazione perduta. Non so voi ma io tornerei volentieri sul prato del parco di Lipsia e al paesaggio virtuale preferirei quello vero con il cinguettio degli uccellini. E se mi deconcentro, pazienza.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Società e Territorio Vacanze senza barriere Con l’Associazione Turismo Inclusivo per anziani e persone con disabilità andare in vacanza ora è un po’ più facile pagina 3

Le miniere su lanostraStoria.ch Il Museo del Malcantone si trova ora anche sul portale di storia partecipativa dove mette a disposizione le mappe delle miniere di oro e argento della regione

Una vacanza per tutti

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Turismo Inclusivo L’associazione, nata di recente nel Locarnese, organizza vacanze senza barriere,

con servizi di cura e di accompagnamento per persone con disabilità e anziani

Stefania Hubmann

Troppi programmi strutturati e poco tempo per se stessi: per i bambini e i ragazzi, a volte, lo zaino è troppo pesante. (Pro Juventute)

Un concetto innovativo di vacanza che parte dal Ticino per rendere inclusiva non solo la vita quotidiana delle persone disabili e anziane ma anche periodi di svago lontani da casa o dalle residenze che le ospitano. Grazie a soluzioni ad hoc e a una rete di partner cresciuta negli anni è oggi possibile offrire nel nostro Cantone e nel resto della Svizzera vacanze senza barriere, con servizi di cura e accompagnamento. L’associazione Turismo Inclusivo, nata di recente, è il risultato di un impegno ventennale che si è sviluppato nel Locarnese e il cui punto di riferimento è Anna Maria Sury, vicesindaco di Muralto, attiva professionalmente e come volontaria in diversi enti cantonali e nazionali che si occupano del sostegno a persone con difficoltà. Rappresenta, fra gli altri, al Sud delle Alpi la Fondazione Claire & George, che a livello svizzero ha promosso a partire dal 2013 il concetto di hotelspitex.

Ticino Inclusivo promuove anche la formazione di futuri accompagnatori turistici per persone disabili

Un’infanzia senza stress

Pro Juventute La nuova campagna «Meno pressione. Più infanzia» difende il diritto dei bambini al gioco libero

e mette in guardia dai pericoli di un carico eccessivo di impegni

Alessandra Ostini Sutto Bambini spensierati che giocano felici con i loro amici, dimenticando il tempo; ecco l’immagine che balza alla mente se sentiamo la parola «infanzia». Ma la realtà di molti bambini è ben diversa: ormai stress e ansia da prestazione hanno contagiato anche il loro mondo. Con ripercussioni sulla salute. Basti pensare che quasi un undicenne su tre soffre di disturbi del sonno. Conscia di questa situazione, Pro Juventute ha lanciato la campagna «Meno pressione. Più infanzia», che mira a rimettere i ragazzi al centro della loro crescita, sottolineando l’eccessivo carico a cui, a volte, sono sottoposti. «Ultimamente mi sento stanchissima, mi mancano le forze. Settimana prossima mi attendono tre esami, dovrei studiare, ma non ce la faccio più» Così una ragazzina di dodici anni si descrive in un messaggio al numero 147 di Pro Juventute, cui si possono rivolgere figli e genitori, tutti i giorni, 24 ore su 24. Se in passato la maggior parte delle consulenze concerneva amore e sesso, oggi i temi più frequenti sono le crisi, l’ansia, i disturbi depressivi e i pensieri suicidi. Gli studi che attestano quanto stress e pressione siano diffusi non mancano. Quello pubblicato nel 2015 da Juvenir mostra come in Svizzera cir-

ca la metà dei giovani tra i 15 e i 21 anni si senta spesso o molto spesso stressato o non all’altezza della situazione; mentre quasi tutti i giovani non stressati sono soddisfatti della propria vita, tra quelli stressati il 48% ha problemi di autostima, svogliatezza, sconforto o insonnia. Lo studio dell’OMS sulla salute degli scolari in Svizzera, riporta per esempio che il 15% degli undicenni si sente spesso nervoso, rispettivamente avvilito; dato che, per entrambi gli stati d’animo, nel 2002 si fermava all’11%. Sebbene i sintomi dello stress – come tristezza, mal di testa e mal di pancia – facciano parte dello sviluppo, il benessere dei soggetti toccati ne risente in particolare se diventano cronici o se si manifestano in contemporanea. Tra le nuove fonti di stress figurano i media digitali. I ragazzi vivono la cosiddetta «Fear of missing out», la paura cioè di perdersi qualcosa se non sono connessi o non controllano regolarmente lo smartphone, che li porta a vivere in uno stato di costante irrequietezza. Il 61% dei giovani attribuisce poi alla scuola il proprio stato di stress. E non solo alla pressione che deriva dai compiti a casa e dalla preparazione ai test. Rilevante è infatti pure l’aspetto sociale, dal momento che gran parte dei contatti dei ragazzi sono legati a questo contesto, il quale li porta a do-

versi inserire in un gruppo che non hanno scelto. Essendo per loro natura molto percettivi, i bambini fanno spontaneamente propri i valori della società. Psichiatri dell’età infantile testimoniano come i giovani pazienti di oggi vogliano essere perfetti, anche senza spinte esterne. Hanno la percezione che la società, con i suoi ritmi, espellerà quelli che non riusciranno a tenere il passo. Questo meccanismo è un’ulteriore fonte di stress: l’80% dei giovani stressati dichiara che la pressione è autoimposta. Oltre all’orientamento al rendimento, la nostra epoca si caratterizza per la molteplicità di opportunità che offre. Un bene, che comporta però un rovescio della medaglia: genera infatti la pressione di dover cogliere questo vantaggio per riuscire nella vita. «Spesso i genitori tendono a voler preparare i loro figli fin da piccoli alle esigenze della nostra società efficientista, di modo che abbiano accesso a tutte le opzioni», spiega Katja Wiesendanger, direttrice di Pro Juventute, «iniziano presto con l’inglese, la matematica, lo sport agonistico. Anche gli hobby devono soddisfare un obiettivo promettente e utile». Sulla piattaforma della campagna si legge che i bambini i quali seguono dei programmi strutturati e imparano a leggere, scrivere e calcolare prima

degli altri, avranno migliori risultati solo in un primo tempo, mentre a lungo termine il loro rendimento scolastico sarà inferiore. Perché «in questo modo il bambino non diventa più intelligente ma meno motivato. Se prescriviamo al bambino quello che deve fare, egli cercherà di soddisfare le nostre aspettative, però perderà la propria motivazione», sottolinea Urs Kiener, psicologo dell’età evolutiva presso Pro Juventute, in un articolo di Florian Blumer apparso sul «SonntagsBlick» nel mese di agosto. Oltre a ciò, caricando eccessivamente l’agenda dei più piccoli, si crea un accumulo di aspettative – da parte di genitori, scuola, associazioni sportive e per il tempo libero, entourage – che rischia di innescare il meccanismo dello stress. «Oggi molti bambini sono occupati per 60 ore la settimana, perché anche il loro tempo libero è super organizzato. Mediamente hanno a disposizione mezz’ora al giorno per il gioco libero all’aria aperta. Questo è davvero poco», commenta Kiener. Nel corso degli ultimi 15 anni il tempo per il gioco informale è diminuito circa del 30%. «La ricerca conferma che il gioco libero è fondamentale per lo sviluppo dei bambini. Per questo motivo, noi di Pro Juventute siamo convinti che oltre all’amore, ai nostri bambini dobbiamo fare un regalo: il tempo. Dobbiamo concede-

re loro tempo per riposarsi e muoversi, tempo per imparare a conoscere e ad approfondire i loro interessi. Sono della ferma convinzione che saranno meglio equipaggiati per il futuro se possono riprendersi il tempo per vivere la loro infanzia», afferma Katja Wiesendenger: «i bambini hanno un’innata motivazione all’apprendimento. Questa capacità va preservata. Poiché permette loro di acquisire autonomamente e in modo ludico competenze fondamentali». Per crescere e svilupparsi in modo sano un bambino ha bisogno di affetto e protezione, un ambiente stimolante e la possibilità di sperimentare le sue capacità di autonomia e auto-efficacia. Ma proprio quando si tratta di decidere sul proprio tempo, a molti bambini viene negata la possibilità di autodeterminazione. Disponendo di poco tempo per se stessi e per fare le cose che amano, la loro capacità di gestire autonomamente i momenti liberi ha poi poca possibilità di esprimersi. E questo non è un bene, dal momento che – secondo gli specialisti della Fondazione – quei bambini che a casa possono usufruire di diverse possibilità di gioco, riusciranno a sviluppare migliori capacità cognitive e linguistiche, avere una competenza sociale più forte, mostrare più empatia, essere più creativi e più inclini all’autocontrollo.

Ammirare un panorama, compiere una gita sul lago, fare acquisti in centro città sono piaceri che appagano e ai quali non si vorrebbe mai rinunciare. Come realizzarli quando una malattia, un incidente o anche solo l’invecchiamento riducono l’autonomia, in particolare a livello motorio? Per Anna Maria Sury, infermiera con formazione in ambito neurologico, la risposta è venuta dall’esperienza, unendo persone e informazioni provenienti da diverse associazioni. In effetti Turismo Inclusivo, presieduto da Sabina Behmen Iampietro, è composto da rappresentanti dell’Associazione Locarnese e Valmaggese di assistenza e cure a domicilio (ALVAD), dall’Associazione SLA Svizzera (ALS Schweiz) e dalla sezione della Svizzera Italiana (ASLASI), dalla già citata Fondazione Claire & George, dall’Associazione Muralto per Tutti e dall’Ente Regionale per lo Sviluppo del Locarnese e Vallemaggia.

Spiega Anna Maria Sury: «Per poter accogliere il turista di ogni età e abilità offrendogli le informazioni e i supporti di cui necessita per motivi di salute, è indispensabile la stretta collaborazione fra più settori, da quello turistico per le strutture a quello sanitario (ALVAD si occupa da anni di utenti in vacanza nella sua zona di intervento), alle organizzazioni specializzate come nel caso della SLA. È proprio organizzando da sette anni nella nostra regione una settimana di vacanza in agosto per persone affette da Sclerosi Laterale Amiotrofica, provenienti dal resto del Svizzera ma anche dallo stesso Ticino, che abbiamo capito il potenziale di questa attività. Ora l’associazione ci permette di strutturare queste possibilità, promuovendo nel contempo una formazione mirata destinata ai futuri accompagnatori turistici per persone con disabilità». Chi sono al momento gli accompagnatori? «Grazie all’associazione Muralto per tutti, impegnata in attività culturali, ricreative e sociali volte a prevenire il disagio, possiamo contare su diversi giovani interessati a partecipare a questo tipo di accompagnamento. In alcuni casi l’esperienza vissuta con la vacanza SLA ha persino permesso loro di maturare una scelta professionale nella medesima direzione. Partecipano inoltre adulti motivati e con tempo libero a disposizione. Grazie agli accompagnatori i turisti con problemi di salute possono muoversi nei dintorni, approfittando delle offerte della regione. Per chi viaggia in famiglia si tratta di un sostegno indispensabile per permettere a tutti i partecipanti di godere la vacanza, facilitando l’organizzazione di attività distinte. Agli accompagnatori avevamo finora assicurato un’istruzione individuale che Turismo Inclusivo ha trasformato in un apposito corso organizzato dalla Croce Rossa». La formazione è suddivisa in due moduli. Il primo, di dieci ore, si è svolto lo scorso novembre con una decina di iscritti. La seconda parte, dedicata all’approfondimento, è prevista la prossima primavera. Fra i partecipanti al corso anche Lara Mozzettini di Gambarogno, iscritta al terzo anno della Scuola superiore alberghiera e del turismo. «Il corso che ho seguito – spiega la giovane studentessa – è incentrato sul comportamento da seguire quando

In Svizzera si sta promuovendo il concetto di hotelspitex. (Marka)

si accompagnano persone disabili, ad esempio durante un’intera giornata. Indicazioni pratiche permettono di imparare a manovrare la carrozzella, a spostare correttamente gli utenti, ad accompagnarli alla toilette, a verificare il tipo di alimentazione adatto, il tutto a dipendenza della malattia. Quest’ultima può anche essere all’origine di reazioni particolari alle quali bisogna saper reagire in modo adeguato. Molto importante è pure la preparazione dell’uscita. Non si può improvvisare e il lavoro dietro le quinte è intenso ma essenziale». In collaborazione con Turismo Inclusivo Lara Mozzettini sta ora preparando il lavoro di diploma su questo tema nell’ottica però di proporre la formazione ad albergatori e operatori turistici. Una sensibilizzazione in questo ambito ancora manca. Capire quale approccio privilegiare con il turista disabile, sapere gestire al meglio la convivenza con gli altri ospiti, conoscere gli aspetti sui quali focalizzare l’attenzione per facilitare il soggiorno senza mettere a disagio nessuno, sono elementi essenziali di un accoglienza che deve saper bilanciare spontaneità e consapevolezza. Da rilevare, che «Salute e benessere» è uno specifico filone di promozione turistica dell’Ente Regionale per lo Sviluppo del Locarnese e Vallemaggia. Per trovare in Ticino e nel resto della Svizzera alberghi attrezzati per

persone con problemi di salute, si può consultare il catalogo della Fondazione Claire & George, in grado di organizzare soggiorni più o meno lunghi per persone sole o accompagnate. In Svizzera il servizio di cure a domicilio è garantito su tutto il territorio e può quindi essere programmato anche in un albergo fuori Cantone senza costi aggiuntivi. Di qui il termine hotelspitex usato dalla fondazione. Non sono invece incluse le spese per i mezzi ausiliari e per gli accompagnatori, sovente però coperte da enti benefici. «La fondazione – spiega la direttrice e iniziatrice del progetto Susanne Gäumann – è una sorta di agenzia specializzata che offre vacanze su misura, indipendentemente dall’età e dalle esigenze. Rispondiamo, attraverso una consulenza gratuita, ai bisogni specifici dei clienti, organizzando trasporto, soggiorno, mezzi ausiliari e cure». Il ruolo della Fondazione, con sede a Berna e sviluppatasi a partire da un progetto pilota, è riconosciuto a livello nazionale. Lo scorso novembre è stato premiato con l’attribuzione del Design Price Switzerland 2017 nella categoria Focus Ageing Society. «Questo premio – prosegue la direttrice – ha per noi grande valore, perché ci offre visibilità e rappresenta un incentivo per il turismo senza barriere. Viene infatti così riconosciuta l’esigenza anche da parte

trazione. Tutto questo mentre una videocamera lo riprende e trasmette ogni suo respiro sul web. Ho pensato che la signora Köhler ed io, molto probabilmente, abbiamo preso un grosso abbaglio. Anche perché Jan Lennarz non è un’eccezione ma parte di un movimento che estende le antiche tecniche meditative con l’ausilio delle moderne tecnologie. In completa contrapposizione, dunque, ai tradizionali guru questa nuova generazione di consapevoli punta sull’hight tech convinta che se la digitalizzazione ci allontana da noi stessi, se è la causa di depressioni e burnout, allora deve esserne anche la cura. Lo stesso Lennarz in passato è stato colpito da depressione e burnout per il troppo successo della sua startup che vendeva attrezzature sportive da combattimento. Chiusa l’azienda, dopo un anno

sabbatico in Messico è tornato con una convinzione: puntare sull’attenzione e sull’accuratezza delle persone sfatando il mito dello stress che si respira nelle startup di nuova generazione. In ogni caso, se davvero volete provare l’ebrezza di meditare con il vostro smartphone basta munirvi di cuffiette e scaricare qualche app tipo Buddhifi, il nome è già tutto un programma, pagare sei franchi e il gioco è fatto. Quello che però valorizza l’esperienza di Lennarz, e di altri come lui, nella nostra rincorsa al futuro, sono le cuffie e gli strumenti che indossa, grazie ai quali vengono misurate le onde del cervello, il battito del cuore e la frequenza del respiro. Da queste informazioni si calcolano degli algoritmi in grado di dire quanto chi medita sia concentrato per poi eventualmente intervenire

delle persone disabili di poter scegliere camere d’albergo non solo funzionali, ma pure curate nel design. Questo aspetto riveste un’importanza crescente in relazione all’invecchiamento della popolazione, realtà che tocca da vicino tutti noi». Il nome stesso della Fondazione rivela l’attenzione per i dettagli. Claire & George vuole richiamare le figure di chi cura (la versione inglese «care» è contenuta in Claire) e di chi assicura il servizio alberghiero come maggiordomo/ cameriere. In quattro anni di attività la Fondazione ha organizzato 10mila notti negli hotelspitex in tutte le regioni del Paese. La clientela, per il momento soprattutto svizzero tedesca, preferisce le zone caratterizzate da un bel paesaggio e della presenza del lago, per cui il Ticino è una meta ambita. Un altro elemento di valutazione importante – aggiunge Susanne Gäumann – è la durata del viaggio con relativi mezzi di trasporto. Importante pure che la destinazione non sia isolata. I clienti cercano svago, cercano vita. Negli ultimi anni Claire & George ha registrato un importante aumento delle persone anziane e grazie ad Internet le richieste giungono anche dall’estero, soprattutto da Germania e Stati Uniti. Senza un eccessivo aggravio del budget destinato alle vacanze e sfruttando in gran parte risorse esistenti, oggi anche chi è confrontato con problemi di salute può trascorrere le ferie in splendide località con o senza i familiari, vivendo esperienze emozionanti quali la minivacanza con i figli piccoli o la trasferta per una partita di calcio. Iniziative come quelle di Turismo Inclusivo e Claire & George stanno creando offerte innovative che si sviluppano velocemente proprio perché rispondono al bisogno di libertà e autonomia delle persone. Magari per alcune di loro non è più possibile compiere viaggi lunghi, ma possono comunque allontanarsi dalla routine in tutta sicurezza, trovando nel luogo di villeggiatura lo specifico sostegno di cui hanno bisogno. Informazioni

Turismo Inclusivo, c/o Giacomo Gilardi, Via San Gottardo 38, 6600 Muralto. Tel. 079 231 61 31. www.claireundgeorge.ch

La società connessa di Natascha Fioretti Meditare con uno smartphone La settimana scorsa con la giornalista Andrea Köhler, proprio sulle pagine di «Azione», si parlava della consapevolezza che stiamo acquisendo rispetto agli effetti negativi del nostro tormentoso rapporto con le tecnologie e di come sempre di più troviamo modi per ritagliarci degli spazi offline, scollegati da fili e onde elettromagnetiche. Anch’io la vedo così, o meglio, mi rendo conto di valorizzare sempre di più dei momenti di pausa liberi da connessione e preferibilmente all’aria aperta. Poi però ho letto della storia di un giovane imprenditore berlinese, Jan Lennarz, e mi è venuto qualche dubbio sul nostro presunto processo di consapevolezza, tanto da chiedermi se non è vero anche il contrario e cioè che l’evoluzione tecnologica e il suo impatto

sulle nostre vite non si può arrestare e, prima o poi, anche chi resiste ne sarà travolto. Mi spiego, voi praticate Yoga? Io ho fatto due lezioni di prova, una indimenticabile a Lipsia sull’erba del parco Clara-Zetkin, e mi è piaciuto moltissimo seppur, guardando gli altri, ho avuto la conferma di essere elastica come il torsolo di una mela. Difficoltà a parte, l’ho apprezzato perché si sta in silenzio e ci si concentra sul proprio respiro in un’atmosfera di grande pace. Potete quindi immaginare la mia sorpresa quando ho letto la storia dell’imprenditore berlinese Jan Lennarz, un giovane che medita con le cuffie, uno smartphone che gli dice come e quando respirare e un groviglio di fili che lo mettono in contatto con degli apparecchi in grado di misurare la frequenza del suo respiro e il suo livello di concen-

aiutandolo a ripristinare la concentrazione. Da molti anni i ricercatori di tutto il mondo studiano le modalità con le quali dirigere strumenti tecnici con la forza del pensiero. Si chiama Biofeedback, mira a misurare i nostri pensieri in forma di segnali elettrici perché possano guidare la tecnica intorno a noi. Questo metodo unito alle potenzialità del mondo virtuale può fare grandi cose: chi si deconcentra durante la meditazione all’improvviso non sarà più immerso in un paesaggio tranquillo ma si troverà nel mezzo di una tempesta. Per farla scomparire dovrà ristabilire la concentrazione perduta. Non so voi ma io tornerei volentieri sul prato del parco di Lipsia e al paesaggio virtuale preferirei quello vero con il cinguettio degli uccellini. E se mi deconcentro, pazienza.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Società e Territorio

L’ufficio come la casa Tempi moderni Decorazioni, oggetti, mobili: cresce l’attenzione

per lo spazio lavorativo che tende a sovrapporsi a quello domestico

La nuova California del Ticino lanostraStoria.ch Il Museo del Malcantone

ha pubblicato nel portale le mappe delle miniere d’oro e d’argento Lorenzo De Carli

L’ufficio del surfista: passioni e affetti popolano sempre più gli spazi lavorativi. (Pixabay)

Guido Grilli Finora era quasi esclusivamente la cornice con il ritratto di famiglia collocata in bella vista sulla scrivania. Oggi sembra imporsi un’altra tendenza: sempre di più la sede di lavoro si sta sovrapponendo all’ambiente domestico. Riceviamo in regalo un quadro? Ecco che diventa parte dell’arredamento in ufficio. Scopriamo in un negozio un meraviglioso lampadario? Starà benissimo in ufficio. Stiamo trasferendo gli oggetti, inclusi quelli affettivi, e i confort tra i più diversi, dal salotto al luogo di lavoro? Come leggere questo crescente bisogno di arredare l’ufficio, talora con priorità rispetto alla nostra dimora? Siamo insomma ancora in grado di distinguere lo spazio lavorativo dal luogo domestico oppure queste due entità si sono ormai irrimediabilmente sovrapposte? Lo abbiamo chiesto a Graziano Martignoni, medico psichiatra e professore al Dipartimento di economia aziendale, sanità e sociale della Supsi. Professor Martignoni come interpretare questa tendenza?

Lo sguardo sui piccoli cambiamenti della nostra vita quotidiana è utile perché ci rivela sotto traccia come stiamo abitando il nostro mondo. In questo caso non si tratta ovviamente di un fenomeno di larga scala e soprattutto generalizzabile. È rivolto soltanto a una porzione della nostra realtà sociale. Mi riferisco soprattutto al lavoro impiegatizio o dirigenziale del nuovo capitalismo cognitivo e comunicazionale molto attento alla dimensione emozionale e all’estetica della vita. In questo scenario il luogo di lavoro e la casa sono sottoposti, soprattutto nelle metropoli, all’obbligo di assomigliarsi, anche perché il tempo di lavoro e il tempo libero oramai si sovrappongono. Difficile è infatti vivere oggi un tempo veramente liberato. Ma vi è anche una seconda condizione esistenziale di cui tener conto, quella della precarietà, della mutevolezza, del cambiamento costante. Lavoro e famiglia sono oramai vittime dell’incostanza. Come difendersi da tutto ciò? Viviamo infatti tutti in una sorta di «palcoscenico sociale», che corrisponde più o meno a quella «società dello spettacolo» di cui parlava già nel 1967 Guy Debord. Lo spettacolo qui come «teatro sociale» è infatti quella dimensione nella quale non si sa mai bene se una cosa

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

è o non è, se siamo nella realtà o nella pura illusione. I tempi che ci stanno alle spalle conoscevano un’organizzazione della vita – ad esempio dello spazio del lavoro e di quello della casa – molto più precisa. Si sapeva molto bene quando si stava al lavoro e quando si stava a casa. Perfino negli abiti: quando si tornava a casa ci si metteva altri vestiti, c’erano poi gli abiti della festa o quelli per andare a teatro. Tutto questo sembra invece oggi oramai omogeneizzato in una sorta d’indifferenziazione dei modi di vivere a cui credo appartenga in parte anche questa sorta di sovrapposizione tra il mondo della casa e il mondo del lavoro. È dunque una società del doppio o del triplo palcoscenico in cui siamo attori e vittime nello stesso tempo della grande illusione di essere in un qualche modo padroni di noi stessi e del mondo. Più concretamente cosa significa?

Vestire il luogo di lavoro come fosse una casa potrebbe dare l’impressione di qualcosa di certo e di continuo, anche se la realtà è ormai ben diversa. Come non ricordare le immagini degli impiegati licenziati, che escono dai loro uffici, esteticamente bellissimi, con gli scatoloni in cui presumo stiano tutti quegli oggetti che avevano dato loro la sensazione di essere a casa, protetti proprio come a casa. Ma a che cosa ci obbliga invece il mondo del lavoro di cui stiamo parlando? In primo luogo alla mobilità e al cambiamento. Al nuovo assunto viene sovente richiesta la disponibilità a viaggiare, a cambiare ruolo e funzione a volte con grande immediatezza. Allo stesso tempo, quel posto di lavoro – molto avanzato dal profilo del design, molto hi-tech – nutrirà di illusioni il proprio dipendente. Illusioni bagnate da un clima e un setting di lavoro spesso falso, di nuovo come a teatro, in cui tutto è vero e nello stesso tempo tutto è falso. Eppure è lo stesso lavoratore a contribuire a questa decorazione degli spazi...

L’illusione non è qualcosa che viene inoculata con la forza. Basta l’inganno! Inganno condiviso, a cui il singolo individuo partecipa anche perché sul momento ne ottiene spesso un sentimento di valorizzazione personale, di benessere emozionale e soprattutto di comodità esistenziale. L’illusione di una garantita comodità socio-economica, che diventa spesso malattia quando questa si esaurisce e si svela l’inganno. Significativa la «clinica» di chi perde il lavoro, soprattutto per chi a mezza Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

età aveva investito molto della propria vita in quel lavoro o in quella carriera. Riassumiamo. Che cosa si nasconde nel desiderio di abitare il luogo di lavoro come fosse la propria casa attorniato dagli oggetti che appartengono all’intimo della casa? La mia prima conclusione è che siamo, ragionando anche se brevemente su questi micro-fenomeni sociali, nel territorio dell’illusorio, del falso e dell’ingannevole. Viviamo in una società dell’inganno, generata dal proliferare dell’immagine, dalla scena, dallo spettacolo in cui noi non siamo soltanto spettatori o vittime, ma anche attori. È l’illusione di conservare, nell’accelerazione del tempo della vita, la vicinanza con le nostre radici che immaginiamo essere nascoste nelle fotografie dei nostri cari, nel divano di casa o negli oggetti, che i nostri amori ci hanno donato. Pensiamo a tutto ciò come fosse un pharmakon contro la durezza della quotidianità, come un antidoto ad una società, che obbliga a vincere sempre per non essere messi fuori gara. Stare nella condizione costante del movimento e del cambiamento, nell’incertezza di un posto di lavoro non più garantito, produce vertigine e a volte smarrimento, come al navigante che ha perso la rotta e la mappa cambia tutti i giorni. Quegli oggetti privati parlano di continuità e di permanenza in un mondo precario. Questi due luoghi – casa e sede di lavoro – si stanno dunque irrimediabilmente sovrapponendo?

Oggi viviamo sempre più, soprattutto nel terziario comunicazionale, una confusione tra mondo privato e mondo pubblico, tra lavoro e libertà del lavoro. Oggi siamo chiamati ad essere sempre al lavoro. La casa è ancora (ma sino a quando?) il luogo in cui potresti spegnere i cellulari, mentre il lavoro chiede di essere sempre reperibile, disponibile. Si è dominati da quelli che io chiamo i tecno-oggetti della virtualità immateriale, i tecno-spazi dell’ovunquità, e i tecno-tempi dell’accelerazione permanente, oramai in grado di spazzare via o rendere inutili tutti i segni di un antico mondo in cui gli oggetti, gli spazi e i tempi potevano essere ancora governati dall’uomo. Quegli oggetti sulla scrivania o alle pareti dell’ufficio mi sembrano a questo punto commoventi tentativi di fermare il tempo, di dare continuità e permanenza a quello che va così veloce, di trattenere il senso di intimità, quando tutto è oramai esposto. Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Ricostruendo le vicende dell’industria mineraria nel territorio elvetico, il Dizionario storico della Svizzera osserva che le nostre autorità non s’impegnarono mai molto in questo settore, «che necessitava di ingenti capitali, dato che gli investimenti per le infrastrutture potevano essere ammortizzati solo dopo molti anni e che le condizioni geologiche risultavano rischiose».

L’industria mineraria entrò in conflitto con l’agricoltura a causa di un’organizzazione del lavoro del tutto nuova Una delle conseguenze di questa scarsa attenzione fu la mancanza di sviluppo di una specifica categoria professionale, cosicché «minatori, maestri fonditori e altri specialisti provenivano spesso dalla Germania, dall’Italia o dall’Austria». D’altra parte, però, laddove vi furono prospezioni ed estrazioni minerarie, in un contesto ancora protoindustriale, gli effetti sociali prodotti furono notevoli. Le procedure estrattive richiedevano un’organizzazione del lavoro nuova, che entrava in conflitto con l’uso del tempo fatto negli ambienti rurali. Furono, per esempio, introdotti i turni di lavoro, che imponevano una scansione del tempo prima ignota; inoltre, in comunità dove quasi tutte le attività lavorative venivano svolte vicino a casa, fu introdotta la separazione tra luogo di produzione e luogo di abitazione – tanto che, per alcuni, la migrazione definitiva all’interno del paese prese il posto della mobilità locale che caratterizzava la vita contadina. Ci furono anche conflitti tra l’agricoltura e l’industria mineraria. Tendenzialmente orientata alla sussistenza la prima, la seconda chiedeva la rapida disponibilità di terreni, legno, acqua, diritti di passo, ecc., regolando quindi l’accesso alle risorse del territorio con la stessa rigidità con cui regolava l’attività dei lavoratori. «Piovono come manna dal cielo le scoperte di miniere aurifere ed argentifere, e ben presto i Circoli di Sessa e Magliasina diverranno la nuova California del Ticino». Sono le parole con cui si esprimeva il Commissario di Governo di Lugano in un rapporto al Consiglio di Stato del 1858. Lo ricordano le note

intitolate Il Ferro e l’Oro, con le quali l’Associazione Museo del Malcantone introduce alla conoscenza delle miniere locali, citando anche un passo, scritto il 15 maggio dello stesso anno dal dott. Carlo Visconti di Curio, il quale diceva: «[...] Infatti furono trovate molte miniere, ed era bello il vedere alcuni vecchi e giovani, specialmente nella scorsa primavera, battere tutte le valli, fiutare ogni buco, arrampicarsi su per le rocce, martellarle, che era una meraviglia». Il Museo del Malcantone di Curio, che dispone di un sito web ricco d’informazioni non solo sulla storia delle miniere della regione, ha aperto un account sul portale di storia partecipativa «lanostraStoria.ch», pubblicando una generosa selezione di materiali iconografici. Le immagini sono distribuite in tre dossier distinti, ciascuno dei quali provvisto di una breve introduzione. Nel dossier intitolato «Magliaso nei primi anni del ’900», sono state collocate lastre fotografiche verosimilmente realizzate da membri della famiglia di Attilio Salvadè (1864-1930). Alla fornace di Caslano, che cessò le attività nel 1950, è dedicato un secondo dossier, anch’esso utile per tratteggiare la storia industriale della regione. Ma le immagini più suggestive sono quelle che il Museo del Malcantone ha condiviso nel dossier intitolato «Le miniere del Malcantone». Vi si trova la mappa delle prospezioni minerarie condotte da Vinasco Baglioni nel comprensorio di Sessa, Astano, Novaggio e Aranno, nonché il piano della miniera Franzi-Baglioni situata sotto il paese di Miglieglia. Il sito web del Museo del Malcantone resta senz’altro la fonte più ricca online di notizie sulle miniere della regione, ma la selezione delle immagini disponibili su «lanostraStoria.ch» produce due effetti di notevole valore: da un canto, estendendo anche su questa piattaforma le sue attività editoriali, il Museo allarga il suo pubblico, dall’altro canto – pubblicando le sue immagini in una piattaforma editoriale che ha proprio la caratteristica di rendere facilmente condivisibili i contenuti – il Museo facilita la creazione di una conoscenza condivisa. Il concorso in queste settimane aperto su «lanostraStoria.ch» tende anch’esso allo stesso obiettivo: i giovani del Malcantone, suggestionati da ciò che sta nel loro sottosuolo, potrebbero andare alla ricerca di fotografie d’epoca e così arricchire il materiale già messo a disposizione dal Museo del Malcantone.

Mappa della miniera di Sessa e Astano. (www. lanostrastoria.ch) Tiratura 101’766 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Reincarnazioni tecnologiche È pensabile una testa che se ne va in giro sopra il corpo di un altro? Be’, l’immaginazione non ha limiti, e la letteratura ha già azzardato questa ipotesi quasi ottant’anni fa: nel 1940 Thomas Mann scriveva un racconto dal titolo Le teste scambiate, ambientato in India; vi si narra, appunto, la fantastica vicenda di due giovani amici che si decapitano per fervore religioso. Poi la moglie di uno dei due scopre i cadaveri e ricollega le teste ai colli, ma nella fretta sbaglia a combinare teste e corpi, sicché i due cervelli si ritrovano l’uno sul corpo dell’altro. Non c’è ovviamente nulla di attendibile nell’invenzione letteraria di questo racconto. Invece, ultimamente la scienza chirurgica sembra rendere realistica anche questa ipotesi fantastica. Giusto un anno fa un neurochirurgo italiano, con un collega cinese, ha annunciato d’essere pronto a procedere al primo trapianto di testa della storia; a quanto

pare i due sperimentatori hanno già eseguito un intervento simile su topi che dopo il trapianto hanno recuperato il controllo degli arti. La notizia ha fatto un certo scalpore ma, per quel che ne so, non ha avuto seguito; anche perché l’intervento sarebbe molto costoso (il chirurgo ha chiesto cospicui finanziamenti a miliardari russi e americani) e durerebbe circa 36 ore, durante le quali 150 chirurghi si alternerebbero nell’opera di ricollegamento di muscoli, vasi sanguigni e tessuti. E comunque, l’esito appare senz’altro incerto e pieno di incognite. Un trapianto simile è stato eseguito in Cina su di una scimmia, che è sopravvissuta all’intervento ma è poi stata soppressa dopo una ventina d’ore per evitarle «inutili sofferenze». Già, la sofferenza: non tanto quella corporea conseguente alla pratica chirurgica, ma quella del disorientamento radicale di una coscienza alienata: come può sentirsi un essere vivente che

si risvegli straniero a se stesso, ospite di un altro corpo? È vero, la soggettività rimane, perché è affidata principalmente alla memoria; ma sappiamo da tempo che l’io non è un’entità astratta, come l’anima immateriale di Platone o il cogito di Cartesio – al contrario, è tutt’uno con il corpo che dialoga costantemente con il cervello in un continuo scambio di informazioni. Ogni individualità è l’insieme di mente e corpo. Dunque, questo inusitato scambio di corporeità dovrebbe causare uno sconcerto terrificante, almeno per molto tempo. Forse un’esperienza per certi versi simile è quella raccontata dal neuropsichiatra Oliver Sacks nel suo libro Risvegli. Nel 1917 e per una decina d’anni una grave epidemia di encefalite letargica colpì quasi cinque milioni di persone. Solo una piccola minoranza di malati sopravvisse in una sorta di torpore permanente; poi, nel 1969, la scoperta di un nuovo

farmaco permise ai pochi sopravvissuti di riemergere alla coscienza – in un mondo diverso da quello che avevano conosciuto e dopo aver consumato la maggior parte della vita in una sorta di vuota nullità. Del resto, anche pazienti che, dopo aver perso una mano, ne hanno ricevuta una di ricambio da un donatore, hanno dovuto affrontare un periodo di «affiatamento» con il nuovo arto, che dapprima viene avvertito come estraneo. Ancora una volta l’invenzione letteraria ha precorso i tempi. Nel racconto di Bulgakov Cuore di cane (1925) un chirurgo sovietico esegue un sensazionale esperimento: preleva l’ipofisi di un uomo assassinato e la trapianta in un cane. E il cane, in seguito, mostra un comportamento progressivamente umanizzato: comincia a camminare su due zampe, perde i peli, la coda e gli artigli, acquista l’uso della parola e si mette a parlare di Marx, a dire frasi

scurrili, a commettere oscenità – anche se non perde l’istinto di aggredire i gatti di casa. Alla lunga la presenza di questo ibrido mostruoso risulta insopportabile: l’asportazione dell’ipofisi umana lo ricondurrà alla sua condizione animale. Riecheggia, nel racconto di Bulgakov, l’ammonimento di quanto sia pericoloso forzare i limiti, far violenza alla natura; ma la tendenza faustiana a violare i confini naturali è connaturata all’uomo – tutta la civiltà ne è derivata. E poi, l’ipotesi di poter migrare in un corpo nuovo – questa sorta di reincarnazione tecnologica – è troppo allettante perché venga abbandonata. Certo, bisognerà aspettare nuovi progressi della medicina e della tecnica, ma non è escluso che ci si arrivi. In fondo, non sarà poi una cosa tanto nuova: mi pare che siano già non poche le persone che sono addirittura «fuori di testa».

trentacinque centimetri, corrisponde alla sua altezza. I capelli, delicatamente graffiati di lato si raccolgono in uno strambo chignon che dalla parte opposta pone i capelli in una prospettiva conigliesca. Il collo lo si accarezza con gli occhi. Il tutto poggia su un rettangolo in legno tarlato. I delicati buchini dei tarli, senza nessuna intenzione, si accordano con la porosità della pelle dovuta al materiale etereo e refrattario dell’argilla cotta ad alta temperatura. «Martini pensa in terracotta» scrive Bontempelli nella sua monografia del 1939. Un pensiero che si ricollega all’arte etrusca. «Loro facevano le statue come le nostre donne fanno i ravioli» se ne esce ancora meravigliosamente Martini nei Colloqui. Confessa inoltre di essere stato due anni al Museo nazionale etrusco di Valle Giulia, spesso fuori orario grazie a un permesso speciale del direttore Giulio Giglioli, a studiarle «E go spacà anche statue per vedere come erano fatte». E poi, rincarando ancora la dose, in un’altra delle sue

grosse sparate: «Mi son el vero etrusco. Loro mi hanno dato un linguaggio. Io li ho fatti parlare. Avrei potuto fare mille statue come le avrebbero immaginate loro». In realtà mi sbalordiscono quasi di più queste sue uscite esagerate che non tante sue sculture, anche se questa è allo stesso livello di stupore. Di colpo mi viene in mente perché al contempo mi era familiare, l’avevo già vista sulla copertina di un libro che riuniva tre variazioni di Antigone: oltre a Sofocle, Brecht e Anouilh. Un velo di tragicità c’è, vero, eppure prevale forse una certa trasognatezza triste da Alice. La guardiana mi ha raggiunto, ha un disperato bisogno di parlare. Deve per forza dirmi qualcosa ma io non voglio sentire niente e guardare in silenzio. Rifugiarmi semplicemente nello sguardo della ragazza smagata, assentarmi nella sua aria attonita e basta. Al limite potrei citarvi un’ultima cosa detta da Arturo Martini a Gino Scarpa: «in fondo il mio lavoro non ha che una giustificazione: contraddire la mia assenza».

Ecco, da evitare, le carni rosse, lo zucchero, i dolciumi, il caffè, i grassi, gli insaccati, le bibite gasate, i formaggi fermentati: un elenco che, guarda un po’, sembra contenere cibi abbinati, tradizionalmente, alla sensazione gustativa del piacere. Da qui, i connotati di tipo sacrificale, attribuiti a rinunce dagli effetti discutibili. In realtà, si assiste alla diffusione contagiosa di abitudini alimentari e comportamentali che fanno capo alla credulità, per non dire al fanatismo. Un fenomeno, paragonabile al populismo in politica: ne è convinto Uwe Knop, studioso di scienze nutrizionali e autore di libri che trasmettono una voce controcorrente, che fa scalpore e suscita malumori. Senza mezzi termini dichiara: «Le raccomandazioni dietetiche sono baggianate». E ancora: «Un’infinità di studi e ricerche si presta a interpretazioni diverse, via via corrette o rovesciate: gli effetti del caffè sulla pressione, lo stress, la sessualità non si basano su dati precisi». E allora

come reagire? Secondo Knop, la scienza alimentare deve aiutarci a stabilire la propria dieta individuale, «cosa mi piace e cosa tollero meglio». Mettendo, invece, al bando certe condanne assolute, nei confronti dei piatti pronti, del pasto rapido, pizza e birra. E, d’altro canto, rifiutando il mito delle fibre, che possono essere persino indigeste, e dei due litri d’acqua, «dose insensata, se non si ha sete». Sulla stessa linea si è espresso, sulla «NZZ», Urs Bühler, insistendo sui contenuti ideologici e morali, anzi moralisti, che accompagnano queste scelte alimentari. La rinuncia a cibi coincide, infatti, con una ricerca di sublimazione di un atto quotidiano e banale. Non a caso, il digiuno, al venerdì per esempio, figurava negli obblighi del cattolico praticante. Ora, fintanto che la scelta rimane personale, niente da ridire. C’è da preoccuparsi, osserva Bühler, quando coinvolge un gruppo in grado di farsi sentire sul piano politico, chiedendo addirittura interventi dello Stato.

A due passi di Oliver Scharpf L’ultima testa di Arturo Martini a Pallanza L’altro giorno, cercando notizie su una storica pasticceria perduta, scopro che a Pallanza ci sono diverse sculture di Arturo Martini (1889-1947). A vent’anni avevo divorato i suoi Colloqui sulla scultura (1997) – riedizione riveduta fresca di stampa a cura di Nico Stringa dei Colloqui (1968) ai tempi in parte censurati – al punto che certe frasi mi sono rimaste tatuate e potrei citarle a braccio. Libro caustico e oracolare composto da ventun incontri a Venezia con il giornalista Gino Scarpa al quale confida pensieri del genere: «Lasciare l’opera in balia delle intemperie umane: se è opera vera, non ne è tocca. Come pisciare in mare: il mare non cambia di colore». Dal vero però non avevo mai visto niente, solo le foto di un catalogo della grande mostra nell’autunno 1967 a Treviso. A Brissago prendo il bus delle dieci. Come dice Tito Cornasidio alle moglie Pomponia in Sotto la sua mano (1974) di Piero Chiara: «Si va a Pallanza». La malinconia del lago verso fine gennaio viene rimarginata, a tratti,

da una distensiva bruma. Al Museo del Paesaggio di Pallanza, frazione di Verbania dal 1939, c’è l’ultima opera di Martini: Testa di ragazza (1947). Sotterrato per quasi due decadi, mi sembra così ora di rendergli tardivo omaggio. Scendo in piazza Gramsci, un monumentale canforo si prende la scena. Dalla maestosa chioma sempreverde del Cinnamomum camphora al museo non sono neanche cento metri. All’inizio di via Ruga, il portale in granito bianco di Montorfano introduce alle scale che portano su nel cortile di Palazzo Viani-Dugnani. Sobrio palazzo barocco della metà del seicento, dal 1909 sede di un museo preveggente: già all’epoca Antonio Massara (1878-1926) intuisce il pericolo di rovina – turismo, industria, edilizia speculativa – per il paesaggio e lo pone in primo piano proclamando la «necessità di una rinnovata educazione spirituale». La buonanima del Massara, oggi, altro che rivoltarsi nella tomba. Percorro la gipsoteca Troubetzkoy e salgo le

scale. Le foglie di una secolare Magnolia grandiflora fanno capolino dalle finestre. La guardiana legge il giornale, balza subito in piedi e si offre per una visita guidata. Gentile – i guardiani dei musei di solito sono piuttosto chiusi in se stessi, alcuni ti mettono perfino a disagio guardandoti con sospetto – ma amo andare in fuga. Passo veloce tra le stanze adibite alla mostra in corso, abitate un tempo da Paolo Solaroli, avventuriero ispiratore, pare, di un personaggio salgariano: Yanez, la spalla di Sandokan. Dopo paesaggi non male ma forse troppo leziosi, approdo tra le opere del grande scultore trevigiano oggi un po’ misconosciuto. Eccola, là in fondo a sinistra, la gloria maggiore di questa collezione spiaggiata qui sulle sponde del Verbano per via della sua amata Egle Rosmini che era di queste parti. Lo sfondo delle mura è color pervinca, il parquet scricchiola, lo sguardo di ragazza in terracotta chiara è stupefatto. La profondità dell’ultima testa di Arturo Martini a Pallanza (213 m),

Mode e modi di Luciana Caglio Mangia come vuoi: libertà condizionata

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Mai come oggi, l’atto di mangiare è stato così facile e sollecitante. Tanto da provocare, alle nostre latitudini ovviamente, quell’imbarazzo della scelta che ci blocca, quando si entra nei reparti alimentari dei supermercati. Traboccano di prodotti d’ogni tipo e provenienza, proposti nelle forme più diverse: freschi, conservati, precotti, sotto vuoto, surgelati, da asporto, e via dicendo. Devono, infatti, soddisfare

le molteplici esigenze, sfizi gastronomici compresi, di un pubblico che, per giunta, vuol mangiare quando e dove gli fa comodo. Il commercio gastroalimentare si sta, quindi, adeguando. Si moltiplicano, con il pretesto di festività ed eventi, mercati e mercatini che offrono, giorno e notte, cibi cosiddetti genuini, da consumare sul posto. A loro volta, cambiano arredo e menu, i luoghi per definizione demandati a questa funzione: ristoranti, grotti e anche i bar, ormai in grado di servire pizze, capresi, insalate. Insomma, cosa non si fa per attirare una clientela, spesso imprevedibile e incontentabile, impegnata in una sorta di nuovo hobby. Da semplice necessità fisiologica, mangiare è cresciuta a occasione sociale e persino culturale. L’alimentazione figura, ormai, fra i temi prediletti dai media: le rubriche gastronomiche occupano paginate sui quotidiani e in tv fanno spettacolo le gare fra cuochi principianti giudicati dai grandi chef, divi del momento.

Ma al di là della sua stessa popolarità, il rapporto con il cibo sta diventando un esempio lampante dei paradossi dell’epoca. A mangiare ci si sente, da un lato, incitati e favoriti e, dall’altro, frenati e persino colpevolizzati. Una funzione istintiva, indispensabile alla sopravvivenza, si trova adesso esposta a una nuova categoria di rischi. Non concernono più la sua materia prima, alimenti che nel passato deperivano facilmente, ma toccano aspetti sempre più ampi e sfuggenti, d’ordine scientifico, morale, filosofico, religioso. In altre parole, ai cibi si attribuiscono poteri positivi, o negativi, a cui affidare la salute, la gioventù, la bellezza, l’efficienza e via enumerando gli effetti prodigiosi sia di diete, erbe, unguenti, sia di pratiche sportive, di tecniche respiratorie, e via enumerando ricette salvifiche d’ogni genere e prezzo. S’impongono, insomma, comportamenti e consumi, considerati promettenti in sostituzione di altri, ritenuti dannosi. In proposito gli esempi si sprecano.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Ambiente e Benessere Le impollinatrici Nel Madagascar, sono le donne a fare il lavoro degli insetti, sulla vaniglia

Il viaggio in solitaria Si sta diffondendo una nuova tendenza: l’esplorazione del mondo non più solo con lo zaino in spalla, ma anche in piena solitudine, per meglio vivere l’esperienza

A vela Dalle Scilly all’Irlanda Continua la navigazione della barca ticinese Mamé, impegnata ora in acque nordiche

Il museo del calcio a Zurigo A due anni dall’inaugurazione è ormai rodato il museo costruito dalla Fifa per celebrare il gioco del pallone pagina 15

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La terra dell’oro bruno Ecosostenibilità Il Madagascar è ritenuto per eccellenza il paese della vaniglia

Luigi Baldelli, testo e foto

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Trapianti: quale modello?

Medicina La donazione di organi al centro

di un’iniziativa popolare che propone un consenso implicito alla donazione

Maria Grazia Buletti La storia del trapianto di organi affonda le sue radici in tempi davvero lontani. Si pensi alla leggenda dei miracoli attribuiti ai santi medici Cosma e Damiano, uno dei quali è il famoso trapianto di una gamba da un morto a un vivente. Il dipinto che lo rappresenta risale al 1443 ed è attribuito al Beato Angelico (La guarigione del diacono Giustiniano, conservato nel Museo nazionale di San Marco a Firenze). Quando parliamo di trapianti, oggi pensiamo al primo trapianto di cuore realizzato il 3 dicembre 1967 dal chirurgo sudafricano Christian Barnard. E pensiamo alla rivoluzionaria scoperta, nel 1978, della Ciclosporina: un farmaco essenziale impiegato per bloccare il rigetto dell’organo trapiantato. Quando parliamo di trapianto parliamo di donazione di organi, in un complesso discorso che abbraccia aspetti simbolici, etici, sociali, medici e legali. Anche i numeri parlano chiaro: a giugno 2017 in Svizzera, 1502 persone erano in lista d’attesa per uno o più organi; nel 2016 sono decedute 78 persone prima di ricevere un organo. Il tasso di donazione elvetico è attorno a 13,2 persone per milione di abitanti: circa la metà per rapporto ai Paesi limitrofi come Francia, Austria e Italia, e un terzo rispetto alla Spagna. Questi dati dimostrano che in Svizzera vige un’insufficiente disponibilità di organi da trapiantare. Con l’obiettivo di incentivare le donazioni, il movimento Jeune chambre internazionale Riviera ha lanciato un’iniziativa (sostenuta da Swisstransplant) che mira all’introduzione del consenso presunto: un modello già in vigore in diversi Stati europei, secondo cui il prelievo di organi sarà sempre consentito in assenza di un rifiuto esplicito espresso in vita e sottoscritto in un apposito registro. La sensibilità della popolazione ruota attorno a parecchie domande: da un lato le giovani generazioni che, forse, hanno meno paura di parlare della morte; dall’altro c’è chi si chiede se questa sia la via migliore per incentivare la donazione, chi si interroga sul concetto di «donare, io ti dono» per rapporto al

«prendere se non ti dico che non puoi prendere», mentre altri pongono la questione su «siamo pezzi di ricambio o esseri umani?». Rimane la complessità del tema per il quale, se l’iniziativa dovesse raccogliere le firme necessarie, il popolo svizzero dovrà esprimersi. «La difficoltà per quanto attiene alla donazione risiede nel fatto che ruota attorno alla necessaria diagnosi di decesso (morte cerebrale), in un momento in cui i famigliari del possibile donatore sono in una delicatissima situazione per rapporto alla loro tragedia del lutto», il dottor Roberto Malacrida è consulente etico per Swisstransplant, vicepresidente della Commissione etica dell’EOC, già professore di etica alle Università di Ginevra e di Friburgo ed è a lui che chiediamo di aiutarci a dipanare una matassa molto controversa, nella quale risulta subito chiaro che il bandolo sta in un concetto fondamentale esprimibile in due parole: fiducia e comunicazione. «In realtà l’introduzione del consenso presunto per incentivare la donazione potrebbe trarre in inganno: ad esempio, in Ticino è sempre stato in vigore il consenso esplicito (ndr: modello in vigore in Svizzera con la Legge federale sul dono d’organi del 2007), e prima del 2007 a Zurigo vigeva quello del consenso presunto. Ciononostante, il nostro cantone si è sempre distinto, e si distingue, per maggiore numero di donatori rispetto al resto della Svizzera». Il nostro interlocutore non si dice contrario alla sua introduzione, ma ritiene che l’incentivo alla donazione passi per altri canali: «La donazione di un organo, in particolare quella del cuore, simbolicamente, è legata alla donazione della vita e bisogna rispettare la sensibilità di tutti, soprattutto in momenti così delicati e drammatici che vedono i parenti di un potenziale donatore affrontare una realtà così difficile che è quella della morte del loro caro». Il dottor Malacrida, che insieme al professor Sebastiano Martinoli è uno dei fondatori della cultura della donazione in Ticino, racconta della sua grande esperienza di curante: «Comunicazione e fiducia reciproca fra curanti e famigliari sono fondamentali e occorre una grande sensibilità, unita alla preparazione adeguata di tutto il perso-

Il dottor Roberto Malacrida, consulente etico per Swisstransplant. (Vincenzo Cammarata)

nale curante ad affrontare il tema con la famiglia». Egli spiega che l’unica persona in diritto di decidere per se stesso è il paziente: «Sarebbe importante redigere le direttive anticipate, ed esprimere in vita la propria disponibilità alla donazione, in modo che i parenti chiamati ad interpretare la volontà del loro caro possano darvi seguito». Ma non sempre si conoscono gli ultimi desideri del paziente, in questi casi Malacrida metteva in atto una sorta di indagine: «Ho sempre invitato la famiglia a ricostruire una narrazione del loro caro, per comprendere cosa avrebbe detto se fosse stato capace ad esprimere la sua volontà. Li lasciavo andare a casa almeno una notte, in cui i famigliari parlavano del loro caro e arrivavano al mattino, chi più e chi meno, convinti di interpretarne bene i suoi desideri». Un buonsenso e un rispetto che paiono prevalere sulla proposta di legge: «Sono cosciente che i chirurghi

trapiantatori, ma anche i nefrologi, i cardiologi e gli epatologi, che hanno sotto gli occhi le sofferenze dei loro pazienti nelle troppo lunghe liste d’attesa, tendano a far prevalere il modello del “consenso presunto”. Non dimentichiamo però che siamo di fronte a chi è morto e a chi sopravvive (i parenti), che ha il diritto di elaborare il proprio lutto senza coni d’ombra, anche se possiamo affermare che nessuna famiglia che ha dato il consenso al prelievo si sia mai pentita di averlo fatto, mentre sovente vale il contrario». Fondamentale la fiducia fra curanti e parenti, più volte ribadita: «Apertura totale dei Reparti di Cure intensive ai parenti, fiducia reciproca fra infermieri e medici, facilitano il dialogo anche su temi così complessi come questo». Creare un’atmosfera positiva e di consenso nell’ambito della donazione di organi in un dialogo che passa per la comunicazione corretta, empatica ed esaustiva

dei curanti nei confronti dei parenti del potenziale donatore. Questa, insieme alle solide fondamenta di una fiducia reciproca fra medici, paziente e parenti, sarebbe secondo il dottor Roberto Malacrida la strada etica, medica, sociale e filosofica verso una sana cultura della donazione di organi da trapiantare.

Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista al dottor Roberto Malacrida.

Afferra il fiore in maniera morbida, con due dita, per tenerlo fermo. Taglia il pistillo in modo agile e veloce, con un legno simile a uno stuzzicadenti, con una spinta corta e decisa, e così via, fino alla pianta successiva. Marie-Jeanne Rasoazina deve fare tutto da sola. Non c’è nessun insetto che faccia il lavoro di impollinare la vaniglia mentre è alla ricerca di cibo. Il Madagascar è il paese della vaniglia per eccellenza: circa l’80 per cento della produzione mondiale proviene dallo Stato insulare, quasi esclusivamente dalla regione Sava, nell’altopiano settentrionale, dove Marie-Jeanne coltiva anche la sua parcella. Tuttavia, questa specie di orchidea non è originaria di questa regione, ma proviene dal Messico, dove ci sono insetti con lunghi pungiglioni che passano attraverso gli stretti calici del fiore per arrivare fino al nettare. Marie-Jeanne, vive ad Androfiabe, un villaggio che può essere raggiunto solo a piedi, con una passeggiata di circa trenta chilometri su una strada sterrata che attraversa foreste e si inerpica sulle montagne per poi ridiscendere su una piccola pianura. È una donna vivace e delicata Marie-Jeanne; alta poco più di un metro e mezzo, appartiene alla generazione di contadini della vaniglia che hanno avuto successo nel recente passato. Le sue condizioni come madre single erano tutt’altro che favorevoli. Mentre ne parla, il suo sorriso sicuro lascia il posto a una profonda riflessione e la sua voce diventa più tranquilla. Tutto quello che ha fatto, l’ha fatto per i suoi figli e continua a farlo anche per i suoi nipoti e pronipoti, perché possano crescere decentemente. Poiché la sua unica figlia vive per lavoro nella lontana capitale del distretto, i suoi figli sono affidati alla cura della bisnonna. Durante la settimana, i bambini in età scolare vanno a scuola nella più grande città vicina. Marie-Jeanne, grazie al raccolto della vaniglia, paga le tasse scolastiche, il vitto e l’alloggio nella casa di conoscenti, e si mantiene in contatto quotidiano con loro tramite telefono cellulare. Quando visitiamo la bisnonna, è pomeriggio, un intenso profumo di vaniglia scorre verso di noi quando entriamo nel soggiorno. Se si chiudono gli occhi, sembra di essere in un laboratorio di profumeria o in una pasticceria. Il risultato dell’ultimo raccolto è conservato in un grande pezzo di legno. La vaniglia qui non è per uso personale – sorprendentemente, nessuno di quelli che abbiamo incontrato nel villaggio ha

Marie-Jeanne Rasoazina mostra una pianta di vaniglia, a ds, al centro, mentre impollina con una specie di stuzzicadenti un fiore di vaniglia, di cui sotto si vedono i frutti. Sul sito www.azione.ch una gallery fotografica più ampia.

mai assaggiato la propria vaniglia – ma è un regalo per noi ospiti. Marie-Jeanne oggi ha impollinato circa duemila fiori. Si alza presto come al solito, per lavorare il più possibile le sue piante di vaniglia, prima che il fiore si chiuda irrimediabilmente – dopo un breve periodo di fioritura di un giorno – al tramonto del sole. Marie-Jeanne non deve più fare il lavoro sul campo da sola all’età di sessanta anni. Se possibile, però l’impollinazione non vuole cederla ad altre mani. Ma per il diserbo tra le piante di vaniglia e altri lavori fisicamente gra-

La vera origine della vaniglia La vaniglia proviene dal Messico. Gli Aztechi la chiamavano «nettare degli dei», che spesso assaporavano insieme al cacao amaro. I colonialisti spagnoli portarono la nobile spezia in Europa. Fu solo a metà del XIX secolo che i francesi la portarono a La Réunion e poi alla vicina isola del Madagascar, che è ancora il più grande produttore prima dell’Indonesia. Ci sono voluti diversi anni per coltivare la vaniglia al di fuori della sua zona di origine. Lo schiavo di 12 anni Edmon Albius stabilì un metodo semplice per l’impollinazione manuale. Nel frattempo, la vaniglia è diventata

la spezia più popolare e la seconda più costosa dopo lo zafferano. Sul mercato mondiale, la domanda supera di oltre il doppio l’offerta. Il prodotto di lusso è sempre più consumato nei mercati emergenti come Cina e India. La Cina, in particolare, sta investendo anche nella trasformazione industriale (essiccazione, fermentazione) in loco, sebbene ciò possa portare a perdite di qualità. Il cattivo raccolto e la speculazione sono altri motivi per cui un chilogrammo di buona vaniglia sul mercato mondiale costa oggi 600 franchi svizzeri, dodici volte più dei prezzi del 2013.

vosi, per i quali gli uomini sono tradizionalmente responsabili, ha dei dipendenti – arrivano qui, alla fine del mondo, da tutti gli angoli del paese, perché non c’è quasi lavoro a casa. Non solo mantengono puliti i campi, ma li custodiscono anche al momento del raccolto. Molto spesso ci sono dei furti, perché i prezzi della vaniglia sono aumentati rapidamente. Nonostante le guardie «si stima che circa 60 kg di baccelli di vaniglia siano stati rubati dai ladri dal mio terreno: un terzo del raccolto» dice Marie-Jeanne con voce indignata. Non tutte le persone nel villaggio di Androfiabe hanno però una vita migliore grazie alla vaniglia. Secondo la Banca mondiale, tre quarti della popolazione malgascia è povera e molti soffrono talvolta la fame, persino tra chi coltiva la vaniglia. Ed è incredibile, visto che il prezzo dell’oro bruno è aumentato di dodici volte negli ultimi cinque anni. Altri, invece, hanno guadagnato bene. Come Marie-Jeanne, che ha molto terreno e terra buona. Ma soprattutto a guadagnarci sono gli intermediari. Dopo il periodo del raccolto visitano i contadini dei villaggi e acquistano direttamente da loro. Più avanzata è la vaniglia nel processo di lavorazione, più aumentano i guadagni. Tuttavia, sia essa verde o già semisecca e marrone, il valore aggiunto in questa fase rimane modesto. Sempre più intermediari si sono

dati da fare, in una catena di approvvigionamento in continua espansione che va dal produttore al consumatore. Tutti si vogliono garantire un margine di guadagno il più ampio possibile e quindi ingannano gli agricoltori inesperti. E la tendenza è quella di portare le merci sul mercato in una fase sempre più precoce per essere tra i primi e ottenere prezzi migliori. Dimenticando che se la vaniglia viene raccolta troppo presto ed essiccata troppo rapidamente, diventa quasi un caramello e riduce le sue qualità. Oline e Jean Tommy Medary, una giovane coppia con tre figli piccoli, hanno iniziato a coltivare la vaniglia sette anni fa. L’anno scorso sono stati in grado di raccogliere per la prima volta, un magro raccolto di soli tre chilogrammi circa, che una volta essiccati

sono diventati poco meno di un chilogrammo di peso. Che si tratti della qualità del suolo o delle piante? Non lo sanno. La vaniglia non ha ancora portato loro fortuna. Queste famiglie sono sostenute dall’organizzazione svizzera di cooperazione allo sviluppo Helvetas (www. helvetas.ch), recentemente attiva in questa regione. Helvetas (presente in circa 30 Paesi nel mondo per permettere un vero cambiamento alle persone svantaggiate) insegna agli agricoltori come mantenere e trasformare correttamente la loro vaniglia al fine di aumentare la resa e la qualità, e fa incontrare direttamente i produttori con gli esportatori. In modo che non siano più in balia dei mercanti e intermediari e siano pagati equamente per il loro raccolto.


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Ambiente e Benessere Le impollinatrici Nel Madagascar, sono le donne a fare il lavoro degli insetti, sulla vaniglia

Il viaggio in solitaria Si sta diffondendo una nuova tendenza: l’esplorazione del mondo non più solo con lo zaino in spalla, ma anche in piena solitudine, per meglio vivere l’esperienza

A vela Dalle Scilly all’Irlanda Continua la navigazione della barca ticinese Mamé, impegnata ora in acque nordiche

Il museo del calcio a Zurigo A due anni dall’inaugurazione è ormai rodato il museo costruito dalla Fifa per celebrare il gioco del pallone pagina 15

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La terra dell’oro bruno Ecosostenibilità Il Madagascar è ritenuto per eccellenza il paese della vaniglia

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Trapianti: quale modello?

Medicina La donazione di organi al centro

di un’iniziativa popolare che propone un consenso implicito alla donazione

Maria Grazia Buletti La storia del trapianto di organi affonda le sue radici in tempi davvero lontani. Si pensi alla leggenda dei miracoli attribuiti ai santi medici Cosma e Damiano, uno dei quali è il famoso trapianto di una gamba da un morto a un vivente. Il dipinto che lo rappresenta risale al 1443 ed è attribuito al Beato Angelico (La guarigione del diacono Giustiniano, conservato nel Museo nazionale di San Marco a Firenze). Quando parliamo di trapianti, oggi pensiamo al primo trapianto di cuore realizzato il 3 dicembre 1967 dal chirurgo sudafricano Christian Barnard. E pensiamo alla rivoluzionaria scoperta, nel 1978, della Ciclosporina: un farmaco essenziale impiegato per bloccare il rigetto dell’organo trapiantato. Quando parliamo di trapianto parliamo di donazione di organi, in un complesso discorso che abbraccia aspetti simbolici, etici, sociali, medici e legali. Anche i numeri parlano chiaro: a giugno 2017 in Svizzera, 1502 persone erano in lista d’attesa per uno o più organi; nel 2016 sono decedute 78 persone prima di ricevere un organo. Il tasso di donazione elvetico è attorno a 13,2 persone per milione di abitanti: circa la metà per rapporto ai Paesi limitrofi come Francia, Austria e Italia, e un terzo rispetto alla Spagna. Questi dati dimostrano che in Svizzera vige un’insufficiente disponibilità di organi da trapiantare. Con l’obiettivo di incentivare le donazioni, il movimento Jeune chambre internazionale Riviera ha lanciato un’iniziativa (sostenuta da Swisstransplant) che mira all’introduzione del consenso presunto: un modello già in vigore in diversi Stati europei, secondo cui il prelievo di organi sarà sempre consentito in assenza di un rifiuto esplicito espresso in vita e sottoscritto in un apposito registro. La sensibilità della popolazione ruota attorno a parecchie domande: da un lato le giovani generazioni che, forse, hanno meno paura di parlare della morte; dall’altro c’è chi si chiede se questa sia la via migliore per incentivare la donazione, chi si interroga sul concetto di «donare, io ti dono» per rapporto al

«prendere se non ti dico che non puoi prendere», mentre altri pongono la questione su «siamo pezzi di ricambio o esseri umani?». Rimane la complessità del tema per il quale, se l’iniziativa dovesse raccogliere le firme necessarie, il popolo svizzero dovrà esprimersi. «La difficoltà per quanto attiene alla donazione risiede nel fatto che ruota attorno alla necessaria diagnosi di decesso (morte cerebrale), in un momento in cui i famigliari del possibile donatore sono in una delicatissima situazione per rapporto alla loro tragedia del lutto», il dottor Roberto Malacrida è consulente etico per Swisstransplant, vicepresidente della Commissione etica dell’EOC, già professore di etica alle Università di Ginevra e di Friburgo ed è a lui che chiediamo di aiutarci a dipanare una matassa molto controversa, nella quale risulta subito chiaro che il bandolo sta in un concetto fondamentale esprimibile in due parole: fiducia e comunicazione. «In realtà l’introduzione del consenso presunto per incentivare la donazione potrebbe trarre in inganno: ad esempio, in Ticino è sempre stato in vigore il consenso esplicito (ndr: modello in vigore in Svizzera con la Legge federale sul dono d’organi del 2007), e prima del 2007 a Zurigo vigeva quello del consenso presunto. Ciononostante, il nostro cantone si è sempre distinto, e si distingue, per maggiore numero di donatori rispetto al resto della Svizzera». Il nostro interlocutore non si dice contrario alla sua introduzione, ma ritiene che l’incentivo alla donazione passi per altri canali: «La donazione di un organo, in particolare quella del cuore, simbolicamente, è legata alla donazione della vita e bisogna rispettare la sensibilità di tutti, soprattutto in momenti così delicati e drammatici che vedono i parenti di un potenziale donatore affrontare una realtà così difficile che è quella della morte del loro caro». Il dottor Malacrida, che insieme al professor Sebastiano Martinoli è uno dei fondatori della cultura della donazione in Ticino, racconta della sua grande esperienza di curante: «Comunicazione e fiducia reciproca fra curanti e famigliari sono fondamentali e occorre una grande sensibilità, unita alla preparazione adeguata di tutto il perso-

Il dottor Roberto Malacrida, consulente etico per Swisstransplant. (Vincenzo Cammarata)

nale curante ad affrontare il tema con la famiglia». Egli spiega che l’unica persona in diritto di decidere per se stesso è il paziente: «Sarebbe importante redigere le direttive anticipate, ed esprimere in vita la propria disponibilità alla donazione, in modo che i parenti chiamati ad interpretare la volontà del loro caro possano darvi seguito». Ma non sempre si conoscono gli ultimi desideri del paziente, in questi casi Malacrida metteva in atto una sorta di indagine: «Ho sempre invitato la famiglia a ricostruire una narrazione del loro caro, per comprendere cosa avrebbe detto se fosse stato capace ad esprimere la sua volontà. Li lasciavo andare a casa almeno una notte, in cui i famigliari parlavano del loro caro e arrivavano al mattino, chi più e chi meno, convinti di interpretarne bene i suoi desideri». Un buonsenso e un rispetto che paiono prevalere sulla proposta di legge: «Sono cosciente che i chirurghi

trapiantatori, ma anche i nefrologi, i cardiologi e gli epatologi, che hanno sotto gli occhi le sofferenze dei loro pazienti nelle troppo lunghe liste d’attesa, tendano a far prevalere il modello del “consenso presunto”. Non dimentichiamo però che siamo di fronte a chi è morto e a chi sopravvive (i parenti), che ha il diritto di elaborare il proprio lutto senza coni d’ombra, anche se possiamo affermare che nessuna famiglia che ha dato il consenso al prelievo si sia mai pentita di averlo fatto, mentre sovente vale il contrario». Fondamentale la fiducia fra curanti e parenti, più volte ribadita: «Apertura totale dei Reparti di Cure intensive ai parenti, fiducia reciproca fra infermieri e medici, facilitano il dialogo anche su temi così complessi come questo». Creare un’atmosfera positiva e di consenso nell’ambito della donazione di organi in un dialogo che passa per la comunicazione corretta, empatica ed esaustiva

dei curanti nei confronti dei parenti del potenziale donatore. Questa, insieme alle solide fondamenta di una fiducia reciproca fra medici, paziente e parenti, sarebbe secondo il dottor Roberto Malacrida la strada etica, medica, sociale e filosofica verso una sana cultura della donazione di organi da trapiantare.

Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista al dottor Roberto Malacrida.

Afferra il fiore in maniera morbida, con due dita, per tenerlo fermo. Taglia il pistillo in modo agile e veloce, con un legno simile a uno stuzzicadenti, con una spinta corta e decisa, e così via, fino alla pianta successiva. Marie-Jeanne Rasoazina deve fare tutto da sola. Non c’è nessun insetto che faccia il lavoro di impollinare la vaniglia mentre è alla ricerca di cibo. Il Madagascar è il paese della vaniglia per eccellenza: circa l’80 per cento della produzione mondiale proviene dallo Stato insulare, quasi esclusivamente dalla regione Sava, nell’altopiano settentrionale, dove Marie-Jeanne coltiva anche la sua parcella. Tuttavia, questa specie di orchidea non è originaria di questa regione, ma proviene dal Messico, dove ci sono insetti con lunghi pungiglioni che passano attraverso gli stretti calici del fiore per arrivare fino al nettare. Marie-Jeanne, vive ad Androfiabe, un villaggio che può essere raggiunto solo a piedi, con una passeggiata di circa trenta chilometri su una strada sterrata che attraversa foreste e si inerpica sulle montagne per poi ridiscendere su una piccola pianura. È una donna vivace e delicata Marie-Jeanne; alta poco più di un metro e mezzo, appartiene alla generazione di contadini della vaniglia che hanno avuto successo nel recente passato. Le sue condizioni come madre single erano tutt’altro che favorevoli. Mentre ne parla, il suo sorriso sicuro lascia il posto a una profonda riflessione e la sua voce diventa più tranquilla. Tutto quello che ha fatto, l’ha fatto per i suoi figli e continua a farlo anche per i suoi nipoti e pronipoti, perché possano crescere decentemente. Poiché la sua unica figlia vive per lavoro nella lontana capitale del distretto, i suoi figli sono affidati alla cura della bisnonna. Durante la settimana, i bambini in età scolare vanno a scuola nella più grande città vicina. Marie-Jeanne, grazie al raccolto della vaniglia, paga le tasse scolastiche, il vitto e l’alloggio nella casa di conoscenti, e si mantiene in contatto quotidiano con loro tramite telefono cellulare. Quando visitiamo la bisnonna, è pomeriggio, un intenso profumo di vaniglia scorre verso di noi quando entriamo nel soggiorno. Se si chiudono gli occhi, sembra di essere in un laboratorio di profumeria o in una pasticceria. Il risultato dell’ultimo raccolto è conservato in un grande pezzo di legno. La vaniglia qui non è per uso personale – sorprendentemente, nessuno di quelli che abbiamo incontrato nel villaggio ha

Marie-Jeanne Rasoazina mostra una pianta di vaniglia, a ds, al centro, mentre impollina con una specie di stuzzicadenti un fiore di vaniglia, di cui sotto si vedono i frutti. Sul sito www.azione.ch una gallery fotografica più ampia.

mai assaggiato la propria vaniglia – ma è un regalo per noi ospiti. Marie-Jeanne oggi ha impollinato circa duemila fiori. Si alza presto come al solito, per lavorare il più possibile le sue piante di vaniglia, prima che il fiore si chiuda irrimediabilmente – dopo un breve periodo di fioritura di un giorno – al tramonto del sole. Marie-Jeanne non deve più fare il lavoro sul campo da sola all’età di sessanta anni. Se possibile, però l’impollinazione non vuole cederla ad altre mani. Ma per il diserbo tra le piante di vaniglia e altri lavori fisicamente gra-

La vera origine della vaniglia La vaniglia proviene dal Messico. Gli Aztechi la chiamavano «nettare degli dei», che spesso assaporavano insieme al cacao amaro. I colonialisti spagnoli portarono la nobile spezia in Europa. Fu solo a metà del XIX secolo che i francesi la portarono a La Réunion e poi alla vicina isola del Madagascar, che è ancora il più grande produttore prima dell’Indonesia. Ci sono voluti diversi anni per coltivare la vaniglia al di fuori della sua zona di origine. Lo schiavo di 12 anni Edmon Albius stabilì un metodo semplice per l’impollinazione manuale. Nel frattempo, la vaniglia è diventata

la spezia più popolare e la seconda più costosa dopo lo zafferano. Sul mercato mondiale, la domanda supera di oltre il doppio l’offerta. Il prodotto di lusso è sempre più consumato nei mercati emergenti come Cina e India. La Cina, in particolare, sta investendo anche nella trasformazione industriale (essiccazione, fermentazione) in loco, sebbene ciò possa portare a perdite di qualità. Il cattivo raccolto e la speculazione sono altri motivi per cui un chilogrammo di buona vaniglia sul mercato mondiale costa oggi 600 franchi svizzeri, dodici volte più dei prezzi del 2013.

vosi, per i quali gli uomini sono tradizionalmente responsabili, ha dei dipendenti – arrivano qui, alla fine del mondo, da tutti gli angoli del paese, perché non c’è quasi lavoro a casa. Non solo mantengono puliti i campi, ma li custodiscono anche al momento del raccolto. Molto spesso ci sono dei furti, perché i prezzi della vaniglia sono aumentati rapidamente. Nonostante le guardie «si stima che circa 60 kg di baccelli di vaniglia siano stati rubati dai ladri dal mio terreno: un terzo del raccolto» dice Marie-Jeanne con voce indignata. Non tutte le persone nel villaggio di Androfiabe hanno però una vita migliore grazie alla vaniglia. Secondo la Banca mondiale, tre quarti della popolazione malgascia è povera e molti soffrono talvolta la fame, persino tra chi coltiva la vaniglia. Ed è incredibile, visto che il prezzo dell’oro bruno è aumentato di dodici volte negli ultimi cinque anni. Altri, invece, hanno guadagnato bene. Come Marie-Jeanne, che ha molto terreno e terra buona. Ma soprattutto a guadagnarci sono gli intermediari. Dopo il periodo del raccolto visitano i contadini dei villaggi e acquistano direttamente da loro. Più avanzata è la vaniglia nel processo di lavorazione, più aumentano i guadagni. Tuttavia, sia essa verde o già semisecca e marrone, il valore aggiunto in questa fase rimane modesto. Sempre più intermediari si sono

dati da fare, in una catena di approvvigionamento in continua espansione che va dal produttore al consumatore. Tutti si vogliono garantire un margine di guadagno il più ampio possibile e quindi ingannano gli agricoltori inesperti. E la tendenza è quella di portare le merci sul mercato in una fase sempre più precoce per essere tra i primi e ottenere prezzi migliori. Dimenticando che se la vaniglia viene raccolta troppo presto ed essiccata troppo rapidamente, diventa quasi un caramello e riduce le sue qualità. Oline e Jean Tommy Medary, una giovane coppia con tre figli piccoli, hanno iniziato a coltivare la vaniglia sette anni fa. L’anno scorso sono stati in grado di raccogliere per la prima volta, un magro raccolto di soli tre chilogrammi circa, che una volta essiccati

sono diventati poco meno di un chilogrammo di peso. Che si tratti della qualità del suolo o delle piante? Non lo sanno. La vaniglia non ha ancora portato loro fortuna. Queste famiglie sono sostenute dall’organizzazione svizzera di cooperazione allo sviluppo Helvetas (www. helvetas.ch), recentemente attiva in questa regione. Helvetas (presente in circa 30 Paesi nel mondo per permettere un vero cambiamento alle persone svantaggiate) insegna agli agricoltori come mantenere e trasformare correttamente la loro vaniglia al fine di aumentare la resa e la qualità, e fa incontrare direttamente i produttori con gli esportatori. In modo che non siano più in balia dei mercanti e intermediari e siano pagati equamente per il loro raccolto.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Ambiente e Benessere

Sono felice che tu non sia qui Viaggiatori d’Occidente Cresce il numero di chi parte da solo per scelta

Di Éric-Emmanuel Schmitt con: Michele Placido e Anna Bonaiuto Adattamento e regia: Michele Placido Produzione: Goldenart Production, 2017

www.azione.ch/concorsi

Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.

I vincitori saranno estratti a sorte fra tutti i partecipanti. Per aggiudicarsi i biglietti basta seguire le istruzioni contenute nella pagina del sito www.azione.ch/concorsi.

Buona fortuna!

Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino

piccoli gruppi (una decina di persone) dove tutti gli iscritti sono senza accompagnatori. Viaggi di gruppo... per solitari? Può sembrare un paradosso ma chi viaggia solo è spesso interessato a fare nuove amicizie e questo è più facile se nel gruppo non ci sono coppie, famiglie o gruppi di amici. La formula è elastica: c’è un itinerario e attività comuni, ma anche tempo per sé. Le mete ricalcano quelle battute dai backpacker, magari con qualche comodità in più. E dunque sud-est asiatico, ex repubbliche sovietiche, nord Africa, America centrale. Un numero crescente di viaggiatori solitari sono donne, tanto che alcuni operatori si rivolgono solo a loro. Terme, yoga, cucina? Non solo. Ancor più degli uomini, le donne sembrano prediligere viaggi avventurosi e l’incontro con la comunità ospitante. A loro si rivolge per esempio Adventure Women, fondata e gestita da donne nella convinzione che «le donne hanno un senso innato della scoperta, una curiosità sfacciata, la capacità di ridere di se stesse e di creare un ambiente non competitivo dove ci si supporta e incoraggia...» (www.adventurewomen.com). Ma i loro compagni non se la prenderanno per questi giudizi perché saranno da qualche altra parte... da soli.

Bibliografia

Alessandra Beltrame, Io cammino da sola, Ediciclo, 2017, pagg. 192, € 14,50.

Matematica strampalata Giochi di numeri E se uno più uno facesse tre?

Piccoli crimini coniugali

www.teatrosociale.ch

Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate.

Intrepid Travel parte da solo; e anche Abercrombie and Kent, specializzata in viaggi d’avventura di lusso, registra un incremento annuo del 15% di viaggiatori solitari. Le soluzioni provvisorie del passato non bastano più. Una nuova domanda genera una nuova offerta. E quindi è cresciuta la disponibilità di stanze singole o comunque si rinuncia al supplemento richiesto a chi occupa da solo una doppia; non si cerca neppure più di convincere a condividere la stanza con uno sconosciuto, come accadeva ancora poco tempo fa. Anche le grandi navi da crociera sono state ridisegnate per offrire un numero crescente di soluzioni individuali senza supplemento, chiamate Studio Stateroom. Il pioniere di questa proposta è stata Norwegian Cruise Line, già nel 2010. Sono cabine più piccole, ma con un design curato, collegate a spazi comuni dove socializzare con gli altri viaggiatori di quest’area. Il solo inconveniente è che spesso queste cabine sono interne e quindi prive di finestre: la vista sul mare si ottiene attraverso i «balconi virtuali», schermi ad alta tecnologia che riproducono il paesaggio marino (l’idea vi dà un vago senso di claustrofobia? Vi capisco). La formula preferita per viaggi internazionali sembra essere quella di

La forma più radicale di viaggio solitario è il cammino senza compagni. Alessandra Beltrame ci è arrivata dopo essersi lasciata alle spalle una vita professionale di successo. Già da tempo Alessandra si era unita a gruppi di camminatori, nei fine settimana e durante le vacanze, ma non era abbastanza; poi la scelta definitiva, la partenza da sola, nel cuore dell’inverno, lungo la via Francigena verso Roma. Paura e tensione, prima; poi libertà e leggerezza, man mano che i chilometri si srotolano alle spalle. Lontana dal consorzio umano, alle prese con i propri limiti e le proprie conquiste quotidiane, con la solitudine viene finalmente a patti, la accetta come una scelta e un destino, senza sensi di colpa. Alessandra Beltrame ha scritto un libro apprezzato dal pubblico perché ha saputo intercettare e intrecciare diverse tendenze del viaggio contemporaneo: il viaggio a piedi lungo gli antichi cammini, il viaggio in solitaria, il viaggio delle donne. Una scrittura curata aiuta a tenere insieme le diverse ispirazioni, ponendo domande più autentiche alle quali il tempo e nuove strade sapranno trovare risposte.

Ennio Peres La Matematica costituisce, indubbiamente, una delle principali conquiste del pensiero umano. Però, se i suoi strumenti non vengono maneggiati con criterio, si può correre il rischio di ottenere dei risultati del tutto inattendibili. I seguenti esempi mettono in luce come, effettuando dei passaggi algebrici apparentemente ineccepibili (ma solo apparentemente...), si possa arrivare a delle conclusioni completamente strampalate. 1. Ogni numero è uguale al proprio doppio

– Scegliamo un numero reale qualsiasi A, diverso da zero, e poniamo la relazione: A = B; – moltiplichiamo per A entrambi i membri dell’uguaglianza: A2 = AB; – sottraiamo B2 da entrambi i membri: A2–B2 = AB–B2; – scomponiamo in fattori il primo membro: (A–B)(A+B) = AB–B2; – mettiamo in evidenza B nel secondo membro: (A–B)(A+B) = B(A–B); – dividiamo per (A–B) entrambi i membri: A+B = B; – sostituiamo A a B (dato che hanno lo stesso valore): A+A = A; – in definitiva, otteniamo: 2A = A.

2. Ogni numero è uguale a un qualsiasi altro numero.

– Scegliamo due numeri reali qualsiasi, A e B (con A ≠ B), tali che: A = B+C; – moltiplichiamo per (A–B ) entrambi i membri: A(A–B) = (B+C)(A–B); – da cui: A2–AB = AB+AC–B2–BC; – spostiamo AC al primo membro: A2– AB–AC = AB–B2–BC; – mettiamo in evidenza A al primo membro: A(A–B–C) = AB–B2–BC; – mettiamo in evidenza B al secondo membro: A(A–B–C) = B(A–B–C); – dividiamo entrambi i membri per (A–B–C): A = B. 3. Ogni numero diverso da zero, è uguale a zero

– Scegliamo un numero reale qualsiasi A ≠ 0 e poniamo: A = B–C (con B ≠ C); – moltiplichiamo per (B–C) entrambi i membri: A(B–C) = (B–C)(B–C); – da cui, ricaviamo: AB–AC = B2–BC– BC+C2; – spostiamo –AC dal primo al secondo membro: AB = B2–BC–BC+C2+AC; – spostiamo B2–BC dal secondo al primo membro: AB–B2+BC = AC– BC+C2; – mettiamo in evidenza B al primo membro: B(A–B+C) = AC–BC+C2;

– mettiamo in evidenza C al secondo membro: B(A–B+C) = C(A–B+C); – dividiamo entrambi i membri per (A–B+C): B = C; – da cui, ricaviamo: B–C = 0 e, quindi: A = 0.

Soluzione

Chi è di Scena? Stagione teatrale Teatro Sociale, Bellinzona Mercoledì 31 gennaio, ore 20.45

a letture per viaggiare

Uno degli errori più insidiosi che possano essere commessi, svolgendo dei passaggi algebrici, consiste nel dividere, distrattamente, un numero reale per zero. Le false dimostrazioni proposte si basano tutte sull’effettuazione, non palese, di una divisione per zero. Analizziamole, caso per caso. 1. Essendo: A = B, è anche: A–B = 0. Di conseguenza, quando abbiamo diviso entrambi i membri dell’uguaglianza per (A–B), li abbiamo divisi per zero. 2. Essendo: A = B+C, è anche: A–B–C = 0. Di conseguenza, quando abbiamo diviso entrambi i membri dell’uguaglianza per (A–B–C), li abbiamo divisi per zero. 3. Essendo: A = B–C, è anche: A–B+C = 0. Di conseguenza, quando abbiamo diviso entrambi i membri dell’uguaglianza per (A–B+C), li abbiamo divisi per zero.

Concorso

Henna Rinnekangas è la prima «compagna di viaggio» professionale al mondo. (whattawowworld. com)

di quest’anno, attraverso il sito, ha chiesto ai suoi contatti di rievocare il più bel ricordo di un viaggio in solitaria nel 2017. Le risposte non si sono fatte attendere. Julie ha raccontato la gentilezza verso gli stranieri sperimentata in Rajahstan e Gujarat. Desirée ha trascorso tre settimane in Giappone, riuscendo a comprare un biglietto per gli incontri di sumo a Fukuoka. James ha scoperto in Norvegia la bellezza dei viaggi a piedi. Irene è tornata in Thailandia per incontrare vecchi amici ed è stata invitata a una festa di villaggio, dove ha danzato con la gente del posto. Steve ha guidato per undicimila miglia lungo l’Alaskan Road... Ci sono almeno tre diverse categorie di solo travel. C’è chi prende lunghi periodi di aspettativa – o semplicemente si licenzia dal lavoro – per marcare una svolta nella propria vita e poi se ne va lontano per viaggi di sei mesi o più. Altri partono da soli per periodi più brevi, zaino in spalla e minime certezze oltre al biglietto aereo, refrattari a ogni forma di viaggio organizzato. Ma molti si rivolgono proprio agli organizzatori di viaggi. Per esempio, una compagnia come Overseas Adventure Travel ha visto raddoppiare questa clientela (da un quarto a metà) tra il 2010 e il 2017; più della metà di chi viaggia ogni anno con

Bussole I nviti

«Mi sono licenziata dal posto fisso. Ho abbandonato la scrivania e la vita sedentaria perché ero infelice. (...) Ho cominciato a camminare perché volevo andare altrove. Un altrove diverso da quello che potevo raggiungere prendendo un aereo. Troppo facile mettere qualche migliaio di chilometri fra te e le tue angosce restando seduta su una poltrona dentro una cabina pressurizzata. No, l’altrove si deve conquistare, altrimenti che senso ha partire? (...) Un giorno mi sono detta: devo affrontare la solitudine, guardarla in faccia, marciare, inciampare e sacramentare con lei. Sviscerarla, sventrarla, affondarci le mani. Quel giorno, ho chiuso la porta di casa e ho cominciato a camminare da sola» .

Claudio Visentin Paghereste un estraneo per venire in vacanza con voi? In quel caso potete chiamare la finlandese Henna Rinnekangas. In cambio del costo del viaggio (extra inclusi) vi accompagnerà ovunque (o quasi). A trentadue anni Henna ha visitato quaranta Paesi, come racconta nel suo blog (whattawowworld. com): Canada e Nuova Zelanda sono i suoi preferiti, sull’orizzonte dei desideri, l’Africa. Per adesso però va in Asia, in un viaggio solitario di dieci settimane prima di seguire dal vivo le Olimpiadi in Corea del sud. L’offerta di Henna si rivolge a persone pigre, poco esperte, del tutto incapaci di organizzare un lungo viaggio e tuttavia desiderose di vedere il mondo. Se siete uomini vi dirà subito di non farvi strane idee: in vendita c’è solo parecchia esperienza, una conversazione intelligente, humour, coraggio. Henna non ha ancora trovato il suo primo cliente ma potrebbe dover aspettare un bel po’. Il viaggio in solitaria, infatti, (solo travel) è sempre più apprezzato. Si viaggia da soli per ragioni pratiche: difficoltà nel conciliare i periodi di ferie, diversi interessi, paura di volare. Ma si viaggia da soli anche quando si potrebbe avere facilmente compagnia, per scelta consapevole, per andare oltre la superficie dei luoghi e conoscere più facilmente altre persone. È un viaggio più difficile, dovendo contare solo sulle proprie forze, ma anche più interessante. Non necessariamente i viaggiatori solitari sono single o in cerca di nuove relazioni. E tutte le fasce d’età sono rappresentate. Per esempio Janice Waugh cominciò a viaggiare da sola quando dovette misurarsi con la morte del marito e l’indipendenza dei figli ormai cresciuti. Presto scoprì che le sue esperienze interessavano a molti. E così il suo sito (solotravelerworld.com) è diventato un punto di riferimento, insieme a una popolare community su Facebook con oltre duecentomila follower. Janice ha scritto il manifesto dei viaggiatori solitari («Sono felice che tu non sia qui») e un manuale. All’inizio

Una donna da sola


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Ambiente e Benessere

A un soffio dal naufragio navigando verso Belfast Reportage Ottava puntata del viaggio della barca a vela Mamé

Un irlandese distratto e la sua barca incagliata: a Mamé è andata meglio.

Giorgio Thoeni, testo e foto Si dice che il momento più bello per un armatore sia la prima volta quando compra la sua barca e quando poi riesce a rivenderla. Quanto a me, per ora, non se ne parla anche perché Mamé, il mio piccolo adorato sloop, si è dolcemente insinuato nella mia vita e nel mio cuore. Mi ha aiutato a far progressi, mi ha spinto a confrontarmi a condizioni di vita naturali ma anche difficili. Mi ha obbligato a fare delle scelte tra ciò che è veramente importante e quanto invece è inutile. Mi ha portato a fare esperienze che hanno rafforzato la mia indipendenza e il rispetto per gli altri, mi ha sviluppato quella solidarietà istintiva che contribuisce allo sviluppo della personalità. Mi ha insegnato a rinviare soluzioni che non hanno un carattere d’urgenza e aiutato a evitare le trappole del consumismo. Spero di poter navigare ancora a lungo con Mamé, intanto le sono debitore di tutto questo e molto altro. Un bilancio che prima o poi dovevo fare. Forse tutti coloro che navigano in solitaria condividono questi pensieri. I più famosi lo hanno scritto in pagine memorabili: da Slocum a Moitéssier, da Tabarly a Larsson. Ma anche Robert Manry, un impiegato dell’Ohio che nel 1962 attraversò l’Atlantico su una barca di appena quattro metri da lui risistemata. Tutto questo anche vivendo situazioni estreme. Sebbene il mare sia imprevedibile e vada rispettato, confesso che nonostante la mia attenzione per la sicurezza – una costante nella navigazione – tendevo sempre a pensare che certe cose non mi potessero mai capitare. Nel mio caso non è stato così e penso che se non mi fosse successo nulla non avrei potuto ricevere una lezione così severa dal mare. Si torna a bordo. L’estate scorsa avevo lasciato l’Irlanda meridionale raggiunta un anno prima navigando in solitaria dalle isole Scilly fino a Baltimore. La stessa costa che è stata spazzolata dai fortissimi venti dell’uragano Ophelia. Da Baltimore è stata poi la volta di Kinsale per poi arrivare a Crosshaven, dove la barca ha svernato su un terrapieno. Questa volta il mio progetto estivo consiste nell’arrivare fino all’Irlanda del Nord lungo la costa orientale dell’isola. «Non so come sei messo in fatto di resistenza ma se fossi in te sceglierei tappe più brevi», suggerisce Hans, un tede-

sco incontrato sulla banchina mentre mi preparo a salpare. Lui ha una barca più grande e può contare su un equipaggio di tre amici. Tutto sommato ha ragione. Per la tappa che ho scelto devo percorrere 70 miglia fino a Kilmore Quay, un porticciolo di pescatori dove conto di fermarmi qualche giorno. In fondo sono mesi che riposo aspettando questo momento e posso affrontare una notte di navigazione. Fatti i necessari calcoli di marea e consultato il bollettino meteo, decido così di mollare gli ormeggi alle due del pomeriggio: inizia la bassa marea e posso sfruttare la corrente che mi spinge a nord. Il cielo è parzialmente nuvoloso, c’è una brezza tesa sui 15-20 nodi e un mare formato che non lascia prevedere una navigazione confortevole. Almeno fino alla punta di giro per risalire l’isola. In seguito dovrei incontrare la stessa forza del vento fino a destinazione.

Mi sono accorto quasi subito che non sarà una passeggiata. Già nell’alzare le vele nella baia di Cork. Dopo un’ora abbondante di tentativi un vento sostenuto e a raffiche mi complica le manovre (ah, le previsioni!). Decido così di limitarmi all’uso della randa, finalmente issata ma a fatica. La barca procede veloce e sicura, il braccio elettrico di timoneria funziona molto bene permettendomi qualche pausa per rilassarmi. Una scelta opportuna perché nelle andature di poppa, il timone a vento non è sempre affidabile. Il vento rinforza ancora e molte onde sbattono di traverso sullo scafo spostando bruscamente la barca e provocando una «strambata cinese»: un termine ormai obsoleto (i cinesi sono diventati bravi navigatori) ma ancora usato per indicare quando la vela di randa passa da un lato all’altro gonfiandosi nella nuova posizione. Occorre essere vigili: quel tipo di assetto

Ardglass Marina.

involontario può causare gravi incidenti. Scrivo sul mio diario di bordo: «Onde spezzate, raffiche, la corrente e frequenti bassi fondali creano perturbazioni che stanno mettendo a dura prova la mia resistenza. Sono ormai tredici ore che navigo così e comincio ad essere stanco. Ma sono a 15 miglia dall’arrivo e fra un paio d’ore inizia l’alba». Tutto accade in un batter d’occhio. Sto scapolando Hook Head; il suo faro, il più antico d’Europa, è a guardia di una penisola dalle forme irregolari e frastagliata. Improvvisamente un’onda sbilancia con violenza la barca causando l’ennesima strambata: Mamé è fuori controllo. Metto allora in campo tutte le mie risorse ma non riesco più a governarla, né agendo sul timone né tantomeno lavorando a forza sulle scotte della randa. È come se una forza misteriosa la stesse attirando dritto sulla scogliera, quella sagoma nera e minacciosa che vedo avvicinarsi con furia. Cerco di rimanere lucido e di organizzarmi psicologicamente nel caso di un violento impatto. Poi tento un’ultima mossa disperata: mi precipito a poppa per accendere il fuoribordo e, come per miracolo, il motore si avvia al primo colpo. Metto al massimo e riesco ad allontanarmi da quegli scogli e a rimettere la prua nella giusta direzione. L’incubo è durato qualche minuto. Sono stremato. Tiro il fiato e alzo lo sguardo: dalle nuvole fa capolino un sorriso. Annoterò in seguito sul diario: «Ho guardato il cielo come per ringraziarlo e per un attimo è spuntata la luna: voleva essere un segno?». Dopo qualche ora finalmente raggiungo e supero lo stretto ingresso del placido porto di Kilmore

Kilmore Quay.

Ardglass.

Quay. Ho vissuto una notte infernale e ho imparato una lezione che non dimenticherò mai. Per i miei itinerari successivi faccio tesoro dei consigli di Hans prevedendo tappe più brevi. Ad Arklow risalgo l’estuario del fiume Awoca e ormeggio sulla sua sponda, ma solo per una notte. Mentre a Dun Laogharie (Dublino) mi fermo una settimana: visito la storica biblioteca del Trinity College e riesco a trovare un biglietto per assistere al concerto degli U2 allo stadio di Croke Park (eravamo 80mila). Poi scopro Ardglass, un suggestivo villaggio a poche miglia dall’isola di Mann. Qui la gente vive di pesca e di turismo; mangio un ottimo fish&chips e vedo la barca di un velista incagliarsi sugli scogli per un errore di calcolo della marea. Per tornare a galla e poter ripartire dovrà pazientare dodici ore... E infine sbuco nell’insenatura di Belfast, il Belfast Lough, e approdo a Bangor, il porto più servito vicino alla capitale dell’Irlanda del Nord. Sto vivendo un’emozione forte che, viste le difficoltà incontrate, si accompagna a un sentimento di conquista, forse maggiore rispetto a quella dell’anno precedente. In tutto ho percorso 215 miglia. Di fronte a Bangor inizia la costa scozzese, prossima tappa di questa mia avventura. Informazioni

Le puntate precedenti sono apparse su «Azione» il 18.02.2013, il 17.06.2013, il 07.10.2013, il 02.12.2013, il 09.02.2015, il 21.03.2016, il 19.06.2017.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Ambiente e Benessere

Budino al cocco con zucchero speziato

Migusto La ricetta della settimana

Dessert Ingredienti per 4 persone (4 bicchieri resistenti al forno da circa 1,2 dl):

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

1 baccello di vaniglia · 2,5 dl di latte di noce di cocco · 1 dl d’acqua di noce di cocco · 70 g di zucchero · 3 uova · Zucchero speziato chai · 50 g di zucchero greggio · 1 cc di cannella · ¼ di cc di chiodi di garofano macinati · 2 cc capsule di cardamomo · 1 cc di zenzero macinato · ½ cucchiaino di noce moscata macinata.

1. Scaldate il forno a 150 °C. Incidete il baccello di vaniglia per il lungo ed estraete i semini raschiandoli. Mescolateli con il latte e l’acqua di cocco, lo zucchero e le uova. Accomodate i bicchieri in una pirofila su carta da cucina. Riempite i bicchieri con la crema al cocco. Versate l’acqua nella pirofila, fino a circa 1 cm dal bordo. Cuocete i budini a bagnomaria al centro del forno per circa 1 ora. L’acqua all’interno della pirofila non deve bollire. I budini sono cotti, quando la superficie molleggiante cede leggermente alla pressione di un dito. Sfornate i budini e lasciate raffreddare. 2. Per lo zucchero speziato, pestate tutti gli ingredienti in un mortaio o tritateli finemente in un tritatutto. Spargete un velo di zucchero chai sui budini al cocco e caramellate usando un bruciatore da cucina a gas. Preparazione: circa 25 minuti + cottura a bagnomaria circa 1 h. Per persona: circa 6 g di proteine, 16 g di grassi, 37 g di carboidrati, 320 kcal.

La Nutrizionista Rubrica online Solo nell’edizione online, www. azione.ch, la rubrica mensile dedicata all’alimentazione. La cura Laura Botticelli, dietista ASDD, che risponderà alle domande dei lettori.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Ambiente e Benessere

Con la testa nel pallone, da due anni

Sport A Zurigo un lussuoso museo dedicato al gioco più popolare ma soprattutto più mediatizzato del mondo

Elia Stampanoni, testo e foto Le statistiche dell’Ufficio federale dello sport evidenziano che tre svizzeri su quattro praticano sport, a conferma dell’importanza dell’attività fisica nell’era moderna. Le discipline più seguite sono escursionismo, ciclismo, nuoto, sport sulla neve e corsa, a cui seguono fitness, ginnastica e calcio. Il dato percentuale di quest’ultimo si avvicina al 10%, sebbene sia considerato lo sport più popolare del mondo, in quanto il più mediatizzato e forse anche il più seguito. E chi di pallone se ne intende e si appassiona, ma anche si lascia commuovere o condizionare, deve programmare una gita a Zurigo per una visita al museo della FIFA, la Federazione internazionale di calcio. Inaugurato nel febbraio del 2016, sta quindi per compiere il suo secondo anno di attività. La mostra si trova in Tessinerplatz, a poche fermate di tram dal centro città ed è il frutto di un grande investimento. Oltre ai 30 milioni di franchi necessari per l’allestimento degli spazi espositivi, la FIFA ne ha spesi altri 110 milioni per il risanamento dell’edificio «Haus zur Enge» che, ammodernato e ampliato, offre attualmente gli spazi necessari per accogliere non solo il museo e il relativo negozio, ma anche biblioteca, bar, bistrot, aule per seminari, uffici ed appartamenti esclusivi. Lodevole, in fase di ristrutturazione e ricostruzione, l’impegno per l’ambiente con diversi accorgimenti volti al risparmio energetico. Per esempio, come leggiamo sulla pagina internet

Giochi

SUDOKU PER

N. 45 FACILE del museo, una condotta che collega al lago di Zurigo permette di utilizzarne l’acqua come fonte d’energia rigenerativa, in inverno per riscaldare gli ambienti e in estate per raffreddare. L’area dedicata all’esposizione è distribuita su tre piani e occupa circa 3mila metri quadrati, dove tecnologia e modernità accompagnano la storia del calcio, dal 1904, anno di fondazione della FIFA, al presente e futuro di questo gioco ormai praticato in quasi tutto il mondo. Nella prima sala si possono rivivere i cent’anni e oltre di storia di calcio internazionale, ricordando cifre, fatti e aneddoti che hanno caratterizzato questo sport, dalle sue umili origini

fino ai lussuosi tempi moderni. La par- il museo raccoglie immagini di tornei, te didattica prosegue con altri cimeli eventi e personalità: alcune fotogracaratteristici, maglie, mascotte, scar- fie risalgono alla fine del XIX secolo e pe, scudetti, palloni o gagliardetti, ma confermano come il calcio sia cambia4 anche con diverse postazioni interatti- to e sia evoluto. ve da scoprire. In totale si contano oltre Dopo essersi intrattenuti anche 6 mille oggetti esposti, tra i quali spicca- con i vari schermi tattili5ricchi1di dati no le due Coppe del Mondo che la FIFA e informazioni sulle 211 federazioni può oggi esporre in tutto il loro splen- calcistiche riconosciute dalla FIFA dore, mentre prima erano custodite in (211 Nazionali maschili e 129 femmiuna cassaforte di una banca zurighese. nili), la visita prosegue con 3 un film in Non solo l’attuale trofeo maschile, ma 3D, porta d’accesso alla sala superiore, anche quello del calcio femminile, che dedicata al divertimento e alla creativi6 2 trova il suo spazio nel museo dopo che tà, adatta anche per i più piccoli o per i nel 1991 le donne disputarono il loro tifosi più pacati del pallone. 9 primo Campionato mondiale di calcio, «Il museo ha qualcosa da offrire sessantuno anni dopo i maschi. Oltre a per tutte le fasce d’età» leggiamo in 3 “Azione” - Dicembre 2017 oggetti, documenti e molta tecnologia,Giochi fase per di presentazione. «I visitatori pos-

Schema

Giochi per “Azione”Informazioni 9Gennaio 2018 5 FIFA World Football Museum, SeeStefania Sargentini 8 1 strasse 27, Tessinerplatz, 8002 Zurigo, www.fifamuseum.com

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Stefania Sargentini (Gioco di Capodanno inviato le dei3 giochi 2 nel 1 6

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba (N. 49 - ... trenta metri, ventisei ruote) 7 e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku (N. 1 - In Canada - Millenovecento trenta) 1

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Cruciverba In quale Paese e anno venne ideato il podio? Troverai le risposte a cruciverba ultimato, leggendo le lettere evidenziate! (Frase: 2, 6 – 20)

sono aspettarsi un mix unico di storie che documentano l’affascinante storia del calcio internazionale. Vogliamo portare le persone più vicine al calcio e trasformare il museo in un luogo d’incontro vivace per tutti i tifosi di calcio e di sport». Con una serie di contenuti audiovisivi, il FIFA World Football Museum s’arricchisce anche di storie particolari di «persone qualsiasi» disperse in tutte le parti del mondo. Per esempio la piccola isola che riesce a costruirsi un piccolo spazio per giocare al calcio sulle palafitte del proprio villaggio, oppure la persona non vedente che grazie allo sport, il calcio in questo caso, trova ulteriori stimoli e determinazione. Un museo di certo all’avanguardia che con molta tecnologia e lusso si conclude nell’area dei giochi, dove sfidarsi in diverse postazioni con la palla al piede: dribblare, segnare, colpire e quindi raccogliere punti per una classifica aggiornata in tempo reale. Ci sono poi anche comode poltrone per ascoltare le colonne sonore che hanno accompagnato e plasmato i grandi appuntamenti 7 calcistici,5oppure 9 per i più piccoli una fornita area per disegni e giochi spensierati a lato del pallone. Unica pecca l’assenza di una traduzione in italiano: per poter apprez4 è necessario zare appieno il museo conoscere una delle quattro lingue adottate nell’esposizione: tedesco, 9 francese, inglese o spagnolo.

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S T O P O U T Sudoku R A V T R E Soluzione: Scoprire E L i 3I T numeriAcorretti N T da inserire nelle A Scolorate. I A caselle U T T R E M

I N C I S A N A 11 D I A N A M I2E 9 I O L E N O V O D 16 7 1 L B AI P E C E 9 (N. 50 - Marte, Monte Olimpo, Ventidue)L E T A R C O N 1 6 4 M A R T I R E M O N I N O E T E R O 7L O TI R A I S E T A M E S S I A A G I R E O 8 T O T L A 3T T6E 2 P O E V E N T I T O C E T 4N S 9 C I A P A T 2017 D AZIONE U N E -5DICEMBRE 1 3 I N SUDOKU TTI A ESPER R N A A L A M 14

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ORIZZONTALI 1. Scolpita, intagliata 6. Un genere di pittura 10. L’indimenticabile Lady... Spencer 11. Addolcisce la prima luna... 12. Nome femminile 13. Il dolce stil poetico... 14. Libia senza gemelle 15. Si usa nella pavimentazione di strade 16. Le iniziali di Paganini 17. Articolo 18. Mitologico eroe etrusco 19. Redigono atti 20. Fare, operare 21. Congiunzione latina 22. Le iniziali del conduttore Savino 23. La cosa che è dentro Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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VERTICALI 1. Lo sono i rapporti sereni e amorevoli 2. Mitologica figlia di Tantalo... anagramma di beoni 3. Stretta insenatura costiera 4. Desinenza di diminutivo plurale1 femminile 5. Le iniziali dell’attore Accorsi 6 6. Candido, immacolato 7. Tre vocali 9 8. Quarantanove romani 9. Caldi indumenti sportivi 11. Dicesi di piccola ragazzetta 11 presuntuosa 13. La magia delle streghe 13 14di carne 15 16 15. Pasticcio

E L E N A A 16. Centro del centro Soluzione della settimana precedente N. 45 FACILE 18. Dolci di compleanno AL RISTORANTE – Un violinista si avvicina a un tavolo: «Ha chiesto lei un pezzo di 19. Negazione russa Paganini?» Risposta risultante: «NO, HO CHIESTO ARROSTO CON PATATINE». Schema Soluzione (N. 51 - “No, ho chiesto arrosto con patatine”) 22. Due nel panino 1 2 3 4 5 6 2 8 4 7 6 5 9 1 3 N4 O7 C C5 H9 I O 8 2 7 3 4 5 5 1 E6 C H I 5 1 6 3 9 4 2 8 7 N S 9 10 9 3 7 1 2 8 4 6 5 A E S4 T O 7 8 11 12 13 3 9 3 4 1 6 5 2 8 7 9 A F R A L 14 15 16 17 18 19 20 Vincitori del concorso Cruciverba 6 R2 O9 5 8 6 2 9 4 7 3 5 1 I C S U N T O 10 02», del 21 su «Azione 22 23 08.01.2018 9 C R8 I C1 7 9 5 8 3 1 6 2 4 T O N O P A. Campana.25L. Grossi, R. Rodesino 24 26 27 3 5 1 7 3 4 8 6 5 9 2 A T T I M I A T R I Vincitori del 12 concorso Sudoku 28 29 30 31 su «Azione 02», del 08.01.2018 2 1 3 6 4 5 8 2 1 9 7 3 6 N I N A M E I A M

(N. 2 - Okapi - Del Congo - Ossiconi)

B R O K E R N.R 47 A SFE D ARA DI O NATA P A M I A D A N E G U A I A. Fioroni, C. Bernardoni 7 6 2 9 5 7 3 1 4 8 A S S O L A T O M E 17 L E C C I G O G NIOAM E N. 48 OROLOG N. 46 MEDIO I premi, cinque carte regalo Migros 19 Partecipazione online: inserire la luzione, corredata da nome, cognome, è possibile un pagamento in contanti 18 del valore di 50 franchi, saranno sor- soluzione del cruciverba o del sudoku indirizzo, email I vincitori A G O deveCdei premi. E9 1D U saranno 2 delI partecipante 7 6 3 O 2 5avvertiti 8 4 teggiati tra i partecipanti che avranno nell’apposito formulario pubblicato essere spedita a «Redazione Azione, per iscritto. Il nome dei vincitori sarà 21 22 3 Concorsi, 6 9 6315, 6901 Lugano». 4 3su «Azione». 6 8 5 Partecipazione 9 2 7 1 fatto20pervenire la soluzione corretta sulla pagina del sito. C.P. pubblicato Il gioco natalizio verrà inviato suA un leO a parte: “Giochi festivi” T L A S E R entro il venerdì seguente la pubblica- Partecipazione postale: la lettera2o Non si7 intratterrà corrispondenza sui riservata 1 2 esclusivamente 8 5 7 1 4a lettori 6 S 3 che 9 zione la cartolina postale che riporti la so- 9 concorsi. Le vie legali sono escluse. Non risiedono in Svizzera. 23del gioco. 24 25 26 2 5 7 2 3 I D C O S6 9T8 1I 4 M E I vincitori

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Politica e Economia La Tunisia in rivolta A sette anni dalla rivoluzione dei Gelsomini, tutte le aspettative sono state disattese

Diario dalla Palestina In questa seconda parte Federico Rampini compie una visita in due città simbolo palestinesi, Hebron e Betlemme, dopo la decisione di Trump di spostare la capitale di Israele a Gerusalemme

Stampa, crisi epocale A causa del calo delle entrate e dei lettori, molte testate sono sparite, altre sono state comprate dai grandi editori

Anno difficile, conti solidi Nel 2017 il Gruppo Migros ha ottenuto un fatturato di 28 miliardi, in crescita dell’1% pagina 21

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A Islamabad alcuni pakistani bruciano in segno di protesta la bandiera americana. (AFP)

Un’alleanza rotta con un tweet

Usa-Pakistan Il presidente degli Usa congela gli aiuti a Islamabad denunciandone l’ambiguità di fronte al terrorismo

Francesca Marino «Gli Stati Uniti hanno stupidamente elargito al Pakistan negli ultimi quindici anni più di 33 miliardi di dollari in aiuti, e in cambio non hanno ricevuto che menzogne e inganni prendendo per stupidi i nostri governanti. Il Pakistan protegge e ospita i terroristi a cui noi diamo la caccia in Afghanistan e in cambio ci dà soltanto un minimo aiuto. Adesso basta!». Parola di Donald Trump che, la mattina di Capodanno, ha deciso di dare via Twitter una metaforica sveglia ai pakistani. Il presidente americano, secondo fonti vicine al Pentagono senza avvertire nessuno e senza averne prima discusso con il suo staff o con i suoi consiglieri, ha scatenato una tempesta mediatica e in seguito diplomatica che ha tenuto banco, sempre via Twitter, per un paio di giorni. Al tweet di Donald sono infatti seguiti un diluvio di post oltraggiati da parte del Ministro degli Esteri pakistano e per una manciata di ore i rapporti tra i due Paesi si sono giocati – pare –

soltanto sul filo dei social media. Sempre secondo le solite fonti i consiglieri di Trump e il Pentagono non erano proprio felicissimi, per usare un eufemismo, della scelta del loro presidente, ma tant’è: ormai la frittata era stata annunciata, e gli Stati Uniti, dopo avere inserito il Pakistan in una watch-list di paesi altamente a rischio per quanto riguarda la libertà religiosa, hanno infine annunciato la sospensione totale degli aiuti militari al Pakistan, circa 1,3 miliardi di dollari l’anno. La sospensione riguarda infatti anche il sostanzioso Coalition Support Fund, che in teoria dovrebbe essere subordinato all’ottenimento di specifici obiettivi da determinare volta per volta. Le reazioni di Islamabad sono state alquanto scomposte. Si è cominciato con la solita narrativa dell’indignazione e del dolore per essere stati traditi o quantomeno non compresi da un alleato: il Pakistan ha pagato un prezzo altissimo in termini di vite umane e in termini politici alla lotta al terrorismo, e del terrorismo è stato vittima più di

chiunque. Se magari Islamabad questo terrorismo non lo avesse inventato, armato, addestrato e sostenuto le cose sarebbero andate in modo diverso, ma tant’è. La narrativa di cui sopra si è però rivelata più del solito inefficace, e allora si è passati ad altri argomenti: in fondo, dei dollari americani il Pakistan non ha alcun bisogno perché coprivano soltanto in minima parte le spese sostenute per la lotta al terrorismo di cui sopra. Nessuno menziona quanto i servizi segreti e l’esercito spendono ogni anno per finanziare invece i loro pupilli, ma alla fine non importa a nessuno: i finanziamenti, pubblici, alla Jamaat-uDawa e alla madrasa di Muridke a cui l’organizzazione fa capo sono visibili anche nel budget dello stato del Punjab. Infine, Islamabad ha annunciato una mossa decisiva: ha sospeso la condivisione di informazioni di intelligence con i servizi segreti Usa. Sia chiaro, tanto per quantificare la portata del provvedimento, che le informazioni di intelligence pakistane sono servite, negli anni, praticamente a nulla. Non a

catturare bin Laden, non a catturare il mullah Omar o altri pezzi grossi dei talebai o degli Haqqani. Il gioco, cominciato ai bei tempi di George W. Bush e del generale Musharraf, è sempre stato lo stesso: ogni volta che gli americani decidono di fare la voce grossa, Islamabad consegnava un paio di pecorai barbuti spacciati per capi di grosso calibro dei talebani e metteva in piedi una pretesa operazione di pulizia. Dopo aver sgombrato le aree da colpire, si intende. Un gioco che tutti i giocatori conoscono perfettamente e che però si trascina da più di quindici anni. Perché negli Stati Uniti, e soprattutto al Pentagono, si è sempre giudicato troppo pericoloso mettere il Pakistan alle strette. L’unico accesso via terra all’Afghanistan, accessibile ai membri della coalizione, passa per il Pakistan. E il Pakistan lo ha già chiuso un paio di volte, costringendo gli Usa a rifornire le truppe per via aerea. Soluzione giudicata troppo costosa anche se, conti alla mano, non lo è affatto.

Inoltre, se Trump non si trovasse alle strette con l’Iran, che costituisce per inciso un pericolo molto minore del Pakistan, gli americani potrebbero utilizzare il porto di Chabahar costruito dagli indiani. La grande paura, però, è legata alla Bomba pakistana: secondo le solite fonti militari, mantenendo relazioni più o meno produttive con il Pakistan gli Stati Uniti si illudono di mantenere un certo grado di controllo sul nucleare di Islamabad. Non è vero, ma ci credono tutti. Soltanto il tempo dirà se Trump e i suoi intendono davvero cambiare strategia, e se ai tweet di The Donald farà seguito un’azione coerente mirata a risolvere la situazione una volta per tutte. Il che significa aspettarsi, nel breve periodo, una nuova ondata di attacchi terroristici sia in Afghanistan che in India. Scatenare i jihadi «buoni» potrebbe essere, come sempre, un modo per sottolineare ancora una volta quanto Islamabad sia necessaria al mantenimento della pace nella regione.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Politica e Economia

La primavera che non arriva

Tunisia L’unico esperimento riuscito di primavera araba (2011) sta naufragando: diverse città del Paese sono in rivolta

contro le nuove misure di austerità volute dal governo, che dal primo gennaio ha aumentato le tasse su tutto Marcella Emiliani Con una metafora cinematografica potremmo dire che si tratta di «salvare il soldato Ryan» cioè di tenere in vita, con la Tunisia, l’unico esperimento riuscito di primavera araba in Medio Oriente. O, per essere ancora più chiari, di garantire un futuro decente all’unica democrazia partorita dallo tsunami delle rivolte del 2011 nella regione. Il settimo anniversario della cacciata del dittatore Ben Ali cadeva il 14 gennaio scorso e ormai da una settimana erano in corso in tutto il Paese manifestazioni, sommosse e relativi scontri con le forze dell’ordine. In piazza c’erano folle di giovani per nulla intimoriti dal pugno duro usato dal governo di Chahed Youssef per reprimere le loro proteste, tanta era la rabbia per «l’ingiustizia economica» che sta divorando la società.

Quanto sta accadendo in questi giorni è il prezzo da pagare alle riforme chieste dal Fondo monetario internazionale In Tunisia come nel resto del mondo, l’ingiustizia economica è il vero prodotto dell’enorme crisi che ci ha afflitto dal 2008 ad oggi. E non è ancora finita. La forbice tra ricchi e poveri si è allargata in maniera plateale e ovviamente ha messo in ginocchio i ceti più deboli. Nel caso tunisino i giovani senza futuro delle città e delle campagne, nonché la popolazione dell’entroterra e della fascia saheliana meridionale, lontana dall’industria turistica della costa mediterranea che, con un po’ di esportazione, costituisce una delle poche fonti di entrata di valuta estera. Più di tanti altri paesi affacciati sulle due sponde del Mediterraneo, la Tunisia ha un’economia a due velocità e, quando i settori trainanti soffrono, quelli che partono svantaggiati sanguinano addirittura.

Il Papa in Cile Reportage online

Papa Francesco è stato in visita ufficiale in Cile nei giorni scorsi. Alla cerimonia di benvenuto, si sono affiancate molte dimostrazioni di proteste. Sul nostro sito (www.azione. ch) proponiamo un articolo e alcune foto di questo Paese latinoamericano che ha oggi un nuovo presidente.

Così, quando il primo gennaio è entrata in vigore la legge finanziaria del 2018, le piazze hanno cominciato a muoversi per poi esplodere in una protesta così diffusa da essere addirittura disseminata in aree, città e villaggi che non si erano mobilitati neanche nella primavera dei gelsomini del 2011. Sono stati coinvolti non solo quartieri di Tunisi, ma Jelma, Djerba, in cui è stato appiccato il fuoco alla sinagoga ebraica, Tebourba che ha registrato l’unico morto negli scontri con la polizia, Sidi Bouzid, da cui proveniva il martire della primavera del 2011, Meknassy, Kasserine, Thala, Gafsa, sede della più grande industria dei fosfati tunisina. Il totale degli arrestati ufficialmente è di 800 persone, cifra sottostimata come spesso succede. In parole povere col capodanno in Tunisia sono rincarati tutti i carburanti, diversi beni alimentari, il bollo degli autoveicoli, le chiamate telefoniche, internet, persino le prenotazioni alberghiere e in sovrapprezzo è stata introdotta l’Iva, con un aumento di spesa pro-capite calcolato in 300 dinari al mese, più o meno 100 euro. Visto che il reddito medio annuo dei tunisini è di circa 2900 euro, l’esborso diventa molto pesante e la rabbia perfettamente comprensibile. All’inizio a dare il la alla rivolta del tutto pacifica e spontanea sono stati proprio i giovani, ma visto il dilagare delle proteste sono presto scesi in strada anche la potente centrale sindacale Ugtt (Union générale tunisienne du travail) guidata da Nouredine Taboubi e il Fronte popolare di Hamma Hammami, la coalizione di nove partiti di sinistra, o quel che ne resta, che praticamente guida l’opposizione alla troika di governo composta da Nidaa Tounes (Appello della Tunisia) del presidente della Repubblica Beji Caid Essesbi – 86 seggi su 217 nel parlamento unicamerale –, Ennahda, (il partito islamico Movimento per la rinascita, 69 seggi) e l’Union patriotique libre del tycoon Slim Riahi (16 seggi). Il Fronte popolare, peraltro, si era già opposto all’approvazione della finanziaria del 2018, varata il 10 dicembre dell’anno scorso con 137 voti favorevoli su 217, che praticamente è basata sul programma di aggiustamento strutturale imposto alla Tunisia dal Fondo monetario internazionale per l’erogazione di un prestito di 2,8 miliardi di dollari spalmato su quattro anni, in cambio di drastiche riforme economiche. Il ricorso alla grande agenzia di credito internazionale si è reso necessario il crescente debito pubblico che sta affondando l’economia del Paese, balzato dai 55’921,5 milioni di dinari del 2016 a 67’256,5 milioni del 2017. Il premier Chahed Youssef in un primo momento ha tentato di tenere calma la popolazione assicurando che il 2018 sarà l’ultimo anno di «sangue e lacrime» per il Paese», ma ovviamente la popolazione questi discorsi non se li

I sette anni dalla rivoluzione dei Gelsomini sono stati commemorati con proteste e rivolte dalla popolazione. (AFP)

vuole sentir fare. Soprattutto, nei sette anni che la separano dalla primavera dei gelsomini, pur essendo fiera della propria democrazia conquistata, ha perso fiducia nella classe dirigente o sarebbe meglio dire che la classe dirigente, islamici inclusi, ha perso in parte di credibilità non solo perché lo sviluppo e il benessere non arrivano, ma il parlamento ha approvato leggi molto impopolari come quella detta «della riconciliazione» che condona gran parte delle pene per i corrotti dell’era Bel Ali. Per essere precisi la legge, approvata il 13 settembre 2017 ha praticamente amnistiato tutti gli alti papaveri e burocrati di Stato del periodo della dittatura, implicati in mala gestione dei fondi pubblici, non in casi di appropriazione illecita e corruzione conclamata. Per i ladri e i corrotti inveterati è stata prevista la cosiddetta «risoluzione amichevole» che alle nostre latitudini si chiamerebbe patteggiamento, con restituzione del maltolto in misura decisa da un’apposita commissione ministeriale. La legge, votata nella speranza di rimpinguare un po’ le casse dello Stato e favorire una sorta di pace sociale ha invece indispettito in alto grado l’opinione pubblica che ha addirittura dato vita a un movimento non disponibile a far passare in cavalleria i peggiori latrocinii dell’era Bel Ali, tant’è che si chiama «Non perdono». La corruzione, infatti, è un’altra delle piaghe endemiche della Tunisia, alimentata e gonfiata dalla crisi economica internazionale che – come dicevamo – ha già prodotto la più grave sperequazione economica tra i ceti sociali mai registrata in epoca contempora-

nea. Così non meraviglia che i giornali locali, proprio il 14 gennaio, anniversario della fuga di Ben Ali nel 2011, abbiano registrato commenti di massaie al mercato di Tunisi che gelidamente facevano notare: «Qui tutti arraffano e a noi non rimane niente», oppure «Quando c’era Ben Ali pranzavo con 10 dinari e adesso me ne servono almeno 50. La situazione è davvero peggiorata di brutto». Tra il 9 e il 14 gennaio la rabbia popolare si è scatenata soprattutto di notte quando non meglio identificati «facinorosi» hanno dato fuoco a cassonetti e barriere improvvisate contro la polizia in quartieri periferici della capitale e piccole città come Tebourba in cui ci è scappato il morto, un uomo soffocato dai gas lacrimogeni. Indubbiamente la reazione del governo e delle forze dell’ordine, esercito compreso, è stata molto dura ma non dobbiamo dimenticare che la Tunisia è il paese che ha fornito il più alto numero di foreign fighters (6000) al Califfato islamico o Isis che dir si voglia nel triennio del suo fulgore, dal 2014 al 2016. Tutti giovani che, se non sono morti, sono tornati in patria o cercano un ingaggio in quel nuovo serbatoio-incubatrice di terrorismo islamico che è diventato il Sahel. È comprensibile, dunque, il timore delle autorità, preoccupate di tenere sotto controllo la situazione prima che venisse strumentalizzata o fomentata in senso ancor più violento dai salafiti radicali o dai simpatizzanti del terrorismo islamico. La Tunisia, infatti, è in stato d’emergenza dal 2015, anno dei peggiori attentati al Museo del Bardo Tunisi e sulla spiaggia vicino a Sousse, rivendicati dall’Isis.

Se la situazione non è degenerata in maniera drammatica, in parte il merito va ai servizi d’ordine dell’Ugtt, la centrale sindacale, che appoggia il governo di Chahed Youssef ed è dunque interessata a mantenere pacifiche le proteste ma anche e soprattutto a non far affogare nella repressione le giuste proteste della popolazione. Dal canto suo il governo non ha mai negato la legittimità delle manifestazioni, ma – come Rouhani in Iran – ha stigmatizzato la violenza fino a che, il 14 gennaio, è ricorso a misure di emergenza non proprio in stile Fondo monetario internazionale, stanziando 70 milioni di dinari a favore delle classi più disagiate. Ma la rabbia e la protesta popolare, anche se sono diminuite di intensità, sono pronte a riesplodere alla prima occasione. È un altro fiume carsico, fra i tanti pronti a riemergere nel Medio Oriente di oggi. Ma, si chiedono gli osservatori, la primavera dei gelsomini è in pericolo? Commenti autorevoli sulla stampa internazionale si sono spaccati in due filoni. Chi sostiene a spada tratta che la fiammata con cui è iniziato il 2018 in Tunisia altro non sia che la classica reazione al programma di aggiustamento strutturale imposto al Paese dal Fondo monetario internazionale. Altri, invece, dietro le proteste economiche, vedono tutta la debolezza non solo dell’economia ma della neonata democrazia tunisina, che si porta ancora appresso i timori del passato con una classe politica che troppo spesso sembra risultare inadeguata al momento odierno. La Tunisia, insomma, sta faticosamente lottando sul filo del rasoio. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Diario dalla Palestina

Hebron e Betlemme – 2. parte Visita a uno dei luoghi più sacri del mondo dove tutto è all’insegna

di una convivenza tesa e alla città indicata dai Vangeli e dalla tradizione cristiana come il luogo di nascita di Gesù

deocamere, cartelloni con divieti di attraversamento. Un coacervo assurdo. Hebron ufficialmente ha 215’000 abitanti palestinesi e solo un migliaio di coloni israeliani (se non sono aumentati nel frattempo), ma la presenza di questi ultimi nel centro storico trascina con sé la militarizzazione. In questo clima teso incontro a due riprese degli italiani non turisti, impegnati a vigilare sul rispetto dei diritti umani. Uno è un carabiniere in borghese, in servizio come osservatore insieme con una rappresentante di una Ong scandinava. La sua sede precedente era sul lago di Garda. Si è portato volontario, è qui da un anno e dice: «Per quanto avessi studiato per prepararmi a questo incarico, per quanti libri e giornali avessi letto, finché non t’immergi qui dentro non hai la più pallida idea della situazione». Disarmato, provvisto solo di una radio ricetrasmittente con la sede Onu più vicina, racconta di essere continuamente preso a partito ora dagli uni ora dagli altri. «Se vigili sul rispetto dei diritti sei sempre scomodo, una volta sono gli israeliani che ci considerano delle spie, la volta seguente i palestinesi ci accusano di essere venduti all’Occidente». Un altro italiano che incontro porta la divisa della Croce Rossa, è un giovane criminologo. Anche lui ha un

Keystone

«Di che religione sei?» Se rispondi cristiano sei fortunato: puoi passare. Non capita spesso di essere interrogati così. A seconda della tua religione, puoi entrare oppure vieni respinto dalle guardie. È la regola ferrea che vige a Hebron (foto a destra), in uno dei luoghi più sacri del mondo. È sede della Tomba dei Patriarchi e delle Matriarche. Attaccate l’una all’altra ci sono una sinagoga e una moschea entrambe dedicate ad Abramo, che come tutte le figure bibliche è venerato dalle tre religioni monoteiste. I due luoghi hanno accessi limitati, per l’appunto: solo i cristiani possono visitarle entrambe. Se sei musulmano non puoi vedere la sinagoga, e se sei ebreo la moschea ti è preclusa. Da lì in poi, tutto a Hebron è all’insegna di una convivenza tesa, conflittuale, talvolta con fiammate di violenza. È dal 1929 che questo fu l’epicentro di scontri sanguinosi fra i primi ebrei sionisti e la popolazione araba locale. Oggi Hebron ti appare a tratti come una città in guerra, altrove come una città-fantasma. I posti di blocco, i fili spinati, si alternano con interi isolati di case in stato di abbandono, come se ci fosse stata un’evacuazione improvvisa. Che tristezza: il suo centro storico sarebbe un gioiello del turismo, assomiglia alla città vecchia di Gerusalemme ma è ancora più raccolto, di una bellezza raffinata. Conserva qualche vestigio della vocazione antica: Hebron fu città di ricchi mercanti, con una tradizione speciale nella decorazione delle ceramiche e nei tessuti. Il centro storico ha ancora delle bancarelle ma è semi-deserto, il clima da stato d’assedio tiene lontani i turisti. E in quel centro storico vedi anche un segno visibile della convivenza conflittuale: i mercanti delle bancarelle hanno dovuto proteggersi con delle alte reti, dal getto di immondizia che i coloni israeliani gli rovesciano addosso dalle finestre sovrastanti, per spregio. Incollati gli uni agli altri, nemici che si stanno addosso col fiato sul collo. Questa di Hebron è la versione estrema di una realtà che t’insegue appena esci da Gerusalemme. La distanza tra gli insediamenti di coloni israeliani (per lo più illegali in base al diritto internazionale) e i territori palestinesi occupati, è microscopica. In questo minuscolo lembo di terra che è Israele, tutti stanno incollati a tutti. E le frontiere sono un groviglio, s’intrecciano e si confondono, un labirinto che è impossibile disegnare su una carta, tanto meno capire, se non ci vivi dentro sei disorientato. Per un attimo gli insediamenti dei coloni israeliani sono alla tua destra e i palestinesi a sinistra, 500 metri più avanti è il contrario. Gli uni e gli altri separati ora da alti muri, ora da fili spinati, posti di blocco, vi-

AFP

Federico Rampini

compito ufficiale di osservatore. Vedo coi miei occhi il trattamento che gli infliggono i soldati israeliani. Mentre io col mio passaporto americano e la mia religione cristiana entro ed esco dove mi pare, lui viene bloccato continuamente, ogni pretesto è buono per contestare la validità dei suoi documenti. Lo vedo negoziare con una pazienza infinita: è chiaro che è abituato. Sia lui che il carabiniere mi chiedono di non fargli foto, di non trascrivere i loro nomi, di non pubblicare video del nostro incontro su Facebook. È gente seria, sono qui per fare un lavoro umanitario difficile e ingrato, non sono in cerca di pubblicità o di fama sui social.

La questione della terra: ci sarebbe anche un legame profondo e viscerale fra sionismo e Manifest Destiny «Contrariamente a quanto pensano tanti tra voi occidentali – mi dice Mazin Qumsiyeh – questa è una terra di pace. Dopo le crociate, per secoli abbiamo accolto un po’ tutti: ebrei cristiani musulmani. E abbiamo vissuto in pace, davvero, per la maggior parte della nostra storia millenaria. Dunque passerà la fase attuale, e alla fine sarà stata una parentesi breve». In mezz’ora di auto ho lasciato Hebron e sono arrivato a Betlemme. Ho fatto la visita di rito al Muro di Betlemme, alto e sinistro. Dolorosa barriera quotidiana per i palestinesi di qui; luogo di pellegrinaggio per turisti o artisti come Bansky che ne hanno fatto una «tela» per i graffiti di protesta. Chi mi parla si definisce «un beduino nel cyberspazio», nomade tornato in patria dopo una brillante carriera accademica negli Stati Uniti. Mazin Qumsiyeh, 60 anni, in America andò a prendersi una laurea in biologia molecolare e un dottorato in citogenetica. Per anni ha insegnato a Yale, dove ha conosciuto sua moglie, scienziata americana di origine

cinese. Poi ha sentito il richiamo della foresta, o meglio del deserto: l’impegno per la causa del suo popolo. Ha doppia cittadinanza, americana e «palestinese con passaporto israeliano». «La prima forse aiuta a farmi liberare quando mi arrestano durante le manifestazioni. La seconda limita i miei movimenti: quando sul passaporto israeliano c’è scritta l’origine palestinese, quasi tutte le frontiere si chiudono». Lo incontro in un luogo improbabile, il Museo di Storia Naturale della Palestina, che lui ha creato in una villetta di Betlemme (nella foto in basso, la Basilica della natività). Siamo in quattro visitatori (la mia famiglia), lui ci dedica un pomeriggio per spiegare quello che sta facendo. Usa il linguaggio statistico-probabilistico dello scienziato per analizzare freddamente il dramma del suo popolo. Abbraccia il credo ambientalista per spiegare la centralità della terra, e come un giorno gli israeliani dovranno cambiare strada anche per l’impatto del cambiamento climatico oltre che della demografia. Gioca con la storia degli Stati Uniti per decifrare le origini del patto tra la destra Usa cristiano-repubblicana e Netanyahu. Cominciamo quindi dal calcolo delle probabilità, che lui da bravo prof disegna con delle curve: al centro la gobba dove si addensano gli eventi più frequenti, alle estremità le code sottili, gli scenari più rari e inusuali. «Dunque su una punta c’è il genocidio degli indiani d’America o degli aborigeni d’Australia. I palestinesi potrebbero fare la stessa fine, schiacciati dall’invasione dei coloni fino all’annientamento? È possibile. È poco probabile. All’estremità opposta c’è l’Algeria. Il popolo invaso caccia via i coloni, compresi i pieds noirs nati in Algeria che non avevano radici in Francia. Possibile. Improbabile anche questo. In mezzo c’è una vasta serie di varianti intermedie. Il Sud Africa è un esempio di transizione abbastanza pacifica verso una democrazia basata sul principio una testa un voto». Non deflette da un’analogia che lui considera obbligatoria, fra sionismo e colonialismo. È quest’analogia

che lo porta continuamente a incrociare la storia della sua terra d’origine con quella della sua patria d’adozione. Tra le immagini che mi proietta sullo schermo c’è il celebre dipinto allegorico del Manifest Destiny: la nazione americana vi appare come una dèa gigantesca, seguita dal popolo dei coloni bianchi, che avanza inesorabilmente e fa arretrare i nativi. Qumsiyeh non è certo l’unico né il primo a sottolineare le affinità. Da una parte e dall’altra. Il fondatore del movimento sionista, Theodor Herzl, era convinto della missione civilizzatrice degli ebrei. Era fiducioso che le popolazioni arabe della Palestina, finalmente beneficiate dal progresso, avrebbero ringraziato i coloni. Speculare è l’evoluzione ideologica che negli Stati Uniti ha portato i protestanti evangelici – un tempo anti-semiti virulenti – ad innamorarsi dell’idea che Netanyahu stia realizzando alla lettera le profezie bibliche. Il popolo eletto ha la sua terra. La questione della terra: Qumsiyeh è convinto che sia un altro legame profondo, viscerale, tra sionismo e Manifest Destiny. Proprio mentre lo visito a Betlemme, negli Stati Uniti l’attenzione sul tema viene rilanciata dall’opera di un autorevole storico-geografo, Gary Fields (Enclosure: Palestinian Landscape in a Historical Mirror). Il paragone è con episodi precedenti di esproprio massiccio delle terre. In Inghilterra il capitalismo moderno nacque togliendo ai contadini le terre di pascolo condivise («commons»). In America i coloni bianchi non riconoscevano le forme «arcaiche» di comproprietà delle terre degli indiani, li cacciavano o li costringevano a firmare contratti-capestro. L’esproprio di terre palestinesi è avvenuto talvolta con un pretesto simile: i cactus che segnalavano i confini degli appezzamenti sotto l’impero ottomano non erano giuridicamente validi per degli occidentali. Manifest Destiny. Ma quanto a lungo Netanyahu può tenere Mazin Qumsiyeh e quelli come lui in un apartheid non dichiarato, inseriti dentro la fiorente economia israeliana, e con la metà dei diritti?


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Politica e Economia

Lotta per la sopravvivenza

Servizio pubblico – 2. parte La crisi della stampa ha portato alla sparizione di numerose testate – Considerata

la missione pubblica dei giornali, un finanziamento statale potrebbe fare da contrappeso al calo delle entrate Enrico Morresi Non so se avete notato che nella campagna sulla votazione «No-Billag», in programma il 4 marzo, i giornali si sono pronunciati tutti o quasi contro l’iniziativa. Non era loro interesse che la SSR cessasse di sfruttare spazi commerciali spettanti «naturalmente» alla stampa scritta? Questa tesi, sostenuta con vigore fino a pochi anni fa dall’associazione degli editori (insieme con l’idea fissa che la SSR fosse «la voce dello Stato» e la stampa privata l’unica libera), sembra aver ceduto il posto a una più matura concezione dell’informazione come bene pubblico comune. C’è

La Romandia è la regione che finora ha pagato il prezzo più alto e i pochi quotidiani rimasti sono nelle mani di editori zurighesi voluta la crisi per aprire gli occhi agli editori di giornali: prima il calo spettacolare del numero delle testate, praticamente dimezzato (da quattrocento a duecento) tra il 1939 e il 2009; poi la crisi della pubblicità e la dislocazione delle proprietà; ora l’interesse di conservare il finanziamento pubblico delle radio e televisioni regionali private, quasi tutte

proprietà dei gruppi editoriali più forti. Non mi illudo che sia crollato tutto il monte degli antichi pregiudizi, anche perché molti editori non vi hanno mai neppure riflettuto, ne fanno solo un calcolo di bottega: ma constato la caduta di un pregiudizio storico, foriero forse di un ripensamento utile al futuro. Per ora si deve constatare che la logica aziendale ha prevalso su ogni altra considerazione. «Flagrante – scrive Christian Campiche nel suo libretto La presse romande assassinée – è il caso dell’“Hébdo”, il settimanale romando chiuso nel 2016. Per anni la proprietà aveva chiuso gli occhi sui conti in perdita del settimanale, nelle cifre rosse dal 2002. Questo perché Michael Ringier era un signor presidente, la quinta generazione di una dinastia di editori orgogliosi delle loro testate. Bastò che l’editrice di Zurigo si alleasse con Axel Springer e il settimanale fu chiuso in quattro e quattr’occhi: al nuovo PDG del gruppo era bastato dare un’occhiata ai conti. Insomma, “L’Hébdo” è stato soppresso da Berlino, non da Zurigo», scrive Campiche. Domani potrebbe accadere a Neuchâtel e a Sion, dove gli ultimi quotidiani sopravvissuti sono di proprietà del gruppo francese Hersant, che in Francia non gode di buona salute. Il rischio di essere soppressi «da fuorivia» tocca per ora una minoranza di casi. Ma un altro cambiamento radicale è in atto in tutto il Paese. I ti-

I grandi editori, come Tamedia, hanno affrontato la crisi acquisendo altre testate e concentrando diverse attività (anche redazionali), con tagli di impieghi e conseguenti proteste. (Keystone)

cinesi possono consolarsi di possedere ancora tre quotidiani, ma cantoni importanti come Lucerna o San Gallo non hanno più giornali che si possano definire pensati, diretti e realizzati nelle città il cui nome figura nella testata.

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A Lucerna sono scomparse progressivamente tre testate risalenti all’Ottocento (il liberale «Luzerner Tagblatt», il conservatore «Vaterland» e le neutre «Luzerner Neueste Nachrichten»): è rimasta la «Luzerner Zeitung», che già provvede ai contenuti di una mezza dozzina di testate minori nella Svizzera centrale, ma la cui... lucernesità è solo formale dacché la redazione è stata fusa con quella del sangallese «St. Galler Tagblatt» e della turgoviese «Thurgauer Zeitung») formando un conglomerato di cui è proprietaria la zurighese NZZ, che ne ha designato addirittura il direttore. A Losanna, dall’inizio di gennaio, i giornalisti di «24 Heures», «Le Matin dimanche» e «Tribune de Genève» lavorano in un’unica redazione. A Ginevra sono rimasti «le Courrier» e il finanziario «l’Agefi»: ventimila copie di tiratura in due. E parliamo della città in cui hanno sede le Nazioni Unite e molte banche e imprese di rango mondiale, di quella che veniva chiamata «la Roma protestante»! Altri esempi si possono citare per quanto riguarda la Svizzera tedesca, come l’assorbimento del grigionese «Bündner Tagblatt» e della sangallese «Ostschweiz» nel gruppo editoriale super-regionale che edita (ecco un bel titolo comune!) la «Südostschweiz». Questa evoluzione, in apparenza solo consistente nella razionalizzazione della produzione, contraddice le esigenze del federalismo in quanto fa mancare un elemento essenziale per la formazione e il rinnovamento delle élites politiche (che si forma in sede locale, poiché le elezioni alle Camere federali si fanno in circoli elettorali cantonali). Le conseguenze della perdita di così tante identità periferiche possono essere pesanti non solo per il mondo dell’informazione. Vista da Zurigo, l’evoluzione può parere conforme agli interessi gesamtschweizerisch, cioè comuni a tutto il Paese. Ma la metropoli zurighese tende sempre più a scambiare i propri con gli interessi di tutta la Confederazione, talora guardando ai cantoni e alle regioni come si guarda a fratelli minori per età e un poco ritardati. Se è nell’interesse del Paese intero che l’eccellenza zurighese si affermi, visto che i confronti, oggi, si fanno su scala europea o mondiale, deve preoccupare la presunzione che a Zurigo si facciano meglio gli interessi di tutti. Dove sono i contrappesi che in passato funzionavano? Basilea non sembra più

in grado di esercitare questo ruolo. E la Berna federale? Sì, certo: non è la capitale? Ma badiamo ai fatti: i due unici quotidiani bernesi rimasti in vita («Der Bund» e «Berner Zeitung») appartengono a editori zurighesi. (Osservo di passata che questo ragionamento dovrebbe entrare nel giro delle riflessioni su un’operazione in apparenza il massimo della razionalità: la Greater Zurich Area, «l’area della grande Zurigo», cui ha dedicato acute osservazioni Angelo Rossi su«Azione» dell’11 dicembre. La conclusione è che a lunga scadenza solo un finanziamento pubblico potrebbe correggere la situazione, creando e sostenendo i necessari contrappesi. Ma quanto ci vorrà per essere davvero efficaci contro la deriva? Non è dunque questo il momento di indebolire il servizio pubblico radiotelevisivo. Si obietterà: la SSR è al massimo «regionale», non «cantonale», e non serve ad alimentare la cultura politica locale. È vero se si parla solo della SSR (con l’eccezione maiuscola del Ticino e delle valli grigionitaliane): ma l’abolizione del canone radiotelevisivo non toccherebbe solo la SSR ma anche 13 stazioni televisive e di 20 stazioni radio private cui è devoluta già ora una parte dei proventi del canone e che in futuro potrebbero dover rafforzare il loro ruolo di sostegno alla cittadinanza nei cantoni privi di stampa locale. Le emittenti radiofoniche e televisive locali ricevono già ora 54 milioni di franchi l’anno (ossia il 4 % dei proventi totali del canone). La revisione di legge in corso prevede che otterranno fino a 27 milioni di franchi in più (aumento della quota del canone da 4 % a 6 %). Inoltre, beneficeranno di un maggiore sostegno finanziario per la digitalizzazione dei loro programmi nonché per la formazione e il perfezionamento professionale. Nato per un accidente storico: il dramma europeo degli anni Trenta del Novecento (si trattava di tenere la Svizzera al riparo dalla propaganda nazifascista), il servizio pubblico radiotelevisivo, domani esteso a tutti i mezzi di informazione, merita di essere difeso per una ragione storica altrettanto importante. È cambiato il nome dell’insidia portata alla vitalità democratica del Paese, non la sua pericolosità e la necessità di un contropotere. Nota

Il primo articolo è stato pubblicato l’8 gennaio 2018.


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Politica e Economia

M Una crescita solida in un contesto difficile

Gruppo Migros 2017 Pubblicati negli scorsi giorni i dati relativi all’attività aziendale per l’anno appena trascorso

Nel 2017 il Gruppo Migros ha realizzato un fatturato complessivo di 28 miliardi di franchi, registrando una crescita di 267 milioni (+1,0%). Il fatturato nel commercio al dettaglio si è attestato a 23,48 miliardi di franchi in termini nominali (+0,9%). Le dieci cooperative regionali hanno ottenuto un fatturato di 15,55 miliardi di franchi (-0,5%), risultato riconducibile soprattutto al rincaro negativo (–0,4%) che ha interessato gli assortimenti Migros. Nel settore del commercio online, Migros ha ulteriormente rafforzato il proprio ruolo incontrastato di leader del mercato con un fatturato di 1,95 miliardi di franchi, in aumento del 5,1%. Il fatturato nel commercio al dettaglio in Svizzera e all’estero (al netto dell’IVA) registra un incremento dello 0,9%, attestandosi a 23,487 miliardi di franchi in termini nominali (esercizio precedente: 23,269 miliardi di franchi). Le cifre del fatturato nel commercio al dettaglio, al netto dell’IVA, si compongono come segue: cooperative in Svizzera e all’estero 15,555 miliardi di franchi (–0,5%), Denner 3,050 miliardi di franchi (+3,1%), Migrol 1,410 miliardi di franchi (+9,3%), Globus 857 milioni di franchi (–2,5%), Digitec Galaxus 834 milioni di franchi (+18,5%), Gruppo Depot 539 milioni di franchi (+7,6%), Migrolino 480 milioni di franchi (+11,3%), LeShop.ch 181 milioni di franchi (–0,5%), Interio 155 milioni di

franchi (–8,0%), Gruppo Office World (OWiba) fino al 31.10.2017 144 milioni di franchi (–19,5%), Ex Libris 109 milioni di franchi (–3,0%), m-way 40 milioni di franchi (+21,6%), nonché il risultato di altre imprese, tra cui Probikeshop fino al 28.2.2017 e sharoo fino al 30.6.2017. In un contesto di mercato competitivo, i supermercati e gli ipermercati delle dieci cooperative Migros hanno realizzato in Svizzera un fatturato di 11,592 miliardi di franchi (–0,8%). Considerando il rincaro negativo medio del –0,2%, questo dato corrisponde a un andamento reale del – 0,6% rispetto all’esercizio precedente. Con 344,9 milioni di scontrini di cassa, la frequenza d’acquisto è rimasta al medesimo livello dell’anno scorso. Nel 2017 i negozi specializzati Micasa, SportXX, melectronics, Do it + Garden e OBI hanno realizzato un fatturato di 1,617 miliardi di franchi (+0,9%). I prezzi sono stati abbassati in media del 2,7%, il che corrisponde a una crescita reale del +3,6%. Nell’attività dell’azienda gli shop online dei negozi specializzati diventano sempre più importanti, come dimostra l’aumento del 25% del loro fatturato. PickMup, la pratica rete gratuita di punti di ritiro e di restituzione di Migros per le ordinazioni online, l’anno scorso ha coinvolto numerosi nuovi partner. Gli acquisti effettuati nei 14

Fabrice Zumbrunnen, nuovo presidente della Direzione generale della Federazione delle cooperative Migros. (FCM)

diversi negozi online possono essere ritirati e restituiti presso oltre 746 punti o filiali PickMup in Svizzera. Nel suo ruolo di assistente agli acquisti, l’app Migros è stata sviluppata ulteriormente e arricchita di nuove funzioni come gli stampini digitali o il riconoscimento delle immagini tramite la funzione Discover. I prodotti regionali e sostenibili sono in costante crescita. Nel 2017

sono stati acquistati prodotti per oltre 970 milioni di franchi (+3,0%) del tipico assortimento Migros «Dalla regione. Per la regione» («I Nostrani del Ticino» nel nostro cantone). Anche i prodotti con valore aggiunto ecologico o sociale sono molto apprezzati, con un fatturato complessivo di 2,964 miliardi di franchi, superiore del +3,8% rispetto all’esercizio precedente. Spiccano in particolare l’assortimento Migros Bio

e il programma di sostenibilità TerraSuisse, che insieme generano più della metà di questo fatturato. Con 4,021 miliardi di franchi, la cifra d’affari complessiva dei label sani «aha!» (87 milioni), sostenibili e regionali di Migros fa segnare un incremento del 3.6% sull’anno precedente. L’Industria Migros ha realizzato un’ulteriore espansione sul mercato indigeno ed estero. Il fatturato si è attestato a 6,522 miliardi di franchi (esercizio precedente: 6,389 miliardi di franchi) e supera dunque del +2,1% le cifre dell’esercizio precedente. Nonostante difficili eventi geopolitici in alcune destinazioni importanti, il settore strategico Viaggi ha realizzato, su base paragonabile, un fatturato netto superiore dell’1,2% rispetto all’esercizio precedente. La vendita di Hotelplan Italia e il sostanziale indebolimento della sterlina inglese hanno però ridotto il fatturato netto del 5,6% a 1,212 miliardi di franchi (esercizio precedente: 1,284 miliardi di franchi). (Il rapporto annuale «Kompass» del Gruppo Hotelplan sarà pubblicato il 30.1.2018). In una situazione di mercato difficile, Banca Migros ha confermato la tendenza positiva degli scorsi anni nelle sue attività principali. Ha registrato particolari progressi il settore degli investimenti, che è stato ulteriormente ampliato. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Politica e Economia

Piano pensionistico a 50 anni: avete una lacuna previdenziale? La consulenza della Banca Migros Jeannette Schaller

Risparmiando regolarmente si costruisce il capitale di previdenza per la vecchiaia Andamento del patrimonio in rapporto alla quota di risparmio (senza considerare gli interessi composti)

Esempio con un reddito da lavoro lordo pari a 80’000 CHF p.a. Risparmiando regolarmente una quota costante nell’arco di 15 anni si ottiene il seguente capitale finale: – quota di risparmio 5% (4000 franchi) l’anno = 60’000 franchi; – quota di risparmio 10% (8000 franchi) l’anno = 120’000 franchi; – quota di risparmio 20% (16’000 franchi) l’anno = 240’000 franchi.

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Quota di risparmio 5%

scatto di carriera con un incremento di stipendio oppure aumentate il vostro grado di occupazione. Simili decisioni risultano determinanti per il budget e la pianificazione pensionistica. 3. La quota di risparmio nel budget. Se oltre alla previdenza obbligatoria (AVS/primo pilastro e, in caso di lavoro

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Quota di risparmio 20%

dipendente, LPP/secondo pilastro) risparmiate anche privatamente, avete tre possibilità di ottimizzazione: effettuare un versamento nel pilastro 3a (previdenza vincolata), che presenta ottimi vantaggi fiscali; effettuare un riscatto nel secondo pilastro (LLP); oppure ricorrere alla previdenza libera (pilastro

Fonte: Banca Migros

300'000

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Jeannette Schaller è responsabile della pianificazione finanziaria alla Banca Migros

Se volete essere certi di poter mantenere lo standard di vita desiderato anche dopo il pensionamento, dovete iniziare per tempo la pianificazione previdenziale. A seconda della vostra età, le questioni da chiarire saranno diverse. Per chi comincia a pianificare già a 50 anni, o addirittura ancora prima, la domanda decisiva è: il denaro sarà sufficiente per la pensione? Se nel corso della pianificazione pensionistica scoprite una lacuna previdenziale, all’età di 50 anni disponete di tre risorse per migliorare le vostre prospettive: 1. La durata restante dell’attività lavorativa. Anche se in Svizzera l’età ordinaria di pensionamento è di 64 anni per le donne e di 65 anni per gli uomini, il sistema è flessibile: da una parte, il pensionamento anticipato è possibile a partire da 58 anni; dall’altra, si può posticipare di cinque anni l’inizio del pensionamento. Per una persona di cinquant’anni restano dunque, a seconda che sia uomo o donna, ancora dagli 8 ai 20 anni di attività lavorativa. 2. Il reddito nei restanti anni lavorativi. Chi negli ultimi anni di lavoro preferisce un po’ più di tranquillità, può ad esempio ridurre il grado di occupazione o rinunciare al ruolo dirigenziale svolto fino ad allora. È però possibile anche il contrario: arriva il successivo

3b), ad esempio tramite un conto di risparmio con investimenti in titoli. Informazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Viaggiamo con il gruppetto di coda Il 2018 si apre con prospettive abbastanza rosee per l’economia svizzera. Le previsioni riviste di dicembre 2017 ci dicono che la crescita del prodotto interno lordo dovrebbe raggiungere, quest’anno, il 2%, che la disoccupazione si stabilizzerà appena sopra al 3%, e che l’inflazione continuerà a non esistere. Sono dati che non dovrebbero preoccupare. E invece! Invece si constata che, per il quarto anno di fila, la Svizzera farà parte del gruppetto di coda delle economie europee per quel che riguarda il tasso di crescita economica. Quest’anno saremo superati anche dall’Italia e, probabilmente, non riusciremo a mettere dietro di noi che la Grecia. Vi sono economie nazionali in Europa, anche di piccoli paesi, che nel 2018 cresceranno a tassi superiori al 3%. La Svizzera, un tasso di crescita di questa dimensione se lo può sognare. Perché l’economia

svizzera non riesce più, da almeno un decennio, a realizzare tassi di crescita del Pil superiori al 3%. Perché si tratta di un’economia invecchiata. In una versione molto semplice della teoria della crescita, si può definire il tasso di crescita del Pil di una determinata nazione o regione come la somma dei tassi di crescita del capitale fisico, utilizzato nei processi di produzione, e della produttività del lavoro, misurata dal rapporto tra il Pil e l’effettivo di persone occupate o il numero delle ore di lavoro da loro consentite. Se, come ai tempi d’oro della crescita dell’economia svizzera, gli anni Sessanta dello scorso secolo, la produttività del lavoro dovesse aumentare, in un anno, del 3% e gli effettivi dell’occupazione dell’1,5%, il tasso di crescita del Pil di quell’anno sarebbe uguale al 4,5%, ossia alla somma del 3% con l’1,5%. Se, invece, come capita oggi, la produttività

del lavoro non aumenta, o addirittura diminuisce, il Pil può crescere solo nella misura in cui cresce l’occupazione (o il numero delle ore lavorate). Questo è quanto è successo più o meno, in Svizzera, dal 2001 fino al 2015. Grazie all’introduzione della libera circolazione della manodopera, gli effettivi delle persone occupate sono cresciuti, di anno in anno, a tassi superiori all’1%, assicurando così la modesta crescita del Pil di questo periodo. Ovviamente questa crescita dell’occupazione si è potuta realizzare solo grazie al forte aumento dell’immigrazione di lavoratori dall’estero. Perché l’economia svizzera deve far ricorso all’immigrazione per aumentare gli effettivi occupati ? Perché la popolazione residente sta invecchiando. L’invecchiamento della popolazione fa aumentare gli effettivi delle persone con più di 65 anni più rapidamente di quelli

delle persone in età attiva, ossia tra i 20 e i 65 anni. Non solo, ma, addirittura, a partire da una certa data che, nel caso della Svizzera e del Ticino, si situa verso il 2025, gli effettivi delle persone anziane continueranno ad aumentare rapidamente mentre quelli delle persone in età lavorativa cominceranno a diminuire. Se, come è molto probabile, le limitazioni all’immigrazione di lavoratori stranieri dovessero diventare più severe, nel corso dei prossimi decenni, è evidente che la diminuzione della popolazione attiva non potrà essere arrestato. Con tassi negativi di aumento della produttività, come quelli che si sono registrati nel corso degli ultimi anni, il tasso di crescita dell’economia dipende, come si è già rilevato, unicamente dalla crescita dell’occupazione. Ma con saldi della migrazione internazionale vicini allo zero o, addirittura, negativi, come

quelli che si prospettano per i prossimi decenni, e una popolazione attiva interna in diminuzione per via dell’invecchiamento, è evidente che l’occupazione tenderà a diminuire. Alla fine, se produttività e occupazione diminuiscono anche il tasso di crescita sarà negativo. Stiamo avviandoci, con invecchiamento della popolazione, diminuzione della produttività del lavoro e restrizioni all’immigrazione internazionale verso un’economia della stagnazione. Non lo sappiamo o non vogliamo vederlo? Intendiamoci, l’invecchiamento della popolazione è un fenomeno sul quale non possiamo praticamente intervenire. La diminuzione della produttività del lavoro è anche dovuta a trasformazioni dell’apparato produttivo sulle quali non abbiamo influenza. Ma la politica dell’immigrazione, quella è, in tutto e per tutto, opera nostra.

lidare l’immaginario trumpiano. La famiglia Mercer, finanziatrice tardiva ma generosissima di Bannon e di Trump, ha preteso la deposizione del suo ex protetto, e per lui non c’è stata scelta. Ora che Bannon è stato convocato a deporre davanti all’inchiesta del Russiagate, che indaga sulla relazione pericolosa tra Trump e la Russia putiniana, avremo la misura di quanto può essere grande, nella politica e nell’amicizia, l’istinto di vendetta. Ma che cosa c’è scritto in Fury and Fire? Che la Casa Bianca è un posto di lavoro disfunzionale in cui anche le procedure più rodate sono saltate, in cui si litiga molto, si prende molto in giro chiunque e ci si divide in due attività principali: accreditarsi presso la corte trumpiana stretta assecondando il presidente e fare di tutto per salvare il mondo dagli eccessi del trumpismo – o trumpismo tout court, che è già un eccesso per sé. Nulla di rivoluzionario insomma, che le cose non girassero in modo armonico e regolare alla Casa Bianca ce ne eravamo accorti da un po’. Molti dettagli – conversazioni, ricostruzioni, aneddoti – sono invece nuovi, ma hanno un grande difetto: non sono verificati. Con il suo cinico

candore lo stesso Wolff ha ammesso che quando la storia è troppo bella, i controlli incrociati finiscono per rovinarla. È uno spettacolo questo, diamine, godiamocelo senza troppo puntiglio. Il metodo Wolff è stato rodato nel tempo: lui è il biografo di Rupert Murdoch, il tycoon australiano dell’editoria, al quale ha dedicato un libro nel 2008. Anche allora, alla pubblicazione, ci furono molte polemiche: Wolff aveva avuto un accesso straordinario al mondo murdocchiano e se n’era uscito con molti dettagli non verificati ma gustosissimi sull’impero dello Squalo. Poi la rabbia è passata e Wolff è rimasto uno degli interpreti più ascoltati, ancorché talvolta impreciso e quasi sempre catastrofico, dell’universo dei Murdoch. Poiché c’è una certa consuetudine tra Rupert Murdoch e Trump – all’inizio del 2016 non si prendevano molto, poi si sono avvicinati, ora si dice che si vedono o parlano più volte alla settimana – molti si chiedono perché il primo non abbia avvertito il secondo del pericolo di invitare Wolff alla propria corte. Una leggerezza? Difficile crederlo: evidentemente andava bene così. Anche perché Wolff ha giocato

perfettamente le sue carte, pubblicando nei mesi della sua ricerca per il libro articoli benevoli nei confronti della Casa Bianca e ingaggiando liti con i colleghi giornalisti a suo avviso troppo duri e pregiudizievoli nei confronti di Trump. Poi ha pubblicato un libro durissimo e pregiudizievole e gli altri giornalisti hanno iniziato a fare i precisini: il racconto generale è corretto, ma i dettagli no. Wolff si è difeso, dicendo che possono esserci imprecisioni ma che la ragione di tanto livore è un’altra: l’invidia. Wolff ha aperto la stagione dei libri-retroscena su Trump in modo scoppiettante, ora mantenere questo ritmo non sarà facile, e i suoi colleghi lo sanno. Come ce l’abbia fatta, lui così spregiudicato e sostanzialmente antipatico ai più, lui che ha riportato aneddoti curiosi per mantenere alti interessi e voyeurismo, resterà materia di dibattito nel ristretto mondo dei giornalisti. E in questo Wolff è la sintesi perfetta del trumpismo, il «Trump dei giornalisti», come hanno detto alcuni: contano lo spettacolo, il divertimento, la narrazione, il senso complessivo, un po’ di rivoluzione e un po’ di circo, tantissimo stupore anche. La verità lasciamola ai noiosi.

miracolo economico aveva stimolato, nelle case (elettrodomestici) come nei trasporti privati (dalla bicicletta alla lambretta). La gioventù elvetica non rimase alla finestra. Anch’essa ebbe modo di solidarizzare con gli studenti dei paesi confinanti, con gli oppositori alla guerra del Vietnam e con la protesta dei neri americani. Le testimonianze raccolte nel Museo storico di Berna danno conto di questo intreccio, interno ed esterno, Mao e il «Globuskrawall» di Zurigo, il concerto dei Rolling Stones e l’occupazione dell’aula 20 alla Magistrale di Locarno, le manifestazioni delle femministe e le iniziative antistranieri di Schwarzenbach. Gli episodi plateali rimasero tuttavia circoscritti ai centri urbani e poco numerosi; non vi fu nessun «maggio francese». Questo non significa apatia o inerzia. La protesta assunse la fisionomia di una rivolu-

zione silenziosa, che investì le relazioni familiari, i partiti, la scuola, la Chiesa, l’esercito. Obiettivo comune era la contestazione del principio di autorità che allora reggeva ogni istituzione. All’indomani nacquero nuovi partiti alla sinistra della socialdemocrazia, come le Organizzazioni progressiste (Poch) e, in Ticino, il Partito socialista autonomo. Come detto, la macchina celebrativa è già partita. Era prevedibile; dopo tutto il ’68 fu espressione dell’iniziativa di studenti, intellettuali e professori, lavoratori della mente dediti, più degli altri ceti, all’autoriflessione (e spesso all’autocelebrazione). Succede regolarmente di decade in decade, ogni volta con libri, diari, film, mostre, dibattiti radiotelevisivi, confessioni dei «reduci». Resta da capire quale fu la reale portata, le conseguenze (politiche, sociali, culturali) per un paese come la

Svizzera, ostile ad ogni accelerazione nel campo dei diritti e della giustizia sociale. Occorsero decenni prima di veder applicate alcune delle rivendicazioni espresse dagli scioperanti nel 1918, tra cui l’assicurazione vecchiaia e superstiti e il suffragio femminile. Quest’ultimo, sul piano federale, fu concesso soltanto nel 1971: ma non è infondato pensare che questa conquista abbia ricevuto dalle mobilitazioni del ’68 un impulso decisivo, almeno negli agglomerati. I raffronti sul lungo periodo comportano sempre qualche azzardo. Ma in questo caso la tentazione è davvero forte; un confronto tra il 1918 e il 1968, tra lo sciopero generale e il movimento degli studenti, permetterebbe di dare una profondità storica a questi due snodi capitali del nostro Novecento. E di misurare il cammino effettivamente compiuto tra un cinquantennio e l’altro.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Wolff, il Trump dei giornalisti Michael Wolff è l’uomo del momento, il suo libro Fire and Fury è bestseller negli Stati Uniti, il pdf piratato del libro circola come una catena di Sant’Antonio e un autore canadese, Randall Hansen, vive di rendita: otto anni fa ha scritto un libro storico che ha la fortuna di intitolarsi come il saggio di Wolff, e molti utenti online si sono confusi nell’acquisto. Da quando sono uscite le anticipazioni di Fire and Fury, mentre ancora smaltivamo il cenone di Capodanno, la politica americana è stata dominata dalle rivelazioni contenute nel libro.

Donald Trump, che è il protagonista, è furibondo, ha attaccato il libro, l’autore, l’editore, le fonti anonime, tutti quelli che gli sono passati a tiro, e così ha contribuito a sancirne il successo. Ma se Trump continua comunque a essere il presidente degli Stati Uniti, piaccia o no, Steve Bannon, il guru del trumpismo, ha perso tutto in questa operazione editoriale. Ha confidato a Wolff una cattiveria di troppo sulla famiglia Trump e nel giro di pochi giorni si è ritrovato spodestato dal suo trono a Breitbart News, il sito che più di ogni altro ha contribuito a conso-

Fire and Fury, il libro anti-Trump a ruba negli Usa.

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Che Quarantott nel Sessantott! Anno suggestivo, questo 2018, per i cabalisti e i cultori di numerologia. L’otto, infatti, intriga e fa balenare nella mente chissà quali possibili accidenti. Ma l’otto sollecita anche la ricerca storica. Le date che hanno determinato passaggi d’epoca sono numerose. Converrà ricordarne qui alcune, fondamentali per il nostro passato ma non solo, visto che nessuna svolta o cesura ha avuto una genesi esclusivamente endogena: il 1798 (fine del regime dei baliaggi); 1848 (nascita dello Stato federale), 1918 (fine della guerra, crollo degli imperi centrali, sciopero generale in Svizzera, epidemia influenzale), 1968 (invasione della Cecoslovacchia, moti studenteschi nelle università, assassinio di Martin Luther King e di Bob Kennedy). L’ultimo anniversario, già si è capito, farà la parte del leone. Le prime esposizioni sono state allestite e inaugu-

rate prima di Natale. A Milano, alla Fabbrica del Vapore, è visitabile fino al 4 aprile «Revolution: musica e ribelli 1966-1970. Dai Beatles a Woodstoock»; a Berna, all’Historisches Museum, è in corso fino al 17 giugno «1968 Die Schweiz», una rassegna più incentrata su percorsi e riflessi nazionali. «Revolution» insiste sulla musica e la moda, e dunque su un Sessantotto declinato soprattutto come fenomeno di costume, come la colonna sonora di una generazione desiderosa di rompere con gli schemi imposti dagli adulti. Gli organizzatori hanno posto l’accento sull’aspetto coreografico, che certo non fu secondario nell’abbigliamento, nelle acconciature (i «capelloni»), nel desiderio di intraprendere nuove esplorazioni culturali ricorrendo alle droghe sintetiche. Era un universo giovanile che si rimetteva in moto, spinto anche dall’incremento dei consumi che il


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Cultura e Spettacoli Riflessioni sull’Olocausto Il pericolo, sosteneva molto lucidamente Zygmunt Bauman, non è certo scampato

All’OSI un premio importante Sotto la guida competente del direttore tedesco Markus Poschner, l’Orchestra della Svizzera italiana ha vinto un prestigioso riconoscimento agli ICMA

Una scena ricchissima Il successo di tre recenti debutti sulla scena teatrale ticinese ne evidenziano la crescita artistica pagina 30

pagina 29

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«Japonisme», manifesti e can can

Mostre Henri de Toulouse-Lautrec a Palazzo

Reale di Milano Gianluigi Bellei

Henri de Toulouse-Lautrec è un personaggio particolare. Molto amato dal grande pubblico. Forse per la sua fama di artista maledetto, forse per le deformazioni fisiche, forse per le frequentazioni dei cabaret parigini dove si ballava il can can. Un mondo apparentemente dorato che si rispecchiava in personaggi quali Sarah Bernhardt ed Eleonora Duse, fra Moulin Rouge o Moulin de la Galette. Traviata e feuilleton, assenzio e sregolatezza. La verità, magari, è un’altra; fatta di miseria umana, perdizione, prostituzione, malattie, stupri famigliari, accattonaggio. Un ambiente luccicante dietro il quale si nascondevano le più truci vergogne. Le famose «ballerine» non erano altro che carne da macello, femmine perdute; puttane, insomma. La tragica Goulue (la golosa) ne è il tipico esempio. Nome d’arte di Louise Weber, giovanissima viene stuprata dal padre, poi avviata alla prostituzione. Balla un can can impudico, si fa fotografare nuda, per finire come cameriera in un bordello, grassa e sfatta, e morire abbandonata da tutti in una squallida roulotte nel 1929. Certo, ora pensiamo al Moulin Rouge come a un luogo di lusso, dove i ricchi russi bevono champagne millesimato. Ma era davvero così una volta? Émile Zola scrive di una polvere sottile sollevata dai piedi dei ballerini che saliva lentamente dal pavimento, come una nebbia. «Le fiamme chiare del gas si facevano rossastre come in una nuvola... nel fondo galoppava una ridda spaventosa di creature che non era possibile distinguere, e la furia dei loro gesti sembrava comunicarsi all’aria viziata e nauseabonda...». Ma non c’era solo la Goulue. Altre donne bazzicavano quei luoghi di perdizione come il Moulin Rouge; impudiche, piccanti, sfrontate come Jane Avril, nata Jeanne Beaudon, o la contorsionista Cha-UKao, nome d’arte derivato dalla trascrizione dei termini francesi «chahut» sorta di ballo acrobatico tipo can can e «chaos». Toulouse-Lautrec discende da una famiglia aristocratica, il padre è un conte e i Lautrec possiedono un castello nella valle del Viaur. Un po’ fragilino, magari per i continui matrimoni fra consanguinei, è affetto da un’osteogenesi imperfetta di natura genetica che gli procura diverse fratture in tutti e due i femori. Così malconcio non può certo aspirare a una bellezza aristocratica e si rifugia perciò tra le braccia di «bal-

lerine» e prostitute che ritrae con l’aiuto della macchina fotografica. Muore giovanissimo a trentasette anni dopo una vita, come dire, un tantino borderline. Nella sua carriera realizza circa 500 opere e una trentina di manifesti. Il museo a lui dedicato ad Albi ne possiede circa duecento. Il suo mito cresce in fretta, come quello della Belle époque. Quando si vuole fare una mostra di successo il suo nome non manca mai, come i soliti Picasso, Van Gogh, Dalí... E infatti basta dare un’occhiata alle varie programmazioni per notare subito come il personaggio sia particolarmente inflazionato. Solo in Italia recentemente si sono tenute mostre su di lui a Roma, Torino, Pisa, Verona, Traversetolo, Tolentino... in questi giorni a Milano a Palazzo Reale. Da pochi mesi è uscito per i tipi di Einaudi un libro di Tomaso Montanari e Vincenzo Trione intitolato Contro le mostre. Una situazione così, scrivono, si avrebbe analogamente «se tutte le televisioni trasmettessero i medesimi programmi senza mai variare il palinsesto». Nel 2012, per esempio, sono stati dedicati a Picasso 69 mostre e 40 libri. Responsabili di questa deriva, secondo gli autori, sono prima di tutto gli eredi e poi una serie di istituzioni che non fanno il loro dovere, ma offrono gli spazi a società di servizio in «combutta con gli editori», come scriveva Giovanni Agosti nel suo Le rovine di Milano del 2011. Ma ne riparleremo: Picasso approda fra poco anche al LAC di Lugano. Una di queste istituzioni è sicuramente Palazzo Reale di Milano che demanda l’organizzazione delle esposizioni a terzi. Insomma mostre speculative, organizzate apparentemente per motivi di cassetta, sorrette da editori, galleristi, mercanti. Mario Vargas Llosa ne La civiltà dello spettacolo scrive di un mercato dominato da mafie di galleristi e marchands che non rivela gusto e sensibilità estetiche ma soltanto operazioni pubblicitarie. Nel citato Contro le mostre si stila un decalogo con delle semplici regole da rispettare per realizzare un’esposizione decente. Per brevità diciamo solo che deve essere necessaria e presentare un’idea o una scoperta tali da giustificare lo spostamento delle opere. Se no è meglio visitare un museo, una chiesa, camminare per le città e «scegliere di non entrare, diciamo per un anno almeno, in nessun evento per cui occorra pagare il biglietto». La mostra di Milano espone 200 opere delle quali 35 sono dipinti e il re-

Henri de Toulouse-Lautrec, Au lit, 1892. (Foundation E.G. Bührle Collection, Zürich)

sto litografie, affiche con tutti e 22 i suoi manifesti. Molte opere provenienti dal Musée Toulouse-Lautrec di Albi, sua città natale e collaboratore dell’esposizione, e da collezioni private. Alla fine nulla di nuovo; il solito repertorio trito e ritrito un po’ pruriginoso fatto di can can, nudi, ballerine: dall’elegante e raffinata Jane Avril, detta Mélinite per la carica esplosiva del suo ballo, con la quale ha una breve relazione, a KhaU-Kao, fino alla cicciottella e volgare ma molto sensuale Goulue. Il mondo di Montmartre, il circo, le case chiuse,

l’alcol: la depravazione tanto cara alla bohème antiborghese del momento. Interessante il procedimento con il quale realizza i suoi affiche, molto simile a quello che oggi sviluppa con altri mezzi David Hockney. Il capolavoro della sua arte grafica Jane Avril au Jardin de Paris, locale aperto nel 1893, è realizzato basandosi su di una foto pubblicitaria dalla quale l’artista realizza un disegno e a «partire dall’olio su cartone, lo fissa su un foglio più grande», scrive la direttrice del Musée Toulouse-Lautrec Danièle Devynck in catalogo, poi ag-

giunge la mano di un contrabbassista. Fotografa il risultato e infine sulla foto stende i colori. Il tutto condito con quel po’ di japonisme fluttuante che è tornato tanto di moda oggi. Dove e quando

Il mondo fuggevole di ToulouseLautrec. A cura di Daniéle Devynck e Claudia Beltramo Ceppi Zevi. Palazzo Reale, Milano. Fino al 18 febbraio 2018. Catalogo Electa, 36 euro. www.toulouselautrecmilano.it


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Cultura e Spettacoli Una vita tra due realtà culturali, Anna Felder. (CdT - Zocchetti)

I delitti di una ragione Giornata della memoria A un anno dalla

morte di Zygmunt Bauman, una riflessione su Modernità e Olocausto Daniele Bernardi

La scrittrice degli spazi intermedi Riconoscimenti Ad Anna Felder il Gran Premio svizzero

di letteratura 2018 Pietro Montorfani

«Non che siano tutte bionde, tu le trovi anche more, anche rosse, ce n’è per tutti i gusti, anche smorfiose che guai a guardargli la punta dei piedi, senti che dicono “cinch” cogli occhi brutti alle altre, che vuol dire “italiano” nella loro lingua. Ma tu un complimento alle belle lo fai lo stesso, un complimento mica è peccato [...]. Oh non credere che si stia sul tetto tutto il santo giorno a fischiare alle ragazze, per chi mi prendi, lavorare si lavora, e sodo, c’è il capo che controlla, ma una pausa, via, un momento di sosta ci vuole, siamo cristiani, lo dice anche il capo».

La scrittura di Anna Felder è curiosamente minore nel suo insieme, ma maggiore in tutte le sue parti Anna Felder esordiva così, venticinque anni prima del Treno delle italiane di Giovanni Orelli (1995), nel pieno di quella temperie culturale segnata dal dibattito sulla temuta Überfremdung della Svizzera e così ben sintetizzata nella sentenza-lampo di Max Frisch: «Wir riefen Arbeitskräfte, und es kamen Menschen» («Cercavamo braccia, sono arrivati uomini»). Pubblicato a puntate sulla «Neue Zürcher Zeitung» nella traduzione tedesca di Federico Hindermann, agli albori di un sodalizio che sarebbe durato decenni, il primo romanzo di Anna Felder apparve nell’originale italiano soltanto due anni più tardi, nel 1972, con il titolo a lungo meditato di Tra dove piove e non piove (si legge oggi in una nuova edizione Dadò curata da Roberta Deambrosi). Da subito l’autrice dichiarava im-

plicitamente la sua cifra stilistica, la sua passione per gli spazi intermedi dell’esistenza, gli attimi apparentemente banali e invece profondissimi che stanno a metà, nel grigio, in quella serie ininterrotta di piccoli eventi quotidiani che finisce per comporre, sulla pagina, una inevitabile autobiografia: non tanto per le ampie zone di sovrapposizione tra la vita e il romanzo ‒ come la protagonista, anche lei, venuta da sud, insegnava italiano ad Aarau ed era al suo primo incontro-scontro con la cultura tedesca ‒ quanto per l’andamento ragionativo della lingua, per la gestione sapiente dei punti di vista, per il crescere della persona assieme al dispiegarsi della narrazione. Se una cosa fu subito chiara, è che nella prosa di Anna Felder il plot, il «come va a finire», è del tutto secondario rispetto allo scavo linguistico e al pacato incedere della scrittura. Qualcosa che, con le debite tare, si potrebbe far risalire fino alla grande scuola di Marcel Proust. Il secondo titolo è di poco successivo e pare nascere da una costola del primo: la casa-treno di Aarau che sta al centro di Tra dove piove e non piove, e su cui pende una minaccia di sfratto, si trasfigura e diventa (a Lugano?) il cuore problematico della Disdetta, apparso da Einaudi nel 1974 per interessamento di Italo Calvino. La Svizzera italiana non sarà mai sufficientemente grata a quegli illuminati curatori di collana che, tra gli anni Sessanta e Settanta (a Milano, per la Mondadori, lo stesso ruolo svolse Vittorio Sereni), fecero di tutto per agganciare i nostri autori al carro maestro della letteratura italiana, anche da un punto di vista editoriale: Giorgio e Giovanni Orelli, Felice Filippini e Angelo Casè, tra gli altri, poterono giovarsi di questi «favori» meritati. Nel caso della Felder, non desta sorpresa che un romanzo brillante e surreale come La disdetta, narrato dal punto di

vista di un gatto che fa il gatto, ma conosce le sinfonie di Brahms, giudica gli uomini da pari a pari, li adora e li irride, abbia toccato le corde di Calvino. Lo stravolgimento del punto di vista era ancora, dopotutto, una dichiarazione di letterarietà, un rimettere le briglie saldamente nelle mani dell’autrice. Da allora la produzione narrativa di Anna Felder è cresciuta con costanza, senza eccedere, anzi con grande garbo, più in direzione di una prosa breve, frammentaria, aneddotica, che non di quella del romanzo vero e proprio. L’incastro narrativo ha ceduto il passo, sempre più, al cesello di una scrittura che frettolosamente si potrebbe definire minore, per genere e ambizione, e che è invece maggiore in tutte le sue parti. Si prendano, se un nome va fatto, le Adelaidi pubblicate nel 2007 dalle Edizioni Sottoscala di Bellinzona: un piccolo libro di grande complessità stilistica, quasi allegorico nel suo insistito ragionare per simboli sulle dinamiche di relazione, sul limite, la malattia, l’essere uomo e l’essere donna, sulla complessità del vivere. La nuova laureata del Gran Premio svizzero di letteratura, che da anni si divide equamente tra il nord e il sud delle Alpi, tra l’italiano e il tedesco, ha depositato le sue carte presso l’Archivio svizzero di letteratura di Berna sin dal 2008. Anche quello un segnale inequivocabile di una forte consapevolezza della propria identità e dei propri mezzi; non una soluzione obbligata, ma una scelta che, come è avvenuto per altri autori italofoni della Svizzera (Giovanni Orelli e Alberto Nessi in primis), può avere un suo peso nel ridisegnare gli equilibri di una letteratura quadrilingue la cui esistenza, non senza ragioni, viene ciclicamente messa in discussione. Anche da questa prospettiva l’esempio di Anna Felder, tra dove piove e non piove, può essere di quelli da seguire.

Quando nel 1961 l’ex funzionario del Terzo Reich Adolf Eichmann fu processato dalle autorità israeliane per aver commesso crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l’umanità e crimini di guerra dichiarò più volte di «aver fatto il suo dovere, di aver obbedito non soltanto a ordini ma anche alla legge». Poi, man mano che il processo procedeva, sostenne una tesi, per certi versi, sconcertante. Disse «con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principi dell’etica kantiana (...) e con sorpresa di tutti (...) se ne uscì con una definizione più o meno esatta dell’imperativo categorico: “Quando ho parlato di Kant, intendevo dire che il principio della mia volontà deve essere sempre tale da poter divenire il principio di leggi generali”». Hannah Arendt, che, come è noto, seguì il processo come corrispondente del «The New Yorker» (i suoi articoli avrebbero composto poi il fondamentale La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme) non mancò di evidenziare come il criminale nazista avesse piegato «la formula kantiana» al suo volere: per Eichmann infatti la radice delle sue azioni non aderiva a una possibile legge universale, ma a quella di Adolf Hitler. Al di là della forzatura messa in atto dall’imputato, è però interessante notare come questi, per giustificarsi, chiamasse in causa nientemeno che il pensiero illuminista – certo uno dei più influenti per le epoche successive. Questa sua affermazione «veramente enorme» da un punto di vista ideologico sembra ora trovare, se non una corrispondenza, almeno un’assonanza con quanto sostenne uno dei grandi sociologi del nostro tempo: Zygmunt Bauman (Poznań, 1925 – Leeds, 2017). Recentemente scomparso a novantadue anni, Bauman, nel 1989, con lo sconvolgente saggio Modernità e Olocausto (il Mulino, 1992), come la stessa Arendt, Theodor W. Adorno e Emmanuel Levinas, ha fornito una chiave di interpretazione della Shoah che, tuttora, lascia attoniti per profondità di indagine: a suo avviso, contrariamente a quanto si sarebbe portati a credere, la politica dello sterminio nazista non nacque in seno alla barbarie, ma al mito della ragione; e, di conseguenza, l’Olocausto non rappresenterebbe una «temporanea deviazione dalla via maestra della civilizzazione», ma un prodotto – e un fallimento – delle «logiche della modernità». Nel mettere in luce i rapporti tra pratiche razziste e modernità, ecco che Bauman sottolinea il peso di quell’eredità che, estremizzata, assieme a una imponente burocratizzazione, avrebbe condotto la Germania al sogno della razza e al genocidio: «con l’illumini-

Un’intensa immagine di Zygmunt Bauman. (Keystone)

smo», leggiamo, «si era giunti all’incoronazione di una nuova divinità – la Natura – nonché alla legittimazione della scienza come suo culto ortodosso, e degli scienziati come suoi profeti e sacerdoti. Tutto, in linea di principio, era stato spalancato all’indagine oggettiva; tutto, in linea di principio, poteva essere accertato in termini affidabili e veritieri. Verità, bontà e bellezza, le cose esistenti e quelle auspicabili, erano divenute oggetto legittimo di sistematica e minuziosa osservazione». Considerata la «concezione dell’ingegneria sociale» del nazionalsocialismo come «compito scientificamente fondato mirante all’istituzione di un nuovo e migliore ordine» – un compito che comporta la cancellazione di ogni elemento disturbante – vediamo allora il razzismo, inteso come insieme di pratiche e non come mera xenofobia, trovarsi in sintonia coi principi di una razionalizzazione delirante, che rammenta i folli monologhi dei personaggi di Sade (non a caso, proprio mentre la Arendt scriveva il suo reportage, Jacques Lacan affrontò questioni simili in Kant con Sade). Bauman non intende mettere sotto processo la scienza né, tanto meno, quella sete di verità che contraddistingue lo scienziato; ma è fermo nell’indicare che un certo pensiero scientifico, con la sua indole manipolatoria, col suo porsi al di sopra delle emozioni, seppure involontariamente aprì la strada all’alienazione morale che caratterizzò la politica dello sterminio. È noto che senza gli apparati organizzativi, scientifici, tecnici e amministrativi della società moderna l’Olocausto non sarebbe stato lo stesso. Ciò non comporta che questi – i quali, ancora, regolano le nostre vite – debbano essere demonizzati perché portatori in nuce della devastazione; significa piuttosto che essi non possono essere considerati l’autonomo sistema di valori su cui fondare un ordine. È questo che a Bauman preme sottolineare: il pericolo non è scampato. Anche se la Shoah rappresenta un caso particolare, sorto da un insieme di complesse concause, la possibilità che fenomeni simili si ripetano è più che un’ipotesi (Primo Levi sosteneva che può sempre accadere – e forse, in altri modi, accade). Riflettendo sul progetto di un gruppo di scienziati che, nel 1966, fornì «un campo di battaglia elettronico ad uso dei generali impegnati nella guerra del Vietnam», Bauman si chiede, visti gli ultimi sviluppi delle tecnologie informatiche, quali ulteriori e raffinate atrocità l’uomo sarà ancora in grado di commettere alienandosi in nome dell’efficienza. Esiste forse un filo rosso che lega il massiccio impiego dei droni da guerra agli strumenti delittuosi della Seconda guerra mondiale?


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Cultura e Spettacoli

La musica nel cuore

Incontri A colloquio con il Maestro Markus Poschner, che insieme all’Orchestra della Svizzera italiana

lo scorso 18 gennaio ha vinto agli ICMA 2018 con il cofanetto Rileggendo Brahms Simona Sala La strada sembra essere quella giusta: l’Orchestra della Svizzera italiana (OSI), diretta dal Maestro Markus Poschner, grazie alla produzione del cofanetto Rileggendo Brahms, l’ha spuntata sulla Lucerne Festival Orchestra con Riccardo Chailly e sul Mariinsky con Valery Gergiev, piazzandosi al primo posto degli International Classical Music Awards 2018 nella categoria «DVD Performance». Un riconoscimento di altissimo valore per la formazione musicale, che in un momento cruciale come questo, ha saputo dimostrare la propria maturità e l’indiscutibile livello di competenza. Una produzione OSI sostenuta da Helsinn, partner internazionale OSI, pubblicata su due DVD da Sony Classical nel dicembre 2016: l’integrale delle Sinfonia di Johannes Brahms registrate dal vivo dalla RSI durante la prima stagione concertistica nella Sala Teatro LAC di Lugano. Rileggendo Brahms propone un’emozionante rilettura in chiave più cameristica dei lavori sinfonici brahmsiani, scavando in quelle che furono le intenzioni originali del compositore. A dirigere questo successo, ma prima ancora a volerlo, c’è stato sicuramente anche lui, il Maestro Markus Poschner, classe 1971, che tra le altre cose è stato definito geniale («Die Welt»). Fino all’anno scorso Generalmusikdirektor dei Bremerphilarmoniker, è attualmente attivo nel doppio ruolo di direttore principale dell’OSI e della Brucknerorchester, oltre che di direttore musicale del Landestheater di Linz (dove è succeduto a Dennis Russell Davies). È stato nominato professore onorario della facoltà di musicologia di Brema nel 2010. Lo definiscono un pigmalione, ma al suo cospetto il termine pare quasi riduttivo, poiché Markus Poschner è un concentrato di competenza ed entusiasmo, di amore per la musica e per il genere umano. Lo abbiamo incontrato poche ore dopo la notizia del Premio. Maestro Poschner, possiamo già parlare dell’incoronazione di una carriera a soli 46 anni oppure questo riconoscimento per lei rappresenta solamente un punto di partenza?

Credo che rappresenti entrambe le cose! Sono incredibilmente felice, anche perché abbiamo investito tutti molto in questo progetto, sia in termini di idee sia di energia. È una soddisfazione per tutta la squadra dell’OSI, per i musicisti, per la direttrice artistica Denise Fedeli e per lo staff, ma anche per la RSI che ha registrato dal vivo le quattro sinfonie di Brahms. Io sin dall’inizio ero innamoratissimo del progetto e credevo molto nell’orchestra, ma il fatto di essere capiti anche dal pubblico e dalla stampa è semplicemente meraviglioso. Spero che ora, dove tutti guardano al Ticino

Il Maestro Markus Poschner durante le prove con l’OSI. (Davide Stallone)

e a Lugano, l’orchestra riceva dei nuovi impulsi. Anche politicamente si tratta di una cosa importante.

Quali sono le ragioni che l’hanno avvicinata proprio a Brahms a livello personale?

Conosco molto bene le sinfonie di Brahms, e interpretare questi testi in modo nuovo è sempre stato il mio sogno. Brahms era un compositore europeo: nato ad Amburgo, si legò a Vienna, assimilando anche influssi ungheresi; inoltre lavorò molto su Couperin e sulla musica italiana di Scarlatti. Era insomma uno studioso e un musicista universale. In questa caratteristica di universalità io ritrovo molti aspetti della Svizzera italiana, terra piena di influssi dall’Italia, dalla svizzera tedesca e da quella francese, ma anche dalla Francia e dalla Germania. E l’OSI è un’orchestra particolare, dal respiro internazionale. In questo progetto i parametri musicali come il tempo, il fraseggio, la distribuzione delle parti, l’articolazione... la nostra grammatica musicale insomma, non sono che dettagli. La cosa importante è che noi abbiamo trovato la nostra lingua, abbiamo scoperto il nostro stile. Ci siamo fatti ispirare dall’esempio storico di Meiningen, poiché anche Brahms amava lavorare con una piccola orchestra in cui risaltasse l’aspetto cameristico. Al tempo di Brahms non esistevano le registrazioni. Come si affronta la ricerca delle modalità esecutive così come le desiderava Brahms per le sue sinfonie?

È vero, non abbiamo le registrazioni, ma

ci sono i resoconti dei suoi allievi, dei suoi recensori, di gente che lo conobbe: la letteratura in nostro possesso è davvero molta. Esiste inoltre una linea diretta: ogni musicista è stato allievo di qualcuno, il quale a sua volta è stato allievo di qualcun altro e risalendo si giunge fino al compositore in persona – in ambito artistico è infatti molto importante sapere su quali spalle si poggia. Anche per quell’epoca esiste una linea genealogica che, partendo da Brahms prosegue con Fritz Steinbach, per arrivare fino agli anni 20 del Novecento. A mio avviso uno degli aspetti più importanti riguardo alle modalità esecutive di Brahms è rappresentato dal cosiddetto «Freies Spiel» (suono libero, NdT).

Ci spiega meglio questo concetto cui fa spesso riferimento?

Innanzitutto vi è il testo, elemento fondamentale. Esso rappresenta la base della fase preparatoria, che deve essere solidissima: dobbiamo essere tutti sicuri della nostra parte, e io devo avere la consapevolezza che quanto faccio sia giusto. Sul podio però devo essere libero... e questa libertà è più facile con la flessibilità di un’orchestra piccola. Seguendo il modello di Brahms suoniamo dei tempi diversi, e raccontiamo una storia. Quanto è grande il suo senso di responsabilità nei confronti di Brahms, dei musicisti e non da ultimo del pubblico?

Le notti insonni non si contano... (ride) e ovviamente ci sono momenti in cui ho molta paura. Un conto è avere un’idea, una visione, e crederci, un conto è

metterla in pratica. Io ho cominciato a riflettere su queste cose fin da bambino, e la fantasia si è sviluppata sull’arco di anni. Ho cercato di rendere giustizia a Brahms e al suo testo con grande precisione, ma soprattutto cercando di capire cosa mi volesse dire. Lui stesso sosteneva che l’interprete deve liberare la fantasia, Brahms era anche un pianista, e quindi anelava alla libertà. Abbiamo molte lettere in cui i suoi solisti gli chiedevano come interpretare certi passaggi. In risposta a Jószef Joachim ad esempio, Brahms citava il Faust: «Wenn ihr’s nicht fühlt, ihr werdet’s nicht erjagen», (Se non riesci a sentirlo/provarlo non lo capirai, NdT). Credo che alla fine la straordinarietà di questi testi risieda proprio nel fatto che devono essere interpretati.

Questi diversi livelli di lettura sono possibili per tutte le opere musicali?

Certamente, pensiamo a Bach, che rappresenta l’equilibrio ottimale tra forma e contenuto. A livello «superficiale» nelle sue opere, così perfette, troviamo matematica e fisica, momenti di simbolismo e l’ordine del mondo. Ma questa è, per così dire, solo la barca in cui ci si siede, poiché la direzione verso la quale si naviga è nei nostri cuori. Nei compositori c’è una tale quantità di amore e di comprensione per il genere umano, e ognuno lo esprime a modo suo... se Mahler grida tutto quello che ha dentro, a volte al pari di una fantasia, altri compositori comprimono in modo aforistico, e la composizione è come un’implosione. Alla fine però è come nella pittura: il numero dei colori utilizzati o le dimensioni del pennello sono dettagli indifferenti, si deve raccontare una storia, imballare un’emozione. Io sono convinto che in tutte le grandi opere si trovino bellezza e verità. In Rileggendo Brahms parte del lavoro di ricerca si è svolto sul compositore stesso. Secondo lei quanto è importante conoscere la biografia dei compositori per comprenderne a fondo l’opera?

L’OSI durante le prove all’Auditorio RSI: altre foto si trovano su www. azione.ch. (Davide Stallone)

A me piace sapere il più possibile sul pensiero dei compositori o su che tipo di persone fossero, ma non sempre la biografia di un compositore rivela nuove informazioni riguardo a un’opera o viceversa. Pensiamo a Bruckner: era un misantropo solitario, ingenuo e cattolico, ma la sua musica è completamente diversa. O a Mozart che, nel periodo più buio della sua vita, dopo la morte della

madre, scrisse la musica più magnifica, più allegra. Mahler invece seppe riversare nella musica tutto il dolore per la moglie Alma e per la sua situazione di ebreo a Vienna nel 1907, dove da direttore della Hofoper veniva attaccato duramente.

Lei è anche un ottimo pianista jazz.

Per me il jazz è sinonimo di libertà. Credo rappresenti un’esperienza fondamentale per ogni musicista, poiché costringe a suonare ciò che si sente dentro, contrariamente alla musica classica, che è ancorata a dei testi. Eppure i testi classici vanno studiati a fondo, perché solo così nel momento in cui si passa al jazz si diventa liberi. Il jazz offre la fantastica possibilità di conoscersi e di confrontarsi con le domande importanti per ogni artista, «Cosa c’è in me? cosa posso raccontare?»

È interessato anche ad altri generi musicali oltre al jazz e alla classica?

Io non posso pensare per compartimenti stagni, poiché per me tutto è musica. Quando a Charlie Parker chiedevano come si chiamasse la sua nuova musica, poiché non era né swing, né charleston né ragtime, la sua risposta era «Let’s call it music!» (Chiamiamola musica!, NdT). Di nuovo, la lingua non ha alcuna importanza, conta quello che si vuole raccontare e come lo si vuole raccontare. Ci sono molte cose interessanti che si potrebbero mescolare. Gli incredibili Sketches of Spain di Miles Davis ad esempio potrebbero essere combinati in modo meraviglioso con musica francese come quella di Debussy. A intervalli regolari si sente dire che il mondo della musica classica sia in crisi poiché non vi è un vero e proprio ricambio generazionale tra il pubblico.

Il concerto è una specie di rito di cui riconosco l’importanza: come in un tempio ci sono dei codici di abbigliamento e comportamentali, degli orari da rispettare, una programmazione strutturata, e questo da duecento anni. Per quanto apprezzi questa formula, credo che dobbiamo riflettere: devono esistere altri modi di presentare della musica tanto grande, forse possibilità addirittura migliori... In questi giorni con OSI e Denise Fedeli stiamo discutendo molto intensamente della nostra situazione politica che – nonostante le sfide – ci ha messo anche in una posizione di grande, nuova libertà grazie alla quale prendiamo in considerazione nuovi formati e nuove idee.


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Cultura e Spettacoli

Antonio Barracano: un guappo o un capoclan?

Teatro Il sindaco del rione Sanità secondo Mario Martone al Piccolo Teatro Grassi di Milano

McDonagh, meccanismi eccellenti Cinema Trionfo

ai Golden Globes e Oscar annunciato

Giovanni Fattorini Da trentacinque anni il settantacinquenne Antonio Barracano fa da giudice e paciere nel rione Sanità, uno dei quartieri più popolari della vecchia Napoli. In gioventù ha commesso un omicidio di cui non si è mai pentito perché l’ucciso era un’autentica «carogna». L’assoluzione per legittima difesa, ottenuta grazie alla deposizione di testimoni prezzolati, lo ha portato a diffidare dei tribunali. Ha deciso pertanto di amministrare privatamente la giustizia per evitare che i poveri e gli ignoranti possano essere condannati pur avendo ragione, o che si facciano giustizia da soli, dando origine a una serie di ritorsioni e vendette sanguinose. A tal fine si vale della collaborazione quasi forzata di un medico – il dottor Fabio Della Ragione – che pur non pensandola esattamente come lui offre assistenza clandestina a chi non può presentarsi in ospedale dopo essere stato accoltellato o colpito da un proiettile. Mortalmente ferito nel tentativo di comporre un aspro dissidio familiare, per scongiurare ancora una volta l’innesco di una catena di vendette Barracano disporrà in modo da far credere – con la complicità del medico – di essere deceduto per collasso cardiaco. Ma il dottor Della Ragione, rifiutando questo modo di intendere la giustizia, deciderà di redigere un veridico atto di morte, augurandosi – diversamente da don Antonio – che la violenza abbia libero corso: da essa, forse, potrà nascere il mondo «meno rotondo e un po’ più quadrato» per cui Barracano aveva inutilmente combattuto. Nel 1990, conversando con Gerardo Guerrieri, Eduardo De Filippo disse che per la figura del protagonista aveva tratto spunto da un personaggio realmente esistito. «Si chiamava Campoluongo. Era un pezzo d’uomo bruno. Teneva il quartiere in ordine. Venivano da lui a chiedere pareri su come si dovevano comporre vertenze nel rione Sanità. [...]

Fabio Fumagalli **** Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri), di Martin McDonagh, con

Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, Peter Dinklage (Stati Uniti 2017)

Una momento della pièce, che sarà in scena fino al 28 gennaio. (Mario Spada)

Questi Campoluongo non facevano la camorra, vivevano del loro mestiere, erano mobilieri». Chi era dunque Luigi Campoluongo? Era un pre-camorrista, un guappo, come lo è Antonio Barracano, che persegue la pace e la giustizia, ricorrendo anche all’intimidazione, in una zona che tiene sotto controllo. In un’intervista del ’79 (realizzata, cioè, diciannove anni dopo la composizione del dramma), Eduardo disse che don Antonio era una figura negativa; positiva era quella del dottor Fabio Della Ragione (personaggio dal fin troppo esplicito e programmatico cognome). Che nel ’60 lo giudicasse però in modo non del tutto negativo lo dimostra il fatto che la scena finale allude abbastanza chiaramente all’episodio evangelico dell’ultima cena, e che Barracano è visto come un Cristo tradito e sacrificato. Adottando la formula – così abusata, così logora – dell’avvicinamento temporale, Mario Martone ha ambientato la vicenda ai giorni nostri. Antonio Barracano (Francesco Di Leva) è ora un uomo fra i trentacinque e i quarant’anni. Ha barba e capelli neri; un corpo agile e tonico che tiene quotidianamente in

esercizio; un abbigliamento da macho modaiolo (pantaloni neri, camicia e gilet di pelle lucida). L’ampio soggiorno luminoso della sua casa di Terzigno è diventato una pedana quadrata con rari mobili di vetro e acciaio, senza pareti e circondata dal buio. Nella casa del rione Sanità, lo spazio e il mobilio sono gli stessi, ma poltrone e divano sono coperti da teli dorati: segni pacchiani di una ricchezza che si fatica a credere derivante dal possesso degli edifici e dei terreni di cui Barracano parla a Santaniello. Si è portati a credere, invece, che sia frutto di attività illegali. L’eloquio di don Antonio è quasi sempre aggressivo; i suoi gesti sono a tratti violenti (come quando non si limita ad assestare uno schiaffone al feritore di Palummiello, ma lo riempie di pugni mentre due dei suoi uomini lo tengono fermo). Uno spettatore seduto alle mie spalle a un certo punto ha sentenziato: «è una gomorrata». La suggestione esercitata dalla serie televisiva è in effetti palese. I fatti cruenti che nel testo di Eduardo sono soltanto raccontati, nello spettacolo di Martone o sono esposti a voce ma con gesti fortemente mimetici (l’uccisione di Gioachino per mano del

giovane Antonio), o sono esplicitamente rappresentati (il ferimento di Palummiello con un colpo d’arma da fuoco; l’accoltellamento di Barracano, eseguito però con una lama invisibile, per evitare, suppongo, l’accusa di naturalismo). Le contraddizioni più gravi derivano dal fatto che Martone (se si esclude il taglio del monologo finale del dottor Della Ragione, eliminato, penso, perché il suo augurio, nel corso del tempo, si è concretizzato in una incessante guerra di camorra) ha mantenuto sostanzialmente inalterato il testo eduardiano. Il risultato è che Barracano esprime pensieri da guappo «signorile» del 1960 e ha gesti e atteggiamenti da capoclan del 2017. Il Barracano di Eduardo è una figura del passato. Ringiovanito di molto, e sottoposto a un parziale «ammodernamento» per non risultare del tutto inverosimile nella Napoli odierna, è diventato un personaggio incongruente e ben più che improbabile. Dove e quando

Milano, Piccolo Teatro Grassi, fino al 28 gennaio.

Pubblico in sala e scena vivace fra proposte innovative e tradizione In scena Dalle scene infernali di Dopo la fine allo humour di Cainero, passando per Longo Giorgio Thoeni Recentemente abbiamo assistito a tre debutti consecutivi e le sale, di diversa capienza, erano piene: un chiaro segno che nella nostra regione il teatro gode di buona salute grazie a proposte che hanno assunto credibilità da parte di un pubblico eterogeneo. Cominciamo dal Teatro Foce di Lugano con Dopo la fine al suo debutto, uno spettacolo del Progetto Brockenhaus in coproduzione con LuganoInScena per la rassegna Home. La compagnia, creata nel 2008, ha incentrato la sua ricerca sul teatro di movimento in cui si inseriscono la danza, la musica e le arti visive. Con questa proposta la cifra stilistica assume una valenza particolare con un progetto ispirato alla Commedia dantesca la cui ideazione e regia è della danzatrice e coreografa Paola Lattanzi, artista di punta della scena contemporanea, che per l’occasione ha condiviso la scena con Elisabetta Di Terlizzi, Piera Gianotti ed Emanuel Rosenberg, fondatori della compagnia con Francesco Manenti. Sulla tavolozza c’è il disegno delle ombre dantesche, anime dei dannati, corpi in perpetuo movimento e in costante interazione in un affascinante e ipnotico connubio di

La locandina dello spettacolo ideato da Feruccio Cainero.

fisicità, dove a farla da padrone ci sono Lattanzi e Di Terlizzi, fuoriclasse in ambito coreografico e in continuo dialogo con Gianotti e Rosenberg; rappresentano anche due formazioni artistiche differenti ma unite in un’unica arena quadrangolare dove i corpi dei peccatori si annodano, si attraggono e si respingono, circondati dal coro delle ombre (studenti del CSIA): è l’argine misterioso di

mancate fughe dal girone dei demoni, dei seduttori. I quattro corpi protagonisti danzano, lottano, compongono quadri ora scultorei ora atletici; alimentano il fiato dell’anima in un diabolico e ostentato respiro senza soluzione di continuità. Impossibile dissociare le immagini proposte nello spettacolo da personaggi che sembrano strappati dai bassorilievi della porta infernale di Rodin oppure dalle cupe illustrazioni della Commedia di Gustavo Doré. L’atmosfera, utilizzando un ossimoro, è lievemente pesante, la messa in scena è l’infernale fatica di quattro anime su cui emerge l’indiscutibile classe di Paola Lattanzi accanto all’esperienza di Elisabetta Di Terlizzi. Personalità artistiche significative affiancate con bravura da Piera Gianotti e Emanuele Rosenberg in un’ideale sintonia. Un girone avvolto dai tappeti musicali di Teho Teardo con i pittorici costumi di Laura Pennisi. Un deciso cambio di registro con il debutto al Sociale di Bellinzona di Ferruccio Cainero per il suo Pirandello Pipistrello. Accompagnato dalla fisarmonica di Danilo Boggini, nello stile dell’affabile raccontatore che gli riconosciamo, il monologo nato lo scorso anno all’Università di Zurigo per accompagnare un simposio dedi-

cato all’autore siciliano, si muove in una dimensione fra il colto e l’autobiografico giocando sulle tematiche pirandelliane che si agitano come il volo disordinato e nervoso di un pipistrello: lapsus di gioventù dell’attore che l’ha confuso con il nome del mammifero alato. Ecco i tratti di una personalità eclettica, che denuda maschere di uno, nessuno e centomila lungo un’esistenza controversa e circondata da invenzioni memorabili. L’universo pirandelliano prende così forma fra confessioni in stand-up e letture al tavolino in un’atmosfera piacevolmente famigliare. Last but not least, questa volta nella sala del Cortile di Viganello, dove Emanuele Santoro ha proposto il primo appuntamento con Dieci, récital a due voci e in tre parti sui dieci comandamenti secondo la raccolta di racconti di Andrej Longo. Una lettura scenica tradizionale che prevale sulla dimensione teatrale a fronte di una scrittura cinematografica. La prosa di Longo sui bassi napoletani, fra «merdilli» e «malaffare», si scosta dai personaggi della Gomorra di Saviano con dialoghi serrati e prosa sintetica che si lascia ascoltare dalle voci dall’efficace coloritura di Roberto Albin con Emanuele Santoro.

Averne, di opere prime come questa. Lo si diceva già nel 2009, a proposito di Martin McDonagh e del suo primo lungometraggio, In Bruges: un giovane drammaturgo, destinato a diventare uno degli eredi di Harold Pinter, nato a Londra, ma di origini irlandesi. Con un cortometraggio, Shooter, aveva addirittura vinto un Oscar nel 2005; nel quale, dietro la maestria dei dialoghi tipica dell’autore teatrale, già s’intuiva il nerbo visuale del cineasta. Questo Tre manifesti sembra nato nel senso contrario. Non tanto per la sua storia: quella di Mildred, esausta ma indomita, dopo mesi in attesa che qualcosa si sappia della figlia, stuprata, e quindi uccisa selvaggiamente da uno sconosciuto. Con i pochi risparmi, Mildred affiggerà tre enormi cartelloni pubblicitari lungo una strada del tranquillo Missouri, allo scopo di denunciare l’indolenza della polizia. Una situazione tragica, a suo modo già vista, ma, come in tutto il cinema che conta, a fare la differenza è il modo di rappresentarla. Pur mantenendo una progressione che mai si diparte dalla logica, il film è a ogni istante meravigliosamente imprevedibile. Frances McDormand (sarà impossibile non assegnarle l’Oscar) è la madre in cerca di giustizia, immensa nella propria cocciuta risoluzione. Riservata nella sua sofferenza; ma nemmeno lei, in questa faccenda, indiscutibilmente buona o innocente. Così come lo sceriffo Woody Harrelson, di certo non infame; e il suo assistente Sam Rockwell, poliziotto becero e violento. Entrambi memorabili, sembrano collocati su una scacchiera stravagante, come a farci dubitare di buoni e cattivi. A somiglianza di tutti i suoi personaggi, il tono del film (e quindi il suo significato più intimo) è allora sempre conseguente ma, in un’evoluzione deliziosamente imprevedibile, si fa comico e tragico, paradossale e realista, lucido e sarcastico. Certo, dietro a ogni immagine risalta la denuncia di una violenza rozza, di un persistente maschilismo che minaccia la nostra epoca: ma le intenzioni sono sfumate da toni cangianti che rimandano a diversi generi, dal noir al western, passando per la commedia. Così, nel tono vendicativo iniziale se ne inseriscono via via di grotteschi, talvolta tragici, a tratti spassosi. Una meccanica enorme e sapiente, quella assemblata da Martin McDonagh, che avrebbe anche potuto travolgerlo. Succede, al contrario, con le certezze dei personaggi e con le nostre.

Frances McDormand in odore di Oscar.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Adriano, lunga vita a noi! Lo scorso 6 gennaio Adriano Celentano ha compiuto 80 anni, io qualche mese prima. Oltre l’età abbiamo in comune la paura, possiamo sottoscrivere l’affermazione dell’autore del Leviatano, Thomas Hobbes: «La paura è il mio gemello». Adriano ha paura di salire su un aereo, di inoltrarsi nelle gallerie stradali e ferroviarie. In viaggio con una troupe in vagone letto da Milano a Parigi, il treno sosta a Domodossola, Adriano si sveglia, esce sul corridoio, abbassa il finestrino per farsi rassicurare da un ferroviere: «Sono già passate le gallerie, vero?». L’altro, con legittimo orgoglio: «State per entrare nella galleria del Sempione, la più lunga d’Europa». Risultato: tutti giù dal treno in pigiama alla ricerca di un albergo, qualcuno a Parigi andrà alla stazione a raccattare i bagagli. Roma, ingresso artisti del teatro delle Vittorie, sta per andare in onda una puntata di Fantastico e quando già è partita la sigla arriva dall’Hilton la Mercedes con Adriano già in costume di scena. Il tempo di aprire la portiera di destra e un fan attempato gli

si butta addosso implorando: «Adriano, fammi entrare, fammi fare qualcosa!». Cerco di liberarlo dall’abbraccio e lui mi ordina: «Fallo entrare, fagli un contratto da figurante». Eseguo, naturalmente. A bocce ferme, commentando la puntata gli chiedo che bisogno c’era di scritturare quell’esagitato. «Non voglio fare la fine di John Lennon». In una delle rare volte in cui si andava al ristorante, al suo arrivo il titolare impazziva di felicità e gli preparava un meraviglioso pesce al forno dopo averglielo fatto scegliere da un vassoio. Una volta cotto, il pesce gli veniva servito già spinato a dovere. Adriano tormentava quella polpa bianca con i rebbi della forchetta e lo passava a me, che prevedendo il gesto, mi ero seduto alla sua destra: «Tieni, mangialo tu». Alla domanda «Perché non l’hai voluto?» replicava con un’altra domanda: «E se una lisca s’infilava in gola?». Io sono un catastrofista, prevedo disastri a ripetizione, prima di coricarmi controllo la manopola del gas di cucina, al cinema mi siedo vicino

a un’uscita di sicurezza e non prendo mai ascensori, dopo che una volta sono riuscito a bloccarne uno fra un piano e l’altro con la sola forza del pensiero. Su un aspetto fondamentale siamo in netta opposizione e per definire le nostre due polarità ci facciamo aiutare da James Hillman: «Senex e Puer, forniscono l’archetipo per la fondazione psicologica del problema della storia». Adriano è un Puer Aeternus io sono un Senex Aeternus. Cominciamo da Adriano. «Il Puer non sopporta la tortuosità, il tempo e la pazienza. Non conosce le stagioni e l’attesa, e quando deve riposare o ritirarsi dal centro dell’azione sembra fissato in uno stato atemporale, ignaro del passare degli anni, non in sintonia con il tempo». Fra un’uscita pubblica e l’altra Adriano vive isolato, lontano dalla ribalta, nella sua villa di Galbiate. Adriano ha sempre vent’anni, ne compiva 50 in coincidenza con l’ultima puntata di Fantastico trenta anni fa e ha proibito a noi autori di celebrarlo. «Il Puer non comprende il movimento avanti e indietro, da destra

a sinistra, dentro e fuori, che favorisce la sagacia nel procedere passo passo attraverso la labirintica complessità del mondo orizzontale». Qui la parola chiave è «complessità». In uno dei suoi monologhi attaccò frontalmente l’impiego della chimica nell’agricoltura parlando della «mela avvelenata». Volevo fargli leggere un dossier sugli anti parassitari che avevano permesso di sfamare il Terzo Mondo ma lui respinse l’offerta: «Mi vuoi solo confondere le idee». Ancora: «Il Puer può cercare e rischiare; possiede intuizione, gusto estetico, ambizione spirituale, tutto, ma non psicologia». Passiamo ora alla polarità Senex, la mia: «I nostri atteggiamenti puer non sono legati all’età giovanile e le nostra qualità senex non sono tenute in serbo per la vecchiaia. (...) Il Senex più maturo della sua età, desideroso di riconoscimento da parte dei più anziani è intollerante della propria giovinezza». Non vedevo l’ora di invecchiare, ho salutato con gioia i primi capelli bianchi, per conformismo mi sforzavo di modellare i miei com-

portamenti a quelli dei miei coetanei. Dovevo fare il cascamorto con tutte le nostre compagne mentre l’unica che mi piacesse non mi degnava di uno sguardo. «Il temperamento del Senex è freddo, una freddezza che può esprimersi anche come distanza». Non dico di non averci provato, ma non sono mai riuscito ad appassionarmi a una causa. Schiacciato dal senso del dovere, ho sempre solo inseguito «la possibilità di perpetuarmi mediante l’abitudine, la memoria, la ripetizione e il tempo». Torniamo al Puer con un’ultima citazione da Hillmann: «Del resto il Puer non è destinato a camminare, ma a volare». Adriano vola e ha venduto milioni di copie dei suoi dischi. Il mio passo è «lento, pesante, plumbeo» e dei miei libri, scritti con molta fatica, ho venduto negli anni qualche migliaio di copie. In compenso la paura è un elisir di lunga vita, Thomas Hobbes da cui siamo partiti è morto a 91 anni. Era nato nel 1588, quando la vita media era inferiore ai 40 anni. Buon compleanno, Adriano. E lunga vita a entrambi.

ingiustizie da colmare, come quando si ricordano martiri ed eroi nei vari giorni della memoria. Non ci sono persone da festeggiare, come nella giornata dedicata ai nonni o agli innamorati, o ai single (è il 15 febbraio, Santi Faustino e Giovita, il giorno dopo San Valentino). E poi, perché insistere sulle malinconie di gennaio, e invece non proporre la festa dei crochi e dei bucaneve, della polenta col gorgonzola, dei piumoni coi copripiumoni colorati: tutte realtà che richiamano gennaio, sono alla portata di tutti, non creano sgradevoli differenze. Perché si potrebbe anche festeggiare la giornata del salto con gli sci dal trampolino, o delle vacanze alle Maldive, o del fuoco nel camino dello chalet, ma non tutti possono saltare con gli sci, non tutti possiedono chalet e vanno in mari così scomodi da raggiungere. Il croco e il bucaneve, invece, chi non ne ha mai visti, la bancarella qui in piazza li espone già da un po’. Dicono che sia tutta una questione di soldi, come

sempre. Che uno psicologo di un’università inglese abbia ricevuto l’incarico di scoprire quando il mondo è più malinconico per poter lanciare in quel momento le campagne pubblicitarie di viaggi esotici. Che con un algoritmo (?) costui abbia deciso che per l’emisfero boreale il giorno più triste dell’anno è il terzo lunedì di gennaio. Le agenzie di viaggi forse hanno incrementato lanci pubblicitari e vendite, suscitando invidia negli altri commercianti, che hanno quindi diffuso la «festa» del blue day, nella speranza un domani di vendere caramelle blu, fiori blu, occhiali scuri per mascherare la tristezza, antidepressivi, alcolici, dolciumi, tutto ciò che possa aiutare a scacciare la malinconia, ben sapendo che, per almeno metà degli abitanti dell’emisfero del nord del mondo, la miglior terapia è lo shopping, capace di cancellare con un sol colpo di carta di credito ogni ombra dal volto delle eventuali vittime del blue day. E pensare che la malinconia nasce come

segno di grandezza d’animo. Secondo Oscar Wilde, si impara a essere malinconici, infatti l’umanità tutta è in grado di farlo solo dopo che Shakespeare le ha regalato il primo e più grande uomo blue, Amleto. In verità un secolo prima Albrecht Dürer aveva inciso Melancholia I (non so perché I, se non per far produrre ai posteri numerose Melancholia II), il ritratto di un bellissimo angelo circondato da simboli matematici e alchemici, nonché da strumenti di lavoro inutilizzati, perché l’uomo blue sa molto, soffre molto, non agisce per niente. Insomma, l’uomo malinconico se lo deve poter permettere, di sapere, soffrire e non agire, non deve avere preoccupazioni economiche e nemmeno di famiglia o di salute, tolte le manifestazioni di ipocondria proprie degli uomini tristi (forse per questo i dannati dell’Acheronte nella sala d’aspetto non erano particolarmente turbati dal blue day, avevano altro per la testa). Crochi e bucaneve?

troppo profondamente». Solo dal ’54 l’Einaudi avrebbe stampato memoriali sulla persecuzione, a cominciare dal Diario di Anna Frank. Insomma, a Levi non restò che rivolgersi altrove. Tentò invano la via americana in traduzione attraverso una cugina che abitava nel Massachusetts. Il consiglio giusto arrivò dalla sorella, Anna Maria, che diede in lettura il dattiloscritto, ormai accresciuto e ampiamente rivisto, all’amico storico e magistrato Alessandro Galante Garrone, il quale il 28 marzo 1947 lo passò all’editore e intellettuale umanista Franco Antonicelli. Anna Maria, Alessandro, Franco: era un giro di amicizie legate da esperienze comuni nella Resistenza. Antonicelli, dopo aver ideato la pionieristica «Biblioteca europea» della Frassinelli, aveva fondato nel 1942 la casa editrice De Silva e lì accoglie il libro di Levi. Il titolo suggerito dall’autore è I sommersi e i salvati (destinato a diventare il titolo dell’ultimo libro, apparso nel 1986, l’anno prima

della morte per suicidio), ma Antonicelli sceglie un’espressione presente nella poesia d’apertura: Se questo è un uomo. Finito di stampare l’11 ottobre 1947, viene tirato in 2500 copie accompagnate da un volantino: «Questo libro non è stato scritto per accusare, e neppure per suscitare orrore ed esecrazione. L’insegnamento che ne scaturisce è di pace: chi odia, contravviene ad una legge logica prima che ad un principio morale». Il memoriale di Levi venderà 1400 copie, finché nel 1951 la De Silva verrà assorbita dalla Nuova Italia che alla richiesta di ristampa da parte dell’autore, replica che 600 copie giacciono ancora in magazzino: sono le stesse che nel ’66 finiranno sotto il fango dell’alluvione di Firenze. Umberto Saba il 3 novembre 1948 aveva inviato una lettera al «caro Signor Primo Levi» esprimendogli gratitudine e affetto per aver scritto quel libro «fatale»: «Fosse nelle mie possibilità, lo imporrei come testo scolastico», aggiungeva il poeta triestino. In una riunione einaudiana

del 23 luglio 1952, il redattore Paolo Boringhieri riferisce che Levi propone la ristampa del suo libro, ma Giulio Einaudi obietta che, essendo già apparso presso un altro editore, «non avrebbe nessuna possibilità di successo». L’11 luglio 1955, dietro l’ennesima domanda di Levi, l’Einaudi accetta finalmente di pubblicare Se questo è un uomo che uscirà, dopo tre lunghi anni e «dopo dieci anni di morte apparente» (parole dell’autore), nel giugno 1958 in 2000 copie nella collana dei «Saggi» e con una copertina di Bruno Munari. Altrettante copie usciranno nel febbraio 1960 e altrettante ancora nel 1963, l’anno della rinascita dopo la «morte apparente». Ultime pubblicazioni su Levi: Album Primo Levi, a cura di Roberta Mori e Domenico Scarpa, Einaudi (6–); numero monografico della rivista «Riga», marcos y Marcos (5½); Ian Thompson, Una vita, Utet (5+); Giovanni Tesio, Primo Levi, ancora qualcosa da dire, interlinea (5). Sì, molto ancora da dire.

Postille filosofiche di Maria Bettetini Ad essere blue si impara Con lo sguardo rassegnato, insieme ad altri compagni di sventura, attendo di poter espletare le pratiche necessarie per un esame medico di routine. Si sente nell’aria la stessa allegria che doveva esserci sulla riva dell’Acheronte, quando Dante vide le anime dei dannati aspettare il loro turno per essere traghettati davanti a quel pezzo di pane di Minosse, il giudice che «stavvi orribilmente, e ringhia». Nella grande sala d’aspetto, alcuni schermi svolgono la duplice funzione di chiamare i numeri dei fortunati che possono espletare e insieme di intrattenere con le notizie del giorno coloro che ancora attendono la barca di Caronte. Apprendiamo così, con misurato sconcerto, che quel giorno, il 15 gennaio, era il Blue Monday, ossia «il giorno più triste dell’anno». Un toccasana per le decine di azzoppati, influenzati, sciancati che stanno trascorrendo nelle sale d’attesa dell’ospedale la loro giornata: non si perdono nulla, tanto è già il giorno più triste. Nessuno

sembra particolarmente rallegrato dopo aver appreso di essere nel bel mezzo di una giornata blue, che a ben vedere significa «malinconica» più che triste. Forse consideravano di aver già avuto abbastanza della loro parte di blue trovandosi in ospedale, fuori un plumbeo cielo di gennaio, ed era pure un lunedì. Pare infatti che questi siano alcuni degli elementi che hanno dato la vittoria del blue day al terzo lunedì di gennaio. Gli altri sarebbero la lontananza da feste passate e future, la mancanza di denari del dopo-feste, l’impressione di aver già fallito nel perseguimento dei buoni propositi per l’anno nuovo. Vogliamo aggiungere un’influenzetta? Qualche nuovo chilo non ancora smaltito? Non occorreva essere in ospedale il 15 gennaio per avere in corpo delle sensazioni non proprio gradevoli. Sì, d’accordo, ma perché festeggiare questo bello stato di cose con un giorno dedicato? Perché accanirsi, fustigarsi, appesantirsi? Non ci sono

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Levi, molto ancora da dire Sessant’anni fa, nel giugno 1958 la casa editrice Einaudi pubblicò Se questo è un uomo, il libro di Primo Levi che oggi consideriamo un classico della Shoah. Anzi, il classico della Shoah, in cui Levi racconta la sua deportazione nel campo di sterminio di Auschwitz. Sono passati sessant’anni, quel libro ha venduto milioni di copie nel mondo, tradotto in tutte le lingue, e non cessa di vendere. Eppure, la sua storia editoriale fu accidentata e faticosa. Nel gennaio 1947 il libro è concluso, dopo una elaborazione rapidissima durata poco più di un anno e portata avanti quasi in uno stato di trance, di giorno e di notte. Levi affida cinque episodi a un settimanale comunista di Vercelli, «L’amico del popolo», dove si annuncia un libro di prossima pubblicazione intitolato Sul fondo. Il titolo è ancora incerto e tale rimarrà fino all’ultimo. Levi invia il dattiloscritto ad alcuni «grossi editori», tre o quattro, ma la sua prima scelta è l’Einaudi, la casa editri-

ce torinese che ha subìto gravi lutti a causa del nazismo, a cominciare dalla morte del fondatore Leone Ginzburg nelle carceri di Regina Coeli in seguito alle torture. Sua moglie, Natalia, lavora all’Einaudi come redattrice, anche lei una Levi, anche lei di origine ebraica. Primo le consegna il plico personalmente, ma quando alcuni giorni dopo torna in casa editrice Natalia gli comunica che il libro è stato respinto. A quella decisione ha partecipato anche Cesare Pavese, braccio destro dell’editore: si pubblicano troppi libri sui lager e l’Einaudi preferisce pensare al futuro. Quarant’anni dopo, la Ginzburg avrebbe ricordato: «Il libro mi aveva colpita e commossa, lo passai a Cesare Pavese con un giudizio positivo. Pavese lo mise da parte, rinviando la decisione. Mi rimprovero di non aver insistito, di essere stata frenata dal pudore di spingere Se questo è un uomo per ragioni, come dire, di famiglia, di commozione personale nei confronti di una vicenda che mi coinvolgeva


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Idee e acquisti per la settimana

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Novità Per gustare prodotti di qualità superiore non bisogna fare molta strada. All’Angolo del Buongustaio di Migros

Ticino si trovano infatti le migliori prelibatezze accuratamente selezionate dai nostri specialisti

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Nelle prossime settimane in queste pagine pubblicheremo regolarmente interessanti informazioni su questa nuova proposta di Migros Ticino.

Cos’è l’Angolo del Buongustaio?

L’Angolo del Buongustaio è un nuovo spazio dedicato all’alta gastronomia, situato all’interno dei reparti macelleria di Migros Ticino, dove viene proposto un ventaglio di specialità, tutte appositamente selezionate dai nostri esperti, di qualità eccelsa ad un prezzo giusto. I prodotti proposti sono lo specchio dei valori fondamentali di Migros Ticino: artigianalità, sostenibilità, cultura gastronomica, tradizione e produzione responsabile. Quali sono le proposte?

La proposta gastronomica dell’Angolo del Buongustaio dà prima di tutto la precedenza ai prodotti regionali, in secondo luogo a quelli di provenienza svizzera ed, infine, ad alcune chicche culinarie della vicina Penisola e della Francia. La scelta spazia, solo per citare alcune prelibatezze, dalla carne fresca e dai salumi di maiale nostrano allevato in Ticino, alla carne di manzo

di razza Black Angus svizzera; dalla carne di vitello TerraSuisse ai salumi tipici della Mesolcina, fino al prosciutto di Parma stagionato 30 mesi e al lardo di Colonnata. Ovviamente sono presenti anche i formaggi più tipicamente ticinesi, la raffinata gastronomia pronta da gustare e le sfiziose proposte di pane e pasticceria, autentici emblemi della freschezza e della qualità Migros. Dove si trova?

L’Angolo del Buongustaio sarà implementato gradualmente presso i reparti macelleria dei supermercati Migros di Agno, Ascona, Arbedo-Castione, Bellinzona, Biasca, Cassarate, Crocifisso, Giubiasco, Grancia, Locarno, Lugano, Mendrisio, Mendrisio Sud, Minusio, Paradiso, Pregassona, Radio, S. Antonino, Serfontana, Solduno, Taverne e Tesserete. I prodotti saranno facilmente riconoscibili grazie al caratteristico logo di color verde.


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Idee e acquisti per la settimana

Un ortaggio che stuzzica

Attualità Le cime di rapa arricchiscono la cucina invernale e permettono di preparare deliziosi piatti della grande

tradizione italiana. Le trovate ora alla Migros in tutti i reparti frutta e verdura

Le cime di rapa sono un ortaggio molto diffuso in Italia, soprattutto in alcune regioni del sud, come Puglia, Campania, ma anche Lazio, dove si concentra anche la quasi totalità delle coltivazioni. Questi ortaggi, appartenenti alla famiglia delle crucifere, si contraddistinguono per il loro caratteristico sapore genuino, leggermente piccante, dalla nota piuttosto amarognola. La raccolta avviene quando non sono ancora completamente mature, prima che i fiori possano sbocciare. Si raccoglie il gambo con attaccate le foglie più tenere. In cucina le cime di rapa sono l’ingrediente essenziale delle celebri orecchiette baresi (vedi ricetta), ma si possono anche gustare in insalata (previa prelessatura) condite solo con olio, aceto e succo di limone; appena saltate a crudo in padella come contor-

no deciso di piatti a base di carne oppure anche stufate con aglio, pomodoro e alloro. Vi proponiamo qui un saporitissimo e grande classico della cucina pugliese: le «Orecchiette alle cime di rapa». Prendete le foglie più tenere e belle delle cime di rapa e, dopo averle pulite e lavate, tuffatele insieme alle orecchiette nell’acqua bollente portando la pasta a cottura (è importante che cuociano insieme). A parte, in una tegame a cui avrete aggiunto un filo di olio extra vergine di oliva, fate saltare a fuoco vivo per qualche minuto uno spicchio d’aglio e qualche filetto d’acciuga sott’olio. Quando la pasta e le cime sono pronte, scolate con una schiumarola e trasferirle nel soffritto. Amalgamate bene il tutto e, prima di servire, a piacimento condite con del peperoncino.

Un classico della cucina barese: orecchiette alle cime di rapa.

Tutta la freschezza dell’orto Golosità di carnevale ai banchi pasticceria

I Cetrioli Moscatelli Belotti sottaceto vengono lavorati con passione e nel rispetto delle tradizioni della cucina lombarda. Sono coltivati prevalentemente nelle valli bergamasche da piccoli agricoltori e raccolti durante il mese di luglio quando raggiungono dimensione e grado di maturazione ideali alla corretta lavorazione. Belotti li elabora con tecniche all’avanguardia

seguendo ricette tradizionali per conservarli e offrirli saporiti e fragranti anche al palato dei consumatori più esigenti. I Cetrioli Moscatelli sono ottimi come antipasto oppure come accompagnamento di piatti di formaggio, carne o affettati. Da provare anche in versione «alla bergamasca». Sgocciolare i cetrioli e tagliarli a rondelle. Metterli

in una ciotola e aggiungere un velo di grana grattugiato e un filo di olio extravergine d’oliva. Mescolare il tutto e, prima di servire, lasciar riposare in frigo qualche ora affinché il sapore venga esaltato al meglio. Belotti Cetrioli Moscatelli 290 g Fr. 4.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros

Il carnevale non è solo sinonimo di divertimenti sfrenati, ma anche di dolci sfiziosità. Per questa ragione i banchi pasticceria di Migros Ticino hanno allestito un invitante assortimento di specialità che conquisterà grandi e piccini. La scelta include le frittelle alle mele e i celeberrimi tortelli al Marsala. Da febbraio inoltre in tutti i reparti sarà possibile acquistare anche il trancio al cioccolato

decorato con simpatiche mascherine di carnevale di zucchero. Come tutte le proposte dei banchi pasticceria, anche i dolci carnascialeschi sono prodotti all’interno del laboratorio artigianale di S. Antonino. Qui gli abili pasticceri preparano ogni giorno squisite tentazioni utilizzando solo ingredienti di qualità certificata attingendo alla loro assoluta competenza e alla loro fantasia.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

36

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

37

Idee e acquisti per la settimana

Gioco a premi

Tanti punti al prossimo acquisto Con un po’ di fortuna, fino al 29 gennaio i clienti Migros possono vincere carte regalo e punti Cumulus grazie al proprio scontrino di cassa. Altri partecipanti si rallegrano per le vincite realizzate. La stampa Migros ne presenta alcuni Foto zVg

Aldina Alitsch (34)

Vincita: 10x punti Cumulus alla Migros di Steinhausen (ZG) «Siamo clienti abituali della Migros. Il mio prodotto preferito è il Berliner. Nemmeno quelli che trovo nelle pasticcerie sono migliori. In occasione del prossimo acquisto li otterrò pure con i punti Cumulus decuplicati. Fare la spesa così è divertente».

Scansionare gli scontrini e vincere Con un po’ di fortuna, fino al 29 gennaio i clienti Migros possono vincere carte regalo per un valore totale di Fr. 250’000.– e 100 milioni di punti Cumulus*. Come è possibile verificare se si ha vinto

Lia Lobefido (21)

Partecipare e vincere: migros.ch/win

Verena Bachmann (73)

Vincita: 5x punti Cumulus alla Migros di Brügg (BE)

Vincita: 5x punti Cumulus alla Migros di Wallisellen (ZH)

«Siccome il mio amico oggi lavora, la spesa la faccio io, che sono in vacanza. Viviamo assieme e abbiamo un conto Cumulus comune. Utilizzeremo il buono per i nostri prossimi acquisti. Quando si tratta di giochi a premi normalmente non ho fortuna. Ho pensato di fare comunque un tentativo».

«Di regola faccio sempre la spesa il martedì e il venerdì. Eccezionalmente oggi è un giorno differente della settimana e ho vinto alla ruota della fortuna. Ogni mio acquisto comprende due litri di latte, poiché ne bevo molto. Fa bene per le ossa».

Nella propria filiale Migros: appena conclusi gli acquisti, scansionare il codice a barre stampato sullo scontrino direttamente in filiale, utilizzando l’apposito apparecchio automatico da gioco. Se in una filiale non è presente, su migros.ch/win è possibile scoprire dove si trova il più vicino apparecchio automatico da gioco. Con l’app: attivare l’app Migros e scansionare il codice a barre presente sullo scontrino di cassa. Sul sito web: su migros.ch/win immettere il codice numerico stampato sullo scontrino di cassa sotto il codice a barre. Le vincite sono corrisposte direttamente in filiale nella forma di carta regalo Migros o di buono Cumulus. Partecipazione gratuita e condizioni di partecipazione su migros.ch/win * Stima basata su dati del passato.

Melufa Mohamen (40) con Nadim (12) e Navid (10)

Nella Langenegger (47)

Anna Incardona (66) e Mario Borzi (66)

Vincita: 10x punti Cumulus alla Migros di Wallisellen (ZH)

Vincita: 5x punti Cumulus alla Migros di Wallisellen (ZH)

Vincita: 5 e 10x punti Cumulus alla Migros di Brügg (BE)

Melufa: «Avevamo sete, così siamo entrati in negozio per un acquisto veloce, qualcosa da bere per me e i miei figli». Navid: «La bevanda che preferisco è la 7-up. Aver vinto oggi è più unico che raro! Lo racconterò a mio papà, ne sarà contento.»

«Sono molto contenta della vincita, anche perché i miei acquisti li faccio per il 95 percento alla Migros. Oggi nella mia spesa c’erano anche alcune cose per mia mamma, in particolare il nostro cioccolato preferito. Presto andrà in Italia e lo porterà ai nostri parenti».

«Siamo molto fortunati. In primo luogo perché abbiamo una famiglia e ci prendiamo cura l’uno dell’altro. I giorni di festa li abbiamo trascorsi con nostro figlio, nostra nuora e nostra nipote. Oggi siamo venuti tutti insieme a fare la spesa e abbiamo vinto ben due volte alla ruota della fortuna».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 22 gennaio 2018 • N. 04

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Idee e acquisti per la settimana

Gioco a premi

Tanti punti al prossimo acquisto Con un po’ di fortuna, fino al 29 gennaio i clienti Migros possono vincere carte regalo e punti Cumulus grazie al proprio scontrino di cassa. Altri partecipanti si rallegrano per le vincite realizzate. La stampa Migros ne presenta alcuni Foto zVg

Aldina Alitsch (34)

Vincita: 10x punti Cumulus alla Migros di Steinhausen (ZG) «Siamo clienti abituali della Migros. Il mio prodotto preferito è il Berliner. Nemmeno quelli che trovo nelle pasticcerie sono migliori. In occasione del prossimo acquisto li otterrò pure con i punti Cumulus decuplicati. Fare la spesa così è divertente».

Scansionare gli scontrini e vincere Con un po’ di fortuna, fino al 29 gennaio i clienti Migros possono vincere carte regalo per un valore totale di Fr. 250’000.– e 100 milioni di punti Cumulus*. Come è possibile verificare se si ha vinto

Lia Lobefido (21)

Partecipare e vincere: migros.ch/win

Verena Bachmann (73)

Vincita: 5x punti Cumulus alla Migros di Brügg (BE)

Vincita: 5x punti Cumulus alla Migros di Wallisellen (ZH)

«Siccome il mio amico oggi lavora, la spesa la faccio io, che sono in vacanza. Viviamo assieme e abbiamo un conto Cumulus comune. Utilizzeremo il buono per i nostri prossimi acquisti. Quando si tratta di giochi a premi normalmente non ho fortuna. Ho pensato di fare comunque un tentativo».

«Di regola faccio sempre la spesa il martedì e il venerdì. Eccezionalmente oggi è un giorno differente della settimana e ho vinto alla ruota della fortuna. Ogni mio acquisto comprende due litri di latte, poiché ne bevo molto. Fa bene per le ossa».

Nella propria filiale Migros: appena conclusi gli acquisti, scansionare il codice a barre stampato sullo scontrino direttamente in filiale, utilizzando l’apposito apparecchio automatico da gioco. Se in una filiale non è presente, su migros.ch/win è possibile scoprire dove si trova il più vicino apparecchio automatico da gioco. Con l’app: attivare l’app Migros e scansionare il codice a barre presente sullo scontrino di cassa. Sul sito web: su migros.ch/win immettere il codice numerico stampato sullo scontrino di cassa sotto il codice a barre. Le vincite sono corrisposte direttamente in filiale nella forma di carta regalo Migros o di buono Cumulus. Partecipazione gratuita e condizioni di partecipazione su migros.ch/win * Stima basata su dati del passato.

Melufa Mohamen (40) con Nadim (12) e Navid (10)

Nella Langenegger (47)

Anna Incardona (66) e Mario Borzi (66)

Vincita: 10x punti Cumulus alla Migros di Wallisellen (ZH)

Vincita: 5x punti Cumulus alla Migros di Wallisellen (ZH)

Vincita: 5 e 10x punti Cumulus alla Migros di Brügg (BE)

Melufa: «Avevamo sete, così siamo entrati in negozio per un acquisto veloce, qualcosa da bere per me e i miei figli». Navid: «La bevanda che preferisco è la 7-up. Aver vinto oggi è più unico che raro! Lo racconterò a mio papà, ne sarà contento.»

«Sono molto contenta della vincita, anche perché i miei acquisti li faccio per il 95 percento alla Migros. Oggi nella mia spesa c’erano anche alcune cose per mia mamma, in particolare il nostro cioccolato preferito. Presto andrà in Italia e lo porterà ai nostri parenti».

«Siamo molto fortunati. In primo luogo perché abbiamo una famiglia e ci prendiamo cura l’uno dell’altro. I giorni di festa li abbiamo trascorsi con nostro figlio, nostra nuora e nostra nipote. Oggi siamo venuti tutti insieme a fare la spesa e abbiamo vinto ben due volte alla ruota della fortuna».


Per tanti sapori carnascialeschi!

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Cetrioli Spagna, per es. 2 pezzi a fr. 1.80 invece di 2.40, a partire da 2 pezzi, 25% di riduzione

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4.20 invece di 5.25 Camembert Suisse crémeux 300 g

25% Tutto l’assortimento i Raviöö per es. col pién da Brasaa (ravioli al brasato), 250 g, 5.10 invece di 6.80

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14.05 invece di 17.60 Raccard assortito in conf. da 2 x 350 g

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Patate resistenti alla cottura Svizzera, busta da 2,5 kg

33%

3.95 invece di 5.90 Arance sanguigne Italia, rete da 2 kg

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