Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 12 febbraio 2018
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Società e Territorio La campagna informativa «C’è un modo migliore» sull’importanza del ruolo dello psicologo
Ambiente e Benessere Una discarica che favorisce la biodiversità: così si è trasformata la Valle della Motta pagina 10
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Politica e Economia Per il Pentagono la vera minaccia è la competizione con le altre nazioni
Cultura e Spettacoli Alla Fondazione Beyeler le rivoluzioni e le sfide dell’artista ottantenne Georg Baselitz
pagina 17
di A. Ostini-Sutto pagina 5
Keystone
L’evoluzione dei videogiochi
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Cina-USA, una sfida anche ideologica di Peter Schiesser Per gli Stati Uniti, la più grande minaccia non viene più dal terrorismo islamico ma dalla concorrenza di Cina e Russia. Così la vede il Pentagono (come ci spiega Lucio Caracciolo a pagina 17), così appare agli occhi di molti osservatori, essendo palesi gli sforzi di Cina e Russia di essere più presenti sul parquet geostrategico. Significa che non è più tempo di occuparsi troppo di esaltati martiri di un nichilismo islamico, poiché i cinesi ci stanno fregando sul nostro stesso terreno, quello del capitalismo. E i russi? Anche Putin non scherza, per il suo essere minaccioso in modo asimettrico: sai che potrebbe farti roteare in aria soltanto a stringergli la mano. Tuttavia, un giorno Putin non ci sarà più, e già oggi la Russia è un gigante dai piedi di argilla che maschera solo a fatica il suo declino demografico con l’immigrazione (da regioni islamiche), mentre non può più celare il declino della sua industria. La vera sfida geopolitica è data dalla Cina. Ed è una sfida a 360 gradi. Con l’irrompere sulla scena mondiale del modello cinese – un’autocrazia fondata su un assolutismo comunista che ha abbracciato un
capitalismo senza troppe regole – attraente per i successi economici che ottiene, il modello occidentale di un capitalismo che può fiorire solo in un contesto democratico e liberale riscuote meno consensi. Secondo un’ inchiesta del Pew Research Center, la democrazia e la classica separazione dei poteri stanno perdendo attrattiva in tutto il mondo. Dal canto suo, come si può leggere sul «New York Times» (7.2.2018), un’indagine svolta in 28 nazioni dalla Edelman communications mette in risalto che nel 2017 la fiducia nel governo cinese è aumentata di 8 punti a 84 per cento, mentre la fiducia nelle istituzioni americane è collassata, diminuendo di 14 punti a 33 per cento. La sfida fra Occidente e Cina diventa dunque anche ideologica. In un contesto del genere, in cui la maggior parte dei paesi asiatici conosce forme di governo più o meno autocratiche e autoritarie, Pechino trova meno avversari ideologici. E laddove potrebbe aspettarsi critiche pubbliche, come nei paesi occidentali, impiega diverse forme di pressione per soffocarle: se non basta il ricatto economico, fa sentire la sua voce (e valere le sue intimidazioni) attraverso associazioni cinesi nel frattempo sempre più infiltrate da persone vicine al potere cinese. In Australia, per esempio, è in corso un
ampio dibattito su questo tema, considerato che il 4 per cento della popolazione ha radici cinesi: nella comunità cinese si fanno sentire pubblicamente proteste per le intimidazioni subite da chi si mostra critico verso Pechino. La Cina sta in effetti creando una vasta rete propagandistica (anche in Europa), con l’intenzione di sostenere ideologicamente la rinascita dell’Impero celeste. La potenza economica unita alla pressione ideologica rende possibile alla Cina di imporsi oggi quasi ovunque. Il faraonico progetto «One belt, one road», l’ossatura della globalizzazione economica alla cinese, farà dei paesi che attraverserà dei vassalli sempre più dipendenti dai debiti contratti con Pechino per creare le infrastrutture volute dai cinesi (pure nell’Europa orientale i cinesi stanno trovando docili alleati). Non va poi dimenticato che la Cina è all’avanguardia nella digitalizzazione della società, come pure lo diverrà nelle energie rinnovabili, ciò che avrà un impatto anche su di noi. Eppure, il modello cinese deve ancora superare la prova principe: in genere l’eccellenza nasce dalla creatività e questa dalla libertà di pensiero, la Cina dovrà invece dimostrare che a lungo andare l’evoluzione della società sia compatibile con un ferreo controllo statale.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Attualità Migros
M Divertimento sulla neve, per diventare amici
Grand Prix Migros Sono cominciate a inizio d’anno le gare riservate ai giovani campioni
dello sci svizzero, in attesa della tappa di Airolo, il 3 marzo prossimo
Concorso
È una delle maggiori competizioni sciistiche giovanili del mondo e da 15 anni è sostenuta da Migros. Il Grand Prix Migros è giunto quest’anno alla sua 46esima edizione e continua ad attirare l’interesse dei giovani appassionati. Da un punto di vista strettamente sportivo è diventato un osservatorio importantissimo: grazie alle sue gare, infatti, si sono messi in luce numerosi talenti dello sci svizzero. Un esempio tra molti: le
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Il programma delle prossime gare Febbraio
Sabato 17: Stoos Domenica 25: Adelboden Marzo
Sabato 3: Airolo (Powerweekend con Famigros Ski Day) Domenica 11: Wildhaus Domenica 18: Arosa Lenzerheide (con Special Olympics) Sabato 25: Nendaz (con Special Olympics)
Minispettacoli Rassegna teatrale per l’infanzia Oratorio San Giovanni, Minusio Dom 25.02, ore 15.00 e ore 17.00
Trent’anni di jazz dal vivo alla RSI
Jemmy Button, una storia incredibile Narrazione con musica e canzoni, magia e clowneria per bambini dai 5 anni. www.minispettacoli.ch Tra jazz e nuove musiche Rassegna di Rete Due Auditorio RSI, Lugano-Besso Ve 23 febbraio, ore 21.00
I vincitori saranno estratti a sorte fra tutti i partecipanti. Per aggiudicarsi i biglietti basta seguire le istruzioni contenute nella pagina del sito www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!
Biglietti in palio per gli eventi sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino
Azione
www.gp-migros.ch
Al di là dei suoi aspetti agonistici, però, il grand Prix Migros vuole soprattutto diffondere tra i giovani il piacere per lo sport invernale, praticato per divertimento e per avvicinare ragazzi di varie regioni svizzere. Proprio per questo il programma delle competizioni è accompagnato da una serie di iniziative di animazione. Nel «villaggio» del Gran Prix Migros stand, bancarelle e postazioni di gioco
www.azione.ch/concorsi
Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.
Grächen, in Vallese. Vi prenderanno parte tutti coloro che si sono imposti nelle varie gare eliminatorie regionali. Chi volesse iscriversi può usare il sito web ufficiale che contiene tutte le informazioni relative al Gran Premio Migros: è aperto dallo scorso ottobre all’indirizzo www.gp-migros.ch. Qui è possibile prendere visione dei regolamenti e iscriversi alle gare (attenzione: per gli italofoni occorre fare riferimento alla versione francese del sito).
vincitrici della combinata femminile durante i campionati mondiali di San Moritz, lo scorso anno, Wendy Holdener e Michelle Gisin, erano state notate proprio da giovanissime nel contesto del Gran Prix Migros. E lo stesso si può dire della nostra Lara Gut, anche lei (insieme a Didier Cuche, Pirmin Zurbriggen, Maria Walliser e molti altri) una precocissima campionessa di queste competizioni.
Trio Portal-Peirani-Parisien Michel Portal clarinetti, sax soprano Vincent Peirani fisarmonica Emile Parisien sassofoni www.rsi.ch/jazz
Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate.
vogliono servire a intrattenere e divertire ragazze e ragazzi, coinvolgendo anche le loro famiglie. I più piccoli (bambini tra i 6 e 7 anni) possono tra l’altro cimentarsi con una «minigara» d’assaggio e provare l’ebbrezza della pista innevata senza preoccuparsi del risultato finale. In alcune località, poi, sono previste persino delle sessioni «Special-Olympics», adatte a coinvolgere proprio tutti i possibili partecipanti. Il programma generale comprende 13 gare di qualificazione e una finale. Le piste del circuito sono collocate in alcune delle maggiori località turistiche invernali svizzere. In Ticino, come di consueto, sarà la pista di Airolo a dare il benvenuto al piccolo circo bianco del Gran Prix Migros. In particolare proprio nella località leventinese si terrà uno dei cosiddetti «Power-weekend»: dopo le gare di campionato del sabato 3 marzo, si terrà domenica 4 marzo una sessione del Famigros Sky Days, la giornata dedicata agli sport invernali che vuole coinvolgere le famiglie e farle partecipare a una serie di gare di abilità sulla neve. In queste iniziative non è il risultato cronometrico quello che interessa gli organizzatori ma piuttosto il piacere di suscitare il divertimento per la condivisione dell’avventura, in una giornata che vede le famiglie riunirsi per giocare insieme. La finale del Gran Prix Migros, quella che incoronerà i campioni di quest’anno, si terrà dal 6 all’8 aprile a
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Aprile
Venerdì 6 – Sabato 7 – Domenica 8: Finale a Grächen
Sponsoring Un importante anniversario per la rassegna
di Rete Due, sostenuta dal Percento culturale di Migros Ticino La popolarità del jazz è legata senza alcun dubbio anche alla sua diffusione radiofonica. Negli anni d’oro il suono delle grandi orchestre raggiungeva il pubblico negli angoli più remoti della nazione americana e la carica di swing che contraddistingue questa musica sapeva persino far ballare gli ascoltatori. Anche la radio della Svizzera italiana ha avuto un importante ruolo di divulgatrice del jazz. Già ai tempi di Radio Monte Ceneri nel palinsesto erano previsti spazi per formazioni di questo tipo. Non va dimenticata l’eccellente orchestra Radiosa: negli anni è stata in grado di ospitare e accompagnare solisti di rilievo internazionale. Cambiati i tempi e calata la popolarità del jazz come musica alla moda, anche il jazz moderno, quello che andava ascoltato con concentrazione e serietà, ha trovato un contenitore ideale nelle trasmissioni radiofoniche. E gli appassionati hanno potuto seguire per radio prima gli importanti concerti tenuti al Festival di Lugano, negli anni 60, e poi quelli del Festival di Montreux. Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
Concerto speciale di piano solo con Chick Corea, il 12 maggio a Chiasso.
Negli anni 70, infine, è entrato in scena con grande risalto Estival Jazz. Sull’onda di questo successo, negli anni 80 alla RSI si è pensato di creare una vera e propria rassegna concertistica che ospitasse a Lugano le formaTiratura 101’766 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
zioni più meritevoli e più importanti in attività, trasmettendo poi i loro concerti per radio. All’iniziatore della serie, Sanzio Chiesa, era seguito l’attuale coordinatore, Paolo Keller. Il quale, con il sostegno del Percento culturale di Migros Ticino, ha organizzato numerose edizioni, fino a giungere all’attuale, che segna il trentennale di attività. Ecco dunque il nuovo programma di «Tra jazz e nuove musiche» che, come di consueto, propone al pubblico ticinese eccezionali appuntamenti: ■ 23 febbraio, ore 21.00: Trio PortalPeirani-Parisien; ■ 8 marzo, ore 22.15: Reis-DemuthWiltgen Trio con Joshua Redman; ■ 16 marzo, ore 21.00: J.D. Allen Trio; ■ 9 aprile, ore 21.00: Pat Martino Trio; ■ 11 aprile, ore 21.00: Dave King; ■ 27 aprile, ore 21.00: Verheyen-Copland-Dress-Hart; ■ 12 maggio, ore 20.30: Chick Corea Piano Solo; ■ 14 maggio, ore 20.30: Cécile McLorin Savant. Informazioni di dettaglio sui concerti nel sito web www.rsi.ch/jazz. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Società e Territorio Strade: tecnica e visioni Recupero del passato e scenari futuri delle vie di comunicazione in un seminario organizzato dalla sezione Ticino della Società Svizzera Ingegneri e Architetti pagina 4
Genitori, figli e videogiochi I videogame sono parte integrante della vita quotidiana dei giovani, gli adulti hanno la responsabilità di comprenderli e farli diventare un terreno di incontro pagina 5
Lo psicologo oltre i pregiudizi Incontri La campagna informativa «C’è un
modo migliore» spiega l’importanza del ruolo dello psicologo e il suo contributo a favore del benessere e della salute. Ce ne parla il dottor Matteo Magni
Maria Grazia Buletti «Lo psicologo mi chiese se avevo una ragazza, e io risposi di no. E poi mi chiese se ero mai stato innamorato. Ecco, dunque, una volta io credetti di esserlo: mi fischiavano le orecchie, il cuore mi batteva, ero tutto rosso... avevo la varicella»: con il suo noto tono amaro, ironico e scanzonato, Woody Allen dà un colpo di scure alla figura dello psicologo e alla sua importanza. Atteggiamento dietro il quale si cela un certo reale pregiudizio sociale che ci spiega il presidente dell’Associazione ticinese psicologi Matteo Magni, psicologo e psicoterapeuta. Lo incontriamo per parlare proprio del ruolo dello psicologo e delle sue competenze al servizio della salute: «Le persone sanno prodigarsi a consigliare a un loro conoscente di andare dallo psicologo, ma se chiedessimo loro: “Lei ci andrebbe?”, allora incontreremmo qualche perplessità unita a una certa reticenza». Si tratta di preoccupazioni radicate nel pregiudizio che ancora oggi avvolge questi professionisti del benessere psicologico: «Sembra che nell’immaginario collettivo ticinese la psicologia sia considerata una risorsa a cui attingere solo in casi gravi come dipendenze, alcolismo, gioco d’azzardo, depressione o una grave malattia». Magni conferma che quando si parla di situazioni in cui l’impressione di gravità è considerata minore, si nota una maggiore reticenza a far capo all’aiuto di uno psicologo: «Pensiamo ad esempio a sbalzi d’umore, stress, problemi di coppia, difficoltà lavorative e quant’altro». La popolazione non conosce (e non riconosce) ancora il ruolo di questa professione. Lo testimoniano già nel 2010 i dati raccolti nel rapporto finale della ricerca PsychImage, realizzata nell’ambito dell’Università della Svizzera italiana (USI): «Lo scopo di quella ricerca era mirato a descrivere l’immagine che l’opinione pubblica ha degli psicologi in Ticino e sono emersi parecchi punti critici tra i quali, ad esempio, il minore
prestigio della figura professionale dello psicologo rispetto ad altre professioni che operano nel campo della salute, ma soprattutto la scarsa informazione sulle diverse professioni psicologiche e sulla formazione che vi sta a monte». Sulla base di queste osservazioni, lo scorso autunno l’Associazione ticinese psicologi (ATP) ha promosso su più fronti la campagna informativa «C’è un modo migliore», volta per prima cosa a fare chiarezza sulla formazione dello psicologo: «È una persona laureata in psicologia, che ha conseguito un master sulla base del quale può decidere di dedicarsi a un’ulteriore specializzazione in uno dei parecchi ambiti specifici della professione». Si parla ad esempio di psicologia clinica, neuropsicologia, psicologia oncologica, legale, del lavoro, dell’emergenza, dello sport, del traffico, dell’approccio alla persona anziana, della psicoterapia, per citarne solo alcune. La campagna promossa dall’ATP mirava altresì a permettere di focalizzare l’attenzione sul sostegno che questa figura professionale può offrire alle persone in un momento di difficoltà della propria vita: «Una figura positiva, con competenze di base elevate, che in un primo approccio con chi vi si rivolge ha il compito di analizzare la situazione, individuare le risorse personali dell’individuo e accompagnarlo alla loro scoperta, affinché egli sappia attingervi per attraversare il momento difficile, rinfrancarsi e risolvere quelle problematiche che in quello scorcio di vita gli hanno creato un vero disagio dal quale di primo acchito non sapeva uscire da sé». La figura dello psicologo è allora sdoganata come una figura professionale a cui ci si può rivolgere per affrontare in modo efficace una vasta gamma di situazioni con le quali si può essere confrontati nel corso della vita. Il nostro interlocutore ribadisce dunque il concetto di base: «Bisogna che le persone siano persuase che non ci si rivolge allo psicologo solo nei casi ritenuti comunemente gravi, e che lo psicologo
Lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Magni, presidente dell’Associazione ticinese psicologi. (Vincenzo Cammarata)
dispone di una formazione di qualità e di strumenti da mettere in campo per affrontare le situazioni ritenute difficili dalla persona che gli si rivolge». Nell’immaginario collettivo serpeggia inoltre quel sottile timore di restare dipendenti dallo psicologo a cui ci si rivolge: «Vai dallo psicologo? Sì, da 15 anni soli. 15 anni? Sì: gli concedo un altro anno, poi vado a Lourdes». Prendiamo ancora ad esempio Woody Allen e Diane Keaton nella loro interpretazione del sentire comune. Matteo Magni dissente da questo pregiudizio: «Non è così: oggi viviamo in un tempo frettoloso, ma noi non ne facciamo una questione di tempo o di fretta. E ricordiamo che, malgrado il turbinio della società, talvolta può essere benefico fare una pausa dedicandosi a se stessi attraverso l’aiuto o la consulenza dello psicologo». Il tempo necessario è perciò soggettivo: «Ciascuno ha un ritmo personale nell’individuare il proprio
problema e le relative risorse da mettere in campo per venirne a capo. Allo psicologo compete il saper favorire i tempi della persona in viaggio verso la maggiore indipendenza e autonomia. Starà a ognuno comprendere quando sarà il momento di riprendere a camminare da solo e andarsene con le proprie gambe, così come è arrivato dallo psicologo». Quindi Magni dice che l’accompagnamento da parte dello psicologo dura fintanto che la persona ne sente l’utilità. Parafrasando la campagna informativa, talvolta è utile ricorre a «un modo migliore», allo psicologo, affrontando insieme le difficoltà di vita per le quali non ci pare di trovare le risorse immediate. «Attraverso il suo accompagnamento si riceve un aiuto nel focalizzare le proprie risorse e competenze, le si riconosce e, di conseguenza, si riesce a migliorare la propria vita». Infine un bilancio: «La campagna appena pro-
mossa ci ha permesso anche di informare in modo più preciso sulle nostre competenze e sulle risorse cui possiamo attingere: chi siamo e cosa facciamo è oggi più chiaro e comprensibile e coloro i quali desiderano saperne ancora di più possono far capo al nostro sito www.psicologi-ticino.ch».
Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista al dottor Matteo Magni.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Società e Territorio
Pensare le strade
Mobilità Al centro del seminario della sezione Ticino della SIA
il recupero del passato e gli scenari futuri delle vie di comunicazione
Stefania Hubmann Cosa accomuna manufatti come il portale della galleria autostradale ad Airolo, antichi ponti in muratura nelle valli, i più recenti portali ferroviari di AlpTransit, ma anche in altri cantoni numerosi ponti stradali e viadotti ferroviari? Sono beni culturali, in molti casi vere e proprie opere d’arte che trasformano le vie di comunicazione in un patrimonio da salvaguardare e valorizzare. Il secondo seminario di studio organizzato a cadenza annuale dalla sezione Ticino della SIA (Società Svizzera Ingegneri e Architetti), svoltosi lo scorso 25 gennaio al LAC, ha proprio voluto già nel titolo – «L’arte di costruire le strade» – evidenziare l’importanza del gesto che guida la realizzazione di una via di comunicazione. Le necessità da soddisfare, la visione globale, il disegno, come pure le tecniche e i materiali di costruzione sono tutti aspetti che contribuiscono a caratterizzare l’opera, rinnovando ad ogni epoca la sfida del suo ruolo per la comunità e del suo segno nel paesaggio.
Durante il convegno si è ragionato anche sulla correlazione tra nuove costruzioni e ripristino di manufatti storici Oggi ad esempio le strade locali si stanno trasformando in spazio pubblico, come ha ricordato in apertura del convegno il vicesindaco di Lugano Michele Bertini e come indicano le Linee guida sulla concezione dello spazio stradale all’interno delle località pubblicate di recente dal Dipartimento del territorio. La strada quindi non rappresenta più solo un percorso per spostarsi da un punto all’altro, ma anche un luogo di vita che accoglie utenti differenziati offrendo arredi e presenza del verde. L’autostrada, da parte sua, benché confrontata in certi suoi tratti con cronici ingorghi nelle ore di punta, mantiene la funzione di principale vettore di trasporto con progetti di ampliamento delle corsie e miglioramento degli svincoli.
Molteplici quindi gli scenari futuri, così come le prospettive di riflessione proposte dal convegno, che ha inaugurato un 2018 ricco di ricorrenze per quanto riguarda le strade. Nell’Anno europeo del Patrimonio Culturale, SIA Ticino, presieduta dall’ingegnere Paolo Spinedi, attira l’attenzione sull’importanza del patrimonio stradale del nostro cantone sottolineando i dieci anni di presenza in Ticino dell’Ufficio federale delle strade (USTRA) e i cinquant’anni dall’apertura del primo tratto autostradale, i 30 km tra Chiasso e l’attuale svincolo di Lugano Nord. Cinquant’anni or sono, e a maggior ragione ancora prima, i mezzi per progettare e costruire erano più semplici ma non per questo meno validi. Lo ha dimostrato l’intervento dell’ingegnere Jürg Conzett di Coira, incentrato sulla correlazione tra nuove costruzioni e ripristino di manufatti storici. Lo studio di cui è contitolare nella capitale grigionese si occupa di entrambe le attività, le quali si arricchiscono vicendevolmente. L’analisi delle soluzioni adottate dagli ingegneri del passato può persino portare a trovare soluzioni di intervento diverse da quelle inizialmente prospettate. A Lugano ha illustrato queste dinamiche attraverso alcuni esempi di ponti: in alcuni casi l’opera esistente è stata conservata (ponte del XIX secolo sul Reno a Reichenau), in altri si è intervenuti prestando particolare attenzione al dialogo tra parte storica e nuova costruzione, come nel caso dei ponti della ferrovia retica per i quali si è lavorato con l’obiettivo di «rispettare il carattere originale e nel contempo aggiornare alle esigenze tecniche odierne di geometria, carico ed evacuazione delle acque». «Le soluzioni trovate per questi ponti – ha precisato Jürg Conzett – ci hanno ispirato nella costruzione del nuovo ponte della piazza di Vals, costituito da una piattabanda in calcestruzzo collegata con travi-pareti portanti in pietra naturale del posto». Il dialogo fra pietra naturale e beton può portare all’interazione non solo di due materiali, ma addirittura di due ponti quali elementi di un unico spazio pubblico. È il caso dell’opera sul fiume Verzasca a Frasco terminata nel
2013. L’architetto Michele Arnaboldi, docente all’Accademia di architettura a Mendrisio, ne ha curato l’accompagnamento architettonico presentandola al seminario SIA Ticino come uno degli esempi di interventi stradali da leggere quale opportunità per ripensare il territorio. L’accavallarsi di più infrastrutture è ormai una realtà ben visibile anche sul nostro territorio. Basti pensare all’alta Leventina, dove in alcuni punti lo sguardo rivolto verso l’alto abbraccia strada cantonale, ferrovia e autostrada. Per Arnaboldi l’insieme di queste infrastrutture rispecchia la complessità della nostra epoca, così come ognuna di esse riflette il suo tempo e le esigenze ad esso collegate. L’esempio dei ponti di Frasco è emblematico da questo punto di vista. «Allargare il vecchio ponte per renderlo conforme alle attuali esigenze di traffico e sicurezza lo avrebbe snaturato», ha spiegato l’architetto. «Per questo motivo si è proposto di costruire un secondo ponte per il traffico veicolare, attuando un recupero conservativo di quello storico ora destinato a pedoni e ciclisti». Gli interventi riguardanti le vie di comunicazione – Arnaboldi ha presentato anche gli esempi della circonvallazione di Roveredo e del semisvincolo di via Tatti a Bellinzona –permettono inoltre, a volte, di ovviare agli «errori» del passato, migliorando la situazione dei comparti urbani interessati. I lunghi tempi di progettazione e realizzazione delle grandi opere stradali e l’evoluzione sociale ed economica conosciuta dal Ticino nell’ultimo mezzo secolo hanno inciso in modo marcato sulle sue vie di comunicazione, in particolare sull’asse autostradale. I dati del traffico lungo la A2 presentati dall’ingegnere Marco Fioroni, direttore della filiale USTRA di Bellinzona, sono impressionanti, soprattutto per punti quali la circonvallazione di Lugano, dove il traffico dal 1975 ad oggi è più che quadruplicato (da 15mila a circa 70mila veicoli). Come fronteggiare questa situazione? Marco Fioroni ha evidenziato che «i progressi tecnologici permettono di aggiornare gestione e manutenzione dell’autostrada, attuando in tempi relativamente brevi misure come l’adeguamento della velocità all’intensità del traffico, l’informazione
Il viadotto della Biaschina si accavalla ad altre infrastrutture. (Keystone)
all’utenza, i rilevamenti video e i piani di intervento per garantire la sicurezza». Modificare la struttura, tenendo conto delle nuove norme in materia di protezione ambientale e sicurezza, comporta invece tempi molto lunghi e investimenti di centinaia di milioni di franchi. L’USTRA guarda al futuro dell’autostrada ticinese con progetti su più tratte, fra cui spiccano la terza corsia fra Lugano e Mendrisio e la copertura di 1 km ad Airolo. Un percorso, quello fra Chiasso e Airolo, ripreso in immagini dall’ingegnera Cristina Zanini Barzaghi (organizzatrice del seminario assieme a Laura Ceriolo e Paolo Spinedi) per condurre i relatori e i circa 120 partecipanti fra i punti cruciali dell’autostrada, fra quelli che oggi si rivelano essere «errori», ma anche fra esempi virtuosi, come gli eleganti viadotti e i portali delle gallerie disegnati dall’architetto Rino Tami (1908-1994), chiamato dall’allora consigliere di Stato Franco Zorzi ad accompagnare quale consulente e supervisore la realizzazione dell’importante opera. Il suo apporto, riconosciuto a livello nazionale e internazionale, è stato precursore della collaborazione interdisciplinare che dovrebbe contraddistinguere sin dagli studi preliminari la progettazione delle opere dal forte impatto sul territorio. Il «prima si inizia, meglio è» dell’ing. Fioroni ha fatto l’unanimità dei relatori, anche nell’ottica di coinvolgere tempestivamente la popolazione per evitare ricorsi e relative
situazioni di stallo. Conoscere fin da subito da parte di tutti necessità e obiettivi permette di ampliare il ventaglio delle varianti con a volte anche risparmi finanziari. Il confronto con importanti arterie già in esercizio e le diverse tempistiche dei committenti sono però ostacoli oggettivi ai quali i team di progettazione non possono sottrarsi. Per questo ingegneri ed architetti auspicano da un lato procedure più veloci e dall’altro progetti più flessibili, in grado di meglio rispondere all’evoluzione delle esigenze. Pure a livello di comunicazione e condivisione dei progetti esistono margini di miglioramento, proprio per poter sensibilizzare in modo adeguato la popolazione, alla quale spetta poi l’uso di questi manufatti. Un uso che, come abbiamo visto, è in parte mutato nel tempo, di pari passo con l’attenzione per l’ambiente e la salute. Il peso della mobilità lenta è in aumento e in alcune città del Nord Europa, ma anche a Zurigo, già si parla di «autostrade per biciclette» con la strada principale riservata alle due ruote. Citata al convegno anche la mostra «Strada amica» (fino al 16 febbraio nell’atrio dello Stabile amministrativo 3 a Bellinzona) che presenta i risultati dell’omonimo concorso organizzato dall’Istituto i2a di Lugano in collaborazione con diverse sedi di scuole elementari e medie. Le strade che si progettano oggi apparterranno infatti alle nuove generazioni.
Quando a Locarno si producevano dischi
lanostraStoria.ch La Fonoteca nazionale svizzera ha pubblicato nel portale registrazioni dell’etichetta Cimaphon Lorenzo De Carli Un sito web per discofili, dedicato a registrazioni storiche di musica e autori russi, offre la possibilità di acquistare un disco con brani per coro maschile, balalaika e orchestra registrato a Berlino nel febbraio del 1929. Sull’etichetta si legge il nome di una casa discografica ignota ai più: Cimaphon, scritta alla base di un triangolo negli altri due lati del quale è indicato: «Elektrisch» e «Aufgenommen». Ciò che stupisce è quanto si legge in basso, stampato in modo tale da seguire, all’interno, il cerchio dorato sull’elegante sfondo verde
scuro dell’etichetta: «Locarno A.G. Locarno». Che rapporto c’è tra Locarno, la musica popolare russa, e una casa discografica destinata ad un pubblico germanofono? Diretta da Pio Pellizzari, la Fonoteca nazionale svizzera, che ha sede a Besso, ha fatto luce sulla casa discografica locarnese Cimaphon, pubblicando il suo primo dossier nelle pagine del portale di storia partecipativa «lanostraStoria.ch». «Dietro il nome “Locarno SA, Locarno” stampato sulle etichette e sulle copertine dei dischi 78 giri Cimaphon – si legge nel testo introduttivo al dossier – si nascondeva originaria-
La Fonoteca nazionale è ora presente anche sul portale «lanostraStoria. ch».
mente un negozio di orologeria il cui nome completo era Manifattura d’Orologeria Locarno SA, Locarno». Alla luce delle ricerche compiute dalla Fonoteca, emerge che «la Locarno SA forniva ai suoi clienti prodotti variegati a prezzo economico, come orologi d’importazione, grammofoni e dischi venduti sotto l’etichetta Cimaphon». Questa casa discografica, che stampava i suoi dischi a Wädenswil, nel canton Zurigo, riuscì a mettere assieme un catalogo di circa quattrocento registrazioni, alcune delle quali acquisite da cataloghi di altre case discografiche ormai non più attive. Nel suo account sul portale «lanostraStoria.ch», prima di fornire alcune registrazioni della Cimaphon di Adolf e Robert Haas, la Fonoteca fa luce sull’ambiente discografico locarnese degli anni Venti e Trenta del secolo scorso: «a quell’epoca, in città v’erano altre tre imprese che si occupavano di dischi e che in qualche modo erano legate alla Locarno SA: la Fabbrica di Orologi Sindaco SA nel quartiere Campagna, fondata dallo stesso Robert Haas nel 1930; la Fabbrica di grammofoni Purphon di Julius Friedrich Meyer, ubicata in via della Posta, che nel 1932
fu rilevata dalla Locarno SA; e infine il negozio di musica Casagrande Aux Palmiers, in Piazza Grande, che era una filiale del grande magazzino Marino e fratelli Casagrande di Bellinzona». Locarno, quindi, aveva chi produceva dischi, chi gli apparecchi per riprodurli, e chi li vendeva – chiudendo in tal modo la filiera del consumo discografico. Nata nel 1987 come fondazione di diritto privato, all’inizio del 2016 la Fonoteca è stata integrata nella Biblioteca nazionale svizzera. Il suo scopo è quello di raccogliere, documentare e rendere disponibili al pubblico tutti i supporti sonori che, per il loro contenuto, mostrano un legame con la storia e la cultura del nostro Paese. A questo scopo, l’istituzione dispone di un dipartimento tecnico e informatico che ha il duplice obiettivo di eseguire dapprima i lavori di copiatura e di restauro dei supporti, e poi di digitalizzare i contenuti, perché possano essere archiviati nei server e resi disponibili nelle numerose postazioni di ascolto. La Fonoteca nazionale svizzera conserva nei suoi archivi anche molti dischi della locarnese Cimaphon. Per il dossier disponibile su «lanostraStoria.
ch», Giuliano Castellani, oltreché scrivere l’introduzione, ha selezionato alcune registrazioni di musica popolare e canzoni in lingua italiana o dedicate alla Svizzera italiana: La Lavandera, La bella ticinese, Il Cucù ecc. Il suono è quello d’epoca, con i fruscii e quella musica che viene come da un luogo remoto; e tuttavia, se vogliamo fare l’esperienza di come, allora, si ascoltava la musica in casa, restauri come questi della Fonoteca sono imprescindibili – lasciando agli storici della musica il compito di esprimersi sull’esecuzione e a chi studia la storia sociale quello di esprimersi sulle condizioni materiali della ricezione della musica al tempo – direbbe l’allora contemporaneo Walter Benjamin – della sua riproducibilità tecnica. La presenza della Fonoteca nazionale svizzera su «lanostraStoria.ch» non ha, però, il solo scopo di renderci più vicino il passato del nostro paese: nella dimensione tipicamente partecipativa di questo portale, essa chiede che la si aiuti nel suo compito di conservare e comprendere il passato, per esempio sostenendola nella ricerca di altri fondi contenenti dischi Cimaphon.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Società e Territorio
Il videogioco in famiglia Educazione Il videogame è un medium che va compreso e può essere un territorio di incontro educativo
e relazionale in famiglia e a scuola. Se ne è parlato in una conferenza a Bellinzona Alessandra Ostini-Sutto Dagli anni Settanta, quando hanno cominciato a diffondersi, i videogiochi sono diventati sempre più strumenti di uso quotidiano, con una penetrazione e un fatturato che oggi superano quelli del cinema e della musica messi insieme. Ciononostante continuano però ad avere una connotazione tendenzialmente negativa e ad essere considerati quantomeno diseducativi dai genitori. A questo tema è stata dedicata una conferenza alla Biblioteca cantonale di Bellinzona, intitolata «Videogiochi, genitori e figli», introdotta dal direttore dell’Istituto Stefano Vassere. L’incontro – cui hanno preso parte Alessio Petralli, direttore della Fondazione Möbius, Daniele Parenti, direttore del Centro di risorse didattiche e digitali (CERDD), Rosy Nardone, ricercatrice e pedagogista, Filippo Zanoli, giornalista digitale e specialista di videogiochi – rientra nel ciclo «Il futuro digitale prossimo e venturo». «Il videogioco può essere un territorio d’incontro educativo e relazionale, in famiglia e a scuola», afferma Rosy Nardone, docente in Didattica e Pedagogia Speciale presso l’Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara. Secondo la relatrice, l’atteggiamento pedagogico dominante nei confronti del mondo videoludico è però spesso di censura, con la motivazione che esso «non porta da nessuna parte» o, peggio, è deviante. «Il problema è che lo si dice da inconsapevoli», continua Nardone. Ma com’è possibile che i genitori di oggi, molti dei quali hanno avuto un Nintendo e, successivamente, una PlayStation, possano essere «inconsapevoli» in questo ambito? «Il videogioco è cambiato moltissimo, soprattutto negli ultimi anni, ed è quindi lecito capirci poco nel 2018 anche se si è stati giocatori in passato e ogni tanto si fa un gioco sullo smartphone», spiega Filippo Zanoli, che, dopo la formazione in Scienze linguistiche italiane presso l’Università degli Studi di Milano e il Master in Digital entertainment: Media & Design ha svolto attività di ricerca su videogiochi, edutainment e new media. Si critica quindi qualcosa che non si è «letto», verbo con il quale ci si riferisce a Henry Jenkins, uno dei massimi esperti delle nuove forme di alfabetizzazione ai media. «Jenkins dice che noi adulti siamo “lettori tipografici”: cono-
Per i ragazzi i videogame sono una passione presente nel quotidiano, interessarsene con attenzione è responsabilità dell’adulto. (Keystone)
sciamo bene il libro, possiamo parlarne e fare recensioni, ma ignoriamo molto della competenza contemporanea di lettura; i millennial sono invece lettori ibridi, possono cioè navigare in un mare di alfabeti non soltanto di inchiostro ma anche tecnologici», afferma la relatrice. Dobbiamo quindi addentrarci nell’edutainment, il settore dell’editoria multimediale che produce opere le quali permettono di apprendere divertendosi. «Proprio in questo sta la chiave del successo dei videogiochi: essi catturano tanto l’attenzione dei giovani – e anche nostra se solo ci mettessimo a videogiocare – perché fanno divergere, verbo dalla radice meravigliosa, che significa “portarci altrove”, all’interno di mondi di simulazione verosimili o anche l’esatto contrario», commenta la pedagogista. Il game design di oggi punta infatti sull’apertura. «Quando si crea un videogioco, si costruisce dapprima un grande contenitore, all’interno del quale si inseriscono poi le cose da fare», afferma Filippo Zanoli, che ha avuto qualche esperienza come game designer: «i videogiochi di oggi non sono più strutturati a livelli, sono dei veri e propri mondi aperti, degli spazi complicati e complessi, che, come resa, hanno poco da invidiare al cinema. Come esempio possiamo citare Assassin’s
Creed Origins, una serie ambientata nel passato nella quale si vestono i panni di un ladro che esplora varie civiltà, riprodotte molto fedelmente». Anche Super Mario – che tutti conosciamo – si è adeguato a questo trend: «La nuova versione di questo classico è tra l’altro stata pensata per essere giocata in famiglia: si va in due alla scoperta di un mondo, decidendo cosa fare e passandosi il joystick al momento opportuno», continua Zanoli. Altro videogioco che merita di essere citato è PlayerUnknown’s Battlegrounds. Il principio è quello della saga Hunger Games: gettare i giocatori in uno scontro competitivo per la sopravvivenza dal ritmo incalzante e mozzafiato. Vince l’ultimo giocatore rimasto in vita. «Ad ognuno di essi viene dato un “tool” per creare la propria storia e cercare di essere il superstite. Questo fa sì che ogni partita sia diversa dalle altre, diventando quasi un micro-film di Hunger Games», spiega lo specialista di videogiochi, «per queste caratteristiche, PUBG è stato uno dei videogiochi più “streamati” e giocati in diretta internet attraverso il suo canale o la piattaforma Twitch, che trasmette persone le quali giocano a determinati videogiochi». Oggi l’oggetto videoludico ha conquistato nuove dimensioni, quelle degli esports e dello streaming. Il primo
(dall’inglese «electronic sports») indica il giocare videogiochi a livello competitivo, da amatoriale a professionistico. «Vengono organizzati campionati e i partecipanti possono giocare dalle loro abitazioni, situate anche a migliaia di chilometri di distanza, oppure confrontarsi in un’arena, con tanto di pubblico, commentatori e moviole, come succede per lo sport; le partite passano dal digitale, come succede con lo streaming», precisa Zanoli, «in questo caso uno YouTuber viene ripreso da una webcam mentre gioca ad un videogioco, che racconta allo stesso tempo. Tramite una chat la gente da casa commenta la partita. Il videogioco diventa quindi un’esperienza social, che viene condivisa sì, ma in maniera remota». Eppure, nonostante queste recenti derive della fruizione dei videogiochi, è bene ricordare che da questi media non siamo stati invasi: «I videogiochi come modelli ludici fanno parte della nostra storia evolutiva; rientrano nella ricerca messa in atto dall’uomo fin da quando ha cercato di comunicare e lasciare tracce che risponde ad una necessità narrativa», afferma Rosy Nardone. Visti in quest’ottica i videogame vanno riconosciuti come un oggetto culturale a cui i giovani hanno diritto d’accesso. «Siamo davanti a un medium che va compreso e studiato, con un alfabeto e degli strumenti. Ecco la
responsabilità dell’adulto: riporre lo stesso tipo di attenzione che presto ad un film, un fumetto o un gioco di società, al videogioco che tanto appassiona mio figlio», continua la ricercatrice. Data la loro presenza nella vita quotidiana dei ragazzi, i videogame dovrebbero anzi essere considerati un’opportunità per le famiglie di ripensarsi: «Percepiamo le tecnologie come alleanze o disalleanze educative? Forse sta in questa domanda la chiave di lettura attorno a cui riaggiornare il nostro concetto di educazione, negoziando e ratificando regole, ruoli, identità, appartenenze e valori – spiega Rosy Nardone – Quando chiedo a genitori o insegnanti “Perché non giocate con i ragazzi?”, ottengo risposte del tipo “Perché loro sono molto più veloci”, “Perché non ci capisco niente”. Il punto è questo: quanto siamo disposti, come adulti, ad invertire i ruoli? Che non vuol dire perdere autorevolezza ma dare riconoscimento di capacità e competenza al minore, chiedendogli “Mi insegni?”, “Mi spieghi?”. Si rimette così in circolo il concetto di ruolo». Nell’ambito di cui stiamo parlando, i ruoli di ragazzi e adulti sono complementari: i nativi digitali necessitano di adulti consapevoli che li sostengano nella costruzione delle loro esperienze con i media e nello sviluppo di norme di comportamento per la vita online. «Quando guardavamo il cielo qualcuno ci ha dato una mappa per scoprire le costellazioni, anche se potevamo continuare a farlo da soli e sarebbe comunque stato stupefacente – esemplifica la pedagogista – allo stesso modo i giovani di oggi hanno bisogno della nostra capacità di ragionare e riflettere sulle loro pratiche; sono nati, è vero, immersi in qualcosa che a noi sembra distante, ma vanno dati loro gli strumenti per accedervi in modo critico e consapevole». Per farlo è necessario che i videogiochi – che tanto occupano i nostri figli – entrino nel dialogo familiare, come accade con la scuola, lo sport, gli amici. «Il dialogo tra genitori e figli riguardo al videogioco dovrebbe incentrarsi sull’aspetto esperienziale, con domande del tipo “Cosa hai visto?”, “Ti è piaciuto?”, “Hai avuto paura?”», commenta Filippo Zanoli. Il videogioco come esperienza emotiva, quindi. «In questo dialogo i genitori possono anche svelare i propri pregiudizi, attivando al tempo stesso un processo di comprensione», conclude Rosy Nardone.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Michael Rosen, Attenti al cane!, Feltrinelli Kids. Da 6 anni Forse il titolo, che pure sembra più banale dell’originale Choosing Crumble, è proprio azzeccato, perché può essere letto anche come «siate attenti al vostro cane», sottolineando il valore del «prestare attenzione» a chi ci vive accanto, animali umani o non umani che siano. Qui però il focus è proprio lui, il cane, anzi quello specifico cane di nome Strudel (il Crumble del titolo) che la piccola Terry e la sua mamma vorrebbero adottare. In un esilarante ed efficace rovesciamento di ruoli, non sono tuttavia Terry e la mamma a scegliere il cane, ma è il cane a valutare la loro candidatura e a deciderne l’esito. La decisione avverrà dopo un vero e proprio colloquio, umoristico e surreale ma attendibilissimo, che costituisce l’ossatura del libro. Un libro breve, leggero, impreziosito dalle illustrazioni di Tony Ross che contrappuntano con espressività energica la partitura dialogica del testo di Michael Rosen: un dialogo tra il cane Strudel,
«seduto dietro una grossa scrivania» e le aspiranti «padroncine», a cui Strudel pone tutta una serie di domande sulla sua futura gestione sgombrando il campo da aspettative erronee o superficiali, pur se fatte in perfetta buona fede. Quando sei nella cuccia voglio venire a coccolarti, dice Terry, ma Strudel (il cui tratto burbero lo rende irresistibile) ribatte: «Dobbiamo chiarire subito la questione. Quando sono nella mia cuccia, non se ne parla. Siamo io e la cuccia, la cuccia e io. Punto. Non voglio piccole manine che vengono a solleticarmi, ok?». È anche, questo libro, un sintetico manuale su come gestire un cane, perché prende in considerazione tutti i principali punti
della questione. Ma più ancora è una storia divertente per i primi lettori e per tutta la famiglia, che mostra, come si diceva, la necessità di prendersi cura dell’altro e la responsabilità che ne deriva, piccola o grande che sia, e certo commisurata all’età. Terry ha solo cinque anni, ma è giusto che a certe domande possa rispondere da sola, come il cane ricorda alla mamma, tutta tesa a rispondere in sua vece. E anche se a molte delle domande non si è risposto proprio adeguatamente, non importa, Strudel è felicissimo comunque di andare a stare da loro. Perché questa è la cosa più bella: non servono ricettari per la convivenza, se ci sono attenzione, amore e rispetto. Charles Perrault, Fiabe, con illustrazioni di Gemma O’Callaghan. Traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Ezio Sinigaglia, La Nuova Frontiera Junior Uomo di lettere, autore di testi religiosi, consulente politico e culturale alla corte di Re Sole: tutto questo era
Charles Perrault (1628-1703). Tutto questo e una cosa ancora, quella che lo consegnerà alla Storia: la raccolta di fiabe Contes de ma mère l’Oye che uscì proprio sul finire del XVII secolo. Forse perché a un austero erudito non si confaceva il genere fiabesco, o forse perché a Perrault – vedovo e presente in prima persona nell’educazione dei figli – premeva assicurare un futuro al suo primogenito, la prima edizione uscì a firma del figlio Pierre. Comunque sia, si trattò di un’opera che ebbe da subito un grande successo e di cui Perrault fu poi orgoglioso di assumersi la paternità. Sulla scia della moda aristocratica per le contes de fées e seguendo la tradizione dei grandi
trascrittori di fiabe della tradizione popolare (in Italia c’era stato, nella prima metà del Seicento, Giambattista Basile), Perrault si mette all’opera e consegna alla carta otto fiabe (La Bella Addormentata nel bosco, Cappuccetto Rosso, Barbablù, Mastro Gatto o Il Gatto con gli stivali, Le fate, Cenerentola, Arrighetto dal ciuffo, Pollicino) conferendo loro uno stile elegante, ironico, scorrevole, perfettamente adatto a un pubblico di dame di corte e godibilissimo anche per il lettore di oggi (i dettagli sull’abbigliamento fuori moda della Bella Addormentata che si risveglia dopo cent’anni e al principe pare vestita come sua nonna, restano folgoranti). Uno stile, quello di Perrault, capace di coniugare «sapore di salotto» con «sapore di osteria» (si pensi ad esempio al clima noir di Barbablù), come notò Antonio Faeti. Uno stile così necessita di una traduzione intelligente e accurata, e così è quella che ci viene proposta ora dalle Edizioni La Nuova Frontiera nella bella collana dedicata ai grandi «classici illustrati».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Cosa vale per Carnevale Il trascorso 30 dicembre ha visto l’inaugurazione ufficiale del Carnevale di Venezia. Dopo lo scandalo planetario della stangata del 21 gennaio ai turisti giapponesi che si sono visti rifilare un conto di 1100 euro per quattro bistecche e una frittura (ma, hanno malignato i maligni, il ristorante è di proprietà cinese e quindi sarà stato un regolamento di conti fra di loro) la città era in attesa di riscatto. Invece – sempre secondo i predetti – si è rischiato il massacro. Introdotto il «numero chiuso» in ottemperanza ad un decreto antiterrorismo il pubblico dei visitatori è stato diviso in due scaglioni che, secondo gli organizzatori, si sarebbero dovuti alternare per assistere alla sfilata delle gondole cariche di maschere. Il risultato è stato il caos. Non appena finita la kermesse sull’acqua il pubblico in uscita premeva per... uscire, mentre quello in entrata spingeva per... entrare e disporsi lungo il canale. Facile immaginare cosa fosse la situazione sui ponti. Più difficile decidere quale Santo sia intervenuto
a far sì che nessuno si facesse del male – o magari solo un tuffo nel canale. Ce la si è cavata con tanta paura e molti improperi. Compresi quelli, autorevoli, del Primo Cittadino della Serenissima. Blindato in un costume da Batman – certo non la più veneziana delle maschere – il Sindaco ha tuonato contro chi si lamentava della deficiente organizzazione dell’evento ricordando a tutti che da sempre il Carnevale a Venezia «era un casino» (sic!) di gente che urlava e spingeva. «E a chi non può sopportare un po’ di folla dico che vada in campagna». E così il Carnevale avrebbe ritrovato le sue radici di evento borderline fra il divertente ed il rischioso, con l’inevitabile frisson di trasgressione e di pericolo che (da sempre?) lo contraddistingue. Ricorda l’Altropologo come, da bambino, il Carnevale proprio non gli piacesse (anche) perché, a Bologna come altrove, torme di adolescenti esagitati davano la caccia alle ragazze giovani (e carine) per bastonarle con certi randelli di plastica che – pure –
finivano per lasciare lividi ed occhi pesti. Ignobile, certo, memoria degli antichi Luperci, giovinotti che nella Roma dei primi secoli (regnava Numa Pompilio, successore di Romolo) a metà febbraio inseguivano in stato di semi-possessione (e probabilmente ubriachi) le matrone per fustigarle ai fini – si diceva – di renderle fertili. Che ai riti delle maschere sia associata la violenza, spesso mortale, è una costante trasversale a tutte le culture. Durante le celebrazioni funebri per un membro seniore della società segreta delle maschere Sigma, nel Nordovest del Ghana, la maschere invadono il villaggio e si scatenano in furti e violenze di ogni sorta. Hanno licenza di entrare nelle corti delle case e buttarle a soqquadro mentre si impadronisco di un pollo o svuotano un orcio di birra... Ma era così anche a Predazzo, oggi pacifico, ridente centro turistico nelle Dolomiti. Qui gli Zanni, maschere antesignane di molti personaggi della Commedia dell’Arte legate nella cultura popolare – come
peraltro Pulcinella – al mondo dei morti, avevano facoltà di entrare nelle case e rubacchiare tutto ciò che fosse cibaria. Ancor oggi a Carano, all’altra estremità della Val di Fiemme, i giovani coscritti che partecipano alla festa del Bandieral fanno un punto d’onore dell’entrare di soppiatto nelle case e saccheggiare frigoriferi e cantine. Più seria era la situazione a Nord-est di Predazzo, nella vicina Val di Fassa. A Moena si narrava, ancora negli anni 70 del secolo scorso, di un omicidio perpetrato fra le due Guerre dalle maschere dei Lonc, «i Lunghi», che pattugliavano il paese dopo l’Ave Maria serale nei Venerdì di Carnevale, quando a tutti era proibito uscire di casa. Più a monte narravano gli anziani di come i cortei mascherati che circolavano in giri di questua per le case dalla Valle Superiore alla Valle Inferiore dovessero concordare i rispettivi percorsi ai fini di mai incontrarsi perché l’incontro fra maschere di paesi diversi sfociava inevitabilmente in violenza. Anni fa, in prossimità del villaggio di
Vresovo, nella provincia bulgara di Burgas, un anziano contadino mostrava all’Altropologo un cumulo di sassi eretto ad un trivio in memoria di tre kukeri – le maschere del Carnevale locale – rimaste uccise durante uno scontro fra cortei mascherati finito male. Nihil sub sole novi: a Romans, nel Delfinato francese, il Carnevale del 1580 è rimasto nei testi di storia. Mascherate opposte ed alternative furono organizzate dalla nobiltà e dal popolo ai fini di ridicolizzare e mettere in guardia la fazione opposta. Dopo giorni di tensione la cosa degenerò e finì in un massacro. «Per Carnevale ogni scherzo vale» – e di più, verrebbe da dire. La Riforma che abolì di forza il Carnevale lo fece anche per farla finita – o fu forse un pretesto? – con gli eccessi della festa, col risultato, se si fa eccezione per il peraltro ordinatissimo e civilissimo Carnevale di Basilea e pochi altri, che nei paesi protestanti le maschere sono scomparse. Che fare dunque? Tutti a Venezia, e occhio al portafoglio!
sono i grandi problemi a dividere le coppie, quanto l’attrito delle piccole incomprensioni, i bisticci e le disattenzioni: il frigorifero vuoto, il tubetto del dentifricio rimasto aperto, telefonare mentre si cena, non avere né tempo né voglia per ascoltare le confidenze dell’altro, confrontare il partner con i propri genitori. Se entrambi, dopo quell’infelice esperimento, siete tornati a vivere in famiglia, significa che vi sentite ancora figli, che non siete pronti per rinunciare alle comodità offerte da genitori compiacenti, che risolvono per voi tutte le questioni, lasciandovi la libertà di disporre del vostro tempo e di compilare, come meglio credete, l’agenda degli impegni e delle priorità. «Convivere» significa rinunciare alla prima persona singolare «io», accettando di declinare il verbo «vivere» con il plurale «noi». Non è né semplice né immediato. Nulla va da sé: occorrono impegno e pazienza. Due qualità che sinora vi mancano. Mi sembra che la tua disponibilità ad accogliere «a
braccia aperte» la fuggitiva appartenga più al registro della fantasia che a quello dei progetti concreti. Il fatto che, quando v’incontrate, lei metta in atto quegli atteggiamenti erotici e seduttori che ti hanno conquistato non rivela un reale cambiamento, un processo evolutivo, quanto una coazione a ripetere gesti che rimangono inappagati. Il «bacio sulla bocca» che sigilla ogni vostro incontro non può essere preso sul serio. Va inteso piuttosto come il proseguimento di un gioco dove tutto si svolge, come nell’infanzia, in un tempo ipotetico, in uno spazio irreale: «facciamo che io ero...», dicono i bambini. È frustrante, lo so, ma devi convincerti, caro Max, di costituire per la tua amata una presenza attraente ma non impegnativa, anzi attraente proprio perché non impegnativa. Per farsi coppia, occorre essere in due, mi sembra invece che tu sia solo a provare questo desiderio. Può darsi che un giorno anche la seduttrice torni sui suoi passi, ma sarà una decisione autonoma, non certo dettata dalla tua
illimitata disponibilità. Colgo, nell’atteggiamento di resa che hai adottato, un senso d’inconscia onnipotenza come se bastasse dire: poiché voglio, posso. Ma non è così. Dobbiamo riconoscere che «l’altro è davvero un altro», che vi è una zona di segreto e di mistero che ci sfuggirà sempre e che le sue intenzioni possono convergere con le nostre ma non sempre e non necessariamente. La pazienza che ostenti è una virtù difficile. I bambini, quando hanno goduto di una soddisfazione, dicono: ancora. Ma da adulti bisogna saper cambiare e, dopo aver lavorato su di noi, dopo aver riconosciuto i nostri desideri, imboccare un’altra strada ammettendo, seppur con dolore, che quella interrotta era impraticabile.
sottintende una forma di strisciante deprezzamento per la scuola e le sue regole. Che, del resto, è già in atto. Cresce l’assenteismo dei ragazzi, favorito dal comportamento sempre più diffuso di genitori che chiedono di anticipare l’inizio delle vacanze familiari rispetto al calendario scolastico: uno sgarro considerato un nuovo diritto. Senza contare, poi, l’effetto diseducativo, ad ampio raggio, dell’assenza ingiustificata che esonera dal rispetto dell’obbligo, di cui la scuola, per sua stessa definizione scuola dell’obbligo, è la depositaria. Una scuola che, d’altro canto, proclama la volontà di formare il cittadino a titolo pieno, e dall’altro sembra disposta a cedere su punti, in apparenza minori, come l’assiduità e la puntualità. La concessione, decisa a Zurigo, si presta, però, a una conclusione paradossale.
Infatti, rendendola legale e strumentale, si toglie alla bigiata la sua ragion d’essere, il senso di colpa e di superamento della colpa, che l’ha sempre connotata, attraverso le epoche. Bigiare, marinare, to play truant, cioè come dicono gli inglesi, scansare fatiche, è sempre stato di moda. Coincide con un passaggio obbligato, nella nostra piccola storia giovanile, che poteva avere riferimenti ideologici, ma non necessariamente (alla faccia del 68). Non andare a scuola, cercando possibilmente di evitare lezioni ostiche e professori arcigni, esprimeva, istintivamente, la protesta, la critica, l’insofferenza nei confronti dei presunti poteri costituiti, a cominciare dalla famiglia. Si agiva sotto la spinta dell’impareggiabile piacere della disobbedienza e in compagnia della beata stupidità giovanile. Certo,
era tempo sprecato, non privo, tuttavia, di un significato liberatorio, una rivalsa individualistica. Alcuni hanno saputo ricavarne, in seguito, materia di riflessione, consegnata alla scrittura. Come nel caso di Dürrenmatt e persino di Blair. Talvolta, la bigiata faceva capo a un’aspirazione anarchica, definizione persino multiuso, sfoggiata con civetteria. In proposito, vale la pena di ricordare la dichiarazione del cantautore francese, Georges Brassens: «Sono talmente anarchico che attraverso sempre sulle strisce pedonali, per non avere a che fare con la gendarmeria». Come dire, mi servo di un divieto per raggirarlo a modo mio. Ed è, in fin dei conti, la forza del divieto, da infrangere, che spiega, perché i giovani sprayatori preferiscano usare le bombolette in luoghi proibiti, piuttosto che su pareti autorizzate.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Il gioco della seduzione Cara Silvia, come tutti quelli che le scrivono sono, a dir poco, disorientato e ora le spiego come mai. Lei è entrata nella mia vita come un ciclone. Appena è stata assunta nel nostro ufficio, fatto di tranquilli colleghi (maschi) e di relazioni lavorative ormai diventate abitudini, tutti sono rimasti come elettrizzati ed è scattata una gara a chi l’avrebbe conquistata per primo. È stato un periodo molto eccitante tanto più che, alla fine, ho vinto io. Senza pensarci due volte ho disdetto un matrimonio imminente e gradito alle due famiglie per andare a convivere con lei. L’avessi mai fatto! Da quel momento è cambiata completamente: da allegra che era è diventata triste e annoiata, tutto le pesava. Finché, senza preavviso, mi ha annunciato che non era innamorata, forse non le era mai stata, che la convivenza non faceva per lei e che preferiva tornare dai suoi e trovarsi un altro lavoro. A quel punto anch’io, benché disperato, ho chiuso casa e sono tornato a essere figlio. Ma non mi rassegno, tanto più che lei
m’invia messaggi erotici e, quando ci incontriamo, mi abbraccia appassionatamente e mi bacia sulla bocca. Non comprendendo il suo abbandono, sarei felice di accoglierla a braccia a aperte e di ricominciare a vivere insieme. Lei che ne dice? Grazie. / Max Caro Max, se ripercorri la tua storia, vedrai che i colpi di testa non pagano. Hai lasciato la tua fidanzata per un’attraente sconosciuta e ora ricevi pan per focaccia. È chiaro che entrambi siete rimasti irretiti nel gioco della seduzione, una dimensione stuzzicante, divertente, che ci fa sentire vivi e leggeri. L’arrivo di una fanciulla provocante in un gruppo di giovani uomini innesca, quasi automaticamente, una gara alla conquista. È una questione ormonale, ancor prima che psicologica. Ma quando la competizione si conclude e inizia la realtà quotidiana, le cose cambiano. Come sostengo nel libro Il romanzo della famiglia. Passioni e ragioni del vivere insieme (Oscar Mondadori) non
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Autorizzata, che bigiata è? Eccoci, una volta ancora, alle prese con uno stereotipo da correggere. Proprio da Zurigo, capitale finanziaria, simbolo dell’efficienza, addirittura dello stacanovismo elvetico, arriva un segnale inatteso, che ne intacca l’immagine tradizionale di città rigorosa e super-attiva. Ed è, appunto, il supplemento di vacanza, concesso agli allievi delle medie e dei licei, in una forma del tutto inedita: due giornate, da trascorrere in libertà senza giustificazioni di sorta. In altre parole, lo sdoganamento della bigiata che diventa legale. Così, infatti, hanno deciso, lo scorso gennaio, i parlamentari, nell’ambito di una revisione della legge scolastica cantonale, che riproponeva un’iniziativa lanciata, nel 2016, da un gruppo di studenti, e adesso accettata, a stragrande maggioranza. Con il sostegno, non solo
dei socialisti, ma di liberali, ppd, evangelici. Contrari, invece, gli udc. In questo caso, però, si trattava di una scelta che sfugge a un’etichetta di tipo ideologico, secondo le abituali categorie destra e sinistra. Come doveva poi emergere dalle reazioni di un’opinione pubblica, più che altro perplessa e persino ironica nei confronti di una misura immotivata, campata in aria. Se i destinatari, cioè i teenager zurighesi, non sono tenuti a giustificare la loro assenza, alla stessa tregua i legislatori, che l’hanno votata, non sono riusciti a giustificarne l’opportunità. Riproponendo, con effetti addirittura ambigui, il tema della scuola. È stata una nuova occasione per ribadire, non a torto, che gli allievi godono già il privilegio di 13 settimane di ferie all’anno. E due giornate in più rappresentano un dono superfluo, che
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Ambiente e Benessere L’altra California Non solo spiagge, surf, e muscoli scolpiti, ma anche incendi e Far West
Tra finzione e natura Richard Mabey ci conduce lungo un viaggio che racconta il rapporto fra cultura e piante pagina 14
Nuove mobilità Dalle case automobilistiche, un miliardo di dollari per raccogliere idee che creino tecnologie innovative
Inizia l’anno del Cane In Cina il 2018 è dedicato al fedele amico dell’uomo, animale che vanta molte doti
pagina 14
Vacanze californiane
Viaggiatori d’Occidente In Vespa lungo strade poco battute di un’America molto nota Guido Bosticco
pagina 15
pagina 11
I rifiuti dormienti
Ecosostenibilità La discarica della Valle
della Motta, chiusa ormai da oltre dieci anni, non dà più troppe preoccupazioni, anche se sotto un consistente strato di terra non è ancora tornato tutto alla normalità
Elia Stampanoni, testo e foto Valle della Motta (Coldrerio) è stata per anni sinonimo di rifiuti per la presenza della discarica. Da quasi altrettanti anni, però, non è più così. Dal 2005 la struttura dell’Azienda cantonale dei rifiuti (Acr) è infatti completamente chiusa per i rifiuti solidi urbani; resta operativa solo come stazione di trasbordo per i rifiuti del Mendrisiotto che qui vengono raccolti e compressi prima di essere trasportati a Giubiasco. Un’analoga situazione esiste a Bioggio, mentre i rifiuti del Sopraceneri vanno diretti al Termovalorizzatore cantonale. Oltre a essere centro di trasbordo, il sito di Coldrerio è ancora attivo in una minima parte quale luogo di smaltimento per i rifiuti ticinesi che non possono essere bruciati o depositati in una discarica per materiale inerte (rifiuti non combustibili). Accoglie residui dei dissabbiatori dell’impianto depurazione acque, diversi materiali non combustibili, terre inquinate e materiale proveniente da risanamenti, per un totale quasi irrisorio di circa 2800 tonnellate annue. Di rifiuti in Valle della Motta ne sono comunque arrivati, e restati, moltissimi a partire dal 1991, quando la discarica divenne il luogo di deposito per i rifiuti solidi urbani di tutto il Sottoceneri (negli ultimi anni solo del Mendrisiotto): si parla di 1,5 milioni di tonnellate, una montagna. Un quantitativo che è stato depositato su una superficie di circa 5 ettari, accumulandosi per un’altezza massima di circa 40 metri e colmando così l’alveo che fu appositamente adattato in fase di progettazione. Per depositare tutti questi rifiuti fu infatti preparato un sottofondo impermeabilizzato che impedisce ai materiali o ai liquidi fuoriuscenti dai rifiuti di penetrare nel terreno. La discarica è quindi una sorta di grande vasca a tenuta stagna in cui per 15 anni sono finiti i sacchi dei rifiuti del Sottoceneri. Tutto l’invaso fu preparato con vari materiali isolanti e sopra ai rifiuti veniva regolarmente messa della terra per limitare la dispersione nell’ambiente di sostanze o l’emissione di odori. Inutile negare che, nonostante tutte le precauzioni, durante l’attività della discarica, le esalazioni maleodoranti non sono mancate e anche diver-
se plastiche sono state sparse dal vento nelle vicinanze. Dal 2001 al 2005 la discarica della Valle della Motta è stata però gradualmente chiusa e la superficie si presenta oggi come una vasta collina, coltivata a prato e in gran parte con alberi boschivi. Un’area verde a due passi dall’autostrada A2 e dall’adiacente Parco della Motta. I rifiuti, come detto, sono sotterrati e ricoperti da uno strato isolante, su cui è stato di seguito depositata una fascia terrosa di 180-250 centimetri. Dormono ma ancora si muovono: la parte organica di quanto finiva nei sacchi dei rifiuti (tra il 1991 e il 2000 la raccolta era molto meno differenziata) si sta di fatto ancora decomponendo e continua a sviluppare dei gas e produrre del percolato. Quest’ultimo, un liquido simile al liquame di depurazione delle acque, viene raccolto tramite un sistema di tubature previsto e posato all’inizio della costruzione della discarica e viene in seguito recuperato, raccolto e depurato. Il gas generato dalla decomposizione e fermentazione dei rifiuti viene invece captato e raccolto tramite una cinquantina di pozzi. Il gas, formato da metano e da anidride carbonica (CO2), è un elemento ancora ricco di energia ed è infatti servito per produrre energia elettrica sia per le strutture della discarica sia per il consumo della popolazione (l’energia prodotta veniva messa in rete). Per questo esisteva un generatore di 600 kW, poi sostituito da uno da 250 kW, che però con il diminuire della produzione di biogas sono stati smantellati. Oggi il biogas che si sviluppa ancora dai rifiuti è troppo esiguo per giustificare un generatore e pertanto il gas raccolto viene semplicemente bruciato con una moderna torcia. La fiaccola ha il pregio di eliminare il gas metano trasformandolo in CO2, con il vantaggio di ridurre di 25 volte l’effetto serra sull’ambiente. La conseguenza benefica per l’atmosfera è anche riconosciuta dalla Confederazione che sussidia questo tipo di smaltimento, ritenuto decisamente più sostenibile. Dalla discarica non fuoriesce quindi nessuna sostanza, dato suffragato dalle analisi che vengono regolarmente eseguite nelle acque adiacenti alla zona di deposito. Da tempo anche gli odori sono terminati e, infatti, camminando sulla superficie della disca-
rica di circa cinque ettari, non ci si accorgerebbe di essere sopra 40 metri di rifiuti (circa 1’100’000 mq), se non fosse per i camini di captazione che qua e là ancora s’intravedono. In futuro, quando tutta la materia organica avrà terminato di fermentare, di produrre percolato e di generare dei gas, la superficie potrebbe eventualmente anche tornare a uso pubblico quale area di svago. Per ora dell’area adibita a discarica in Valle della Motta si sono già impossessati una ricca flora con erbe, fiori e alberi tipici di un ambiente naturale, ma anche i primi mammiferi che già soggiornano all’interno del perimetro dell’ormai ex discarica. Un ripopolamento facilitato dall’adiacente superficie boschiva mai utilizzata quale discarica, dai biotopi e superfici di compensazione creati ai margini della superficie adibita per 15 anni a raccolta
dei rifiuti e, non da ultimo, dalla presenza del Parco della Valle della Motta. In particolare alcuni biotopi situati sul sedime dell’Azienda cantonale dei rifiuti (Acr), responsabile della struttura, sono inseriti nell’inventario federale dei siti di riproduzione di anfibi di importanza nazionale e vengono gestiti in accordo con le autorità. Di fatto, quando nel 1988 si decise di trasformare una parte della Valle in discarica, furono necessarie delle misure di compensazione. Si adottarono di conseguenza degli interventi mirati per la ricostituzione di ambienti nella rimanente area della Valle della Motta, dando vita all’omonimo parco (vedi «Azione» del 24 luglio 2017). Il Parco della Valle della Motta si estende oggi su 163 ettari in territorio di Coldrerio e Novazzano, diramandosi per alcuni chilometri verso Chiasso e
dando origine a un paesaggio agricolo e forestale del tutto particolare. La discarica rappresenta circa il 5% dell’intera superficie del parco che presenta uno scenario da scoprire con una passeggiata, accompagnati dal fiume Roncaglia che per diversi tratti corre accanto al sentiero didattico creato all’interno del parco. Altre discariche chiuse in Ticino, di cui l’Acr si occupa pure di sorvegliare le emissioni gassose, il percolato e il rinverdimento, si trovano a Casate, Croglio, Nivo e Pizzante. Quest’ultima, situata nel Locarnese, presenta una ricca flora e fauna, che permettono di aumentare la biodiversità sul Piano di Magadino.
Alla University of California, San Diego, è sabato mattina ma l’aula conferenze del campus è piena. Nessun convegno sui microchip o su una nuova molecola però, qui si tratta di roba seria: il torneo di Super Smash Bros, versione 1 (1999), rigorosamente su televisioni a tubo catodico, con coppie di giocatori non più che ventenni, stretti fra bottiglioni di Pepsi Cola semivuoti e la necessità di picchiare duro sull’avversario. Saranno i geni di domani. Fuori il cielo è di un blu... California, a dicembre sembra ancora più terso. In mare i surfisti proni sulle tavole aspettano l’onda; in spiaggia famiglie con i cani, fisici palestrati, corridori in tenute perfette, qualche fuoristrada dei bagnini che controllano. Nel tardo pomeriggio i bar lungo la via si riempiranno di ragazzi e birre, di fronte a uno dei tramonti che hanno reso famosa questa costa. Viaggiare in California è come viaggiare in un film, fra i videoclip di YouTube o gli articoli delle riviste: i luoghi e i nomi ti suonano tutti familiari, da Bel Air ad Alcatraz, dalla Death Valley alla Silicon Valley. Qui tutti vanno a gran velocità, salvo che sulle strade, dove il rispetto delle regole è ferreo a causa della severità delle pene. Questa è la locomotiva degli Stati Uniti e se vuoi vivere qui, devi correre. Non ci sono mezze misure, almeno in apparenza: molti senzatetto e molti ricchi, pochissimi obesi, a differenza del resto degli USA, e dedizione a sport, lavoro e famiglia. I messicani fanno i lavori più pesanti, gli altri si occupano di tenere alto il nome della California e producono redditi sostanziosi. Tutto ciò in apparenza, dicevo. Poi c’è l’interno, la cosiddetta farm land, la terra delle fattorie, dei piccoli paesi
Stazione di servizio di San Ardo. (Sara Pellicoro)
sperduti dove la working class è dominante, con gli enormi pick-up parcheggiati davanti alle villette di legno, i tatuaggi, la voglia di farsi due risate con uno straniero. Ancora una volta è divertente viaggiare contromano, per così dire: una vecchia Vespa del 1981, cilindrata 125, alta quanto la ruota di un furgoncino medio da queste parti, messa sulle strade della California in una versione inusuale del mito on the road. Devi es-
sere ottimista, non avere troppa fretta, stare attento alla miscela di olio e benzina, coprirti bene la mattina, ogni tanto sgranchirti le gambe e tutto il resto. Soprattutto se si viaggia in due, su una sella originale a molle. «Da San Diego a San Francisco? Con quella? Unbelievable! Da non credere». Tutti scherzano sul mezzo di trasporto, un poliziotto perfino chiede: «Ma perché non affittate una macchina?». Ha le sue ragioni, perché qui non
Stazione di servizio lungo la Highway 76, in direzione di Temecula. (Sara Pellicoro)
Il taccuino del viaggio. (Sara Pellicoro)
In diretta l’evolversi dell’incendio fra Malibu e Santa Barbara. (Sara Pellicoro)
San Diego, patria del surf. (Sara Pellicoro)
Informazioni
www.aziendarifiuti.ch
è facile viaggiare fuori dalle autostrade e dalle superstrade, vietate alle moto di piccola cilindrata e dunque anche alla nostra Vespa. Ma è anche l’occasione per deviare dalla costa, dalla mitica Highway California 1, che va dal Messico al Canada, e muoversi invece tra i campi perfettamente arati, i paesi sperduti e i motel con la moquette, che tutti abbiamo visto almeno una volta in televisione. Quando ti lasci alle spalle Los An-
geles, lungo la spiaggia di Malibu che in questo tardo autunno, durante la settimana, è popolata dai giardinieri e dai restauratori di mega ville, cominci a respirare l’aria dell’altra California. Ma questa volta l’aria è irrespirabile, perché il vento secco che viene dal deserto si è portato in giro troppi incendi. Le colline vanno a fuoco, la luce sembra quella di un vecchio film di fantascienza, il sole velato riflette un giallo ocra sulla strada e sulle palme della città di Ventura. Evacuazione in corso: i negozi di arti grafiche, di pittura e le librerie sono tutti chiusi. Città di intellettuali, pare. «Città di artisti, città strana. È perché le montagne alle sue spalle le hanno impedito di allargarsi troppo, così ha trovato la sua identità» dice Royce, biker con baffoni e occhiali a goccia, Harley Davidson di ordinanza bianca e azzurra. Nel bauletto di pelle conserva il drappo del suo gruppo di motociclisti californiani. Osserva le fiamme. «Si fermeranno quando arriveranno al mare» dice. Sulla via verso Santa Barbara le strade sono bloccate e le autopompe sfrecciano per rimediare all’irrimediabile. Alla sera, quando la cenere si posa sull’asfalto e sulle auto come fosse neve, nei motel o nei piccoli fast food, è il momento di riguardare la giornata, di prendere due appunti e di disegnare sul taccuino. La Vespa, la California, i grandi Suv, il mito degli hippie... E poi c’è il West silenzioso e lungo, con le staccionate bianche dei ranch, gli scoiattoli al bordo della via, le cassette della posta sulla strada principale, i vigneti e le cantine dai nomi italiani. Sulla mappa e sotto le ruote della Vespa sfilano cittadine dai nomi evocativi: Guadalupe, Arroyo Grande, San Ardo... Un’infilata di case polverose e un po’ fatiscenti, una stazione di servizio ferma al 1950 e un ristorante messicano, perfetto per una birra Pacifico con una enchilada, per disegnare e scrivere. Per pagare con carta di credito invece si chiede un favore al distributore di fronte. La Silicon Valley è lontana da qui.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Ambiente e Benessere L’altra California Non solo spiagge, surf, e muscoli scolpiti, ma anche incendi e Far West
Tra finzione e natura Richard Mabey ci conduce lungo un viaggio che racconta il rapporto fra cultura e piante pagina 14
Nuove mobilità Dalle case automobilistiche, un miliardo di dollari per raccogliere idee che creino tecnologie innovative
Inizia l’anno del Cane In Cina il 2018 è dedicato al fedele amico dell’uomo, animale che vanta molte doti
pagina 14
Vacanze californiane
Viaggiatori d’Occidente In Vespa lungo strade poco battute di un’America molto nota Guido Bosticco
pagina 15
pagina 11
I rifiuti dormienti
Ecosostenibilità La discarica della Valle
della Motta, chiusa ormai da oltre dieci anni, non dà più troppe preoccupazioni, anche se sotto un consistente strato di terra non è ancora tornato tutto alla normalità
Elia Stampanoni, testo e foto Valle della Motta (Coldrerio) è stata per anni sinonimo di rifiuti per la presenza della discarica. Da quasi altrettanti anni, però, non è più così. Dal 2005 la struttura dell’Azienda cantonale dei rifiuti (Acr) è infatti completamente chiusa per i rifiuti solidi urbani; resta operativa solo come stazione di trasbordo per i rifiuti del Mendrisiotto che qui vengono raccolti e compressi prima di essere trasportati a Giubiasco. Un’analoga situazione esiste a Bioggio, mentre i rifiuti del Sopraceneri vanno diretti al Termovalorizzatore cantonale. Oltre a essere centro di trasbordo, il sito di Coldrerio è ancora attivo in una minima parte quale luogo di smaltimento per i rifiuti ticinesi che non possono essere bruciati o depositati in una discarica per materiale inerte (rifiuti non combustibili). Accoglie residui dei dissabbiatori dell’impianto depurazione acque, diversi materiali non combustibili, terre inquinate e materiale proveniente da risanamenti, per un totale quasi irrisorio di circa 2800 tonnellate annue. Di rifiuti in Valle della Motta ne sono comunque arrivati, e restati, moltissimi a partire dal 1991, quando la discarica divenne il luogo di deposito per i rifiuti solidi urbani di tutto il Sottoceneri (negli ultimi anni solo del Mendrisiotto): si parla di 1,5 milioni di tonnellate, una montagna. Un quantitativo che è stato depositato su una superficie di circa 5 ettari, accumulandosi per un’altezza massima di circa 40 metri e colmando così l’alveo che fu appositamente adattato in fase di progettazione. Per depositare tutti questi rifiuti fu infatti preparato un sottofondo impermeabilizzato che impedisce ai materiali o ai liquidi fuoriuscenti dai rifiuti di penetrare nel terreno. La discarica è quindi una sorta di grande vasca a tenuta stagna in cui per 15 anni sono finiti i sacchi dei rifiuti del Sottoceneri. Tutto l’invaso fu preparato con vari materiali isolanti e sopra ai rifiuti veniva regolarmente messa della terra per limitare la dispersione nell’ambiente di sostanze o l’emissione di odori. Inutile negare che, nonostante tutte le precauzioni, durante l’attività della discarica, le esalazioni maleodoranti non sono mancate e anche diver-
se plastiche sono state sparse dal vento nelle vicinanze. Dal 2001 al 2005 la discarica della Valle della Motta è stata però gradualmente chiusa e la superficie si presenta oggi come una vasta collina, coltivata a prato e in gran parte con alberi boschivi. Un’area verde a due passi dall’autostrada A2 e dall’adiacente Parco della Motta. I rifiuti, come detto, sono sotterrati e ricoperti da uno strato isolante, su cui è stato di seguito depositata una fascia terrosa di 180-250 centimetri. Dormono ma ancora si muovono: la parte organica di quanto finiva nei sacchi dei rifiuti (tra il 1991 e il 2000 la raccolta era molto meno differenziata) si sta di fatto ancora decomponendo e continua a sviluppare dei gas e produrre del percolato. Quest’ultimo, un liquido simile al liquame di depurazione delle acque, viene raccolto tramite un sistema di tubature previsto e posato all’inizio della costruzione della discarica e viene in seguito recuperato, raccolto e depurato. Il gas generato dalla decomposizione e fermentazione dei rifiuti viene invece captato e raccolto tramite una cinquantina di pozzi. Il gas, formato da metano e da anidride carbonica (CO2), è un elemento ancora ricco di energia ed è infatti servito per produrre energia elettrica sia per le strutture della discarica sia per il consumo della popolazione (l’energia prodotta veniva messa in rete). Per questo esisteva un generatore di 600 kW, poi sostituito da uno da 250 kW, che però con il diminuire della produzione di biogas sono stati smantellati. Oggi il biogas che si sviluppa ancora dai rifiuti è troppo esiguo per giustificare un generatore e pertanto il gas raccolto viene semplicemente bruciato con una moderna torcia. La fiaccola ha il pregio di eliminare il gas metano trasformandolo in CO2, con il vantaggio di ridurre di 25 volte l’effetto serra sull’ambiente. La conseguenza benefica per l’atmosfera è anche riconosciuta dalla Confederazione che sussidia questo tipo di smaltimento, ritenuto decisamente più sostenibile. Dalla discarica non fuoriesce quindi nessuna sostanza, dato suffragato dalle analisi che vengono regolarmente eseguite nelle acque adiacenti alla zona di deposito. Da tempo anche gli odori sono terminati e, infatti, camminando sulla superficie della disca-
rica di circa cinque ettari, non ci si accorgerebbe di essere sopra 40 metri di rifiuti (circa 1’100’000 mq), se non fosse per i camini di captazione che qua e là ancora s’intravedono. In futuro, quando tutta la materia organica avrà terminato di fermentare, di produrre percolato e di generare dei gas, la superficie potrebbe eventualmente anche tornare a uso pubblico quale area di svago. Per ora dell’area adibita a discarica in Valle della Motta si sono già impossessati una ricca flora con erbe, fiori e alberi tipici di un ambiente naturale, ma anche i primi mammiferi che già soggiornano all’interno del perimetro dell’ormai ex discarica. Un ripopolamento facilitato dall’adiacente superficie boschiva mai utilizzata quale discarica, dai biotopi e superfici di compensazione creati ai margini della superficie adibita per 15 anni a raccolta
dei rifiuti e, non da ultimo, dalla presenza del Parco della Valle della Motta. In particolare alcuni biotopi situati sul sedime dell’Azienda cantonale dei rifiuti (Acr), responsabile della struttura, sono inseriti nell’inventario federale dei siti di riproduzione di anfibi di importanza nazionale e vengono gestiti in accordo con le autorità. Di fatto, quando nel 1988 si decise di trasformare una parte della Valle in discarica, furono necessarie delle misure di compensazione. Si adottarono di conseguenza degli interventi mirati per la ricostituzione di ambienti nella rimanente area della Valle della Motta, dando vita all’omonimo parco (vedi «Azione» del 24 luglio 2017). Il Parco della Valle della Motta si estende oggi su 163 ettari in territorio di Coldrerio e Novazzano, diramandosi per alcuni chilometri verso Chiasso e
dando origine a un paesaggio agricolo e forestale del tutto particolare. La discarica rappresenta circa il 5% dell’intera superficie del parco che presenta uno scenario da scoprire con una passeggiata, accompagnati dal fiume Roncaglia che per diversi tratti corre accanto al sentiero didattico creato all’interno del parco. Altre discariche chiuse in Ticino, di cui l’Acr si occupa pure di sorvegliare le emissioni gassose, il percolato e il rinverdimento, si trovano a Casate, Croglio, Nivo e Pizzante. Quest’ultima, situata nel Locarnese, presenta una ricca flora e fauna, che permettono di aumentare la biodiversità sul Piano di Magadino.
Alla University of California, San Diego, è sabato mattina ma l’aula conferenze del campus è piena. Nessun convegno sui microchip o su una nuova molecola però, qui si tratta di roba seria: il torneo di Super Smash Bros, versione 1 (1999), rigorosamente su televisioni a tubo catodico, con coppie di giocatori non più che ventenni, stretti fra bottiglioni di Pepsi Cola semivuoti e la necessità di picchiare duro sull’avversario. Saranno i geni di domani. Fuori il cielo è di un blu... California, a dicembre sembra ancora più terso. In mare i surfisti proni sulle tavole aspettano l’onda; in spiaggia famiglie con i cani, fisici palestrati, corridori in tenute perfette, qualche fuoristrada dei bagnini che controllano. Nel tardo pomeriggio i bar lungo la via si riempiranno di ragazzi e birre, di fronte a uno dei tramonti che hanno reso famosa questa costa. Viaggiare in California è come viaggiare in un film, fra i videoclip di YouTube o gli articoli delle riviste: i luoghi e i nomi ti suonano tutti familiari, da Bel Air ad Alcatraz, dalla Death Valley alla Silicon Valley. Qui tutti vanno a gran velocità, salvo che sulle strade, dove il rispetto delle regole è ferreo a causa della severità delle pene. Questa è la locomotiva degli Stati Uniti e se vuoi vivere qui, devi correre. Non ci sono mezze misure, almeno in apparenza: molti senzatetto e molti ricchi, pochissimi obesi, a differenza del resto degli USA, e dedizione a sport, lavoro e famiglia. I messicani fanno i lavori più pesanti, gli altri si occupano di tenere alto il nome della California e producono redditi sostanziosi. Tutto ciò in apparenza, dicevo. Poi c’è l’interno, la cosiddetta farm land, la terra delle fattorie, dei piccoli paesi
Stazione di servizio di San Ardo. (Sara Pellicoro)
sperduti dove la working class è dominante, con gli enormi pick-up parcheggiati davanti alle villette di legno, i tatuaggi, la voglia di farsi due risate con uno straniero. Ancora una volta è divertente viaggiare contromano, per così dire: una vecchia Vespa del 1981, cilindrata 125, alta quanto la ruota di un furgoncino medio da queste parti, messa sulle strade della California in una versione inusuale del mito on the road. Devi es-
sere ottimista, non avere troppa fretta, stare attento alla miscela di olio e benzina, coprirti bene la mattina, ogni tanto sgranchirti le gambe e tutto il resto. Soprattutto se si viaggia in due, su una sella originale a molle. «Da San Diego a San Francisco? Con quella? Unbelievable! Da non credere». Tutti scherzano sul mezzo di trasporto, un poliziotto perfino chiede: «Ma perché non affittate una macchina?». Ha le sue ragioni, perché qui non
Stazione di servizio lungo la Highway 76, in direzione di Temecula. (Sara Pellicoro)
Il taccuino del viaggio. (Sara Pellicoro)
In diretta l’evolversi dell’incendio fra Malibu e Santa Barbara. (Sara Pellicoro)
San Diego, patria del surf. (Sara Pellicoro)
Informazioni
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è facile viaggiare fuori dalle autostrade e dalle superstrade, vietate alle moto di piccola cilindrata e dunque anche alla nostra Vespa. Ma è anche l’occasione per deviare dalla costa, dalla mitica Highway California 1, che va dal Messico al Canada, e muoversi invece tra i campi perfettamente arati, i paesi sperduti e i motel con la moquette, che tutti abbiamo visto almeno una volta in televisione. Quando ti lasci alle spalle Los An-
geles, lungo la spiaggia di Malibu che in questo tardo autunno, durante la settimana, è popolata dai giardinieri e dai restauratori di mega ville, cominci a respirare l’aria dell’altra California. Ma questa volta l’aria è irrespirabile, perché il vento secco che viene dal deserto si è portato in giro troppi incendi. Le colline vanno a fuoco, la luce sembra quella di un vecchio film di fantascienza, il sole velato riflette un giallo ocra sulla strada e sulle palme della città di Ventura. Evacuazione in corso: i negozi di arti grafiche, di pittura e le librerie sono tutti chiusi. Città di intellettuali, pare. «Città di artisti, città strana. È perché le montagne alle sue spalle le hanno impedito di allargarsi troppo, così ha trovato la sua identità» dice Royce, biker con baffoni e occhiali a goccia, Harley Davidson di ordinanza bianca e azzurra. Nel bauletto di pelle conserva il drappo del suo gruppo di motociclisti californiani. Osserva le fiamme. «Si fermeranno quando arriveranno al mare» dice. Sulla via verso Santa Barbara le strade sono bloccate e le autopompe sfrecciano per rimediare all’irrimediabile. Alla sera, quando la cenere si posa sull’asfalto e sulle auto come fosse neve, nei motel o nei piccoli fast food, è il momento di riguardare la giornata, di prendere due appunti e di disegnare sul taccuino. La Vespa, la California, i grandi Suv, il mito degli hippie... E poi c’è il West silenzioso e lungo, con le staccionate bianche dei ranch, gli scoiattoli al bordo della via, le cassette della posta sulla strada principale, i vigneti e le cantine dai nomi italiani. Sulla mappa e sotto le ruote della Vespa sfilano cittadine dai nomi evocativi: Guadalupe, Arroyo Grande, San Ardo... Un’infilata di case polverose e un po’ fatiscenti, una stazione di servizio ferma al 1950 e un ristorante messicano, perfetto per una birra Pacifico con una enchilada, per disegnare e scrivere. Per pagare con carta di credito invece si chiede un favore al distributore di fronte. La Silicon Valley è lontana da qui.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Ambiente e Benessere
Il magico filtro Andaluso
Il vino nella storia Si dice che per produrre lo Sherry venissero impiegate un tempo più di cento varietà di uve
Davide Comoli Furono i Fenici nel 1100 a.C. a fondare la città di Gadir (l’attuale Cadice). La città fu ben presto abbandonata a causa del Levante, il terribile vento caldo che si dice faccia impazzire gli uomini, e fondarono una città più all’interno, Xera (qualcuno afferma sia l’attuale Jerez). Se non furono i Fenici, popolo di commercianti e navigatori, furono certamente i Greci che diffusero nel Mediterraneo il loro epsema, antenato e precursore degli attuali arropes e vinos de color che aggiungono sostanza, colore e dolcezza al moderno Sherry dolce. Nel Medioevo, i Mori introdussero in Spagna l’alambicco, una specie di bollitore con cui gli abitanti della regione trasformavano il vino in eccesso in uno spirito distillato, il quale veniva aggiunto insieme all’arrope e al vino de color, anche al vino prodotto durante l’anno per mantenerlo più a lungo, visto che il caldo e i trasporti per mare lo rendevano imbevibile dopo un po’ di tempo. Furono dunque gli abitanti dell’Andalusia i primi a creare con questa rozza versione di Sherry i primi vini che oggi noi definiamo vini liquorosi, nati dall’esigenza di conservarli nei lunghi viaggi per mare, e sicuramente interpreti di una specifica appartenenza territoriale. La fama di questi vini si diffuse grazie soprattutto ai mercanti inglesi che, alla fine del XIII inizio XIV secolo, commerciavano in vini andalusi nelle
Fiandre e in Inghilterra. All’inizio del 1500, il commercio dei vini dell’Andalusia era in mano agli inglesi e olandesi. Quando più tardi gli inglesi si stabilirono definitivamente a Cadice, il vino chiamato Sack dai figli di Albione conobbe il suo momento di splendore. Da dove deriva il nome Sherry non si sa con precisione, ma di sicuro si sa che quando i Mori conquistarono il sito fenicio di Xera, la ribattezzarono con il nome di Scherish: forse è da qui che i commercianti di allora trassero il nome Sherry. Dopo lo scisma anglicano di Enrico VIII, gli inglesi in territorio spagnolo erano visti come il fumo negli occhi e gli atti di pirateria tra le due nazioni erano molto frequenti. Fu forse questa una delle cause che portò Francis Drake a dare fuoco alla flotta spagnola nel Golfo di Cadice nel 1587. Drake inoltre portò via con le sue navi ben 2900 botti di Sherry, cioè l’equivalente di circa 1500 casse da 6 bottiglie di vino, una bella «esportazione» per quel periodo! Si racconta che in quel lontano inverno del 1587, non ci fosse taverna dove non si vendesse il vino di Cadice. Per l’élite britannica che durante la guerra tra Spagna e Inghilterra non aveva più potuto approvvigionarsi con i vini Andalusi, lo Sherry rimane da allora un vino molto apprezzato nei Paesi Anglosassoni. Tra i fattori per la produzione di questo vino, si deve mettere al primo posto un terreno speciale: «l’albariza», così chiamato perché forma una superficie bianca e brillante, è costituito da
una soffice marna di origine organica, formata da alghe sedimentate nel periodo Triassico. La viticoltura trova in Andalusia una regione arida e un caldo cocente; in un anno ci sono in media 70 giorni di pioggia. L’albariza assorbe l’acqua come una spugna e nel momento in cui torna la siccità, si trasforma in guscio duro che blocca l’evaporazione. L’albariza fornisce una sufficiente umidità alle viti, favorisce la maturazione dell’uva con un livello di acidità più alto rispetto a quello che sarebbe normale in un clima così caldo. L’acidità a sua volta protegge il vino da un’ossidazione indesiderata, prima della sua fortificazione. Anche l’alternanza dei venti che arrivano da levante e da ponente favorisce la maturazione delle uve, creando un equilibrio tra zuccheri e acidi con il vento secco e caldo del Mediterraneo, mentre quello umido e fresco che proviene dall’Oceano favorisce la crescita di alcuni saccaromiceti nella microflora dell’uva, quello che poeticamente viene chiamato velo flor. Il flor appare come una pellicola bianco-grigia che galleggia sulla superficie del vino e si forma per azione della microflora presente nell’uva Palomino. Il flor assorbe eventuali zuccheri residui, diminuisce il glicerolo e gli acidi volatili, aumentando le aldeidi e gli esteri. Si dice che nei secoli scorsi per produrre lo Sherry venissero impiegate più di cento varietà di uve, su un vecchio testo del 1868 D. Parada y Barreto ne elencava 42. Oggi le varietà impiegate
Si dice solera l’assemblaggio frazionato che genera una piramide di botti. (Pxhere)
sono solo tre: Palomino, Pedro Ximénez e Muscatel Fino, ma la classica uva per lo Sherry è il Palomino, perché è proprio sulle bucce dei suoi acini che si trovano i lieviti che svilupperanno il flor. I vini saranno assaggiati da un esperto cantiniere che deciderà come utilizzarli nelle diverse tipologie. Ogni botte è marchiata con dei segni che corrispondono al vino che dovrà diventare: Fino Amontillado, Mananilla 15% in alcol etilico, Oloroso fortificato al 17,5%, il Palo Cordado che porta sulla botte il segno di una chimera, o il Pedro Ximénez prodotto solo con uve omonime. Una volta che è stato definito il tipo di Sherry, i vini vengono sottoposti a un sistema di assemblaggio
frazionato chiamato solera che visivamente si presenta come una piramide di botti, poste una sopra l’altra. Questo sistema entrò in uso solo nella seconda metà del XIX secolo per volere degli importatori inglesi che desideravano un sapore costante nei vini. Dal 1. gennaio 1996 lo Sherry ha riottenuto l’uso esclusivo del proprio nome in Europa: per anni aveva sofferto l’abuso di produttori dei così detti «sherry» di altri paesi. Il successo di questo «vino fortificato» è dovuto alle condizioni ideali locate nel triangolo tra Sanlùcar de Barrameda, Puerto Santa Maria e Jerez de la Frontera, tra i fiumi Guadalete e Guadalquivir. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Tagliatelle d’Oriente Un lettore chiede cosa vuol dire esattamente il termine inglese noodle (loro scrivono noodles, ma se parole inglesi entrano a far parte del linguaggio italiano, queste perdono la «s» del plurale, e infatti si dice due bar, non due bars). Non nasce come termine orientale. Il nome potrebbe derivare dal greco nudel (che vuol dire farina mista a liquido, farina impastata) ma anche dal tedesco knödel, la tradizionale polpetta di pane raffermo.
In Occidente si chiama noodle ogni tipo di pasta lunga, mentre sarebbe più corretto definire così un alimento della tradizione orientale ricavato da cereali Comunque in linea di massima oggi, nei paesi occidentali, questo termine viene utilizzato – fatta eccezione ovviamente per l’Italia – per indicare qualsiasi pasta, sia di grano sia di altri cereali, di formato simile agli spaghetti o alle tagliatelle; quindi non la pasta corta. Così è, anche se sarebbe più corretto (cosa che moltissimi fanno, peraltro) utilizzare questo termine per un alimento della tradizione orientale ricavato da cereali, lasciando la parola pasta (o pasta lunga o maccheroni, perché no? è etimologicamente più corretta) per i confratelli di tradizione italiana. Parliamo quindi dei noodle di tradizione orientale. Possono essere realizzati con farina di grano (con o senza uova), di riso, di soia, di grano saraceno, di farro e di altri cereali, ma anche di funghi mungo (i cosiddetti cellophane noodle). Nella cucina giapponese, i soba noodle sono fatti di farina di grano saraceno (soba-ko) e farina di frumento (komugi-ko).
La cucina cinese distingue quelli mian, fatti con farina di grano, da quelli fen, fatti con farina di riso; l’impasto viene tirato e ripiegato numerose volte senza mai tagliarlo, fino a che non diventa sottilissimo e lunghissimo, più fine dei capelli d’angelo. Nati come pasta fresca di produzione tipicamente artigianale, oggi i noodle possono essere anche secchi, di produzione industriale e si possono servire in modi diversi: saltati in padella, in brodo nelle zuppe, accompagnati da sughi di carne. Esiste ma è raro il loro utilizzo «in purezza» ovvero saltati in padella con olio di sesamo o salsa di soia o anche con verdure e basta: in Oriente sono visti di più come accompagnamento a una proteina. Peraltro anche negli Stati Uniti e in tanti altri paesi tutte le paste, anche le nostre, sono viste come accompagnamento di una proteina, e infatti le ricette più gettonate sono: carbonara, Alfredo (formaggio), with meat ball (polpette) e bolognese (ragù). Ecco una ricetta classica: carne con noodle (ingredienti per quattro persone). In un padella antiaderente rosolate in poco olio 300 g di carne macinata, un po’ di tagli magri ma anche grassi, mescolando perché si sbricioli al meglio, poi levatela e tenetela da parte al caldo. Lessate 300 g di noodle cinesi in acqua bollente, scolateli, passateli sotto l’acqua fredda e tagliateli in pezzi di circa 10 cm. Sbollentate 200 g di spinaci, scolateli e strizzateli. Mettete 1 manciata di funghi secchi in ammollo in acqua tiepida per 15’, poi scolateli e tagliateli a pezzetti. Pelate e tritate 1 cipolla o 2 porri o 2 cipollotti, 1 carota e 1 spicchio di aglio. Nel wok stufate i funghi, la cipolla e le carote in 2 cucchiai di olio a fuoco basso per 10’. Aggiungete al soffritto la carne, i noodle, gli spinaci tritati e l’aglio. Mescolate e unite 3 cucchiai di zucchero, 2 cucchiai di salsa di soia e regolate di sale (ma dipende da quanto è salata la salsa di soia) e di pepe o peperoncino. Lasciate insaporire per qualche minuto e servite.
CSF (come si fa)
Pxhere
Allan Bay
Pexels
Gastronomia Cerchiamo di conoscere meglio i noodle di tradizione asiatica
La cucina dell’Indonesia in Europa è pressoché assente: e questa è una cosa triste, perché conoscere altrui cucine sempre ci arricchisce. Fanno eccezione, e questo non sorprende nessuno, i Paesi Bassi, che a lungo hanno governato quelle lontane isole. Cercare elementi unificanti non è facile, ci sono infatti 13’760 isole dove si parlano 250 lingue o dialetti! Gli elementi unificanti sono sostanzialmen-
te il riso, dato che l’hanno coltivato per primi (i cinesi l’hanno importato da loro), e le erbe aromatiche comprese le spezie, tantissime. Poi tanti pesci, soprattutto gamberi, e tanti i dolci, soprattutto a base di latte di cocco. Di tanti piatti, il più celebre è il nasi goreng. Nasi vuol dire riso, goreng vuol dire fritti, ovvero saltati in padella: quindi è più un modo di miscelare gli ingredienti che una ricetta, dato che le varianti sono infinite. Vediamo comunque come si fa: una mia versione, ovviamente. Per 4/6 persone. Preparate una omelette molto sottile con 2 uova e un filo di olio di arachidi, poi tagliatela a listerelle. Pulite e tagliate a cubetti 200 g di petto di pollo e 1 grossa carota. Mondate del guscio e del budellino nero 100 g di gamberetti e tritateli.
Scaldate in un wok 2 cucchiai di olio di arachidi, aggiungete i gamberetti, il pollo, la carota e 1 spicchio di aglio schiacciato e rosolate brevemente. Levate tutto con una schiumarola, gettate l’aglio e tenete il resto in caldo. Nel wok aggiungete al sugo di cottura del pollo 2 cucchiaiate di latte di cocco, 1 cucchiaino di salsa piccante al peperoncino (sambal oelek), 1 cucchiaio di salsa di soia, 1 peperone rosso tagliato a listerelle, la parte verde di 4 cipollotti tagliati a julienne e cuocete nel wok per 1’. Unite 300 g di riso bollito e fatelo saltare per 1’. Aggiungete infine l’omelette, i gamberetti, il pollo e la carota e mescolate per 1’. Regolate di sale e servite. A piacere, sostituite il riso con dei noodle: in questo caso il piatto si chiamerà mie goreng.
Ballando coi gusti Due antipasti per fare bella figura. Sono a base di pesci amati da tutti: baccalà e tonno.
Spiedini di pane e pancetta con baccalà
Frittelle di patate al tonno
Ingredienti per 4 persone: 200 g di baccalà bagnato · 1 vasetto di yogurt bianco · pane casereccio · pancetta fresca · aglio · rosmarino · erbe a piacere · burro · sale.
Ingredienti per 4 persone: 700 g di patate · 1/2 cubetto di lievito di birra · 1/2 bic-
Fate saltare il baccalà in una padella antiaderente per 1’, poi frullatelo con lo yogurt e, se necessario, poca acqua. Regolate di sale, se necessario. Tagliate la pancetta a fette uguali. Tagliate il pane a fette uniformi. Scaldate un po’ di burro con uno spicchio di aglio e un po’ di rosmarino, quindi fate dorare la pancetta. Levatela, tenetela in caldo e fate dorare nella padella il pane. Infilzate su spiedi una fetta di pane poi un paio di fette di pancetta, il pane e così via fino a esaurimento degli ingredienti. Passate questi spiedini in forno a 220° per 2’. Levateli, guarniteli con la salsa al baccalà, mettete sopra qualche erba a piacere e servite.
Sciogliete il lievito nel latte intiepidito e lasciatelo raffreddare. Lavate le patate e cuocetele al vapore per 40’; levatele, sbucciatele e passatele allo schiacciapatate. Mettete il purè in una ciotola e, mescolando, aggiungete a filo il latte con il lievito, la farina setacciata e il tonno. Incorporate le uova leggermente sbattute e impastate fino a ottenere un composto omogeneo. Copritelo con un panno umido e lasciatelo riposare per 1 ora. Mettete il composto su un piano da lavoro infarinato e con le mani ricavate delle palline grosse a piacer vostro. Schiacciatele leggermente. Friggetele in olio bollente, poche per volta. Sgocciolatele su carta assorbente da cucina perché perdano l’eccesso di unto. Servitele subito, leggermente cosparse di sale.
chiere di latte · 50 g di farina · 200 g di tonno a dadini · 2 uova · olio per friggere · sale.
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Ambiente e Benessere
Che cos’è la realtà?
Il seme nel cassetto S econdo Richard Mabey, nature writer, il nostro rapporto con le piante
smaschera le nostre concezioni sul mondo
Laura Di Corcia È incredibile come la constatazione di quanto sia limitato lo spettro delle nostre percezioni sia in grado di lasciarci ammutoliti e di farci percepire il resto del mondo come un contenitore slabbrato e composto di una materia gelatinosa, sempre pronta a sfuggirci di mano. Che cos’è la realtà? Che cos’è, se i nostri sensi ci permettono di vederne solo una porzione, e se probabilmente anche quel piccolo lacerto è deformato, sfuocato, impreciso? Ricordo che una lezione di fisica al Liceo (materia da me aborrita, insie-
me a tutto quel che riguarda il calcolo e le scienze esatte) fu una delle prime agnizioni in questo senso: non possiamo vedere tutti i colori e non abbiamo nemmeno la certezza che quello che noi chiamiamo rosso corrisponda alla medesima percezione sensoriale che gli altri hanno di quella determinata lunghezza d’onda. Leggendo il denso volume di uno dei più colti nature writer inglesi, Il più grande spettacolo del mondo. Botanica e immaginazione di Richard Mabey, ho rivissuto quei momenti liceali, nell’apprendere che anche l’universo olfattivo, l’insieme degli odori che riusciamo a
percepire, corrisponde a una piccola porzione di quello che veramente esiste nella realtà che ci circonda. Tutto è limitato, mediato dai nostri limiti, quei confini che vivisezionano la realtà permettendoci di accedere a una parte di essa, giacché la totalità non è assimilabile. Ma questo perimetro non è stabilito solo dai nostri sensi. Anche la cultura influisce e determina il modo in cui accediamo alle cose, agli oggetti che formano il nostro contesto, ed è su questo aspetto che poggia il ricco e proteiforme saggio. Con una prosa lussuosa, Mabey ci conduce lungo un viaggio che racconta il rappor-
to fra cultura e piante. Come mai sulle pareti delle grotte di Lascaux compaiono solo animali? Perché i nostri antenati trovavano negli animali una maggiore somiglianza biologica, ravvisata nel ciclo di nascita-crescita-morte. Le piante iniziano a popolare l’immaginario iconico più tardi e associate non tanto alle stagioni dell’organismo, quanto ai nostri schemi mentali, che si degeminano e prendono percorsi autonomi come gli alberi. Alberi che fondano la nostra idea di genealogia, come il famoso albero della vita nella Genesi. Paradossale come lo stesso Darwin, che con le sue idee mise in discus-
sione il nucleo stesso della teologia cristiana, schematizzasse sul proprio taccuino il procedere dell’evoluzione con un albero genealogico non lontano da quello biblico. L’albero è legato al mito della vecchiaia, della continuazione della specie: non è un caso che alberi antichi come le sequoie giganti o il tasso di Fortingall in Scozia siano diventate ormai mete turistiche.
Mabey ci conduce in un viaggio che ci fa capire più cose di noi stessi che dello spettacolo vegetale Il nostro rapporto con le piante smaschera le nostre concezioni sul mondo: la fiducia nelle piante medicinali, per esempio, è fondata su un’idea benevola di creazione. Se è vero che alla cacciata dal Paradiso seguono tribolazioni e dolori, è anche vero che nella natura esiste un rimedio, una panacea al male. Basta saper leggere fra le righe (non ci hanno provato per secoli gli alchimisti?). Tutto è legato, tutto ha un corrispettivo in questo universo dove l’ente è separato dal resto solo se lo guardiamo con occhi superficiali e approssimativi; e se il razionalismo freddo e illuminista voleva classificare da un punto di vista scientifico le piante, i romantici reagirono sostenendo che la bellezza ha senso di per sé, che il seme diventa fiore al solo scopo di mostrare il fine estetico che sta alla base del creato. Le piante in epoca vittoriana diventano capriccio e status symbol. Mabey ci conduce in un viaggio che ci fa capire più cose di noi stessi che dell’oggetto in questione. Lo spettacolo vegetale, il più grande del mondo come recita il titolo, rimane sullo sfondo, dietro la lastra di vetro creata dai nostri sensi e dalla nostra mente. Il concetto di realtà, in fondo, diventa un’endiadi fra noi e le cose.
Pxhere.com
Bibliografia
Richard Mabey, Il più grande spettacolo del mondo. Botanica e immaginazione, Ponte alle Grazie, 375 pagg, 23 euro.
La grande innovazione sulle nostre strade Motori Auto connesse, autonome ed elettriche e robotaxi conquisteranno davvero le città entro i prossimi
cinque anni? L’alleanza Renault-Nissan-Mitsubishi ci scommette un miliardo di dollari Mario Alberto Cucchi Robotaxi. Ovvero taxi senza pilota che grazie alla guida autonoma sono in grado di trasportare un passeggero da un punto all’altro. Ne ha parlato Carlos Ghosn, supercapo dell’alleanza Renault-Nissan-Mitsubishi, in occasione del suo intervento alla giornata inaugurale del World Economic Forum di Davos. «Cinque anni, sei al massimo – ha spiegato Ghosn durante il Forum di Davos – e le nostre strade non saranno più le stesse. Auto connesse, autonome e naturalmente elettriche più car sharing e robotaxi conquisteranno le città». Il 63enne manager di origini libanesi ha fatto i nomi di Uber, Amazon e della cinese Alibaba come potenziali compagni di avventura per lo sviluppo del progetto sui robotaxi autonomi. «Ogni industria automobilistica – ha spiegato il CEO dell’alleanza franco-giapponese – deve tendere a questo obiettivo in sinergia con altre aziende.
Non c’è esclusività in questo campo. I tecnici lavorano insieme, io stesso incontro i responsabili delle aziende con cui collaboriamo più volte all’anno». In Svizzera Ghosn ha parlato anche di diesel: «Nel 2017 a livello europeo le vetture a benzina vendute hanno superato le diesel. Segno che le politiche restrittive di molte nazioni stanno colpendo nel segno e tutti dovranno adeguarsi». A fine gennaio sono stati divulgati i risultati delle vendite mondiali di automobili relativi al 2017 e il mercato ha premiato Mister Ghosn. Sul gradino più alto del podio c’è infatti per la prima volta l’alleanza Renault-NissanMitsubishi che lo scorso anno ha immatricolato 10’608’366 unità (+6,5%), sufficienti a battere il Gruppo Volkswagen (10,53 milioni di veicoli escludendo i marchi truck Scania e Man) e il Gruppo Toyota che si è fermato a circa 10,2 milioni di esemplari, anche in questo caso escludendo l’affiliata truck Hino Motors. Insomma, senza contare i camion
ma valutando solo gli autoveicoli, Renaul-Nissan-Mitsubishi è attualmente il più grande costruttore al mondo. Evidente il grande balzo dell’Alleanza capitanata dal manager Carlos Ghosn che ha beneficiato di 5,82 milioni di vetture da Nissan, 3,76 milioni da Renault e 1,03 milioni da Mitsubishi. Per reggere questi ritmi, gli investimenti nella ricerca di nuove tecnologie rivolte all’ambiente e alla sicurezza sono incessanti. Renault-Nissan-Mitsubishi hanno ultimamente annunciato il lancio di Alliance Ventures, un fondo di venture capital che investirà un miliardo di dollari nel prossimo quinquennio per sviluppare l’open innovation. Il fondo prevede di investire il primo anno 200 milioni di dollari in startup che operano nel campo dell’open innovation e delle nuove mobilità: veicoli elettrici, sistemi di guida autonoma, servizi connessi, intelligenza artificiale ecc. Grazie all’entità degli investimenti previsti ogni anno, Alliance Ventures
Studi di Nissan sulle reazioni di un cervello durante la guida di un ’auto.
dovrebbe diventare, entro la fine del 2022, il principale fondo di venture capital del settore automobilistico. Per Carlos Ghosn, Presidente Direttore Generale di Renault-Nissan-Mitsubishi,
«l’approccio innovativo creerà un ambiente di lavoro ideale per imprenditori e startup, che potranno beneficiare, di conseguenza, degli effetti di scala e della potenza globale dell’Alleanza».
I N C I S A N A I F Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07 15 D I A N A M I E L E 12 13 e Benessere I O L E N O V O Ambiente L 14 15 16 L B A P E C E N P 17 18 L E T A R C O N T E 19 I N O T A I 20 Mondoanimale Il migliore amico dell’uomo nel firmamento delle costellazioni cinesi di quest’anno A G I R E O 21 22 SUDOKU PER AZ C E T N S 23 fatto gli permette di trovare tradimenti Marchesini sostiene che «affinché Maria Grazia Buletti I N T E R N A e frodi». potesse verificarsi un processo di affi10
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E l’uomo creò il cane
Dal primo incontro, il cane è rimasto tale, mentre l’essere umano ha modificato modi e atteggiamenti L’uomo nato sotto il segno del Cane è descritto come: «Il migliore amico che si possa desiderare, onesto, credente e sincero. Offre valori reali in cambio di affezione. È un piacevole compagno dall’animo buono. Chi lo conosce lo ama, perché l’uomo del Cane abbaia in un modo da far apparire anche il più feroce morso qualcosa che non fa male. È perciò una persona che sa mettersi alla pari, crede nella giustizia e sostiene con entusiasmo nobili cause, portando pesanti croci contro atti ingiusti. Infine, ha un carattere che rispetta il codice d’onore, gli fa piacere aiutare le persone anziane ad attraversare la strada, l’ol-
Giochi
N. 1 FACILE Schema
E lasciando agli esperti astrologi liazione è stata necessaria un’adozione, cinesi le analogie fra essere umano e insieme all’instaurarsi di un rapporto segno zodiacale che lo rappresenta atparentale interspecifico». In poche pa(N. 2 - Okapi - Del Congo - Ossiconi) traverso il cane, proviamo a descrivere l’evoluzione del suo rapporto 4 2 role, 9 ilconcane, le caratteristiche proprie dell’animale con l’essere umano ha potu1 2 3 4 5 B R O K E R to sviluppare la propria attitudine a che possiamo così riassumere: un cane 6 7 8 è tenace, prudente, fedele, costante, prendersi 6 8 cura2dei propri 4 cuccioli 1 5e ha R A D A O P concreto e capace di compassione e di in qualche modo adottato l’animale. 9 10 interazione interspecifica. Le due deCerto, 4 dalla 3 relazione umana con i lupi A M I5 A D A scrizioni sono affini, vanno a braccetto fino alla nostra relazione con i cani del 12 e descrivono realmente quello 11 che è il ne è passata di acqua sotto N E G U A giorno Iponti.d’oggi rapporto dell’uomo con un animale i2 Ma se il cane5 ha mantenuto4im13 14 15 16 17 che lo accompagna dalla notte dei temmutato il suo desiderio di condivisione, L E C C I G O G 8 N A 5 9 3 2di sentirsi pi. Secondo parecchi esperti di etologia di stare insieme a noi umani, 18 19 animale esso ha trasformato la storia utile, condividere con noi le sue espeA G I O C E D U O stessa dell’umanità, nell’evoluzione di rienze sentendosi parte del 20 21 22 3 7 «gruppo – un rapporto tra due specie divenute branco» umano, per noi uomini il rapT A O L A S E R S complementari. porto è cambiato. Secondo Marchesini, 23 24 25 26 1 4 I D C O S T I M E «La fedeltà di un cane è un dono in noi è cambiata la percezione del cane 27 28 prezioso che impone obblighi morali come animale collaborativo, lasciando I N E T T O O 4L ilI6posto al cosiddetto 9 animale 5 da comnon meno impegnativi dell’amicizia con un essere umano», ha scritto lo zopagnia: «Un animale che vive con noi, ologo ed etologo austriaco Konrad Lonelle 9 3 nostre case, 7 a cui6dedichiamo2con(N.libro 3 -E ... sessanta renz nel suo l’uomo incontrò il euro a seduta) tinue e spesso dispendiose attenzioni». cane. Saggio nel quale il premio Nobel L’antropomorfizzazione è in agper la medicina ripercorre l’evoluzione guato, anzi, oseremmo affermare: spes1 2 3 4 5 6 7 8 dell’incontro fra questo quadrupede e S E R T O M U S A so assolutamente attuale. Essa va a coll’uomo al9quale ancor oggi si accompamare profonde lacune: un figlio che non 10 gna devoto. A S I A L O N T R c’èAo che non si può avere, l’appartenenL’attento lettore in questo12 libro za a uno status symbol secondo la razza 11 R fraO male I cane a noi: C «LaEsuaN R E in voga nel momento e quant’altro. Ed troverà una descrizione approfondita sono stabilite nel corso della storia realtàE è di vivere 13 che più di ogni 14 altro cre16 dell’animale cane e15padrone. pienamente la sua esistenza soprattutto ecco che, al di là di credenze astrologiDaltriS se puòUcondividere R I un’esperienza S Icon A cheLpiù o meno radicate e pertinenti, diamo di conoscere e sul quale però Oggi, alla sua voce si associano 18 tante cose17abbiamo ancora da scoprire. studiosi, come lo zooantropologo Rober- l’uomo». Uomo che per contro, sostie- l’anno cinese del Cane ci permette di A I neUlo zooantropologo, T O O C Auna fermarci A a riflettere su quello che oggi è Lorenz descrive le origini dell’incon- to Marchesini che nel suo libro di recente «ha subito 19 20 21 tro fra uomo e cane, quando il rappor- pubblicazione L’identità del cane, storia forte trasformazione nell’accoglimento il nostro bisogno di rapportarci al cane Cprotocane». A S Come O dire: il A amico G dell’uomo. E su come questa to si giocava con gli antenati del cane: di un dialogo tra specie (Apeiron edizio- del lupo o del 22 23 lo sciacallo e il lupo. Secondo l’autore, ni) ripercorre quello che egli stesso defi- cane è rimasto tale, ma l’essere umano ha relazione è cambiata, almeno da parE D O E M U queste origini lasciano le loro tracce in nisce «il carico relazionale» che intercor- cambiato il suo atteggiamento nei suoi te nostra. Allora, una domanda sorge 24 perin“Azione” Gennaio 2018 tutte le complesse forme di intesa, ob- re fra uomo e cane. Marchesini ricorda Giochi confronti, una relazione che potrebbe ancora cambiare Dorigini. Ooggi Pnon E spontanea: N bedienza, odio, fedeltà, nevrosi che si l’immutato motore che avvicina l’ani- rispecchia più le sue in futuro? In che modo? Stefania Sargentini
N. 2 MEDIO 1
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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(Gioco di Capodanno inviato nel le dei giochi festivi)
2 1 Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi8 con il cruciverba (N. 1 - In Canada - Millenovecento trenta) una delle 2 carte regalo da 50 franchi 9 6con il 5sudoku4 (N. 4 - ... impegnate ea negare di averli commessi) 2
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I N C I S D I A N A Sudoku I IO LM E O LSoluzione: NB AA TP Scoprire i 3 L E T A numeri corretti GOnelleIT IdaA N inserire caselle colorate. A G I R E L I T C E T I AN TC E E R
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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
A I E L O 1AN N T
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VERTICALI 1. Inspirare sostanze 2. Una singolare bacchetta... 3. Infiammazione dell’orecchio 4. Articolo 6. Figlio di Anchise e Afrodite 7. Bacilli, batteri 8. Impugnatura della mazza da golf 9. Nome femminile 10. Un risultato calcistico 12. Le iniziali dell’attore Roncato 15. Luogo dove si trebbia 16. Un poker mancato 19. I beni dello Stato 22. Pallini parigini 23. Abitano a Bucarest 25. Lo è l’ostro 27. Ninfa greca della montagna
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N I A V E O
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E G G I N. 3 DIFFICILE NLO 12 13 EEC N E R7 V 9 R C 16 I A A I 3A R T E R 18 19 RO I R A M P 8 N S6 22 23 N A A P I I R 26 27 28 SUDOKU AZIONE 2018 V PER O S - GENNAIO E R U (N. 2 - Okapi - Del Congo - Ossiconi) R A 9 3 1 31 N. 1 FACILE E MB REO LK E IR C RSoluzione O M Schema 33 34 R A D4 A 4 2M9 E 2 9 E 6 N I SO PC O 1 4 M A M I A D A 6 8 2 4 1 5 3 6 9 7 36 8GI U6 A II 4 S E N8 N E F I N T 5 4 3 5 8 7 4 3 38 L E C 2C I G O G N A 6 2 4 11 O O5E DI 4UOO 3 C 9 U I7 ARG 8A I 5O S C 9 3 2 4 7 8 5 9 T A 3O L A 7S E R S 2 65 3 1 4 28. Il Montecchi di Shakespeare 5
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ORIZZONTALI 1. Città italiana sede di un famoso autodromo 5. Contrapposto a meglio 11. Venute al mondo 13. C’è anche quello ottico 14. Sono fragili al centro 15. Canale organico 17. Misure per bevande 18. Pendio inglese 20. Una battuta vincente 21. Bombiscono 23. C’era una volta nelle fiabe 24. Dodici verticale rovesciato 26. Spinto... 28. Inzuppa il babà 29. Nel frutteto 31. Si legge sul pentagramma 32. Cartilagine a forma di semi luna 34. Uomini inglesi 35. Simulati, falsi 36. Piccole insenature 37. A rischio chi si muove sul suo filo 38. Si concia
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Cruciverba Molte persone imparerebbero dai propri errori se non fossero così... Trova il resto della frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 9, 1, 6, 2, 6, 8)
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Pxhere
Il nuovo anno cinese inizia il 16 febbraio 2018 e si concluderà il 4 febbraio 2019. Fino ad allora, sarà il Cane il re dell’anno. Undicesimo del ciclo di 12 anni dell’oroscopo cinese (ciascuno associato a un animale) il cane è in compagnia di topo, bue, tigre, coniglio, drago, serpente, cavallo, capra, scimmia, gallo e maiale. Gli esperti affermano che, sotto l’egida del simbolo di quello che oramai definiamo il migliore amico dell’uomo, si preannuncia un anno di: «Apertura, tolleranza e innovazione, in un periodo che promette grandi cambiamenti estremamente positivi».
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I D C 1O 4 S T I M E I 4N 6della E T settimana T O 5 precedente O L I Soluzione 9
29. 27 Sana in corpore sano 28 30. Cinquantatre romani 32. Possessivo (N. - ...romani sessanta euro a seduta) 33.3101 35. Le iniziali del cantante Renga 1 2 3 4 5 6 7 8 36. Preposizione
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I vincitori
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Vincitori del concorso Cruciverba su «Azione 05», del 29.01.2018 21 19 20 18
P. Limonta, S. Giovannini, Y. Vido 22
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Vincitori del concorso Sudoku 24 su «Azione 05», del 29.01.2018 E. Bortolotti, 25 J. Rappe
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Non un giorno probabilmente qualcuno saprà capirti come nessun 9 preoccuparti, 3 7 6 2 8 9 1 3 5 7 6 4 2 altro e ti chiederà soltanto... Resto della frase: «...SESSANTA EURO A SEDUTA». N. 2 MEDIO 3 1 4 6 9 8 5 7 2 S1 E4 R6 T9 O M7 U 3 S A 2 9 5 1 4 7 8 6 3 2A S I A 7 L8 O N T R A 4 6 8 7 3 2 5 9 4 1 R O I3 C E N E R E 8 4 3 2 6 9 1 5 7 D S3 2 U R I S7 I A L 1 3 8 5 2 9 4 7 1 3 8 6 5A I U T O O C6 A A 1 7 6 28 5 3 4 4 2 9 9 7 6 C3 A S O 5 A 1G 4 3 1 7 8 2 6 9 5 4 E D O E M U 7 6 5 8 99 3 6 2 1 4 8 D2 1 O P E N 9 6 2 5 1 4 7 3 8 9 6 5 T4 A T I A N A
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N. 3 DIFFICILE Partecipazione online: inserire la luzione, corredata da nome, cognome, (N. 4 ... impegnate a negare di averli commessi) 1 9 7 partecipante deve soluzione del cruciverba o del sudoku indirizzo, email del nell’apposito formulario pubblicato essere spedita a «Redazione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 3 10 8Azione, I C.P. M 6315, O L6901 A Lugano». P E sulla pagina del sito. Concorsi, 6 8 1 11 12 13 Partecipazione postale: la lettera o Non si intratterrà N A Tcorrispondenza E A suiN 6 Non 14la cartolina postale 15 che16 riporti la so- concorsi. Le vie legali sono9escluse.
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è possibile un pagamento in contanti 5 1I vincitori 8 49 4saranno 7 6 avvertiti 2 8 3 dei premi. per iscritto. Il nome dei vincitori sarà 4 1 5 6 9 7 8 G G3 3I2 suO pubblicato 6 7 9«Azione». 3 2 Partecipazione 8 5 1 5 4 riservata a lettori che E R Vesclusivamente O 5 7 8 4 2 9 6 risiedono 8 1 3in Svizzera. 2
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Nel mio negozio c’è solo pesce sostenibile. Hilal A., proprietaria della Migros
La Migros è della gente. Per questo si impegna come nessun altro a favore della sostenibilità . Tutti i pesci e i frutti di mare provengono per esempio da fonti sostenibili. migros.ch/proprietari
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Politica e Economia Gli Usa contro gli jihadisti Che operino in Afghanistan o in Pakistan la strategia americana verso i terroristi è la tolleranza zero
Surriscaldamento economico L’America è vissuta a lungo in una deflazione profonda, provocata tra l’altro dal cosiddetto «sconto cinese» che attraverso la competizione globale manteneva una pressione sui prezzi. Oggi i fattori che possono fare rinascere l’inflazione sono molteplici
Per chi suona la Brexit Il divorzio dalla Ue è qualcosa che è già finito e aspetta solo di essere rimosso. E la May non può più rinviare il momento
Pronta la nuova riforma Il Consiglio federale dà luce verde al nuovo modello di imposizione fiscale delle imprese
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Il ministro della Difesa James Mattis all’uscita dal Pentagono. (AFP)
Più strategia e meno antiterrorismo
Pentagono Secondo la nuova dottrina di difesa, l’America ambisce a ridisegnare la propria postura a livello globale,
concentrandosi sulla competizione fra Stati, in particolare Cina, Russia, Corea del Nord e Iran Lucio Caracciolo La superpotenza americana si basa sulla sua strapotenza militare. Per questo è utile esercizio considerare come il Ministero della difesa – il Pentagono – valuti lo stato delle Forze armate statunitensi. Esercizio annualmente affidato alla US National Defense Strategy (Nds), documento classificato di cui viene offerta solo una sinossi pubblica, comunque sufficiente a coglierne gli orientamenti di fondo. Quest’anno la lettura della Nds è particolarmente raccomandabile. Per diverse ragioni. Anzitutto, l’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca ha seriamente influito sulle percezioni altrui della superpotenza a stelle e strisce, molto più che sulla postura della stessa. Secondo, i militari hanno assunto un ruolo decisivo nel governo del Paese, anche per evitare che la retorica e l’imprevedibilità del presidente producessero danni eccessivi alla credibilità nazionale, su cui ogni potenza si fonda: oggi l’amministrazione è di fatto retta da tre generali: il capo di gabinetto, che in America ha funzioni assimilabili a quelle di
un primo ministro europeo, generale Jim Kelly; il consigliere per la Sicurezza nazionale è il pari grado H.R. Mcmaster; il ministro della Difesa è il generale dei marines James Mattis, detto Cane Matto, il più brillante dei tre. Ed è stato Mattis a orientare, rivedere e firmare la National Defense Strategy. La premessa da cui parte il documento è che gli Stati Uniti stanno «emergendo da un periodo di atrofia strategica» e che «il nostro vantaggio militare comparativo è in via di erosione» in ogni dimensione: navale, terrestre, spaziale, aerea, cibernetica. Il tutto in un contesto di incremento del disordine. La critica alle precedenti gestioni, specie a quella dell’amministrazione di George W. Bush jr, con le sue avventure militari in Afghanistan e in Iraq, è implicita ma evidente. E qui interviene l’osservazione più importante: gli Stati Uniti devono concentrarsi sulla «competizione fra Stati, non sul terrorismo». Per un paese che dal 2001 è in stato di guerra contro il «terrorismo globale», un punto non indifferente di autocritica. Anzi, un grido d’allarme. Quali sono gli Stati contro cui gli
Usa devono essere pronti ad agire? In tutto il documento, se ne citano solo quattro. I primi due, nell’ordine, sono le «potenze revisioniste»: Cina e Russia. Nessuna di queste può sostituire gli Stati Uniti come superpotenza globale, ma entrambe possono, specie se in azioni coordinate, minarne l’influenza in diverse aree del pianeta. Poi vengono i «regimi canaglia»: Corea del Nord, con le sue recenti nuove capacità nucleari e missilistiche, apparentemente considerate minacciose per la stessa madrepatria americana, e Iran, che cerca di acquisire l’egemonia nel Medio Oriente. La Cina è vista come il principale competitore degli Stati Uniti. Pechino tenta di affermare la propria egemonia sulla regione dell’Indo-Pacifico (fino a ieri denominata Asia-Pacifico, ovvero l’area di competenza del Comando militare Usa del Pacifico). Anche se per ammissione dello stesso leader cinese Xi Jinping la Repubblica Popolare è indietro di decenni rispetto agli Stati Uniti quanto a potenza militare, sta notevolmente rafforzandosi in tutte le dimensioni belliche, ed è particolarmente attiva nella cyberwarfare. Rispetto alla
Cina gli Stati Uniti stanno mettendo in atto una strategia di contenimento, simile a quella adottata a suo tempo contro l’Unione Sovietica, per evitare che il regime di Pechino si doti di una sua vasta area di influenza asiatica, espellendo di fatto Washington dalla regione. Quanto alla Russia, è percepita come una potenza ostile quanto problematica. Fondamentalmente ridotta dal modesto potenziale economico e dalla demografia declinante, ma sempre rilevante. Putin vuole ricostituire una sua sfera d’influenza eurasiatica, mentre cerca di affermare la sua «autorità di veto sulla sua periferia», destabilizzando la Nato e il sistema di partnership eurasiatiche allestito dagli Usa dopo la seconda guerra mondiale. Si segnala inoltre da parte della Russia «l’uso di tecnologie emergenti per screditare e sovvertire processi democratici in Georgia, Crimea e Ucraina orientale». Peggio: Mosca sta modernizzando il suo già considerevole apparato atomico. L’Europa è vista come un teatro importante di competizione, ma non quanto l’Indo-Pacifico. Vi si tratta soprattutto di preservare l’efficienza della
Nato e di incrementare l’impegno anche economico per la difesa dei paesi alleati e migliorare l’interoperabilità militare dell’Alleanza – ciò che si traduce in risparmio per le casse del Tesoro americano e in riduzione della sovraesposizione delle Forze armate Usa. Dal punto di vista di Washington non vanno comunque sottovalutati i «regimi canaglia», che sfruttano i loro progressi tecnologici allestendo armi di distruzione di massa e progredendo nel campo di alcune tecnologie specialmente letali, come quelle delle armi biologiche. I terroristi sono declassati a minaccia non strategica, anche se persistente. Non spetta al Pentagono stabilire una strategia geopolitica complessiva. Ma si intuisce da questo documento che la visione delle priorità coltivata dal Ministero della Difesa ambisce a ridisegnare la postura della superpotenza su scala globale. E a dare un senso di prevedibilità strategica e imprevedibilità operativa a un’amministrazione che tende a proiettare di sé un’immagine opposta: prevedibilità operativa e imprevedibilità strategica.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Politica e Economia
Tolleranza zero per i talebani
Afghanistan La nuova ondata di attentati è stata letta come una reazione alle pressioni Usa esercitate sul Pakistan
e alla nuova strategia americana sulla regione. Strategia che mira a coinvolgere nella questione afghana anche l’India Francesca Marino Quattro attacchi terroristici in dodici giorni, che hanno messo a ferro e fuoco l’Afghanistan e lasciato sul terreno un centinaio di morti e centinaia di feriti in prevalenza civili. Il bilancio degli ultimi quindici giorni a Kabul e dintorni è pesante, più pesante di quanto non si aspettassero tutti dopo l’annuncio di Capodanno di Donald Trump, che con un tweet prima e poi con un documento ufficiale sospendeva ogni tipo di aiuto militare al Pakistan accusando allo stesso tempo Islamabad di proteggere quegli stessi terroristi che si era impegnata a combattere. Nel corso degli anni è diventato un copione già scritto: ogni volta che gli Stati Uniti mettono il Pakistan alle strette, aumentano gli attacchi di militanti vari. Ai danni dei soldati della coalizione prima, ai danni dei militari afghani e, soprattutto, di civili negli ultimi tempi. La risposta di Washington però, questa volta, è stata un pochino diversa. Mentre Trump finiva il suo discorso sullo Stato dell’Unione, difatti, la Casa Bianca emanava un documento che serviva a chiarire in qualche modo le linee-guida della strategia di Trump sulla regione. Strategia enunciata in seguito in dettaglio, durante una conferenza stampa a Kabul, dal Sottosegretario di Stato John Sullivan. Sullivan ha dichiarato infatti: «Il presidente Trump chiarisce una volta per tutte che i nostri alleati non possono essere amici dell’America continuando a sostenere o a giustificare il terrore... la strategia per l’Asia del Sud del presidente Trump, basata sugli obiettivi, assicura ai comandanti tutta l’autorità e le risorse necessarie per negare ai terroristi rifugi sicuri sia in Afghanistan che in Pakistan». In pillole: da oggi in poi le truppe americane sono autorizzate a compiere azioni militari contro jihadi vari ovunque essi si trovino, in Afghanistan oppure in Pakistan. Fine della ricerca di una soluzione politica, quindi, e dei colloqui con i talebani, almeno a breve termine. E tolleranza zero verso gli abituali doppi e tripli giochi di Islamabad. Tutto questo succede mentre gli Stati Uniti hanno messo a punto una nuova Strategia di difesa nazionale (della quale Lucio Caracciolo riferisce a pagina 17) il cui principale obiettivo sarà la competizione fra grandi potenze e meno il terrorismo. D’altra parte, l’ondata di attacchi è stata letta in tutto il subcontinente allo stesso modo: una reazione alle pressioni esercitate sul Pakistan e alla nuova strategia americana sulla regione, strategia che mira a coinvolgere nella questione afghana anche l’India. Secondo l’ex-ambasciatore pakistano a Washington, Hussein Haqqani, l’attacco all’Hotel Intercontinental presentava «molte similitudini con l’attacco di Mumbai del 2008 e della Army Public School di Peshawar del 2014» riconducibili alla Lashkar-i-Toi-
Attacco kamikaze del 24 gennaio contro la sede dell’organizzazione non governativa di Save the Children a Jalalabad. (AFP)
ba: gruppo finanziato e addestrato dai servizi segreti pakistani. La Lashkari-Toiba veniva nominata anche dopo l’attacco all’Accademia militare di Kabul, questa volta dall’attaché culturale afghano a Washington, Majeed Qarar, che twittava testualmente: «Le lenti a infrarossi trovate ai talebani che hanno assalito la base ANA erano di tipo militare (non in vendita al pubblico) acquistate dall’esercito pakistano da una compagnia britannica e forniti alla Lashkar-i-Toiba in Kashmir e ai Talebani in Afghanistan. Lashkar-i-Toiba è un’organizzazione terroristica internazionale». Ai tweet seguiva, come sembra ormai consuetudine ai livelli alti della politica, l’azione. Una delegazione del governo di Kabul si recava difatti a Islamabad, per presentare a esponenti dell’intelligence e dell’esercito una lista di nomi di terroristi coinvolti. Terroristi che, secondo quanto dichiarato dopo essere stati catturati, sarebbero stati addestrati dalla Lashkar-i-Toiba e dall’Isi a Chaman, in Balochistan. Non solo: secondo il ministro degli Esteri afghano Wais Ahmad Barmak, i talebani stessi, nel rivendicare gli attacchi, hanno sostenuto di aver obbedito a ordini arrivati dal Pakistan. Kabul ha dichiarato inoltre di avere le prove di quanto afferma, e di essere pronta a presentarle al Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite se il Pakistan rifiuta di collaborare. Islamabad, come al solito, ha cercato di giocare al buon vecchio gioco delle tre carte: protestando a gran voce la propria innocenza ma inviando a Kabul una delegazione ufficiale, negando però che la delegazione fosse stata inviata per discutere questa situazione specifica. Mentre a Kabul si discuteva, i talebani compivano un altro attentato in Pakistan, mirato, secondo gli analisti, a confermare la narrativa di Islamabad: il Pakistan è vittima come e più di altri del terrorismo e non ha alcun controllo su jihadi e affini. Affermazione smentita però clamorosamente da un avvenimento in qualche modo accidentale: una folla di pashtun che protesta da giorni contro il governo di Islamabad, ha dato fuoco a un ufficio dei talebani nei pressi di Peshawar. Un ufficio dei «buoni» talebani amorosamente cullati dai servizi segreti. E la Lashkar-i-Toiba, imbaldanzita dall’impunità di fatto che gode nel Paese, ha pubblicato una mappa delle azioni terroristiche compiute in India nell’ultimo anno. A questo punto, Washington sembra intenzionata a fare sul serio, e in Parlamento (Camera e Senato) è stata presentata una proposta che metta fine anche ai finanziamenti e agli aiuti di tipo non-militare erogati dagli Stati
Uniti al Pakistan. Secondo la proposta, i soldi destinati a Islamabad che «fornisce aiuti militari e di intelligence» ai terroristi, dovrebbero essere ricollocati per costruire strade e ponti negli Stati Uniti. Una misura del genere sarebbe disastrosa per Islamabad, che dipende in larga parte dagli aiuti americani e del Fondo Monetario Internazionale. Ma forse non basterebbe nemmeno, da sola, a risolvere l’ormai complicatissima situazione afghana. Anni e anni di miopia politica ed errori strategici hanno creato un intrico di nodi ormai difficilissimi da sciogliere: il governo, l’ennesimo eletto con «democratiche» elezioni in qualche modo pilotate dall’Occidente, è in fase di stallo perché il presidente Ghani e il suo premier Abdullah si detestano. I talebani controllano di fatto quasi il settanta per cento del Paese e sono divisi in gruppetti e fazioni alquanto litigiose. Non solo: negli ultimi due anni è comparso anche lo Stato Islamico, sotto sigle locali, che però combattono, secondo gli analisti, non agli ordini del califfato ma dei servizi segreti pakistani che trovano utile servirsi di un altro strumento da adoperare in diversi modi: ai danni del governo, per sventolare alle truppe della coalizione lo spauracchio IS, per tenere a bada i talebani
recalcitranti a eseguire gli ordini. Il traffico di droga, la criminalità spicciola e la corruzione fioriscono creando a loro volta altri legami tra jihadi e criminalità ordinaria: forse molti lo hanno dimenticato, ma Osama bin Laden ha cominciato a finanziare le sue attività in grande facendo traffico di droga e di armi in compagnia del Don mafioso Dawood Ibrahim. A sua volta protetto, tanto per cambiare, dall’Isi pakistana. Il fatto è che il Pakistan, e questo gli Stati Uniti hanno rifiutato e ancora rifiutano di capirlo, ha interessi strategici che divergono completamente da quelli americani: la convergenza è stata solo momentanea, e limitata ai tempi dell’invasione russa dell’Afghanistan. Per Islamabad, è importante mantenere il controllo su Kabul: in nome della famosa profondità strategica, che è tra gli obiettivi dichiarati sia dell’Isi che della Lashkar-i-Toiba, e per evitare di ritrovarsi l’India su un secondo confine. L’Afghanistan può venire adoperato, e lo è stato, come luogo di transazione per infiltrare jihadi in India ma, soprattutto, non deve, come è successo negli ultimi anni, accogliere al suo interno investimenti e infrastrutture indiani: l’economia, come ben sa Islamabad, conquistata ormai dai cinesi, influenza la politica quanto e più delle armi. Annuncio pubblicitario
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Politica e Economia
L’America fabbrica più inflazione
Surriscaldamento economico Dietro le turbolenze dei mercati c’è il possibile ritorno di un fenomeno
che per una generazione di giovani appartiene al mondo dei genitori e dei nonni. Per svariate ragioni ma in parte concentrate negli Stati Uniti Federico Rampini La lunga e sorprendente luna di miele fra Donald Trump e la Borsa forse è giunta al termine. Non necessariamente per colpa di questo presidente. Il quale, però, ha avuto l’imprudenza di vantarsi per 12 mesi come se i rialzi dei mercati azionari fossero merito suo. Se la tendenza s’inverte, è normale che gliene chiedano ragione. Anche se forse i tempi erano maturi comunque per una «correzione». Di una nuova bolla speculativa c’erano segnali da mesi, o perfino da anni. Non esiste una scienza esatta per stabilire se le azioni in Borsa (o i prezzi dei bond, o quelli delle case) siano ragionevoli oppure gonfiati in modo anomalo. Però quando una Borsa polverizza record storici uno dietro l’alto, e «il cielo è il suo limite», di solito il pericolo è vicino. Paradossalmente l’America rischia uno shock perché... scoppia di salute. La crescita Usa è al suo ottavo anno consecutivo. Era buona sotto Obama, accelera da quando c’è Trump. Il mercato del lavoro si avvicina alla piena occupazione – che è un’ottima cosa – e finalmente salgono anche i salari più bassi – altra notizia eccellente. Tutto questo, unito alla «sincronizzazione globale» delle crescite (dalla Cina all’Europa) sta alimentando un ritorno d’inflazione. A questo va aggiunto l’effetto-Trump sulle finanze pubbliche. La riforma fiscale che questo presidente è riuscito a far passare poco prima di Natale conteneva un maxi-regalo alle imprese, la generosa riduzione delle tasse sui profitti. Anche quello ha contribuito alle ultime fiammate dei record di Borsa, in un clima euforizzante. A mente fredda però gli investitori cominciano a fare proiezioni sui conti pubblici. La cura trumpiana farà bene ai profitti delle imprese ma scava una voragine nel deficit federale. Per finanziarsi, di conseguenza, il Tesoro degli
Jerome Powell giura prima di insediarsi alla guida della Federal Reserve al posto di Janet Yellen. (AFP)
Stati Uniti dovrà alzare i suoi tassi. Anche la Federal Reserve deve comportarsi di conseguenza. Con l’inflazione che rialza la testa e il deficit pubblico che galoppa, il manuale di un banchiere centrale impone di raffreddare l’economia alzando i tassi. È questo lo scenario che si sta materializzando e che ha cambiato l’umore degli investitori, americani e globali. Il paradosso è evidente: le Borse cadono perché l’economia americana sta «troppo» bene, e finalmente anche gli operai ne raccolgono i benefici. Ma dietro questo eccesso di salute ci sono anche squilibri evidenti. Cominciamo dalla finanza perché è lì che si è verificato il «meltdown», tipo fusione nucleare, delle ultime giornate. Quando scopri che i tuoi vicini di casa – studenti universitari, ceto medio, non milionari – sono stati contagiati dalla febbre dei Bitcoin, gatta ci cova. Nelle fasi finali delle bolle speculative l’euforia travolge i più sprovveduti, e spesso i meno ab-
bienti. È una triste costante della storia americana che le diseguaglianze sociali sono state «curate» con artifici finanziari: vedi i mutui subprime sulle case dei poveri, la scintilla che scatenò l’ultima crisi nel 2007-2008. Un altro problema riguarda proprio la Trumponomics. Accelerare sul deficit-spending (spesa pubblica non finanziata da nuove entrate) è un’ottima idea quando l’economia è depressa. Obama lo fece nel 2009. Spingere sull’acceleratore quando l’economia già sta correndo di suo, aumenta il rischio della sbandata in curva. Volatilità è la parola chiave. Da quando il mondo uscì dalle due minicrisi cinesi (estate 2015, gennaio 2016), le Borse erano diventate stabilmente tranquille. Le spingeva verso l’alto una poderosa corrente ascensionale. Con rari strappi. Ora invece le fluttuazioni riportano alla luce quel fenomeno: «volatilità» è indice di un mercato dai nervi a fior di pelle.
Dietro c’è l’incertezza che avvinghia gli investitori riguardo al possibile ritorno di un fenomeno che per una generazione di giovani appartiene al mondo dei genitori e dei nonni. Siamo vissuti a lungo in una deflazione profonda, provocata tra l’altro dal cosiddetto «sconto cinese» che attraverso la competizione globale manteneva una pressione sui prezzi. Poi ovviamente abbiamo avuto una crisi lunghissima che dal 2008 in poi ha ucciso l’inflazione per scarsità di domanda. Oggi i fattori che possono farla rinascere sono molteplici, e in parte concentrati negli Stati Uniti. I lavoratori finalmente ritrovano un po’ di potere contrattuale in un mercato del lavoro che si sta avvicinando alla piena occupazione. L’inflazione salariale si era spenta addirittura negli anni Novanta, a causa della concorrenza cinese, per lo più: i prodotti fabbricati da lavoratori americani venivano sostituiti con made in China molto meno caro. Il che
introduce il secondo elemento: se avanza il protezionismo di Trump anche questo può contribuire ad alzare i prezzi. Terza incognita è il deficit pubblico: la riforma fiscale di Trump rischia di scavare un disavanzo che a sua volta contribuisce all’inflazione oltre che all’aumento dei tassi. Infine sta finendo la droga monetaria che manteneva artificialmente basso il costo del denaro. La Federal Reserve ha smesso di comprare bond sui mercati e comincia molto lentamente a ridurre quelli che ha; la Bce la seguirà, sia pure a distanza. La droga monetaria, circa 15’000 miliardi di bond acquistati da molte banche centrali del mondo, ha contribuito a costruire un’economia divaricata. Con due inflazioni totalmente divergenti. L’economia reale, cioè soprattutto il mondo del lavoro e del consumo, vive da molti anni in deflazione e il ristagno delle retribuzioni ne è la faccia più drammatica. L’America ne sta uscendo solo ora, ma senza esagerare (+2,9% l’aumento dei salari). Nella sfera della finanza è accaduto il contrario: una iper-inflazione nel valore di tutti gli attivi, azioni, bond, case. A questo hanno contribuito le banche centrali con la moneta facile e i tassi zero. Stipendi fermi e bolle speculative a gogò, sono stati la realtà divaricata almeno dal 2009 in poi. Ora che la droga monetaria sta per finire, il nervosismo è palpabile. Via via che aumentano i tassi direttivi della Fed, questo avrà effetti a cascata in molte direzioni. Svaluterà una montagna di vecchi bond dai rendimenti bassi. Frenerà la domanda di consumo, se questa era finanziata a debito. Potrà disincentivare l’acquisto di azioni. Ma nessuno sa esattamente quanto l’inflazione americana sia destinata a salire. In Europa, d’inflazione ancora non v’è traccia. L’incertezza rende possibili gli improvvisi sbandamenti nell’umore degli investitori: volatilità.
Vacanze sudcoreane
I Giochi della (dis)tensione Alla cerimonia di apertura di questa 23.ma edizione delle Olimpiadi invernali,
che si chiuderanno il 25 febbraio, le due Coree hanno sfilato sotto la stessa bandiera
Giulia Pompili L’apertura della Corea del nord al dialogo con il Sud – un’apertura arrivata all’ultimo momento, giusto in tempo per le Olimpiadi invernali che si stanno svolgendo a Pyeongchang, che si trova solo a un’ottantina di chilometri a sud del trentottesimo parallelo – ha riacceso il dibattito su una possibile riunificazione della penisola. Le due Coree hanno sfilato alla cerimonia d’apertura dei Giochi sotto la stessa bandiera, un fondo bianco e il profilo dell’intera Corea in blu, ma non tutti i coreani sono convinti che la strategia d’apertura fortemente sostenuta dal presidente sudcoreano Moon Jae-in porterà a un riavvicinamento sincero tra Seul e Pyongyang. Secondo il primo ministro giapponese Shinzo Abe l’arrivo della numerosa delegazione nordcoreana in Corea del Sud, con ufficiali di altissimo livello, rappresenta la volontà del leader Kim Jong-un di trasformare le Olimpiadi sudcoreane nelle Olimpiadi nordcoreane. Del resto, i Giochi sono una vetrina internazionale imperdibile per un Paese piegato dalle sanzioni economiche e dall’isolamento diplomatico. Ma anche tra i sudcoreani cresce l’insofferenza. Il primo gruppo di cittadini nordcoreani ad arrivare al Villaggio
olimpico è stato, già qualche settimana fa, quello della squadra femminile di hockey, scelta dal Comitato olimpico internazionale per creare la nazionale della Corea unita. Un simbolo più politico che sportivo. E infatti i tifosi sudcoreani non hanno preso bene la decisione di eliminare dalla squadra alcune atlete della Corea del sud per inserirne altrettante della Corea del nord durante ogni match. Il commissario tecnico della nazionale di Seul, Sarah Murray, quando ha saputo che in poche settimane avrebbe dovuto creare un team nuovo di zecca per gareggiare
Parata delle cheerleader nordcoreane al Villaggio olimpico. (AFP)
alle Olimpiadi, ha manifestato pubblicamente la sua preoccupazione. Alle proteste dei tifosi sudcoreani, che chiedevano di non confondere la politica internazionale con il duro lavoro delle sportive, aveva perfino risposto il primo ministro di Seul, Lee Nak-yeon, con una frase a dir poco infelice: «Non è il caso di lamentarsi, tanto nessuna delle due squadre aveva qualche possibilità di arrivare a medaglia». Poi si è dovuto scusare. Ma se la diplomazia è più importante dello sport, anche il ct Murray è dovuta tornare sui suoi passi, si è chiusa nel Villaggio olimpico con la dozzina di atlete arrivate dal nord, e ha scelto le migliori. Quelle per l’hockey non sono le sole manifestazioni di protesta avvenute in Corea del sud in questi giorni. Il 6 febbraio scorso un traghetto nordcoreano è attraccato al porto di Donghae, sulla costa est, in territorio sudcoreano. A bordo c’erano i 140 membri dell’orchestra invitata a partecipare agli eventi collaterali nel periodo delle Olimpiadi. Non succedeva da anni che una nave nordcoreana arrivasse al Sud, ed è stato possibile solo perché Seul, proprio per facilitare la presenza dei nordcoreani ai Giochi, ha momentaneamente sospeso alcune sanzioni. Sin dal 2010 esiste un divieto assoluto per tutte le navi del Nord di entrare nelle acque territoriali del Sud – divieto posto in essere da
Seul dopo l’affondamento da parte di Pyongyang della nave corvetta Cheonan, che uccise 46 marinai. Giorni fa, ad aspettare al porto la delegazione del nord, c’erano vari gruppi conservatori, che sventolavano bandiere sudcoreane e americane, qualcuno la bandiera nordcoreana con una croce nera sopra. Prima di avere l’autorizzazione a sbarcare, la delegazione ha dovuto attendere il mattino seguente, trascorrendo la notte sulla nave. Il problema non è solo sportivo, ma anche di reale e sincera apertura dei singoli nordcoreani con il resto del mondo. Nel Villaggio olimpico il gruppo di giornalisti del Nord che segue le varie delegazioni, per esempio, è vestito con gli abiti tradizionali nordcoreani e non rivolge la parola a nessuno. Così come le atlete dell’hockey, che secondo varie testimonianze sono «stupite e sorprese» dalla quantità di cibo che viene servito loro. Secondo i vari testimoni, ogni gruppo di atleti è seguito passo passo da un «manager», cioè un membro dell’Ufficio di sicurezza di Pyongyang, che controlla che nessuno faccia dichiarazioni alla stampa non programmate, ma soprattutto che nessuno abbia il coraggio di disertare. Per i coreani del sud, così come per il resto del mondo, questo atteggiamento risulta molto più simile a 1984 di George Orwell che alla vita
contemporanea, e rende praticamente impossibile una reale comunicazione e comprensione tra i due Paesi. È dal 1945 che le due Coree sono divise, ed è difficile anche solo immaginare un percorso inverso se non attraverso un lungo, faticoso processo di riavvicinamento in cui i nordcoreani sono la parte più a rischio. Dal 1988 in poi, l’anno in cui Seul ha ospitato per la prima volta le Olimpiadi estive, tutto è cambiato: la Corea del sud è diventata la quarta economia asiatica, è uno dei paesi più tecnologizzati al mondo, qui l’istruzione è ai massimi livelli, perfino la lingua si è evoluta. Molti anziani ricordano la Guerra di Corea del 19501953, hanno combattuto un conflitto sanguinoso e incomprensibile ai più, e capiscono l’importanza di una penisola unita. Ma i cosiddetti Millennial alla Corea del nord non ci pensano: è solo l’ennesimo ostacolo al successo del proprio Paese, i cui confini vanno dal trentottesimo parallelo in giù. Anche Kim Jong-un, nato a metà degli anni Ottanta e cresciuto per qualche tempo in Svizzera, non ha vissuto la guerra. Ma sa che l’unico modo per tenere in piedi un paese come la Corea del nord è chiuderlo a ogni influenza esterna. In questo senso le Olimpiadi invernali saranno una grande vetrina diplomatica, ma per i singoli nordcoreani niente più di una vacanza.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Politica e Economia
Tempo quasi scaduto Brexit Il 29 marzo 2019 il Paese uscirà definitivamente dalla Ue.
Seguirà un periodo di transizione che Bruxelles è disposta a concedere ma che va negoziato
Cristina Marconi Non saranno una grande eleganza, tutt’altro, ma bisogna prenderne atto: tutte le metafore usate per Theresa May, premier britannica sull’orlo del collasso, vanno nella direzione della fine, della morta che cammina, della morta che non cammina neppure, del cadavere che qualcuno deve avere il coraggio di spostare da Downing Street, della bara. In una parola, di qualcosa che è già finito e che aspetta solo di essere rimosso. Il tempo stringe, Bruxelles si fa impaziente, la linea d’azione sulla Brexit manca del tutto e con essa tutto il resto, in un Paese scontento, diviso e incerto. La May ha rinviato il momento, perché sa che una volta che prenderà una posizione sul futuro del Paese diventerà apertamente attaccabile, soprattutto da parte di quei Brexiters che, seppur minoranza in parlamento, hanno dalla loro parte il risultato del voto del 23 giugno del 2016 a favore dell’uscita dalla Ue. Ma ormai è chiaro che la «pax mayana», ossia quello stato semi-ipnotico in cui il Paese sta tergiversando come uno scolaretto che non ha voglia di fare i compiti, sta per finire. Quando succederà è tutto da vedere, ma ci sono delle scadenze: il 29 marzo del 2019 il Paese uscirà dalla Ue e se non vuole precipitare nell’abisso senza rete ha bisogno di un periodo di transizione che Bruxelles è disposta a concedere ma che va negoziato. Come tutto il resto.
Continuano ad uscire analisi che dimostrano quanto l’impatto della Brexit sarebbe dannoso per l’economia «Darei qualunque cosa per un rattoppo in stile Cameron», spiega nostalgica una fonte di Westminster, sconsolata come tutti davanti all’attuale stile di governo che non è né inclusivo né ha i vantaggi dell’efficacia. La May ascolta solo i suoi e timorosa del dissenso impone decisioni dall’alto, tanto che dopo il disastroso risultato elettorale del giugno scorso al partito bastò che fossero cacciati i suoi due collaboratori più stretti, gli odiatissimi Fiona Hill e Nick Timothy, perché il partito trovasse almeno un po’ di pace. Pace che ora non c’è più: due deputate coraggiose, l’indomita Anna Soubry e l’altra proUe Justine Greening, hanno fatto presente che in un partito guidato da un estremista pro-Brexit non sono pronte a rimanere. «A nessuno piace vedere un partito spaccato, ma ahimè con questo Labour inutile tocca ai Tories di buonsenso fare opposizione e mettere alcuni membri del governo davanti alle loro
responsabilità», ci aveva spiegato la Soubry nei giorni scorsi, sottolineando come, con la visione di una hard Brexit bocciata dall’elettorato, «dobbiamo riportare tutte le opzioni sul tavolo e dimenticare gli approcci ideologici, tanto più che la Ue non ha escluso nessuna opzione dal tavolo». Il problema è che i Brexiters sanno di dover passare all’attacco e di avere poco tempo per farlo. La May ha cercato di corteggiarli dicendo che dal 2019, durante il periodo di transizione, le regole per i cittadini europei che arrivano nel paese cambieranno, senza considerare che la Ue ha offerto la possibilità di estendere lo status quo europeo fino al 31 dicembre 2020 a condizione che tutte le regole europee continuino ad essere applicate. Una soluzione di cui il mondo industriale e imprenditoriale del paese ha disperato bisogno ma che la May continua a mettere a repentaglio con uscite di questo tipo, fatte per convincere l’elettorato di essere molto determinata. E a riprova che le interessano i proclami più che la soluzione del problema dell’immigrazione europea, ci sarebbero degli strumenti perfettamente leciti da un punto di vista di diritto Ue che potrebbe applicare (e che avrebbe potuto tranquillamente applicare in passato) ma che dimostrano come, a distanza di due anni dalla campagna referendaria, la questione rimanga più simbolica che pratica: Bruxelles permette, ha sempre permesso, di registrare gli immigrati europei, di chiedere che abbiano un reddito minimo o che siano in grado di mantenersi, e di rimandare indietro chi non risponde a questi requisiti. Misure, volendo, molto più dure di quelle che si potrebbero ottenere negoziando, ma che il Regno Unito ha deciso di ignorare, almeno fino ad ora. C’era un tempo in cui Boris Johnson, il ministro degli Esteri, sembrava la vera spina nel fianco di Theresa May, l’uomo dal carisma irresistibile e dalla parlantina sciolta in grado di dare alla vita fuori dall’Unione europea quello scintillio positivo che per ora non si vede. Eppure anche Boris se la deve vedere con un rivale di peso, con cui si è alleato per mettere i bastoni tra le ruote alla May: Jacob Rees-Mogg, deputato che la stampa solitamente descrive come «vittoriano» o «edoardiano», antiquato nello stile – ha studiato a Eton, lavora in finanza come suo padre – e nella visione sui temi sociali. Un personaggio che fino a poco tempo fa era parte del cabinet of curiosities di casa Tory ma che ha iniziato ad avere una grande popolarità da qualche mese a questa parte proprio per il suo essere arcibritannico, elitista, quasi un relitto di un’epoca di gloria imperiale la cui perdita continua a pesare sulla psiche nazionale. Lo ha detto anche l’ambasciatore tedesco Peter Ammon che molti Brexiters «si definiscono per quello che i loro
Prodi-Grillo: profeti, oracoli, santoni I paraguru L’uno per l’unità del centrosinistra,
l’altro dopo il ritiro dalle scene
padri hanno fatto durante la guerra» e che questo dà loro un «grande orgoglio personale», costantemente rinfocolato da film e serie televisive che, da Darkest Hour a Dunkirk a The Crown, ribadiscono sempre lo stesso concetto. Per Ammon tutto questo è un male per il realismo e ha alimentato la Brexit, ma sono le tendenze che Jacob Rees-Mogg incarna bene e che offrono una narrativa rassicurante in tempo di crisi. Ma mentre il fronte pro-Brexit si arma, l’onda pro-remain guadagna forza anch’essa. L’idea di un secondo referendum, ad esempio, inizia a circolare in maniera molto meno astratta che in passato, anche se tutti, dalle grandi capitali europee Bruxelles inclusa, fanno presente come rintanarsi in un’opzione altamente ipotetica e rischiosa, oltre che remota, faccia inevitabilmente ritardare i problemi molto concreti che ci sono sul tavolo adesso. Il primo dei quali è la relazione futura tra il Regno Unito e l’Unione europea, che continua ad oscillare tra il modello «Canada», ossia libero scambio commerciale con qualche beneficio in più, e quello «Norvegia», ossia partecipazione al mercato unico a condizione però che venga mantenuta anche la libera circolazione dei lavoratori. Quest’ultima soluzione è quella che vorrebbero tutti i pragmatici che, come il cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond, sperano che in futuro cambi il meno possibile. Politicamente è uno scenario difficile da vendere perché, guardandolo da vicino, si capisce che ha tutti gli svantaggi della membership senza i vantaggi di poter votare le regole alle quali si è comunque tenuti ad attenersi. E poi non dà quel senso di cambiamento drastico che gli elettori hanno chiesto. Intanto continuano ad affiorare studi e analisi che dimostrano quanto l’impatto della Brexit sarebbe dannoso per tutti i settori dell’economia, con perdite che neppure un trattato commerciale generoso con gli Stati Uniti riuscirebbe a compensare. Le previsioni sul futuro sono screditate da quando la fazione europeista durante la campagna ne ha fatto un uso smodato, senza che poi si rivelassero vere. La realtà è che i preparativi per questa Brexit si stanno dimostrando un esercizio logorante e sterile, in grado di stroncare qualunque carriera politica in due partiti, Labour e Tories, profondamente spaccati in materia. Theresa May si è offerta di farsi carico del compito ingrato, che ha affrontato usando tutti gli strumenti a sua disposizione tranne uno: la franchezza. Ha parlato al futuro fino a quando ha potuto e ora che la costringono a dire qualcosa di più concreto non ha più voce. Una situazione insostenibile, che potrebbe finire domani o durare per anni, fino a quando l’opinione pubblica non si innamorerà di un’alternativa per uscire dallo stallo.
Il premier britannico Theresa May. (AFP)
Alfio Caruso Romano Prodi (in alto a sinistra) coltiva le proprie antipatie in silenzio, le rumina, le assapora per poi esporle come risultato di una logica consequenzialità. Beppe Grillo (in alto a destra), invece, le erutta fra lapilli dileggianti e cenere abrasiva. Appartengono a faune diverse, non si capiscono, non si stimano, mai muoverebbero un passo verso l’altro. L’uno è convinto d’incarnare la possibilità di un’Italia diversa e migliore; l’altro si accontenta di sognare l’Italia che mai ci sarà. Eppure alla fine del secolo scorso, prima di virare i propri spettacoli sul versante economico, Grillo andò a casa di Prodi per farsi spiegare tematiche e orientamenti in materia. Ma nel 2006, dopo aver incontrato Prodi presidente del consiglio per consegnargli le richieste del nascente Movimento su energia, salute, informazione e l’immancabile economia, Grillo scrisse di aver trovato Prodi in stato catatonico, di aver chiesto se stesse dormendo e gli fu risposto che stava riflettendo. Forse, per dargli una scossa, al momento del congedo gli dette una raccomandata: conteneva la lettera di licenziamento nel caso Prodi non avesse tenuto nella giusta considerazione le richieste della base pentastellata. Prodi all’apparenza ha incassato senza replicare. Tuttavia l’anno scorso, nello spiegare che una legge elettorale anti Grillo avrebbe soltanto fatto il suo gioco, il dotto «mortadella» – per un emiliano è un complimento – ha affermato che il M5S non aveva alcun programma e che il suo unico scopo fosse quello di demolire, senz’alcuna preoccupazione di quanto sarebbe accaduto in seguito. Per le elezioni del 4 marzo hanno entrambi scelto il ruolo di santone, di profeta, di oracolo, che nella nostra disincantata realtà rischia, però, di trasformarsi in quello di paraguru. Prodi spinge per un centrosinistra allargato e così ha avuto la possibilità di regolare i conti con D’Alema, cui non perdona di averlo spodestato da Palazzo Chigi nel 1998 con una congiuretta da palazzo e di aver guidato i 101 «traditori» del Pd, che nel segreto dell’urna boicottarono la sua candidatura alla presidenza della Repubblica nel 2013. Prodi ovviamente non ha creduto alle professioni di amicizia del gelido nemico, anzi gli ha rivolto la peggiore delle accuse, che si può rivolgere al un ex comunista togliattiano: frazionista, cioè colui che cospira per spezzare l’unità della sinistra. Né più né meno il ruolo che rivestono gli aderenti a Liberi e Uguali, ai quali non importa vincere, bensì far schiattare Renzi, non a caso lodato da Prodi. Grillo ha scelto un singolare ritiro dalle scene. Ha staccato il proprio blog da quello ufficiale dei 5 stelle, finora non ha speso una sola parola in sostegno della loro campagna elettorale, a parte una pleonastica dichiarazione di
vicinanza, ha fatto trapelare la propria insofferenza nei confronti di Davide Casaleggio, il figlio di Gianroberto, e sotto sotto anche nei confronti di Di Maio, il patricida. Per un quindicennio Grillo è stato un moderato, che si è divertito con l’anarchia. Ha dato voce ai mille malumori del Paese; ne ha interpretato il rancore e la voglia di ritorsione; ha invocato l’irruzione dei dilettanti allo sbaraglio nella politica, che è la più elitaria delle professioni; ha guidato una protesta che coltivava il sogno impossibile di cambiare il Paese senza doverlo governare. Grillo temeva, infatti, che all’esame della quotidianità i suoi osannanti accoliti avrebbero pagato tutti i prezzi possibili all’inesperienza e all’impreparazione come sta avvenendo a Roma, a Torino, a Livorno e non avviene a Parma per la svolta pragmatica del sindaco Pizzarotti. Ma Grillo non aveva fatto i conti con la ribollente ambizione di Casaleggio jr, capace d’impossessarsi del Movimento, di controllarlo attraverso la piattaforma Rousseau e di avere nel velleitario Di Maio un perfetto ventriloquo. L’arrivederci o addio di Grillo non sembra avere angustiato più di tanto i vecchi compagni di viaggio. Anzi, danno la sensazione di essersi liberati di un peso. In vista del prevedibile stallo post elettorale, nessuna coalizione è accreditata della maggioranza dei seggi, il nome di Prodi ricorre quale leader di un «governo del Presidente», nel senso di Mattarella, per affrontare l’ordinaria amministrazione. Un’ipotesi rinforzata dallo scenario di fantapolitica venuto a galla nei giorni scorsi: esser Prodi la carta segreta del M5S, che lo indicherebbe per sparigliare tutti i giochi, soprattutto a sinistra. D’altronde, il quasi ottantenne professore era risultato secondo, dietro l’ex magistrato Imposimato, nelle «quirinarie» del 2013 lanciate da Grillo per stabilire il candidato alla carica presidenziale. L’alternativa sarebbe rappresentata dai nemici di Renzi, pronti a invocare Prodi quale traghettatore di un Pd da rifondare: tuttavia, anche se il pifferaio non più magico andasse sotto il 25%, appare assai difficile scalzarlo nel breve termine. E l’età di Prodi incalza. Grillo ha avviato la sua nuova tournée teatrale senza il tutto esaurito delle stagioni felici e senza l’ossequio degli appartenenti al M5S, una volta decisi a uccidere pur di apparire al suo fianco. Lo descrivono a un passo dalla plateale scomunica nei confronti di Casaleggio jr e Di Maio, cui seguirebbe la creazione di un altro movimento da affidare a Di Battista, che ha rifiutato la candidatura, occupa le retrovie e non sfida più il congiuntivo. Sarebbe il rinnegamento più clamoroso in un’esistenza già segnata da diversi abbandoni, mai però così lacerante. A meno che Grillo non lo valuti il modo migliore per uscir fuori da un involucro, che ormai gli andava stretto.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Politica e Economia
Paese che vai, prodotto che trovi Canone radiotelevisivo «Pomo della discordia» per gli uni, garanzia di qualità per gli altri
Edoardo Beretta Da sempre, il dibattito sull’utilità del canone televisivo e radiofonico fornisce argomenti antitetici fra sostenitori e detrattori. Se i primi tendono a supportare l’importanza di un tributo specifico per il finanziamento dell’offerta radiofonico-televisiva (in forza di alti livelli qualitativi ed altrettanta utilità pubblica), i secondi ne contestano perlopiù l’entità (che in taluni paesi non è indifferente) e talvolta anche la sua stessa opportunità a fronte della possibilità alternativa di finanziare il settore tramite la diversione di una parte del gettito fiscale derivante da altre imposte. Per i cittadini svizzeri, che saranno chiamati alle urne il 4 marzo 2018 per esprimersi sull’abolizione dello stesso, è evidente che l’argomento sia particolarmente attuale, ma ciò non ne diminuisce la complessità di trattazione. Da un punto di vista meramente teorico, molti testi microeconomici definiscono l’offerta televisiva via cavo a pagamento quale «bene artificialmente scarso», ossia prodotto «escludibile», e nello stesso tempo «non rivale nel consumo» (per esempio una trasmissione televisiva è evidentemente consumabile da più persone in contemporanea). Più semplicemente, il canone aggiunge una caratteristica (artificiale) di scarsità ad un bene, che in realtà per le sue proprietà intrinseche non la possiederebbe. Per fornire ai lettori interessati informazioni ‒ ed,
eventualmente, spunto di riflessione ‒ è stata di seguito approntata una tabella illustrativa ad hoc. In realtà, forse, non è tanto il fatto che il consumatore debba pagare una determinata somma a fronte di un bene (soltanto) «artificialmente» scarso quanto piuttosto l’entità stessa del contributo. Infatti, il fattore polarizzante all’interno del dibattito riguarda il «peso ponderale» del canone radiofonico-televisivo. Se un paragone infraeuropeo non può rappresentare l’unico strumento di analisi (o, persino, l’unica «cartina di tornasole»), è tuttavia evidente che, confrontando l’offerta in termini di canali radiofonici e televisivi con il prezzo del canone stesso, si palesino squilibri di grande entità: è il caso di tutte quelle Nazioni, la cui offerta sia assai relativamente «povera» per numero di canali TV e radio (o sia integrata strutturalmente con quella estera) a fronte di una contribuzione particolarmente elevata. A tali dati si deve poi aggiungere il fatto che ‒ prendendo, ad esempio, il caso della vicina Italia ‒ il pagamento del canone di 90 Euro liberi il pagatore per tutto l’arco dell’anno, garantendogli l’uso dell’offerta senza corrispondere ulteriori canoni di abbonamento: trattasi in un certo senso di una soluzione turn-key, cioè di un’offerta «chiavi in mano». In altri Paesi (quali la stessa Svizzera, ma non solo) il versamento del canone televisivo non libera dalla necessità di stipulare un contratto per la ricezione via cavo (così come
quest’ultimo in caso di utilizzo non esclude dal pagamento del canone stesso): in altri termini, la cifra annuale da pagarsi è ben più elevata di quella indicata nella tabella. Riassumendo, le differenze europee non stanno soltanto nel prezzo, ma anche nella quantità dell’offerta. A inasprire il dibattito anche in altri Paesi (quali, a mero titolo esemplificativo, la Germania) contribuiscono da anni le innumerevoli segnalazioni di metodi «poco ortodossi» utilizzati dalle società preposte per la verifica dell’effettivo pagamento del canone radiofonico-televisivo. «Riportando la palla al centro», non è necessariamente l’abolizione del canone a dover essere l’argomento cruciale ‒ i fruitori beneficiano pur sempre di un servizio liberamente scelto ‒, bensì lo dovrebbe essere forse la (significativa quanto apprezzabile) riduzione dello stesso, legandone magari l’ammontare al numero di canali radio e TV liberamente ricevibili oppure «condensandone» il dovuto in un’unica voce (cioè includendo la diretta ricevibilità dell’offerta come nel caso italiano). Difficile da acclarare è, comunque, se l’abolizione del canone comporterebbe ‒ come talvolta paventato ‒ un notevole ridimensionamento occupazionale del settore. Preso però atto che l’importanza e la strategicità di quest’ultimo derivino da capillarità di diffusione e pluralità di informazione, un ridimensionamento (anche importante) del canone stesso non metterebbe certo in discus-
Canone pro Offerta economia domestica comprensiva ed anno (a tassi di TV di cambio del 1.4.2017 1)
Svizzera 417,55 € TV e radio 115 Danimarca 335,01 € TV 26 Norvegia 310,54 € TV 360 Austria 298,56 € TV e radio 10 Svezia 244,44 € TV 169 Germania 210,00 € TV e radio 373 Regno Unito 173,65 € TV 228 Irlanda 160,00 € TV 4 Slovenia 153,00 € TV e radio 31 Francia 138,00 € TV 584 Italia 90,00 € TV 358 Repubblica Ceca 80,60 € TV e radio 150
Numero2 di canali radio
4 (AM); 113 (FM) + molte stazioni a bassa potenza; 2 (SW) 2 (AM); 355 (FM); 0 (SW) 5 (AM); almeno 650 (FM); 1 (SW) 2 (AM); 65 (FM) + centinaia di ripetitori; 1 (SW) 1 (AM); 265 (FM); 1 (SW) 51 (AM); 787 (FM); 4 (SW) 219 ( AM); 431 (FM); 3 (SW) 9 (AM); 106 (FM); 0 (SW) 10 (AM); 230 (FM); 0 (SW) 41 (AM); ≈3.500 (FM) incl. Molti ripetitori; 2 (SW) ≈100 (AM); ≈4.600 (FM); 9 (SW) 31 (AM); 304 (FM); 17 (SW)
Note: 1. Elaborazione propria sulla base di: http://www.ard.de/download/1254622/index.pdf. 2. Numero di canali televisivi e radiofonici europei: http://www.nationmaster.com/countryinfo/stats/Media/Television-broadcast-stations e http://www.nationmaster.com/countryinfo/stats/Media/Radio-broadcast-stations. Tali dati sono da leggere, tenendo conto del fatto che 1) pertengano ad anni diversi (a seconda dell’ultima rilevazione disponibile) e 2) la raccolta di essi non sia sempre semplice.
sione tali valori: infatti, il problema è la sola entità economica dello stesso. Perché ‒ lo insegna il funzionamen-
to del mercato ‒ il prezzo di un bene è determinato dalle sue caratteristiche qualitative così come quantitative. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Politica e Economia
Imposizione fiscale delle imprese, pronta la riforma governativa PF 17 Dopo la bocciatura della precedente riforma alle urne un anno fa, il ministro delle finanze
vuole concludere in fretta il dibattito alle Camere ed evitare un nuovo referendum: ne va della concorrenza fiscale internazionale della Svizzera
Ignazio Bonoli Sarà stato Donald Trump a Davos o l’atmosfera che si respirava al WEF di quest’anno a sollecitarlo, sta di fatto che il ministro svizzero delle finanze ha creduto opportuno di gettare il classico sasso nello stagno della politica fiscale elvetica. In sostanza, Maurer ha detto che il nuovo progetto di riforma della tassazione delle imprese (PF 17) deve passare velocemente attraverso le maglie del Parlamento – possibilmente con un accordo di massima che permetta di superare lo scoglio del referendum – se non vogliamo che la Svizzera perda ulteriori colpi sul piano della concorrenza fiscale internazionale. In effetti, a Davos si è avuta la conferma del fatto che la politica «America First» di Trump passi anche attraverso una sensibile riduzione dell’onere fiscale per le imprese. «Non è mai stato così favorevole come oggi venire a fondare aziende negli Stati Uniti» ha precisato il presidente americano davanti a una platea di politici mai così numerosa e attenta quanto quella del WEF 2017. Trump ha potuto in concreto confermare che l’aliquota sugli utili delle aziende è stata ridotta dal 35 al 21%, il che potrebbe spingere qualche grande colosso americano a portare la maggior parte delle proprie attività negli Stati Uniti.
Ovviamente anche altri paesi stanno muovendo passi nella stessa direzione. Proprio a Davos, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Macron hanno parlato di un accordo volto a concordare le rispettive pressioni fiscali sulle aziende, riportandole a livelli concorrenziali con quelle di altri paesi. Fra questi vanno citati la Gran Bretagna, che ha ridotto la pressione dal 19 al 17%, l’Olanda, l’Irlanda o i paesi baltici, che stanno già operando nella stessa direzione. Così anche Ueli Maurer non ha trovato difficoltà nel far approvare al Consiglio federale, a fine gennaio, il nuovo progetto di riforma fiscale delle imprese, ribattezzato Progetto fiscale 17 (PF 17). Il testo tiene conto in parte delle critiche espresse nei confronti del precedente, caduto in votazione popolare esattamente un anno fa. Delle proposte avanzate nella fase di consultazione si è tenuto conto, in pratica, soltanto delle richieste dei cantoni di avere una partecipazione maggiore al gettito dell’imposta federale diretta. Nel nuovo progetto, la quota di questa imposta riservata ai cantoni verrà aumentata dal 20,5%, contenuto nella proposta respinta, al 21,2% della proposta del nuovo progetto. La preoccupazione maggiore del Consiglio federale è comunque rima-
Ueli Maurer, (qui con il direttore dell’Amministrazione federale delle contribuzioni Adrian Hug): obiettivo della riforma è ridurre gli oneri per le aziende. (Keystone)
sta quella di garantire l’equilibrio della riforma. Per cui uno degli ostacoli maggiori alla riforma potrebbe essere superato. Non così però per quanto riguarda la sinistra, per la quale un aumento di 30 franchi degli assegni per i figli potrebbe non bastare, mentre incontrerà sicuramente l’opposizione degli ambienti dell’economia. Così come poco gradito alle impre-
se potrebbe apparire l’aumento al 70% al minimo della tassazione dei dividendi da partecipazioni importanti, anche se questa tassazione parziale potrebbe essere accoppiata a una generale riduzione delle aliquote sugli utili aziendali. Più ostica per le aziende potrebbe però apparire la totale soppressione della possibile deduzione degli interessi calcolatori sul capitale proprio, che
comunque non soddisfa la sinistra, che vuole una tassazione maggiore degli utili aziendali (quindi meno deduzioni) e un aumento degli assegni per i figli. Proprio quest’ultimo punto porta la discussione anche sul piano dell’opportunità, della competenza e della compatibilità con una riforma fiscale. Già in Parlamento vi saranno pareri contrastanti, poiché alcuni cantoni conoscono già assegni più alti, mentre altri non vorrebbero caricare altri oneri alle aziende, con un progetto che è perfino in contrasto con lo scopo della riforma, che è quello di ridurre gli oneri per le aziende. Questo rimane l’obiettivo principale della riforma, la cui importanza aumenta col crescere della concorrenza fiscale internazionale. Per questo Maurer insiste nel dire che il PF 17 è sempre più urgente e anticipa i tempi della discussione: in marzo il messaggio giungerà in Parlamento, il quale dovrà decidere durante l’autunno, possibilmente senza modifiche importanti rispetto al testo del Consiglio federale e tali da non suscitare un nuovo referendum. Quest’ultimo – precisa poi Maurer – con il conseguente rinvio della prevista entrata in vigore nel 2020 (e alcune parti già nel 2019) danneggerebbe notevolmente la Svizzera quale luogo concorrenziale per l’imprenditoria. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Un 2018 coi fiocchi? In queste prime settimane dell’anno l’economia svizzera tira. Gli indicatori congiunturali (risultati di inchieste tra le imprese, indici del consumo, risultati per il 2017 e prospettive per le aziende) sono tutti molto positivi. Sembra che, finalmente, la nostra economia abbia superato l’inflessione prodotta dal ritorno al cambio flessibile con l’euro, introdotta tre anni fa, a metà gennaio, dalla BNS. Questo andamento positivo è determinato sia da fattori interni come i consumi e gli investimenti, sia da fattori esterni come le esportazioni. Unico neo nel panorama congiunturale a livello nazionale è dato dal settore dell’edilizia che, da qualche semestre, si trova in regime di sovrapproduzione perché la domanda, specie per le superfici destinate a uffici, langue. Aggiungiamo ancora, non per fare i bastian contrari, ma per dare alla
ripresa in atto una valutazione più comprensiva, che, a livello europeo, la prestazione dell’economia svizzera, anche quest’anno, sarà, per quel che riguarda il tasso di crescita, tra le peggiori. Questo se, come la maggioranza degli istituti di previsione si attende, la crescita del prodotto interno lordo non dovesse superare il 2%. Qualche istituto azzarda però, già nelle revisioni più recenti delle sue previsioni per il 2018, un tasso di crescita pari al 2,4, o addirittura, al 2,5% che, però, non farebbe che avvicinarci al plotone mediano delle nazioni europee. Tutto questo per sottolineare che la portata della prestazione dell’economia svizzera in materia di crescita sarà eccezionale, nel 2018, solo se confrontata con il risultato degli anni immediatamente precedenti. Non lo sarà invece se comparata con i tassi di crescita che
raggiungeranno le economie degli Stati Uniti e numerose altre economie dell’Unione europea. E il Ticino? Le poche notizie che sono reperibili in questo momento lasciano intendere che anche per l’economia ticinese il 2018 dovrebbe essere positivo. Da noi, però, non saranno tanto i fattori interni, quanto l’esportazione, in particolare quella consentita dall’attività turistica, a determinare il buon risultato. Tutti si aspettano che i traguardi conseguiti durante il 2017 vengano ripetuti, se non, addirittura, migliorati. Questo significherebbe, per esempio per il turismo, poter mantenere un tasso di aumento dei pernottamenti superiore al 10%, ossia ottenere che il numero dei pernottamenti in albergo aumenti di 300’000 unità. Che per il settore turistico vengano prospettati obiettivi di crescita importanti è comprensibile,
che riesca a raggiungerli anche nel 2018 è invece un altro paio di maniche. Osserviamo però che anche se il tasso di crescita dei pernottamenti dovesse ridursi della metà – dal 12 al 6% – il 2018 continuerebbe ad essere un anno estremamente positivo per il turismo ticinese. L’altro motore dell’esportazione regionale sarà rappresentato dalle aziende del settore manifatturiero che, dopo aver lavorato in apnea questi ultimi tre anni, sembrano aver ricostruito posizioni concorrenziali interessanti sia per il mercato nazionale, sia per i mercati internazionali. Nonostante le dichiarazioni molto positive dei rappresentanti delle associazioni padronali del settore industriale e artigianale resta però da vedere in che misura la fiducia dei singoli imprenditori nelle possibilità di sviluppo a medio termine sia
effettivamente ritornata. I primi dati trimestrali della statistica dei frontalieri ci aiuteranno a trovare la risposta a questa domanda. Se il contingente dovesse aumentare, come è stato il caso nel 2017, potrebbe significare che le aspettative di ripresa degli imprenditori non siano ancora consolidate. Dovesse invece l’occupazione, per una volta, ristagnare senza che la disoccupazione aumenti, potremmo inferire che la produttività del lavoro, grazie agli investimenti delle aziende, abbia ricominciato ad aumentare e che quindi gli imprenditori nostrani siano tornati ad avere fiducia nel futuro. Come si vede, in un quadro che, ad inizio anno, appare estremamente positivo, continuano ad esistere dubbi sulla continuità della ripresa congiunturale. Gli stessi verranno di sicuro chiariti: al più tardi, entro la fine dell’anno.
concetti, è difficile trovare parole che non vengano strumentalizzate. È evidente che il problema c’è. Gli italiani sono esasperati. La rotta del Mediterraneo va chiusa, gli scafisti vanno fermati. Ma è altrettanto evidente che il ricorso alla violenza va condannato nel modo più assoluto. Troppo alto è il rischio di emulazione. Che a sua volta genera il rischio di una risposta. L’Italia entrerebbe in una spirale terribile. Personalmente sono rimasto turbato nel vedere la bandiera sulle spalle di Traini (foto). Dovrebbe essere un reato: appropriazione indebita di tricolore. Perché è ripugnante vedere il vessillo che rappresenta un popolo addosso a un aspirante stragista. Lo ripeto, però: il rischio che Luca Traini trovi emulatori esiste. Non c’è soltanto il tifo della rete, prevedibile eppure inquietante. Ci sono altre menti fragili che da quel gesto, e da quell’uso del tricolore, possono essere suggestionate. Per questo è importante ribadire che nessun simbolo condi-
viso, neppure la bandiera, può alleggerire anche solo di un soffio la gravità di quel che Luca Traini ha commesso. Sparare a innocenti è di per sé odioso; farlo con il tricolore e in suo nome lo è se possibile ancora di più. Non so come sia la situazione in Svizzera: ogni volta che ci vengo, ho l’impressione di un Paese dal patriottismo antico e consolidato, spesso allargato anche agli immigrati dall’estero. In Italia la condivisione dei valori e dei simboli della patria non è né scontata né recente. Ci fu un tempo in cui il tricolore era visto come un segno di parte. La sinistra considerava il patriottismo un retaggio della reazione. La Lega ha invitato a fare del tricolore un uso improprio. Poi qualcosa è accaduto. Il lavoro politico e culturale di Carlo Azeglio Ciampi. La riscoperta dell’inno di Mameli. Il successo dei 150 anni dell’unità d’Italia. La tessitura contestata ma tenace di un filo che va dal Risorgimento alla Costituzione, attraverso la Grande
Guerra e la Resistenza. Il risveglio di un sentimento che non andava creato, ma ritrovato: perché gli italiani sono più legati all’Italia di quanto pensino. Il tricolore addosso a un assassino suscita repulsione, ma in ambienti esasperati e suggestionabili può anche suscitare condivisione. È un pericolo che si supera da una parte ripristinando la legalità, fermando i trafficanti di esseri umani e di droga; dall’altra combattendo il razzismo nelle scuole, in famiglia, sui media, in rete, nei tanti luoghi in cui si costruiscono ogni giorno l’idea e la consapevolezza di essere italiani. Purtroppo il clima della campagna elettorale non aiuta. Paradossalmente sia la gaffe sulla «difesa della razza bianca» del candidato leghista alla Regione Lombardia Attilio Fontana, sia l’orrendo episodio di Macerata sembrano aver rafforzato nei sondaggi il centrodestra. Il vento spira chiaramente in quella direzione. E a volte offusca la ragione.
ricerca ha attivato anche il numero fatto la sera prima e... lo sparo per la mia corsa mattutina. Mi sono anche chiesto: sarà un segnale delle difficoltà che sta incontrando avendo perso ciò che la tecnologia gli garantiva? Le ricerche sull’uso degli smartphone sinora hanno preso in considerazione quasi esclusivamente i «millennials», cercando di appurare o misurare la loro ormai accerta perdita di concentrazione, gli effetti negativi su educazione, memoria, relazioni... Solo ultimamente la lente si è spostata su conseguenze più critiche, toccando altri effetti, come ad esempio la salute mentale. A inizio anno ha suscitato emozione e aspri commenti un lungo articolo sulla rivista «Atlantic», in cui una ricercatrice dell’Università di San Diego dà la colpa alla tecnologia per l’aumento di casi di depressione e di suicidi fra gli adolescenti. Davanti a simili angosciose problematiche è comprensibile ed anche giusto che ricercatori e scienziati sinora
non abbiano pensato di estendere le loro analisi anche a eventuali effetti sugli anziani. Ma seppur banale, la vicenda del mio amico in Madagascar si presta a qualche osservazione. Ad esempio aiuterebbe a far luce sul divario esistenziale fra la nostra società dei multimedia, che beneficia di un’informazione a 360 gradi e pressoché istantanea, e quella delle popolazioni che solitamente ospitano i turisti, soprattutto quelli che «svernano» in Paesi situati nella fascia dei Tropici in cui le moderne tecnologie ancora non hanno mutato abitudini e regole di vita delle popolazioni. Oppure potrebbe indicare i potenziali pericoli che, anche se non come i giovani, gli ultra settantenni devono affrontare se subiscono una forzata privazione dalle nuove tecnologie. Conclusione: mi sa che diventerà interessante interrogare l’amico sui mesi di (forzata) astinenza dagli smartphone quando, lasciato il mare di Nosy Be e il prepagato malgascio, rientrerà in Ticino.
In&outlet di Aldo Cazzullo Quel vento che offusca la ragione I fatti di Macerata, dove un fascista ha sparato contro i migranti (e la sede del partito democratico), sono stati molto commentati in rete. L’impressione è che il plauso («Traini patriota») abbia
prevalso sulle condanne nette, senza se e senza ma. Moltissimi i distinguo. Si va da «i neri se la sono cercata» a «colpa del governo che ha riempito l’Italia di migranti». Di fronte a simili
Zig-Zag di Ovidio Biffi Quello che sverna e quello che torna Ho un amico che dai primi di dicembre sverna in Madagascar. Dopo numerosi soggiorni brevi sempre sulla stessa isola, quest’anno ha voluto entrare nel club di quelli che vogliono evitare l’inverno, il gelo, la neve. Di sicuro l’operazione gli è riuscita, visto che resiste. Ma il bilancio, probabilmente, non sarà quello agognato. A partire dalla meteo: una serie di monsoni ed altri fenomeni atmosferici tropicali si sono dati convegno per tutto dicembre e buona parte di gennaio tra Mauritius e la «Grande île», cioè il Madagascar. Piogge e cicloni non rallegrano certo le giornate, nemmeno a uno come il mio amico, che di sicuro ha studiato bene ogni scenario prima di prendere la decisione. Mi aveva lasciato confidandomi di essere equipaggiato per mantenere collegamenti e contatti. Anzitutto: niente portatile, perché lì sono come i Rolex a Napoli, roba che può spingere i lestofanti persino a sfondare una parete dell’appartamento, mentre tu sguazzi spensierato nelle acque
turchesi della baia. Quindi: solo un cellulare, ovviamente munito di app e attrezzato per i vari Skype, WhatsApp, eccetera. Primo mese ok, tant’è che ho potuto seguire anch’io il convegno dei cicloni. Improvvisamente ecco un ahi, ahi, ahi micidiale dal mio amico: a Capodanno gli hanno rubato il cellulare e i contatti sono stati retrocessi su un prepagato che non è «smart», quindi incapace di eseguire le manovre fantastiche del suo iPhone (nel frattempo recuperato, versando un... obolo/riscatto, ma inutilizzabile visto che Swisscom è stata giustamente veloce nel bloccare il suo numero...). Senza indirizzi in rubrica, senza app e senza socialmedia, ecco un’emergenza che non poteva aspettarsi. Anche se il maltempo è cessato, sarà difficile per lui svernare nel modo più classico, quello che sognava quand’è partito. Anche perché nel frattempo è giunto un secondo ahi, ahi, ahi. Verso metà gennaio, un mattino alle 4 vengo svegliato dal telefono che squilla.
Poiché io e mia moglie continuiamo a vivere senza cellulari, è naturale che lo squillo del telefono in piena notte sia rimasto del tutto simile allo sparo per centometristi: corsa (per quel che la stazza consente..) fino al telefono fisso, in tempo per vedere un 0026... che già in serata era comparso sul display, suggerendo però di evitare contatti per timore di chiamate potenzialmente a pagamento... Ma alle 4 del mattino anche i call center concedono tregua. Così non ho resistito. Dall’altro capo del telefono sento solo qualche rumore. Poi la prolungata assenza di voci mi spinge a bloccare il contatto. Controllando il numero, realizzo che è quello del prepagato malgascio. Un po’ allarmato, decido di rifare io, subito, la chiamata e dopo qualche tentativo sento l’amico in Madagascar. Sorpreso, mi assicura di non aver digitato il mio numero; dice di aver solo cercato il cellulare per vedere che ora fosse e di essere uscito a scrutare il cielo... Non oso dirglielo, ma probabilmente compiendo quella
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Cultura e Spettacoli La seconda volta di Bindu Bindu De Stoppani di nuovo nel ruolo di regista con un road movie dai sapori balcanici
Amare la vita nonostante la gabbia È stato tradotto dal rumeno e pubblicato per i tipi di Keller il bel libro Cuori cicatrizzati di Max Blecher
Lo Schiaccianoci di Spuck Il grande coreografo ritorna a stupire con una lettura inedita e dai tratti inquietanti
pagina 27
Nuova scena in Ticino Quella nostrana è una scena teatrale in costante crescita, dove il pubblico è chiamato a una maggiore apertura pagina 31
pagina 26
pagina 29
Il grado zero della pittura
Mostre Georg Baselitz alla Fondation Beyeler
di Basilea
Gianluigi Bellei Dopo le abbuffate di Minimalismo, Concettualismo e stranezze mentali varie, verso il 1977-1978 in Europa, prima, e in America, dopo, assistiamo al ritorno della pittura figurativa. Una maledizione reazionaria per alcuni; una gioia per altri. Da una parte spopola, ma solo per poco, il cosiddetto Postmoderno che attraverso il «pensiero debole» mette al bando le ideologie per un ritorno e una rivisitazione del passato; contemporaneamente il mercato rilancia una serie di artisti rimasti nel dimenticatoio e che da sempre hanno lavorato con il pennello. Se in Italia grazie soprattutto al critico Achille Bonito Oliva è il momento della Transavanguardia, che intende appunto attraversare le avanguardie per «rubare» l’arte dal passato, è in Germania che i Nuovi selvaggi conoscono un successo mondiale. Alcuni critici, soprattutto il furbissimo Achille Bonito Oliva, accostano i due movimenti partendo dall’assunto che entrambi rappresentano il ritorno al figurativo. In realtà, però, la scuola tedesca da sempre ha un approccio espressionista: pensiamo a Emil Nolde, Ernst Ludwig Kirchner, Otto Dix... Pertanto gli artisti della generazione postbellica rientrano in questa tendenza. I centri maggiormente interessati sono, da una parte, le città industriali di Colonia e Düsseldorf e, dall’altra, Berlino Ovest. Gli artisti: Georg Baselitz, Jörg Immendorff, Anselm Kiefer, Markus Lüpertz, A.R. Penck e Sigmar Polke. L’autorevole rivista «October», tramite il critico Benjamin Buchloh appoggiato da Douglas Crimp e Nancy Spector, parla apertamente di autoritarismo reazionario anche perché questi artisti «politici» sembrano
riflettere un passato molto vicino. Lo scandalo avviene alla Biennale di Venezia del 1980 quando il Padiglione della Germania espone Anselm Kiefer, con i suoi riferimenti alla cultura del Superuomo, e Georg Baselitz con Modell für eine Skulptur (Modello per una scultura) nella quale alcuni intravvedono la figura di un uomo con il braccio alzato nel saluto nazista. Le critiche feroci servono alla fine alla loro consacrazione anche perché, sempre a Venezia, Harald Szeemann e Achille Bonito Oliva inaugurano Aperto che propone l’arte figurativa degli anni Settanta. I Nuovi selvaggi dipingono con colori accesi, tinte piatte o corpose, pennellate decise e forti. Georg Baselitz realizza dagli anni Sessanta tele violente e gestuali e diviene famoso con le sue figure capovolte iniziate nel 1969. «Quando io capovolgo l’immagine - sostiene - è in gioco un altro processo, un’altra volontà, un processo intellettuale e spirituale completamente diverso. Lo stupore non è l’unico obiettivo. Si tratta del modo di rappresentare la libertà, di come usare liberamente qualcosa... Dipingo stendendo la tela a terra e solo dopo la raddrizzo. Dopo averla messa in verticale la ispeziono come si controlla un quadro per vedere se è fatto bene o meno». In occasione degli ottant’anni di Georg Baselitz la Fondation Beyeler di Basilea gli dedica una retrospettiva composta da circa 90 dipinti e 12 sculture scelte assieme all’artista stesso. Si inizia con gli anni Sessanta e i dipinti ispirati al teatro della crudeltà di Antonin Artaud con le sue prove psichiche e fisiche dentro gli ospedali psichiatrici. G. Antonin del 1962 è un esempio spaventoso e mostruoso di questo immaginario deformato e terribile, lugubre e orrorifico. Ma il primo scandalo av-
Georg Baselitz, Schlafzimmer, 1975. (Littkemann)
viene nel 1963 con Die grosse Nacht im Eimer (La grande notte andata buca) esposto alla galleria berlinese Werner & Katz e sequestrato dalla procura. Qui vediamo un uomo con un enorme pene nell’atto di masturbarsi. Segue la serie Helden (Eroi): brutti, sporchi, degradati. Sembrano personaggi reduci da una catastrofe. Nel 1969 la svolta. Baselitz inizia a esporre quadri dipinti all’incontrario. Il grado zero della pittura. Una rivoluzione della tradizione pittorica classica che si propone come un nuovo inizio. Drammatico inconsolabile, come quegli anni di tumulti. Lavora usando delle foto realizzate con la Polaroid e molte di queste opere sono ritratti, della compagna Elke o suoi. Nudi vivaci, inquietanti nella loro terribile bellezza ordinaria. In mostra Fingermalerei-Weiblicher Akt (Femmina nuda) nella sua oscena naturalezza o Schlafzimmer (Camera da letto) dove si ritrae con Elke, ambedue seduti senza vestiti e malinconici. In mostra anche
la controversa scultura Modell für eine Skulptur del 1979-1980 che secondo il curatore della retrospettiva Martin Schwander non rappresenta un nazista che saluta con il braccio alzato ma è semplicemente la posizione di un idolo africano del Congo presente nella collezione dell’artista che è servita come modello. Segue la serie Remix che riprende gli eroi precedenti con colori più accesi e frantumati. Infine i lavori degli ultimi anni, maggiormente aerei, liquidi, frantumati, soffusamente irreali. Georg Baselitz nasce a Deutschbaselitz in Sassonia il 23 gennaio 1938 con il nome di Hans-Georg Bruno Kern. Nel 1961 in onore del suo luogo natale adotta il nome d’arte di Baselitz. Nel 1962 si sposa con Elke Kretzschmar. Ha esposto nei più importanti musei. Vive e lavora a Basilea, Salisburgo e Imperia. L’esposizione della Fondation Beyeler, organizzata cronologicamente con opere dal 1959 al 2017, si trasferirà con un altro allestimento
all’Hirshhorn Museum and Sculpure Garden di Washington. Chi volesse approfondire il percorso artistico di Baselitz può recarsi al Kunstmuseum di Basilea dove vengono presentati diversi suoi disegni e acquerelli di proprietà del Kupferstichkabinett, diretto da Dieter Koepplin. Proprio quel Kunstmuseum che gli ha organizzato nel 1970 un’esposizione all’inizio della carriera, all’età di 32 anni, e che oggi possiede 152 lavori dell’artista. Bella mostra, ottima come sempre l’illuminazione, consigliato il catalogo con interventi, tra gli altri, di Rudi Fuchs e Norman Rosenthal. Dove e quando
Georg Baselitz. A cura di Martin Schwander. Fondation Beyeler, Basilea. Fino al 29 aprile. Apertura: 10.0018.00, mercoledì 10.00-20.00. Catalogo Hatje Cantz, fr. 62.50 in tedesco o inglese. www.fondationbeyeler.ch
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Cultura e Spettacoli
I ricordi di Camille e di ognuno di noi Incontri A colloquio con la regista e artista ticinese Bindu De Stoppani, che con Cercando Camille
si mette per la seconda volta dietro alla cinepresa Nicola Falcinella Presentato alla Festa di Roma e recentemente alle Giornate di Soletta, è ora nelle sale Cercando Camille di Bindu De Stoppani, attrice e regista ticinese che vive e lavora a Londra. Dopo aver recitato in due film del premio Oscar Danny Boyle, The Beach e 28 giorni dopo, ha esordito come regista nel 2011 con Jump. Questo è il suo secondo lungometraggio, un road-movie in equilibrio tra commedia e dramma: Camille (Anna Ferzetti) è una giovane donna che cerca se stessa e il rapporto con il padre (Luigi Diberti), anziano inviato di guerra con l’Alzheimer che confonde i ricordi e non la riconosce. Partiranno su un vecchio camper verso la Bosnia in compagnia di un violoncellista avventuroso, cercando di rimettere insieme pezzi di vita. Bindu de Stoppani, come in Jump tornano la memoria e la ricostruzione di un rapporto tra figlia e padre.
Ci sono temi che mi interessano e altri che escono in maniera inconscia. Su alcuni si ritorna, per riesplorarli, come in questo caso. La relazione tra figlia e padre è importante per me, ci sono cose su cui mi interrogo. Ciascuno vive e ricorda i fatti in maniera diversa e di questo spesso non teniamo conto. In Jump era un voler ricordare, stavolta è il non voler dimenticare. Qui c’è letteralmente un mettere insieme i pezzi: le fotografie, le
tappe del viaggio, gli oggetti del passato.
giornalista Fausto Biloslavo, si è ispirata alla figura di qualcuno in particolare per la figura paterna?
Di questo mi sono accorta dopo, nello scrivere il film non me n’ero resa conto. Solo facendolo si nota che tornano cose che erano nell’altro, seppure in modo diverso. Ogni oggetto che possediamo ha una propria storia. Amo il vintage e forse questa passione ritorna, con le storie degli oggetti persi e ritrovati.
Ho fatto ricerche sui giornalisti di guerra, ho letto parecchi libri. Ho avuto diverse conversazioni con Biloslavo e ci sono alcuni elementi ispirati ai suoi racconti, volevo ci fossero cose che possono accadere in certe situazioni. La guerra nell’ex Jugoslavia è stata l’esperienza più turbante per molti giornalisti, ha creato tante memorie, anche per l’essere così vicina e recente. Mi interessava capire cosa vuol dire per un inviato lasciare a casa una famiglia con il rischio di non tornare più. Se ne parla poco, ma anche i giornalisti muoiono in guerra.
Questo riguarda anche le persone?
La vita è fatta anche di persone che si perdono, che restano indietro. Andiamo avanti e a volte è facile dimenticare persone incontrate nel passato o che hanno donato qualcosa. E poi c’è il fatto che abbiamo esperienza dei nostri genitori dal momento in cui ci siamo noi: del prima sappiamo poco, a volte ci dimentichiamo di chiedere. Così Camille scopre il padre anche attraverso chi l’aveva conosciuto. La protagonista ha paura della malattia del padre, fino a negarla.
Ho fatto numerosi incontri e interviste con malati e con familiari di malati di Alzheimer. Ci sono dinamiche diverse, le persone si rapportano alla malattia in tanti modi. Camille nel film non vuole accettare la malattia. Anche il fratello non la accetta: in un certo senso è facile volerlo mettere in una struttura per anziani, in modo che la malattia scompaia. Nel film si nota una grande attenzione ai dettagli e alla scelta degli occhiali, della camicia con il collo arrotondato per costruire il perso-
Che ricordi personali ha di quel conflitto?
Luigi Diberti e Anna Ferzetti in una scena del film. naggio di Camille, che risulta goffa e quasi ancora bambina.
L’indicazione degli occhiali era già prevista in sceneggiatura, doveva essere qualcosa che la separa dal mondo e crea comicità. Ho lavorato molto con Anna Ferzetti per creare il personaggio. Volevo darle un aspetto da bambina, chiusa in se stessa, perbene, che con si azzarderebbe mai a fare delle cose e che si protegge dal mondo. Trovare la camicetta ha aiutato molto Anna a immedesimarsi: da attrice so che i costumi cambiano l’attore.
C’è un bell’affiatamento tra gli interpreti.
Gli attori sono bravi e si sono trovati bene. Ho fatto il casting facendoli lavorare insieme e provando diverse combinazioni. Ferzetti e Diberti si sono trovati subito, hanno creato comprensione e familiarità tra loro. Lavorare con gli attori, per la mia formazione, è ciò che mi viene più facile e mi fa sentire a mio agio, non sono una regista tecnica. In questo film l’aspetto umano era importante. Nei titoli c’è un ringraziamento al
Lo ricordo bene, è stata una guerra vicina e ora ho amici che provengono da quei Paesi. È una situazione dove è difficile dividere i buoni e i cattivi. Per il film ho avuto modo di girare a Mostar e in altri luoghi della Bosnia. Ho visto come ci sono ancora i segni e le ripercussioni della guerra, non mi aspettavo che la memoria fosse ancora tanto presente. Anche nel secondo film ha voluto girare in Ticino.
Sono ticinese e mi fa piacere girare qui. C’è un bel gruppo di professionisti con cui lavoro bene, e dunque è un ritorno in famiglia... anche con la Rsi che mi ha sempre sostenuto. Ora spero che il pubblico si incuriosisca, venga a vedere il film e creda nel cinema svizzeroitaliano. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
In quella gabbia che è il proprio corpo Pubblicazioni L’editore Keller ha recentemente dato alle stampe Cuori cicatrizzati, piccolo capolavoro
di Max Blecher che ha ispirato anche l’omonimo film di Radu Jude
Luigi Forte L’ebreo Max Blecher visse l’esilio nel proprio corpo. Come il protagonista del famoso racconto di Franz Kafka, La metamorfosi, anche lui si ritrovò d’improvviso con un’altra identità fisica. Nato in una famiglia della piccola borghesia di provincia a Botoşani, nel nord della Romania nel 1909, non aveva ancora vent’anni quando a Parigi, dov’era andato per studiare medicina, gli diagnosticarono una tubercolosi spinale che lo costrinse a letto in una sorta di corazza di gesso. Dieci lunghi anni trascorsi in vari sanatori in Francia, Svizzera e sul Mar Nero fino alla morte nel 1939. La malattia non gli lasciò scampo, ma egli tentò di esorcizzarla con la scrittura: nacquero in quegli anni di dolore ben tre romanzi, un libro di poesie, articoli e saggi. Il suo nome si affermò sulla scena letteraria, da cui lo cancellarono prima il nazismo e poi il comunismo. Recensendo il suo primo romanzo del 1936, Accadimenti nell’irrealtà immediata (Keller 2012) il drammaturgo Ionesco lo definì «un Kafka romeno», mentre intellettuali di rilievo come Breton e Gide ebbero con lui non pochi contatti epistolari. Blecher aveva un debole per il surrealismo, rifiutava l’aspetto comune delle cose, il suo sguardo si avventurava volentieri oltre la superficie uniforme della realtà nella vita autentica del sogno. Il giovane protagonista di Accadimenti avverte un costante senso di separatezza dal mondo mentre la sua stessa identità sembra vivere in un corpo del tutto nuovo con una pelle e degli organi sconosciuti. Non si scende ancora negli abissi della malattia in questa singolare ricognizione degli anni dell’adolescenza. La fantasia dello scrittore insegue piuttosto visioni improbabili, cade in deliquii piacevoli ed esaltanti, sperimenta con l’amico Ozy Weber un gioco di dialoghi immaginari e s’entusiasma per i personaggi del museo delle cere che egli vede come autentiche icone della realtà perché nella loro artificiale inerzia non falsificano la vita in modo ostentato. Fra le molte bizzarrie fa capolino la scoperta della sessualità in un’altalena di impulsi e tensioni che investono la sua stessa percezione del mondo tanto da far dire alla conterranea Herta Müller, premio Nobel per la letteratura: «Ciò che rende
Una scena di Cuori cicatrizzati del rumeno Radu Jude.
lo sguardo di Blecher così penetrante è l’eroticità che risiede e langue in ogni cosa».
I personaggi di Max Blecher sono prigionieri del proprio corpo, eppure amano ancora la vita È stato detto che la prosa di Blecher ricorda autori come Bruno Schulz e Robert Walser, mentre il suo secondo romanzo pubblicato nel 1938, Cuori cicatrizzati, che ora l’editore Keller propone nella versione di Bruno Mazzoni, ci riporta tematicamente al capolavoro di Thomas Mann, La montagna incantata del 1924. Ma esso in realtà è del tutto estraneo al testamento di un grande intellettuale come lo scrittore di Lubecca che delineava attraverso le esperienze del giovane ingegnere Hans Castorp nel sanatorio di Davos la mappa di un’intera civiltà fagocita-
ta dalla follia e dall’istinto di morte. L’orizzonte del protagonista di Blecher, lo studente di chimica Emanuel affetto da tubercolosi ossea, è invece circoscritto alla propria dimensione fisica. Da quando vive al sanatorio di Berck, una piccola località francese sul mare del Nord, il mondo gli sembra stranamente assottigliato e il suo stesso fisico gli appare come «una massa di carne e ossa tenute insieme dalla rigidità di un contorno». Del resto intorno a sé lo spettacolo è allucinante: corpi distesi su barelle doccia, incapsulati nel gesso, persone vive eppure morte, «intorpidite in posture rigide, sdraiate e mummificate». C’è anche chi cammina come il signor Quitonce, specializzato fin da piccolo in cliniche, con due bastoni e scalcia ad ogni passo offrendo uno spettacolo curioso e un po’ farsesco. Al contrario, il paziente Zeta è un vero «trito di carne»: ha i piedi dentro un blocco di gesso mentre alcune parti delle dita e della pelle sono tenuti insieme con dei punti d’argento. Per non parlare di Roger e Cora che tentano di flirtare su due barelle doccia affiancate
o della nuova arrivata, la signora Isa, a cui Emanuel si sente legato da sincera amicizia. Peccato che anche lei sia destinata a soccombere dopo l’amputazione di una gamba. Ma anche coloro che sono riusciti a sconfiggere la malattia, come il giovane Ernest o l’argentino Tonio che smania per una paziente polacca, la signora Wandeska, non sanno rinunciare a quel lazzaretto: il mondo dei sani sembra irraggiungibile perché gli anni di sanatorio sono un veleno insidioso che entra nel sangue e chi vi ha vissuto «non si ritrova da nessuna altra parte». Blecher porta alle estreme conseguenze la sua immagine del mondo nutrita di pura fisicità e catapultata nel paradosso: far vivere chi è già spiritualmente morto, inseguendo la disperazione come una sorta di passatempo quotidiano. Anche Emanuel viene ingessato, eppure cerca ancora sempre un alito di vita, magari nella giovane e graziosa Solange, scampata alla malattia, che lo segue con affetto, mentre lui abbozza inutilmente gesti d’amore, fisici conati che degenerano in un «si-
mulacro pietoso». Non bastano a rasserenarlo le gite in calesse al mare o nelle taverne della zona: ormai la vita libera e spensierata è fuggita via per sempre, soffocata nella sua armatura di gesso. L’esistenza appare fra le pagine di Becher come una sorta di purgatorio popolato da fantasmi e parvenze che si aggirano nell’irrealtà più assoluta. Eppure lo scrittore non si arrende: gentilezza, amore, amicizia sopravvivono anche a Berck, dove sembra essersi accumulato tutto il dolore del mondo. Ma alla fine è inevitabile lo sconforto per la lontananza degli amici guariti o la morte di alcuni compagni morti in quei pochi mesi. A Emanuel resta solo, in un tempo senza futuro, l’addio e la gioia di un fuggevole bacio di Solange prima di allontanarsi per sempre da quel luogo di disperazione e di affetti svaniti. Bibliografia
Max Blecher, Cuori cicatrizzati, traduzione di Bruno Mazzoni, Keller editore, Rovereto, p. 237, € 15,50.
La produzione della felicità
Pubblicazioni Un piccolo ma documentato repertorio dei miti delle Alpi e della montagna
nell’ultimo libro del saggista-alpinista Franco Brevini
Stefano Vassere «Le pareva che certi luoghi della terra dovessero produrre felicità, come una pianta che cresca bene in un solo terreno e male in ogni altro. Ah, perché lei non poteva affacciarsi al balcone di uno chalet svizzero, o chiudere la sua tristezza in un cottage scozzese, con un marito vestito di velluto nero a lunghe
falde, stivali flosci, cappello a punta e polsini!». Già, perché? La risposta, letto questo Simboli della montagna di Franco Brevini, è semplice: perché Emma Bovary avrebbe potuto godere solo in parte e per brevi episodi di tutto ciò; perché trasferita lì con tutti i suoi bagagli e con tutti i suoi cappellini avrebbe capito che un conto è rimpiangere preventivamente un mito (un uomo, una donna) che non si ha e un conto è viverne l’abitudine. Che certo è fatta di legno, resine che colano dalle travi e tanto calore architettonico, ma poi anche di banale e brutale quotidianità, di legname per il camino da ordinare, di stucchevole vicinato di montagna, di ansie e di gelosie, oltre che di innumerevoli altre e non previste noie. Fino a pochi secoli fa, fino al Settecento inoltrato, le montagne non avevano nemmeno un nome; prima erano tutt’al più elette a residenza di qualche divinità indefinita e inavvicinabile. E,
si sa, il rapporto con qualcosa e qualcuno che non si guadagni nemmeno un nome è rapporto obliquo e precario, certo sospetto. Gli studiosi delle tradizioni culturali però sono più attenti alle rappresentazioni simboliche degli oggetti che agli oggetti stessi. Così è per i sei simboli alpini scelti da Franco Brevini per questa stellare rassegna: gli animali delle montagne, il Cervino, lo chalet svizzero, l’Edelweiss, Heidi, la piccozza, che occupano altrettanti capitoli di un libro molto barthesiano e, inevitabilmente, molto svizzero. Prendiamo «Lo chalet svizzero», il capitolo terzo. Diceva Chateaubriand che «nei famosi chalets trasfigurati dell’immaginario di Rousseau non sono riuscito a vedere altro che stamberghe piene di letame delle greggi, dell’odore dei formaggi e del latte fermentato». E ciò non per dire che lo chalet sia essenzialmente questo; piuttosto per operare una distinzione fondamentale: quella tra la pratica dell’og-
getto in sé e il simbolo che questo oggetto è diventato. Ne è la prova, tra l’altro, una dimostrata «esogenesi» di questi miti, che spesso oltre che di seconda mano sono anche indotti dall’esterno: sono stati i grandi viaggiatori stranieri a inventare il mito del paesaggio italiano, e l’immagine della stella alpina fu introdotta alla fine dell’Ottocento dai turisti tedeschi. Sono stati Albrecht von Haller, Friedrich Schiller e appunto Rousseau a elevare questa architettura, a collocarla preferibilmente in Svizzera e a farla diventare un artefatto letterario e culturale di respiro ormai universale. Il futuro di questi simboli è legato a uno sciamare senza limiti per il mondo, là dove ci sia bisogno di richiamare il calore di casa e un astratto respiro pulito tipico della montagna; ci sono gli stessi chalet in Canada, in Brasile, a Düsseldorf, e in molti di quei luoghi questi edifici assumono le funzioni più diverse: negozi, giornalai, ristoran-
ti, saune, stazioni del treno. Si compie così del tutto l’abbandono del loro significato primigenio, che evapora in un puro e semplice simbolo, mentre gli antichi rifugi di montagna sono sostituiti da architetture ardite e dal colore grigio del metallo. La triste storia di Emma Bovary ci trasmette un mandato di prudenza: eviti l’innamorato in absentia di affidare i suoi destini a vestiti di velluto nero a lunghe falde, a stivali flosci, a cappelli a punta e polsini; eviti di consegnarsi non alla persona amata ma a una sua rappresentazione. E se può e in mancanza d’altro, torni a una saggia concretezza, magari provando un po’, come Heidi, «il sentimento più nazionale fra i sentimenti svizzeri: la nostalgia, das Heimweh». Bibliografia
Franco Brevini, Simboli della montagna, Bologna, il Mulino, 2017.
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Cultura e Spettacoli
Autobiografia di una casa editrice Recensioni Armando Dadò racconta la nascita della sua attività editoriale
Pietro Montorfani La prova sarebbe, in molte case ticinesi, relativamente semplice: su qualche scaffale più alto saranno rimasti senz’altro, un po’ impolverati ma pur sempre in bella vista, l’antologia Pane e coltello (1975), o l’album fotografico Ticino ieri e oggi di Piero Bianconi (1982), o ancora i due volumi sull’Emigrazione ticinese in California di Giorgio Cheda (1981). I più fortunati avranno magari la prima edizione degli Artigianati scomparsi, libro inaugurale della casa editrice (1965) curato da Giovanni Bianconi, oppure qualche strenna a tiratura limitata avuta in omaggio dallo stesso editore in tanti anni di attività. Si sfoglino quelle pagine e sarà facile sincerarsi di quanto pionieristico, coraggioso, ambizioso, a tratti persino naïf, sia stato il percorso della casa editrice Dadò e della stamperia da cui prese le mosse, la Tipografia Stazione. Dall’epoca in cui il logo della casa editrice prese per la prima volta la forma di un dado, su su fino alle più recenti trasformazioni tecnologiche, passando per l’opus magnum del Dizionario storico in tredici volumi (2002-14), è un pezzo di storia economica e culturale del Locarnese, naturalmente, ma per la legge dei cerchi concentrici rappresenta anche un capitolo importante nella formazione dell’identità della Svizzera italiana, di più, dell’intera Svizzera di lingua italiana (che non finisce al San Gottardo), cioè della storia di una minoranza linguistica; forse, addirittura,
un piccolo pezzo di vita culturale italiana al di qua del confine. Di questa avventura (il termine non paia eccessivo) Armando Dadò offre ora, con il vigore e la sincerità che lo contraddistinguono, una lunga testimonianza sotto forma di libro, un grosso volume miscellaneo di interviste, immagini, piccoli saggi che ha l’ambizione di raccontare una storia dal punto di vista del suo personaggio principale. L’operazione, non bisogna nasconderselo, è certo un po’ enfatica, nata a ridosso degli ottant’anni del fondatore e incentrata molto sulla sua vicenda personale, la famiglia, la valle, i colleghi, i «nemici», la lenta creazione dell’attività editoriale. Tra le righe traspaiono però informazioni utili alla ricostruzione di un percorso che, soprattutto all’inizio, deve essere stato piuttosto tortuoso: «I primi anni lavoravamo con metodi tradizionali, un po’ dilettantistici. [...] Allora non me ne rendevo perfettamente conto. Non conoscevo il francese, non parlavo il tedesco e anche con la lingua italiana la parentela non era molto stretta. I miei modi, le mie mosse erano goffi, approssimativi» (p. 55). Nonostante le premesse non incoraggianti, la casa editrice cresce e giunge, negli anni, a conquiste importanti, individuate da Stefano Vassere in quindici libri chiave (pp. 97-113) e illustrate anche da alcuni scatti di momenti memorabili: nell’apparato iconografico del libro sfilano infatti, dietro i tavoli delle numerose presentazioni, personalità del calibro di Dante Isella, Giorgio e Gio-
vanni Orelli, Raffaello Ceschi, Padre Pozzi, Sergio Romano, Piero Bigongiari, e un’infinità di altri nomi di cui non è possibile dare conto in queste poche righe. Un onesto recensore non dovrebbe però tacere, nonostante i gustosi aneddoti e l’evidente generosità con cui è stato montato il libro, anche qualche piccolo difetto di impostazione e struttura, a iniziare dal fatto che il tutto ‒ ma non sorprende ‒ è stato cucinato in casa, senza davvero sentire le famose «altre campane». Questi Fatti della vita valgono insomma come preziosa testimonianza ma non ancora, io credo, come una storia esaustiva della casa editrice (era l’auspicio di Ceschi), che meriterebbe certo qualche mandato di ricerca cantonale o federale per offrire finalmente un quadro, non solo su Dadò, ma su tutta l’attività editoriale e la produzione libraria nella Svizzera italiana del secondo Novecento. Anche soltanto per rispondere all’annosa domanda circa l’assenza, a questi livelli, di una casa editrice luganese (almeno dai tempi di Carlo Grassi), o per illustrare nel dettaglio alcuni nodi del rapporto con i nemici-amici di Bellinzona, nel libro solamente adombrati ma non veramente sciolti fino in fondo. Bibliografia
Armando Dadò. I fatti della vita. Storia di un editore e di una casa editrice, a cura di Maurizia CampoSalvi. Armando Dadò editore 2017. 347 pagine illustrate.
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Cultura e Spettacoli
Spuck e le inquietudini
Danza All’Opernhaus di Zurigo un nuovo, originale Schiaccianoci firmato Christian Spuck
con uno smagliante Ballett Zürich
Marinella Polli Dopo il grande successo di Der Sandmann, balletto ispirato a un racconto di E.T.A. Hofmann, Christian Spuck, l’indefesso coreografo e direttore della compagnia di danza dell’Opernhaus di Zurigo, ha messo in repertorio un altro balletto ispirato a un racconto dello scrittore tedesco esponente del Romanticismo, e precisamente Nussknacker und Mausekönig (in italiano Schiaccianoci e il re dei topi). Spuck, pur rappresentando con tatto e poesia anche tutto l’incanto e la tessitura fantastica del celebre balletto di Ciajkovskij non ne propone come di consueto un tipico divertissement natalizio, bensì una nuova lettura rinvigorita da interessanti prospettive fra l’ironico, il grottesco e l’oscuro, peraltro più vicine ai motivi anche inquietanti del racconto originale. L’ingegnoso Drosselmeyer – e Dominik Slavkovsky è sempre in grado di conferirgli questa dimensione, drammaturgicamente altresì molto efficace – ha anche per Spuck, come in Hofmann, un ruolo essenziale, cruciale e decisivo, perfido e fascinoso, a volte angoscioso e tanto più ossessivo perché contrappuntato dagli ensemble più giocosi e brillanti, e dalle diverse altre figure coreografiche. Ben sviluppati anche gli altri ruoli principali, cui viene concessa la dovuta attenzione drammaturgica: una rapita Marie (come in Hoffmann, e non Clara) e un apparentemente disin-
cantato Fritz interpretati da Michelle Willems e Daniel Mulligan, lo Schiaccianoci/Principe/Nipote di Drosselmeyer (William Moore), la principessina Pirlipat (un’incantevole Giulia Tonelli), la cui storia viene raccontata ai bambini da Drosselmeyer, la signora Mauserinks (Mélissa Licurgo) e Il re dei topi (Cohen Aitchison-Dugas), tutti consegnano un’ottima interpretazione ed esecuzione tecnica. Fra le perle di questa originale produzione, ricordiamo l’esilarante scena della battaglia con soldatini spaventati e tremanti come foglie, e l’ancor più divertente Valzer dei fiori (sì, quello famoso), danzato da un gruppetto di personaggi in tutù di petali colorati, vuoi bulletti e reginette di balera, vuoi artisti di circo o varietà. Anche qui, in un momento in cui la scenografia di Rufus Didwiszus ricorda la rivista e, appunto, il varietà, il comunicativo, peculiare e variato linguaggio coreografico di Spuck si coniuga perfettamente alla tecnica e al rigore di stile dell’arte coreografica tradizionale. All’unisono con le coreografie, l’impeccabile ed eloquente scenografia (davvero magnifico il suggestivo gioco di grisaille dell’inizio) del già citato Didwiszus, i costumi molto spiritosi di Buki Shiff e il puntuale light design di Martin Gebhardt. Davvero ottima la prestazione della Philarmonia Zürich (alla fisarmonica sul palcoscenico e vestita da clown la brava Ina Callejas) diretta con entusiasmo e precisione da Paul Connelly, sempre in grado
L’ottimo balletto si ispira a un racconto di E.T.A. Hoffmann. (Gregory Batardon)
di evidenziare le particolarità della bella partitura. Notevole anche il coro, ovvero «Kinderchor und SoprAlti der Oper Zürich» magistralmente preparato da Ernst Raffelsberger. Questo Schiaccianoci ripensato da Christian Spuck
è stato salutato dal folto pubblico della prima con lunghi e scroscianti applausi, soprattutto all’indirizzo del coreografo e dei solisti, ma anche dell’intera compagine del «Ballett Zürich» e dello Junior Ballett in forma smagliante.
Dove e quando
Nusscracker und Mausekönig, Zurigo, Opernhaus. Repliche fino ad aprile. Per informazioni: www.opernhaus.ch Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Tears for Fears, il rischio della banalità Musica L’ennesimo «greatest hits» della band inglese dei Tears for Fears offre un piccolo «antipasto»
di quello che si preannuncia essere il loro primo lavoro inedito da quasi quindici anni a questa parte Benedicta Froelich Il ben noto revival che, negli ultimi anni, ha visto il pop-rock degli anni 80 tornare a popolare le playlist di televisioni e stazioni radio, riesumando terrificanti videoclip e nomi improbabili ormai caduti nel dimenticatoio, ha l’indubbio privilegio di aver riportato alla luce, tra le altre, una delle poche formazioni dell’epoca ad essersi davvero distinte per personalità e carattere stilistici. Nel cuore di un decennio caratterizzato, anche in termini musicali, dall’edonismo e dilettantismo più sfrenati, il duo britannico dei Tears for Fears, composto da Roland Orzabal e Curt Smith, ha infatti lasciato una traccia indelebile grazie a soluzioni melodiche spesso audaci e a liriche ricche d’inventiva e riferimenti culturali intriganti; e nonostante ciò che il grande pubblico potrebbe pensare, in questi ultimi anni il gruppo non è rimasto del tutto inattivo: a differenza di molte «meteore» del tempo, la formazione non si è mai ufficialmente sciolta, sebbene Orzabal e Smith siano effettivamente andati incontro a una rancorosa separazione, avvenuta a poca distanza dal travolgente successo del celeberrimo LP The Seeds of Love (1989). Tuttavia, dopo di allora, la sigla «Tears for Fears» ha comunque campeggiato sulle copertine dei successivi Elemental (1993) e Raoul and the Kings of Spain (1995) – i quali, però, possono definirsi, in tutta onestà, semplici sforzi solisti di Roland; il ritorno sulle scene
della band, stavolta come duo a tutti gli effetti, è infatti giunto solo nel 2004 con Everybody Loves a Happy Ending, a cui ha però fatto seguito un lungo iato discografico, a tutt’oggi non ancora interrottosi. Questo nuovo Rule the World, che di primo acchito appare come l’ennesima compilation retrospettiva dedicata ai Tears for Fears, si distingue invece per voler essere una sorta di «apripista» per l’attesissimo ritorno sulle scene del gruppo: corre infatti voce che, dopo quattordici anni di silenzio, il 2018 vedrà la pubblicazione di un nuovo sforzo creativo della coppia Roland & Curt. Proprio per questo, la compilation offre in anteprima due pezzi inediti; peccato, però, che il primo di essi, il singolo promozionale I Love You But I’m Lost – curiosa commistione tra l’elettropop di stampo tipicamente anni 90 e la discomusic di oggi – appaia come non troppo dissimile dagli assaggi già presenti in Ready Boy & Girls?, EP del 2014 fortemente criticato dagli «aficionados» per via del suo sound elettronico in bilico tra tendenze techno e dance di stampo alquanto commerciale. Diversa l’impostazione della malinconica ballata Stay, che ricalca invece il lavoro solista di Smith; e in effetti, entrambe le tracce lo vedono al microfono al posto di Orzabal, abituale vocalist del duo. Tuttavia, se il futuro rappresenta un punto di domanda, il passato, da parte sua, non delude mai, e Rule the World lo dimostra chiaramente. In effetti, riascoltando i «classici» del loro
repertorio anni 80 ci si rende conto di come, nonostante l’aspetto da band tipicamente pop e magari perfino un po’ modaiola, i Tears for Fears fossero in grado di firmare testi dalla profondità lirica tutt’altro che scontata, come dimostrano esperimenti quali il celebre Mad World: «e trovo in qualche modo buffo / e in qualche modo triste / che i sogni nei quali muoio siano i migliori che io abbia mai fatto». Non esattamente versi abituali da New Romantics del tempo: e del resto, già nel 1983 Roland Orzabal aveva fatto dell’LP d’esordio della band, non a caso intitolato The Hurting («la sofferenza»), un raffinato concept album incentrato sui traumi della sua infelice infanzia e fortemente influenzato dalle tendenze psicoanalitiche dell’epoca. Lo stesso spessore concettuale pervade tutte le tappe della carriera del duo, e quindi anche questo Rule the World, a partire dal pezzo che ne ha ispirato il titolo – Everybody Wants to Rule the World – fino all’abituale successione dei singoli di successo firmati dal gruppo. Si passa così da un brano-simbolo quale l’epico Shout alla cavalcata rock Sowing the Seeds of Love (distinta da una creatività non comune nell’universo pop di allora, evidente nella natura vagamente sovversiva della struttura musicale e nella celebre «coda» annunciata da squilli di tromba barocca). Altre immancabili gemme includono poi la dolorosa e indimenticabile ballata Woman in Chains, impreziosita dai vocals di Oleta Adams, e orecchiabili e irresistibili brani di respi-
Rule the World, una fatica a metà.
ro più pop come Head Over Heels e Pale Shelter. Al di là di ciò, il fatto che questo non sia certo il primo «greatest hits» a cui la band si concede rende l’impazienza dei fan ormai più che giustificata, così come i loro timori riguardo al futuro dei Tears for Fears; si può
quindi solo sperare che Roland e Curt sappiano far fruttare la loro maestria di sempre nel songwriting di alto livello, rinunciando infine all’ormai evidente tentazione che li ha colti di recente – quella di convertirsi alla facile soluzione della dance music commerciale e del più banale pop da classifica. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Di cosa parlano veramente i sogni? Teatro Uno spettacolo su Freud e la nascita della psicoanalisi
Cinema Quattro
Nomination agli Oscar per il regista italiano
Giovanni Fattorini Lehman Trilogy è arrivata nelle librerie alcuni mesi prima di essere messa in scena da Luca Ronconi al Piccolo Teatro di Milano, nel 2015. Un’anticipazione che i critici teatrali hanno vivamente apprezzato, perché se avessero dovuto giudicare il testo di Stefano Massini basandosi sullo spettacolo curato dal celebre regista avrebbero preso delle tremende cantonate, per via soprattutto dei notevoli tagli (concordati peraltro con l’autore) e del fatto che un singolo attore poteva riunire in sé diversi personaggi. Circa due anni dopo la prima rappresentazione della trilogia è uscito il «romanzo/ballata» Qualcosa sui Lehman, che riproponeva il testo teatrale aggiungendovi numerosi passaggi di carattere narrativo e descrittivo. Con quello che potremmo chiamare il «progetto Freud» le cose sono andate in altro modo. Pubblicato lo scorso novembre da Mondadori, il romanzo L’interpretatore dei sogni è stato ridotto e adattato da Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi, che è anche il regista dello spettacolo prodotto dal Piccolo Teatro e intitolato Freud o l’interpretazione dei sogni. A quando l’adattamento di Massini? In quel «catalogo di umanissimi rebus» che è L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud (libro davvero «epocale», pubblicato nel 1900), il drammaturgo fiorentino ha visto «un portentoso materiale da tradurre in forma scenica». E poiché Freud dedica «pochissimo spazio alla descrizione dei sognatori», e non racconta «il dialogo maieutico che condusse a decifrare il rebus di ogni sogno», Massini ha deciso di ricostruire «arbitrariamente il percorso di scavo induttivo-deduttivo con cui Freud giunse a formulare i capisaldi della propria teoria». Così è nato L’interpretatore dei sogni, concepito come «falso storico di un quaderno di appunti» di cui Freud «ci racconta a più riprese l’esistenza, ma che nessuno ha mai potuto leggere». Protagonista del romanzo è dunque il medico
La grande chance di Guadagnino
Fabio Fumagalli **(*) Chiamami col tuo nome, di Luca
Guadagnino, con Armie Hammer, Timothée Chalamet, Michael Stuhlbarg, Amira Casar (Italia – Stati Uniti 2017)
Un momento collettivo dello spettacolo in scena al Piccolo Teatro di Milano. (piccoloteatro.org)
viennese, che analizzando i propri sogni e quelli dei propri clienti (e anche quelli della moglie Martha) viene elaborando una tecnica di interpretazione volta a coglierne il significato latente, deformato dai meccanismi di condensazione e spostamento. Come nel romanzo/ballata Qualcosa sui Lehman (che è interamente in versi liberi), nel romanzo L’interpretatore dei sogni (che è prevalentemente in prosa), Massini alterna – ma in modo meno sorprendente – generi letterari diversi: il diario, il monologo, la lettera, il dialogo teatrale, la sceneggiatura cinematografica. Scarsamente edotto come sono in materia di trattamento analitico, non mi azzardo a giudicare la plausibilità dei «percorsi di scavo» raccontati da Massini, specie nelle scene dialogate, che si svolgono per lo più nel famoso studio viennese della Berggasse. Mi limito a dire che alcune di queste scene mi sono sembrate persuasive e coinvolgenti. Durante la prima mezz’ora di spettacolo ho temuto il peggio. Fabrizio Gifuni (Freud) che monologava spiccan-
do le parole; la scatola scenica ideata da Marco Rossi (un parallelepipedo senza quarta parete, assai più lungo che alto e di colore grigio, con gli spigoli evidenziati da tubi al neon); la recitazione lenta degli attori che interpretavano i pazienti; le scritte riassuntive, anch’esse al neon, che comparivano in alto: come non pensare ad alcuni spettacoli ronconiani? E come non temere che al pari di non pochi spettacoli di Ronconi, anche quello di Tiezzi potesse diventare un induttore di tedio e di sbadiglio, o addirittura di sonno e brutti sogni? Ma poi le cose sono migliorate: la macchina scenica ha funzionato alla perfezione; gli attori (tutti bravi nel caratterizzare i personaggi) hanno attenuato lo straniamento ronconiano; i loro movimenti, coreografati da Raffaella Giordano, mi sono sembrati non di rado affascinanti; i costumi di Gianluca Sbicca, bellissimi; le luci di Gianni Pollini, suggestive. Pregi indubitabili, e tuttavia insufficienti a eliminare la sensazione che il fantasma del defunto Maestro continuasse ad aleggiare dentro la scatola scenica. Né
potevo impedire che mi tornasse più volte alla mente (non solo in relazione ai casi di alcuni pazienti o a quello dello stesso Freud) il verso di Auden che dice: «l’ombra del padre pesava come un’alpe». E come ignorare– non solo di fronte alle figure umane con teste di coccodrillo già presenti in un altro spettacolo di Tiezzi – l’impressione di déjà vu? Quante volte, ad esempio, avevo già visto una parete con numerose porte tutte uguali, che erano al tempo stesso oggetti concreti e simboli o metafore del passaggio fra due luoghi o due mondi? Quante volte mi ero cercato in uno specchio simile a quello che alla fine raddoppia gli spettatori e riporta alla memoria le parole di congedo di un personaggio (e di un autore) secondo cui gli uomini e il teatro sono fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni?
Chiamami col tuo nome è un film sull’estate. L’estate della campagna nel Nord Italia, il tempo dei sentimenti e del desiderio. L’estate del 1983 è anche quella di Craxi, Grillo e Loredana Berté, ma solo dietro le quinte. Nel film, per certi versi sorprendente, di Luca Guadagnino, in primo piano ci sono i grilli e le cicale, l’afa delle strade deserte da percorrere in bicicletta fra i prati assolati attorno a Crema. E i ruscelli, le piscine rustiche, anche solo le pozze nelle quali sguazzare in compagnia. Un po’ tanti bagni, presi un po’ troppo spesso, come d’altronde varie cose in questo film prolungato e ripetitivo, ma comunque stimolante. La nascita dei sentimenti e del desiderio, i temi insomma che importano al Guadagnino ispirato dal romanzo di André Aciman, si sviluppano anche nella frescura di un altro spazio ben esplorato, la settecentesca ricca casa di vacanze (che sarebbe piaciuta a Visconti). Al diciassettenne Elio e al seducente ospite – il giovane americano Oliver, nuovo assistente del papà archeologo – non mancano di certo le ragazze. Ma, prima ancora delle risate e dei flirt cari ai ricordi adolescenziali di tutti, per Elio contano i libri, e soprattutto la musica che compone al pianoforte. Assieme a quello che diventerà il tema propulsivo
Dove e quando
Freud o l’interpretazione dei sogni, Milano, Piccolo Teatro Strehler, fino all’11 marzo.
La novità teatrale è per il pubblico che diventa protagonista
In scena Negli ultimi anni in Ticino pubblico e critica hanno assistito a un’importante
crescita all’interno del mondo del teatro Giorgio Thoeni L’incontro del Festival Internazionale del Teatro del 2016 con LuganoInScena ha indubbiamente portato alla stagione ufficiale una serie di slanci verso quel «nuovo teatro» che può far storcere il naso ai puristi ma che, in definitiva – sebbene con un certo ritardo – permette al pubblico di aprirsi alle attuali tendenze: espressione di una comunicazione che se per molti attinge a un lessico teatrale inusuale, provocatorio e sorprendente, è pur sempre il linguaggio dell’arte in senso lato. Definirne contorni o regole è puro esercizio, spesso arbitrario, ma caratteristica di ogni ciclo generazionale. Il cartellone del LAC ha così recentemente inaugurato un Focus intitolato «Domani» che, come ha spiegato Carmelo Rifici, si propone di avvicinare il pubblico a «un teatro che si interroga sulle nuove forme della comunicazione, sull’invasione delle tecnologie, dei social, che pone lo spettatore al centro del proprio lavoro». Ma con approcci diversi. Si va da Nachlass dei Rimini Protokoll (da poco andato in scena al Padiglione Conza) a Re-
member The Dragons del gruppo belga Berlin (21-25 marzo) per passare a Nettles, ultima creazione della compagnia ticinese Trickster_P (11-15 aprile) e concludere con Five Easy Pieces di Milo Rau (13-14 aprile). È bene notare che vi prevalgono produzioni svizzere. A cominciare da Nachlass di Stephan Kaegi e Dominic Huber, parola che in tedesco significa «lascito,
Una delle stanze in cui va in scena Nachlass. (www.rimini-protokoll.de)
eredità» o, in altri termini, che cosa resta di noi dopo la morte. Ma anche, che cosa immaginiamo possa restare nella memoria del prossimo dopo l’ultimo viaggio. «Nachlass è un teatro senza attori», una definizione aderente alla sua natura di installazione, una costante di molte opere site specific, le espressioni artistiche concepite per luoghi particolari. In questo caso il collettivo guidato dal solettese Stefan Kaegi ne è un esempio emblematico già a partire dal 2000, anno di nascita dei Rimini Protokoll. Nachlass consiste in otto testimonianze distribuite in altrettante stanze arredate con oggetti. Attraverso un documento audio (in alcuni casi anche video) il pubblico si accomoda e ascolta una voce raccontare la propria vita come per un ultimo saluto. Ecco così la vita di un ingegnere e spericolato base jumper, quella di uno scienziato, di un’ambasciatrice dell’UE nel Terzo Mondo, di un impiegato, di un commerciante in pensione, di una segretaria, di un grafico e di un anziano bancario con la moglie. Storie diverse e molto personali in cui si intrecciano la malattia, l’età o il rischio. Storie dove la morte aleggia in
un archivio virtuale di tracce da condividere e dove la riflessione del fruitore diventa protagonista. Arrivederci Geppetto!
Dopo una lunga tournée e una cinquantina di repliche accolte da un grande successo di pubblico e di critica, si sono concluse a Locarno le rappresentazioni di Geppetto e Geppetto, Premio Ubu 2016 per il Miglior progetto o Novità drammaturgica, scritto e diretto da Tindaro Granata. In scena per la stagione di CambusaTeatro (nella sua nuova casa dello Spazio Elle di Locarno), lo spettacolo nato dalla penna del giovane artista siciliano è la storia inventata – ma non troppo – di una coppia omosessuale che decide di avere un figlio da un «utero in affitto». Un tema forte e sensibile che diventa il manifesto di uno scontro culturale e sociale di assoluta attualità. Ottimo attore, oltre che drammaturgo e regista, Granata ha il pregio di offrire una recitazione brillante, spontanea e di grande intensità con Alessia Bellotto, Angelo Di Genio, Carlo Guasconi, Paolo Li Volsi, Lucia Rea e Roberta Rosignoli.
La locandina del film di Guadagnino.
del film, ossia la scoperta della propria sessualità. Luca Guadagnino nasce a Palermo da padre siciliano e madre algerina, e vive in Etiopia per vari anni. Si laurea a Roma, ma i suoi film sembrano da sempre più apprezzati all’estero. Era il caso di Io sono l’amore del 2009, del quale si diceva «raffinato nelle immagini, grandiloquente nel messaggio, piuttosto disordinato nella sceneggiatura come nel montaggio». A un anno dal suo esordio a Sundance, dove gli americani l’hanno come sempre adorato, ha sorpreso un po’ tutti. E ora ha ottenuto quattro Nomination agli Oscar: miglior film, attore protagonista, sceneggiatura non originale e miglior canzone. Guadagnino gira in inglese, con attori americani; la sua ambizione estetica è stata guardata a lungo con sospetto dalle nostre parti. Almeno quanto la sua vena, spesso etichettata come borghese. Alla Visconti, o Pasolini, sebben più banalmente; oppure, come qui, un po’ alla maniera del Bertolucci di Io ballo da sola. Gli attori sembrano crederci e per la sceneggiatura il regista si avvale della collaborazione del grande maestro James Ivory. Mettendoci però con emozione, per la prima volta senza eccedere più di tanto, molto del suo.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Idee e acquisti per la settimana
Sapore e tenerezza impareggiabili Attualità Gli specialisti dell’Angolo del Buongustaio di Migros Ticino vi invitano ad assaggiare lo Swiss Black Angus.
I consigli di Christian Lepori, capo-macellaio del supermercato Migros di Taverne
L’Angus è una razza bovina originaria della Scozia, dove già nel 18° secolo veniva apprezzata per la qualità della sua carne. Grazie ai pionieri dell’allevamento di vacche madri in Svizzera questa razza bovina venne introdotta all’inizio negli anni Settanta e oggi nel nostro Paese se ne contano ca. 14’000 capi. Le aziende certificate Swiss Black Angus devono soddisfare elevati standard di qualità IP-Suisse relativi a biodiversità e allevamento. Le madri vivono con i propri vitelli in un sistema di stabulazione libera con accesso costante ad un cortile all’aperto e uscite regolari al pascolo durante il periodo di crescita. L’alimentazione è costituita da erba fresca e foraggi autoctoni. La soia è vietata. Signor Lepori, perché la carne di questa razza è tra le più rinomate al mondo? Rispetto ad altre razze, l’Angus possiede una carne con fibre delicate con una bella marmorizzazione (distribuzione dei grassi). Queste particolarità le conferiscono un sapore intenso, una particolare tenerezza e una succosità unica. Inoltre, prima di giungere nelle nostre macellerie, la carne subisce una frollatura a secco all’osso di almeno due settimane. Quali sono i tagli disponibili nelle macellerie Migros? La scelta include sia tagli nobili quali scamone, filetto, entrecôte e costata, sia tagli più «convenzionali» come bistecche, costa schiena, cappello del prete, aletta, lesso, spezzatino e fesone spalla. I pezzi che meglio valorizzano la qualità della carne? Sicuramente quelli più pregiati, nella fattispecie il filetto, l’entrecôte, lo scamone e la costata. Come si cucinano alla perfezione questi prelibati tagli? È importante togliere la carne dal frigorifero almeno un’ora prima della preparazione affinché sprigioni tutti i suoi aromi. Il primo aspetto fondamentale è non eccedere con i condimenti, dal momento che questa carne già possiede naturalmente un sapore intenso e caratteristico. Anche solo un pizzico di sale grosso e pepe macinato fresco prima della preparazione sono più che sufficienti. La cottura può avvenire sia in padella, in poco olio, sia sulla griglia. La carne va rosolata a fuoco vivo per 3-5 minuti per lato. È possibile terminare la cottura in forno a bassa temperatura (massimo 100°C) fino al raggiungimento della temperatura al cuore desiderata: ideale tra i 50° e 60°C per ottenere una carne rosata, succosa e tenera al punto giusto.
Christian Lepori della filiale Migros di Taverne con alcuni pregiati tagli di Swiss Black Angus. (Foto Flavia Leuenberger Ceppi)
Cos’è l’Angolo del Buongustaio?
Lo Swiss Black Angus viene allevato al pascolo e si nutre di erba fresca.
L’Angolo del Buongustaio è un nuovo spazio dedicato all’alta gastronomia, situato all’interno dei reparti macelleria di Migros Ticino, dove trovare un ventaglio di specialità, tutte appositamente selezionate dai nostri esperti, di qualità eccelsa ad un prezzo giusto. I prodotti proposti sono lo specchio dei valori fondamentali di Migros Ticino: artigianalità, sostenibilità, cultura gastronomica, tradizione e produzione responsabile.
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Idee e acquisti per la settimana
Un grande classico
Attualità Il risotto allo zafferano non è solo
uno dei piatti tipici del carnevale, è anche un gustoso primo che nasconde una storia curiosa e lontana nel tempo
Un’antica credenza racconta che la nascita del risotto giallo alla milanese risale al 1574, in occasione della costruzione del Duomo di Milano. Un certo mastro Valerio, esperto vetraio incaricato di concludere i lavori alla vetrata della cattedrale, usava miscelare i colori aggiungendo un po’ di zafferano per ottenere degli effetti cromatici esclusivi. Tuttavia, mastro Valerio era pure conosciuto per essere un amante del buon vino e un assiduo frequentatore di trattorie, tanto che la bella figlia doveva
spesso andare a cercarlo. In una di queste bettole la ragazza conobbe il figlio dell’oste e, dopo essersene innamorata, convolarono a nozze nel settembre di quell’anno. L’aiutante di mastro Valerio, anch’esso innamorato della ragazza, spinto dalla gelosia tentò di impedire il matrimonio aggiungendo al risotto del banchetto un pizzico di zafferano. Il suo intento tuttavia ottenne l’effetto contrario: tutti i commensali rimasero conquistati dalla sorprendente bontà nata dalla maldestra pensata.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Idee e acquisti per la settimana
La cura dell’epidermide in inverno
Addio alla pelle secca!
L’aria invernale disidrata la nostra pelle. Speciali principi attivi hanno un effetto particolarmente idratante. È ciò che fanno le creme per la doccia, gli oli e le creme da giorno a marchio I am Natural Cosmetics, pH balance, Sanactiv e Zoé
L’estratto di cotone biologico, l’olio di sesamo e l’aloe rafforzano la capacità di resistenza delle pelli sensibili. I am NC Pure Senisitive Body Lotion 350 ml Fr. 9.80 Nelle maggiori filiali
L’urea è un principio attivo idratante presente in natura nella nostra pelle. È l’ideale per le pelli secche. pH balance docciacrema 250 ml Fr. 3.90
L’olio di mandorle, naturale e senza aggiunta di additivi, aiuta in caso di pelle secca e di prurito. È adatto anche per curare la pelle delicata dei neonati. Olio di mandorle Sanactiv 150 ml Fr. 7.20 Nelle maggiori filiali
La crema certificata «aha!» per la cura anti-aging ha un effetto emolliente sulle pelli molto sensibili e sulle rughe. Dermatologicamente testata. Zoé Ultra Sensitive anti-age crema da giorno 50 ml Fr. 15.90
iMpuls – consiglio di lettura
Di cosa necessita la pelle in inverno? Il clima invernale strapazza l’epidermide. Leggi in che modo il nostro organo più esteso si mantiene in salute durante il periodo più freddo dell’anno: www.migros-impuls.ch/pelle
iMpuls è l’iniziativa della Migros in favore della salute.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Idee e acquisti per la settimana
Farmer
Una carica di energia quotidiana
I prodotti ai cereali Farmer forniscono energia per le giornate attive sulla neve.
Foto alamy
Sia a colazione, sia come spuntino tra i pasti, i prodotti dell’assortimento Farmer forniscono al nostro corpo molta energia. Barrette ai cereali, müesli e delicati yogurt apportano preziose sostanze quali proteine, vitamine e fibre alimentari utili all’organismo. Inoltre, il birchermüesli «Fit» non contiene zuccheri aggiunti. Insomma, ognuno troverà la propria porzione di sostanze nutritive per affrontare con vitalità una bella battaglia di palle di neve...
Farmer Soft Choc Mela 290 g Fr. 4.50
Farmer Crunchy Miele 240 g Fr. 4.40
Farmer Bircher Müesli Fit 700 g Fr. 4.80
Farmer Croc Bacche 500 g Fr. 5.–
Farmer Plus Crunchy Mix 600 g Fr. 5.70 Nelle maggiori filiali
Farmer Plus Cranberry-Protein 150 g Fr. 4.90
Farmer Joghurt Crunchy Choco 225 g Fr. 2.–
Farmer Joghurt Crunchy Bacche 225 g Fr. 2.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 12 febbraio 2018 • N. 07
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Idee e acquisti per la settimana
Farmer
Una carica di energia quotidiana
I prodotti ai cereali Farmer forniscono energia per le giornate attive sulla neve.
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