Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXX 30 gennaio 2017
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Società e Territorio I bambini giocano sempre meno senza sorveglianza e all’aperto: il progetto di Pro Juventute «Più spazio per noi!»
Ambiente e Benessere Fino al 30 aprile 2017 al Museo di Storia Naturale di Milano, l’esposizione Terremoti. Tema quanto mai attuale viste le recenti scosse che hanno colpito di nuovo l’Italia centrale
Politica e Economia La vittoria di Donald Trump spinge i suoi avversari politici sull’orlo della follia
Cultura e Spettacoli Si è chiusa la scorsa settimana la 52ma edizione delle Giornate cinematografiche di Soletta
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Trump cede il timone della globalizzazione
Il risveglio musicale di Sebalter
di Peter Schiesser
di Laura Di Corcia
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Stefano Sala
I dubbi sono spariti: Donald Trump fa sul serio. E fa quello che aveva detto in campagna elettorale. Con un decreto presidenziale, senza consultarsi con il Congresso né con il mondo economico nonostante gli enormi interessi in gioco, ha ordinato il ritiro degli Stati Uniti dal Partenariato Trans-Pacifico (TPP). E sotto l’ombra del muro che Trump vuole rafforzare e completare alla frontiera con il Messico, traballa anche l’accordo di libero scambio con Canada e Messico (NAFTA). Irritato dall’aggressività di Trump, che vuole accollare ai messicani il costo del muro, il presidente Nieto ha annunciato giovedì scorso che non si recherà alla Casa Bianca il 31 gennaio, mentre già in Messico si riflette sull’opportunità di ritirarsi dal NAFTA anziché sottostare ai ricatti americani, molto più onerosi, economicamente parlando, di una fuoriuscita dall’area di libero scambio. Brutte premesse per le future relazioni tra i due paesi confinanti, così intimamente legati. Senza gli Stati Uniti, il TPP è morto. L’accordo prescrive una massa critica, considerato che il Giappone ha subito reagito mettendo in dubbio la sua partecipazione, senza questi due colossi economici non la si raggiunge. E questo fa il gioco di Pechino. Barack Obama aveva voluto il TPP per isolare la Cina, almeno finché non avesse ottemperato a determinati parametri. Il TPP è infatti un accordo di libero scambio «progressista», prevede degli standard alti in materia di diritti sociali e dei lavoratori, di produzione ecologica, di protezione dei diritti d’autore, che oggi la Cina non rispetta. Ora Pechino, nella sua strategia di accordi regionali, può proseguire senza troppi ostacoli sulla via di un accordo di libero scambio con i paesi del Sud-est asiatico (RCEP) e di un complementare accordo di libero scambio (FTAAP) con la ventina di paesi dell’Apec, l’area Asia-Pacifico. Il FTAAP non prevederà di certo gli alti standard del TPP. Con il decreto presidenziale di Trump, gli Stati Uniti cedono il ruolo di guida della globalizzazione economica, rinunciano a determinarne gli standard. Ma la globalizzazione non si fermerà, perché i paesi e le potenze emergenti, grandi profittatori di un quarto di secolo di accresciuto libero scambio, non vorranno rinunciare a questo motore di crescita. Cambieranno ile sigle e i flussi all’interno delle aree di libero mercato, ma il fiume degli scambi troverà nuove vie. Con regole diverse, però, che si può prevedere saranno maggiormente dettate dalla Cina. La svolta protezionista dell’America inaugura di fatto la fase II della globalizzazione economica. Con il senno di poi (ma c’era chi metteva in guardia fin da subito contro certi pericoli), si può dire che la fase I della globalizzazione è stata male architettata: hanno prevalso su tutto gli interessi economici, la voglia di arricchirsi. I lavoratori delle fabbriche impiantate da aziende occidentali in paesi del terzo mondo avevano salari infimi, condizioni di lavoro al limite e oltre lo sfruttamento, nessuna protezione sindacale, la terra per edificare le fabbriche veniva confiscata con la promessa mai mantenuta di un indennizzo, l’ambiente circostante era inquinato? Poco importa. Le grandi società avrebbero fatto buoni guadagni e i dirigenti del paese in questione avrebbero intascato (spesso nel senso personale del termine) i soldi delle imposte e avrebbero goduto di ricadute economiche comunque non indifferenti per la popolazione, abituata anche a condizioni di lavoro peggiori. Il costo del lavoro in Occidente diventava eccessivo? Si poteva delocalizzare. E così, lentamente l’Occidente – mentre i consumatori potevano godere di prezzi più bassi favoriti da una produzione all’estero – ha perso molti posti di lavoro (che si sommavano a quelli eliminati dalla crescente automazione), il resto del mondo è invece cresciuto in termini di benessere, la miseria si è ridotta, potenze dormienti da secoli si sono risvegliate. Se gli standard sociali della globalizzazione fossero stati più alti, concorrenza e delocalizzazione sarebbero forse state meno virulente, il declino dell’apparato industriale occidentale meno marcato. Resta da vedere quali saranno i risultati della politica di accordi bilaterali che Trump intende mettere in atto. Il neo-presidente è convinto di riuscire a piegare a concessioni tutti i suoi interlocutori, che siano grandi aziende o governi stranieri. Ma produrre beni negli Stati Uniti è senza dubbio più costoso che farlo all’estero o importare prodotti da paesi emergenti, a meno di non ridurre drasticamente gli standard sociali, salariali e i diritti dei lavoratori americani. Se poi dovessero scatenarsi delle guerre commerciali, e le avvisaglie non mancano, le ripercussioni sull’economia americana (e mondiale) sarebbero ancora più marcate. Ricordiamoci che fu la politica protezionista adottata dal governo americano dopo il crack della Borsa di New York nel 1929 a rendere in seguito tanto acuta la recessione degli anni Trenta in America e in Europa.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Attualità Migros
M Una rete con 100 centri fitness
Salute A ctiv Fitness SA, società affiliata a Migros, ha aperto negli scorsi giorni il suo 41esimo centro,
il secondo a Ginevra. In Ticino le palestre Activ Fitness sono tre: a Bellinzona, Losone e Lugano
Sedi e recapiti in Ticino Ti-Press
Con questa nuova apertura sale a 100 il numero dei centri fitness gestiti da Migros, la quale sottolinea così il proprio impegno a favore della salute. Con una quota di mercato del 20 per cento e quasi 200’000 membri, Migros è l’indiscusso leader del fitness in Svizzera ed è l’unica impresa presente con palestre di questo tipo in tutte e tre le regioni linguistiche. Circa dieci anni fa la Comunità Migros contava solo 16 centri fitness. Nel 2007 la Cooperativa Migros Zurigo acquisì la Activ Fitness SA, che all’epoca possedeva nove palestre, mentre la Cooperativa Migros Aare partecipò nella sua regione alla startup FlowerPower Fitness & Wellness SA con allora due sedi, una a Bienne e una ad Aarau. Negli anni seguenti anche le cooperative Lucerna, Svizzera orientale, Basilea e Ticino fecero investimenti in questo campo e continuarono a espandersi nelle loro rispettive regioni con società fitness affiliate. Tutte le marche appartengono all’unione Intercity dei centri fitness, benessere e balneari Migros. Grazie alla Intercity-Card (www. intercity-card.ch), l’abbonamento generale per il movimento e la salute, i membri possono allenarsi in tutti i centri che hanno aderito all’unione. Oggi i centri fitness delle cooperative Migros contano 17 Fitnesspark, 41 centri Activ Fitness, 12 FlowerPower Finest Fitness & Wellness; 10 ONE Training Center; 10 Centri MFIT; 1 Centro fitness Migros; 3
Centri balneari; 6 Centri Element. Tale impegno dimostra che il tema della salute è da tempo parte integrante della filosofia della Comunità Migros. Con i suoi centri, i corsi di rilassamento, la sua competenza nel campo dell’alimentazione, i contributi sulla stampa Migros e la gestione
della salute sul lavoro, Migros persegue da molti anni una strategia a tutto campo in materia di salute. Inoltre, grazie alla nuova iniziativa iMpuls (www.migros-impuls.ch) essa viene ulteriormente promossa con interessanti consigli e un’ampia varietà di proposte.
Activ Fitness Ticino SA 6592 S. Antonino, Via Serrai 1 Tel. 091 850 86 00 info@activfitnessticino.ch
Losone, Via dei Pioppi 2A Tel. 091 821 77 88 Maggiori informazioni: www.activfitness.ch/losone
Bellinzona, Viale Stazione 18 Tel. 091 821 78 70 Maggiori informazioni: www.activfitness.ch/bellinzona
Lugano, Via Pretorio 15, 5° piano Tel. 091 821 70 90 Maggiori informazioni: www.activfitness.ch/lugano
La Cooperativa che fa scuola, da 60 anni Scuola Club Migros Ticino Il 2017 sarà un anno molto speciale Il 2017 segna ben 60 anni di presenza della Scuola Club sul territorio. Oltre che una bella occasione per festeggiare, un compleanno è anche tempo di bilanci. Su questo fronte la Scuola Club di Migros Ticino può dirsi soddisfatta. Oggi essa è una realtà sempre più apprezzata, come confermano i numeri: nel 2016 sono state raggiunte le 291’029 ore di frequenza (+2,8 per cento), con 2669 corsi realizzati e 14’736 partecipanti.
Un modello di impresa straordinario da cui deriva una scuola altrettanto unica «La nostra scuola costituisce un luogo – anzi 4, perché tante sono le nostre sedi in Ticino – riconoscibile e riconosciuto, dove il piacere di apprendere, quello che oggi definiamo “edutainment”, il fondere formazione e svago, è l’energia che da sempre
anima questa realtà e contagia chi la sperimenta», racconta la responsabile della scuola, Mirella Rathlef. In un mondo in rapida evoluzione continuare ad apprendere è imprescindibile per restare agganciati al treno in corsa. «Luoghi come il nostro, capaci di combinare formazione e ben-vivere, aiutano a prendere attivamente parte alla nostra società ma anche a rigenerarsi, innescando un circolo virtuoso di consapevolezza e benessere che porta benefici a tutti». – puntualizza Mirella Rathlef – «Sul rafforzamento di questa dinamica che va ben oltre l’aula stiamo lavorando con passione. Vogliamo riscoprire la vocazione della nostra scuola: un “Club per tutti” dove si aprono sempre nuove opportunità di essere e di fare insieme. Il nuovo numero delle nostre NEWS che proprio oggi pubblichiamo vuole raccontare tutto questo...». La Scuola Club di Migros Ticino offre oltre 300 possibilità per apprendere e crescere professionalmente, coltivare una passione, mettersi in forma, divertirsi: dalle lingue all’IT, dalla pittura al ballo, dallo yoga alla cucina,
in una cornice accogliente, con infrastrutture all’avanguardia, formatori e un team progettuale che raccolgono l’eredità del padre fondatore di Migros, Gottlieb Duttweiler. «La nostra è una storia di genialità e audacia di cui siamo orgogliosi» – sottolinea Mirella Rathlef – «Non ci dimentichiamo da dove siamo partiti e soprattutto da chi». Alla fine della II guerra mondiale, Duttweiler decide di lanciare alcuni corsi di lingue straniere nella convinzione che queste ultime costituiscano una chiave per accedere a nuove opportunità, in vista della riapertura delle frontiere. Nel ’44, a Zurigo, partono i primi corsi di italiano, francese, inglese, spagnolo e russo, in piccole classi, per un’ora e un quarto alla settimana, a 5 fr. al mese. «Ci si aspettava un centinaio di iscritti. Una settimana più tardi le adesioni erano 1400! Fu un successo straordinario non solo a motivo del costo, ma per la novità dirompente di raggruppare nella stessa aula persone di ogni estrazione sociale! Nella sua straordinaria lungimiranza Duttweiler ha trovato la for-
La copertina della nuova edizione di «News», allegata a questo numero.
mula vincente che ancora oggi è alla base del successo della nostra scuola: piccoli gruppi, un ottimo rapporto qualità-prezzo, accoglienza senza distinzioni. In altre parole: formazione per tutti e a tutto campo, con un’idea
di community ante litteram tremendamente attuale in un mondo in cui la domanda di appartenenza non può essere demandata alla sola dimensione virtuale». «Qualità della formazione eccellente a prezzi accessibili» è ancora oggi il segreto della Scuola Club, reso possibile grazie al sostegno di Migros Ticino che dal 1957, attraverso il suo Percento Culturale, restituisce al territorio parte del valore generato. Si tratta di un impegno volontario che Duttweiler volle ancorare agli statuti e che ogni anno si traduce in contributi finanziari pari allo 0,5 per cento della cifra d’affari della cooperativa. «È un modello di impresa straordinario da cui deriva una scuola altrettanto unica» conclude Mirella Rathlef. C’è dunque molto da festeggiare nel 2017! La Scuola Club di Migros Ticino lancerà vari appuntamenti durante l’anno, nella consapevolezza di custodire una tradizione molto speciale e con il desiderio di condividere con tanti altri la responsabilità di continuare a farla vivere. Annuncio pubblicitario
100 franchi di sconto sul tuo nuovo abbonamento annuale all’Activ Fitness! Solo 640.– franchi invece di 740.–
(studenti fino 29 anni, apprendisti e beneficiari AVS/AI, 540.– invece di 640.–). Offerta valida fino al 31 gennaio 2017.
ACTIV FITNESS Bellinzona, Losone e Lugano.
www.activfitnessticino.ch
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Società e Territorio La nuova vita della masseria Cuntitt Con la «riattazione conservativa» dell’edificio il Comune di Castel San Pietro vuole creare un centro di aggregazione intergenerazionale: il progetto ha vinto il concorso «Abitare bene a tutte le età»
Il Gottardo e lo smaltimento degli inerti Il raddoppio della galleria autostradale del San Gottardo pone il problema dello smaltimento del materiale di scavo: tre le opzioni prese in considerazione pagina 5
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Più spazio per i bambini
Pro Juventute Il gioco libero all’aperto
e senza sorveglianza è un’esperienza insostituibile
Alessandra Ostini Sutto C’era una volta un luogo dove i bambini giocavano per ore ed ore. Si divertivano un mondo e non avevano orari e se proprio si facevano male, nel giro di pochi minuti un genitore di uno di loro arrivava perché era lì, in una casa vicina a quella strada, pronto a soccorrerli in caso di bisogno. C’erano poi i cortili e le piazze, dove i bambini giocavano a calcio, a rincorrersi o a saltare la corda; ma a volte si spostavano anche più lontano, nel bosco o al fiume. Parte dalla giornata la passavano insomma all’aria aperta, le ginocchia erano più spesso sbucciate, ma i bambini erano meno fragili e vivevano esperienze insostituibili, che li aiutavano nel loro percorso di crescita. Dai nostri figli il momento del gioco è vissuto in modo sicuramente diverso: si chiudono nella propria cameretta nutrendo un animaletto cibernetico, mischiano ingredienti di una ciambella immaginaria in un gioco scaricato sull’iPad e raccontano i segreti all’amica del cuore attraverso la chat di un social network. «Di fronte alla tendenza a stare più isolati attraverso le nuove tecnologie e di entrare quindi in relazione in modo mediato e non immediato con gli altri, acquista particolare rilevanza il tema degli spazi pubblici di gioco per bambini, in quanto luoghi dove poter maturare dell’esperienza significativa al di fuori del contesto familiare», afferma Ilario Lodi, responsabile regionale di Pro Juventute per la Svizzera italiana. E proprio Pro Juventute – la più grande organizzazione svizzera per l’infanzia e la gioventù – ha commissionato all’Università di Friburgo (in Germania), alla scuola superiore Evangelische Hochschule Ludwigsburg e all’istituto ricerca di mercato GfK Switzerland uno studio sul gioco in libertà. La ricerca, che si basa sulla convinzione che il gioco libero e senza sorveglianza sia fondamentale per la qualità di vita e lo sviluppo dei più piccoli, ha analizzato la situazione di 649 bambini dai 5 ai 9 anni, provenienti dalla Svizzera francese e dalla Svizzera tedesca. «La Svizzera italiana non viene in genere considerata in questo tipo di studio, in
quanto il campione non sarebbe significativo; i dati sono comunque validi anche per il nostro cantone», precisa Lodi. Attraverso un sondaggio online, rivolto a genitori selezionati casualmente, sono state raccolte informazioni sul comportamento di gioco dei figli durante tre giorni feriali. Alcune domande riguardavano la situazione abitativa e l’ambiente di vita delle famiglie. Il risultato? Se negli anni 70 la maggior parte dei bambini trascorreva 3-4 ore al giorno all’aperto, oggi in Svizzera un bambino gioca mediamente 47 minuti all’aperto, di cui 29 senza sorveglianza. Esistono delle chiare differenze tra le regioni linguistiche: nella Svizzera tedesca i bimbi giocano all’aperto mediamente 32 minuti senza sorveglianza, nella Svizzera francese soltanto 20. Nel nostro Paese un bambino su sette non esce mai a giocare e il 20 per cento dei bimbi gioca fuori solo se sorvegliato da un adulto. Oltre alla possibilità di interagire con i coetanei, il fattore che influisce maggiormente sul tempo che i bambini trascorrono all’aperto in autonomia è la qualità della zona di residenza, sulla quale le risorse della famiglia si ripercuotono direttamente. Mentre il 50 per cento dei figli di genitori con una formazione di livello medio vive in un ambiente buono o ottimo, la percentuale passa al 19 quando si parla di bambini di genitori con un livello di formazione basso. «Questi bambini sono doppiamente penalizzati, poiché trascorrono meno tempo all’aperto e contemporaneamente partecipano meno a corsi e manifestazioni a pagamento», spiega Petra Stocker, coordinatrice del progetto Spazi ricreativi e Partecipazione presso Pro Juventute. I bambini che passano maggior tempo sulla strada e all’aperto non sono quindi più un fenomeno tipico del ceto inferiore come nel 19esimo e del 20esimo secolo. Uno spazio d’azione adatto ai più piccoli si contraddistingue in particolare per la (relativa) assenza di pericoli, una buona accessibilità e la possibilità di interazione con altri bambini. Secondo gli autori dello studio, si potrebbe intervenire su alcuni di questi elementi con una certa facilità e in tempi
Oggi in Svizzera i bambini giocano in media solo 47 minuti al giorno all’aperto. (Pro Juventute)
relativamente brevi, per esempio per mezzo di una politica dei trasporti che tenga conto delle esigenze dei bambini oppure creando degli spazi liberi e dei parchi giochi interessanti. Luoghi di questo tipo, dove è possibile giocare senza essere sorvegliati, stimolano i bambini a scoprire il mondo che li circonda e a divertirsi. In questi spazi i più giovani hanno la possibilità di imparare ad essere autonomi, affrontare i conflitti, oltre che esercitarsi nella valutazione dei pericoli e delle proprie capacità. Nella realtà dei fatti però gli spazi adatti ai bambini diventano sempre più rari e spesso sono difficilmente raggiungibili da questi ultimi. Dagli adulti gli spazi pubblici sono considerati pericolosi per i più piccoli, i parchi giochi e i cortili delle scuole vengono sovente chiusi al di fuori degli orari scolastici o durante le vacanze. «I bambini pagano per le insicurezze delle famiglie», commenta il responsabile per la Svizzera italiana di Pro Juventute.
Per cercare di ovviare a questa situazione la fondazione, con la campagna nazionale «Spazi liberi – più posto per noi! I bambini hanno il diritto di forgiare il nostro mondo», si impegna a sensibilizzare sul tema e a mostrarne l’importanza per lo sviluppo psicofisico e sociale dei bambini, proporre la creazione di spazi a misura di bambino, pianificati e organizzati con la partecipazione dei diretti interessati, e, attraverso campagne di mobilitazione, rendere accessibile ai più piccoli un maggior numero di spazi liberi in luoghi pubblici. «Questi spazi non possono più essere lasciati al caso; non possiamo pensare di fare del territorio un parco giochi unico, ma dobbiamo assolutamente investire di più nell’ambito della creazione di spazi “significativi” e protetti per i bambini – commenta Lodi – se è vero che noi adulti utilizziamo gli spazi pubblici per andare a lavorare, a fare compere, in posta o in banca e, solo di tanto in tanto, per la ricerca del be-
nessere, i ragazzi, fatta eccezione per la scuola, li utilizzano soprattutto per tale scopo. E a questo aspetto va accordata la giusta attenzione». Il problema è che le città non sono costruite a misura di ragazzo. «È sempre e solo una questione finanziaria: si investe, per esempio, nell’ambito della violenza giovanile o dei maltrattamenti – ed è giusto che sia così – ma per la “normalità”, per il 95-97 per cento dei ragazzi che vivono i paesi e le città, si investe ancora poco», continua Lodi. Tramite la campagna «Spazi liberi» vengono fornite informazioni e messi a disposizione un blog e una piattaforma che mostra validi esempi di progetti sostenuti finanziariamente da Pro Juventute. Con l’app «Più spazio per te!» i bambini possono infine inserire i luoghi pubblici nelle loro vicinanze in una mappa della Svizzera e valutarli secondo i loro criteri di idoneità, in modo da ottenere un utile strumento per loro stessi, i genitori e le altre persone di riferimento.
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Società e Territorio
Un portone sempre aperto
Uno dei manifesti esposti a Bellinzona. (CSIA)
Castel San Pietro La masseria Cuntitt dal prossimo autunno
rivivrà quale centro di aggregazione intergenerazionale
Stefania Hubmann È la corte interna il fulcro del progetto di ristrutturazione della masseria Cuntitt di Castel San Pietro. Da qui passeranno i bambini che vanno a scuola, qui s’incontreranno giovani, adulti e anziani, ci si fermerà a chiacchierare e bere un caffè e l’intera comunità potrà riunirsi per eventi particolari. All’architetto Edy Quaglia, vincitore del concorso indetto dal Comune, è bastato guardarla per identificare il cuore di un’operazione che attribuisce alla masseria nuove funzioni sociali preservandone però la struttura e soprattutto l’anima. L’impegno del Comune in questa direzione è stato riconosciuto anche dal concorso «Abitare bene a tutte le età», organizzato da ATTE (Associazione Ticinese Terza Età) e dall’Associazione Generazioni & Sinergie, che ha scelto il progetto della masseria Cuntitt quale vincitore dell’edizione 2016.
Il progetto di ristrutturazione prevede la creazione di alloggi misti, un’osteria, un’enoteca e altri servizi Situata in posizione privilegiata ai margini del nucleo di Castel San Pietro – vicina a edifici pubblici e nel contempo affacciata sulla pianura del Mendrisiotto – la masseria dopo decenni ritroverà una funzione centrale per la comunità locale. Da testimonianza di un passato rurale sarà trasformata in caso esemplare delle nuove esigenze sociali legate all’evoluzione demografica e in particolare all’invecchiamento della popolazione. Il progetto, in avanzata fase di realizzazione, prevede sette appartamenti, di cui tre da destinare alle persone anziane e altrettanti per giovani famiglie, più un piccolo duplex adatto a una o due persone. «L’intero piano terra è invece riservato ad attività pubbliche», spiega l’architetto Quaglia. «Il motore della corte sarà l’osteria, dotata di un camino aperto sia sulla sala principale sia sulla saletta per il gioco delle carte. La vecchia stalla, dove abbiamo recuperato il soffitto con volte a mattoni, ospiterà un’enoteca, in considerazione dei numerosi produttori vinicoli presenti nel Comune. Uno spazio mammabambino e la sala polivalente con un’ottantina di posti completano gli spazi d’incontro. La corte sarà predisposta in modo da poter ospitare manifestazioni di vario genere, come concerti e cinema
all’aperto. È uno spazio davvero speciale che gode di un panorama e di una luce naturale di grande pregio». Edy Quaglia definisce il suo intervento una «riattazione conservativa», sottolineando l’aspetto contradditorio dei due termini, ma spiegando che, pur introducendo elementi nuovi, fra i quali il cambio di destinazione, la trasformazione della masseria Cuntitt è minima e molto rispettosa dell’esistente. In particolare sono stati conservati i muri in pietra a faccia vista delle attuali strutture, consolidandoli dall’interno. A questo scopo è stato utilizzato il metodo con getto in opera di calcestruzzo armato dello spessore di circa 10 cm collaudato nelle principali ristrutturazioni effettuate dopo il terremoto che colpì il Friuli Venezia Giulia nel 1977. Muri e aperture nuovi sono molto limitati. Il ballatoio è stato rifatto e mantenuto quale via d’accesso agli appartamenti. I pilastri in mattoni che lo sostengono sono stati demoliti e ricostruiti più solidi utilizzando però gli stessi mattoni. Si è quindi cercato di conservare il più possibile forme e materiali esistenti, prestando grande attenzione ad ogni dettaglio. «Anche l’illuminazione – aggiunge l’architetto Quaglia – continuerà a provenire dall’alto come in passato, come la luce del sole. Tranne che in occasioni speciali, la corte resterà nella penombra, sfruttando i punti luce delle entrate dei luoghi pubblici». Il risultato è un «progetto compiuto», raggiunto grazie al dialogo fra committente e architetto, dialogo che in questo caso si è rivelato particolarmente fecondo. Il destino della masseria Cuntitt, acquistata dal Comune di Castel San Pietro negli anni Ottanta, è rimasto incerto fino al 2013 quando in votazione popolare è stata accettata la concessione di un credito di quasi sei milioni di franchi per la sua ristrutturazione. Una spesa in gran parte coperta dal lascito della famiglia Bettex (oltre quattro milioni) destinato a scopi sociali. Per la sindaca Alessia Ponti la masseria e la sua corte rappresentano un luogo che cercherà di soddisfare le aspettative di tutta la popolazione. Al riguardo precisa: «Sentiamo la necessità di stimolare la vita sociale nel nostro Comune, favorendo le relazioni umane con particolare attenzione agli anziani. Il progetto dell’architetto Quaglia è stato scelto proprio perché molto convincente da questo punto di vista. Anche l’idea di valorizzare la grande corte affidandole un ruolo centrale è piaciuta molto alle autorità». Oltre agli appartamenti, i piani superiori della masseria
ospiteranno due locali destinati alle associazioni comunali. «Queste ultime sono una quindicina – spiega la sindaca – e potranno utilizzare le sale a rotazione con la possibilità di depositare in loco il loro materiale». Anche il terreno circostante sarà valorizzato, adibendolo in parte a orti destinati alle scuole e all’osteria. Al gestore di quest’ultima spetterà un ruolo determinante per il successo del progetto. Il valore delle scelte compiute da architetto e committente è stato confermato lo scorso autunno da una giuria di esperti lusingando i promotori. Il progetto è infatti il vincitore della seconda edizione del concorso «Abitare bene a tutte le età», promosso dall’Associazione Ticinese Terza Età (ATTE) e dall’associazione Generazioni & Sinergie (G&S) con il contributo della Fondazione Ghisletta. Un premio inteso quale stimolo per la progettazione, la promozione e la ristrutturazione di edifici e quartieri che favoriscono appunto l’abitare bene a tutte le età, curando le relazioni intergenerazionali e quelle sociali, la scelta del luogo, gli aspetti architettonici e quelli economici. «Il progetto della Masseria Cuntitt ha riunito in maniera naturale i cinque punti essenziali del bando di concorso», spiega Giovanni Bolzani, rappresentante dell’associazione Generazioni & Sinergie e membro della giuria. «Questi criteri di valutazione sono basati sul Pentalogo di G&S di cui ho curato la stesura in collaborazione con specialisti e operatori del settore a livello svizzero». Fra i nove partecipanti all’edizione 2016, il progetto di Castel San Pietro ha colpito la giuria proprio perché ha fatto propri i contenuti del Pentalogo di sua spontanea iniziativa. Un altro aspetto sottolineato dai giurati riguarda il piccolo contesto e la situazione tipologica non semplice del progetto. «Un terzo elemento qualificante – conclude Giovanni Bolzani – è il carattere pubblico dell’iniziativa in un contesto dove al momento si muove maggiormente il settore privato». La visione congiunta dell’architetto Quaglia e del Comune di Castel San Pietro permetterà dal prossimo autunno di far rivivere un’importante testimonianza di architettura profana, oggi purtroppo ancora in gran parte trascurata. La masseria Cuntitt, grazie alla sua posizione e ai suoi contenuti, sarà un punto di riferimento per tutti gli abitanti del nucleo e non solo. Un insediamento misto e un centro di aggregazione esemplare che, come scrive l’architetto nella sua relazione, «percorre le vie dell’innovazione ma con la responsabilità di custodire il passato».
La corte interna della masseria Cuntitt ritroverà una funzione centrale per la comunità. (Studio Edy Quaglia)
La Svizzera, le donne, la politica 1971 Il dibattito sul suffragio femminile
in una mostra alla Biblioteca cantonale di Bellinzona Valentina Grignoli È una comunicazione stereotipata, banale, ma molto efficace, quella che sta alla base dei manifesti contrari al suffragio femminile in Svizzera risalenti al secolo scorso. Cartelloni che, insieme a quelli degli schieramenti favorevoli al voto alle donne, compongono la mostra La madre fa politica, un viaggio per immagini nel suffragio femminile in Svizzera, presso la Biblioteca cantonale di Bellinzona sino al prossimo 11 febbraio. Si tratta di 17 poster rielaborati a partire dalle immagini originali apparse sui muri delle città e sui giornali in un epoca non poi così lontana: il voto alle donne è stato concesso in Svizzera solo 45 anni fa. Una battaglia durata un secolo, fatta di continue rivendicazioni respinte, campagne locali, votazioni popolari, sino al 7 febbraio del 1971, quando le cittadine svizzere ottengono il diritto di voto ed eleggibilità a livello federale, vedendo finalmente riconosciuti i propri diritti. L’esposizione nasce su iniziativa di Amnesty International (in collaborazione con il CSIA, la Fondazione Diritti Umani e l’Associazione Archivi Riuniti delle Donne Ticino), ispirata dal documentario Dalla cucina al Parlamento di Stéphane Goël, presentato in occasione della Giornata internazionale dei diritti umani, nel corso del quale si intravedono i manifesti. «Da qui l’idea di allestire una mostra – possibilmente itinerante – che raccontasse per immagini questa lotta, recuperando parte dei poster. È importante ricordare che quello che oggi è scontato per le nostre madri non lo era», ci racconta Sarah Rusconi, portavoce di Amnesty. Si tratta di manifesti dalle tinte forti, che ricordano vagamente il cinema espressionista tedesco, voluti dalla popolazione stessa per dissuadere i compatrioti dal compiere «l’errato passo» del suffragio universale, passo che all’epoca il resto dell’Europa aveva però già compiuto da un po’. Violenza verbale, cliché maschilisti e allarmismo, si scontrano in questa lotta per immagini alla dolce eleganza dai toni più pacati della campagna favorevole al diritto di voto, con meno presa sulla popolazione, ma alla fine vincente. Non mancano, tra le immagini, le vignette satiriche apparse sullo storico
giornale umoristico zurighese «Nebelspalter», specchio irriverente della società dell’epoca. L’allestimento della mostra è stato curato dagli allievi del corso propedeutico CSIA, coordinati dal docente Guido De Sigis. Un’esperienza didattica e professionale, un lavoro di gruppo che, a detta degli studenti, oltre a unirli ha permesso a ognuno di far valere le proprie qualità. Futuri architetti, artisti, grafici, hanno così avuto l’occasione di rispolverare il passato attraverso la rielaborazione di un messaggio, usando materiali poveri (legno, corda e viti) volti a ricreare simbolicamente un oggetto stereotipo per eccellenza della donna: lo stendino del bucato. Claire Wymer e Silvia Giavatto, studentesse, ci raccontano: «Abbiamo innanzitutto cercato di capire come accostare i manifesti, per trovare qualcosa che accomunasse i pro e i contro, ponendoli uno di fronte all’altro, alternando l’impatto emotivo che dava un SÌ di una donna e un bambino che si abbracciavano e un NO violento. Poi li abbiamo studiati. È seguito il lavoro di riproduzione con il docente di fotografia, e poi il lavoro di squadra, la cosa più bella! C’erano gli addetti al legno, al taglio e cucito, nella fase finale di allestimento. Siamo arrivati a questo bel risultato grazie alle nostre diversità, alle passioni singolari e ai modi di pensare di ognuno. Noi per esempio, ci siamo immaginate lo stendino, altri hanno riflettuto a come esporlo, altri, i grafici, si sono occupati delle didascalie – sotto forma di etichette postali, a ricordare quel facile etichettare la donna. Sapevamo che il diritto di voto alle donne in Svizzera fosse arrivato tardi, ma paragonare le date degli altri paesi è stato uno choc. La traduzione dei manifesti del tempo ci ha dato poi la possibilità di vedere quanto erano cruenti: “Proteggete la donna dal diritto di voto!”. Qualcuno li aveva ideati, quei testi, ed era uno svizzero, pochissimo tempo fa!». «Sono manifesti riusciti, dal colpo d’occhio immediato» ci racconta un altro studente. E così anche l’esposizione di questo pezzo di storia, che i ragazzi di oggi, usando le stesse armi comunicative di un tempo, hanno saputo valorizzare rimettendo al posto giusto stereotipi e ironia.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Società e Territorio
Dalla montagna al lago
Raddoppio del Gottardo Che fare con il materiale estratto dalla nuova galleria stradale? Il Dipartimento
del territorio sostiene il progetto di ricostruzione del litorale tra Capolago e Melano sul lago Ceresio Fabio Dozio Le talpe, piccole infaticabili scavatrici, fanno in fretta: segnano il percorso della loro galleria creando mucchietti di terra in superficie a distanza più o meno regolare. Per l’uomo è più complicato. Fare un buco nella montagna è semplice (si fa per dire), ma bisogna sapere dove si buttano gli inerti, il materiale di scavo. Naturalmente gli ingegneri sono in grado di risolvere tecnicamente i problemi connessi con lo sgombero del materiale, ma la decisione, politica, su dove depositarlo può essere complicata.
Lo smaltimento degli inerti deve essere chiarito già in fase di progetto esecutivo: le opzioni sono tre A breve scadenza in Ticino bisognerà decidere dove portare la roccia che verrà estratta dal cuore del massiccio del San Gottardo, per realizzare il raddoppio stradale. I tempi stringono perché la legge prevede che quando si mette a punto il progetto esecutivo di un’opera debba essere chiara l’indicazione di come smaltire gli inerti. Nel recente passato non si è fatto niente di originale. Per Alptransit sono state create discariche: alla Buzza di Biasca con il materiale della galleria di base, dove è nata una collina ora trasformata in frutteto di castagne. A Sigirino con gli inerti della galleria del monte Ceneri si è costruita una montagnetta artificiale. Buona parte degli inerti della Vedeggio Cassarate sono stati utilizzati per sistemare la rotonda a Lugano nord. Per il raddoppio del San Gottardo sono aperte tre opzioni: USTRA, l’Ufficio federale delle strade nazionali, propone di scaricare il materiale dello scavo alla Buzza di Biasca, come già si fece per la galleria ferroviaria di base. Il Comune di Airolo chiede che gli inerti siano utilizzati per coprire l’autostrada tra la galleria di Stalvedro e l’accesso al tunnel stradale che porta a Göschenen. La terza variante è la rinaturalizzazione del lago tra Capolago e Melano. «Il Dipartimento del territorio – ci dice Moreno Celio, coordinatore del DT – spinge per utilizzare gli inerti del San Gottardo per riqualificare la riva tra Capolago e Melano. Un progetto ideale anche per la
quantità di materiale a disposizione. È il progetto più interessante e propositivo, tecnicamente risolvibile con il trasporto via ferrovia fino a Melano, da dove si può proseguire con i nastri trasportatori». L’opzione Buzza di Biasca sembrerebbe semplice. L’USTRA la propone perché non intende perdere tempo, ma nella regione c’è già chi insorge. «Loderio c’è» è un gruppo di cittadini della frazione di Biasca che ha lanciato una petizione perché «la Buzza di Biasca e la Legiuna non devono diventare discarica cantonale e federale». L’obiettivo del gruppo è invitare il Cantone a studiare soluzioni alternative. Anche a Pollegio un gruppo di cittadini reagisce dicendo che «Pollegio ha già dato» in occasione della costruzione della galleria di base. «Alla Buzza di Biasca sarebbe semplice organizzare la deponia – spiega Moreno Celio –, ma non sarà così facile. A differenza di Alptransit, che aveva piena autonomia su questo tema, USTRA non può fare da sola, deve concordare le soluzioni con il Cantone e i Comuni. La collaborazione è indispensabile». Un Comune intenzionato a sfruttare gli inerti del raddoppio è Airolo. Il Consiglio comunale ha deciso in dicembre di stanziare 100 mila franchi per realizzare uno studio di fattibilità della copertura di buona parte dell’autostrada tra Stalvedro e l’imbocco della galleria del San Gottardo. Airolo ha il vantaggio di essere a ridosso dello scavo e quindi di poter utilizzare il materiale di risulta senza dover organizzare trasporti a lunga distanza. Il progetto potrebbe non essere semplice, visto che nello stretto fondovalle passano l’autostrada, la cantonale, la ferrovia e il fiume. Inoltre si tratta di un investimento i cui benefici sono limitati a un piccolo numero di abitanti. «Il materiale di scavo del raddoppio del San Gottardo – afferma Paolo Spinedi, presidente della Società ingegneri e architetti (SIA) – simile a quello che è stato estratto dalla galleria di base, potrebbe a mio avviso essere utilizzato anche per riqualifiche di fondi e rive lacustri, laddove ve ne è la necessità, come per esempio il progetto Capolago Melano. Per USTRA ciò che gioca un ruolo importante è anche il costo del trasporto: se occorre andare fino a Capolago, al posto di fermarsi ad Airolo o a Biasca, il viaggio si allunga e così anche il costo: per 800 mila metri cubi l’ordine di grandezza del maggior costo è di alcune decine di milioni di franchi. Inoltre anche dal
Uno striscione del gruppo «Loderio c’è» contrario al deposito degli inerti nella discarica di Biasca. (Ti-Press)
punto di vista ambientale è importante limitare il più possibile i trasporti. Va dunque ben valutato qual è il beneficio ambientale di riqualifica della riva di Capolago, in relazione ai comunque maggior carichi ambientali». Il progetto di far rinascere il tratto tra Capolago e Melano ha una valenza quasi avveniristica, che merita di veder la luce. Tra i due comuni affacciati sul Ceresio non esiste più il bordo naturale del lago, sacrificato dalla linea ferroviaria e dalla strada cantonale. Ricostruire la riva significa valorizzare il paesaggio e la natura e creare aree pubbliche e nuovi percorsi pedonali a lago. Il PAM 3, Programma d’agglomerato del Mendrisiotto di terza generazione, sottolinea che questo progetto crea «benefici per l’agglomerato valorizzando la qualità di vita degli spazi urbani, tramite l’introduzione di elementi di naturalità attrattivi e fruibili, il riassetto dei percorsi ciclabili e pedonali lungo la riva lacustre, separandoli dalla circolazione veicolare». La riqualifica dei laghi è una storia che parte da lontano. Era il pallino di Bill Arigoni, deputato socialista in Gran Consiglio, deceduto prematuramente nel 2010, che nel 1999 depositò una mozione che chiedeva un piano di intervento per il recupero delle rive dei laghi ticinesi. Da questo atto parlamentare hanno preso le mosse una serie di studi del Dipartimento del ter-
ritorio per valutare lo stato delle fasce lacustri e per esaminare come rivitalizzarle. «La piena consapevolezza dell’importanza del patrimonio delle rive dei nostri laghi è relativamente recente», scriveva l’architetto Rolando Zuccolo nel 2006, quando era al Dipartimento del territorio. La tratta costiera complessiva è di 107 km, 43 sul Lago Maggiore e 64 sul Ceresio. «Le rive a carattere naturale – precisa Zuccolo – sono maggiormente presenti sul Verbano (ca. 24% contro il 17% sul Ceresio). Le aree edificate/costruite, oppure, contraddistinte da giardini privati, riguardano il 39% delle fasce lacustri sul Verbano e oltre il 48% sul Ceresio». Sempre nel 2006 il DT ha commissionato alla Dionea di Locarno, una creativa società di consulenze ambientali, uno «Studio generale relativo al recupero delle rive dei laghi» in cui si sottolinea che «Sotto la pressione di interessi privati contrapposti, le fasce a lago, che nei progetti urbanistici ottocenteschi erano state inizialmente pensate quali spazi urbani pubblici, vengono frazionate e tramutate in parcelle edificabili». Infatti il Ticino ha concesso autonomia ai Comuni e ciò ha permesso di costruire a bordo lago senza una visione pianificatoria globale. Lo dice chiaramente Il recente Piano direttore cantonale: «Con
Ogni ricordo è lo spunto per un catalogo ricco e originale, espresso con la grazia rétro della grafica dell’illustratore, che costruisce una sorta di enciclopedia della memoria, su cui i giovani lettori potranno tornare a più riprese, almeno all’inizio però accompagnati da un adulto che faciliti la fruizione del libro e magari integri questa con la sua personale «enciclopedia» di ricordi. Notevoli anche le appendici, con il catalogo dei mobili design che si possono rintracciare nell’appartamento di Marcello; e con gli animali rari a rischio di estinzione, che sono «gli amici di Marcello», nonché con la ricetta della «crêpe Marcellina». Il libro è anche un’opera scientifica di divulgazione sugli elefanti: mentre scorre la storia del personaggio di fantasia Marcello, si inseriscono – individuabili grazie a una grafica diversa – delle interessanti notizie sugli elefanti «veri».
Luisa Mattia, Le più belle storie dei miti greci, Gribaudo. Da 8 anni Ancora un libro che racconta i miti greci. Ce ne sono tanti, ma uno in più va sempre bene, perché nessun mito si esaurisce mai dentro un’unica storia. Si può raccontarli, e raccontarli ancora, incontreranno sempre l’interesse dei giovani lettori: a distanza di migliaia di anni, i miti continuano a parlare di noi. Luisa Mattia si è spesso occupata di miti: ad esempio per La Nuova Frontiera Junior (con Miti greci e con Iliade), o per la collana I Mitici!, di Gribaudo. Sempre per Gribaudo ha proposto ora questo volume, illustrato da Valentina Belloni, in cui troviamo miti provenienti da varie fonti. Troviamo la storia di Crono e di Zeus, quella di Ade e Persefone, di Orfeo e Euridice, di Dedalo e Icaro, di Prometeo, di Teseo, di Giasone, di Eracle, e molte altre ancora; fino all’epica omerica dell’Iliade e dell’Odissea.
l’introduzione nel 1990 della Legge di applicazione della Legge federale sulla pianificazione del territorio, il Cantone rinuncia a un Piano cantonale dei laghi e gli obiettivi posti per l’elaborazione di nuovi strumenti pianificatori e giuridici – atti a garantire una migliore salvaguardia dei valori paesaggistici e naturalistici delle rive e dei laghi e a promuovere la loro accessibilità e godibilità pubblica – vengono meno». Un progetto di massima per la valorizzazione del tratto tra Capolago e Melano è già stato elaborato dalla Dionea di Locarno su richiesta del DT. Il materiale di scavo del raddoppio del San Gottardo sarebbe in quantità e qualità sufficiente per realizzare l’opera. «La scelta del Dipartimento di riqualificare la costa tra Capolago e Melano è da sostenere – ci dice l’architetto Rolando Zuccolo – perché è anche un risarcimento per questi villaggi che sono stati feriti da interventi infrastrutturali pesantemente incisivi: ferrovia, strada, autostrada. Per il Cantone è un’occasione per trasformare e riqualificare queste zone. Può essere un primo passo per dimostrare che si può agire puntualmente cominciando a recuperare segmenti di rive restituendole ai cittadini». Infatti, il lago era e rimane un insostituibile bene comune.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Sophie Strady, illustrazioni di François Martin, La memoria dell’elefante, Edizioni Il Castoro. Da 5 anni Una memoria da elefante: qui non è solo un modo dire, ma proprio, alla lettera, la memoria di Marcello, vecchissimo elefante che vive a Parigi. Elegante, cittadino, raffinato, come il Babar di Brunhoff, lo troviamo nel momento del risveglio, nel suo appartamento sobrio ma di gran gusto design (tanto per avere un’idea: la seggiolina che usa come comodino è un modello Eames del 1950, quella su cui degusta la colazione è una Sedia Panton anni ’60, mentre le poltroncine del salotto sono Le Corbusier), e lo accompagniamo lungo tutto l’arco della giornata fino a sera. La giornata è un pretesto per aprire delle pagine che elencano oggetti della nostra memoria e della nostra cultura, illustrati con classe da François Martin: dalle leccornie che campeggiano sul tavolo; agli abiti del
suo guardaroba; alle torri delle città che ha visitato; agli strumenti musicali rari come l’elicone, che Marcello suonava; alle imbarcazioni che si sono succedute nella storia, a cui Marcello associa i suoi ricordi a partire dal cargo su cui in gioventù si imbarcò come marinaio; alle piante e gli uccelli dei paesi che ha visitato. Finché sopraggiunge la sera, ed è il momento in cui Marcello, in terrazza, festeggia il suo compleanno con gli amici, sollevando una tenda che «svela tutto d’un colpo la torta più grande che si sia mai vista». (Che peccato per quel calco dal francese «tutto d’un colpo»).
Il linguaggio è semplice ma accurato, il ritmo è quello di una narratrice esperta, i finali non sono edulcorati ma nemmeno appesantiti dal dramma: «un soffio, e di Euridice non restò altro che il ricordo», così termina, senza avventurarsi nel doloroso seguito, la storia di Orfeo; «sciolsero le vele e puntarono verso il mare aperto», è il misurato ed efficace finale della storia di Teseo e Arianna. Il mare è aperto a ulteriori storie, alle continuazioni dei miti, ma per conoscere l’angoscia dell’abbandono ci sarà tempo crescendo.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Tsunami nostrani «Ma non vedete che tempo strambo?! Strambe le temperature, stramba la neve, stramba la pioggia che non c’è e più strambo ancora il terremoto – e ades l’è vegnesta stramba anca me femena (“e adesso è diventata strana anche mia moglie”)». Così diceva qualche sera fa un aficionado ormai in po’ in età come sono quasi tutti coloro che frequentano le sezioni locali dell’Associazione Nazionale Alpini per bere un bicchiere o tre prima di cena. Dove e chi non lo diremo per via della privacy: basti dire che di simili indirizzi urbi et orbi – magari al netto della sicuramente inconsapevole citazione vudialleniana – ce ne devono essere state molti al di qua delle Alpi negli ultimi tempi. L’ondata anomala di maltempo con la micidiale combinazione del terremoto nell’Appennino Centrale ha riportato in superficie le paure recenti del terremoto dell’Aquila e dintorni per allargarsi inevitabilmente alla discussione sui massimi sistemi. Per l’Altropologo la locale sezione dell’Associazione Alpini costituisce una miniera inesauribile non solo di storie di vita vissuta, ma anche un osservatorio privilegiato sugli umori e
le tendenze di quell’entità antropologica fondamentale per il costituirsi dell’umanità in generale che va sotto il nome di «cultura popolare». E il maltempo rimane materia di discussione a tutt’oggi, mentre scrivo e viste le temperature polari che qui, nelle Alpi Orientali, paradossalmente si accompagnano a giornate soleggiate ed incendi di fienili per via della siccità. «Adesso Quello Là sostiene che va bene se anche i SUV bruciano stracci che tanto l’effetto serra e il riscaldamento globale sono tutte invenzioni dei professori: prenderlo e metterlo a sedere nella Tesa [la Tesa essendo il rio dalle acque gelate che corre da queste parti] a vedere se gli passa la sbronza – a Quello Là!». «Quello Là», pronunciato con un’enfasi sulla «Q» e la «L» da lettere maiuscole per via del rispetto dovuto, è il nome col quale il Nuovo Inquilino della Casa Bianca entra ormai nei reportage più o meno conditi di aggettivi irriferibili di commentatori ai quali mancherà tutto ma non certo, da ottimi montanari, una cruciale dose di buonsenso. E così, mentre prende appunti e misura il polso alla cultura popolare, la riflessione
dell’Altropologo svaria su temi analoghi per trovare collegamenti con altri eventi ed altri contesti. Anni ed anni fa, giovane dottorato alle prime armi coi convegni, mi capitò di andare a Cardiff, la capitale del Galles, e provare anch’io a misurarmi coi big. Alloggiavo in un alberghetto senza pretese – anzi, decisamente non di qualità svizzera – non lontano dalla banchina sul mare. Ricordo ancora l’afrore di umidità mista a puzzo di cicca di sigaretta: mi colpì ancora di più in quanto sulla parete del corridoio che conduceva alle camere un cartello storto ed ingiallito dal tempo diceva: «Non fumate a letto: ricordatevi dell’incendio di Londra del 1666». Fin qui tutto bene: sapevo per averlo letto di quando in quando nelle cronache nere di certi giornalacci quotidiani, che molti sudditi britannici (allora) fumavano l’ultima della giornata a letto, dove magari si portavano anche l’ultima pinta: poi si addormentavo con pinta vuota e sigaretta accesa e via: lo spettro dell’incendio che nel 1666 distrusse due terzi di Londra, inclusa la cattedrale di Saint Paul, gravava ancora come potente monito sulla coscienza della Nazione. E fin qui tutto
bene. Ma, accanto al cartello, direttamente sulla carta da parati ingiallita dal tempo e dal fumo, una mano malferma aveva aggiunto, in stampatello: «Non sputate per terra: ricordatevi della Grande Inondazione». Ero rimasto allora non solo divertito dall’arguzia del grafomane, ma anche perplesso su cosa dovesse intendersi per Grande Inondazione. «The Great Flood» in questione era di sicuro – o così credevo – il Diluvio Universale. «No – young gentleman – mi dispiace ma devo contraddirla». Così un gentleman avanti con gli anni, con gli acciacchi e certo con le pinte già bevute, col quale mi ero trovato la sera a chiacchierare al pub «The Great Flood» (e qual’altro mai?), laggiù verso il molo antico, che sapevo frequentato da marinai in pensione ed altra simile fauna antropologica. Fu così che imparai che per Grande Inondazione si intende a Cardiff, come in tutta la zona dall’una e dall’altra sponda del Canale di Bristol, un’ondata di marea di portata inaudita che il 30 gennaio 1607 – esattamente quattrocentodieci anni orsono – devastò l’intera regione. Duecento miglia quadrate, pari a 51’800 ettari, di terreno
coltivato finirono sott’acqua. L’ondata penetrò fino a 23 chilometri all’interno spazzando via interi villaggi. Le difese marine di Cardiff collassarono come un muro di sabbia. L’acqua penetrata in città arrivò a minare irrevocabilmente le fondamenta della Cattedrale stessa. A Weston-super-Mare, di fronte a Cardiff sulla costa Sud del Canale, l’acqua dell’ondata arrivò ad un’altezza di 7,74 metri sul livello del mare. Vi furono almeno 2000 vittime, alle quali andarono ad aggiungersi innumerevoli dispersi. Allora si disse che fosse il Castigo di Dio. Poi si suppose una micidiale combinazione di venti forti occidentali ed eccezionali maree – che nel canale di Bristol raggiungono anche i tredici metri. Solo di recente pare che la verità sia che a causare The Great Flood sia stata un’onda di tsunami innescata da un terremoto nel Mare d’Irlanda. Sia come sia: all’Altropologo piace pensare alle generazioni di marinai laggiù ed alle loro controparti di alpini quavvia, che hanno passato avanti – fra una pinta di birra ed un bicchiere di vino – il testimone di memorie, quelle forti, che ci rendono tutti più umani.
generalizzare per cui pensa: «se sono stato abbandonato una volta, posso esserlo ancora». E, quando non riesce a essere all’altezza delle aspettative dei genitori, il suo egocentrismo la spinge a concludere: «è colpa mia». È comunque un tentativo di spiegazione di fronte a una situazione che, per certi versi, resta enigmatica. Le esperienze della prima infanzia sono comunque determinanti nel costruire la nostra personalità e nel plasmare il nostro rapporto con la realtà. L’adozione, in quanto presuppone un abbandono, costituisce una esperienza traumatica che si può superare, ma mai completamente nella misura in cui noi siamo la nostra storia. La sua insicurezza spiega pertanto sia gli insuccessi sentimentali, sia la resistenza a diventare genitore assumendo un ruolo paterno vissuto, in quanto figlio, in modo più o meno negativo. Se il padre naturale non è stato capace di essere tale, quello adottivo non ha
trovato la giusta misura e, esigendo troppo da lei, non le ha permesso di ottenere l’autostima che merita. È accaduto così che, accogliendo tra le braccia la figlia appena nata, in una occasione di straordinaria intensità emotiva, tutto il suo passato si sia ripresentato nella modalità persecutoria per cui era stato accantonato. Che fare? In questi casi l’inconscio agisce in automatico: cerca di vivere attivamente ciò che ha vissuto passivamente: sono stato abbandonato, reagisco abbandonando. Non è una soluzione e la coscienza lo sa, tanto che di fatto quell’impulso non ha avuto seguito, quel pensiero è rimasto lettera morta. Di fronte a una tentazione, che avrebbe potuto essere irresistibile, lei si è comportato nel modo migliore che ci sia concesso, nel più umano, nel più civile. Si è detto: «sono un essere razionale e agisco da persona ragionevole». Dei nostri impulsi inconsci, così come dei nostri sogni, non abbiamo alcuna
responsabilità, nessuna colpa. La differenza tra una persona buona e una persona cattiva, è che la prima si limita a pensare ciò che l’altra mette in atto. Lei, caro Marco, è un’ottima persona e il travaglio interiore che ha vissuto, sta elaborando e condividendo, la rende senz’altro migliore, più sensibile, comprensivo e compassionevole rispetto a chi non ha mai fatto i conti con se stesso, con la complessità della nostra vita interiore. La sua bambina è fortunata ad avere un padre come lei, un padre che l’ama «con tutta l’anima», come conclude la sua lettera. Auguri di ogni bene a lei e alla sua bella famiglia. Ve lo meritate.
l’antipolitica, affidata alla pratica del populismo. Una tendenza che si sta affermando e attecchisce, anche nei terreni delle democrazie più consolidate. Il filosofo politico inglese, John Gray, che ne aveva avvertito i sintomi premonitori, parla di un’ondata rovinosa: «una paranoia», perché questi guru diffondono una concezione distorta della libertà democratica e fanno capo all’illusione. Gli esempi si sprecano. In proposito, basta attingere al repertorio di Grillo: quando sostiene che, la brava casalinga che gestisce correttamente il bilancio familiare, potrebbe assumere la responsabilità di ministro dell’economia. Sono battute, ispirate proprio a quel famoso buon senso popolare, che a volte ci azzecca. Del resto, l’antipolitica, come ogni forma di critica, rivela, magari, un certo fiuto e soprattutto diverte. Ricordiamo, tutti
in Ticino, le comparsate televisive dell’impareggiabile Nano, sul piano dello spettacolo figura vincente, rispetto ai personaggi dell’establishment. Divagazioni a parte, sta di fatto che, sotto l’urto del populismo, le nostre relazioni con la politica, persino con la scienza, con la medicina, la scuola, la cultura, in una parola l’autorità istituita, rischiano di venire stravolte da accuse, magari pretestuose di raggiri e truffe d’ogni genere. E così si accentua il disamore per la politica, definito dagli psicologi «sindrome per stanchezza da democrazia». Mentre, d’altro canto, prende quota e credibilità il virtuoso intuito del popolo che, secondo una nuova retorica, sarebbe in grado di guidare le sorti nazionali. In che modi e con quali risultati, non è dato sapere. Comunque, a ben guardare, anche il
saggio popolo elvetico, a suo tempo esclusivamente maschile, non ha fatto sempre le scelte giuste. Il caso più flagrante: i diritti politici concessi alle donne, nel 1971, con quasi un secolo di ritardo rispetto alla Nuova Zelanda 1893 (se ne parla nell’articolo di Valentina Grignoli a pag. 4, ndr). Del resto, il buon senso popolare potrebbe riservarci altre discutibili sorprese. Come si sa, l’instabilità politica e la crisi economica sono cattive consigliere. Nella stampa d’oltre Gottardo, i sondaggi d’opinione fra i comuni cittadini rivelano sintomi inquietanti: cresce il numero dei fautori della pena capitale e i muri alle frontiere non sono malvisti. E, per concludere, diamo la parola a un esperto in materia, Blocher: «Il popolo non ha sempre ragione, ma la sua decisione deve valere». Un bell’esempio di equilibrismo politico.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Un papà tra impulso e ragione Gentile Silvia, la leggo ogni volta e sento tanta fiducia in lei da confidarle quello che non ho mai detto a nessuno, neppure a mia moglie. Sono un figlio adottivo e, come tale, ho vissuto una giovinezza più difficile degli altri. Non so niente dei miei genitori naturali perché sono stato adottato a tredici mesi e, nonostante i miei genitori adottivi siano stati bravi, mi è sempre mancato qualcosa. Soprattutto mio padre non è mai stato affettuoso e ha preteso il massimo da me che, per paura di deluderlo, non mi sono mai rilassato. Dopo parecchie storie sentimentali andate male perché, nel timore di essere lasciato, le troncavo prima io, ho conosciuto quella che è adesso mia moglie. Una donna pragmatica, poco sensibile, ma brava e responsabile. Insicuro delle mie capacità paterne, non volevo figli ma, per accontentarla, ho acconsentito ad averne uno ed è nata mia figlia, dopo una gravidanza e un parto difficilis-
simi. Per fortuna la bambina è sana, nonostante sia portatrice di una grave malattia genetica. Quando, appena nata, me l’hanno messa in braccio e ci hanno lasciati soli, ho provato l’impulso terribile di abbandonarla, di dire all’infermiera: «portatela via!». Non finirò mai di pentirmi di quell’intenzione, anche se ora le voglio un bene dell’anima. Spero che lei mi aiuterà a perdonarmi. Grazie. / Marco Caro Marco, ha tutta la mia comprensione e, per quanto ne sia capace, proverò ad aiutarla facendo tesoro, non solo degli studi e dell’esperienza professionale, ma soprattutto della mia vita. Anch’io, affidata appena nata a una balia, ho incontrato i miei genitori anni dopo, per cui l’esperienza psicologica dell’adozione non mi è estranea. E so che non è facile superare la paura dell’abbandono e dell’inadeguatezza. La mente infantile tende infatti a
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Dalla parte del popolo: ma come? Venerdì 20 gennaio, la cornice spettacolare della Casa Bianca ha fatto da megafono, con risonanza mondiale, a una parola tutt’altro che inattesa, anzi scontata nella semplicistica oratoria del neoeletto: ed è, appunto, popolo. Ma Donald Trump non inventava niente. Si è, invece, appropriato di un termine d’uso corrente, che ormai esprime, e come, lo Zeitgeist, al di là e al di qua dell’Atlantico. Se, negli USA, un magnatepresidente, con faccia tosta, intende «ridare voce al popolo», strappandolo dal silenzio in cui l’avrebbe esiliato l’élite al potere, in Europa, non si è da meno. A Londra, a Berlino, a Parigi, a Roma, a Budapest, e persino a Berna, risuonano gli stessi discorsi, in cui si tira sempre in ballo il popolo, alias la gente o la cittadinanza. A questa entità, in realtà multiforme e sfuggente, si attribuiscono valori comuni
e idealizzati: una spontanea saggezza, addirittura, il monopolio dell’onestà. Dunque, spetta a loro, al signor e alla signora nessuno, il compito di smantellare l’egemonia dei partiti tradizionali e delle istituzioni ufficiali. Si tratta di mobilitarli, in nome di un bisogno di cambiamento, in sé naturale, ma esasperato da abili tribuni che sfruttano una contrapposizione d’ordine morale: da un lato i profittatori, corrotti dall’esercizio del potere, e, dall’altro, i cittadini, esautorati e repressi. Insomma, si ripropone l’antitesi, in termini assoluti, fra il bene e il male, cioè qualcosa che, per la sua ingenuità, dovrebbe insospettire. Ecco, invece, che nell’era dell’emancipazione economica e culturale delle masse, i manovratori delle opinioni, e soprattutto dei sentimenti popolari, trovano ascolto tanto da creare un vero e proprio filone di pensiero:
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Ambiente e Benessere Templi antichi indonesiani Natura e religione nel cuore di Giava: reportage da Borobudur e Prambanan
L’età di mezzo per la vite Oltre ai vescovi e ai semplici monaci, per la rinascita e la diffusione del vino nel Medioevo si distinsero anche alcune figure femminili di rilievo
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L’erede di Bulli? ID Buzz Volkswagen ha presentato il suo van di ultima generazione completamente elettrico
Il re del pollaio, re del 2017 Secondo l’oroscopo cinese chi nasce quest’anno lo fa sotto il segno del gallo
Nel cuore della storia di Giava Reportage Alla scoperta di due importanti attrazioni: il complesso di templi induisti di Prambanan
e il tempio induista-buddista di Borobudur, famoso in tutto il mondo e patrimonio dell’Unesco dal 1991
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Simona Dalla Valle, testo e foto pagina 12
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Quando la terra trema
Esposizioni Al Museo di Storia naturale
La maggior espressione dell’architettura sacra a Giava si trova poco più a nord della vivace città di Yogyakarta
di Milano una mostra sull’origine, le storie e i segreti dei terremoti
Amanda Ronzoni, testo e foto Il Museo di Storia Naturale di Milano (fino al 30 aprile 2017) ospita l’esposizione Terremoti. Origini, storie e segreti dei movimenti della terra, una mostra quanto mai attuale viste le recenti devastanti scosse che stanno martoriando l’Italia centrale. La nuova sequenza del 18 gennaio si inserisce all’interno di una miriade di eventi di minore intensità, di cui, però, oltre un centinaio con magnitudo maggiore di 2.0, sparsi tra le province dell’Aquila e Rieti. La Rete Sismica Nazionale dell’INGV ha localizzato queste scosse in un’area lunga circa 10-15 km, lungo l’Appennino, e larga circa 5-6 km, zona a pericolosità sismica molto alta, compresa tra l’area interessata dal terremoto del 2009 e la parte meridionale della sequenza iniziata il 24 agosto scorso in Italia centrale. Il sisma del 18 gennaio ha coinvolto il sistema di faglie dei Monti della Lega, attivatosi il 24 agosto scorso. L’evento analogo più prossimo alla zona oggi interessata fu registrato il 2 febbraio 1703: con magnitudo Mw 6.7 colpì, però, le faglie più occidentali. L’analisi dei dati storici e il monitoraggio della regione hanno portato ricercatori e autorità ad affermare che «non si può escludere il verificarsi di terremoti di magnitudo comparabile o superiore a quelli del 18 gennaio» (comunicato stampa INGV del 18 gennaio 2017). Siamo dunque di fronte a un fenomeno che ci lascia impotenti, aggravato da condizioni climatiche estremamente difficili. La dura realtà è che nonostante i grandi passi avanti fatti dalla tecnologia, non siamo ancora in grado di prevedere con esattezza dove e quando il sisma colpirà di nuovo. Se molto è stato fatto per rodare i meccanismi di risposta a questi eventi, rendendo gli interventi di protezione civile, Vigili del Fuoco, corpi di pronto intervento e volontari sempre più tempestivi ed efficaci, moltissimo resta ancora da fare per la messa in sicurezza degli edifici e la divulgazione di piani formativi e informativi utili alla popolazione.
Ogni anno, in Italia, si registrano dai 1700 ai 2500 terremoti di magnitudo pari o superiore a 2,5 gradi della scala Richter, molti dei quali neanche percepiti dall’uomo, ma solo rilevati dai sismografi. Eppure ad ogni scossa, ad ogni tragedia, si resta attoniti, quasi non fosse mai capitato prima. Uno degli obiettivi principali della mostra in corso a Milano è dunque quello di fornire informazioni scientifiche chiare sul fenomeno e, di conseguenza, suggerire anche modelli di comportamento che possano metterci al sicuro, aiutandoci a limitare i danni. L’intenzione del curatore, Marco C. Stoppato è spiegare in concreto cosa può fare singolarmente un cittadino informato, nel suo piccolo, in casa sua. Perché un individuo correttamente informato, oltre a reagire in maniera corretta per sé stesso, è anche in grado di aiutare altre persone. Si parla naturalmente della strategia Drop-Cover-HoldOn, ovvero delle tre fasi di reazione da attuare durante un terremoto: buttarsi a terra, mettersi al riparo sotto un tavolo, tenersi al tavolo medesimo. Esiste persino una giornata mondiale dedicata a questa prassi: la Great ShakeOut Earthquake Drills, che quest’anno si è tenuta il 20 ottobre con lo scopo di divulgare la pratica (www.shakeout.org). Già in questa sezione della mostra scopriamo che sono stati ideati e prodotti banchi da scuola in grado di reggere 1000 kg in caduta. E che questi tavoli, opportunamente allineati, si trasformano anche in tunnel di fuga. Ampio spazio è dato alle nuove tecnologie, a sistemi di progettazione e costruzione adeguati, a piccoli e grandi accorgimenti che se attuati sono in grado di fare la differenza. Si parte dalle boe anti tsunami, progettate, costruite e distribuite in tutto il mondo dall’italiana Resinex. Ancorate anche a 3000 metri di profondità, rilevano lo spostamento d’acqua causato da un sisma e allertano le autorità. Più sono lontane dalla costa, prima lanciano l’allarme. Si passa quindi ai sistemi di alta ingegneria, con palazzi ed edifici dota-
Poco prima del quinto secolo d.C. l’influenza di buddismo e induismo si diffonde nelle isole di Sumatra, Giava e Bali, situate in quello che oggi è definito l’arcipelago indonesiano. Le prime strutture induiste, costruite in legno, sono andate deteriorandosi a causa dell’umidità del clima tropicale, e questo ha fatto sì che non si trovino a Giava resti archeologici di templi antecedenti alla fine del 7 secolo d.C.
I primi templi in pietra, otto piccoli santuari dedicati a Shiva costruiti nell’ottavo secolo d.C., sono stati ritrovati sull’altipiano di Dieng («luogo degli dei») a duemila metri sul mare nella regione di Wonosobo, sede di geyser e laghi incantevoli. La maggior concentrazione di architettura sacra a Giava si ha tuttavia poco più a nord della vivace città di Yogyakarta, dove sorgono il complesso di templi induisti di Prambanan e il tempio induistabuddista di Borobudur, famoso in tutto il mondo e patrimonio dell’Unesco dal 1991. Il sito religioso di Borobudur sorge nella pianura di Kedu, tra la vegetazione rigogliosa e verdeggiante. Osservando il tempio all’alba dalla vicina punthuk (collina) Setumbu è possibile scorgere le punte degli stupa che emergono dalle atmosferiche nuvole basse che contraddistinguono l’area, e la vetta del vulcano Merapi, una sorta di guardiano in lontananza. Dalla singolare struttura a cerchi concentrici che formano una sorta di enorme mandala, il tempio di Borobudur è costruito tra il 780 e l’840 d.C. durante la dinastia dei Sailendra. L’edificio viene poi abbandonato per secoli e travolto da diversi strati di cenere del Merapi. Tra il 1907 e gli anni Sessanta vi sono diversi interventi di restauro, ma è solo l’ingente contributo dell’Unesco nel 1968 ciò che renderà possibile un enorme intervento di restauro, con la collaborazione di esperti provenienti da ogni parte del mondo. Il tempio, le cui pareti sono adornate da 2672 bassorilievi raffiguranti
ti di dissipatori e isolatori elastomerici. O ancora case in legno antisismiche, come quelle prodotte dalla Wolf Haus di Vipiteno, testate presso l’EUCENTRE (European Centre for Training and Research in Earthquake Engineering) di Pavia per resistere a una magnitudo anche superiore a quella del peggior terremoto registrato, ovvero quello di Valdivia, in Cile, nel 1960, 9,5 gradi della scala Richter. Impressionante il video che dimostra la tenuta durante il test. Sono, questi, interventi decisamente importanti, in termini di costi e di impatto sugli edifici. Scopriamo, però, che esistono anche una serie di accorgimenti, meno invasivi, che in caso di scosse sismiche evitano la ca-
duta di oggetti dalle librerie, o l’esplosione dei vetri delle finestre, o, ancora, la caduta di calcinacci dal soffitto. È il caso di piccoli oggetti che è possibile acquistare su internet a pochi euro, per assicurare apparecchiature elettroniche, scaffali, mobili. In mostra ci sono poi delle carte da parati in fibra di vetro, anche decorate, come la MapeWrap EQ System + EQ Dekor, prodotta da Mapei insieme a Inkiostro Bianco, che applicate con apposita resina creano un guscio protettivo che previene la caduta di detriti dal soffitto. Speciali pellicole anti sfondamento, come quelle ideate da TopFilm, sono invece utili per evitare che i vetri delle finestre vadano in mille pezzi ferendo le persone presenti nelle vicinanze.
Sapere perché e dove la terra trema è utile, ma operare in concreto per limitare, dove possibile, i danni lo è ancor di più. La mostra è promossa e organizzata dal Comune di Milano – Settore Cultura e dal Museo di Storia Naturale di Milano, in collaborazione con l’Associazione di divulgazione scientifica Vulcano Esplorazioni e Silvana Editoriale. Informazioni
www.assodidatticamuseale.it; Museo di Storia Naturale di Milano, corso Venezia 55, M1 Palestro. Orari: mado 09.00-17.30 (ultimo ingresso ore 16.45). Lu chiuso.
Il lago colorato (Telaga Warna) di Dieng.
Al templio di Prambanan.
Buddha, poggia su circa un milione e seicentomila blocchi in pietra e occupa una superficie totale di otto chilometri quadrati. Le oltre cinquecento statue raffigurano Buddha in posizione meditativa con sei diverse posizioni delle mani (Mudra) a simboleggiare concetti come la carità, il ragionamento e il coraggio, spesso in antitesi con l’espressione sul volto di Buddha. Borobudur rappresenta i diversi livelli della cosmologia buddista. Visto dall’alto, il tempio ha la forma di un mandala buddista tradizionale e procedendo dall’esterno verso l’interno, vi sono rappresentate tre zone di coscienza, con la sfera centrale a rappresentare l’incoscienza, o il Nirvana. Il livello base di Borobudur è coperto da una fondazione di sostegno, ed è quindi nascosto alla vista. Nel corso di un’indagine condotta dall’Archaeological Society di Yogyakarta nel 1885 è stata scoperta la base originale, detta Kamadhatu, costituita da 160 rilievi raffiguranti scene di Karmawibhangga Sutra, la legge di causa ed effetto. Illustrando il comportamento umano del desiderio, i rilievi raffigurano scene di rapina, omicidio, stupro, tortura e diffamazione. Si ritiene che la base aggiuntiva sia stata inserita durante la costruzione originale del tempio per dare stabilità alla struttura, o forse per coprire contenuti più espliciti. Un angolo della base di copertura è stato rimosso in modo permanente per permettere ai visitatori di vedere alcuni rilievi della base originaria. Il secondo livello, Rapadhatu, costituisce la sfera di transizione, nella quale gli esseri umani si affrancano
Alcuni piccoli stupa a forma di campana traforata sul tempio buddista di Borobudur sull’isola di Giava.
Ingresso all’antico tempio indù «Candi Bima» sul Dieng Plateau.
Uno dei crateri vulcanici di Dieng.
dalle cose del mondo. I quattro livelli quadrati di Rapadhatu contengono gallerie di rilievi in pietra scolpita, così come una catena di nicchie contenenti statue di Buddha. In totale su questi livelli balaustrati vi sono 328 Buddha e una grande quantità di rilievi ornamentali. I manoscritti sanscriti raffigurati sui 1300 rilievi di questo livello riguardano Gandhawyuha, Lalitawistara, Jataka e Awadana. Il terzo livello, Arupadhatu, corrisponde alla sfera più alta, la dimora degli dei. Le tre terrazze circolari che portano alla cupola centrale rappresentano il sorgere al di sopra del mondo; queste terrazze sono meno ornate, poiché la purezza della forma è qui di primaria importanza. Le terrazze contengono 72 stupa contenenti sculture del Buddha, rivolte verso l’esterno del tempio. L’imponente stupa centrale, che, a differenza di quelli che lo circondano è vuoto, non è alto come la versione originale, la quale si elevava a 42m sopra il livello del suolo. Circondato da risaie e villaggi, quello di Prambanan è invece un complesso di templi induisti costruito all’incirca nell’850 d.C. da Rakai Pikatan, secondo re della dinastia Mataram. Prambanan e Borobudur sono
47 metri, ricorda quella di Borobudur: anche qui la struttura è divisa in sei livelli, al primo dei quali i bassorilievi raccontano la storia del Ramayana. Nella camera principale all’interno del tempio è conservata la statua di Shiva; nelle celle a essa attigue vi sono diversi personaggi legati alla divinità come il maestro Agastya, la consorte Durga e il figlio Ganesh. Il secondo quadrato si irradia in modo simmetrico e contiene i percorsi fino allo spiazzo centrale, con oltre duecento templi inferiori e simili per struttura. Questi templi sono conosciuti come templi perwara, a indicare la complementarietà con i templi principali. Sebbene la maggior parte di questi templi sia attualmente in rovina, alcuni sono stati restaurati e non è difficile immaginare la vastità originale del complesso. Il terzo e ultimo spiazzo, circondato da un muro, non è sullo stesso asse dei due centrali e non contiene oggetti religiosi. Si ritiene che la zona fosse riservata alle persone coinvolte nelle cerimonie, alla preparazione delle offerte, e per gli edifici che ospitavano i sacerdoti residenti e pellegrini. Questi edifici, costruiti in legno, non sono sopravvissuti nel tempo.
spesso accomunati per zona e periodo storico ma presentano differenze strutturali enormi: se il primo è sviluppato verso l’alto e possiede una forma slanciata, il secondo è invece sviluppato in orizzontale e ha un aspetto massiccio. Il sito è dedicato alla Trimurti, manifestazione dell’essere supremo nella sua incarnazione di Creatore (Brahma), Conservatore (Vishnu) e Distruttore (Shiva), per ognuno dei quali vi è un tempio. Il piazzale centrale rialzato, dalla forma quadrata, ospita undici templi di varie dimensioni, dei quali il più grande è quello di Shiva, a sua volta affiancato dai templi dedicati a Vishnu e Brahma. Di fronte a questi vi sono tre templi minori, dedicati ai veicoli degli dei rappresentati: Nandi, il toro, per Shiva; Hamsa, il cigno sacro, per Brahma; l’aquila Garuda per Vishnu. Si ritiene che in origine il complesso fosse composto da 232 templi o mausolei di antichi re. A metà del 1600 un terremoto rovina parte delle strutture, parzialmente ricostruite tra il 1918 e il 1953, ma un altro terremoto colpisce l’isola di Giava nel 2006 e danneggia nuovamente le costruzioni, seppure in misura minore. La pianta del tempio di Shiva, alto
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Ambiente e Benessere Templi antichi indonesiani Natura e religione nel cuore di Giava: reportage da Borobudur e Prambanan
L’età di mezzo per la vite Oltre ai vescovi e ai semplici monaci, per la rinascita e la diffusione del vino nel Medioevo si distinsero anche alcune figure femminili di rilievo
pagina 9
L’erede di Bulli? ID Buzz Volkswagen ha presentato il suo van di ultima generazione completamente elettrico
Il re del pollaio, re del 2017 Secondo l’oroscopo cinese chi nasce quest’anno lo fa sotto il segno del gallo
Nel cuore della storia di Giava Reportage Alla scoperta di due importanti attrazioni: il complesso di templi induisti di Prambanan
e il tempio induista-buddista di Borobudur, famoso in tutto il mondo e patrimonio dell’Unesco dal 1991
pagina 10
Simona Dalla Valle, testo e foto pagina 12
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Quando la terra trema
Esposizioni Al Museo di Storia naturale
La maggior espressione dell’architettura sacra a Giava si trova poco più a nord della vivace città di Yogyakarta
di Milano una mostra sull’origine, le storie e i segreti dei terremoti
Amanda Ronzoni, testo e foto Il Museo di Storia Naturale di Milano (fino al 30 aprile 2017) ospita l’esposizione Terremoti. Origini, storie e segreti dei movimenti della terra, una mostra quanto mai attuale viste le recenti devastanti scosse che stanno martoriando l’Italia centrale. La nuova sequenza del 18 gennaio si inserisce all’interno di una miriade di eventi di minore intensità, di cui, però, oltre un centinaio con magnitudo maggiore di 2.0, sparsi tra le province dell’Aquila e Rieti. La Rete Sismica Nazionale dell’INGV ha localizzato queste scosse in un’area lunga circa 10-15 km, lungo l’Appennino, e larga circa 5-6 km, zona a pericolosità sismica molto alta, compresa tra l’area interessata dal terremoto del 2009 e la parte meridionale della sequenza iniziata il 24 agosto scorso in Italia centrale. Il sisma del 18 gennaio ha coinvolto il sistema di faglie dei Monti della Lega, attivatosi il 24 agosto scorso. L’evento analogo più prossimo alla zona oggi interessata fu registrato il 2 febbraio 1703: con magnitudo Mw 6.7 colpì, però, le faglie più occidentali. L’analisi dei dati storici e il monitoraggio della regione hanno portato ricercatori e autorità ad affermare che «non si può escludere il verificarsi di terremoti di magnitudo comparabile o superiore a quelli del 18 gennaio» (comunicato stampa INGV del 18 gennaio 2017). Siamo dunque di fronte a un fenomeno che ci lascia impotenti, aggravato da condizioni climatiche estremamente difficili. La dura realtà è che nonostante i grandi passi avanti fatti dalla tecnologia, non siamo ancora in grado di prevedere con esattezza dove e quando il sisma colpirà di nuovo. Se molto è stato fatto per rodare i meccanismi di risposta a questi eventi, rendendo gli interventi di protezione civile, Vigili del Fuoco, corpi di pronto intervento e volontari sempre più tempestivi ed efficaci, moltissimo resta ancora da fare per la messa in sicurezza degli edifici e la divulgazione di piani formativi e informativi utili alla popolazione.
Ogni anno, in Italia, si registrano dai 1700 ai 2500 terremoti di magnitudo pari o superiore a 2,5 gradi della scala Richter, molti dei quali neanche percepiti dall’uomo, ma solo rilevati dai sismografi. Eppure ad ogni scossa, ad ogni tragedia, si resta attoniti, quasi non fosse mai capitato prima. Uno degli obiettivi principali della mostra in corso a Milano è dunque quello di fornire informazioni scientifiche chiare sul fenomeno e, di conseguenza, suggerire anche modelli di comportamento che possano metterci al sicuro, aiutandoci a limitare i danni. L’intenzione del curatore, Marco C. Stoppato è spiegare in concreto cosa può fare singolarmente un cittadino informato, nel suo piccolo, in casa sua. Perché un individuo correttamente informato, oltre a reagire in maniera corretta per sé stesso, è anche in grado di aiutare altre persone. Si parla naturalmente della strategia Drop-Cover-HoldOn, ovvero delle tre fasi di reazione da attuare durante un terremoto: buttarsi a terra, mettersi al riparo sotto un tavolo, tenersi al tavolo medesimo. Esiste persino una giornata mondiale dedicata a questa prassi: la Great ShakeOut Earthquake Drills, che quest’anno si è tenuta il 20 ottobre con lo scopo di divulgare la pratica (www.shakeout.org). Già in questa sezione della mostra scopriamo che sono stati ideati e prodotti banchi da scuola in grado di reggere 1000 kg in caduta. E che questi tavoli, opportunamente allineati, si trasformano anche in tunnel di fuga. Ampio spazio è dato alle nuove tecnologie, a sistemi di progettazione e costruzione adeguati, a piccoli e grandi accorgimenti che se attuati sono in grado di fare la differenza. Si parte dalle boe anti tsunami, progettate, costruite e distribuite in tutto il mondo dall’italiana Resinex. Ancorate anche a 3000 metri di profondità, rilevano lo spostamento d’acqua causato da un sisma e allertano le autorità. Più sono lontane dalla costa, prima lanciano l’allarme. Si passa quindi ai sistemi di alta ingegneria, con palazzi ed edifici dota-
Poco prima del quinto secolo d.C. l’influenza di buddismo e induismo si diffonde nelle isole di Sumatra, Giava e Bali, situate in quello che oggi è definito l’arcipelago indonesiano. Le prime strutture induiste, costruite in legno, sono andate deteriorandosi a causa dell’umidità del clima tropicale, e questo ha fatto sì che non si trovino a Giava resti archeologici di templi antecedenti alla fine del 7 secolo d.C.
I primi templi in pietra, otto piccoli santuari dedicati a Shiva costruiti nell’ottavo secolo d.C., sono stati ritrovati sull’altipiano di Dieng («luogo degli dei») a duemila metri sul mare nella regione di Wonosobo, sede di geyser e laghi incantevoli. La maggior concentrazione di architettura sacra a Giava si ha tuttavia poco più a nord della vivace città di Yogyakarta, dove sorgono il complesso di templi induisti di Prambanan e il tempio induistabuddista di Borobudur, famoso in tutto il mondo e patrimonio dell’Unesco dal 1991. Il sito religioso di Borobudur sorge nella pianura di Kedu, tra la vegetazione rigogliosa e verdeggiante. Osservando il tempio all’alba dalla vicina punthuk (collina) Setumbu è possibile scorgere le punte degli stupa che emergono dalle atmosferiche nuvole basse che contraddistinguono l’area, e la vetta del vulcano Merapi, una sorta di guardiano in lontananza. Dalla singolare struttura a cerchi concentrici che formano una sorta di enorme mandala, il tempio di Borobudur è costruito tra il 780 e l’840 d.C. durante la dinastia dei Sailendra. L’edificio viene poi abbandonato per secoli e travolto da diversi strati di cenere del Merapi. Tra il 1907 e gli anni Sessanta vi sono diversi interventi di restauro, ma è solo l’ingente contributo dell’Unesco nel 1968 ciò che renderà possibile un enorme intervento di restauro, con la collaborazione di esperti provenienti da ogni parte del mondo. Il tempio, le cui pareti sono adornate da 2672 bassorilievi raffiguranti
ti di dissipatori e isolatori elastomerici. O ancora case in legno antisismiche, come quelle prodotte dalla Wolf Haus di Vipiteno, testate presso l’EUCENTRE (European Centre for Training and Research in Earthquake Engineering) di Pavia per resistere a una magnitudo anche superiore a quella del peggior terremoto registrato, ovvero quello di Valdivia, in Cile, nel 1960, 9,5 gradi della scala Richter. Impressionante il video che dimostra la tenuta durante il test. Sono, questi, interventi decisamente importanti, in termini di costi e di impatto sugli edifici. Scopriamo, però, che esistono anche una serie di accorgimenti, meno invasivi, che in caso di scosse sismiche evitano la ca-
duta di oggetti dalle librerie, o l’esplosione dei vetri delle finestre, o, ancora, la caduta di calcinacci dal soffitto. È il caso di piccoli oggetti che è possibile acquistare su internet a pochi euro, per assicurare apparecchiature elettroniche, scaffali, mobili. In mostra ci sono poi delle carte da parati in fibra di vetro, anche decorate, come la MapeWrap EQ System + EQ Dekor, prodotta da Mapei insieme a Inkiostro Bianco, che applicate con apposita resina creano un guscio protettivo che previene la caduta di detriti dal soffitto. Speciali pellicole anti sfondamento, come quelle ideate da TopFilm, sono invece utili per evitare che i vetri delle finestre vadano in mille pezzi ferendo le persone presenti nelle vicinanze.
Sapere perché e dove la terra trema è utile, ma operare in concreto per limitare, dove possibile, i danni lo è ancor di più. La mostra è promossa e organizzata dal Comune di Milano – Settore Cultura e dal Museo di Storia Naturale di Milano, in collaborazione con l’Associazione di divulgazione scientifica Vulcano Esplorazioni e Silvana Editoriale. Informazioni
www.assodidatticamuseale.it; Museo di Storia Naturale di Milano, corso Venezia 55, M1 Palestro. Orari: mado 09.00-17.30 (ultimo ingresso ore 16.45). Lu chiuso.
Il lago colorato (Telaga Warna) di Dieng.
Al templio di Prambanan.
Buddha, poggia su circa un milione e seicentomila blocchi in pietra e occupa una superficie totale di otto chilometri quadrati. Le oltre cinquecento statue raffigurano Buddha in posizione meditativa con sei diverse posizioni delle mani (Mudra) a simboleggiare concetti come la carità, il ragionamento e il coraggio, spesso in antitesi con l’espressione sul volto di Buddha. Borobudur rappresenta i diversi livelli della cosmologia buddista. Visto dall’alto, il tempio ha la forma di un mandala buddista tradizionale e procedendo dall’esterno verso l’interno, vi sono rappresentate tre zone di coscienza, con la sfera centrale a rappresentare l’incoscienza, o il Nirvana. Il livello base di Borobudur è coperto da una fondazione di sostegno, ed è quindi nascosto alla vista. Nel corso di un’indagine condotta dall’Archaeological Society di Yogyakarta nel 1885 è stata scoperta la base originale, detta Kamadhatu, costituita da 160 rilievi raffiguranti scene di Karmawibhangga Sutra, la legge di causa ed effetto. Illustrando il comportamento umano del desiderio, i rilievi raffigurano scene di rapina, omicidio, stupro, tortura e diffamazione. Si ritiene che la base aggiuntiva sia stata inserita durante la costruzione originale del tempio per dare stabilità alla struttura, o forse per coprire contenuti più espliciti. Un angolo della base di copertura è stato rimosso in modo permanente per permettere ai visitatori di vedere alcuni rilievi della base originaria. Il secondo livello, Rapadhatu, costituisce la sfera di transizione, nella quale gli esseri umani si affrancano
Alcuni piccoli stupa a forma di campana traforata sul tempio buddista di Borobudur sull’isola di Giava.
Ingresso all’antico tempio indù «Candi Bima» sul Dieng Plateau.
Uno dei crateri vulcanici di Dieng.
dalle cose del mondo. I quattro livelli quadrati di Rapadhatu contengono gallerie di rilievi in pietra scolpita, così come una catena di nicchie contenenti statue di Buddha. In totale su questi livelli balaustrati vi sono 328 Buddha e una grande quantità di rilievi ornamentali. I manoscritti sanscriti raffigurati sui 1300 rilievi di questo livello riguardano Gandhawyuha, Lalitawistara, Jataka e Awadana. Il terzo livello, Arupadhatu, corrisponde alla sfera più alta, la dimora degli dei. Le tre terrazze circolari che portano alla cupola centrale rappresentano il sorgere al di sopra del mondo; queste terrazze sono meno ornate, poiché la purezza della forma è qui di primaria importanza. Le terrazze contengono 72 stupa contenenti sculture del Buddha, rivolte verso l’esterno del tempio. L’imponente stupa centrale, che, a differenza di quelli che lo circondano è vuoto, non è alto come la versione originale, la quale si elevava a 42m sopra il livello del suolo. Circondato da risaie e villaggi, quello di Prambanan è invece un complesso di templi induisti costruito all’incirca nell’850 d.C. da Rakai Pikatan, secondo re della dinastia Mataram. Prambanan e Borobudur sono
47 metri, ricorda quella di Borobudur: anche qui la struttura è divisa in sei livelli, al primo dei quali i bassorilievi raccontano la storia del Ramayana. Nella camera principale all’interno del tempio è conservata la statua di Shiva; nelle celle a essa attigue vi sono diversi personaggi legati alla divinità come il maestro Agastya, la consorte Durga e il figlio Ganesh. Il secondo quadrato si irradia in modo simmetrico e contiene i percorsi fino allo spiazzo centrale, con oltre duecento templi inferiori e simili per struttura. Questi templi sono conosciuti come templi perwara, a indicare la complementarietà con i templi principali. Sebbene la maggior parte di questi templi sia attualmente in rovina, alcuni sono stati restaurati e non è difficile immaginare la vastità originale del complesso. Il terzo e ultimo spiazzo, circondato da un muro, non è sullo stesso asse dei due centrali e non contiene oggetti religiosi. Si ritiene che la zona fosse riservata alle persone coinvolte nelle cerimonie, alla preparazione delle offerte, e per gli edifici che ospitavano i sacerdoti residenti e pellegrini. Questi edifici, costruiti in legno, non sono sopravvissuti nel tempo.
spesso accomunati per zona e periodo storico ma presentano differenze strutturali enormi: se il primo è sviluppato verso l’alto e possiede una forma slanciata, il secondo è invece sviluppato in orizzontale e ha un aspetto massiccio. Il sito è dedicato alla Trimurti, manifestazione dell’essere supremo nella sua incarnazione di Creatore (Brahma), Conservatore (Vishnu) e Distruttore (Shiva), per ognuno dei quali vi è un tempio. Il piazzale centrale rialzato, dalla forma quadrata, ospita undici templi di varie dimensioni, dei quali il più grande è quello di Shiva, a sua volta affiancato dai templi dedicati a Vishnu e Brahma. Di fronte a questi vi sono tre templi minori, dedicati ai veicoli degli dei rappresentati: Nandi, il toro, per Shiva; Hamsa, il cigno sacro, per Brahma; l’aquila Garuda per Vishnu. Si ritiene che in origine il complesso fosse composto da 232 templi o mausolei di antichi re. A metà del 1600 un terremoto rovina parte delle strutture, parzialmente ricostruite tra il 1918 e il 1953, ma un altro terremoto colpisce l’isola di Giava nel 2006 e danneggia nuovamente le costruzioni, seppure in misura minore. La pianta del tempio di Shiva, alto
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Ambiente e Benessere
Bacco e le donne del Medioevo
Il vino nella storia Fu anche grazie al mondo femminile che venne portata a compimento l’opera di bonifica
di una disastrosa situazione agricola con l’impianto di molti vigneti Davide Comoli A partire dal VII secolo, si nota un grande progresso sia in qualità sia in quantità per i prodotti della vigna. La vite in quell’epoca aveva bisogno di continue cure e nessuno meglio degli ordini monastici tentò di rimettere in piedi la disastrosa situazione agricola che si era venuta a creare. Così in quasi tutte le abbazie e conventi d’Europa furono impiantati dei vigneti. Oltre ai vescovi e ai semplici monaci in questa sapiente opera di bonifica si distinsero alcune figure femminili. In questa che viene definita l’età di mezzo e che dura circa mille anni, «le donne» sedevano a tavola e bevevano normalmente con gli uomini: in questo periodo l’emarginazione della donna era meno forte di quanto sarebbe avvenuto in seguito. Era però opinione diffusa che la donna consumasse meno forze e perciò doveva mangiare e bere meno. Le regole monastiche femminili concedevano vino in minor quantità rispetto a quelle maschili. In alcuni testi scritti in epoca successiva si legge: «dar molto da mangiare ai figli maschi; le donne basta solo nutrirle». Ma poco prima dell’anno mille, s’incominciarono ad affermare certi modi di pensare provenienti dai paesi del Nord e in particolare dall’odierna Germania, dove la figura femminile riveste notevole importanza. Nelle casate nobiliari c’era sempre una donna capostipite; donne guerriere, donne che combattono, donne che
diventarono il simbolo di una (in senso positivo) bellicosità che certamente si esprimeva anche a tavola. Tracce di questo nostro giudizio, le ritroviamo nel Roman de la Rose, che è un’importante opera letteraria francese (1250 circa), in cui vengono dati alle dame dell’epoca i consigli preziosi sul modo di bere il vino: «E beva a poco a poco sebbene ne abbia gran voglia e non beva d’un fiato la coppa colma, ma a piccoli sorsi». Per una corretta alimentazione, ogni singolo alimento, vino compreso, viene analizzato in Phisica natura che Ildegarda von Bingen (1098-1179), badessa di un monastero benedettino, riunì in nove volumi. A causa del suo sapere, Ildegarda fu osteggiata a lungo dagli ecclesiastici del tempo, ma l’alto casato da cui proveniva le garantì la tutela di papi e regnanti. Anche Adelaide, badessa del monastero di Kitzingen in Germania, fu molto attenta alla coltivazione, per cui l’estesa zona che circondava il convento divenne un vasto vigneto. Ludmilla, proclamata santa patrona della Boemia, vissuta dopo l’860, dimostrò profondo interesse per tutto ciò che era inerente l’agricoltura, ma soprattutto per la viticoltura. Ancora oggi nelle zone dove lei operò, a Melik nella Moravia, si producono ottimi vini. Più tardi fu la figura di Eleonora d’Aquitania a far conoscere i vini della sua regione. Eleonora, donna sensibile e intelligente, bella come una tentazione, incoraggiò lo sviluppo della viticoltura e il commercio del vino di
Un sontuoso banchetto medievale tra nobili e dame. (Tratto dal libro Il vino nella storia Editoriale Domus)
Bordeaux. Sposò in seconde nozze Enrico Plantageneto, duca di Normandia, che divenne Re d’Inghilterra nel 1154. Eleonora gli portò in dote il sud-ovest della Francia. Madre di Riccardo Cuor di Leone, resse per questi il regno, mentre il figlio era impegnato nella crociata (1189-1194), in questo periodo fece conoscere agli inglesi il vitigno Vidure (gli odierni Cabernet). Gli inglesi all’epoca erano però abituati a vini piuttosto chiari, ecco allora – visto che le tecniche enologiche cominciavano ad essere padroneggiate accanto al vino vermiglio – che vennero prodotti per essere portati oltre Manica i Claret, vini prodotti con una sola notte di contatto buccia-mosto. La Parigi post carolingia X-XI sec. era già largamente circondata da viti, ed era la più grande città medievale d’Occidente, con circa 200mila abitanti, tuttavia la produzione del vino non era sufficiente. Dovette essere aumentata per rispondere al fabbisogno della
popolazione: un vino eccelse però su tutti. Era un bianco leggero (forse lo Chasselas, portato dai Crociati), coltivato e vinificato nel convento di SainteGeneviève sotto la sovraintendenza della badessa Adelaide di Savoia. Abbiamo accennato in precedenza a come, intorno all’anno Mille, certi modelli culturali attestino l’importanza della donna. Noi pensiamo che poche donne abbiano avuto un ruolo importante nella storia come Matilde di Canossa (1046-1115), che partecipò da protagonista alla lotta tra la Chiesa e l’Impero. Era un inverno molto crudo e la neve cadeva sulla rocca di Canossa, tra Toscana ed Emilia, quando l’Imperatore tedesco Enrico IV, scalzo e rivestito di un saio, si inginocchiò davanti al portone sbarrato del castello a supplicare papa Gregorio VII, ospite della contessa Matilde, affinché gli revocasse la scomunica (25 gennaio 1077). Per un Imperatore medievale la scomunica era un affare serio e a quel punto nella bufe-
ra soffriva come cristiano, ma di certo soffriva ancora di più all’idea che di lì a un mese, al suo rientro ad Augusta, i Principi del Regno lo aspettavano per spogliarlo di ogni potere. Mentre il Papa al caldo nella roccaforte aspettava il suo sincero pentimento, Enrico soffrì per tre giorni nella neve; per lui intercedevano tra gli altri Ugo di Cluny, Amedeo di Savoia e il fior fiore della nobiltà italiana. Ma più di tutti s’adoperava la cugina Matilde, «donna pia e coltissima», così ce la descrive il biografo Donizione, la quale eccelleva anche nelle virtù mondane, come era dovere di ogni castellana. Perciò quando la mattina del 28, il Papa acconsentì finalmente di ricevere l’intirizzito (e furibondo) Imperatore, fu imbandito un pranzo degno di passare alla storia, dove Matilde fece conoscere i vini prodotti nelle tenute di Canossa. Tra i bianchi furono serviti della Malvasia, poi un bianco locale ottenuto dal vitigno Spergola e del Trebbiano, tra i rossi trovarono posto invece del Marzemino e il Malbo Gentile dal sapore amabile che ai nostri giorni viene usato in piccole percentuali per produrre il Lambrusco. Sui codici miniati del 1300 si trovano molte scene che rappresentano vendemmie e vendemmiatrici, nei secoli successivi avverrà quasi una fusione tra donne, vite, vino. Le figure femminili che legheranno il loro nome ai successi ottenuti con la produzione e il commercio dei vini, si moltiplicheranno nel corso dei secoli futuri. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Ambiente e Benessere
L’arte di servire al tavolo
Gastronomia Il servizio al gueridon aumenta l’effetto della portata e ne migliora, in un certo senso, anche il gusto
Oggi non vi voglio parlare di piatti o di ingredienti, ma di un… modo di servire i piatti nei ristoranti e pure a casa. Lo so, sembra un tema poco interessante, invece è importantissimo: dato che sia nei ristoranti sia a casa giudichiamo i piatti non con il gusto ma con tutti i sensi, occhi per primi, e un piatto ben servito, qualunque cosa voglia dire, è ben più facile che lo troviamo buono… Quindi vi parlo del servizio al gueridon. Il nome definisce un piccolo tavolino d’appoggio, mobile, quasi sempre su ruote, molto leggero e facile da spostare ma sufficientemente robusto per reggere qualche chilo di peso: in genere si trova vicino ai tavoli dei ristoranti.
Oggi i grandi cuochi vogliono controllare tutto, impiattamento compreso. Ma è un vezzo nato solo da poco Nella totalità dei ristoranti oggi il piatto arriva già impiattato dalla cucina. Mentre nel servizio al gueridon un commis (cameriere) porta il piatto di portata e lo appoggia appunto su un gueridon vicino al tavolo dei commensali. Lo chef de rang (capo cameriere, anche se ogni tanto questo lavoro lo fa lo stesso cameriere) impiatta il cibo nei piatti individuali, se sono caldi è meglio. Farà attenzione a servire la giusta quantità in funzione del cliente, per cui ne impiatterà un po’ di meno alla signora minuta, e un po’ di più a un uomo di… peso. Finito di servire porge il piatto al cliente. A volte può chiedere prima quanto cibo vuole: un approccio molto elegante che piace a tutti. Il garbo di questo tipo di servizio chiede poi di lasciare una parte del cibo nel piatto di portata, richiudendolo con una cloche per tenerlo in caldo:
e quando i clienti hanno finito, lo chef de rang chiede se ne vogliono ancora un po’. Ora, io onestamente capisco che i grandi cuochi vogliano controllare tutto, impiattamento compreso. Ma questo controllo è una cosa relativamente recente. Per un paio di secoli il gueridon è stato lo standard. A me però continua a piacere come piace virtualmente a tutti i clienti, «addetti ai lavori» esclusi: ma solo perché sono succubi dell’attuale tirannia degli chef che hanno relegato la sala e i responsabili della sala, fondamentali per il successo di un ristorante, ricordo io, in secondo piano. Si fa solo al ristorante? Affatto, anche a casa. Io a casa mia gueridono (non so se esiste questo verbo, ma io lo uso da sempre, oramai credo di detenerne il copyright…) a tutto spiano: e lo stesso fanno virtualmente tutti (beh, quasi tutti…) gli appassionati di cucina. Comunque abbia cotto un piatto, lo trasferisco poi in un contenitore acconcio e molto bello – oppure se la pentola è elegante, la porto così com’è, dopo averla sommariamente pulita. Trasporto poi il contenitore in sala da pranzo e lo metto su un tavolino di acciaio con ruote e un maniglione per muoverlo, a tre ripiani, 60 x 30 cm, alto 87 cm – non mi piace chinarmi. Sul ripiano inferiore ci sono i piatti individuali. Prendo i piatti, li metto accanto al contenitore, e servo, di più o di meno secondo le persone, poi chiudo con un coperchio lasciando qualcosa per il rabbocco. Come si vede, servizio al gueridon che più classico non si può. Bene, sono decisamente convinto che questo rito renda i miei (e tutti i piatti di chi li serve così) «più buoni»: o meglio ben dispone talmente il commensale da spingerlo a considerare più buono quel piatto, a prescindere. Non si fa con tutti i piatti, ovviamente. Ma è bene farlo sempre con zuppe, pasta e risotti. E per tutte le carni e i pesci serviti in formato fettine o bocconi.
Foto tratta dal sito della scuola Tessieri, Atelier delle arti culinarie di Milano. (www.scuolatessieri.it)
CSF (come si fa) www_blessthismessplease_com
Allan Bay
Fra i tanti modi che abbiamo per giudicare un piatto, uno di quelli che meno mi piacciono è il suddividerli in simpatici e antipatici. È una cosa profondamente sbagliata, perché i piatti sono buoni se eseguiti con buone materie prime e un po’ di perizia, cattivi se mancano le buone materie prime e la perizia, il resto non esiste, non deve esistere. Però ahimè in troppi ce l’hanno con qualche piatto prima ancora
di assaggiarlo… Misteri della psiche umana! Uno di questi è la pasta cosiddetta 3P, ovvero con panna, piselli e prosciutto. È una ricetta che fu di gran moda in Italia negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, oggi difficilissima da trovare appunto perché per alcuni è la quintessenza di come non si deve cucinare. Per me invece questa pasta, se eseguita come si deve (non va mai dimenticato) non solo è buona ma è anche un piatto che ci sa coccolare come pochissimi altri: non è poco. Vediamo come si fa. Ingredienti per 4 persone: 320 g di pasta a piacere, 120 g di prosciutto crudo, 120 g di pisellini, 2 dl di panna da montare, formaggio grana, sale e pepe. Portate al bollore una grossa pentola colma di acqua, salate pochissimo e
gettate i pisellini. Cuoceteli per 2’, un po’ di più se sono più grandi, poi scolateli con una schiumarola in una ciotola colma di acqua fredda, acqua dove avrete messo molti cubetti di ghiaccio. Dopo 5’ scolateli dall’acqua fredda e teneteli da parte. Tagliate a julienne il prosciutto crudo e rosolatelo con una noce di burro in una padella antiaderente per 5’. Unite i pisellini e rosolate per 1’ poi unite la panna da montare e mescolate bene. Intanto avrete cotto nella pentola dove avete sbollentato i piselli la pasta, quella che volete voi. Scolatela al dente e calatela nella padella, poi fatela saltare per un minuto unendo un poco dell’acqua di cottura. Servite regolando di sale e spolverizzando di grana grattugiato e abbondante pepe nero, meglio se del tipo di Sichuan ben pestato in un mortaio.
Ballando coi gusti Oggi due proposte a base dell’amato maiale, accomunate anche dal fatto che ambedue prevedono senape e miele. Entrambe facili da fare.
Lonza di maiale gratinata alle mandorle
Costolette di maiale al miele
Ingredienti per 4 persone: 4 fette di lonza di maiale da 120 g l’una · 2 cucchiai di
Ingredienti per 4 persone: costolette di maiale con gli ossi, in un unico pezzo di g 800 · sale e pepe. Per la marinata: 2 cucchiai di miele · 2 cucchiai di senape in crema · 2 cucchiai di salsa di soia · 1 cucchiaio di ketchup · il succo e la scorza di 1 arancia · sale e pepe.
miele · 2 cucchiai di senape in crema · 2 cucchiai di mandorle dolci pelate · 2 cucchiai di pangrattato · formaggio tipo grana · 1 rametto di rosmarino · sale e pepe.
In un mortaio pestate finemente le mandorle. Tritate il rosmarino. Grattugiate 2 cucchiai di formaggio. Mescolate la senape con il miele. Spennellate le fette di carne con la senape al miele e mettetele in una pirofila coperta con carta da forno. In una ciotola mescolate le mandorle pestate, il pangrattato, il formaggio grattugiato, il rosmarino tritato, sale e pepe. Cospargete le fette con il composto e cuocetele in forno a 200° per 30 minuti. Sfornatele e servitele subito.
Strofinate il pezzo di maiale con sale e pepe, mettetelo sulla griglia e fatelo cuocere per 15 minuti, rigirandolo, in modo che perda parte del suo grasso. Fate la marinata frullando insieme tutti gli ingredienti. Togliete la carne dal fuoco, spennellatela con la marinata, poi continuate la cottura sulla griglia per altri 20 o 30 minuti circa, rigirandola ogni tanto e continuando a spennellarla uniformemente con la marinata. Quando la carne sarà pronta, tagliate le costolette e servitele.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Ambiente e Benessere
Ecco l’erede «verde» di Bulli
Motori Volkswagen ha presentato al Salone di Detroit il suo nuovo van completamente elettrico. Si chiama ID Buzz
Mario Alberto Cucchi Da pochi giorni ha chiuso i battenti l’edizione 2017 del Salone di Detroit ovvero il North American International Auto Show. La trentottesima edizione del NAIAS è l’ultima organizzata sotto la presidenza Obama la cui spinta verso una mobilità sostenibile ed ecologica ha contribuito a caratterizzare il salone americano degli ultimi anni. Ecco allora che tra le auto più ammirate e fotografate di questi giorni c’è il primo van completamente elettrico a guida automatizzata.
Il microbus della casa tedesca a emissioni zero (lungo 4,94 metri, largo 1,98, alto 1,96) ha un’autonomia elettrica che si aggira intorno ai 600 chilometri Volkswagen a Detroit ha alzato il velo su ID Buzz. Si tratta dell’erede del mitico pulmino prodotto dalla Casa tedesca dagli anni Cinquanta in avanti. Der Bulli, così lo chiamavano in patria. ID Buzz sembra studiato a tavolino per colpire al cuore la California dei surfisti dall’animo ecologico che sono legati sentimentalmente alle icone degli anni Sessanta e Settanta. Grazie anche alla verniciatura bicolore, l’obiettivo sembra essere stato centrato. Il prototipo ID Buzz contribuirà alla corsa della Casa di Wolfsburg che vuole arrivare a vendere un milione di auto a batteria entro il 2025. Herbert Diess, presidente del consiglio di amministrazione Volkswagen, ha dichiarato: «Nel 2020 inizierà la grande offensiva elettrica della mar-
ca Volkswagen, con modelli dall’architettura totalmente inedita, che porterà sul mercato una nuova generazione di veicoli cento per cento elettrici e completamente collegati in rete. Faremo della mobilità elettrica il nuovo tratto distintivo di Volkswagen». Buzz può essere tradotto dall’inglese con «ronzio», ciò che si sente su un’auto a propulsione elettrica. Di fatto è un microbus autonomo a emissioni zero lungo 4,94 metri, largo 1,98, alto 1,96 e con un passo di 3,3 metri. La propulsione è garantita da due motori elettrici, uno per asse, in grado di erogare una potenza di sistema di ben 374 cavalli. L’accelerazione è da vettura sportiva: bastano circa cinque secondi per scattare da fermi a cento orari, mentre la velocità massima autolimitata è di 160 chilometri orari. «L’ID Buzz è un van di ultima generazione; la sua autonomia elettrica si aggira intorno ai 600 chilometri» ha dichiarato Frank Welsch, membro del consiglio di amministrazione della marca Volkswagen con responsabilità per lo sviluppo. L’ID Buzz può essere ricaricato in modo induttivo oppure mediante una colonnina di ricarica. Con una potenza di ricarica pari a 150 kW si ricarica dell’80 per cento in meno di trenta minuti. Ecologico ma anche praticissimo, è in grado di ospitare otto passeggeri. Non uno ma due i bagagliai disponibili. Quello posteriore con capienza modulabile da 660 fino a 4600 litri a cui si aggiunge uno anteriore piccolino da 200 litri. Una chicca? Tutti i cofani e le porte si aprono con un comando elettrico. Il portellone, le porte anteriori e le porte scorrevoli del vano posteriore si aprono dall’esterno mediante un sistema di sensori: grazie alla digital key basta tenere appoggiata la mano sopra un’area contrassegnata.
Il nuovo van elettrico della Volkswagen ID Buzz.
Se tutto ciò non fosse abbastanza, il prototipo ID Buzz offre un sistema di guida completamente automatizzata che si attiva non appena il guidatore lascia il volante. Il pulmino Volkswagen riconosce gli altri utenti della strada e l’ambiente circostante non solo tramite i sensori laser, ma anche grazie al supporto supplementare di sensori a ultrasuoni, sensori radar, telecamere laterali Area View e una telecamera anteriore. Inoltre mediante internet vengono rilevati costantemente i dati del traffico e confrontati con i dati vettura. Decisamente avveniristico.
Il fascino tropicale dei colorati Anthurium Mondoverde La pianta ideale per riscaldare un ambiente durante le stagioni fredde
Anita Negretti Tra le piante più decorative da tenere in appartamento, troviamo sicuramente gli Anthurium, con il loro fogliame rigoglioso e le vistose spate rosse, rosa o bianche, che sembrano volerci regalare un soffio di atmosfera tropicale.
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Rameshng
Grazie alla lunghissima durata delle grosse fioriture, possono trascorrere diversi mesi prima di vederle appassire, per cui avremo piante belle e rigogliose per molto tempo dell’anno, specie nel periodo invernale, quando prosperano maggiormente. Quelli che appaiono come i loro fiori altro non sono che foglie modificate: come accade per molte altre piante, la natura adotta un ottimo trucco per attrarre gli insetti impol-
JJ Harrison
I fiori veri sono quelli piccoli e di forma insignificante, che si trovano riuniti sullo spatice ritto nel mezzo
linatori. I fiori veri sono piccoli e di forma insignificante, riuniti sullo spatice lungo una decina di centimetri, solitamente colorato e circondato dalla foglia modificata, che assume belle colorazioni e viene nominata dai botanici spata. Spata che può essere rossa scarlatta e raggiungere un diametro fino a quindici centimetri nella varietà «Kentucky»; rosa corallo in «Pink Champion»; bianca per «Acropolis» e con moltissime sfumature dal ros-
so cardinale al ciliegia scuro, fino al verde mela e a tutte le varietà bicolori, che mischiano il verde con pennellate di rosso, marrone, giallo o bianco. Terminata la fase attrattiva, la spata rimane bella e sgargiante a lungo, mentre lo spatice viene impollinato e incomincia a modificarsi, portando a maturazione i suoi frutti a forma di piccole sfere. Ingrossandosi lo spatice assume un aspetto bitorzoluto e i frutti formano al loro interno il seme, che ca-
dendo a terra darà origine a una nuova pianta. Il genere Anthurium comprende circa 500 specie, originarie delle foreste tropicali dell’America centrale e meridionale, dal Messico fino all’Argentina e all’Uruguay. Molte piante arrivarono in Europa, specie in Germania, durante l’Ottocento e vennero acclimatate nelle serre più prestigiose, come quelle dei Royal Botanic Gardens di Kew a Londra. Ma la loro avventura non si fermò in Europa. Furono infatti spediti alcuni esemplari alle isole Hawaii, dove alla fine dell’Ottocento vennero coltivati su larga scala, divenendo il fiore simbolo di queste isole dell’oceano Pacifico. Molti sono gli ibridi in commercio caratterizzati da una grande variabilità di colori, dimensioni delle spate e crescita compatta delle piante. La maggior parte derivano dalla
specie andreanum , chiamata anche «fiore fenicottero». Belle e rustiche, queste piante si devono tenere in casa durante l’inverno, in una posizione con luce abbondante: accanto a una finestra schermata da una tenda vivranno benissimo. In estate potranno invece soggiornare all’aperto, a mezz’ombra, facendo attenzione che le foglie e i fiori non vengano colpiti dai raggi di sole, evitando così bruciature sulle lamine fogliari. Amano vivere a temperature di circa 24°C tutto l’anno, tollerando minime intorno ai 17-18°C, ma non al di sotto: manifestano la loro insofferenza al freddo piegando gli steli e facendo ingiallire rapidamente foglie e fiori. Durante l’anno si tengono moderatamente bagnate, innaffiandole una volta alla settimana ed evitando ristagni nel sottovaso. Durante il soggiorno invernale in casa è consigliato spruzzare le foglie con un nebulizzatore d’acqua (quello classico per la biancheria), utilizzando acqua naturale per aumentare il grado di umidità sulle foglie. Ogni 15 giorni concimatelo con un prodotto per piante fiorite e se vedete le foglie impolverate, regalate una delicata doccia mensile al vostro Anthurium, con acqua fredda, evitando di bagnare i fiori e lasciandolo sgocciolare bene nel box doccia o nella vasca.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Ambiente e Benessere
La regalità piumata
Mondoanimale Pieni di risorse, coraggiosi e talentuosi: sono i galli dello zodiaco cinese di quest’anno
Si dice che il gallo canti all’alba perché consapevole di essere il «Re del pollaio». Si dice sia perché è un sovrano dispotico e geloso che non accetta la presenza di un altro gallo nel suo territorio. E la saggezza popolare parrebbe dare ragione a questa tesi quando crea una similitudine tra due persone litigiose e «due galli in un pollaio», che si sfidano e confrontano su uno stesso piano professionale, di vita o di altro. Ma all’alba il gallo non canta per scoraggiare eventuali antagonisti, e neppure per rammentare a tutti di essere il numero uno (il maschio più potente) del pollaio. Secondo una ricerca dell’Università di Nagoya, in Giappone, il canto del gallo non è neppure una risposta al sorgere del sole. Le credenze popolari e le convinzioni moderne sono state sconfessate proprio dai risultati di questo studio nipponico che ha dimostrato come in un ambiente di luce artificiale il gallo canta comunque ogni 23,8 ore. Eppure, quest’anno appena iniziato, il nostro bel gallo (Gallus Gallus) ne avrebbe di motivi per cantare e pavoneggiarsi. E perdonate il termine che riporta a un altro magnifico volatile da fattoria. Il gallo ha di che essere felice perché il 2017 è ufficialmente l’anno a lui dedicato dall’Oroscopo cinese. Decimo segno su dodici, esso è parte di un Oroscopo in cui ogni anno è correlato a un animale secondo cicli di 12 anni. Nello specifico, il segno del Gallo include gli anni 1921, 1933, 1945, 1957, 1969, 1981, 1991, 2005, 2017 e, in futuro, 2029. Sempre secondo lo Zodiaco cinese, i
nati negli anni summenzionati, appartengono per l’appunto al segno del Gallo e questo sarà il loro anno… «sebbene non propriamente fortunato». Gli esperti in materia spiegano che: «Nell’anno del proprio segno non si avrà fortuna in ogni aspetto della propria vita». Perciò si consiglia ai Galli nati in gennaio e febbraio di prestare particolare attenzione a quando cade il nuovo anno cinese (ndr: 28 gennaio) per poter confermare il loro segno di nascita e di restare dunque molto cauti da quel momento in poi. Prima di riprendere a parlare del nostro Gallus Gallus, quello vero con cresta e piume, due righe sulla personalità del gallo-essere umano: «Le persone nate sotto il segno del Gallo sono molto attente; coraggiose e talentuose, esse credono molto nelle loro possibilità; sono sempre attivi, simpatici e popolari fra le persone». E giusto per non lasciare col fiato sospeso chi un po’ scaramantico lo è: «Le persone del segno del Gallo, nel loro anno godranno di buona salute». Parrebbe che il gallo sia un animale piuttosto sottovalutato, sebbene gli si debba riconoscere un’eleganza innata, col suo piumaggio in genere di un rosso tendente al marrone e una lunga cresta fatta di pelle di un color rosso acceso sulla testa, anche se queste caratteristiche variano molto a seconda della specie. Ad esempio, la Araucana allevata in Sud America è senza coda e presenta una cresta molto più sottile rispetto alle specie allevate in Europa. Ad ogni modo, il gallo si trova in tutto il mondo, e quello che vive alle nostre latitudini (Gallus domesticus) appartiene al genere Gallus e alla specie Gallus Gallus;
Giochi
Philip Pikart
Maria Grazia Buletti
raggiunge anche i dieci anni di vita e, le differenze fra pollo, gallo e cappoda adulto, arriva a pesare fino a tre chi- ne. Fra queste definizioni di uno steslogrammi. so volatile, il termine pollo è usato in Di questo magnifico animale mol- modo generico per indicare la tipoloto territoriale (ed ecco il motivo per gia di uccelli domestici, maschi e femcui è difficile allevare due galli in uno mine, che raspano e beccano. In questesso pollaio) si sa che è onnivoro: ol- sto caso, la distinzione non si compie tre che di granaglie, si nutre di insetti e per sesso quanto per età: i polli sono gli piccoli vermi che mangia direttamente appartenenti alla specie in questione dal terreno, scavando con l’ausilio del- che abbiano superato i quattro mesi di le zampe. Pur essendo un volatile, esso vita. non è in grado di compiere grandi voli, E veniamo al gallo che potremmo ma riesce comunque a oltrepassare le definire un pollo molto cresciuto, instaccionate grazie ai suoi lunghi salti. Giochi dubbiamente sesso 2017 maschile, che per “Azione” -diGennaio Parecchie sono le curiosità ad esso le- presenta un’altra particolarità: fa il Stefania Sargentini gate; soprassedendo sulla questione fi- «gallo nel pollaio», e ciò significa che è losofica che si chiede se sia nato prima adibito essenzialmente alla riproduziol’uovo o la gallina, potremmo chiarire ne e viene pertanto circondato da un
elevato numero di esponenti femminili della sua razza, le galline. Per lui, dunque, l’espressione «andare a letto con le galline» significa tutt’altra cosa che non andare a dormire presto, al calar del sole. Infine, il cappone è una via di mezzo fra pollo e gallo, la cui peculiarità più significativa sta nel fatto di non poter contribuire alla riproduzione della specie perché viene infatti castrato alla tenera età di due mesi, per scopi puramente consumistici. Capponi a parte, proprio per la sua funzione riproduttiva, l’arrivo del gallo nel pollaio crea subito una gerarchia nel gruppo di galline e saranno quelle più giovani ad avere la precedenza per l’accoppiamento. A questo punto non possiamo esimerci dal descrivere brevemente la vita del pollaio, definendo il ruolo della gallina-chioccia: essa è una gallina che si è accoppiata col gallo del suo pollaio e depone le uova fecondate nel suo nido. Dopo averne deposte una quindicina, inizia a covarle, vale a dire a tenerle in caldo per circa tre settimane. La chioccia è perciò la gallina che cova le proprie uova. L’attività del nostro gallo può rivelarsi molto intensa e proficua, in quanto nel corso dell’anno la gallina depone da 200 fino a 250 uova dalle quali potrebbero nascere i pulcini solamente se il gallo le ha fecondate. Dulcis in fundo, dobbiamo riconoscere al gallo un grande interesse da parte nostra, nella storia, nelle canzoni, nei modi di dire e nei proverbi dai quali abbiamo tratto quest’ultima perla di saggezza: «Trovò un gallo, un diamante nel ruspare, lo gettò e disse: io non ne so che fare». Che sia anche un po’ saggio, il nostro Gallus domesticus?
Giochi per “Azione” - Gennaio bis 2017 Stefania Sargentini GIOCO N.1di Capodanno (BUON ANNO) allegato a parte
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba SUDOKU PER AZIO una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku (N. 5 - Circa setteemetri di altezza) SUDOKU PER AZIONE - GENNAIO/FEBBRAIO 2017
Cruciverba Forse non tutti sanno che il puma è il mammifero che detiene il record di salto con … Trova il resto della frase leggendo, a soluzione ultimata, le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 5, 5, 5, 2, 7)
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(N. 3 - ... macchina calcolatrice) 23 2 3 4 5 6
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ORIZZONTALI 1. Spadaccino nasuto 6. Si alzano... piano, piano 9. Lo seguono le pratiche 10. Pallida rosa 12. Le iniziali dell’attrice Mannino 13. Elettroencefalogramma 14. Viene dopo il «bi» 15. Parlò con Mosè sul monte Sinai 16. Domani lo dirò di oggi 18. Va in questo chi si blocca 19. Parola sublime ed ispirata 20. Pallido, bianco 21. Parti di superficie delimitate 22. Lago etiopico 23. Ne hanno due le zanzare 24. Le iniziali del pittore Rosai
25. Non deve mai mancare in auto 27. Ci sono anche quelle scolastiche VERTICALI 1. Mosca in un gioco... 2. Andate alla latina 3. Direzione artistica di uno spettacolo 4. Diede i natali al Vasari (sigla) 1 2 5 5. Eolo li regalò a3Ulisse4 6. Le iniziali dell’attore Amendola 7. Foggia architettonica 7 8 8. Versamento di sangue nella cavità pelvica 10 11.9Pronome poetico 14. In posizione intermedia 12 15.11 Vuotare il sacco 17. Congiunzione latina 18. Costante nei 13 propositi
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros del18 valore19di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto 21 pervenire la soluzione corretta 22 entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
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C I E C A
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7 8 2 Soluzione: C A R M E L A Scoprire1U i 3 numeri 2 8 F O R A M corretti da inse- 7 2 P A B E T A1 rire nelle caselle 5 6I V I S3 I R colorate. E D E E 3R E S I6 S D 4 V 7E N I E R 8 5 9 3 T C E S T O A L 4 6 D O T T O I T E 5 4 6 2 8 V O R I O T E A M 8 5 3
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N. 6 MEDIO O N T A
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N. 6 MEDIO
26. La coppia in arrivo (N. 6 - Cina nord orientale)
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Sudoku
R M E T A 7 M 3A 4L O I 12 13 25 15 26 14 B P A O 7L 16 17 18 19 E R E I 8E 20 21 R U R O 7 S 22 23 A T A E S T 24 25 26 4 R A N E C I 27 28 6 3 2 5 8 7 4 1 9 6 1 20. Unitamente C D A K A R 29 7 5 4 1 3 9 8 2 6 5 9 8 21. Cittadina della Croazia A MSoluzione A T O della R Esettimana precedente UN 9 PO’ DI SAGGEZZA – La follia è fare sempre: … LA STESSA 22. Il nome dell’attore Hanks 9 8 1COSA 6 E4ASPETTARSI 2 7 3 5 4 2 RISULTATI DIVERSI. 23. Sono di famiglia (N. 4 - ... la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi)N. 7 DIFFICILE 9
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N. 5 FACILE Soluzione Schema R A N O C A S E
N. 5 FACILE Schema
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Vincitori del concorso Cruciverba 24 25 su «Azione 03», del 16.1.2017: 28
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C. Zenari, G. Mondada, C. Simoni 32 33 Vincitori del concorso Sudoku: 35 36 03», del 16.1.2017: 37 38 su «Azione
R. Trippel, G. Agazzi 14
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Partecipazione online: inserire la
20 soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so25
B R A N O
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Politica e Economia Usa-Messico I rapporti bilaterali fra i due Paesi si fanno complicati sui temi di immigrazione e commercio
Centro Italia devastato Non bastavano le scosse di terremoto. Una nevicata mai vista ha contribuito a mettere in ginocchio alcune aree italiane già duramente colpite. Dramma culminato nella valanga che ha travolto un albergo e seppellito molte persone
Votazioni federali Il 12 febbraio si vota sulla riforma III dell’imposizione fiscale delle imprese, tema molto controverso e di difficile comprensione
Isola dei prezzi alti Uno studio condotto da Eurostat e dall’Ufficio federale di statistica conferma l’alto livello dei prezzi in Svizzera
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AFP
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A forza di odiare Trump
Società divisa Social media e stampa americani, che hanno criticato il linguaggio di Trump contro Hillary, oggi
riservano lo stesso trattamento nei confronti del figlio Barron, rischiando alla fine di assomigliargli Giulia Pompili «Barron Trump ha il diritto di essere un bambino come tutti gli altri», e quindi di essere difeso, ha scritto Chelsea Clinton su Twitter riferendosi alla tempesta di commenti ironici e derisioni che si era abbattuta dai social network contro l’ultimogenito di Donald Trump. Durante la cerimonia d’inaugurazione della nuova Amministrazione americana, il ragazzo era sembrato particolarmente annoiato e in alcune fotografie era stato immortalato con un’espressione piuttosto assente. In poche ore, mentre le donne americane sfilavano per le città di diversi Stati con i cappellini rosa e rivendicando il proprio ruolo in società, Barron (nella foto) era diventato un meme, un archetipo, il figlio ricco e annoiato di un miliardario che merita la pubblica gogna. Il commento di Chelsea Clinton, figlia dell’acerrima nemica di Trump, Hillary, e (forse ex) amica intima di Ivanka Trump, aveva riportato un po’ di calma nelle fila dei liberal clintoniani, scatenati contro Barron. Poco prima Katie Rich, autrice del «Saturday Night Live», aveva addirittura twittato che Barron avrebbe potuto
essere il primo First shooter americano, facendo riferimento al ruolo di figlio del presidente e al drammatico problema degli omicidi di massa nelle scuole. Sospesa dal suo programma, la Rich ha fatto poi pubblica ammenda chiedendo scusa per la battuta troppo audace, perfino per lei, autrice di un programma che non era mai stato tenero con il presidente eletto. L’incidente di comunicazione legato a Barron Trump è la cartina di tornasole del momento complicato che sta attraversando la società americana. Mentre il presidente sembra quasi ossessionato dal numero di persone che hanno partecipato alla sua cerimonia d’insediamento – un problema di autoaccettazione, di riconoscimento di un voto plebiscitario a suo favore, dicono gli analisti – d’altra parte il colorato e confuso corteo di donne (e uomini) che ha sfilato lo scorso il 20 gennaio e che per gli organizzatori, nelle varie città, ha mobilitato più di tre milioni di persone, non ha fatto che sottolineare una contraddizione: più i democratici tentano di allontanarsi da Trump, più finiscono per assomigliargli. La tentazione dei media mainstream è quella di sentirsi
moralmente superiori rispetto a un leader caricaturale, che potrebbe mentire o mente in modo spudorato, che parla di «fatti alternativi» quando l’etichetta giusta sarebbe quella di fake news: «La stampa potrebbe essere tentata – e di gran lunga ricompensata – da una sorta di opposizione isterica, un’imitazione in stile tabloid di Trump e del suo disprezzo per la verità», ha scritto la scorsa settimana Ross Douthat, columnist del «New York Times». L’indignazione permanente può essere utile, a volte, ma rischia di far perdere di vista l’obiettivo politico, che è l’opposizione costruttiva. Douthat cita il sito web d’informazione americano «Buzzfeed», il primo ad aver pubblicato il dossier sulle relazioni tra Donald Trump e la Russia di Putin, quello del «kompromat»: un report di cui si parlava da tempo a Washington ma mai pubblicato da nessun altro prima proprio perché «non verificato» e non verificabile. Quel tipo di giornalismo e quel sistema di diffusione delle notizie non verificate (fatti alternativi?) è lo stesso che ha aiutato Donald Trump a vincere le elezioni. Con la vittoria del candidato repubblicano l’8 novembre scorso, la sinistra
per la prima volta nella storia americana ha messo in discussione il risultato delle elezioni e la legittimità del processo elettorale stesso. Il riconoscimento della sconfitta era invece fino a poco tempo fa una delle caratteristiche peculiari della moralità del sistema democratico statunitense, e l’espressione «non è il mio presidente» pareva quasi una blasfemia. Nel 1980 Jimmy Carter già alle 2 del mattino post elettorale accettò la sconfitta da parte del candidato Ronald Reagan, dicendo che l’America aveva fatto la sua scelta. Tradizionalmente, quando un presidente lascia la Casa Bianca, consegna al successore una lettera in cui viene espressa la più sincera fiducia nella democrazia americana. Così ha fatto Bill Clinton con George W. Bush, e così ha fatto Bush con Barack Obama («Hai un paese intero che ti sostiene, compreso me»). La lettera che l’ultimo comandante in capo ha lasciato a Donald Trump, per qualche motivo, non è stata pubblicata alla stampa e «la terremo per noi», ha detto il presidente. È il segno dei tempi: la dignità e l’eleganza di un presidente non è più motivo di orgoglio per il popolo americano, che preferisce accapigliarsi sugli sbadigli di un bambi-
no di dieci anni – ma, giustamente, mai avrebbero accettato una sola battuta sulle figlie della coppia principesca degli Obama. «Facciamo un esempio. Se un democratico liberale fosse stato eletto presidente e i repubblicani avessero organizzato una manifestazione, avrebbero avuto così tanta copertura da parte della stampa?», si domandava giorni fa Matt Lewis sul «Daily Beast»: «Proprio come Obama ha mandato fuori di testa i conservatori, Donald Trump sembra spingere i suoi avversari sull’orlo della follia». Tra di loro, molte celebrità. Per esempio Madonna, che offrì sesso orale agli elettori di Hillary durante la campagna elettorale e qualche mese dopo era sul palco della più grande manifestazione per la dignità della donna mai organizzata su suolo americano. O l’urlo dell’attore Shia LaBeouf, che con il suo collettivo artistico ha messo in piedi un’installazione di protesta che sarà attiva sempre, fino alla fine del mandato di Trump. Si chiama «He Will Not Divide Us», lui non ci dividerà. Il problema, però, è che l’America sembra ormai irrimediabilmente divisa da una sindrome di superiorità e arroganza che ha ben poco di politico.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Politica e Economia
Dopo il Tpp, è la volta del Nafta Usa-Messico Fra Trump e Nieto è guerra dichiarata: a cominciare dall’avvio della fortificazione del Muro
fino alla rinegoziazione del Nafta, il trattato di libero scambio commerciale fra Usa, Messico e Canada firmato da Bush nel ’92 Angela Nocioni Va di gran corsa l’agenda politico-commerciale di Donald Trump. Il primo a subire gli effetti di questa svolta protezionistica è il Messico. Le dichiarazioni incendiarie sui rapporti che intende avere con il Paese, gli insulti razzisti ai messicani immigrati negli Stati Uniti durante la campagna elettorale e ora il via formale (mercoledì scorso Trump ha firmato l’ordine esecutivo) alla fortificazione di 3100 chilometri di Muro, hanno fatto saltare i nervi al presidente Enrique Peña Nieto. Nieto non parteciperà al vertice con Trump alla Casa Bianca martedì prossimo come previsto. Di fatto Trump sta traducendo nei fatti le parole d’ordine brandite durante la sua corsa alla Casa Bianca.
Il Nord del Messico è ormai una succursale delle produzioni sotto costo statunitensi Ma c’è anche un muro economico fra i due Paesi che sembra diventare sempre più consistente. «Cominceremo a rinegoziare il Nafta, tratteremo su immigrazione e sicurezza alla frontiera» ha detto il neopresidente americano qualche giorno fa. E già l’espressione «cominceremo a rinegoziare» è sembrata ad alcuni osservatori una frenata rispetto alle intenzioni dichiarate in campagna elettorale, durante la quale Trump non ha parlato di trattare alcunché, bensì di voler ampliare il Muro già esistente lungo il confine, di far pagare il costo dell’opera ai messicani e di stracciare il Nafta, (North American Free Trade Agreement). Si tratta dell’accordo economico in vigore dal 1994 tra Stati Uniti, Messico e Canada che creando una unica area senza dazi e senza confini per le merci – diversamente dalle persone le merci possono attraversare senza vincoli la frontiera – ha reso molto convenien-
te per le industrie americane il lavoro a prezzi stracciati in terra messicana e ha disseminato la zona oltre confine di fabbriche delocalizzate, le «maquiladoras». In occasione dell’entrata in vigore dell’accordo, il primo gennaio del 1994, ci fu la levata in armi di una parte della popolazione indigena di uno degli Stati più poveri del Messico, il Chiapas, sotto il comando militare e politico dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale fondato dal sub comandante Marcos che tanta fortuna mediatica ebbe per qualche anno in Europa (meno in patria). Trump ha dichiarato di voler incontrare il primo ministro canadese Justin Trudeau, sempre allo scopo di voler cancellare il Nafta, ma per questo appuntamento una data non c’è ancora. Trump e Peña Nieto si erano visti, a fine agosto, in piena campagna elettorale americana, quando l’allora candidato repubblicano piombò in Messico con una raffica di dichiarazioni minacciose per la diplomazia tra i due Paesi. La visita ha avuto conseguenze complicate per il presidente messicano che appartiene alla destra tradizionale locale e si trova a dover trattare ad armi impari con un vicino tanto potente quanto determinato a stravolgere le relazioni bilaterali tessute negli ultimi decenni. Le parole di Trump in quell’occasione, il suo annuncio di voler deportare in massa gli immigrati messicani e di voler rendere assai sconveniente per le imprese americane delocalizzate in Messico continuare a produrre oltre confine, hanno annichilito Peña Nieto. La minaccia di imporre una tassa del 35% alle aziende americane che realizzano i loro prodotti sotto costo in Messico, per poi rivenderli negli Stati Uniti, il tweet presidenziale rivolto alla General Motors: «Sta mandando le Chevy Cruze costruite in Messico ai concessionari americani, senza tasse. Fatele negli Usa o pagherete grossi dazi!». E soprattutto l’annuncio della Ford di riportare la produzione negli Usa, hanno fatto il resto. La Ford subito dopo Capodanno ha annullato un investimento di 1,6 miliardi di dollari previsto per lo stabi-
Il presidente messicano Nieto e lo statunitense Donald Trump durante una conferenza stampa congiunta a Città del Messico il 31 agosto scorso. (AFP)
limento messicano di San Luis Potosì e ha fatto sapere di voler destinare invece 700 milioni di dollari all’espansione della fabbrica di Flat Rock, in Michigan. La Ford continuerà comunque a costruire in Messico, nell’impianto di Hermosillo. Ma la notizia non può certo rasserenare il governo messicano. In preparazione dell’incontro che avrebbe dovuto avere luogo martedì, Peña Nieto aveva spedito a Washington i suoi ministri degli Esteri e dell’Economia, Luis Videgaray e Ildefonso Guajardo. Videgaray, considerato l’architetto del dialogo fallimentare d’agosto con Trump, proprio a causa di quel disastro perse il posto di ministro dell’Industria. È stato recuperato misteriosamente in extremis da Peña Nieto e fatto ministro degli Esteri. Secondo indiscrezioni insistenti sarebbe stato recuperato proprio su pressione statunitense. A pieno titolo, quindi, sarà interlocutore della Casa Bianca sulla complicatissima agenda bilaterale. Accanto alla questione dell’immigrazione messicana negli Stati Uniti, l’alto argomento in discussione che va a complicare le relazioni fra i due Paesi sarà il Nafta. L’accordo, firmato nel 1992 dal presidente George Bush
insieme all’omologo messicano Salinas de Gortari e al premier canadese Brian Mulroney, entrato in vigore due anni dopo, è un’espansione al Messico del precedente Canada-U.S. Free Trade Agreement del 1989. Ha tolto dazi e altri diritti doganali e le restrizioni al commercio su molte categorie di prodotti, inclusi motoveicoli, componenti di auto, computer, tessili e prodotti agricoli. Ed ha conseguentemente ridisegnato l’economia messicana stravolgendo nel profondo le modalità di produzione, il mercato del lavoro e persino la geografia industriale (e quindi quella degli insediamenti umani) di una grande parte del Paese. Il Nord del Messico è ormai da anni una succursale delle produzioni sotto costo statunitense. Sui costi e i benefici di quell’accordo, la discussione in Messico non s’è mai chiusa. È solo apparentemente paradossale che i simpatizzanti zapatisti, cioè l’estrema sinistra antisistema messicana tendenzialmente anarchica, possa oggi brindare alle intenzioni di Trump, personaggio non proprio in linea ideologica con le analisi politiche del sub comandante Marcos. Ma comunque la si pensi in proposito, è innegabile che una denuncia dell’accor-
do stravolgerebbe l’economia legale del Messico che, per dirne una, ha registrato nel 2015 un volume di interscambio con il suo potente vicino di 114 miliardi di dollari (nel ’93, l’anno prima dell’entrata in vigore del Nafta, il volume di scambio fu di 297 miliardi). E su questo concordano tutti, a destra e a sinistra, tanto in Messico come negli Stati Uniti. La recente decisione di stracciare il Trattato del Pacifico, l’accordo di libero scambio tra gli Usa e altri 11 paesi firmato da Barack Obama, è stato un brutto presagio per Peña Nieto. Il Messico faceva ovviamente parte di quel trattato, che altro non era che un ampliamento del Nafta ad altri Stati, compresi Perù e Cile le cui economie prevedono di risentire pesantemente della novità. La sua cancellazione gli peserà. Ne beneficeranno invece, perlomeno sul breve periodo, Argentina e Brasile che, essendo il tandem trainante dell’altro e più vecchio mercato unico sudamericano, il Mercosur, guadagnano tempo per trattare nuovi accordi e incassano intanto la vittoria insperata di non ritrovarsi relegati al margine della nuova architettura del commercio internazionale. Donald Trump ha tutti i poteri per fare del Nafta ciò che vuole. Gli basta una notifica con preavviso di sei mesi per recedere dall’accordo perché negli Stati Uniti la decisione di notificare il recesso è facoltà presidenziale. Infatti, nonostante la Costituzione americana affidi al Congresso il potere di «regolare il commercio con gli Stati esteri», la gran parte di questo potere è stato di fatto delegato al presidente. Per siglare nuovi accordi commerciali con Stati esteri serve l’approvazione del Congresso, ma per disfare quelli già esistenti basta la firma presidenziale. Qualora il Congresso statunitense fosse contrario a una rinegoziazione del Nafta, e non pare proprio che lo sia, dovrebbe reclamare i poteri delegati con nuove leggi che dovrebbero guadagnare il consenso dei due terzi dei membri di Camera e Senato per superare il volere presidenziale. Scenario assai improbabile al momento.
La Via della Seta arriva in Pakistan
Corridoio economico Il CPEC è un progetto ambizioso ma nasce già segnato dal rischio del terrorismo pakistano Francesca Marino Si chiama China-Pakistan economic Corridor, per gli amici (e i detrattori), CPEC. Il progetto, frutto dell’amicizia «dolce come il miele e profonda come l’oceano» tra Cina e Pakistan, fa parte in realtà di un più ampio progetto cinese, il programma One Belt One Road (OBOR) che mira a ricostituire e ampliare l’antica Via della Seta. In particolare, il CPEC consiste in una serie di autostrade, ferrovie e centrali energetiche che connetteranno Kashgar, nello Xingjang a Gwadar, in Balochistan. Secondo gli accordi presi tra Islamabad e Pechino, i cinesi dovrebbero costruire una nuova autostrada tra Karachi e Lahore, ricostruire la Karakorum Highway, costruire un gasdotto dall’Iran a Gwadar, nuove centrali elettriche per sopperire alla endemica carenza di energia del Pakistan, sviluppare altre fonti di energia a carbone e a gas, costruire oleodotti e gasdotti nel Paese. Sono già in costruzione ottocento chilometri di fibra ottica per sviluppare le comunicazioni nel Gilgit-Baltisan che nelle intenzioni dovrebbe diventare una zona economica speciale.
E poi c’è il porto di Gwadar, finestra privilegiata sul Golfo e sull’Oceano Indiano. L’investimento cinese nel progetto è di circa cinquanta miliardi di dollari e secondo i pakistani produrrà un incremento del 2,5 per cento del Prodotto interno lordo oltre a creare migliaia di posti di lavoro. La prima nave cinese è già arrivata a Gwadar, in Balochistan sventolano bandiere cinesi assieme a quelle pakistane ma, a parte il governo, in Pakistan nessuno crede alle promesse di Pechino. Per costruire strade e infrastrutture per il porto, la terra è stata espropriata senza che i legittimi proprietari abbiano ricevuto alcun compenso. Non solo: i posti di lavoro promessi sono andati, nel caso del Balochistan, a lavoratori «importati» da altre province pakistane e non ai locali. Nella sola provincia sono stati dislocati tredicimila soldati per «proteggere» i lavoratori cinesi e i loro investimenti. La stessa cosa succede nel Gilgit-Baltisan, altra regione militarmente occupata dalle truppe nazionali. La grande via dell’amicizia cino-pakistana attraversa difatti per tre quarti regioni in subbuglio: lo Xingjang cinese, dove la minoranza Uighuri
viene costantemente schiacciata: ed è interessante notare per inciso come il Pakistan, così attento a supportare i fratelli musulmani e i loro diritti, non abbia mai speso una parola per i musulmani Uighuri. Il corridoio attraversa il Gilgit-Baltisan, dove lo Stato brilla per repressione della minoranza sciita, per occupazione militare del territorio e per assoluta noncuranza verso i bisogni della popolazione. Attraversa il Kashmir pakistano per arrivare infine in Balochistan, i cui cittadini si rifiutano di considerarsi pakistani e di riconoscere l’autorità di Islamabad sulla provincia annessa a forza all’epoca della formazione del Pakistan. I ribelli separatisti annunciano ritorsioni e attentati, dichiarando di avere contatti con ribelli nel Kashmir pakistano e nel Gilgit-Baltisan. La Cina controlla ormai saldamente il Pakistan, sia in senso economico che politico e Islamabad, sempre più isolata politicamente e dipendente a livello economico dalla buona volontà altrui, deve volente o nolente ballare al ritmo di Pechino. Nella abituale miopia indocentrica di un Paese governato di fatto dall’esercito che per giustificare la sua stessa esistenza ha bisogno di un
nemico alle porte, l’alleanza con i cinesi e la costruzione del CPEC è per i pakistani uno schiaffo non da poco all’India e un avvertimento a Washington colpevole di intrattenere rapporti sempre più stretti con New Delhi. In realtà, i cinesi continuano ad offrire all’India la possibilità di entrare nel CPEC e nel progetto di connettività delle regioni in questione: l’India, però, non ha intenzione di giocare al gioco di Pechino. Giorni fa, nel suo discorso inaugurale della seconda Raisina Dialogue Conference a Delhi, il premier Narendra Modi ha ribadito un concetto semplice semplice: nessuno ha chiesto il parere dell’India prima di decidere la costruzione delle rete di strade di cui sopra in una regione contesa. Anzi, ha messo in chiaro per l’ennesima volta che New Delhi considera il Kashmir pakistano «territorio indiano illegalmente occupato da Islamabad». Stringere le mani ai cinesi per la costruzione del CPEC significherebbe implicitamente accettare lo status quo, e l’India non ha alcuna intenzione di farlo. Non solo: ha intenzione di controbattere mossa per mossa, come dimostra la firma con l’Iran e con l’Afghanistan di un accordo capace di rivoluzionare e
cambiare per sempre il volto del commercio in tutta l’area geopolitica: l’India aprirà difatti una linea di credito da settecento milioni di dollari per sviluppare il porto iraniano di Chabahar, nel sud-est dell’Iran. Porto che si affaccia sull’Oceano indiano e si trova nella regione del Sistan-Baluchistan, al confine con il Baluchistan pakistano e a soli settanta chilometri da Gwadar. E però, sembra che Pechino cominci a rendersi conto di aver cacciato le mani in un nido di vespe e di aver in qualche modo sottovalutato i problemi pratici creati dal solito guazzabuglio pakistano di terroristi buoni e cattivi: oltre agli autoctoni che combattono contro il governo centrale, in Pakistan si trovano al confine con l’Afghanistan anche combattenti e gruppi Uighuri che hanno come unico obiettivo la Cina e gli interessi cinesi in Pakistan. Così, si verifica in questo momento una situazione alquanto paradossale: mentre Pechino sostiene il Pakistan a livello internazionale e spinge per la costruzione delle varie parti che compongono il CPEC, sigilla di fatto il confine dichiarando che, come anche i sassi prevedevano, è facile per terroristi di ogni genere entrare nel Paese.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Politica e Economia
Inferno bianco in Centro Italia
Catastrofe naturale Una sequenza sismica senza precedenti e una nevicata mai vista culminata con una valanga
Una sequenza sismica senza precedenti e una nevicata mai vista a memoria d’uomo: questi gli ingredienti del dramma che ha sconvolto una vasta regione del Centro Italia, l’antica terra dei Sabini fatta di montagne e di valli, costellata di centri abitati carichi d’arte e di storia. Un dramma culminato nella valanga che ha travolto un albergo sulle pendici del Gran Sasso. Il paese si è stretto attorno alle vittime, ha seguito col fiato sospeso le operazioni di ricerca dei superstiti (foto), ha applaudito ogni volta che un sopravvissuto emergeva dalle macerie o dalla neve, e gli uomini del Soccorso alpino stemperavano nell’entusiasmo l’ansia e la fatica. Ma poi è esplosa la polemica: certo, i terremoti sono imprevedibili, ma la nevicata? I meteorologi non avevano forse avvertito che nella seconda metà di gennaio una perturbazione vasta e prolungata avrebbe portato tanta neve sul versante adriatico dell’Appennino? E quell’albergo «incastonato fra le montagne della catena del Gran Sasso, circondato da pendii boscosi», come recita la presentazione sulla rete e sui pieghevoli, non fu forse costruito sul prevedibile percorso delle slavine, per di più su un terreno instabile, ghiaia e detriti, residui di una valanga di ottant’anni or sono? Proprio attraverso quei pendii sono precipitate sulla struttura decine di migliaia di tonnellate di neve. L’albergo è rimasto sepolto con il suo carico umano, addirittura scivolando a valle per una decina di metri. E così si chiamano in causa non soltanto l’organizzazione dei soccorsi e i tempi lentissimi di riattivazione delle linee elettriche, ma anche le modalità di rilascio delle licenze edilizie e il controllo delle eventuali situazioni critiche. La polemica investe soprattutto i ritardi burocratici, al punto che Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anti-corruzione, si chiede se questi attacchi non nascondano l’inconfessato desiderio di avere mano libera negli appalti per la ricostruzione.
L’Italia preme su Bruxelles affinché l’Ue collochi l’emergenza terremoto al di fuori dei vincoli finanziari e liberi risorse per affrontare il gravoso carico di spesa Talvolta la polemica assume i caratteri dello sciacallaggio: la responsabilità dei ritardi, frutto di normative accumulatesi nei decenni, viene scaricata direttamente sui governi in carica, e così prima Matteo Renzi quindi Paolo Gentiloni che gli è succeduto lo scorso dicembre sono investiti da critiche feroci. Il tema del terremoto viene inserito fra gli slogan politici: il capo leghista Matteo Salvini accusa il governo di privilegiare i
Keystone
Alfredo Venturi
migranti rispetto alle vittime del sisma. L’ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso oltrepassa i limiti del buongusto attaccando chi è stato chiamato al suo posto. Eppure Bertolaso era in carica nel 2009, quando un altro terremoto devastante colpì L’Aquila e numerosi centri abitati della provincia, con esiti del tutto simili a quelli dell’emergenza attuale. Gentiloni invita il paese all’unità e pone l’accento sullo straordinario lavoro delle squadre di soccorso, che operano in condizioni così difficili. Effettivamente è arduo immaginare un contesto meno favorevole all’intervento, dopo che metri di neve hanno ricoperto le aree terremotate. Anche prima era difficile, fin dal 24 agosto, quando una scossa di sei gradi Richter inaugurò la sequenza devastando Amatrice, Norcia e altri centri fra Lazio, Umbria e Marche. Fu subito chiaro che l’assistenza alle frazioni più remote, collegate da strade dissestate dal terremoto, avrebbe messo a dura prova i mezzi e gli uomini della Protezione civile. Anche perché i misteriosi movimenti delle faglie, gli scontri sotterranei di materiali sospinti dall’avanzamento verso nord della placca africana, continuavano a ripercuotersi in superficie con una serie interminabile di scosse. Poi arrivarono i tremendi sobbalzi di fine ottobre, sei gradi e mezzo il più forte, una scarica potentissima di energia che si accanì sulle case superstiti e sulla macerie non ancora rimosse. Intanto arrivavano i primi freddi, un problema supplementare per tutti coloro che non avevano voluto allontanarsi, preferendo accamparsi nei container e nelle tende predisposti accanto ai paesi distrutti. Ma soprattutto per
gli abitanti delle frazioni isolate, molti dei quali privi di contatti telefonici e di energia elettrica: le scosse avevano fatto cadere molti tralicci e molte case resteranno al buio troppo a lungo. Tenuto sotto stretta osservazione dai sismologi, il continuo tremore indicava che il fenomeno tellurico si andava lentamente spostando verso sud, culminando nelle quattro scosse di oltre cinque gradi Richter che il 18 gennaio hanno colpito la zona in rapida successione. Intanto su tutto questo cadeva copiosa la neve. Raggiungere i luoghi più lontani, riparare le linee elettriche, diventava sempre più problematico. Esemplare il caso dell’albergo Rigopiano, un resort a quattro stelle frequentato da personalità dello spettacolo come il regista Giuseppe Tornatore e l’attore George Clooney. C’erano quaranta persone fra ospiti e personale. Spaventati dalle continue scosse decidono di andarsene. Ma la strada che scende tortuosa dai 1200 metri dell’albergo è impraticabile per la neve. Poco male: alle tre di quel pomeriggio arriverà il mezzo per sgombrare il passo. Dovrebbe arrivare: in realtà si muoverà più tardi, gli ospiti attendono nell’atrio con le valigie pronte, ma proprio durante l’attesa si scatena il finimondo. Probabilmente destabilizzata da una scossa, un’enorme quantità di neve scivola tuonando lungo i «pendii boscosi» che sovrastano l’albergo e lo seppellisce sospingendolo a valle. Due persone che erano uscite a fumare assistono impotenti, uno di loro allerta la prefettura di Pescara: l’albergo è sparito, c’è dentro la mia famiglia! Inizialmente non gli danno retta, per qualche arcana ragione si ritiene che la notizia sia una bufala, in-
somma si perde tempo prezioso: altra fonte di rabbiose polemiche. Finalmente le squadre di soccorso raggiungono l’albergo e si mettono al lavoro. Scavano pozzi nella neve per raggiungere il tetto dell’edificio o ciò che ne resta, poi praticano aperture per calarsi all’interno. Lavorano in condizioni di pericolo: da un momento all’altro potrebbe muoversi un’altra valanga. Si mettono in salvo nove persone, ogni volta un applauso liberatorio. Un profondo silenzio accoglie invece i corpi senza vita. Non tutti hanno avuto la fortuna di trovarsi in una delle bolle d’aria che hanno salvato i superstiti. Anche qui si aprono interrogativi che danno la stura alle polemiche: il pericolo di valanghe era non solo evidente ma anche segnalato tre giorni prima del disastro, perché non si è provveduto all’evacuazione? Perché non si è dato retta all’amministratore dell’albergo, che poche ore prima aveva denunciato la «situazione preoccupante» chiedendo un rapido intervento? Polemiche anche per una vignetta di «Charlie Hebdo» dal gusto quanto meno discutibile: vi è raffigurata la morte in discesa libera sugli sci, con tanto di falci al posto dei bastoncini. Mentre gli uomini impegnati a Rigopiano continuano il loro lavoro, ben determinati a frugare in ogni angolo alla ricerca di altri superstiti (trovano tre cani, cuccioli in ottima salute, buon segno…), si fa strada un’altra preoccupazione. La temperatura sta salendo, questo significa che la neve diventa instabile e si potrebbero staccare nuove slavine. Non solo: lo scioglimento potrebbe creare problemi di eccessiva portata dei torrenti e dei fiumi, con pericolo di esondazioni. Certo ce ne vorrà di
tempo per smaltire le masse nevose che si sono accumulate su queste montagne: se un drastico innalzamento della temperatura dovesse accelerare il processo saranno guai seri. Per tacere di un’altra insidia: nell’area terremotata ci sono numerose dighe con i relativi invasi fra i quali il vasto lago di Campotosto. Si teme che le continue scosse abbiano reso instabili i declivi sovrastanti, con il rischio di frane che riversando neve e terra nell’acqua potrebbero farle scavalcare la sommità dello sbarramento. È quello che si chiama effetto Vajont, dal nome della diga al centro del disastro del 1963, quando l’ondata provocata da una frana la superò precipitando a valle e andando a distruggere l’abitato di Longarone con la morte di quasi duemila persone. Una riunione di tecnici esclude questa possibilità, assicurando che la guardia è alta e la situazione sotto controllo. Già oppresso dalle ben note difficoltà di bilancio e dal peso enorme del debito, il governo italiano preme su Bruxelles perché l’Unione Europea collochi l’emergenza terremoto al di fuori dei vincoli finanziari, liberando risorse per affrontarne il gravoso carico di spesa. Un segnale incoraggiante giunge da Pierre Moscovici, commissario europeo per l’economia e la moneta. Il sisma che ha colpito l’Italia, dice Moscovici, ha carattere sistemico e in questo modo va considerato. Proprio così, è una maledizione che incombe da sempre su queste montagne ballerine. Fin dai tempi di Marco Terenzio Varrone, l’intellettuale sabino che con il suo De re rustica inneggiò ai valori non solo economici dell’agricoltura locale, oggi prostrata da una diabolica congiura della terra e del cielo. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Politica e Economia
Imposizione delle imprese: un rompicapo
Votazioni federali Fra gli oggetti in calendario il 12 febbraio anche la terza riforma fiscale varata dalle Camere
federali e contestata da socialisti, verdi e sindacati – Secondo gli oppositori costerà miliardi alle casse pubbliche, secondo i sostenitori evita la perdita di decine di migliaia di impieghi e costi miliardari alle assicurazioni sociali
Alessandro Carli La Riforma III dell’imposizione delle imprese, in votazione il 12 febbraio prossimo, mira a sopprimere la tassazione ridotta delle società con statuto speciale, non più compatibile con i nuovi standard internazionali. Per evitare un forte aumento dell’imposizione di queste società, la riforma introduce nuove misure di sgravio fiscale, soprattutto per scongiurare delocalizzazioni che comporterebbero una perdita di posti di lavoro e un calo del gettito per Confederazione, Cantoni e Comuni. Tuttavia, queste nuove misure di sgravio preoccupano sinistra, Verdi e sindacati, che hanno lanciato con successo il referendum, temendo perdite fiscali miliardarie, a scapito di enti pubblici e cittadini, in particolare del ceto medio. Su questa materia, per molti cittadini sicuramente quasi incomprensibile, fautori e contrari si battono a suon di cifre, di studi congiunturali e di scenari anche catastrofici. In un’intervista al domenicale «Schweiz am Sonntag», il ministro delle finanze Ueli Maurer ammonisce: «Se vince il no, lancio immediatamente un programma nazionale di risparmio per miliardi di franchi nei prossimi anni». «Se rifiuteremo la riforma – aggiunge – perderemo impieghi e avremo zero possibilità di crearne di nuovi». Maurer sottolinea invece che «un sì apporterà alla Svizzera una quantità incredibile di sicurezza finanziaria». Le società con statuto speciale offrono circa 150’000 posti di lavoro e generano quasi il 50% delle imposte versate dalle persone giuridiche (in prevalenza società anonime) alla Confederazione e circa il 20% di quelle versate a Cantoni e Comuni. Orbene, l’imposizione ridotta cui sono sottoposte è fonte di crescenti pressioni internazionali sulla Svizzera. Questo privilegio fiscale per le aziende non è più tollerato. Bruxelles ha addirittura minacciato di collocare Berna su una lista nera. Da qui, la necessità della riforma.
Il ministro delle finanze Ueli Maurer minaccia di varare risparmi miliardari in caso di un no alle urne Il ministro delle finanze ricorda che da alcuni anni la Svizzera soffre di una mancanza di creazione di nuove imprese, dovuta all’attuale insicurezza giuridica nei confronti dell’Unione europea. Una bocciatura popolare della Riforma III, darebbe – secondo Maurer – un segnale «assolutamente devastante». Consiglio federale e maggioranza parlamentare sono consapevoli che la soppressione dell’imposizione ridotta
non possa essere effettuata senza nuovi «incentivi» fiscali. Per mantenere l’attrattiva del Paese, intendono dunque introdurre rapidamente nuove misure in uso a livello internazionale. La riforma mira a preservare la competitività della piazza economica elvetica. Dell’abolizione delle agevolazioni fiscali sono interessate 24’000 aziende (società holding e di gestione), presenti in Svizzera, ma attive a livello multinazionale. Per evitare, a causa dell’abolizione di questo privilegio fiscale, che si trasferiscano all’estero, sono previste diverse soluzioni, tra cui i cosiddetti «patent box», strumenti che consentono un’imposizione privilegiata degli utili da brevetti e diritti analoghi (sgravio del 90% al massimo). Per la ricerca e lo sviluppo è prevista una deduzione maggiore rispetto alle spese effettivamente sostenute (150% al massimo). Una mossa del tutto esagerata, secondo gli oppositori. Tra le varie misure di «compensazione» si parla pure di imposta sull’utile con deduzione degli interessi sul capitale proprio, nonché di limitazione dello sgravio. E qui si entra decisamente in una materia di tecnica fiscale, ai più incomprensibile, ciò che ha portato i fautori del referendum a parlare di «espedienti fiscali poco trasparenti», che pochi specialisti riescono a capire. Per il Comitato contrario alla riforma, in caso d’accettazione il 12 febbraio, la stessa concederebbe solo nuovi privilegi fiscali alle grandi aziende e ai principali azionisti, provocando ogni anno perdite fiscali per 3 miliardi di franchi, con soppressione di prestazioni per scuole, anziani e sicurezza. A risentirne sarebbero gli enti pubblici, che avrebbero a disposizione meno soldi, e i contribuenti che si vedrebbero aumentare le imposte. La prima grande riforma della fiscalità delle imprese risale al 1997, quando venne diminuita l’imposizione per le società holding. Nel 2008, la seconda riforma, accolta dal 50,5% dei votanti, ridusse le tasse per gli azionisti. Sollevò però aspre critiche: mentre il Consiglio federale aveva annunciato minori entrate dell’ordine di 84 milioni di franchi, il Partito socialista (PS) aveva invece rivelato che le stesse ammontavano a diversi miliardi, 7 per la precisione! Aveva così chiesto una nuova votazione, sostenendo che il popolo era stato gabbato. Sia il Tribunale federale che il governo si rifiutarono però di procedere in questo senso. Il Consiglio federale promise tuttavia correttivi, presentati in questa terza riforma. Di fronte a questi precedenti, non stupisce lo scetticismo dei promotori del referendum: non solo a causa delle incomprensibili espressioni usate nella presentazione delle nuove misure di politica fiscale, ma anche perché nemmeno questa volta si conoscono con
Veduta di Zurigo, cuore economico della Svizzera. (Keystone)
precisione le conseguenze finanziarie della nuova riforma. Secondo i presidenti del PS, Christian Levrat, e dei Verdi, Regula Rytz, il progetto in votazione costituisce una sorta di «scatola nera», tanto che nessuno è in grado di dire con esattezza a quanto ammonterà la fattura finale. Nell’opuscolo informativo, il Consiglio federale afferma che l’aumento della quota cantonale dell’imposta federale diretta (920 milioni) e il contributo complementare per i Cantoni finanziariamente deboli (180 milioni) causano alla Confederazione minori entrate annue di 1,1 miliardi di franchi. Il Governo sottolinea prudentemente che «le ripercussioni finanziarie globali della riforma dipendono da molti fattori, tra i quali figurano le decisioni di politica fiscale dei Cantoni e degli altri Paesi». Insomma, al di là dei citati 3 miliardi di franchi, Berna naviga a vista, pur sostenendo che senza una riforma fiscale la Svizzera sarebbe meno attrattiva per le imprese, correndo il rischio che le società con statuto speciale potrebbero trasferirsi altrove, con perdite fiscali non quantificabili, ma certamente ben superiori. Ad alimentare l’incertezza su questa complicata e controversa riforma, vi sono le recenti dichiarazioni fatte al «Blick» dall’ex consigliera federale Eveline Widmer-Schlumpf, sebbene gli ex ministri, una volta lasciata la carica, non dovrebbero intervenire in materia di politica federale. Oltre a difendere la naturalizzazione agevolata degli stranieri della terza generazione, pure in votazione il prossimo 12 febbraio, nell’intervista l’ex consigliera federale mette
in cattiva luce la Riforma III dell’imposizione delle imprese, di cui ne è stata l’artefice. L’ex ministra delle finanze ricorda che «non si tratta più (ovviamente) dello stesso pacchetto sottoposto dal Governo al Parlamento». Pur non rivelando come voterà, la signora Widmer-Schlumf sostiene che la riforma, con gli aspetti supplementari introdotti dal Nazionale, non è più equilibrata. La valutazione delle conseguenze – sottolinea – si fa ancora più difficile e le perdite saranno superiori rispetto a quanto calcolato nel progetto iniziale. Non si conosce il fine recondito che ha spinto l’ex ministra grigionese a criticare questa «sua creatura». Vero è che le sue dichiarazioni sollevano ulteriore scetticismo e non portano acqua al mulino dei fautori, in particolare del ministro delle finanze Ueli Maurer, strenuo sostenitore della riforma. Immediata la risposta di quest’ultimo, secondo cui le esternazioni dell’ex consigliera federale sono «completamente sbagliate», mentre la consigliera nazionale Magdalena Martullo-Blocher (UDC/ZH), figlia dell’ex consigliere federale Christoph Blocher al quale la grigionese aveva «fatto le scarpe», le ha definite «irresponsabili». I Cantoni sono favorevoli alla terza riforma, anche se potrebbero perdere a loro volta 2 miliardi di franchi. Occorre infatti chiedersi – ha sottolineato il consigliere di Stato del Giura Charles Juillard, presidente della Conferenza cantonale dei direttori delle finanze – a quanto ammonterebbe la perdita «se non si facesse nulla». Si tratta di un sacrificio accettabile per scongiurare cattive sorprese. Per il presidente della
Conferenza dei Governi cantonali JeanMichel Cina (VS), la riforma ha infatti il pregio di tutelare i posti di lavoro in Svizzera e il gettito fiscale che ne deriva. Economiesuisse e Usam dipingono addirittura scenari catastrofici. In caso di «no» alla riforma, non solo verrebbero soppressi quasi 200’000 impieghi con perdite miliardarie per Confederazione, Cantoni e Comuni, ma occorre anche contare oltre 5 miliardi di perdite per le assicurazioni sociali, di cui «non si è finora tenuto conto». Secondo uno studio dell’Istituto di ricerca congiunturale Bakbasel, la posta in gioco di questa votazione è «enorme»: l’accettazione della Riforma III garantisce a lungo termine una creazione di valore pari a 160 miliardi di franchi e circa 850’000 posti di lavoro. In altri termini – aggiunge l’istituto renano – con l’adattamento del sistema fiscale sono in gioco «un quarto del Pil svizzero e un impiego su cinque». Il quesito rimane irrisolto: accogliere le proposte di non facile comprensione della riforma, con perdite che nessuno è in grado di quantificare, oppure bocciare il progetto e correre il rischio di avere conseguenze finanziarie ancora più pesanti e partenze «eccellenti»? Un vero e proprio rompicapo, che trova conferma anche nei pronostici. Secondo il sondaggio pubblicato a inizio gennaio per contro della SSR, i «sì» sarebbero il 50%, i «no» il 35% e gli indecisi il 15%. Diverso l’esito del secondo sondaggio online di Tamedia: i «sì» e i «no» alla Riforma III sarebbero in perfetta parità, entrambi attorno al 45%. Insomma, l’incertezza regna sovrana. Annuncio pubblicitario
Un gusto paradisiaco da condividere
Novità
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Politica e Economia
Uno studio conferma: prezzi svizzeri i più alti in Europa
Confronti Uno studio in collaborazione con Eurostat conferma e anzi accentua il divario di prezzi fra la Svizzera
e la media europea. Particolarmente alti risultano i prezzi di alcuni settori pubblici Ignazio Bonoli Che la Svizzera sia un paese dai prezzi al consumo molto alti è cosa nota. Vi sono però differenze talvolta notevoli tra i vari tipi di consumo e perfino da regione a regione. Per avere un’idea più vicina alla realtà, l’Ufficio federale di statistica ha svolto nel 2015 un’indagine, in collaborazione con l’analogo ufficio europeo (Eurostat), i cui primi risultati sono stati pubblicati lo scorso 20 dicembre.
È a causa della decisione della BNS del gennaio 2015 che i prezzi svizzeri sono molto alti rispetto alla media europea L’anno 2015, sotto certi aspetti, può essere considerato un anno molto significativo sotto l’aspetto prezzi al consumo. Infatti, il 15 gennaio 2015 la Banca nazionale Svizzera ha decretato l’abbandono ufficiale della politica di freno della rivalutazione del franco nei confronti soprattutto dell’euro. Il tasso di cambio della moneta europea è così sceso a 1,07 franchi, contro gli 1,22 franchi del 2014. Si ricorderà che la BNS aveva compiuto molti interventi per impedire una discesa del tasso di cambio dell’euro sotto gli 1,20 franchi. L’abbandono di questa difesa ha spinto gli indicatori dei livelli dei prezzi svizzeri ancora più in alto, al punto da superare perfino la Norvegia, che nel 2014 deteneva il primato dei prezzi più alti in Europa. Non si era invece notato l’effetto diretto della diminuzione dei prezzi all’importazione, se
Nell’educazione e nella formazione i prezzi svizzeri raggiungono il massimo divario con quelli della media europea. (Keystone)
non in casi particolari come, per esempio, quello delle automobili. Solo più tardi si è poi notato un calo generalizzato dei prezzi. I dati presentati dall’Ufficio federale di statistica sono molto interessanti, poiché pongono a confronto i prezzi in Svizzera, divisi per settori, con quelli di 28 paesi europei, sulla base di una lista unitaria di beni e servizi. Essi tengono conto anche di eventuali differenze nella qualità e nella disponibilità confrontabili. Nelle valutazioni si considerano anche le specificità nazionali, formando panieri di
spesa non identici, ma rappresentativi. Così – ad esempio – un paniere di spese per generi alimentari e bevande non alcoliche che, nella media europea, viene a costare 100 euro, in Svizzera costerebbe 184 franchi. Per tener conto del tasso di cambio del franco, questa parità viene divisa per 100. Si calcola così l’indice dei prezzi che nel caso specifico risulta di 172. Un po’ sopra il 100 per la Germania, più alto per Francia e Italia, e ancora più alto per l’Austria. Come si vede, con questo calcolo ponderato, i prezzi in Svizzera, rispetto alla media
europea, sono – anche nel caso di generi alimentari – ben più alti della valutazione globale citata all’inizio. La situazione non cambia, ma anzi peggiora, in altri settori. L’unico campo in cui i prezzi in Svizzera sono vicini alla media europea, e perfino inferiori a quelli di Germania e Francia, è quello delle sottocategorie della corrente elettrica, del gas e altri combustibili, dove la Svizzera si situa al 102% della media europea. Un divario enorme può invece essere trovato nella sottocategoria delle cure stazionarie della salute (ospedali, ecc.), nella qua-
le i prezzi in Svizzera salgono al 273% della media europea. Solo l’Austria ha un indice superiore al 150%, mentre l’Italia è nella media e Germania e Francia sono leggermente superiori. Un altro primato svizzero è particolarmente evidente nell’educazione e formazione, settori nei quali i prezzi svizzeri sono del 267% della media europea. Solo l’Austria supera ancora una volta il 150%, mentre Germania e Francia sono vicine alla media, con l’Italia che è invece inferiore alla media europea. Parallelamente alle cure in ospedale, in Svizzera anche le cure della salute in generale sono molto più costose: 214% rispetto alla media europea, mentre gli altri paesi sono vicini al 100%. Ancora una volta l’Austria supera questa media, ma solo del 30% circa. Infine, per quanto concerne l’altro settore importante, cioè quello dell’abitazione, il livello dei prezzi in Svizzera è molto elevato (187%) rispetto alla media europea. In Germania e Francia è leggermente superiore, mentre è leggermente inferiore in Italia e Austria. In Svizzera non manca di creare una certa sorpresa il fatto che anche beni e servizi forniti dallo Stato sono molto alti. Lo si vede nel settore educazione e formazione, nonché nelle cure stazionarie. Prezzi che potrebbero in parte venir compensati da un livello di tassazione inferiore alla media europea, mentre i salari sono più elevati. Vi sono però anche settori pubblici (per esempio la sicurezza) che costano meno. La pubblicazione definitiva dei dati dello studio potrebbe fornire spunti interessanti alla discussione sui prezzi in Svizzera.
Spesa alimentare, quo vadis? Consumi 2 Il peso della variabile «cibo» è sempre meno gravoso per il consumatore medio, almeno nei Paesi
avanzati, ma è lungi dall’essere trascurabile Edoardo Beretta Il concetto di «carrello della spesa» in epoche di elevata finanziarizzazione o, anche solo volgendo lo sguardo al settore reale, di rapida affermazione dell’ambito terziario sembrerebbe non abbisognare di particolari approfondimenti. Spese alimentari e, prima ancora, sostentamento hanno rappre-
sentato bisogni essenziali dell’umanità − quindi, potrebbero ormai essere dati per «acquisiti». Tale approccio parrebbe trovare ulteriore conforto teorico nella cosiddetta «piramide dei bisogni di Maslow», con cui lo psicologo americano suddivise gerarchicamente nel 1954 le necessità individuali «coronate» idealmente dall’autorealizzazione. Margine di dubbio, poco, quindi. Anno di rilevazione
Bielorussia
35,56
2013
Burkina Faso
57,30
2011
Francia
13,48
2013
Germania
10,13
2013
Italia
14,64
2013
Regno Unito
8,55
2014
Stati Uniti d’America
6,69
2013
Svizzera
8,85
2012
Ucraina
37,53
2014
Percentuale di spesa per alimenti (sul totale dei consumi) delle economie domestiche. (Elaborazione propria)
Se ci si limitasse a ciò, difficilmente si potrebbero però spiegare i nuovi trend alimentari oltre che il ritorno nel Ventunesimo Secolo all’attenzione per il «carrello della spesa». Sebbene sia generalmente vero che al crescere del reddito medio, l’incidenza delle spese alimentari diminuisca, è altrettanto che il consumatore sia con il tempo divenuto sempre più sensibile a origine, qualità e caratteristiche del prodotto acquistato: in altri termini, la variabile «prezzo» non è necessariamente più l’unica ad essere determinante nel processo decisionale. Se si possono individuare distinzioni di esigenze fra la platea dei consumatori in base a fasi e stili di vita, istruzione e benessere economico, è altrettanto vero che l’acquirente «moderno» vuole essere sempre più informato. Il cibo è, dunque, negli ultimi anni ritornato alla ribalta sociale e mediatica − forse aiutato anche dalle molteplici trasmissioni di successo a sfondo culinario. Tornando alla piramide di Maslow inizialmente menzionata, si ha piuttosto l’impressione che essa si sia rimodellata in circuito, in cui il raggiungimento dell’ultimo step (cioè di autorealizzazione) non esclude ripensamento o interessamento rinnovato per i primi «gradini» (fra cui per l’aspetto alimentare). Delle due l’una: o l’approdo a tale «condizione ideale»
induce a rileggere le conquiste pregresse in chiave diversa – nello specifico, facendo assurgere la stessa nutrizione a stile di vita, modo di essere, occasione di incontri − o, qualora non si fosse ancora pervenuti al vertice della piramide, ci si concentri sull’affinamento di quei bisogni fino ad allora considerati soddisfatti. Ecco che le spese alimentari ritornano ad essere (anche nelle società più evolute) scelta importante − magari non in termini economici a fronte degli incrementi della capacità d’acquisto individuale, ma certamente per «peso» sociale: sottovalutarle sarebbe un grave errore per il settore retail. Per assurdo, potrebbe essere la globalizzazione ad avere reso il consumatore − in questo suo «ritorno alle origini» (cf. bisogni fisiologici nella piramide di Maslow) − sempre più consapevole ed attento a tematiche ambientali, brevità della filiera di fornitura e sostenibilità da affiancare all’immutata rilevanza del prezzo finale. Dotati di questa nuova conoscenza, sarebbero molti i settori a disporre di margini d’azione migliori per parare «colpi» di crisi o restrizioni nella fornitura di prodotti intermedi. Sfruttando poi la (sempre più frequente) richiesta del consumatore «tipo» di potere accedere a prodotti sostenibili e, laddove possibile,
con una qualche attinenza territoriale, molti gangli contrattuali potrebbero presto ritrovarsi sempre più «svincolati» da rischi di fornitura derivanti da costose (e, talvolta, difficili) importazioni estere. Se non meraviglia che il «peso» della spesa alimentare nelle società più ricche tenda a diminuire, è anche vero che i dati statistici spesso non rispecchiano appieno la realtà: ad esempio, il junk food, cioè il cosiddetto «cibo spazzatura», non ci caratterizza certamente per prezzi elevati – per cui, nelle società, in cui lo stesso abbia preso prepotentemente piede, ne fa diminuire il «peso» economico nella voce di spesa alimentare. Ciò non toglie che la sfida per il venditore del Ventunesimo Secolo (o «2.0», utilizzando una formula davvero abusata) sia proprio la creazione di un legame saldo (e credibile) fra modernità e tradizione, convenienza e qualità, territorialità ed intercontinentalità. Certo è, però, che considerare la spesa alimentare limitatamente alla sua incidenza statistica nel paniere di consumi individuali (e, quindi, derivarne la diminuita importanza) sarebbe fuorviante. Per quanto paradossale il ritorno «modernizzato» alle origini possa sembrare, esso è un altro «scherzo» della globalizzazione, che non smetterà certo presto di stupirci.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Più riflessioni che soluzioni Dalla fine del 2015 il direttore del Dipartimento delle finanze e dell’economia ha creato un tavolo di lavoro per discutere dello sviluppo dell’economia ticinese. Questa commissione era composta dai capogruppi del Gran Consiglio, dai rappresentanti dei datori di lavoro e dei sindacati, nonché da tre economisti dell’USI. La commissione ha presentato di recente il suo rapporto conclusivo. In questo rapporto la stessa riassume l’evoluzione dell’economia e della politica economica degli ultimi 50 anni e propone un inventario di 37 misure per favorire lo sviluppo futuro. Queste misure sono raccolte in 5 gruppi ognuno dei quali dovrebbe corrispondere a tematiche o dimensioni importanti del futuro sviluppo economico del Cantone. Si tratta delle seguenti tematiche: il Ticino imprenditoriale, il Ticino competitivo, il Ticino interconnesso, il Ticino digitale, il Ticino sostenibile. Qualcuno che per mestiere fosse particolarmente dotato di senso critico
potrebbe trovare che sia un po’ esagerato identificare l’economia ticinese con il Ticino. D’altra parte però è anche evidente che se, come figura nell’introduzione al rapporto, per lo sviluppo della sua economia il Ticino ha bisogno di un «patto di paese», l’identificazione dell’economia (la parte) con il Ticino (il tutto) potrebbe anche apparire come una sineddoche giustificabile. A me sembra, più semplicemente, che questa identificazione sia un’ulteriore testimonianza dei passi indietro che lo Stato sta facendo nei confronti dell’economia privata. Ma torniamo ai cinque gruppi di misure. Non è sempre facile capire perché una determinata proposta di misura sia stata classificata sotto un certo tema piuttosto che sotto un altro. Ci sono poi proposte, come quelle che riguardano il progredire della digitalizzazione, che riguardano tutte le tematiche elencate nel rapporto. Le carenze maggiori di questo elenco di possibili misure è che lo stesso non
indica, ad eccezione delle misure già in atto, quando le proposte elencate potrebbero venir realizzate. Anche per quel che concerne la fattibilità delle misure (specialmente in termini di costi per il pubblico erario), sul come e da chi le stesse potrebbero essere realizzate il rapporto rimane muto. Si può tuttavia pensare che siccome il tavolo di lavoro è stato voluto dal nuovo consigliere di Stato, responsabile della politica economica, questo elenco costituisca di fatto l’insieme delle misure economiche che lo stesso vorrebbe concretizzare nel paio di legislature in cui resterà in Consiglio di stato. Se fosse così è certo che il lavoro non gli mancherà. Per mancanza di spazio non ci addentreremo nel catalogo delle proposte. Ci limiteremo ad osservare che una buona parte delle stesse dovrebbero servire a far conoscere meglio le soluzioni ottime, quando ce ne sono. Altre riprendono interventi che già sono stati sperimentati con successo in altre regioni del paese. C’è
poi una lista di buone intenzioni che, sinceramente, lascerà il tempo che trova. Infine, come si è già ricordato, ci sono misure che sono già operative. Non manca ovviamente l’accenno alle riforme fiscali sia per le persone giuridiche, sia per quelle fisiche. Il nostro giudizio sull’insieme del rapporto non è molto positivo. Si ha l’impressione che le misure siano state dettate da addetti ai lavori preoccupati più dell’urgente e dell’immediato che di quello che potrebbe succedere nel lungo termine. Un rapporto finale che si limita ad elencare una serie di misure assomiglia di più al risultato di un brainstorming con il quale avviare la discussione che alla valutazione ponderata sul da farsi elaborata da una commissione che ha lavorato per più di un anno. Infine osserviamo che chi pensasse di poter trovare qualche indicazione sui problemi di lungo termine come l’invecchiamento della popolazione, la svolta energetica, gli effetti della limitazione
delle immigrazioni, il ridimensionamento della piazza finanziaria, l’isolamento economico della Svizzera – e quindi anche del Ticino – dal resto del continente europeo o l’insostenibilità del processo di sviluppo attualmente in atto, resterà deluso. Terminiamo con una valutazione d’assieme. Il tavolo di lavoro del Dipartimento delle finanze e dell’economia perseguiva tre obiettivi: confrontarsi con la situazione economica, condividere una visione di sviluppo futura e identificare alcuni ambiti di intervento. Dei tre obiettivi quello che è stato centrato nel modo migliore è il primo. Se il futuro è quanto potrebbe succedere nei prossimi tre decenni, gli altri due sono invece stati trattati in modo insoddisfacente. Diverso il giudizio se per futuro si intende il periodo nel quale resterà in carica l’attuale consigliere di Stato, responsabile di questo dipartimento: allora si deve riconoscere che il tavolo di lavoro di carne al fuoco ne ha messa forse troppa.
perché la sua formula ha nel tempo mostrato il fianco a limiti grandi, che hanno determinato la rabbia e il rancore di buona parte della popolazione occidentale. E al momento una riformulazione di una dottrina liberale adatta a questi anni – non più una rivisitazione di ricette degli anni Novanta – non c’è, così senza leader e senza idee si rischia di rituffarsi ancora più indietro, agli anni Sessanta e Settanta, negando gli effetti della globalizzazione. Il Labour britannico è l’espressione perfetta di questo istinto retrogrado: Jeremy Corbyn non riesce a trovare un modo di fare opposizione nemmeno alla Brexit, che dovrebbe essere piuttosto semplice, basterebbe essere europeisti, ma questo Labour non lo è più così tanto, come non lo era appunto negli anni Sessanta e Settanta. C’è un aneddoto relativo a quegli anni che spiega cosa sta accadendo anche oggi. Nel 1962, l’allora leader del Labour Hugh Gaitskell, durante la conferenza
di partito a Brighton, ricevette un applauso enorme alla fine di un discorso in cui disse che l’integrazione europea avrebbe portato «alla fine di migliaia di anni di storia inglese». La moglie, Dora, si avvicinò al marito durante l’ovazione e gli disse nell’orecchio: «Tesoro, stanno applaudendo tutte le persone sbagliate». Ecco, anche oggi, in questa confusione di applausi e alleanze trasversali, con l’America trumpiana che rifiuta la globalizzazione e si richiude su se stessa, con la Russia che ormai esplicitamente lavora per sovvertire l’ordine liberale europeo, le sinistre d’Europa (anche le destre, ma si vede un po’ meno) restano schiacciate e si affidano a istanze nazionaliste per conservare qualche consenso. Prendono applausi sbagliati. Anche a livello europeo, dove tutte le contraddizioni esplodono con più rumore, si assiste a spettacoli confusi: Gianni Pittella, leader dei socialisti e dei democratici dell’Unione europea,
sta confezionando un piano programmatico contro il cosiddetto «turbocapitalismo» che, come si sa, in Europa non è nemmeno così turbo. I socialisti francesi non sono più convinti che l’accordo commerciale tra Europa e Canada sia così ottimale – e hanno già contribuito ad affossare il Ttip, l’accordo transatlantico di libero scambio tra Ue e Stati Uniti. C’è la tentazione a sinistra di rincorrere il populismo, ma come dice l’innominabile Blair in questa lotta la sinistra non ha chance di battere la destra, soccomberà comunque. In Francia sta accadendo anche qualcosa di diverso: cresce la candidatura di Emmanuel Macron, ex ministro dell’Economia con Valls che ha lanciato lo scorso anno il suo movimento En Marche. Macron non è di destra né di sinistra, è europeista e liberale. Se la sua ascesa dovesse consolidarsi, sarebbe un vantaggio per i moderati e riformatori, ma che le sinistre europee festeggino, beh, questo è piuttosto improbabile.
portante, quella Germania che deve rieleggere il suo cancelliere se vorrà navigare incurante dei movimenti populisti e dei fantasmi che i tedeschi, con la riunificazione, pensavano di aver sepolto per sempre in un passato senza ritorno. Un nuovo presidente lo deve scegliere anche la Francia che ogni cinque anni ritrova i nodi non sciolti del gollismo: in bilico fra una sinistra forte nell’autoproclamazione (dire) ma debole nei suoi «leader» (fare) e una destra che sfarfalla fra estremismo (promesso un referendum per uscire dall’Ue) e populismo, una Francia perennemente incapace di compiere il passo verso larghe intese politiche che consentano governi stabili e programmi credibili. Su queste fragilità pesa anche la decisione della Gran Bretagna di voltare le spalle all’Unione europea: Brexit potrebbe diventare la falla che Bruxelles non può più controllare, soprattutto se a fianco del premier Theresa May si muoverà la tonitruante figura di un Trump deciso a porre
fine alla gratuità del servizio che gli americani da 70 anni garantiscono all’Europa con la Nato a coprire i costi / debiti di una difesa comune sempre più difficile da gestire e anche da disegnare. Aggiungete a queste incognite quelle non meno delicate che riguardano la Turchia di Erdogan, la Russia di Putin e le difficoltà economiche che stanno incontrando i paesi del Mediterraneo, e si scoprono i rischi per l’Europa «di dividersi in tanti pezzetti in lotta fra di loro, con nuove potenze meno benigne pronte a prendere il suo posto», proprio come ammoniva l’«Economist». Cambiamenti epocali, alleanze e accordi che saltano, convergenze negative, crisi dell’Europa: era tutto imprevedibile? Qualcuno non è d’accordo: «In questo momento poi, l’Europa è piuttosto una nazione governata da una dieta assoluta; o vogliamo dire sottoposta ad una quasi perfetta oligarchia; o vogliamo dire comandata da diversi governatori (…) Non solo non c’è più amor patrio, ma neanche patria. Anzi neppur
famiglia. L’uomo, in quanto allo scopo, è tornato alla solitudine primitiva. L’individuo solo, forma tutta la sua società. Perché trovandosi in gravissimo conflitto gl’interessi e le passioni, a causa della strettezza e vicinanza, svanisce l’utile della società in massima parte; resta il danno, cioè il detto conflitto, nel quale l’uno individuo, e gl’interessi suoi, nocciono a quelli dell’altro, e non essendo possibile che l’uomo sacrifichi intieramente e perpetuamente se stesso ad altrui, (cosa che ora si richiederebbe per conservare la società) e prevalendo naturalmente l’amor proprio, questo si converte in egoismo, e l’odio verso gli altri, figlio naturale dell’amor proprio, diventa nella gran copia di occasioni che ha, più intenso, e più attivo». L’italiano forse non è più quello di oggi, ma il «survey» socio-politico sull’Europa che ci viene trasmesso, con tanto di accenni a individualismo e populismi, è di straordinaria attualità: l’ha scritto Giacomo Leopardi nel suo Zibaldone, due secoli fa.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Che succede alle sinistre europee? Di scossone in scossone, le sinistre europee sono entrate in una notte di idee che non accenna a finire. I riformatori sono in grande crisi: Matteo Renzi, ex premier italiano, cerca di trovare una nuova via per rilanciare il Partito democratico, ma ancora pesa la sconfitta referendaria e la consapevolezza che con quel voto l’Italia abbia dimostrato di non avere poi così tanta voglia di cambiamento. In Francia Manuel Valls, ex premier socialista, paga il prezzo di un governo che ha tentato di iniettare energie riformatrici, ma è stato trattenuto – o si è trattenuto – a causa di una continua guerra interna al partito, che lo ha sfibrato nei rapporti e nello slancio. I socialdemocratici tedeschi, che in anni di grande coalizione con i conservatori di Angela Merkel hanno visto erodersi gli spazi di manovra (mangiati dalla stessa cancelliera), cambiano il loro leader ora, e pensano di affidarsi a Martin Schulz, appena tornato da Strasburgo, dopo l’esperienza di presidente
del Parlamento europeo. È presto per dire come questa scelta influenzerà il corso della campagna elettorale tedesca (si vota il 24 settembre), certo è che il profilo di Schulz non è quello di un riformatore. Anzi, volendo azzardare un’analisi, si può dire che con il suo background cosiddetto «popolare», Schulz sia fatto apposta per cercare di fermare l’avanzata del partito anti immigrazione Afd, provando a fare da argine a un’ennesima erosione di consensi nella middle class. Comunque sia, la vena liberale a sinistra non sembra prossima a un risveglio, in Germania. Bisogna ammettere che fare i liberali oggi è difficile: con la sconfitta di Hillary Clinton negli Stati Uniti e l’uscita di scena di Barack Obama, questa sinistra globalizzatrice è rimasta senza leader. In Europa se si nomina Tony Blair, ex premier inglese testimonial della stagione liberale sul Continente, si finisce per litigare: non lo ama nessuno, Blair. Per la guerra in Iraq, certo, ma anche
Zig-Zag di Ovidio Biffi Europa, continente fragile Vedo su schermi e giornali immagini con il presidente cinese Xi intento a degustare la fondue. Alla sua sinistra Didier Burkhalter lo invita a sprofondare la forchetta con il pane nella miscela, alla sua destra la moglie lo sbircia preoccupata. Atmosfera ideale per scordare che la Cina rimane una delle incognite dello scenario politico internazionale. Forse è per questo che nella mente, quasi come monito, riaffiora la citatissima metafora del battito d’ali di una farfalla in Cina che può generare tempeste in Occidente. Di colpo sono nel mezzo della politica estera, cioè in qualcosa che, con i suoi mutamenti e drammi, oggi contribuisce a far lievitare le nostre incertezze e le nostre paure. Ne parlo solo per questo, non per impartire lezioni o suggerimenti che non possiedo, solo per cercare di capire il momentaccio che stiamo passando. In un editoriale di quest’estate, l’«Economist», commentando il voto a favore di Brexit, aveva annunciato che la decisione del popolo inglese avrebbe
tolto l’ultimo velo a quella che il settimanale definiva «una nuova grande divisione politica (…) che avrebbe soppiantato quella tradizionale fra destra e sinistra» e messo al suo posto i concetti di «apertura» e di «chiusura». Pochi mesi dopo, con Donald Trump alla Casa Bianca, come primattore di questa nuova divisione politica (sposterà gli Usa sulla sponda dell’antiglobalizzazione, se non su quella dell’isolazionismo), con il suo omologo cinese Xi che al WEF di Davos perora la difesa della globalizzazione (e nessuno a ricordargli che la Cina è uno dei paesi più protezionisti del mondo), abbiamo una conferma di questo cambiamento e ci chiediamo quale ruolo riuscirà a svolgere l’Europa nello scontro «apertura – chiusura». La sfacciataggine iconoclastica di Trump e i «battiti d’ali» liberaleggianti di Pechino raggiungono l’Unione europea in un momento già costellato di incognite che condizionano l’azione e i programmi dei suoi principali attori. A iniziare dal suo asse
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Cultura e Spettacoli Sebalter, voglia di musica Abbiamo incontrato il cantautore ticinese per capire come è nato il suo nuovo album
La bellezza precolombiana Nel Palazzo della Gran Guardia di Verona una ricca esposizione ci permette di scoprire alcuni tesori artistici della cultura Maya
Pinocchio a Milano La versione teatrale del capolavoro di Carlo Collodi ne trasforma la fisionomia
Chiuso il Festival di Soletta La rassegna cinematografica ha come sempre offerto uno sguardo aperto sul mondo pagina 25
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Gianfranco Zappettini La trama e l’ordito n.12, 2009 (particolare).
Quando la pittura indaga se stessa Mostre Alla Galleria Primae Noctis di Lugano le opere di Gianfranco Zappettini Alessia Brughera Quella che viene chiamata Pittura Analitica, definizione intercambiabile con Pittura Pittura, Nuova Pittura o Astrazione Analitica, non è stata un vero e proprio movimento artistico. Si è trattato più che altro di un sentire comune, di una tendenza, sviluppatasi negli anni Settanta, nata dalla volontà di salvaguardare la disciplina pittorica come mezzo espressivo, reagendo alla diffusa propensione a considerarla ormai obsoleta. In un momento in cui da più parti la ricerca si stava difatti orientando verso strumenti alternativi a quelli tradizionali, secondo i precetti sostenuti dalle correnti concettuali, alcuni artisti scelgono invece di rimanere fedeli alla pittura e di concentrare il loro linguaggio sulla sua sostanza fenomenica, cioè il colore, la tela e il telaio. A interessarli sono il processo creativo e la fisicità del fare. L’obiettivo è quello di affrancare la pittura da significati sottesi e dal legame con la realtà per renderla oggetto d’indagine di se stessa: alla base c’è l’analisi delle sue componenti materiali e del rapporto
che intercorre fra l’opera concreta e il suo autore. Le prime prove di Pittura Analitica si hanno in Europa e negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni Sessanta, ma la vera affermazione arriva dopo il 1970. Sono ricerche che riconoscono il proprio debito nei confronti dell’Astrattismo storico, soprattutto di Piet Mondrian, e dell’Espressionismo astratto americano di Rothko, Newman e Ad Reinhardt. In ambito francese, ad esempio, esplorano una nuova ragion d’essere della pittura artisti quali Daniel Buren, Niele Toroni o Michel Parmentier, in America condividono i medesimi intenti Robert Ryman, Brice Marden o Robert Mangold. Questa tendenza ad affrontare i fondamenti del «fare pittura» trova terreno fertile anche in Italia nel lavoro di una nutrita compagine di artisti che ha i suoi precursori nelle figure di Rodolfo Aricò e Mario Nigro. Tra i principali esponenti del variegato gruppo di italiani sensibili a questa tematica di rinnovamento spicca il nome di Gianfranco Zappettini, il cui interesse si è indirizzato fin dagli esordi verso una pittura intesa come
linguaggio autonomo che può manifestarsi solo a partire da una riflessione sui suoi elementi primari, da una sorta di «grado zero» che diventa condizione necessaria per la sua rinascita. Una mostra alla Galleria Primae Noctis di Lugano presenta alcuni lavori di questo artista che ha contribuito in maniera determinante con le sue opere, ma anche con i suoi scritti teorici, alla ridefinizione della forma espressiva pittorica. Zappettini nasce a Genova nel 1939 ed è nel fermento culturale del capoluogo ligure degli anni Sessanta che muove i suoi primi passi, a cominciare dalla preziosa frequentazione dell’architetto tedesco Konrad Wachsmann, allievo di Walter Gropius, da cui assimila quella pulizia formale, quell’ordine e quel senso dell’equilibrio che sono alla base della sua cifra stilistica. Per Zappettini il confronto tra la propria ricerca e quella dei colleghi che con lui spartiscono aspirazioni e propositi è continuo, con uno sguardo particolare rivolto all’ambiente artistico tedesco e olandese, a cui si sente più affine.
Quando nel 1971 viene invitato a esporre al Westfälischer Kunstverein di Münster nella collettiva «Arte Concreta in Italia», curata dal critico Klaus Honnef, è già ravvisabile nei suoi dipinti l’esigenza di sondare la pittura condensandola ai minimi termini. Nascono così, nel 1973, i suoi quadri «bianchi», in cui su una tela tinteggiata di nero applica con un rullo da imbianchino una serie di mani di acrilico bianco fino a nascondere completamente il colore di partenza. L’idea è quella di presentare la pittura come puro lavoro e meticoloso studio delle sue strutture. Di poco successive sono le «tele sovrapposte», opere con cui Zappettini prosegue la sua prassi di annullamento della pittura nel procedimento creativo. Qui, nell’aggiunta degli strati di tela, un quadrato riempito di grafite 2b si riduce a semplice contorno a matita di un campo vuoto. Accanto ad alcuni lavori di quegli anni di assidua indagine, la mostra luganese raccoglie un più consistente nucleo di dipinti di recente realizzazione, esiti di un percorso che ha visto l’artista avvicinarsi alle dottrine orientali e
trarre ispirazione dalla metafisica per intraprendere un cammino spirituale di ritorno alle proprie radici. Il ciclo di opere degli anni Duemila è espressione della maturazione interiore dell’artista e del suo bisogno di armonia. In questa serie dall’emblematico titolo La trama e l’ordito, Zappettini riscopre la tradizione dell’arte del macramè, caratteristica della sua terra ligure, creando dipinti che richiamano gli eleganti intrecci ornamentali di quel tipo di ricamo per farne il mezzo con cui ordinare il caos della materia. La superficie pittorica viene trattata come un tessuto, diventando uno spazio che accoglie colori intensi dalle forti valenze simboliche – il rosso della conoscenza e della passione, il blu del silenzio – e che si fa rifugio di un’anima che ha imparato ad abbandonarsi completamente all’euritmia del cosmo. Dove e quando
Gianfranco Zappettini. Primae Noctis Art Gallery, Lugano. Fino al 15 febbraio 2017. Orari: da lu a ve 10.00-18.00, sa su appuntamento. www.primaenoctis.com
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Cultura e Spettacoli Sebastiano Paulessi, aka Sebalter. (Stefano Sala)
Le meditazioni di Brian Eno CD Ad appena pochi mesi di distanza dalla
sua ultima opera, il re della musica «ambient» torna sulla breccia Benedicta Froelich
Melodico nell’anima
Incontri A colloquio con il musicista ticinese Sebalter, che ha deciso
di ritornare alla sua grande passione con un nuovo album
Laura Di Corcia Ci incontriamo a Lugano, vicino al Lac. Lui arriva prima, mi aspetta seduto al bar con un libro in mano e un giornale. Accendo il registratore e partiamo. Inizio con un tono scherzoso, e così vado avanti. Lui sta al gioco, ma risponde prendendosi sempre il suo tempo. Il tempo, in fondo, è il filo conduttore di questa intervista che Sebastiano Paulessi, in arte Sebalter, mi ha concesso in occasione dell’uscita del suo nuovo album. L’ultima volta che ti ho intervistato mi avevi detto che avevi messo la testa a posto, che volevi impegnarti nella tua professione di giurista e guardare alla musica come a un hobby da svolgere nel tempo libero; e invece...
L’aspetto musicale, soprattutto per me che sono anche scrittore e compositore, è soggetto a flessioni: accanto a momenti di grande creatività, ci sono periodi di magra. Non è come un lavoro in cui ti alzi alle otto del mattino, fai le tue nove ore e sei a posto. Non vivo la musica in termini di produzione, ma di espressione, quindi la faccio solo quando ho qualcosa da dire. Quando ci siamo incontrati per l’altra intervista era un momento particolare: uscivo dall’esperienza dell’Eurovision, molto intensa, e avevo bisogno di un momento di pausa per il mio benessere creativo. La musica mi ha però sempre accompagnato: nel corso dell’ultimo anno ho suonato parecchio, senza però scrivere testi.
Ad aprile di quest’anno, la vena creativa si è riaperta. Come e perché?
Non c’è stato un motivo scatenante, le cose arrivano quando meno te le aspetti. Io non stavo cercando nulla, se tu mi avessi contattato un anno esatto fa ti avrei detto che non stavo scrivendo niente, che il mio impegno musicale si concretizzava solo nei vari concerti. Poi verso marzo ho scritto una canzone, Lights (contenuta nel nuovo album, ndr), un testo ambientato a
Bellinzona, mentre salgo in collina verso il castello e osservo la città che dorme. Tutto è un circolo, ci sembra di andare da qualche parte e invece torniamo sempre al punto di partenza. Questa canzone mi ha sbloccato: ho iniziato a scrivere il secondo testo, il terzo, il quarto; ho ripreso in mano vecchi brani che non mi sembravano pronti e li ho risistemati. A un certo punto ho sentito che era arrivato il momento di fare un nuovo cd. Weeping Willow, «salice piangente», è il titolo del nuovo singolo: che cosa racconta questa pianta?
Del salice piangente mi colpiscono da sempre i rami lunghi e flessibili; nel testo dico che seguo il vento come quei rami, che però sanno di essere ancorati al terreno. È una metafora che insegna a lasciar andare le cose come devono andare; spesso ci fossilizziamo troppo nel passato e nei ricordi, mentre la sfida è vivere il presente, il qui e ora. Sento odore di taoismo.
Più che altro mi sento buddista (dice, e mi mostra il titolo del libro che ha fra le mani: Shambhala. La via sacra del guerriero, di Chögyam Trungpa). Torniamo al nostro salice: che cosa radica Sebastiano Paulessi?
L’autoascolto. Ho sempre avuto la curiosità di esplorare posti nuovi, sono sempre stato un curioso; ho tentato varie strade, anche se ho sempre avuto paura di perdere tempo. Non a caso una canzone dell’album si intitola Time. Ma può voler dire tutto e niente: prima per me perdere tempo significava non scrivere abbastanza canzoni, oggi riguarda di più l’ascolto di me stesso. Questo processo, che si è attivato negli ultimi due anni, ha portato in fondo alla nascita di questo nuovo cd. Questo album, a partire dal titolo, mi sembra più introspettivo rispetto al primo.
A livello musicale in realtà è più dinamico, perché ci sono diversi colori; se invece ci concentriamo sui testi, sì, hai ragione,
c’è più riflessione. Il primo cd è nato a ridosso dell’Eurovision, un momento, ripeto, molto intenso, ma dove tutto si muoveva in modo estremamente veloce: questo album, che è più maturo nel suono, ha avuto una gestazione più lunga, costante e regolare. Non ho avuto nessun tipo di pressione e questo si sente. C’è una linea, un trait d’union che collega le tracce. Non è proprio un concept ma ci si può avvicinare. Si apre col suono di una sveglia e si chiude con una dichiarazione, «I’m happy». Non avrai tradito il pop folk!
No, figuriamoci. Però ho aggiunto un po’ di elettronica; c’era già prima, ma ho aumentato le dosi. Relativamente, certo: i suoni elettronici rimangono sempre sullo sfondo. Cosa ti interessa di più in questo momento a livello musicale?
Sto ascoltando delle cose che fino a qualche tempo fa non avrei preso in considerazione. Un esempio? Weekend, che è fortemente pop con delle influenze soul. Questa pulizia estrema del suono mi convince anche in altre band orientate sul pop-elettronico. Il mio grande amore, ad ogni modo, rimane il folk, che ascolto un po’ in tutte le salse.
Come in una sorta di periodica conferma del fatto che i nomi «over 60» della scena musicale internazionale restino i più affidabili (almeno per quanto riguarda la costante produzione discografica e l’intrinseca qualità della loro offerta), il primo disco a vedere la luce nel neonato 2017 è nientemeno che il nuovo lavoro firmato dal grande Brian Eno: colui che, dopo una militanza nel glam rock con i Roxy Music, ha a tutti gli effetti inventato la cosiddetta musica «ambient», trascendendo la semplice elettronica per sperimentare una complessa gamma di suggestioni, volte a catturare aspetti particolarmente sfuggenti della natura umana e del suo difficile rapporto con la folle società moderna. Argomenti e predilezioni che, nel corso di decenni costellati di molteplici collaborazioni e avventure discografiche, Eno non ha mai abbandonato: tanto che, ad appena nove mesi di distanza dal precedente The Ship, l’artista inglese torna alla carica con questo nuovo Reflection, pubblicato il primo di gennaio e già acclamato dalle principali riviste di settore in lingua inglese, e non solo. Un album quieto e introspettivo, che sembra incitare l’ascoltatore a una silenziosa autoanalisi (suggerita, in fondo, dal titolo stesso del CD), quasi in un tentativo di catturare la nostra immaginazione per portarci a rallentare il ritmo, distaccandoci da quanto ci circonda. Forse proprio per questo, il disco segue la falsariga del celebre Thursday Afternoon (1985), e si compone perciò di un’unica, lunga traccia di cinquantaquattro minuti, dal titolo, appunto, di Reflection; un espediente tramite il quale Eno dimostra ancora una volta come il suo particolare modo di fare musica ambient sia diverso da quello di qualsiasi suo seguace. Infatti, utilizzare questo CD come semplice melodia di sottofondo sarebbe, in verità, un vero spreco, in quanto lo spessore degli arrangiamenti e delle soluzioni armoniche del buon Brian rimane tale da innalzare ogni suo sforzo ben al di sopra dell’usuale standard di quella che lo stesso artista aveva, un tempo, definito come «musica da aeroporti» (dal titolo del suo seminale album del 1978). Così, in Reflection ritroviamo molte delle predilezioni stilistiche di Eno, a partire da un uso raffinatissimo non soltanto delle sonorità elettroniche dei sintetizzatori, ma anche delle campane tubulari e del vibraphone, il tutto condito da una certa predilezione per la tecnica dell’eco: un cocktail che ha spinto uno dei recensori a descrive-
re quest’opera come «infinita musica techno-utopica da ascensori». E per quanto la definizione calzi a pennello, bisogna però ammettere che l’album pecca di una delle colpe forse più invalidanti per una qualsiasi opera d’arte, ovvero l’eccessiva autoindulgenza: infatti, dopo la prima metà del disco, ciò che appare lampante all’ascoltatore non è soltanto la fascinazione di cui il sound di Eno è, come sempre, permeato, ma anche il fatto che la struttura musicale dell’unica, lunghissima traccia del CD appare talmente rarefatta da risultare a tratti quasi soporifera, e l’esasperante lentezza delle soluzioni melodiche dà quasi l’impressione che il disco venga suonato a velocità rallentata, distorcendo e prolungando ogni nota; con il risultato che l’effetto chill out («rilassante») per il quale questo genere musicale è rinomato, viene portato alle estreme conseguenze, rischiando di frenare la pur ipnotica esperienza sonora. Forse conscio di questo rischio, Eno ha voluto accompagnare la pubblicazione di quest’album con l’uscita di una (costosa) app, progettata al fine di ampliare e modificare, tramite la creazione algoritmica di infinite variazioni sul tema, la melodia e la struttura stessa di Reflection, il tutto a discrezione dell’ascoltatore: un’idea che evidenzia una volta di più la peculiare visione dell’artista relativamente al ruolo dell’arte sonora e all’architettura stessa della propria musica, da lui considerata come costantemente passibile di modifica e cambiamento, al punto da rendere l’opera qualcosa di così fluido e impermanente da potersi evolvere all’infinito, in accordo con i desideri dei singoli fruitori. Intenzioni senz’altro interessanti, le quali però non nascondono il fatto che, per quanto Reflection sia comunque un lavoro di alta qualità, come sempre degno del suo autore, la sua vaga pretenziosità finisca per dare origine a una certa noia. Certo, chi segue Eno da tempo potrà confermare come la sua arte abbia sempre avuto una connotazione un poco «snob», per così dire; eppure sarebbe sbagliato supporre che questa elitaria raffinatezza abbia mai reso l’artista ridondante o ripetitivo, almeno in passato. Anche per questo, possiamo solo restare in attesa di vedere su quali dettami stilistici Brian Eno deciderà di concentrarsi per il suo prossimo esperimento discografico, così da scoprire se l’eccesso di enfatica meditazione che ha caratterizzato Reflection sia per lui soltanto un vezzo passeggero o, piuttosto, una nuova e dichiarata direzione stilistica.
Hai seguito la vicenda del Nobel a Bob Dylan?
Non molto: mi ha colpito di più la morte di Leonard Cohen, mi ha messo malinconia. È la vita. Certo è che ci ha lasciato un patrimonio di canzoni sorprendente. Che cosa ti ha dato e che cosa ti ha tolto il canton Ticino?
Quello che mi ha dato, a inizio carriera, è stata l’opportunità di portare la mia musica nelle radio. Non è scontato: qui abbiamo delle radio che ti ascoltano e che sono molto entusiaste. Non credo che il Ticino mi abbia tolto nulla. Beatles o Rolling Stones?
Ho un trascorso rockettaro, ma sono melodico nell’anima. Quindi Beatles senza dubbio.
Il nuovo disco è disponibile anche come doppio LP. (www.brian-eno.net)
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Cultura e Spettacoli
Un’antica bellezza mozzafiato
Una ricetta a base di principi vegetali contro il naso chiuso. Sinupret extract libera.
Mostre Nel Palazzo della Gran Guardia
di Verona un affascinante percorso per scoprire l’espressione figurativa dei Maya
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Maschera funeraria (600-900 d.C.), giada, ossidiana e conchiglia. (Museo Arqueológico de Campeche)
Un’infilata di saloni in un antico palazzo del centro storico all’ombra dell’Arena. Al suo interno una serie di vetrine e di installazioni corredate da semplici didascalie, che presentano 250 reperti artistici e architettonici provenienti da vari musei messicani e riguardanti la cultura Maya, sviluppatasi tra la penisola dello Yucatàn, Belize, Guatemala, Honduras e El Salvador in un periodo compreso tra il II millennio a.C. e la metà del ’500, quando un pugno di spagnoli guidati da Hernan Cortez conquistò l’intero Messico. Questa in sintesi la spoglia mostra di Verona – riferita soprattutto al Periodo Classico e Post-classico – che reca un titolo accattivante quanto generico: «il linguaggio della bellezza», prendendo a pretesto il fatto che il corpo umano è rappresentato in quasi tutte le manifestazioni artistiche dei Maya con intenti estetici: sui monumenti, sulla ceramica, sulle sculture, sulle stele, sulle pitture murali (nella caratteristica scrittura con glifi) e sulla pelle stessa degli attori tramite tatuaggi o scarificazioni rituali. Rappresentazioni antropomorfe, zoomorfe, di elementi della natura o di esseri mitologici che vanno visti sì con un occhio di riguardo per la bellezza intrinseca della quale sono portatori, ma in una visione antropologica moderna anche quali testimonianze di una cultura che si rapporta al complesso mondo dei simboli, tra l’altro in continua evoluzione come del resto lo sono tutte le culture. Per questo, credo, la visita di una mostra andrebbe integrata con letture di testi appropriati (ne esistono per tutti i livelli di curiosità) ed eventualmente con conoscenze dirette della realtà; nel caso dei Maya i loro discendenti sono tuttora una componente essenziale del patrimonio culturale del Messico moderno. I Maya sono noti per la loro inconfondibile scrittura, tra l’altro decifrata solo il secolo scorso, per le conoscenze matematiche e per i sistemi di calendario dei quali si è tanto parlato, a sproposito, nel 2012 quando gli apocalittici paventavano una presunta fine del mondo. Ma da qualche tempo vi è da parte degli studiosi un grande interesse anche per le rappresentazioni artistiche dei Maya, «a partire dall’individuazione dei maestri, delle scuole e degli stili con la possibilità di rapportarsi alle opere attraverso una lettura storico-artistica e non solo archeologica» dei ritrovamenti. Un’operazione
che ricalca analoghe iniziative messe in campo nel passato per studiare illustri culture dell’antichità. La mostra di Verona, organizzata quasi vent’anni dopo la più famosa che si tenne a Venezia, è divisa in quattro sezioni tematiche: il corpo come tela (i vari significati delle acconciature e delle pitture corporali), il corpo rivestito (abiti, copricapi e gioielli quali simboli di regalità o potere), i rapporti con il mondo animale (simboli cosmici e magici) e i rapporti con le divinità (l’aldilà e le forze occulte che governano le vite degli uomini). Il racconto si snoda grazie alla presenza in mostra di oggetti di grande valore artistico e culturale, frutto anche di scoperte recenti, accompagnati da testimonianze classiche della cultura maya: sculture in pietra, stele monumentali, elementi architettonici, figure grandi e piccole in terracotta, vasi, maschere in giada, collane e gioielli vari, strumenti musicali, incensieri e testi che sono dedicatori o celebrativi. Tra i pezzi più importanti c’è una testa che ritrae Pakal il Grande da giovane (fu re di Palenque e visse tra il 603 e il 683 d.C.), una maschera composta da diverse tessere di giada con inserti di ossidiana e conchiglie che veniva posta sul volto del re defunto per garantirgli il passaggio nell’aldilà, un ritratto di adolescente in pietra calcarea ritrovato sul sito di Cumpich del Periodo Classico Tardo (600-900 d.C.) e una figura di grandi dimensioni con un prigioniero portastendardo da Chichén Itzà. Ma credo che ognuno possa e debba, per gustare la mostra, lasciarsi sorprendere dalle forme talvolta fantastiche e dai colori dei vari oggetti esposti, come la grande terracotta con un uomo-scimmia urlante che reca nella mano destra un pennello e nella sinistra la conchiglia per l’inchiostro, a significare la passione dei maya per la scrittura artistica, certo riservata alle élite, con la quale venivano comunque ricoperti i monumenti civili e religiosi; o lo strano animale dal muso lungo, ritto sulle zampe posteriori che guarda di sottecchi, immortalato mentre cerca di nascondersi dietro quelle anteriori in un gesto spontaneo di pudore.
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Maya, un linguaggio per la bellezza. A cura di Karina Romero Blanco. Verona, Palazzo del Gran Guardia. Fino al 5 marzo 2017. Catalogo Piazza Editore e Kornice srl. www.mayaverona.it
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Marco Horat
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Cultura e Spettacoli Un momento delle prove: al centro il regista. (piccoloteatro.org)
Uno strano caso che ha fatto storia Cinema e letteratura Dal romanzo
alla pellicola, il mito dell’uomo e della sua doppia personalità
Nicola Mazzi
Il Pinocchio di Latella, pretenzioso e confuso Teatro Una riscrittura a sei mani del capolavoro di Collodi
Giovanni Fattorini Nella sua introduzione a Le avventure di Pinocchio (BUR, 1976), Pietro Citati scrive: «Possiamo leggere Pinocchio sia come una crudele storia realistica, sia come una storia esoterica». Personalmente sono propenso a leggerla come una storia realistica, e condivido appieno le considerazioni con cui Citati sigilla, in quell’introduzione, il nitido ritrattino di Collodi: «Nessun libro è più toscano del suo. La conoscenza amara, crudele e senza luce della realtà, la riduzione di ogni fantasia, di ogni sogno, di ogni favola, di ogni desiderio infantile, di ogni mostro leggendario entro limiti più famigliari (solo Collodi poteva entrare nel ventre di una balena per ritrovarvi gli odori di una trattoria fiorentina): la perfetta geometria della costruzione, della narrazione e del dialogo, – tutto questo fa delle Avventure di Pinocchio il capolavoro della letteratura toscana dopo Galileo». Naturalmente non mi sfugge che a partire dal sedicesimo capitolo – dove compare la «bella bambina dai capelli turchini» – il protagonista sembra percorrere una diversa strada, che molti definiscono «iniziatica». Ma anche dopo l’entrata in scena della figura femminile in cui Citati vede «l’immortale Signora degli Animali, La Regina delle Metamorfosi, la prudente e scrupolosa Tessitrice dei destini» (e che per Giorgio Manganelli è la «querula, anche crudele, […] paziente, irriducibile nemica del burattino Pinocchio»), ciò che più mi interessa, mi colpisce, mi seduce, è l’asciuttezza della scrittura collodiana, la concretezza delle immagini, la sobria descrizione di esterni e interni toscani della seconda metà dell’Ottocento. Non c’è memoria alcuna di tali luoghi nella scena di Giuseppe Stellato: un ampio spazio dove spesso nevica e non splende mai la vivida luce
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
dei giorni di sole. Sospeso a mezz’aria, parallelo al proscenio, attira subito l’attenzione un grande tronco (che mi ha ricordato quelli del Macbeth e del Faust di Nekrosius), dal quale si stacca e cade a terra il ciocco che racchiude in sé lo spirito di Pinocchio. A sinistra, verso il fondo, una lastra metallica e due vecchie macchine da rumorista proclamano fin dal principio, e con fragore: «Questo è metateatro». (Quando si deciderà concordemente, nella Repubblica teatrale italiana, che per cinque anni almeno non si debba più riproporre la logora formula registica del «teatro nel teatro»?). Tra i pochi grandi oggetti presenti sulla scena ha particolare rilievo un bancone munito di sega circolare, dal quale fuoriesce a fatica, come al termine di un parto laborioso, il Pinocchio del trentenne Christian La Rosa, interamente vestito di nero (boxer, T-shirt, calze, scarpe, mezziguanti, nonché ginocchiere e gomitiere che simulano le articolazioni del burattino) e con appeso al collo – per ricordarci la sua natura lignea, vegetale – il ciocco da cui è stato estratto e che lo accompagnerà fin quasi alla fine. Un Pinocchio che non si trasformerà nell’angelico, malinconico e ben pettinato fanciullo dell’ingannevole locandina. Il Pinocchio inscenato da Antonio Latella e prodotto dal Piccolo Teatro di Milano non è uno spettacolo per bambini. In una conversazione, pubblicata nel programma di sala, fra Andrea Bajani e Antonio Latella (costantemente inclini al reciproco elogio), diverse affermazioni mi sono sembrate confuse o contestabili. Nel Pinocchio neo-nato di Latella, ad esempio, io non vedo «il generatore instancabile di linguaggio» che a detta di Bajani «sabota il mondo sbagliando la grammatica». Ci vedo invece un facitore di giochetti linguistici al tempo stesso troppo consapevoli e banali, che in parte, forse,
vorrebbero divertire e non divertono affatto. E quando Latella elogia lo scrittore perché nel suo ultimo libro – il romanzo Un bene al mondo – riesce a tenere insieme il piano realistico e quello fantastico, penso che è esattamente ciò che ha saputo fare molto meglio Collodi e non ha saputo fare Latella nel suo spettacolo esasperatamente e stucchevolmente antinaturalistico, dove il grande accusato – per ragioni poco convincenti – è Geppetto. E quando Bajani osserva che il Pinocchio di Latella «da bugiardo per antonomasia, sembra l’unico a dire la verità», mi domando se la verità risieda nel serrato e ripetitivo turpiloquio con cui il burattino, a un certo punto, reagisce a un rimprovero della Fata. Ci sarebbe altro da dire sul testo a sei mani di Antonio Latella, Francesco Bellini e Linda Dalisi. Ad esempio, che la scenetta da commedia dell’arte con Arlecchino, Colombina e Pulcinella è indicibilmente noiosa. Ad esempio, che non vedo perché mai lo spettatore dovrebbe disgustarsi del pedagogismo sentenzioso e dei propositi emendativi di Geppetto, del Grillo e della Fata, e deliziarsi invece delle poco originali divagazioni intellettualistiche e didascaliche dei tre drammaturghi. Aggiungo conclusivamente i nomi degli attori, che oltre al già menzionato La Rosa – il migliore insieme a Massimo Speziani nella parte di Geppetto e Mangiafoco – sono Michele Andrei, Anna Coppola (Fata), Stefano Laguni, Fabio Pasquini (Grillo parlante), Matteo Pennese e Marta Pizzogallo. Tutti e otto hanno consentito con bravura al disegno del regista, che ha chiesto loro di parlare a voce altissima per buona parte dello spettacolo.
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Dove e quando
Milano, Piccolo Teatro Strehler, fino al 12 febbraio.
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Victor Fleming, il regista di Via col vento e del Mago di Oz, traspose sul grande schermo, nel 1941, il celebre romanzo di Louis Robert Stevenson Lo strano caso del Dr Jekyll e del signor Hyde. L’adattamento cinematografico, uno dei molti nella storia del cinema, non è forse il più riuscito (alcuni critici preferiscono la versione del 1932 di Rouben Mamoulian), ma è quello più conosciuto e che può contare su un cast stellare. Il protagonista è infatti Spencer Tracy e accanto a lui recitano due star di prima grandezza all’epoca come Ingrid Bergman e Lana Turner. La pellicola, al contrario del lungo racconto pubblicato nel 1886, non ha al centro dell’analisi i motivi per i quali un integerrimo scienziato come il Dr. Jekyll cerca il suo lato oscuro. Questo aspetto è certamente presente, ma è integrato in un discorso più vasto, un discorso, se si vuole, più hollywoodiano. Lo spiega Jacques Lourcelles nel suo Dictionnaire du cinéma: «La sceneggiatura riprende fedelmente l’adattamento molto infedele del film di Mamoulian (n.d.r. nello scritto di Stevenson non c’è traccia delle due eroine), ma ambienta la pellicola in un’atmosfera più convenzionale e moralizzante». Ed è anche più chiaro Georges Sadoul nel suo Dictionnaire des films: «Fleming ha insistito più sull’aspetto psicologico e sulle contraddizioni vittoriane che non sul mostruoso, coadiuvato in questo da un ottimo Spencer Tracy e dalla fresca e provocante Bergman».
La vicenda narrata in Dr Jekyll e Mr Hyde ruota intorno alla ricerca del lato oscuro del sé Fleming concentra la sua attenzione sulle dinamiche tra il protagonista, la futura sposa (Lana Turner) e la conturbante barista di cui s’innamora Hyde (Ingrid Bergman). Tra l’altro invertendo le aspettative dell’epoca quando tutti si aspettavano una Bergman fidanzata e ricca e una Turner ragazza di strada. Anche la poca cura tecnica che il regista pone sulla trasformazione da Dr Jekyll a Mr Hyde «una banale sovraimpressione di primi piani» (Lourcelles), è la dimostrazione di quanto poco interessato fu alla psicologia del doppio. Un aspetto, invece, curato nei minimi dettagli (una decina di anni prima) da Mamoulian. Con questo non si vuole dire che il film non abbia molti pregi, ma solo che Fleming ha preso spunto dal lungo racconto per trasformarlo in qualcosa d’altro, che possiamo definire appunto più glamour. L’interpretazione eclettica di Tracy (nei due ruoli) è il sicuro valore aggiunto dell’opera, accompagnato da quello delle due attrici, sapientemente messe in luce dalla Tiratura 101’614 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
fotografia molto elegante (che evidenzia soprattutto il loro volto perfetto), del quattro volte premio Oscar Joseph Ruttenberg. La differenza tra il romanzo e il film è evidente anche nella scelta del punto di vista usato per descrivere la vicenda. Nel libro ci sono diverse prospettive che si alternano a narrare la storia. Si segue certamente l’indagine dell’avvocato Utterson, ma il caso si rivela e diventa chiaro soprattutto grazie all’accumulo di alcuni atti notarili, relazioni scientifiche, memoriali, confessioni e testi di cronaca nera. Un modo, questo, che permette al lettore, attraverso le varie tracce lasciate dai documenti, di ricostruire la storia e arrivare alla scoperta sconvolgente: alla soluzione dell’enigma. Ma ciò succede solamente alla fine. Nel film, invece, il punto di vista è più neutro. Lo spettatore segue la trasformazione in diretta. Nel senso che scopre Mr Hyde nello stesso istante del protagonista. È lì sulla scena, a fianco di Tracy, mentre cambia i connotati. Il film e il libro sono due mezzi espressivi che hanno peculiarità ben distinte. Ed è quindi ovvio che la materia narrata venga usata in modo differente. L’uso della parola scritta permette a Stevenson di concludere la storia con una sorta di memoriale lasciato dal Dr Jekyll. Un testo, piuttosto corposo, in cui vengono spiegate le radici e le ragioni del suo comportamento. Uno scritto che scava nell’animo umano e che spiega (qualche anno prima di Freud) quanto esso sia complesso. «Il mio peggior difetto era una certa irrequieta gaiezza di temperamento, che in me stentava a conciliarsi con il desiderio categorico di esibire agli occhi della gente un’autorevolezza inusitata». E ancora: «Giorno dopo giorno, mi avvicinai sempre più a quella verità la cui parziale scoperta mi condannò a una spaventosa catastrofe, e che riconosce come l’uomo non sia unico, bensì duplice. Vidi che se potevo considerarmi con legittimità sia l’uno che l’altro dei due esseri che si dilaniavano nella mia coscienza, ciò era dovuto unicamente al fatto che ero ambedue fin nei precordi del mio intimo». Da parte sua Fleming utilizza la trasformazione, l’ultima, da Mr Hyde a Dr Jekyll per concludere la pellicola. Nella scena finale, infatti, viene ucciso, nel suo laboratorio, dai suoi persecutori. E senza più anima il suo viso si trasforma nel dottore, mentre il suo uccisore, l’amico George Lanyon recita l’ultima preghiera. Una parola rivolta al cielo che richiama quella iniziale del film la quale recita: «Se siamo puri di cuore e retti nel pensiero sfideremo sempre tutti i perversi assalti del male». Una frase seguita, subito dopo, da una ancora più importante per il lungometraggio: «La nostra Inghilterra celebra oggi il giubileo di sua maestà». Eccola spiegata, la differenza fondamentale: il romanzo scava nell’animo umano e nella sua duplicità, il film è una critica sociale all’epoca vittoriana. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Cultura e Spettacoli
L’altrove che ci spiega la Svizzera
Cinema Le 52esime Giornate di Soletta ci hanno aperto gli occhi su realtà lontane ma anche incredibilmente vicine
Giorgia Del Don «Le finzioni e i documentari programmati alle 52esime Giornate di Soletta rivolgono spesso il loro sguardo al di là delle frontiere del nostro paese; ma il fascino per “gli altri” o per “l’estero” si ritrova anche nelle storie sulla Svizzera stessa», rivela Seraina Rorher con quell’entusiasmo che inietta dal 2012 nel festival più importante della cinematografia elvetica. Sì, perché al di là della qualità dei film presentati, le ormai mitiche Giornate di Soletta si nutrono di attualità, di nuovi impulsi, di nuova linfa per continuare a crescere evitando di trasformarsi in caricatura.
La rassegna appena conclusa ha tra l’altro premiato la carriera della produttrice ticinese Tiziana Soudani Grazie alla sua direttrice Seraina Rohrer le Giornate riescono ogni anno a mantenere quell’equilibrio delicato ma indispensabile fra identità nazionale e fame di scoperta. Due impulsi vitali e costruttivi che non solo nutrono la cinematografia del nostro Paese ma che si trasformano anche (e forse soprattutto) in esempio da seguire, in antidoto contro un ripiegamento su sé stessi che incede pericolosamente. Come sottolinea molto bene la sua direttrice, la 52esima edizione, che si è svolta dal 19 al 26 gennaio, è forse stata quella che più ha saputo cavalcare questa corrente. In modo sicuramente inconsapevole, frutto di un clima generale marcato dall’instabilità e dal crescente bisogno di comprendere la confusione che ci attornia, molti cineasti svizzeri hanno deciso di rivolgere l’occhio delle loro cineprese verso quell’estero tanto spaventoso quanto vicino (forse non territorialmente ma sicuramente mediaticamente). Fra i dieci film in lizza per il prestigioso Prix de Soleure ben sei si concedono il lusso scomodo di interrogare realtà lontane alla ricerca di chiavi di lettura o «semplicemente» per dare voce a chi sembra averla persa per sempre. Uno dei film più potenti in questo senso è sicuramente Cahier africain di Heidi Specogna (presentato alla Settimana della critica di Lo-
carno, dove si è aggiudicato il Premio Zonta Club) che si conferma come una delle documentariste svizzere più interessanti ed esigenti. Di una bellezza terrificante Cahier africain traccia il destino di un piccolo e fragile quaderno che racchiude storie di indicibile dolore, quelle di trecento donne vittime di stupro da parte dei mercenari congolesi nella Repubblica centroafricana durante il conflitto armato del 2002. Heidi Specogna riesce nel difficile compito di dipingere l’orrore con coraggio e poesia, per ridare a queste donne la dignità necessaria a ricostruirsi. Ridare voce e corpo a quanti non l’hanno più per permettere loro di riscrivere la propria storia. A condividere questo bisogno di giustizia, questa necessità di ritrascrivere i fatti dando la parola a quanti sono costretti a rimanere in silenzio, vi è anche Mehdi Sahebi che con il suo MIRR ripercorre la storia (o meglio la mette in scena) di un gruppo di contadini cambogiani privati delle loro terre. Mehdi riflette allo stesso tempo sull’utopica neutralità documentaria e sulle possibilità di «intervenire» sulla realtà nel rispetto della realtà stessa. Heidi Specogna e Mehdi Sahebi incarnano un nuovo modo di fare cinema documentario, coscienti dell’impatto che i media hanno sul punto di vista ma soprattutto sulla sensibilità del pubblico, spesso anestetizzato da un eccesso di (cattiva) informazione. Indifferente a una violenza onnipresente che diventa quasi banale, lo spettatore ha bisogno di ritrovare un’umanità di cui ha quasi dimenticato il sapore. Un sapore amaro ma vivificante che lo risveglia dal suo torpore globalizzato per fargli gustare la gioia (e il dolore) di quella che potremmo chiamare empatia. Come mostra bene la sezione speciale «Reisen ins Landesäussere» (Viaggiare fuori Paese, NdT), che ripercorre la storia dei registi-esploratori svizzeri che sin dagli anni 1930 si sono interessati a paesi lontani (una fra tutti la storica Ella Maillart), il fascino per l’«altro» non è certo cosa nuova. Ad essere cambiata è la prospettiva rispetto a ciò che sta al di là dei nostri confini e che ha trasformato i cineasti svizzeri in artisti senza frontiere, in una parola: globali. Attraverso i film in concorso per il Prix de Soleure, ma anche quelli selezionati per il Prix du public, ci ren-
Un fotogramma da Cahier Africain di Heidi Specogna. (www.heidispecogna.de )
diamo conto di quanto le frontiere del nostro Paese siano permeabili (almeno da un punto di vista cinematografico). Se da un lato progetti come Cahier africain, MIRR (ma anche Double peine, il nuovo lungometraggio di Léa Pool o Docteur Jack di Benoît Lange) ci portano nel cuore (e riportano nel nostro cuore) di realtà lontane e comodamente mantenute nell’ombra, è a volte l’estero che si invita nella nostra ovattata realtà trasformandola, deformandola, spaventando quanti si aggrappano ad una perennità sempre più polverosa. Significativi in questo senso Impasse, primo lungometraggio della romanda Elise Shubs che mette sotto i riflettori le vite clandestine di tante donne (migranti, madri di famiglia) che vendono il loro corpo sui tranquilli marciapiedi di Losanna, ma anche Rue de Blamage dell’esordiente Aldo Gugolz, scorcio di una Svizzera (simbolizzata da una strada di Lucerna) ricca d’inaspettati innesti che si fondono armoniosamente nel paesaggio per regalargli un profumo nuovo, al contempo esotico e famigliare. Quella che è apparsa attraverso i ventun film in
concorso per il Prix de Soleure e per il Prix du public (ma anche molti di quelli presentati in quel laboratorio di talenti che è la sezione Panorama suisse), è una Svizzera sfaccettata e in costante mutazione, abitata da inquietudini che potremmo definire universali: il bisogno di libertà che malgrado le rivendicazioni passate (raccontate in Die göttliche Ordnung, film d’apertura di Petra Volpe) continua a frustrare molte donne, ma anche la ricerca di un equilibrio sognato fra il proprio ritmo personale e la frenesia di una società dominata dalla performance (e che abita il sottile Weg vom Fenster – Leben nach dem Burnout, di Sören Senn). E se in barba ai benpensanti l’«identità svizzera» non fosse altro che una costruzione modulabile secondo i desideri di ognuno? Una terra d’accoglienza, di passaggio, un laboratorio in cui possono convivere leggende alpine (come quella raccontata nel poetico Das Mädchen vom Änziloch, di Alice Schmid, in lizza per il Prix du public), tradizioni ancestrali (dipinte nel documentario musicale Unerhört jenisch, di Martina Rieder, anche lui candidato
per il Prix du public) e origini lontane (quelle dei registi Elene Naveriani e Christophe M. Saber che si recano rispettivamente in Georgia ed in Egitto per regalarci I am Truly a Drop of Sun on Earth e La vallée du sel)? Ciliegina sulla torta di una 52esima edizione che volge lo sguardo al di là delle frontiere, il «Prix d’honneur» che è stato attribuito alla produttrice ticinese Tiziana Soudani. Anche lei partita da lontano, dall’Africa, dove ha lavorato come produttrice di vari film, Tiziana Soudani ritorna in Svizzera, e più in particolare in Ticino, dove fonda, nel 1987, Amka Films, importante casa di produzione che ha sostenuto film ormai storici come Pane e tulipani di Silvio Soldini ma anche successi più recenti come lo splendido Le meraviglie di Alice Rohrwacher. Con il suo lavoro Tiziana Soudani ha dimostrato come da un piccolo innesto (dal sapore latino) possa nascere un fiore meraviglioso che non conosce frontiere, o meglio che gioca con queste stesse frontiere per trasformarle in forza, per forgiarsi un’identità che non assomiglia a nessun’altra.
Nomi illustri e brillanti scoperte
Fotografia Costellazioni, una mostra collettiva alla Cons Arc di Chiasso Giovanni Medolago Capita anche ai migliori collezionisti d’arte: arriva un momento in cui lo spazio non è più sufficiente per conservare con tutti i crismi necessari quello che con passione si è accumulato nel
corso degli anni. E allora, sia pur con malincuore, bisogna compiere delle scelte. La mostra attualmente in corso alla Cons Arc di Chiasso nasce proprio da contingenti esigenze logistiche. Daniela e Guido Giudici, titolari della Galleria, hanno dapprima preso
Georg Aerni, Xamfrans, Barcellona1996-1998.
visione di tutto quanto messo loro a disposizione – «anche per verificare la coerenza delle scelte del collezionista» –, scoprendo così i rigorosi e precisi gusti estetici di quest’ultimo, che ha accumulato opere d’indubbio valore senza speculazione alcuna su nomi alla moda. Hanno poi effettuato un’ulteriore selezione, giungendo infine a proporre una trentina di immagini al loro pubblico, che ha davvero un’occasione da non perdere. L’appassionato si troverà infatti di fronte fotografie realizzate tra gli anni 70 e l’ultima decade del secolo scorso, quando il mercato non esigeva somme impegnative, e firmate da artisti divenuti nel frattempo molto noti. Tra questi Gabriele Basilico, di casa alla Cons Arc sin dal lontano 1993, e Mimmo Jodice, il lavoro dei quali ha portato non solo all’affermazione della fotografia italiana in campo internazionale, ma ha pure fornito una nuova visione del paesaggio urbano e dell’architettura; il belga Gilbert Fastenaekens dai diversi
vocabolari specifici (scenari notturni, l’irrealismo del bianco e nero contro il realismo associato al colore, le stampe classiche e un abile uso delle diverse tonalità di nero e grigio); lo statunitense Nicolas Nixon – nessuna parentela col presidente del Watergate – celebre per le sue opere rigorosamente in bianco&nero di grande formato ma anche per la serie di ritratti di sua moglie con le tre sorelle iniziato nel 1975 e puntualmente proseguito per decenni; il catalano Joan Fontcubelta, fotografo ma anche professore universitario e saggista, tra i primi a riflettere sugli scombussolamenti portati dalla rivoluzione digitale nel suo libro «La (foto) camera di Pandora. La fotografi@ dopo la fotografia» (2011). Agli amanti della fotografia made in CH segnaliamo la presenza di Daniel Schwartz – con un singolare ritratto dell’isola di Santorini – e Georg Aerni, altro gradito ritorno in casa Giudici – e Ferit Kuyas, dalle chiare origini turche.
È un’illustre collettiva dove però, al di là di stili e approcci anche diversissimi tra loro, emergono almeno alcuni di fil rouges (il monopolio del bianco&nero, la preponderanza di immagini paesaggistiche/architettoniche e l’assenza di figure umane) e all’interno della quale ci sono sembrati particolarmente intriganti anche due altri autori: il concettuale olandese Paul den Hollander, classe 1950, e il suo coetaneo giapponese Toshio Shibata. In esposizione e in vendita alla Cons Arc, infine, anche diversi libri con stampe d’autore, qualcuno ormai introvabile poiché a suo tempo edito in tiratura limitata. Dove e quando
Costellazione. Fotografie da una collezione privata. Cons Arc, Via Borromini 2, Chiasso. Orari: ma-ve 09.00-12.00; 14.00-18.30; sa 09.0012.30. Fino all’11 marzo.
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Filetto di maiale con ananas, olio al coriandolo e riso Piatto principale per 4 persone
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Ingredienti 450 g d’ananas, 6 cucchiai d’olio d’oliva, 2 cucchiai di miele liquido, 1/2 cipolla, 1 cucchiaio di burro, 250 g di riso a chicco lungo, ad es. Mister Rice Carolina, 5 dl di brodo di verdura, 1/2 mazzetto di coriandolo, 1 /2 limetta, sale, pepe, 1 pezzo di filetto di maiale di ca. 400 g, un poco olio per cuocere, 1 cucchiaino di senape dolce Preparazione 1. Scaldate il forno a 200 °C. Eliminate il cuore legnoso dell’ananas e tagliatelo a spicchi di ca. 1 cm. Accomodate gli spicchi su una teglia con carta da forno. Mescolate la metà dell’olio con il miele. Spennellate gli spicchi d’ananas con la metà dell’olio e il miele e cuoceteli al centro del forno per ca. 20 minuti. Nel frattempo, tritate la cipolla e fatela appassire nel burro. Unite il riso e tostatelo finché diventa traslucido. Aggiungete il brodo, mettete il coperchio e lasciate sobbollire per ca. 20 minuti, finché il liquido sarà completamente assorbito. Tritate grossolanamente il coriandolo. Per l’olio al coriandolo spremete la limetta e mescolate il succo con il trito di coriandolo e l’olio rimasto. Condite con sale e pepe. Abbassate la temperatura del forno a 160 °C. 2. Condite la carne con sale e pepe. Scaldate un po’ d’olio in un tegame. Rosolate il filetto per ca. 4 minuti. Aggiungete la senape all’olio e miele restanti. Trasferite il filetto sulla teglia con gli spicchi d’ananas. Spennellate la carne con la marinata di miele e senape e cuocete al centro del forno per ca. 20 minuti. Ogni tanto ungete la carne con la marinata. Sfornate il filetto e fatelo riposare per ca. 5 minuti. Tagliatelo e servitelo con il riso, gli spicchi d’ananas e l’olio al coriandolo. Tempo di preparazione 30 minuti + cottura in forno ca. 40 minuti Per persona 27 g proteine, 23 g grassi, 72 g carboidrati, 600 kcal
Ricetta e foto: www.saison.ch
La reinterpretazione di un classico.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Idee e acquisti per la settimana
shopping L’oro delle isole Lofoten
Novità Da subito e fino alla fine di marzo presso i banchi pescheria di Migros Ticino è disponibile il pregiato
filetto di merluzzo skrei norvegese Il merluzzo invernale skrei («skrei» in norvegese significa «migrante»), è un pesce migratore artico che vive nelle gelide acque del mare di Barents. Una volta raggiunta la maturità sessuale, tra i 5 e 7 anni di età, lo skrei va alla ricerca di acque più calde per deporre le uova, spostandosi a sud per un migliaio di chilometri fino a raggiungere l’arcipelago delle isole Lofoten, dove le acque sono temperate dalla corrente del Golfo.
Un villaggio di pescatori alle Lofoten.
Il lungo viaggio nelle acque fredde contribuisce a rendere le carni dello skrei particolarmente sode, magre e delicatamente saporite. La sua alimentazione è costituita da molluschi, crostacei, uova di pesce e altri piccoli pesci. Lo skrei viene pescato solo da gennaio ad aprile: quote e metodi di cattura sono severamente regolamentati dalle autorità norvegesi. La pesca avviene ancora oggi con antichi metodi tradizionali, come ami, lenze e piccole reti.
Dal 2005 lo skrei norvegese è un marchio commerciale registrato e protetto. Solo le aziende che soddisfano le severe direttive del «Norwegian Seafood Export Council» per quanto attiene a cattura, selezione, conservazione e trasporto possono distribuire il merluzzo invernale con la denominazione «skrei». Lo skrei offerto dalla Migros è certificato secondo i criteri MSC, ciò che garantisce pesce selvatico pescato in modo sostenibile e nel rispetto del patrimonio ittico.
In Norvegia la stagione dello skrei è celebrata in tutto il paese. Qui tradizionalmente il pesce è gustato bollito o cotto al vapore, accompagnato da una salsina leggera. L’incomparabile sapore della sua carne, soda e delicata, è apprezzata dai più grandi chef e si presta ottimamente per molte altre preparazioni: sia al forno che in padella, con i più svariati abbinamenti di gusto, dal dolce all’asiatico fino al mediterraneo.
Merluzzo al peperoncino e alla limetta Per 4 porzioni Ingredienti 1 limetta 1 peperoncino rosso 60 g burro morbido sale pepe 2 mazzetti di cipollotti 600 g di filetti dorsali di merluzzo skrei Preparazione 1. Per il burro aromatizzato, sciacquate bene la limetta. Grattugiate la scorza e spremete il succo. Private il peperoncino dei semi e tritatelo.
Mescolate la scorza di limetta, un po’ di succo e il peperoncino con il burro. Condite con sale e pepe. Scaldate il forno a 200 °C. Tagliate i cipollotti a pezzetti obliqui di ca. 1 cm. 2. Disponete i cipollotti in una pirofila. Accomodate il pesce sulla verdura e conditelo con sale e pepe. Spruzzatelo con il succo di limetta rimasto e coprite la pirofila con la carta alu. Cuocete il pesce al centro del forno per ca. 15 minuti. Togliete la carta alu, distribuite il burro aromatizzato sul pesce e servite.
MSC (Marine Stewardship Council) è sinonimo di una pesca sostenibile e certificata. Il pesce e i frutti di mare che vantano questo marchio provengono sempre dalla pesca selvatica. L'MSC contribuisce sostanzialmente a preservare le risorse, ossia i pesci e il loro ambiente, nei mari e negli oceani del pianeta.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Idee e acquisti per la settimana
Flavia Leuenberger
La tua carica di vitamine quotidiana
Attualità Preparati da solo la tua spremuta
d’arance grazie allo spremiagrumi collocato all’interno dei supermercati Migros
Non c’è niente di più buono e salutare di una spremuta d’arance appena fatta. Ebbene, in alcune filiali di Migros Ticino – Molino Nuovo, Locarno, Lugano, Serfontana, Agno Uno, S. Antonino e Bellinzona – ci si può preparare personalmente una freschissima spremuta in pochissimo tempo, e questo grazie a un apparecchio spremiagrumi collocato nei pressi del reparto frutta. Il procedimento è semplicissimo: basta posizionare la bottiglia da 0,5 o 1 litro a disposizione sotto l’apparecchio, premere il pulsante, riempire e gustare. Le bottiglie in PET richiudibili sono ideali anche da portare con sé quando si è fuori casa. È consigliabile conservare il succo appena spremuto in frigorifero e consumarlo al più presto per evitare la perdita delle preziose vitamine. Buono a sapersi: un bicchiere di spremuta d’arance copre oltre la metà del fabbisogno quotidiano di vitamina C. Questa importante vitamina è utile per mantenere in salute denti, ossa, gengive e vasi sanguigni, nonché per aiutare il corpo ad assimilare il ferro.
Degustazione di spremuta d’arance fresca* 04.02.2017 Migros Locarno 09.02.2017 Migros Lugano 11.02.2017 Migros Serfontana 18.02.2017 Migros Agno Uno 23.02.2017 Migros S. Antonino 25.02.2017 Migros Bellinzona
Spremuta d’arance 5 dl Fr. 4.-* Spremuta d’arance 1 l Fr. 7.-* *30% di sconto solo durante la degustazione nella filiale interessata
Gli gnocchi solidali
Gnocchi di patate 500 g Fr. 8.– Cicche del nonno 500 g Fr. 8.70 In vendita solo il giovedì, venerdì e sabato nelle filiali Migros di Locarno, S. Antonino, Lugano, Agno e Serfontana
Non solo una genuina bontà: gli gnocchi senza conservanti del laboratorio «aTavola» di Mendrisio possiedono pure una importante valenza sociale. Sono infatti prodotti con il contributo degli utenti di una struttura protetta della Fondazione Diamante, istituzione nata nel 1978 e attiva nell’integrazione di persone con difficoltà. «I nostri gnocchi sono lavorati e impastati a mano con l’impiego di ingredienti di provenienza indigena e acquistati in Ticino», spiega Mauro Marconi, responsabile del laboratorio della Fondazione Diamante. «A seconda della disponibilità, le patate utilizzate provengono dal Polo Agricolo di Gudo, struttura anch’essa appartenente alla Fondazione Diamante».
La qualità del prodotto si sente dalla prima forchettata: «Sono molti i clienti che ci dicono di apprezzarne il sapore delicato e la morbidezza. Inoltre, acquistandoli non ci si porta a casa solo qualcosa di buono, ma si sostiene anche una realtà locale che promuove la produzione di articoli socio-eco solidali», conclude Marconi. Infine ricordiamo che, oltre agli gnocchi, nei maggiori supermercati Migros sono pure ottenibili le Cicche del nonno, anch’esse prodotte nel laboratorio «aTavola». Di entrambi i prodotti – analogamente ad altri articoli elaborati da alcune fondazioni e commercializzati da Migros Ticino – l’intero provento della vendita viene riversato alla fondazione stessa.
Non risparmiare sul gusto, ma solo sul prezzo.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Idee e acquisti per la settimana
M-Classic
Puntino, puntino, virgola, trattino… Le faccine sui toast regalano il buon umore a piccoli e grandi buongustai.
Tatuaggi per bambini Fino a metà febbraio le confezioni di toast illustrate recano una delle cinque divertenti figure per tatuaggi temporanei.
… ed ecco pronta la faccina. Le spiritose espressioni create sui toast sono sempre molto gettonate dai più piccoli. Con il pane per toast M-Classic si possono preparare tantissime bontà sia dolci che salate, perfette per soddisfare i piccoli appetiti: dai classici toast con prosciutto e formaggio al «Panperduto», fino alle dolci tentazioni. Buono a sapersi: la base per le varietà «Toast & Sandwich» e «Soleil» è costituita da farina di qualità TerraSuisse., ossia derivante da cereali coltivati in Svizzera secondo criteri rispettosi dell’ambiente.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Idee e acquisti per la settimana
Quark
Incredibilmente cremosi
Quark alle more Special Edition* 150 g Fr. 1.35
Piacere cremoso garantito grazie alle tre nuove varietà di quark affinate con delicato yogurt alla panna, disponibili nelle varianti lamponi, stracciatella e, per un breve periodo, nella Special Edition alle more. Lamponi e more sono prodotti con deliziosa frutta maturata al punto giusto, aspetto che regala loro un aroma naturalmente fruttato. La varietà alla stracciatella si caratterizza invece per il contenuto di pezzettini di cioccolato e per la sua nota vanigliata. Tutti e tre i quark sorprendono per l’inconfondibile dolcezza e non contengono né stabilizzanti né altre sostanze artificiali.
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4.05 invece di 5.40 Racks d’agnello Nuova Zelanda/Australia, imballati, per 100 g
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1.95 invece di 2.60 Lesso magro di manzo TerraSuisse Svizzera, imballato, per 100 g
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3.50 invece di 5.10 Salame al Merlot Nostrano prodotto in Ticino, pezzo da ca. 400 g, per 100 g
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3.05 invece di 4.40 Vitello tonnato prodotto in Ticino, in vaschetta, per 100 g
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5.– invece di 7.30 Fettine fesa di vitello tagliate fini TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g
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7.20 invece di 9.– Uova svizzere, da allevamento all’aperto 15 x 53 g+
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24.– invece di 30.10 San Gottardo Prealpi prodotto in Ticino, a libero servizio, al kg
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5.10 invece di 6.80 Tutto l’assortimento i Raviöö prodotti in Ticino, per es. col pién da Brasaa (ravioli al brasato), 250 g
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3.30 invece di 4.80 Clementine Orri Israele, sciolte, al kg
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2.90 invece di 4.40 Patate raclette Svizzera, imballate, 2,5 kg
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3.60 invece di 5.85 Arance bionde Spagna, rete da 3 kg
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5.50 invece di 6.90 Tutti i tulipani disponibili in diversi colori, per es. M-Classic, gialli e rossi, mazzo da 10
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3.85 invece di 5.75 Michette precotte M-Classic in conf. da 1 kg e panini al latte precotti M-Classic in conf. da 600 g in busta, per es. michette, 1 kg
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Pancetta a dadini TerraSuisse in conf. da 2 4 x 103 g
Landjäger M-Classic Svizzera, 4 x 2 pezzi, 400 g
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conf. da 2
20% Menu Anna’s Best in conf. da 2 Thai e Asia, per es. chicken satay, 2 x 400 g, 12.40 invece di 15.60
– .5 0
di riduzione Tutte le corone del sole bio 360 g, per es. precotta refrigerata, 3.– invece di 3.50
conf. da 3
33%
9.80 invece di 14.70 Pizza e pizza ovale al prosciutto Anna’s Best in confezioni multiple per es. ovale al prosciutto in conf. da 3, 3 x 205 g
40%
4.95 invece di 8.30 Prosciutto TerraSuisse affettato finemente in conf. da 2 2 x 124 g
conf. da 2
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2.80 invece di 3.30 Fettine di pollo Optigal Svizzera, per 100 g
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30%
10.20 invece di 14.60 Tortine al formaggio M-Classic in conf. da 2 surgelate, 2 x 12 pezzi, 1680 g
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3.35 invece di 5.60 Filetto di maiale al naturale Svizzera, per 100 g
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a partire da 2 confezioni
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COLAZIONE CROCCANTE Gli zwieback, sempre presenti nella dispensa di casa, danno ancora più gusto alla colazione. Queste fette biscottate, genuine e facili da spalmare, sono una vera delizia con una marmellata di arance rosse dal gusto leggermente agrodolce. Trovi la ricetta della marmellata su saison.ch/ m-tipp e tutti gli ingredienti freschi alla tua Migros.
20% Tutti gli zwieback (Alnatura esclusi), per es. Original, 260 g, 2.55 invece di 3.20
20% Zampe d’orso da 760 g, bastoncini alle nocciole da 1 kg e sablé al burro da 560 g per es. bastoncini alle nocciole, 1 kg, 6.70 invece di 8.40
conf. da 4
25% Tortine in conf. da 4 per es. tortina di albicocche, 4 x 75 g, 3.75 invece di 5.–
conf. da 6 a partire da 2 pezzi
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Tutto l’assortimento di confetture Favorit a partire da 2 pezzi, 25% di riduzione
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2.60 invece di 3.30 Yogurt M-Classic in conf. da 6 disponibili in diverse varietà, 6 x 180 g, per es. alla mela e al mango, alle fragole, ai mirtilli
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30% Senape, maionese e salsa tartara M-Classic in conf. da 2 per es. senape dolce, 2 x 200 g, 1.30 invece di 1.90
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
47
Idee e acquisti per la settimana
Noi Firmiamo. Noi Garantiamo
La star della settimana Ogni settimana puntiamo la luce dei riflettori su uno dei nostri prodotti. Le qualità che gli consentono di essere eletto «star della settimana» sono illustrate dal prodotto stesso, in una scheda di presentazione e in una breve intervista. Tutto ciò è poi abbinato a un gioco a premi settimanale, dotato di un montepremi di 150 franchi. Per saperne di più: www. noifirmiamo-noigarantiamo.ch/aprozclassic Alcune delle star della settimana conquistano anche uno spazio su «Azione». Nel numero odierno presentiamo l’acqua minerale Aproz-Classic. Quest’ultima accompagna la schiera dei fans nel suo luogo di origine: le montagne del Vallese. Pagina 48
M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui Aproz.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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Idee e acquisti per la settimana
Star della settimana
«Io sono la naturale»
Deve essere chiara e pura: l’esperto delle fonti Aproz, Jean-Marc Richard, è tra l’altro anche responsabile dei controlli di qualità.
Ho milioni di anni eppure sono sempre giovane. Fa parte della storia del mio successo essere stata scoperta alcuni decenni fa per poi essere battezzata Aproz Classic. È strettamente connessa all’azienda Aproz Testo Estelle Dorsaz; Foto Marvin Zilm
È lungo e variegato l’elenco dei prodotti che Migros produce nelle proprie aziende. Quale sarà la prossima «star della settimana»?
Partecipare e vincere L’indovinello sull’acqua Classic di Aproz è su www.noifirmiamonoigarantiamo.ch/ aprozclassic
Sono conosciuta e apprezzata in tutta la Svizzera. Anche se al momento del mio battesimo, nel 1947, non immaginavo ancora una carriera così fulminea, a poco a poco ho potuto conquistare la scena nazionale delle acque minerali e affermarmi come acqua di fonte naturale, oggi considerata da numerose famiglie uno dei principali alimenti di base. La mia storia inizia molto prima che Aproz venisse fondata e molto prima che apparisse il genere umano. Ho infatti avuto origine milioni di anni fa nel cuore delle Alpi vallesane, a più di 2000 metri di profondità, da gocce di pioggia e neve fusa. Lungo la mia strada, attraverso tutti i possibili strati rocciosi, sono stata filtrata, pulita e arricchita di preziosi sali minerali e oligoelementi in modo naturale. Scoperta e imbottigliata
Meta del lungo viaggio attraverso la roccia in passato era il Rodano, oggi l’impianto di imbottigliamento dell’azienda Aproz.
Per secoli scorrevo libera attraverso la valle e poi nel Rodano, a quel tempo ancora indomito. Nel 1947 attirai l’attenzione di un dipendente del laboratorio cantonale, che mi volle analizzare. Ha scoperto che sono eccezionalmente pura e che sono ricca di calcio e magnesio. Quello stesso anno, due visionari dell’Alto Vallese decisero di sfruttare la mia
fonte. E cominciarono con due varietà: l’acqua Cristal naturale e l’Aproz Nature con anidride carbonica. Nei primi anni la mia produzione era piuttosto modesta, proprio come la mia reputazione. Quando gli allora proprietari si trovarono in difficoltà finanziaria, vendettero l’azienda. Nel 1958 Migros acquistò la maggioranza delle azioni della società e da allora sono sotto i riflettori. L’impresa ha continuato a svilupparsi, amministrata in modo sempre più professionale. Nel 1987 feci la conoscenza di Jean-Marc Richard, il nuovo responsabile della fonte, che per l’azienda è rapidamente diventato indispensabile. Richard ha tutti i processi sotto controllo
In cosa consiste il lavoro del responsabile della fonte? «Mi occupo di tutto quanto è necessario per garantire qualità e quantità dell’acqua commercializzata» spiega Richard. Dalla fonte, attraverso il serbatoio dell’acqua e fino all’imbottigliamento, Richard gestisce il mio approvvigionamento, pianifica la produzione e si assicura che la mia qualità sia sempre ai massimi livelli. In pratica è il mio angelo custode.
Richard gestisce la fonte Aproz da così tanti anni che è ormai un vero esperto del settore. Ha tutti i processi sotto controllo e conosce ogni nuova fonte scoperta nel corso del tempo. Per collegarsi a una fonte ci vuole molta esperienza e pazienza. «Esatto», conferma il mio angelo custode, «la fonte deve essere analizzata così come va verificato che sia utilizzabile. A ciò fanno seguito colloqui con i comuni e con i proprietari terrieri». Richard illustra il requisito base: «La qualità dell’acqua deve risultare stabile per diversi anni. In tal senso ci sono criteri rigorosi al riguardo di microelementi, temperatura e continuità di quantità erogata. Le fonti vengono registrate e controllate. Dopo di che vengono definite e omologate le zone di protezione. Prima che un’acqua possa essere distribuita come acqua minerale è inoltre ancora necessaria la conferma dei chimici cantonali». Dieci fonti Aproz ben protette
Oggi l’azienda Aproz gestisce dieci differenti fonti, tutte nella regione di Aproz. Sulla base dei rispettivi contenuti di minerali, ogni fonte di acqua ha un proprio caratteristico gusto. Jean-Marc Richard
garantisce per la loro qualità: «Grazie alla eccezionale ubicazione, il rischio di spiacevoli sorprese è molto basso. Tutte le fonti sono ben protette dagli influssi esterni». Inizialmente venivo commercializzata in bottiglie di vetro, prima che all’inizio degli anni Novanta avesse inizio l’utilizzo del PET. Il mio produttore è il primo sul mercato svizzero ad aver investito in linee di imbottigliamento con questo nuovo materiale e in pochi anni i volumi si sono raddoppiati. In poco tempo le ultime bottiglie in vetro hanno lasciato gli impianti di produzione. Nel 1987 c’era un’unica acqua Aproz, della quale venivano venduti 65 milioni di litri. Oggi i volumi si sono triplicati e la mia famiglia è cresciuta parecchio. Ho diversi cugini, come Aquella, Vallese e M-Budget, il più giovane. Per Jean-Marc Richard è passata molta acqua sotto i ponti, ma il suo motto, oggi come ieri, è rimasto invariato: «Lavoro con questa materia prima pensando innanzitutto ai clienti. Mi sta a cuore poter offrire loro un prodotto assolutamente puro e microbiologicamente pulito». Detto questo, con la mia esperienza quale dissetante di prima classe, non ho altro da aggiungere.
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Idee e acquisti per la settimana
Star della settimana
«Io sono la naturale»
Deve essere chiara e pura: l’esperto delle fonti Aproz, Jean-Marc Richard, è tra l’altro anche responsabile dei controlli di qualità.
Ho milioni di anni eppure sono sempre giovane. Fa parte della storia del mio successo essere stata scoperta alcuni decenni fa per poi essere battezzata Aproz Classic. È strettamente connessa all’azienda Aproz Testo Estelle Dorsaz; Foto Marvin Zilm
È lungo e variegato l’elenco dei prodotti che Migros produce nelle proprie aziende. Quale sarà la prossima «star della settimana»?
Partecipare e vincere L’indovinello sull’acqua Classic di Aproz è su www.noifirmiamonoigarantiamo.ch/ aprozclassic
Sono conosciuta e apprezzata in tutta la Svizzera. Anche se al momento del mio battesimo, nel 1947, non immaginavo ancora una carriera così fulminea, a poco a poco ho potuto conquistare la scena nazionale delle acque minerali e affermarmi come acqua di fonte naturale, oggi considerata da numerose famiglie uno dei principali alimenti di base. La mia storia inizia molto prima che Aproz venisse fondata e molto prima che apparisse il genere umano. Ho infatti avuto origine milioni di anni fa nel cuore delle Alpi vallesane, a più di 2000 metri di profondità, da gocce di pioggia e neve fusa. Lungo la mia strada, attraverso tutti i possibili strati rocciosi, sono stata filtrata, pulita e arricchita di preziosi sali minerali e oligoelementi in modo naturale. Scoperta e imbottigliata
Meta del lungo viaggio attraverso la roccia in passato era il Rodano, oggi l’impianto di imbottigliamento dell’azienda Aproz.
Per secoli scorrevo libera attraverso la valle e poi nel Rodano, a quel tempo ancora indomito. Nel 1947 attirai l’attenzione di un dipendente del laboratorio cantonale, che mi volle analizzare. Ha scoperto che sono eccezionalmente pura e che sono ricca di calcio e magnesio. Quello stesso anno, due visionari dell’Alto Vallese decisero di sfruttare la mia
fonte. E cominciarono con due varietà: l’acqua Cristal naturale e l’Aproz Nature con anidride carbonica. Nei primi anni la mia produzione era piuttosto modesta, proprio come la mia reputazione. Quando gli allora proprietari si trovarono in difficoltà finanziaria, vendettero l’azienda. Nel 1958 Migros acquistò la maggioranza delle azioni della società e da allora sono sotto i riflettori. L’impresa ha continuato a svilupparsi, amministrata in modo sempre più professionale. Nel 1987 feci la conoscenza di Jean-Marc Richard, il nuovo responsabile della fonte, che per l’azienda è rapidamente diventato indispensabile. Richard ha tutti i processi sotto controllo
In cosa consiste il lavoro del responsabile della fonte? «Mi occupo di tutto quanto è necessario per garantire qualità e quantità dell’acqua commercializzata» spiega Richard. Dalla fonte, attraverso il serbatoio dell’acqua e fino all’imbottigliamento, Richard gestisce il mio approvvigionamento, pianifica la produzione e si assicura che la mia qualità sia sempre ai massimi livelli. In pratica è il mio angelo custode.
Richard gestisce la fonte Aproz da così tanti anni che è ormai un vero esperto del settore. Ha tutti i processi sotto controllo e conosce ogni nuova fonte scoperta nel corso del tempo. Per collegarsi a una fonte ci vuole molta esperienza e pazienza. «Esatto», conferma il mio angelo custode, «la fonte deve essere analizzata così come va verificato che sia utilizzabile. A ciò fanno seguito colloqui con i comuni e con i proprietari terrieri». Richard illustra il requisito base: «La qualità dell’acqua deve risultare stabile per diversi anni. In tal senso ci sono criteri rigorosi al riguardo di microelementi, temperatura e continuità di quantità erogata. Le fonti vengono registrate e controllate. Dopo di che vengono definite e omologate le zone di protezione. Prima che un’acqua possa essere distribuita come acqua minerale è inoltre ancora necessaria la conferma dei chimici cantonali». Dieci fonti Aproz ben protette
Oggi l’azienda Aproz gestisce dieci differenti fonti, tutte nella regione di Aproz. Sulla base dei rispettivi contenuti di minerali, ogni fonte di acqua ha un proprio caratteristico gusto. Jean-Marc Richard
garantisce per la loro qualità: «Grazie alla eccezionale ubicazione, il rischio di spiacevoli sorprese è molto basso. Tutte le fonti sono ben protette dagli influssi esterni». Inizialmente venivo commercializzata in bottiglie di vetro, prima che all’inizio degli anni Novanta avesse inizio l’utilizzo del PET. Il mio produttore è il primo sul mercato svizzero ad aver investito in linee di imbottigliamento con questo nuovo materiale e in pochi anni i volumi si sono raddoppiati. In poco tempo le ultime bottiglie in vetro hanno lasciato gli impianti di produzione. Nel 1987 c’era un’unica acqua Aproz, della quale venivano venduti 65 milioni di litri. Oggi i volumi si sono triplicati e la mia famiglia è cresciuta parecchio. Ho diversi cugini, come Aquella, Vallese e M-Budget, il più giovane. Per Jean-Marc Richard è passata molta acqua sotto i ponti, ma il suo motto, oggi come ieri, è rimasto invariato: «Lavoro con questa materia prima pensando innanzitutto ai clienti. Mi sta a cuore poter offrire loro un prodotto assolutamente puro e microbiologicamente pulito». Detto questo, con la mia esperienza quale dissetante di prima classe, non ho altro da aggiungere.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 gennaio 2017 • N. 05
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