Azione 37 del 11 settembre 2017

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXX 11 settembre 2017

Azione 37 ping -71 M shop ne 41-49 / 65 i alle pag

Società e Territorio Il viaggio estivo di sei ragazzi di scuola media al centro di accoglienza per richiedenti l’asilo di Mineo, in Sicilia

Ambiente e Benessere Intervista a Federico Caligaris Cappio, direttore scientifico dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro su realtà e futuro dell’immunoterapia

Politica e Economia Dai Balcani al Mediterraneo: ora la rotta dei migranti è anche quella del Mar Nero

Cultura e Spettacoli Al Castello Visconteo di Pavia aperta una grande mostra sulla cultura dei Longobardi

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di Rampini e Natale pagina 23

AFP

Kim rimescola le alleanze

Roulette russa in salsa asiatica di Peter Schiesser Dopo il test nucleare con una potenza superiore alle bombe che hanno distrutto Hiroshima e Nagasaki, percepito come un terremoto di 6.3 gradi Richter, seguito al lancio di un missile intercontinentale sopra il Giappone, dobbiamo chiederci ancora: ci sarà una nuova guerra di Corea? A mente fredda gli analisti dicono di no, che il dittatore nordcoreano Kim Jong-un ha una strategia lucida. La risposta, però, non è esaustiva: che cosa succederà se le provocazioni non cesseranno? Per costruire una risposta più articolata, dovremmo prima di tutto sapere che cosa vogliono Kim Jong-un, Donald Trump e gli Stati Uniti, la Cina di Xi Jinping (senza dimenticare la Russia, il Giappone, la Corea del Sud). Ma esattamente non lo sappiamo. La tesi più accreditata è che Kim Jong-un non vuole fare la fine di Gheddafi, liquidato dopo aver rinunciato all’atomica: con la sua personale strategia della «deterrenza nucleare» si garantisce una difesa formidabile da nemici esterni e rafforza il suo regime. Nessuno si sognerà di sferrare il primo colpo se la Corea del Nord sarà in grado di inviare missili con testate nucleari fino negli Stati Uniti e deva-

stare la vicina Corea del Sud. Altresì, Kim Jong-un non ha interesse a iniziare una guerra atomica, perché in risposta il suo regime verrebbe distrutto. Dunque, a cosa ambisce la Corea del Nord, con i suoi test missilistici e atomici? A spingere gli Stati Uniti al tavolo dei negoziati e a essere riconosciuta come potenza nucleare, si argomenta. Tuttavia, sul «New York Times» (5.9.’17) l’esperto nucleare che ha servito sotto Obama John Wolfsthal mette in guardia: «chi vi dice di sapere che cosa vuole la Corea del Nord, mente o tira a indovinare». E Andrei Lankov, della Kookmin University di Seul afferma nello stesso articolo del NYT che la Corea del Nord, nel tentativo di forzare una riunificazione, potrebbe anche provocare un conflitto con il Sud e poi minacciare gli USA di una rappresaglia atomica per dissuaderli a intervenire in aiuto di Seul. Gli Stati Uniti sarebbero costretti a scegliere se difendere un alleato o se stessi. «La probabilità è bassa ma reale», dice Lankov. E gli americani? A fronte di un regime nordcoreano noto per mentire da decenni, hanno un presidente Trump che le spara grosse, che si contraddice da mattina a sera, passando da minacce di guerra a offerte di colloqui diretti con Kim, convinto del proprio talento di ne-

goziatore (vedi Rampini a pag. 23). Ma quale deal potrebbe ottenere? La Corea del Nord non rinuncerà alla bomba atomica, se un accordo fosse possibile sarebbe solo a vantaggio di Kim, che intende inoltre ottenere il ritiro delle truppe americane dal Sud. Quindi, poiché Trump non sarà così folle da ordinare un’azione militare preventiva, continuerà a inveire, impotente, contro ogni nuova provocazione, lasciando che gli USA perdano credibilità fra i loro alleati asiatici? E infine, la Cina (ne scrive anche Beniamino Natale): ci si chiede se gli ultimi test missilistici e nucleari siano più una sfida a Trump o a Xi Jinping. La Cina ambisce a essere la potenza numero uno in Asia. Ma con queste provocazioni la Corea del Nord sta minando il prestigio cinese. Inoltre, crea instabilità e di riflesso riaccende l’interesse degli Stati Uniti per la regione. E questo proprio quando la Cina sta rafforzando i suoi legami economici con la Corea del Sud, mentre Trump sembrava volersi allontanare dall’Asia, voltando le spalle alla Trans Pacific Partnership e ora minacciando di rompere gli accordi economici con Seul. Eppure, Pechino non può mollare il regime di Kim, perché se crollasse si ritroverebbe i soldati americani alla proprie frontiere. Anche la Cina sembra in un vicolo cieco.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 settembre 2017 • N. 37

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Attualità Migros

M Alfabetizzazione digitale Migros Ticino Nuova scommessa della Formazione alla Scuola Club

Viviamo in un tempo di grandi cambiamenti. In campo sono attivi processi che non hanno precedenti in termini di portata e rapidità. Una delle principali forze propulsive è l’innovazione tecnologica: il mondo che abitiamo è sempre più globale e interconnesso anche grazie alle nuove tecnologie, che hanno rivoluzionato il modo in cui viviamo, lavoriamo, comunichiamo, conosciamo. E come ogni rivoluzione che si rispetti anche quella tecnologica sconvolge le

categorie precedenti, proponendone di inedite. Queste trasformazioni sono tanto radicali e fuori dalle nostre possibilità di dirigerle da apparire letteralmente «fuori controllo». Per molti la sensazione è quella di subire il cambiamento, più che esserne protagonisti. «Riteniamo vitale accompagnare tutti in questa trasformazione epocale, affinché nessuno resti indietro nell’adozione di nuovi linguaggi e strumenti» spie-

Alfabetizzazione Digitale (AD)

Alfabetizzazione Digitale (AD)

Per restare al passo con i tempi

La tecnologia digitale come strumento di integrazione

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20 ore-lezione / Fr. 490.– 5 moduli di 4 ore-lezione 1. Introduzione al PC 2. Scrivere testi e fare calcoli matematici 3. Navigazione sicura su Internet 4. Comunicare e condividere informazioni online 5. Servizi online – Sicurezza e PC TABLET & SMARTPHONE

16 ore-lezione / Fr. 392.– 4 moduli di 4 ore-lezione 1. Introduzione a Tablet & Smartphone 2. Navigazione sicura su Internet 3. Comunicare e condividere informazioni 4. Servizi online – Sicurezza e aggiornamenti del dispositivo

PC

20 ore-lezione / Fr. 490.– 5 moduli di 4 ore-lezione 1. Dallo Smartphone al PC: introduzione all’uso del PC 2. Scrivere testi – Word Processor 3. Calcoli matematici ed elenchi – Foglio elettronico e Database 4. Informarsi e formarsi su Internet – Posta Elettronica 5. Identità digitale e comunicazione online – Sicurezza e aggiornamenti TABLET & SMARTPHONE

8 ore-lezione / Fr. 196.– 2 moduli di 4 ore-lezione 1. Tablet & Smartphone a. Informarsi e formarsi su Internet b. Identità digitale e comunicazione online – Posta Elettronica 2. Sicurezza e aggiornamenti del dispositivo

ga Barbara Sangiovanni, responsabile Formazione alla Scuola Club di Migros Ticino. Per il prossimo anno formativo, la scuola ha ridisegnato totalmente il settore dell’IT, per rispondere in modo ancora più puntuale ai crescenti bisogni formativi in ambito digitale. «La nostra scuola si sta sempre più specializzando sul fronte dell’apprendimento digitale. Questa attenzione è trasversale. Da un lato, la formazione dei formatori integra l’apprendimento digitale, promuove il lavoro in rete dei formatori e l’insegnamento in rete. Dall’altro, abbiamo sviluppato proposte alla portata di tutti coloro che desiderano utilizzare il digitale nella loro vita quotidiana». È all’interno di questa riflessione che nascono i percorsi di Alfabetizzazione digitale, con l’obiettivo di diffondere l’ABC dell’utilizzo del computer in particolare presso due popolazioni target. «Anzitutto, le generazioni che non sono nate con l’iPad nella culla. Ancora molti tra noi non si sono mai avvicinati al digitale, oppure hanno imparato ad usare il computer e gli altri device in modo intuitivo ma senza solide basi», racconta Barbara Sangiovanni. Il secondo gruppo di destinatari sono i migranti che provengono da aree non digitalizzate o poco digitalizzate. In sintonia con gli uffici cantonali, nel quadro del Sistema Fide, la Scuola Club di Migros Ticino ha progettato un percorso inedito per sviluppare le competenze di base del mondo digitale. «Siamo convinti che oggi essere al servizio delle persone significhi anche questo: garantire loro le competenze necessarie per connettersi ad altri in rete».

Nella sua progettazione la Scuola Club si è collegata alla campagna nazionale sponsorizzata dalla CIFC, Conferenza intercantonale per la formazione continua, e dalla Federazione svizzera Leggere e Scrivere. Forte è l’interesse comune a diffondere le «competenze di base», premessa dell’integrazione sociale ed economica, che non possono più escludere l’uso delle nuove tecnologie. L’investimento di oggi significa una società più forte, integrata e competente di domani. L’approccio della Scuola Club è orientato alla pratica e al trasferimento immediato di quanto appreso nella vita di ogni giorno. «Proprio perché abbiamo sviluppato competenze sofisticate, come insegnare agli insegnanti, pos-

siamo assicurare anche un accompagnamento costruito attorno alle singole persone e ai lori bisogni. Abbiamo pensato a “corsi flash”, rapidi e concentrati, che offrono elementi di base per poter sperimentare subito l’ambiente digitale e le sue opportunità, dallo scrivere un’email al fare ricerche sul web». Conclude Sangiovanni: «Ci definiamo “società della conoscenza”, ma in realtà sappiamo pochissimo di come funzionano molte delle cose attorno a noi. Vogliamo accompagnare le persone ad adoperare consapevolmente questi strumenti, e aiutarle non solo a gestire meglio le informazioni, ma a organizzare il loro sapere». Educare al nuovo mondo digitale passa anche da qui.

In corsa per la speranza

Professioni in cornice, l’esposizione

(o a camminare) a scopo benefico, per la dodicesima volta

Orientamento I l Centro Migros

Anche quest’anno le note di Never give up for a dream di Rod Stewart rappresenteranno la colonna sonora che scandirà la giornata, ricordando il coraggio e il messaggio di speranza veicolato in tutto il mondo da Terry Fox nel 1980. In seguito alla perdita di una gamba causata da un osteosarcoma, nel 1980 il giovane Fox decide di attraversare il Canada, chiedendo a ogni persona incontrata sul cammino un dollaro da devolvere alla ricerca contro il cancro. L’iniziativa di Terry Fox diventa così la Corsa della Speranza. Stroncato dalla malattia nel 1981, il sogno di Terry continua a vivere grazie all’istituzione della Terry Fox Run, che si corre da quasi quarant’anni in più di 50 paesi nel mondo. Da allora e grazie al sostegno dei partecipanti, la Corsa della Speranza ha raccolto quasi 400 milioni di franchi. Anche in Ticino, in virtù della generosa partecipazione (più di 3000 iscritti alla scorsa edizione), nell’ultimo decennio la corsa ha potuto dare un contributo a molteplici studi e ricerche condotte sotto la guida della Fondazione Ticinese per la Ricerca sul Cancro. E anche quest’anno, il messaggio rimane legato alla solidarietà verso i malati e i loro famigliari. Il 16 settem-

«Scuola media e... poi?» è la guida informativa e sistematica che raccoglie i percorsi formativi presenti in Ticino. I contenuti del quaderno sono arricchiti da una scelta di opere d’arte che raffigurano le professioni nei secoli. E proprio una selezione di queste opere è oggetto della mostra, situata all’esterno del centro commerciale Migros a S. Antonino, all’entrata nella zona delle gradinate. Quaranta pannelli espositivi con grandi manifesti riproducono altrettante opere d’arte, dal 480 a.C. fino ai giorni nostri. Su ogni manifesto figurano, oltre alla riproduzione dell’opera e alla relativa didascalia del dipinto e ai dati sull’autore, le informazioni di base essenziali sulla professione rappresentata: vi è una fotografia del/della professionista dei giorni nostri, la corretta denominazione professionale, la durata e il grado della formazione. Con questo evento l’Ufficio dell’ orientamento vuole sensibilizzare il pubblico sull’esistenza di una grande varietà di materiale informativo (cartaceo, audiovisivo e elettronico) su professioni e formazioni, offerto dal Servizio documentazione e dall’Infocentro a Bellin-

Solidarietà A Lugano ci si prepara sabato 16 settembre a correre

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Nella scorsa edizione gli iscritti sono stati più di 3000. (S. Capocasale)

bre la partecipazione in Piazza della Riforma sarà un modo per stare tutti insieme, per condividere la speranza e la solidarietà, per trovare degli spazi di felicità e di festa, in modo che la solidarietà possa diventare un concetto chiave e imprescindibile per la nostra società. Iscrivendosi alla manifestazione (con un contributo di 25.– per gli adulti e di 10.– per i bambini) si riceve il kit di partecipazione nel quale, oltre alla maglietta, è inclusa una giornaliera

Arcobaleno. Sin dal primo pomeriggio di sabato 16 settembre sono previsti in Piazza diversi momenti d’intrattenimento e spazi di informazione scientifica sul cancro, le sue cure e le istituzioni presenti sul territorio. La corsa partirà alle 18.30, attraversando e animando le vie della città con un percorso di circa 5 km. Alla fine la serata sarà allietata da un pasta party. Ulteriori informazioni sono disponibili sul sito ufficiale della manifestazione: www.corsadellasperanza.ch.

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

di Sant’Antonino ospita le opere d’arte selezionate da «Scuola media e... poi?»

Tiratura 101’766 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Fortunato Depero, Il legnaiolo, 1912.

zona, struttura dell’orientamento accessibile a tutti liberamente, tutti i giorni e senza appuntamento. Durante il periodo dell’esposizione è anche prevista, all’interno del centro commerciale Migros, una postazione informativa con la presenza di specialisti dell’orientamento, a disposizione per rispondere alle domande degli utenti. L’esposizione si sposterà a ottobre al Centro Serfontana a Morbio per proseguire, nel mese di novembre, alla scuola media di Locarno Morettina e infine a Espoprofessioni dal 5 al 10 marzo 2018. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 settembre 2017 • N. 37

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Società e Territorio Aeroporto di Agno Il Consiglio comunale di Lugano è chiamato a discutere il messaggio sul rilancio che chiede un investimento di 20 milioni

Pubblicazioni Nel suo ultimo saggio il geografo Claudio Ferrata si occupa di territorio e del rapporto di quest’ultimo con l’abitare pagina 6

Semplicemente meglio! È questo lo slogan scelto dalla nuova campagna nazionale a sostegno delle competenze di base, l’obiettivo è migliorare le capacità di lettura, scrittura, calcolo e uso delle tecnologie pagina 8

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Da sinistra Francesco, Yvan, Shana e la docente Sultan Filimci. (S. Spinelli)

In viaggio verso l’altro Incontri Un progetto nato tra i banchi della scuola media di Bellinzona ha portato tre docenti e sei ragazzi

in una «vacanza» siciliana, per conoscere gli immigrati e chiedere loro chi sono Sara Rossi Guidicelli «Sapevamo numeri, abbiamo trovato persone», mi dice Yvan, 15 anni, maglia col cappuccio, sguardo da saggio. Lui e i suoi compagni hanno studiato, letto, si sono documentati, perché un viaggio così, lo si prepara con cura. E la loro docente di italiano, Sultan Filimci, prima di proporlo come attività privata estiva, ha lavorato con tutta la classe, per mesi. Poi ha detto: perché non andare in Sicilia anche noi come quel giornalista in quel documentario? Tutti volevano, però chi aveva un impegno, chi un altro, e sono partiti in sei. Yvan è di un’altra classe, ma si è aggiunto. Tre docenti e sei ragazzi. Alloggiati a casa di due locarnesi che hanno stabilito la loro vita laggiù, sotto l’Etna e vicino al più grande Centro di accoglienza per richiedenti l’asilo d’Italia: il C.A.R.A di Mineo. Siamo al Grottino Ticinese, a Bellinzona, proprio vicino alla scuola media che hanno appena terminato. L’anno prossimo andranno al Liceo, alla Commercio, a fare un apprendistato, ma non siamo lì per parlare di questo, mi vogliono raccontare il viaggio che hanno intrapreso quest’estate, a inizio luglio. Meno di una settimana che li ha resi diversi, mi dicono. «Sembra che il mondo lo puoi conoscere grazie alla televisione, a internet. Ma non è così: quando vedi le cose le scopri davvero e le capisci molto meglio», è una delle riflessioni che mettono sul tavolo.

In realtà tutto è partito da Elyas, un compagno arrivato qualche anno fa dall’Eritrea. Era un minore non accompagnato: vuol dire che quando gli chiedevi «Dov’è tua mamma?» ti rispondeva: «In prigione». È stato in Libia, ed è noto che la Libia, per una persona che sta migrando, significa l’inferno. È arrivato in Ticino da solo e non parlava italiano. I compagni lo hanno aiutato a imparare e hanno cominciato a fargli domande. Lui ha raccontato e loro hanno trascritto domande, risposte, canzoni. Ne è nato uno spettacolo con accompagnamento musicale, che hanno portato in giro, nelle altre sedi scolastiche. Poi Sultan Filimci e altri docenti di italiano hanno trovato un libro Non dirmi che hai paura di Giuseppe Catozzella e lo hanno letto in classe; infine è venuto Stefano Ferrari, regista Rsi, a presentare il suo documentario Lo stesso mare. «Senza avere niente contro le vacanze in spiaggia sotto l’ombrellone, ho pensato che far fare un vero viaggio ai miei studenti sarebbe stato un grande regalo, per loro e per me», racconta l’insegnante con entusiasmo. «Abbiamo ripercorso i passi di Stefano a modo nostro, integrando anche momenti di svago come visite al vulcano, panzerotti e granite alla pesca. Però abbiamo passato attimi indimenticabili insieme a persone diverse da noi, che ci sono sembrate più vicine». Il primo incontro con il diverso, a dire il vero, è stato con Enos e Margheri-

ta Nolli, i due locarnesi. «Sono molto legati alla religione; per esempio pregano sempre prima di mangiare», mi spiegano i ragazzi. «Noi abbiamo pregato con loro, anche se tra di noi c’è chi ha un’altra religione, chi non ne ha nessuna, chi non ha mai pensato che si può dire grazie per il cibo in quel modo. Ma lo scopo del nostro viaggio era anche questo: accettare le altre culture, unirci a quello che incontravamo pur restando noi stessi». Pastore protestante, insieme alla moglie Margherita, Enos è il responsabile di Gioventù in Missione, associazione italiana che presta aiuto ai bisognosi. E infatti casa loro è grande abbastanza per accogliere tutti, ospiti di passaggio, classi, e anche i nostri giovani reporter di Bellinzona. Per loro i Nolli hanno organizzato incontri con un gruppo di uomini del Centro di accoglienza di Mineo e con una donna nigeriana che ora lavora come badante in città. «Pensavo che i migranti sarebbero stati più chiusi con noi, invece ci hanno raccontato la loro vita e alla fine abbiamo cantato e ballato insieme; non c’erano più né africani né europei, solo un grande noi», mi racconta Francesco. «Gli abbiamo chiesto varie cose sulla loro famiglia, sulle condizioni di vita che hanno lasciato e sulle speranze per il futuro; ma anche loro ci facevano domande su di noi, sul posto dove abitavamo. C’era un docente di storia che avrebbe voluto venire con noi e insegnare nella nostra scuola». Qualcuno, un uomo ar-

rivato dal Ghana, ha intonato un canto religioso e gli altri lo hanno seguito; chi non conosceva le parole batteva le mani. Poi Sultan Filimci ha fatto una mini lezione di italiano per insegnare a quegli uomini le parole più importanti (i colloqui si erano svolti in francese e inglese), si sono fotografati a vicenda e alla fine si sono salutati. «Quello che ne è risultato è che molti sono partiti perché avevano fame e alcuni addirittura mancavano di acqua potabile; abbiamo scoperto che sono partiti pur sapendo cosa li aspettava; che sono partiti per salvare o dare una mano alle loro famiglie; che volevano magari solo andare nel nord Africa a cercare lavoro ma poi sono finiti nelle maglie dei trafficanti di esseri umani, in Libia. Ci hanno detto che per sfuggire alla Libia avrebbero fatto qualsiasi cosa, anche attraversare a nuoto il Mediterraneo». E un viaggio sul barcone non è poi molto diverso. Il giorno seguente i ragazzi hanno parlato con una donna, che è partita dal suo paese, la Nigeria, è arrivata in Italia e ora fa la badante. Si è dichiarata felice. «Non ho mai visto i miei studenti esprimersi così bene come dopo quegli incontri», afferma l’insegnante. «Li ho filmati subito, chiedendo loro a caldo cosa avevano provato. Avevano gli occhi lucidi e dicevano che si sentivano fortunati, perché anche se qualcuno ha una famiglia un po’ sgretolata, è pur sempre a conoscenza di dove si trovino suo padre, sua madre e i suoi fratelli; hanno

parlato di muri che sono crollati e di sorrisi impensabili, in mezzo a tanto dolore. Davvero, non li ho mai sentiti parlare in modo così preciso, fluido e partecipe. Ho capito che avevo fatto la cosa giusta, li avevo portati a vedere un pezzo di realtà e loro lo stavano raccontando, come piccoli giornalisti che prendono appunti e rielaborano ciò che hanno scoperto». Come docente, spiega, sentiva che doveva affrontare uno dei grandi temi di attualità più complessi, in grado di dividere profondamente i partiti politici. Leggere e approfondire è stato sufficiente, ma per andare oltre bisognava spostarsi di persona per guardare uno spicchio microscopico della realtà, ma che fa la differenza. «La cosa che mi ha sorpreso di più? Provare le emozioni che ho provato», mi dice Shana, che non esita a definirsi «diversa da prima e più cosciente, dopo questa esperienza in cui abbiamo visto quello che non potevamo immaginare». Prima di ripartire hanno fatto il bagno vicino a Taormina, sono saliti sull’Etna e hanno intervistato un’assistente sociale che lavora per Oxfam, una Ong che opera sul territorio per combattere la povertà. «Quando siamo atterrati a Milano e poi siamo rientrati a casa, era strano vedere di nuovo le nostre montagne invece del vulcano, pagare una pizza 20 franchi invece che 5 euro e bere granite “pessime”», ridono, condividendo un ricordo forte, che solo loro, a questo tavolo, hanno vissuto.


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Società e Territorio

Manovre di volo

Aeroporto Il futuro dello scalo luganese fa discutere. Il Municipio propone di rilanciarlo

chiedendo di investire 20 milioni di franchi. Ma i pareri critici non mancano Fabio Dozio Voolaare oh, oh… chissà quanto, come e se a Lugano Agno si continuerà a volare. Se proseguirà la leggenda nata ottanta anni fa grazie a tre pionieri dell’aviazione. Nel 1937 si costruì una prima pista, ma l’aerodromo vero e proprio fu realizzato dieci anni dopo e inaugurato il 12 agosto del 1948. Negli anni quaranta le cronache invitavano la Città ad avere più attenzione nei confronti del «Campo di Agno»: «Lugano deve guardare allo sviluppo imponente del campo di Agno con maggiore simpatia. Si vogliono fatti e non parole: il campo di Agno deve diventare il campo della città di Lugano. Soltanto allora l’aviazione potrà fare un grande passo avanti». Sono passati settant’anni e siamo daccapo. Oggi l’aeroporto è proprietà della Città, ma da anni la società che lo gestisce, Lugano Airport SA (LASA), è traballante. Il Comune ha pompato nelle casse di LASA fior di milioni negli ultimi dieci anni. Ora siamo alla resa dei conti: il direttore se n’è andato, tre membri del Consiglio di amministrazione hanno dato le dimissioni, la Città chiede al Consiglio comunale di stanziare 20 milioni per rilanciare la struttura. In che modo? 6 milioni dovrebbero essere utilizzati per la costruzione di due hangar, da affittare poi ai privati che intendono parcheggiare i loro velivoli. Altri 14 milioni di franchi andrebbero per l’acquisto di terreni nella zona aeroportuale che ora sono nelle mani dei privati. Su questi spazi ci sono ora infrastrutture varie che sono redditizie. «I benefici economici derivanti da tali stabili, terreni e attività – precisa il Municipio – non affluiscono nel conto economico di LASA. Tale circostanza rappresenta un limite infrastrutturale potenziale di espansione dell’aeroporto e costituisce verosimilmente uno dei motivi principali per cui l’equilibrio finanziario di LASA non è ancora consolidato». In sostanza, la Città comprerebbe questi terreni per concederli alla società che gestisce l’aeroporto perché con questi profitti si salverebbe la baracca. Che ne dice uno dei proprietari di questi beni? «Io sono disposto a cedere i terreni – ci dice Dario Kessel, titolare della E-Aviation, vera e propria memoria storica dell’aeroporto e figlio di uno dei fondatori di Agno – al valore di stima ufficiale su cui io pago le imposte. Vale a dire 7 milioni di franchi. A queste condizioni venderei, ma il Comune offre 1,2 milioni. Un prezzo irrisorio». Ecco il primo ostacolo. Il Messaggio propone di aprire trattative bonarie con

i proprietari e, nel caso non funzionasse, di espropriare. Ma la procedura d’esproprio può trascinarsi per anni. A parte le proposte d’investimento, il messaggio è un’iperbolica descrizione delle fantastiche sorti e del futuro radioso dell’aeroporto. Il campo di Agno viene descritto come «una delle più importanti porte d’accesso al Ticino», essenziale per la politica di sviluppo economico regionale del Cantone. Ma non solo: l’aeroporto di Lugano «rappresenta un’infrastruttura fondamentale al servizio del Cantone Ticino e dell’area Insubrica in generale, ivi comprendendo le porzioni nord delle province di Como e Varese». E ancora, si afferma che lo scalo possa avere tutta una serie di impatti: diretto, indiretto, indotto e, persino, un impatto catalitico (attrattivo, dinamico), uno strumento di marketing territoriale, un magnete per un asset strategico. Un concetto, questo, estrapolato da un documento della US Federal Aviation Administration. «Fatti e non parole», si diceva negli anni quaranta… L’economista Martino Rossi, che ha esaminato bilanci e documenti di LASA e i messaggi municipali degli scorsi anni, ex capogruppo socialista in Consiglio Comunale, ritiene che la tesi dell’aeroporto indispensabile per lo sviluppo del Cantone non sia fondata. «Il Municipio dovrebbe spiegare – ci dice – perché dal 2000 il PIL del Cantone è cresciuto di oltre il 30%, gli occupati del 28%, la popolazione del 15%, mentre i passeggeri dei voli di linea e dei charter sono diminuiti del 45%!». Dopo aver letto il messaggio andiamo a visitare la struttura, in un caldo giorno di fine di agosto. Due apparecchi con le insegne della Ethiad sulla pista. Un piccolo monomotore nell’angolo vicino al parcheggio di breve durata, quasi vuoto. Quattro clienti al bar ristorante. Un jet che si appresta ad atterrare. L’atrio del terminal deserto, ma almeno fresco, con gli impiegati davanti ai loro schermi di computer. All’uscita, di fronte al bar, fa bella mostra di sé una fiammante Maserati. Unico trasporto pubblico, la navetta che porta in città, un piccolo furgone bus, ma parte solo alle 18.30, fra due ore. Ricordiamo che una delle lacune macroscopiche di Agno è la mancanza di collegamenti con i mezzi pubblici di trasporto. Il tram-treno, sul quale la Confederazione investe milioni di franchi, passa lontano… Il messaggio non ne fa menzione, forse perché incassare le tariffe dei posteggi di lunga durata fa comodo. Insomma, già a colpo d’occhio,

Il Messaggio sul rilancio dell’aeroporto sarà discusso dal legislativo. (CdT - Scolari)

Agno non mostra una grande vivacità. E in effetti, sono anni di crisi. Il periodo d’oro risale a trent’anni fa, quando Crossair era all’apice del successo. Da qui passavano 700mila passeggeri l’anno. Negli ultimi dieci anni la media è di circa 170mila persone. Tuttavia, il messaggio prospetta uno sviluppo futuro piuttosto roseo. «Le ipotesi contenute nel messaggio sono fantasiose. – commenta Dario Kessel – Io ho iniziato un paio di anni dopo la Crossair con i voli di linea. Trasportavamo in media 12 passeggeri sul volo per Roma. Minoan dopo 30 anni trasportava 12 passeggeri, non c’è stato nessuno sviluppo. Abbiamo chiuso noi, è finita Crossair, poi hanno chiuso la Darwin, Air Dolomiti e la Minoan, sparita lasciando buchi milionari. E ora si ripropone il volo Lugano-Roma. La compagnia approfitta di 800mila franchi offerti da Lugano per nuovi collegamenti di linea, propongono questo volo ma durerà 15 giorni. Il costo del volo ammonta a 200 franchi a passeggero. Viene offerto a 79 franchi. Non sta in piedi». Secondo Kessel i voli di linea non hanno futuro. In questi anni il trasporto ferroviario è diventato concorrenziale, sono nate e si sono sviluppate le compagnie low cost (con sede a Malpensa e a Bergamo). Agno, inoltre, ha molti difetti. In caso di cattivo tempo non si può decollare o atterrare. Il volo strumentale non è in funzione e quindi diversi voli vengono annullati. Molto meglio puntare sull’aviazione generale, i voli privati, secondo il nostro interlocutore, che garantisce margini certi di

profitto. Il cantone possiede il 12,5 per cento delle azioni di LASA: non potrebbe farsi sentire? Abbiamo chiesto al Direttore del Dipartimento del territorio un’opinione sul futuro di Agno, ma ci ha risposto con un «no comment». «Il Cantone ha il ruolo di chi detiene solo il 12,5% – sottolinea Kessel – e Zali non sembra avere grande interesse per l’aeroporto». Forse, per il Ticino, due aeroporti sono anche troppi. Ma quello di Locarno non può essere allungato. Una vecchia proposta di ingrandimento è stata bocciata in passato, ora i limiti dal profilo ambientale sono vincolanti, in particolare le bolle di Magadino a sud. «Una cosa si poteva fare – suggerisce Kessel – nominare direttore ad Agno l’ingegner Davide Pedrioli, responsabile dell’aeroporto cantonale di Locarno. Almeno si coordinava l’aviazione tra Locarno e Lugano. Sarebbe la soluzione ideale, così il Cantone avrebbe la supervisione». La storia dei piccoli aeroporti appartiene al passato. In Ticino i campi militari sono stati chiusi. In Europa i piccoli collassano. Si salvano quelli che riescono a riciclarsi grazie alle compagnie low cost. Le proposte di rilancio contenute nel messaggio municipale appaiono a molti osservatori come irrealistiche. È difficile immaginare che si possano raggiungere i 375mila passeggeri nel 2026, come profetizza il Municipio. Il «piano industriale» prefigurato prevede una partnership tra pubblico e privato in quanto «l’aeroporto rappresenta un investimento interessante e redditizio per i privati». Inoltre, scrive il Municipio, «l’aeroporto rappresenta

uno degli elementi chiave per il rilancio dell’economia del territorio, non deve quindi essere percepito solo come una voce di costo ma come un investimento per il futuro dell’economia della Regione, sia in termini di impiego diretto che d’indotto». Dire che si tratta di investimento piuttosto che costo dovrebbe preoccupare. Potrebbe significare che la Città dovrà continuare a spendere e a saldare i debiti di LASA. Però, un dato positivo e certo almeno c’è: è il numero degli impiegati ad Agno: 81 dipendenti, che rappresentano 70 posti di lavoro a tempo pieno. Il Consiglio comunale di Lugano ha stanziato più di 33 milioni di franchi per crediti di investimento a beneficio dell’aeroporto, dal 1999 al 2011. Dal 2010 al 2016 Lugano ha elargito a LASA più di 4 milioni di franchi di contributi per l’affitto, con un meccanismo pernicioso: la Città sovvenziona LASA per farsi pagare l’affitto! Ciò nonostante, LASA ha conseguito per anni deficit d’esercizio. Insomma, senza essere esperti contabili, bisogna ammettere che siamo di fronte a una gestione (quasi) fallimentare. Il punto cruciale alla fine è questo: lo scalo di Agno va considerato un servizio pubblico? Se si ritiene indispensabile l’aeroporto, quanto può spendere il Comune, e dunque i contribuenti luganesi, per tenerlo in vita? Ora se ne dovrà occupare il legislativo della Città, discutendo il Messaggio sul rilancio. PPD e Lega sembrano disponibili a un ulteriore sostegno; l’UDC è più critica e chiederà maggiori ragguagli. Fra i liberali radicali c’è qualcuno particolarmente critico, che vedrebbe di buon’occhio il ritiro del messaggio da parte del Municipio. Socialisti e i Verdi sono decisamente in disaccordo e propongono di valutare l’impatto di una eventuale chiusura dell’aeroporto, considerando che si libererebbe un enorme terreno di proprietà della Città, 37 ettari, sul piano del Vedeggio. Nelle prossime settimane si dovrà completare il Consiglio di amministrazione, amputato di tre membri, e nominare il nuovo direttore. Se prevarrà la politica invece della competenza sarà un motivo in più per indebolire il rilancio. Un ritiro del messaggio potrebbe offrire l’occasione al Municipio di proporre scenari più realistici e diversi su cui discutere e decidere. Da ultimo, se le voci critiche nel Legislativo e in Città aumentano, potrebbe essere indetto un referendum popolare. Un’opzione che avrebbe il merito di far decidere ai cittadini, che pagano, le sorti dell’aeroporto.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Dacia Maraini, Telemaco e Blob. Storia di un’amicizia randagia, Rizzoli. Da 7 anni Scaturita dal grande amore dell’autrice per i cani, questa piccola storia (già edita in passato e ora ripubblicata in nuova veste da Rizzoli) va ad aggiungersi ad altri suoi racconti cinofili per bambini. La storia è semplice e il protagonista forse ispirato a un cane reale, Telemaco, setter irlandese che amava frequentare meticci e randagi. Telemaco vive tra gli agi, ma tutto quel lusso gli va stretto e preferisce l’avventura on the road, soprattutto se impreziosita dall’amicizia con un randagio, Blob, non particolarmente bello ma «molto arguto e intelligentissimo». A Blob si accompagna un umano, anch’egli senza casa, ossia il barbone Trucibaldo, che trascorre le notti sotto un ponte del Tevere. Dacia Maraini ambienta la sua storia a Roma, ma l’evidente (fin

troppo?) metafora dell’amicizia tra diversi, abbattendo ogni barriera di provenienza e di classe sociale, la rende una storia universale. C’è anche una dimensione avventurosa, che si esplica quando Blob sparisce e Telemaco si mette coraggiosamente alla sua ricerca. Il coraggio è degli animali più che degli umani, e nessun umano esce bene da questa storia: non i padroni di Telemaco, che non lesinano il denaro e

sono invece avari di affetto; non la domestica, che Telemaco tiene buona facendo il buffone («Ma con gli umani è così – si diceva – devi farli ridere o piangere altrimenti ti mordono»); e nemmeno il barbone, che non si prende la fatica di cercare i cani, limitandosi «ad invocarli mandando giù sorsate di vino cattivo». Tutto il lavoro lo fa Telemaco, ex signorino che si guadagna un profilo da eroe, e che alla fine sceglie la via più scomoda ma più ricca d’amore, quella di condividere il resto della sua vita con il suo amico Blob. Arricchiscono notevolmente questo breve racconto la nuova veste grafica e le belle illustrazioni di Pia Valentinis. Cristina Bellemo-Romina Marchionni, Qualcosa da dire, Zoolibri. Da 4 anni Una foresta surreale, di animali linguacciuti e antropomorfi, che hanno sempre, appunto «qualcosa da dire»

sugli altri. Pettegolezzi («si dice...», «gli ho sentito dire...») e stereotipi («la Vipera col problema della lingua divisa in due, non saprà leggere scrivere e neanche parlare...», «non andrei mai a casa del Cinghiale, a guardarlo dev’esserci un tal sudiciume...»). E intanto, mentre quel frenetico chiacchiericcio malevolo non si spegne, in un altrove sereno e di pace, le vittime delle maldicenze si godono la

vita, con atteggiamenti lontanissimi dagli stereotipi e dai pregiudizi, alla faccia di chi perde tempo a sparlare. È proprio il loro divertito e giocoso benessere la migliore risposta a tutte le malignità. Il cinghiale fa allegramente le pulizie di primavera, lustrando la casa per invitare la Raganella, di cui è innamorato; la Vipera tiene in due lingue lezioni all’Università, e lo Struzzo, di cui si dice che sia un po’ rintontito, organizza invece dei meravigliosi picnic, a cui forse, generosamente, inviterà anche i pettegoloni... perché si sa: più si è e più ci si diverte. Il testo di Cristina Bellemo scorre arguto, mettendo in luce i vari malintesi che possono sorgere in un ascolto ostile; le illustrazioni di Romina Marchionni danno vita e spiccata personalità ad ogni animale. Per sorridere, per imparare a conoscere davvero l’altro prima di giudicare.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 settembre 2017 • N. 37

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Società e Territorio

Lo spazio organizzato e la qualità dell’abitare Libri Il nuovo saggio del geografo Claudio Ferrata

Stefania Hubmann Riportare l’attenzione sul territorio, non tanto su specifiche situazioni di degrado o bisognose di salvaguardia, ma sulla nozione stessa di un termine di grande attualità e sovente confuso con altri concetti, simili ma distinti. È questo l’obiettivo dell’ultimo libro di Claudio Ferrata che sarà presentato mercoledì 27 settembre alle 17 al LACshop sotto forma di conversazione fra l’autore e l’architetto Enrico Sassi. La riflessione del geografo ruota attorno al concetto di abitare, dimensione che in un’epoca caratterizzata da reti e flussi resta comunque ancorata alla realtà materiale e sociale del territorio. Il territorio resistente è appunto il titolo del piccolo volume edito da Casagrande che in una cinquantina di pagine mette a fuoco i valori e i significati assunti dal concetto nel tempo con puntuali riferimenti alle grandi figure della disciplina. Il percorso dell’autore è identificabile già nell’illustrazione di copertina, dove la mappa di Bedolina, incisione rupestre della Val Camonica, s’incrocia con la rappresentazione del mondo globale contemporaneo. Ferrata parte dal significato etimologico del termine, che rimanda ad attività agricole come pure ad azioni difensive, per giungere attraverso il senso attribuitogli nelle diverse discipline alla dimensione geografica. Il territorio diventa allora

spazio organizzato, «ha una propria configurazione e dei limiti: punti, linee superfici sono elementi di quella che potrebbe essere definita la sua grammatica elementare». Grammatica ben rappresentata proprio dalla mappa di Bedolina. Il territorio non risponde però a una definizione statica essendo il frutto di un processo continuo. Su di esso incidono attori con interessi divergenti che generano conflitti. Famiglie, imprese, gruppi ed entità pubbliche rappresentano le forze in gioco su un territorio che può allora essere visto come «una grande “arena sociale”, un luogo che permette lo svolgimento dell’azione collettiva e che, a sua volta, è il prodotto di una dinamica sociale». Esso è inoltre luogo d’identità e qui Ferrata si sofferma sul rischio che la dimensione locale può comportare se idealizzata e strumentalizzata. Il sottotitolo del volume – Qualità e relazioni nell’abitare – evidenzia un altro aspetto chiave della riflessione di Ferrata. Si tratta del ruolo dell’urbanistica che, secondo l’autore, «sopraffatta dalle forze del mercato e poco incline ad assumere posizioni critiche», fatica a gestire la crescente complessità. Il suo mandato regolatore dovrebbe essere meno tecnico e più sociale. Scrive l’autore: «Sarebbe necessario che l’urbanistica si delineasse come disciplina che si occupa dell’insieme di relazioni, conoscenze e pratiche sociali inerenti lo spa-

zio, e il suo obiettivo dovrebbe essere il raggiungimento della qualità dell’abitare». Secondo Ferrata per raggiungere questo traguardo è indispensabile un approccio interdisciplinare che coinvolga tutte le forme di sapere strettamente legate al territorio, dall’urbanistica all’ecologia, dalla geografia all’antropologia, dalla sociologia all’archeologia. Solo così è possibile compiere un progresso a livello qualitativo, passando dal progetto sul territorio al progetto di territorio secondo il concetto dell’urbanista Alberto Magnaghi. Nell’analisi di un contesto così articolato non si può sottovalutare il ruolo giocato dalla scala di osservazione. Una visione dall’alto, ad esempio grazie a Google Earth, o dal basso, dal punto di vista di chi vive una realtà locale, offrono conoscenze parziali. «Se cambia la scala, cambia la problematica», scrive Ferrata, citando l’esempio del progetto di treno ad alta velocità Lione-Torino che percorre la Valle di Susa. «Nell’analisi territoriale occorre quindi saper transitare da un ordine di grandezza all’altro, da una scala all’altra». Per affrontare i problemi di organizzazione del territorio bisogna però innanzitutto capire quali valori si desidera privilegiare. È questo quanto evidenzia Claudio Ferrata nella fase conclusiva della sua riflessione, richiamando le nozioni di «territorio-laboratorio» del geografo veronese Eugenio Turri. Il territorio va visto anche come

La mappa di Bedolina, famosa incisione rupestre della Val Camonica, riprodotta sulla copertina del libro edito da Casagrande.

«il prodotto di immaginazioni, visioni e valori dei suoi abitanti» e va quindi studiato con grande attenzione prima di applicarvi conoscenze teoriche, tenendo conto anche della componente politica di ogni intervento (il «territorio-problema» di Turri). Dopo l’ampia analisi dedicata al paesaggio, sfociata nel 2013 nella pubblicazione del volume L’esperienza del paesaggio. Vivere, comprendere e trasformare i luoghi, Claudio Ferrata aiuta con questo breve saggio a chiarire un altro concetto che negli ultimi

anni ha acquisito grande visibilità. Se il primo è caratterizzato in prevalenza dagli aspetti legati alla rappresentazione, all’esperienza e alla cultura, il secondo insiste sulla produzione sociale. La qualità dello spazio costruito, la sostenibilità ambientale e quella sociale e il bene comune sono i valori ai quali rimandano le considerazioni di Ferrata che si rivolge non solo ad addetti ai lavori o insegnanti, ma a tutti gli interessati a riportare il dibattito sull’aspetto sostanziale della questione in modo chiaro e preciso. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Per non nascondersi dietro alle scuse Competenze di base L a campagna nazionale «Semplicemente meglio!» mira a migliorare le capacità di lettura,

scrittura e calcolo ma anche l’uso delle tecnologie informatiche

Alessandra Ostini Sutto Trovare la prossima coincidenza dell’autobus sul cellulare, calcolare lo sconto in un negozio, compilare il modulo delle imposte: per molte persone non è facile come a dirsi. Tale condizione si definisce con il termine «illetteratismo», che concerne gli adulti il cui livello di padronanza delle competenze di lettura, scrittura e calcolo è talmente basso da compromettere lo svolgimento dei compiti richiesti dalla vita quotidiana. L’illetteratismo si distingue dall’analfabetismo in quanto quest’ultimo riguarda le persone che non sono state scolarizzate e non hanno pertanto avuto la possibilità di imparare a leggere, scrivere e fare calcoli. Le indagini svolte indicano come in Svizzera 400’000 adulti abbiano difficoltà a risolvere semplici calcoli matematici. 800’000 non sono in grado di leggere e scrivere correttamente. Questo fenomeno ha importanti conseguenze economiche, sul piano dell’integrazione sociale, professionale e nella gestione della vita di tutti i giorni. Le percentuali per il Ticino sono proporzionalmente simili. «I dati dello studio internazionale sull’illetteratismo a cui facciamo riferimento risalgono al 2003. Per l’attualità disponiamo dei dati relativi al livello scolastico raggiunto in Svizzera e nei vari Cantoni. Anche se bisogna evitare di far automaticamente corrispondere un basso livello di scolarizzazione ad una lacuna nelle competenze di base, rileviamo come, nel biennio 2013-15, circa il 24% della popolazione residente con più di 25 anni avesse soltanto un grado secondario 1 (che equivale alla fine delle scuole medie); le strategie della Confederazione mirano a permettere a tutti di ottenere un titolo professionale e in questo contesto le competenze di base hanno un ruolo importante da giocare», afferma Pepita Vera Conforti, coordinatrice progetti per la Divisione della formazione professionale del Dipartimento dell’educazione, della cultura, dello sport. Un basso livello di qualificazione può essere causa di una lacuna nelle competenze basilari nella vita di un adulto. «Si tratta in questo caso anche di un fattore storico, dal momento che in passato l’accesso alla formazione era

ovviamente più basso rispetto ad oggi. In genere non è però un unico elemento a determinare il fatto che una persona adulta anche se sa leggere, nel senso di decifrare un testo, abbia difficoltà a comprendere il contenuto di un giornale o, per esempio, del materiale per le votazioni», spiega Pepita Vera Conforti. Tra i fattori citiamo il passato migratorio, con la necessità di apprendere la lingua del posto; un basso livello di qualificazione dei genitori (provenienza sociale); un’occupazione professionale ripetitiva, che non richiede di aggiornarsi e di utilizzare le capacità di lettura, scrittura e calcolo; l’avanzare dell’età, con la mancanza di esercizio e i relativi processi di dimenticanza. La situazione si aggrava poi con il fatto che viviamo in una società che richiede molto, a tutti e in vari ambiti, e questo fa sì che vi sia un innalzamento di quelle che sono considerate competenze di base. «Oggi per riempire un formulario bisogna saperlo fare online, per prendere un biglietto del treno bisogna usare i distributori automatici. Anche in ambito professionale sempre più processi sono digitalizzati, pensiamo per esempio alle cartelle cliniche elettroniche negli ospedali. Chi un lavoro non ce l’ha deve invece essere in grado di scrivere la lettera di presentazione, stilare il curriculum, corredato spesso da documenti digitali, e prepararsi al colloquio», commenta Pepita Vera Conforti. Una persona che non è in grado di rispondere a queste esigenze sociali prova spesso un senso di vergogna, di inadeguatezza, una paura di essere giudicata, rifiutata, che la porta ad evitare di trovarsi in situazioni dove le proprie lacune diventerebbero evidenti; in altri casi, queste persone non hanno piena consapevolezza dello svantaggio che le loro difficoltà possono produrre sul posto di lavoro e nella vita privata. «Capita che sia un momento di crisi personale a mettere di fronte ai propri limiti; per esempio la perdita del lavoro, che implica la ricerca di un nuovo impiego, oppure una situazione familiare che renda necessaria la ripresa del lavoro dopo una lunga inattività, come nel caso di un divorzio, o ancora quando un lavoro richiede che vengano acquisite delle nuove competenze, magari perché

i processi sono stati digitalizzati», esemplifica Pepita Vera Conforti. In Svizzera, meno dello 0,5% degli adulti cerca di colmare le proprie lacune, anche per la paura di non essere in grado a causa dei propri limiti. Si preferisce allora nascondersi dietro una scusa – per esempio «Ho dimenticato gli occhiali» – che aiuta ad uscire da una situazione spiacevole. Ed è proprio prendendo spunto da questo comportamento che è stata creata «Semplicemente meglio!», la campagna nazionale per la diffusione delle competenze di base. «Lo slogan scelto parte dal presupposto che le persone in questione abbiano già delle competenze, che derivano dall’esperienza, ma che queste possano essere migliorate, in modo semplice e accessibile», spiega Pepita Vera Conforti. La campagna è un progetto pilota a cui partecipa anche il Canton Ticino, ed è co-finanziata dalla Segreteria di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione e sostenuta da numerosi partner, sponsor della campagna sono la Conferenza intercantonale per la formazione continua e la Federazione svizzera Leggere e Scrivere. Lanciata a livello nazionale l’8 settembre, giornata internazionale dell’alfabetizzazione, la campagna intende diffondere alcune proposte per la promozione delle competenze di base tra gli adulti che ne sono sprovvisti e sensibilizzare la popolazione sul tema. In tal modo integrazione sociale, impiegabilità e una migliore qualità della vita vengono promosse. Le competenze di base degli adulti sono infatti un’indispensabile premessa per l’apprendimento permanente e per garantire l’inclusione sociale e professionale. Per questo motivo, dal 1 gennaio, la Legge federale sulla formazione continua impegna Confederazione e Cantoni ad adoperarsi a favore di un recupero di tali competenze, come fa, appunto, «Semplicemente meglio!». La Legge definisce inoltre quali competenze sono definite di base; esse comprendono nozioni e capacità fondamentali nei campi della lettura, scrittura ed espressione orale in una lingua nazionale, della matematica elementare e dell’utilizzo di tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Una scusa non regge a lungo.

Il Cantone Ticino partecipa attivamente alla campagna proponendo un programma specifico e coinvolgendo i partner sul territorio. Ma il vero fulcro delle attività è lo sportello di consulenza, attivo da agosto al numero 0800 47 47 47, grazie alla collaborazione della Conferenza della Svizzera italiana della formazione continua. Gli operatori rispondono alle chiamate cinque giorni su sette, fornendo, per esempio, informazioni e consigli sui corsi attivi in Ticino o che si potrebbero attivare. Il numero di telefono gratuito può interessare anche datori di lavoro o istituzioni che volessero sapere a chi rivolgersi per sostenere persone con questo tipo di difficoltà. Dato che i profili che trarrebbero profitto da un miglioramento delle

proprie competenze sono molto vari è stata fatta una ricognizione sul territorio per vedere quali dei corsi proposti dai vari enti potessero essere adatti al livello in questione. I corsi, suddivisi per categorie (Calcolare, computer, leggere e scrivere), si trovano anche sul sito della campagna. «Dal momento che i corsi e le altre misure proposte vogliono rispondere a dei bisogni sempre più individualizzati con interventi mirati, pensiamo che la consulenza offerta dallo sportello possa rivelarsi fondamentale», conclude Pepita Vera Conforti. Informazioni

www.semplicemente-meglio.ch Tel. 0800 47 47 47

Il volto umano della città

Spazio pubblico Al via a Rovio la terza edizione del Workshop di Progettazione Urbana aperto a tutti Alessia Brughera Riqualificare gli spazi pubblici come strategia per tornare a vivere appieno la città e recuperarne la dimensione umana: è questo l’obiettivo che si prefigge il Workshop di Progettazione Urbana in programma dall’11 al 16 settembre a Rovio. Giunta alla sua terza edizione, l’iniziativa costituisce una valida occasione per riflettere su come sfruttare al meglio le potenzialità delle aree a disposizione degli abitanti, al fine di renderle luoghi d’incontro piacevoli e sempre più vicini ai bisogni della collettività. «Il Workshop – ci spiega l’architetto Felicia Lamanuzzi, coordinatrice dell’atelier – vuole essere un contributo al risveglio del sopito senso di cittadinanza, ma anche un modo per promuovere il desiderio di una maggiore qualità dello spazio urbano». La trasformazione di un’area anonima o non adeguatamente valorizzata in un luogo vissuto, dove poter consolidare le relazioni sociali e la gioia della condivisione, passa proprio da una sua rivisitazione architettonica capace di evidenziarne le peculiarità e di rigenerarne la percezione da parte dei citta-

dini. Nell’edizione di quest’anno sarà la zona di Piazza Fontana a Rovio a venire sottoposta a una rilettura creativa che, partendo dall’interpretazione delle sue potenzialità e dal riguardo delle sue caratteristiche, sappia rivalutarla come spazio pubblico rappresentativo del paese e dei suoi abitanti.

Piazza Fontana: uno spazio da ripensare.

Se nell’elaborazione del progetto il Workshop si rivolge principalmente a studenti e giovani professionisti che lavorano nel campo dell’architettura, suo scopo primario è quello di coinvolgere i cittadini, figure da cui il laboratorio stesso non può prescindere non solo per il loro ruolo di potenziali fruitori,

ma soprattutto per quello di conoscitori del luogo e quindi di dispensatori di preziosi consigli per migliorarlo. La gente comune, con le sue reali necessità, è dunque chiamata a partecipare a tutti gli eventi paralleli all’atelier per discutere insieme agli addetti ai lavori proposte che possano intensificare l’interazione con il territorio. Novità di questa edizione sono gli incontri intitolati «Storie in libertà sulla città», momenti dedicati alla narrazione, soprattutto da parte delle persone più anziane, di aneddoti ed esperienze di vita nel paese. Le fotografie e gli oggetti utilizzati come testimonianza dei racconti costituiranno poi il materiale con cui verrà realizzata un’opera effimera che andrà ad arricchire l’area scelta per il progetto. Accanto a questi appuntamenti, le conferenze tenute da architetti svizzeri e italiani offriranno nuovi stimoli per un dibattito con i cittadini su argomenti di ampio respiro. L’intervento di Matteo Di Venosa si focalizzerà sull’architettura d’emergenza e sull’importanza del valore simbolico del luogo, elemento che ogni intervento sul territorio deve necessariamente rispettare; la lecture

di Stefano Moor sarà volta a indagare il delicato rapporto tra architettura e natura, troppo spesso avvertito come antitetico; Martino Pedrozzi ci parlerà della relazione tra spazio pubblico e paesaggio attraverso l’illustrazione di alcuni suoi lavori caratterizzati da una grande sensibilità nei confronti della preesistenza e dell’ambiente; il discorso di Maria Cristina Petralla, infine, sarà incentrato sull’approccio paesaggistico per affrontare un progetto architettonico, muovendo dalla convinzione che ogni buona trasformazione di un luogo debba iniziare dalla comprensione della sua anima. Il Workshop di Rovio, nella varietà delle sue proposte, diventa così un valido strumento per incentivare la riappropriazione dello spazio urbano da parte del cittadino e farne espressione della sua identità. Informazioni

www.architettolamanuzzi.com Conferenze: martedì 12 e mercoledì 13 settembre, 18.30, sotto il portico della Chiesa (in caso di pioggia nell’aula magna del Comune)


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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Altri 11 settembre La data dell’11 settembre 2001 rimarrà negli annali degli storici per aver marcato un punto di non ritorno nello sviluppo della globalizzazione e delle sue conseguenze. Di colpo ci si è dovuti rendere conto che certi confini ritenuti invalicabili nella pratica potevano essere violati, e con essi i simboli fondamentali di un disagio epocale tanto più incomprensibile quanto più diffuso ed occultato in meandri sociali e culturali di difficile lettura. L’aereo jet scagliato contro i simboli del commercio mondiale nel cuore della Prima Metropoli della modernità pone pesanti interrogativi che inglobano l’orrore nel quadro più ampio di un «chi siamo e dove vogliamo andare» paradossalmente tanto più incerto quanto più i mezzi del «yes, we can» crescono di potenza ed efficacia. Vale forse la pena nel clima sobrio di memoria e ripensamento della giornata odierna ripensare ad altri 11 settembre che ci aiutino a proiettare l’ultimo, corrente evento in quella prospettiva storica dove il «chi siamo e dove vogliamo andare» di cui sopra appare come la

costante di una Storia che sembra come forzata compulsivamente a ripetersi. Siamo nel 1581. I 130 spagnoli – compresi donne e bambini – chiusi dentro le precarie difese di Santiago de Chile, fondato da una quarantina d’anni, considerano le loro prospettive di sopravvivenza non senza una certa preoccupazione. Il conflitto con le varie tribù Mapuche poco inclini ad essere invase sembra non aver fine. Tredici spagnoli sono stati trucidati a Concon, dove una nave è anche stata data alle fiamme. Altri sei sono stati catturati e giustiziati, la miniera di Marga Marga distrutta… Fino ad ora la forza dei Conquistadores è stata la debolezza dei Mapuche: divisi al loro interno da secoli di conflitti e vendette non sono in grado di opporsi con efficacia agli archibugi degli spagnoli. È una guerra di nervi e di spie: ad un certo punto giungono notizie che i cacique Mapuche sono giunti ad un accordo per mettere da parte le loro divergenze, attaccare gli spagnoli ed espellerli dalle loro terre una volta per sempre: poi si vedrà. Pedro de Valdi-

via, comandante della piazza cilena, ritiene che si debbano disperdere i Mapuche prima che abbiano il tempo di organizzare l’assalto a Santiago. Al comando di un centinaio di uomini a cavallo si lancia al galoppo verso la valle di Cachapoal con l’intenzione di prendere i Mapuche, colà ammassati, di sorpresa. A Santiago rimangono trenta uomini a cavallo, diciotto archibugieri e circa trecento indiani Yanakuna – nemici giurati dei Mapuche – sotto il comando del Tenente Generale Alonso di Monroy. Fra gli Yanakuna, tuttavia, si annidavano spie in contatto con i Mapuche. Al comando del cacique Michimalonco si decide di giocare di contropiede. Alle quattro antelucane dell’11 settembre fra gli otto e i diecimila guerrieri Mapuche escono dalla foresta e circondano la città. Una delle guardie – Santiago de Azoca – lancia l’allarme. Comincia allora una battaglia a suon di archibugiate, frecce, sassi, insulti e quant’altro dall’una e dall’altra parte si possa mettere in campo. Pian piano, uno dopo l’altro, gli spagnoli e i

loro alleati sono feriti per quanto in maniera non grave. L’ero-crocerossina del momento è Inès de Suarez, amante di Valdivia: cura e fascia le ferite dei soldati e li rispedisce al fronte. Spazientiti dalla caparbia resistenza degli spagnoli, i Mapuche danno fuoco ai fienili che circondano la città e costringono gli spagnoli alla ritirata verso la Plaza dove opporre un’ultima, disperata resistenza. Si combatte da dieci ore. Pugni, calci e sputi: se solo due uomini sono in effetti caduti fra le fila degli invasori, tutti gli altri sono esausti e feriti in modo più o meno grave. Occorre un’escamotage risolutore: che si fa!? Dismessa l’uniforme di crocerossina, Inès marcia risoluta verso un casa dove sono tenuti prigionieri sette caciques. Il piano? Tagliare la testa ai capi Mapuche e lanciarle nel campo avversario per creare panico, terrore e confusione. Molti si oppongono: usare i capi nemici come pegno è meglio che ucciderli – «e poi come facciamo a decapitarli?!» – chiedono Francisco Rubio e Hernando de la Torre – i carcerieri dei caciques. Testimoni oculari: Inès:

«Si fa così» – prende una spada e in un colpo spicca la testa di Quilicanta, uno dei capi – e via via tutti gli altri. Poi ella stessa scaglia le teste fra le fila nemiche. Panico, costernazione, avvilimento. All’Altropologo piace pensare che qualcuno fra i Mapuche abbia pensato: «Questi sono veramente barbari, bestie. Impossibile sconfiggerli. Andiamocene». I Mapuche si ritirano e Santiago è salva: dal suo incendio si salvano, nel resoconto di Alonso de Monroy: «…i preziosi cavalli, due maiali piccoli, un lattonzolo, un gallo e una gallina e due manciate di semi di grano». Fast forward: è l’alba dell’11 settembre 1973. Il presidenziale Palacio de la Moneda di Santiago de Chile viene bombardato dai golpistas del Generale Augusto Pinochet. Nella resistenza che segue viene ucciso il Presidente Salvador Allende. La democrazia batte in ritirata cosicché – a detta di autorevoli sostenitori del liberismo radicale da allora senza più oppositori efficaci – Santiago (e l’Occidente) siano salvi. Fino a quando?

possiamo, come lei ha fatto scrivendoci, chiedere aiuto e conforto. L’importante è non chiudere prematuramente le porte al dolore, saper stare nel dubbio, nella contraddizione, nel conflitto sino a metabolizzare le tossine dell’anima e ritrovare la voglia di vivere e di amare. Verrà il momento in cui, voltandosi indietro, perdonerà gli errori e riconoscerà gli aspetti positivi del suo matrimonio e sarà grata a suo marito per esserle stato «padre, madre, fratello e amico». Può darsi che, terminato il suo compito, abbia voluto lasciarla libera di divenire se stessa, magari diversa da come lui l’aveva immaginata. Non per questo suo marito è svanito del tutto, continuerà a starle vicino se lei non interrompe il dialogo che vi ha uniti. Ma non deve aver fretta, l’elaborazione del lutto non consente la logica istantanea della comunicazione informatica. Ci vuole tempo per disporsi ad amare

ancora, non perché ne abbiamo un disperato bisogno ma perché, avendo superato la dipendenza infantile, siamo ora in grado di dare e ricevere liberamente. Tuttavia mente e cuore non procedono insieme perché i pensieri sono più veloci dei sentimenti. Rischiano però di girare a vuoto se non si sintonizzano con le emozioni riparatrici: la rabbia che ci fa reagire all’indifferenza, la tristezza che favorisce l’introspezione, la paura che ci rende consapevoli della nostra vulnerabilità, il commiato che consente di abbandonare le speranze del passato e inaugurarne di nuove. Buon futuro, cara amica.

si potrebbero definire «bi-nazionali». Assimilati e, tuttavia, accettati fino a un certo punto. Tanto che, non di rado, evitano di farlo sapere, consapevoli di esporsi all’accusa di opportunismo, alle facili ironie e, non da ultimo, alle strumentalizzazioni politiche. Ci sono partiti che, su questo terreno, campano, sfruttando paure e pregiudizi, che accompagnano ogni epoca, in forme diverse: crisi economica, populismo, terrorismo, e via enumerando minacce che con la doppia nazionalità non hanno nulla a che vedere. Certo, sono lontani i tempi, che ben ricordo, quando, in Ticino, si parlava di «svizzeri con la firma bagnata», alludendo al loro documento di fresca data, che ne faceva cittadini di seconda qualità, anche dal profilo morale. Il naturalizzato appariva doppiamente colpevole: di tradimento verso la prima patria, cui voltava le spalle, e di presunzione verso la seconda patria, cui s’illudeva di appartenere. Un clima di ambiguità che grava-

va sulle scelte di tanti immigrati. Devo citare, in proposito, l’esperienza di mio padre, che arrivava da Varese, lavorava in un quotidiano luganese, conosceva le lingue nazionali, prediligeva la Svizzera tedesca, ma non riuscì a compiere un passo che, allora, significava un’infedeltà. Così voleva lo Zeitgeist, che imponeva un amor patrio, strettamente delimitato dai confini nazionali, che non consentiva sbandamenti neppure culturali. Di tutto ciò il passaporto era un emblema, unico e consacrato. Oggi, meno male, non lo è più, declassato ormai a documento più pratico che simbolico. Del resto, proprio i chiacchierati episodi Cassis e Maudet sono la conferma di un cambiamento, che va oltre la questione «doppio passaporto sì o no». Rispecchia, invece, una società dove, persino nostro malgrado, si sta imparando a convivere nelle diversità. E, dove, non da ultimo, due ex-stranieri possono aspirare alle massime cariche del Paese. Augurandoci che ne siano all’altezza.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Un futuro dopo l’abbandono Leggo da anni la «Stanza del dialogo» convinta che i problemi affrontati riguardino solo gli altri. Mi ritenevo, infatti, una donna felice sino a quando un fulmine a ciel sereno mi ha gettato nella disperazione più nera. Il mio caro marito, senza un perché, mi ha abbandonata. Ricominciando a vivere da sola, mi trovo a proseguire il cammino della vita senza sapere che cosa mi aspetti e come agire giorno per giorno. Non ho nessuna esperienza che mi orienti, nessuna voce amica che mi guidi. Al mattino mi sveglio e, guardandomi intorno, mi chiedo: «che cosa devo fare?». Mi accorgo così che avevo delegato a lui la mia vita. Mi ero sposata giovane, a ventidue anni, con un uomo che ne ha quindici più di me e che da allora è stato per me padre, madre, fratello e amico. Può immaginare quanto ora mi manchi e come mi senta disorientata senza la sua guida. I miei sentimenti sono in tumulto:

alternativamente lo odio e lo amo, lo rimpiango e lo detesto, vorrei che fosse qui e un momento dopo mi auguro di non vederlo mai più. Come posso uscire da questo conflitto e soprattutto come posso evitare in futuro di soffrire così? / Clelia Cara Clelia, ha tutta la mia comprensione per la difficile esperienza che sta vivendo. Tra le tante prove che il destino ci riserva l’abbandono è forse la più dolorosa e, prima di superarla, sembra anche la più inutile e assurda. Ma in verità non è così perché, quando la tempesta si è placata ed è possibile riconsiderare il passato con uno sguardo spassionato, ci avvediamo che quel travaglio ci ha reso più maturi, più consapevoli dei valori veri, più capaci di ascoltare noi stessi e gli altri, meno coinvolti nelle piccole questioni quotidiane. Se un cuore spezzato guarisce diventa più forte.

Ma per raggiungere lo scopo occorre un impegno forte e coraggioso che consenta di non rimanere intrappolati nelle sabbie mobili della depressione. La prima mossa consiste nel tenere ferma la méta del futuro, nell’imporsi di procedere, di andare avanti. Non si tratta quindi di «evitare di soffrire» ma di riacquistare la capacità di amare e di essere amati. Senza rischi la vita si riduce a mera sopravvivenza. Per fortuna nessuno è così solo da non disporre del conforto della cultura e dell’aiuto degli altri. La cultura nasce come forma di consolazione: le prime produzioni artistiche sono state, nella notte dei tempi, le lapidi poste sopra le tombe per contrastare la morte e il lutto. E oggi abbiamo a portata di mano un patrimonio artistico – musica, poesia, arti visive – capace di lenire le nostre ferite con il farmaco della bellezza. Viviamo inoltre a contatto con gli altri ed è a loro che

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Anche il passaporto cambia significato

Keystone

Spetta a un ticinese, dev’essere una donna, meglio un politico di mestiere: si scontrano le opinioni e i sentimenti intorno alle candidature per la successione di Didier Burkhalter in Consiglio federale. Ma, questa volta, su un prevedibile dibattito elettorale se n’è innescato un altro, invece inaspettato: quello del doppio passaporto, che ha

spostato il baricentro della discussione. Infatti, con sorpresa, si è venuti a sapere che Ignazio Cassis, italiano di origine, si era naturalizzato nel 1976 ma, e qui sta il presunto guaio, ottenuta la cittadinanza elvetica, non aveva rinunciato alla precedente. Ciò che non gli doveva impedire di assumere cariche pubbliche importanti, medico cantonale, membro della delegazione federale per l’UE e del comitato direttivo di Swiss Label. Quando, però, si è messo in lizza per il seggio a Berna, Cassis ha preferito cautelarsi decidendo di restituire il passaporto italiano, che, forse, poteva essere d’impiccio, nelle eventuali trattative ministeriali con Roma. Meno prudente, anzi volutamente provocatoria, la reazione del candidato ginevrino, Pierre Maudet: cittadino elvetico, già consigliere di Stato, e in pari tempo cittadino francese, per nascita e con relativo passaporto. Una condizione che, come ha dichiarato, rappresenta addirittura il vantaggio di «vivere due realtà».

Attraverso questi due casi, concomitanti e diversi, torna alla ribalta dell’attualità un interrogativo, che ha una lunga storia, tutt’altro che conclusa. Anzi, proprio qui, ci si muove fra tentennamenti e contraddizioni, comunque verso una regolamentazione più liberale. Da ormai 25 anni, chi si fa svizzero è autorizzato a mantenere la nazionalità originaria. Ne ha approfittato un numero crescente di cittadini, di ogni ceto ed età. In prima fila, studenti, per via dei vantaggi concessi dall’UE, ma anche immigrati anziani per ritrovare le cosiddette radici. E, persino in ambienti insospettabili, tipo poliziotti, militari, guardie di frontiera, per tradizione depositari di spirito patriottico, il doppio passaporto è un’opzione relativamente diffusa. Come, del resto, in molti servizi pubblici, dall’insegnamento alla socialità. Da quest’anno, poi, la concessione si è estesa ai nostri diplomatici. Stiamo, dunque, assistendo all’avvento di una nuova categoria di cittadini , che, osando un neologismo,


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 settembre 2017 • N. 37

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Ambiente e Benessere I funghi nella pasticceria Fresco di stampa il curioso e piacevolissimo libro: Funghi, una dolce tentazione

Torna il salone di Francoforte «In una vita accelerata diventa sempre più importante la qualità della vita», questo lo slogan dell’edizione 2017 della fiera automobilistica germanica

Reportage dalle Seychelles Anche laggiù sono in pericolo i delicati equilibri naturali di un ambiente unico al mondo pagina 18

Un parco per topi e criceti L’USAV raccomanda che i roditori domestici siano accolti in gabbie con dimensioni adatte

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Il sistema immunitario «riduci cancro» Ricerca Già usata con successo per la cura

di alcune neoplasie, sono in corso studi per applicare l’immunoterapia anche nel trattamento di tumori solidi

Sergio Sciancalepore Distruggere un tumore usando le «armi» del nostro sistema immunitario, opportunamente stimolato e potenziato: è l’obiettivo dell’immunoterapia dei tumori, una risorsa in più per l’oncologia e che integra le altre forme di terapia. Il punto sulla situazione e le prospettive dell’immunoterapia oncologica è stato fatto in un forum organizzato dalla Fondazione Ibsa in occasione del recente Congresso internazionale sui linfomi maligni, tenutosi a Lugano. Ne abbiamo parlato con uno dei relatori: Federico Caligaris Cappio, direttore scientifico dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (Airc). Professore, il sistema immunitario (SI) ci protegge da forme di vita estranee e potenzialmente pericolose come batteri e virus: questa funzione riguarda anche la difesa dai tumori?

Sì, anche se le cellule tumorali non sono totalmente estranee come lo sono i microrganismi: le cellule tumorali sono il risultato di mutazioni, cambiamenti in alcuni geni tali da determinare quell’entità che è il cancro, una specie di «istituzione degenerata» rispetto alla normale struttura dell’organismo, il cui fine è sopravvivere e crescere mettendo in pericolo la vita dell’individuo stesso. Contro il cancro, il SI usa gli stessi meccanismi che utilizza contro virus e batteri?

I meccanismi sono gli stessi anche se il tumore, proprio perché vuole crescere e sopravvivere, usa diversi sistemi per contrastare la sorveglianza e l’azione aggressiva del SI nei suoi confronti. Il SI può distruggere le cellule tumorali all’inizio del loro sviluppo: il problema si pone quando, grazie ai vantaggi dei meccanismi intrinseci di sopravvivenza del cancro, il numero di cellule tumorali è tale da contrastare o rendere inefficace la capacità di difesa del SI. Quali sono le strategie di difesa del tumore verso il SI?

Tra i diversi, c’è la strategia di esaurimento delle funzioni del SI: le cellule tumorali sono in grado di produrre sostanze chiamate citochine che esauriscono la capacità di funzionamento e di difesa dei linfociti, cioè le cellule del SI. Inoltre, le cellule cancerose hanno sulla superficie delle proteine specifiche, gli antigeni tumorali: i linfociti del tipo T hanno sulla loro superficie altre proteine capaci di legarsi agli antigeni tumorali formando una specie di ponte chimico (la sinapsi immunologica) che permette al linfocita di riconoscere quella cellula come cancerosa e aggredirla. Ebbene, in molti tumori, particolarmente in quelli linfoidi, il ponte si forma ma non funziona e il linfocita non si attiva. E poi il tumore sa essere a volte molto scaltro, subdolo…

Sì, può camuffare le sue cellule, farle sembrare normali e tali da non richiedere il riconoscimento e l’eliminazione da parte del SI. I linfociti T – nel corso del loro incessante lavoro di controllo – devono capire se attaccare una cellula perché anomala oppure risparmiarla se invece non lo è. Questo controllo si esercita attraverso segnali di riconoscimento sulla superficie della cellula, chiamati immune checkpoint. Diversi tipi di tumore sanno fabbricare e mettere sulla loro superficie delle antenne che interagiscono con gli immune checkpoint dei linfociti T e li ingannano perché trasmettono il segnale che quella cellula (la tumorale) non deve essere eliminata.

Dalla conoscenza dei meccanismi che permettono al tumore di evitare il controllo del SI derivano i farmaci usati nella immunoterapia oncologica?

Esattamente. Nel caso degli immune checkpoint ingannati dal tumore, sono stati realizzati farmaci che impediscono questo fasullo riconoscimento e stimolano il linfocita T a reagire contro il tumore. Un esempio è quello dei farmaci inibitori usati con ottimi risultati nei pazienti con melanoma metastatico, un tumore della pelle la

Federico Caligaris Cappio al Forum Fondazione IBSA – Lugano 16 giugno 2017. (Ibsa)

cui gravità è stata nettamente ridotta da questi farmaci. Quindi l’immunoterapia è già una realtà.

Oltre al melanoma, l’immunoterapia è utilizzata con successo in tumori del sistema linfatico come i linfomi follicolari e a grandi cellule e nelle recidive del linfoma di Hodgkin. Più problematico è invece il trattamento dei tumori solidi come quelli del polmone, del colon e della vescica: anche se non abbiamo ancora conoscenze sufficienti in proposito, sono in corso molte ricerche e sperimentazioni cliniche anche riguardo ai tumori solidi. L’immunoterapia è un’alternativa alla chemioterapia? Ha meno effetti collaterali?

Non è una alternativa: per esempio nel tumore della mammella la chemioterapia è efficace. L’immunoterapia può essere complementare alla chemioterapia, ma non sostitutiva e occorre

valutare se, quando e come utilizzarla. L’immunoterapia si inquadra nel moderno concetto di «medicina personalizzata» che sceglie, tra le diverse possibilità terapeutiche a disposizione, le combinazioni più adatte per quella malattia e quello specifico paziente. Anche l’immunoterapia espone ad effetti indesiderati che, ad oggi, sembrano meno importanti rispetto a quelli provocati dalla chemioterapia.

Se mi vaccino contro una malattia, per esempio la poliomielite, il SI – grazie alla cosiddetta «memoria immunitaria» – riconosce il virus specifico e lo distrugge se dovesse infettarmi. Anche nel caso dei tumori il SI possiede questa memoria?

Purtroppo no, le cellule tumorali sono estremamente mutevoli, cambiano velocemente le loro caratteristiche. Perciò, se somministro un’immunoterapia contro un tumore e questo si riforma, devo riprendere la terapia.

È per questo motivo che non è possibile realizzare una vaccinazione che protegga dai tumori?

Ci sono già vaccini efficaci per prevenire in modo indiretto i tumori. Il vaccino contro il Papillomavirus e il virus dell’epatite C prevengono rispettivamente i tumori del collo dell’utero e del fegato provocati da quei virus. Molto più difficile e – in base a ciò che sappiamo, perlomeno prematura – è l’idea di un vaccino per prevenire direttamente i tumori. Esistono forme pre-leucemiche e mielomatose che in alcuni casi possono evolvere in tumori veri e propri con estrema lentezza, anche nell’arco di un trentennio: in una situazione di questo genere, il ricorso a una possibile vaccinazione preventiva pone una questione non solo scientifica ma anche etica e organizzativa. È una questione complessa e, con le attuali conoscenze, difficile da affrontare realisticamente.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 settembre 2017 • N. 37

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Ambiente e Benessere

I preferiti da Napoleone durante il suo esilio sull’isola di Sant’Elena Bacco giramondo La ricca storia dei primi vini del Sudafrica (Prima parte)

Davide Comoli Il Sudafrica è l’unico Paese al mondo in cui la viticoltura, ancorché non molto antica, ha una data d’origine ben precisa. Il 2 febbraio del 1659, infatti, l’esploratore e colonizzatore olandese Jan van Riebeeck (fu fondatore del primo nucleo di Città del Capo, con la costruzione della fortezza chiamata la Buona Speranza), annotò nel suo diario: «al momento, grazie a Dio, si stanno pigiando i primi grappoli per fare il vino». Anziano medico di bordo, Jan van Riebeeck non tardò a scoprire che il vino era un’efficace medicina per la prevenzione dello scorbuto (si trattava di dodici litri di Moscato d’Alessandria!). I tralci messi a dimora dall’inviato della Compagnia delle Indie Orientali – fatti giungere dalla Germania, Francia e Spagna – fruttificarono con notevole spontaneità, come se fossero nel loro ambiente naturale. Le uve dei primi tre ceppi impiantati erano: il Palomino, il Moscato di Frontignan e il Moscato d’Alessandria, chiamato in loco Hanepoot. Le coltivazioni sudafricane, così promettenti sin dall’inizio, furono intensificate da Simon van der Stel che nel 1685, che incaricò di fare mettere a dimora ben 100mila tralci nella Constantia Valley (così battezzata in onore di sua moglie). Nel 1692, un anno dopo essere stato nominato governatore della giovane colonia, van der Stel fece conoscere in Europa i suoi vini prodotti con

il vitigno Muscat de Frontignan che produceva vini più eleganti dell’Hanepoot (Moscato d’Alessandria). Negli anni che seguiranno, Constantia cambierà diversi proprietari e subirà diversi frazionamenti del suo territorio, ma i suoi vini conosceranno un successo sempre più grande nelle Corti europee e tra gli aristocratici dell’epoca fino a metà del XIX sec. I vini di Constantia, furono i preferiti da Napoleone durante il suo esilio sull’isola di Sant’Elena. Un impulso decisivo alla viticoltura del Sudafrica fu dato senza dubbio dall’arrivo di circa 200 Ugonotti, scacciati dalla Francia tra il 1688 e il 1690. S’installarono nella vallata chiamata Franschhoek. Curioso sapere che un anno prima (1687) dell’arrivo dei Francesi, arrivarono in Sudafrica 34 famiglie di viticoltori piemontesi di religione valdese. In effetti grazie alle conoscenze vitivinicole di qualcuno di loro, i loro discendenti continuano a giocare un ruolo importante nella produzione vinicola di questo paese. Il vino da dessert prodotto a Constantia nel XVII sec., ben presto fu in grado di rivaleggiare con quello della regione del Porto o dell’Isola di Madeira. La produzione vinicola nei dintorni di Capo di Buona Speranza fu incoraggiata dalla Gran Bretagna mediante concessione di tariffe preferenziali. Nel 1810, Sir John Cradok nominò il primo assaggiatore ufficiale di vini del Suda-

frica. Nel 1861, dopo aver raggiunto la sua punta massima, il commercio del vino sudafricano declinò, allorché il governo Gladstone abolì le tariffe preferenziali. Vent’anni dopo, le difficoltà degli agricoltori di questo Paese s’aggravarono e ben tre catastrofi s’abbatterono su di loro: nel 1886 l’arrivo della filossera, il successivo reimpianto di vigneti con una grande sovrapproduzione senza adeguati sbocchi commerciali e infine la guerra Boera tra il 1899 e il 1902. Vasto, ricco di risorse preziose, con ambienti ospitali, il territorio del Sudafrica che si affaccia sugli oceani Atlantico ad ovest e Indiano a sud e sud-est, soprattutto nelle zone caratterizzate dal clima tropicale piovoso, si presta per la coltivazione della vite. Eccelle per i suoi vigneti la cuspide sud-occidentale della provincia del Capo. Attraversando questa regione, tutto un susseguirsi di monti e vallate, si possono ammirare estensioni di vigneti a perdita d’occhio. Immerse tra i filari si trovano numerose fattorie, ognuna delle quali fa capo a una «estate», che corrisponde a una tenuta, quasi sempre dotata di una propria cantina di vinificazione. Questi graziosi complessi sono costruiti seguendo i dettami dello stile tradizionale Cape Dutch (Olandese del Capo) e portano nomi suggestivi come La Belle Provence, Le Bonheur, Romans Rivier, legati a ricordi europei. La vita del vigneto sudafricano con

La tenuta Costantia in Sudafrica. (Michael Fu)

i suoi 140mila ettari vitati è confrontabile con quella del vigneto europeo, ma nell’emisfero meridionale l’annata è completamente ribaltata: quando in Europa si vendemmia, in Sudafrica la vigna si risveglia dal letargo invernale, la vendemmia si svolge tra febbraio e aprile. Gli inverni sono dolci con rare gelate e le estati calde, a volte troppo nelle regioni centrali, le piogge sono concentrate tra maggio e agosto. Le uve che maturano nelle zone più calde del Capo, hanno tendenza a soffrire il caldo e a maturare troppo rapidamente. L’irrigazione in queste regioni è vitale e giusti-

ficata. Verso est si trovano una serie di altipiani montagnosi, ma la maggior parte delle vigne sono situate sulla fascia costiera fino ai piedi delle montagne. I terreni variano molto, anche tra i vigneti di una stessa regione e di una stessa proprietà. Troviamo terreni che variano dal grès alle rocce granitiche, ai terreni scistosi, a colline ricche di sassi e rocce, e fondovalle sabbiosi con ciottoli. Troviamo vini di buona acidità, profumati nella zona di Table Mountain e vini più strutturati nella valle del Karoo, ma ne saprete di più nel prossimo numero: seguiteci! Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Funghi, alleati formidabili in cucina Gastronomia Non solo per arricchire salse, frittate, zuppe, insalate, pizze, carni, pesci, vol-au-vent,

Alla Haute école des sciences agronomiques, forestières et alimentaires (Hafl) di Berna hanno recentemente pubblicato un curioso e piacevolissimo libro che si chiama Funghi, una dolce tentazione, Werd Verlag, pubblicato anche in italiano. Parla di funghi ma di funghi nella pasticceria! Conoscevo alcuni pasticceri che parzialmente li usavano: ma questo è un progetto ben più organico, nato all’interno di un progetto sui funghi selvatici e propone quaranta ricette di dolci, messe a punto dagli studenti di scienze alimentari della SUP bernese, frequentata anche da allievi ticinesi.

I due più celebri sono gli onnipresenti champignon e i porcini, seguono gli asiatici tongku (anche detti: shiitake) Io nutro una passione sfrenata per i funghi, anche se non li avevo mai usati per creare dolci: ora proverò queste ricette. E comunque bravi a loro che sono riusciti, sono convinto, a quadrare un cerchio, ovvero fare un libro al contempo moderno e classico: semi impossibile. A questo punto non ci resta che parlare di funghi. Sono un organismo vegetale privo di clorofilla, parassita o saprofita, di forme e dimensioni molto varie. In genere è formato da un gambo sormontato da un cappello, che può essere di consistenza molle o spugnosa, e da una parte sotterranea (piede). I funghi sono proverbialmente numerosi, ma non tutti commestibili. Bisogna perciò fare particolare attenzione a quelli che si colgono direttamente e, prima del consumo, è bene farli verificare da un ente competente; il problema non sussiste invece con il prodotto che si trova in commercio. Quanto alla stagionalità, sono prevalentemente

autunnali, ma ne esistono molti anche primaverili o estivi. Ovviamente se ne trovano sia di freschi sia di secchi (in cucina sarebbe meglio utilizzare quelli freschi, ma non cambia molto). I due più celebri sono gli onnipresenti champignon e i porcini. Una nota: d’accordo, i porcini li amiamo tutti. Ma anche gli altri sono più che gustosi. E poi ricordate che in qualunque ricetta dove compare un certo fungo, potete sostituirlo con qualsiasi altro: cambia il gusto ma non di tanto. In cucina, i funghi sono un alleato formidabile: gustosi, versatili e sempre molto apprezzati, possono arricchire salse, frittate, zuppe, insalate, pizze, carni, pesci, vol-au-vent e antipasti in genere, primi piatti e… dolci. Il consumo a crudo è concesso soltanto per esemplari giovani di poche specie (porcini, prataioli, vesce, ovoli). Per lo più, i funghi vengono trifolati o fritti, a volte anche cucinati in umido con salsa di pomodoro. Nel primo caso vanno messi in una padella – non d’alluminio altrimenti anneriscono – e cotti inizialmente a fiamma alta, in modo che espellano gran parte dell’acqua di vegetazione; poi si prosegue la cottura a fiamma bassa, unendo eventualmente degli aromi, classici aglio e prezzemolo. Se invece devono accompagnare uno stufato, o uno spezzatino, vanno aggiunti quando mancano 15-20’ a fine cottura. Spesso vengono serviti con salse varie. Dopo la cottura, gli eventuali avanzi si conservano in frigorifero soltanto per pochi giorni. Qui ho parlato dei funghi europei. Ma anche la cucina cinese fa largo uso di funghi. Tra i più importanti, i mu-er (simili a orecchiette e spugnole) e i tong-ku, presenti anche in Giappone col nome di shiitake. Questi ultimi sono celeberrimi, anzi di più: sono oramai il secondo fungo più coltivato al mondo, dopo gli champignon. Hanno un gusto affumicato e sapore un po’ legnoso, accentuato dall’essiccazione. Consumati raramente freschi, accompagnano sempre piatti salati.

CSF (come si fa)

Pxhere

Allan Bay

Pixnio

antipasti, primi piatti, eccetera, ma anche per creare dolci

E vediamo come si fanno alcune ricette basilari a base di funghi. Frittata con funghi. Per 2. Mondate 300 g di funghi freschi a piacere e tagliateli a fettine. Rosolate 1 spicchio d’aglio in una casseruola con un filo d’olio poi unite i funghi. Cuocete a fuoco vivo per 15’, o finché l’acqua di vegetazione sarà completamente evaporata, poi fate intiepidire, eliminate l’aglio e profumate con 2 cucchiai

di prezzemolo tritato. In una ciotola sbattete 4 uova, unite i funghi e regolate di sale e di pepe. In una casseruola scaldate un filo d’olio, versate il composto di uova e funghi, e cuocete la frittata da un lato; poi giratela, versate un altro cucchiaio d’olio nella casseruola, rimetteteci la frittata e terminate la cottura. Funghi in fricassea. Per 4. Mondate 500 g di funghi freschi a piacere e tagliateli a fettine. In una casseruola rosolate 2 spicchi d’aglio con un filo d’olio e una manciatina di nepitella. Unite i funghi, poco brodo vegetale e cuoceteli a fiamma vivace per 10’, rigirandoli. A cottura togliete dal fuoco, eliminate aglio e nepitella, e unite 2 uova sbattute con il succo filtrato di mezzo limone, mescolando molto rapidamente. Variante: potete aggiun-

gere, alla fine, qualche cucchiaiata di panna acida Polpette di funghi. Per 4. Mondate 500 g di funghi freschi a piacere e sbollentateli per 1’. Scolateli, asciugateli e tritateli. In una ciotola amalgamate il trito con 2 uova leggermente sbattute, una manciata di prezzemolo tritato con 2 spicchi d’aglio, 40 g di pecorino grattugiato, 2 cucchiaiate di pangrattato e regolate di sale e di pepe. Unite altro pangrattato se l’impasto risultasse troppo morbido, poi formate delle polpettine rotonde, leggermente schiacciate. Friggetele in abbondante olio di arachidi ben caldo facendole dorare da ambo i lati, poi scolatele e asciugatele su carta assorbente da cucina. Variante: potete cuocere le polpette in umido, per pochi minuti, in una densa salsa di pomodoro.

Ballando coi gusti Oggi due spaghetti che più classici non si può: i primi al pomodoro, capperi e olive e poi quelli con la mollica.

Spaghetti pomodoro, capperi e olive

Spaghetti con la mollica

Ingredienti per 4 persone: 320 g di spaghetti · 200 g di pomodorini · 24 olive nere denocciolate · 1 spicchio di aglio · capperi sotto sale · 1 peperoncino piccante fresco · origano · prezzemolo · concentrato di pomodoro · olio di oliva · sale.

Ingredienti per 4 persone: 320 g di spaghetti · 400 g di pomodori · 100 g di ac-

In una padella fate rosolare con un filo di olio l’aglio sbucciato. Aggiungete i pomodorini, più o meno spezzettati a piacer vostro, una piccola punta di concentrato stemperata in poca acqua, una manciata di capperi dissalati, il prezzemolo tritato, le olive, il peperoncino sminuzzato e un pizzico di origano. Lasciate cuocere per circa 10 minuti, poi regolate di sale. Portate abbondante acqua salata al bollore, gettate gli spaghetti, cuoceteli e scolateli al dente. Calateli nella padella col sugo, fateli saltare per 2 minuti unendo un poco dell’acqua di cottura e servite.

Sbollentate i pomodori, scolateli, sbucciateli, privateli dei semi e delle costole bianche e tritateli. Fate rosolare in 1 giro abbondante di olio gli spicchi di aglio sbucciati; quando saranno dorati, unite le alici sminuzzate. Stemperatele con una forchetta, aggiungete la polpa di pomodoro e il finocchietto spezzettato, coprite e lasciate cuocere dolcemente per circa 20 minuti. Regolate di sale e di pepe. Sbriciolate la mollica di pane, mettetela in una teglia, irroratela di olio e fatela abbrustolire in forno a 180°. Portate a ebollizione abbondante acqua salata, gettatevi gli spaghetti, cuoceteli e scolateli al dente. Calateli nella padella con il sugo, fateli saltare per 2 minuti unendo un poco dell’acqua di cottura. Trasferiteli in una zuppiera, cospargete con la mollica di pane abbrustolita, mescolate, completate con un filo di olio e serviteli.

ciughe dissalate · 2 spicchi di aglio · 1 ciuffo di finocchietto fresco · 80 g di mollica di pane raffermo · olio di oliva · sale e pepe.


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Ambiente e Benessere

Può un’auto avere una mente cosciente?

Motori L’Internationale Automobil-Ausstellung torna a Francoforte dal 14 al 24 settembre

Sopra: la Ferrari Portofino; qui a fianco: Porsche Cayenne S.

Mario Alberto Cucchi Francoforte, dal 14 al 24 settembre, ospiterà giornalisti e appassionati di auto provenienti da tutto il mondo. Questo giovedì apre i battenti infatti la 67esima edizione del salone automobilistico tedesco. La domanda provocatoria scritta a grandi caratteri nella home page del sito internet del Salone – www. iaa.de – è questa: può un’auto avere una mente cosciente? «La tecnologia ci guida o noi guidiamo la tecnologia?». Anche a questa domanda cercheranno di avere risposta i visitatori dello IAA – Internationale Automobil-Ausstellung – la cui prima edizione si è svolta nel 1951. Tutto è connesso e tutto dev’essere il più si-

curo possibile e ovviamente ecologico, in una nuova relazione tra l’auto e il suo pilota. Questo è il mondo della nuova mobilità che si presenta in Germania, Patria di Audi, Bmw, Vokswagen, Mercedes-Benz, Porsche. «In una vita accelerata diventa sempre più importante la qualità della vita» è uno degli slogan dello IAA 2017. E cosa c’entra l’automobile? In auto si passa molto tempo negli spostamenti quotidiani; se l’auto iniziasse a guidare un po’ da sola nel frattempo si potrebbe fare altro. Allo stesso tempo veicoli meno inquinanti migliorano l’ambiente che ci circonda. Il tutto senza però dimenticarsi di lusso, comfort e prestazioni. Ecco allora che il Salone, prima an-

cora di aprire, comincia ad anticipare alcune tra le sue novità. Non è ecologica e non è silenziosa, anzi, ma a Francoforte sarà tra le più fotografate. Stiamo parlando della nuova Ferrari Portofino. Un’auto da sogno e tutti abbiamo ancora bisogno di sognare. La Gran Turismo V8 erede della California T è un mix di sportività ed eleganza. Le prestazioni sono garantite dal propulsore otto cilindri a V che è in grado di erogare una potenza massima di 600 cavalli, 40 in più rispetto alla California T. È impressionante la coppia massima disponibile pari a 760 NewtonMetro che durante le super accelerazioni faranno sentire gli occupanti come palline lanciate da una fionda. La velocità massima è da circuito di Formula Uno: oltre 320 chilometri orari. Per scattare da ferma a cento orari bastano solo 3,5 secondi. Anche il prezzo, che non è ancora stato comunicato, sarà ovviamente stratosferico. D’altronde Ferrari Portofino è la più potente convertibile a offrire un tetto rigido retrattile abbinato a un baule capiente e una buona abitabilità. Ha anche due posti posteriori. Non comodissimi, ma utilizzabili per brevi percorrenze. Anteprima mondiale al Salone di Francoforte, anche per la terza generazione di Porsche Cayenne. Una vettura di lusso che dal 2002 a oggi ha conquistato a livello mondiale oltre 760mila clienti. Tra i motori della nuova Porsche due inediti sei cilindri alimentati a benzina e abbinati a un nuovo cambio Tiptronic S a otto rapporti. Si tratta di un turbo 3.0 da 340 cavalli e di un potente V6 biturbo da 2900 cc in grado di erogare 440 cavalli. Con quest’ultimo propulsore il Suv di Stoccarda raggiunge una velocità massima di 265 chilometri orari. Gli oltre 800mila visitatori attesi al Salone andranno sì per lustrarsi gli occhi con queste supercar, ma anche per vedere le tante novità di auto più «normali» sempre più connesse, autonome e amiche dell’ambiente. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Il prezioso e fragile ambiente delle Seychelles Ecosistemi In agguato pesanti minacce: dalle attività umane alle specie invasive, dai mutamenti climatici

allo sbiancamento dei coralli Marco Martucci, testo e fotografie Al primo piano del museo, la scolaresca è intenta a ritagliare tartarughine di carta colorata e a disegnare bianche spiagge, palme, mangrovie popolate da pesci, granchi e uccelli. Siamo al Seychelles Natural History Museum a Victoria, capitale della Repubblica delle Seychelles: «Il Museo è piccolo – mi spiega la direttrice – ma siamo consci del suo importante contributo educativo alla conoscenza e al rispetto del nostro meraviglioso, prezioso e fragile ambiente». Le Seychelles hanno paesaggi incantevoli; le spiagge ombreggiate da alberi frondosi e palme da cocco, con sabbia bianca fine come talco esistono davvero, meglio ancora delle cartoline. In più: una ricca vita sottomarina, montagne, fitte e umide foreste, e profonde valli incise da torrenti. Ma ogni cartolina ha due facce: dietro tutta questa magnificenza stanno in agguato pesanti minacce, dalle attività umane alle specie invasive, dai mutamenti climatici allo sbiancamento dei coralli, tutto concorre a mettere in pericolo i fragili e delicati equilibri naturali di questo ambiente unico al mondo. Consapevole della vera, unica ricchezza delle Seychelles, la natura, il governo favorisce la protezione dell’ambiente e forme di turismo naturalistico e sostenibile, un impegno ancorato perfino nella costituzione. La giovane Repubblica delle Seychelles si estende su una vastissima superficie, oltre un milione e trecentomila chilometri quadrati, trentatré volte la Svizzera, una bella fetta di Oceano Indiano poco a sud dell’Equatore. Le terre emerse, piccola porzione di 450 chilometri quadrati, sono distribuite su 115 isole e nella maggiore, lunga venti chilometri e larga cinque, vive la quasi totalità dei 90mila abitanti: qui si trova la capitale Victoria. Una quarantina di isole, le interne o granitiche, dove vive la maggior parte della popolazione, sono costituite da granito continentale di oltre 650 milioni di anni, parte dell’antico supercontinente Gondwana. Nella deriva dei continenti, le Seychelles si sono spostate insieme all’India verso nord e, da 65 milioni di anni, sono isolate in mezzo all’Oceano indiano. Il lungo isolamento spiega la relativa povertà di specie presenti sulle isole ma d’altra parte è la ragione dell’esistenza di numerose specie endemiche, esclusive delle Seychelles. Le altre isole, le coralline o esterne, praticamente disabitate, sono molto

Silhouette Island. (Sul sito www. azione.ch una più amplia galleria fotografica)

disperse, di formazione più recente e rappresentano la parte emersa di vasti banchi corallini, spesso caratterizzati da grandi lagune. Nel 1609 un vascello della Compagnia delle Indie Orientali approdò accidentalmente in una delle isole granitiche e al suo equipaggio dobbiamo la prima descrizione della natura delle Seychelles: a parte i grandi feroci coccodrilli, ecco un paradiso di foreste, noci di cocco, acqua fresca, tartarughe. I primi insediamenti stabili risalgono al 1770. Di fronte a un territorio vergine e disabitato, s’iniziò a dissodare, a coltivare, ad abbattere alberi e a costruire, giunsero piante e animali estranei, cani, gatti, maiali, galline e ratti, che entrarono in competizione con le specie autoctone creando un problema che esiste tuttora. Il coccodrillo fu sterminato e anche le grandi tartarughe non ebbero vita facile. Sull’isola di Silhouette, una granitica un po’ particolare perché formata da roccia vulcanica meno antica, c’è un solo albergo, ai piedi di un’alta

Guida del Parco Nazionale Vallée de Mai, Isola di Praslin, con un Coco de Mer.

montagna coperta da foresta equatoriale originaria. L’isola e le acque circostanti sono Parco marino nazionale – mi raccontano tre giovani collaboratori di ICS, Island Conservation Society, una delle ONG che conduce progetti di conservazione della natura. Si occupano attivamente della protezione delle poche decine di superstiti di una delle più rare specie di pipistrelli al mondo, endemica come le tre altre specie dell’atollo di Aldabra e il grande pipistrello delle Seychelles, che si nutre di frutta, ha un’apertura alare di oltre un metro e si vede facilmente al tramonto. I pipistrelli sono gli unici mammiferi terrestri autoctoni delle Seychelles. Gli altri, come i conigli, il tenrec del Madagascar e i ratti, sono tutti stati introdotti. Durante una breve escursione fra spiaggia e foresta, si vedono la barriera corallina e i frammenti di coralli sulla finissima sabbia, che nasce anche grazie a un tipo di pesce, fra l’altro molto saporito: il pesce pappagallo che si nutre raschiando da rocce e coralli il suo nutrimento ed espelle il corallo finemente polverizzato come residuo della digestione. Come nel resto del mondo, i coralli soffrono per il riscaldamento degli oceani, espellono le alghe con cui vivono in simbiosi e che danno loro il colore, diventano bianchi, per cui muoiono in gran numero: i resti di corallo sbiancato sono frequenti sulle spiagge. In una laguna sotto la montagna si attraversa un ambiente a mangrovia, formato da tipiche piante con le radici che, dal tronco, s’allungano dentro l’acqua; è un ambiente prezioso che ospita molte forme di vita, fra cui i curiosi perioftalmi, pesci che escono dall’acqua e, spingendosi con le possenti pinne pettorali, si spostano sul fango e sulle radici alla ricerca di cibo. Fino a non molti decenni or sono, l’isola era proprietà della famiglia Dauban, francesi d’origine mauriziana, che coltivavano noci di cocco, vaniglia e cannella e, nell’Ottocento, facevano

lavorare gli schiavi. Qui piantarono per il loro sostentamento un filare di alberi del pane, tutt’ora esistenti. La memoria dei Dauban, fissata nel nome della montagna più alta, è presente nel bianco inconsueto mausoleo neoclassico dentro la foresta. La vegetazione di gran parte delle isole, ben diversa da quella che c’era prima dell’arrivo dell’uomo, resta abbastanza naturale sulle alture. Più in basso, molte piante che s’incontrano non sono autoctone, ma provengono da fuori, come in tutte le zone tropicali e non solo, introdotte per la coltivazione e come ornamentali. Un problema molto serio, forse la minaccia più grave alla biodiversità e alle specie endemiche, è proprio la presenza di animali e piante esotici, in parte diventati invasivi e per i quali sono state condotte e sono ancora in corso azioni di contenimento: la cannella, sfuggita dalle coltivazioni, è una delle piante più invasive. Le Seychelles ospitano due siti classificati Patrimonio mondiale dell’umanità. Sono la Vallée de Mai e l’atollo di Aldabra. Il primo è sull’isola di Praslin, fa parte dell’omonimo Parco Nazionale ed è facilmente raggiungibile. Il secondo si trova a oltre mille chilometri di distanza. Sono entrambi gestiti dalla Seychelles Islands Foundation, un’organizzazione indipendente in stretto contatto con l’amministrazione locale. Chi per primo giunse nella Vallée de Mai credette di essere arrivato nel Paradiso terrestre e, in effetti, l’esuberanza della vegetazione, i torrenti e le cascate sono impressionanti. La Vallée de Mai è famosa per due specie endemiche, il pappagallo nero, Coracopsis barklyi, uccello nazionale delle Seychelles e, soprattutto, la grande palma Coco de Mer, Lodoicea maldivica che, nonostante il suo nome specifico, non ha nulla a che fare con le Maldive. Allo stato naturale, vive solo sulle isole Praslin e Curieuse e in nessun’altra parte del Pianeta. La Vallée de Mai, ciò che resta delle vaste primitive foreste, ne ospita circa

seimila, insieme a cinque altre specie di palma endemiche. Alta più di 35 metri, produce semi di oltre 18 chilogrammi che sono i più pesanti del mondo. Hanno una forma particolare che, a seconda delle fantasie di ciascuno, evoca quella di un fondoschiena o di un pube, da cui deriva il nome popolare di «coco fesse», che ha dato origine a fantasiose leggende. I semi, diversamente da quelli delle altre palme da cocco, non galleggiano e per questo il Coco de Mer c’è solo alle Seychelles dove si è evoluta in completo isolamento. Il nome «maldivica» deriva dal fatto che alcuni semi, non più vitali e dunque incapaci di germogliare, più leggeri, possono essere trasportati dalle correnti oceaniche. In tal modo, giunsero anche sulle spiagge delle Maldive, dove mercanti arabi li diffusero come rari e costosissimi prodotti, che vantavano miracolose proprietà. La palma Coco de Mer, chiamata così perché si pensava nascesse in fondo al mare, è pianta dioica, ha cioè sessi separati su due palme differenti e solo quella femminile produce le noci; il fiore maschile ha anch’esso una forma curiosa, in cui si può immaginare un membro virile. Insomma, il Coco de Mer ha tutti i numeri per diventare oggetto di collezione e per questo la sua esportazione è regolata da severe leggi. Molto lontano da Praslin, l’isolato atollo di Aldabra ospita, unico al mondo, una popolazione di circa centomila tartarughe giganti, Aldabrachelys elephantina che, in cattività, si trovano un po’ su tutte le altre isole. Dopo aver rischiato l’estinzione, le tartarughe, anche grazie al grido d’allarme di Charles Darwin, sono oggi protette. Un progetto dell’Università di Zurigo, coordinato dalla Seychelles Islands Foundation, sta studiando questo unico ecosistema che, in uno spazio tanto esiguo – mi dice il ricercatore Dennis Hansen – riesce quasi incredibilmente a mantenere in equilibrio un così elevato numero di animali tanto grandi.


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Ambiente e Benessere

Topo, coniglio e parenti stretti

Mondoanimale Per vivere bene tutti i roditori necessitano di parchi e attrezzature adeguate ai loro bisogni

Ratti, conigli, porcellini d’India, criceti, gerbilli, topi domestici e degu sono tutti accomunati dall’essere roditori. Ciascuna di queste specie, in Svizzera, è molto apprezzata come animale da compagnia, ma i roditori si differenziano per le diverse esigenze di vita di ogni specie. Ciò significa che se si sta pensando di acquistare un roditore, la cui compagnia può essere senza dubbio fonte di gioia, bisogna per prima cosa considerare che per sentirsi bene e potersi comportare in maniera consona alla loro specie, questi animali hanno bisogno dell’ambiente giusto.

Ci sono specie che amano arrampicarsi mentre altre sono invece instancabili scavatrici: a ognuno il suo parco! «Chi è stato in un negozio di animali sa benissimo che scegliere il parco giusto per ciascun roditore non è assolutamente facile» questa la premessa dell’Ufficio federale della sicurezza alimentare e veterinaria (Usav), che con un suo approfondito dossier informativo intende chiarire in modo puntuale ed efficace le diverse esigenze di topi, in rapporto ai porcellini d’India, ai criceti, e via dicendo. E in effetti, i parchi in vendita che ospitano questi roditori sono parecchi e variati per misure, «architettura» e attrezzature che stanno a dimostrazione delle

differenti esigenze di vita di ciascuna specie. «Come per gli animali da reddito e da esperimento, anche per i roditori e conigli nani valgono le disposizioni della Legge sulla protezione degli animali del 2005 e dell’Ordinanza sulla protezione degli animali del 2008», conferma l’Usav che puntualizza come, per quanto attiene alle prescrizioni legali: «Si tratta del minimo indispensabile, basato su un compromesso politico-sociale». Ciò significa che per permettere agli animali di comportarsi in modo naturale, bisognerebbe acquistare parchi più grandi di quelli indicati dalla legge, e con strutture più varie per rapporto a quanto prescritto. Le offerte abbondano su Internet, come d’altronde per qualsiasi articolo in commercio al giorno d’oggi. Per questo, sempre secondo le indicazioni dell’Usav, bisogna ancor più tenere sempre ben presente che i parchi in vendita non sempre vanno bene per il proprio animale prescelto e che nella scelta bisogna tenere conto di molteplici aspetti: «Ricordate che anche quando scegliete un parco non sono importanti solo le dimensioni». Ad esempio, alcune specie amano arrampicarsi e, pertanto, necessitano di un parco che possa offrire loro diversi ripiani. Un altro esempio portato dagli esperti dell’Usav riguarda altre specie che: «Amano scavare e hanno perciò bisogno di una lettiera profonda per poter costruire gallerie sotterranee». Quest’ultima specie di roditori descritta potrebbe essere quella dei gerbilli, proverbiali «minatori» e instancabili scavatori di gallerie com-

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plesse nella profonda e soffice lettiera sto di un parco, così come in quello 8 che devono avere a loro disposizione. dell’animale stesso: «Perché7è molto E si potrebbe anche accennare al importante che questi acquisti non coniglio, roditore particolarmente siano una decisione avventata della impegnativo e non adatto ad essere ac- quale poi pentirsi e, soprattutto, che cudito dai bambini che tanto lo ama- ha come conseguenza una tenuta per no, se non con l’aiuto di una persona nulla adeguata alle esigenze 5 dell’ani6 adulta. Il coniglio, proprio per la sua male prescelto». È importante avere proverbiale emotività e timidezza, ne- gli strumenti per riconoscere le offerte 9 cessita nel suo parco di qualche zona serie, soprattutto dato che su Internet dove potersi ritirare in tutta tran- circolano tanti parchi di dimensioquillità. Ovvio, quindi, che prima di ni inferiori a quelle minime previste Giochidall’Ordinanza per “Azione” - Agosto 2017 acquistare un parco per un roditore, sulla protezione degli Stefania Sargentini bisogna informarsi sulle esigenze della animali: «Spesso le spiegazioni riguarsua specifica specie: attacca «Eventualmente (N. 33 - Se in pericolo anche i leoni)danti i parchi sono assenti o insufsi potrebbe pensare costruzione ficienti; ad esempio spesso le gabbie 1 2 3a una 4 5 6 S E R I9 N4 P 7 su misura». 7 sono dichiarate “adatte per tutte le 8 E R anche I T se R secondo E A la Per questo l’Usav raccomanda specie di roditori”, 9 10 C O I A T i rodi prendersi il tempo necessario per legge sarebbero conformi soloL per 11 12 un’attenta valutazione nell’acqui- ditori più piccoli. C I La designazione A S S O XL,

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Giochi per “Azione” - Settembre 2017 M A Stefania T T A P Sargentini E C O S 1

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R C A T I R A N Vinci una delle 3 carteGA regalo da 50 franchi con il 9cruciverba7 I C O R R A6 L 3 H R E Oda 50 P I franchi E R L con O e una delle 2 carte regalo il sudoku (N. 37 - La paura del parto si chiama tocofobia) 2 7 1 O L E O S O E N I T 20

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Cruciverba Se non la sai già, potrai imparare un’altra parola risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 5, 3, 5, 2, 6, 9)

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Giochi

per citarne una, non garantisce che le superfici del parco rispettino realmente le esigenze degli animali». Sulla scia di queste raccomandazioni, l’Usav prega di ricordare che chi, pur inconsapevolmente, detiene i propri animali in4un parco troppo piccolo, viola la legge. E a pensar bene, non sempre 8 si riflette automaticamente 6 su queste indicazioni che, ora, attraverso l’Usav risultano essere molto più chia6 e da2prendere soprattutto in grande re considerazione per il bene del roditore che abbiamo scelto di adottare. 9 Pare banale, ma acquistare un parco di dimensioni 5 adeguate8 al nostro animaletto è di vitale importanza, visto che esso dovrà passarvi tutta la 3sua vita. «Ciò non significa che non potrete farlo uscire: la possibilità di muoversi 4 8 2 liberamente in uno spazio ampio, senza pericolo di fuga, rappresenta un ar7 3Dunque, 5 sono preziose 1 ricchimento». le indicazioni dell’Usav circa i riven3 tutti i ditori: 5 «Il sito Internet contiene dati di contatto del venditore (nome, indirizzo, numero di telefono ed email). Sono indicate tutte le dimensioni del parco (lunghezza, larghezza, altezza, misure interne, indicazioni 1 3 complete circa le altezze diverse)», questa e altre raccomandazioni permetto5 di scegliere 7 no all’acquirente consapevolmente ciò che più fa al caso del suo 2 5 roditore. Egli deve altresì essere informato sulle esigenze 6 della specie 4animale in questione e dovrebbe poter ricevere, se richiesta, una consulenza specializzata. Naturalmente, tutto questo vale anche per le piattaforme Internet, per 8 1 le quali viene raccomandato maggiore scrupolo da parte dell’acquirente.

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Maria Grazia Buletti

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4 dammi 5 i miei 6 soldi!”) (N. 334 - “Allora svelto 1

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ASoluzione: L L A O SScoprire I A i3 A V corretti Enumeri A R I V da inserire T R Onelle D I caselle colorate. T R A M A I U T A M C I A R E I N S O L I N E D I

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N. L 31ADIFFICILE P T A U G O 1 D2 E7 NO S 9R M 8A

L 8E 1 P R O4 13 A P 7 R O3 N T O S I C L I 8V I SUDOKU 2017 20 1 PER AZIONE 2 - AGOSTO 6 N. 29 FACILE R E D L E A L I (N. 35 - Posside canali dai quali esce saliva) Schema Soluzione 5 7 3 23 6 1 7 5 3 4 9 P O S1A S I 4 I A M A R T E O 6 9 5 2 8 7 1 3 E N D 5 2T 8E N 25 8 3 4 6 2 9 7 R C S 4A 6N 2T T C A N O E F O E2 R 8 A L D O 9 2 8 5 3 4 7 1 1 2 6 4 7 27 I A V I N A 5 D I8 A 3 6 1 2 9 5 4 O L B IQA A7 4M9 1P6 8I 2 T O R4 I 9 O A I U3 12

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26. Porto della Sardegna 27. Spaziose, vaste VERTICALI 1. Nome femminile 1 2 4 2. Famose quelle dei Fileni3 3. Le iniziali del musicista Mascagni 5. Giovani bellissimi 7 8 9 6. Sigla dell’organo amministrativo del calcio europeo 10mese 11 8. Un 12. Crescono nei terreni incolti 13. 13 Un settore del teatro 14 14. Sminuzzato 15. Si alternano nella cometa 15 del pittore Dalì 16 16. Le iniziali 17. Acceso per devozione 19. 21 Quella in bioccoli 22 è grezza 23

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20. Qui in Inghilterra 29 22. Avverbio di tempo 30 23. Cento al contrario 24. Bisio E GIAMMAI NON FALLIRAI. (N.Le 36iniziali - Parla dell’attore poco ascolta assai e giammai ASSAI non fallirai) N. 30 MEDIO 5 25. Le 6 iniziali della nuotatrice Pellegrini

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo Migros Partecipazione online: inserire la 26 27 28 29 30 31 del valore di 50 franchi, saranno sor- soluzione del cruciverba o del sudoku teggiati tra i partecipanti che avranno nell’apposito formulario pubblicato fatto32pervenire la33soluzione corretta 34 sulla pagina35del sito. 36 entro il venerdì seguente la pubblica- Partecipazione postale: la lettera o zione del gioco. la cartolina postale che riporti la so-

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H 2 8 E 4 6 1 5 R 6 9 8 7 E 5 3 3

A L5 I D2 3E 4S T E R8 5 9 3 4 1 6 8 7 2 C A E L S A O L I 2 6 7 3 5 1 4 2 6 7 8 3 5 9 1 A Soluzione V A R della I A settimana A M precedente B O 7 8 5 3 1 PARLA 7 8 POCO 9 5 ASCOLTA 2 6 3 4 IL PROVERBIO NASCOSTO – Proverbio risultante:

ORIZZONTALI 1. Grembo in inglese 4. Lettera dell’alfabeto greco 7. L’impronta del passato... 9. Antico prefisso nobiliare 10. Articolo 11. Si usa nel linguaggio studentesco 13. Distesa sul ventre 14. Flavio politico italiano 17. Colline, pendii 18. È rosso per Richard Gere 19. Un Fausto cantante 21. È scritta senza consonanti 22. Pianeta del sistema solare 23. Di nove... vocali 24. Leggere imbarcazioni 25. Per… per gli inglesi

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(N. 38 - ... diecimila chilometri, dalla Russia al Messico)N. 32 GENI

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Vincitori 22del concorso Cruciverba 23 su «Azione 35», del 28.8.2017

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M. L. Pistoia, F. Dotti, A. Casanova

Vincitori del concorso Sudoku

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CP SE I5 2 6 1 8 7 4 9 3 3 U SC 3 O R A S I A S47 18 93 62 34 59 71 86 25 O RL 5 I A 7 N A R 5 3 8 1 A 1 5 8 3 6 2 9 4 7 6 4 HA A IM R9 4 7 5 1 8 3 2 6 CS 9M T A 4 2 6 A 1 ON EO A3 6 2 9 7 4 8 5 1 RL O N 7 8 9 1 7 2 6 5 3 5 4 O A L L I 9A I E6 3 T564E9 1R32 7E88 R7 OML 4 2 7 4 8 5 3 6 1 9 A R E I1 N O T IN. 31 DIFFICILE M D A4 L6 A L A luzione, corredata da nome, cognome, è possibile un pagamento in contanti 9 8 1 2 7 3 5 9 6 8 4 1 2 7 indirizzo, email del partecipante deve dei premi. IR vincitori R U R S E Ssaranno69 avvertiti G 2 spedita 8 1a «Redazione4Azione, 2 7 Il8nome 1 3dei 5vincitori 4 sarà 6 1 per iscritto. essere Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». pubblicato su «Azione». Partecipazione 3 4 1 6 9 7 2 3 5 8 N 7N A T sui Ariservata L 7 E3 A Rche Non siI intratterrà corrispondenza a lettori 2 7 6esclusivamente 84 2 3 4 1 8 5 9 2 concorsi. Le vie legali sono escluse. Non risiedono in Svizzera. 3 4 S 1O 2M6 M E S S9 8 I1 5 2 6C7 O S5P A A M O R A L E R A R E 9 4 N E M D A D O 6 A 3L C 2 R 7E

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 settembre 2017 • N. 37

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Politica e Economia Hard Brexit sugli immigrati In un documento del governo è stata proposta una stretta sui lavoratori dai paesi dell’Ue definita catastrofica pagina 22

Scenari diplomatici Il fronte anti-Corea del Nord non è così unito come sembra mentre sta nascendo un asse Cina-Russia che spaventa Washigton

Trump e l’Afghanistan Il presidente annuncia la sua strategia puntando sulla partnership con l’India

Votazioni federali Il 24 settembre si vota sul futuro dell’AVS e sul tema della sicurezza alimentare nazionale

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Una famiglia di migranti in cerca di futuro in Europa. (AFP)

Mar Nero, la nuova rotta

Migranti Sigillata quella balcanica e ridimensionata quella mediterranea, si tenta la via che dalla Turchia porta

in Romania, Paese Ue non ancora membro dell’area Schengen ma con frontiere meno vigilate verso l’Ungheria

Alfredo Venturi Sigillata la rotta balcanica, ridimensionata quella mediterranea, adesso i profughi tentano la via del Mar Nero. Sulle loro imbarcazioni di fortuna partono dalla costa turca e dirigono a nord-ovest verso i porti della Romania, solcando le onde del mitico Ponto Eusino in cui navigò Giasone alla ricerca del Vello d’oro. Sono soprattutto siriani, iracheni, afghani, provengono dunque dalle più cruente aree di crisi di questo turbolento pianeta. Una volta in Romania, alcuni cercano di attraversare la Serbia e di qui raggiungere l’Albania, dunque l’Adriatico e l’Italia. Altri puntano verso la blindatissima frontiera ungherese, il formidabile ostacolo che li separa dal sogno dell’Europa del Nord, ai loro occhi terra di pace, lavoro e sicurezza. Siamo ancora nell’ordine di grandezza delle centinaia ma i romeni cominciano a preoccuparsi, i flussi fuori controllo seminano ansia e timori, già s’intravvede chi è pronto a cavalcare, come nei paesi da tempo coinvolti nel fenomeno, la tigre dell’invasione. Sia pure con toni più morbidi rispetto a quelli decisamente ostili del

Gruppo di Visegrad (Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria), il governo romeno contesta la strategia dell’Unione Europea a proposito di ridistribuzione dei profughi. In particolare si critica a Bucarest l’obbligatorietà delle quote di assegnazione, segnalando la disponibilità ad accogliere un numero di migranti molto inferiore agli oltre seimila decisi a Bruxelles. Va ricordato che la Romania, da dieci anni membro dell’Unione, è essa stessa un paese di emigrazione. Un vivace dibattito accompagna questi sviluppi, da una parte s’invoca il principio di solidarietà da cui discende il dovere dell’accoglienza, dall’altra si reagisce con accenti assai vicini alla xenofobia. «Amo i musulmani, ma a casa loro!», ha detto l’ex capo di stato Traian Basescu, facendo notare come un paese che non riesce a integrare la folta comunità rom non possa permettersi di gestire un’emergenza come quella migratoria. Fatto sta che il contenimento dei flussi dalla Libia all’Italia ha avuto il prevedibile effetto di indirizzare quella marea umana verso altre destinazioni. Il meccanismo ha funzionato obbedendo a una legge fisica: nella logica dei

vasi comunicanti la corrente interrotta o limitata cerca altre vie di scorrimento. Alla nuova rotta attraverso il Mar Nero si affianca la riscoperta di quella spagnola, dove negli ultimi mesi gli arrivi si sono quadruplicati rispetto a un anno fa. Ottomila immigrati hanno già raggiunto la Spagna dall’inizio dell’anno, in buona parte sbarcandovi dopo la breve traversata dal Marocco, mentre altri sono andati all’assalto della muraglia che protegge l’enclave di Ceuta, frammento d’Europa sulla costa nordafricana. La Spagna si colloca ormai al secondo posto, subito dopo l’Italia e prima della Grecia, nella graduatoria dei paesi presi di mira dal fenomeno migratorio. L’intera Europa meridionale continua a funzionare come interfaccia con il Continente africano da cui provengono i tre quinti dei profughi, ma il ridimensionamento della rotta centrale ha divaricato i flussi verso occidente e verso oriente. Sono infatti ripresi gli sbarchi anche sulle isole greche dell’Egeo, tanto che le autorità di Atene accusano la Turchia di non mantenere fino in fondo l’impegno assunto nel marzo del 2016 con l’Unione Europea. In cam-

bio della bella cifra di tre miliardi di euro, Ankara s’impegnò a sbarrare la strada che dalle sue frontiere con Iraq e Siria muove verso l’Europa. In realtà questa intesa ha ridotto in misura assai significativa la rotta terrestre attraverso i Balcani, ora rilanciata dalla direttrice marittima Turchia-Romania. È chiaro che queste regolamentazioni ufficiali vengono in parte vanificate dalle attività illegali, stimolate dall’elevatissima posta finanziaria in gioco. I trafficanti sono alla perenne ricerca di nuove vie di fuga. Poiché dalla Libia, dopo l’intesa che ha mobilitato la locale guardia costiera, è diventato difficile prendere il mare, la parte di profughi che riesce a evitare i centri di detenzione cerca di valicare i confini di Tunisia e Algeria. Affidandosi a caro prezzo a trafficanti pronti a ospitarli sui loro precari barconi salpano diretti in Sicilia o nelle isole minori, dove spesso arrivano inosservati perché quei piccoli natanti sono sfuggiti all’intercettazione. A volte sbarcano su spiagge affollate di bagnanti da dove si allontanano rapidamente senza essere identificati né schedati. Gli scafisti algerini preferi-

scono puntare sulla Sardegna, dove quest’anno sono arrivati circa ottocento migranti. Non a caso da Cagliari è partito un appello al governo di Roma, perché provi a estendere all’Algeria la strategia adottata nei confronti della Libia. La diversificazione delle vie di trasferimento dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa non fa che confermare la necessità di un approccio globale alla questione migratoria. Preme in questa stessa direzione anche una drammatica realtà: impedire ai profughi di partire può esporli a pericoli persino peggiori di quelli connessi con la navigazione su imbarcazioni insicure. Per esempio alla permanenza nei campi di raccolta libici, dove i più elementari diritti della persona vengono ignorati. Dunque si stanno ricercando soluzioni che implicano la vigilanza e la tutela: si parla di hotspots sotto controllo Onu. Se l’Europa intende ispirarsi ai suoi valori non può che tentare il coordinamento dei due obiettivi: ridurre gli sbarchi alleggerendo la pressione migratoria ma anche proteggere chi potrebbe essere esposto a trattamenti disumani.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 settembre 2017 • N. 37

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Politica e Economia

Immigrati, il piano di Londra

Hard Brexit Il governo britannico ha messo a punto un piano per porre fine alla libertà di movimento dei cittadini

dai paesi Ue in cerca di lavoro a meno che non siano particolarmente qualificati. Stretta anche sui famigliari

Cristina Marconi Settembre, fresco e soleggiato, è un mese che invita alla lucidità. Con un’economia che inizia a risentire pesantemente della Brexit e un’opinione pubblica la quale a sua volta potrebbe prima o poi stancarsi di questo clima di incertezza sul futuro, il governo britannico ne ha più bisogno che mai. L’inflazione è in aumento – sta al 2,6% adesso e si prevede arrivi al 3% entro la fine dell’anno – e i cittadini del Regno Unito stanno smettendo di fare quello che sanno fare meglio: consumare, spendere, dare slancio all’economia facendo girare soldi e carte di credito. Con le retribuzioni reali che non stanno dietro all’aumento dei prezzi e i nuovi posti di lavoro che rinfoltiscono soprattutto le fila dei precari della «gig economy», i britannici non sono in vena di shopping, soprattutto per quanto riguarda le grandi spese. Le immatricolazioni di nuove auto sono scese del 9,9% su base annua ad agosto, ma ad essere in calo sono anche le vendite di divani, pezzi d’arredamento e di tutto ciò il cui acquisto la gente pensa di poter rimandare a tempi migliori. E il mercato immobiliare, senza essersi fermato, continua ad essere sensibile alle incertezze politiche.

Il documento che dovrà essere approvato dai ministri è stato definito catastrofico dai rappresentanti delle aziende che vivono di manodopera straniera Col risultato che se da una parte la sterlina debole sta favorendo le esportazioni, con una percentuale record di imprese che ha annunciato di aver visto crescere produzione e ordini nel terzo trimestre del 2017, la fiducia nelle prospettive economiche del Paese è in netto calo e il mastodontico settore dei servizi sta dando segnali di affanno. Le previsioni di pil di EEF sono state ridotte all’1,6% del 2017 e all’1,3% nel 2018, mentre secondo IHS Markit tra luglio e settembre l’economia dovrebbe crescere dello 0,3%, ossia la metà dello 0,6% messo a segno dall’Eurozona. Uno schiaffo per un paese che ha votato per lasciare un blocco economico che ritiene arretrato e poco dinamico e che ora si trova a dover fare i conti con una ferita autoinflitta sulla quale è troppo spaccato per curarsi. Ma il governo di Theresa May, alle prese con un risveglio difficile dalla lunga tregua estiva, ha iniziato l’anno con un messaggio tutt’altro che conciliante verso le imprese: la stretta sull’immigrazione europea post-Brexit proposta in un lungo documento ancora non approvato dai ministri è stata definita «catastrofica» dai rappresentanti dei settori che vivono di manodopera europea. In un documento dai toni volutamente ruvidi, il governo spiega che dopo la Brexit non ci sarà più la libera circolazione dei lavoratori europei e che le imprese britanniche saranno molto penalizzate se assumeranno stranieri: non solo dovranno dimostrare di averne bisogno e di non riuscire a trovare nessuno sul posto con le stesse caratteristiche, ma dovranno probabilmente pagare anche una tassa che servirà a finanziare la formazione dei britannici. Nel mirino del governo ci sono i lavoratori senza qualifiche, quelli sulle cui spalle si reggono la ristorazione, l’ospitalità, il settore agroalimentare

Manifestazioni a favore della Ue davanti al Parlamento britannico a Londra. (AFP)

e che, secondo la May, metterebbero pressione sui redditi più bassi. Ossia sull’elettorato brexiter, l’unico sul quale la leader può contare per rilanciare la sua immagine pesantemente danneggiata dalle elezioni del giugno scorso, in cui i Tories non sono riusciti a raggiungere una maggioranza per governare da soli e in cui la scommessa di incarnare la «leadership stabile e forte» di cui il Regno Unito avrebbe bisogno si è infranta in mille pezzi. Nei primi giorni di ottobre ci sarà il congresso dei conservatori e la May può dormire sonni relativamente tranquilli solo grazie al fatto che alternative realistiche alla sua leadership per ora non ce ne sono, che l’ala eurofoba del partito punta su di lei come unica possibilità di uscire dall’Unione europea in maniera soddiffacente e che l’opinione pubblica, seppur sempre meno certa del fatto che la Brexit sia una buona idea, non è ancora pronta, se mai lo sarà, a qualcuno che suggerisca discretamente un’inversione di marcia. Per andare incontro ad un elettorato volatile e volubile e consapevole del fatto che fino all’uscita ufficiale dalla Ue la libera circolazione dei lavora-

tori dovrà restare in vigore, il ministero dell’Interno sta facendo di tutto per dissuadere gli stranieri dal rimanere nel Regno Unito. Dopo una grottesca serie di ingiunzioni a lasciare il Paese mandate per sbaglio ad un centinaio di persone tra cui, sorprendentemente, anche ad un cittadino britannico, si punta sull’incertezza futura per convincere la gente ad andare via. Non solo la promessa di regolare immediatamente lo statuto dei cittadini europei residenti nel Paese da più di cinque anni è stata disattesa, facendo uscire proposte confuse su un «settled status» che non equipara esattamente i diritti degli europei a quelli dei britannici, ma le prospettive che vengono descritte dal governo sono sempre meno accoglienti per i circa 3 milioni di cittadini residenti nel Paese e per quelli che pensano di trasferirvisi un giorno. Dopo la Brexit, prevista per l’aprile 2019, e una fase di transizione di almeno due anni, le nuove regole sull’immigrazione puntano a «garantire a quelli che hanno occupazioni ad alto livello di specializzazione e che hanno contratti di più di 12 mesi il permesso di restare tra i tre e i cinque anni. Per quelli in altro tipo di lavori, sarà fino

a due anni». Oltre ad escludere persone al di sotto di una certa soglia di reddito, «ragionevole ma specifica», il governo ha annunciato una stretta sui famigliari che potranno trasferirsi nel Paese: solo consorti, compagni stabili, figli minorenni e adulti a carico. «L’immigrazione non deve essere solo un beneficio per i migranti stessi, ma anche migliorare la vita di chi già risiede nel Paese», spiega il ministero degli Interni, annunciando un «approccio più selettivo» all’immigrazione europea, in cui sarà il governo, e «non coloro che vogliono venire», a decidere nei propri interessi. Anche per questo la creazione di posti di lavoro è ai massimi degli ultimi 19 mesi. Le aziende stanno cercando di riempire i vuoti prima che diventi troppo difficile assumere personale europeo, che qualificato o meno spesso risponde ai bisogni dei datori di lavoro in maniera evidentemente soddisfacente. Per formare personale locale in grado di sostituire totalmente quello europeo e riempire i 60mila posti di lavoro che si creano ogni anno, secondo l’associazione che rappresenta il settore del turismo e dell’ospitalità, ci vorranno almeno dieci anni. L’idea che ci

possano essere delle speciali deroghe in futuro per alcuni settori in particolare, come anche per la sanità e l’assistenza ai malati e agli anziani, non è una rassicurazione: chi vorrà investire le proprie energie in un Paese sapendo di non poter restare più di qualche anno? Con il cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond che sta tenendo una posizione defilata in questo periodo – il suo punto di vista sulla Brexit è sempre stato più cauto rispetto a quello della May – e nessun progresso in vista sul fronte dei negoziati con Bruxelles, le più grandi aziende britanniche avrebbero preso molto male la richiesta del governo di appoggiare e sostenere pubblicamente la strategia del governo sulla Brexit. Alcuni dei boss delle aziende quotate al FTSE, 100 sarebbero addirittura furiosi, anche perché né loro né i cittadini sono convinti che il governo stia ottenendo risultati positivi. Governo che cerca di dare la colpa alle sue controparti: il responsabile per la Brexit David Davis ha recentemente chiesto al negoziatore capo dell’Unione europea, il francese Michel Barnier, di essere «più creativo e flessibile» nel suo approccio.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 settembre 2017 • N. 37

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Politica e Economia Il segretario alla Difesa americano, generale, Mattis, con l’omologo sudcoreano Song Youngmoo durante un vertice al Pentagono il 30 agosto scorso. (AFP)

Kim-Trump, pressione doppia su Xi Jinping Cina Il reale limite alle azioni del Pcc è il

potenziale impatto su Pechino e sul suo leader che non può permettersi di apparire debole Beniamino Natale

Corea, c’è soluzione?

Scenari diplomatici C’è davvero un fronte unito fra gli alleati Usa,

Giappone e Corea del Sud? Intanto Washington guarda con apprensione alla nascente alleanza Putin-Xi

Federico Rampini Forse stavolta ha ragione Vladimir Putin quando dice che «per il problema della Corea del Nord non esiste una soluzione». Qualche volta succede. Gli antichi greci nelle loro tragedie parlavano di «aporia»: situazione dalla quale non c’è via d’uscita. L’ambasciatrice di Donald Trump all’Onu, Nikki Haley, al Consiglio di sicurezza lancia un avvertimento anche a Cina e Russia: qualsiasi paese che fa affari con la Corea del Nord sarà considerato come un complice e sostenitore della escalation nucleare, dopo il test di una bomba all’idrogeno. Prepara un nuovo giro di sanzioni, e su queste c’è già freddezza da parte cinese e russa. È ancora Putin a osservare con cinico realismo che «i leader nordocreani sono pronti anche a mangiare erba». Qui bisognerebbe correggerlo: i leader nordcoreani sono pronti a far mangiare erba ai loro sudditi, sfidando ogni embargo pur di proseguire nella corsa nucleare, ma il dittatore Kim continua ad avere gli appannaggi di un satrapo, dal caviale allo chef francese alle Mercedes.

Sull’asse WashingtonSeul si prepara un riarmo del Sud che potrebbe anche essere nucleare Intanto sull’asse Washington-Seul si prepara un riarmo del Sud che potrebbe anche essere nucleare. Una telefonata tra Donald Trump e il presidente sudcoreano Moon Jae-in ha sbloccato un aspetto cruciale: arriva il via libera degli Stati Uniti perché Seul possa costruirsi a sua volta dei missili balistici (non nucleari) di gittata e portata superiori. Finora il trattato bilaterale tra i due paesi alleati costringeva i sudcoreani a mantenere i propri missili entro 500 miglia di gittata e mezza tonnellata di portata massima. I due hanno anche deciso di accelerare insieme l’installazione dello scudo intercetta-missili Thaad (made in Usa). Da Seul vengono richiesti all’America più bombardieri e portaerei. Si affaccia l’ipotesi di reintrodurre nel dispositivo di difesa americano in Corea del Sud delle armi nucleari tattiche, una richiesta avanzata per adesso dall’opposizione ma non ancora fatta propria dal presidente Moon. Il riarmo della Corea del Sud può essere un modo di rendere credibile l’impegno degli Stati Uniti a difendere i propri alleati in caso di attacco. Oppure può essere uno stadio nei preparativi

per lanciare un intervento militare preventivo, anticipando Pyongyang, e prima che Kim abbia la capacità di colpire obiettivi americani come il territorio di Guam o l’Alaska. Il National Security Council (Nsc), guidato dal generale McMaster, è la cabina di regìa della politica estera e militare, un pensatoio operativo al servizio del presidente, nel cuore della Casa Bianca. In mezzo al ponte festivo del Labor Day, il 3 settembre ha dovuto convocarsi d’urgenza, in versione ristretta, col presidente e vicepresidente, ma includendovi altri militari. All’inizio della riunione le due colombe erano il generale Mattis, che in passato non aveva escluso un negoziato con Kim, e il segretario di Stato Tillerson anche lui favorevole a esplorare la via diplomatica. Ma alla fine Tillerson è scomparso e Mattis cambia tono, a lui è toccato leggere un comunicato «tutto militare». È un messaggio visivo lanciato al regime di Pyongyang: al termine del summit della Casa Bianca, a esporne le conclusioni è stato il capo delle forze armate affiancato da un altro militare in divisa (Joe Dunford, Joints Chief of Staff, una sorta di capo di stato maggiore di tutte le forze armate). Gli strumenti diplomatici o economici passano in secondo piano. Il trio dei generali (oltre a McMaster e Mattis c’è il capo dello staff presidenziale, Kelly) rappresenta al tempo stesso la potenza militare degli Stati Uniti ed anche l’elemento di stabilità in questo governo. Nell’emergenza Trump sceglie loro come voce dell’esecutivo. Tre messaggi-chiave restano da ricordare, nel duro comunicato letto da Mattis al termine della riunione quel 3 settembre. «Non puntiamo alla distruzione totale della Corea del Nord». «La comunità internazionale è compatta nel condannare i test». Sono i riferimenti alla legalità: l’America ha la copertura «unanime del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite». Tuttavia Kim deve intuire che né lui né il suo regime sopravviveranno ad una risposta «soverchiante» se provoca la guerra. La linea rossa da non oltrepassare: «Minacce agli Stati Uniti, ai loro territori (Guam), alla Corea del Sud, al Giappone». Un esterno all’Amministrazione dà voce ai colleghi dell’intelligence che non possono uscire allo scoperto. Il generale Michael Hayden, ex capo della National Security Agency, avverte che «le opzioni militari non sono impossibili ma sono tutte pessime». Esorta il presidente a non lanciarsi «in una gara di virilità con Kim, a chi la spara più grossa, guai se è l’amor proprio a guidare Trump». La destra repubblicana

però, con il senatore Lindsay Graham, segue il presidente su questo: se guerra deve esserci, che i morti siano «laggiù, non quaggiù». Un attacco preventivo è legittimo se ferma Kim prima che diventi capace di colpire Guam o la West Coast. L’idea di un embargo che colpisca qualsiasi paese terzo che fa affari con la Corea del Nord, ha una logica. Significa colpire pesantemente la Cina, con cui la Corea del Nord concentra il 90% dei suoi scambi esterni. L’arma commerciale sarebbe l’estremo tentativo di costringere Pechino a disciplinare il suo vassallo anziché tenerlo in vita con gli aiuti. Troverebbe larghi consensi nella base elettorale di Trump, non nelle multinazionali Usa. Il consigliere economico Cohn è contrario, su questo terreno il falco è Steven Mnuchin segretario al Tesoro. C’è davvero un fronte unito tra gli alleati in prima linea che sono Usa, Giappone, Corea del Sud? I rapporti fra i tre sono tesi. Trump va d’accordo col premier giapponese Shinzo Abe, i suoi militari invece accusano Tokyo di avere un dispositivo di difesa inadeguato di fronte alla minaccia nordcoreana. Con la Corea del Sud è lo stesso Trump che non lesina attacchi. Attribuisce a Seul tentazioni di cedimento, e mette sotto riesame il trattato di libero scambio. La diffidenza americana è ai massimi, di fronte all’incontro tra i presidenti cinese e russo che si è svolto al margine di un summit dei Brics: la sensazione è che emerga un asse tra Xi Jinping e Putin per ostacolare le pressioni americane. Ambedue quei paesi hanno avuto ruoli di alleati e protettori di Pyongyang, in parte li esercitano tuttora anche se condannano test nucleari e missilistici. Sempre però con un atteggiamento di equidistanza, che accentua i sospetti di Washington. Inaccettabile per gli Usa è la richiesta cinese che in cambio della rinuncia ai test nucleari di Kim, cessino anche tutte le manovre militari congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud. Con la Russia è ancora viva la tensione per la chiusura del consolato di San Francisco, probabile covo di spie. Resta la possibilità dell’impasse o aporia, quella evocata da Putin. Qualcuno anche in America osa pensare l’impensabile: sediamoci al tavolo di negoziato e concediamo a Kim lo status di potenza nucleare, che significa anche una polizza di assicurazione vita a lungo termine per il suo regime. Sarebbe però un premio alla prepotenza, potrebbe istigare altri dittatori a fare lo stesso. E poi la strada del negoziato la tentò Bill Clinton nel 1994, fu preso in giro dai nordcoreani che regolarmente calpestavano gli impegni presi.

La Cina teme che un’implosione del regime nordcoreano porti decine di migliaia di profughi all’interno delle sue frontiere; la Cina teme che dopo una guerra con una coalizione guidata dagli Usa, dalla quale Pyongyang uscirebbe certamente sconfitta, una Corea unificata alleata degli Usa rappresenterebbe un’avversario temibile, e molto vicino. Quindi – questo il ragionamento di molti analisti, tra cui quelli che consigliano il presidente americano Donald Trump – il leader cinese Xi Jinping userà la sua influenza di unico alleato, protettore e partner economico per condurre il dittatore nordcoreano Kim Jong-un alla ragione. Cose che si sentono dire almeno dal 2006, quando il padre dell’attuale dittatore, Kim Jong-il, ordinò il primo test nucleare. Eppure, la Cina non fa nulla. Condanna le provocazioni di Pyongyang appoggia – a parole – le sanzioni, ma il regime di Kim appare solido come sempre. Il ragionamento si basa su un errore di fondo: il rapporto tra la Cina e la Corea del Nord non assomiglia in nessun modo a quello che esisteva ai tempi della Guerra fredda tra l’Urss e i suoi paesi «satelliti» dell’Europa Orientale. La Corea del Nord è stata sempre più vicina all’Urss che alla Cina. Anche oggi che l’Urss si è dissolta la sua erede, la Russia di Vladimir Putin, rappresenta per Pyongyang un prezioso «secondo forno» che può essere usato con profitto in caso di un improbabile abbandono da parte di Pechino. I coreani – del nord o del sud, non importa – hanno un’innata diffidenza verso cinesi e giapponesi, i Paesi che nel corso della storia l’hanno invasa decine di volte. Insomma, il sogno di un Xi Jinping che alza il telefono e dà i suoi ordini, e di un Kim che esegue senza discutere, è destinato a rimanere tale. Il test è stato condotto poche ore prima che Xi ricevesse a Xiamen, sulla costa orientale della Cina, i capi di Stato e di governo di Russia, India, Brasile e Sud Africa. Il vertice dei cosidetti Brics avrebbe dovuto essere un momento di gloria per il leader cinese. Invece, grazie a Kim, è stato dominato dalla preoccupazione e dall’imbarazzo per una crisi che prosegue e che si teme possa sfuggire di mano ai suoi protagonisti – Kim e il suo grande avversario, Donald Trump. Non è la prima volta che il «piccolo» Kim mette in serio imbarazzo il «grande» Xi. La stessa cosa – con un lancio di missili invece di un test atomico – era avvenuta in occasione del vertice di Pechino sulla Belt and Road Initiative, in maggio. Intervistato dal «New York Times» Peter Hayes, direttore dell’Isti-

tuto Nautilus, specializzato in analisi sulla Corea del Nord, si è dichiarato convinto che Kim stia mettendo sotto pressione Xi perché pensa che possa garantirgli il raggiungimento del suo vero obiettivo, cioè una trattativa diretta con gli Usa, che dovrebbero impegnarsi a non fargli fare la fine del libico Muammar Gheddafi, deposto e assassinato dopo aver rinunciato al suo programma atomico. Xi Jinping si trova così sotto una doppia pressione: da una parte Trump appare convinto che lui, Xi, possa bloccare Kim; dall’altra, Kim sembra credere che lui, Xi, possa portare Trump al tavolo delle trattative. Sia Trump che Kim sbagliano. Steve Tsang, esperto di Cina della Università di Londra, ha affermato che «il reale limite alle azioni del Partito Comunista Cinese è il potenziale impatto (di una caduta del regime di Kim) non sulla Corea, ma sulla stessa Cina». Una brutta fine di Kim e del suo regime indicherebbe ai dissidenti interni al partito – sempre secondo Tsang – che Xi è un leader «debole», incapace di fare «qualsiasi cosa sia necessaria» per mantenere il potere. Sarebbe un «traditore» come Mikhail Gorbaciov che, secondo la narrazione interna al Pcc, sarebbe stato il vero responsabile del crollo del sistema comunista sovietico. Per un leader comunista e asiatico come Xi Jinping, nulla è peggio del sospetto di essere un «debole». Xi, prosegue il professore, «vuole persuadere i suoi vicini regionali a guardare alla Cina (come superpotenza) e a non fidarsi degli USA. Aiutare Trump a risolvere il problema della Corea del Nord non è funzionale a questo progetto». Che Xi abbia il potere di convincere Trump ad accettare una Corea del Nord nucleare è altrettanto illusorio. In passato, i tentativi di compromesso – nel 1994 e nel 2007 – sono falliti per responsabilità dell’una e dell’altra parte, che si sono accusate a vicenda di non aver rispettato i termini degli accordi. Per andare al tavolo delle trattative con una concreta prospettiva di successo, Trump dovrebbe essere pronto ad accettare una Corea del Nord nucleare o, nella migliore delle ipotesi, un accordo che preveda il congelamento del programma atomico di Pyonyang fidandosi del regime – vale a dire un accordo non molto diverso da quello tra gli Usa di Barack Obama e l’Iran, che Trump ha aspramente criticato. Negli anni scorsi India e Pakistan hanno sfidato con successo il regime di non proliferazione, dotandosi di un arsenale atomico e riuscendo a mantenerlo senza aver subito serie conseguenze: un fatto che suona come un incoraggiamento per Kim e per i suoi strateghi.

Le immagini di Mao e Kim Il Sung sul ponte che collegava Cina e Corea. (Keystone)


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Politica e Economia

Usa-India partner in Afghanistan Diplomazia Usa La bomba diplomatica sganciata dal presidente americano ha l’intento di stabilizzare il Paese

allontanando i terroristi del Pakistan e di contrastare l’influenza di Cina e Russia Francesca Marino Il 23 agosto scorso Donald Trump ha sganciato una bomba diplomatica di notevole portata. Annunciando una revisione, l’ennesima, delle politiche americane in Afghanistan (che somigliano peraltro sempre più alla famosa tela di Penelope): l’ineffabile Donald, tenuto ormai a balia dai militari, smania per mostrare in qualche modo i muscoli virtuali di cui fa sfoggio su Twitter e su ogni mezzo di comunicazione possibile. Così annuncia un maggiore coinvolgimento nel pantano della guerra afghana, l’intenzione di essere sempre più d’aiuto a Kabul per la «sicurezza» interna (qualunque cosa questo voglia dire) e l’invio di ulteriori truppe sul campo. Contestualmente, bacchetta apertamente il Pakistan annunciando che l’America «non resterà ancora zitta a guardare il Pakistan che alloggia e sostiene organizzazioni terroristiche», che le cose devono assolutamente cambiare e che, per quanto riguarda Washington, cambieranno da subito. Fino a qui, tutto normale. In senso che per i generali di Rawalpindi si tratta dell’ennesima replica più o meno riuscita di una politica americana vecchia ormai quanto la guerra afghana: fare ogni tanto la voce grossa con Islamabad minacciando ferro e fuoco, a partire dall’ormai celebre «we’ll bomb you back to Stone

Donald Trump dalla base militare di Fort Meyer, Virginia, annuncia più truppe in Afghanistan. (AFP)

Age» indirizzato da George W. Bush a Musharraf, è ormai un classico dei rapporti tra i due Paesi. Dopo non succede nulla, ma intanto si rimescolano un po’ le carte e si assestano le posizioni dei giocatori. Donald Trump però è anda-

to oltre, provocando un vero terremoto. Nel suo discorso ha difatti chiamato direttamente in causa l’India, auspicando un maggiore coinvolgimento di New Delhi in Afghanistan e dichiarando che «gli Stati Uniti svilupperanno

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ulteriormente la partnership strategica con l’India». Abbastanza per provocare un tracollo di bile al governo di Islamabad e ai generali di Rawalpindi, che hanno reagito in maniera diciamo scomposta fino ad auspicare di poter «prendere a schiaffi» Donald Trump. Perché un conto è continuare a giocare al solito vecchio gioco del bastone e della carota, con molte carote e pochissimi bastoni, un conto è vedere l’India diventare sempre più un alleato strategico di Washington. Le linee della nuova politica estera americana nella regione si sono, secondo gli osservatori, definitivamente chiarite: e mirano a stabilizzare la situazione afghana con ogni mezzo a disposizione degli Stati Uniti, a stringere sempre più i legami con l’India, a sconfiggere i paradisi pakistani per jihadi e affini e a battere i jihadi tutti contrastando a quel punto la sempre crescente influenza della Cina, della Russia e dell’Iran sulla regione e anche sui jihadi suddetti. Perché bisogna ammettere che a questo punto il Pakistan non è l’unico a cercare di influenzare Taliban e compagnia bella facendo accordi che mirano a portare a Kabul un governo favorevole all’una o all’altra superpotenza. Le accuse dirette al Pakistan lasciano il tempo che trovano: gli americani sanno benissimo, come tutto il resto del mondo, che i generali cullano amorosamente terroristi di vario genere, e hanno sempre lasciato fare. Per Rawalpindi i terroristi, o almeno alcuni gruppi, sono un cosiddetto «assetto strategico» necessario soprattutto alla eterna guerra con l’India. A ogni pressione internazionale i pakistani reagiscono negando e stanno comunque trasformando molti gruppi di jihadi

in partiti politici ufficiali in modo da dargli campo libero e renderli praticamente intoccabili. Anche la minaccia di sanzioni non preoccupa più di tanto l’esercito e i servizi. Le sanzioni andrebbero a colpire prevalentemente la società civile, non certo l’esercito. Il sessantotto per cento circa degli armamenti pakistani arriva difatti dritto da Pechino, che come ormai sanno anche i sassi si è praticamente comprato il Pakistan con la scusa di portare sviluppo e soldi a palate costruendo il Corridoio Economico tra Cina e Pakistan. Senza contare che Islamabad possiede una vecchia ma sempre attuale arma di ricatto: l’unica via di terra per rifornire le truppe americane in Afghanistan passa per il Pakistan, ed è già stata adoperata in passato da Islamabad come mezzo di ritorsione quando Washington diventava troppo minacciosa. In realtà le dichiarazioni di Trump hanno un valore politico più che militare. E la guerra ai jihadi va letta in questa chiave: obiettivo principale di Washington non è tanto sconfiggere il terrorismo, quanto contrastare le influenze cinesi e russe nell’aria geopolitica e spuntare le armi dei giocatori in questione. La crescente partnership con l’India deve essere considerata anzitutto dentro a una più ampia strategia volta a contrastare la Cina e le sue mire espansionistiche di natura commercial-militare, non solo in Asia Centrale ma anche nel South China Sea. E il Pakistan, ormai governato più o meno apertamente dai generali e trasformatosi in appendice economico-militare di Pechino, rischia di fare la triste fine del vaso di coccio rimanendo aggrappato a strategie vecchie e ormai dannose anzitutto per i suoi stessi cittadini.

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Militari dell’esercito afghano e un marine durante un’esercitazione. (AFP)


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Politica e Economia

Previdenza vecchiaia: un perenne cantiere

Votazioni federali La riforma approvata dalle Camere federali prevede una riduzione delle rendite del secondo

pilastro, un aumento a 65 anni dell’età di pensionamento per le donne e un aumento delle rendite AVS

Alessandro Carli Pensionamento delle donne a 65 anni, calo delle rendite del II Pilastro, aumento di quelle dell’AVS: questi, per sommi capi, i punti salienti della legge federale sulla riforma della previdenza per la vecchiaia 2020, in votazione il 24 settembre prossimo e contro la quale è stato lanciato il referendum. Il progetto prevede di riformare sia l’AVS che la cassa pensione, che registrano una situazione finanziaria preoccupante. Parallelamente, popolo e cantoni dovranno pronunciarsi anche sul finanziamento supplementare dell’AVS mediante l’aumento dell’imposta sul valore aggiunto (IVA). Trattandosi di una modifica costituzionale, il voto è obbligatorio. La riforma è indigesta al PLR, all’UDC e a una parte dell’economia. Non l’accettano nemmeno gli esponenti dei sindacati, della sinistra e delle donne, autori del referendum. La sostengono il Consiglio federale, il PPD, il PS, i Verdi, i Verdi liberali e il PBD. Nella sessione di primavera, le Camere l’hanno adottata di stretta misura. Secondo il recente sondaggio Tamedia, favorevoli e contrari alla riforma se la giocano gomito a gomito. Il ministro della socialità Alain Berset è categorico: «se questa riforma non passa saranno guai seri». Già oggi – ha detto – l’AVS registra una perdita annua di circa mezzo miliardo di franchi. Se non si corre ai ripari, nel 2030 saranno 7 miliardi ogni anno. Nella previdenza professionale (LPP), invece, più di un miliardo all’anno è pagato ai pensionati da chi lavora. Secondo Berset si tratta di una ridistribuzione generazionale «illegale». La riforma mira ora a garantire le rendite e ad adeguare la previdenza per la vecchiaia, affinché sia conforme all’evoluzione della società. La strategia proposta prevede di operare in modo coordinato con l’obiettivo di garantire il livello attuale delle rendite. Per raggiungerlo, per quanto riguarda l’AVS si prevede di aumentare gradualmente a 65 anni anche l’età di riferimento per il pensionamen-

to delle donne. Tra il 2018 e il 2021 sarà infatti innalzata ogni anno di 3 mesi. Ciò permetterà di ridurre le spese di 1,2 miliardi di franchi e di aumentare le entrate di 110 milioni. La flessibilità del pensionamento è prevista tra i 62 e i 70 anni, con conseguente adeguamento della rendita verso il basso o l’alto. La rendita di coloro che vorranno abbandonare la vita attiva prima dei 65 anni sarà decurtata del 4,1% per ogni anno anticipato, contro il 6,8% attualmente. Le persone che lavorano al di là dei 65 anni riceveranno un bonus situato tra il 5,2% e il 31,5%. Continueranno a versare i contributi e all’età di 70 anni potranno chiedere un nuovo calcolo della rendita AVS. Le rendite per vedovo/a con figli a carico saranno ridotte dall’80% al 60% della rendita AVS. Gli orfani riceveranno il 50% al posto del 40%. Per rimpolpare l’AVS, si prevede di chiamare tutti alla cassa, innalzando il tasso IVA di 0,6 punti percentuali in due fasi: dal 2018 di 0,3 punti, attribuiti fino alla fine del 2017 all’assicurazione invalidità (AI). Nella prima fase l’IVA resterà dunque ferma all’8%. Dal 2021 saranno poi destinati all’AVS altri 0,3 punti percentuali dell’IVA, che salirà all’8,3%. Le aliquote inferiori per i beni d’uso quotidiano e il settore alberghiero saranno aumentate soltanto di 0,2 punti percentuali. Gli introiti previsti da questi aumenti a favore dell’AVS ammontano a 2,1 miliardi di franchi.

Per finanziare la riforma occorre un aumento dell’IVA: se il 24 settembre il Popolo lo respinge, la riforma cade Formalmente, questo aspetto concernente l’IVA fa parte di un decreto federale distinto, ma il Parlamento ha deciso di legarne la sorte a quella della legge sulla riforma generale. Di conseguenza, se il popolo rifiuta l’aumento dell’IVA, tutto finisce alle ortiche.

Secondo i critici, la riforma penalizza i giovani e sfavorisce chi è già in pensione. (Keystone)

Per quanto riguarda la previdenza professionale, la riforma concerne soltanto la sua parte obbligatoria, ossia i redditi compresi tra 21’150 e 84’600 franchi annui. Il tasso di conversione che, sulla base del capitale accumulato, serve al calcolo della rendita, sarà ridotto dal 2019 in quattro tappe dall’attuale 6,8% al 6% nel 2022 (0,2 punti all’anno). In altre parole, su un capitale di 100’000 franchi un pensionato percepirà soltanto 6 mila franchi annui. La riforma non ha alcuna ripercussione sulle rendite correnti. Questa perdita nel secondo pilastro sarà compensata nell’AVS da un aumento mensile di 70 franchi per le nuove rendite di vecchiaia. Il tetto previsto per le rendite dei coniugi sarà inoltre portato dal 150 al 155 per cento della rendita massima di vecchiaia. Le rendite delle coppie sposate aumenteranno quindi da un minimo di 140 a un massimo di 226 franchi mensili, sempre solo per i nuovi pensionati. Questi due aumenti, per una spesa complessi-

Sicurezza alimentare necessaria Il 24 settembre, oltre alla riforma della previdenza vecchiaia, sarà di scena anche un terzo oggetto: la sicurezza alimentare, che gode di un ampio sostegno. In caso di accettazione, questo concetto verrebbe ancorato nella Costituzione. La sicurezza alimentare è proposta da un controprogetto diretto all’iniziativa popolare dell’Unione svizzera dei contadini (USC) che vuole rafforzare l’approvvigionamento con generi provenienti da una produzione svizzera sostenibile e diversificata. Sebbene l’importanza della sicurezza alimentare non sia stata contestata, le Camere hanno ritenuto l’iniziativa dell’USC poco chiara e troppo rivolta alla produzione nazionale. Il Parlamento vi si è dunque opposto e ha messo a punto l’articolo costituzionale ora in votazione. Soddisfatta dei contenuti, l’USC ha ritirato la propria iniziativa e sostiene il controprogetto. Nelle fila dei sostenitori, con il Consiglio federale, figurano tutti i partiti che siedono nel Parlamento federale, le associazioni ambientaliste e l’industria agroalimentare. Per costoro, la sicurezza alimentare è una grossa sfida a livello planetario, alla luce del cambiamento

climatico, della diminuzione delle risorse e della crescita demografica. La nostra Costituzione non è più in grado di garantire un approvvigionamento di qualità e a lungo termine, tenuto conto che la Svizzera è autosufficiente nella misura di appena il 60%, pur sottolineando che una parte importante delle derrate alimentari finisce nella spazzatura. Di fronte a questa situazione, l’articolo in votazione propone un concetto globale, che prende in considerazione l’intera filiera agroalimentare, dal campo al piatto. Lo fa definendo cinque aspetti particolarmente importanti per la sicurezza dell’approvvigionamento alimentare, che non dovrebbero praticamente comportare revisioni legislative. Primo aspetto: la Confederazione introdurrà le condizioni per preservare le basi della produzione agricola, in particolare le terre coltivabili. Lo Stato dovrà pure vegliare a una produzione di derrate alimentari adeguata alle condizioni locali, utilizzando le risorse naturali in modo efficiente. L’agricoltura e la filiera alimentare dovranno rispondere alle esigenze di mercato. Quarto aspetto: le relazioni

commerciali transfrontaliere dovranno contribuire allo sviluppo sostenibile dell’agricoltura e della filiera alimentare. Infine, l’impiego di derrate alimentari rispettoso delle risorse. Si tratta in particolare di ridurre lo spreco, tenuto conto che – come detto – molti generi alimentari finiscono nel sacco dell’immondizia. In fatto di relazioni commerciali, due comitati interpartitici paralleli sostenitori del progetto condividono diversamente la garanzia data dal Consiglio federale ai contadini, secondo cui lo scopo non è di esporre l’agricoltura svizzera a una concorrenza più forte, visto che il sistema funziona. I due comitati concordano comunque su un punto: un «sì» il 24 settembre è un segno di fiducia nei confronti degli agricoltori. Il testo in votazione riprende le esigenze di due altre iniziative popolari all’esame del Parlamento: quella dei Verdi «Per alimenti equi» e quella promossa dal sindacato agricolo Uniterre «Per la sovranità alimentare. L’agricoltura riguarda noi tutti». Il Consiglio federale le respinge entrambe. I cittadini dovranno comunque tornare alle urne. /AC

va di quasi 1,4 miliardi, saranno interamente coperti da un innalzamento dei contributi salariali dello 0,3%, finanziato in parti uguali da dipendenti e datori di lavoro (0,15 punti percentuali ciascuno). Si tratterebbe del primo aumento dei contributi AVS da 40 anni a questa parte. Nella previdenza professionale, i contributi sui salari saranno un po’ più elevati. Resteranno al 7% a partire dai 25 anni. Tra i 35 e i 44 anni saliranno dall’attuale 10% all’11%, per poi salire al 16% per la fascia d’età compresa tra i 45 e i 54 anni, culminando al 18% dai 55 anni. Questi cambiamenti, sempre suddivisi a metà tra dipendente e datore di lavoro, entrerebbero in vigore solo a partire dal 2019, per concedere alle casse di previdenza il tempo per adeguarsi. Secondo il consigliere federale Alain Berset, con queste misure nel settore dell’AVS e della cassa pensioni il finanziamento della previdenza vecchiaia sarà garantito fino agli anni 2030. Come si vede, si tratta di una revisione non da poco. Per il Governo e i citati partiti che la sostengono essa è un compromesso equo, sociale e indispensabile per garantire il finanziamento delle rendite future. Se non si fa nulla, saranno le giovani generazioni a pagare. Per i fautori del progetto, per permettere al sistema dei pilastri della previdenza di adattarsi all’evoluzione della società (cambiamenti economici, congiunturali, demografici), occorre avere il coraggio di uscire dalle trincee e trovare compromessi. Se oggi ci troviamo a dover far fronte a una situazione che va assolutamente affrontata è anche dovuto al fatto che l’ultima riforma della previdenza vecchiaia portata in porto risale oramai a 20 anni fa. Risolvere la situazione sì, ma non a scapito dei giovani, dei pensionati e delle persone meno abbienti, sostiene un’alleanza contraria alla riforma della previdenza 2020, che riunisce soprattutto politici del PLR e dell’UDC, nonché esponenti dell’economia. Essi denunciano un sostegno troppo generoso a favore di tutti, ma non di coloro che sono già in pensione. Infatti – sottolineano – i 70 franchi e il 155% della rendita per coniugi sono previsti solo per i nuovi pensionati. A causa dei 70 franchi aggiuntivi per compensare le rendite della previdenza professionale – sostengono – già nel 2030 mancheranno 3 miliardi per finanziare le rendite AVS. Dopo la recente bocciatura

dell’iniziativa AVS Plus (chiedeva un aumento delle rendite del 10%), tornare alla carica con un nuovo incremento delle rendite è «irresponsabile», tenendo presente che l’obiettivo della riforma è il risanamento del sistema di previdenza, affermano ancora gli avversari. Oltre a queste posizioni contrarie ci sono quelle dei sindacati romandi che hanno lanciato il referendum contro la legge: una parte delle organizzazioni femministe e certe sezioni cantonali della sinistra e dei sindacati respingono l’aumento dell’età di pensionamento delle donne. Per loro, fintanto che l’uguaglianza salariale non sarà acquisita, non vi è motivo che le donne lavorino fino a 65 anni. Inoltre, la riforma – ricordano – non migliora la situazione degli oltre 2 milioni di attuali pensionati, mentre ai futuri pensionati non offre alcuna garanzia che l’attuale livello delle rendite sia mantenuto. Vero è che con questa mastodontica riforma del sistema previdenziale per la vecchiaia, che interessa i suoi due pilastri, Alain Berset tenta il colpo grosso, dopo che i suoi predecessori radicali hanno fallito. Il tema è complesso, tanto che non si riesce ad accontentare tutti gli interessi presenti nel perenne cantiere della previdenza vecchiaia. Il Consiglio federale, tenuto a garantirne la stabilità, è chiamato a operare in un campo minato, tanto che negli ultimi anni ha dovuto incassare cocenti sconfitte. Il 16 maggio 2004, il 67,9% dei votanti silurò l’11ma revisione dell’AVS che prevedeva di aumentare a 65 anni l’età di pensionamento delle donne. Una nuova versione dell’11ma revisione venne bocciata dal Nazionale nel 2010. Il 7 marzo dello stesso anno, il popolo rifiutò con una maggioranza del 72,7% una riduzione dal 6,8% al 6,4% del tasso di conversione. Il 25 settembre 2016 respinse con il 59,4% dei voti l’iniziativa popolare «AVSplus: per un’AVS forte» che voleva aumentare le rendite del 10%. Ora, più che di aumentare le rendite, si tratta di consolidare un cantiere prima che l’operazione diventi ancora più difficile e costosa per tutti. Stavolta, la strategia proposta è più rischiosa, in quanto popolo e cantoni dovranno dire sì alla revisione costituzionale per aumentare l’IVA e i cittadini dovranno anche accogliere la legge che riforma i due pilastri. Un solo «no» annulla l’intera operazione. Intanto, i tempi stringono.


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Politica e Economia

Un’enorme mole di regole

Settore bancario In seguito alla crisi finanziaria mondiale scoppiata nel 2008 e nel tentativo di evitarne di simili

in futuro, le raccomandazioni degli esperti e delle autorità di vigilanza si moltiplicano a dismisura

Ignazio Bonoli Il solo Gruppo di Basilea ha riempito 5440 pagine di raccomandazioni e suggerimenti. Nell’analisi dei testi, la parola più usata, dopo quella di «banche», è quella di «rischio»: potranno evitare una nuova crisi? Di tanto in tanto le imprese in Svizzera si lamentano del crescente lavoro amministrativo che devono svolgere a causa di leggi e regolamenti sempre più complessi e complicati. Ultimamente anche le banche – che di regola sono abituate a un gran numero di regole da applicare e rispettare – hanno fatto notare la gran mole di lavoro amministrativo che le direttive nazionali e internazionali comportano. La densità di questi regolamenti si è intensificata, in particolare dopo la crisi bancaria di dieci anni fa. La «Neue Zürcher Zeitung» ha dedicato un esame particolare a quelli che ha definito «I testi che dovrebbero impedire la prossima crisi finanziaria». Per giungere a questo risultato, e impedire in futuro che lo Stato debba salvare alcune banche, che già qualche anno dopo tornano a distribuire copiosi bonifici e dividendi, si è mosso un vero e proprio esercito di regolatori. A capo di questo immenso movimento si è posto il Gruppo di Basilea per il controllo delle banche. Coordinando gli sforzi di regolamentazione globale, il gruppo ha pubblicato, dagli anni Settanta, non meno di 5440 pagine di testi specifici, di cui la metà negli

ultimi dieci anni. Con il risultato che spesso gli stessi esperti del settore hanno perso la necessaria visione d’assieme del problema. Commentando questa evoluzione, un giornalista ha confrontato le parole usate per scrivere la Costituzione federale (che sono 30’000), quelle della Bibbia (che sono 700’000) e quelle dei regolamenti bancari (che superano i 2 milioni)! Ma, secondo la NZZ, l’analisi mostra come sono state formulate le regole e come, nel tempo, il loro obiettivo principale si sia spostato. La valutazione dei rischi si è costantemente raffinata, si sono scoperti nuovi pericoli che potrebbero correre le banche e, di conseguenza, le stesse regole sono state differenziate. Mentre all’inizio si è puntato soprattutto sul capitale proprio, in seguito si sono aggiunti vari strumenti di regolamentazione. Ovviamente anche i costi sono aumentati e la necessità di persone sempre più specializzate si è fatta sentire nel progettare, implementare e anche controllare le nuove procedure. Una gran parte delle regolamentazioni a livello internazionale è redatta sotto forma di raccomandazioni, per cui anche i testi del Gruppo di Basilea non sono giuridicamente vincolanti, benché l’attenzione alla necessità di fare o di migliorare venga più volte sollevata. Ma per diventare applicabili, queste raccomandazioni devono essere assunte nel diritto nazionale. A livello generale è stato sollevato molto spesso il problema del rischio.

Per ridurre i rischi il Gruppo di Basilea ha formulato 5440 pagine di raccomandazioni alle banche. (Keystone)

Tant’è che dopo «banche» la parola più frequente usata è proprio «rischio». Il Gruppo di Basilea ne ha individuato di cinque tipi: ■ Il rischio di credito, definito «La madre di tutte le crisi finanziarie», dato dal mancato rispetto del contratto da parte del debitore (per esempio un’ipoteca); ■ Il rischio di liquidità, quando la banca concede finanziamenti a lunga scadenza contro depositi prelevabili a breve; ■ Il rischio interessi. Per esempio per

un’obbligazione a tasso fisso, con il livello dei tassi di interesse che tende a scendere, oppure un’ipoteca a tasso fisso, finanziata con depositi a breve scadenza; ■ Il rischio mercato, che è più generico, e dipende da cause esterne che possono far scendere pesantemente le quotazioni di titoli; ■ Il rischio operativo, che non è soltanto delle banche. Ogni impresa può compiere errori nella sua gestione o

subire contraccolpi sia dall’esterno, sia dall’interno. Ancora una volta l’analisi dei testi mostra una diversa considerazione di questi rischi nel trascorrere degli anni. Negli anni 70 e inizio 80 erano poco citati. Nel 1975 la parola «rischio» non era mai citata, ma in seguito la parola «rischio di credito» dominava negli anni 90. Durante la crisi finanziaria del 2007/8, il Gruppo di Basilea ha pubblicato poche pagine e dopo solo pochi riferimenti alla crisi. Più tardi appare frequentemente la parola «risk management» seguita da tutto uno strumentario per il controllo dei rischi. Da allora tutti gli strumenti a disposizione delle banche sono stati sintetizzati nei documenti noti come «Basilea 1, 2, 3». Con l’aumentare delle direttive (siamo a 5440 pagine) aumentano anche i costi della loro implementazione. Ci si può tuttavia chiedere se tutto questo armamentario serva allo scopo. In Italia, per esempio, lo Stato è intervenuto per salvare alcune banche, il che significa che uno dei grossi problemi da risolvere è quello di fare in modo che l’ente pubblico non debba rimediare agli errori del privato. In realtà, con tutte le regolamentazioni (applicate o suggerite) il settore finanziario è diventato uno dei più controllati in tutti i paesi e anche oltre i confini, come sperimentano le banche svizzere. Nel frattempo si sarà pagato un prezzo elevato per un sistema che, con ogni probabilità, non sarà in grado di resistere alla prossima crisi. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 settembre 2017 • N. 37

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Lo Stato e il mercato del lavoro L’economista tradizionale considera il mercato del lavoro alla stregua di un mercato qualunque dove il prezzo del bene (in questo caso il salario) viene fissato dall’incontro della domanda e dell’offerta. Questo incontro dovrebbe venir sancito da un contratto di lavoro. L’individuo che cerca lavoro lo sottoscriverebbe liberamente con il datore di lavoro che meglio gli conviene. Se il lavoratore non dovesse incontrare la posizione che meglio gli conviene avrebbe sempre la possibilità di diventare imprenditore e quindi di crearsi da solo la propria occupazione. Da ultimo la teoria del mercato del lavoro precisa che il salario non è solamente dipendente dal rapporto domanda/offerta di lavoro, ma anche dalla produttività. Nelle aziende con produttività del lavoro più elevata anche il salario è più elevato. E viceversa… È bene precisare subito, a scanso di equivoci, che questo

tipo di mercato del lavoro non esiste, neanche in un paese che, come la Svizzera, salvaguarda come la pupilla dei suoi occhi la libertà di commercio e di impresa. Il mercato del lavoro, in Svizzera come in altri paesi sviluppati, non è concorrenziale. Fino a qualche anno fa era un mercato nel quale i rapporti tra domanda e offerta, e quindi anche il salario, venivano decisi da contrattazioni tra le organizzazioni dei datori di lavoro e i sindacati. Erano i contratti collettivi a fissare, per il loro tempo di durata, le condizioni di reclutamento e di lavoro esistenti in un determinato ramo di produzione. Intendiamoci, questo non escludeva che le aziende si facessero concorrenza. Fermo restando che le condizioni fissate dal contratto collettivo andavano sempre rispettate, niente impediva infatti a un’azienda nella quale la produttività era superiore alla media di offrire condizioni di

salario e di lavoro migliori di quelle minime fissate nel contratto collettivo. In quel periodo d’oro della contrattazione collettiva lo Stato si limitava a proteggere i lavoratori sul posto di lavoro e a dettare condizioni di lavoro per gli apprendisti. Del resto si occupavano i sindacati e le associazioni professionali, o i singoli imprenditori, negoziando contratti collettivi. Parlo di periodo d’oro della contrattazione collettiva perché allora il principio stando al quale le condizioni di lavoro dovevano essere fissate nel negoziato tra i rappresentanti dei lavoratori e i rappresentanti dell’imprenditoria era accettato da tutti. Non che non mancassero iniziative popolari tendenti ad affidare allo Stato il compito di fissare, che so, la lunghezza delle vacanze o dell’orario settimanale di lavoro. Ma queste iniziative venivano sempre respinte con comode maggioranze. Per quel che

riguarda la fissazione delle condizioni di lavoro l’elettorato svizzero preferiva la negoziazione tra i partner sociali all’imposizione di regole e divieti da parte dello Stato. Negli ultimi due decenni la situazione è cambiata. Sempre con lo strumento dell’iniziativa si è cercato di attribuire allo Stato (la Confederazione, in generale, ma anche i Cantoni in qualche caso) nuove competenze regolatrici in materia di mercato del lavoro. Queste riguardavano, in generale, tre aspetti importanti: il salario, la durata del lavoro e la nazionalità della manodopera occupata. Per quel che riguarda il salario c’è stata un’iniziativa federale che intendeva attribuire allo Stato la facoltà di fissare il rapporto tra il salario più elevato e il salario più basso. Iniziative cantonali invece hanno chiesto di fissare un salario minimo, superiore a quello che attualmente viene considerato come la remunera-

zione minima per sussistere. Le iniziative concernenti la durata del lavoro tendevano a sopprimere il divieto di lavorare nei giorni festivi e, in generale, a liberalizzare l’orario di apertura per negozi e locali pubblici. Infine ci sono state iniziative, federali e cantonali, che si proponevano di discriminare all’interno dell’offerta di lavoro favorendo i lavoratori domiciliati. Finora tutte queste iniziative o hanno incontrato poco successo, a livello di votazioni, o si sono arenate nella fase della concretizzazione in misure di legge. È un bene o è un male? Chi scrive reputa che sia un bene perché continua a preferire le negoziazione tra i partner sociali a un intervento statale, fosse anche solo per evitare il costo e l’inefficienza dei controlli da parte degli enti pubblici. Ma si rende anche conto che, nonostante gli insuccessi, la politica, oggi, va sempre più nella direzione contraria.

le appartengono e in cui sa di non essere forte: non ha bisogno del circo, lei. Schulz, che era partito con un favore eccezionale in primavera ma che ha via via perso ogni genere di slancio (oltre che tre voti regionali importanti), è diventato matto per questa storia della minestra di lenticchie. Ha più volte denunciato la volontà di «de-mobilitare» della Merkel, l’ha persino definita «antidemocratica», perché secondo lui la cancelliera punta quasi a non fare andare la gente a votare, in quanto l’assenza di grande passione avvantaggia soltanto lei. Nonostante il nervosismo e le accuse, il tentativo di Schulz di animare la campagna elettorale a proprio favore non è al momento riuscito, anzi, l’Spd, che viaggia tra il 22 e il 24 per cento nei sondaggi, punta a non fare peggio degli scorsi anni. C’è anche da dire che, dopo anni di grande coalizione con la Merkel a fare da partner di maggioranza, gli spazi politici per i socialdemocratici sono diventati molto pochi: la cancelliera occupa tutto lo spazio politico del centro, e a sinistra dell’Spd c’è già la

Linke, si sta molto stretti insomma. L’operazione che fece Tony Blair negli anni Novanta in Inghilterra, la celebre «bigtent», è ora riuscita, partendo da destra, alla Merkel, che ha inglobato temi di sinistra, annientando l’opposizione. Semmai il tifo per Schulz arriva da altri paesi europei soprattutto quelli del sud più indebitati, che sperano in un buon risultato dell’Spd che costringa ancora una volta la Merkel a una coalizione di governo con i socialdemocratici o che comunque ridimensioni lo strapotere merkeliano: se per caso invece Merkel facesse molto bene e anche i liberali dell’Fdp, la coalizione tutta a destra costituirebbe un gran problema per i paesi spendaccioni. Poiché la dinamica dei due partiti principali sembra già scritta, il terzo posto è diventato rilevantissimo. I liberali, guidati da Christian Lindner, un gran mattatore accusato di eccessivo narcisismo, si sono molto ripresi rispetto al passato, e per molte settimane sono sembrati saldamente al terzo posto nonché partner naturali della Merkel. Ma

ora, in quell’8-10 per cento dei sondaggi che è così decisivo, ci sono anche altri tre partiti: la Linke, i Verdi e l’Adf, il partito che pareva definitivamente sopraffatto dalla fine della grande sbornia populista e che invece ora ha ripreso quota (i Verdi al momento sono i meno in forma). Dopo aver superato una crisi di identità e una lotta ai vertici questa sì «da circo», l’Adf si è affidata a due leader, Alexander Gauland, e soprattutto ad Alice Weidel, che ha partecipato all’unico dibattito tra partiti «piccoli» e che ha dimostrato di essere molto in gamba. Con la ripresa dell’Adf sono ricominciati i timori – e le discussioni – sull’immigrazione, sull’euro, sulla solidarietà, che non fanno bene né a Merkel né a Schulz. Ecco che allora qualcuno inizia a dire che in effetti senza circo si può stare, che la calma rassicurante di Merkel non è poi così male, che un leader politico cauto, che tutti chiamano «mamma», che parla di una Germania in cui «vivere bene», è un esempio di cui andare fieri, uno sbadiglio si potrà pure sopportare.

po degli economisti che van per la maggiore, quelli che – dai Nobel Stiglitz e Krugman agli eccentrici Piketty e Varoufakis – un giorno sì e l’altro pure, offrono generosamente spiegazioni e rimedi sui media e, purtroppo, anche soluzioni come consiglieri attivi in campagne elettorali o in governi. John Kenneth Galbraith ci aveva avvisati del pericolo. Seguendo un’annotazione, a pag. 213 del suo saggio c’è infatti questo fulminante avvertimento: «Gli economisti sono economi tra l’altro anche in idee. E ancora oggi è così. Fanno durare tutta la vita quello che hanno imparato all’università. I cambiamenti in economia vengono soltanto col cambio di generazione». Quasi una sentenza, comunque un forte indizio del perché dopo tanti anni (cambio generazionale all’orizzonte?) siamo ancora in attesa di un Diogene economista capace di interpretare le crisi e soprattutto di impedire che la paura di un «rien ne va plus» del passato continui a condizionare, se non a distruggere, anche

l’unica conquista degli ultimi decenni: la globalizzazione. Uscendo dall’incertezza di Galbraith, trovo sui media uno stuolo di economisti che concelebrano il 10. anniversario della crisi dei mutui, poi ribattezzata dei «subprime», iniziata nel 2007 e ancora in atto, e in teoria sempre sotto controllo. Ricordate? Prime scosse in Europa (NorthernRock e Paribas), poi una febbre che arriverà sino al fallimento della Lehman Brothers negli Stati Uniti e, per noi, sino all’Ubs costretta a chiedere un tetto sicuro a Berna. Da un decennio banche centrali e politiche economiche sono praticamente paralizzate da spettri che avrebbero potuto (e forse possono ancora…) trasformare la recessione in depressione. Se oggi non si trema più per banche e mercati finanziari, non è certo che tutte le bugie siano venute a galla. Tanto più che questi avvitamenti delle incertezze alimentano altre crisi. Come quella del Venezuela, in cui il socialismo ancora una volta ammette

di essere malato, ma ancora una volta vuol dimostrare di poter guarire. O come quella della Turchia che, pur avendo più professori e giornalisti in carcere che nelle scuole e nelle redazioni, prosegue tranquilla. È la prova che l’incertezza continua a turbare un po’ tutti i paesi occidentali, con punte elevate un po’ per colpa di chi le spara grosse (Trump), oppure di chi spara davvero (Siria e terrorismo islamico), come pure di chi si prepara a usare bombe nucleari o sfida altri a farlo. La conclusione la trovo scritta da Francesco Giavazzi e Alberto Alesina sul «Corriere della Sera» (12 agosto): «Sarebbe molto più utile se gli economisti riconoscessero la difficoltà di capire un periodo anomalo e di grande incertezza invece di pronunciare “verità”. L’incertezza è l’unico fulcro intorno al quale ruotiamo, e l’incertezza non aiuta a investire e crescere». Un indiretto invito a rileggere anche le incertezze descritte da Galbraith, a «capirle per capire» meglio quelle di oggi.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Tedeschi senza circo Tutti in Germania si lamentano della noia della campagna elettorale, sbadigliano, dicono che non c’è nulla di eccitante, nulla di interessante, mai un guizzo, una novità. Si vota il 24 settembre, la cancelliera, Angela Merkel (foto), che vuole il suo quarto mandato, è davanti nei sondaggi di parecchio ormai da qualche mese, c’è stato un unico dibattito televisivo con il principale sfidante, il leader socialdemocratico

Martin Schulz, e anche lì ci sono state poche emozioni. Manca «il circo», sospirano i tedeschi, mentre molti altri europei, abituati e logorati dal circo permanente, guardano con invidia alla calma rassicurante della Germania, dove i candidati fanno a gara a chi è più europeista. L’assenza di emozioni è in realtà una tattica merkeliana rodata negli anni – è cancelliera dal 2005, ha una certa esperienza elettorale e di governo, soprattutto conosce benissimo i propri limiti – e che lo «Zeit» definì qualche tempo fa «Prinzip Linsensuppe», il principio della minestra di lenticchie: non è nulla di che, però fa bene e non ha grandi controindicazioni. Merkel cerca di non dire nulla di troppo polarizzante, anzi utilizza frasi che rassicurino un po’ tutti, i suoi elettori e quelli dei socialdemocratici, in modo da non perdere consensi e al limite correre il rischio di non ottenerne di nuovi. Al quarto mandato, la cancelliera si può permettere di far parlare il suo operato e di non avventurarsi in territori che non

Zig-Zag di Ovidio Biffi Incertezze ancora da capire Devo gran parte di quel che mastico di geopolitica e di economia a John Kenneth Galbraith e in particolare a un suo libro degli anni Settanta in cui ha riportato la sceneggiatura di un documentario da lui realizzato con la BBC con lo stesso titolo: L’età dell’incertezza. Ho ripreso il libro (edizione A. Mondadori) negli scorsi giorni per un caso abbastanza inusuale, se non strano. Avevo visto in libreria lo stesso titolo sulla copertina di un altro volume (è di Vera Slepoj, editore Feltrinelli; tratta dell’adolescenza per – dice nel sottotitolo – «capirla per capire i nostri ragazzi»). Subito il mio pensiero era corso a Galbraith e l’analogia mi aveva suggerito l’idea di provare a tracciare un confronto fra l’incertezza degli adolescenti e quella che viviamo all’ombra delle crisi che si succedono senza fine ormai da un decennio. Però non me la sono sentita di affrontare quasi duecento pagine per aggiornare le mie conoscenze sulle problematiche adolescenziali. Allora, scoperto che il

libro «compiva» 40 anni, ho deciso di limitarmi all’incertezza della nostra società, riproponendo questa lapidaria analisi di Galbraith: «Nel secolo scorso i capitalisti erano certi del successo del capitalismo, i socialisti del socialismo, gli imperialisti del colonialismo e le classi dominanti di essere fatte per dominare. Di tanta certezza resta oggi poco o nulla, e sarebbe davvero strano se ne restasse, posta la paurosa complessità dei problemi che il genere umano si trova oggi ad affrontare». È una chiara dimostrazione che in fatto di attualità Galbraith non ha perso nulla e consente di approdare alla conclusione che in definitiva siamo ancora lì: l’incertezza di quasi mezzo secolo fa, cioè della fine degli anni 70 era praticamente la stessa, perlomeno per gravità e incidenza, di quella che oggi condiziona le grandi economie e fa ricadere effetti negativi su intese e contese geopolitiche. Secondo riscontro: sono anni che l’incertezza continua a planare sull’Olim-


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 settembre 2017 • N. 37

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Al via le Settimane musicali La rassegna asconese è alla sua 72 edizione: intervista al direttore artistico Piemontesi pagina 38

pagina 35

pagina 37

Keystone

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Per parlare del tempo

Filosofia Riflessione su un tema complesso e antico quanto l’uomo, prendendo spunto dall’ultimo libro

del fisico Carlo Rovelli (Prima parte)

Maria Bettetini Se nessuno me lo chiede, lo so bene. Ma se mi chiedi che cos’è il tempo, non so cosa rispondere. Che imbarazzo. E che intuizione geniale, sedici secoli fa: non siamo in grado di dire esattamente che cosa sia, il tempo, anche se è qualcosa da sempre presente (appunto) nella nostra quotidianità. Non lo hanno saputo dire tanto bene nemmeno gli scienziati, nei secoli, tanto che spesso si sono contraddetti tra loro, hanno capovolto delle certezze. Per esempio, il tempo non è una «cosa», questo è evidente anche per noi non appartenenti al ristretto circolo degli scienziati puri, quelli che in habitat come il Cern si trovano a casa. Però un grande padre della scienza, Isaac Newton, non più di tre secoli fa descriveva il tempo come un grande contenitore che scorre sempre allo stesso modo, immutabile, uguale a se stesso, insomma un ente, una cosa a sé. E per me, per me adesso che cosa è il tempo? Dimentico

rapida gli studi, voglio una risposta immediata, veloce. È quella cosa che può passare troppo in fretta, perché troppo corto, ma può anche non passare mai, sembrare lungo lungo. Sembrare. Non essere, se fosse, sarebbe lungo o corto, almeno il principio di non contraddizione concediamocelo, una cosa non può essere corta e non corta sotto il medesimo aspetto (bisognerebbe anche aggiungere «nel medesimo tempo», ma rischiamo di confonderci, ci siamo capiti). Sembrare, c’è qualcuno dunque che «giudica» il tempo, lo dice lungo o corto. C’è il riferimento a un soggetto. Per ora basti questo, perché vogliamo cedere la parola a un delizioso libretto, intitolato L’ordine del tempo (Adelphi). Lo ha scritto Carlo Rovelli, noto fisico teorico che al tempo ha dedicato la sua vita di ricercatore e che pertanto è in grado di spiegare questo mistero con parole comprensibili anche a chi fisico non è, a patto di acconsentire a farsi portare in campi di solito ritenuti lontani, astratti, ostici.

Il linguaggio è piano, gli esempi alla nostra portata: «la differenza tra le cose e gli eventi è che le cose permangono nel tempo», di un sasso posso chiedermi dove sarà domani, ma non posso chiedermelo di un bacio, e «il mondo è fatto di reti di baci, non di sassi». Che cosa ci racconta dunque Rovelli del tempo? Ci parla del nostro sconcerto cercandone una definizione, del perché sembri lungo e corto. Ci racconta di Aristotele e sant’Agostino (è lui quello che se me lo chiedi non lo so). Per Aristotele, il tempo è «misura del movimento secondo un prima e un poi». È quindi il lavoro di qualcuno che usando un’unità di misura cerca di dare dimensioni al divenire: una definizione che, estrapolata dal contesto metafisico del quarto secolo a.C., potremmo accettare persino oggi. Il libro di Rovelli sembra un giallo, perché dalla prima pagina il tempo perde tutte le caratteristiche che gli vorremmo attribuire, ma infine che cosa è? Cerchiamo il senso del tempo, la dire-

zione dal passato al futuro, scopriamo che solo nell’equazione del secondo principio della termodinamica c’è un «verso», un obbligatorio andare del calore dal caldo al freddo, mai viceversa, con un aumento del disordine che porterà a uno stato di equilibrio. Come accade quando il cioccolato caldo viene versato sul gelato: si crea un breve, delizioso periodo di disordine, in cui freddo e caldo coesistono, ma se non si è veloci nel gustarlo si raggiunge in fretta lo stato equilibrato di una crema molle e tiepida. Questo andare verso una direzione però, spiega Rovelli citando Clausius, Boltzmann, e poi Einstein e Planck, non è nella struttura microscopica delle cose, che non hanno un prima e un dopo, ma nel nostro modo di vederle. Nella nostra incapacità di cogliere tutti gli stati microscopici di ciò che vediamo. Continuiamo a perdere pezzi: nulla scorre. Inoltre: mentre il mio adesso è adesso, mai potrà coincidere con l’adesso di una stella lontana.

Non solo perché – e questo lo sappiamo tutti – ci vogliono millenni prima che la sua luce arrivi ai miei occhi, ma anche perché quando arriva il mio adesso non è più quello di prima. Ricordate il paradosso della tartaruga che sarà sempre un pochino più avanti ogni volta che Achille la raggiunge? Ecco, nel micro e macroscopico Zenone aveva ragione. Perso anche il tempo presente, inteso come un grande «adesso» valido per tutto l’universo, Rovelli ci spiega che la misurazione di Aristotele e il contenitore di Newton tornano a vivere nella teoria di Einstein, seppur ricompresi (nota personale: non c’è Hegel con la sua dialettica tripartita, nel dire che tesi e antitesi poi si sintetizzano in Einstein: perché si tratta di una semplificazione. Sappiamo benissimo quanto per arrivare a Einstein migliaia di cervelli abbiano cercato, sbagliato, capito, e quanto lo stesso Einstein abbia cambiato idea su un aspetto o l’altro della relatività, e sia stato poi corretto da altri scienziati). (…continua)


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 settembre 2017 • N. 37

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Cultura e Spettacoli

I collezionisti pionieri

Mostre La prestigiosa collezione di arte moderna Hahnloser in mostra al Kunstmuseum di Berna

Emanuela Burgazzoli Arthur Hahnloser, oftalmologo, e Hedy Bühler, diplomata a una scuola d’arte di Monaco, si sono appena sposati, quando si trasferiscono a Villa Flora, la casa del nonno di Hedy a Winterthur: una casa che diventa presto un luogo di incontro per appassionati d’arte progressista (luogo al quale la mostra dedica una sala), fra questi il cugino di Hedy, Richard Bühler e l’architetto Robert Rittmeyer. La stessa Hedy, promotrice dei «café révolutionnaires» (ovvero conversazioni settimanali sull’arte a Villa Flora) e appassionata di artigianato e arti decorative, contribuirà a realizzare gli arredi e gli interni della villa, disegnando tessuti e tappezzerie.

I coniugi Hedy e Arthur erano veri mecenati e hanno aiutato artisti in difficoltà che poi sono diventati famosi Nel 1907 gli Hahnloser comprano le loro prime opere d’arte: alcuni dipinti di Giovanni Giacometti fra cui un autoritratto che inaugura la fase postimpressionista e di Ferdinand Hodler, gettando così le basi di una collezione sorprendente per l’epoca, che dai protagonisti dell’Avanguardia svizzera si estenderà ben presto ai principali esponenti della pittura francese, del

calibro di Monet, Renoir, Van Gogh (di cui si può ammirare Il seminatore e la gouache Café de nuit à Arles), Bonnard (Effet de glace), Cézanne e Matisse. L’anno successivo infatti gli Hahnloser intraprendono il loro primo viaggio a Parigi, dove Carl Montag, pittore di Winterthur, presenta gli Hahnloser a Félix Vallotton, ed entrano in contatto con la cerchia dei Nabis e dei Fauves. Del pittore franco-svizzero Vallotton, l’artista più legato alla coppia Hahnloser e uno dei più presenti nella collezione (di cui Hedy redigerà con la sua macchina da scrivere, alla morte del marito, il catalogo ragionato delle opere), sono presenti in mostra i paesaggi, ma soprattutto alcuni celebri nudi: da La baigneuse en face (1907) alla grande tela La blanche et la noire (1913), dipinto in cui riprende il motivo classico della Venere coricata/ distesa e in particolare l’Olympia di Manet, riprendendo la figura della «serva» di colore, ma seduta sul letto a fumare una sigaretta, quasi come fosse un’amica. Opere che fanno scandalo a Winterthur, tanto che i compagni di scuola di Lisa e Hans, i figli della coppia, non hanno più il permesso di andare a giocare a Villa Flora. In casa – come testimoniano le belle fotografie d’archivio in catalogo – l’arte si respira a ogni angolo, le tele sono appese ovunque, persino in cucina e in bagno, integrandosi così nell’architettura dell’edificio, e nel parco dove l’architetto Rittmeyer colloca le due sculture di Aristide Maillol, L’été e la Pomona,

Vincent van Gogh, Le semeur, 1888. (Hahnloser/Jaeggli Stiftung, Kunstmuseum Bern)

scultura questa che si ritrova in una delle sale della mostra. L’allestimento bernese, visibile fino all’11 marzo dell’anno prossimo, restituisce per grandi capitoli, la coerenza e la bellezza della collezione che insegue nella pittura francese di quegli anni la modernità dai tratti onirici, come nel caso di alcune tele del simbolista Odilon Redon (Le rêve, 1908), sognanti e misteriosi come un paesaggio mattutino, una veduta marina o un viale alberato inondato di luce; sono la luce e i colori – soprattutto nelle numerose nature morte con fiori – che dominano le sale del museo. Ma

anche, nel contempo, il percorso ricostruisce la rete di rimandi che legano i grandi maestri della pittura francese ai loro «eredi», acquistati e promossi dagli Hahnloser negli anni in cui le loro opere erano ancora controverse e poco note. Alla lungimiranza si aggiunge l’amicizia personale che legava i due mecenati agli artisti, per i quali assumevano responsabilità e offrivano il loro sostegno in prima persona; amicizie documentate dai numerosi ritratti della famiglia Hahnloser realizzati da Vallotton o da Henri Manguin o ancora da Bonnard (Promenade en mer, 1924-25) che è il loro vicino

di casa durante le vacanze a Cannes. La loro attività di autentici collezionisti pionieri decisi a «vivere il nostro tempo», che si è interrotta nel 1936 alla morte di Arthur, ha costituito un motore per la scena artistica di Winterthur; basti pensare che nel 1916 il nuovo Kunstmuseum – che i coniugi Hahnloser avevano contribuito a realizzare – ospita un’ampia esposizione di pittura francese, divenendo un punto di riferimento nel panorama elvetico. La loro attività e le loro scoperte sono un impulso fondamentale anche per i musei elvetici, grazie alle loro donazioni, e di ispirazione per altri appassionati d’arte: un modello di collezionismo valido ancora oggi, ha sottolineato il curatore Matthias Frehner. La collezione Hahnloser, costituita oggi da circa trecento opere fra dipinti, sculture e opere su carta, è stata esposta a più riprese fra il 1995 e il 2014 negli spazi di Villa Flora adibita in parte a museo e ora sottoposta a lavori di ristrutturazione. In esilio forzato dunque da tre anni, dopo una fortunata tournée europea che ha toccato Amburgo, Stoccarda e Parigi con 350mila visitatori, è approdata l’anno scorso al Kunstmuseum di Berna (che già negli anni Trenta aveva beneficiato delle donazioni della famiglia Hahnloser), dove resterà in deposito almeno fino a quando Villa Flora non riaprirà le porte al pubblico. Kunstmuseum che negli ultimi tempi è già sotto i riflettori per il caso della controversa collezione Gurlitt, che si prepara a presentare al pubblico a novembre. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

C’è molta America a Venezia

Biennale cinema 2017 Grande attenzione per le pellicole statunitensi e inglesi che hanno abbordato temi sociali

come il razzismo e la violenza negli USA: buona accoglienza per Suburbicon di Clooney, scritto dai fratelli Coen

Nicola Falcinella Alla 74° Mostra del cinema di Venezia, che ha parlato in buona parte americano, il tema ricorrente e scottante è stato il razzismo. In un’annata memorabile per il cinema afroamericano, con gli Oscar a Moonlight e a Barrier e al documentario O.J.: Made In America oltre al successo dell’horror Get Out!, la questione razziale torna insistentemente sullo schermo. I sei film di produzione statunitense, oltre che nei due inglesi ambientati negli Usa, hanno esplorato la società americana nelle sue paure, le sue contraddizioni e nei suoi aspetti peggiori, con risultati interessanti e mediamente di buon livello. La bella commedia nera Suburbicon di George Clooney, da un’ispirata sceneggiatura dei fratelli Coen, dipinge un Paese che ha creduto di costruirsi come comunità ideale e vorrebbe continuare a raccontarsi come tale, pur contenendo al suo interno elementi di follia, malessere e violenza, mentre cerca di dare la colpa ai diversi. La sesta regia del divo è un quadro cupo che affida un filo di speranza solo ai ragazzini. Siamo nel 1959 a Suburbicon, cittadina modello fondata 12 anni prima e abitata da famiglie borghesi, sorridenti e ottimiste. L’arrivo della famiglia di colore Mayers turba l’apparenza e fa cambiare tutto: la reazione dei residenti è immediata e violenta e, per non farli vedere dal vicinato, è fatta erigere una palizzata intorno alla loro casa. Solo il bambino Nicholas Lodge supera il pregiudizio giocando con un coetaneo nuo-

vo venuto. La notte seguente una coppia di uomini armati irrompe nella sua casa, sequestra il ragazzo insieme a il padre, la madre, in sedia a rotelle per un incidente, e la zia. Per le conseguenze dell’aggressione la moglie muore e il marito Gardner, dirigente d’industria in carriera, sceglie di mettere a tacere tutto e riprendere una vita normale con cognata e figlio. Un agente delle assicurazioni intuisce che qualcosa non va e fa venire a galla la verità. Intanto per le strade e i cortili non si placano le proteste che ricordano quelle recenti di Charlottesville. Clooney bilancia le due componenti del film e le fa dialogare, creando una commedia impietosa dai tempi perfetti e alcuni momenti esilaranti. Oltre a Julianne Moore sdoppiata magnificamente nelle due sorelle, «l’americano medio» Matt Damon è perfetto per la parte da cattivo come lo era stato nella pellicola d’apertura Downsizing di Alexander Payne, anche qui racconto di una città ideale che tale non è. Il regista di Sideways dipinge gli scenari preoccupanti sul futuro, i cambiamenti climatici o la riduzione delle risorse naturali, dal punto di vista della sovrappopolazione. Per limitare l’impatto umano sul pianeta, una società propone di miniaturizzare le persone a circa 12 centimetri. Una coppia decide di affrontare la trasformazione, ma, al momento fatidico, la moglie si tira indietro e il marito si ritrova solo in questo aldilà. La prima parte della pellicola è molto interessante, poi il regista mette

La locandina del film di George Clooney.

molta carne al fuoco e punta a risolverlo con il suo abituale viaggio e l’alternanza di risate e commozione, ma l’equilibrio tra i registi è precario e anche il rimpicciolimento forse non è proprio la soluzione giusta. Le questioni ambientali, con la paura del futuro accompagnata da una buona dose di paranoia, tornano nell’ottimo

Fist Reformed di Paul Schrader, uno dei migliori lavori del concorso e anche della carriera del regista. La più antica chiesa riformata di Albany, quella del titolo, sta per festeggiare i 250 anni. Il reverendo Toller (Ethan Hawke) è un ex cappellano militare distrutto dal dolore per la morte in guerra del figlio, che aveva convinto ad arruolarsi. La sua crisi è

tamponata dall’ordinaria amministrazione, finché incontra Michael, ambientalista invasato e sovversivo, spaventato dall’avvenire tanto da voler convincere la moglie ad abortire la figlia che aspetta. Un crescendo di dolore per un film di diavoli, tentazioni e abissi, dal regista noto per la sceneggiatura di Taxi Driver, implacabile e asciutto, con lo sguardo al cinema di Robert Bresson, Carl Dreyer e Ingmar Bergman. Razzismo, violenza e richiesta di giustizia tornano in Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh, molto acclamato a Venezia, forse più dei suoi meriti. Una commedia nera scritta e diretta dal regista di In Bruges e 7 psicopatici, forse troppo debitrice al cinema dei Coen, a partire dalla bravissima protagonista Frances McDormand nei panni di una madre in cerca di giustizia. Ossessionata dall’uccisione e dallo stupro della figlia Angela: all’ingresso della cittadina fa affiggere giganteschi manifesti che chiedono verità e accusano di immobilismo lo sceriffo. Anche qui false piste e spiazzamenti, con scene divertenti, una storia ben scritta, con qualche forzatura ma personaggi ben definiti. Una realtà di omofobia e razzismo, con un poliziotto senza scrupoli che non si vergogna di torturare la gente di colore: «Io torturo i negri? Non si dice più negri, si dice gente di colore». Aleggiano fantasmi e paure di guerra fredda in The Shape of Water di Guillermo Del Toro, un fantastico d’autore, romantico e cinefilo, ambientato nel 1960, che guarda a Spielberg e Burton. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

I Longobardi sono ritornati a casa Mostra Una grande esposizione al Castello visconteo di Pavia ne illustra le complesse vicende storiche

Marco Horat La storia si ripete, anzi no, non è vero: la storia non si ripete mai. Comunque sia «il popolo dalle lunghe barbe», altresì noto come Longobardi ha riconquistato per alcuni mesi la sua antica capitale, Pavia. L’ha fatto con grande clamore mediatico (paradossalmente aiutato anche dall’incredibile scivolone cronologico de «L’Espresso», che ha posto il loro regno nei secoli precedenti la nostra era) ma senza ulteriore spargimento di sangue. La pacifica invasione ha comportato la conquista delle scuderie del castello e delle sale del Museo civico della città.... lombarda (o si dovrebbe dire longobarda?), dove sono

Nel percorso sono documentati gli ultimi 15 anni di ricerche e di scoperte effettuate in tutta Italia esposti fino a dicembre oltre 300 reperti archeologici e storici provenienti da un’ottantina di musei italiani e da alcune istituzioni straniere. Dalla Svizzera, mi pare, solo un testo dalla Stiftsbibliothek di San Gallo ma nessun reperto scoperto in Ticino come ad esempio poteva essere la famosa

Pluteo in marmo con pavoni che si abbeverano a un cantharos. (Pavia, Musei Civici)

figurina detta del Cavaliere di Stabio che ornava lo scudo di un guerriero, ora conservata nel Museo storico di Berna, risalente al VII secolo; tra l’altro scelta da Skira per la copertina di un suo volume sull’arte longobarda ma naturalmente non per il megacatalogo che accompagna l’attuale esposizione, entrambi curati da Gian Pietro Brogiolo, Federico Marazzi, Caterina Giostra con la collaborazione di Carlo Bertelli e altri numerosi studiosi. Forse nella

Pluteo marmoreo con agnello. (Pavia, Musei Civici)

scelta dei reperti ha giocato il fatto che la mostra vuole documentare soprattutto gli ultimi 15 anni di ricerche e nuove scoperte in ambito longobardo, relative a oltre 32 siti e centri situati nel nord e nel sud dell’Italia. Credo che ormai non abbia più corso l’idea che i popoli cosiddetti «barbari», venuti ad occupare l’Italia e quindi le nostre regioni dopo la caduta dell’Impero romano d’occidente per convenzione fissata al 476 (quello di Oriente vivrà ancora a lungo con i Bizantini), lo fossero nel senso di una mancanza di civiltà. Unni, Vandali, Goti, Longobardi, Franchi e altri ancora erano semplicemente portatori di valori culturali diversi che gradualmente nel corso dei secoli si erano integrati prima nell’esercito poi nella società romana fino a diventare infine protagonisti della storia europea con il Medioevo. Nasceva una nuova civiltà, frutto di incontri e scontri, che aveva sostituito quella romana a sua volta nata dal contatto con altri popoli del Mediterraneo. Potremmo pensare non diversamente da quanto sta succedendo per certi versi oggi sotto i nostri occhi. I Longobardi si affacciano sulla scena italiana nel 568 provenienti da est e in poco tempo si espandono in tutta la pianura lombarda fino a ridosso delle Alpi, pongono la loro capitale a Pavia conquistata da Alboino quattro anni dopo, e più tardi scenderanno giù fino a Spoleto e Benevento (VIII secolo) dove la loro presenza sopravviverà per qualche tempo al dominio eserci-

Fibula a S in argento dorato e pietre dure. (Museo Archeologico di Cividale)

tato in Europa dal Sacro romano impero fondato da Carlo Magno la notte di Natale dell’anno 800. È insomma, come ci ricordano gli organizzatori della mostra pavese, il racconto di «grandi sfide economiche e sociali, di relazioni e mediazioni tra Mediterraneo e Nord Europa, di secoli di guerre e scontri, di alleanze strategiche e contaminazioni culturali tra differenti civiltà, di grandi personalità». Una vicenda storica secolare che la mostra di Pavia, che sarà portata in seguito a Napoli e a San Pietroburgo, racconta attraverso testimonianze di indubbio fascino. Come si legge anche nel catalogo, si tratta di poderose armi quali spade di grandi dimensioni e di raffinata fattura rinvenute in tombe di guerrieri, incredibili corredi funerari

ricchi di vasellame ed elementi della vita quotidiana, superbi gioielli in oro tipo pendagli orecchini, collane e anelli, eleganti manifatture come i vetri di alcuni corni potorii di origine friulana, preziosi manoscritti su pergamena che riportano le prime leggi scritte dai Longobardi (l’Editto di Rotari conservato a San Gallo, datato 670-680), rilievi architettonici e decorativi in marmo che riuniti sotto le volte suggestive delle Scuderie del castello, in un ambiente accogliente e variato seppure un po’ rumoroso a causa delle numerose postazioni audiovisive presenti, danno la misura globale delle conquiste in ambito artistico e civile di questo popolo straordinario che ha gettato le basi del successivo impero unitario. Altro che barbari! Per chi non si accontenta c’è infine la possibilità di integrare la visita della mostra con un itinerario guidato alla scoperta della Pavia longobarda, che tocca una serie di edifici religiosi tra i quali naturalmente la stupenda chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro nel centro storico, come pure le cripte di Sant’Eusebio, San Giovanni Domnarum e San Felice. Poi tutti a casa a sfogliare ma soprattutto a leggere il catalogo per rivivere una volta di più l’affascinante storia dei Longobardi, in parte nostri antenati. Dove e quando

Pavia, Castello visconteo, Via 11 febbraio, I Longobardi. Un popolo che cambia la storia, fino al 3 dicembre, www.mostralongobardi.it

Un lungo colloquio con la propria terra

Mostre Alla Sala del torchio di Balerna una personale del pittore Aldo Pagani, aperta fino al 17 settembre Eliana Bernasconi Aldo Pagani si è regalato questa mostra per i suoi 80 anni, un’antologica in cui ha selezionato e raccolto le opere di 50 anni di lavoro. Pagani vive a Morbio ed è nato e cresciuto vicino alla sontuosa Villa vescovile di Balerna. L’importanza della pieve balernitana nei secoli è testimoniata dai magnifici stucchi che decorano la Sala della Nunziatura, proprio sopra la Sala del Torchio dove si tiene la mostra. Tra Morbio e Balerna, troviamo il parco delle Gole della Breggia, un importante sito naturalistico e geologico, inscritto nell’Inventario dei siti e dei monumenti di importanza federale. Cresciuto accanto a queste gole, Aldo Pagani racconta di quando bambino si tuffava felice nel torrente. Forse, pensiamo, non ha mai smesso di farlo. Le opere in mostra, 50 oli e alcuni disegni, tranne qualche raro lavoro che ha per oggetto la Sardegna o le Cave di Arzo, hanno ori-

gine dall’appassionata immersione nel luogo dove è nato. Molte persone abbandonano per sempre il loro luogo di nascita senza rimpianto, ma nel suo caso sarebbe impossibile: la sua è la relazione di un’innamorato. Le immagini esposte sono tutte diverse, ma il soggetto, colto in infinite angolazioni visive, in momenti sempre diversi è sempre uno. In un lungo percorso espressivo Pagani restituisce immagini elaborate in decenni. Vi senti un muto costante colloquio con la natura: sono pareti, rocce, anfratti, gole, sempre gli stessi, ogni volta diversi. Il pittore imposta con sicurezza composizione e impianto spaziale, i colori mutano gioiosamente, possono essere molto caldi o molto freddi, inseguono con ostinazione la luminosità, avverti che rocce, fiume, gole, sassi, anfratti contengono segrete proiezione di emozioni, diventano angoli interiori. Non avrebbe molto senso etichettare questi lavori da un

punto di vista stilistico, fra concretezza e interpretazione, ma guardandoli non si può non ricordare l’Astrattismo, che rinuncia alla raffigurazione dell’oggetto creando un’altra dimensione, o il Cubismo che ai primi del 900 alla rappresentazione imitativa del reale contrappone-

Una delle opere esposte.

va volumi geometrici autonomi e puri. Pagani deve avere umilmente guardato a quei maestri, essersi nutrito del loro insegnamento, ma è sempre rimasto fedele a una sua spontanea guida interiore. In un modo dell’arte dove tutti gridano e cercano visibilità, di carattere

schivo e riservato, meditativo e riflessivo, il pittore ha lavorato quotidianamente, con costanza e metodo. Le opere hanno formati diversi, medie o grandi dimensioni, ma ritiene di avere raggiunto il massimo solo con le piccole tavolette di legno in esposizione, di 20-30 cm, dalla struttura complessa e dall’intensa colorazione: appassionato cultore della musica classica, le ha chiamate «Péchés de vieillesse», ispirandosi a Rossini, che con questo nome compose dei brani assolutamente poco noti e bellissimi. Vi è un aspetto a cui ci rende attenti Dalmazio Ambrosioni. Il pittore Pagani è stato un vero anticipatore culturale. Oggi non pochi artisti esprimono la necessità di approfondire il rapporto con il luogo a cui appartengono. Nei primi anni 70, quando Pagani iniziava la sua carriera erano in pochi a mettere al centro della loro poetica in modo così ricorrente e determinato l’amore per la terra in cui erano nati.


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Cultura e Spettacoli

Settimane musicali classiche ma dinamiche

Il grande Jackpot dei formaggi

Rassegne I niziata la 72ma edizione

della prestigiosa manifestazione locarnese: ne parliamo con il suo direttore artistico, Francesco Piemontesi Enrico Parola Piemontesi ha scelto uno stile molto rock per iniziare le classicissime Settimane Musicali di Ascona, scandite da un ritmo travolgente e agitate da interpretazioni dirompenti. Così si annunciava e così è stato il Requiem di Mozart che inaugurava lunedì scorso la rassegna (sostenuta tra gli altri dal Percento culturale di Migros Ticino) e che è risuonato tra le navate della chiesa di san Francesco a Locarno nella visione di Teodor Currentzis alla guida del coro e dell’orchestra di strumenti antichi AnimAeterna. 45 anni, greco, Currentzis è il nuovo fenomeno del podio: ama definirsi rivoluzionario e aborrisce una fruizione della classica come relax; le sue interpretazioni sono elettrizzanti e spiazzanti, ma mai pretestuose, anzi guidate da un’assoluta fedeltà al testo e al pensiero dell’autore. Il «suo» Requiem mozartiano ha trasmesso un’energia subito raccolta dall’Orchestre Nationale de France, approdata sulla sponda locarnese del Maggiore venerdì scorso per accompagnare Bertrand Chamayou nel secondo concerto per pianoforte di Saint-Saëns. E questa settimana non è da meno, proponendo due grandiosi appuntamenti sinfonici sempre di lunedì e venerdì. Dapprima l’Orchestra della Svizzera Italiana, in san Francesco con Sergei Nakariakov, massimo virtuoso mondiale della tromba che per l’occasione ha approntato una funambolica trascrizione per flicorno del concerto per oboe di Haydn; quindi l’orchestra più attesa, la Filarmonica di San Pietroburgo guidata da un mito vivente del podio quale Yuri Temirkanov; e con loro, nella veste di solista, lo stesso Piemontesi ad affrontare il primo Concerto per pianoforte di Ciajkovskij. «Fin da bambino ero affascinato da questo concerto, mi schiudeva un mondo magico; in generale mi suggestionava la musica russa: il sarcasmo di una Sinfonia di Shostakovich, la modernità di Schnittke, le sonorità commoventi dei Quadri di un’esposizione di Musorgskij mi hanno accompagnato giorno per giorno nel mio cammino musicale». Proprio i Quadri campeggiano in locandina accanto al capolavoro di Ciajkovskij: «Ho voluto che le Settimane Musicali non solo proponessero musiche russe, ma che le proponessero attraverso i massimi interpreti russi: MusicAeterna, ovviamente Temirkanov e la sua corazzata pietroburghese, ma anche Vladimir Ashkenazy,

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che dirigerà la Osi nella nona sinfonia di Shostakovich». Piemontesi non si presenterà solo in veste sinfonica, ma si cimenterà anche nel repertorio cameristico: il 25, nella chiesa del Collegio Papio di Ascona, firmerà un Hommage à Liszt assieme a un altro virtuoso del pianoforte, il canadese Louis Lortie. «Quando mi hanno proposto di guidare le Settimane Musicali mi hanno esplicitamente chiesto di non smettere di propormi anche come esecutore; sono di Locarno, conosco il pubblico e la gente mi conosce, va bene salutarla e incontrarla ad ogni serata in qualità di direttore artistico, ma mi hanno detto che volevano sentirmi ancora suonare, non volevano perdersi il Piemontesi pianista. Inutile dire che non mi dispiace affatto, anzi». Soprattutto quando si può farlo con partner eccelsi come i professori russi – tra l’altro in uno dei suoi concerti preferiti – o Lortie. I due pianisti antologizzeranno alcuni capitoli delle Années de Pèlerinage, in cui il grande virtuoso-compositore magiaro trasfigura in note, timbri e atmosfere le impressioni suscitategli durante i suoi viaggi in Italia e Svizzera. Per ascoltare la Nona di Shostakovich nell’interpretazione di Ashkenazy e della Osi bisognerà attendere il 29, quando il pianista americano Andrew Tyson si cimenterà nel secondo Concerto di Chopin. Sempre nel solco degli 88 tasti e dei suoi grandi interpreti si chiuderanno le Settimane Musicali: il 17 ottobre il brasiliano Nelson Freire, sodale di Martha Argerich ed ex enfant prodige richiesto dai massimi direttori, spazierà da Bach a Chopin, da Schumann al compatriota Villa Lobos. Il festival si illumina anche con le stelle dell’archetto: il 2 ottobre Piemontesi ha invitato Isabelle Faust, prediletta da Abbado nonché compagna di cordata di Mario Brunello nei suoi concerti in cima alle Dolomiti: Andreas Staier l’accompagnerà al pianoforte tra pagine di Mendelssohn, Schumann, Beethoven e Brahms. «Tra tanti big, sono molto soddisfatto di portare per la prima volta in Svizzera l’Orchestra Aurora: una giovane formazione britannica che suona tutto il repertorio a memoria»: il 6 ottobre accosterà la Pastorale di Beethoven e Pastoral Symphony dell’australiano Brett Dean. In collaborazione con

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Teodor Currentzis, vera star tra i giovani direttori d’orchestra.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 settembre 2017 • N. 37

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Cultura e Spettacoli

Slidestream atto secondo

CD 1 È uscito da poco Strade diverse, il nuovo album di una formazione storica del jazz

elvetico, capitanata dal trombonista locarnese Danilo Moccia

Alessandro Zanoli Il poeta latino Orazio diceva che uno scrittore serio prima di dare fuori un libro doveva lasciarlo almeno nove anni in un cassetto. Se rileggendolo, trascorso quel periodo, scopriva che il suo contenuto aveva retto alla prova dei tempi, allora valeva davvero la pena di renderlo pubblico. Danilo Moccia, eccellente trombonista ticinese, per la pubblicazione del secondo disco della band Slidestream ha atteso ben 17 anni. Il suo lavoro, quindi, sembra tutt’altro che un’opera estemporanea, un’uscita «improvvisata», in senso letterale. «I pezzi registrati su questo disco in realtà erano preparati da tempo, almeno 6 o 7 anni» ci spiega Moccia. «Avremmo dovuto inciderli molto tempo fa ma uno dei componenti del gruppo ha avuto un problema di salute e di conseguenza tutto si è fermato». Occorre chiarire che Slidestream è una formazione veramente inusuale nel panorama jazzistico elvetico (e anche europeo). È nata quasi due decenni fa con l’obiettivo di valorizzare il suono e il ruolo del trombone nell’ambito della creazione jazz. Lo strumento, è vero, è un «veterano» nella storia della musica nero-americana, ed era entrato a far parte della dotazione delle primissime orchestre fin dalle origini di questo stile. Ma è solo a partire dal dopoguerra, grazie al contributo di alcuni eccezionali artisti, che ha trovato una propria fisionomia moderna e un ruolo solistico di rilievo. Moccia, senza dubbio alcuno uno dei migliori trombonisti del Vecchio Continente, vent’anni fa ha riunito attorno a sé altri due ottimi commilitoni, Vincent Lachat e Stefan Schlegel, e ha messo in piedi un interessante repertorio. Le tre voci degli ottoni, calde e

Un grande giro senza fili Teatro D ebutta al

Foce una pièce scritta e recitata da giovani attori

Giorgio Thoeni Da sinistra: Stefan Stahel, Stefan Schlegel, Elmar Frey, Danilo Moccia, Vincent Lachat, Christof Sprenger.

swinganti, sono armonizzate in modo magistrale e con i loro temi a tre voci generano un sound affascinante, calibratissimo. Il primo disco degli Slidestream era del 2000: si chiamava Cat Eyes ed era stata una vera rivelazione. A distanza di tempo, ecco i tre amici (accompagnati da Stefan Stahel al pianoforte, Christof Sprenger al contrabbasso e Elmar Frey alla batteria) tornare in sala d’incisione dopo essersi esibiti spesso in giro per la Svizzera con la loro raffinata band. «I pezzi del nuovo disco li abbiamo suonati spesso nei nostri concerti, quindi entrando in studio eravamo molto rilassati e pronti. A quel gruppo di brani ne ho aggiunti alcuni altri, perché io continuo comunque a scrivere e a mettere pezzi da parte, per quando si presenta la buona occasione. Senza contare che mi piace anche arrangiare brani standard, di modo che abbiamo un repertorio abbastanza ricco. Grazie al contatto con DRS Kultur Zwei abbiamo avuto modo di tornare in sala di incisione». Da un punto di vista stilistico, tra i due album non sono successe particolari rivoluzioni. La personalità

musicale di Moccia compositore e arrangiatore si ritrova qui perfettamente riconoscibile. La sua coerenza, la sua dedizione per il bel suono «rotondo» è un marchio di fabbrica che garantisce la buona fattura e soprattutto il buon gusto dei suoi lavori. Non che non gli piaccia frequentare anche territori musicali più accidentati ed estemporanei, anzi, ma occorre dire che in Slidestream il jazz viene sicuramente visto nei suoi aspetti eleganti e «mainstream». «A prodotto finito posso dire di essere soddisfatto» ci dice Danilo Moccia. «Si sente che siamo un buon gruppo. Il fatto che sia passato tanto tempo dal primo disco non può che mostrare la nostra maturazione personale. I pezzi comunque durante la registrazione sono leggermente cambiati, a seconda dell’atmosfera che volevo creare. Ho cercato di sviluppare una situazione diversa in ognuno dei tredici brani, in modo da ottenere un suono variato. Lachat stesso è stato molto sorpreso dal risultato. Mi ha detto che grazie al disco per la prima volta ha avuto un’idea del suono complessivo. In genere suonando a sezioni si è portati a sentire solo quello che si fa: anche in sala di regi-

strazione eravamo separati dagli altri, in una stanza da soli». Come si sa Moccia predilige un approccio compositivo molto rigoroso e legato alla partitura. Per lui non si tratta di far nascere i pezzi in sala di incisione, come succede molto spesso tra i jazzisti, sfruttando le intuizioni e gli arrangiamenti nati spontaneamente. «Io scrivo i pezzi come farei per una big band. Mi aspetto quindi di far nascere il suono che ho immaginato e che i musicisti lo realizzino leggendo lo spartito. Come detto cerco di creare un suono omogeneo, che generi varietà usando la varietà dei timbri. D’altro canto compongo molto e alla fine erano veramente molti i pezzi pronti». Sono infatti ben 13 i brani contenuti in Strade diverse, tra cui una piccola suite in tre movimenti. «Il disco è uscito da un mese; il suo canale di distribuzione... sono io. Per ordinarlo si può fare riferimento al sito www.slidestream.ch. Di fatto il CD serve anche per farci conoscere dagli organizzatori di concerti. Posso anticipare a chi vuole sentirci in Ticino che suoneremo il 20 ottobre a Coglio, in Valle Maggia, in occasione di Autunno Jazz».

Sono in pista da quasi quattro anni ed è interessante seguire il «Grande Giro», progetto creato da Lea Lechler, Valentina Bianda e Daniele Bianco, nel mettere a frutto le esperienze finora accumulate per trovare un’identità teatrale. Nel gruppo si sta ora facendo strada una drammaturgia più spontanea, dove i riferimenti «colti» sono più immediati, meno ambiziosi rispetto ai precedenti lavori. Prova ne è che Senza fili, produzione al suo recente debutto al Teatro Foce di Lugano, centra il bersaglio con una creazione collettiva che raduna sulla scena dieci giovani con il proposito di dare all’espressione teatrale un taglio tra il serio e il giocoso impostato sul tema della libertà in rapporto alla condizione giovanile. Le luci iniziali sono puntate su un gruppo di ragazzi riuniti per una festa di quelle che non decollano. Per il collettivo degli autori questa situazione così comune e imbarazzante è un pretesto per elencare detti e contraddetti di insoddisfazioni sommati a cliché autoironici in un ritmato collage corale a più voci. I fili a cui allude il titolo sono quelli

Graceland rivive nel nuovo millennio

CD 2 L’ennesimo album dal vivo di Paul Simon, leggenda del cantautorato americano,

è una celebrazione del suo songbook e, soprattutto, dell’ormai mitico album del 1986 Benedicta Froelich Potrebbe apparire quasi come un paradosso, eppure, negli ultimi anni, gli artisti che più si sono dimostrati generosi in termini di esibizioni dal vivo sono stati proprio i cosiddetti over sixty – performer stagionati, perlopiù provenienti dalla magica stagione degli anni 60 e 70, ma tuttora in grado di mostrare, sul palco, una resistenza e un’abnegazione spesso superiori a quelle degli odierni musicisti ventenni. È questo il caso del 75enne americano Paul Simon, principale songwriter e «metà» più nota della celeberrima coppia artistica Simon & Garfunkel – senz’altro una delle formazioni maggiormente iconiche del «folk revival» e dell’ambito cantautorale statunitense della seconda metà del 900. La nuova fatica discografica dell’artista, da tempo ormai intento a collezionare dischi dal vivo, è stata, infatti, registrata nel 2012 in occasione dell’Hard Rock Calling Festival, svoltosi all’interno della suggestiva cornice di Hyde Park, a Londra. Solo poche settimane fa, Simon ha infine pubblicato questo The Concert in Hyde Park, registrazione integrale della magistrale serata ripartita su due CD, e, per i fan dell’home video, disponibile anche in formato DVD e Blu-ray – un album che costituisce soltanto l’ultimo capitolo nella carriera di performer «open air» di Paul, il quale non è, in effetti, nuovo a esperienze di questo tipo: se il termine di paragone rimane l’indimenticabile The Concert in Central Park che, nel 1981, vide la

coppia Simon & Garfunkel ricostituirsi per un unico, eccezionale evento musicale nel cuore di New York, altri esperimenti di questo tipo sono stati tentati anche dal Simon solista, come nel caso del live album Paul Simon’s Concert in the Park, dato alle stampe nel 1991. Tuttavia, chi scrive deve ammettere di aver sempre avuto un debole per l’altra metà del duo, ovvero lo spesso sottovalutato Art Garfunkel, la cui personale ricerca sulla tecnica delle armonie vocali ha reso il sound del gruppo davvero inconfondibile, oltre che indimenticabile; e in questo senso, sarebbe difficile negare che, quando Paul Simon riesce a vincere la sua indubbia arroganza per fare nuovamente coppia con l’amico di un tempo, i risultati siano davvero eccelsi, nonché superiori a qualsiasi tentativo solista (si veda lo splendido album Old Friends: Live on Stage, ricavato dalla tournée celebrativa intrapresa dai due nel 2003). Ad ogni modo, un musicista del calibro di Simon non raggiunge i cinquant’anni di carriera senza diventare

semplicemente impeccabile nel suo campo: e difatti, anche in questo disco lo vediamo cimentarsi mirabilmente nel suo abituale, e sempre irresistibile, mix di rock’n’roll anni 50, folk cantautorale, world music e soul, a tratti condito perfino da un poco di dixie music. L’esperienza di queste oltre due ore di musica ripartite su doppio CD è poi ulteriormente arricchita dagli ospiti di pregio presenti nella line-up dello show: su tutti, la leggenda del reggae Jimmy Cliff (il cui contributo è presente per intero soltanto nella versione DVD dell’album), con cui Paul duetta in un medley intriso di puro sound vintage e composto da Vietnam – pezzo, come suggerito dal titolo, dallo spirito inequivocabilmente anni 60 – e dal più suadente Mother and Child Reunion. Ma la vera sorpresa è il ritorno della storica formazione sudafricana dei Ladysmith Black Mambazo, responsabile degli eccelsi cori di stampo tradizionale mbube che, nell’ormai lontano 1986, ricoprirono un ruolo fondamentale nella realizzazione del memorabile

Foto storica della prima apparizione di Paul Simon con i Ladysmith Black Mambazo.

album Graceland, primo e acclamatissimo esperimento di Simon con la world music (esperimento che, nel 1997, sarebbe stato seguito dall’eccellente ma sottovalutato Songs from The Capeman, stavolta incentrato sulla musica di stampo sudamericano e caraibico). L’intero set del concerto si dipana così tra i grandi classici del songbook di Paul, inclusa l’esecuzione quasi integrale del già citato Graceland; e, sebbene il repertorio prescelto offra poche sorprese, fa comunque piacere scorgere in esso un caposaldo della tradizione americana come Mystery Train – anche se non si può evitare di rimanere un po’ delusi dal fatto che si concedano al pubblico appena due brani tratti dalla produzione firmata Simon & Garfunkel (The Boxer, qui in una non eccelsa versione eseguita con Jerry Douglas, e il classico dei classici The Sound of Silence). Certo, per quanto ciò possa infastidire il diretto interessato, anche davanti a questa pur pregevole performance rimane comunque difficile, per l’ascoltatore, non rimpiangere almeno in parte la magia prodotta sul palco dalla coppia Simon & Garfunkel – anche perché non sempre l’attempato Paul riesce a sopperire alla vaga mancanza di carisma che da sempre affligge le sue esibizioni live. Ma non si può negare che, anche stavolta, l’estrema professionalità dell’artista brilli comunque lungo tutto l’album, facendone in ogni caso un’ottima prova – nonché un’efficace retrospettiva per chi, a questo punto, può ben permettersi un po’ di sana autocelebrazione.

liberati da un burattinaio (da cui il dichiarato collegamento con Le avventure di Pinocchio di Collodi) che si presenta con valigie piene di abiti colorati e oggetti vari: l’ideale per scatenare in loro la voglia di trasformarsi in personaggi con un atto «liberatorio», sia fisico sia verbale, una festa circense organizzata, dove trovano spazio confessioni, speranze, aspirazioni e una buona dose di autocritica. Il tutto fra coreografie d’assieme e monologhi. Se la dimensione attoriale è ovviamente ancora tutta da sfruttare, dall’uso dei fiati alla recitazione fino alla tenuta dei personaggi, le esperienze della compagnia in campo formativo (come le creazioni con studenti liceali) permettono alla direzione del collettivo di raggiungere una certa efficacia d’impatto in spontaneità nel tessere tutte le idee per un copione che ha una struttura, una forma teatralmente leggibile e che assicura uno scorcio di «verità». Una dichiarazione senza filtri (e senza fili) su quanto si agita nelle coscienze dei giovani. Un folto il pubblico in platea (di parte ma sincero) ha applaudito i giovani attori-autori: Arianna de Angelis, Camilla Stanga, Gaia Grigorov, Lia Franchini, Noemi Zürcher, Sophie Papais, Fedro Mattei, Giacomo Stanga, Robert Barbaric e Tiago Poretti.


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Idee e acquisti per la settimana

shopping Sono arrivati i formaggi d’alpe ticinesi DOP! Attualità Le prime specialità prodotte sulle nostre montagne hanno fatto capolino

nei supermercati Migros

FORMAGGIO D’ALPE TICINESE DOP

Sugli alpi ticinesi vengono prodotte numerose varietà di formaggio. (Giovanni Barberis)

I saporiti formaggi d’alpe ticinesi vengono preparati quotidianamente con del buon latte crudo durante i mesi estivi e sono portati a maturazione in quota per almeno 60 giorni nelle cantine dei numerosi alpeggi prima di essere commercializzati. Queste prelibatezze a pasta semidura seducono tutti i buongustai grazie al loro aroma intenso dato dalle erbe di montagna di cui si nutrono le mucche. La DOP (Denominazione di Origine Protetta) non solo garantisce che i formaggi siano prodotti nel rispetto di severe norme igieniche e abbiano una stagionatura di minimo due mesi, ma anche la tracciabilità a ritroso lungo tutta la filiera produttiva. Da questa settimana presso i banchi del formaggio Migros sono ottenibili i formaggi d’alpe DOP Fieudo, Predasca, Pesciüm, Manegorio e Croce Lucomagno, mentre nelle prossime

settimane giungeranno altre specialità quali Pontino, Camadra, Gorda, Cioss Prato, Ravina, Cruina Bedretto, Fortunei, Pian Segn e alcuni tipi dalla Vallemaggia. Conservazione e consumo

Il formaggio d’alpe può essere ulteriormente affinato a condizione di conservarlo in una cantina con umidità e temperatura adeguate, idealmente tra i 7 e 10 gradi con un’umidità dell’80-85 percento. A casa va tenuto nel proprio imballaggio nella parte alta del frigorifero e tolto almeno mezzora prima del consumo affinché possa sviluppare tutti le sue note aromatiche. Il formaggio d’alpe è l’ingrediente immancabile di ogni piatto di formaggi misti. Accompagnatelo semplicemente con del buon pane casereccio, dei salumi genuini e un’insalatina di stagione. A piacimento

può essere degustato anche con miele, fichi, senape, noci, castagne… ma senza abusarne. Infine, può essere impiegato per condire e insaporire altri piatti quali paste, risotti, verdure, ma anche frittate, torte salate e soufflé.

Nostrani del Ticino in degustazione Ancora questa settimana, da giovedì 14 a sabato 16 settembre, nelle filiali Migros di Agno, Locarno, Serfontana, Grancia, S. Antonino e Lugano, vi aspettano golosi assaggi di prodotti targati Nostrani del Ticino. Tra le diverse leccornie in degustazione, non potranno ovviamente mancare alcuni formaggi d’alpe ticinesi. Vi aspettiamo!

DIETRO OGNI FORMAGGIO C’È UN PASCOLO D’UN DIVERSO VERDE SOTTO UN DIVERSO CIELO


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Idee e acquisti per la settimana

Sapori d’autunno

Attualità Da questa settimana è disponibile la zucca della varietà Moscata di Provenza coltivata in Ticino La Moscata di Provenza (Muscade de Provence)

Questa zucca di origini francesi è una delle più apprezzate per la sua versatilità. Possiede una buccia di colore grigio-verde che con la maturazione diventa ocra. È una zucca dalla polpe dolce e soda che per l’aroma ricorda l’omonima noce. In cucina è ottima per la preparazione di zuppe, purè, dolci, arrosti oppure cotta al forno o grigliata. Una grande famiglia

La zucca appartiene alla famiglia delle Cucurbitacee e ne esistono qualcosa come oltre 800 varietà: da quelle di color giallo e arancio a quelle verdi e bianche; nelle forme più disparate, da ovale a tonda, schiacciate fino a quelle a forma di pera. Originaria dell’America Centrale, dove veniva coltivata già 10’000 anni fa, la zucca giunse in Europa nel sedicesimo secolo. Da un punto di vista nutrizionale, oltre ad essere poverissima di calorie, la zucca contiene molti sali minerali e vitamine. È inoltre ricca di beta-carotene, sostanza che conferisce il tipico colore alla polpa e che contribuisce al buon funzionamento delle nostre cellule. Preparazione e conservazione

Sbucciare la parte dura della scorza e raschiare la polpa per rimuovere le parti fibrose e i semi. Una volta tagliata la polpa a dadini o a lamelle la zucca è pronta per essere cucinata. Durante la cottura aggiungere pochi liquidi perché l’ortaggio è già ricchissimo d’acqua. Le fette di zucca avvolte nella pellicola alimentare si conservano fino ad una settimana in frigo. Infine, è consigliabile congelare la zucca già cucinata e non cruda, altrimenti una volta scongelata risulterebbe fibrosa e dura. La ricetta

Un colorato carpaccio di zucca è un antipasto perfetto per un menu all’insegna dei sapori autunnali. Per 4 persone tostare leggermente 4 cucchiai di semi di zucca in una padella antiaderente senza grassi. Tagliare la zucca a fettine sottili, rosolarla brevemente in poco olio di girasole e aromatizzare con fleur de sel e pepe. Bagnare con 0,5 dl di succo d’arance, cospargere con 4 cucchiai di zucchero e glassare la zucca facendo ridurre completamente il succo. Disporre le fettine a fiore su un piatto, cospargere coi semi di zucca a aggiungere un ciuffo di germogli. Condire con un filo di olio di semi di zucca e servire.

Zucca Moscata di Provenza nostrana a fette al kg Fr. 4.60


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Idee e acquisti per la settimana

Congratulazioni!

Concorsi Premiati negli scorsi giorni i vincitori di alcuni concorsi

organizzati da Migros Ticino Concorso Migros Stabio

Dal 22 al 24 giugno, in occasione della riapertura del punto vendita Migros di via Giulia a Stabio completamente rinnovato, è stata organizzata una tre giorni di sconti ed eventi vari a cui l’affezionata clientela non ha mancato di partecipare numerosa. Tra questi, anche un grande concorso che metteva in palio nientemeno che tre fantastiche biciclette. Ad aggiudicarsele sono state tre clienti della regione, che negli scorsi giorni hanno potuto ritirare l’ambito premio direttamente in filiale: Nadia

Bernasconi di Stabio (1. Premio - bicicletta Crosswave Rocky del valore di CHF 999.–); Luigina Rusca di S. Pietro (2. Premio - bicicletta Ghost Kato 3 del valore di CHF 799.–) e Sara Odun di S. Pietro (3. Premio - bicicletta Crosswave S1000 del valore di CHF 499.–). Jackpot dei formaggi

Sono stati migliaia i clienti che la scorsa primavera hanno partecipato all’ormai tradizionale «Jackpot dei formaggi» di Migros Ticino, concorso abbinato ai più classici formaggi fran-

cesi a pasta molle – quali ad esempio Caprice des Dieux, Tartare, Fol Epi, Chavroux, Le Rustique e Saint Albray – che metteva in palio come premio principale una fantastica carta regalo del valore di CHF 2000.–. Tra tutti i partecipanti la fortuna ha baciato la signora Laura Molinari di Stabio, la quale ha potuto ritirare la vincita presso il supermercato Migros di S. Antonino. Oltre al primo premio, sono state assegnate anche altre dieci carte regalo Migros del valore di CHF 200.– ciascuna.

Una nuova generazione di pane Attualità Da subito in tutti i supermercati La vincitrice del concorso «Jackpot dei formaggi» Laura Molinari con il responsabile marketing prodotti caseari Migros Ticino, Carlo Mondada (a sinistra) e Joe Kunz, Key Account Manager presso Savencia Fromage & Dairy Suisse. (Giovanni Barberis)

La consegna dei premi alle vincitrici da parte del responsabile della filiale Migros Stabio, Andrea Legnani: da sinistra, Nadia Bernasconi, Sara Odun e Luigina Rusca. (Flavia Leuenberger)

Migros trovate una decina di tipi di pane cotti su pietra

Maestria artigianale; ingredienti semplici e naturali quali farina bio o IPSuisse, acqua, lievito e sale; tempi di lievitazione lunghi e una tecnologia particolarmente sostenibile danno vita ad alcune nuove varietà di pane dall’aroma intenso e della freschezza duratura disponibili sin d’ora sugli scaffali delle filiali Migros. Baguette, Twister classico e rustico, Ciabatta, Rombo scuro e chiaro come pure alcuni panini… c’è solo l’imbarazzo della scelta in fatto di croccanti bontà cotte delicatamente su pietra. Questi pani di

nuova generazione sono prodotti dalla Jowa in una nuova e moderna panetteria a Gräninchen, nel Canton Argovia, struttura per la quale l’impresa della Migros ha investito circa 60 milioni di franchi. L’impianto si avvale di un approvvigionamento energetico sostenibile: una centrale termica a legna rifornisce di calore gli edifici coprendo il 60 per cento del fabbisogno di energia termica della panetteria, mentre per il restante fabbisogno si ricorre al gas naturale. La nuova panetteria impiega 40 collaboratori.


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Idee e acquisti per la settimana

Migros Bio

Galline nutrite senza soia

Da fine 2017 Migros venderà solo uova biologiche provenienti da galline la cui alimentazione è priva di soia. Quale sostituto della soia viene utilizzato il panello di girasole. Si tratta di un sottoprodotto che rimane dal processo di spremitura dell’olio di girasole

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Per produrre uova di qualità bio, le galline ovaiole necessitano di mangime ad alto valore nutrizionale.

Per mantenersi in salute e deporre uova di alta qualità, le galline ovaiole necessitano di un alto apporto di vitamine. Questo il motivo per cui al loro mangime viene d’abitudine aggiunta soia. A causa della limitata offerta di produzione europea, la soia viene in gran parte importata da oltreoceano, dove la coltivazione può comportare pro-

blemi ecologici e sociali. Migros si impegna affinché nei mangimi animali la soia sia ridotta al minimo, rispettivamente che provenga unicamente fa fonti responsabili. Entro la fine del 2017 tutte le uova biologiche proverranno da galline il cui mangime è arricchito con panello di girasole anziché con soia. Si tratta di un sottoprodotto della spremitura dei semi di girasole

per l’estrazione dell’olio. Con un contenuto di grassi del dieci percento, il panello è altamente nutriente e ha un elevato tenore energetico. Alla miscela vengono aggiunti altri ingredienti ricchi di proteine, come per esempio panello di colza o di lino. In tal modo la gran parte delle proteine contenute nel mangime è costituita da derivati della produzione alimentare europea.

Parte di

Gli agricoltori bio lavorano in armonia con la natura. Si prendono cura di animali, piante, terreno e acqua.

L’impegno Migros a favore della sostenibilità è da generazioni in anticipo sui tempi.


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Idee e acquisti per la settimana

Migros Bio Tofu Nature refrigerato, 230 g Fr. 3.80

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Migros Bio

Tofu svizzero Novità: tutti i semi di soia per la produzione del tofu bio hanno origine svizzera, quindi provengono da aziende agricole certificate Bio Suisse. Nature, affumicato o aromatizzato con il curry, il tofu assicura varietà sulla tavola

Avvolgere

Vol-au-vent al tofu e alle lenticchie

Testo Heidi Bacchilega; Foto Pia Grimbühler

La soia non cresce solo in Brasile, America o Argentina. Cresce anche a Niederhasli, ZH, Bätterkinden, BE, o Porrentruy, JU. In Svizzera sempre più agricoltori bio coltivano soia. Agroscope, istituto di ricerca della Confederazione, negli ultimi anni ha coltivato piante di soia che crescono e giungono a completa maturazione anche nel nostro paese. Dal momento che queste piante amano il caldo, in Svizzera crescono bene specialmente nei climi temperati dell’Altopiano. Cosa parla a favore del tofu bio svizzero?

Per fare spazio alle coltivazioni di soia, in molti paesi si abbattono foreste e il terreno viene pesantemente sollecitato. Le persone che vivono nelle zone vicine si trovano spesso a combattere contro acqua inquinata o contro l’espropriazione delle proprie terre. Le piante di soia svizzere vengono coltivate seguendo le severe

direttive di Bio Suisse. I contadini rinunciano all’utilizzo di pesticidi, mentre la concimazione è unicamente organica. Come si produce il tofu partendo dai semi di soia?

I semi di soia vengono messi nell’acqua, quindi macinati e filtrati; si ricava in questo modo il cosiddetto latte di soia. Ha un alto contenuto proteico e può essere trasformato in tofu. L’azienda Fredag AG di Root, LU, produce il tofu per Migros. Al suo attivo ha molti anni di esperienza nella lavorazione di prodotti alimentari vegetariani e sviluppa e perfeziona costantemente l’insieme della sua offerta. Oltre all’ottimizzazione del gusto, anche la sostenibilità è costantemente al centro dell’interesse. Prova ne è il fatto che Migros può annunciare che per la confezione del tofu bio, sia nature sia affumicato, viene usato il 60 percento in meno di materiale.

Ingredienti 12 pezzi 230 g di tofu 200 g di porri 2 cucchiai d’olio Sale, pepe 165 g di lenticchie nere cotte Olio per spennellare 640 g di pasta sfoglia rettangolare già spianata 1 mazzetto d’erba cipollina 1 mazzetto di prezzemolo 200 g di yogurt di soia, al naturale

Condite con sale e pepe. Mescolate con le lenticchie. Spennellate lo stampo per muffin con l’olio. Ritagliate dalla pasta 12 dischi di 10 cm di diametro. Accomodateli negli incavi dello stampo. Distribuite la farcia di lenticchie sulla pasta. Con gli avanzi di pasta ritagliate delle strisce lunghe ca. 15 cm e sistematele sulla superficie dei vol-auvent lungo il bordo, premendole per farle aderire bene. Cuocete i vol-au-vent al centro del forno per ca. 15 minuti.

Preparazione 1. Scaldate il forno a 200 °C. Tagliate il tofu a dadini piccoli, i porri ad anelli sottili. Scaldate l’olio in una padella e rosolatevi entrambi per ca. 3 minuti.

2. Nel frattempo, tagliuzzate finemente l’erba cipollina. Tritate fine il prezzemolo e mescolate le erbe con lo yogurt. Condite con sale e pepe. Servite la salsina con i vol-au-vent al tofu e alle lenticchie tiepidi.

Farcire

Panino al tofu affumicato con crema di pomodori Ingredienti per 4 persone 1 pomodoro 100 g di olive Kalamata 20 g di basilico 4 cucchiai d’olio d’oliva Sale, pepe 230 g di tofu affumicato Pane p. es. Twister dal forno di pietra, chiaro Rucola Preparazione 1. Per la farcia: tagliate il pomodoro a dadini piccoli. Tritate finemente le olive e il basilico. Mescolate tutto con tre quarti dell’olio d’oliva per ottenere una pasta da spalmare sul pane. Conditela con sale e pepe. Tagliate il tofu affumicato a fette. Scaldate l’olio rimasto in una bistecchiera e rosolatevi le fettine di tofu ca. 3 minuti per lato a fuoco vivo. 2. Nel frattempo tagliate il pane e distribuite la crema di pomodori e olive. Farcite con la rucola e il tofu. Coprite con l’altra metà del pane e prima di servire dividete in pezzi.

Infilzare

Spiedini di tofu al sesamo croccante con salsa di soia e zenzero Ingredienti per 12 pezzi 1 cetriolo 1 mazzetto di basilico thai 1 dl di salsa di soia 2 cucchiaid’olio si sesamo 20 g di zenzero 1 cucchiaino di pepe di Cayenna macinato grosso 460 g di tofu 2 cucchiai d’acqua 2 cucchiai di farina 50 g di semi di sesamo 3 cucchiai d’olio di colza HOLL

Preparazione 1. Con un pelapatate tagliate il cetriolo a lingue sottili. Per la salsa, tritate grossolanamente il basilico e mescolatelo con la salsa di soia e l’olio di sesamo. Unite lo zenzero grattugiato fine e condite con il pepe di Cayenna. 2. Dividete il tofu in 24 dadi. Mescolate l’acqua con la farina. Passate i dadi di tofu nella miscela di farina poi impanateli con i semi di sesamo. Scaldate l’olio in una padella. Rosolate i dadi di tofu a fuoco medio per ca. 5 minuti, finché diventano croccanti. Fateli sgocciolare su carta da cucina. Infilzate i dadi di tofu e le lingue di cetriolo sugli spiedini alternandoli e serviteli con la salsa.

Gli agricoltori bio lavorano in armonia con la natura. Si prendono cura di animali, piante, terreno e acqua.

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Migros Bio Tofu affumicatzo refrigerato, 230 g* Fr. 4.50 *nelle maggiori filiali

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Idee e acquisti per la settimana

Migros Bio Tofu Nature refrigerato, 230 g Fr. 3.80

Migros Bio Tofu al curry refrigerato, 230 g* Fr. 4.50

Migros Bio

Tofu svizzero Novità: tutti i semi di soia per la produzione del tofu bio hanno origine svizzera, quindi provengono da aziende agricole certificate Bio Suisse. Nature, affumicato o aromatizzato con il curry, il tofu assicura varietà sulla tavola

Avvolgere

Vol-au-vent al tofu e alle lenticchie

Testo Heidi Bacchilega; Foto Pia Grimbühler

La soia non cresce solo in Brasile, America o Argentina. Cresce anche a Niederhasli, ZH, Bätterkinden, BE, o Porrentruy, JU. In Svizzera sempre più agricoltori bio coltivano soia. Agroscope, istituto di ricerca della Confederazione, negli ultimi anni ha coltivato piante di soia che crescono e giungono a completa maturazione anche nel nostro paese. Dal momento che queste piante amano il caldo, in Svizzera crescono bene specialmente nei climi temperati dell’Altopiano. Cosa parla a favore del tofu bio svizzero?

Per fare spazio alle coltivazioni di soia, in molti paesi si abbattono foreste e il terreno viene pesantemente sollecitato. Le persone che vivono nelle zone vicine si trovano spesso a combattere contro acqua inquinata o contro l’espropriazione delle proprie terre. Le piante di soia svizzere vengono coltivate seguendo le severe

direttive di Bio Suisse. I contadini rinunciano all’utilizzo di pesticidi, mentre la concimazione è unicamente organica. Come si produce il tofu partendo dai semi di soia?

I semi di soia vengono messi nell’acqua, quindi macinati e filtrati; si ricava in questo modo il cosiddetto latte di soia. Ha un alto contenuto proteico e può essere trasformato in tofu. L’azienda Fredag AG di Root, LU, produce il tofu per Migros. Al suo attivo ha molti anni di esperienza nella lavorazione di prodotti alimentari vegetariani e sviluppa e perfeziona costantemente l’insieme della sua offerta. Oltre all’ottimizzazione del gusto, anche la sostenibilità è costantemente al centro dell’interesse. Prova ne è il fatto che Migros può annunciare che per la confezione del tofu bio, sia nature sia affumicato, viene usato il 60 percento in meno di materiale.

Ingredienti 12 pezzi 230 g di tofu 200 g di porri 2 cucchiai d’olio Sale, pepe 165 g di lenticchie nere cotte Olio per spennellare 640 g di pasta sfoglia rettangolare già spianata 1 mazzetto d’erba cipollina 1 mazzetto di prezzemolo 200 g di yogurt di soia, al naturale

Condite con sale e pepe. Mescolate con le lenticchie. Spennellate lo stampo per muffin con l’olio. Ritagliate dalla pasta 12 dischi di 10 cm di diametro. Accomodateli negli incavi dello stampo. Distribuite la farcia di lenticchie sulla pasta. Con gli avanzi di pasta ritagliate delle strisce lunghe ca. 15 cm e sistematele sulla superficie dei vol-auvent lungo il bordo, premendole per farle aderire bene. Cuocete i vol-au-vent al centro del forno per ca. 15 minuti.

Preparazione 1. Scaldate il forno a 200 °C. Tagliate il tofu a dadini piccoli, i porri ad anelli sottili. Scaldate l’olio in una padella e rosolatevi entrambi per ca. 3 minuti.

2. Nel frattempo, tagliuzzate finemente l’erba cipollina. Tritate fine il prezzemolo e mescolate le erbe con lo yogurt. Condite con sale e pepe. Servite la salsina con i vol-au-vent al tofu e alle lenticchie tiepidi.

Farcire

Panino al tofu affumicato con crema di pomodori Ingredienti per 4 persone 1 pomodoro 100 g di olive Kalamata 20 g di basilico 4 cucchiai d’olio d’oliva Sale, pepe 230 g di tofu affumicato Pane p. es. Twister dal forno di pietra, chiaro Rucola Preparazione 1. Per la farcia: tagliate il pomodoro a dadini piccoli. Tritate finemente le olive e il basilico. Mescolate tutto con tre quarti dell’olio d’oliva per ottenere una pasta da spalmare sul pane. Conditela con sale e pepe. Tagliate il tofu affumicato a fette. Scaldate l’olio rimasto in una bistecchiera e rosolatevi le fettine di tofu ca. 3 minuti per lato a fuoco vivo. 2. Nel frattempo tagliate il pane e distribuite la crema di pomodori e olive. Farcite con la rucola e il tofu. Coprite con l’altra metà del pane e prima di servire dividete in pezzi.

Infilzare

Spiedini di tofu al sesamo croccante con salsa di soia e zenzero Ingredienti per 12 pezzi 1 cetriolo 1 mazzetto di basilico thai 1 dl di salsa di soia 2 cucchiaid’olio si sesamo 20 g di zenzero 1 cucchiaino di pepe di Cayenna macinato grosso 460 g di tofu 2 cucchiai d’acqua 2 cucchiai di farina 50 g di semi di sesamo 3 cucchiai d’olio di colza HOLL

Preparazione 1. Con un pelapatate tagliate il cetriolo a lingue sottili. Per la salsa, tritate grossolanamente il basilico e mescolatelo con la salsa di soia e l’olio di sesamo. Unite lo zenzero grattugiato fine e condite con il pepe di Cayenna. 2. Dividete il tofu in 24 dadi. Mescolate l’acqua con la farina. Passate i dadi di tofu nella miscela di farina poi impanateli con i semi di sesamo. Scaldate l’olio in una padella. Rosolate i dadi di tofu a fuoco medio per ca. 5 minuti, finché diventano croccanti. Fateli sgocciolare su carta da cucina. Infilzate i dadi di tofu e le lingue di cetriolo sugli spiedini alternandoli e serviteli con la salsa.

Gli agricoltori bio lavorano in armonia con la natura. Si prendono cura di animali, piante, terreno e acqua.

Parte di

Migros Bio Tofu affumicatzo refrigerato, 230 g* Fr. 4.50 *nelle maggiori filiali

L’impegno Migros a favore della sostenibilità è da generazioni in anticipo sui tempi.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 settembre 2017 • N. 37

49

Idee e acquisti per la settimana

Confetture

Facilissime da aprire «Diamo il benvenuto ai coperchi ‹easy-open›. I coperchi facili da aprire permettono autonomia a chi ha i reumatismi e proteggono le articolazioni di tutti». Monika Oberholzer, ergoterapista della Lega svizzera contro il reumatismo.

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M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche diverse confetture.

Per gustarsi una fetta di pane con una fruttata confettura a colazione, grandi e piccoli non devono più fare sforzi particolari: diverse confetture della Migros hanno ora il pratico coperchio facile da aprire «easy-open». Grazie a una rotazione a due livelli, anche gli anziani e i bambini possono aprire il vasetto in un battibaleno. Dopo la colazione il coperchio piò essere nuovamente chiuso, allo stesso modo e senza sforzo.

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Fiori e piante

Pane e latticini

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Tutte le tortine e gli strudel M-Classic e bio, prodotti surgelati, per es. tortina di spinaci M-Classic, 4 pezzi, 280 g, 2.85 invece di 3.60 20%

Phalaenopsis, 2 steli, in vaso da 12 cm, disponibile in diversi colori, per es. rosa, 9.25 invece di 16.90 45%

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Saporita e stagionale.

3.40 Crostata ai porri Anna’s Best 200 g

Profuma a lungo. Gelato alla panna con prosecco frizzante.

8.80 Crème d’or al mandarino e al prosecco* prodotto surgelato, Limited Edition, 750 ml

Con indicatore di sostituzione.

4.60 Antitarme Optimum 2 pezzi

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Idee e acquisti per la settimana

You

Lo yogurt da portare con sé L’assortimento «You» si amplia costantemente. L’ultimo arrivato è lo yogurt alle fragole nella confezione da spremere, un piacere che può essere consumato ovunque. Rimane fresco per ore anche fuori dal frigorifero

Per gustarsi un vasetto di yogurt sono necessarie due mani e un cucchiaio. Va bene a casa o in ufficio, meno pratico quando si è per strada. Con il nuovo yogurt alla fragola nella confezione da spremere, il fresco marchio Migros «You» offre un maneggevole spuntino per tutta la famiglia. È l’ideale quando si è fuori casa, per un piccolo appetito di tanto in tanto o come snack durante una pausa. Nel sacchetto da spremere, il latticino fruttato rimane fresco per sei ore anche senza refrigerazione. Ciò non è dovuto a conservanti, bensì a un ingegnoso processo di riempimento e alla speciale chiusura a vite, che ne sigilla il contenuto. Ma non è solo l’imballaggio a rendere speciale lo yogurt, bensì anche la semplice lista degli ingredienti: dolce yogurt di latte svizzero, purea di fragole, zucchero e un poco di amido. Su ogni confezione «You» sono indicate le speciali caratteristiche del prodotto. Nel caso dello yogurt si tratta della sua conservabilità senza refrigerazione, l’assenza di conservanti e il fatto che è ricco di preziose proteine.

You Joghurt to go Fragola 100 g Fr. –.95

«iMpuls» - Suggerimenti

Tanta vitamina C

Foto Clausia Linsi, Shutterstock

A proposito delle fragole: chi sa che questi frutti contengono più vitamina C delle arance? E che sono anche perfetti per avere una linea snella? Maggiori informazioni su: migros-impuls.ch

IMpuls è la nuova iniziativa della Migros in favore della salute.


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Idee e acquisti per la settimana

Per saperne di più

Rilassamento

Semplicemente: lasciarsi andare Per mantenersi efficienti, in forma e in salute, corpo e mente necessitano delle sufficienti pause. Ma rilassarsi schiacciando un bottone non è possibile. Sono invece d’aiuto movimento, metodi di rilassamento, concedersi qualche piacere e vari accessori

Imparare a rilassarsi è possibile «Mente sana in un corpo sano»: lo diceva già 2000 anni fa il poeta romano Giovenale. E oggi è ormai risaputo che il movimento e il rilassamento influiscono positivamente sul benessere fisico e psicologico.

La borraccia antigoccia si chiude abbassando il beccuccio. Il manico integrato fa sì che sia comoda da reggere e da trasportare.

Per lo yoga, il pilates, gli esercizi di rafforzamento del pavimento pelvico o la meditazione: il materassino antiscivolo per allenamento è leggero, maneggevole e si arrotola e stende in un batter d’occhio.

Borraccia Camelback diversi colori, 75 cl* Fr. 22.90

Bodyshape materassino per yoga* Fr. 49.90

Oltre a melissa e camomilla, l’infuso alle erbe contiene anche fiori e foglie di arancio. Kneipp Tisana rilassante alle erbe 20 bustine Fr. 4.80

Testo Jacqueline Vinzelberg; Styling Mirjam Käser; Foto Yves Roth

Per 30 ore regala una luce calda e una squisita fragranza di arancio, zenzero e altro ancora.

È arrivato il momento del relax! Trovare il tempo per un rilassamento consapevole è spesso più facile a dirsi che a farsi. E soprattutto, come fare? Sdraiarsi, lasciarsi andare e smettere di pensare? Diversi metodi di rilassamento come il tai chi, lo yoga, il qi gong o il training autogeno possono aiutare. E quale è il migliore metodo per noi è ora facile da scoprire: il 30 settembre le 38 sedi della Scuola Club presenti sul territorio nazionale vi invitano a partecipare gratuitamente a numerosi corsi, durante i quali è possibile provare diversi metodi per ridurre lo stress. Informazioni e iscrizioni su www.migros-impuls.ch/giornatadel-relax

Candelaprofumata ANNI altezza 8,5 cm, 7 cm Fr. 14.90 Da Micasa

I pantaloni sportivi senza cuciture si adattano alla forma del corpo senza esercitare pressioni. Ciò è particolarmente comodo quando si fanno esercizi di allungamento. Perform tight colorblock da donna senza cuciture taglie XS - XL* Fr. 49.90 *da SportXX e su www.sportxx.ch

Il morbido materiale in poliestere e i raffinati inserti in tessuto a rete fanno di questo top funzionale un capo seducente (nella foto la parte posteriore). Perform mesh top da donna taglie 36 - 44* Fr. 29.90

La bibita dolce è al cento percento a base dell’acqua contenuta nelle noci di cocco novelle e verdi. La varietà all’ananas contiene inoltre puro succo di ananas. Alnatura Coco Drink Natur e **Ananas 330 ml Fr. 2.30 **Nelle maggiori filiali

Consiglio «iMpuls

Voglia di relax

«iMpuls» propone idee, consigli e conoscenze su relax, salute e benessere. www.migros-impuls.ch

Bacche di acai, cocco e amaranto sono gli ingredienti di questo snack croccante. Fornisce preziose fibre alimentari ed è vegano. You Super Crispies** alle bacche, 120 g Fr. 5.20 **Nelle maggiori filiali

iMpuls è la nuova iniziativa della Migros in favore della salute.


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Per saperne di più

Rilassamento

Semplicemente: lasciarsi andare Per mantenersi efficienti, in forma e in salute, corpo e mente necessitano delle sufficienti pause. Ma rilassarsi schiacciando un bottone non è possibile. Sono invece d’aiuto movimento, metodi di rilassamento, concedersi qualche piacere e vari accessori

Imparare a rilassarsi è possibile «Mente sana in un corpo sano»: lo diceva già 2000 anni fa il poeta romano Giovenale. E oggi è ormai risaputo che il movimento e il rilassamento influiscono positivamente sul benessere fisico e psicologico.

La borraccia antigoccia si chiude abbassando il beccuccio. Il manico integrato fa sì che sia comoda da reggere e da trasportare.

Per lo yoga, il pilates, gli esercizi di rafforzamento del pavimento pelvico o la meditazione: il materassino antiscivolo per allenamento è leggero, maneggevole e si arrotola e stende in un batter d’occhio.

Borraccia Camelback diversi colori, 75 cl* Fr. 22.90

Bodyshape materassino per yoga* Fr. 49.90

Oltre a melissa e camomilla, l’infuso alle erbe contiene anche fiori e foglie di arancio. Kneipp Tisana rilassante alle erbe 20 bustine Fr. 4.80

Testo Jacqueline Vinzelberg; Styling Mirjam Käser; Foto Yves Roth

Per 30 ore regala una luce calda e una squisita fragranza di arancio, zenzero e altro ancora.

È arrivato il momento del relax! Trovare il tempo per un rilassamento consapevole è spesso più facile a dirsi che a farsi. E soprattutto, come fare? Sdraiarsi, lasciarsi andare e smettere di pensare? Diversi metodi di rilassamento come il tai chi, lo yoga, il qi gong o il training autogeno possono aiutare. E quale è il migliore metodo per noi è ora facile da scoprire: il 30 settembre le 38 sedi della Scuola Club presenti sul territorio nazionale vi invitano a partecipare gratuitamente a numerosi corsi, durante i quali è possibile provare diversi metodi per ridurre lo stress. Informazioni e iscrizioni su www.migros-impuls.ch/giornatadel-relax

Candelaprofumata ANNI altezza 8,5 cm, 7 cm Fr. 14.90 Da Micasa

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La bibita dolce è al cento percento a base dell’acqua contenuta nelle noci di cocco novelle e verdi. La varietà all’ananas contiene inoltre puro succo di ananas. Alnatura Coco Drink Natur e **Ananas 330 ml Fr. 2.30 **Nelle maggiori filiali

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Voglia di relax

«iMpuls» propone idee, consigli e conoscenze su relax, salute e benessere. www.migros-impuls.ch

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Idee e acquisti per la settimana

Elan

La fresca fragranza delle montagne

*Azione 50% di sconto sui detersivi Elan all’acquisto di due prodotti dal 12 al 18 settembre

Il nuovo detersivo liquido Alpine Flowers di Elan dona al bucato una fresca fragranza che si ispira ai profumi di un’escursione in montagna. Le perle di freschezza aderiscono a lungo ai capi d’abbigliamento e assicurano un rilascio della fragranza a ogni movimento. Alpine Flowers è attivo già a partire da una temperatura di lavaggio di 15 gradi ed è adatto sia per i capi bianchi che per quelli colorati. La pratica impugnatura della confezione di ricarica facilita il dosaggio.

Elan Alpine Flowers Detersivo universale 2 l Fr. 6.95* invece di 13.90

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche i detersivi Elan.


Idee migliori per il tempo libero su famigros.ch

Sul nuovo sito Famigros le famiglie trovano innumerevoli proposte per le gite, modelli per il bricolage e molti altri suggerimenti per giocare, suddivisi in modo semplice in base a criteri come etĂ , interesse e luogo di domicilio. famigros.ch/migliori-idee


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Idee e acquisti per la settimana

DIM

Dipende da cosa c’è sotto

Il reggiseno in microfibra e senza imbottitura è comodo e traspirante. L’ampia fascia elastica permette una ottimale libertà di movimento. Grazie a cuciture nascoste, sotto i vestiti il reggiseno non si nota. DIM reggiseno Invisifit Nero, 83% poliammide / 17% elastan taglie B, C 70-85, D 75-85 Fr. 24.35* invece di 34.80

La naturale eleganza delle francesi è leggendaria. Ed è ciò che rappresentano la calzetteria e la biancheria intima da donna e da uomo del marchio francese DIM. Combinano una buona vestibilità con un elevato comfort e garantiscono un’ottimale libertà di movimento. La creazione del marchio ha origine con Bernard Giberstein, immigrante polacco che nel 1958 fondò il primo calzificio di Parigi e inventò le calze senza cuciture. Dal 1976 DIM produce anche biancheria intima da donna e da uomo. A proposito: durante la seconda guerra mondiale Giberstein venne internato per alcuni mesi a Winterthur.

*Azione 30% di sconto su tutti i prodotti DIM dal 12 al 25 settembre

Il collant antismagliature si adatta a ogni movimento. Ciò è reso possibile dalla tecnologia chiamata Lycra Fusion: durante la lavorazione le singole maglie vengono fuse insieme. DIM Collant da donna Sublim Absolu Resist Nero o beige, 76% poliammide / 24% elastan taglie S - XL Fr. 8.35* invece di 11.90

I boxer seguono ogni movimento senza spostarsi grazie all’alta percentuale di elastan. 3D Flex Boxer Shorty da uomo Nero, 89% cotone / 11% elastan taglie S - XXL Fr. 19.55* invece di 27.90



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