Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 5 febbraio 2018
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Società e Territorio Sport giovanile: troppo spesso i genitori sognano che i figli diventino dei campioni
Ambiente e Benessere Il tabagismo è un problema di cui si tende a dimenticare la gravità: il Dott. Maurizio Bernasconi ci fornisce cifre e dati epidemiologici aggiornati
Politica e Economia Russia: censurato il film britannico che dissacra Stalin
Cultura e Spettacoli A Roma si è recentemente inaugurata una mostra culto dedicata ai Pink Floyd
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di Marzio Rigonalli pagina 26
Keystone
Nuova linfa ai negoziati con l’UE
Un reset prima di tutto mentale di Peter Schiesser Molti giornalisti attendevano con curiosità di capire come si sarebbe concretizzato il famoso reset nella politica europea promesso dal neo-ministro degli esteri. E qualcuno sarà rimasto deluso nell’apprendere che il consigliere federale Cassis non aveva grandi rivoluzioni da annunciare. Tuttavia, nella conferenza stampa del 31 gennaio, Cassis ha portato un messaggio molto chiaro: per l’economia svizzera, l’accesso al mercato unico europeo è di importanza capitale, un accordo quadro con Bruxelles è il mezzo per garantirlo (vedi a pagina 26 Marzio Rigonalli). Il focus, ha detto il ministro degli esteri, è stato troppo a lungo messo sui «giudici stranieri» (ossia sulla possibilità che in una vertenza riguardante gli accordi fra Svizzera e UE che garantiscono l’accesso al mercato unico l’ultima parola spetti alla Corte europea di Giustizia), anziché sull’importanza che gli accordi hanno per la Svizzera. Il reset potrebbe dunque anche essere interpretato in questo modo: via da una narrazione negativa (perdita di sovranità) per concentrarsi su una narrazione positiva (la ricchezza e le libertà che gli accordi offrono alla Svizzera).
Cassis ha naturalmente rassicurato: firmeremo solo dei buoni accordi; e cercheremo di farlo entro quest’anno, se funziona. Egli ha però riconosciuto che oggi l’UE è meno disposta a compromessi con la Svizzera, per non creare precedenti verso altri paesi (vedi Brexit). Ma a questo punto la domanda fondamentale da porre è: che cosa vuole il Consiglio federale? Dopo aver tergiversato per anni, oggi sappiamo, grazie a Ignazio Cassis, che infine vuole un accordo quadro istituzionale con Bruxelles. Ma poi? Quali altri dossier sono interessanti per la Svizzera? Il governo, assieme ai rami economici interessati, analizzerà a fondo i dossier aperti, per valutare se portare avanti altri negoziati in parallelo, così da bilanciare eventuali concessioni da una parte con vantaggi da un’altra. Un impegno che richiede molta coordinazione per riuscire a trovare una linea comune. Posizione che poi il Consiglio federale dovrà comunicare in modo coerente. Ciò che non è avvenuto spesso, in questi anni. Già durante l’era Burkhalter, ma anche in questi 100 giorni da quando Cassis è in Consiglio federale, i suoi colleghi si sono espressi sull’Europa in ordine sparso e con accenti decisamente contraddittori (rimando ancora a Rigonalli). Non esattamente quello che ser-
virebbe ad un governo per essere credibile in patria e all’estero. Oggi i sette magistrati ne sono consapevoli e Cassis ha potuto annunciare che il Consiglio federale intende migliorare la comunicazione sulla politica europea – leggi: parleremo con una sola voce. E con un volto nuovo , viene da aggiungere dopo la nomina del ticinese Roberto Balzaretti a segretario di Stato e responsabile della Direzione affari europei. Balzaretti ha una personalità profilata e una vasta esperienza nelle relazioni con Bruxelles: come ricordano alcuni giornali, fu nel gruppo dei 4 diplomatici svizzeri – lui il più giovane, allora 26.enne – che nel maggio del 1992 consegnò a Bruxelles la domanda di adesione della Svizzera all’Unione europea. Quella domanda venne poi ritirata, Balzaretti ha fatto carriera ed è anche stato ambasciatore a Bruxelles dal 2012 al 2016. La NZZ lo ha definito un diplomatico poco diplomatico, per i suoi modi a volte passionali, ma è certo una persona adatta a negoziare seriamente con Bruxelles; allo stesso tempo, Balzaretti viene descritto come una persona consapevole dei rapporti di forza fra Unione europea e Svizzera e sa che cosa è negoziabile e che cosa no. Riassumendo, si può dire che Cassis sta mostrando profilo.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Attualità Migros
Un anniversario M Sei anche tu tutto da cantare un «Digital immigrant»? Scuola Club Migros Ticino I corsi di alfabetizzazione digitale
per accorciare le distanze in un mondo che cambia
Nell’era digitale l’età può fare la differenza. Nel 2001 lo scrittore statunitense Marc Prensky attira l’attenzione sul divario generazionale prodotto dall’avvento del digitale tra i digital native – coloro che interagiscono con la tecnologia fin dall’infanzia e la considerano componente naturale del loro mondo – e quella dei digital immigrants, nati prima della diffusione del digitale che adottano solo in un secondo tempo. Con quest’ultimo i due gruppi instaurano una relazione molto diversa. Alcune abilità nei nativi digitali appaiono quasi innate, tanta è la spontaneità nell’interfacciarsi con linguaggi e strumenti dell’universo digitale. Per gli altri l’attraversamento dall’analogico al digitale non è sempre così immediato.
La metafora usata da Prensky – seppure divenuta oggetto di molte critiche – riesce a trasmettere con efficacia le difficoltà del percorso che aspetta i digital immigrants: il loro viaggio cognitivo è assimilabile all’emigrazione in un paese sconosciuto di cui occorre apprendere quasi tutto daccapo, linguaggi, logiche e pratiche. Il passo da compiere è lungo ed esige nuovi modi di pensare, conoscere, comunicare, e, dunque, nuove strategie di relazione con il mondo. Mentre un digital immigrant preferisce stampare e avere tra le mani il documento cartaceo prima di presentarsi al check-in in aeroporto, per un nativo digitale la soluzione ottimale è la gestione online di tutta la sua storia. Se questa distinzione generazio-
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Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
■ Comunicare e condividere informazioni ■ Servizi online – Sicurezza e aggiornamenti del dispositivo Operatore Office con certificato. L’informatica base per l’ufficio
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nale è talvolta smentita dalla realtà – perché capita che qualche senior riesca a superare gli junior nell’uso della tecnologia – e lo stesso Prensky sia dell’avviso che la distanza tra nativi e immigrati tenderà progressivamente a perdere di significato, è certo che la tecnologia digitale andrà sempre più a strutturare il nostro mondo aprendo – per chi saprà dialogare con i cambiamenti in atto – nuove possibilità di azione. E per tutti gli altri? Detta che questa è la direzione di marcia, cosa può fare un digital immigrant per essere sempre più competente e integrato? La buona notizia è che apprendere il digitale si può. Da un lato, l’estensione e il potenziamento del suo uso in quasi tutti i campi della nostra esistenza – di fatto ci troviamo «immersi» nel digitale anche senza volerlo – contribuisce a rendere quest’ultimo sempre più prossimo, familiare e in qualche misura più comprensibile. Dall’altro, l’accesso al mondo digitale è facilitato dalla formazione. Formare al Digitale è una delle priorità della Scuola Club di Migros Ticino. Affinché i digital immigrants possano acquisire le competenze necessarie per sentirsi sempre più «a casa» nel mondo delle nuove tecnologie e godere appieno degli incredibili vantaggi che il digitale offre alla vita personale e professionale, la scuola ha messo a punto corsi di alfabetizzazione digitale. Dall’ABC nell’uso dell’ipad all’introduzione ai programmi di base: i corsi sono progettati ad hoc per gli immigrati digitali di tutte le età che desiderano accorciare le distanze, a livello professionale e sociale, in un mondo sempre più tecnologico. Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
Ottantesimo I cantori della Turrita
festeggiano un invidiabile traguardo, otto decenni di attività musicale
Nella storia del nostro Cantone, così come per quella Svizzera più in generale, la fine degli anni 30 del 900 segnava un periodo di grande preoccupazione. Le tensioni internazionali legate all’ascesa del nazismo lasciavano intravvedere un futuro di interrogativi. Per rincuorare la popolazione e rinsaldare il legame tra le componenti della Svizzera erano state messe in opera varie iniziative. Una delle più importanti fu certamente la «Landi», l’Esposizione nazionale svizzera, che si tenne a Zurigo nel 1939. Il Ticino partecipò a quell’evento con un ambizioso progetto musicale: un’opera originale composta da Giovan Battista Mantegazzi, su testi di Guido Calgari. Sacra terra del Ticino riscosse un grande successo: il suo cast era costituito da musicisti e cantanti appartenenti a diverse corali ticinesi. Tra queste spiccavano i «Piccoli cantori della Turrita», una formazione corale fondata dal Maestro Rosario Gargano l’anno precedente, probabilmente proprio per quell’occasione «nazionale». L’attività del sodalizio Bellinzonese da allora non si è mai interrotta e questo è sicuramente un caso più unico che raro nel panorama musicale ticinese. Oggi, a distanza di ben ottant’anni, i Cantori della Turrita sono una delle formazioni più attive e meritevoli. Il loro impegno per la diffusione della cultura musicale corale nel nostro cantone si esprime attraverso un’apprezzata attività didattica e naturalmente attraverso un programma concertistico di qualità. Tra gli altri eventi che hanno segnato la storia dei «cantori» va registrata infatti la profonda influenza esercitata dal lavoro di direzione del Maestro Eros Beltraminelli. Già nel 1972 egli aveva deciso di imporre una svolta importante e di estendere il repertorio a brani della tradizione classica. Più tardi questo impegno si ampliò fino a comprendere brani gregoriani e in seguito persino contemporanei. Insomma, con il passare degli anni la formazione ha finito per profilarsi grazie alla sua eccellente levatura tecnica. Dal 2011 il coro è diretto da Daniela Beltraminelli Krebs, che continua nella direzione tracciata in precedenza dal padre. Il coro del resto si è confermato sempre più come un’importante istituzione musicale locale: i suoi numerosi corsi di introduzione alla musica coinvolgono ormai decine di giovani della
regione con i corsi «Primi passi» (per bambini dai 4 ai 5 anni), i corsi Voci colorate 1 e 2 (per bambini delle elementari), il Corso 3 (di introduzione al coro vero e proprio), e il «Coro élite», di cui fanno parte i giovani cantori più capaci. Tutte le informazioni relative all’attività annuale sono reperibili sul sito web: www.cantoridellaturrita.ch.
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Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch
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Una festa per gli 80 anni dei Cantori della Turrita Per sottolineare degnamente la ricorrenza il sodalizio bellinzonese organizzerà tre concerti che vedranno come protagoniste alcune fra le migliori formazioni corali giovanili svizzere. Ecco le date dei concerti: ■ 3 marzo, alle ore 20.30, nella Chiesa Collegiata dei Santi Pietro e Stefano, a Bellinzona. Concerto dei Cantori della Turrita con il Choeur St. Michel di Friborgo, diretto da Philippe Savoy; ■ 13 aprile, ore 20.00 nella Chiesa parrocchiale S. Maria Assunta, a Giubiasco Concerto dei Cantori della Turrita con i Singknaben della Cattedrale di St. Urso di Soletta, diretti da Andreas Reize; ■ 24 novembre, ore 20.00, nella Chiesa del Sacro Cuore a Bellinzona. Concerto dei Cantori della Turrita con il coro Calicantus di Locarno, diretto da Mario Fontana. Ricordiamo inoltre che il 21 aprile, alle ore 20.30, nella Chiesa del Sacro Cuore di Bellinzona, si terrà il tradizionale Concerto di Primavera, con i Cantori della Turrita e i Gruppi di Voci colorate delle Scuole comunali di Bellinzona. Questo concerto è incluso nel programma di manifestazioni sostenute dal Percento Culturale di Migros Ticino per il 2018. Informazioni
www.cantoridellaturrita.ch
Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Società e Territorio Incontri Alicia Tellez ci racconta la sua storia: dal Messico al Ticino fino al suo impegno in Colombia come cooperante per aiutare i giovani e le donne di Cali pagina 5
Sempre connessi Nel suo ultimo libro, intitolato Ubicumque, Fabio Merlini riflette sugli effetti che l’essere costantemente in rete produce sulle nostre vite pagina 6
Correre (o pattinare, sciare, nuotare...), divertirsi, imparare a convivere serenamente con vittorie e sconfitte: questo è lo sport giovanile. (Ti-Press)
Papà, lasciami giocare!
Il caffè delle mamme Troppi genitori vogliono che i figli diventino campioni sportivi a scapito del divertimento
Simona Ravizza «Guarda la partita e lasciami giocare papà. Perché, io, non desidero nient’altro che giocare». Da metà marzo fuori dai campi di calcio del Ticino (da 300 partite ogni fine settimana) sarà appeso un cartello che si conclude con quest’invito. È la «Lettera di un figlio al padre» che la Federazione Ticinese Calcio (FTC) utilizza per sensibilizzare su un problema sempre più sentito: il tifo da contenere dei genitori. L’argomento a Il caffè delle mamme ci divide in due categorie: chi propende per il modello di Mike Agassi, il padre-orco che costringeva il figlio ad allenarsi con uno sparapalline da 2500 colpi al giorno; e chi si immedesima nel figlio che sarà diventato anche il numero 1 al mondo del tennis, ma ha avuto l’infanzia (e, forse, la vita) rovinata proprio da quel maledetto sparapalline. Sullo sfondo una domanda su tutte: ma è proprio necessario avere figli campioni? Antonio Manicone, attuale tecnico in seconda della Nazionale Svizzera di calcio, una lunga esperienza da allenatore nelle squadre giovanili dell’Inter,
sintetizza con una battuta: «Tra allenatori – racconta ad «Azione» – diciamo scherzando che la miglior squadra da allenare è una squadra di orfani». Parole che nella loro crudezza fotografano un fenomeno sociale: troppi genitori scaricano sui figli le proprie ambizioni. Così, come mette bene in evidenza la «Lettera di un figlio al padre», quando il bambino o il ragazzino torna a casa deluso dall’allenamento («Papà, oggi alla partita non mi sono divertito affatto. Se questo vuol dire andare a scuola calcio, meglio continuare a suonare il pianoforte»), mamme e papà leggono la sua amarezza con gli occhi da adulto: «Lo capisco figlio, avete perso e non è affatto bello»; «È per via dell’arbitraggio? Purtroppo la colpa è di chi ce li manda questi arbitri incompetenti»; «Poi ci si mette pure il mister che ti fa giocare da terzino, possibile che non capisce che tu devi fare l’attaccante?». In realtà il motivo della delusione è un altro: «È il tuo atteggiamento papà. Le tue urla, i tuoi consigli. Quando hai detto quella parolaccia all’arbitro mi sono davvero vergognato. Poi ti sei messo a litigare con un genitore dell’altra squadra, per non parlare di quando
hai iniziato ad urlare al mister di farmi giocare in attacco». Per essere felici non c’è bisogno di vincere, ma di correre e divertirsi. Possibile non rendersene conto? Lo scorso 8 gennaio Andrea Schenal, maestro di sci di Feltre (Veneto) che da trent’anni opera come allenatore della Federazione italiana sport invernali, posta su Facebook una lettera che diventa virale: «Per tuo figlio/a lo sport non deve diventare un lavoro, ma deve rimanere un gioco; perdere o vincere una gara non influirà su come la terra gira attorno al sole». Schenal va dritto al punto: «Si è tentati di cercare nei figli quello che non si è stati; molto spesso però i genitori si trasformano da primi tifosi a esseri urlanti e nervosi che se la prendono con tutti, in primis con gli allenatori e poi con i figli stessi. È normale sentire l’adrenalina della vittoria e la tristezza per una sconfitta, ma un genitore deve rimanere sempre e solo un genitore, un tifoso e null’altro». Nel calcio l’affronto peggiore è senza dubbio il figlio lasciato in panchina. Una decisione che viene presa spesso dall’allenatore, sia davanti a un baby campione sia davanti a un brocco:
il principio è che tutti devono potere scendere in campo, anche i più scarsi, perché tutti devono avere la possibilità di divertirsi e imparare. Perché ce lo dimentichiamo? Per una mamma e un papà è anche difficile accettare che il proprio ragazzino non sia un talento del pallone (o di qualsiasi altro sport): come se i Maradona o i Messi nascessero spesso! Fulvio Biancardi presidente della FTC riflette con «Azione»: «Troppi genitori vogliono i figli fenomeni in nome di una propria rivincita sociale». Il problema è che così viene fatto passare un messaggio sbagliato ai più giovani: la prevaricazione sugli altri. Non solo: lo sport, che sia il calcio o qualsiasi altro, viene svuotato dei suoi valori più importanti. «I genitori che trasferiscono sui figli le loro aspirazioni inconsapevolmente mettono sotto pressione i ragazzini – sottolinea Manicone –. E impediscono loro di capire il vero significato dello sport, che va dall’aspetto ludico, al gioco di squadra fino al rispetto delle regole. È fondamentale, invece, lasciare ai bambini la libertà di esprimersi». Davanti a comportamenti deplorevoli (come gli insulti e minacce a
giovani arbitri), lo scorso 19 maggio la Federazione Ticinese Calcio ha preso la decisione forte di sospendere per una giornata tutti i campionati del settore allievi (dagli Allievi A fino ai D9). E adesso la FTC insieme al Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport, si sta muovendo per promuovere una visione sana e educativa dello sport. È stato creato il gruppo di lavoro Fairness. Ribadisce Biancardi: «È importante che ogni giocatore si diverta praticando il gioco del calcio, confrontandosi con amici che condividono la stessa passione. Con gli allenamenti e le competizioni vengono vissute esperienze molto importanti per lo sviluppo della sua personalità; imparerà a convivere con vittorie e sconfitte. La medesima attitudine e mentalità è richiesta ai genitori anche fuori dal campo». L’appello della «Lettera di un figlio al padre» è: «Papà, la prossima volta, per favore, divertiti insieme a me». Il monito di Schenal: «Genitori fate solo i genitori, basta e avanza. Se vostro figlio vede che siete rilassati e vi state divertendo sicuramente avrà risultati migliori». E, allora, fuori dal campo: «Solo applausi».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Società e Territorio
La storia di Alicia
Incontri Dal Messico al Ticino e ora in Colombia: Alicia Tellez ci racconta come è diventata cooperante di Comundo
per aiutare i ragazzi ad avere fiducia in se stessi attraverso il teatro e il circo
Laura Di Corcia Se dovessi stilare una classifica delle parole maggiormente utilizzate da Alicia Tellez nel corso della nostra conversazione, ebbene «resilienza» avrebbe il primo posto incontestato. Un termine che da una parte richiama il passato, sul quale però spende poche parole – «La mia era una famiglia molto disfunzionale e molto violenta, non avevo appigli; quando hanno ammazzato il mio capo per motivi di lavoro, ho deciso di andarmene via dal Messico» – dall’altra il presente, le persone che la circondano oggi, i bambini, gli adolescenti e le donne colombiani che sostanziano la sua esperienza come cooperante per l’associazione svizzera Comundo in una delle periferie più pericolose della Colombia. La incontro al ristorante della stazione, in pieno centro a Lugano; fa freddo e il Natale alle porte galvanizza la città. Le parole di Alicia, capelli rosa e corti, parole dirette e senza fronzoli, sono una navicella spaziale in grado di polverizzare le distanze. «Quando a 24 anni ho deciso di lasciare il Messico, ho pensato che avrei voluto trasferirmi in un Paese democratico, dove alle donne venisse attribuito un valore maggiore di quello che si attribuisce ad un oggetto – mi racconta – per questo sono arrivata in Svizzera». Il nostro Paese non ha soddisfatto appieno le aspettative della giovane Alicia, che sperava di trovare le contraddizioni sociali che
aveva già conosciuto in America latina completamente annullate o perlomeno armonizzate. «In Messico ero una donna bianca, qui non più. No, signora, lei è olivastra – mi dicevano le commesse – non abbiamo cosmetici adatti alla sua pelle. Per strada spesso venivo fermata con offerte ambigue. Avevo studiato semiologia, avevo lavorato per il governo messicano e mi ritenevo un’intellettuale: essere scambiata per una prostituta non è stato semplice. Le mie fattezze, le mie misure, la mia altezza, il colore della mia pelle, tutto questo ha condizionato parecchio i miei rapporti con una parte della società ticinese. Pensavo che la parità fra uomo e donna fosse qualcosa di assodato, e invece quando ci ho messo il naso sono rimasta un po’ delusa. Non a caso ho lavorato per tre anni e mezzo come volontaria nel Consultorio per le donne». Lì Alicia ha potuto conoscere una Svizzera diversa, intrisa di valori democratici, una Svizzera dove nascevano i progetti, come Radix o il servizio di pianificazione familiare. La popolazione normale la trattava come una straniera, le persone coinvolte in quei progetti invece la sostenevano e le mostravano empatia. «Grande discriminazione da una parte, grande solidarietà dall’altra: sono due binari che mi hanno accompagnata sempre, fino a quando non ho partorito mio figlio. Sono diventata una mamma con un bimbo appresso: a quel punto sparisci come donna, ma diventi più rispettabile a livello sociale».
Alicia Tellez con i ragazzi di Cali. (www.comundo.org)
Alicia per un po’ di anni si concentra sul suo ruolo di madre. Lascia da parte la carriera di attrice, cominciata studiando con la regista argentina e luganese di adozione Cristina Castrillo, e inizia a lavorare come formatrice. Ma il trauma vissuto durante l’infanzia è ancora lì e qualche volta – nei momenti più difficili – bussa ancora alla porta. «Fino a quando sei vittima, sei intrappolata in un vissuto che non superi mai e che si ripresenta ogni giorno anche se con una faccia diversa. Ma quando
diventi una sopravvissuta, com’è ora il mio caso, prendi in mano presente e futuro: può capitare persino di partire per l’avventura e andare a fare la cooperante in Colombia». Alicia ha capito, una volta che suo figlio era cresciuto, che avrebbe dovuto dare un nuovo corso alla sua esistenza, impegnarsi in un nuovo progetto: dopo la scuola di drammaterapia a Lecco ha deciso di spendersi in qualcosa di grande nel suo Sud America. E così oggi collabora con un circo in
Colombia e aiuta i giovani a trovare l’autostima e la fiducia in se stessi, attivando processi di resilienza. «Sono ad Aguablanca, un quartiere della città di Cali una città dove le persone hanno 17 centimetri di spazio pubblico a testa. È uno dei luoghi più pericolosi della Colombia. Le bande criminali comandate dagli ex paramilitari contrattano ragazzini di 10-12 anni e li usano come spacciatori, ladri, addirittura sicari. Sotto i 14 anni si sa che le conseguenze sono meno gravi, ecco il motivo. I ragazzi più vulnerabili sono gli afrodiscendenti maschi». Alicia è qui per il periodo natalizio ma è in Colombia già da più di un anno. Quando nel quartiere avviene un omicidio e si sente la tensione fra le bande, gira i tacchi e se ne va. «Sono una donna paurosa. Quando ho paura, ascolto il mio istinto e scappo. Me ne sono scappata anche dal Messico». Ma poi torna. E piano piano sta mettendo insieme un gruppo di donne. «In Colombia è difficile non trovare una donna che non abbia subito un abuso o una molestia. È un problema trasversale, riguarda 4 donne su 5 e sia le classi alte che basse. La Colombia patisce da 50 anni conflitti armati. Immaginiamoci quanti maltrattamenti e abusi sessuali possono aver subito le nostre sorelle». Il mandato di Alicia dura tre anni. E dopo? «Mi piacerebbe farne un altro». Il passato non si può cambiare. Ma se abbiamo il coraggio di uscire dal ruolo di vittime, il futuro è lì e ci aspetta. Annuncio pubblicitario
Briciole di storia bancaria
Azione
Pubblicazioni Nell’«Archivio storico
ticinese» una ricerca su un importante settore della nostra economia cantonale È stato pubblicato da qualche settimana il numero 162 dell’«Archivio Storico ticinese», la (si perdoni il bisticcio) storica rivista fondata da Virgilio Gilardoni. I contributi di questa edizione toccano come sempre vari aspetti della storia e della storiografia cantonale. Tra i vari temi affrontati, la storia dei media, di cui si occupa Nelly Valsangiacomo, (La televisione svizzera e i suoi emigranti «Riuniti per Natale»); le vicende storiche legate alla Shoa (Gli ebrei in fuga verso la Svizzera negli anni della «Soluzione finale») studiate da Ruth Fivaz-Silbermann; la politica internazionale (Le relazioni economiche tra Svizzera e Unione Europea di Sergio Rossi e Guillaume Vallet), oltre a un ricordo e una bibliografia dello storico ticinese Giuseppe Chiesi, deceduto lo scorso anno. Tra gli altri lavori pubblicati ci sem-
bra che meriti una menzione particolare il saggio di Pietro Nosetti: Le trasformazioni del settore bancario ticinese fra le due guerre mondiali e le origini di una nuova partenza. Il lavoro di Nosetti, che appare sulla rivista in una forma necessariamente abbreviata, è tratto da una ricerca accademica più sostanziosa la quale si occupa di indagare un periodo particolarmente importante per l’economia cantonale, in un settore dell’attività commerciale altrettanto importante. Lo stesso Nosetti esprime in qualche modo la sua sorpresa, avendo appurato che, a fronte di un ruolo così rilevante esercitato dalla piazza finanziaria ticinese soprattutto nel secondo dopoguerra, gli studi storici che si sono occupati di ricostruirne le dinamiche e gli avvenimenti siano relativamente scarsi. Il suo lavoro giunge quindi a colmare una lacuna e a mostrare come, in realtà, il dinamismo mostrato dalla piazza finanziaria del nostro cantone nel periodo del boom economico postbellico affondi le sue radici non soltanto nella vicinanza geografica con l’Italia del Nord, da cui numerosi capitali sono affluiti nel nostro paese, ma anche in una serie di scelte operative messe in campo dagli istituti bancari della Svizzera centrale. Nosetti ricostruisce il quadro delle attività bancarie nel nostro cantone partendo dalla crisi del 1914. Elenca in seguito le complesse dinamiche che hanno visto il Ticino coinvolto in spinte evolutive di vario genere, le quali hanno fornito le basi per lo straordinario sviluppo realizzatosi in seguito. Un quadro documentato e interessante che ci permette di comprendere meglio forze in gioco e contingenze concrete del passato. /AZ
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Società e Territorio
Sempre nella rete
Tempi moderni Fabio Merlini nel suo ultimo libro rinnova la critica
alla vita iperconnessa
Corzoneso e il suo mulino Velle di Blenio Un’associazione
si è impegnata per il recupero a scopi didattici
Lorenzo De Carli A metà degli anni Novanta, quando il web appena nato stava cominciando a rendere popolare Internet, filosofi e sociologi si erano fatti trovare puntuali all’incontro con l’innovazione, descrivendo in anticipo di vent’anni condizioni esistenziali oggi generalizzate. Il filosofo francese Pierre Lévy, per esempio, nel 1994 rifletteva già sulla compresenza di spazio reale e spazio virtuale, prefigurando l’odierna esperienza della telefonia mobile. Jean Baudrillard, filosofo e sociologo, l’anno successivo, con Il delitto perfetto, aveva compreso che i display avrebbero anteposto la simulazione al reale. Come già poco prima Tomás Maldonado scrivendo Reale e virtuale, con Data Trash i filosofi Arthur Kroker e Michael Weinstein nel 1996 avevano fatto una riflessione impietosa sull’impatto politico e culturale della realtà virtuale – mentre nel frattempo il sociologo catalano Manuel Castells stava scrivendo il suo fondamentale La nascita della società in rete. Nel decennio successivo, mentre era in corso una globalizzazione che avrebbe emarginato chi non si fosse adeguato, fu messa una sordina alla «critica della ragion di rete» per dar risalto ad una narrazione collettiva che esaltava la figura di un uomo nuovo, finalmente libero di autodeterminarsi in un orizzonte digitale iperconnesso. Il disagio, quando non il rigetto, di questa nuova condizione esistenziale che ha fatto di tutti noi soggetti costantemente connessi ma, nello stesso tempo, senza più radici, era stato esaminato da Fabio Merlini nel 2009 con il saggio L’efficienza insignificante. Dopo aver esteso la sua riflessione sia alle nuove richieste di formazione, sia alle nuove forme del lavoro necessarie alla rivoluzione digitale, Merlini – direttore dell’Istituto Universitario Federale per la Formazione Professionale – è tornato ad interrogarsi sugli effetti che l’«essere costantemente in rete» sta producendo sulle nostre vite, scrivendo il saggio intitolato Ubicumque con il quale ha rinnovato una radicale critica alla vita online in un momento storico in cui tutti ne stanno facendo esperienza. Con le precedenti indagini sul tipo di formazione richiesta dalle nuove forme del lavoro al centro del quale stanno le due essenziali componenti della «comunicazione» e dell’«innovazione», Fabio Merlini aveva lavorato sul terreno dell’indagine condotta direttamente sul campo, laddove cioè si pratica formazione da un canto, e laddove, dall’altro canto, le nuove modalità di produzione chiedono ai lavoratori
Roberta Nicolò
I nuovi dispositivi ci rendono disponibili in ogni momento.
competenze e attitudini adeguate alle esigenze della massima flessibilità unita alla totale dedizione. Con Ubicumque – che vuol dire «ovunque» e che designa una condizione esistenziale che non è più caratterizzata da un «qui e ora», bensì da uno stato di compresenza in più luoghi grazie alla «teletecnica» – Fabio Merlini è come se si fosse posto di lato, osservando le cose da punto di vista di chi vuole comprenderne il senso – dove per «senso» s’intende sia il loro significato sia la direzione che stanno percorrendo. Il punto di vista del filosofo. Il concetto messo al centro di Ubicumque è quello di «mobilitazione totale». Si tratta di un’espressione presa in prestito da Ernst Jünger il quale, negli anni Trenta del secolo scorso, descriveva un nuovo tipo umano, il lavoratore, il quale, in netta contrapposizione con la figura dell’uomo borghese, si sentiva investito del ruolo di nuovo soggetto della storia, perfettamente adeguato a un progetto di rinnovamento sociale totale, che assumeva l’organizzazione razionale dell’officina come modello. L’attuale «mobilitazione totale», secondo Merlini, è il nostro stato esistenziale, reso perennemente orientato alle esigenze del lavoro grazie alle tecnologie della comunicazione. In ogni momento, ovunque noi si sia, dobbiamo essere disponibili all’appello di uno qualunque dei dispositivi che ci portiamo appresso. Questa nostra sollecitudine ad essere convocati virtualmente altrove rispetto al luogo fisico in cui siamo è, per Merlini, la nuova forma della «mobilitazione totale», la quale produce conseguenze sia nel modo in cui percepiamo il tempo, sia nel modo in cui facciamo esperienza dello spazio. Il tempo è diventato il presente senza durata della produzione e del
consumo. Il presente continuo che viviamo è sostenuto da una narrazione collettiva che dichiara superfluo cambiare lo stato di cose vigenti perché la loro caratteristica principale è già l’innovazione. L’enfasi messa sull’innovazione sembra l’astuzia per mezzo della quale l’identico riproduce se stesso. A questo tempo che prolunga un presente sempre uguale, corrisponde uno spazio ormai privo di soglie. Le tecnologie della comunicazione annullano anche la distinzione tra dentro e fuori, e noi – costantemente in attesa di un appello tecnologico – perdiamo coscienza del danno prodotto dalla mancanza di una relazione emotivamente intensa con l’esperienza di essere totalmente presenti in un luogo e in un momento dati. Lo sforzo di Merlini d’interrogare filosofi del passato perché ci aiutino a comprendere il futuro è percepito – lo dichiara lui stesso – come superfluo in quei luoghi della formazione e del lavoro che ritengono elemento d’ostacolo la riflessione sul senso delle cose che facciamo. Forse è il caso di ricordare che se la «mobilitazione totale» esaltata da Jünger ebbe nella seconda guerra mondiale la sua apoteosi, negli stessi anni Walter Benjamin osservava che chi tornava dal fronte mostrava di aver meno esperienza di quand’era partito, cosicché, se è vero quel che lo storico delle tecnologie della comunicazione Armand Mattelart ha sostenuto, e cioè che «la comunicazione è qualcosa che serve innanzitutto a fare la guerra», allora la «seconda mobilitazione totale» in corso è già una specie di guerra – una guerra che stiamo conducendo contro noi stessi, e se non ne stiamo facendo esperienza è perché accettiamo di ritenere inutili e improduttivi gli strumenti per comprenderla.
Il Ticino è terra che ha visto in passato la presenza di molti mulini. Dal Mendrisiotto fino alle valli dell’Alto Ticino si trovano testimonianze di un passato legato alla macina, soprattutto di segale e frumento. E proprio in Valle di Blenio ul Murín da Curzönas, il Mulino di Corzoneso, segnava un importante tassello nella vita della gente del posto. La macina della segale per il pane rappresentava un elemento cardine della vita di Valle. Ma anche questo mulino, come molti altri, ha perso la sua utilità già a partire dagli anni dieci del secolo scorso e nel luogo, un tempo deputato alla lavorazione della farina, non restavano che poche macerie. Un gruppo di cittadini ha deciso di restituirlo alla comunità per scopi didattici. Un’occasione per insegnare anche ai più giovani il valore della tradizione culturale della Valle. Nasce così, nel 2015, l’Associazione ul Murín da Curzönas. «Le informazioni sul passato del mulino sono frammentarie – spiega il Presidente dell’associazione Paolo Donetta – si sa che è stato in funzione fino ai primi anni del Novecento e che serviva perlopiù per macinare segale. Se ne trovano alcune testimonianze orali raccolte dall’archivio etnografico cantonale. Il ciclo annuale, spesso determinato dalle stagioni, iniziava con l’aratura dei campi e la semina per poi passare all’essiccazione sulle rascane fino a terminare con la macina e la cottura del pane nel forno. Noi, qui in paese, abbiamo sempre pensato che fosse un peccato lasciare che un pezzo di storia della nostra Valle andasse perduto e l’idea di un recupero del mulino era presente da tempo. Inoltre, dagli anni Settanta, era anche diventato una discarica, il diroccato era pieno di rottami. Così ci siamo organizzati e abbiamo dato vita all’Associazione con lo scopo di elaborare e
attuare un progetto di risanamento e rimessa in funzione della struttura. Il proposito ha da subito incontrato l’entusiasmo non solo dei cittadini della zona, ma anche delle Istituzioni e di tanti ticinesi. Oggi la nostra Associazione conta trecento soci, un numero considerevole di persone per una piccola realtà. La grande partecipazione denota la volontà di mantenere vivo il ricordo di ciò che è stato. E l’interesse da parte delle scuole ci permette di trasmettere questi valori alle generazioni che verranno». Il programma generale degli interventi si basa sulla prioritaria ricostruzione degli elementi strutturali dell’edificio e del suo originario impianto di macinazione. Un lavoro che è stato completato nella sua prima fase grazie alla collaborazione degli apprendisti muratori. A breve saranno invece terminati gli interni, permettendo di inaugurare il mulino già il prossimo autunno. Ma il recupero strutturale non si slega dalle attività didattiche, fulcro del lavoro dell’Associazione. «Il funzionamento del macchinario sarà affidato ad un motore elettrico installato nell’edificio e collegato all’albero di trasmissione principale che muove la macina superiore recuperata dal preesistente impianto. Proseguiremo poi con la ricostruzione del canale di adduzione per l’acqua necessaria, sono state rinvenute sul terreno diverse impronte del suo tracciato. Mancano invece, allo stato attuale delle ricerche, informazioni attendibili sulle originarie opere di derivazione che sono state cancellate dai successivi interventi di imbrigliamento e di messa in sicurezza del riale di Corzoneso. Ma il punto fondamentale del progetto è senza dubbio il sentiero tematico che aiuterà a comprendere, non solo la funzione del mulino, ma anche il passato storico ed etnografico della regione. Completata l’opera di risanamento il mulino potrà nuovamente macinare, ma il suo scopo resterà prevalentemente didattico. La nostra Associazione, fin da subito, ha scelto di organizzare dei momenti di studio e di animazione volti al recupero della tradizione come, per esempio, lo scacciare l’inverno con i campanacci (chalandamarz) che organizziamo ogni anno con i più piccoli. Sono questi elementi culturali a restituire valore al restauro del mulino» conclude Paolo Donetta. Informazioni
Una nuova vita per il mulino. (Associazione ul Murín da Curzönas)
www.ulmurin.ch
La società connessa di Natascha Fioretti Il futuro è già qui Prime ore del mattino, fuori è buio, non ancora sveglia ma pronta per esserlo con la tazza di caffè in mano, leggo un articolo dal titolo «I nerd salvano il mondo». L’autrice è una firma d’eccellenza del panorama editoriale svizzero, Sibylle Berg, la testata invece è la neonata «Republik». In realtà si tratta di un’intervista al professore Jürgen Schmidhuber che insegna Intelligenza artificiale all’USI ed è direttore scientifico dell’Istituto di ricerca svizzero sull’intelligenza artificiale. Insomma, per farvela breve, ho trascorso la prima mezz’ora della giornata, alla fine ero sveglissima, leggendo del nostro futuro con i robot e i droni, macchine intelligenti che ci solleveranno da moltissimi compiti. Contenti noi, Schmidhuber lo è senz’altro, devo dire che il suo entusiasmo e la sua
fiducia nello sviluppo e nel progresso tecnologico, almeno per un attimo, mi hanno contagiata. In particolare ho apprezzato la sua positività in fatto di giovani e nuove generazioni. Dice infatti di non credere che i giovani di oggi siano meno creativi dei loro nonni, semplicemente utilizzano la creatività in modo diverso perché il mondo è cambiato e molto di quello che un tempo richiedeva creatività oggi è triviale. Rimanda allora alla sua teoria del divertimento e della creatività (formal theory of fun) che permette di somministrare vaccini per la curiosità e l’ingegnosità, non solo ai giovani in carne ed ossa ma anche alle intelligenze artificiali. Ora non voglio raccontarvi tutto l’articolo, piuttosto voglio rendervi partecipi di una giornata, che sin dalle prime ore del mattino, mi ha contagiata
con pillole di visioni apocalittiche future e intense percezioni tecnologiche presenti. Qualche ora dopo, infatti, mi sono ritrovata in una sala del Cinestar di Lugano ad ascoltare Stefano Zanero, classe 1979, professore associato del Politecnico di Milano, mente geniale, un curriculum da far impallidire chiunque. Parlava di sicurezza informatica e del pensiero Black hat, termine, così ho imparato, che ci riporta indietro ai film western degli anni 20 e 40, in cui i cattivi indossavano i cappelli neri e i buoni quelli bianchi. In fondo sappiamo che la tecnologia di per se è neutrale, non ha una caratterizzazione etica, tutto dipende dall’uso che se ne fa e lo stesso vale per la protezione dei dati. Non a caso, il tema dell’incontro al quale il professore prendeva parte, organizzato da Ated
ICT Ticino, il Servizio di informatica forense SUPSI e Clusis e l’Associazione svizzera per la sicurezza delle informazioni, era quello della cybersicurezza, in particolare rivolto alle aziende, tra sfide, rischi e opportunità. Va da sé che uno dei grandi temi era quello delle criptovalute e vedere l’approccio disinvolto e chiaro di Zanero nel raccontarne pregi e difetti mi ha aperto un mondo stimolando la mia curiosità a saperne di più (prima che sia troppo tardi). «È vero che ci sono una serie di potenziali abusi delle criptovalute che però sono le stesse potenzialità di abuso che crea il denaro contante. Dunque non è che l’inserimento della matematica e della crittografia all’interno del mondo della valuta ne abbia cambiato in qualche misura lo statuto etico. Ha semplicemente reintrodotto un’alternativa che ha gli stes-
si limiti e gli stessi vantaggi. Nel caso specifico della criptovaluta è vero che Bitcoin introduce un metodo di pagamento anonimo, o meglio, pseudonimo, però è anche vero che al contrario del denaro contante, nella blockchain, uno strumento tecnologico alla base di Bitcoin, c’è la traccia di tutti i movimenti di denaro dall’inizio, dal blocco genesi in avanti». Non solo il pensiero ma anche il linguaggio di Stefano Zanero è profondamente nerd, per raccontare la folta affluenza di conferenze hacking come Black hat dice «ha cubato 25’000 persone». Ma la giornata non finisce qui, tornando a casa leggo sul telefono di un gioiello tecnologico, il primo supermercato senza cassieri; non senza qualche brivido ripenso ai robot di Schmidhuber e ad un futuro che sembra essere già qui.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni A Carnevale la rissa non vale Arriva il carnevale, si attivano i servizi di sicurezza e le misure di prevenzione: ovviamente, perché ogni anno questa festa tradizionale fa registrare forme di violenza, pestaggi, vandalismi, ricoveri al pronto soccorso per abuso di alcolici e così via. Ma il carnevale, si sa, è per tradizione la festa trasgressiva: la sua lunghissima storia nella cultura popolare ne mostra con estrema abbondanza il carattere violento, blasfemo, dissacrante: una sorta di frattura nel tempo, dove l’ordine pubblico è sospeso, o addirittura rovesciato. È appunto questa volontà di capovolgimento l’aspetto più interessante della tradizione carnevalesca. Ottimi studiosi della cultura popolare come Piero Camporesi e Michail Bachtin hanno scavato nelle lontane radici di questa festa invernale: radici che risalgono a ben prima di quel Medioevo cristiano durante il quale la festa comincia ad assumere certe caratteristiche che
ritroviamo ancora oggi. Occorre però dire che, in epoca medioevale, le forme di eccesso erano senz’altro più sfrenate e abbondanti di quanto siano oggi: abbuffate pantagrueliche, ma anche sassaiole (non lanci di arance e mandarini come avveniva tra bande di giovani in epoca più recente, ma lanci di pietre durante le risse furiose), botte e bastonate, parodie di processioni liturgiche alle quali partecipavano gli stessi preti e che venivano organizzate direttamente dal clero; e poi, le maschere e il travestimento di un popolano in un’autorità ecclesiastica o in un re. Sono tutti aspetti di un «ordine rovesciato»: le abituali norme di convivenza erano sospese, chi stava in basso veniva elevato in alto, chi sempre obbediva per breve tempo passava al comando. E con questo rovesciamento dell’ordine sociale si salutava la prossima fine dell’inverno, il ritorno della primavera: un altro capovolgimento.
Si può forse stentare a vedere un legame tra il rivolgimento sociale del carnevale e quello cosmico delle stagioni; ma gli studiosi che citavo – e molti altri ancora – l’hanno evidenziato compiutamente. È tipico dell’uomo pensare in modo dualistico: alto/basso, vero/ falso, giorno/notte, riso/pianto, vita/ morte… La civiltà del passato – quella contadina, soprattutto – vedeva ad ogni ritorno di primavera la rinascita della natura e della vita dopo la morte dell’inverno. L’usanza (attestata anche nel Ticino e ben documentata nel Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana) di bruciare sul rogo un fantoccio raffigurante il carnevale nell’ultimo giorno di questa festività segnava appunto la morte, la fine, dalla quale il giorno seguente avrebbe avuto origine un nuovo inizio. Un inizio che, in passato, riconduceva ad un ordine severo – quello della quaresima, che in tempi non troppo lontani era un
periodo di digiuni, di penitenze, di raccoglimento: così, dopo la liberazione nel disordine carnevalesco, si tornava dentro i confini delle convenzioni religiose e sociali che definivano l’ordine consueto. Così era, in passato. Ma oggi? Oggi, ho l’impressione che anche il simbolismo occulto della morte e rinascita, che rimane pur sempre radicato nell’inconscio, non sia più evocato dalle feste carnevalesche. Come osservava Umberto Eco, «una delle caratteristiche della civiltà in cui viviamo è la carnevalizzazione totale della vita»: le feste si susseguono sempre più fitte, il divertimento è sempre a portata di mano, le regole del comportamento corretto sono sempre più disattese, i confini del lecito sempre più dilatati; e di pagliacci, di buffoni – con o senza maschera – abbonda ogni canale televisivo. Così, ogni rovesciamento del tempo risulta impossibile, ed è im-
possibile cogliere una frattura nell’andamento della banalità quotidiana. Anche le «battaglie» di carnevale con le risse e gli eccessi trasgressivi non sono più confinate nel tempo della festa: lo sballo del sabato sera è quasi d’obbligo per molti giovani e gli episodi di violenza, contro le persone e le cose, si registrano tutto l’anno. Un famoso quadro di Pieter Bruegel rappresenta la Battaglia tra Carnevale e Quaresima: volti grotteschi, risa sgangherate, maschere di follia da una parte; volti mesti, corpi consunti, teste velate dall’altra. Oggi una simile battaglia è impensabile. Il riso straripa ogni giorno, anche in tempo quaresimale. E forse, proprio per la sua sovrabbondanza, porta ad un’assuefazione che ne riduce gli effetti liberatori e rasserenanti. Infine, vale pur sempre il detto latino «risus abundat in ore stultorum»: il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi.
Lust, Niemandes Schlaf zu sein unter soviel Lidern». Scandito come cinque versi scolpiti in stampatello di un bel rosso sinopia, l’epitaffio di Rilke a Raron (702 m) è traducibile così: «Rosa, oh pura contraddizione / voglia / di essere il sonno di nessuno / sotto così tante / palpebre». Conosciutissimo non solo dagli intenditori di Rilke che si sono persi in interpretazioni varie, ma anche dagli esperti di epitaffi e dagli amatori di rose, viene scritto la sera del ventisette ottobre 1926. Nella busta-testamento consegnata a mano due giorni dopo alla sua amica e mecenate Nanny Wunderly (1878-1962) che si prenderà cura della tomba fino alla morte, ci sono inoltre un paio di indicazioni sulla lapide. «Una vecchia lapide» è il desiderio, «si cancellino le iscrizioni precedenti». E così è stato, se ne è occupata Baladine Klossowska (1886-1968): pittrice amatoriale polacca amata da Rilke e tra l’altro madre del pittore Balthus e l’intellettuale Pierre Klossowski. Proviene da un cimitero parigino abbandonato, nei
pressi dell’ippodromo di Longchamp, era di una clarissa isabelliana della vicina abbazia distrutta durante la rivoluzione francese. Il compito di cancellare e scolpire la lapide di seconda mano addossata alle mura meridionali della chiesa, è stato affidato al fratello del pittore olandese Kees van Dongen. Pietra chiara, color meringa, magari del sud della Francia. Considerato al pari delle sue opere maggiori, questo epitaffio tipo haiku sembra un rebus. Da non risolvere però. «Pura contraddizione» come la rosa invocata: profumo e spine. Ultime parole che attraggono il cuore e al contempo sfuggono ogni contatto. Conta solo l’epitaffio in purezza: misterioso e limpido. «Io temo tanto la parola degli uomini. Dicono sempre tutto così chiaro: questo si chiama cane e quello casa» scrive lo stesso Rilke in una poesia giovanile che finisce così: «A me piace sentire le cose cantare! Voi le toccate e diventano rigide e mute! Voi mi uccidete le cose!». Vi risparmio dunque le vane interpretazioni
dei critici blateranti, fuorviati tutti da metafore, simboli, significati occulti. Quello che è, è lì da leggere. Certo, al contempo è anche qualcos’altro, da cogliere appena e da non dire però con certezza e lasciare libero di andare come volpi nella notte. Un titolo di Paul Celan riaffiora veloce: Die Niemandsrose (1963), ricordo poi petali di rosa sparsi dieci anni fa nella Senna. La vista, da quest’angolo di mondo dove riposa Rilke, va detto, non è un granché: troppe palazzine deprimenti, industrie, una cava laggiù che sventra la montagna. Il nuovo tunnel del Lötschberg, almeno, sempre in territorio di Raron, da qui è invisibile. Curiosamente, qui sotto, una seconda chiesa del 1974 è anche scavata nella roccia. Là verso Sierre alzando gli occhi però, la neve sopra CransMontana risolleva lo spirito. Come quel goal su punizione di Georges Bregy ai mondiali americani che ha stupito tutti. Convocato a sorpresa quando si era già ritirato, Bregy nasce nel 1958 qui a Raron.
era da meno, nel privato. Indossava abiti di seconda mano, e, in albergo, metteva nel minibar bibite comprate al supermercato. Tutto ciò, in nome della coerenza, fra il dire e il fare. Dichiarava: «Se pratico il lusso, non posso predicare il risparmio». Un risparmio elevato a virtù, sinonimo di modestia, avvedutezza, misura, da proporre come modello di correttezza etica. Nei confronti di questo, e di tanti altri paperoni, si giustifica però il sospetto che dietro la parsimonia non ci sia un ripensamento di tipo morale o ideologico, ma, semplicemente, l’avarizia. Cioè, una questione di dna, impronta che caratterizza modi di vita e mentalità ampiamente diffusi. E sembra, persino, che questo codice genetico prediliga proprio i ricchi. Gli esempi di facoltosi taccagni si sprecano, tanto da confermare una stretta coincidenza. L’avarizia, insomma, è collegata a una forma di talento. Per trasformare l’acquisto in affare, per approfittare del momento giusto in borsa,
per captare segnali che sono nell’aria serve quel sesto senso, non virtuoso ma, a suo modo, creativo. Non per niente ha dato vita, nella letteratura, nel teatro, nel cinema a personaggi emblematici immortali. Dall’Arpagone di Molière allo Shylock di Shakespeare, allo Scrooge di Dickens e, non da ultimo, allo zio Paperone di Disney, la finzione ricrea comportamenti e sentimenti di cui siamo sempre testimoni nella realtà vissuta. Capita, ogni giorno, d’imbattersi nel tirchio di turno che, oggi, cerca di farsi passare per ambientalista, confondendo le carte in tavola. Non si difende la natura, ricorrendo a trucchetti meschini e persino assurdi. E qui l’elenco sarebbe lungo: entrare nella sala da concerto, senza pagare, durante la pausa, leggere il quotidiano, tolto dalla cassetta del vicino, e poi rimetterlo. E, riciclare le agende dell’anno prima: «Tanto Natale è sempre il 25 dicembre», dichiarava, l’autore di un risparmio in fondo misterioso.
A due passi di Oliver Scharpf L’epitaffio di Rilke a Raron Rilke muore al sanatorio Valmont di Glion, sopra Montreux, il ventinove dicembre 1926. Il due gennaio 1927 viene sepolto, secondo le sue volontà, nel cimitero dell’antica chiesa appollaiata su una roccia a Raron, in Vallese. Arrivo a Raron a mezzogiorno e quattordici con il regionale preso un attimo fa a Visp. A passi lunghi «da filosofo viennese» come li chiama Jack Kerouac ne I sotterranei (1957), supero il Rodano, sulle cui rive, qui vicino, qualche anno fa, trovano un lupo ucciso. La chiesa tardogotica lassù è uno dei primi posti dove Rilke, a suo dire, accoglie il vento e la luce vallesani con tutte le promesse realizzate in seguito nel castello di Muzot. Lì infatti termina le Elegie duinesi (1923) iniziate nel castello di Duino. Se il castello di Duino è un vero castello affacciato a strapiombo sull’Adriatico a nord di Trieste, il castello di Muzot è chiamato così ma in realtà è un piccolo e sobrio maniero duecentesco con frontone a gradoni in mezzo ai vigneti di Veyras, due chilometri
sopra Sierre e ventiquattro da qui. In un quarto d’ora – attraverso questo paese soporifero di millenovecentotredici anime che si è appropriato del nome del famoso poeta nato a Praga: Rilkedorf sottolinea, a ogni piè sospinto, la segnaletica – sono su. In cima allo sperone roccioso fortificato. A far compagnia alla chiesa di San Romano, costruita sulle rovine di un castello verso il 1512, c’è la torre dei vicedonni e la canonica, oggi museo, chiuso in inverno. Accanto al cimitero, due scheletrici alberi avvolti dall’edera. Un crocifisso gigante risalta tra le tombe. Tiro dritto, aggirando il coro decagonale dove si trovano alcune sepolture. Dietro l’angolo, contro la facciata sud, ecco solitaria, la tomba di Rainer Maria Rilke. Croce di legno con su le iniziali, l’anno di morte e di nascita: 1875. Ai suoi piedi a sinistra, bacche di rosa canina. Un mazzo di rose gialle rinsecchite dimora, ai primi di febbraio, in mezzo a un cespuglio di lavanda. Sulla lapide, sotto lo stemma e il nome, si legge «Rose, oh reiner Widerspruch,
Mode e modi di Luciana Caglio Tirchio o saggio: fa discutere Mr. Ikea Quando si dice lasciare il segno: Ingvar Kamprad ci è riuscito, nel modo più incisivo e visibile del termine. Un po’ di Ikea l’abbiamo tutti quanti sotto gli occhi: una scrivania, una lampada, una tovaglia. Sono quegli oggetti, piccoli e grandi, ispirati al design scandinavo
Ingvar Kamprad.
che fece tendenza, a partire dal dopoguerra, e di cui l’imprenditore svedese doveva offrire un’interpretazione popolare. Erano l’alternativa accessibile rispetto ai pezzi, firmati da architetti famosi, esposti nelle boutiques. Sin qui, si sta parlando degli aspetti risaputi di un successo industriale e commerciale, dovuto a un’intuizione vincente: come avviene quando i prodotti coincidono con le necessità e i desideri del grande pubblico. Questa volta, però, è un caso a parte, che supera le dimensioni e gli effetti di un normale successo aziendale. Ideando e producendo mobili scomponibili e suppellettili funzionali, Kamprad è diventato non soltanto milionario ma, addirittura, multimiliardario, tanto da figurare in testa alla classifica mondiale dei superricchi. In Svizzera, dove si trasferì nel 1976, per motivi fiscali, ha detenuto, per decenni, il primato: una fortuna che, secondo le più recenti valutazioni, si aggira sui 40 miliardi di franchi.
Ora, è proprio l’enormità di questa ricchezza ad attribuire a Mr. Ikea una fisionomia dai tratti contrastanti, per non dire ambigui, che l’ha reso leggendario in vita, e continua a far discutere, dopo la scomparsa. Certo, il personaggio si prestava alle ironie dei cronisti, che raccontavano le abitudini spartane di un anziano dimesso che comprava il pane, alla sera, a prezzo scontato, guidava un’utilitaria scassata, volava low cost. Potevano sembrare banali pettegolezzi, sfruttati dai media. Le biografie confermano che si trattava di una scelta di vita, agli inizi spontanea, poi cresciuta a lezione morale. Far soldi, ce l’aveva nel sangue: a 5 anni, vendeva, uno alla volta, i fiammiferi, comprati nelle scatolette. Adolescente, investì una piccola somma, regalo del padre, in un commercio postale. Da industriale, adottò il risparmio come principio guida, cominciando dalle piccole cose: usare le due facciate di ogni foglio e girare gli interruttori della luce, solo quand’è indispensabile. Non
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Ambiente e Benessere Viaggiando per finta Pare diventare sempre più di moda la realtà virtuale applicata al turismo
Le alte passerelle londinesi La famosa e molto visitata Tower Bridge ha aperto le porte delle sue segrete pagina 15
pagina 14
La difficile vita dei trichechi Reportage dalle Svalbard Isole artiche dove vivono colonie di pacifici pinnipedi
Gustoso piatto fruttato Agrodolce a base di gamberoni rosolati e serviti su un letto di fette d’arancia saltate pagina 18
pagina 17
I rischi del tabagismo Salute Il monitoraggio delle dipendenze
mostra che in Svizzera ancora troppe persone ignorano i danni provocati dal fumo
Maria Grazia Buletti Un recente studio realizzato da Monitorage suisse des addictions (Addiction Suisse) ha dimostrato che nel 2016 il 60% della popolazione svizzera era cosciente dei danni alla salute provocati dal fumo attivo o passivo. Gli intervistati hanno dimostrato di conoscere bene l’impatto del tabagismo sugli apparati cardiocircolatorio e polmonare, e sulla diminuzione della speranza di vita legata al rischio di malattie causate dalla sigaretta. Una percentuale leggermente più bassa (57%) degli interpellati era altresì cosciente del fatto che nel nostro Paese il tabacco è la maggiore causa dei decessi prematuri ed evitabili. D’altro canto, non si sottovaluti il rimanente 40% della popolazione che ignora i rischi legati al tabagismo. «In queste prime settimane del nuovo anno abbiamo già fatto quattro nuove diagnosi di carcinoma polmonare metastatizzante», esordisce il dottor Maurizio Bernasconi, caposervizio e responsabile del Servizio di Pneumologia all’Ospedale regionale Bellinzona e valli (Orbv), che sottolinea come l’80% delle cause di questo tumore sia riconducibile al fumo, mentre solo il restante 20% è attribuibile a cause sporadiche o genetiche. Fumare fa male alla salute e può accorciare la nostra speranza di vita. In Svizzera ogni anno 7mila persone muoiono per il tabacco, di cui è importante definire il concetto di dipendenza: «Se ne parla quando c’è una forte necessità di accendere la sigaretta per ricevere una boccata di nicotina. Il grado di dipendenza può essere valutato chiedendo al fumatore quando fuma la prima sigaretta della giornata: il tabagista molto dipendente, dopo una latenza massima notturna di 7-8 ore dall’ultima sigaretta, sentirà l’esigenza di fumare prima ancora di andare in bagno o fare colazione». Meno dipendente, ma non per questo senza rischio, è colui che fuma saltuariamente o in occasioni particolari: «Queste persone incontreranno meno difficoltà nello smettere di fumare rispetto al fumatore fortemente dipendente da nicotina, i cui recettori cerebrali non possono stare senza». Ancora troppi (40% della popolazione) ignorano o vogliono ignorare i rischi legati al tabagismo. Addiction Suisse li identifica in quattro distinti gruppi:
«Le persone sotto i 20 anni e sopra i 44, quelle con un basso livello socio-culturale, i fumatori abituali e i fumatori che non vogliono smettere». Queste persone sminuiscono le conseguenze legate al tabagismo o non vogliono darvi credito. «È un processo mentale legato al nostro essere: tutta la vita respingiamo l’eventualità della malattia o della morte, e fatichiamo a pensare che ciò che facciamo possa avere un influsso sulla nostra salute». Così, l’individuo che gode di buona salute fatica a pensare che potrebbe, un giorno, contrarre una grave malattia o avere un infortunio: «Le persone si nascondono dietro l’alibi del “nonno che ha fumato tutta la vita e non gli è successo nulla”, per cui sono convinte che andrà bene anche a loro». Ma così non è e il fumo miete vittime già nel grembo materno: «Se la futura mamma fuma, il rischio di aborto è maggiore, mentre nel periodo dopo il parto aumenta il rischio di morte bianca per i bimbi di madri fumatrici. È pure provato che i bambini piccoli esposti a fumo passivo hanno maggiore rischio di sviluppare polmoni più piccoli, di andare incontro a polmoniti e soprattutto di diventare poi a loro volta fumatori. Infatti, è noto che, a causa della forte influenza degli adulti, metà degli adolescenti fumatori (a 15 anni) hanno genitori che fumavano, in una sorta di banalizzazione della consapevolezza dei rischi insiti nel tabacco». Parlando di giovani, il dottor Bernasconi rincara la dose: «Chi inizia a fumare prima dei 21 anni rischia di rimanere fumatore a vita». Il pneumologo rende attento chi si nasconde dietro la chimera della minore nocività del fumo di marijuana: «Non ci sono studi comparativi che ne attestino il minore impatto rispetto alla sigaretta; spesso queste persone fumano anche sigarette e sono a rischio di sviluppare un enfisema polmonare severo precoce». Pensare che la canapa non sia nociva sul polmone è dunque sbagliato: «È comunque tabacco e produce gli stessi effetti, in aggiunta al forte potenziale allergico che potrebbe portare a episodi asmatici». Presto riassunti i rischi per la salute dovuti al tabagismo: «Nei fumatori dobbiamo tenere conto dei rischi cardiovascolari come arteriosclerosi precoce, infarto e ictus seguiti dai rischi polmonari che contemplano la
Il dottor Maurizio Bernasconi, caposervizio e responsabile del Servizio di Pneumologia all’Orbv. (Vincenzo Cammarata)
malattia cronica ostruttiva del fumatore (enfisema) in cui egli rischia 8 volte più di sviluppare la malattia rispetto a chi non fuma, e il carcinoma polmonare per cui il rischio sale a 25 volte nei fumatori rispetto ai non fumatori. Non dimentichiamo le altre malattie oncologiche legate al tabacco: l’esposizione a sostanze cancerogene nel fumo (sono più di 70 nella sigaretta) toccano tutte le vie aeree, dalle labbra, alla trachea fino ai polmoni, e una parte è assimilata dal corpo col rischio di sviluppo del carcinoma vescicale». Smettere di fumare sarebbe una buona scelta, non cominciare la migliore: «Il fumatore di lunga data che smette non è immune dallo sviluppare comunque un carcinoma polmonare negli anni a venire; il rischio diminuisce comunque in maniera sostanziale da 25 a 8 volte rispetto a chi non ha mai fumato». Chi di noi non ha un conoscente o un parente che ha sviluppato
questa malattia o che ne è morto? Vale la pena di riflettere su cosa si può ancora fare per migliorare la percentuale di chi è responsabilmente cosciente dei rischi legati al fumo: «In Australia, tra i giovani si è giunti a un tasso di fumatori del 5% mentre da noi è del 12%. Per tutelare i nostri ragazzi si può fare ancora parecchio: bisognerebbe dare un giro di vite alla legge sulla pubblicità e il prezzo della sigaretta dovrebbe essere aumentato sostanzialmente in poco tempo, solo per fare qualche esempio». Determinanti restano la prevenzione mirata e la messa in atto delle disposizioni legali in vigore secondo le quali non si può vendere tabacco ai minorenni. La posta in gioco è davvero alta, soprattutto considerando la grande vulnerabilità giovanile. «Tutti gli ospedali ticinesi dell’EOC, inoltre, dispongono di un programma di disassuefazione dal fumo che combina un accompagnamento motivazionale
e spesso una terapia farmacologica per ridurre la voglia di fumare; la percentuale dei fumatori che riescono a smettere a 6 mesi dall’inizio del programma è di circa il 30%, ma vale la pena tentare». La posta in gioco rimane la propria salute, quella dei nostri cari e una speranza di vita ottimale.
Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista al dottor Maurizio Bernasconi.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Ambiente e Benessere
Dove ci siamo già visti?
A scuola di viaggio
Viaggiatori d’Occidente La realtà virtuale è sempre più importante nel turismo
Corso U n nuovo
Videogame, cinema, vendite online saranno solo alcuni dei settori trasformati in profondità dalla realtà virtuale. E tra questi troveremo senza dubbio anche i viaggi e il turismo: secondo una recente ricerca infatti la maggioranza degli utilizzatori della realtà virtuale è più interessata al viaggio (tre quarti del totale) rispetto alle altre alternative. Quando la realtà virtuale fece la sua comparsa, sembrava destinata a sostituire l’esperienza concreta del viaggio. Chi avrebbe ancora voluto affrontare tutte le incertezze e le scomodità del mondo là fuori quando poteva vivere la stessa avventura comodamente seduto in poltrona nel proprio salotto? Ma non è andata così. Piuttosto la realtà virtuale si sta integrando nell’esperienza del viaggio contemporaneo, ne è diventata parte; soprattutto prima della partenza, quando ancora non abbiamo preso una decisione, la realtà virtuale ci permette di farci un’idea di quel che ci aspetta. Siamo agli inizi ma gli esperimenti si moltiplicano. Volete sapere come sarà il vostro aereo? Austrian Airlines è lieta di mostrarvelo virtualmente. Allo stesso modo il portale di prenotazioni online Expedia vi fa visitare le camere d’albergo in vendita, come anche la grande catena di alberghi Marriott o i villaggi vacanza Club Med. Carnival vi porta a bordo di una delle loro navi da crociera. Una volta trovato l’alloggio, è tempo di esperienze. Potreste per esempio scendere il Grand Canyon dell’Arizona in canoa o scalare il Monte Everest o ancora visitare una cella del famoso carcere di Alcatraz. Matoke Tours, un tour operator africano di nicchia, propone un intero catalogo virtuale: preferite volare nel cielo dell’Uganda su una mongolfiera o trovarvi faccia a faccia con un gorilla della foresta? La tecnologia più semplice utilizza video a 360 gradi, condivisi su YouTube o Facebook. I più spettacolari sono opera degli uffici del turismo, ma sono già disponibili in commercio per tutti fotocamere con questa funzione, così come applicazioni per smartphone. Per effetti sempre più verosimili sono
«Prova a immaginare il tuo prossimo viaggio: dimmi dove andrai, come ci andrai e un’idea per rendere quel viaggio memorabile». È uno dei divertenti esercizi proposti nel laboratorio dedicato all’arte di viaggiare, organizzato da Scuola Club Migros Lugano in collaborazione con «Azione». Questo laboratorio è diventato da un paio di anni un appuntamento regolare, grazie anche al passaparola dei primi partecipanti. Nelle aule della Scuola Club Migros Lugano, l’intera esperienza del viaggio viene messa in gioco tra racconti, letture, discussioni e scrittura: è un investimento per i viaggi futuri, utile a chi vuole diventare un viaggiatore migliore. L’insegnante sarà Claudio Visentin, fondatore della Scuola del Viaggio (www.scuoladelviaggio.it), giornalista, conduttore radiofonico, docente universitario e curatore della nostra rubrica Viaggiatori d’Occidente. Si inizierà spiegando come progettare un viaggio interessante, come prendere appunti strada facendo, come rielaborare quanto visto dopo il ritorno a casa. In seguito sarà approfondita la scrittura di viaggio nelle sue diverse forme, dal racconto al reportage, alternando testo e immagini, anche con alcuni divertenti esercizi. Il laboratorio è aperto a tutti: dai principianti a chi ha già qualche esperienza di scrittura. L’appuntamento è per sabato 24 febbraio 2018, ore 9.0012.00 e 13.00-16.00, presso la Scuola Club Migros Lugano, via Pretorio 15. Il costo dell’iscrizione è di CHF 144 (con uno sconto del 10 per cento a chi porterà o citerà «Azione» al momento dell’iscrizione); inoltre a ogni partecipante verrà donato il taccuino della Scuola Migros. Il corso è a numero chiuso (massimo 12 partecipanti, in ordine d’iscrizione sino a esaurimento dei posti disponibili). È possibile iscriversi presso la segreteria della Scuola Club Migros Lugano per telefono (091 821 71 50), via posta elettronica: scuolaclub.lugano@migrosticino.ch o direttamente sul sito internet www. scuola-club.ch.
Pxhere
Claudio Visentin
laboratorio con Scuola Club Migros Lugano
necessari dispositivi di realtà virtuale, per esempio Oculus Rift (l’azienda produttrice è stata acquistata proprio da Facebook) o Samsung VR Headset. Secondo Forbes entro il 2020 l’1 per cento della popolazione mondiale possiederà questi dispositivi. Certo un po’ di cautela nelle previsioni non guasta mai. Dopo tutto nel 2014 si dava per certo che Google Glass avrebbe preso il posto degli agenti di viaggio grazie all’app Travel Congierce: un ologramma nel campo visivo dell’utente avrebbe fornito tutte le informazioni richieste. Beh, non è andata proprio così e nel 2016 l’intero progetto è stato abbandonato... Ma è altrettanto possibile che il numero dei dispositivi di realtà aumentata cresca più rapidamente del previsto, com’è avvenuto per esempio con gli smartphone: una volta trovato il giusto punto d’equilibrio tra qualità e prezzo, la loro diffusione è stata inarrestabile. Le più interessate a queste forme di comunicazione virtuale sono le destinazioni prive di monumenti famosi ma con un paesaggio suggestivo: il Galles
è un ottimo esempio e infatti sta investendo molto in questa direzione. Il confine tra realtà e intrattenimento viene spesso varcato nelle due direzioni. A volte lo scenario di un videogame è particolarmente accurato e per lunghe fasi del gioco si possono esplorare ambienti ispirati alla realtà, del presente o del passato. In Assassin’s Creed il protagonista, Ezio Auditore, esplora le città di Firenze, Monteriggioni, Venezia, Forlì, San Gimignano e il Vaticano a Roma, così come apparivano all’epoca del Rinascimento. In altri casi la destinazione turistica utilizza la realtà aumentata, ovvero l’aggiunta di informazioni digitali alla scena reale. Per esempio a Waterford, storica città irlandese, è stata ricostruita la copia di una casa vichinga (King of Vikings). Indossando un dispositivo di realtà virtuale, e con l’aiuto di diversi attori, si torna indietro nel tempo di un millennio per incontrare il leggendario capo vichingo Reginald, fondatore di Veðrafjorðr (Waterford). L’utilizzo della realtà aumentata è già abituale anche in molti musei o siti archeologici, dove le sparse rovine o gli scheletri dei dino-
sauri non sollecitano abbastanza l’immaginazione dei visitatori. Se tutti concordano sulla futura diffusione della realtà virtuale nel campo del turismo, le valutazioni sono invece contrastanti: sarà la fine del viaggio così come lo abbiamo conosciuto? Uno scambio al ribasso tra realtà e rappresentazione? O siamo forse troppo pessimisti e la realtà virtuale sarà soltanto una delle tante forme d’interazione tra viaggio e tecnologia? I turisti di massa potrebbero essere incuriositi e sedotti dalla realtà virtuale, ma i viaggiatori più esperti? Molti di loro apprezzano nel viaggio proprio la possibilità di liberarsi per qualche tempo dall’eccesso di tecnologia della vita quotidiana. E in viaggio non cercano un’esperienza astratta dei luoghi, quanto piuttosto il contatto con la popolazione locale, quanto più possibile autentico e immediato. La realtà virtuale è solo un nuovo gioco che presto stanca o un’inedita dimensione spaziale e immaginativa della nostra esistenza? Il viaggiatore d’Occidente lascia aperta la domanda ma, dentro di sé, non ha dubbi...
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Ambiente e Benessere
Dietro le quinte del Tower Bridge Reportage Un tour esclusivo del celebre ponte londinese
rivela una storia affascinante, suggestive sale sconosciute e curiosità sorprendenti
Simona Dalla Valle «London calling to the faraway towns» cantavano i Clash nel 1979, e quasi quarant’anni dopo Londra continua a chiamare: sempre più visitatori di età e provenienze diverse viaggiano ogni giorno verso la capitale britannica. Ad affascinare sono soprattutto l’eclettismo e le opportunità che la città offre: dai rintocchi regolari del Big Ben (attualmente in restauro fino al 2021) alla straordinaria varietà di cibo etnico, dagli anniversari ed eventi legati all’amata Royal Family al rosso acceso delle cabine telefoniche ormai in disuso. E non si può non menzionare i tradizionali black cabs, i vicoli ciottolati di Soho, le bancarelle e il frastuono di Camden, i locali e i graffiti di Shoreditch, i pittoreschi autobus a due piani e i numerosi ponti che attraversano il Tamigi, ognuno con un proprio stile e una propria storia. Tra di essi, uno dei più apprezzati è il Tower Bridge, contraddistinto dal colore acceso e dalla struttura mobile. Ma cosa si conosce della sua origine? Con l’espansione di Londra e la sua ascesa a potenza marittima durante il XIX secolo il porto della città, racchiuso nella Pool of London, era soggetto a un massiccio passaggio di imbarcazioni che trasportavano prevalentemente zucchero, tè e cotone. Il London Bridge era l’unico ponte allora esistente e un numero sempre maggiore di persone dall’East End si spostava verso ovest per lavorare utilizzando il Tower Subway, un tunnel lungo 410 metri il cui costo d’accesso era di mezzo penny. La proposta di costruzione del Tower Bridge a opera dell’architetto Horace Jones prevedeva una struttura basculante alimentata a vapore arricchita da due torri e passerelle pedonali sopraelevate e, sebbene l’architetto non visse abbastanza a lungo da vedere ultimata la sua opera, il ponte fu finalmente inaugurato nel 1894. Dei 432 uomini impiegati nella costruzione del ponte, solo 10 persero la vita: il dato è sorprendente, se si considera la totale assenza di normative in materia di sicurezza. Il ponte fu decorato in un ricercato stile neogotico e la sua struttura era, per i suoi tempi, estremamente innovativa: costruito in pietra e acciaio dipinto di marrone, vantava un sofisticato meccanismo a pompa idraulica, sostituito in anni più recenti da un sistema a conduzione elettrica. Il caratteristico colore azzurro fu scelto in occasione del giubileo della regina nel 1977, e molti dei macchinari originali sono conservati all’interno delle Machinery ed Engine Rooms, sebbene inutilizzati. Il ponte, attraversato da oltre 40mila persone ogni giorno, si apre circa mille volte all’anno – la richiesta di
passaggio in nave è gratuita e deve essere effettuata con almeno 24 ore di anticipo – impiegando circa 90 secondi. Le passerelle pedonali, che oggi ospitano un museo e sono visitabili a pagamento, erano aperte dall’alba al tramonto e illuminate da lampade a gas. Presto tramutatesi in un covo di prostitute e borseggiatori, furono chiuse al pubblico fino al 1982. Una delle attività meno piacevoli per il personale del ponte era il ripescaggio di cadaveri dalle acque del Tamigi: vittime di omicidi, morti per annegamento o suicidio. Le molte famiglie che non potevano permettersi una sepoltura non reclamavano i corpi, i quali erano quindi trasferiti in una cella posta sul lato nord del ponte, presto soprannominata Dead Man’s Hole. Alcune aree del Tower Bridge vengono eccezionalmente aperte al pubblico in occasione di tour «dietro le quinte» nei fine settimana invernali, offrendo un accesso esclusivo non solo alle passerelle con pavimenti in vetro dalle quali si possono ammirare spettacolari (e vertiginose!) viste sul Tamigi, ma anche ai macchinari delle Engine Rooms e alle suggestive Bascule Chambers, le imponenti sale che permettono la rotazione degli enormi contrappesi utilizzati in occasione dell’apertura del ponte, poste al di sotto del livello delle acque del Tamigi. Normalmente chiuse al pubblico, le Bascule Chambers hanno ospitato eventi speciali come una serie di performance musicali a cura del compositore Iain Chambers o eventi di carattere teatrale. Il celebre ponte è stato teatro di vicende «aeree» più o meno sorprendenti. Nel 1917 Thomas Hans Orde-Lees, membro dei Royal Flying Corps, si gettò dal Tower Bridge con un paracadute. All’epoca i paracadute erano pressoché una novità, e con questo gesto plateale Orde-Lees cercava di convincere le forze armate britanniche della loro efficacia. Il suo è ancora oggi considerato il lancio dalla quota più bassa mai effettuato – e la coraggiosa impresa da lui compiuta ebbe successo, poco più tardi i RFC formarono infatti la prima divisione paracadutisti. Nel 1952 l’autobus 78 a due piani guidato dall’autista Albert Gunter stava attraversando il Tower Bridge diretto a Shoreditch. In quel periodo l’apertura del ponte era segnalata dall’addetto al controllo con un campanello, ma quel giorno qualcosa andò storto e l’autobus passò mentre il ponte si apriva. Con una grande prontezza di riflessi Gunter premette l’acceleratore riuscendo a balzare dal lato opposto del ponte, ancora abbassato, mettendo in salvo se stesso e i 20 passeggeri a bordo. Per il suo gesto coraggioso fu ricompensato con un giorno di ferie e 10 sterline.
Nel 1968, anno del cinquantesimo anniversario della Royal Air Force, il pilota Alan Richard Pollock manovrò il suo velivolo a bassa quota senza autorizzazione sfiorando la superficie del Tamigi, oltrepassando le Houses of
Parliament e rischiando di un soffio la collisione con le passerelle sopraelevate del Tower Bridge. L’uomo fu arrestato immediatamente dopo l’atterraggio e in seguito espulso dalla RAF. Nell’estate del 1973 un monomo-
tore Beagle Pup fu manovrato dal ventinovenne Paul Martin per due volte al di sotto delle passerelle pedonali del Tower Bridge, prima di sfiorare diversi edifici e schiantarsi nella regione del Lake District circa due ore più tardi. Più recentemente, nel 2009 il pilota australiano di motocross freestyle Robbie Maddison si è esibito in un rocambolesco salto mortale da un punto all’altro del ponte aperto. Infine, è già diventato storico il filmato trasmesso durante la cerimonia di apertura delle Olimpiadi del 2012, che mostrava due elicotteri mentre attraversavano in volo il Tower Bridge trasportando la regina Elisabetta II, la quale in perfetto stile Bond girl si è lanciata poi con il paracadute sull’Olympic Stadium insieme all’attore di 007 Daniel Craig. Dalla finzione alla realtà, perché la magia di Londra è anche questa: subito dopo, la sovrana è apparsa all’interno dello stadio accompagnata dal marito Filippo d’Edimburgo.
SensibilitĂ femminile
Solo le mamme sanno cosa significa partorire. Fatta eccezione per i maschi di cavalluccio marino. Le femmine depongono infatti le uova in un apposito marsupio dei maschi che provvedono a fecondarle, nutrirle e covarle. Dopo circa dodici giorni, sono loro che danno alla luce i piccoli, passando attraverso le doglie del parto. Per altre meraviglie: mari.wwf.ch
Proteggiamo le meraviglie della natura.
SPINAS CIVIL VOICES
Il mammo, una meraviglia dei mari
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Ambiente e Benessere
Vivere alla sommità del mondo
Mondo sommerso I trichechi sono fra gli animali più buffi e pacifici di tutto il pianeta,
almeno finché qualcosa non scateni il panico nelle colonie in cui vivono
Sabrina Belloni, foto di Franco Banfi La maggioranza dei trichechi vive all’interno del circolo polare artico e nei mari limitrofi. Le terre, i ghiacci e gli oceani nei quali dimorano sono unici, caratterizzati da significativi contrasti, e determinanti per la loro esistenza. Fra questi c’è l’arcipelago delle Svalbard, isole dell’oceano Artico appartenenti politicamente alla Norvegia. Le Svalbard occupano un territorio fra il 74° e l’81° parallelo settentrionale: sono il secondo luogo abitato più settentrionale al mondo (dopo l’isola canadese di Ellesmere). Si trovano a circa 1300 km oltre il circolo polare artico e non tanto distanti dal polo nord. Sono un luogo remoto, estremo, selvaggio, che ospita fauna e flora spettacolari, sia in acqua sia nella parte emersa. Negli ambienti così isolati ed estremi, la natura determina ogni cosa, e i trichechi sono ben adattati a questa nicchia ecologica, considerando la loro forza e le loro caratteristiche morfologiche. Sono uno dei maggiori pinnipedi e i maschi adulti possono raggiungere i 1350 kg di peso. Tuttavia, la loro corporatura massiccia, le zanne, il grasso e i muscoli possono rilevarsi insufficienti per sopravvivere ai cambiamenti climatici causati dall’uomo al loro ambiente. Il riscaldamento climatico ha determinato recentemente una significativa diminuzione del ghiaccio artico e delle banchise, le quali inoltre sono assenti per un tempo significativamente maggiore rispetto al passato. I trichechi, così come gli altri mammiferi che vivono in Artico, dipendono totalmente dal ghiaccio per tutti gli aspetti essenziali della loro vita: per spostarsi, cacciare, nutrirsi e il più importante di tutti, per riprodursi. Sono pertanto molto influenzati dalle variazioni del loro habitat. Quando il ghiaccio si dissolve, questi mammiferi baffuti e brontoloni devono trascorrere maggior tempo sulla terra emersa e cibarsi vicino alla costa anziché nei fondali, molto più ricchi di nutrimento. Le femmine sono costrette a partorire sulla terraferma, dove i piccoli sono a rischio di essere schiacciati dagli adulti o di essere predati dagli orsi polari. Infine, i trichechi trascorrono molto più tempo in mare, nuotando per spostarsi da una costa a un’altra, il che li espone a maggiori rischi di inquinamento (come quello chimico o acustico, ma anche fatto di plastiche, reti, eccetera). Ne esistono due sub-specie conosciute: il tricheco dell’oceano Atlantico e quello dell’oceano Pacifico, sebbene i ricercatori stiano cercando di capire se esiste una terza sub-specie, con caratte-
ristiche uniche, che vive in Russia, nel mare di Laptev. Come molti altri animali, anche i trichechi sono sempre stati sfruttati dagli uomini. La sub-specie atlantica fu decimata dai cacciatori fra il 1750 e il 1950, quando il grasso di questi animali era prezioso e utilizzato come lubrificante, la loro pelle spessa veniva conciata e le zanne utilizzate per ricavarne monili e attrezzature in avorio. Sebbene oggigiorno la caccia sia quasi ovunque proibita, il numero dei trichechi si incrementa molto lentamente poiché le femmine raggiungono la maturità sessuale fra i 6 e i 9 anni di età e partoriscono solamente un cucciolo ogni tre anni. Oltre agli uomini, i soli predatori dei trichechi sono le orche e gli orsi polari, i quali sono carnivori e dipendono fisiologicamente da un ingente consumo del grasso dei pinnipedi. Una diversa tipologia di cibo semplicemente non soddisfa le loro esigenze energetiche nel lungo periodo. Di solito gli orsi polari predano le foche. Tuttavia, quando queste non sono disponibili, sono costretti a sfamarsi con altre prede. I trichechi accumulano una grande quantità di grasso molto nutriente, ma sono altresì molto difficili da cacciare poiché sono animali potenti, sospettosi, sempre all’erta e vivono in grandi colonie.
Quando sono attaccati da un orso polare, denutrito e affamato, tutti i membri della colonia dei trichechi si mobilitano e iniziano a muoversi come se fossero un corpo unico, il che può disorientare un orso inesperto. Gli orsi hanno la necessità di minimizzare i rischi e massimizzare i risultati di ogni attacco, cercando di soddisfare un equilibrio fra le calorie ingerite e l’energia profusa nella caccia, nel contesto di un ambiente che evolve continuamente. Talvolta, a causa del caos che si crea nella colonia di trichechi, alcuni esemplari vecchi o
molto giovani si feriscono, e in queste rare occasioni diventano prede facili per nutrire orsi ridotti alla disperazione e all’estremo. I trichechi si cibano principalmente di mitili e molluschi bivalvi bentonici, che aspirano dai fondali. Trovano il cibo tramite le circa 400 vibrisse mistaciali, che ricoprono la parte terminale della faccia. Le vibrisse sono disposte come un ampio tappeto di setole abbastanza rigide, attorno alle zanne, e sono un organo tattile estremamente sensibile.
La loro vista non è acuta come quella di altri pinnipedi, poiché una visione perfetta non è necessaria per la loro sopravvivenza, considerato che si nutrono principalmente di conchiglie, adagiate sui fondali. Dopo essersi nutriti, solitamente si issano su una superficie emersa (terraferma o banchisa o lastra di ghiaccio alla deriva) per riposarsi, digerire con rumorosi brontolii, allargare e ripulire le vibrisse. Quando riemergono dopo un’immersione, soffiano attraverso entrambe le narici e la bocca. Guardare una colonia di trichechi che si trascina su una superficie emersa è come osservare uno sciame al rallentatore. I trichechi sono animali gregari per loro natura e formano grandi colonie, nelle quali trascorrono sonnecchiando lunghi periodi, finché un improvviso caos interrompe la quiete. La causa principale di queste agitazioni solitamente è un tricheco che cerca di cambiare posizione e, così facendo, spintona gli altri membri della colonia. Si determina una generale confusione, accompagnata da grugniti e soffi, qualche zanna che si intreccia e molto grasso che si schiaffeggia tra i vari esemplari. Dopo poco tempo tutto si acquieta, sino al caos successivo. Alcuni individui sono davvero curiosi. Non eravamo preparati al fatto che i trichechi fossero così curiosoni, e siamo rimasti sorpresi a vederli nuotare vigorosamente verso di noi, in acqua bassa, senza alcun cenno di timore o sospetto. Essere caricati da animali selvatici del peso di quasi una tonnellata è un’esperienza indimenticabile. Comunque ogni esemplare sembra avere una propria personalità, alcuni talmente timidi da non poter essere avvicinati. Sebbene i trichechi siano goffi e impacciati sulla superficie emersa, sorprendentemente si trasformano in animali aggraziati e idrodinamici quando sono in acqua. Come tutte le specie che vivono in Artico, la loro capacità di adattamento ai cambiamenti ambientali sarà un elemento cruciale per la loro sopravvivenza.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Ambiente e Benessere
Gamberoni su fette d’arancia piccanti
Migusto La ricetta della settimana
Secondo piatto
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
Ingredienti per 4 persone: 1 scalogno · 2 spicchi d’aglio · 1 peperoncino giallo · 1 arancia bionda · 4 c d’olio d’oliva · 16 gamberoni crudi non sgusciati · 1 cc di curcuma · 1 dl di vino bianco · 1 dl di fumetto di pesce · sale.
1. Tritate lo scalogno e l’aglio. Dimezzate il peperoncino per il lungo, privatelo dei semi e tagliatelo a striscioline. 2. Tagliate le arance a fette sottili. Scaldate l’olio in una padella ampia e rosolatevi i gamberoni da entrambi i lati per circa 1 minuto. Estraeteli e metteteli da parte. 3. Nella stessa padella aggiungete le fette d’arancia, il peperoncino, lo scalogno, l’aglio, la curcuma e rosolate bene il tutto. Sfumate con il vino bianco. 4. Rimettete i gamberoni in padella, incoperchiate e lasciate sobbollire per circa 5 minuti. 5. Salate, accomodate nei piatti e servite. Preparazione: circa 30 minuti. Per persona: circa 24 g di proteine, 10 g di grassi, 9 g di carboidrati, 250 kcal/1050 kJ.
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(Gioco di Capodanno inviato nel le dei giochi f 19
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
Ambiente e Benessere
(N. 1 - In Canada - Millenovecento trenta)
Federer, un mito a Lugano I N C I D I A N come a Melbourne I O L E 1
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S A N A I F A M I E L E 12 13 N O V O L Sportivamente Il grande tennista basilese si è confermato il più forte della storia con la conquista 14 15 16 del ventesimo Slam contro il croato Cilic L B A P E C E N P 17 18 L E T A R C O N T E Quelle volte quando si capiva predeve. La governante spagnola, la bra19 Alcide Bernasconi sto che il nostro Roger non era in fors’è data da fare per I N O T A vissima I Victoria, La notizia che fra le migliaia di lodi ma, magari disturbato da un ritorno soddisfare le esigenze della sua padro20mal di schiena o da chissà che altro, sperticate per la storica impresa del del na di casa, affinché i soci saliti in villa a nostro Roger Federer sarà forse stata non ho mai tentato la mossa col teleseguire A G I R E O sul grande schermo la sfida con notata solo da una piccola cerchia di video, ben sapendo che c’è un limite a il croato Marin Cilic, godessero di un 21 22 lettori ticinesi della «Repubblica» – il tutto, anche per me. Allora spegnevo impeccabile. Antipasti delicati C E T N servizio quotidiano che ci assicura i commenti il video e mi alzavo dalla poltrona, con eS champagne, seguiti a fine partita da tennistici più interessanti e meglio rac- la23fatica di chi da un paio d’anni visitaun buonissimo pranzo. contati, grazie alla «penna» di Gianni va ospedali e studi medici con grande I N T E R N AIo non ci sono andato, vista l’asClerici – è semplicemente questa: il ma- frequenza, tanto da vedersi costretto a senza di Donna Michelle volata in Au10
estro si trovava a Lugano ad ascoltare i commenti dei due inviati della RSI, Stefano Ferrando e l’ex campione nostrano Claudio Mezzadri. «Bravissimi», ha scritto Clerici. Il grande Gianni non è stato comunque l’unico a seguire la finale dell’Open d’Australia in riva al Ceresio. Anche noi, senza volere per questo menar vanto, abbiamo fatto lo stesso e, credo, anche molti altri appassionati dello sport della racchetta e non, sono rimasti a Lugano (e dintorni) trascorrendo una piacevole domenica mattina. Io, per la verità, ho rispolverato per l’occasione un mio vecchio vizio, quello di saltare dal commento in italiano a quello in francese e in tedesco, ricordandomi che con questo sotterfugio diedi una mano al nostro Marc Rosset che vinse nel 1992 la tiratissima finale olimpica a Barcellona, la prima dopo il ritorno del tennis nel programma delle Olimpiadi, titolo in palio. E la ventesima finale di un torneo dello Slam, che è stata tutt’altro che facile, conferma questa mia convinzione.
Giochi Cruciverba Non preoccuparti cara, probabilmente un giorno qualcuno entrerà nella tua vita, saprà capirti come nessun altro e ti chiederà soltanto... Completa la frase leggendo, a soluzione ultimata, le lettere evidenziate. (Frase: 8, 4, 1, 6)
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dichiarare forfait anche con l’appuntamento bisettimanale con l’«Azione». Di questo mi scuso con i lettori più generosi nei miei riguardi, quelli che ti assicurano di leggere sempre i tuoi pezzi, nonostante non ne fosse più sta1 2 to pubblicato alcuno per una pausa più lunga di quella che Federer s’era preso per rimettersi in sesto e tornare, a 36 6 anni, a mettere in riga tutti gli avversari. A qualcuno egli ha concesso la gioia 9 di averlo battuto, ma due suoi traguardi più prestigiosi – l’Open d’Australia e Wimbledon – non li aveva mancati. 11 Altra piccola pausa, ed eccolo, Roger, di nuovo pimpante per rivincere a 13 14 15 Melbourne, mentre due16 fra i suoi più irriducibili avversari della sua lunga carriera, 18 Nadal e Djokovic, non hanno an19 cora risolto i problemi fisici per i quali pure, come Federer, avevano deciso di 20 21 concedersi una sosta. Tuttavia Federer è ormai da anni 23mito, non solo dopo24 un il traguardo del ventesimo Slam conquistato fra il 2003 e il 2018,27 tanto che i giornali hanno già usato tutti gli aggettivi per descrivere il
stralia e ospite del miglior albergo di Melbourne. Grazie ancora, Victoria, per avermelo detto. Senza Michelle non ci sono e lei lo sapeva. Così dissi a mia moglie: «Questa finale voglio proprio vederla con te». Victoria, che sa tutto, avrebbe detto «bugiardo», a mezza voce. Ma in effetti mia moglie era troppo indaffarata, per il fatto che stava diventando nonna per la seconda volta. Anch’io stavo per vivere le stesse ansie ed emozioni. Prima di tutto per il nostro mito, re Roger. «Chiamami quando si gioca l’ulti9 colpo», mi disse la mia compagna, mo anche lei tifosa di Federer (ci mancherebbe altro!). 8 E2così feci. 4 Quando 1 il5basilese alzò la racchetta al cielo io gridai con la strozza in gola e feci un verso non 4 3 troppo umano, che Cilic volle ricacciarmi in gola chiedendo di rivedere se 5 dentro o fuori. 4 la2risposta del mito fosse La pallina, stavolta benevola, era andata5a lisciare pelo della linea. 9 il 3 2 Quindi: dentro! Confesso che qualche lacrima di commozione mi ha7 rigato il volto. Insomma, stavolta prima di Federer.
(N. 2 - Okapi - Del Congo - Ossiconi) 3
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B R O SUDOKU K E R PER AZ 7 8 D A O P N.R1 A FACILE 10 Roger Federer bacia la coppa dell’Open d’Australia. (Keystone) A M ISchema A D A campione12più grande che il tennis abbia paio d’anni fa una signora di Zurigo che 4 ClubE 2 mai avuto. Probabilmente irraggiun- voleva iscriversi al «Federer Fans N G U A I gibile. Al punto che molti altri grandi via Collinetta», e si sentì rispondere che 17 di varie discipline reggono con fatica il non esiste, è pura fantasia pur con 6I qual- G O G N A Lbrandello E diC paragone. che verità,C come i risultati e A questo punto ci sarà chi di voi, altre cose che tutti sanno. «È una vergo5 cortesi lettori, dato che di Federer avete gna», disse la signora e riattaccò. A G I O C E D U O già letto tutto, si sarà chiesto come mai Federer del resto non ci ha mai in22 non ho detto ancora nulla della mia terpellati per saperne di più. Di lui, se T attenti, A diciamo O sempreLpoco Ao S E R S complice – Donna Michelle – di questa siete 25 26 campione, sconnessa storia del nostro nulla. Protagonista della storia è il no8 ossia quella che racconto raccogliendo stro – sia ben I immaginario D clubC Ochiaro: S T I M E qua e là indiscrezioni, non so davvero immaginario – la cui sede in cima a via 3 28 quanto attendibili. Nessuno, salvo un Collinetta è stata imbandierata come si I N E T T O O L I
1 4 Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba 4 6 9 5 (N. 3 - ... sessanta euro seduta) e unaadelle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 9 3 7 6 1 2 3 4 5 6 7 8 Sudoku 9 11 13
MEDIO M U S E R N.T 2 O 10 Scoprire i 3 A S I A 1 4 L 6 O9 N numeri corretti Giochi per “Azione” Gennaio 2018 da inserire nelle caselle R colorate. O Sargentini I 2 C E N E7 Stefania 15 16 3 (Gioco di Capodanno nel leR dei giochi D S inviato U I festivi)S 3 2 (N. 118- In Canada - Millenovecento trenta) A I U T O O C 5 I N C I S A N A I F 20 21 CL6 A S O3 D I A N A M I E E 7 23 I O L E N O V O L E D O L B A P E 4 C E N P 24 L E T A R C O N T E O 8D I N O T A I A G I R E O 9 6 T A 5 T I4 C E T N S
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ORIZZONTALI 1. Sul capo del vincitore 5. Ispirava i poeti 9. Dagli Urali al Giappone 10. Un mammifero agile nuotatore 11. Re di Francia 12. La prova del… fuoco 13. Le iniziali dell’attore Sutherland 14. Cantone della Svizzera 15. Strato esterno della Terra 17. Appoggio caritatevole 18. È stupida ma ha fegato... 19. Una combinazione 21. Le iniziali di un Giannini attore 22. Antico nome di Tokyo 23. Depone uova verdi 24. È «aperto» a Londra 25. Nome femminile Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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VERTICALI 1. Piccolo pesce marino 2. Prezzi troppo alti 3. Passano mormorando 4. Conta solo alla fine... 5. Possessivo francese 2 3 delle Nazioni 4 6.1Un’Organizzazione Unite (sigla) 7. 11 Riga di colore diverso da quello dello sfondo 8. Superficie circoscritta 10. 14Pronome personale 15 12. Antico strumento di pena 14. L’antico «do» 17Bacino costiero separato dal mare 16. 18. Ardito, temerario
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I N T E SUDOKU R N APER AZIONE - GENNAIO 2018 20. Fiume dell’Italia settentrionale Soluzione della settimana precedente 21. Così sia CONOSCERE GLI ANIMALI – N. 1 FACILE (N. - Okapi Congo - Ossiconi) Nome: OKAPI 23.2Rende stretti- iDel vestiti – Originario: DEL CONGO – Le corna si chiamano: OSSICONI. Schema 1 9 Soluzione 7 24. Due dell’undici orizzontale 1 2 3 4 5 4 2 9 1 4 2 9 6 5 3 8 7 B R O K E R
N. 3 DIFFICILE
(N. 4 - ... impegnate a negare di averli commessi)
21 I 20 premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno 24 25 fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. 29 30
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I 6I M A O L 5 A8 784 3 P E9 G 1 2 6 1 2 9 1 6 2 7 8 5 3 4 N E5 G4 U 12 13 Vincitori del concorso Cruciverba 2 66 E L E8 C5 C9 I3N G2A O G T E 4 7 8 A5 9 3 91 N su «Azione 04», del 22.01.2018 2 5 3 1 4 6 7 9 8 A G3 I O C7 E D U C. Lupi 16, L. Ferrari, S. Rattaggi 9 1 4 6 3 8 1 T 4 9 7 T A O L A S E R S Vincitori del concorso Sudoku A G I A2 51R E53 R su «Azione 04», del 22.01.2018 7 3 4 6 2 9 8 5 1 I D4 6 C O9 S5 T I M E 18 M. Di Poi-Mahler 19 D. Aliberti. 4 7 9 I N3 E T7 T6 O 2 O L I 7 6 A 4 2 M L I T R 8 I9 1 3 5 R N. 2 MEDIO 8 cognome, 6 4 22 (N. 3 - ... sessantaonline: euro a seduta) Partecipazione inserire la23 luzione, da nome, è possibile 3 1 un 4 pagamento 6 9 8 in5 contanti 7 2 1 4 corredata 6 9 7 A C E A P I soluzione del cruciverba o del sudoku indirizzo, email del partecipante deve dei premi. I vincitori saranno avvertiti I 2 19 5 1 44 7 8 6 3 2 7 8 nell’apposito formulario pubblicato essere «Redazione Il nome dei vincitori sarà S Espedita R Ta O M UAzione, S 3 A per iscritto. 26 27 28 6 8 su7«Azione». 3 2 Partecipazione 5 9 4 1 sulla pagina del sito. Concorsi, 3C.P. 6315, 6901 Lugano». pubblicato A S I A RL OAN T R AV O S Eche7 6 Partecipazione postale: la lettera o Non si3 intratterrà corrispondenza sui riservata esclusivamente 8 4 3 2 6 9a lettori 1 52 2 7 5
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R O LeI vie legali C sono E N E RNonE la cartolina postale la so- concorsi. escluse. 31 che riporti 5 6 13 14 15 16 D S
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Politica e Economia Trump presidenziale Successo a Davos e a Washington per The Donald che ha pronunciato due discorsi «normali»
Aspiranti al potere: 1.parte Matteo Renzi e Luigi Di Maio: due facce della stessa medaglia, alle spalle hanno aspettative tradite e promesse non mantenute pagina 23
Yemen, fra guerra e carestia Con la conquista dell’ex capitale Aden al sud, la risoluzione del conflitto appare ancora più lontana
Cassis pone i suoi accenti Roberto Balzaretti diventa Mister Europa; scopo è trovare presto un’intesa con l’UE
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Il film su Stalin è una presa in giro offensiva e falsa del passato, secondo il ministro della Cultura Medinsky. (AFP )
Vietato ridere di Stalin
Russia Il Ministero della cultura ha interdetto l’uscita nelle sale del film inglese Morto Stalin, se ne fa un altro,
prevista per il 25 gennaio. In questa campagna elettorale la decisione ha il valore di una presa di posizione politica Anna Zafesova La campagna elettorale in Russia per il voto del 18 marzo è iniziata, ma il primo scandalo di questa stagione politica non è stato su un dibattito di attualità, bensì su un film che racconta un evento del 1953. Il 26 gennaio scorso il ministero della Cultura russo ha revocato la licenza di distribuzione al film inglese La morte di Stalin (titolo italiano Morto Stalin se ne fa un altro), una commedia noir di Armando Iannucci che racconta la lotta per la successione al dittatore sovietico. Tratto da una «graphic novel» francese, è una narrazione surreale e cruento, che però rispetta abbastanza i fatti storici, e le gesta dei personaggi, da Beria a Krusciov. Il ministro della Cultura Vladimir Medinsky ha convocato deputati, cineasti, consiglieri e storici per una proiezione speciale della pellicola, alla fine della quale quasi tutti i presenti si sono espressi a favore del divieto: «è una presa in giro offensiva del passato sovietico», «un film estremista e falso», «profanazione dei simboli sovietici», «parte del complotto internazionale contro la Russia», sono stati i commenti di intellettuali del calibro del regista Nikita Mikhalkov e dello scrittore Yuri Poliakov. Il ministro ha negato che si tratti di
censura: «Non abbiamo la censura, ma c’è un confine morale tra l’analisi critica della storia e la profanazione». È la prima volta che il ministero della Cultura russo vieta una pellicola già uscita nelle sale, e la sera del 26 gennaio le casse del cinema Pioner di Mosca – che ha continuato a proiettare La morte di Stalin con il pretesto di non aver ricevuto una comunicazione ufficiale – erano assediate da centinaia di persone ansiose di vedere la pellicola proibita. In poche ore erano stati venduti i biglietti per tutte le proiezioni per la settimana successiva, e al botteghino stazionavano decine di persone, nella speranza di una poltrona che si liberasse all’ultimo momento. Una ragazza che è riuscita ad ottenere il biglietto ha quasi pianto di gioia davanti ai giornalisti: «Saputo che il film veniva proibito in Russia volevo andare in Bielorussia, ma è stato proibito anche lì, stavo per partire per Kiev». Alla proiezione pomeridiana erano presenti soprattutto gli anziani, che hanno pianto più che ridere: Nina Ivanovna, 83 anni, ha detto a Radio Liberty che il film «non è una satira, è tutto vero, ero andata ai funerali di Stalin». Dal canto suo il pensionato Nikolay Zariov è rimasto deluso: «Mi aspettavo una satira surreale, ma non è molto di-
vertente, racconta le cose proprio come erano accadute, nulla di offensivo». Alla proiezione serale, piena di giovani, le risate in sala erano più frequenti. Con grande delusione del pubblico, il giorno dopo Pioner ha sospeso le proiezioni: «Per tutti i problemi, rivolgetevi al ministero della Cultura», ha annunciato il cinema sul suo account Twitter. La situazione sembrava molto più surreale del film stesso: mentre i moscoviti si affollavano alle casse dell’unica sala cinematografica che ha osato sfidare la censura, il mondo politico ribolliva di indignazione. Il nipote di Stalin, la figlia del maresciallo Zhukov e perfino il figlio di Krusciov hanno denunciato la «falsificazione» e l’«umiliazione» contenuti nella pellicola, e il ministro Medinsky – capofila dei «falchi» nazionalisti e sponsor di film russi contestati come falsi della propaganda – ormai parla apertamente di un complotto: «Il film è stato girato a Kiev, non è casuale», ha dichiarato. I siti internet legati ai nazionalisti e agli ambienti militari sono ancora più espliciti nell’affermare che La morte di Stalin è un attacco ideologico ai russi ordito dagli Usa, dall’Ue e dagli ucraini, con insulti razzisti al regista Iannucci, definito «vile servo italiano» (nonostante sia scozzese).
Come ai tempi sovietici, la satira torna a essere richiesta dai russi – del resto, i film-denuncia contro la corruzione pubblicati su Internet da Alexey Navalny sono pieni di un sarcasmo feroce – e perseguitata dal governo. La Russia aveva già bandito a suo tempo Borat di Sasha Baron Cohen, e il ministro Medinsky proibisce sempre più spesso film che secondo lui non raffigurano la Russia in una luce positiva, come il thriller ambientato in epoca staliniana Il bambino numero 44, oppure «propagandano l’omosessualità», come Love di Gaspar Noe. Ufficialmente, una pellicola può essere proibita se contiene un messaggio di «estremismo», oppure informazioni proibite per la diffusione in Russia, e gli stessi funzionari governativi hanno espresso timide perplessità sul fatto che il film britannico violi alcun regolamento. Perfino il primo ministro Dmitry Medvedev si è mostrato infastidito, chiedendo di introdurre regole precise per l’emissione delle licenze cinematografiche: «Invece di regole chiare per tutto il mercato saltano fuori delle decisioni che danneggiano la fiducia». Il caso di La morte di Stalin però assume in campagna elettorale il valore di una presa di posizione ufficiale, e non a caso la candidata dell’opposi-
zione Xenia Sobchak ha minacciato di proiettare il film nel suo quartier generale. «Il regime ormai fa risalire esplicitamente la sua genealogia a Stalin», scrive su «Vedomosti» Andrey Kolesnikov del Carnegie Center, e la propaganda associa lo stalinismo alla vittoria nella Seconda guerra mondiale e all’ordine, parola chiave di Vladimir Putin. Secondo i sondaggi dell’istituto indipendente Levada-zentr, il 39% dei russi è favorevole all’installazione di monumenti e lapidi a Stalin, contro il 53% del 2005, e solo il 41% ritiene che il dittatore abbia scatenato una campagna di terrore contro il suo popolo (58% nel 2000). In questo contesto, con monumenti, film e libri dedicati al «padre dei popoli», ridere di Stalin, e della lotta fratricida per la successione, combattuta al suo capezzale dai fedelissimi, diventa un’allusione fin troppo esplicita a un presente che è vietato discutere in pubblico. E in assenza di un dibattito sull’attualità, con una campagna elettorale dall’esito predefinito e il principale leader della protesta contro il Cremlino, Navalny, bandito dalle elezioni, scrive l’ex deputato liberale della Duma Dmitry Gudkov, «ogni conflitto nella società si riduce ormai a uno scontro tra il passato e il futuro».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Politica e Economia
Il presidente che fa il presidente I due discorsi di Trump Dopo quelli di Davos e sullo stato dell’Unione, «The Donald» piace a oltre il 50 per cento
Federico Rampini Fra Davos e il discorso sullo Stato dell’Unione, Donald Trump (al centro nella foto fra Mike Pence e Paul Ryan) ha infilato due settimane consecutive in cui l’America e il mondo hanno visto il suo volto più presidenziale, più rispettabile. Ci ha dato anche un’idea abbastanza chiara su che tipo di priorità intende inseguire in questo «corto» 2018. Corto perché già all’inizio di novembre si vota per le legislative di mid-term che possono mettere il presidente in minoranza in uno dei rami del Congresso. Ma in otto mesi lui può fare tanto; visto quel che è riuscito già a realizzare nei dodici precedenti. Comincio dalla sua missionelampo in Svizzera. Prendendo in contropiede le critiche sul suo protezionismo, ha invitato i capitalisti radunati al World Economic Forum di Davos a investire nella sua America che dopo l’ultima riforma fiscale si è trasformata in quasi-paradiso fiscale e della deregulation. All’Uomo di Davos, banchiere o top manager di multinazionali, privilegiato appartenente allo 0,01% della popolazione mondiale, il presidente americano ha portato una buona novella: possiamo fare affari insieme. «America is open for business», col doppio senso che evoca una terra accogliente per tutti i miliardari del pianeta, la nuova Bengodi degli affari, con meno tasse e meno regole, ivi compreso lo smantellamento dei vincoli ambientalisti. Abbondano i chief executive che annunciano nuovi investimenti negli Stati Uniti. Si distinguono le multinazionali tedesche, Siemens in testa, indifferenti alle scomuniche della Merkel verso il protezionismo trumpiano.
Trump ha chiesto un investimento per le infrastrutture e sull’immigrazione ha invece proposto un «equo compromesso» Ma lui non usa la parola protezionismo, il suo obiettivo è restituire al commercio internazionale «integrità, onestà». «Vogliamo mercati aperti su basi eque e reciproche». Non è un tema che ha scoperto lui, le regole della globalizzazione furono contestate fin dall’esordio della World Trade Organization (proteste di Seattle, 1999) per l’assenza di diritti sociali e di tutele ambientali. In seguito quelle regole sono diventate ancor più squilibrate perché concedevano agevolazioni alla Cina che oggi sono anacronistiche. Un implicito spirito di rivincita faceva da retroscena all’apparizione nel club più esclusivo dei globalisti: da imprenditore Trump era troppo piccolo e troppo poco rispettabile per essere invitato a Davos. Quest’uomo ha passato
una vita a covare risentimento contro i grandi capitalisti che lo snobbavano, per questo gli riesce la parte dell’outsider e sa immedesimarsi perfino nella rabbia operaia contro le élite. Se nel gennaio 2017 il discorso in difesa della globalizzazione era stato affrontato da Xi Jinping, quest’anno a Davos è stata Angela Merkel a interpretare quel ruolo. La cancelliera ha ammonito il presidente americano a non ignorare «le lezioni della storia». La platea di Davos tifava per la voce della ragione, identificata con la Merkel. Di quale lezione storica stiamo parlando? La Merkel parte dalla Grande Guerra del 1914-18 (siamo nel centenario della conclusione di quella carneficina) ma la lezione si estende agli eventi successivi. Le inique sanzioni della pace di Versailles che esasperarono il revanscismo tedesco. Il disordine economico e il caos politico della Repubblica di Weimar. Il crack del 1929 a Wall Street. La Grande Depressione. L’avanzata dei totalitarismi, neri o rossi. In quella tragedia ebbe una parte il protezionismo: molti paesi cercarono di scaricare i danni della crisi sui vicini, alzando barriere e dazi. Il commercio mondiale crollò, accentuando la disoccupazione e la miseria di massa. Keynes fu uno dei pochi a vedere con lucidità i danni di quelle politiche economiche. Il New Deal di Roosevelt fu una delle risposte ispirate da Keynes. In quel caso l’America rappresentava l’alternativa positiva ai dirigismi dittatoriali di Hitler, Mussolini, Stalin. Oggi s’invertono le parti? Il grande assente, dai due discorsi di Trump e della Merkel a Davos, è stato il tema delle diseguaglianze. La cancelliera tedesca ha omesso un fenomeno chiave degli anni Venti cioè l’abnorme dilatazione delle diseguaglianze sociali, che torna a quei livelli proprio oggi. Per Trump il problema non esiste perché fa propria la Reaganomics: viva l’arricchimento degli straricchi, prima o poi le briciole del loro banchetto arriveranno anche agli altri (in effetti questo sta accadendo: i salari Usa tornano a salire dopo anni di ristagno, anche se il guadagno nelle buste paga è una frazione delle stock option dei manager o dei dividendi degli azionisti). Le oligarchie finanziarie di Davos in questo sono trumpiane-reaganiane anche quando non lo ammettono. Trump era arrivato a Davos dopo aver introdotto dei superdazi contro i pannelli solari cinesi e gli elettrodomestici sudcoreani. La saggezza convenzionale – di cui la Merkel si fa interprete – dice che Trump provocherà le rappresaglie altrui, ciascuno chiudendosi in difesa del proprio mercato, e alla fine saremo tutti più poveri. Ma la credibilità della Merkel è limitata. Lei governa una nazione mercantilista, che accumula giganteschi attivi commerciali, con un effetto depressivo sui paesi vicini. Il comportamento tedesco, unito alla religione dell’austerity, contribuisce alla debolissima crescita in Italia, Francia, Spagna.
AFP
degli americani, risultando meno provocatorio e più disponibile a cercare compromessi con l’opposizione
Il protezionismo di Trump – che ha dei precedenti, Reagan varò misure contro le auto giapponesi – viene da una nazione che è tra le più aperte alle importazioni dal resto del mondo, ed accumula disavanzi crescenti con Germania, Cina, Giappone, Messico. La Cina è la patria del protezionismo da decenni. Su molti prodotti occidentali applica superdazi che sono il quintuplo di quelli americani. Costringe le aziende straniere a investire sul suo territorio imponendo dei soci locali che rubano segreti industriali e tecnologici. Questa è la globalizzazione che piace a Xi Jinping. Sono regole asimmetriche, che ebbero una giustificazione quando alla fine del millennio venne negoziato l’ingresso di Pechino nell’organizzazione del commercio mondiale. Quella Cina poverissima aveva bisogno di agevolazioni per integrarsi. In vent’anni ha fatto progressi prodigiosi, alcuni settori della sua economia sono a livelli giapponesi. Le regole oggi sono superate e danneggiano tutto l’Occidente. Qualche volta può anche succedere che Trump dica una verità scomoda. Se c’è un colpevole dietro l’ondata dei nazionalpopulismi, è l’Uomo di Davos. Oxfam ha denunciato che l’1% della popolazione mondiale l’anno scorso si è appropriato dell’82% dei frutti della crescita. Le oligarchie finanziarie, i chief executive, hanno fatto secessione dalle loro società nazionali, l’elusione fiscale ne è un segnale evidente.
Il «presidente che legge invece di twittare» piace agli americani. Tra quelli che hanno ascoltato in diretta il suo discorso sullo Stato dell’Unione la sera del 30 gennaio, i tre quarti lo hanno approvato. Il 54% gli attribuisce il merito della vigorosa crescita economica, in netta accelerazione negli ultimi 12 mesi. Trump risulta meno lacerante, meno provocatorio, quando accetta di auto-disciplinarsi e segue un discorso preparato dai suoi consiglieri. Va precisato, come fa la Cbs nel sondaggio citato sopra, che tra coloro che si sintonizzano sullo stato dell’Unione vi è sempre una maggioranza di sostenitori del presidente. Accadeva anche con Barack Obama e i predecessori. È un tratto ormai costante della democrazia americana, sempre più polarizzata e divisa per fazioni tribali: chi disapprova il presidente spesso evita perfino di ascoltarlo. Trump ha lanciato due proposte concrete all’opposizione, su cui si apre la sua agenda di governo per il 2018. La prima è il maxi-piano di 1.500 miliardi di investimenti per ammodernare le infrastrutture. Non è un’idea di destra, anzi siamo sul terreno delle politiche keynesiane di spesa pubblica. Ce n’è un gran bisogno. L’America ha aeroporti da Terzo mondo, una vergogna ignorata a lungo da una classe dirigente provinciale che non sa fare confronti con Pechino o Dubai. Le ferrovie cascano a pezzi; l’alta velocità non esiste. Autostrade, ponti, metropolitane, quasi tutto è fatiscente. Il problema è trovare
i soldi e qui Trump è stato vago perché i problemi li ha in casa propria. I repubblicani non gli consentirebbero un ulteriore aumento del deficit pubblico, già gonfiato dai generosi sgravi fiscali alle imprese. Trump ha evocato un mix di pubblico e privato, ma gli investitori privati non amano le infrastrutture perché non danno profitti a breve termine. Ha poi lanciato un appello «sospetto», a velocizzare le procedure: in molti casi questo significa aggirare gli studi d’impatto ambientale, un altro colpo nella direzione della deregulation contro l’ambiente. Su questo saranno i democratici a frenare. Il terreno più denso di insidie è la riforma delle leggi sull’immigrazione. Trump ha proposto un compromesso sul quale sia i repubblicani che i democratici hanno qualcosa da perdere e qualcosa da guadagnare. Ha allargato la platea della sanatoria per gli immigrati clandestini arrivati in America da bambini, arrivando fino a 1,8 milioni (oltre il doppio dei dreamers contemplati da Obama quando aveva sospeso le espulsioni) offrendogli un percorso di 12 anni verso la cittadinanza. In cambio chiede ai democratici tre cose: il finanziamento del Muro col Messico; l’abolizione della lotteria che sorteggia le Green Card; la fine dei ricongiungimenti familiari allargati. Su questo ricomincerà subito una trattativa serrata. Incombe la scadenza dell’8 febbraio entro la quale si ripropone la necessità di finanziare il debito pubblico coi voti dell’opposizione. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Politica e Economia
Renzi-Di Maio: parole, parole.. Gli aspiranti – 1. Pensavano di cambiare l’Italia, rischiano di trasformarsi nei politicanti imbonitori
Matteo Renzi e Luigi Di Maio (nelle foto sopra da sinistra) sono le due facce della stessa delusione: messi insieme non fanno un mezzo Macron. Hanno dietro di sé aspettative tradite e promesse non mantenute. Aspiravano a cambiare l’Italia, rischiano di trasformarsi nei politicanti imbonitori, che da settant’anni ammorbano il panorama. La ventata di aria fresca è diventata un malefico olezzo.
Di Matteo Renzi sconcerta la voglia rabbiosa di potere. Luigi Di Maio sembra il perfetto esemplare di lingua biforcuta Renzi doveva rottamare la vecchia politica: finora ha rottamato il partito democratico, secondo taluni lo ha modificato in PdR, che dovrebbe significare Partito di Renzi, ma si può anche leggere Partito dimezzato di Renzi. Il 40 per cento abbondante raccolto nelle europee del 2014 è un sogno irrealizzabile o, volendo, il risultato, cui impiccare il segretario costretto a inseguire il 25 per cento nelle prossime elezioni. Sarebbe il medesimo risultato conseguito da Bersani nel 2013, con la scusa però che adesso Bersani, D’Alema e gli altri transfughi hanno costituito un nuovo partito, accreditato del 5-7 per cento. Calcoli alquanto astrusi, quando la verità è molto più banale. Il 25 per cento è la soglia che dovrebbe garantire l’agibilità politica di Renzi e convincere la minoranza, bastonata nella composizione delle liste, a non operare un’altra scissione. Di Maio è stato il massimo assertore della diversità del Movimento 5 Stelle, racchiusa in un paio di slogan: «democrazia diretta», da lui e da Casaleggio jr; «uno vale uno», a patto di essere Casaleggio jr o Di Maio, in caso contrario, «uno vale zero». Di lui il senatore forzista Antonio Razzi, che deve la sua enorme popolarità alla straordinaria imitazione televisiva del comico Crozza, ha detto: «Io non ho studiato perché da bambino dovevo lavorare, mentre Di Maio non ha studiato per poter continuare a non lavorare anche da grande». Che questo possibile candidato premier facesse lo steward durante le partite del Napoli al San Paolo può essere una grande dimostrazione di meritocrazia o la prova lampante dell’estrema modestia dei partiti.
Di Renzi sconcerta la voglia rabbiosa di potere. Fino allo sciagurato referendum sulla Costituzione, che ha azzerato molte delle sue ambizioni e soprattutto le chances di modificare una Costituzione superata dai tempi, poteva essere considerato il meglio figo del bigoncio. Ma le sue indubbie qualità sono state annichilite dall’ansia di essere sempre e comunque in e dal terrore di finire out. Sennò, avrebbe realizzato che sparire, abbandonare non solo la guida del governo, ma anche quella del Pd avrebbe rappresentato un enorme investimento per il suo futuro. Entro sei mesi sarebbero andati in ginocchio a richiamarlo, gli avrebbero offerto le migliori condizioni possibili pur di farlo rientrare. Di Maio sembra il perfetto esemplare di lingua biforcuta con uso improprio di congiuntivo. Sull’euro, sulla riforma delle pensioni, sull’immigrazione, sui vaccini ha detto e si è contraddetto con l’impudenza di chi sta sempre dalla parte della verità. È lo specialista delle mezze bugie, del tizzone bruciante lasciato in mano all’ultimo malcapitato. Le sue tristi grisaglie annunciano la smania di essere leader. Per non smentire la presunta linea guida del movimento ha annunciato che dopo le elezioni non si faranno alleanze con altre forze, bensì si cercheranno convergenze sui singoli provvedimenti. Renzi ha difeso e protetto Maria Elena Boschi, coinvolta nell’affair dei fallimenti bancari, persino contro i propri interessi. Non è parsa la fedeltà all’amica, alla collaboratrice, bensì la tracotanza dell’impunità. La Boschi, penalmente innocente, non poteva restare al governo per non aver avuto la forza, l’intelligenza, la lungimiranza di far dimettere il padre dalla vicepresidenza di Banca Etruria, il giorno in cui lei divenne ministro. Il resto è stato l’inevitabile conseguenza di quel peccato originale. Candidarla a Bolzano e in altre città anziché nella natia Arezzo ha certificato la coda di paglia di chi agli esordi aveva fatto dell’intransigenza morale la propria cifra. Di Maio è stato lo sponsor del sindaco di Roma Raggi, un’altra che con la verità ha un rapporto complicato: dall’aver nascosto il praticantato da avvocato nello studio del condannato Previti all’aver negato quei rapporti con i propri collaboratori, per i quali, invece, è stata trascinata a processo. Dopo un anno e mezzo, dopo tutte le giustificazioni pretese e concesse alla Raggi, Roma ha toccato forse il punto più basso della sua strabiliante e
controversa storia: i topi e il suino in mezzo ai rifiuti, il disastro di autobus e metro, i buchi nelle strade. Eppure Di Maio, con raro sprezzo del ridicolo, annuncia l’imminente rinascita della Capitale, frutto dello strepitoso lavoro della giunta pentastellata. Renzi fatica a farsi ascoltare e più ancora a farsi credere: ha smarrito le parole che vanno al cuore. I giornali
lo tartassano quotidianamente, ma lui riesce sempre a metterci del suo come le improvvide telefonate con il finanziere, editore di «Repubblica», Carlo De Benedetti. Se gli andrà bene il 4 marzo, dovrà rassegnarsi a condividere il palcoscenico con altri protagonisti, compresi gli odiati D’Alema e Bersani. Di Maio veleggia sull’onda del
risentimento di tanti, che ai partiti tradizionali affibbiano, oltre alle loro immense responsabilità, i propri insuccessi. Sarebbe impresentabile per la decenza e per storia, ha collocato il golpe di Pinochet in Venezuela, ma godrà dell’effetto Trump: di essere il giustiziere di quella genia di politici senz’arte né parte nella quale spasima di entrare per non uscirne più. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Yemen, in guerra anche il sud Penisola araba Con la conquista dell’ex capitale Aden da parte dei militanti del Security Belt,
la risoluzione del conflitto appare più lontana che mai
Marcella Emiliani Nel giro di quattro giorni, dal 28 al 31 gennaio scorso in Yemen si è consumata l’ennesima tragedia: i militanti della Southern Resistance Forces (Srf), meglio conosciuti come Security Belt (Cordone di sicurezza), braccio armato del Southern Transitional Council (Stc), hanno dato l’assalto con tanto di carri armati all’aeroporto, al porto e infine al palazzo presidenziale di Aden, l’ Al-Mashaiq Palace, fino ad assumere, il 31, il controllo dell’intera città, la seconda in ordine di grandezza del Paese e soprattutto ex capitale della Repubblica democratica dello Yemen del Sud dal 1970 al 1990, quando avvenne la riunificazione dello Yemen del Nord con quello del Sud. Stando alla Croce rossa internazionale, il bilancio delle vittime sarebbe di 38 morti e 222 feriti, per l’agenzia stampa governativa Saba invece di 16 morti e 141 feriti. Sono comunque stime provvisorie.
I separatisti del sud avrebbero l’obiettivo di ricostituire lo Stato indipendente dello Yemen del Sud, esistente fino al 1990 Se i guerriglieri del Security Belt non sono entrati nel palazzo presidenziale è solo perché si sono trovati di fronte ai militari dell’Arabia Saudita che glielo hanno impedito, salvando probabilmente la vita al primo ministro Ahmed bin Dagher che si è asserragliato nell’edificio assieme a qualche sparuto ministro, mentre il presidente yemenita Abd Rabbo Mansour Ali Hadi era a Riad dove se ne sta in esilio fin dal 2015 dopo che la capitale dello Yemen, Sana’a, nel 2014 era stata conquistata dai ribelli Houthi del Nord, sciiti. Sempre nel 2015 peraltro è cominciata la guerra della coalizione guidata dall’Arabia Saudita contro gli Houthi, armati e sostenuti dall’Iran. Da allora il peso politico di Mansour Hadi è diventato quasi irrilevante. Molti lo considerano solo un burattino nelle mani di Mohammed bin Salman, l’erede al trono saudita, determinato a non far cadere lo Yemen nelle mani degli ayatollah di Teheran. Fino all’inizio di quest’anno anche il Southern Transitional Council, guidato da Aidarous al-Zubaidi, militava a fianco del presidente Hadi e della coalizione saudita nella triplice guerra contro gli Houthi-Iran, contro al Qaeda nella penisola arabica (con acronimo inglese Aqap) e contro l’Isis, le cui file in Yemen si sono rafforzate dopo la caduta delle sue capitali Raqqa e Mosul in Siria e in Iraq. Poi al-Zubaidi ha lanciato un vero e proprio ultimatum ad Hadi: se entro il 28 gennaio non avesse proceduto a un rimpasto di governo e sloggiato il premier Ahmed bin Dagher i suoi sarebbero intervenuti. E non ha aspettato neanche un minuto prima di scendere in campo in armi. A suo dire il governo di bin Dagher è corrotto in massimo grado e soprattutto non investe risorse nel Sud «a tutto danno della sua gente che non ha mai vissuto in tali ristrettezze». Un’altra colpa del premier e del presidente Hadi sarebbe infine l’alleanza col partito islamista Yemeni Congregation for Reform meglio noto come al-Islah, nato nel 1990, legato agli inizi alla Fratellanza musulmana, poi messa fuori legge dall’Arabia Saudita nel 2013 come organizzazione terroristica. Queste accuse sono vere o false? Difficilmente Riad avrebbe consentito
I separatisti del sud dello Yemen, appoggiati dagli Emirati arabi uniti, hanno preso il controllo di Aden sottraendola alle forze alleate al presidente Hadi, riconosciuto internazionalmente e sostenuto dall’Arabia Saudita. (AFP)
al presidente Hadi di mantenere nella propria coalizione al-Islah se lo considerasse ancora un’organizzazione terroristica. Diverso il discorso sulla corruzione. Anche se è tutta da verificare, l’accusa è verosimile in un paese corrotto da sempre e ora ridotto allo stremo, in guerra da quattro anni, colpito da quella che l’Onu chiama «la più grande catastrofe umanitaria a livello mondiale» e la cui popolazione – oltre che dalle bombe – è decimata dal colera e dalla difterite. Un paese che è il più povero tra quelli arabi e vive di elemosine interessate che arrivano soprattutto dei potenti vicini, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti. Del resto, anche la ribellione degli Houthi al Nord nel 2014 era stata motivata da una discriminazione assieme economica e politica da parte di Sana’a. Ma dietro la ribellione e quello che il primo ministro Ahmed bin Dagher il 28 gennaio scorso ha definito un vero e proprio colpo di Stato sembra esserci ben altro. Innanzitutto faide personali e tribali decisamente malcelate. Il Southern Transitional Council (Stc) non a caso è stato creato nel maggio 2017 quando il presidente Hadi ha nominato governatore di Aden Abdul Aziz al-Maflahi, invece di riconfermare Aidarous al-Zubaidi che quella carica aveva già ricoperto. Al-Zubaidi – se voleva – poteva portare avanti le istanze del Sud yemenita nelle fila del Southern Separatist Movement meglio noto come al-Hirak
che esiste dal 2007 e non ha mai fatto mistero di volere la secessione dello Yemen del Sud, ma che dalla rivolta degli Houthi nel 2014 (finora) ha sempre appoggiato il presidente-fantasma Mansour Hadi nella lotta contro i ribelli del Nord. E invece no, il bellicoso Aidarous si è confezionato il suo strumento di pressione sulla presidenza, il Southern Transitional Council appunto, che fin dai suoi esordi è stato finanziato e armato dagli Emirati arabi uniti. E qui sta il vero punto dolente della partita meridionale in Yemen.
La guerra in Yemen non è una sola, è un complesso di microconflitti locali, strategico per diversi attori internazionali come Arabia Saudita e Emirati arabi uniti Dallo scorso anno sono stati gli Emirati arabi uniti ad armare, finanziare ed addestrare il Security Belt del Stc, e non più tardi del 29 e del 30 gennaio scorso i loro jet hanno assicurato la copertura aerea ai miliziani di al-Zubaidi che andavano all’assalto del porto e del palazzo presidenziale di Aden in cui i sauditi proteggevano il primo mini-
stro e membri vari del governo. Ma gli Emirati arabi uniti sono comprimari di primo livello dell’Arabia Saudita nel sostenere il presidente Hadi e – si presume – il suo primo ministro Ahmed bin Dagher contro cui si è ribellato il Southern Transitional Council. Che senso ha tutto questo? Sono in molti a chiederselo, ma la risposta non è semplice. I casi sono due: 1. Sebbene il Stc non abbia ancora detto a chiare lettere cosa voglia (la secessione? Maggiore autonomia per il Sud? La guida del governo? rimandando il tutto ad un referendum da organizzare e di cui non si conoscono ancora i quesiti) si potrebbe essere incrinata l’alleanza di ferro tra Riad e Abu Dhabi – capitale degli Emirati – e gli Emirati potrebbero aver deciso di forzare la mano all’Arabia Saudita per spaccare lo Yemen in due com’era prima della riunificazione del 1990, cosa che l’Arabia Saudita sostiene di non volere, tant’è che dal 28 gennaio non fa che invitare le parti in causa (Hadi e al-Zubaidi) a ritrovare una via negoziale e la pace, come del resto fanno gli Stati Uniti . 2. Arabia Saudita ed Emirati al momento potrebbero stare inscenando un gioco delle parti (cioè fingere una frattura tra di loro) per ottenere o un più diretto controllo di quel nido di serpi che è lo Yemen, o la sua spaccatura, con l’Arabia Saudita a monitorare il Nord in mano agli sciiti Houthi e gli Emirati il Sud e tutte le rotte petrolifere che pas-
sano per lo Stretto di Bab el Mandeb. Chi per ora ne approfitta sono al-Qaeda nella penisola arabica e l’Isis perché, con Aden sotto assedio, il 30 gennaio hanno compiuto – l’una o l’altro non si sa – un attentato suicida nella provincia meridionale di Chabwa che è costato la vita a 14 persone. In tutti i casi le prospettive per lo Yemen si fanno ancora più fosche. Nessuno a livello regionale o internazionale si muove per tentare non tanto di riportare la pace, ma almeno evitare che si moltiplichino i conflitti e le faglie che tormentano il paese. Come nell’Inferno dantesco a girone di dannazione se ne aggiunge sempre un altro: sunniti contro sciiti, sciiti contro sciiti e sunniti contro sunniti, Nord contro Sud e signorie tribali contro signorie tribali in un gioco perverso che sembra non avere fine. Tutto questo mentre lo Yemen o più precisamente tutta l’area dello Stretto di Bab el-Mandeb è diventato strategico per attori internazionali ben lontani dalla penisola arabica, dalla Cina al Giappone che si sono già assicurati basi militari in zona, mentre le stesse potenze mediorientali fanno a gara per acquisirle. L’Arabia Saudita ha già costruito nel 2016 una base militare a Gibuti, gli Emirati e l’Egitto se ne sono assicurate in Eritrea mentre la Turchia ha affittato l’isola di Suakin dal Sudan proprio nel mese di gennaio. A chi interessa che lo Yemen non diventi uno Stato fallito?
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Politica e Economia
Nuovi accenti nella politica europea Rapporti CH-UE Il Consiglio federale, per bocca del ministro degli esteri Cassis, ribadisce l’importanza
dell’accesso al mercato europeo e di voler trovare un accordo istituzionale con Bruxelles, se possibile entro il 2018
Marzio Rigonalli I rapporti con l’Unione europea mettono a dura prova la politica estera svizzera. Nelle due ultime settimane abbiamo vissuto due momenti, durante i quali il Consiglio federale, alle prese con le scelte che intende fare nei confronti dell’UE, ha diffuso di se stesso due immagini molto diverse. Il primo momento risale al Forum economico mondiale di Davos, il secondo alla seduta settimanale del governo di mercoledì scorso, seguita dalla conferenza stampa di Ignazio Cassis, il capo della diplomazia elvetica. Cominciamo dall’evento più recente. Nella sua ultima riunione, il Consiglio federale non ha preso decisioni veramente nuove, deludendo, probabilmente, le aspettative di coloro che si attendevano qualcosa di innovativo, come l’abbozzo di una nuova strategia, o semplicemente una nuova idea. Si è limitato a ribadire la sua volontà di uscire dall’impasse attuale con maggiore determinazione e, soprattutto, con maggiore chiarezza su tre punti essenziali, che corrispondono agli ormai celebri tasti «Reset» che Ignazio Cassis aveva evocato nelle sue prime dichiarazioni, prima e dopo la sua nomina in governo.
Oltre all’accordo istituzionale, il Consiglio federale vorrebbe concludere anche nuovi accordi settoriali Il primo punto riguarda l’accesso della Svizzera al mercato unico europeo, un accesso ritenuto sempre molto importante per la nostra economia e, quindi, per il benessere della popolazione. Il ministro degli esteri intende definire i nuovi accordi settoriali che la Svizzera vuole concludere in futuro con l’UE, per estendere il suo accesso al mercato unico. Si prefigge anche di perseverare nella ricerca di una soluzione suscettibile di sbloccare la trattativa sull’accordo istituzionale, un accordo che vien visto come un mezzo per soste-
Il ticinese Roberto Balzaretti, già ambasciatore a Bruxelles, diventa Mister Europa; Pascale Baeriswyl resta segretaria di Stato per gli altri ambiti della politica estera. (Keystone)
nere gli accordi bilaterali e non come un obiettivo. La trattativa è in corso da ben quattro anni e si fonda su un mandato negoziale che comincia a soffrire dell’usura del tempo e che forse meriterebbe di essere aggiornato. Per uscire dall’impasse, il capo della diplomazia elvetica ha evocato nuove idee, senza svelarle, e si propone di raggiungere un accordo entro la fine dell’anno, a condizione che l’intesa tenga debitamente conto degli interessi svizzeri. La scadenza vien suggerita dal contesto elettorale che caratterizzerà il 2019. Le elezioni previste sia in Svizzera che nell’Unione europea renderanno difficile il coronamento di un negoziato bilaterale. Il secondo punto tocca la riorganizzazione del vertice del Dipartimento federale degli esteri. L’ambasciatore Roberto Balzaretti è stato nominato segretario di Stato e diventa l’unico responsabile del negoziato con l’Unione europea. Pascale Baeriswyl, pure segretaria di Stato, che finora aveva assunto la coordinazione di tutti i dossier riguardanti l’Unione europea, si occuperà della parte rimanente della politica estera svizzera. Balzaretti è stato capo
della missione svizzera a Bruxelles tra il 2012 ed il 2016. Conosce dunque bene i dirigenti e gli alti funzionari dell’Unione europea, nonché il loro modo di agire. Potrà costituire un importante punto d’appoggio e di sostegno per Ignazio Cassis, che non nasconde la volontà di concentrare nel suo dipartimento tutte le più importanti questioni pendenti con l’UE e di non più lasciarle, come è successo finora, sparpagliate in più dipartimenti federali. L’ultimo «Reset» che il ministro degli esteri ha affrontato nella sua conferenza stampa concerne la comunicazione. Per ovviare alle continue prese di posizione divergenti che sorgono in seno al mondo politico, che trovano spazio sulla stampa e che indeboliscono la posizione diplomatica della Svizzera, il Consiglio federale ha deciso di dare il buon esempio e di adottare una linea che garantisca in futuro una comunicazione più omogenea. Si è anche prefisso di coinvolgere maggiormente l’opinione pubblica, diffondendo più informazioni e spiegazioni sul negoziato in corso. Cassis ha pure invitato i giornalisti ad una certa prudenza, ch’egli ritiene ne-
cessaria per non rendere più difficile il lavoro dei diplomatici. I buoni propositi del Consiglio federale, soprattutto nell’ambito della comunicazione, costituiscono una giusta correzione di quanto era successo durante la 48.esima edizione del Forum economico mondiale di Davos. Come succede ogni anno, il governo era presente con una forte delegazione, con l’intento d’incontrare un buon numero di responsabili politici ed economici, di allacciare contatti personali e, se possibile, di avviare un dialogo su problemi rimasti irrisolti nell’ambito dei numerosi rapporti bilaterali. Quest’anno, la trasferta a Davos prevedeva anche la possibilità d’intrattenersi con il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Una possibilità molto attrattiva, perché l’ultima presenza a Davos di un presidente della prima potenza mondiale, quella di Bill Clinton, risaliva al 2000 e perché c’era molta curiosità su quello che l’attuale inquilino della Casa Bianca, noto per la sua difesa a spada tratta degli interessi americani e la sua avversione per gli accordi internazionali conclusi dai suoi predecessori, avrebbe detto nel tempio del li-
beralismo economico, di fronte ad una folta schiera di leader dell’economia liberale mondiale. Ben cinque consiglieri federali si sono recati nella stazione turistica grigionese. Hanno avuto numerosi colloqui con personalità di primo piano, come Donald Trump, il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel, colloqui dai quali, però, sono emerse poche informazioni. Hanno destato scalpore, invece, le dichiarazioni rilasciate alla stampa da ben quattro consiglieri federali sull’accordo istituzionale in discussione con l’Unione europea. Dichiarazioni che riflettevano le profonde divisioni esistenti in seno al governo. Il presidente della Confederazione, Alain Berset, ha escluso la possibilità di una rapida conclusione dell’accordo con Bruxelles. Il ministro degli esteri Ignazio Cassis, invece, ha prospettato tempi non troppo lunghi. Il ministro dell’economia Johann Schneider-Ammann ha dichiarato di preferire attendere la fine del negoziato sulla Brexit, prima di concludere l’accordo istituzionale con l’UE. Il vicepresidente della Confederazione Ueli Maurer, infine, fedele alle posizioni dell’UDC, ha invitato a cercare alternative ad un accordo istituzionale che, secondo il suo parere, il popolo non è pronto ad accettare. Le prossime settimane sveleranno se la strada imboccata dal Consiglio federale nella sua ultima seduta, verrà seguita senza altre dissonanze sul negoziato con l’UE. Nuove prese di posizione dei ministri non sono da escludere, ma dovrebbero convergere verso un obiettivo condiviso. Costituiscono una premessa indispensabile per difendere e rafforzare la posizione negoziale della Svizzera e per convincere i cittadini, che un giorno potranno essere chiamati a pronunciarsi sul risultato della trattativa in corso. È in gioco la credibilità del governo. Una credibilità che merita di essere ancora perfezionata con intese all’interno dell’esecutivo. Le occasioni non mancheranno. La prossima opportunità si presenterà già il 21 febbraio, giorno in cui il Consiglio federale ha previsto una nuova riunione dedicata ai nostri futuri rapporti con l’Unione europea. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Politica e Economia
Scambio automatico di informazioni: gli accordi entrano in vigore Fiscalità La Svizzera lo introdurrà a partire dal settembre di quest’anno. L’OCSE sta già studiando misure
per impedire piani di aggiramento delle nuove norme contro evasione e truffe fiscali Ignazio Bonoli Da quest’anno, anche la Svizzera parteciperà allo scambio automatico di informazioni finanziarie, sulla base dell’accordo internazionale ratificato dalle Camere federali nel dicembre del 2017. A questo accordo partecipano un centinaio di paesi che si sono impegnati a rispettare gli standard globali, accettati nell’ambito dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). In realtà, già dal settembre 2017, è in atto uno scambio di informazioni fiscali su conti e depositi di titoli bancari tra Francia, Germania e Liechtenstein e altri paesi. Tra l’altro vengono comunicati nomi, domicilio, situazione dei conti e relativi redditi, nonché in certe situazioni, gli aventi diritto economico dei titolari dei conti bancari. La Svizzera farà la stessa cosa a partire dal settembre 2018, in compagnia di paesi come Singapore, Austria o Panama. Più precisamente, per la prima volta fornirà i dati fiscali 2017 di titolari di conti di 38 paesi, come i paesi dell’Unione Europea, l’Australia o il Giappone. Un anno dopo, sarà la volta di un’altra serie di 41 altri paesi. La Svizzera fornirà questi dati fiscali anche a paesi che presentano qualche lacuna nel rispetto dei diritti politici, come Russia, Cina, Arabia Saudita o Colombia. Il Consiglio fede-
rale si riserva però di riesaminare la situazione prima di fornire nel 2019 i dati fiscali del 2018. Questo nel rispetto della confidenzialità e della protezione dei dati personali, e valutando se anche paesi con piazze finanziarie importanti forniscono effettivamente dati di clienti bancari. Sotto questo aspetto, vi è infatti il pericolo che questi dati vengano utilizzati per altri scopi, oppure che si cerchi di scoprire eventuali frodatori delle rispettive autorità fiscali nazionali, per risalire ad eventuali altri legami che sono invece degni di protezione. D’altro canto, benché lo scambio automatico di informazioni sia di recentissima applicazione, le esperienze di alcune autorità fiscali, e anche annunci spontanei di soggetti interessati, permettono di sospettare che parecchi consulenti o erogatori di servizi finanziari stiano preparando piani atti ad aggirare lo scambio automatico di informazioni, oppure a mascherare il vero avente diritto economico di un conto. Su incarico dei ministri delle finanze del G-7, l’OCSE ha già studiato misure che possano impedire queste pratiche fiscali. Lo fa ampliando e completando le misure già in atto per la trasparenza fiscale e chiedendo di obbligare gli intermediari finanziari a sottostare a regole di trasparenza, come quelle già proposte con le cosiddette «Mandatory Disclosures Rules», che l’OCSE già
Lo scambio automatico di informazioni vale solo con le autorità fiscali estere. (Keystone)
utilizza nella lotta contro l’evasione fiscale da parte di grandi gruppi internazionali. Secondo queste proposte, i consulenti e promotori che si sono impegnati fortemente nella creazione, nella divulgazione o nell’applicazione di pianificazioni fiscali, volute per aggirare lo scambio automatico, dovrebbero essere obbligati a informare le rispettive autorità fiscali sull’esistenza di queste strutture e sugli effettivi aventi diritto economico dei depositi.
Secondo alcuni esperti, verrebbero in questi casi presi di mira sia le banche, sia i gestori patrimoniali, nonché studi di avvocati o di fiduciari. Questi istituti dovrebbero essere obbligati a dichiarare al fisco queste strutture, qualora il loro uso da parte di clienti potesse lasciar presumere «una pianificazione fiscale aggressiva». Le informazioni su questi casi verrebbero in seguito trasmesse automaticamente alle autorità fiscali dei paesi interessati.
Queste misure sono attualmente in fase di consultazione, ma già in febbraio si terranno, nell’ambito dell’OCSE, importanti discussioni sul tema. Nella primavera del 2018, l’OCSE informerà il G-7 sullo stato dei lavori. A questi colloqui parteciperà anche la Svizzera, che avrà anche un importante settore economico da difendere, evitando il rischio che si vada magari al di là delle regole stabilite. Ma anche da parte dell’OCSE si pensa che queste discussioni non sfoceranno necessariamente in uno «standard» che tutti gli Stati membri devono rispettare. Alcuni paesi potrebbero applicarlo direttamente. Del resto, l’Unione Europea sta pure preparando una direttiva analoga. Dal canto suo, il Segretariato svizzero per i problemi finanziari internazionali ritiene prematuro questo modo di fare. Esso pensa che, per il momento, ci si dovrebbe impegnare per un’applicazione corretta e concreta degli standard attuali dell’OCSE. Ogni Stato dovrebbe, infatti, impegnarsi nel realizzare una buona trasparenza fiscale e il rispetto degli accordi internazionali, considerando anche il diritto nazionale. L’introduzione di misure vincolanti dovrebbe tener conto delle situazioni negli Stati che già prevedono obblighi analoghi nel proprio diritto nazionale. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Politica e Economia
Piano pensionistico a 55 anni: quando ritirarsi dalla vita lavorativa? La consulenza della Banca Migros Jeannette Schaller
Come calcolare il fabbisogno patrimoniale
A 55 anni avete adottato le misure necessarie per evitare future lacune previdenziali. Ora è il momento di decidere come programmare la vostra uscita dalla vita lavorativa. Per gli ultracinquantenni i temi di seguito riportati rivestono un ruolo fondamentale.
L’80% del vostro ultimo reddito lordo corrisponde solitamente al vostro budget necessario dopo il pensionamento (esempio: coppia di coniugi)
Lacuna
Jeannette Schaller è responsabile della pianificazione finanziaria alla Banca Migros
Volete andare in pensione all’età ordinaria di 64 anni (donne) o 65 anni (uomini)? Intendete ritirarvi dalla vita lavorativa ancor prima? Un pensionamento anticipato è possibile a partire dai 58 anni d’età. Oppure volete lavorare più a lungo? Il pensionamento può essere posticipato fino all’età di 70 anni. Decidete ora gli aspetti principali della vostra uscita dalla vita lavorativa.
pensionamento 72’000 p.a.
LPP 19’500 p.a.
(con un reddito lordo di 90’000)
Domanda cruciale: il vostro patrimonio è sufficiente per colmare la lacuna previdenziale annua?
AVS 41’500 p.a. Tutti i valori in CHF
2. La prevenzione di lacune previdenziali
Se le rendite del primo e del secondo pilastro non sono sufficienti per coprire il vostro budget dopo il pensionamento, avrete una lacuna previdenziale durante la vecchiaia. Questa lacuna deve poter essere colmata con i vostri risparmi privati. In linea di massima vale la regola secondo cui l’ammontare dei risparmi dovrebbe corrispondere alla lacuna previdenziale annua moltiplicata per 20. Presupponendo un’aspettativa di vita
11’000 p.a.
Fonte: Banca Migros
Budget dopo il
1. Il momento del pensionamento
di 85 anni, all’età di 65 anni (uomini) rimangono ancora 20 anni. Con un budget di 72’000 franchi all’anno e una rendita annua attesa di 61’000 franchi, ogni anno mancano quindi 11’000 franchi. Ciò corrisponde a una lacuna previdenziale totale di 220’000 franchi. Fino al pensionamento vi rimangono due possibilità: risparmiare ulteriore capitale o ridurre il budget per la pensione.
3. La modalità di prelievo del vostro avere
Pensate a come volete utilizzare il vostro avere. Di seguito trovate le principali domande che dovete porvi. ■ Rendita, prelievo di capitale dalla cassa pensione o entrambi? ■ Voglio usufruire delle rendite AVS secondo i tempi previsti dalla procedura standard? Le prelevo anticipatamente o le rinvio?
■ Scagliono i miei prelievi di capitale della previdenza professionale e/o privata? Rispondete subito a queste domande per arrivare al pensionamento in tutta serenità. Informazioni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Quesiti demografici Se c’è una variabile, tra quelle che determinano l’andamento dell’economia e del nostro benessere, la cui evoluzione può essere anticipata nel lungo termine, questa è la variabile demografica. L’evoluzione della popolazione di una determinata regione o di un determinato paese è data dalla somma del saldo del movimento naturale (nascite meno decessi) con quello del movimento migratorio (immigrati meno emigrati). Se questa somma è positiva la popolazione cresce; se è negativa, diminuisce. Ora, per quel che riguarda la maggioranza dei paesi europei il saldo del movimento naturale è negativo o lo sta per diventare. In questi paesi, e anche in Svizzera (e, ovviamente, anche in Ticino), muoiono cioè più persone, oggi, di quante ne nascano. Se non ci fosse un saldo migratorio positivo la popolazione di questi paesi dovrebbe cominciare a
diminuire. In altre parole, nel lungo termine, l’Europa senza immigranti è destinata a morire. Prendiamo il caso dell’Italia. Le previsioni disponibili ci dicono che con un’immigrazione positiva l’Italia potrebbe raggiungere, nel 2050, i 66 milioni di abitanti. Con un saldo migratorio nullo, invece, non supererà i 53 milioni. Per la Germania non è neanche più un problema di ipotesi sull’evoluzione del saldo migratorio. Questo paese, che contava 80 milioni di abitanti, nel 2010, vedrà la sua popolazione aumentare sino a raggiungere gli 82,5 milioni nel 2020, per poi diminuire a 76, rispettivamente a 72 milioni, a seconda degli scenari, nel 2050. Per la Svizzera, gli scenari a disposizione sono ancora ottimistici. La sua popolazione, che era di 8,3 milioni di abitanti nel 2015, a seconda dell’evoluzione del saldo migratorio, potrebbe
salire fino a 10,7, 10 o solamente 9,3 milioni fino al 2045. Ma questo non aiuterà molto la nostra economia perché ad aumentare sarà esclusivamente la fascia di popolazione con più di 65 anni. Mentre gli altri paesi europei dovranno occuparsi di determinare quel che potrebbe succedere se la popolazione dovesse, tra qualche decennio, cominciare a diminuire in modo significativo, per la Svizzera si tratterà di stabilire che cosa potrebbe succedere, se il rapporto tra la popolazione che lavora e quella inattiva dovesse ridursi della metà o giù di lì. Che poi la cecità di coloro che chiedono una limitazione dell’immigrazione potrebbe anche peggiorare le cose è un aspetto che, per il momento, i demografi che fanno le previsioni di evoluzione a lungo termine ancora non hanno provato a tenere in conto. L’invecchiamento della popolazione
che si manifesterà nei prossimi decenni, con il peggioramento del rapporto tra popolazione attiva e inattiva, avrà conseguenze indesiderabili. In primo luogo fragilizzerà il finanziamento del nostro sistema pensionistico che non potrà sopravvivere se non accettando di essere drasticamente riformato. Attenzione però a ridurre le rendite perché se, come tutto sembra indicare, i tassi di interesse continueranno a restare bassi, è probabile che le rendite del secondo pilastro scenderanno, per molti pensionati, a livelli così bassi da precipitarli nella povertà. L’invecchiamento della popolazione renderà poi più difficoltoso, di quanto già non sia, il finanziamento dei costi della salute. Chi scrive non è per niente ottimista in relazione all’evoluzione in questo settore. Ora c’è chi parla di fissare un tetto per l’evoluzione di questi costi. Fissare
un tetto per i costi della salute significa o peggiorare le prestazioni o rinunciare a certe prestazioni visto che finora non si è mai riusciti a contenere l’aumento dei costi in questione al disotto del tasso di crescita del prodotto interno lordo. Le cose non stanno mettendosi bene. Per l’invecchiamento della popolazione la domanda di prestazioni al settore sanitario rischia di esplodere. Nel medesimo tempo non ci saranno più le risorse finanziarie necessarie a finanziare l’aumento di prestazioni richiesto. Anzi, se poniamo un tetto all’evoluzione dei costi sanitari, dovremo cominciare a ridurre o a contingentare le prestazioni. A tutti fa paura lo scenario della medicina a due classi. Tutti dovremmo quindi essere pronti a discutere in modo serio le possibili alternative. Abbiamo ancora qualche anno a disposizione per introdurre correttivi. Ma non di più!
sulla Brexit – la maggior parte dei membri del partito è contrario all’uscita – quanto su come si svilupperà il distacco. Uno dei portavoce principali è Andrew Adonis, ex ministro della stagione blairiana e ora membro della camera dei Lord (non eletto quindi, e questo gli viene rinfacciato spesso), che ancora la settimana scorsa ha difeso l’idea in Parlamento durante il dibattito sulla legge per uscire dall’Ue: «Il primo diritto a decidere sulla Brexit è stato dato agli inglesi – ha detto – così anche l’ultima parola dovrebbe essere lasciata agli inglesi una volta che hanno visto i termini dell’accordo negoziato dal governo». La procedura sarebbe semplice: nel momento in cui ci dovesse essere un secondo referendum che boccia l’accordo, il governo può ritirare l’articolo 50 che aveva attivato il negoziato e rivalutare tutto il processo (e dimettersi, soprattutto). Questo è quanto sostiene Adonis e il suo gruppo, per lo più liberaldemocratici e laburisti moderati, che trova spazio e modo di esprimersi sul settimanale «New European», diventato l’organo principale dell’opposizione alla Brexit.
Ma i sostenitori del secondo referendum non sono soltanto gli anti Brexit. Anche i falchi del «leave», come Nigel Farage, ex capo degli indipendentisti, o come il suo superfinanziatore Arron Banks, iniziano a pensare che ci voglia un’altra consultazione. In comune con gli europeisti hanno la certezza che la May non stia facendo un buon lavoro con le trattative: le ragioni sono opposte, ovviamente, gli europeisti pensano che l’accordo sia troppo rigido, i falchi della Brexit si sentono traditi, pensano che la premier stia svendendo la loro cara Brexit. L’esito finale è però simile: il popolo britannico deve dire cosa ne pensa. Su quel che accadrà dopo però ci sono delle divergenze, perché la procedura dell’articolo 50 dice che se c’è l’accordo bene, ma se non c’è, o viene bocciato, il Regno Unito esce dall’Ue senza accordo, lo scenario più catastrofico. Sul ritiro dell’articolo 50 si dovrà quindi discutere, ma è facile immaginare che se il referendum boccia il negoziato e la maggioranza del parlamento è per la revoca dell’articolo 50, il «cuore aperto» degli europei potrebbe avere un grande sussulto.
C’è un altro elemento da considerare: le elezioni locali previste a maggio. Quelle più rilevanti sono a Londra: se qui i conservatori dovessero prendere una batosta, l’equazione sarà immediata. È un altro voto contro la Brexit, quindi un altro buon motivo per chiedere un secondo referendum. A differenza di quel che accadde nel 2016, gli elettori inglesi avranno a disposizione molti più fatti da valutare, sia riguardo gli effetti della Brexit sia rispetto all’impatto che già si registra sull’economia. L’esperienza della Brexit finora non è stata molto positiva. Ma il dibattito, nel Regno Unito, è ancora fermo a prima del giugno del 2016: sembra che nemmeno quel referendum sia mai stato fatto. Si litiga come il primo giorno, sui vincoli dell’Europa, sul bullismo dell’Europa, sulla solitudine britannica scritta nel dna isolano, sulla possibilità di avere un altro rapporto con l’Europa. È come se il tempo non portasse nuove certezze, nemmeno un cambiamento d’idea, soltanto un inasprirsi delle convinzioni già esistenti. Che con i fatti non hanno mai avuto nulla a che fare.
giornalismo di qualità. Ma l’aspetto che più ha colpito il documentarista è stata l’assoluta incomprensione della svolta, l’indifferenza per le sorti delle vecchie testate, ormai considerate anticaglia. Eppure la posta in gioco è cospicua e pesante. Ancora è difficile valutarne portata e conseguenze. Tocca in primo luogo le maestranze, con massicci tagli all’occupazione; ma riguarda anche l’essenza stessa del fare giornalismo oggi, le cui ripercussioni investono l’intera società, la politica, la cultura. Non è una riforma, progressiva e indolore, ma una rivoluzione; non è solo un cambiamento quantitativo (più canali, più strumenti, più dispositivi), ma un salto qualitativo. Il medesimo processo sta investendo il mondo della moneta, con l’esplosione delle criptovalute (bitcoin). Il materiale (carta) è diventato immateriale (sequenze di numeri). Che cosa succederà alla democrazia, come cambierà il rapporto tra cittadino e istituzioni nei prossimi anni? Il
sistema occidentale è nato e cresciuto assieme all’alfabetizzazione, alla moltiplicazione delle gazzette e delle riviste, ai circoli di lettura in cui si riunivano le élites interessate al progresso della società. Tutti noi ricordiamo il Caffè dei fratelli Verri, fucina di idee e di stimoli imprenditoriali della Milano dei Lumi. La costituzione di un partito o di un’associazione comportava l’immediata fondazione di un organo incaricato di diffondere il verbo. Di qui la proliferazione della stampa d’opinione, luogo di polemiche roventi ma anche palestra per la formazione di una cultura politica. La democrazia occidentale, soprattutto quella elvetica, è una democrazia esigente. Votazioni ed elezioni presuppongono un cittadino informato, maturo, responsabile; un cittadino che non assorbe passivamente i consigli (interessati) provenienti dall’alto, ma che discute, accetta il confronto, mette in fila argomenti ed obiezioni. Altri
regimi non si curano affatto di questa pedagogia popolare: si accontentano di organizzare il consenso, infischiandosi dei dibattiti e delle urne. Stampa e democrazia hanno finora marciato di pari passo, l’una accanto all’altra, la prima tenendo d’occhio la seconda e viceversa. Ma ora questa marcia parallela si sta esaurendo. Altri mezzi, potenti ma perlopiù opachi, hanno invaso lo spazio pubblico. La rete ha impigliato il cittadino-elettore in un groviglio disorientante. Ha inoltre scavato un fossato tra le generazioni, al punto da interrompere il dialogo tra i giovani e gli anziani. Mark Thompson, amministratore delegato del «New York Times», ha prefigurato «la fine del dibattito pubblico», affogato nelle sabbie mobili dell’antipolitica. La transizione mediatica sta insomma intaccando le basi dell’impalcatura democratica. Brutto segno. Primavera del giornalismo? No, qui è autunno, quasi inverno.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Brexit, referendum bis? Se pensi a un secondo referendum sulla Brexit nel Regno Unito ti si stringe il cuore. Perché un altro, il primo non è bastato? E se gli europeisti perdono anche questo, cosa si fa, si separano le acque della Manica? Eppure l’ipotesi è sempre più concreta. Un sondaggio recente dice che il 58 per cento degli inglesi vorrebbe poter dire la propria sul
negoziato con l’Unione europea, contro il 42 che invece preferisce non doversi esprimere più. Bisogna infatti intendersi sul referendum: non si tratterebbe più di decidere se restare nell’Ue o uscire, bensì di valutare se l’accordo che il governo di Theresa May (nella foto) ha trovato con Bruxelles è buono e vale la pena implementarlo. I sostenitori del secondo referendum preferiscono chiamarlo «un nuovo referendum» per ovvie ragioni: la replica della prima consultazione sembra un’operazione testarda di inconsolabili. Mentre qui si tratta di mettere in pratica quel che da tempo l’ex premier Tony Blair va ripetendo: non compri una casa senza averla vista per bene, senza averla visitata ed esplorata. Così non esci dall’Ue senza sapere i termini del divorzio – tanti matrimoni resistono proprio perché i termini dell’allontanamento sono troppo severi o troppo complicati o semplicemente poco convenienti, perché non può accadere anche per il Regno Unito e per gli inglesi? Il partito a favore del secondo referendum è capitanato dai sostenitori del diritto di cambiare idea. Non tanto
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti L’autunno del giornalismo L’aria si è fatta greve nelle redazioni dei giornali. Chi è cresciuto professionalmente tra linotypes e caratteri mobili, tra compositori e rotativisti, sorride sempre meno. Il malessere è sceso nelle viscere. L’impressione è che un’intera era si stia chiudendo, lasciando spazio ad una nebulosa gassosa, indefinibile, inafferrabile. Un passaggio d’epoca vertiginoso, che non prova pietà per le vittime, redattori, tecnici, tipografi. Google che decapita Gutenberg, gli schermi tattili che declassano la pagina stampata a carta straccia. L’allarme è palpabile, articoli dai toni sofferti li abbiamo letti anche su questo settimanale. Fin quando durerà questa lenta agonia? Le testate quotidiane attualmente sul mercato della Svizzera vedono la platea degli abbonati contrarsi a vista d’occhio. Solo la fascia d’età più anziana rimane fedele al quotidiano ereditato dai progenitori. Gli abbonamenti nuovi, stipulati fuori o contro la tradizione familiare, sono
rari. Anche la pubblicità, la principale fonte di sostentamento, ha preso il volo, rendendo la foliazione sempre più magrolina e innescando il ben noto circolo vizioso: meno inserzioni, meno pagine, meno contenuti, meno firme autorevoli, meno vendite. Ovunque si cerca di confezionare il prodotto in casa e di ridurre i costi all’osso. Si tenta di reagire, ma l’eco è flebile. La Romandia, attraversata da soppressioni e fusioni, ha alzato la testa, manifestato, rivendicato, ma non sembra che la protesta abbia scosso l’opinione pubblica. Sull’eclisse di questo comparto, il cineasta Frédéric Gonseth ha realizzato un film a partire dalla morte dell’«Hebdo» (Le printemps du journalisme). La scomparsa del rotocalco ha indignato i lettori maturi, ma non i giovani, ormai abituati all’informazione digitale, leggera e gratuita. Nemmeno la scuola è stata in grado di rallentare la fuga dei nativi digitali dai media storici, insistendo sulla necessità di salvaguardare un
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Cultura e Spettacoli Lunga vita al design! Christian Brändle spiega progetti e cambiamenti del Museum für Gestaltung di Zurigo
Carona da scoprie in musica Una nuova interessante iniziativa musicale inserita nella suggestiva cornice del paese di Carona: ce ne parla la musicista Giulia Genini
I diari segreti di Mary Il disegnatore Edward Sorel ci restituisce gli irresistibili diari bollenti dell’attrice Mary Astor pagina 37
pagina 35
pagina 33
Il celebre prisma dei Pink Floyd. (Keystone)
Pink Floyd forever
Mostre Dopo Londra anche Roma subisce l’incanto dell’esperienza culturale interattiva
offerta da The Pink Floyd Exhibition: Their Mortal Remains Blanche Greco I Pink Floyd al Museo, o i Pink Floyd da Museo? La domanda è cruciale visto il successo della mostra The Pink Floyd Exhibition: Their Mortal Remains inaugurata trionfalmente a Londra, al Victoria and Albert Museum, e adesso al MACRO di Roma, presentata per l’occasione da Nick Mason e Roger Waters, il fondatore dei Pink Floyd che si allontanò dal gruppo negli anni 80, e che ha scelto proprio Roma per «esserci», per visitare la Mostra e parlare di sé: «All’epoca dell’inaugurazione a Londra, stavo lavorando in America, perciò oggi l’ho vista per la prima volta, ed è stato divertente ed emozionante. Sono rimasto sorpreso dalla grande quantità di oggetti in mostra, donati dalle tante persone che ci hanno seguito e amato. Per me è stato un viaggio nel tempo, in un periodo della mia vita, tra le tante cose successe e le musiche che abbiamo creato, il tutto mixato in modo sorprendente dal “miracolo tecnologico” creato dalla Sennheiser, che ha dato una colonna sonora ai miei pensieri e ai miei ricordi, resuscitando atmosfere e sensazioni». Roger Waters è rimasto colpito dalla «audioguida» della mostra, un sofisticato congegno dotato di cuffie che, una volta appeso
al collo, è in grado, quando ci si avvicina a un oggetto, o a una bacheca, di interagire con i video, le installazioni e le fotografie, che scandiscono tutto il percorso, riproducendo in alta qualità, le musiche, le voci, i racconti, le interviste inedite dei Pink Floyd e le canzoni della band che segnarono un’epoca; in questo modo ogni visitatore può crearsi una propria colonna sonora della mostra. The Pink Floyd Exhibition: Their Mortal Remains inizia con un’orgia d’immagini psichedeliche proiettate su muri neri: quadri, copertine di album e serigrafie dell’epoca dei figli dei fiori e dell’LSD. Su tutto campeggia una gigantografia di Syd Barrett – anima lirica e giocosa del gruppo – circondato dalle sue lettere, dai quadri e dalle poesie: è un omaggio a un amico mai dimenticato, in ricordo della breve stagione in cui il suo talento segnò profondamente il destino della band, bruciando la sua esistenza. Si comincia così in modo cronologico con degli studenti di Cambridge appassionati di musica e si prosegue con le tappe principali della loro carriera e del loro mondo visivo, sempre teatrale e spettacolare. «Collaborando a questa mostra ho ritrovato cose che credevo perdute, come certi miei tamburi che avevo fatto
dipingere e che sono ancora bellissimi», ha confessato Nick Mason. Più di Gilmour e Waters, Mason ha lavorato al progetto della mostra con Storm Thorgeson e Aubry Powell (detto Po’) del gruppo Hipgnosis, lo studio fotografico e di grafica che per anni si è occupato dell’immagine dei Pink Floyd, realizzando opere iconiche come la mucca della copertina di Atom Heart Mother o il prisma rifrangente di The Dark Side of the Moon, diventato l’album della svolta e del successo planetario, che la mostra celebra in una saletta a parte con un ologramma che fluttua e si trasforma seguendo la musica. Sarà poi la volta di Wish You Were Here con il video del businessman che prende fuoco; ma al MACRO c’è anche il grande maiale rosa gonfiabile che i Pink Floyd usarono come vessillo tra le ciminiere della Centrale Elettrica di Battersea, e che ora si libra sul soffitto, a trenta metri di altezza, con altri pupazzoni gonfiabili come le pecore del concerto Animals, la «famiglia perfetta» che torreggiava nel primo concerto americano, o i mattoni giganti di The Wall. Brani di storie e brani musicali che scandiscono eventi epocali e personali dei Pink Floyd, ci accompagnano sino all’ultima sala: la «performance room», uno spazio «au-
diovisivo immersivo», dove, tolte le cuffie, saliamo virtualmente sul palco del Live 8, tra fumi e luci colorate, sulle note di Comfortably Numb mixata con la tecnologia Ambeo 3D dalla Sennheiser. Dieci minuti dell’ultimo concerto, quello della «reunion» del 2005 e poi, come omaggio a Roma, il video di One of These Days dalla storica esibizione del gruppo a Pompei. Si esce dalla mostra incantati, giurando a se stessi di tornare, malgrado la coda, l’entrata contingentata e i biglietti da prenotare. Ma anche con una nuova consapevolezza: il «rock-in-mostra» sta diventando il nuovo business culturale di successo. Dopo i Rolling Stones e David Bowie è infatti il momento dei Pink Floyd. Ma sono mostre destinate a finire in un museo dal suono spettacolare? Their Mortal Remains, (I loro resti mortali, Ndr), dicitura voluta da Roger Waters, è quindi un epitaffio? «Questa mostra è una collezione dei nostri lavori passati» – ha reagito Nick Mason concludendo la conferenza stampa – «e anche se sembrano una sequela di successi, quasi fossero il frutto di scelte “ragionate”, non è così. Le innovazioni e i cambiamenti nella nostra musica non sono mai stati “premeditati“, ma frutto di elementi casuali, o fortunati. Cominciavamo una cosa, poi, senza
ragione alcuna, la abbandonavamo per un’altra. E le nuove tecniche audio-video, mostrano magnificamente ai giovani il nostro modo di fare, ma anche le grandi possibilità che esistono oggi, per fare le stesse cose meglio, e soprattutto come farne altre. Ai nostri tempi non esistevano ologrammi, né sistemi audiovisuali, ma ce ne siamo serviti qui, e il cambiamento tecnologico è, assieme a noi, il protagonista di questa mostra e di questa musica, e non si può congelare». Roger Waters è ancora più drastico: «Non m’interessa questa mostra; non m’importa cosa ci siamo lasciati alle spalle! Sono orgoglioso di ciò che abbiamo fatto: Nick, David, Syd, Rick e io. Amo profondamente The Dark Side of the Moon, ma noi siamo ancora sulla breccia. Io sto lavorando a un nuovo album e al tour in programma. Ci sono cose cruciali con cui confrontarsi oggi, più importanti che guardare indietro e fossilizzarsi su quanto avvenuto venti o trenta anni fa». Dove e quando
The Pink Floyd Exhibition: Their Mortal Remains, Roma, Museo Macro (Via Nizza). Fino al 1. luglio 2018. www.museomacro.org
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Cultura e Spettacoli Lo Schaudepot è situato al Toni Areal di Zurigo. (Keystone)
Tra spazio e geometria
Mostre A Lugano una personale dedicata
alle opere di Alex Dorici, tutte realizzate con le ceramiche portoghesi azulejos
Alessia Brughera
Nuove collezioni
Incontri Christian Brändle, direttore del Museum für Gestaltung
di Zurigo racconta i grandi cambiamenti museali in corso Ada Cattaneo La sede originale del Museum für Gestaltung di Zurigo riaprirà nel marzo 2018, dopo una pausa necessaria alla realizzazione di alcuni interventi di restauro. L’istituzione ha nel frattempo potuto contare sulla nuova sede, ubicata presso il Toni Areal, dove sono situati, oltre ad uno spazio espositivo, anche i depositi, per altro visitabili. In questa intervista, il direttore Christian Brändle racconta ai lettori di «Azione» il percorso che l’istituzione ha fino ad ora intrapreso, le mostre in corso e i progetti per il futuro. L’edificio del Museum für Gestaltung, che si affaccia su Ausstellungstrasse, realizzato dagli architetti Steger ed Egender in stile Bauhaus, ha subìto un importante intervento di restauro. Come vi siete confrontati con un’opera di tale importanza nella storia dell’architettura svizzera?
Si tratta in effetti di un edificio molto importante, costruito negli anni Trenta, un vero monumento iconico nel panorama dell’architettura svizzera modernista. Nel nostro paese sono pochissimi gli edifici realizzati in quel decennio che abbiano dimensioni altrettanto importanti. Forse, di paragonabile, c’è solo la Biblioteca Nazionale a Berna. L’edificio di Zurigo ha avuto la fortuna di essere sempre stato utilizzato come scuola. Infatti, come forse è noto, il museo è parte della Zürcher Hochschule der Künste (ZHdK). Poiché si trattava di un edificio scolastico, le risorse economiche a disposizione sono sempre state molto limitate e non ci sono mai stati grandi investimenti, per distruggere e ricostruire. Solitamente, negli anni Ottanta, questo genere di costruzioni veniva invece abbattuto, oppure si rifacevano completamente alcune parti. Nel nostro caso moltissimi elementi originali sono ancora intatti. Questa è stata per noi una grande occasione. Perciò, nel corso del restauro, abbiamo tenuto presente due obiettivi: in primo luogo, creare un museo che rispetti gli standard odierni in termini di controllo del clima, sicurezza, eccetera; sull’altro fronte, volevamo rispettare il più possibile questo splendido edificio storico. Questo sforzo è arrivato al punto tale che abbiamo fatto ricerche anche per trovare le viti giuste da usare, come quelle originali, oggi non più in produzione. Ci siamo spinti fino al più piccolo dettaglio, tanto che ora, in ogni angolo, si può veramente respirare la dignità originale di questo edificio. Nel frattempo, avete anche una nuova sede al Toni Areal, un deposito visitabile, una formula sempre più diffusa negli ultimi anni. Come sono utilizzati questi nuovi spazi?
La sede presso il Toni Areal è suddi-
visa in due parti: c’è il deposito, dove conserviamo i circa 500’000 oggetti della nostra collezione, che è composta soprattutto da poster, ma anche da mobili, oggetti, opere di graphic design; poi ci sono le superfici espositive al piano principale. Nell’edificio su Ausstellungsstrasse, a restauro concluso, saremo in grado, per la prima volta nella nostra storia, di allestire una parte delle nostre collezioni. Qui vedrete circa duemila oggetti dalla nostra collezione: si tratterà probabilmente dei pezzi più importanti, esposti in allestimenti rinnovati regolarmente. Per quanto riguarda lo «Schaudepot» presso il Toni Areal, stiamo discutendo proprio in questi giorni su come renderlo accessibile al pubblico nel migliore dei modi. Attualmente offriamo quasi ogni giorno una visita guidata. Non è accessibile liberamente, i visitatori vanno accompagnati. Ora stiamo valutando se rendere la visita più libera o se continuare con la modalità attuale. Probabilmente in futuro avremo in entrambe le sedi una combinazione fra collezione permanente e mostre temporanee, poiché entrambe i luoghi hanno bisogno costantemente di nuova linfa vitale. Inoltre, a partire dal 2019, avremo anche in gestione il Padiglione Le Corbusier, a Seefeld. Quando riaprirete la sede storica?
Nel marzo 2018: mancano pochi mesi, anche se abbiamo ancora molto lavoro da fare.
Il legame che vi unisce alla Zürcher Hochschule der Künste è di lunga data, ma credo che sia ancora molto attuale.
Sì, si tratta di una relazione molto forte. Se si guarda indietro nella storia, si vede che quasi sempre i musei e le scuole d’arte hanno radici comuni. In Europa queste radici vanno indietro fino agli anni Sessanta dell’Ottocento, il tempo dell’Eclettismo e dello Storicismo, quando architetti e designer cercavano nell’archivio della storia per trovare spunti da copiare e ai quali ispirarsi. Il risultato fu uno stile molto bizzarro, che spesso nasceva mischiando elementi da varie epoche. A Zurigo fu realizzato proprio allora il Landesmuseum (Museo nazionale, ndr), che da fuori sembra un castello medievale, mentre in realtà fu uno dei primi edifici costruiti in cemento. Si trattava di un vero e proprio falso, come un castello in stile Disneyland. Alla fine furono necessari dei nuovi modelli a cui riferirsi, soprattutto per istruire studenti ed apprendisti. Fu allora che, in molti luoghi d’Europa, si cominciarono le collezioni di arti applicate e di grafica. Piuttosto velocemente vennero fondati veri e propri musei e scuole in tutta Europa. In seguito, musei e scuole prima uniti, si sarebbero divisi: accadde a Londra, con il Victoria and Albert Museum e il Royal College of Arts, lo stesso avvenne a Monaco.
Ma non fu così a Zurigo, dove il museo è ancora parte della ZHdK. Questa situazione influenza molto il modo in cui ci occupiamo di design qui al museo: siamo molto interessati a raccogliere esempi sulla genesi del progetto, sul processo che parte dal primissimo schizzo a matita, per arrivare al prototipo, alla produzione industriale, fino al momento in cui l’oggetto finisce nella spazzatura. Ci interessano anche gli strumenti che servono per la produzione e la storia del marketing dei prodotti creati, dagli opuscoli ai poster. Tutto il ciclo vitale dell’oggetto. Crediamo che sia importante per i nostri studenti imparare in questo modo il design e riflettere sul processo creativo. La mostra in corso Design Studio Prozesse sembra mostrare bene questa vostra modalità.
Esatto. Questo è l’esempio perfetto. È in corso fino a luglio 2018. Ci può raccontare qualcosa sulle mostre che avete in corso in questo momento?
Come dicevamo, ora è visitabile Design Studio Prozesse che offre al pubblico la possibilità di comprendere la pratica del design così come viene svolta oggi, attraverso molti temi, discipline, approcci. Poi c’è l’altra mostra appena aperta, dedicata al designer austriaco di fama internazionale Stefan Sagmeister, che ha lavorato con Lou Reed, i Rolling Stones e molti altri personaggi celebri. La sua modalità creativa è molto interessante perché ogni sette anni chiude il suo studio per un anno, un anno sabbatico, sapendo che al suo ritorno avrà comunque clienti ad aspettarlo. Nel corso di questo anno egli si dedica interamente alla riflessione su un singolo tema. L’ultima pausa è stata dedicata al tema della felicità, durante il quale ha creato il progetto chiamato «The Happy Show» – ora in mostra da noi – in cui lui ha ragionato come individuo, ma anche basandosi su studi scientifici, registrazioni video del comportamento di altre persone ed esperimenti con droghe provate su se stesso per capire cosa renda felici. Ne è nata una interessante esposizione, anche perché è un tema molto bello su cui lavorare. Inoltre è stato reso da lui in modo molto accattivante dal punto di vista visivo. Poi abbiamo chiesto a Sagmeister di proporre una selezione di oggetti dai nostri depositi. È la seconda volta che lo facciamo: era già avvenuto con Jasper Morrison, industrial designer. Per noi si tratta di un momento molto importante, perché, quando lavoriamo con le nostre collezioni dal punto di vista strettamente scientifico, etichettiamo gli oggetti, li mettiamo in una certa categoria, gli diamo una determinata connotazione. Quando viene qualcuno da fuori ad occuparsene, invece, le collezioni ricevono una nuova lettura e quindi una nuova vita.
Niente più dell’azulejo rappresenta l’architettura e le arti portoghesi: piastrella in ceramica dalla superficie smaltata e dalla forma tradizionalmente quadrata, decora chiese, palazzi, scalinate, piazze, fontane e panchine, fin da quando, nel Trecento, viene introdotta nella penisola iberica dagli arabi. Se in un primo momento questi ornamenti, obbedendo alle leggi islamiche, riproducevano solo forme geometriche e piante stilizzate, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, periodo in cui la loro fabbricazione si distacca dalle maestranze arabe per passare nelle mani dei ceramisti locali, i motivi astratti vengono via via abbandonati a favore di riproduzioni figurative. Complice la diffusione in tutta Europa della tecnica italiana e fiamminga della maiolica, grazie alla quale si potevano realizzare piastrelle piatte anziché in rilievo, in questo periodo il Portogallo è tutto un proliferare di manifatture di azulejos, concentrate soprattutto nelle città di Lisbona, Porto e Coimbra. Le piccole raffinate decorazioni divengono così l’elemento caratterizzante del Paese, legandosi nei secoli alla sua storia artistica senza mai conoscere parabole discendenti. Numerosi sono gli artisti che oggi impiegano l’azulejo nella loro ricerca saggiandone le potenzialità in chiave contemporanea e apprezzandone il requisito di manufatto ricco di fascino e tradizione. Tra questi vi è il luganese Alex Dorici, classe 1979, conosciuto in ambito elvetico e internazionale per la sua particolare predilezione per lo spazio urbano e per i materiali semplici e poveri, con cui dà vita a un’arte capace di trasformare i luoghi che appartengono alla vita quotidiana della gente. La scelta di utilizzare un elemento sofisticato e con una valenza storica importante come l’azulejo può sembrare poco usuale per l’artista, abituato com’è ad avere a che fare con cartoni, nastri adesivi, cordami, tubi in pvc e prodotti industriali di scarto destinati alla distruzione. Eppure questa decisione è giustificata, da una parte, dalla volontà di volgere lo sguardo alla propria vicenda personale, recuperando le origini portoghesi della madre, dall’altra di far evolvere la propria indagine artistica mediante nuovi mezzi espressivi. Le piastrelle quadrate diventate protagoniste di alcune delle sue creazioni più recenti, si inseriscono difatti alla perfezione in un percorso coerente che sa avventurarsi nella sperimentazione di materiali diversi ma che sa altresì mantenere ben saldi i propri concetti fondanti. A poche settimane dalla chiu-
Alex Dorici, Portugal al cubo #729, 2017. (A. Maniscalco)
sura della mostra monografica che il Museo Villa Pia di Porza ha dedicato a Dorici, la rassegna intitolata Portugal al cubo #729, allestita nelle sale della Galleria Buchmann di Lugano, presenta alcune opere realizzate esclusivamente con gli azulejos, testimonianza di come l’artista continui a portare avanti il suo lavoro teso all’indagine dello spazio. Dorici ha concepito per questa esposizione un’installazione site specific di grandi dimensioni, composta da più di settecento piastrelle, a cui si aggiunge una serie di più piccole composizioni eseguite sempre con gli azulejos presi nella loro convenzionale struttura quadrata di pochi centimetri. Nascono così «paesaggi geometrici» dalle prospettive ambigue e dalla forte connotazione grafica in cui le forme e i volumi si accostano e si sovrappongono tra loro a delineare visioni dinamiche che alterano la percezione dello spettatore. Le opere di Dorici non seguono le regole euclidee, non percorrono i sicuri tracciati della matematica, si muovono invece in un campo libero dove quelle stesse norme vengono evocate ma al contempo trasgredite a favore di canoni personali. L’artista si muove tra bidimensionalità e tridimensionalità, decostruendo e analizzando lo spazio per restituirlo secondo coordinate inedite che rendono i suoi lavori proiezioni ingannevoli del reale. Tra i solidi distorti e interrotti che prendono vita dall’accostamento delle piastrelle di colore bianco, blu e azzurro appaiono le forme care a Dorici, quelle che da sempre appartengono alla sua ricerca, come il cubo, ad esempio, figura perfetta ed emblema della stabilità che per l’artista incarna l’idea di un involucro sicuro dove poter trasferire e custodire esperienze, emozioni e pensieri. Si coglie, nelle opere esposte a Lugano, lo stesso principio che guida Dorici quando interviene nel contesto urbano: lo spazio viene da lui concepito come qualcosa da stravolgere, da riconfigurare e infine da riconsegnare in una veste nuova, lontana dalla consuetudine e pregna di significato. L’azulejo diviene per Dorici uno strumento per mettere in scena visioni scandite e governate da una geometria utopica, rappresentazioni di una realtà altra che racchiudono estensioni alternative in grado di stimolare l’occhio e la mente. Dove e quando
Alex Dorici. Portugal al cubo #729. Buchmann Lugano, Via della Posta 2 – Lugano. Fino a fine aprile 2018. Orari: da ma a ve 13.00-18.00, sa 13.00-17.00. www.buchmanngalerie.com
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Cultura e Spettacoli
Quando l’antico è portatore (sano) di novità
Spielberg e le riflessioni profonde
Musica G iulia Genini ci presenta la stagione CaronAntica
stampa, il ruolo della donna, l’America da Nixon a Trump
Zeno Gabaglio «CaronAntica è un’avventura, una visione, un’ideale. Prendete un luogo incantevole, quasi magico: l’antico villaggio di Carona in Ticino. Immaginatevi di scoprirne i tesori architettonici, le suggestive atmosfere piene di bellezza e poesia attraverso la musica, attraverso suoni e strumenti insoliti, non convenzionali, antichi, coinvolgenti. Suoni che raccontano di epoche impresse nell’architettura e nella storia del villaggio. In contrasto con la velocità e la mutevolezza di oggi, CaronAntica rallenta e contempla un ideale sonoro – la musica antica – tutto da scoprire, in congiunzione alla meravigliosa ambientazione del borgo». L’idea – per ciò che è e per come viene esposta – è davvero seducente. Seducente perché prefigura un modo nuovo d’avvicinare il repertorio antico; un approccio più esperienziale che non spettacolare, in cui il passato rivela di sé nuove accezioni, in una sorta di cortocircuito temporale ed estetico. A ideare CaronAntica – una stagione concertistica che è anche vivo laboratorio musicale – è stata la neonata Fondazione Emiolia, con in prima linea Diego Fratelli (professore di prassi musicale antica presso il Conservatorio della Svizzera italiana e la Scuola Civica di Milano), Luca Guidicelli (avvocato caronese nonché melomane da sempre) e – soprattutto – Giulia Genini: musicista ticinese tra le più interessanti inter-
preti di musica antica della nuova generazione svizzera, già collaboratrice di realtà prestigiose quali I Barocchisti, Il Giardino Armonico, Accademia Bizantina e Berliner Philharmoniker. Proprio a lei ci siamo rivolti per avvicinare la novità costituita da CaronAntica. «A Carona la natura impetuosa e magnifica – illuminata da una dorata luce mediterranea – abbraccia l’arte e la sapienza dell’uomo antico che ha edificato il borgo con uno spiccato senso del bello e dell’armonioso. Il legame con l’arte medievale, rinascimentale e barocca è impresso nelle mura e nelle vie di Carona. Ciò ne fa una sorta di locus amoenus, ideale stimolo al pensiero e all’attività artistica». Ecco spiegato – dal punto di vista storico-paesaggistico – il «perché proprio Carona?». E se ci si chiedesse invece qual è il «perché musicale e organizzativo» di una nuova iniziativa proprio a Carona? Con Casa Pantrovà (da decenni privilegiata residenza creativa per artisti e soprattutto musicisti) Carona è un luogo ideale «per raccogliere idee, per concentrarsi, per creare. I concerti di CaronAntica vengono ideati e preparati proprio durante le residenze artistiche in paese. I musicisti vivono dunque per un certo tempo nel villaggio, interagendo con lo stesso, lasciandosi ispirare dal borgo». E la forza ispirante del borgo non è indifferente, né per i musicisti né per il pubblico. «Carona è un grande palcoscenico: la piazza, la loggia, ben quattro bellissime chiese antiche. Ubicazioni
Cinema La libertà di
Fabio Fumagalli *** The Post, di Steven Spielberg, con Meryl Streep, Tom Hanks, Mark Rylance, Amy Ryan (Stati Uniti 2017)
La musicista ticinese Giulia Genini.
concertistiche suggestive in cui il pubblico può vivere un’inedita vicinanza con la musica, anche grazie a presentazioni, commenti e a una particolare disposizione dei musicisti nello spazio». Come fare a toccar con mano quest’unicità? Lo scorso mese di dicembre si è tenuto il battesimo ufficiale di CaronAntica, con un programma dedicato al Natale sacro tra Venezia e Lubecca, mentre il prossimo 25 febbraio – rispetto a una serie di concerti mensili che si concluderà tra giugno e luglio – si terrà un appuntamento intitolato Il classicismo a Stoccolma. Alle ore 17
nella Chiesa di SS. Giorgio e Andrea si potrà infatti ascoltare una formazione insolita come quella del settimino – vera e propria orchestra minima – interpretare il famoso brano dedicatole da Beethoven e l’assai meno celebre (e forse per questo ancor più interessante) analoga opera di Franz Berwald, tra i più rilevanti autori svedesi tra epoca classica e Romanticismo. Sul palco – oltre a Giulia Genini – autentici virtuosi come Stefano Barneschi (violino di spalla del Giardino Armonico) e Konstantin Timokhine (primo corno della Kammerorchester Basel).
Ha settantadue anni ma, da quasi una decina, sembra in via di mutazione. Steven Spielberg ha acuito le proprie esigenze morali: l’inventore geniale di squali ed extraterrestri si è fatto più attento al rispetto reciproco. Già Lincoln (2012) o Il ponte delle spie (2015) sottolineavano una specie di migrazione da parte dell’autore di Duel, E.T. e Indiana Jones. Quella che ormai sembra averlo allontanato dai magistrali divertimenti di un’arte che gli permetteva di proiettare i suoi protagonisti – esseri umani o meccanici che fossero – in una corsa in avanti. In una dinamica che si faceva estetica cinematografica, finendo per coincidere con un itinerario morale. Quest’ultimo The Post sembra confermare come Spielberg abbia avuto il coraggio di affievolire notevolmente il suo marchio di fabbrica e la sua vocazione per avvicinarsi a un cinema che privilegi sempre più l’arte del Kammerspiel, in una partecipazione che si vuole più lucida e attenta all’intimità dei personaggi.
Saleem da Nazareth
Incontri A colloquio con il bravo musicista palestinese che, dopo un’infanzia trascorsa
in una realtà senza musica classica, oggi suona nelle più prestigiose sale del mondo Enrico Parola «A volte l’impossibile è più facile da realizzare che il difficile». Il copyright, almeno in ambito musicale, è di Daniel Barenboim, che con la sua Divan Orchestra da quasi vent’anni realizza qualcosa che sembrerebbe – e guardando al panorama socio-politico dovrebbe essere – impossibile: far suonare fianco a fianco musicisti israeliani e palestinesi, cristiani, ebrei e musulmani. Perché, è la ferma convinzione del grande pianista argentino, «davanti a Mozart e Beethoven siamo tutti uguali perché il cuore di ognuno di noi batte allo stesso modo». Saleem Abboud Ashkar ha seguito l’esempio di Barenboim, ma ciò che è riuscito a realizzare non è solo frutto di passione e intuizione, è anche l’esito di una storia a suo modo straordinaria. Ashkar è un pianista classico: a 17 anni suonava con Zubin Mehta e la Israel Philharmonic, a 22 con Daniel Barenboim alla Carnegie Hall di New York, nel 2004, «ormai» ventottenne, con Riccardo Muti alla Scala nel concerto per due pianoforti di Mozart; l’altro solista era un israeliano, Itamar Golam. «Sono nato a Nazareth (nel 1976, ndr)
in una famiglia araba: ritrovarmi solista con un israeliano fu un momento straordinario, lì ebbi la conferma che il dialogo tra noi è possibile», racconta, «per questo qualche anno dopo ho creato nella mia città natale una scuola di musica dove potessero studiare assieme ragazzi di tutte le provenienze: arabi e israeliani, musulmani ed ebrei. Attualmente sono quasi 25mila gli studenti passati nelle aule di questa scuola». Un’opera che gli ha meritato vari riconoscimenti internazionali, tra cui, nel 2012, lo Yoko Ono Lennon Courage Award. D’altronde Ahskar aveva provato che cosa significasse essere l’unico arabo in una scuola frequentata quasi interamente da ebrei, «dove il quasi non vuol dire in piccola percentuale, ma che oltre a me c’era un solo altro ragazzo arabo, Sayed Kashua, che oggi è uno scrittore affermato (ha avuto una certa fortuna in traduzione italiana il suo Arabi Danzanti, ndr.) e che allora seguiva i corsi di danza». All’epoca Saleem aveva 14 anni: «L’anno prima i miei genitori mi avevano mandato a studiare a Londra perché a Nazareth non c’era nulla: da noi la musica classica non è semplicemente snobbata, è totalmente scono-
Una grande carriera. (saleemashkar. com; foto Peter Rigaud)
sciuta. Ad esempio noi, credo per puro caso, avevamo un pianoforte in salotto ma nessuno l’aveva mai aperto, così lo consideravo solo un mobile strano e minaccioso, per via del suo colore nero. Ma ero troppo piccolo per un balzo così, Londra rispetto a Nazareth non è solo immensamente più grande, è tutto un altro mondo da ogni punto di vista; stavo malissimo e quindi i miei genitori mi mandarono a Tel Aviv». Quasi a prevenire la domanda che sorge spontanea mentre ripercorre le prime tappe della sua biografia musicale, Ashkar indietreggia fino al momento in cui tutto iniziò: «Come le dicevo, io non avevo la benché minima idea di chi fossero Beethoven o Bach, di che cosa fosse un’orchestra o un violino. Però quando avevo sei anni – era il 1982 e Israele aveva riaperto le frontiere col Libano – arrivò un cugino libanese di mio nonno che aveva studiato musica in Germania. Vedendo il pianoforte che languiva da tempi immemori in salotto non si trattenne, lo aprì e iniziò a suonare. Per me fu una folgorazione: quello che era stato fino a quel momento un mobile lugubre si rivelava una fonte di bellezza, di gioia, di vita. Fu lì che decisi prima di conoscere la musica e poi di farne la mia professione». Sulla rapidità con cui passò da tredicenne nazareno spaventato e spaesato nella City britannica e da quattordicenne palestinese isolato in una scuola tutta di israeliani a solista con i più grandi direttori, Ashkar glissa con umiltà per nulla affettata: «Non mi considero un enfant prodige e non mi attribuisco neppure un talento particolare; sono uno che ha studiato tanto e ha camminato su questa strada attingendo tutta la forza d’animo e tutta la volontà che aveva. Certo, essere riuscito ad arrivare alla ribalta maggiore partendo da una situa-
zione come la mia è stato tutt’altro che facile, anzi direi un mezzo miracolo». Miracoli che Ashkar non attende dalla politica: «Non mi faccio illusioni, la situazione oggi è intricata e problematica come lo era anni fa, qualcosa cambia in meglio e qualcosa in peggio. Però credo nel dialogo, nell’azione che può venire dal singolo, nell’esempio che contagia chi ti sta vicino. Non c’è solo la scuola di musica a Nazareth, ormai una realtà di vaste dimensioni; a Berlino, dove vivo con mia moglie e le mie due figlie, ho creato assieme ad alcuni amici la fondazione Alfarabi, dedicandola a un filosofo e musicista andaluso dell’undicesimo secolo. Non abbiamo l’obiettivo di cambiare il mondo convincendo i potenti della terra, ma vogliamo dialogare e insegnare qualcosa magari a venti berlinesi, poi magari a 50, 100 bambini e così via». Idee e desideri che danno una forma particolare anche al suo essere musicista di caratura internazionale, con l’agenda congestionata di impegni anche discografici (per la Decca ha inciso i Concerti di Mendelssohn con Chailly e la Gewandhaus di Lipsia e sta registrando le 32 Sonate di Beethoven): «Suono, passo da un hotel all’altro e da una sala da concerti a un teatro, ma non voglio essere un artista isolato nella sua torre d’avorio, tetragono a quanto accade attorno a lui. Prima di suonare non mi chiudo in camera a riposare e concentrarmi, amo girare per le vie della città in cui mi trovo per vedere la gente e cercare di capirla nella sua quotidianità. Perché se si guarda alla politica e ai potenti sembra che il mondo sia dominato da indifferenza ed egoismo, ma tra la gente c’è tanto altro: certo, disorientamento e dubbio, ma anche coraggio, voglia di fare e di cambiare».
Anche in The Post Spielberg ha scelto la linea introspettiva.
Forte di una tradizionale capacità di fondere cinema e storia, ecco che in The Post si fa luce una riflessione sulle psicologie dei protagonisti, sulla loro eventuale umanità, piuttosto che su una esteriorizzazione aneddotica degli avvenimenti. Eccoci allora trasportati dall’epoca di Lincoln a quella di Nixon, del «Washington Post» e allo scandalo dei cosiddetti Pentagon Papers, premesse del Watergate e, perché no?, dell’epoca di Trump. Non a caso, infatti, questo film girato d’impeto da Spielberg (interrompendo il progetto in corso, ossia il fantascientifico Ready Player One), parla di giornalisti e del ruolo delle donne (la proprietaria del «Washington Post» Katharine Graham è interpretata con il consueto impressionante autocontrollo da Meryl Streep), in lotta con chi detiene il potere. Parla anche del coraggio all’inizio degli Anni 70, del «New York Times» e quindi del «Post», di rivelare le settemila pagine volute dall’ex segretario della Difesa Mc Namara. Non solo sulla tragedia del Vietnam, ma su tutta la serie di menzogne che hanno attraversato le epoche di Truman, Eisenhower, Kennedy, Johnson fino a Nixon. A imitazione di Lincoln, The Post è girato, a parte l’incipit, in interni: si articola e progredisce sulle parole, le discussioni, le telefonate. C’è da sperare che la cronaca di quei fatti non sia stata vana. C’è da sperare, insomma, che il celebre ritorno di E.T. sul suo pianeta non sia stata un’illusione.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Cultura e Spettacoli
Tra scelta e paranoia
Incontri A colloquio con lo psicanalista junghiano Luigi Zoja, da anni impegnato a comprendere meglio
i rapporti tra la società e l’individuo Eliana Bernasconi Tra i maggiori analisti junghiani, Luigi Zoja è un’autorità internazionale nel campo della teoria dell’inconscio che approfondisce il rapporto tra la società e le scelte individuali. Da sempre ha cercato di unire la psicoanalisi al sociale, come in Il Gesto di Ettore, sull’evaporazione della figura paterna e della famiglia tradizionale, La morte del prossimo, o Centauri, Alle radici della violenza maschile. Nella pubblicazione più recente, Nella mente di un terrorista. Conversazione con Omar Bellicini, Zoja ci aiuta a comprendere i motivi che stanno alla radice dell’odierna violenza islamista, mentre nel saggio Paranoia,la follia che fa la storia si esamina la paranoia come disturbo mentale e infezione psichica che percorre da sempre la politica e la storia. Gli abbiamo posto alcune domande. Come nasce il suo libro sulla paranoia che, pur essendo un saggio, si legge come un romanzo?
Allora abitavo a New York e quindi ho vissuto abbastanza da vicino l’11 settembre. Più dell’11 settembre e del terrorismo delirante, a colpirmi furono quelle che ho chiamato le reazioni del 12 settembre. In che senso?
Parlo delle reazioni del popolo americano che non aveva mai subito attacchi, e che, tutto sommato, vive nel luogo più sicuro del mondo. L’11 settembre è stato il più terribile attacco terroristico che sia mai esistito nella storia, e da allora gli americani, che sono i più grandi possessori di armi, ne hanno comprate ancora di più, passando dai 200 milioni del 2000 agli attuali 300 milioni. La cosa più pericolosa negli USA è avere un «normale» vicino, come si è visto nella recente sparatoria di un sessantenne incensurato di Las Vegas. Lei scrive che la paranoia è tra noi, cosa intende per «effetto paranoico»?
Dal 2001 a oggi il terrorismo ha ucciso forse qualche dozzina di americani, mentre la cifra di quelli uccisi da
armi private si situa tra i duecento e i trecentomila. Per capire ciò che chiamo effetto paranoico basterebbe un diagramma con le percentuali della distribuzione della popolazione musulmana nei principali paesi dell’Unione europea, e confrontarlo con un altro diagramma con le stime della popolazione: scopriremmo che la cifra è di 4-5 volte maggiore. A volte le nostre paure hanno pochi rapporti con la realtà. Quali sono le cause?
La nostra fantasia sul nemico più che i nemici veri e propri.
Il suo ultimo libro Nella mente di un terrorista prende in analisi il radicalismo islamico nei suoi aspetti individuali e collettivi. Lei dice che sino agli Anni 80 la psicoanalisi era al centro dei dibattiti sociali, ma oggi ha perso importanza. Perché?
Ha perso importanza, ma non del tutto. Più che ai pazienti io dedico il mio tempo a parlarne in generale, anche perché ritengo che la società sia un paziente spesso gravemente paranoico. Esiste un movimento di junghiani politicamente attivi che dibatte di continuo con l’aiuto di internet. Oggi, e non dico niente di nuovo, i valori della società sono molto più individualisti. Negli Anni 70 le cose erano diverse: si credeva che le idee di Freud e di Marx avrebbero migliorato la condizione dell’uomo. E ora invece?
Ora c’è il rischio di un altro estremo, e cioè che la psicoanalisi si riduca ad essere una piccola specializzazione medica, mentre in realtà è una critica alla condizione dell’individuo, ma anche della società, dei suoi desideri. La psicanalisi ha perso molto questa sua funzione, un po’ anche a causa dei mezzi di comunicazione. Ciò ci riporta alla paranoia. I mezzi tradizionali perdono terreno: dal libro si passa al computer e dal giornale alla tv, con i suoi contenuti spesso discutibili. Di conseguenza nei giornali si fanno articoli sempre più paranoici: il modo più semplice per rendere i media dei mass-media, cioè mezzi di comunicazione per la massa, è infatti quello di fare articoli brevi ma con dei contenuti che non obblighino a
Lo psicanalista Luigi Zoja. (youtube)
pensare, in cui ci sia sempre un cattivo o un capro espiatorio.
Sempre nel suo Nella mente di un terrorista. Conversazione con Omar Bellicini lei sostiene che manca una riflessione su questi temi da parte della stessa psicoanalisi.
Certamente, e la mia conversazione con Omar (giornalista italo-arabo) è proprio frutto del tentativo di coinvolgere un pubblico più vasto, dandogli informazioni precise, ma con un libro breve e comprensibile.
Secondo lei l’inconscio collettivo sta sempre al confine con la dimensione pubblica: ce lo spiega?
La paura del terrorismo ad esempio ha
molti elementi irrazionali, l’immagine del nemico è contenuta nell’inconscio collettivo. Per il fatto di essere condivisa da molti essa appare però più accettabile. Sembra che la terapia psicoanalitica presenti il rischio di rafforzare lo spirito individualistico del paziente a discapito della coscienza sociale. Come uscire da questo intimismo?
La psicanalisi non va rinchiusa nello studio del terapeuta, se ne deve invece fare un dibattito.
Il gesto di Ettore è dedicato all’evaporazione della figura paterna, all’eclissi del padre. Che cosa sostituisce questo vuoto?
Ben poco. O almeno: ben poche figure rassicuranti. Dalla critica al patriarcato, il secolo scorso sperava di ottenere una società più femminile: invece abbiamo una società di maschi spesso più violenti, che ho analizzato nel libro Centauri.
Non crede che viviamo in una società sempre più narcisistica? Lei come giudica questo?
Sempre più individualista e autoriferita, certo. È un effetto negativo della perdita di valori tradizionali, ma anche dell’eccesso di comunicazione virtuale (che in sé sarebbe cosa buona). Ne ho parlato in La morte del prossimo.
Non è roba per ragazzine Pubblicazioni Grazie alla bravura di Edward Sorel, storico disegnatore del «New Yorker»,
anche noi possiamo leggere i bollenti diari di Mary Astor Mariarosa Mancuso Mary Astor era un’attrice hollywoodiana con il nasino all’insù, non di primissimo piano (sono altri i nomi che vengono in mente quando parliamo di grandi star). La ricordiamo in Il mistero del falco di John Huston, primo film girato nel 1941 dal regista che fino a quel momento aveva lavorato solo come sceneggiatore. Si presenta al detective privato Sam Spade – Humphrey Bogart più ingrugnito che mai – come Miss Wonderly, nome che puzza di finto lontano un miglio. Scopriamo quasi subito che porta l’irlandesissimo nome di Brigid O’Snaughnessy, e che il nome falso non era l’unica bugia. «Abbiamo creduto ai dollari, non alle sue parole» precisa con la solita malagrazia il Sam Spade inventato da Dashiell Hammett. Lo dice al plurale, giacché divide l’ufficio di San Francisco con il socio Miles Archer. «Divideva»: hanno appena trovato Archer cadavere in un vicolo. Una trappola in cui un detective esperto – deduce Spade sempre con il grugno – si sarebbe potuto infilare solo su invito di una bella ragazza come Brigid.
Il mistero del falco – titolo originale The Maltese Falcon – era un noir come non se ne girano più. Il titolo viene da un falcone preziosissimo, secoli fa donato dai Cavalieri di Malta al re spagnolo Carlo V. «Come non se
La bella Mary Astor in un’immagine degli Anni Trenta. (Keystone)
ne fanno più» vuol dire che la trama è intricata al limite dell’incomprensibile. E che il cast – ai nostri occhi perfetto, il film non sarebbe lo stesso senza Mary Astor o Peter Lorre – è il frutto di una vorticosa girandola. A quei tempi le scelte del regista devono fare i conti con il fatto che gli attori e le attrici venivano messi sotto contratto dalle grandi case di produzione per cinque o sette anni, capitava che fossero prestati – contrassegno – alla concorrenza. (La United Artists nacque per consentire agli attori il controllo sulle proprie carriere, ma solo i celeberrimi come Charlie Chaplin potevano permetterselo). Mary Astor non era una star di primissimo piano. Non bastasse, il suo aristocratico e fintissimo appellativo – era nata Lucile Vasconcellos Langhanke, nel 1906 – era stato macchiato nel 1936 da uno scandalo. Viveva separata dal marito, che aveva ottenuto la custodia della figlia. Poi cambiò idea, e chiese la revisione della sentenza dimenticando i propri peccatucci. Uno in particolare, con George S. Kaufman, che oltre a essere il commediografo più
famoso di Broadway – per non parlar del cinema, scriveva copioni per i fratelli Marx – era anche sposato. La passione era tanta che la sciagurata annotò nel diario le prestazioni, e non era roba per signorine. Neanche per una moglie fedele, pensò il marito, e minacciò di portare le prove in tribunale. Il diari bollenti di Mary Astor – intesi come il quadernetto incriminato, sono stati bruciati davanti a un giudice nel 1952. I diari bollenti di Mary Astor, intesi come volume illustrato, sono la più divertente lettura capitata da un bel po’ (il periodo è di magra, speriamo nei prossimi mesi, e l’altra lettura imprescindibile è sempre targata Adelphi: Tutto quello che è un uomo di David Szalay). Il miracolo si deve a Edward Sorel, famoso disegnatore americano – son sue molte copertine del «New Yorker». Ha scritto e illustrato un libro incantevole, che è anche la storia di una fissazione, e insieme un po’ un’autobiografia. Aveva appena cambiato casa, aggiudicandosi un «railroad flat» nell’Upper East Side di New York (sono gli appartamenti con le stanze
che danno tutte su un corridoio, simili allo scompartimento ferroviario). Il linoleum della cucina era marcio, bisognava sostituirlo. Sotto il linoleum, Edward Sorel trovò un mucchio di vecchi giornali. Erano del 1936, l’anno dello scandalo che aveva cacciato dalle prime pagine avvenimenti ben più importanti e drammatici. Si mise a leggere i giornali, e fu colpo di fulmine. Si innamorò di Mary Astor e della sua storia, procurandosi la biografia e rincorrendo i film nei cinema d’essai. Consolante: dopo decenni abbiamo scoperto di avere un gemello in spirito, non siamo gli unici a leggere i vecchi quotidiani che ci capitano tra le mani (per non parlare dei ritagli fatti negli anni e mai buttati via, ma di questo parleremo solo con Edward Sorel, lui capirà). Si mise a scrivere il libro, e a disegnarlo – la curva del nasino di Mary Astor gli riesce benissimo, e anche l’ala del cappello quando fece il suo ingresso da diva in tribunale. Azzeccando il tono, che in questi casi è più di metà dell’opera: svagato e puntiglioso, informatissimo e pettegolo, affettuoso e ironico.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Virtuosismo piemontese Per i torinesi è «il Barachin». Dal grande dizionario piemontese di Vittorio di Sant’Albino del 1859: «Barachin. Ramino. Vaso di stagno o d’altro metallo, con manico metallico, curvato in semicerchio, girevole in due opposti occhiellini a uso di portar minestra o checchessia d’altro». Grazie a questo contenitore di cibo i torinesi iniziano a conoscere la cucina delle altre regioni. Dobbiamo immaginare gli operai che, durante la pausa mensa, aprono i loro barachin, iniziano a mangiare ma non possono fare a meno di gettare un’occhiata curiosa a quello che il collega sta mangiando. All’invito «vuoi favorire?» seguono i primi esitanti scambi. Per tutti gli altri abitanti della città la scoperta delle tradizioni regionali coincide con «Italia ’61», la grande esposizione celebrativa del primo centenario dell’Unità d’Italia, con la Mostra delle Regioni, alcune, come la Campania, con le loro proposte gastronomiche. Era strutturata in 19 padiglioni, disposti a forma di stivale. Da allora sono trascorsi 57
anni e a Torino molte cucine regionali sono egregiamente rappresentate tanto da meritare una guida di prossima pubblicazione. La richiesta di scrivere la prefazione mi ha costretto a pormi qualche domanda. La prima: a chi si rivolge il ristorante regionale? Facciamo un esempio. Per un ristorante siciliano a Torino ci sono due tipologie di clienti: il siciliano nella capitale del Piemonte per affari o per turismo che prova nostalgia per la cucina della sua terra e il piemontese che è stato in Sicilia e, memore di quella tradizione, desidera ritrovarla sotto casa. Il primo cliente è difficile da accontentare, perché quello che gli verrà servito, per quanto ineccepibile, non sarà mai buono «come lo cucinava la mia povera mamma». Lo chef, rivolgendosi al secondo tipo di cliente, sarà tentato di attutire la forza originaria della sua offerta nello sforzo di renderla più accettabile ai palati «stranieri», assecondando un loro ideale di «sicilianità». Finirà per proporre una versione «rivisitata» della tradizione. Non c’è
mattino, del 1920: attorno a un tavolo siedono due donne e tre bambine, ciascuna di loro ha davanti una scodella vuota e dal loro sguardo si comprende che non arriverà nessuno a riempirle. In Natura morta del 1943 si vedono in tutto quattro mele. Il nostro cliente, osservando i quadri, sarà portato a fare un confronto e a ritenersi fortunato e sarà ben disposto quando riceverà il conto. Manca ancora un dettaglio. A Roma mi servivo di una libreria dove alla cassa sedeva l’anziana padrona che mi salutava chiamandomi ammiraglio. Ricordando l’intenso piacere che si rinnovava ogni volta collocherei vicino all’ingresso un bel pensionato con l’unico compito di salutare i clienti con attributi altisonanti. La difficoltà maggiore per una cucina piemontese autentica è insita nei piatti tradizionali come il fritto misto, la finanziera, il gran bollito misto, la bagna caoda, i risotti novaresi o vercellesi; sono impegnativi, di lunga preparazione, con il rischio elevato che residuino degli avanzi. Ecco un
metodo per smaltirti: il maître, quando consegna al cliente la lista cibaria, deve chinarsi verso le sue orecchie e sussurrare: «ci sono altre proposte, fuori menù perché ne sono rimaste poche porzioni, le teniamo per i clienti di riguardo». Ed elenca i piatti segnalati dallo chef da sbolognare prima che sia troppo tardi. Nove clienti su dieci ordinano i piatti fuori menù. L’altro sistema per riciclare gli avanzi consiste nel proporli fra gli antipasti, è noto che in Piemonte sono offerti in gran quantità. Bisogna però mascherarli con incroci inediti; prima ancora che il cliente abbia fatto l’ordinazione, partirà dalla cucina un cameriere con un piatto da servire con un messaggio: «Il nostro chef sta sperimentando un nuovo piatto e avrebbe piacere di sentire il parere di un esperto». Il cliente si gonfia come un tacchino, assaggia, emette il suo verdetto e da quel momento è nelle nostre mani. Ascoltata l’entusiastica approvazione del signore a capotavola, tutti gli altri commensali lo vorranno assaggiare. E il gioco è fatto.
molto importanti, chi vince e chi perde. Anzi, non si scriveva neppure, la maggior parte delle volte bastava un segnale, il fuoco riflesso da uno scudo, tre riflessi tutti morti, un riflesso butta la pasta che arrivo. Questo soprattutto dopo che il povero Fidippide corse, non si sa con che tempo, i quarantadue e passa chilometri da Maratona ad Atene, annunciò la vittoria e morì, primo martire postale. Ulisse quindi non sapeva nulla di cosa fosse successo dopo la notte del cavallo e la presa di Troia (presa, si fa per dire: fu bruciata, depredata, rasa al suolo, gli uomini e i bambini uccisi, le donne stuprate e vendute come schiave, i greci erano persone che non lasciavano nulla al caso). Le sirene lo sanno e gli dicono che loro sanno tutto, gli canteranno le vicende di greci e troiani durante e dopo la guerra. Ulisse è il primo uomo a essere tentato dai media: le sirene gli offrono la possibilità di sapere «tutto». Per questo, e non solo per la «voce bellissima», l’eroe chiede di essere slegato, ricorda che gli
altri hanno le orecchie chiuse dalla cera, allora fa’ cenno con le sopracciglia, è un ordine, scioglietemi. Vince il buon senso dei marinai, che lo legano ancora più stretto, come aveva loro comandato. La promessa delle sirene è come quella dei social: saprai tutto. Di scienza e sapienza? Ma no, che importa, saprai tutto di quelli che conosci, non più troiani e greci ma compagni di scuola, colleghi, parenti, conoscenze delle scuole medie, cugini di sesto grado. E poi di chiunque voglia farsi conoscere, perché non è il social a sceglierti, sei tu che decidi di diventare una «cosa pubblica», esponendo immagini, pensieri, sensazioni. È come se noi si andasse dalle sirene, e dopo una faticosa scalata dei loro scogli, peraltro cosparsi di ossa di marinai morti per essersi troppo avvicinati, dopo la faticosa scalata che supera ogni remora – chi per una foto è morto, chi per un commento ha perso un amore, chi per un’imprudenza è stato licenziato... – eccoci a consegnare alle ragazze
dal corpo di uccello i nostri segreti. Piango perché mi ha lasciata, eccomi qui strafatto, voglio questo uomo / questa donna e così via. Loro fanno il loro mestiere, forse sono anche un po’ stufe. Un conto è promettere a Ulisse racconti dalle vicende di greci e troiani, e magari chissà due parole sulla fedeltà di Penelope e la salute del babbo. Un conto è mandare ancora nell’etere volti dallo sguardo eccitato, vestiti comprati nei saldi e, orrore, i piatti che alcuni volgari comuni mortali si accingono a svuotare con gola degna di uccellacci rapaci, quali le ragazze non sono del tutto, ne hanno solo il corpo e non la testa. Loro ormai sono costrette: hanno cercato di essere Ondine, Melusine, Sirenette, di essere belle con la coda di un pesce scintillante, non più ali e zampe da cornacchia. Ma il destino di raccontare i fatti altrui le rende sempre foriere di morte, per una foto, per un commento. Nemmeno il pianto dall’alto di ambulanze e camionette le può consolare.
Papis lascia la scuola, con tre amici sale su un autobus per andare a fare il muratore o il sarto in Mali. Trova un lavoro in una sartoria, dove sta seduto davanti a una macchina da cucire per nove ore al giorno. In cinque mesi incassa mille euro, che in parte manda ai genitori. Gli dicono che in Italia si guadagna meglio, dunque una mattina con l’amico Abdul sale su un camion e dopo venti giorni di viaggio penoso arriva a Tripoli. Passa le giornate con Abdul caricandosi sulla schiena pesanti sacchi di cemento e dormendo per terra in un capannone pigiato tra 40 ragazzi. «I libici sono violentissimi, trattano male, picchiano se no lavori bene e veloce…». Dall’Italia ricevono dei soldi da parenti di Abdul e così riescono a imbarcarsi dopo aver dormito su un marciapiede del porto per diverse notti. È un bel ragazzo, alto, con un sorriso smagliante, Papis. Adesso compera accendini e bracciali di cotone alla Stazione Centrale e li rivende a Lambrate, mentre va a seguire i corsi
serali di italiano in un altro quartiere. Bassirou è arrivato a Parigi in aereo dalla Guinea: rimasto orfano, dai 13 anni ha lavorato nei mercati del suo paese commerciando verdura e frutta dal Senegal, ma a un certo punto ha pagato un visto a dei trafficanti, che gli hanno procurato un biglietto con la promessa che due uomini lo avrebbero accolto a Orly per farlo lavorare in Francia. In aeroporto però non c’è nessuno ad aspettarlo, riesce a raggiungere la Gare de Lyon grazie all’aiuto di un uomo congolese, che vedendolo sperduto lo accoglie a casa sua per una settimana: «Non sapevo dove sono nel mondo». Bassirou, che intanto ha 17 anni, decide di dirigersi verso Brescia, dove dovrebbe avere dei parenti: i sedicenti cugini gli consigliano di andare a raccogliere pomodori dalle parti di Foggia: lavorerà in campagna da schiavo pagato a cassetta, dormendo nelle baracche, senza acqua e con poco cibo. Scappa con un amico a Roma, una città sconosciuta in cui si perde, dorme
per settimane alla Stazione Termini finché viene aiutato da Save the Children: trova riparo in una casa e comincia a lavorare. Prima nei magazzini dell’Ikea e poi nella sicurezza di alcuni negozi di abbigliamento. Ma Bassirou parla il francese e impara velocemente l’italiano, conosce anche diverse lingue africane, il mandinka, il pulaar, il bambara, il wolof: diventa utile come interprete tra le autorità italiane e i migranti neri. Oggi lavora per i tribunali, è stato scelto come attore in un film di Daniele Gaglianone. Ha passato qualche giorno da pascià in un albergo di Venezia durante la Biennale. Non ancora maggiorenni, questi tre ragazzi hanno già biografie non immaginabili neanche per un settantenne europeo. Più tragiche ma certamente più interessanti: conoscono il dolore, la morte, la fatica, la paura. Combattono tutti i giorni per sopravvivere e migliorare. La speranza, la volontà, il sacrificio e la forza morale di cui dispongono sono esempi straordinari per i loro coetanei.
niente di male, basta saperlo. Seconda domanda: esistono, fuori dai confini del Piemonte ristoranti «piemontesi» che si presentino con un profilo di esclusività e di rigore? Il fatto di non averne mai trovato uno, mi fa venire la voglia di provare a immaginare il mio «ristorante piemontese» ideale. Il cliente è un signore che, tornato a casa dopo un soggiorno in Piemonte, vorrebbe ritrovare i sapori perduti. Perciò dobbiamo offrirgli un concentrato di piemontesità, sfruttando gli stereotipi più biechi senza paura di esagerare. L’ insegna riprende il titolo di un romanzo famoso, La donna della domenica. L’interno è ovattato, signorile, come immagina un club inglese chi non c’è mai entrato. Su una parete un albero genealogico da cui risulta che la nostra famiglia esercita la nobile ristorazione dalla fine del ’700. Su un’altra parete, la targa in ferro smaltato che certifica il nostro status di «Fornitori della Real Casa». Avremo le perfette riproduzioni di due quadri di qualità eccelsa, di Felice Casorati. Il
Postille filosofiche di Maria Bettetini Le nuove sirene Non si sa molto dell’etimologia: «sirena» dal greco heiro, quindi incateno, oppure da seirios, ardente, che brucia come il sole? Non è male nemmeno questo dubbio, una sirena ti può legare a sé perdutamente e ti può fare bruciare d’amore, o può innamorarsi pazzamente. Sto riflettendo sulle sirene perché le nostre giornate, anche solo attraverso i telegiornali, sono scandite da sirene di distruzione, di morte. E queste prendono il nome da quelle, dalle sirene della mitologia. Che sono così care agli umani, da avere riempito di sé anche la narrativa e la poesia degli ultimi secoli, per non dire delle canzoni, dei film, delle fiction degli ultimi decenni. Un mito controverso, ora intriso di bontà verso l’umano, ora crudele e spietato; ora tenera figura dei cartoni animati, ora perversa divoratrice di altre creature marine e assassina di maschi imprudenti. Le prime tracce a noi note sono nel dodicesimo canto dell’Odissea, nella nota scena di Ulisse legato all’albero della nave, dei marinai
con la cera nelle orecchie, delle orribili donne-uccello che incantano l’eroe abbastanza astuto da farsi legare, non abbastanza da capire il trucco. Le sirene lo adulano (vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei), lo invitano e intanto si dichiarano non pericolose (nessuno mai si allontana da qui con la sua nave nera, se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce; poi pieno di gioia riparte). Il nostro delizioso canto ti dona sapienza, chi riparte lo fa «conoscendo più cose». Null’altro potrebbe convincere di più Ulisse, l’uomo che Ugo Foscolo definì «bello di fama e di sventura» (nel sonetto A Zacinto), l’uomo non solo astuto, ma anche molto molto curioso. Che proprio dopo vent’anni si rende conto di non avere notizie da casa, prima è stato troppo preso, e qualche anno da Circe, e un po’ con Calipso, e quella ragazzina di Nausicaa. D’altra parte, la posta era solo agli inizi, un po’ per mare un po’ per terra, serviva solo a comunicare le cose
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Trittico migrante Nelle ultime settimane ho conosciuto, a Milano, per un progetto di lavoro, diversi ragazzi immigrati dall’Africa. Ho parlato con loro per ore e voglio raccontare chi sono senza dare voti. Sekou ha compiuto 18 anni da un mese, suo padre era un veterinario a Bamako, la capitale del Mali, ed è morto quattro anni fa per la malaria. Sekou è fuggito perché lo zio, dopo la morte del fratello, lo minacciava con pratiche voodoo per impossessarsi delle mucche di famiglia. Dopo una violenta lite che l’ha mandato in ospedale, è stata la madre di Sekou a consigliargli di andarsene. Dunque il ragazzo sale su un furgone militare con qualche biscotto in tasca, viaggia per un paio di giorni, arriva in Algeria, dove, nella provincia di Ghardaia, trova lavoro in un giardino di aranci: «Parlavo da solo, soffrivo, ero piccolo», ricorda. Ricomincia a fuggire, con un coetaneo senegalese, Usman, quando si sparge la voce che il governo algerino vuole cacciare gli stranieri. Usman gli dice: «Proviamo ad andare in
Libia». A Tripoli finiscono in un campo profughi dove minacciano e torturano con il consenso della polizia. Sekou si limita a dire: «Penso solo che io morto lì». I due ragazzi spendono il denaro guadagnato in Algeria per imbarcarsi verso l’Italia. Il 24 aprile 2017, dopo un viaggio di tre giorni e tre notti («il mare fa male, tanto freddo e paura»), arrivano in Calabria. Da lì vengono accompagnati in treno a Genova, dove rimangono otto mesi in una struttura per minori. A Milano Sekou viene preso in carico da una associazione, inserito nella cucina di un ristorante di Porta Romana, dove sotto il controllo di uno chef egiziano impara a preparare gli spaghetti all’amatriciana, le polpette, il baccalà. In pochi mesi diventa un bravissimo cuoco e raggiunta la maggiore età ottiene un permesso di residenza. Papis è nato a Banjul, in una famiglia poverissima del Gambia. Sua madre è musulmana e vende pesce al mercato, il padre è cattolico e fa il sarto. A 14 anni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Idee e acquisti per la settimana
Indimenticabili momenti di svago e divertimento per l’unica tappa ticinese della Mini Migros! Da oggi, fino a sabato 17 febbraio, al Centro Shopping Serfontana, sbarca il più grande negozietto della Svizzera. Ha una superficie di ben 100 metri quadrati e tutti i bambini dai 4 ai 12 anni potranno giocare in una vera e propria filiale Migros di dimensioni ridotte. I piccoli partecipanti avranno la possibilità di scegliere quale ruolo interpretare all’interno del negozietto Migros: dal cliente che fa la spesa con il carrello pagando con denaro da gioco Lilibiggs e presentando la carta Cumulus personalizzata, alla cassiera che scansiona i prodotti acquistati prendendoli dal nastro tra-
sportatore, fino all’addetto alla logistica che si occupa di riempire e mettere in ordine gli scaffali del punto vendita. I bambini saranno accolti e seguiti da personale qualificato e potranno giocare per 30 minuti ciascuno (al massimo). I genitori sono pregati di portare il documento d’identità del proprio figlio e di restare sul posto durante tutta la durata dell’attività. L’accesso alla Mini Migros è riservato solo ai bambini. I genitori potranno seguire l’avventura dei piccoli comodamente seduti in prossimità dell’area di gioco.
Mini Migros Dal 5 al 17 febbraio. Orari di apertura: Lu-ve dalle 10.00 alle 19.00 Sa dalle 10.00 alle 18.00 Ultimo accesso un’ora prima della chiusura.
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Attualità Dal 5 al 17 febbraio la Mall del Centro Shopping Serfontana ospita la Mini Migros
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Il negozietto dei bambini
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Idee e acquisti per la settimana
Cremosa eccellenza
Novità Il gorgonzola al cucchiaio Selezione Reale del caseificio Mario Costa Per coloro che amano il celebre formaggio burroso, è tempo di provare anche la variante al cucchiaio. Molto più cremoso e dolce rispetto al fratello maggiore, questo gorgonzola si presenta in una caratteristica confezione di legno e viene, appunto, servito direttamente «al cucchiaio» dallo specialista del banco formaggio Migros. La specialità trova le sue radici dal fondatore dell’azienda Mario Costa, già nei lontani anni Sessanta, quando intuì la possibilità di un gorgonzola più cremoso, fondente e spalmabile. È una vera delizia gustato semplicemente spalmato su una fetta di pane, ma si sposa anche a meraviglia abbinato per esempio a polenta, gnocchi, paste, risotti e verdure. A proposito: grazie alla presenza della muffa commestibile Penicillium, il gorgonzola è uno dei formaggi meglio digeribili perché stimola la secrezione di bile e succo pancreatico. Gorgonzola al cucchiaio al kg Fr. 29.20 In vendita dal 6.2 al banco formaggio dei supermercati Migros S. Antonino, Lugano e Serfontana
Il gorgonzola al cucchiaio è una vera delizia non solo sugli gnocchi.
È arrivato il merluzzo norvegese skrei Attualità I banchi del pesce di Migros Ticino ripropongono questa
Messaggeri della primavera
delicata specialità stagionale pescata nelle isole Lofoten e certificata MSC Azione 30%
Considerato il merluzzo più nobile al mondo, lo skrei è un pesce migratore artico, grande e vigoroso, che si nutre di piccoli pesci, crostacei, molluschi e uova di pesce. Durante il suo viaggio dal mare di Barents all’arcipelago delle isole Lofoten, dove si reca per riprodursi, percorre oltre 600 km costeggiando la Norvegia. La lunga tratta migratoria contribuisce a rendere la sua carne soda, succosa, magra e incomparabilmente saporita. La stagione di pesca, da gennaio ad aprile, è il periodo in cui lo skrei viene celebrato in tutti i villaggi costieri, e come vuole la tradizione novevegese, viene gustato al vapore o bollito accompagnato da una salsa leggera. Tuttavia, le sue prelibate caratteristiche, lo rendono un pesce che si presta benissimo sia per le cotture in umido e arrosto sia per quelle al forno o alla griglia. La pesca dello skrei è particolarmente sostenibile: sia le quantità pescate e sia i metodi di cattura utilizzati sono severamente regolamentati e controllati dal governo.
sul Filetto dorsale di merluzzo skrei MSC Atlantico nord-orientale, 100 g Fr. 3.35 invece di 4.80 dal 6 al 10 febbraio al banco pesce
Lo skrei è considerato l’oro delle Lofoten.
Che siano rossi, gialli, arancioni, rosa, lilla, bianchi oppure addirittura con più tinte sul medesimo fiore: i tulipani portano colore e gioia nelle nostre case durante il periodo invernale. Originario delle montagne del Kazakistan, il tulipano giunse in Europa Occidentale nel 16° secolo e in Olanda la sua coltivazione diventò in poco tempo popolarissima. Oggi i Paesi Bassi sono i maggiori produttori mondiali di questo bellissimo fiore, tanto che il tulipano è il simbolo per eccellenza della nazione del Nord Europa.
Cura dei tulipani: per godere a lungo della bellezza dei fiori, recidere qualche centimetro di gambo tagliandolo trasversalmente. Mettere i fiori in un vaso con poca acqua, affinché si aprano più lentamente. Versare nell’acqua il conservante accluso al mazzo e posizionare il vaso in un luogo fresco e luminoso. Tulipani in diversi colori mazzo da 20 pezzi Fr. 11.45 invece di 13.50 In vendita nelle filiali con reparto fiori
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Idee e acquisti per la settimana
Novità contro la cistite
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
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Idee e acquisti per la settimana
Anna’s Best
Una questione di sostenibilità Ecco una bella novità: ora i succhi d’arancia e pompelmo rosa di Anna’s Best portano il marchio Fairtrade Max Havelaar. Questo marchio è da sempre sinonimo di una produzione sostenibile, che rispetta il lavoro dei coltivatori assicurando loro salari equi. Inoltre, grazie a questo marchio la filiera è controllata e la provenienza delle materie prime trasparente. Le succose arance e i pompelmi rosa leggermente amari, possono essere tracciati a ritroso fino al produttore nel paese di origine. E siccome i succhi di Anna’s Best sono prodotti con vero succo di frutta e senza concentrati, sono buoni proprio come quelli fatti in casa. Insomma, 100 per cento commercio equo e 100 per cento deliziosa frutta.
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È il colorante vegetale licopene responsabile del colore rosa di questa varietà di pompelmo. Questa sostanza determina pure la colorazione dei pomodori. Il licopene fa parte del gruppo dei carotenoidi. Più conosciuto di questa famiglia è il betacarotene, che conferisce il colore arancione alle carote.
Fairtrade Max Havelaar contrassegna i prodotti che provengono da una produzione sostenibile e dal commercio equo.
Parte di Una variopinta porzione di vitamine: i succhi di frutta 100% naturali contribuiscono ad iniziare bene la giornata.
Con il suo impegno per la sostenibilità Migros è da generazioni in anticipo sui tempi.
Nel mio negozio c’è solo pesce sostenibile. Hilal A., proprietaria della Migros
La Migros è della gente. Per questo si impegna come nessun altro a favore della sostenibilità . Tutti i pesci e i frutti di mare provengono per esempio da fonti sostenibili. migros.ch/proprietari
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IL PESCE CHE VIENE DAL NORD
È la stagione dello skrei, il merluzzo pescato in inverno nell’Atlantico del Nord. Questo prelibato pesce selvatico dà il meglio di sé al forno, con cipollotti e burro al peperoncino e limetta. Trovate la ricetta su migusto.ch
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2.50 invece di 3.60 Salametti a pasta grossa prodotti in Ticino, in conf. da 2 pezzi, per 100 g
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2.– invece di 2.90 Spezzatino di manzo TerraSuisse imballato, per 100 g
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Pane e latticini
Pasta Garofalo in conf. da 2, rigatoni e spaghetti, 2 x 500 g, per es. rigatoni, 3.75 invece di 5.40 30%
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
64
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
65
Idee e acquisti per la settimana
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Star del mese
Made in Switzerland
Un’idea eccellente
Zurigo
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Muito bom!
Elsa, azienda di produzione Migros, utilizza solo latte svizzero per i prodotti lattiero-caseari che si trovano sugli scaffali Migros.
La star del mese è lo yogurt Caramello. Grazie al suo strato di cremoso caramello e allo yogurt con panna leggermente acidulo non è ottimo solo per la colazione, bensì anche come dessert. Concorso
Lo yogurt Excellence al caramello della Elsa, la latteria friburghese della Migros, è molto popolare anche oltre i nostri confini. Lo yogurt viaggia infatti regolarmente verso il Brasile, nel bagaglio di Pablo Tys, collaboratore di Migros Magazin
Sono oltre 265 milioni i chilogrammi di latte annualmente elaborati negli impianti di produzione a Estavayer-le-Lac, sul lago di Neuchâtel.
Quanti yogurt produce ogni giorno Elsa, l’impresa di produzione Migros? Rispondi alla domanda su www.noifirmiamonoigarantiamo.ch e vinci una carta regalo Migros. Vengono sorteggiate carte regalo Migros per un valore totale di 500.– franchi.
42 m in ut i
Testo Melanie Michael
628 collaboratori, tra cui 30 apprendisti, si occupano della produzione dei diversi prodotti lattiero-caseari.
80 0k m/ h1 1o re e
L’intera superficie di stoccaggio e di produzione della Elsa copre una superficie superiore a quella di cinque campi da calcio, più esattamente 37’670 metri quadrati.
Nella sua casa in Brasile Elzy Tys gusta il suo yogurt preferito, lo yogurt Excellence al caramello della Migros, grazie al quale crea un legame molto speciale con il suo primo viaggio in Svizzera, la nuova patria di suo figlio Pablo.
Dalle linee di produzione escono ogni giorno circa 1 milione di yogurt in differenti formati e gusti. Entro il 2040 Elsa vuole utilizzare il 100% di materie prime sostenibili nella lavorazione del latte. Questo è uno degli obiettivi della strategia sulla sostenibilità «Visione 2040» delle industrie di produzione Migros.
Foto Pablo Tys; Illustrazione Getty Images
Rio de Janeiro
Gli yogurt Excellence, nella loro pregiata confezione, sono presenti sul mercato dal 2000. L’idea alla loro base: uno yogurt con panna di alta qualità, dalla consistenza cremosa e dal gusto delicato. Nel frattempo le qualità sono diventate otto, tra cui una edizione limitata ogni inverno ed estate.
Ogni volta che va in Brasile, Pablo Tys impacchetta due confezioni doppie di yogurt Excellence per sua mamma e da Zurigo le porta con sé ben refrigerate. È impossibile impedire che durante il lungo viaggio lo strato inferiore di caramello o di frutta si mischi con lo yogurt. «Non fa niente, perché mia mamma prima di mangiarlo lo mischierebbe in ogni caso».
«La prima volta che ho scoperto questa miscela di yogurt è stato anni fa in un supermercato in Belgio», ricorda Pablo Tys, editorial designer presso Migros Magazin. Nato in Brasile, ha vissuto ad Anversa fino a tre anni e mezzo fa, quando si è trasferito a Zurigo e dove alla Migros ha «per fortuna» ritrovato il suo amato yogurt, dal nome Excellence. Quando sua mamma Elza Tys venne a fargli visita per la prima volta in Svizzera, le fece provare lo yogurt. «Anche lei lo trovò muito bon – molto
buono – e comprò sei confezioni doppie». Due volte l’anno Pablo va a trovare sua mamma a Rio de Janeiro e da quando lei è venuta in visita in Svizzera, nel 2013, è chiaro cosa deve esserci nel suo bagaglio: almeno quattro yogurt Excellence! In aggiunta alla qualità al caramello, la preferita, le ha talvolta portato anche la variante alle bacche o quella stagionale. Le trova altrettanto buone, ma ribadisce: «La prossima volta solo al caramello».
Excellence Yogurt al caramello con panna 150 g Fr. –.95
M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche lo yogurt al caramello Excellence.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
64
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 5 febbraio 2018 • N. 06
65
Idee e acquisti per la settimana
M-Industria
Star del mese
Made in Switzerland
Un’idea eccellente
Zurigo
etri m hilo c 70 3 9 io: R o rig u Z
Noi firmiamo. Noi garantiamo.
Muito bom!
Elsa, azienda di produzione Migros, utilizza solo latte svizzero per i prodotti lattiero-caseari che si trovano sugli scaffali Migros.
La star del mese è lo yogurt Caramello. Grazie al suo strato di cremoso caramello e allo yogurt con panna leggermente acidulo non è ottimo solo per la colazione, bensì anche come dessert. Concorso
Lo yogurt Excellence al caramello della Elsa, la latteria friburghese della Migros, è molto popolare anche oltre i nostri confini. Lo yogurt viaggia infatti regolarmente verso il Brasile, nel bagaglio di Pablo Tys, collaboratore di Migros Magazin
Sono oltre 265 milioni i chilogrammi di latte annualmente elaborati negli impianti di produzione a Estavayer-le-Lac, sul lago di Neuchâtel.
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Testo Melanie Michael
628 collaboratori, tra cui 30 apprendisti, si occupano della produzione dei diversi prodotti lattiero-caseari.
80 0k m/ h1 1o re e
L’intera superficie di stoccaggio e di produzione della Elsa copre una superficie superiore a quella di cinque campi da calcio, più esattamente 37’670 metri quadrati.
Nella sua casa in Brasile Elzy Tys gusta il suo yogurt preferito, lo yogurt Excellence al caramello della Migros, grazie al quale crea un legame molto speciale con il suo primo viaggio in Svizzera, la nuova patria di suo figlio Pablo.
Dalle linee di produzione escono ogni giorno circa 1 milione di yogurt in differenti formati e gusti. Entro il 2040 Elsa vuole utilizzare il 100% di materie prime sostenibili nella lavorazione del latte. Questo è uno degli obiettivi della strategia sulla sostenibilità «Visione 2040» delle industrie di produzione Migros.
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Rio de Janeiro
Gli yogurt Excellence, nella loro pregiata confezione, sono presenti sul mercato dal 2000. L’idea alla loro base: uno yogurt con panna di alta qualità, dalla consistenza cremosa e dal gusto delicato. Nel frattempo le qualità sono diventate otto, tra cui una edizione limitata ogni inverno ed estate.
Ogni volta che va in Brasile, Pablo Tys impacchetta due confezioni doppie di yogurt Excellence per sua mamma e da Zurigo le porta con sé ben refrigerate. È impossibile impedire che durante il lungo viaggio lo strato inferiore di caramello o di frutta si mischi con lo yogurt. «Non fa niente, perché mia mamma prima di mangiarlo lo mischierebbe in ogni caso».
«La prima volta che ho scoperto questa miscela di yogurt è stato anni fa in un supermercato in Belgio», ricorda Pablo Tys, editorial designer presso Migros Magazin. Nato in Brasile, ha vissuto ad Anversa fino a tre anni e mezzo fa, quando si è trasferito a Zurigo e dove alla Migros ha «per fortuna» ritrovato il suo amato yogurt, dal nome Excellence. Quando sua mamma Elza Tys venne a fargli visita per la prima volta in Svizzera, le fece provare lo yogurt. «Anche lei lo trovò muito bon – molto
buono – e comprò sei confezioni doppie». Due volte l’anno Pablo va a trovare sua mamma a Rio de Janeiro e da quando lei è venuta in visita in Svizzera, nel 2013, è chiaro cosa deve esserci nel suo bagaglio: almeno quattro yogurt Excellence! In aggiunta alla qualità al caramello, la preferita, le ha talvolta portato anche la variante alle bacche o quella stagionale. Le trova altrettanto buone, ma ribadisce: «La prossima volta solo al caramello».
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