Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio L’osteria BarAtto di Morbio Inferiore è un innovativo progetto di lavoro sociale comunitario
Ambiente e Benessere Arriverà la seconda ondata? Ne parliamo con l’infettivologo e direttore dell’Epatocentro Ticino professor Andreas Cerny
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 27 luglio 2020
Azione 31 Politica e Economia Un’inchiesta del «New York Times» stigmatizza le debolezze sanitarie europee
Cultura e Spettacoli Dove sarà il Rembrandt sparito nel 1990 a Boston? Continua la nostra serie sui furti d’arte
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Keystone
Hagia Sophia, l’eterna bellezza
L’indispensabile superfluo di Simona Sala Fra i molti aspetti interessanti della parabola artistico-esistenziale di Rudolf Naegeli, lo sprayer zurighese ottantenne che sta affrontando l’ultima fase della vita e che ha realizzato oltre 5000 tag tra Zurigo e diverse città tedesche ed europee, vi è il paradosso di un’autorità (il Canton Zurigo) che da una parte lo denuncia per deturpamento e imbrattamento di cose altrui, e dall’altra (il capoluogo dello stesso Cantone) lo insignisce del Premio per l’arte della città di Zurigo. Naegeli, figlio di un’artista norvegese e di un medico svizzero, per quasi cinquant’anni ha imbrattato (o abbellito, secondo i punti di vista) luoghi diversi della città, «sfregiando» a volte monumenti protetti e altre anonimi edifici senza valore storico-architettonico. Le sue figure filiformi, realizzate in meno di 30 secondi, con il favore delle tenebre e spostandosi per la città in bicicletta, hanno una forte carica politica, e spesso denunciano situazioni scomode; così, se i suoi pesci degli Anni ottanta puntavano il dito sul disastro ambientale di Schweizerhalle, gli scheletri apparsi in città di recente, forma-
no una Totentanz che è sia racconto della pandemia, sia un memento mori per l’artista. Christoph Doswald, presidente del gruppo di lavoro per l’arte nello spazio pubblico della città sulla Limmat – chiamato a decidere quali graffiti di Naegeli rimuovere – ha affermato di essere disposto a lottare per la conservazione di alcune di queste opere stilizzate, in particolar modo la figurina munita di falce apparsa sul piedistallo che regge la statua di Hans Waldmann, borgomastro che nel 1400 sconfisse Carlo il Temerario, situata davanti al municipio di Zurigo. Ma perché, ci si potrà chiedere, affidandosi alle questioni di principio, riabilitare così chi ha fatto dello sfregio la propria cifra artistica? Proprio perché di cifra artistica si tratta, verrebbe da replicare. Proprio perché, grazie all’ironia contenuta negli schizzi veloci di Naegeli, a Zurigo ci si è di colpo resi conto della presenza di una statua dedicata a Waldmann. E forse è questo il segreto, nonché mandato primario dell’arte: l’opportunità che essa ci dà (nella moltitudine delle sue forme) di leggere, filtrare e plasmare la quotidianità, restituendocela sotto una nuova luce, dando costantemente stimoli inattesi alle nostre esistenze. È interessante che un discorso di questo tipo venga
alla luce proprio in un frangente storico di crisi globale, in cui, per conseguenza naturale proprio l’arte, considerata un surplus non indispensabile, è stata relegata a tempo indeterminato in secondo piano, con grande sofferenza di tutti coloro che di essa vivono. In fondo è anche il discorso del regista Stefan Kaegi (v. Del Don, pag. 38), che al suo pubblico – forzatamente centellinato causa Covid-19 – propone un tour all’interno dello storico teatro di Vidy, mettendo in luce, attraverso l’assenza di rappresentazioni, tutta la grandezza e la necessità della scena. Del teatro abbiamo bisogno, così come del cinema, della letteratura, della musica e della danza. Abbiamo bisogno di cultura. E in questi tempi incerti e sospesi, ne abbiamo forse più bisogno che mai, perché anche se è vero che la cultura rappresenta in fondo il superfluo, essa è indispensabile e dunque irrinunciabile per una vita più completa e sfaccettata. Sosteniamola attivamente, ognuno dalla propria prospettiva e con i propri mezzi, e rimettiamola al centro delle nostre vite, che si ritroveranno investite così di quel surplus indispensabile che saprà farle risplendere.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 luglio 2020 • N. 31
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 luglio 2020 • N. 31
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Società e Territorio Sensazioni amplificate La psicologa Elena Lupo ci spiega chi sono i bambini altamente sensibili e come aiutarli a gestire il sovraccarico di stimoli
Il caffè delle mamme Gli insegnamenti e i valori del Piccolo Principe sono, ancora oggi, un tesoro da condividere con i nostri figli pagina 7
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Il futuro del nuoto di salvataggio Intervista al presidente della Commissione Acque sicure Boris Donda, che da poco ha lasciato la presidenza della regione Sud della Società svizzera di Salvataggio pagina 8
Bambini altamente sensibili
Psicologia L’alta sensibilità è una caratteristica della personalità determinata da un diverso funzionamento
del sistema neurologico e riguarda circa il 15-20% della popolazione
Alessandra Ostini Sutto I bambini altamente sensibili sono incredibilmente responsivi rispetto all’ambiente. Oltre a quelli esterni, percepiscono pure gli stimoli interni con un’intensità superiore alla norma e li elaborano profondamente e nei dettagli. Di conseguenza, capita facilmente che si sentano sopraffatti dalle situazioni. Sono in genere riflessivi e osservatori, tendono ad essere diligenti e mostrano empatia e compassione sin da piccolissimi. L’alta sensibilità è una caratteristica della personalità scoperta negli anni Novanta dalla psicoterapeuta e ricercatrice Elaine Aron, determinata da un diverso funzionamento del sistema neurologico che si stima riguardi il 15-20% della popolazione. «Alta sensibilità» non è sovrapponibile a «ipersensibilità». «Si tratta di un errore di traduzione. Il termine americano, definito dalla Aron nel 1991, è infatti High Sensitivity e non hyper sensitivity, espressione con la quale si intende un’iperreazione da trauma», afferma Elena Lupo, psicologa e psicoterapeuta bolognese, che si occupa di alta sensibilità dal 2013, dopo essersi formata direttamente con Elaine Aron a San Francisco. Essendo lei stessa altamente sensibile, ha avviato un progetto di diffusione degli studi in Italia, registrando il marchio «Persone Altamente Sensibili – HSP Italia». Partendo dalla sua esperienza personale, ha scritto Il tesoro dei bambini sensibili (2017). «Sono sempre stata estroversa e questo tratto, abbinato alla mia alta sensibilità, ha fatto sì che fossi leader delle situazioni, ma in un modo particolare, nel senso che utilizzavo la mia leadership per difendere i più deboli, per proteggere gli animali», commenta la psicologa, «facendo formazione in vari nidi, ho avuto modo di osservare come le maestre chiamino questo tipo di bambini “alfa”, quelli cioè che hanno la capacità di mediare e con i quali esse collaborano, per esempio per fare
Un luogo di sosta e di scambio Lavoro sociale comunitario L’osteria
BarAtto nel complesso residenziale Ligrignano di Morbio Inferiore è un innovativo progetto di Pro Senectute Ticino e Moesano
Stefania Hubmann È un luogo accogliente con un ambiente familiare che invita alla sosta e allo scambio sociale, quindi già a prima vista molto più del bar con il quale genericamente potrebbe essere identificato. L’osteria sociale BarAtto a Morbio Inferiore, situata nel complesso residenziale Ligrignano, è però soprattutto il faro di un innovativo e ambizioso progetto di Pro Senectute Ticino e Moesano volto a lungo termine a ribaltare la prospettiva del sostegno sociale, stimolando l’attivazione delle risorse dei singoli, anche se si trovano in difficoltà. Una visione che si vuole complementare ai tradizionali aiuti assicurati dalla Fondazione agli anziani. Con questo progetto di lavoro sociale comunitario, partito lo scorso gennaio e rivolto appunto alla cittadinanza tutta, si perseguono due obiettivi principali: rilanciare l’idea di solidarietà fra vicini di casa attraverso iniziative quali la radio, l’orto comunitario, gli incontri culturali e coinvolgere persone oltre i 55 anni da lungo tempo al beneficio dell’assistenza, ma portatrici di abilità che questa forma di inserimento sociale è in grado di valorizzare. Come lo suggerisce il nome, l’osteria sociale punta sullo scambio a tutti i livelli, ad iniziare dalle competenze. Il capo progetto del settore lavoro sociale comunitario di Pro Senectute Ticino e Moesano Carmine Miceli e Eros Ciccone, educatore sociale, in questi primi mesi hanno instaurato un’intensa collaborazione con i preposti Uffici cantonali (Ufficio degli anziani e delle cure a domicilio e Ufficio del sostegno sociale), le autorità locali, gli enti presenti sul territorio e gli stessi inquilini del complesso Ligrignano. «Solo attraverso l’adesione dei diretti interessati possiamo costruire su basi solide la nuova identità di questo spazio e raggiungere gli obiettivi del progetto», spiegano Miceli e Ciccone accogliendoci nel salottino ricavato all’entrata dell’osteria sociale. La messa in comune di idee,
risorse e oggetti per rinnovare gli spazi, ha permesso a operatori, persone in assistenza e alcuni residenti di creare un ambiente nel quale ognuno si sente a proprio agio, come ci conferma un frequentatore abituale. Egli sottolinea la radicale trasformazione del locale dopo i trascorsi poco felici prima dell’intervento di Pro Senectute risalente a due anni fa. Il complesso residenziale ospita un’ottantina di appartamenti occupati da anziani, beneficiari di rendite istituzionali e famiglie. Un contesto eterogeneo ma proprio per questo ricco dal punto di vista relazionale. Nei dintorni sono situati altri edifici popolari, per cui il BarAtto si trova in posizione strategica per diventare luogo d’incontro intergenerazionale e interculturale tra il nucleo di Morbio Inferiore e la Città di Chiasso. I generosi spazi esterni – due ettari di terreno al di là della già ampia zona giardino – hanno suggerito la collaborazione con la Scuola del Verde di Mezzana per la realizzazione dell’orto comunitario, i cui prodotti saranno utilizzati nell’osteria dove gerente e cuoco sono gli unici professionisti. Il ruolo dei nostri interlocutori, come affermano loro stessi, è quello di stimolare le capacità legate all’esperienza professionale e al vissuto delle sei persone attualmente inserite nel progetto, creando un circolo virtuoso che si estende ai residenti dell’intero quartiere. Le prime sono al beneficio delle misure AUP (Attività di utilità pubblica), misure gestite dall’Ufficio del sostegno sociale e dell’inserimento. Grazie al progetto di lavoro sociale comunitario queste persone ritrovano un ritmo di vita quotidiano e la possibilità di valorizzare le loro competenze professionali ed umane. Precisano Carmine Miceli ed Eros Ciccone: «L’ottimo riscontro iniziale è confermato anche dalla positiva influenza della nuova occupazione sulla percezione dei singoli da parte dei rispettivi familiari. In presenza di risorse importanti, inoltre, promuoviamo la possibilità di
A molti bambini altamente sensibili fa bene il contatto con la natura e gli animali. (Marka)
rispettare le regole». Soprattutto se estroversi, i bimbi altamente sensibili hanno molto spirito di iniziativa, molta creatività e pure molti amichetti, come è stato il caso di Elena. Ai bambini altamente sensibili introversi – che sembrano essere la maggioranza – bastano invece uno o due buoni amici per soddisfare il bisogno di contatto. Introversi o estroversi che siano, i bambini altamente sensibili hanno difficoltà a gestire nel lungo termine i gruppi grandi. «Io facevo fatica nelle situazioni nuove e con tanti bambini, per esempio alle feste di compleanno. Questo perché per la nostra natura elaboriamo più informazioni per riuscire a capire una situazione, per orientarci all’interno di essa. Ciò comporta ovviamente un tempo, che Elaine Aron chiama pause to check», spie-
Uno studio nel contesto scolastico Il locale è stato rinnovato mettendo in comune idee, risorse, oggetti e anche fotografie d’epoca. (Irina Boiani)
effettuare stage nelle aziende in vista di un reinserimento nel mondo del lavoro. Non è il nostro focus, ma rientra nell’obiettivo generale di favorire il maggior recupero possibile delle risorse personali, siano esse sociali, professionali, finanziarie». Il progetto lanciato a Morbio Inferiore si fonda sul concetto già citato di lavoro sociale comunitario. «In Ticino lo proponiamo dopo aver sviluppato per diversi anni la presenza dei custodi sociali a supporto degli anziani in alcune residenze», spiega Carmine Miceli. «Queste esperienze hanno funto da traccia per una proposta a più ampio raggio sul territorio, così come già sperimentata da Pro Senectute nella Svizzera romanda. Il lavoro sociale comunitario è basato sul principio di entrare in una comunità, individuarne le risorse, contribuire a farle emergere per poi metterle in circolo a favore della comunità stessa». Eros Ciccone rileva da parte sua come questo modo di operare comporti un capovolgimen-
to del paradigma alla base del sostegno sociale. Spiega l’educatore: «Invece di calare l’aiuto dall’alto, si mobilitano le capacità dei singoli a beneficio non solo dei diretti interessati ma dell’intera comunità. In questo modo si rilancia su quest’ultima una responsabilità sociale. Le numerose iniziative di solidarietà promosse durante l’emergenza legata al Covid-19 hanno dimostrato l’efficacia di questo principio che nel nostro progetto viene applicato in maniera sistematica». Un altro aspetto emerso durante l’emergenza è il bisogno delle persone di raccontarsi. Per questo motivo in autunno prenderà il via l’esperienza della radio di quartiere in collaborazione con la web radio Gwendalyn. Di fronte al salottino – ideale anche per la lettura grazie alla presenza di una grande libreria – è in fase di allestimento la relativa postazione. I residenti avranno così la possibilità di condividere storie ed esperienze della loro vita tramite un potente mezzo di diffusione. Ai più
piccoli è invece riservato un apposito spazio che si apre verso l’esterno. Nel mezzo il bar a semicerchio con appese diverse fotografie d’epoca di Morbio Inferiore. Riflettono la memoria storica locale e fungeranno da tema per uno dei primi incontri culturali previsti all’osteria sociale. Passo dopo passo, cogliendo gli spunti che giungono dal territorio e da chi lo abita, si punta a costruire un polo culturale per la regione e un punto di riferimento ticinese per la gestione delle misure AUP. Già oggi le persone che ne beneficiano nel contesto dell’osteria sociale BarAtto provengono in parte da fuori distretto. Il loro numero è destinato a crescere assieme all’intero progetto all’insegna dell’incontro, dello scambio e della convivialità, come pure della sensibilità e della sostenibilità. Informazioni
www.prosenectute.org, baratto@ prosenectute.org, tel. 076 56 74 47
L’alta sensibilità è un amplificatore dell’ambiente: «Un bambino altamente sensibile in un contesto consapevole – con genitori competenti e insegnanti attenti – ne trae il positivo, amplificando le proprie competenze», spiega Elena Lupo, «se l’ambiente invece lo fa sentire sbagliato o lo ignora, può manifestare problemi e soffrire di più riguardo ad attaccamento, critiche o bullismo». Che l’ambiente scolastico rivesta un ruolo importante per lo sviluppo, con effetti a lungo termine, è provato da diversi studi. Tuttavia, il ruolo della sensibilità individuale nel contesto scolastico non è ancora stato indagato.
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Per tale motivo, un team di esperti in psicologia dello sviluppo e dell’educazione provenienti da diversi istituti di ricerca universitari, tra cui la Supsi, sta conducendo uno studio – che dovrebbe concludersi nel 2021 – il quale mira a sviluppare degli strumenti per rilevare la sensibilità a scuola e comprendere come essa interagisca con la qualità dell’ambiente nel predire le traiettorie di sviluppo nei primi due anni di scuola primaria. Gli strumenti sviluppati permetteranno ad insegnanti ed esperti nel settore educativo di valutare la sensibilità dei bambini e adattare le pratiche educative in modo da rispondere ai bisogni di tutti. Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
ga Elena Lupo. Questa pausa trova un risvolto positivo nel problem solving. «Avendo la capacità di considerare 1000 opzioni e scegliere quella che considerano la migliore, azzeccandoci in molti casi, questi bimbi vengono spesso coinvolti dagli insegnanti nei processi decisionali della classe», continua l’esperta. Questa propensione a riflettere su ogni cosa porta i bambini altamente sensibili a porre domande incredibili, in rapporto all’età. Le caratteristiche enunciate fanno pensare all’alto potenziale: «Sono concetti che appartengono a due linguaggi diversi. Possono, in certi casi, essere sovrapponibili, ma non è detto che tutti i bambini altamente sensibili abbiano un’intelligenza sopra la norma. Quello che invece si può affermare è che hanno un’intelligenza emotiva più sviluppata», spiega la psicoterapeuta, «sono infatti bimbi che sentono le emozioni complesse molto prima degli altri. Ciò significa che potenzialmente sanno leggere gli stati emotivi di sé stessi e degli altri in modo straordinario, a condizione che a monte abbiano dei genitori in grado di gestire le proprie emozioni – cosa non sempre scontata – e creare quella che io chiamo “alfabetizzazione emotiva”, l’abitudine cioè di parlare delle emozioni, spiegarsi riguardo a esse, dare i nomi giusti». Come detto, nei bambini altamente sensibili le sensazioni, positive o negative che siano, sono amplificate; essi ricordano ad esempio molto a lungo un bel momento vissuto nella natura, ma anche le esperienze avvertite come un’ingiustizia. «È diverso il processamento cognitivo che viene messo in atto di fronte a uno stimolo. È come avere un amplificatore mentale, che fa
sentire più forti i suoni, fa vedere le cose come fossero ingrandite o in alta definizione», spiega Elena Lupo. Per questo, alcuni bimbi non amano rumori e odori forti, ad altri danno fastidio alcuni tessuti, altri ancora non sopportano le luci. Di fronte a queste reazioni, i genitori devono dar prova di comprensione. Se ciò che esprime viene minimizzato, il bambino crede di non aver diritto di essere com’è, con la conseguenza che tenderà a non mostrare più ciò che lo tormenta e l’adulto non avrà più accesso ai suoi sentimenti né modo di capire i suoi bisogni. Quello di cui invece un bambino altamente sensibile ha bisogno è di genitori che lo ascoltino, lo rassicurino e lo aiutino ad accettare e regolare le proprie emozioni. Secondo Elaine Aron, pioniera in materia, per essere considerato altamente sensibile un bimbo deve soddisfare quattro criteri: elaborazione profonda e complessa delle informazioni, ipereccitabilità, percezione sensoriale più elevata ed intensità emotiva. Ma concretamente, come fanno i genitori ad accorgersi di avere un bambino con questo tratto temperamentale? «Quello che i genitori mi dicono è: “piange sempre, ha sempre paura, vuole sempre essere rassicurato”. Si tratta di bimbi che, pur non essendo particolarmente traumatizzati, sono terrorizzati, per esempio, dai fuochi d’artificio o dai palloncini, tanto da rinunciare ad andare ai compleanni. Ci possono poi essere dei fastidi insoliti che i genitori notano soprattutto se hanno altri figli. Spesso sono gli insegnanti a segnalare delle stranezze, soprattutto nella socialità. Anche il sonno in genere è un valido indicatore. I problemi in questo ambito
sono dovuti alla difficoltà a stoppare il processamento sensoriale di cui parlavamo», commenta Elena Lupo. La maggiore difficoltà con la quale si trova confrontato un bambino altamente sensibile è quella di gestire il sovraccarico. «Elaborando molti dati alla volta, questi bimbi si stancano prima, ma il problema è che non se ne accorgono; diventano quindi irritabili, hanno scoppi di rabbia e i genitori non capiscono il motivo», commenta l’esperta, «a volte sono anche cose banali a suscitare queste reazioni, come il tic tac dell’orologio o l’etichetta della maglietta». Inoltre, un bambino altamente sensibile sente, assorbe e manifesta, spesso somatizzandolo, il malumore o il disagio del genitore. Quando l’iperstimolazione si manifesta a livello corporeo, a molti bambini fa bene il contatto con la natura e gli animali. «Sono bimbi che hanno bisogno di pause e silenzio. Quando li si va a prendere da scuola io consiglio di non parlargli. Di ascoltare se hanno voglia di raccontare, ma di non bombardarli di domande. Magari invece rimangono zitti per due ore e poi improvvisamente raccontano tutta la giornata. In genere comunque hanno bisogno di un tempo di decompressione, durante il quale gli può essere utile fare qualcosa di creativo oppure ascoltare della musica rilassante», commenta la psicoterapeuta. Se mamma e papà garantiscono al bambino questa possibilità di isolarsi per rilassarsi, quest’ultimo riuscirà meglio a gestire l’iperstimolazione che caratterizza il mondo in cui viviamo e che non corrisponde sicuramente alla situazione ideale per chi percepisce gli stimoli con maggiore intensità e li elabora più profondamente.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 luglio 2020 • N. 31
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 luglio 2020 • N. 31
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Società e Territorio Sensazioni amplificate La psicologa Elena Lupo ci spiega chi sono i bambini altamente sensibili e come aiutarli a gestire il sovraccarico di stimoli
Il caffè delle mamme Gli insegnamenti e i valori del Piccolo Principe sono, ancora oggi, un tesoro da condividere con i nostri figli pagina 7
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Il futuro del nuoto di salvataggio Intervista al presidente della Commissione Acque sicure Boris Donda, che da poco ha lasciato la presidenza della regione Sud della Società svizzera di Salvataggio pagina 8
Bambini altamente sensibili
Psicologia L’alta sensibilità è una caratteristica della personalità determinata da un diverso funzionamento
del sistema neurologico e riguarda circa il 15-20% della popolazione
Alessandra Ostini Sutto I bambini altamente sensibili sono incredibilmente responsivi rispetto all’ambiente. Oltre a quelli esterni, percepiscono pure gli stimoli interni con un’intensità superiore alla norma e li elaborano profondamente e nei dettagli. Di conseguenza, capita facilmente che si sentano sopraffatti dalle situazioni. Sono in genere riflessivi e osservatori, tendono ad essere diligenti e mostrano empatia e compassione sin da piccolissimi. L’alta sensibilità è una caratteristica della personalità scoperta negli anni Novanta dalla psicoterapeuta e ricercatrice Elaine Aron, determinata da un diverso funzionamento del sistema neurologico che si stima riguardi il 15-20% della popolazione. «Alta sensibilità» non è sovrapponibile a «ipersensibilità». «Si tratta di un errore di traduzione. Il termine americano, definito dalla Aron nel 1991, è infatti High Sensitivity e non hyper sensitivity, espressione con la quale si intende un’iperreazione da trauma», afferma Elena Lupo, psicologa e psicoterapeuta bolognese, che si occupa di alta sensibilità dal 2013, dopo essersi formata direttamente con Elaine Aron a San Francisco. Essendo lei stessa altamente sensibile, ha avviato un progetto di diffusione degli studi in Italia, registrando il marchio «Persone Altamente Sensibili – HSP Italia». Partendo dalla sua esperienza personale, ha scritto Il tesoro dei bambini sensibili (2017). «Sono sempre stata estroversa e questo tratto, abbinato alla mia alta sensibilità, ha fatto sì che fossi leader delle situazioni, ma in un modo particolare, nel senso che utilizzavo la mia leadership per difendere i più deboli, per proteggere gli animali», commenta la psicologa, «facendo formazione in vari nidi, ho avuto modo di osservare come le maestre chiamino questo tipo di bambini “alfa”, quelli cioè che hanno la capacità di mediare e con i quali esse collaborano, per esempio per fare
Un luogo di sosta e di scambio Lavoro sociale comunitario L’osteria
BarAtto nel complesso residenziale Ligrignano di Morbio Inferiore è un innovativo progetto di Pro Senectute Ticino e Moesano
Stefania Hubmann È un luogo accogliente con un ambiente familiare che invita alla sosta e allo scambio sociale, quindi già a prima vista molto più del bar con il quale genericamente potrebbe essere identificato. L’osteria sociale BarAtto a Morbio Inferiore, situata nel complesso residenziale Ligrignano, è però soprattutto il faro di un innovativo e ambizioso progetto di Pro Senectute Ticino e Moesano volto a lungo termine a ribaltare la prospettiva del sostegno sociale, stimolando l’attivazione delle risorse dei singoli, anche se si trovano in difficoltà. Una visione che si vuole complementare ai tradizionali aiuti assicurati dalla Fondazione agli anziani. Con questo progetto di lavoro sociale comunitario, partito lo scorso gennaio e rivolto appunto alla cittadinanza tutta, si perseguono due obiettivi principali: rilanciare l’idea di solidarietà fra vicini di casa attraverso iniziative quali la radio, l’orto comunitario, gli incontri culturali e coinvolgere persone oltre i 55 anni da lungo tempo al beneficio dell’assistenza, ma portatrici di abilità che questa forma di inserimento sociale è in grado di valorizzare. Come lo suggerisce il nome, l’osteria sociale punta sullo scambio a tutti i livelli, ad iniziare dalle competenze. Il capo progetto del settore lavoro sociale comunitario di Pro Senectute Ticino e Moesano Carmine Miceli e Eros Ciccone, educatore sociale, in questi primi mesi hanno instaurato un’intensa collaborazione con i preposti Uffici cantonali (Ufficio degli anziani e delle cure a domicilio e Ufficio del sostegno sociale), le autorità locali, gli enti presenti sul territorio e gli stessi inquilini del complesso Ligrignano. «Solo attraverso l’adesione dei diretti interessati possiamo costruire su basi solide la nuova identità di questo spazio e raggiungere gli obiettivi del progetto», spiegano Miceli e Ciccone accogliendoci nel salottino ricavato all’entrata dell’osteria sociale. La messa in comune di idee,
risorse e oggetti per rinnovare gli spazi, ha permesso a operatori, persone in assistenza e alcuni residenti di creare un ambiente nel quale ognuno si sente a proprio agio, come ci conferma un frequentatore abituale. Egli sottolinea la radicale trasformazione del locale dopo i trascorsi poco felici prima dell’intervento di Pro Senectute risalente a due anni fa. Il complesso residenziale ospita un’ottantina di appartamenti occupati da anziani, beneficiari di rendite istituzionali e famiglie. Un contesto eterogeneo ma proprio per questo ricco dal punto di vista relazionale. Nei dintorni sono situati altri edifici popolari, per cui il BarAtto si trova in posizione strategica per diventare luogo d’incontro intergenerazionale e interculturale tra il nucleo di Morbio Inferiore e la Città di Chiasso. I generosi spazi esterni – due ettari di terreno al di là della già ampia zona giardino – hanno suggerito la collaborazione con la Scuola del Verde di Mezzana per la realizzazione dell’orto comunitario, i cui prodotti saranno utilizzati nell’osteria dove gerente e cuoco sono gli unici professionisti. Il ruolo dei nostri interlocutori, come affermano loro stessi, è quello di stimolare le capacità legate all’esperienza professionale e al vissuto delle sei persone attualmente inserite nel progetto, creando un circolo virtuoso che si estende ai residenti dell’intero quartiere. Le prime sono al beneficio delle misure AUP (Attività di utilità pubblica), misure gestite dall’Ufficio del sostegno sociale e dell’inserimento. Grazie al progetto di lavoro sociale comunitario queste persone ritrovano un ritmo di vita quotidiano e la possibilità di valorizzare le loro competenze professionali ed umane. Precisano Carmine Miceli ed Eros Ciccone: «L’ottimo riscontro iniziale è confermato anche dalla positiva influenza della nuova occupazione sulla percezione dei singoli da parte dei rispettivi familiari. In presenza di risorse importanti, inoltre, promuoviamo la possibilità di
A molti bambini altamente sensibili fa bene il contatto con la natura e gli animali. (Marka)
rispettare le regole». Soprattutto se estroversi, i bimbi altamente sensibili hanno molto spirito di iniziativa, molta creatività e pure molti amichetti, come è stato il caso di Elena. Ai bambini altamente sensibili introversi – che sembrano essere la maggioranza – bastano invece uno o due buoni amici per soddisfare il bisogno di contatto. Introversi o estroversi che siano, i bambini altamente sensibili hanno difficoltà a gestire nel lungo termine i gruppi grandi. «Io facevo fatica nelle situazioni nuove e con tanti bambini, per esempio alle feste di compleanno. Questo perché per la nostra natura elaboriamo più informazioni per riuscire a capire una situazione, per orientarci all’interno di essa. Ciò comporta ovviamente un tempo, che Elaine Aron chiama pause to check», spie-
Uno studio nel contesto scolastico Il locale è stato rinnovato mettendo in comune idee, risorse, oggetti e anche fotografie d’epoca. (Irina Boiani)
effettuare stage nelle aziende in vista di un reinserimento nel mondo del lavoro. Non è il nostro focus, ma rientra nell’obiettivo generale di favorire il maggior recupero possibile delle risorse personali, siano esse sociali, professionali, finanziarie». Il progetto lanciato a Morbio Inferiore si fonda sul concetto già citato di lavoro sociale comunitario. «In Ticino lo proponiamo dopo aver sviluppato per diversi anni la presenza dei custodi sociali a supporto degli anziani in alcune residenze», spiega Carmine Miceli. «Queste esperienze hanno funto da traccia per una proposta a più ampio raggio sul territorio, così come già sperimentata da Pro Senectute nella Svizzera romanda. Il lavoro sociale comunitario è basato sul principio di entrare in una comunità, individuarne le risorse, contribuire a farle emergere per poi metterle in circolo a favore della comunità stessa». Eros Ciccone rileva da parte sua come questo modo di operare comporti un capovolgimen-
to del paradigma alla base del sostegno sociale. Spiega l’educatore: «Invece di calare l’aiuto dall’alto, si mobilitano le capacità dei singoli a beneficio non solo dei diretti interessati ma dell’intera comunità. In questo modo si rilancia su quest’ultima una responsabilità sociale. Le numerose iniziative di solidarietà promosse durante l’emergenza legata al Covid-19 hanno dimostrato l’efficacia di questo principio che nel nostro progetto viene applicato in maniera sistematica». Un altro aspetto emerso durante l’emergenza è il bisogno delle persone di raccontarsi. Per questo motivo in autunno prenderà il via l’esperienza della radio di quartiere in collaborazione con la web radio Gwendalyn. Di fronte al salottino – ideale anche per la lettura grazie alla presenza di una grande libreria – è in fase di allestimento la relativa postazione. I residenti avranno così la possibilità di condividere storie ed esperienze della loro vita tramite un potente mezzo di diffusione. Ai più
piccoli è invece riservato un apposito spazio che si apre verso l’esterno. Nel mezzo il bar a semicerchio con appese diverse fotografie d’epoca di Morbio Inferiore. Riflettono la memoria storica locale e fungeranno da tema per uno dei primi incontri culturali previsti all’osteria sociale. Passo dopo passo, cogliendo gli spunti che giungono dal territorio e da chi lo abita, si punta a costruire un polo culturale per la regione e un punto di riferimento ticinese per la gestione delle misure AUP. Già oggi le persone che ne beneficiano nel contesto dell’osteria sociale BarAtto provengono in parte da fuori distretto. Il loro numero è destinato a crescere assieme all’intero progetto all’insegna dell’incontro, dello scambio e della convivialità, come pure della sensibilità e della sostenibilità. Informazioni
www.prosenectute.org, baratto@ prosenectute.org, tel. 076 56 74 47
L’alta sensibilità è un amplificatore dell’ambiente: «Un bambino altamente sensibile in un contesto consapevole – con genitori competenti e insegnanti attenti – ne trae il positivo, amplificando le proprie competenze», spiega Elena Lupo, «se l’ambiente invece lo fa sentire sbagliato o lo ignora, può manifestare problemi e soffrire di più riguardo ad attaccamento, critiche o bullismo». Che l’ambiente scolastico rivesta un ruolo importante per lo sviluppo, con effetti a lungo termine, è provato da diversi studi. Tuttavia, il ruolo della sensibilità individuale nel contesto scolastico non è ancora stato indagato.
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Per tale motivo, un team di esperti in psicologia dello sviluppo e dell’educazione provenienti da diversi istituti di ricerca universitari, tra cui la Supsi, sta conducendo uno studio – che dovrebbe concludersi nel 2021 – il quale mira a sviluppare degli strumenti per rilevare la sensibilità a scuola e comprendere come essa interagisca con la qualità dell’ambiente nel predire le traiettorie di sviluppo nei primi due anni di scuola primaria. Gli strumenti sviluppati permetteranno ad insegnanti ed esperti nel settore educativo di valutare la sensibilità dei bambini e adattare le pratiche educative in modo da rispondere ai bisogni di tutti. Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
ga Elena Lupo. Questa pausa trova un risvolto positivo nel problem solving. «Avendo la capacità di considerare 1000 opzioni e scegliere quella che considerano la migliore, azzeccandoci in molti casi, questi bimbi vengono spesso coinvolti dagli insegnanti nei processi decisionali della classe», continua l’esperta. Questa propensione a riflettere su ogni cosa porta i bambini altamente sensibili a porre domande incredibili, in rapporto all’età. Le caratteristiche enunciate fanno pensare all’alto potenziale: «Sono concetti che appartengono a due linguaggi diversi. Possono, in certi casi, essere sovrapponibili, ma non è detto che tutti i bambini altamente sensibili abbiano un’intelligenza sopra la norma. Quello che invece si può affermare è che hanno un’intelligenza emotiva più sviluppata», spiega la psicoterapeuta, «sono infatti bimbi che sentono le emozioni complesse molto prima degli altri. Ciò significa che potenzialmente sanno leggere gli stati emotivi di sé stessi e degli altri in modo straordinario, a condizione che a monte abbiano dei genitori in grado di gestire le proprie emozioni – cosa non sempre scontata – e creare quella che io chiamo “alfabetizzazione emotiva”, l’abitudine cioè di parlare delle emozioni, spiegarsi riguardo a esse, dare i nomi giusti». Come detto, nei bambini altamente sensibili le sensazioni, positive o negative che siano, sono amplificate; essi ricordano ad esempio molto a lungo un bel momento vissuto nella natura, ma anche le esperienze avvertite come un’ingiustizia. «È diverso il processamento cognitivo che viene messo in atto di fronte a uno stimolo. È come avere un amplificatore mentale, che fa
sentire più forti i suoni, fa vedere le cose come fossero ingrandite o in alta definizione», spiega Elena Lupo. Per questo, alcuni bimbi non amano rumori e odori forti, ad altri danno fastidio alcuni tessuti, altri ancora non sopportano le luci. Di fronte a queste reazioni, i genitori devono dar prova di comprensione. Se ciò che esprime viene minimizzato, il bambino crede di non aver diritto di essere com’è, con la conseguenza che tenderà a non mostrare più ciò che lo tormenta e l’adulto non avrà più accesso ai suoi sentimenti né modo di capire i suoi bisogni. Quello di cui invece un bambino altamente sensibile ha bisogno è di genitori che lo ascoltino, lo rassicurino e lo aiutino ad accettare e regolare le proprie emozioni. Secondo Elaine Aron, pioniera in materia, per essere considerato altamente sensibile un bimbo deve soddisfare quattro criteri: elaborazione profonda e complessa delle informazioni, ipereccitabilità, percezione sensoriale più elevata ed intensità emotiva. Ma concretamente, come fanno i genitori ad accorgersi di avere un bambino con questo tratto temperamentale? «Quello che i genitori mi dicono è: “piange sempre, ha sempre paura, vuole sempre essere rassicurato”. Si tratta di bimbi che, pur non essendo particolarmente traumatizzati, sono terrorizzati, per esempio, dai fuochi d’artificio o dai palloncini, tanto da rinunciare ad andare ai compleanni. Ci possono poi essere dei fastidi insoliti che i genitori notano soprattutto se hanno altri figli. Spesso sono gli insegnanti a segnalare delle stranezze, soprattutto nella socialità. Anche il sonno in genere è un valido indicatore. I problemi in questo ambito
sono dovuti alla difficoltà a stoppare il processamento sensoriale di cui parlavamo», commenta Elena Lupo. La maggiore difficoltà con la quale si trova confrontato un bambino altamente sensibile è quella di gestire il sovraccarico. «Elaborando molti dati alla volta, questi bimbi si stancano prima, ma il problema è che non se ne accorgono; diventano quindi irritabili, hanno scoppi di rabbia e i genitori non capiscono il motivo», commenta l’esperta, «a volte sono anche cose banali a suscitare queste reazioni, come il tic tac dell’orologio o l’etichetta della maglietta». Inoltre, un bambino altamente sensibile sente, assorbe e manifesta, spesso somatizzandolo, il malumore o il disagio del genitore. Quando l’iperstimolazione si manifesta a livello corporeo, a molti bambini fa bene il contatto con la natura e gli animali. «Sono bimbi che hanno bisogno di pause e silenzio. Quando li si va a prendere da scuola io consiglio di non parlargli. Di ascoltare se hanno voglia di raccontare, ma di non bombardarli di domande. Magari invece rimangono zitti per due ore e poi improvvisamente raccontano tutta la giornata. In genere comunque hanno bisogno di un tempo di decompressione, durante il quale gli può essere utile fare qualcosa di creativo oppure ascoltare della musica rilassante», commenta la psicoterapeuta. Se mamma e papà garantiscono al bambino questa possibilità di isolarsi per rilassarsi, quest’ultimo riuscirà meglio a gestire l’iperstimolazione che caratterizza il mondo in cui viviamo e che non corrisponde sicuramente alla situazione ideale per chi percepisce gli stimoli con maggiore intensità e li elabora più profondamente.
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Idee e acquisti per la settimana
Il latte fresco del Piano di Magadino Novità Da questa settimana è disponibile il Lacc Frésch ticinés bio della Masseria Ramello
di Cadenazzo nella pratica confezione con tappo richiudibile
G i ov a n n
Chi è il produttore?
i B arberis
La Masseria Ramello è un’azienda agricola gestita dagli anni Cinquanta dalla famiglia Feitknecht. Dal 2016 è guidata alla terza generazione da Adrian, ingegnere agronomo. Nel 2017 si è convertita alla produzione biologica. L’azienda si occupa di allevamento bovino, suino e coltivazione di terreni.
Come vengono allevate le mucche?
L’azienda possiede un’ottantina di mucche da latte, allevate nel massimo rispetto delle loro esigenze. Gli standard bio in materia di benessere animale sono severi. I bovini possono uscire liberamente al pascolo sui verdi prati della masseria quando lo desiderano.
Di cosa è composto il foraggio degli animali?
Le vacche si cibano principalmente di erba fresca, fieno e mais della fattoria stessa. Il foraggio è prodotto senza l’impiego di fitosanitari chimici e concimi minerali. Quale complemento ricevono farine di cereali e leguminose, tutti prodotti secondo le direttive di Bio Suisse.
Chi lavora e confeziona il latte fresco ticinese bio?
Il latte fresco biologico, dopo essere stato prelevato presso il produttore con un’apposita cisterna «dedicata», percorre pochissimi chilometri e viene consegnato alla Lati di S. Antonino che lo raccoglie in tank separati dal resto del latte convenzionale per poi sottoporlo ad una doppia bactofugazione, omogeneizzazione e pastorizzazione. A questo punto il Lacc Frésch ticinés bio è pronto per essere confezionato nell’elegante packaging dei Nostrani.
Quanto latte producono le mucche?
Latte fresco ticinese biologico pastorizzato, intero, 3,8% grasso 1l Fr. 1.90 In vendita al reparto refrigerati dei maggiori supermercati Migros
Complessivamente le mucche della Masseria Ramello producono all’incirca 1500 litri di latte al giorno. La mungitura viene eseguita due volte al giorno, al mattino e alla sera. Il latte appena munto viene filtrato e consegnato alla Lati.
Rinfrescante e benefica
Novità La tisana nostrana alla malva è prodotta dalla Sicas
La nostra offerta di bevande nostrane della Sicas soddisfa ogni gusto personale. Accanto alle tradizionali gazose negli aromi più disparati, la scelta include anche la tisana nostrana classica e, da poco entrata nell’assortimento, la tisana alla malva. Da sempre utilizzata nella tradizione popolare, questa preziosa pianta è conosciuta per le sue proprietà emollienti della tosse, antinfiammatorie, lenitive ed espettoranti. Per la produzione della tisana la Sicas può contare sulla pluriennale collaborazione con la Fondazione San Gottardo di Melano, che fornisce le erbe officinali biologiche necessarie quali la malva e la verbena. Le erbe vengono in seguito lasciate in infusione per diversi giorni al fine di ottenere l’estratto, la miscela base per la tisana. A quest’ultimo viene semplicemente ag-
giunta dell’acqua e dello zucchero caramellato e il tutto viene pastorizzato per garantire la conservazione senza l’aggiunta di componenti artificiali. La tisana viene infine imbottigliata nelle
pratiche bottiglie PET da mezzo litro e fornite a Migros Ticino. Tisana alla Malva Nostrana 500 ml Fr. 2.10
Flavia Leuenberger Ceppi
di Chiasso con erbe officinali biologiche
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Idee e acquisti per la settimana
Ardenti prelibatezze
Tanti auguri Svizzera!
Novità Per le vostre grigliate più raffinate ecco a voi due tenere
e succose specialità
Attualità Gustosa idea per celebrare
il 1° Agosto
Black Angus Rib-Eye Steak Irlanda 100 g Fr. 8.50
Rack Chop Svizzera 100 g Fr. 3.70 In vendita solo questa settimana nelle maggiori filiali Migros
Ogni grigliata è un successo con queste due prelibatezze consigliate nientemeno che dal celebre e prestigioso marchio di grill Weber. Il Rack Chop a base di carne di maiale svizzera viene lasciato maturare con l’osso e con un generoso strato di lardo. Grazie a queste particolarità la carne mantiene la sua straordinaria succosità durante la cottura e l’aroma risulta molto accentuato. Questo taglio per veri intenditori si prepara grigliandolo brevemente da entrambi i lati a fuoco intenso, quindi proseguire la cottura a media
temperatura per una ventina di minuti. L’altra delizia perfetta per viziare i propri ospiti è il Rib-Eye Steak di pregiata carne Black Angus irlandese. Originaria dell’omonima contea scozzese dove ebbe inizio l’allevamento, la Angus è una razza bovina dal caratteristico mantello nero, priva di corna, rinomata per l’eccellente qualità delle sue carni che risultano finemente marmorizzate. Il Rib-Eye Steak spicca per la sua tenerezza e il gusto delicato. Per una bistecca perfetta, scottare brevemente la carne da ambo i lati sul
grill molto caldo affinché si formi una bella crosticina. Terminare la cottura a calore indiretto fino a raggiungere la temperatura al cuore desiderata (ideale 55°C). Condire anche solo con un pizzico di sale grosso. Entrambi i tagli sono elaborati dalla Bigler, azienda svizzera a conduzione familiare fondata nel 1946 e giunta alla quarta generazione. La Bigler vanta una lunga tradizione nella lavorazione artigianale della migliore carne. I suoi prodotti sono conosciuti e apprezzati in tutta la Svizzera.
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è facile da spezzare con le mani anche senza coltello e ovviamente viene rifinita con l’immancabile bandierina rossocrociata. A proposito: la brioche è fatta esclusivamente con farina certificata TerraSuisse, al 100% da cereali svizzeri. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Un giorno per il Piccolo Principe Il caffè delle mamme Gli insegnamenti e i valori del personaggio
Simona Ravizza «Gli adulti da soli non capiscono niente ed è stancante per i bambini dovere sempre spiegare tutto». Oh, se ogni tanto noi genitori ci ricordassimo gli insegnamenti del Piccolo Principe! E se ai nostri figli riuscissimo a trasmettere un po’ dei suoi valori! Il senso dell’amicizia, il significato dell’amore, l’importanza della cura dell’ambiente, l’apertura del cuore alla malinconia e alla pazienza, il senso del rispetto. A Il Caffè delle mamme di quest’insolita estate andiamo sull’argomento in occasione della Prima giornata internazionale dedicata al protagonista del racconto che, con 200 milioni di copie, è il libro francese più venduto nel mondo (pubblicato il 6 aprile 1943). La Francia ha istituto Il Piccolo Principe Day che cade il giorno della nascita del suo autore, il celebre aviatore Antoine de Saint-Exupéry, nato a Lione il 29 giugno del 1900. L’iniziativa è stata voluta dalla Fondazione che porta il suo nome e che per celebrarlo ha raccolto sui social videotestimonianze di artisti, esploratori, piloti, scrittori e registi, impegnati a rispondere a una domanda: «Quali sono i valori universali che Il Piccolo Principe ci ispira oggi?». È un esercizio che può essere utile a noi, mamme e papà, per metterci più spesso dalla parte dei bambini. E per i nostri figli per imparare ciò
che davvero, alla fine, conta nella vita. Un pizzico di autocritica a Il Caffè delle mamme non guasta (purché sia affrontata con leggerezza). Il pilota, voce narrante del libro, costretto a un atterraggio di fortuna nel deserto del Sahara dove incontrerà lo stranissimo ometto vestito da principe che proviene dall’asteroide B612, rinuncia all’età di sei anni alla carriera di pittore, scoraggiato dall’insuccesso dei propri disegni tra gli adulti: lui disegnava un serpente boa che mangia un elefante, ma per i grandi era la rappresentazione di un cappello! Possiamo impegnarci ad avere un po’ più di fantasia? Continuare a essere capaci di vedere le pecore attraverso le casse, come fa il Piccolo Principe, non sarebbe tutto sommato un brutto invecchiare. Forse sarebbe persino più utile della nostra passione per i numeri. «Agli adulti piacciono i numeri – rivela l’aviatore –. Quando raccontate loro di un nuovo amico, non vi chiedono mai le cose importanti. Non vi dicono: “Com’è il suono della sua voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Fa collezione di farfalle?” Le loro domande sono: “Quanti anni ha? Quanti fratelli? Quanto pesa? Quanto guadagna suo padre?” Solo allora pensano di conoscerlo». Quando il Piccolo Principe lo vuole rimproverare lo colpisce nel segno: «Parli come gli adulti. Confondi tutto. Mescoli tutto». Del resto, per lui
che guarda 11’440 tramonti in 24 ore, gli adulti sono proprio strani, curiosi, stravaganti. Difficile dargli torto visto che nel suo viaggio lui incontra un vecchio re che ama dare ordini ai sudditi anche se è l’unico abitante del pianeta; un vanitoso che chiede solo di essere applaudito senza ragione; un ubriacone che beve per dimenticare la vergogna di bere; un uomo d’affari che passa i giorni a contare le stelle credendo che siano sue; un geografo che non ha idea di come sia fatto il pianeta perché sta sempre seduto alla scrivania. I nostri bambini ci vedono così? L’unico per cui il Piccolo Principe prova un po’ di ammirazione è un uomo che deve accendere e spegnere un lampione ogni minuto, perché il pianeta gira a quella velocità: «Quell’uomo sarebbe disprezzato da tutti gli altri. Dal re, dal vanitoso, dal bevitore e dall’uomo di affari. Tuttavia è l’unico che non mi sembra ridicolo – dice –. Forse perché si occupa di qualcosa d’altro che non sia se stesso». Non finisce qui. Siamo (quasi) tutte d’accordo. Per Il Caffè delle mamme il principale lascito del racconto di SaintExupéry sono i valori del Piccolo Principe che creano dei legami fra gli uomini. Che bello riuscire a trasmetterli ai bambini! Dal dialogo con la rosa e con la volpe, che gli insegna cosa vuol dire addomesticare e farsi addomesticare, i nostri figli possono capire che l’amo-
Pixabay
inventato da Antoine de Saint-Exupéry: un tesoro per i nostri figli
re è accettazione dell’altro, pazienza, dedizione, riconoscimento della sua unicità. Due, tra i tanti, a tal proposito i passaggi indimenticabili: «Chi ama un fiore, di cui esiste un solo esemplare in milioni e milioni di stelle, questo basta a farlo felice quando lo guarda. Avrei dovuto giudicarla (la rosa) dalle sue azioni e non dalle sue parole – riflette tra se’ il Piccolo Principe –. Mi profumava e mi illuminava. Non avrei mai dovuto andarmene. Avrei dovuto intuire l’affetto che stava dietro i suoi poveri trucchi». E quando il Piccolo Principe capisce che la sua rosa è unica al mondo, ecco, in quel momento impara che cos’è l’amore: «Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente – dice –. Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. (…) Voi siete belle, ma siete vuote. (…) Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho innaffiato. Perché è la MIA rosa». L’amicizia, come insegna ancora una volta la volpe, è la capacità di farsi addomesticare anche se poi si corre il rischio di piangere un po’. Per scoprire il prezzo della felicità bisogna essere capa-
ci di mettere in conto anche di soffrire. Del resto, come canta Claudio Baglioni in Avrai, la canzone scritta per il figlio, ciascuno incontrerà un amico che ti avrà deluso, tradito, ingannato. C’è poi il valore del rispetto: «È molto più difficile giudicare se stessi che giudicare gli altri». Il bisogno della speranza: «Ciò che abbellisce il deserto è che nasconde un pozzo in qualche luogo…». La cura della natura: «È una questione di disciplina. Quando si ha finito di lavarsi al mattino, bisogna fare con cura la pulizia del pianeta. Bisogna costringersi regolarmente a strappare i baobab appena li si distingue dai rosai ai quali assomigliano molto quando sono piccoli». A Il Caffè delle mamme ci ricordiamo che Il Piccolo Principe ci è stato letto dai nostri genitori e noi a nostra volta lo leggiamo ai figli. Un racconto che si tramanda di generazione in generazione. Un libro che accompagna la nostra vita. In cui ci possono essere anche tristezza e solitudine. Senza mai dimenticare, però, il colore del grano. E il bambino che c’è stato in ognuno di noi. Perché, come scrive Saint-Exupéry, tutti i grandi sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 luglio 2020 • N. 31
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Società e Territorio
Una vita per il nuoto di salvataggio Intervista L’estate avviata, la voglia di acque rinfrescanti, il Covid-19 e lo sviluppo futuro del salvataggio:
a colloquio con Boris Donda, presidente della Commissione Acque sicure, che da poco ha lasciato la presidenza della regione Sud della Società svizzera di Salvataggio simi, i bambini, hanno perso 3 o 4 mesi di nuoto a scuola; corsi e lezioni che di regola permettono loro di imparare a nuotare e a conoscere i pericoli nascosti in acqua. Queste conoscenze sono perse, proprio all’avvio dell’estate.
Mara Zanetti Maestrani Ad avvicinarlo all’acqua, al nuoto e al mondo del salvataggio sono stati i corsi di nuoto: da bambino abitava a San Vittore, nei Grigioni («dove non c’erano possibilità per nuotare»), poi la sua famiglia si trasferì a Bellinzona dove, all’età di 10 anni, seguì i corsi di nuoto che si tenevano già al Bagno pubblico. Per Boris Donda quei corsi furono il trampolino di lancio per la sua carriera nell’ambito del nuoto di salvataggio: dai corsi di formazione per diventare monitore, alle gare con la Società Nuoto, dai corsi di nuoto di salvataggio alla formazione di bagnino e ai vari successivi brevetti ed aggiornamenti fino alla funzione di esperto. Per un trentennio ha insegnato ai corsi di nuoto di Bellinzona. Donda è socio fondatore della Sezione di Salvataggio di Bellinzona e presidente onorario. Quest’anno ha lasciato la carica di presidente della Regione Sud della Società svizzera di Salvataggio (SSS) dopo ben 24 anni ai vertici e 25 in comitato. Gli è subentrato Daniele Bisang. Donda è stato anche membro del Comitato centrale della SSS ed è ancora rappresentante della stessa in seno all’associazione europea di salvataggio (ILSE). È tuttora presidente della Commissione Acque sicure del Canton Ticino.
Signor Donda, siamo in piena estate e c’è tanta voglia di stare all’aria aperta. L’affluenza alle rive di laghi e fiumi è grande, un po’ meno nelle piscine… Come si sta muovendo la Commissione Acque sicure?
La Commissione vigila costantemente la situazione ed è pronta a collaborare con tutti gli enti attivi sul territorio nella prevenzione e nel soccorso. Nei luoghi dove notiamo un aumento d’affluenza, siamo presenti per fornire informazioni supplementari. C’è da dire che per motivi di prevenzione al Covid-19 numerose manifestazioni di grande richiamo non avranno luogo, come traversate di laghi, eventi in stabilimenti balneari pubblici, gare popolari e altro. Ma l’attenzione resta elevata e la Commissione Acque sicure ha adattato la cartellonistica informativa e la prevenzione. Inoltre ha appositamente formando i pattugliatori che sono attivi lungo i fiumi, le rive dei laghi di maggior attrazione. La campagna di informazione e prevenzione, con
Lei è anche membro dell’ILSE, l’International Life Saving Federation of Europe. Cosa succede in questo consesso ora?
Purtroppo dallo scorso mese di marzo il Covid-19 ha imposto uno stop a tutte le attività di questo ente internazionale. Incontri, congressi, comitati ed eventi sono stati annullati. Anche le annuali e attese gare internazionali non avranno luogo. La presenza della Svizzera in questo consesso, dove sono presenti altri 38 Paesi, è e resta molto importante, l’ILSE è di supporto a vari progetti delle Nazioni e si occupa della valutazione dei rischi, della sicurezza sulle spiagge, delle qualifiche dei monitori e istruttori e organizza i campionati di salvataggio. Il suo segretariato si trova in Germania.
Boris Donda sorveglia le acque lungo il fiume Maggia. (Ti-Press)
grafica e messaggi uniformi, ha preso avvio il 20 giugno scorso e viene adattata a dipendenza dell’evolversi della situazione. Collaboriamo attivamente con le altre commissioni analoghe, come Strade Sicure e Montagne sicure e con enti e associazioni locali nonché con la Polizia cantonale (polizia lacuale).
In 24 anni di presidenza e 36 di militanza nella Salvataggio, come sono cambiati la formazione e gli interventi?
Anno dopo anno cambiano gli strumenti tecnici del salvataggio e l’approccio del primo soccorritore alla vittima. Queste strategie d’intervento vengono determinate a livello nazionale e internazionale a corto e medio termine (con aggiornamenti ogni 5-10 anni). Questo vale per il concetto generale di prevenzione e soccorso, come pure per l’istruzione. Il mio timore è che con il – comunque – pregevole scopo di «voler fare bene e in modo rapido» ci si spinga un po’ troppo verso una quasi professionalizzazione del volontario. Questa tendenza può intimorire e scoraggiare il volontario. L’istruzione e tutti i requisiti da rispettare lo portano ad essere quasi un «sostituto del professionista», e questo sia a livello delle conoscenze che deve padroneggiare che del corretto e rapido impiego del materiale di
soccorso. Materiale che, dal canto, suo diventa sempre più sofisticato. In questo senso, è importante tener presente che noi, come Salvataggio, facciamo capo anche a tanti giovani che, nel mondo d’oggi con mille altre attrattive, devono saper gestire al meglio il loro tempo libero e a volte il sentirsi investiti di troppa responsabilità (o competenze esageratamente alte) può essere per loro un fattore deterrente. La necessità di troppe competenze può spaventare chi svolgerebbe volentieri un determinato compito a livello volontario. Non tutti desiderano diventare un «quasi» soccorritore professionista. Questo è stato, a mio avviso, un sensibile cambiamento nel mondo del salvataggio a livello volontario, come lo fa e lo farà sempre la Società svizzera di Salvataggio e tutte le sue Sezioni attive in Svizzera, di cui 14 in Ticino. In positivo sono invece cambiati i contatti e i rapporti con l’estero e con gli enti e le associazioni di salvataggio internazionali: lo scambio di informazioni è migliorato e anche la dotazione di materiale ha avuto un notevole sviluppo. Lo scambio di esperienze è molto importante. Basti pensare che ci sono ora Nazioni attorno a noi che per il salvataggio utilizzano i droni, apparecchi che sono stati appositamen-
te adattati per trasportare piccoli salvagenti auto-apribili. In questo senso, nel nostro Paese si stanno facendo dei test interessanti. A livello europeo la Svizzera è ben rappresentata, con 5 membri nei consessi importanti. Nell’ambito del salvataggio, anche non avendo il mare e tutte le problematiche ad esso legate, il nostro Paese è ben posizionato dopo la Germania, la Francia, l’Italia e la Spagna. E questo proprio grazie all’inestimabile presenza del volontariato e alla sua attività! Tranne per l’amministrazione della SSS che è centralizzata (a Sursee) e professionale, le attività sul terreno sono svolte tutte da volontari. Il loro valore non ha prezzo. Lei è presidente della Commissione cantonale Acque sicure. Da questo suo particolare punto di vista, cosa nota al momento attuale, appena usciti da un periodo di chiusure?
Sicuramente questa estate sarà particolare, proprio per i motivi esposti in apertura della nostra intervista. Ma spero vivamente che poi piano piano si possa tornare alla normalità a partire dal 2021. Quel che mi dispiace e reputo negativo, è il fatto che questa pandemia ha costretto anche all’annullamento di tutti i corsi di nuoto delle scuole e di buona parte di quelli estivi negli stabilimenti pubblici. I nostri giovanis-
E per concludere, come vede il futuro della Salvataggio svizzera?
Negli ultimi anni, con i miei colleghi, abbiamo preparato il terreno al cambiamento. Con la persona di Clemente Gramigna, che siede nel comitato centrale della Salvataggio, penso che abbiamo posto una buona garanzia di continuità. Negli ultimi 20 anni, come ticinesi, abbiamo acquisito cariche importanti. Ora è in corso la transazione e auspico di cuore che queste funzioni vengano mantenute anche in futuro. Un futuro che ci vede attivi sempre e soprattutto come volontari, in sottile equilibrio con le esigenze provenienti dal mondo professionale. Le competenze nel soccorso sono necessarie, ma noi riteniamo che non vada persa la visione di base. In Ticino godiamo di un’ottima immagine e reputazione, siamo visibili e credibili, anche per le ottime collaborazioni con i nostri partner. Lo sforzo della Regione Sud, con il nuovo presidente Daniele Bisang, sarà anche quello di coinvolgere e invogliare le giovani leve e rinnovare i ranghi delle Sezioni. Inoltre, e questo è il mio auspicio, spero si trovi qualche giovane che sia disposto a… seguire le orme e a mettersi a disposizione per entrare in questi consessi (cantonali, nazionali ed esteri) e per favorire gli scambi nazionali e internazionali che portano un arricchimento a tutto il movimento.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Iain Lawrence, The skeleton tree, San Paolo. Da 13 anni Non è un horror, come il titolo potrebbe far presupporre, ma un’intensa e ruvida avventura di sopravvivenza, tutta al maschile, alla Robinson, in una terra selvaggia sulle coste dell’Alaska. Un «into the wild» non voluto, accidentale, di due ragazzini: Chris, l’io narrante, e Frank, di poco maggiore. Chris era stato invitato da suo zio a un viaggio in barca a vela, dove gli viene presentato questo scontroso e misterioso ragazzo, Frank. Neanche il tempo di comprendere il motivo della sua presenza a bordo, che una tempesta fa affondare la barca e i due ragazzi riescono fortunosamente a raggiungere la costa. Sono salvi, ma per quanto? Il luogo è inospitale, senza presenze umane, attraversato da animali –orsi, lupi – da cui guardarsi. Nessuna possibilità di comunicare con chi potrebbe mandare soccorsi. Chris e Frank non sanno precisamente dove sono (isola? Terraferma?) e con il passare dei giorni temono di perdere pure la percezione del tempo. Devono sopravvivere. Bevono dal
torrente, si cibano di salmoni, trovano riparo in una capanna nella foresta, intuendo quindi che qualcuno ha abitato quei luoghi prima di loro. Le tracce del passato sono importanti in questo romanzo: non solo le tracce di chi è stato lì qualche tempo prima, ma anche le tracce delle antiche popolazioni, con i loro riti, come quello delle sepolture sugli alberi, da cui il titolo del libro. E soprattutto le tracce del passato personale dei due ragazzi, entrambi orfani di padre, che da questa convivenza forzata e difficile dovranno trarre la forza per instaurare un dialogo e per elaborare la loro rispettiva storia famigliare. L’assenza di padre è cruciale in questa storia
di formazione, in cui due ragazzini devono diventare «uomini», e lo devono fare in autonomia, confrontandosi con un modello paterno che non c’è ma che esiste nelle pieghe della memoria. C’è un terzo personaggio importante e reale, oltre a Chris e a Frank, ed è un corvo. Un corvo al quale Chris si lega moltissimo, mentre Frank (che a causa della superstizione ne diffida, nonostante ostenti coraggio) lo scaccia senza pietà. Ma il rapporto tra Chris e il corvo è commovente, ed è una delle componenti migliori del romanzo (tra l’altro, non a caso, nella capanna i ragazzi trovano un vecchio libro sgualcito che racconta una storia di formazione di un ragazzo salvato dai corvi). L’autore, il canadese Iain Lawrence, sa di cosa parla, perché lui stesso, come ci racconta in postfazione, ha una vita molto «into the wild». Il romanzo è stato finalista al Premio Andersen di quest’anno. Michael Engler – Joëlle Tourlonias, Io e Te amici per sempre, Il Castoro. Da 3 anni «Devi tornare nel tuo passato e
rivivere le emozioni che hai provato da bambino quando vuoi scrivere un libro onesto» afferma l’autore, Michael Engler, nell’intervista che troviamo sul sito dell’editore (www. editriceilcastoro.it). Ed è proprio un libro onesto nel senso più alto del termine questo, scritto da un autore (e da un’illustratrice) che si sono davvero messi ad altezza di bambino, raccontando gli stati d’animo che i più piccoli (e forse non solo loro) possono provare attraversando quel meraviglioso, ma così delicato, territorio dell’amicizia. Gli amici in questione sono Leprotto e Riccio, già
protagonisti dell’altrettanto sincero Io e Te ci vogliamo bene, uscito l’anno scorso. In questa nuova avventura Riccio è alle prese con il tipico «terzo incomodo» nella coppia di amici: Scoiattolo, che desta l’ammirazione di Leprotto perché salta così bene, e che si diverte con lui nel bosco, lasciando solo Riccio. Riccio li cerca, sentendosi inadeguato (non è agile come loro, non ha il pelo soffice come loro...) e quando li trova, pur di farsi accettare, acconsente a giocare a nascondino facendo «quello che conta». I due però, mentre lui conta, scompaiono, e quando Riccio saprà da Cornacchia che stanno ridendo e scherzando da un’altra parte, la stretta al cuore si farà sentire. Tristezza, gelosia, senso di abbandono: emozioni immense possono attraversare le amicizie dei bambini. Questo semplice ma intenso libro le racconta, favorendo il rispecchiamento partecipe da parte dei piccoli lettori, che verranno condotti infine al sollievo del dolce finale, con il cuore più leggero e il groviglio di emozioni dipanato.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 luglio 2020 • N. 31
9
Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Passata è la tempesta? Così il Poeta nell’incipit di uno dei poemi meteo più celebrati della letteratura in idioma italiano. E «passata è la tempesta» sembrano cantare (pur con qualche importante ed autorevole riserva) i sessanta e rotti milioni di italofoni cisalpini emersi da qualche settimana dai luoghi serrati ed angusti dove li aveva costretti la crisi COVID-19. CR 7 è tornato in campo, ha ripreso a segnare e farci sognare e dunque è lui di nuovo la sigla sulla bocca di tutti, testa coronata dello sport nazionale di fronte al quale anche il coronatovirus deve inchinarsi. Ed è poi di oggi, 23 luglio, la notizia secondo la quale il Governo non intende estendere lo stato d’emergenza oltre il 31 luglio. Bene. Bravi. Ancora. Questo il coro di un paese che sembra(va?) aver ritrovato nelle settimane quarantenali una sorta di – paradossale a queste latitudini – (con)senso civico oggi ribadito da un indice di gradimento e consenso attorno alla persona del Primo Ministro assestato su livelli che,
fatte le debite proporzioni, per l’Italia si potrebbe definire Bulgaro. Astutissimo peraltro il Nostro a pilotare la nave nella procella: aveva dapprima annunciato di voler estendere – ahimè ci tocca anche se non vorremmo – le misure restrittive proprie dello stato d’emergenza fino al 31 dicembre. Al plauso di consiglieri scientifici prudentisti di ogni ordine e grado assurti oggi al rango di popstar si era subito opposto lo schieramento dei virologi del laissez-faire biologico. Alla veemenza dell’attacco antigovernativo da parte dei legionari di prima linea faceva ancora una volta da rincalzo la riserva dei veterani dei partiti d’opposizione forti delle opinioni di quei filosofi e maîtres à penser alcuni dei quali hanno perso un’ottima occasione per tacere. Se i primi annunciavano che – come Dio – anche il Virus è morto, i secondi denunciavano la deriva medico-dittatoriale di una politica governativa divenuta autoritaria biopolitica liberticida a bordate di citazioni di Ivan Illich, Michel Foucault
ed eponimi a volte, in fede, un poco ardite. Bene. Il Pinocchietto Nazionale ha lasciato galli e galline cantare bello chiaro senza darsi pena di replicare in quanto in tutt’altre faccende affaccendato. Tornato dai negoziati europei con 290 miliardi di buone ragioni per zittire quei sovranisti che fino all’ultimo avevano sperato in un fallimento, e tornato perdipiù in apparente ottima forma nonostante le notti insonni d’alterco coi Batavi, è passato al contrattacco con la mossa del cavallo. Tiè: questi sono i soldi e per giunta il 31 luglio ti revoco lo stato d’emergenza. Così Conte Giuseppe, giurista e docente universitario, senza partito. Il ragazzo ha imparato in fretta: dacchè sembrava un Pinocchio ingrullito fra il Gatto Di Maio e la Volpe Salvini ai tempi del suo primo governo ha messo tutti a sedere e oggi se la può godere. Per un po’. Passata è la tempesta, dunque? Un corno. Intanto la mossa di Conte rischia di rivelarsi un boomerang. La sua controparte d’opposizione, Zaia Luca,
popolarissimo governatore del Veneto in quota Lega, ha appena rotto con Crisanti Andrea, superstar genetista planetaria. Eletto Consigliere Scientifico del Doge, lo aveva rimesso in carreggiata dopo le del Doge stesso prime sbandate negazioniste della gravità della situazione in Veneto. Emerso come modello di gestione del carognavirus basata sul rigore, forse (o così dicono i maligni) chiamato a far qualcosa per differenziarsi dalle politiche governative dal Capo della Lega preoccupato anche della irresistibile ascesa nei sondaggi del luogotenente produttore di Prosecco, il Governatore ha lascato le politiche regionali al punto da far dimettere dalla carica i suo salvatore: «Io con chi sostiene che il virus è morto non ci sto». E Crisanti è uscito sbattendo la porta in nome della Scienza. Intanto il Paese, diciamo pure la verità, si è un po’ sbracato. Movide, discoteche stracolme, passeggiate a mare come torrenti in piena, risse fra adolescenti dagli ormoni fuori giri fra uno sprizzone ed
un’ammiccata di troppo alla druda del vicino, assembramenti non autorizzati, spiagge domenicali come formicai… solo a Messa, sconsolatamente annota l’Altropologo, si indossa la mascherina e si rispetta (espressione sciaguratissima) la «distanza sociale» – ma questo perché non c’è nessuno da distanziare… Ma come?! Non si scriveva ai tempi della serrata che le cose non sarebbero mai più state le stesse? Che avremmo imparato ad ubbidire al Governo, a rispettare decreti e istituzioni – ed anche a essere gentili con la natura, le vecchiette, i cagnolini e pure gli squali? Che oltre ad un New Deal economico impostato su sobrietà, saggezza e risparmio avremmo riciclato anche il riciclo? «Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa…» così salmodiavano i Flagellanti ai tempi della Peste Nera. «Non peccheremo mai più. Libera nos Domine et miserere!». Da Fedro in poi, passata la Festa i Santi restano gabbati. E comunque – da italiano cisalpino – Viva l’Itaglia!
di rievocare gli episodi negativi cerca, come stai facendo, di comprendere la mentalità di tua moglie. Probabilmente è stata educata da una mamma molto esigente, che le ha imposto di essere perfetta e ora, dopo molti anni, quella voce la perseguita ancora senza poterla mettere a tacere dato che è il suo stesso Io a darle parola. In realtà tutti, volendo essere completamente realizzati, ci scontriamo con una certa inadeguatezza. Nessuno sarà mai all’altezza dei propri ideali, altrimenti non sarebbero tali. Se essere umani significa essere imperfetti inutile, salvo gravi colpe, infierire contro di noi. Meglio accettarci e, dopo una condanna morale delle azioni che hanno arrecato danno e sofferenza, assolverci pensando che ognuno è unico, inconfrontabile, detentore di un personale valore sin dalla nascita. Eppure molte persone rifiutano la self-compassion sentendosi umiliate dall’ammettere il bisogno d’indulgenza (Kristin Neff, La self-compassion. Il potere dell’essere gentili con se stessi. Franco Angeli, Milano 2019). Ma la selfcompassion è tutt’altro che resa incon-
dizionata, significa piuttosto assumere un atteggiamento positivo, di gentilezza e di accudimento nei propri confronti. Per secoli alle donne si è chiesto di prendersi cura degli altri ignorando i propri bisogni e desideri. Ora è giunto il tempo di includere anche noi stesse tra le persone da amare, proteggere e confortare. Di fronte alle inevitabili difficoltà della vita, dobbiamo prendere atto della nostra sofferenza invece di ignorarla, considerandola una perdita di lucidità e di efficienza. Viviamo in una società estremamente competitiva che cerca di convincerci che, per quanto possiamo dare, non sarà mai abbastanza. Ma spesso è il troppo che ci opprime e ci induce a opprimere gli altri. In un momento d’intimità, leggi con tua moglie queste considerazioni e aiutala a riflettere su quanto riguardino la sua, la vostra vita. L’esercizio continuo di confronto e giudizio vi fa solo male. Vi sono in noi esperienze negative – sentimenti di disagio, di vergogna e di colpa – che non possono essere cancellati ma che, una volta ammessi, non devono risolversi in una pena senza
fine. L’apprezzamento di sé apre una parentesi di pace e di armonia che aiuta a comprendere e apprezzare i meriti di chi ci sta accanto. Ci vuole molta forza per interrompere l’abitudine all’autocritica incondizionata, spesso tagliente come la lama di un coltello, e imparare a sorridere. In fondo la self-compassion chiede solo di essere gentili con se stessi e di accettare la vita così com’è rinunciando a sentirsi migliori degli altri. Possiamo fare del nostro meglio per rendere più confortevoli le reazioni reciproche utilizzando le parole di conforto che siamo soliti rivolgere agli amici in difficoltà. Cerca, caro Claudio, di indirizzare lo sguardo di Nora sul bene e il bello che stanno intorno a voi e dentro di voi. Lo splendore è una qualità umana che illumina il mondo.
si adegua. Puntando sull’alternativa del soggiorno locale, ancora di salvezza per un settore economico in sofferenza. Delle ferie, vicine a casa, si sottolineano i vantaggi, pratici e i risvolti etici. Tragitti brevi, in treno, magari in bicicletta, e quindi meno emissioni di CO2, niente intruppamenti mortificanti, niente cattive sorprese. Invece, ci viene ribadito, si tratta di un’opportunità preziosa: per scoprire o riscoprire le bellezze e le curiosità nel nostro territorio, godute al sicuro. Ed è persino un modo per praticare quel «turismo degli interstizi», auspicato dall’antropologo Jean Didier Urbain. Significa strappare ai luoghi, più noti e vicini, i loro segreti, attraverso un rapporto di conoscenza approfondita. Il contrario, insomma, del classico «City sightseeing», dove si vede tutto e in fretta. Certo, anche il Ticino e la Svizzera
racchiudono tesori naturali, artistici, tecnologici che meritano un’attenzione, spesso disattesa, da recuperare. È un nuovo dovere civico, imposto dalle circostanze. Come non si stanca di ripetere una propaganda turistico-patriottica ad hoc: con discorsi e immagini al servizio di una giusta causa, a rischio però di eccessi controproducenti. La superesposizione mediatica logora persino la visione, ormai simbolica, del bellissimo ponte in Verzasca. Mentre a Lugano, la valorizzazione della Foce sta sfociando (mi scuso per il banale gioco di parole) nel ridicolo. Tutto ciò per dire che, a furia di esaltare i propri pregi, si finisce nella trappola di un nazionalismo di stampo autarchico. Siamo non soltanto i più belli e più bravi, ma anche autosufficienti, da ogni punto vista, culturale e persino umano. Se può consolarci, questa forma di
compiacimento autoreferenziale non è un’esclusiva elvetica. È una moda favorita, paradossalmente, dalla pandemia che, forse, non ci ha reso migliori. Anzi ha aperto un nuovo campo di competizione nazionalista, dove, ognuno vanta le proprie cosiddette eccellenze scientifiche e sanitarie, con risultati ancora incerti. Tanto da indurre gli svizzeri alle ferie in loco. Ciò che significa uno strappo alla regola. Per i nostri concittadini, la vacanza coincideva con la fuga verso orizzonti aperti, il mare soprattutto. «È scritto nel nostro DNA», dichiarava Guy Parmelin. E da parte di un ministro UDC può sorprendere. Insomma, ammette che la vacanza saggia 2020 comporta un sacrificio. Anche se, a titolo consolatorio, conclude: «Il mare aperto,a volte, si può trovare davanti a casa».
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi L’arte di essere gentili con se stessi Cara Silvia, questa volta è un marito che le scrive, contando sul suo aiuto per capire quello che sta succedendo nella nostra coppia. Sposati da sei anni, non abbiamo figli non avendo mai trovato il momento di decidere. Non siamo certo presi da compiti sublimi che salveranno l’umanità. Semplicemente troviamo difficile vivere la nostra vita, affrontare la quotidianità, tollerare l’abitudine. Nora, mia moglie, è una donna bella, intelligente e affermata sul lavoro ma perennemente insicura del suo valore. Prima di uscire a cena con gli amici, mi chiede mille volte: «Sto bene così?», «Sarò la peggio vestita, tutti capiranno che siamo i più poveri…» e così via. Dopo continui paragoni, il suo ritornello è: «non sono all’altezza, non valgo niente». Come avrà capito, le mie sincere rassicurazioni non servono a tranquillizzarla. Inghiottite in un gorgo di disistima, si dissolvono come neve al sole. Il peggio è che anch’io, non sembrandole mai all’altezza della situazione, sto perdendo fiducia in me stesso. Ascolti il nostro dialogo dell’altra sera, appena rincasato dal lavoro.
Lei: hai fatto la spesa? Io: sono appena entrato, potresti chiedermi come va. Lei: ti dimentichi sempre tutto! Io: invece la spesa l’ho fatta. Lei: Ah! non posso crederci, per una volta! La mancanza di stima che Nora prova per se stessa la butta su di me cercando di comunicarmi la sua scontentezza. E dai e dai, temo ci stia riuscendo ma vorrei, finché sono in tempo, sfuggire a questo tranello. Con il suo aiuto, se possibile. Grazie. / Claudio Caro Claudio, la situazione che descrivi è molto più comune di quanto si creda e non è possibile uscirne finché ci si limita a valutare i fatti e confrontare i comportamenti. Chi potrà mai decidere in modo assoluto se Nora è vestita meglio o peggio delle altre? Tutto dipende dai gusti, dai punti di vista, dalla situazione. Probabilmente qualche volta ti sarai scordato di fare la spesa, ma è il caso di farne un’imputazione permanente? Invece
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Anche la vacanza diventa saggia Siamo viziati. Ci si trova, in 350’000, a condividere uno spazio di vita privilegiato. Questo nostro Ticino, incuneato fra Alpi e laghi lombardi, concentra, indubbiamente, un’eccezionale varietà di paesaggi, da manuale turistico. Ecco le vette innevate, le pinete, i rustici nelle valli, i grotti sotto i castagni e, a poche decine di chilometri, le spiagge quasi mediterranee, gli oleandri, i grandi alberghi, i musei, le boutique di Lugano e di Locarno, i castelli medievali di Bellinzona, il Fiore di pietra di Botta in cima al Generoso, le chiese romaniche. E via enumerando ambienti naturali e luoghi costruiti, ormai mete frequentate. Magari, il sospetto è legittimo, trascurate dai ticinesi che, avendole a portata di mano o addirittura di sguardo, le vantano, ma non ci vanno. Come, del resto, vuole una regola generalizzata. Per vacanze
e weekend, si preferisce l’altrove, il lontano, l’esotico, a proprio rischio e pericolo, delusioni comprese. Almeno, così fino a ieri. Oggi, effetto pandemia, anche la vacanza non è più quella che era. Tempo libero, a volte sconclusionato e sprecato, si ripresenta come un’occasione di riscatto morale, culturale e soprattutto patriottico. Parola d’ordine della stagione, vacanze a «km. 0». La sigla, sin qui riservata ai prodotti agro-alimentari, ora concerne un ambito sconfinato qual era la libertà di movimento. Per la verità, non illimitata neppure nel passato. Si andava dappertutto ma, spesso, sottostando ai condizionamenti del turismo di massa, fenomeno per altro controverso: condannato se c’è, rimpianto se manca. Fatto sta che, in quest’insolita estate di frontiere chiuse e timori di contagio, il turismo
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 luglio 2020 • N. 31
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Ambiente e Benessere A sud di Granada In viaggio in Andalusia sulle orme dello scrittore Gerald Brenan
Il tempo e la globalizzazione Predilige il viaggio lento, ha girato il mondo, documentato, mostrato e difeso le diversità: si chiama Werner Kropik e ci racconta il suo lockdown
Le risorse delle foreste blu Madagascar: le mangrovie sono fonte di molti benefici non solo per la popolazione
Arriva la nuova Citroën C4 Un po’ suv e un po’ coupé, l’interpretazione moderna di forte personalità e stile deciso pagina 19
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Onda su onda?
Covid-19 Chiarezza, realismo
e responsabilità individuale per contenere un aumento dei contagi
Maria Grazia Buletti Sul fronte della pandemia, in Svizzera le prime settimane di luglio sono coincise con un ritorno dell’aumento di contagi. Il nostro Cantone non è in controtendenza, malgrado il numero contenuto dei nuovi positivi, almeno per ora. Questa situazione apre la porta ad alcune perplessità da parte della popolazione sulle indicazioni degli allentamenti diramate in precedenza dalle autorità federali. È inoltre palpabile una sottile confusione dovuta al susseguirsi incessante di notizie scientifiche (o che sono spacciate per tali) spesso contraddittorie e prive di evidenze sull’efficacia di farmaci, terapie e improbabili imminenti vaccini. Il nostro Cantone ha reagito adottando un primo giro di vite delle misure di protezione prontamente emanate da un Consiglio di Stato sempre «sul pezzo» (malgrado l’uscita dallo stato di necessità durato oltre tre mesi) che ha ridotto da 300 a 30 il numero massimo di persone negli assembramenti, introducendo restrizioni degli orari di apertura e altre misure collaterali per i locali notturni, allineandosi infine all’obbligo dell’uso della mascherina sui mezzi pubblici, consigliata pure vivamente negli ambienti chiusi dove non è certo riuscire ad assicurare il distanziamento (negozi, uffici e via dicendo). Certo è che la Svizzera non è pronta a tornare alla normalità, intesa come quella che vivevamo prima del Coronavirus. L’incertezza di una seconda ondata si fa strada e alimenta il fuoco sulle incognite dei mesi a venire. Seconda ondata che già si prospetta presente, a parere dell’infettivologo e direttore dell’Epatocentro Ticino professor Andreas Cerny: «Abbiamo avuto il picco della prima ondata nella seconda metà di marzo, con 70 ricoveri per Covid-19 in 24 ore tra La Carità e Moncucco, poi la calma che è risultata da tutte le misure intraprese e ben messe in atto dalla popolazione. Ciò che ora sta scatenando la seconda ondata risale alla data del 7 luglio, quando è stato allargato il permesso di assembramenti da 30 a 300 persone sull’arco di due settimane, decisione presa dal Consiglio Federale contro il parere della task force». Secondo Cerny, mantenere più a lungo il 30 come numero massimo di persone negli assembramenti sarebbe
servito «ad allenare nella raccolta dei dati dei partecipanti che, a loro volta, avrebbero imparato come comportarsi; si doveva aspettare almeno 4 o 5 settimane per vedere se ci sarebbero stati problemi coi nuovi contagi». Perché non più di 30 è facile da intuire: «Il contact tracing è ancora possibile con 30 persone, ma cosa impensabile con 300, come hanno dimostrato i due casi del Flamingo a Zurigo e del Woodstock in Ticino; il risultato è che oggi il contact tracing come metodo efficace per individuare e confinare i focolai pare sia già ingestibile». A favore di queste considerazioni «canta» il tasso di riproduzione del contagio del virus: «L’ultima stima al 26 giugno è di 1,95: ogni persona contagia due persone e la curva dei contagi prende l’andamento esponenziale che nessuno di noi vorrebbe». In Ticino è minore, ma sta comunque salendo: «È matematico: da 1,58 a 3,66 si stima il tasso e questo non ci fa più credere che il contact tracing riesca a individuare e spegnere i singoli focolai». Il nostro interlocutore, dati, grafici e tabelle alla mano, non dà le buone notizie che vorremmo sentirci dare; d’altronde, come dare bad news senza creare diniego? «Noi medici dobbiamo fare squadra con i media ed è importantissimo che ci rendiamo disponibili senza creare confusione». A questo punto, è necessario provare a fare un po’ di chiarezza laddove sia possibile, senza dimenticare quanto gli specialisti hanno ripetutamente affermato: si tratta di un virus a noi ancora molto sconosciuto, contro il quale stiamo imparando a difenderci, e per ora bisogna attenersi ai dati osservazionali delle tantissime ricerche in corso, senza dimenticare che quello che si osserva oggi potrebbe non essere la verità di domani. In parole povere: dobbiamo davvero prendere con le pinze tutta la grande mole di informazioni frammentarie che riceviamo, affidandoci alle (poche) certezze che abbiamo: «Fra queste continuiamo a mettere in pratica il comportamento adeguato delle misure di protezione che abbiamo oramai imparato a conoscere: distanziamento sociale, disinfezione e pulizia delle mani e uso della mascherina». Occorre dire una volta per tutte (come già ha più volte ripetuto il vaccinologo dottor Alessandro Diana) che il vaccino non sarà dietro l’angolo, per
L’infettivologo e direttore dell’Epatocentro Ticino professor Andreas Cerny. (Stefano Spinelli)
una serie di ragioni di ricerca e di efficacia, malgrado ogni tanto qualcuno gridi «al lupo! Al lupo!»: «Trovarlo in fretta farebbe la differenza ma non è realistico; penso piuttosto a un trattamento poco caro ma efficace, più facilmente raggiungibile: i vaccini sono sempre qualcosa di delicato perché parliamo di materiale biologico che, per la sua natura preventiva, deve ottemperare a una provata efficacia con pochi o nulli effetti collaterali. Ora che siamo più preparati nella diagnosi, una terapia è la migliore soluzione ottenibile in termini ragionevoli». Chiediamo chiarimento sugli anticorpi degli asintomatici che, pare, svaniscano in 2/3 mesi; così fosse, significa che chi si è ammalato non è immune dall’ammalarsi una seconda volta. Cerny ammette che queste notizie «creano confusione» e le spiega con «la
grande fame di avere notizie e risultati»: «In Svezia, uno studio autorevolissimo di Karolinska ha evidenziato che, a livello di immunità, le cellule T sono in grado di controllare il virus mantenendone la memoria a lungo termine, pur non essendo più presenti gli anticorpi». Anche questo è da prendere con le pinze: «È uno studio interessante e autorevole, ma recentissimo (29 giugno) che, con le dovute verifiche scientifiche, darebbe una certa speranza sul fatto che una branca del nostro sistema immunitario terrebbe conto del contatto precedente col virus e sarebbe dunque in grado di reagire una seconda volta». Siamo sempre sul punto di prendere atto della ricerca galoppante, senza perdere la consapevolezza di non poter ancora trarre conclusioni certe. Certo però è che l’immunità di gregge
rimane una chimera non percorribile. Ciò è confermato pure dai primi dati dello studio cantonale che indica come solo il nove per cento circa della popolazione ticinese abbia sviluppato anticorpi dopo essersi ammalata di coronavirus: «Troppo pochi sono anche in Svezia, dove hanno puntato su un’immunità di gregge che però si è fermata a circa il 15 per cento, a fronte dell’85/90 necessario ad assicurarla». Affidiamoci alle poche certezze che gli specialisti e la ricerca stanno costruendo, applichiamo le misure di protezione responsabilmente e, con sano realismo, pensiamo a quanto affermato da Peter Piot, il virologo di fama mondiale che ha scoperto l’Ebola: «La pandemia di Coronavirus è appena cominciata, ma la seconda ondata potrebbe avere caratteristiche molto differenti dalla prima».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 luglio 2020 • N. 31
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Ambiente e Benessere Capileira Alpujarras, sullo sfondo il Pico Veleta. (Natalino Russo)
L’identità andalusa
Viaggiatori d’Occidente La Spagna meridionale di Gerald Brenan poeticamente descritta
nel suo romanzo autobiografico A sud di Granada Natalino Russo «A sud di Granada, oltre le torri rosse dell’Alhambra, si vede una catena montuosa chiamata Sierra Nevada, ricoperta di neve tutto l’anno». Sono parole di Gerald Brenan, un giovane inglese che nel 1919 viaggiò per la prima volta nella Spagna meridionale. Come tanti altri suoi connazionali, dopo aver combattuto nella Grande Guerra, il venticinquenne Gerald era in fuga al tempo stesso dagli orrori delle trincee e dalle convenzioni borghesi.
Brenan camminò due giorni a piedi da Alpujarras a Granada: oggi, 80 anni dopo, bastano due ore di strada in auto Irrequieto, con alle spalle alcuni viaggi avventurosi poco prima della guerra, visitò l’Andalusia e se ne innamorò. In particolare, rimase affascinato dalle Alpujarras, una regione sul versante
meridionale della Sierra Nevada. Era un luogo isolato e tranquillo, lontano dal trambusto delle città, e soprattutto molto economico. Brenan decise che era il posto dove vivere, il luogo ideale per compiere gli studi rimasti in sospeso a causa della guerra: e così inscatolò la sua biblioteca di duemila volumi e si trasferì in quelle montagne. Con i suoi risparmi riuscì ad acquistare una grande casa rurale a Yegen, il villaggio più sperduto delle Alpujarras, un posto raggiungibile soltanto a dorso di mulo. Qui il giovane Brenan trovò un grande senso di poesia e al tempo stesso un forte contatto con la realtà, con la natura e con gli uomini. Questa sensazione iniziale fu così potente e duratura da trattenerlo a Yegen per quasi quindici anni, dal 1920 al 1934, ben oltre le sue originarie intenzioni. E quell’esperienza diede inizio a un legame con la Spagna destinato a durare per tutta la vita. L’Andalusia svelò lo scrittore nascosto in lui. A quegli anni è dedicato un suo libro pubblicato nel 1957: A sud di Granada (Neri Pozza): sono pagine intense, emozionanti, una celebrazione partecipe dell’identità andalusa. Come in un romanzo, Brenan narra la sua
La terrazza di una delle case di un paesino delle Alpujarras. (Natalino Russo)
vita a Yegen fatta di giorni tranquilli, di scrittura e di passeggiate, di lunghe conversazioni con gli abitanti del posto. È un libro denso di storie di cultura contadina, vite regolate da convinzioni immutabili, stratificate nel corso di secoli di isolamento. A Yegen, come negli altri villaggi delle Alpujarras, non si sapeva nulla dell’Europa oltre i Pirenei, i giornali non arrivavano e a stento era giunta l’eco della guerra mondiale da poco conclusa. Brenan racconta invece le sere al chiaro di luna, quando erano sufficienti un flauto o una chitarra per apparecchiare una festa. Vent’anni fa anch’io – dopo aver attraversato la Spagna in lungo e in largo, spesso in autostop – avevo provato
Yegen Alpujarras. (Natalino Russo)
la stessa attrazione di Brenan per la vita e la lingua andalusa. Avevo sperimentato il passaggio dagli sterminati uliveti riecheggianti di cicale alla frescura silenziosa della montagna, mi ero arrampicato nelle strette valli che incidono i versanti settentrionali della Sierra Nevada, avevo superato i valichi di montagna ammantati di pinete ed ero passato dall’altra parte, in quelle Alpujarras dove i paesini di case imbiancate a calce si aggrappavano a profondi burroni solcati dai calanchi, e sembravano sparire nell’immensità di quella montagna imponente. Al tempo di Gerald Brenan per raggiungere Granada dalle Alpujarras erano necessari due giorni di cammino: ottant’anni dopo a me erano
sufficienti due ore in automobile. Le mulattiere erano ormai state rimpiazzate dalle strade asfaltate e i paesini accoglievano il viaggiatore con cartelli di benvenuto, ristoranti e i primi timidi bed & breakfast. Nelle Alpujarras sono tornato più volte, anche di recente. Com’è inevitabile, molte cose sono cambiate. E tuttavia la modernità non ha cancellato lo spirito solitario e selvaggio dei luoghi. I paesini sono ancora silenziosi, nelle piazzette e davanti ai bar il tempo scorre tranquillo. I gruppi di case imbiancate si stagliano come villaggi berberi contro le sagome scure e incombenti dei monti, i piccoli campi coltivati sono macchie verdi che ricordano le oasi dell’Atlante marocchino. La Sierra Nevada è una presenza costante, con le sue cime incombenti e le profonde vallate incise da torrenti che in primavera si fanno impetuosi. A Yegen, sulla casa che fu di Brenan, campeggia una iscrizione in ceramica. E la fama del libro porta fin qui di tanto in tanto lettori appassionati e hipster curiosi. L’aria fresca e secca è rimasta la stessa, come sanno bene gli amanti del jamón serrano, il famoso prosciutto spagnolo che viene stagionato proprio in queste vallate. E le notti sono ancora stellate e profonde, libere dall’inquinamento luminoso. Come nel resto dell’Andalusia, anche nelle Alpujarras non sono mai scomparse le sonorità del cante jondo, quel flamenco struggente che ha molto di arabo e che anche nel mio ultimo viaggio ho sentito riecheggiare nelle case e nei vicoli: un vicino, o un gitano di passaggio, imbracciano una chitarra e altri l’accompagnano con un sapiente battito delle mani al ritmo di una sevillana o di una malagueña. «Non è la stessa cosa ascoltare questa musica alla radio, – mi ha detto la vecchietta dove ho alloggiato l’ultima volta – dal vivo ti prende l’anima». Forse da bambina aveva visto passare per le strade del paese un giovanotto venuto da lontano, e da tutti chiamato el inglés.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 luglio 2020 • N. 31
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Ambiente e Benessere
Il giro del mondo a colpi di pedale Intervista Una vita da reporter, Werner Kropik racconta il vagabondare in sella alla sua bicicletta,
ma anche l’esperienza del lockdown
lazione. Quando sono stato in India la prima volta, c’era una popolazione di 380 milioni di abitanti, oggi ne conta oltre 1 miliardo e 300 milioni. Con o senza Homo sapiens il pianeta andrà avanti lo stesso. Sta a noi stabilire come poter creare ancora un ambiente che ci permetta di sopravvivere.
Guido Grilli Ha visto Wuhan e il mercato degli animali dove tutto è cominciato, probabile primo focolaio del virus, «luogo spaventoso, dove i cinesi vendevano e mangiavano di tutto, serpenti, pipistrelli, scarafaggi». Oriente, Asia, Sud America, Africa. Ha girato quasi l’intero mondo, conservandone le immagini, in buona parte salvate per sempre nelle pellicole dei suoi 290 documentari – ampie finestre sul pianeta, Ticino incluso – trasmessi regolarmente sugli schermi della Rsi e di Teleticino. Werner Kropik, 78 anni, è uno di quegli uomini semplici e saggi. Luganese di adozione, originario di Vienna, si accompagna all’inseparabile bicicletta, una passione intramontabile, basti dire che nel 1994-1995 ha pedalato per sette mesi e mezzo da Lugano a Hong Kong.
Ma il mondo è ospitale?
Quando si viaggia occorre per prima cosa ascoltare la gente del luogo. Una volta in Kashmir, dove si troverebbe la tomba di Gesù, volevo entrare nella vecchia città di Srinagar. Qualcuno mi avvertì che era meglio rinunciare, io non lo ritenevo pericoloso e, fatti due passi, ho sentito gli spari di un Kalashnikov dei militari indiani. L’indomani invece era più tranquillo e sono riuscito a compiere la visita. Occorre valutare in ogni momento quanto vuoi rischiare, ma se stai un po’ attento il mondo non è così pericoloso come i giornali ci fanno credere…».
Il lockdown? Kropik lo ha sconfitto con le emozioni affidandosi ai ricordi di diari e immagini Ma l’instancabile viaggiatore come ha potuto superare il forzato periodo di confinamento, costretto tra le mura di casa?
In fondo, molto bene. Perché nel mio cervello ho i ricordi di più di cinquant’anni di viaggi. Per fortuna ho salvato tanto – fotografie, pellicole. Le immagini ti aiutano a ricordare le cose vissute. E questo provoca nuovamente delle emozioni, che rappresentano quanto più ci interessa. Noi cerchiamo emozioni per vincere la noia micidiale che ci affligge. Tanti non lo ammettono: per me il problema principale nel mondo Occidentale, dove possediamo mangiare a sufficienza e una certa sicurezza sociale, è la noia. Abbiamo creato un mondo dove basta premere bottoni e tutto si apre, dalla porta del garage al computer. Siamo diventati Homo sapiens che sanno schiacciare solo pulsanti. Per questo, dei miei viaggi non mi interessano le culture simili alle nostre – Stati Uniti o Giappone – ma piuttosto culture arcaiche che rappresentano il nostro passato: se vado in Nepal vivo e annuso la realtà di un piccolo contadino della Verzasca di cent’anni fa. Questo è affascinante, perché ci permette di compiere non solo un viaggio nello spazio geografico, ma anche nel tempo passato. Personalmen-
Cosa cerca dai viaggi?
Werner Kropik.
mentalmente. Ho tirato fuori dei vecchi diari – per tutti i miei viaggi ho sempre tenuto diari – così ho riscoperto cosa ho mangiato a Katmandu, quale bus ho preso. Questo mi aiuta a orientarmi nella memoria. Io consiglio a tutti di usare due metodi per salvare i ricordi: scattare fotografie e scrivere un diario. Ti conferma che ogni attimo è prezioso, perché unico e irripetibile. Magari un gatto non lo farebbe, non gli importa questa memoria perché vive il momento.
te sono stato fortunato a essere nato nel momento giusto, dove è stato possibile viaggiare, e nel posto giusto, perché se nasci nella Corea del Nord certamente non hai questa libertà.
Siamo dei privilegiati…
Sì, e però dobbiamo rendercene conto, perché altrimenti uno si abitua al benessere, alla libertà e li dà per scontati. E allora trova mille ragioni per essere scontento, perché qualcosa non è mai così come vorrebbe. Questo osservare te stesso, come funzioni, come scivoli dentro nelle frustrazioni, è un compito che ognuno di noi deve svolgere.
Anche il Ticino può rappresentare un valido viaggio?
Certamente. Io vivo in Ticino dal 1964 e se ho deciso di stabilirmi qui è perché c’è una natura bellissima. Ho setacciato il Cantone con la mappa 1 a 25mila, complessivamente più di 5mila chilometri, perlustrando ogni sentiero percorribile. E ho cominciato da subito anche a documentare il Ticino, ma per conoscerlo a fondo occorre camminare. Personalmente sono molto attratto dagli affreschi nelle cappelle, che in parte hanno già 400 anni e tante non sono purtroppo state restaurate a dovere. Un peccato, perché tutto passa, tutto crolla… il ponte di Genova… o il Tempio di Gerusalemme, per questo io
Qual è stato l’antidoto all’isolamento?
Un filosofo indiano che amo leggere e che consiglio, brillante perché non ha mistificato niente e ha chiamato le cose per quello che sono, è Uppaluri Gopala Krishnamurti. Se uno si trova in una situazione di disagio, come è avvenuto per il lockdown, va capito che ci sono dei metodi per non lasciarsi trascinare dentro un vicolo cieco. Il lato creativo delle cose che svolgo – scrivere testi per i miei documentari, spesso in due lingue, italiano e tedesco – mi tiene occupato il cervello. Non aver potuto spostarmi fisicamente in questi mesi non mi ha impedito di spostarmi
sono quasi del parere di lasciar morire in pace queste opere dell’uomo, restaurarle significa rubare le loro anime.
Qual è il pronostico di Kropik sulla pandemia?
La pandemia ci ha reso consapevoli che siamo vulnerabili. Ma occorre ricordare che questa realtà in Africa esiste da lungo tempo, si pensi all’ebola e alla malaria. La peste bubbonica, per esempio, esiste ancora nell’Asia centrale. L’uomo, dato che la scimmia è furba, ha sempre imparato ad adattarsi per sopravvivere. Impareremo a destreggiarci con questo virus. Non sono pessimista. Non è la fine. La mia opinione è comunque che al mondo siamo in troppi. Dobbiamo imparare a vivere per andare avanti. In Africa si contano ogni anno 30 milioni di abitanti in più. Il guaio è che la terra coltivabile non aumenta e abbiamo già sfruttato al massimo il pianeta. L’anno scorso sono stato in Indonesia e ho potuto constatare quanto la giungla rimasta in Sumatra venga tagliata per produrre l’olio di palma, con gravi conseguenze per gli orangutan che vengono privati del loro habitat naturale. Anche gli incendi in Siberia, in Australia, in Brasile sono una conseguenza della sovrappopo-
Un modo di vivere arcaico, dove puoi vivere ancora l’artigianato. Esistono mestieri che da noi sono scomparsi. Per esempio, il riparatore di ombrelli. In India o in Pakistan trovi invece chi vende il fumo per scacciare le mosche: passano sui banchi dei mercati per allontanare questo insetto e vengono pagati per questo servizio. È bellissimo passare da questi Paesi in cui le persone vivono come nel nostro passato, il nostro Medioevo. Si impara a capire quanto noi abbiamo perso. Io cerco piuttosto le zone dove non arrivano la strada, l’elettricità, Internet, i telefonini. E ci sono delle zone che si raggiungono solo a piedi, come nel Dolpo, in Nepal: devi camminare anche per tre settimane per vedere certi posti. E questo lo trovo fantastico, è Medioevo completo. Hai magari un asino o un cavallo per il bagaglio e tu scandisci il ritmo dei tempi della Via della seta. Arrivare da qualche contadino la sera, star vicino al fuoco, e mangiare il loro cibo, un po’ di orzo, un po’ di formaggio e un tè. Lo trovo un privilegio. Cerco sempre queste zone più appartate, che esistono ancora. Il mondo si sta globalizzando e fra poco anche queste popolazioni avranno l’iPhone. Il prossimo viaggio?
Non escludo il Gujarat, in India, che avevo programmato per il 27 febbraio, ma al quale ho dovuto rinunciare per il lockdown. Ma voglio anche lasciarmi sorprendere, come è successo lo scorso anno, quando ho compiuto un lungo trekking in Ladakh. Piani fissi non ne ho. Le cose capitano… Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Lo scritto sul bere più antico
Scelto per voi
Vino nella storia I primi riferimenti al vino sono in caratteri cuneiformi e risalgono
a quasi 2500 anni avanti Cristo Davide Comoli Da millenni il vino è presente nella vita dell’uomo. Molte società gli hanno dedicato un po’ della loro vita, un po’ del loro pensiero, un po’ della loro arte, un po’ della loro fatica e molte società gli hanno attribuito dei valori. Il più antico documento reperito fino ad oggi dagli archeologi, che riporta un esplicito riferimento al vino è scritto in caratteri cuneiformi ed è datato tra il 2350/2450 a.C. È contenuto in una iscrizione dove vengono enumerate le imprese di Urukagina, sovrano sumerico di Lagash. Fra le sue gesta degne di lode, è segnalata la costruzione di un deposito, dove veniva immagazzinato il vino in grandi vasi. Secondo l’iscrizione, il vino proveniva «dalla montagna» e, secondo studiosi della cultura mesopotamica, questo riferimento potrebbe indicare una parte pedemontana del Caucaso, costituita dall’Anatolia Orientale. Dopo questa prima citazione il vino compare sempre più spesso negli antichi testi in cuneiforme. Si tratta soprattutto di documenti commerciali. Migliaia di tavolette testimoniano un fiorente commercio d’importazione che si svolgeva per via terra e per via fluviale. Il punto nodale di questo commercio con il nord era Karkémish, grande porto sul fiume Eufrate, poco a nord di Aleppo; Eman era invece il porto di contatto verso
Filari della Luna
Un frammento di cono di argilla, con iscrizioni di Urukagina, risalente al 2500 a.C.; appartiene alla collezione del Museo del Louvre a Parigi. (Marie-Lan Nguyen)
l’Occidente per il collegamento con Aleppo, Canaán e i porti della costa mediterranea, come Biblos e Ugarit, celebri zone reputate per i loro vini. Lungo l’Eufrate navigava una flotta specializzata nel trasporto del vino e grazie alla decifrazione delle
tavolette, possiamo persino conoscere il nome degli antichi mercanti di vino che operavano in Mesopotamia. Veniamo così a sapere che il costo del vino in queste terre ricche di cereali era molto alto. Il vino veniva venduto a un «siclo» ogni 20 l, vale a dire un
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Salendo da Bioggio, la strada con una lunga successione di curve ci porta a Bosco Luganese, ridente villaggio che s’affaccia sul golfo di Agno. Tra i due villaggi aggrappati alla montagna troviamo i vigneti dove, dal 1989, Umberto Monzeglio, con l’aiuto del figlio Matteo – lavorando duro per liberare il terreno dalle sterpaglie, regno dei cinghiali – ha dato sfogo alla sua passione: quella di produrre vino. Lavorare la vigna in queste zone è una vera fatica; qui tutto si fa manualmente, come d’altronde succede in quasi tutto il nostro Cantone e questo, dobbiamo ricordarlo ai nostri lettori, incide sul prezzo, in quanto si tratta di una fatica da «Viticoltura Eroica». Filari della Luna è un nome poetico ben appropriato a questo Merlot: guardare le luci lontane di Lugano tra i filari delle vigne, abbarbicate sui pendii che salgono a Cademario, alla luce della Luna è un’esperienza indimenticabile. Con i suoi intensi profumi di piccoli frutti rossi e leggera speziatura, con i tannini vellutati e la persistenza gusto/olfattiva, il Filari della Luna è l’ideale compagno di una cena romantica, magari guardando le «stelle cadenti» nella notte di San Lorenzo. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 32.–. rastrelliere che custodivano le riserve reali di vino, su talune di esse ci sono state trasmesse alcune curiosità sul modo in cui si beveva. Sappiamo così che a Mari si mescolava al vino, acqua, miele ed essenze aromatiche. Alle tavole più esclusive si beveva il vino raffreddato con il ghiaccio. Questo si raccoglieva d’inverno sulle montagne e si conservava in appositi magazzini (ne abbiamo visitati alcuni in un nostro recente viaggio in Iran). Bere vino era indice di festa, di allegria, siglava la conclusione di un contratto, simboleggiava la riconciliazione e l’omaggio verso gli dei. Un’iscrizione su una tavoletta datata fine II millennio a.C., che accompagnava un dono di vino a un re di Babilonia, riporta questo augurio: «Che il mio Signore beva la vita, bevendo il vino amaro di Tupliash, resto dell’offerta alla dea Ishtaran, che ti ama». Interessante anche la descrizione di un memorabile banchetto che venne organizzato all’inizio del I millennio a.C. in Assiria nella città di Kalhu, l’odierna Nimrod. Il re per celebrare il suo potere aveva fatto costruire uno splendido palazzo in cui per diversi giorni fu preparato un monumentale banchetto al quale parteciparono 69’574 invitati. Il grande Assurnasirpal, fu grande anche nell’offerta di libagioni: per suo ordine distribuirono 12mila otri di vino ed altrettante giare di birra, le due bevande considerate le più richieste e più amate dalla civiltà mesopotamica. La birra a base di orzo era la bevanda più comune, il vino la più pregiata e segno di elevato stato sociale.
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Ambiente e Benessere
La voglia di mangiare unto La versione più precisa di un’esigenza che prima o poi viene a tutti me la sintetizzò un amico anni fa: ogni tanto ti viene voglia di mangiare unto. Cosa vuol dire? Significa che per quanto oggi prevalga, come è giusto che sia, una cucina, quella di tutti i giorni, leggera e con pochi grassi, ogni tanto, sia d’estate sia d’inverno, vien voglia di un piattone iper-carico, dove non badi a calorie e grassi. Piatti anche semplici, ma ricchi e scacciapensieri.
La ricetta originale propone questo piatto solo con fagioli stufati e conditi con peperoncino piccante, cioè il chili Quando ero giovane, il mio piatto unto «top» era francese: gli Oeufs en meurette. Sostanzialmente questa portata è composta da due crostoni di pancarrè saltati con il burro – e sa il cielo quanto burro riesce ad assorbite un crostone in cottura – coperti ciascuno da un uovo in camicia e nappati con una sontuosa salsa a base di vino rosso, pancetta, scalogni, funghi e ancora burro. Fidatevi, più unto non si può. Ma era un piatto che comunque richiedeva una certa perizia per la cottura delle uova e quando cucini unto non hai voglia di stare troppo attento. Quindi quella specialità fu poi sostituita da una mia versione di un piatto, che all’epoca era considerato «mitico»: gli gnocchi alla 10 P. Ovvero con un sugo a base di panna, porri, piselli, pomodoro (poco), peperoni (verdi), porcini, prosciutto, prezzemolo, parmigiano e pepe di Sichuan. Scaldi tutti gli ingredienti e poi mescoli gli gnocchi appena sono cotti. Continuo a farlo, ogni tanto, che la panna resta una grande amica dell’unto. Il chili con carne lo scoprii, come tutti, negli spaghetti western. Non è un piatto messicano ma texano, anzi per
essere precisi il nome della «cucina» – della quale il chili con carne è il culmine – è tex-mex: termine che a dirla tutta ai messicani non piace molto. La ricetta originale propone questo piatto come semplicissimi fagioli stufati e conditi con peperoncino piccante, appunto chili (nome archetipo di peperoncino, pomodoro, cipolle, origano cumino e altro). Qualche genio, in seguito, ebbe però l’idea di arricchirlo con carne trita, nella versione più popolare, o tagliata a dadini al coltello, nella versione più nobile. Il successo fu travolgente e oggi insidia gli hamburger e la torta di mele come piatto nazionale degli Stati Uniti. Conquistò anche me, da allora ne faccio una versione tutta mia e facilissima, e la faccio molte più volte di quanto si possa pensare. Di più, spesso (ma non sempre) nel mio frigo c’è una busta sottovuoto di chili con carne, per le emergenze. E una consorella nel freezer, in forma di mattonella sottile, che si scongela in un attimo. Ecco qui la ricetta. Chili con carne (ingredienti per 6 persone). Prendete 800 g di un taglio non troppo magro di manzo, per esempio biancostato. Spellate 400 g di salsiccia a piacere. Tritateli insieme, una sola volta, oppure tagliateli a dadi molto piccoli con un pesante coltello da cucina. Scaldate in una casseruola un allegro giro di olio con 2 spicchi di aglio, unite la carne e rosolatela uniformemente per 5’, mescolando bene con un cucchiaio. Unite 6 cucchiai di salsa di pomodoro, una punta di concentrato di pomodoro stemperata in poca acqua, 1 cucchiaio di zucchero di canna, 6 peperoncini verdi freschi mondati e tritati e 300 g di cipolle a fette, anche decongelate. Bagnate con un bicchiere di vino rosso sobbollito per 3’ e un bicchiere di acqua bollente, coprite e cuocete coperto a fuoco dolcissimo per 1 ora, unendo poca acqua bollente se asciugasse troppo. Aggiungete 2 scatole di fagioli neri o rossi scolati, 2 o più peperoncini rossi secchi tritati, cumino a piacere e 1 pizzicone di origano secco; a questo punto cuocete ancora per pochi minuti e il piatto è pronto.
CSF (come si fa)
Cyclonebill
Allan Bay
Archive defense gov
Gastronomia Quando viene, è utile avere ricette non complicate a portata di fornelli come il «Chili con carne»
Nell’infinita casistica della pasta ripiena, presente in tutto il mondo, svettano i tortellini – insieme a millanta altri formati, succede. È un tipo di pasta fresca ripiena di origine emiliana: in bolognese si dice turtlén e in modenese turtlein. Il tortellino è l’erede di una lunga progenie di prodotti nati in un ambiente povero per «riciclare» la carne avanzata dalla tavola dei nobili. I tortellini
hanno forma simile ai cappelletti, ma sono più piccoli, con la sfoglia più sottile e una minore quantità di ripieno, caratteristiche che consentono una piegatura più piccola e aggraziata, da attribuire, secondo la leggenda, a un cuoco che avrebbe preso ispirazione dall’ombelico di Venere. Per il ripieno, la ricetta diciamo così canonica prevede lombo di maiale, prosciutto crudo, mortadella di Bologna, parmigiano reggiano, uova e noce moscata. Tradizionalmente sono cotti in brodo di cappone o gallina sgrassati, ma non vengono serviti nel brodo di cottura, oramai intorbidito dalla farina, bensì in altro brodo. In alternativa possono essere serviti asciutti, variamente conditi. Ecco come si fa la mia versione non ortodossa. Tortellini (per 6 persone). Tagliate a
dadini 200 g di lonza di maiale e rosolateli per 10’ in una casseruola con una noce di burro. Passateli 2 volte nel tritacarne con 100 g di prosciutto crudo e 100 g di mortadella e amalgamate il trito con 2 uova, 150 g di grana grattugiato e una grattugiata di noce moscata. Preparate la pasta fresca all’uovo con 500 g di farina, poi tirate una sfoglia sottilissima (circa 1 mm) e ritagliate dei quadrati di 4 cm di lato. Mettete al centro una piccola nocciola di composto, ripiegate la pasta a triangolo, premendo bene gli orli, arrotolate il triangolo intorno all’indice e fate combaciare le estremità stringendole; ripiegate all’insù il bordo opposto. Fate riposare i tortellini per 30’ appoggiandoli, ben distanziati, su uno strofinaccio infarinato, poi cuoceteli in brodo per 2’.
Ballando coi gusti Oggi, semplici biscotti che vanno bene sempre. Estate e inverno, per merenda o per chiudere un pasto.
Biscotti di noci e canditi
Fichi ripieni
Ingredienti per 10 persone: 100 g di gherigli di noce · 50 g di canditi di arancia
Ingredienti per 10 persone: 20 fichi secchi · 70 g di gherigli di noce · 70 g di man-
Tritate le noci e i canditi. Versate in un pentolino lo zucchero con il miele e un bicchiere di acqua, e fateli cuocere su fuoco dolce fino a ottenere uno sciroppo denso. Togliete dal fuoco e mescolatelo con 300 g di farina, il trito di noci e canditi e un pizzico di cannella. Unite gli albumi leggermente sbattuti, l’olio e tanta acqua quanta ne occorre per ottenere un composto consistente ma morbido. Trasferitelo sulla spianatoia e impastatelo con la rimanente farina, quindi dividetelo in palline di forma a piacere. Disponete i biscotti sulla placca da forno leggermente unta di olio e cuoceteli in forno a 180° per circa 30 minuti. Sfornate e lasciate raffreddare prima di servire.
Tritate nel mixer le noci e le mandorle; trasferite il ricavato in una ciotola e amalgamatelo con i canditi sminuzzati e il cioccolato grattugiato. Tagliate i fichi secchi a metà nel senso della lunghezza, quindi farciteli con il composto preparato e richiudeteli, pressandoli leggermente. Disponeteli su una placca, irrorateli con il vino e fateli asciugare nel forno già caldo a 150° per circa 20 minuti. Spolverizzateli con zucchero e cannella, lasciateli raffreddare e serviteli.
· 300 g di zucchero · 500 g di farina · 1 cucchiaio di miele · cannella in polvere · 2 albumi · 2 cucchiai di olio.
dorle spellate · 30 g di canditi · 30 g di cioccolato fondente · vino dolce · zucchero · cannella in polvere.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 luglio 2020 • N. 31
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Ambiente e Benessere
Il segreto dei mari
Risorse naturali Gli ecosistemi costieri non sono solo preziosi per la sussistenza delle popolazioni locali,
ma giocano anche un ruolo centrale nella lotta ai cambiamenti climatici Stefano Castelanelli Baia degli assassini, sudovest del Madagascar. Gli abitanti di questa regione remota e arida sopravvivono con meno di due dollari al giorno. Le risorse naturali giocano un ruolo centrale nelle loro vite, in particolare le foreste di mangrovie. Chiamate anche «foreste blu», le mangrovie sono le piante dei mari perché crescono lungo i terreni costieri salati e inospitali, dove l’oceano incontra la terraferma. Le foreste di mangrovie sono degli ecosistemi straordinariamente produttivi, sia per la loro biodiversità unica sia per i molti benefici che offrono alle popolazioni costiere. Gli abitanti della Baia degli assassini usano questo legno per costruire case e recinzioni, e si nutrono dei pesci, gamberetti e granchi che vivono tra gli alberi acquatici. Siccome il loro legno è molto richiesto, il disboscamento e la degradazione delle foreste di mangrovie nella baia degli assassini è un problema serio con conseguenze negative per la popolazione locale. Tuttavia, una particolare caratteristica delle mangrovie potrebbe offrire una soluzione: la loro elevata capacità di stoccaggio di CO2. Alcune foreste di mangrovie possono infatti immagazzinare fino a sei volte più CO2 per kmq rispetto alle foreste pluviali. Se il valore di CO2 sequestrato dalle mangrovie viene trasferito agli abitanti della costa, essi hanno
Panoramica in volo di una foresta di mangrovie in Madagascar. (Myclimate)
un incentivo finanziario per gestire le foreste di mangrovie in modo sostenibile. Proprio questo obiettivo persegue
il progetto Tahiry Honko. L’iniziativa promuove l’uso sostenibile delle foreste di mangrovie nella Baia degli assassini.
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Ciò include la riforestazione, la creazione di aree protette e lo sviluppo di regolamenti per un uso sostenibile delle risorse. Il CO2 trattenuto nelle piante viene poi venduto sotto forma di certificati che vengono acquistati da aziende e privati da tutto il mondo per compensare le proprie emissioni di CO2. Il progetto Tahiry Honko non impedisce agli abitanti della costa di usare il legno e quindi non influisce negativamente sui loro mezzi di sussistenza. Un progetto questo, sostenuto anche dalla fondazione MyClimate di Zurigo. «MyClimate è uno dei leader mondiali nelle misure di compensazione di CO2 volontarie – spiega il portavoce della fondazione Kai Landwehr – Tutte le attività umane come volare in aereo, guidare un’automobile, vivere nella propria abitazione, lavorare o festeggiare producono CO2. Sul nostro sito web, ognuno può calcolare le proprie emissioni di CO2 e compensarle volontariamente». Il denaro viene usato per l’appunto per finanziare iniziative come Tahiry Honko, che è un esempio di progetto blue carbon. Un settore questo che sta acquisendo sempre più importanza. «Il termine blue carbon (carbonio blu) indica la promozione sistematica e mirata degli ecosistemi marini per togliere il CO2 dall’atmosfera e fissarla nelle piante acquatiche e nei fondali marini – dice Landwehr. – Si tratta principalmente delle mangrovie, ma anche di alghe e paludi costiere». Sull’importanza del blue carbon Landwehr spiega che «per rallentare il cambiamento climatico, sono necessari programmi, tecnologie e misure che limitano le emissioni di CO2, come ad esempio i progetti che sostituiscono i combustibili fossili con le energie rinnovabili o che aumentano l’efficienza energetica. Tuttavia la semplice riduzione delle emissioni di CO2 non è sufficiente per raggiungere gli obiettivi climatici internazionali. È altrettanto importante proteggere, ricostruire e promuovere gli ecosistemi naturali che assorbono e rimuovono il CO2 dall’atmosfera. Generalmente – prosegue Landwehr – pensiamo soprattutto a progetti sulla terraferma, in particolare al piantare alberi. Ma anche altri approcci aiutano efficacemente a combattere i cambiamenti climatici».
Negli ultimi anni si è scoperto il potenziale degli ecosistemi marini. «Le aree costiere, i mari e gli oceani ricoprono la maggior parte della superficie terrestre – dice Landwehr. – Essi quindi offrono enormi opportunità per assorbire CO2». Secondo la Blue Carbon Initiative, gli ecosistemi costieri come le mangrovie, le alghe e le paludi costiere sono tra gli ecosistemi più minacciati del pianeta: ogni anno viene distrutta un’area grande il doppio del Canton Ticino. E il loro degrado rilascia CO2 dannoso per il clima. Preservarli è quindi prezioso non solo per le popolazioni locali, ma per tutti noi. E i progetti blue carbon perseguono proprio questo obiettivo. «Le iniziative blue carbon promuovono gli ecosistemi costieri principalmente attraverso la riforestazione, ma possono anche includere misure di protezione di aree esistenti – spiega Landwehr. – Il potenziale è enorme. I progetti blue carbon possono svolgere e svolgeranno un ruolo importante nella protezione del clima in futuro». I benefici di queste iniziative vanno oltre la lotta al cambiamento climatico, come dimostra anche il progetto in Madagascar. «I progetti, in particolare quelli delle mangrovie, offrono tutta una serie di vantaggi che vanno oltre il fatto di assorbire CO2» continua Landwehr. «Le foreste di mangrovie proteggono le coste dalle inondazioni, contribuiscono alla crescita delle barriere coralline e forniscono habitat e rifugio a molte specie di animali e vegetali. Questo porta dei benefici sia in termini di biodiversità che di sussistenza per le popolazioni locali». Un minimo di precauzione però è sempre necessaria: «Se i progetti sono realizzati bene – afferma Landwehr – è difficile trovare aspetti negativi. Tuttavia, bisogna fare attenzione a non entrare in conflitto con gli interessi delle popolazioni locali. Le iniziative devono migliorare la loro situazione di vita. Inoltre, approcci più tecnologici come la coltivazione delle alghe al momento non sono molto efficienti in termini di costi-benefici». Il mare quindi ha un segreto. Un segreto che, se ne facciamo buon uso, potrebbe darci una grande mano nella lotta ai cambiamenti climatici.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 luglio 2020 • N. 31
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(N. 26 - Duecentosettanta zero) garanzia C4, un nome che èsottouna 1 2 della 3 berlina di4 Citroën 5 Motori La terza generazione si fa più Suv e un po’ coupé 6
Mario Alberto Cucchi
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Squadra che vince non si cambia. Un 10 11 vecchio proverbio che vale spesso anche per i nomi delle auto. Fiat Panda, Volkswagen Golf, Jeep Wrangler, Land 12 13 14 15 16 17 Rover Defender, Renault Clio, Audi A3, Porsche 911… Cosa hanno in comune 18 19 20 21 questi modelli? Il nome che è rimasto invariato di generazione in generazio22 23 24 ne, anche con il cambio di secolo. A questo gruppo si aggiunge la Citroën C4 di cui questo mese è stata svela25 26 27 28 ta la terza generazione. Va detto che con la prima C4 che ha debuttato nel 2004 29 30 ha in comune solo il nome o poco più. La berlina di dimensioni compatte si è oggi trasformata in un crossover in linea con gli attuali gusti degli automobilisti europei. Un po’ suv e un po’ coupé. Una interpretazione moderna dalla forte personalità, grazie allo stile deciso, con I tempi di ricarica dei modelli linee scolpite e assetto rialzato. Ampia la possibilità di personaliz- elettrici vanno da 1 2 3 4 5 6 zazione cromatica attraverso la combi- oltre 24 h a casa nazione di tinte bicolore e Pack Color di ai 30’ per l’80% 7 finitura per ottenere 31 diverse varian- d’energia con ti, da combinare a sei ambienti interni e colonnine da a diversi design dei cerchi in lega da 16, 100 kW. 8 9 10 17 e 18 pollici. Non passa inosservata la firma luminosa caratterizzata da fari a senti oltre 20 tecnologie per l’assistenza Hydraulic Cushions che promettono per la compressione. In tal modo, la soLe prestazioni? Una velocità massi11 12 «V» sia davanti sia dietro. alla guida al servizio della sicurezza. Tra un effetto «tappeto volante». Le sospen- spensione lavora in due tempi, in fun- ma autolimitata a 150 chilometri orari SUDOKU PER AZIONE - GIUGNO 2020 Le dimensioni della vettura con- queste l’Highway Driver Assist, sistema sioni sono da sempre un punto di for- zione delle sollecitazioni. e 9,7 secondi per lo scatto da 0 a 100. I sentono di comprenderne meglio le 13di guida di livello 2, ol- 17 za delle auto francesi. Su C4 durante il Molta tecnologia anche sotto il cotempi di ricarica variano dalle oltre 24 14 semi-autonoma 15 16 N. 21 FACILE particolari proporzioni: lunga 4,36 tre alle numerose tecnologie di connet- loro sviluppo sono stati depositati ben fano dove si può scegliere tra diverse ore della presa domestica ai 30 minuti Soluzione metri, la C4 è alta 1,52 metri e larga 1,8 18tività che garantiscono continuità19 tra la venti brevetti solo sugli ammortizzato- alimentazioni:Schema benzina o Diesel, oppu- per l’80 per cento dell’energia con cometri. Nonostante la coda sfuggente e vettura e l’universo digitale del cliente. ri. Il principio del loro funzionamento re 100% elettrica che offre un’autonolonnine da 100 kW. Insomma grande 2 4 7 1 5 9 6 3 8 4 1 9 8 il lunotto inclinato, il bagagliaio offre L’abitacolo è accogliente e tecnologico. è semplice. Mentre quelle tradizionali mia di 350 chilometri nel ciclo WLTP. libertà di movimento, fluidità di marcia 6 5di guida, 1 7 con 3 8zero9 emissioni 2 4 6 3 8 9 da una bat21 22 una capacità di 380 litri con una pratica 20 La nuova C4 è progettata secon- sono composte da un ammortizzatore, Quest’ultima è alimentata e piacere 8 e 3nessun 9 4rumore. 2 6 I prezzi? 1 7 Non 5 6 soglia di carico ribassata. Abbattendo do il programma Citroën Advanced una molla e un fine corsa meccanico, le teria da 50kWh che consente al propul- di CO2 gli schienali dei sedili posteriori è pos- Comfort per23offrire sospensioni con 25 Smorzatori Idraulici sore7di 1 esprimere una potenza massima sono stati ancora comunicati ma sap24 un’esperienza di 7 1 3 8 6 4 2 5 9 9 sibile arrivare a 1250 litri. piacevolezza di guida a 360° gradi gra- Progressivi aggiungono due smorzato- di 136 cavalli e 260 Newton metro di piamo che arriverà nelle concessionarie Giochi per “Azione” Luglio 2020 4 2 6 9 7 5 3 8 1 9 5 3 1 Non solo design. Su C4 sono pre- zie alle sospensioni con Progressive ri idraulici: uno per l’estensione e l’altro coppia. entro il 2020. 26 27
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(N. 25 - ... quattro volte in un anno) Vinci una delle 3 carte
ORIZZONTALI 1. Simile al limone 5. Un condimento per tagliatelle 9. Lontani predecessori 10. Meglio non metterci il dito 12. Nasce dal Monviso 13. Dieci arabi 14. Un mobile 15. Il pupo di Mascagni 16. Colpisce i denti 17. Nome femminile 18. Stato dell’Asia orientale 19. Decorato 21. Stato europeo 23. Il Mongibello 24. Riso inglese 25. Una predatrice della giungla 28. Equivalenza nelle dosi 29. Un tipo di insalata 30. Gazzetta Ufficiale 31. Nota musicale 32. Monte dove Mosè ricevette i dieci comandamenti Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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regalo da 50 franchi con il3 cruciverba 6 4 5 9 7 8 6 5 9 7 2 3 8 1 5 3 franchi (N. 28 - “Caspita che mira!” e una delle 2 carte regalo E da C O50 E Q U 4I con D ilA sudoku 1
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Cruciverba «Sai che una volta ho lanciato il giavellotto a cinquanta metri di distanza e ho preso una medaglia?!» Saprete il commento dell’amico a soluzione ultimata, leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 7, 3, 4)
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T 22 O MEDIO B R N. A L E 1 E Sudoku T R E Soluzione: V 7I O L E Scoprire i 3 3 corretti O 2 numeri L da inserire nelle 6 caselle colorate. I 4 8 1 3 4 E
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33. Davanti al nome di Fantozzi 34. Un Nicolas attore 35. Un ortaggio VERTICALI 1. In coppia con Tizio 2. L’antico precede il medio 3. L’odio nel cuore... 4. Manovali 5. Assieme al risconto in bilancio 6. Ha la testa bucata 7. Le iniziali del politico Alemanno 8. Piccola quantità di bevanda 11. Fu dato in pasto a Tereo 12. Gli sono permesse delle licenze I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
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UN PO’ DI BOTANICA – Nome della pianta: NEPENTE. Particolarità: È CARNIVORA. N. 24 GENI
15. Vano, inutile 16. Mosca in un gioco... 1 2 3 4 5 6 17. In mezzo, fra 7 18. Impiegati per fabbricare pennelli 20. Dicesi di casa grande e lussuosa 8 9 10 21. Triste, doloroso 11 12 22. Teseo fu uno dei suoi re 13 14 15 16 17 26. Piccola rana verde de Paris 1827. Il Victor di Notre-Dame 19 29. È grande a Londra 20 21 22 30. Un anagramma di già 23 24 25 32. Le iniziali dell’attrice Autieri 27 33.26Le iniziali della conduttrice Lanfranchi
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Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o6 del7 sudoku 2 3 4 5 nell’apposito formulario pubblicato 9 10 11 12 sulla pagina del sito. 13 14 15 Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so16 17
R O N A S T 5 I A 4E N 2S A P E T E 1 I 8A N 6 E L U 5N A N I N O M E A
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C E D R O R P I A A V I I O L E T T O C A R I E 8 5 7 8 C 6I N A O7 N. DIFFICILE D 23 UR N EE C G C1E I4 A5 N O I7 1 T O8 N 3 5 T 3T R I A V I 9 SCE NE 2 A1 C5 A3 C I67E A T 2N A NAA R B E T6 E T AL A9 S S O M I2 T 4 T4 O M I S I N RA Z7 I O8 L4 I C E O 1 Z5 T R I T O8 S9 E T O C A G E 9 6 A
14.27 Armi d’altri tempi (N. - Nepente, è carnivora)
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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipanC essere E D spedita R O a «Redazione R A G U te deve Azione, Concorsi, C.P. 6315, P I A G 6901 A A V I Lugano». I O L E T T O I Non si intratterrà corrispondenza sui O C A R I E I N
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 luglio 2020 • N. 31
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Politica e Economia Conte canta vittoria Reduce stanco ma vittorioso dal vertice di Bruxelles e con in tasca un bel gruzzolo il premier ora deve affrontare i malumori interni
Grave crisi nel Paese dei Cedri Il Libano sta attraversando la peggiore crisi degli ultimi 30 anni. L’emergenza economica, sociale e ambientale ha portato migliaia di persone in piazza che accusano la classe politica corrotta di essere responsabile della tragedia in corso
Fotoreportage dal Balochistan È densa, anche di dolore, la storia di questa regione asiatica di fondamentale importanza strategica e geopolitica, considerata più una colonia che una parte del Pakistan pagina 25
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I veri vincitori alla prova dei numeri Modelli sanitari a confronto Attira
Federico Rampini È un momento di gloria per l’Unione europea. L’accordo sul Recovery Fund e sui piani di rilancio delle economie continentali segna una vittoria per gli europeisti: ha prevalso la solidarietà con i paesi del Sud più colpiti dalla pandemia e dalle sue conseguenze economiche. La coppia franco-tedesca ha imposto una visione geopolitica. Proprio come accadde con il Piano Marshall lanciato dagli Stati Uniti agli albori della Guerra fredda, anche Angela Merkel ed Emmanuel Macron hanno in mente il nuovo scenario globale: la guerra fredda Usa-Cina provoca un ritorno ai blocchi contrapposti. Nell’emergere di nuove barriere, l’Europa tenta di conquistarsi un ruolo autonomo, da «terza forza», evitando di appiattirsi sulla linea americana; e salvando la propria economia in una fase di protezionismi e autarchie. Il mercato interno europeo va salvato dalla disgregazione, dai rischi di uscita degli anelli deboli come l’Italia. La logica è stringente. Significa che assistiamo alla rinascita di un «modello europeo»? Un tema cruciale riguarda la sanità, per decenni un fiore all’occhiello dell’Europa. Il Vecchio Continente si è spesso vantato di avere un modello sociale più equo e inclusivo di tutti gli altri. In particolare una sanità meno spietata di quella americana dove la logica privatistica produce costi altissimi e crudeli disparità di accesso. Il Coronavirus è stata una prova d’esame tremenda. Non è sicuro che il sistema europeo ne esca bene. «L’Europa diceva di essere pronta alle pandemie. Il suo orgoglio l’ha sconfitta». Il titolo è duro. È in evidenza sul sito del «New York Times», apre un’inchiesta dedicata al fallimento del modello sanitario europeo. Il «New York Times» da cinque mesi non perde occasione per teorizzare che il resto del mondo affronta la pandemia meglio dell’America trumpiana. Perciò questa inchiesta molto critica sugli insuccessi europei attira l’attenzione. Non viene da una fonte pregiudizialmente anti-europea. Questo «New York Times» militante nella resistenza anti-Trump è un giornale spesso «esterofilo». Il reportage è ben documen-
tato, ricorda l’arroganza con cui tanti leader europei – non solo i populisti; anche i globalisti, i tecnocrati, i cultori della competenza – minimizzarono il rischio del Covid-19 finché sembrava un problema altrui. Poi promisero che avrebbero aiutato i paesi poveri, loro sì del tutto impreparati di fronte alle pandemie. Infine arrivò il momento della verità. E uno dopo l’altro i ricchi paesi dell’Europa occidentale si scoprirono fragilissimi. «I governanti europei si vantavano di avere la migliore sanità del mondo – si legge nell’inchiesta del NYT – ma l’avevano indebolita con un decennio di tagli. Migliaia di pagine di pianificazioni nazionali per le pandemie si sono rivelati oziosi esercizi burocratici. I controlli Ue sull’adeguatezza dei singoli paesi erano esercizi di autocompiacimento». E così avanti, in una lunga, dettagliata demolizione del mito europeo. Confesso che la condivido, da «americano» in visita in Europa. Ogni persona che incontro sul Vecchio Continente m’interroga sulla débacle degli Stati Uniti: la narrazione prevalente è quella di un’ecatombe particolarmente cruenta sull’altra sponda dell’Atlantico. Tuttavia la mortalità pro capite è più elevata in molti paesi europei rispetto agli Stati Uniti. Per la precisione: Belgio, Regno Unito, Spagna, Italia, Svezia e Francia (in quest’ordine), hanno avuto fin qui una percentuale di decessi per abitanti superiore agli Stati Uniti. Le cifre sui decessi mi sembrano quelle più degne d’attenzione, poiché il conteggio dei casi positivi dipende troppo dai test. La deformazione eurocentrica si accompagna ad una sottovalutazione degli unici modelli autentici: quelle liberaldemocrazie dell’Estremo Oriente (Giappone, Corea del Sud, Taiwan) che furono davvero le prime nazioni esposte al contagio cinese, molto prima dell’Italia, e lo hanno contenuto con risultati superiori a qualsiasi paese occidentale. La lettura politicizzata che prevale in Europa divide buoni e cattivi lungo il tradizionale confine tra populistisovranisti e «competenti». Ma almeno per adesso il tecnocrate Macron ha avuto risultati leggermente peggiori di Trump: 45 morti ogni centomila abitanti in Francia, 43 negli Stati Uniti. Può darsi che l’America raggiunga
AFP
l’attenzione un’inchiesta del NYT sugli insuccessi europei di fronte alla pandemia
l’Europa visto che i contagi continuano a salire; ma non c’è una differenza sostanziale. Più interessante è capire cos’hanno in comune le risposte «confuciane» di società disciplinate e coese – ma democraticissime – a Tokyo, Seul e Taipei, perché la distanza tra noi e loro nel bilancio dei caduti è davvero abissale. Ogni tanto giungono allarmi su improvvisi peggioramenti della situazione a Hong Kong o in Corea del Sud; ma se si guardano i numeri, quei focolai sono minuscoli, il bilancio delle vittime resta una frazione infima rispetto all’Occidente. Eppure molti dei paesi democratici dell’Estremo Oriente, a differenza della Cina hanno saputo evitare i lockdown generali e indiscriminati, le chiusure totali dell’economia, riuscendo a intervenire in modo più veloce, preciso e selettivo sui veri focolai. Questione di efficienza governativa, di organizzazione sociale, di
disciplina collettiva. Ora che l’Unione europea sembra aver ritrovato coesione e promette investimenti notevoli per uscire dalla crisi, uno dei primi settori d’intervento dovrà essere la sanità. Per capire cosa non ha funzionato ed evitare che la catastrofe si ripeta in futuro, andranno studiati i modelli veri, i vincitori della prova dei numeri. In quanto all’uso dei fondi europei, sento una certa comprensione sulle riserve olandesi che fino all’ultimo fecero slittare l’accordo; il rischio che l’Italia li spenda male esiste. Sono un cittadino americano «legalmente» rientrato nella mia Liguria: piccolo privilegio della doppia nazionalità, il passaporto dell’Unione europea mi esenta dai divieti d’ingresso. Ho scontato la quarantena a casa di mia mamma a Bruxelles. Da Bruxelles a Genova ci ho messo le stesse ore del volo transatlantico; con un sovrappiù di incertezze, fastidi burocratici, inutili vessazioni, ineffi-
cienze. Uno dei pochi collegamenti rimasti è il volo Klm da Amsterdam. A chi parte per l’Italia l’aeroporto di Amsterdam ha dovuto riservare un’area speciale, per il rito d’ingresso imposto dalla burocrazia italiana. Unici tra tutti i passeggeri verso paesi dell’Unione europea, quelli diretti in Italia devono riempire ben due moduli cartacei sul proprio stato di salute, reperibilità, ecc. L’efficiente Germania non sente il bisogno d’infliggere simili angherie burocratiche. Poi all’arrivo a Genova c’è un terzo modulo in agguato, per chi arriva da provenienze extra-Ue: a significare che i primi due moduli non li guarda nessuno. Mentre si celebra con tripudio l’arrivo di un’alluvione di fondi europei, la riforma più importante resta a costo zero: quella della burocrazia italiana. È la più difficile, perché una piovra così non si arrende, e i suoi alleati continuano a scrivere leggi per rafforzarla.
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Politica e Economia
Luce ora, ombre domani Italia I crediti accumulati in sede comunitaria dovranno fare i conti con i malumori
che il presidente del consiglio registra sul fronte interno Alfredo Venturi Con il viso segnato dall’interminabile maratona Giuseppe Conte è tornato da Bruxelles cantando vittoria: adesso possiamo far ripartire l’Italia e cambiare volto al Paese. Dopo quattro giorni di trattative serrate il Consiglio europeo ha varato l’«Europa della prossima generazione» e per alimentare la rinascita dell’Unione ha mobilitato il fondo di ricostruzione, un pacchetto di 750 miliardi di euro che saranno rastrellati sul mercato obbligazionario. L’euforia di Conte si deve al fatto che il ventotto per cento di quella cifra, oltre 209 miliardi, servirà a sanare le ferite aperte dalla pandemia nel tessuto dell’economia italiana. Si tratta di prestiti ma anche di sovvenzioni a fondo perduto: rispettivamente 127 e 82 miliardi. Il sollievo del presidente è un segnale di scampato pericolo: i cosiddetti Paesi frugali non sono riusciti a minimizzare lo sforzo solidaristico europeo né a imporre il diritto di veto sugli interventi per ogni singolo stato membro. Dovranno accontentarsi di sconti, peraltro sostanziosi, nei contributi al bilancio dell’Unione, di una votazione a maggioranza sui piani d’investimento dei Paesi che ricorrono al fondo (permetterebbe la bocciatura se i contrari rappresentassero più del 35 per cento dei cittadini europei), e del cosiddetto freno di emergenza, cioè l’estremo ricorso al Consiglio europeo in sede di verifica di attuazione.
Al di là dell’unità ritrovata nell’Ue, questo Consiglio dei 27 ha sferrato un duro colpo all’euroscetticismo italiano Dunque Conte si sente rafforzato, e indubbiamente lo è, da questa manifestazione di una solidarietà del resto ben motivata anche sul versante degli interessi. L’Italia è il terzo produttore, importatore ed esportatore europeo, in fondo a nessuno, Germania in testa, conveniva lasciar naufragare un partner commerciale di queste dimensioni. Ma i crediti accumulati in sede comunitaria devono fare i conti con i malumori che il presidente del consiglio registra sul fronte interno. Il suo profilo politico è assai controverso. La sua gestione della pandemia, fondata su misure adottate in beata solitudine sotto la copertura dell’emergenza, ha infastidito non soltanto l’opposizione ma anche molti degli alleati nella coalizione governativa. Tanto più che appena rientrato dal Consiglio europeo Conte ha dato l’impressione di voler nuovamente aggirare il parlamento annunciando la creazione di una task force per gestire la ricostruzione. In pratica rivendicando per sé il controllo della gestione. E
Giuseppe Conte ha portato a casa dal vertice brussellese un regalo che Salvini ha subito definito «fregatura». (Keystone)
così, mentre l’opposizione lo accusa di essere andato a Bruxelles col cappello in mano, fremiti critici scuotono la sua stessa maggioranza. Per esempio sulla questione del Mes, il meccanismo europeo di stabilità che si preferisce chiamare fondo salva-stati. Nonostante sia stato neutralizzato, nel senso che a chi vi farà ricorso non saranno imposte condizioni paralizzanti come quelle che una decina di anni fa tramortirono la Grecia, il Mes rimane uno spauracchio. Normalmente viene evocato proprio in riferimento alla triste sorte di Atene brutalizzata dalla troika e sottoposta a un mortificante controllo internazionale. Uno dei componenti della maggioranza, il Movimento cinque stelle, di meccanismo di stabilità non vuole nemmeno sentir parlare. Il presidente dice che la questione non è all’ordine del giorno, lasciando intendere che si può benissimo farne a meno. Ma la forza dominante della coalizione, il Partito democratico, insiste attraverso il suo segretario Nicola Zingaretti perché si usi questo strumento, ormai condizionato solo dall’obbligo di impiegarlo unicamente per coprire gli investimenti nella sanità. Tanto più che la maggior parte delle risorse del fondo di ricostruzione arriveranno fra il 2021 e il 2022, mentre le spese per la sanità sono urgentissime. È proprio l’orizzonte temporale a turbare i sonni del presidente. Bruxelles dovrà approvare i piani di rilancio, ma considerati i tempi burocratici e politici italiani ci si chiede quando saranno pronti. Lui vorrebbe fare tutto e subito, fra l’altro chiede una proroga dello stato d’emergenza sanitaria che gli per-
metta di ricorrere ancora ai famigerati decreti del presidente del consiglio. Incombono delicate scadenze politiche come l’imminente autunno elettorale, quando si voterà in alcune regioni e sarà sottoposto agli elettori l’insidioso referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari. O come l’autunno 2021, quando scatterà il semestre bianco durante il quale il capo dello stato vedrà sospeso il suo potere di scioglimento delle camere. Se riuscirà ad arrivarci, la sua inquieta maggioranza potrà affrontare il nodo della scelta di un nuovo presidente della repubblica. Se invece si dovesse rinnovare il parlamento prima di quella scadenza, i sondaggi attuali rivelano che con ogni probabilità sarebbe il centrodestra a disporre della maggioranza, e dunque a pilotare l’elezione del capo dello stato. Un domani pieno di ombre dunque, per il primo ministro reduce dallo scontro con il collega olandese Mark Rutte, capofila degli intransigenti. Un duello che soltanto la sapiente mediazione della cancelliera tedesca Angela Merkel ha potuto ricondurre nell’alveo di un negoziato capace di produrre il sospirato compromesso. Di fronte a queste incerte prospettive lo conforta un dato: nonostante un certo ridimensionamento del suo vantaggio sugli avversari, Conte è ancora saldamente in testa alla graduatoria dei leader politici più popolari. Anche se qualcuno gli contrappone l’autorevole figura di Mario Draghi, ex presidente della Banca centrale europea, come premier ideale, la sua immagine, che la controversa gestione dell’emergenza sanitaria non ha scalfito più di tanto, potrebbe essere
rafforzata da quello che lui considera il grande successo del Consiglio europeo. Eppure un’opposizione sempre più dura contesta i risultati ottenuti a Bruxelles. Secondo Matteo Salvini si tratta senz’altro di «una fregatura», a parere del leader leghista il fondo di ricostruzione è vessatorio come il Mes, con la sola differenza che a vigilare, al posto della troika, sarà la Commissione europea. Quanto a Giorgia Meloni, che guida l’altra formazione anti-governativa, i Fratelli d’Italia, dice che Conte ha fatto quel che poteva ma alla fine è rientrato con il Paese «commissariato da Rutte». A parte ogni forzatura polemica resta il fatto che al di là dell’unità ritrovata nell’Unione, e delle intese strettamente contabili, questo Consiglio dei Ventisette ha sferrato un colpo al dilagante euro-scetticismo italiano, ribadendo quella collocazione europea, dunque occidentale, dell’Italia che alcuni recenti «giri di valzer» in politica estera parevano aver messo in discussione. Come i calorosi rapporti con la Cina, con l’adesione alla nuova Via della seta, l’assordante silenzio di Roma sulla situazione a Hong Kong, la questione della tecnologia 5G che prima di una precisazione correttiva di Luigi Di Maio si voleva affidare proprio ai cinesi. O come la relazione privilegiata con la Russia di Vladimir Putin, che è stata presente nelle province italiane aggredite dal Coronavirus con una vera e propria missione militare, per tacere del distacco italiano dalle posizioni occidentali sul turbolento Venezuela di Nicolás Maduro. C’è chi parla di tradimento dell’Occidente, e chi si augura che l’esito della maratona brussellese lo abbia scongiurato.
Notizie dal mondo Cosa succede a Portland Da un paio di settimane a Portland, nell’Oregon, squadre di agenti speciali che rispondono al governo federale statunitense stanno reprimendo le proteste e fermando arbitrariamente i manifestanti con modalità violente e spregiudicate, che secondo molti sono al limite della legalità e che stanno facendo aumentare le tensioni in città. Gli agenti federali hanno sparato gas lacrimogeni contro i manifestanti per reprimere le proteste che da giorni infuriano nella città dopo l’uccisione dell’afroamericano George Floyd. Tra la folla c’era anche il sindaco della città, il democratico Ted Wheeler, che è stato raggiunto dal gas mentre si trovava davanti al tribunale federale Non sono solo attivisti e movimenti anti-razzisti a protestare contro la presenza degli agenti: non li vogliono nemmeno le autorità locali, ma sembra che il presidente Donald Trump sia deciso a lasciare che queste controverse operazioni continuino. Gli agenti che si sono visti in questi giorni sono stati inviati a Portland dal Dipartimento di Sicurezza Nazionale dopo che lo scorso 26 giugno Trump aveva firmato un ordine esecutivo per formare squadre speciali che difendessero statue, monumenti e altre proprietà governative. Queste squadre sono state dispiegate dopo pochi giorni a Seattle, Washington D.C. e Portland, ma secondo un documento ufficiale pubblicato dal «New York Times» non c’è stato tempo per formarle appositamente, e non erano preparate a gestire manifestazioni di massa. Iran: sabotaggio al nucleare? Nelle ultime settimane, una serie di esplosioni ha colpito diversi obiettivi in Iran: il centro di produzione missilistica di Khojir, il centro medico Sina At’har di Teheran, il centro di arricchimento nucleare di Natanz, una fabbrica nella zona industriale di Baqershahr, nei dintorni di Teheran, un quartiere di Teheran che ospita diverse strutture militari e di addestramento, e ancora un edificio residenziale nella capitale, l’impianto petrolchimico di Mahshahr, principale hub sul Golfo persico dell’industria petrolchimica iraniana, e poi ancora un complesso industriale vicino a Mashad, il cantiere navale di Bushehr, una centrale elettrica a Esfahan. Nonostante le autorità iraniane abbiano etichettato gli episodi come semplici incidenti – con la sola eccezione dell’esplosione di Natanz – il numero e le modalità degli attacchi fa pensare a una vera e propria azione coordinata e ben pianificata di sabotaggio da parte di Israele e Stati Uniti. Gli attacchi permetterebbero di raggiungere molteplici obiettivi: colpendo Natanz, così come in altri siti militari, si infliggono danni, più o meno significativi, al programma nucleare e alle infrastrutture militari iraniane e si instillerebbe nel Paese un senso di insicurezza che getta le basi per una potenziale destabilizzazione del Paese. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Libano in caduta libera
Crisi economica Non c’era nulla che lasciasse immaginare il tracollo degli ultimi mesi: casi di denutrizione,
crollo del valore della valuta, blocco degli stipendi, banche chiuse, fuga dei capitali, black out elettrici Daniele Raineri Il Libano è al collasso. Ricordavamo la capitale Beirut come la Parigi del Medio Oriente, con i nightclub sulla cima dei palazzi, le boutique di moda e le auto di lusso dei ricconi del Golfo che passavano in città per i divertimenti che nei loro Emirati austeri è meglio non ostentare. E invece sta venendo giù tutto. La lira libanese ha perso l’ottanta per cento del suo valore nel giro di otto mesi. L’inflazione ha triplicato i prezzi di alcuni generi alimentari. Migliaia di negozi hanno chiuso, le paghe a fine mese non riescono a mantenere le famiglie, le ong avvertono che c’è il rischio di morti per fame nella fascia più povera dei libanesi. È la crisi economica peggiore nella storia moderna del Paese, che pure è passato per quindici anni di guerra civile.
È uno scenario quasi venezuelano per un Paese che importa l’80 per cento del suo cibo In pratica è come se il Libano avesse prosperato per anni su un gigantesco schema finanziario fraudolento, di quelli che quando poi sono smascherati di colpo lasciano sul lastrico gli investitori e in manette i responsabili. La Banca centrale per molto tempo ha tenuto un tasso fisso di cambio a circa 1500 lire libanesi per un dollaro e questo ha consentito ai libanesi, che non producono nulla da esportare, di importare e consumare beni dall’estero. La Banca si appoggiava per garantire questo tasso ai depositi in dollari di grandi clienti e per attirare questi grandi clienti prometteva rendimenti molto alti. Per pagare questi rendimenti molto alti aveva bisogno di altri depositi in dollari di nuovi grandi clienti. E così via. Un Paese da poco più di cinque milioni di persone viveva al di sopra delle sue possibilità ed era terzo al mondo per indebitamento. Quando questo schema è infine saltato perché era diventato
evidente a troppe persone, si è scoperto che i pochi dollari nella pancia della Banca centrale non potevano garantire davvero il valore della lira libanese ed è arrivato il Grande Aggiustamento, che come sanno tutti gli esperti di finanza è una formula gentile che nasconde conseguenze durissime. La lira ha cominciato a precipitare verso il suo valore reale – che è difficile da stabilire con precisione viste le differenze tra il tasso ufficiale, quello delle banche e quello del mercato nero, ma è molto basso – e la vita per i libanesi è diventata complicatissima. «Ora devi dividere il tuo stipendio per nove» per calcolare il tuo potere d’acquisto rispetto a pochi mesi fa, spiega un professore universitario al «New York Times» che vuole far capire il cambiamento caduto sulle teste dei libanesi. Le cose che prima sembravano normali, come comprare un’automobile oppure una vacanza in Grecia, sono diventate impossibili. E su Facebook i gruppi nei quali i libanesi barattano un po’ di tutto in cambio di cibo, vestiti, latte in polvere per bambini e gas per cucinare sono esplosi nei numeri. Si cede il resto del benessere di ieri per ottenere beni essenziali oggi, ma per quanto può durare la situazione? È uno scenario quasi venezuelano, in un Paese che ancora importa l’ottanta per cento del suo cibo. Le centrali elettriche libanesi funzionano con carburante comprato dall’Algeria e dal Kuwait e pagato in valuta estera: adesso se ne compra meno e questo vuol dire che in alcune zone la corrente elettrica manca per la maggior parte della giornata, la notte scintillante di Beirut ora è buia. I giornali raccontano l’aumento di rapine improvvisate, fatte da gente che prima minaccia e poi chiede scusa e spiega alle vittime attonite che è costretta a fare così perché deve sfamare la famiglia. A questo vanno aggiunti altri fattori: nella vicina Siria c’è una guerra civile, il flusso di soldi che arrivava dai sauditi si è fermato e in generale la fiducia nelle istituzioni è scomparsa. E poi è arrivata, come per tutti, la pandemia. A questo punto qualcuno dovrebbe intervenire per fermare il tracollo del Libano, ma non si è ancora capito
Il frigo vuoto di una libanese, ridotta in povertà a causa della crisi economica. (AFP)
chi. A ottobre dell’anno scorso moltissimi libanesi erano scesi in piazza per chiedere un cambio totale della scena politica e avevano in effetti ottenuto un governo nuovo, ma non ci sono stati risultati. L’amministrazione del Paese è in mano da anni alle stesse fazioni, che governano secondo minuziosissime regole non scritte che bilanciano il potere di ciascun gruppo etnico o religioso. Anche il governo nuovo segue le stesse logiche di prima e quindi non se ne esce. Nel frattempo la credibilità delle banche del Paese, che un tempo erano un’istituzione potente, è ai minimi storici. Secondo il «Financial Times», i banchieri libanesi durante la crisi avrebbero portato all’estero e con discrezione sei miliardi di dollari mentre impedivano ai clienti di ritirare più di cento dollari per volta per non aggravare lo squilibrio monetario interno. In breve: politica e banche non saranno la soluzione. Il Fondo monetario internazionale vuole delle riforme prima di pompare denaro nelle casse del Libano ma sa che con questo ordinamento le riforme sono impossibili e due membri del team
che dovrebbe negoziare il salvataggio si sono già dimessi perché «i politici si sono messi a litigare sui fondi, non sono seri». Gli Stati Uniti potrebbero aiutare – da anni sponsorizzano l’esercito libanese con armi, mezzi e addestramento – se non fosse che una delle forze che comandano il Libano è Hezbollah, il Partito di Dio, la fazione armata e finanziata dall’Iran che è sulla lista americana dei gruppi terroristici dal 1997. Finché Hezbollah avrà questo ruolo dominante in Libano, l’America sarà riluttante. Il contrario, curiosamente, non è vero: il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha detto che questa volta l’aiuto dell’America (che di solito nei suoi discorsi è «Satana») per il Libano sarebbe tollerabile e questo fornisce la misura di quanto sia grave questa crisi. Hezbollah è uno Stato nello Stato: dispone di una milizia armata che si prepara da anni a una nuova guerra con Israele, prende decisioni che riguardano tutti i libanesi, intrattiene rapporti con altri governi – vedi Siria e Iran – e rappresenta in campo politico quello che le insufficienti riserve di dollari erano in campo economico: un’ano-
malia che tutti fanno finta di considerare normale. Potrebbe durare ancora a lungo, o forse no. Molti partiti libanesi stanno prendendo le distanze da Hezbollah e c’è molta stanchezza anche tra la gente comune. Durante le proteste contro la crisi economica si sono viste manifestazioni enormi anche nelle roccaforti del movimento – un evento senza precedenti – e uno degli slogan della piazza era «Tutti vuol dire tutti». Tradotto: quando diciamo che tutti i partiti devono andarsene via vuol dire che anche Hezbollah deve andare via. In Libano questa richiesta non si era mai sentita prima della crisi. Il tracollo sarebbe grave ma non irrimediabile se fosse capitato in un paese normale. Un intervento esterno potrebbe appianare le perdite economiche, soccorrere le persone a rischio fame, rimettere in moto il meccanismo economico – anche se a un livello molto più basso rispetto agli anni d’oro. E invece è arrivato in Libano, che è un Paese che vive in una situazione politico-militare tutta sua. Altri potrebbero dire: che è tenuto in ostaggio dai suoi partiti e in particolare da Hezbollah. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Baby market free Inchiesta del «Clarín» In Argentina la questione della maternità
surrogata evoca un passato recente tragico e riapre la discussione sulla mancanza di una legislazione in materia
Angela Nocioni Una legge che regolamenti la pratica della maternità surrogata, meglio conosciuta come «utero in affitto». Il Parlamento argentino dovrà discuterne. La settimana scorsa è stato presentato un progetto di legge, con l’appoggio della presidente della Commissione questioni femminili della Camera dei deputati, per far affiorare alla luce una pratica molto diffusa che non è nel Paese esplicitamente proibita, quindi non rende perseguibile per legge chi la sceglie, ma non è regolata da nessuna norma. Il tema è rovente. Anche perché la questione, solitamente taciuta, è esplosa con l’emergenza sanitaria causata dal Coronavirus. Succede che molte donne argentine che non possono avere figli e non possono per ragioni di salute ricorrere ai comuni metodi di procreazione assistita (specializzazione della medicina riproduttiva abbastanza avanzata nel Paese) finiscono per acquistare pacchetti per maternità surrogata in Ucraina, di solito a Kiev. Il pacchetto ha un costo compreso dai 30mila ai 70mila dollari (economy, standard e vip) con relativa sistemazione più o meno confortevole in hotel ucraini, con visite, analisi e scelta della donna gestante incluse. Questi viaggi a/r Buenos Aires – Kiev di solito passano sotto silenzio. Difficilmente le coppie che ricorrono a una madre surrogata all’estero lo sbandierano poi ai quattro venti una volta tornate a casa col bambino in braccio. Ma con i divieti di spostamento imposti dalla quarantena per la pandemia il caso è esploso. Decine di neonati concepiti con spermatozoi di uomini argentini e partoriti da donne ucraine pagate per farlo, sono rimasti in clinica accuditi da infermiere locali nell’attesa che le coppie argentine aderenti al programma di maternità surrogata avessero il permesso per andare a prenderli. E il «Clarín», principale quotidiano di Buenos Aires, ha fatto esplodere il caso pubblicando un’inchiesta sulla più nota clinica della capitale ucraina denunicata per traffico di persone, falsificazione di documenti ed evasione fiscale.
I responsabili della clinica, alla quale ricorrono anche migliaia di coppie europee, già in passato si sono difesi assicurando che «la maternità surrogata non è un supermercato perché la gestante non si sceglie in base alle sue caratteristiche estetiche». Ma le loro parole lasciano perplessi quando si vede che alle coppie acquirenti vengono sottoposti dei veri e propri book fotografici attraverso i quali possono consultare i profili delle donne disponibili a prestare il loro utero in cambio di un pagamento. La questione della maternità surrogata, resa possibile dai progressi della ricerca medica, è complessa da trattare ovunque, ma in Argentina le polemiche che sta sollevando sono particolarmente interessanti da osservare perché mettono il Paese faccia a faccia con contraddizioni peculiari della sua storia. Non c’è infatti solo il confronto tra argomentazioni opposte sintetizzabili in: «Questa pratica comporta lo sfruttamento delle donne utilizzate per la gestazione, soprattutto le più povere che hanno bisogno di affittare il loro utero per procurarsi dei soldi. Non è morale né femminista regolamentare tutto ciò». E la visione contraria: «In ogni modo la pratica esiste e va avanti. L’assenza di norme finisce per avallare una totale mancanza di protezione per le gestanti e per tutte le persone coinvolte, neonati e coppie acquirenti compresi. È dovere della politica animarsi ad affrontare una realtà che non è dignitoso nascondere sotto il tappeto». Oltre all’appassionante e furioso scontro tra queste argomentazioni, con il ruolo giocato sullo sfondo dalla chiesa cattolica che è assolutamente contraria a qualsiasi tecnica di fecondazione con gameti non della coppia e tanto più alla maternità surrogata, esiste a Buenos Aires la cronaca quotidiana passata e presente che costringe gli argentini a guardarsi allo specchio. E oltre alla nota tragedia delle centinaia di neonati rubati durante la dittatura militare (1976-1983) alle prigioniere del regime incinte uccise dopo il parto, c’è uno stillicidio attuale di casi in cui le madri povere che ven-
dono bambini propri sono argentine, i mediatori sono argentini e gli ospedali dove i furti di bambini avvengono sono gestiti da personale religioso. Ci sono posti in Argentina in cui un neonato bianco e sano costa trentamila euro. Un po’ di meno se si tratta di una femmina. L’offerta prevede anche il soggiorno. Il bambino è iscritto appena nato al Registro civile come figlio naturale chi lo compra. Della madre biologica non resta traccia, il suo ricovero e il parto non risultano in nessuna cartella clinica. Tucuman e Misiones, regioni povere e assolate dell’Argentina profonda, sono i luoghi dove principalmente avviene la tratta. La fondazione Adoptar da anni denuncia casi su casi di ragazze locali incinte di bambini concepiti da loro naturalmente che vendono i loro neonati tramite una rete di mediatori ed assistenti legali (degli acquirenti). I compratori sono spesso stranieri. Europei soprattutto. Coppie stanche di aspettare i tempi dell’adozione legale. A loro viene offerto un affare da concludere in pochi giorni di permanenza in Argentina. Tragedie nascoste tra i mille traffici dell’Argentina profonda e poverissima. La fabbrica di bambini è Añatuya, città di ventimila abitanti nella provincia arsa e secca di Santiago del Estero. Lì, secondo le denunce documentate in filmati e cd presentati alla magistratura dalla fondazione Adoptar di Tucumàn si vendono bambini ogni mese. «Funziona così» spiega Julio Cesar Ruiz, presidente di Adoptar. «Una coppia va ad Añatuya e prende alloggio in un albergo indicato dal mediatore. Dopo qualche ora viene chiamata dalla reception che la mette in contatto con una persona del posto, quasi sempre un avvocato che vive davanti all’albergo. La casa del legale è di solito il luogo della transazione. I soldi restano quasi tutti al mediatore. Alle madri vanno pochi spiccioli. Sappiamo di bambini venduti in cambio di armadi, di pareti. Alla sorella di una delle nostre testimoni è stata data una casa in cambio di suo figlio di tre giorni. A comprare sono anche coppie di Buenos
Bebè di madri surrogate parcheggiati in un hotel a Kiev. (Keystone)
Aires, di Cordoba, ma i migliori affari si fanno con l’Europa. Si guadagna fino a trentamila euro a neonato». Non è difficile far passare i bambini di Añatuya per europei: in questa parte del territorio di Santiago del Estero la percentuale di persone bianche con gli occhi chiari è molto alta. Alle madri durante la gravidanza vengono dati cento dollari al mese, per garantire con la buona alimentazione la salute del nascituro. Ruiz sostiene che esista «un reparto con 26 letti gestito dall’arcivescovado. Lì c’è chi si occupa del cibo e del parto». «Per questo – dice – i bambini dell’arcivescovado sono i più cari». I volontari di Adoptar sono stati più volte minacciati di morte. L’avvocato dell’associazione è stato speronato da una Ford in uno strano incidente mentre tornava a casa dopo aver presentato alcune testimonianze. Aldo Sanagua vive ad Añatuya e si occupa di seguire le persone che denunciano il traffico. Gli hanno sparato una sventagliata di proiettili alla porta di casa. Racconta di pressioni sui testimoni da parte del giudice che si occupa del caso. Dice Julio Cesar Ruiz: «Abbiamo ricusato il giudice perché è direttamente coinvolto nel traffico. Eppure ha continuato ad essere titolare dell’inchiesta. Della stessa rete fanno parte un’ostetrica e la direttrice dell’ospedale regionale da cui dipende il reparto di neonatologia». Chi parla passa guai. Maria Roberta Gerez ha denunciato di aver saputo da una suora che la bambina da lei partorita è stata data alla sorella di monsignor Baseotto, a lungo a capo dell’arcidiocesi di Añatuya prima di essere nominato, nel 2002, vicario castrense
a Buenos Aires, incarico da cui si è ritirato ormai dieci anni fa. Maria Roberta Gerez è stata arrestata con l’accusa di prostituzione e corruzione di minore. L’hanno rilasciata dopo sei mesi per assenza di prove. Elcira è una avvocata di Mendoza. È un’ex suora. Ha vissuto un periodo da religiosa con le Hermanas Vicentinas di Añatuya. «Mi ricordo che un giorno venne da noi una coppia di spagnoli – racconta – la donna aveva in braccio una bambina molto piccola. Le suore erano molto contente, mi dissero che la coppia era venuta a ringraziare e che si stava portando la bambina in Spagna. Dicevano: l’abbiamo salvata dalla miseria di una baracca e ora vivrà come una regina. Mi dissero che avevano fatto figurare la spagnola come madre biologica. Mi raccontarono di un altro neonato che finalmente viveva felice nel lusso in Europa. Non mi parlarono di denaro, ma suppongo che il denaro rientrasse nelle donazioni. Che abbondavano. Arrivavano molti soldi, soprattutto dalla Germania». Di fronte alle denunce che arrivano dalla Argentina povera e dimenticata del nord, il rovente dibattito sull’utero in affitto e lo scandalo di Kiev diventano ancor più difficili da trattare con onestà intellettuale a Buenos Aires. Alla fine, questioni etiche e convinzioni personali a parte, risulta essere comunque una questione di potere d’acquisto. I ruoli stavolta però sono invertiti. Cosa cambia quando la parte dei ricchi che si possono permettere di scegliere uteri altrui per figli propri siamo noi? È questo il problema che arrovella Buenos Aires, per fortuna sua terra di psichiatri.
Balochistan, riflettori sulla pulizia etnica Fotoreportage In questa regione dell’Asia di fondamentale importanza strategica e geopolitica per il Pakistan
e per il progetto cinese del Cpec si è aperta una frattura irrimediabile fra popolazione baloca e Stato centrale Francesca Marino Comincia da lontano, la storia del Balochistan. Comincia quando Mohammed Ali Jinnah, padre fondatore del Pakistan, tradì gli accordi che egli stesso aveva contribuito a stilare: gli accordi che, all’epoca del ritiro degli inglesi dal fu impero britannico in India,
rendevano il Balochistan una nazione indipendente. Pochi mesi dopo, Jinnah occupava la regione costringendo il legittimo sovrano a firmare l’annessione al neonato Pakistan per evitare un ulteriore bagno di sangue. Ci sono state molte rivolte, negli anni, perlopiù soffocate in un bagno di sangue. Quella attuale è forse la più com-
Ospedale da campo. Tutte le foto di Roshaan Khattak sono su www.azione.ch.
plessa e anche la più cruenta. È figlia delle politiche e delle strategie brutalmente repressive del presidente Musharraf, ed è divampata nel 2006 dopo l’uccisione del Nawab Mohammad Akbar Khan Bugti: evento descritto da alcuni analisti come l’11 settembre del Balochistan. L’uccisione di Bugti ha segnato un punto di svolta nelle dinamiche in quel momento in atto nella regione e aperto una irrimediabile frattura tra la popolazione locale e lo Stato centrale. Le persone scomparse, che all’epoca si contavano sulle dita di una mano, sono diventate negli anni decine di migliaia. Nel 2014 sono state ritrovate un certo numero di fosse comuni piene di cadaveri senza nome, riempite in fretta e occultate, e altre si continuano a ritrovare. Le conseguenze dei test nucleari, effettuati all’epoca proprio in Balochistan, continuano a segnare la popolazione tra l’indifferenza generale: hanno avvelenato terra, acqua e aria, e provocato casi di cancro a migliaia e nascita di bambini e animali deformi. La regione è in mano all’esercito e alle cosiddette «death squads» che ope-
rano per suo nome e conto: squadroni di criminali comuni e mafiosi, che non soltanto contribuiscono a instaurare il terrore ma fungono anche da addestratori e coordinatori per i vari gruppi jihadi che Islamabad ha importato in loco. Quetta, da cui la famosa «Quetta Shura» che dirigeva le operazioni dei Talebani, è la capitale del Balochistan. Con i talebani, è stato importato nella regione anche l’Islam integralista con tutte le conseguenze del caso. È stata importata una nuova lingua, l’urdu, e sono state proibite nelle scuole lingua e canzoni e storia Baloch. Negli anni una nuova generazione di giovani istruiti e di buona famiglia si è fatta largo, una generazione di attivisti sociali e per i diritti umani, ma anche una generazione di giovani furibondi per il sistematico sfruttamento delle risorse locali e per la repressione feroce di cui la regione è vittima. La «nuova» rivolta non è più diretta soltanto contro i rappresentanti dello Stato ma anche e soprattutto contro la vera e propria invasione cinese di stampo colonialista che va sotto il nome di
Cpec, China Pakistan Economic Corridor. Il Cpec, qualora ce ne fosse stato bisogno, ha ulteriormente inasprito una situazione già difficile. Nessuno è in grado di dire davvero cosa succederà nei prossimi anni, o anche solo nei prossimi mesi. In Balochistan giocano da anni fin troppi giocatori: lo Stato, i capi tribali, gli squadristi pagati dall’intelligence, le forze armate, i cinesi, i gruppi di guerriglia. E poi ancora, i talebani importati nella regione dall’esercito, i pashtun che sono anche loro in rivolta contro Islamabad, i vari gruppi terroristici di matrice integralista e jihadi considerati dalla suddetta Islamabad assetti più o meno strategici. La regione è di fondamentale importanza strategica e geopolitca, per Islamabad, per il progetto cinese del Cpec. Ma è importante anche per molti altri giocatori che nella regione giocano ai nuovi avatar del buon vecchio «Grande Gioco». Giocano tutti, nessuno escluso, è bene ricordarlo, sulla pelle e sulla vita della popolazione locale. Che rischia intanto di diventare un esercito di fantasmi.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 luglio 2020 • N. 31
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Com’è verde la mia valle! Ci sono regioni nel mondo che usano nelle targhe delle automobili, nei cartelli stradali o in altri supporti (per esempio la porta di entrata del parlamento) slogan pubblicitari. Conosciuti sono in particolare quelli degli Stati del Nord e del Sudamerica. I lettori conosceranno Je m’souviens, la magnifica divisa del Québec, o quella più melanconica dell’Alabama Sweet home Alabama, o ancora quella piena di ottimismo dell’Alaska North to the Future. Se il Ticino oggi dovesse aggiungere uno slogan di questo tipo alle targhe delle sue automobili potrebbe scegliere, tenendo conto di come viene utilizzato il suo territorio, Com’è verde la mia valle, parafrasando così il titolo di un famoso film di John Ford. Perché questo slogan? Perché oggi il 50,7% della superficie del Cantone è ricoperta dal manto verde del bosco. Ce lo
rivela Marco Galfetti in un documentatissimo articolo sulla trasformazione del territorio in Ticino, pubblicato di recente dalla rivista «Dati». Nessun altro Cantone, in Svizzera, possiede una quota di superficie boscata di estensione superiore. Nel Giura, che è al secondo posto nella classifica nazionale, il bosco copre solo il 43,5% della superficie totale. L’altra faccia della medaglia di questo primato è costituita dal fatto che, per quel che riguarda la superficie agricola utile, il Ticino, con la sua quota pari al 12,9%, si situa al penultimo posto della classifica dei Cantoni ed è seguito solo da Basilea città. La storia recente dell’evoluzione non solo della struttura degli usi territoriali ma anche del nostro paesaggio sta in queste due cifre. L’abbandono dell’attività agricola, che si è accelerato dopo la seconda guerra mondiale,
ha determinato l’imboschimento di larghe superfici che, fino allora, erano state utilizzate a fini agricoli. Mio nonno ha raccolto l’ultima uva del suo vigneto, in fondo alla campagna del suo villaggio, nel 1951. Oggi quel vigneto è diventato selva e nessuno saprebbe dire, senza l’aiuto di una mappa di 50 anni fa, dove si trovava. Di superfici agricole utili non possiamo più parlare; dobbiamo cominciare a parlare invece, almeno per quel che concerne il nostro Cantone, di archeologia agricola. I dati della statistica della superficie ci consentono di seguire come si è sviluppato il fenomeno nel corso degli ultimi 40 anni. Nel 1980, quando l’imboschimento delle campagne intorno ai nostri villaggi delle valli era già avanzato, la superficie boschiva del Cantone era pari al 32,7% del totale mentre la superficie agricola era
ancora pari a un terzo circa del totale. Negli ultimi 40 anni l’imboschimento della superficie agricola si è accelerato. Ogni anno che passa aggiunge un 1,1% alla quota della superficie boschiva. Sarebbe facile estrapolare e trovare l’anno, ancora in questo secolo, dove la superficie agricola del Cantone potrebbe essere scomparsa del tutto. A tanto però non dovremmo arrivare perché la pianificazione del territorio difende a denti stretti la modesta zona agricola rimanente. Va anche riconosciuto che, finora, l’imboschimento di larghe superfici del nostro territorio non sembra aver creato problemi. Pensiamo anzi che, in generale sia stato accolto in modo positivo dalla popolazione. I soli che probabilmente hanno protestato sono coloro che hanno acquistato parcelle che, una volta erano al limite del bosco
e potevano eventualmente ancora essere edificate e che oggi, invece, non lo possono più essere perché sono state ricoperte dalle piante. Più consistente è invece il pericolo che alla conservazione della zona agricola si pone in seguito alla rapida estensione delle superfici di insediamento (costruzioni e infrastrutture di rete per la mobilità, i trasporti e altri servizi urbani). È infatti utile ricordare che l’utilizzazione a bosco non è quella che cresce più rapidamente nel nostro cantone. Negli ultimi 40 anni, le superfici per insediamenti sono aumentate a un tasso annuale pari all’1,3%. Si tratta della superficie di un campo di calcio al giorno. Si vedono meno del bosco che avanza dappertutto. Ma fate un giro in aliante sopra il piano di Magadino e vi accorgerete dove già sono arrivati cemento e mattoni.
to francese, ha dovuto negoziare e molto per far valere la sua posizione. L’Olanda, che in paesi come l’Italia è stata rappresentata come l’avara e la taccagna dell’Ue, ha fatto valere una sua visione dell’Europa che finora era rimasta offuscata: l’Europa liberale, che si concentra su alcuni dossier e li fa funzionare. Si è parlato molto del fatto che il premier olandese, Mark Rutte, abbia fatto l’inglese, come si dice, cioè si sia caricato sulle spalle il ruolo di guastafeste che in tutti i negoziati che avevano a che fare con i soldi era sempre stato interpretato dal Regno Unito. Una parziale sostituzione evidentemente c’è, ha a che fare con una visione liberale dell’Ue e con il rigore nordico (molto propenso ad accettare i rebate, gli sconti resi celebri da Margaret Thatcher e dalle sue borsettate), ma c’è anche un grande spartiacque tra Rutte e gli inglesi: il primo è europeista, i secondi no. Fa una bella differenza. Sono successe anche altre cose inaudite al vertice europeo di mezz’estate: l’Austria con-
tro la Germania, per esempio, con il premier-ragazzo di Vienna, Sebastian Kurz, che dava lezioni di frugalità alla Merkel. E governi socialdemocratici (del nord) contrari agli aiuti e al sostegno di altri governi socialdemocratici (del sud): la prossima riunione delle famiglie europee potrebbe non essere molto tranquilla. C’è poi stato anche un passo indietro piuttosto rilevante sulla questione dello stato di diritto: il rispetto delle regole della democrazia avrebbe dovuto essere vincolante per ottenere fondi europei, invece non lo è. Così il premier ungherese Viktor Orban, la star dell’illiberalismo dentro l’Ue con il suo partito in attesa di giudizio per la sua permanenza nella famiglia dei conservatori, ha potuto festeggiare – e lo fa da sempre con quell’enorme contraddizione secondo cui il più brutale nel suo euroscetticismo è anche uno dei beneficiari della generosità finanziaria dell’Ue. Gli equilibri stanno cambiando, molto. L’Ue ha superato un tabù enorme e ne dovrà superare altri: il
debito comune porta necessariamente a una fiscalità comune, e questo da un lato esalta la solidarietà europea ritrovata, dall’altro riporta alla luce i problemi della integrazione stretta dell’Ue, quell’«even closer» che ha fatto scappare gli inglesi. Però la macchina della solidarietà ha mobilitato, in tutto, tra Recovery fund, Bei, Sure, Bce e Mes, 2’640 miliardi di euro destinati alla ripresa post pandemia. È questo il prezzo che l’Ue è disposta a pagare perché ci si riesca a salvare tutti insieme, come progetto e forse anche come potenza che si ritrova in mezzo a guerre più o meno fredde tra altre superpotenze (la Cina e l’America soprattutto, e dall’una o dall’altra parte l’Unione europea trova guai). In gioco c’è un rilancio economico necessario e molto difficile – le previsioni restano plumbee – ma anche un rinnovamento degli equilibri, delle aspettative, forse anche dei processi e delle metodologie. Per la prima volta da tanto tempo viene da dire: non è poi così un brutto momento per essere europei.
zare una preponderanza di morti nel Mendrisiotto basandomi però solo... sugli annunci funebri dei quotidiani, condizionato forse dall’aver perso parenti e conoscenti in quel distretto. Se oggi ritorno sulle mie congetture è per rendere conto di nuovi e più autorevoli pareri. Il primo è del prof. Leonardo Setti dell’Università di Bologna, autore di una ricerca sulla correlazione tra i superamenti dei limiti per il PM10 e il numero di ricoveri da Covid-19. Ebbene, «tali analisi sembrano dimostrare che, in relazione al periodo 10-29 febbraio, concentrazioni elevate superiori al limite di PM10 in alcune province del Nord Italia possano aver esercitato un’azione di “boost”, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia, che non si è osservata in altre zone d’Italia che presentavano casi di contagi nello stesso periodo». Analoga conferma, più recente, anche da una ricerca inglese condotta dal prof. Matthew Cole, dell’Università di Birmingham,
secondo la quale l’esposizione a lungo termine delle persone alle particelle di inquinamento «aumenta le infezioni e i ricoveri di circa il 10 per cento, e le morti del 15 per cento». Infine nei giorni scorsi alcuni esperti internazionali riuniti in Italia dall’istituto farmaceutico Menarini hanno escluso che il particolato atmosferico possa «veicolare» il virus, quindi anche l’ipotesi di un diretto coinvolgimento dello smog nell’escalation dei contagi; hanno però confermato che gli effetti negativi dello smog sull’organismo contribuiscono a determinare prognosi più sfavorevoli per chi è più esposto all’inquinamento. Certo, non sono ancora prove scientifiche. Ma il quadro che ne esce presenta già una conferma importante: se la nostra salute è sempre più minacciata dai virus è anche perché le attuali legislazioni sull’inquinamento della nostra aria e i tentennamenti nel farle rispettare non ci consentono di vivere in un ambiente sano.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Un salvataggio comune
AFP
Quattro giorni di negoziati, tre bozze (e chissà quante non sono diventate pubbliche), molte foto, molte occhiaie, molte prenotazioni d’albergo all’ultimo minuto (e chissà quante telefonate a casa: no, non torno nemmeno stasera): il vertice europeo di mezza estate ci ha infine regalato una piccola rivoluzione filosofica dell’Unione europea. Pareva impossibile, voltandosi indietro, che la pandemia
avrebbe generato tale e tanto impegno: all’inizio eravamo tutti ripiegati sui nostri lockdown e i nostri picchi di contagi, erano saltati i pilastri europei in un attimo, le frontiere, le regole finanziarie. Pareva semmai possibilissimo che la pandemia avrebbe spezzato l’Europa come si augurano i catastrofisti e i nazionalisti: la vittoria dell’egoismo. Ma spesso gli apocalittici dimenticano che le pressioni che ci sono sull’Unione europea – tante, moltiplicate per 27 – finiscono per trasformarla, addirittura migliorarla. È in corso una mutazione genetica del progetto europeo. È stato introdotto il debito comune, per la prima volta, e saranno introdotte anche tasse europee per ripagare questo debito – ci chiederemo, tra poco, se le tasse che non sono mai belle possono esserlo se sono di tutti e non solo di una nazione, se servono anche per evitare abusi concorrenziali dalle altre potenze. Il motore franco-tedesco, cementato dalla svolta tedesca (Angela Merkel, nella foto, ha detto di sì agli eurobond) e dall’allineamen-
Zig-Zag di Ovidio Biffi Cercando le vie predilette dal virus È da inizio primavera che rimugino una teoria sulla prima fase di contagi di Covid-19 e sul perché il virus abbia scelto di colpire duramente l’area dei laghi prealpini: dal bacino del Garda a quello del Verbano, toccando le punte meridionali dell’Iseo, del Lario e del Ceresio. Leggendo ogni giorno i diversi livelli di virulenza che il Coronavirus stava imponendo, ho iniziato a chiedermi: come mai in Ticino, pur avendo avuto la capacità di allestire un servizio sanitario efficiente e nonostante un tempismo spinto sino a sfidare addirittura le fondamenta del federalismo elvetico, i numeri dei decessi risultano così elevati rispetto a regioni vicine? Per un rapido confronto, ricordo alcuni dati impressionanti di quei giorni. Mentre nella provincia di Como, con quasi il doppio degli abitanti del Ticino, la pandemia aveva fatto segnare sino ad allora (2 aprile) 26 morti, da noi erano già oltre 150; a Varese, che conta quasi il triplo di abitanti rispetto a noi, le vittime erano «solo» 80. Sempre scorrendo
e confrontando i numeri risultava anche un’altra anomalia: delle regioni italiane confinanti con noi la più colpita era la provincia piemontese di Verbania Domodossola che, con 30’000 abitanti, sempre il 2. aprile, lamentava 50 morti. Convinto che le mie congetture potessero interessare anche altri, e con la recondita speranza di trovare ulteriori supporti (ma pronto anche a ricevere smentite) pensai di inviarle al Corriere del Ticino. Il direttore però non se la sentì di pubblicarle. Non escludo possibili superficialità del mio testo, ma ho subito pensato che il cortese rifiuto fosse dettato dal fatto che in quei giorni, anche a Muzzano come in tutte le redazioni dei media mondiali, di sicuro erano confrontati con valanghe di interventi tutti collegati con il progredire del coronavirus o da una serie di teorie meno empiriche e più scientifiche, rispetto alle mie. Il diniego era comunque accompagnato da una pertinente esortazione: «Lasciamo che siano gli scienziati a parlare di queste cose».
Il mio ragionamento era nato da una notizia, letta sulla rivista «Economist», che collegava percorso e focolai dei contagi da Covid-19 in Italia con l’inquinamento dell’aria e in particolare con la presenza di polveri sottili (PM10 o particolato). Quella indicazione mi portava a credere che anche l’elevato numero di morti che il Ticino stava registrando potesse avere un legame con la lunga e disattesa sequela dei superamenti dei limiti di ozono e di polveri fini che da decenni vede il Mendrisiotto fare da imbuto alla rete delle autostrade lombarde che arrivano sino al Basso Ceresio (lasciando ai margini Como e Varese). Dato però che sul fronte cantonale conteggi e informazioni sulla situazione sanitaria erano sì esaustivi, ma anche ripetitivi – solo contagi nuovi e decessi, suddivisioni per classi di età, pazienti ricoverati e intubati, assenza di indici di contagio e di indicazioni sui comuni di residenza delle vittime –, nel mio scritto arrivavo a ipotiz-
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 luglio 2020 • N. 31
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Idee e acquisti per la settimana
Il mix per festeggiare D’abitudine la festa nazionale viene celebrata con un sostanzioso brunch o una grigliata in compagnia, nel qual caso va scelto il giusto contorno: per esempio chips, patatine fritte e rösti prodotti con patate svizzere. Per il brunch sono perfetti i «Farm Rösti bio», che contengono ingredienti naturali accuratamente selezionati, come il burro o il formaggio, di provenienza svizzera. La grigliata si
arricchisce con le «Farm Fries», dal taglio più spesso, e l’ampia scelta di «Farm Chips», preparate con patate non sbucciate. E chi ama i gusti più decisi può optare per le «Farm Chips Wave»: grazie alla forma ondulata, le spezie aderiscono particolarmente bene. Con questa combinazione di alimenti croccanti, i festeggiamenti per il 1° d’agosto possono avere inizio.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 luglio 2020 • N. 31
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Idee e acquisti per la settimana
Azione 20X Punti Cumulus sulle nuove miscele di frutta e noci «Fruits & Nuts» Sun Queen dal 28.07 al 10.08
Nuove miscele di noci e frutta secca Le miscele di frutta secca Sun Queen sono pratiche e apprezzate ovunque, sia come provvista che come spuntino. Questi snack amati da tutti si presentano ora non solo con un nuovo design, la confezione piatta e la chiusura a cerniera, bensì con una scelta che è andata ampliandosi. La miscela «Wake-up!», con chicchi di caffè tostati e ricoperti di cioccolato, è di tanto in tanto l’ideale per una sferzata di energia, mentre la miscela «Cherry Picker», con amarene essiccate, è l’alternativa per tutti coloro ai quali non piace l’uvetta. Sulle scansie un’altra novità dal nuovo nome e design: «Cranberry & Nuts» di Sun Queen, una miscela classica davvero appetitosa.
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Cultura e Spettacoli Antiche donne forti Al Museo nazionale di Zurigo si ripercorre la figura e l’importante ruolo che ebbero le monache nel Medioevo pagina 34
Carta e parola per Bonjour I pellegrinaggi letterari dell’artista François Bonjour in mostra alla biblioteca della Salita dei Frati di Lugano
La lingua delle origini Nava Ebrahimi, nata in Iran e cresciuta in Germania, convince la critica con la sua opera prima pagina 37
Teatro, quo vadis? Stefan Kaegi omaggia il teatro di Vidy di Losanna con una (non) pièce che induce alla riflessione
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pagina 35
Gaspare Fossati, Veduta della galleria meridionale da ovest, 1852.
Santa Sofia, anche (un po’) ticinese Arte e storia La curiosa storia di due fratelli di Morcote che hanno consegnato la basilica all’eternità Jonas Marti Chissà a che cosa pensò il morcotese Gaspare Fossati quando mise per la prima volta piede dentro la sublime basilica che doveva restaurare, Santa Sofia. Prima di arrivare a Istanbul ne aveva già viste di meraviglie. Partito dalle rive del Ceresio, aveva studiato a Venezia, Milano e a Roma ed era stato architetto ufficiale dello zar a San Pietroburgo. Ma monumenti così strabilianti non ne aveva visti da nessuna parte. Santa Sofia, basilica delle basiliche, moschea delle moschee, miracolo assoluto dell’architettura bizantina. Giusto per dire: quando gli ottomani conquistarono Costantinopoli nel 1453, il cantore di corte Tursun Beg la definì «modello del paradiso» e scrisse che «nulla di paragonabile è mai stato costruito». Caricata di simboli come mai nessun edificio – chiesa, moschea, museo e ora di nuovo moschea – Santa Sofia ancora oggi non smette di conquistare – e scaldare – gli animi. Ma se la sua bellezza è arrivata inviolata fino a noi lo dobbiamo proprio al nostro Gaspare Fossati, che nel 1847 fu incaricato dal ventiquattrenne sultano riformatore Abdülmecid I, grande me-
cenate con spiccati interessi per la cultura occidentale, di compiere il più grande e radicale restauro a cui la basilica sia mai stata sottoposta. Gaspare Fossati era arrivato sul Bosforo già dieci anni prima, insieme al fratello minore Giuseppe, inviato dallo zar con il compito di costruire la nuova sede dell’ambasciata russa. Ma un progetto tirò l’altro: apprezzato da tutti, in poco tempo Gaspare Fossati edificò altre ambasciate, poi l’università e la Nuova Scuola imperiale, finché infine, grazie alla celebrità raggiunta, ottenne il prestigiosissimo incarico: restaurare la moschea più importante di Istanbul, massimo monumento dell’impero ottomano. Allora Santa Sofia aveva senza dubbio bisogno di una sistematina. Dopo quattordici secoli di terremoti e dissesti strutturali, la basilica non era messa benissimo. Le testimonianze dell’epoca dicono che sulla grande cupola c’erano delle crepe così grandi che un uomo adulto avrebbe potuto passarci attraverso. L’edificio doveva essere consolidato e restaurato. I fratelli Fossati ripararono le fessure, posarono una catena di ferro attorno alla base della cupola per sostenerla, rinforzarono le colonne e i rivestimenti in marmo. Sot-
to i loro ordini lavorarono ottocento operai, e il restauro venne completato in due anni. Ma durante i lavori i due morcotesi fecero una scoperta straordinaria: nel 1848, mentre i manovali stavano togliendo la calce e il vecchio intonaco per metterne di nuovi, vennero per caso alla luce degli antichissimi mosaici bizantini ancora intatti. Risalivano agli albori della costruzione voluta dall’imperatore Giustiniano, e mostravano figure cristiane, come Gesù, la Madonna e numerosi santi e angeli. I fratelli Fossati vollero mantenerne traccia: li documentarono con disegni annotati, di grande precisione, e con più fantasiosi acquarelli, e li mostrarono al Sultano che, estasiato dalla bellezza, pensò in un primo momento di mantenerli esposti. Nei giorni successivi accadde però che alcuni operai, in ottemperanza al precetto islamico che vieta ogni rappresentazione umana, cominciarono a distruggere le immagini cristiane. Così, anche a causa delle pressioni degli ambienti conservatori, il Sultano progressista scese a più miti consigli e ordinò di ricoprire i mosaici, riconsegnati all’oblio fino allo sconsacramento di Atatürk e alla trasforma-
zione in museo nel 1934, quando le immagini furono svelate di nuovo. Oggi i disegni che illustrano i magnifici mosaici di Santa Sofia sono conservati all’Archivio di Stato del Cantone Ticino, nel Fondo Fossati. Una preziosissima documentazione della storia dell’arte universale, custodita negli scaffali di Bellinzona, che nell’ultimo secolo ha permesso agli storici dell’arte e bizantinisti di tutto il mondo di studiare a fondo l’antica basilica. Dopo il restauro infatti numerosi mosaici sono andati distrutti a causa di terremoti e di altri lavori compiuti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Senza contare quel terrificante ma redditizio vizio di vendere sul mercato nero le piccole tessere dorate, ahinoi durato a lungo. Certo è lode agli architetti dell’imperatore bizantino Giustiniano che nel 537 la edificarono. Ma se oggi Santa Sofia è quello che è lo dobbiamo senza dubbio pure a Giuseppe e Gaspare Fossati, che rinnovarono anche, come dire, l’arredamento interno di questa grande casa di Dio e dell’umanità intera. I colori e le decorazioni che oggi ricoprono le pareti sono opera loro, così come la loggia esagonale, i lampadari a goccia e gli otto giganteschi medaglioni circola-
ri che riportano i nomi di Dio, di Maometto e dei primi quattro califfi, presenti in ogni fotografia di Santa Sofia che si rispetti. E pensate: costruirono addirittura uno dei quattro minareti ancora oggi presenti, sostituendo il primo, eretto da Mehmet II all’indomani della conquista e sproporzionato rispetto agli altri tre. Dopo aver riconsegnato Santa Sofia all’eternità, Gaspare Fossati pubblicò a Londra un libro che illustrava l’impresa. I dipinti che impreziosiscono le pagine sono mozzafiato, le gigantesche navate della basilica sembrano luccicare. Infine, nel 1858 i due fratelli tornarono a casa, sulle rive del Ceresio, portandosi con sé un pezzo di Istanbul. A Morcote costruirono la loro casa in stile turco, oggi Albergo Al Battello, dove una targa ricorda Gaspare; sempre su disegno orientale costruirono anche la cappella di famiglia nel cimitero di Morcote dove oggi riposano. Chi l’avrebbe mai detto? Due morcotesi alla corte del Sultano, due fratelli che hanno consegnato all’umanità intera la bellezza millenaria della basilica più straordinaria di tutti i tempi, che dopo quattordici secoli continua a suscitare clamore.
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Cultura e Spettacoli
Il potere femminile nel Medioevo Mostre Il ruolo dei conventi femminili e delle badesse tra l’XI e il XVI secolo in Europa al Landesmuseum di Zurigo
Tommaso Stiano L’esposizione attualmente allestita nell’ala nuova del Museo nazionale svizzero di Zurigo porta il titolo Le monache. Donne forti nel Medioevo. Proprio il ruolo dei monasteri femminili e la vita delle religiose sono spiegati nella prima parte della mostra che è riccamente illustrata con paliotti, statue lignee policrome, reliquiari, quadri, pale d’altare, codici, messali miniati e arazzi come lo splendido Hortus conclusus del convento di Sciaffusa. La seconda parte è invece dedicata alla testimonianza di quindici madri badesse che hanno avuto un ruolo di peso nella società medievale europea. I pannelli esplicativi e le tracce sonore sono anche in lingua italiana così come le audioguide da noleggiare alla cassa. A partire dal V secolo d.C., la gran parte dei cenobi femminili sorse grazie a donazioni di famiglie nobili che, per questioni dinastiche riservate ai maschi, volevano comunque garantire una vita dignitosa a figlie, sorelle e vedove. I monasteri hanno offerto a queste donne la possibilità di condurre una vita di qualità in solitudine (monache) o in comunità (suore). Il successo dei conventi femminili è stato piuttosto marcato nel periodo considerato dalla mostra, cioè tra l’XI e il XVI secolo, basti dire che tra il 1070 e il 1170 arrivarono quasi a quadruplicarsi in Europa, mentre tra il 1230 e il 1300 nella sola Svizzera ce n’erano un’ottantina. In quel lasso tempora-
le, pressoché il 10% delle donne era indirizzato a prendere il velo o a vivere come beghina, una terza via di vita consacrata con i soli voti di obbedienza e castità ma senza far parte di un ordine monastico (nel XIV secolo solo a Basilea le beghine erano 400). Badessa, priora o madre superiora erano le cariche più alte per una sposa di Cristo e alcuni monasteri femminili, al pari di quelli maschili, erano luoghi di potere politico, economico o culturale. Di qui il titolo della mostra che sta a sottolineare la posizione di comando e di grande influenza di alcune consacrate, potere esercitato direttamente sul territorio dove sorgeva il monastero o anche indirettamente nel caso la superiora fosse in stretta parentela con il governatore locale. Il potere di influenzare la cultura del tempo, specialmente la teologia, era esercitato da badesse erudite; le loro riflessioni circa le cose divine erano tenute in alta considerazione a Roma tanto che alcune sono state proclamate Dottore della Chiesa universale come Hildegard von Bingen (1098-1179) – una delle testimoni in mostra – che tenne corrispondenza con papi e imperatori, effettuò viaggi pastorali per scuotere le coscienze del tempo, compose musica, scrisse trattati sul corpo umano, sul mondo vegetale e animale e fu appunto un’autorità nella scienza di Dio. Il monastero era luogo di preghiera ma faceva anche girare l’economia locale e i casati più in vista fondavano dei cenobi femminili in luoghi strategi-
Zurigo con dodici monache nobili residenti. Era una delle donne più influenti del tempo e restò in carica per trent’anni durante i quali l’abbazia raggiunse l’apice del suo splendore. In qualità di badessa era signora della città, assegnava il diritto di battere moneta, nominava sindaci e giudici e aveva voce in capitolo nell’assemblea dei principi del Sacro Romano Impero. A partire dal 1517, con l’avvento del protestantesimo tutto finì perché la nuova religione, oltre all’iconoclastia, impose la soppressione dei monasteri con conseguenze di vasta portata per le donne consacrate: o si trasferivano in zone cattoliche o ritornavano alla vita laicale come fece l’ultima priora del Fraumüster, Katharina von Zimmern (1478-1547) che dovette cedere il convento alla città, si sposò ed ebbe figli. La sua stanza privata, la sala di ricevimento e altri locali in legno dell’ex abbazia sulla Limmat sono stati conservati e ricostruiti nell’ala ovest del Landesmuseum. Al termine della mostra temporanea vale la pena far visita a questi ambienti per rendersi conto del fine artigianato svizzero di quei secoli.
Cerchia di Bernhard Strigel, Monaca dormiente, Algovia, 1500 ca., pittura su tavola, legno di quercia. (© Germanisches Nationalmuseum, Norimberga. Foto G. Janssen)
ci dei loro possedimenti come segno di potere o alla memoria di un congiunto scomparso. Qui entravano le loro figlie, ecco spiegata la tradizione di scegliere la badessa tra i familiari, con funzioni amministrative dei propri beni e di quelli del monastero. Governare un cenobio era oneroso,
richiedeva doti di diplomazia e un alto livello d’istruzione. Ad alcune badesse spettava inoltre il compito di trattare questioni politiche con alti dignitari di corte. L’esempio presente in mostra è quello di Elisabeth von Wetzikon (1235-1298) che nel 1270 diventa priora delle benedettine del Fraumünster di
Dove e quando
Le monache. Donne forti nel Medioevo, Museo nazionale svizzero (Landesmuseum, accanto alla Stazione centrale), Museumstrasse 2, Zurigo. Orari: lu chiuso; ma-do 10.00-17.00 (gio fino alle 19.00). Fino al 16 agosto 2020. Info www.landesmuseum.ch Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Racconti d’arte
Mostre La Biblioteca Salita dei Frati di Lugano espone le opere di François Bonjour
Libri L’omaggio di
un padre a una figlia molto amata
Alessia Brughera Non poteva esserci luogo migliore di una biblioteca per ospitare le opere di François Bonjour. Da sempre, per l’artista nato a Cham e ticinese d’adozione, il libro e la pagina scritta, la carta e la parola costituiscono un imprescindibile punto di riferimento all’interno della propria ricerca. Quello di Bonjour è un costante peregrinare nell’universo letterario per afferrarne gli elementi principali da trasporre nel proprio fare artistico, mantenendo viva la loro efficacia espressiva e la loro forza evocativa. Nei lavori dell’artista il libro è contenitore di saggezza e di ciò che si è fatto memoria, la pagina scritta è codice da decifrare, la carta è prezioso supporto al conoscere, la parola è traccia indelebile del sentire: audace sperimentatore, Bonjour sa che questi componenti sanno valorizzare il potere narrativo di un’opera d’arte. Fin dai suoi esordi negli anni Settanta, difatti, ciò che più interessa all’artista è fare dei propri lavori piccoli racconti dell’esistenza, brani dalle trame accuratamente composte con frammenti della realtà, capaci di «entrare nell’intimo di questo mondo con le sue bellezze e le sue rovine», come lui stesso sottolinea. Ecco dunque che nella cornice raccolta della Biblioteca Salita dei Frati di Lugano le opere di Bonjour diventano storie che conducono lo spettatore in una dimensione sospesa tra verità e visione, in un luogo dove le impronte dell’essere umano si caricano di nuovi significati facendosi portatrici di esperienze e riflessioni da condividere. La mostra espone una selezione di quaranta lavori che coprono un arco di tempo di mezzo secolo, testimonianza di un percorso artistico che se da una parte è sempre stato sensibile a contaminazioni e stimoli differenti, dall’altra è rimasto fedele a una precisa poetica d’intenti, caratterizzata dalla peculiarità dei mezzi e da una profonda spontaneità affabulatoria. Per questo la rassegna di Bonjour ben si introduce nel programma espo-
Cosa ci vuole per essere felici?
François Bonjour Messaggio – Germogli 3, 2019 tecnica mista su tela.
sitivo della biblioteca luganese, da anni impegnata nella realizzazione di mostre dedicate al libro d’artista nella sua accezione più ampia, coinvolgendo figure che hanno fatto dell’esplorazione della pagina scritta una costante creativa della propria attività. Non a caso, pur nella solida autonomia che l’ha sempre contraddistinta e che non ha mai permesso di ricondurla a un contesto specifico, l’arte di Bonjour ha tra i suoi richiami più evidenti quello alla Poesia Visiva, proprio per la tendenza a mescolare segno verbale e segno iconico, alla ricerca di nuovi rapporti tra parola, immagine e spazio. In questa contaminazione di linguaggi, i lavori dell’artista divengono territori popolati da libri, da pagine di volumi antichi, da fogli rari e preziosi (spesso scovati nei bauli del padre, ingegnere cartario), da ritagli di giornale e da eleganti segni calligrafici a cui si accostano fili di spago e di ferro, pezzi di cera e di legno, brandelli di stoffa, cocci di vetro, pigmenti. Il tutto combinato secondo un’armonia e un ordine perseguiti con meticolosità, affinché ogni dettaglio raggiunga la sua piena efficacia all’interno dell’opera e assuma
il ruolo preciso che Bonjour gli ha affidato nello svolgimento del racconto. Questi oggetti non vengono prelevati dalla realtà con l’intento di conferire loro una nuova vita, piuttosto l’artista ne è attratto per la loro capacità di farsi tramite del suo intimo sentire e per il valore che rivestono per l’uomo. Il libro, in primis, incarnazione del sapere e custode del grande potere della parola, è per Bonjour una vera e propria reliquia del quotidiano a cui egli consegna le sue riflessioni sull’esistenza. In esso cerca quelle «risposte che sono nelle cose e nella loro polvere, nelle tracce di una vita fossile che la velocità della storia contemporanea rischia di cancellare». La devozione dell’artista al libro, alla pagina e alla carta, soprattutto in piena rivoluzione digitale, ha il sapore di una nostalgica meditazione sul tempo e sulla memoria, su ciò che va custodito e protetto dall’oblio, minaccia della civiltà e del progresso. Il sedimentarsi dei diversi elementi diventa così il sedimentarsi del pensiero dell’artista. La loro accurata stratificazione schiude molteplici livelli di narrazione, tra consonanze e alternanze, tra relazioni e contrasti, generan-
do uno spazio dinamico e palpitante. Questi materiali si fanno per Bonjour contenuti da interrogare, come se egli volesse coglierne l’essenza, sviscerarne il senso più profondo. Il libro viene rinchiuso in gabbie o ricoperto con cera rossa, imprigionato per essere difeso o nascosto per rinascere nuovamente; la pagina viene annichilita da segni vigorosi e da scritture indecifrabili, tramutata in un’enigmatica superficie da reinterpretare; la carta viene sfregiata, alterata nella sua perfezione dalla mano dell’artista per farsi terra vergine da esplorare. E proprio nei candidi fogli setosi dei lavori più recenti Bonjour insinua piccoli fili di spago che paiono percorrerne segretamente l’intera estensione, facendo poi capolino con le loro punte dipinte di un rosso vivo come fossero i germogli di inediti racconti di vita.
Quanto può essere difficile ridare un senso a un’esistenza, quando da questa sparisce una persona che proprio a quell’esistenza dava un senso? Probabilmente se l’è chiesto anche Christian Paglia, nei giorni vuoti e monchi che seguirono la morte dell’amata figlia Monica, sconfitta giovanissima da una grave malattia. Vi sono situazioni cui purtroppo non abbiamo facoltà di opporci, ma, a guardare proprio bene, a saperlo fare con saggezza e un certo distacco, in ognuno di questi vicoli ciechi è contenuto anche un insegnamento, uno sprone per andare avanti. Lo stesso che si dava Monica, e che di riflesso ricadeva su tutti gli altri, e che si traduceva nel desiderio, o addirittura nella ferma volontà di essere felici. In questo modo anche la felicità cessa di essere il risultato di una serie di circostanze propizie, diventando il risultato di un atto di forza positiva. È esattamente questo il messaggio di Christian Paglia che, consegnando alle pagine di un libro la breve e intensa storia di sua figlia, è riuscito a distillarne l’essenza, e la preziosa verità secondo cui «felici basta esserlo». / SS
Dove e quando
François Bonjour. L’intelligenza segreta delle cose. Biblioteca Salita dei Frati, Lugano. Fino al 14 agosto 2020. Orari: me, gio e ve dalle 14.00 alle 18.00. www.bibliotecafratilugano.ch
Il Cristo nella tempesta sul mare di Galilea Opere scomparse e mai ritrovate – 2 L’unico paesaggio marino dipinto da Rembrandt è stato trafugato
nel 1990 a Boston Emanuela Burgazzoli
Se si consulta il catalogo online dell’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston, museo che possiede una delle più belle collezioni private d’America, sulla scheda dedicata al Cristo nella tempesta, si trova una laconica indicazione: «Rubato nel 1990». L’olio su tela dipinto da Rembrandt nel 1633, di grandi dimensioni (160 per 128 cm), è infatti uno dei tredici dipinti trafugati il 18 marzo 1990 da due ladri che hanno
messo a segno il furto d’arte più importante (e ancora irrisolto) nella storia degli Stati Uniti, per un valore stimato di almeno mezzo miliardo di dollari; oltre alla tela di Rembrandt, in quell’occasione sono scomparsi anche Il Concerto di Vermeer e una tela di Manet. L’opera era stata comprata nel 1898 a Londra dalla fondatrice del museo, che si avvaleva dei consigli dell’allora giovane storico dell’arte americano, esperto di rinascimento italiano, tale Bernard Berenson.
Fu realizzato dal pittore nel 1633: dopo il furto se ne sono perse le tracce. (Wikipedia)
Quel giorno i due malviventi, travestiti da poliziotti, si presentano fuori orario all’entrata del museo, un edificio dall’architettura sorprendente che si ispira allo stile gotico veneziano di Palazzo Barbaro; con un pretesto convincono i sorveglianti a farli entrare e appena dentro legano e imbavagliano i malcapitati, disattivano le telecamere e cominciano a girare per le sale. (A dire il vero questo era il loro piano B; qualche giorno prima avevano già tentato il colpo, cercando di attirare l’attenzione dei guardiani notturni, fingendosi vittime di una rapina. In quel caso però il trucco non aveva funzionato). Si portano via la tela di Rembrandt, ma lasciano altre opere di grande valore, come il Ratto d’Europa di Tiziano, un Botticelli e due Raffaello. Non si tratta quindi né di esperti d’arte, né di buone maniere: abbandonano a terra, calpestandoli, alcuni dipinti del Seicento olandese che non riescono a separare dalle loro cornici. Tralasciare opere famose per opere di valore inferiore, trattare con cura alcune, maltrattando altre, fare irruzione con la forza nel museo ma rinunciare a spaccare una teca in vetro contenente un vessillo napoleonico. Un comportamento incoerente che resterà un enigma anche per gli investigatori dell’FBI. Passano quasi quattro anni prima
di una richiesta di riscatto che il direttore del museo riceve nel 1994: i malviventi chiedono 2,6 milioni di dollari, una cifra infima rispetto al valore dei dipinti trafugati. Decise a pagare, le autorità del museo seguono le istruzioni e pubblicano un messaggio in codice sul «Boston Globe». Ma da lì non si hanno più notizie dei ladri. Nel 1997 il giornalista Tom Mashberg sembra avere una nuova pista, perché qualcuno gli fa avere dei presunti campioni di colore provenienti dalla tela rubata. Ma anche questo si rivela un buco nell’acqua. Un lasso di tempo così lungo fra il furto e la richiesta di riscatto indica che i tentativi di trovare degli acquirenti sono falliti. Inoltre la lista di ciò che è stato rubato, e di ciò che non lo è stato, suggerisce che fosse un furto su commissione (anche se in realtà i casi di furti su commissione di specifiche opere famose sono molto rari rispetto alle decine di migliaia di opere d’arte trafugate ogni anno nel mondo). Le teorie si moltiplicano: l’IRA, la mafia corsa, la criminalità organizzata di Boston. L’FBI promette 5 milioni di dollari di ricompensa in cambio di informazioni e nel 2015 durante una conferenza stampa rivela dettagli inediti del furto. Ma anche questo tentativo di smuovere le acque fallisce; gli inquirenti sosten-
gono nel frattempo di essere risaliti all’identità dei ladri, che nel frattempo sono deceduti. Ma dei dipinti si è persa ogni traccia; quasi certamente integri – è sempre nell’interesse dei ladri d’arte mantenere le opere in buone condizioni – ma nascosti in un luogo che a questo punto appare introvabile. Il dipinto è l’unico paesaggio marino dipinto (e firmato) da Rembrandt e risale al periodo del trasferimento dalla natìa Leyden ad Amsterdam, quando si andava affermando come principale ritrattista e pittore di soggetti storici. L’episodio biblico – che ha ispirato altri pittori come Eugène Delacroix – è tratto dal Vangelo di Marco e illustra la tempesta improvvisa che coglie la barca con i discepoli impauriti e sfiduciati, mentre Cristo è l’unico a mantenere la calma in mezzo al caos. L’opera mette in scena la forza della natura e la fragilità umana: la capacità di Rembrandt è l’immediatezza con cui riesce a trascinare anche noi spettatori – grazie a un sapiente gioco di luce e oscurità – in un vero e proprio dramma pittorico. Ed è forse per questo motivo che un’opera fantasma come Il Cristo nella tempesta è stato riprodotto a più riprese su copertine di libri e dischi, citato in film e telefilm e persino apparso in un videogioco.
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Cultura e Spettacoli È un nonnino sempre molto vivace. (Marka)
L’altra lingua, quella delle origini Pubblicazioni L’affascinante esordio
letterario di Nava Ebrahimi Luigi Forte
Un anti-divo d’enorme successo
Personaggi Renato Pozzetto compie ottant’anni, sessanta dei quali
trascorsi a farci ridere con il suo originale umorismo Alessandro Zanoli Con alcuni compagni ci incrociavamo sulle scale del Liceo o nei corridoi: uno sguardo in tralice e con voce gutturale, strascicata, ci rivolgevamo un saluto in codice: «Ciao Mario!» «Ciao Mario!» «C’ho la bocca amara...» «Prepara il minestrone, che arriva Vigorone...». Era un saluto quasi carbonaro, complice, da rivolgersi ad occhi socchiusi, con la testa leggermente inclinata indietro. Un segnale di appartenenza alla categoria degli appassionati e adepti al culto di Renato Pozzetto.
Il comico italiano si è costruito una carriera puntando sulla sua personalità e il suo senso... per il nonsenso Può sembrare un’esagerazione, oggi. Ma molti dei miei coetanei, lo affermo per esperienza concreta, avevano avvertito la profonda umanità e anche la carica «contestataria» di quel modo di fare spettacolo. Cochi e Renato erano due meteore nel mondo ancora abbastanza sussiegoso dell’intrattenimento televisivo, fatto ancora di Canzonissime e sceneggiati romanzeschi. Era, con nostro grande sollievo, l’irruzione nei moduli formali e benpensanti di uno stile cabarettistico, irriverente, pieno di mezze allusioni e di parodie, di tormentoni idioti e dadaismo da osteria. In quel repertorio si trovava di tutto: dallo sbeffeggio alla poesia carducciana e dannunziana alla presa in giro del linguaggio mediatico («Notisiario della Valtrompia; nel pomeriggio della giornata di oggi un fulmine a ciel sereno ha colpito un gregge di pecore. I famigliari sono stati avvertiti»). C’erano le canzoni nonsense di una bellezza inaspettata e piene di un gusto goliardico che ripagava da tante brutture del canzonettismo italiano di allora: il successo di brani come E la vita l’è bèla («basta avere l’ombrèèèla»), come Lo sciocco in blu, si può spiegare solo come una reazione ad altrettanti nonsense serissi-
mi a cui sottometteva l’industria discografica nazional-popolare. C’era poi la presa in giro del sistema scolastico, paternalista e anche corrotto («Problema: il vostro maestro guadagna lire 150’000 al mese. Sapendo che di affitto paga lire 60 mila, di vitto lire 50mila, di trasporti lire 30mila e che ha 20mila lire di spese varie, la domanda è: come si fa ad essere promossi? Nella soluzione fatevi aiutare dai vostri genitori...»). Non sono sicuro che se Cochi e Renato si presentassero oggi a un’emittente televisiva, proponendosi con il loro stile anticonformista, sarebbero accettati. Probabilmente abbatterebbero le pareti della casa del Grande Fratello, o cercherebbero di sabotare qualche altro barone dell’intrattenimento mettendone in ridicolo la figura. C’è solo da meravigliarsi che siano riusciti a farsi largo in quell’epoca. E tutto sommato anche la società di allora si interrogava sul loro successo: una curiosa copertina della «Domenica del Corriere» del 22 dicembre 1978 riassume in un titolo quel fenomeno culturale: Perché ci fanno ridere Renato, Cochi e Villaggio. L’Italia in crisi ha bisogno di serenità. Si torna a riflettere su quell’inimitabile stagione dello spettacolo televisivo perché Renato Pozzetto festeggia in questi giorni i suoi ottant’anni. Lo si celebra un po’ come un’eminenza grigia nel mondo della creatività. Rimangono impressi alle generazioni più giovani certi suoi intercalari, resi popolari da alcuni suoi film che non passano mai di moda, i suoi «Taac!» e gli «Eh, la madooona!», del Ragazzo di campagna o della Casa stregata, ma credo che ai più sfugga quanto il suo umorismo sia stato davvero dissacrante e persino coraggioso, negli anni 70. Ne avevamo parlato anni fa con Enzo Jannacci, che di Pozzetto e di Cochi Ponzoni era stato indubbiamente mentore (e lo stesso Pozzetto lo riconosce in una bella intervista rilasciata negli scorsi giorni a «Repubblica»). Jannacci ci aveva raccontato, tanti anni fa a Campione: «Pozzetto è unico. È uno che è capace di arrivare da me con una frase tipo “Nebbia in Valpadana, calmi gli altri mari”. Una frase che è una folgorazione; non ho saputo resistere, ne
è venuta fuori una canzone». Per la cronaca era la sigla di una serie televisiva andata in onda sulla RAI negli anni 90. Ma per tornare agli anni 70, per noi giovani liceali l’umorismo assurdo di Pozzetto era una chiave di lettura al contrario del mondo. Un modo di prendere in contropiede le certezze e le incoerenze di un periodo complicato. C’era la crisi petrolifera, c’era la fine del boom economico, c’era il pericolo del terrorismo e della guerra fredda. Cochi e Renato rispondevano con le canzoni sul «Piantatore di pellame che era infelice perché lui non piantava caffè perché cresceva da sé» e con il monologo di Tacchi, dadi e datteri, la storia assurdamente verosimile di uno che voleva costruire un supermercato su un precipizio: «In pianta, il terreno fa venti centimetri». Fatte le debite proporzioni, mi viene da pensare che lo stile di Renato Pozzetto sia stato per noi quello che l’umorismo di Totò era stato per la generazione di mio padre. Nel dopoguerra si sentiva il bisogno di rompere con il grigiore e il formalismo fascista, c’era il bisogno di essere, finalmente, ingenuamente svagati e magari liberamente stupidi. Al «Siamo uomini o caporali», insomma, rispondeva «La gallina è un animale intelligente, lo si capisce da come guarda la gente» e offriva lo stesso strampalato aggancio per dissacrare il mondo culturale d’élite, visto con gli occhi del pubblico d’avanspettacolo. Come Totò, anche Pozzetto ha calcato i palchi del teatro di cabaret da mattatore, anzi da marionetta impersonale, capace di suscitare la risata e l’identificazione immediata con il «popolo». Ma non era soltanto gigioneria: dietro l’umorismo stralunato di Cochi, Renato, Jannacci, Andreasi e degli altri al Cabaret Derby c’erano le tracce ben evidenti del teatro di Beckett e Ionesco, c’era la vena dissacrante di certa drammaturgia d’avanguardia. «È la testa che bisogna cambiare. E non lo vogliono capire!» è forse la frase riassuntiva di questo atteggiamento. È l’ultima battuta dal primo film di Pozzetto, Saxofone, 1978. A cambiarci la testa, lui, Jannacci e gli altri, a volte, credo che un poco siano riusciti. Grazie di cuore, e auguri!
Parole, parole, parole, cantava un tempo Mina, e dietro il vuoto dell’amore promesse intessute di sillabe e di suoni. Non giungevano da lontano con il peso di un passato che non lascia scampo, avvolgenti e dispotiche come quelle enumerate da Nava Ebrahimi nel suo intenso romanzo autobiografico Sedici parole, egregiamente tradotto da Angela Lorenzini per l’editore Keller. All’inizio fu una sola, ricorda nel prologo la scrittrice di lingua tedesca ma di origini iraniane. Poi vennero le altre, agili e svelte, e nulla avevano a che fare con la sua vita di tutti i giorni. Lei, nata a Teheran nel 1978, figlia di emigrati, è cresciuta a Colonia dove ha studiato giornalismo ed economia. Quei termini stranieri, di cui si sentiva ostaggio, le ricordavano che c’era ancora un’altra lingua, la lingua madre legata al suo mondo originario. Una sorta d’incantesimo che andava spezzato per ritrovare la strada del tempo, rianimare figure e icone dell’infanzia. È stato sufficiente tradurre, uno dopo l’altro, quei vocaboli ed ecco affiorare liberamente il racconto. Complice un triste evento: la morte dell’amata nonna, Maman bozorg, che riporta in patria per le esequie, nel paese di Mashhad, la protagonista Mona e sua madre. E le proietta in una realtà cangiante e chiacchierina, in una nuvola di affetti e di presenze in cui troneggia baldanzosa la buonanima. Disinvolta e decisa pensa all’amore, schiocca le dita e muove le spalle ritmicamente come un’adolescente ipnotizzata dal ritmo del pop persiano che dilaga dalla tv, incita la nipote a guardarsi intorno giacché gli spasimanti non mancano e non esita a ricordarle che «l’Iran è diventato tutto una grande casa di piacere! Persino le novantenni, che per trovargli la kos devi rovistare, si divertono senza problemi». Ecco come la ricorda sua nipote alle prese con una madre che dai furori gaudenti della genitrice non ha ereditato granché. Anzi, è stata sacrificata sull’altare delle avventure sentimentali della sua vecchia che la diede in moglie, tredicenne, al proprio spasimante. La sposa dimostrava più anni di quel che aveva, ma il cervello era quello di una ragazzina ancora sulla soglia della vita che impazziva per le minigonne e sognava il grande amore. Insomma, quel triste viaggio diventa per Mona il lento e intenso recupero di una storia lontana che attraverso voci casalinghe fa riemergere un intero paese. Non il canto della nostalgia, ma la ricerca di un’identità su cui è stata costruito, quasi inconsapevolmente, il suo presente. È come se Ebrahimi cercasse il piedistallo della propria esistenza saldando nell’esperienza di Mona due mondi quasi inconciliabili. Bastava sciogliere il segreto
delle parole perché la ragazza di Colonia ritrovasse la voce travolgente delle origini. A cominciare da kos, la vagina, uno dei temi preferiti della nonna, anche quand’era in visita dai parenti in Germania, su cui prese a illuminare la nipote fin da piccola. Raccontava barzellette e storielle, ma non tralasciava memorabili asserzioni. «Se la kos fosse una cosa da mostrare in giro – diceva a quella povera innocente – allora il buon Dio ce l’avrebbe messa in fronte». E fingeva di scandalizzarsi di fronte a qualche porno a tarda sera in tv, ma poi rimaneva incollata allo schermo a guardarsi Ultimo tango a Parigi urlando «Oh mio Dio, col cappotto e gli stivali… in Iran finirebbero giustiziati all’istante!». Nava Ebrahimi lascia spazio con tenerezza e ironia a quel colorito mondo femminile che tradizioni e severe consuetudini sociali privano di ogni vera autonomia e libertà. Dalla sua distanza di cittadina europea sa tuttavia cogliere la profonda sostanza umana di cui lei stessa nella sua riflessione letteraria è ora più che mai parte. Così come quel ritorno alle origini le fa capire il dolore della madre, sposa giovanissima, emigrata, separata poi dal marito e incapace di ritrovare una vera identità. Sedici parole è una sorta di gioco degli specchi, un costante riflesso nel tempo e nello spazio di destini senza un vero ubi consistam. Del resto la stessa Mona, un tempo giornalista come l’autrice, rivede durante il suo breve soggiorno il collega Ramin, l’amore di un tempo che anche ora non disdegna. Lui è sposato e forse andrà a lavorare in America. Un attimo del passato li unisce ancora, poi via verso Colonia dove già l’aspetta Jan per una gita sulle rive del Reno e tante altre parole. Ma non sarà possibile dimenticare quelle del passato, dalle quali è riemersa anche la figura del padre comunista, segregato dal regime, uomo di talento che in Germania ha perso la sua vera identità: per vivere, lui che aveva studiato e professato con coraggio una fede politica, apre un piccolo negozietto di frutta e verdura. Gli specchi della storia riflettono immagini cangianti mentre le speranze si dissolvono nel pesante mormorio del giorni. Eppure lo sguardo di Mona rapisce il lettore affascinato da una scrittura così scorrevole e avvolgente da trasformare la memoria in un presente senza tempo. Forse è vero, come qui si dice che «la vita è un bambino che torna da scuola». Anche Mona è stata tra i banchi del suo passato per raccontare mille storie con il sorriso antico dell’infanzia. Bibliografia
Nava Ebrahimi, Sedici parole, traduzione di A. Lorenzini, Ed. Keller
Un particolare della copertina di Sedici parole, edito da Keller.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 luglio 2020 • N. 31
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Cultura e Spettacoli
Nel ventre del teatro
In scena Boîte noire, un viaggio affascinante del poliedrico regista svizzero Stefan Kaegi
Giorgia Del Don La riapertura del Teatro di Vidy di Losanna dopo tre mesi di pausa forzata ha rappresentato una boccata d’aria fresca che potremmo definire come salvifica, tanto la pandemia di Covid19 ha e continua a minacciare il futuro delle arti della scena. Private dell’interazione vitale con il pubblico nello spazio rituale del teatro, queste sono costrette a reinventarsi per sopravvivere, sono obbligate a parlare un’altra lingua per comunicare sensazioni che solo la vicinanza dei corpi riesce a provocare. A lanciarsi in una tale impresa che ridà vita per un’ultima volta a un teatro ormai già quasi moribondo, quello di Vidy, pronto a essere smantellato dando via ad una trasformazione che durerà ben due anni, non poteva che essere l’artista solettese di fama internazionale Stefan Kaegi. Maestro nel ricreare realtà storiche secondo punti di vista multipli e atipici per scovarne la vera essenza, Stefan Kaegi (con i suoi due «partners in crime» del collettivo Rimini Protokoll: Helgard Haug e Daniel Wetzel) ha accettato la sfida di fare deambulare gli spettatori in solitario nel ventre stesso di un teatro già quasi fantasma(to). Come già mostrato nel 2014 con il suo audio tour Remote X, percorso deambulatorio lungo le strade di differenti città (Remote Libellules nel caso di Ginevra) per 50 spettatori muniti di casco audio, o durante il viaggio in camion, sempre per 50 spettatori, attraverso la periferia di Losanna nel 2018 (Car-
go Congo-Lausanne), ogni luogo può essere vissuto differentemente secondo lo sguardo che poniamo su di esso. Uno sguardo carico di un’immancabile soggettività che si mischia a quella delle persone che ci accompagnano durante il viaggio per creare un puzzle di punti di vista che della realtà non ci danno che un assaggio. Nel caso di Boîte noire, Théâtrefantôme pour 1 personne (che si è svolto dal 9 giugno al 12 luglio), Stefan Kaegi si è spinto ancora più in là creando un percorso solitario abitato solamente dai fantasmi di un teatro pronto ad andarsene con un inchino. Impossibilitato nel creare (lo scorso marzo) lo spettacolo che aveva previsto di dedicare al mitico teatro di Max Bill (Société en chantier), l’artista svizzero ha deciso di optare per una poesia intimista che sfida le limitazioni attuali riflettendo sul teatro di domani. Accompagnati dalle voci di quanti hanno amato, abitato ed esplorato il teatro di Vidy: attrici come Laetitia Dosch e Yvette Théraulaz, tecnici del calibro di Bruno Dani, ma anche critici teatrali come Thierry Sartoretti, architetti e storici dell’arte (Matthieu Jaccard), ma anche costumiste e note spettatrici (come l’ex sindaco di Losanna Yvette Jaggi), senza dimenticare le affascinanti osservazioni dello psicanalista François Ansermet, gli spettatori (uno ogni cinque minuti), muniti solo d’un casco audio, penetrano nelle viscere del teatro. Un teatro che appare per la prima volta in tutta la sua complessità rivelandoci le sue debolezze, i trucchi che si nascondono dietro la
Una spettatrice si avventura nel Teatro di Vidy di Losanna. (Keystone)
sua splendente facciata, gli odori (non sempre squisiti) che emanano dalle sue viscere, i dubbi che lo abitano, il futuro che oggi più che mai lo minaccia. Il percorso che Stefan Kaegi ci invita a fare, tanto eccitante quanto malinconico, trasforma la scatola nera teatrale in spazio museale in cui il teatro si espone in tutta la sua splendente complessità. A fare parlare l’immensità labirintica di Vidy sono le voci che ci accompagnano durante un’ora e mezzo di deambulazione, le vestigia del passato (i messaggi lasciati sui muri, le scatole di fazzolettini abbandonate dalle truccatrici, gli animali impaglia-
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ti, i costumi di scena,…), le sensazioni che il nostro passaggio imprime nella storia recente del luogo, gli applausi che sembrano riecheggiare nell’immensità della scena principale dove ci ritroviamo scaraventati, (quasi) soli, inermi ed emozionati. È allora che ci accorgiamo quanto la scena sia vitale, catartica, un luogo che dobbiamo a tutti i costi preservare. Cosa resta di uno spettacolo quando il pubblico se ne va, quando gli attori abbandonano i loro ruoli per mischiarsi di nuovo alla quotidianità della vita? Queste sono le domande che Boîte noire solleva dando alla scena una dimensione tridimensionale. Pubblico,
spettatori, tecnici, truccatrici, costumiste, tutti coloro che hanno partecipato all’illusione scenica si ritrovano coinvolti in un rituale i cui effetti si estendono ben oltre la sala da spettacolo, oltre gli spessi muri del teatro, fin dentro il nostro cuore. Un viaggio immaginario al quale Stefan Kaegi dà vita per ricordare a tutti quanto abbiamo (ancora) bisogno della scena, del suo potere sovversivo, della sua capacità di farci sognare senza imporci nessuna limitazione. Accedere alle viscere del teatro è un po’ come, per riprendere le parole dello psicanalista François Ansermet, esplorare il subconscio del subconscio, un luogo nel quale nemmeno Freud ha osato avventurarsi. Invece di togliere allo spettacolo la sua magia, il viaggio che Stefan Kaegi ci invita a fare ne amplifica il fascino e moltiplica i misteri. Boîte noire è un’esplorazione archeologica che si compie in solitaria ma che ci fa riflettere sul senso della comunità che la pandemia mette pericolosamente a repentaglio. È infatti attraverso l’incontro dei nostri corpi, custodi di personalità complesse e impaurite, che le arti della scena ci trasformano. Come dei visitatori venuti dal futuro, osserviamo le vestigia di un universo scenico che ci sembra ormai già molto, troppo lontano. Coscienti di quanto potremmo perdere, gustiamo l’ebbrezza di un luogo che fra poco non esisterà più, ci lasciamo trasportare dalla nostalgia dell’effimero sognando di poter ben presto tornare a sederci sulle poltroncine rosse di una scena sognata.
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Netflix Filthy Rich, la mini serie
su Jeffrey Epstein Alessandro Panelli
Il documentario si prende il compito di far luce, attraverso le testimonianze delle vittime e i dipartimenti di polizia coinvolti, sul giro di traffico umano minorile esercitato da Epstein a fini pedofili. Malgrado Lisa Bryant riesca a confezionare un prodotto valido e avvincente, per quanto sia agghiacciante quello che ci viene mostrato, il documentario non racconta effettivamente quasi nulla di nuovo rispetto a quanto già si conosce sul caso Epstein. Il punto più forte dell’opera è l’alta adrenalina che riesce a trasmettere allo spettatore, soprattutto se quest’ultimo è all’oscuro dei fatti narrati. In modo chiaro, conciso e dinamico il documentario riesce a ricapitolare buona parte dei reati commessi da Epstein e i suoi co-cospiratori, ponendo l’attenzione su come il potere del denaro permetta di vivere
le proprie perversioni senza ripercussioni, ed evidenziando la facilità di corruzione da parte di molti rappresentanti del governo. Le interviste alle vittime sono funzionali alla visione, soprattutto per quanto riguarda la componente drammatica evocata. Purtroppo però nel loro insieme risultano spesso simili tra di loro. La stessa cosa si può dire dei co-cospiratori di Epstein. L’imprenditore infatti non era altro che una pedina all’interno di un giro molto più grande che coinvolge persone dall’importanza politico-sociale assai più rilevante della sua. Purtroppo questi nomi, tra i quali figura Bill Clinton e l’attuale presidente degli Stati Uniti Donald Trump, vengono soltanto menzionati con lo scopo di creare un brivido nello spettatore. Non viene detto nulla di davvero schiacciante che eleverebbe l’opera da documentario a inchiesta, sollevando così il polverone necessario a fermare questo giro. Nonostante ciò la serie è importante in quanto riesce a raggiungere il pubblico mondiale mostrando la vera e cruda realtà dei fatti, facendo appassionare lo spettatore alla vicenda e aprendogli gli occhi sull’ennesimo abuso di potere che mette in dubbio ogni concetto morale. L’umanità, che ai giorni nostri dovrebbe essere al suo stato evolutivo maggiore, mostra, in questo documentario, il suo aspetto più fragile e laido, facendo emergere la debolezza del sistema giudiziario americano rispetto alla libertà concessa a criminali manipolatori e perversi. Naturalmente a pagarne le conseguenze sono le migliaia di vittime, quelle vittime che finalmente, dopo decenni di forzato silenzio, riescono a far valere la propria parola davanti alla Corte. Ma la strada per la giustizia sarà ancora molto lunga e dolorosa.
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Teleguidati, sul set e nella vita Abbiamo notato tutti che la pubblicità, in questo periodo di forzata convivenza, ha messo sovente al centro degli spot la famiglia. Stando tutti seduti davanti al televisore, abbiamo deciso di dare una mano ai pubblicitari mettendo a disposizione le esperienze della nostra famiglia. Siamo partiti da un’osservazione del semiologo Alberto Abruzzese, secondo il quale la pubblicità è catastrofica per definizione, deve cioè interrompere un’armonia, un ordine, per farsi notare. Salvo poi ricomporre il quadro grazie all’impiego del prodotto reclamizzato. Secondo Abruzzese queste operazioni di temporaneo disturbo su collaudate consuetudini ci risultano in definitiva piacevoli perché vengono incontro a un nostro desiderio inconfessato. Deve trattarsi dello stesso piacere che procurano i film catastrofici. Quanto mi piacciono! Posseggo un’intera collezione di quelli classici. Continuano a produrne di nuovi ma per i miei gusti hanno trame troppo
complicate da seguire e sovente, non sapendo come cavarsela, ricorrono a interventi sovrannaturali che detesto. Preferisco rivedere per l’ennesima volta L’inferno di cristallo, con gli invitati alla festa per l’inaugurazione in cima al grattacielo isolati dalle fiamme che stanno divorando mobili e arredi dieci o quindici piani più in basso. L’incendio è originato dai materiali scadenti usati per l’impianto elettrico dalla ditta che ha vinto l’appalto. Per nostra fortuna sono cose che succedono soltanto in America. Ogni volta che rivedo il film mi congratulo con me stesso: «Ho fatto bene a rimanere a casa e a non andare al ricevimento». Dice una fastidiosa vocina: «Mica t’avevano invitato!» Cosa c’entra? Io intanto sono qui al sicuro a casa mia, in pigiama, mentre quei poveretti in abito da sera sono lambiti dalle fiamme, compreso il direttore che aveva approfittato della festa per appartarsi in un alloggio vuoto con la segretaria che si capisce benissimo che
non è sua moglie. Quando i due peccatori si accorgono delle fiamme è troppo tardi per salvarsi e vengono puniti dalla G.D. (giustizia divina). Fra gli invitati alla festa c’è anche il sindaco con la sua signora, una bella cicciona coperta di gioielli. Se imitavano il mio esempio e rimanevano a casa a guardarsi un film catastrofico, adesso erano al sicuro. E il film non si faceva, ma questo è ancora un altro discorso. Una serie stupenda di film catastrofici è ambientata sugli aerei, intitolata Airport. Peccato però che gli episodi finiscano sempre bene; mal che vada, muore qualcuno dell’equipaggio e della squadra dei soccorritori. Ma quelli non contano, il loro contratto di attori prevedeva l’eventualità del sacrificio. I passeggeri si salvano sempre. Il primo film della serie Airport è anche il più bello. Inizia con tutte le cerimonie della partenza e la rassegna del campionario di umanità, compresa la capa delle hostess che ha appena finito di litigare con il marito che, vedi i casi della vita,
comanda la torre di controllo. E già lì si capisce che ne vedremo delle belle. L’aereo è un Boeing 707 in volo inaugurale su una nuova linea e perciò a bordo ci sono, oltre ai normali passeggeri che troviamo in ogni viaggio aereo (la suora, l’ubriacone, l’attore fallito, la bambina in dialisi) una bella manciata di Vip che viaggiano gratis e sono trattati meglio degli altri. Fossimo in Italia sull’aereo ci sarebbero solo Vip e sarebbe ancora più divertente vedere che se la fanno sotto. Durante il decollo scopriamo che nel cielo sopra l’aeroporto c’è anche un altro aereo che attende il suo turno per atterrare. Su questo piccolo aereo c’è solo il pilota, un uomo d’affari anzianotto che muore fulminato dal classico infarto alla cloche. L’aereo inizia a volteggiare nell’aria e con tanto spazio a disposizione dove ti va a cadere? Avete indovinato, proprio sulla cabina di pilotaggio del nostro Boeing 707. Piloti e ufficiali di rotta o muoiono subito o diventano ciechi che, per uno che fa il pilota d’aereo è
quasi peggio che morire. Iniziano i concitati colloqui con la torre di controllo a terra. La capa delle hostess, istruita via radio dal marito, riesce, seduta al posto del pilota nella cabina mezzo sfondata e sferzata dall’aria gelida, ad inserire il pilota automatico. E fin lì Transit, come dicono i venditori della Ford. L’incredibile accade in conclusione del film quando, andati a vuoto i ripetuti tentativi di calare con il verricello dall’elicottero dentro lo squarcio un vero pilota, la suddetta signora riesce, sempre teleguidata da terra dal marito che signorilmente passa sopra al litigio di prima della partenza, a pilotare l’aereo, facendolo atterrare a regola d’arte. Il film non lo dice, ma di sicuro i passeggeri messi in salvo avranno dato una bella mancia alla capa delle hostess anche se sugli aerei non si usa. Sono sicuro che gli sceneggiatori del film hanno copiato i dialoghi fra me e mia moglie quando lei, in vacanza con i figli, tenta invano di teleguidarmi per programmare la lavatrice.
soddisfazione fasulla con cui quelli della generazione di suo padre e sua madre affrontavano l’età più schifosa della vita. Ci vedeva una insopprimibile smania di continuare a sentirsi superiori. Si chiese se il vecchio avesse partecipato alle storiche ribellioni degli anni settanta, se avesse scopato sulle barricate come gli avevano raccontato i suoi, e i loro insopportabili amici. La verità è che erano ricchi, quelli di quella generazione. Suo padre aveva scritto per il cinema quando ti pagavano le sceneggiature prima ancora che tu le scrivessi. Tre film e ti compravi casa. Come se l’avesse evocata, sua madre rispose al messaggio proprio in quel momento. «Certo che ti sfamo figlio caro: ci sono anche Betta e la bimba?» «No» digitò, «sono solo». «Evviva! Tête-à-tête. Tuo padre ha un torneo di tennis». Seguivano cuori pulsanti e faccine soddisfatte. Il vecchio, che evidentemente aveva superato qualsiasi forma di autocensura,
guardava lo schermo cercando di leggere. Tom glielo avvicinò, per facilitargli provocatoriamente l’operazione «Vado a pranzo da mia madre. Tanto immagino che lei non mi avrebbe invitato in un ristorante costoso. Anche se sono intelligente quanto mia moglie, forse anche di più». Il vecchio rise di nuovo. «Non sia risentito con me. Non ne vale veramente la pena». Tom, improvvisamente, provò l’impulso di mettere fine a quella situazione ambigua, gli parve che il vecchio si pavoneggiasse troppo ed ebbe voglia di offenderlo. «Lei ha una bella pensione, immagino. Io no. Non ce l’avrò mai. Alla sua età probabilmente non ci arrivo neanche. E se ci arrivo non avrò i soldi per rifarmi i denti, né per la fisioterapia, né per la badante. Mio padre ha fatto l’artista ben pagato e si è comprato una casa lussuosa, poi ha venduto la nuda proprietà perché vuole campare da ricco anche se il cinema è morto e lui non becca più un
ingaggio. Così non erediterò neanche il mattone». Si alzò, come al solito era riuscito soltanto a offendere sé stesso, recitando la lagna dei soldi. La nuova povertà intellettuale di massa. Il disagio collettivo dietro cui cercava di nobilitare il suo fallimento. Il vecchio rimase seduto, lo guardava con un interesse neutrale. Quello sguardo a Tom parve ironico e questo veramente era intollerabile. «La smetta di ronzare attorno a mia moglie, non si renda ridicolo», disse, andandosene. Il vecchio lo guardò finché scomparve, quindi si mosse in direzione del palazzo davanti a cui aveva depositato Betta la sera prima. Aspettò davanti al portone che qualcuno aprisse, si intrufolò all’interno, trovò la buca delle lettere giusta. Era l’unica con tre nomi invece del cognome: Betta Tom e Sara. Era chiusa. Il vecchio infilò agevolmente una busta. «Per Betta»
Gioverebbe al distanziamento definitivo. Ci sono insegnanti meravigliosi che durante il lockdown hanno moltiplicato l’impegno e la fantasia e ce ne sono altri che ne hanno approfittato per nascondersi all’ombra del virus. Mi sono arrivati racconti a proposito di una docente di scuola media che cercava ostinatamente di fare lezione online da casa sua lottando contro i due figlioletti che le saltavano sulle spalle e la tormentavano di richieste (6–); di alcuni suoi colleghi, viceversa, non pervenivano notizie per settimane (2). Indubbiamente, le scuole sono diventate un problema. Non meravigliamoci se qualcuno (un sovranista a caso nell’ampio e colorito repertorio che va da Trump a Bolsonaro) salterà su a dire che bisogna chiuderle tutte e non riaprirle mai più. Tanto, a che servono? Sono soltanto un disturbo alla normale corsa verso l’ignoranza al potere. Del resto, tempo fa l’onorevole Matteo Salvini (3––) aveva sbraitato contro la scuola media, assicurando che fosse stato per lui l’avrebbe cancellata in quanto «buco
nero», anzi inutile «area di parcheggio»: per sostituirla con che cosa? Con niente. Semplicemente montando qualche ruota sotto il sedere dei ragazzi più volonterosi, si passerebbe in velocità dalle elementari al liceo, anzi all’università, anzi forse direttamente al mondo del lavoro o al Parlamento (come ha fatto lo stesso onorevole Salvini, che non ha avuto bisogno di studiare per ritrovarsi forse persino a sua insaputa ministro degli Interni). Per fortuna escono ogni tanto vaccini efficaci (efficaci per chi abbia voglia di utilizzarli, ovviamente) contro il virus dell’imbecillità e dell’ignoranza esibita come un manganello. Per esempio, ecco le Lettere scontrose di Giovanni Arpino, una serie di epistole immaginarie che lo scrittore di Pola, piemontese di adozione, pubblicò sul settimanale «Tempo» tra l’ottobre 1964 e il novembre 1965 e che ora per la prima volta vengono raccolte postume in volume da minimum fax: 5+ all’editore, 5½ al polemista a volte ironico, altre volte spietato, spesso profetico, sempre ispirato
da «un’elementare esigenza di giustizia e un minimo di civile indignazione» nel segnalare alcune stranezze del costume del suo tempo. Non apocalittico come Pasolini, non amaro come Sciascia, non funambolico come Eco, ma forse ancora più tagliente in virtù di un pacato quanto apprezzabile buonsenso. Sia che si tratti di pretendere da Sofia Loren che paghi le tasse come tutti, sia che si tratti di esprimere il proprio disgusto verso la mitezza delle pene inflitte agli aguzzini di Auschwitz. Stranezze, viltà, furbizie, protervie, spavalderie, crudeltà che si ripropongono oggi con attori diversi ma con modi e toni quasi immutati. Sarebbe una pia illusione allontanarle da noi provando a caricarle confusamente su un megabanco dotato di ruote a cui dare una spintarella leggera e non pensarci più. Ma almeno un Arpino capace di un minimo di civile indignazione sarebbe un’iniezione salutare, indispensabile… Purtroppo vige per lo più il silenzio o la collusione nei confronti della stupidità semovibile, a due, tre o quattro ruote.
Quaderno a quadretti di Lidia Ravera Le nuove povertà/8 «Credo di conoscere la sua giovane moglie», la frase gli sembrò così inverosimile che Tom sorrise. Un sorriso sciocco, imbarazzato. Il sorriso di chi non capisce. «Prego?», disse, volendo rivestire di una certa finezza il suo sconcerto. «Ieri sera ho accompagnato a cena sua moglie», disse il vecchio, «è stata un serata incantevole, sua moglie è una donna intelligente, anche se non è il primo aggettivo con cui la definirebbe la maggior parte degli uomini. Ha una grazia malinconica e una conoscenza di se stessa, dei suoi limiti e delle sue armi davvero fuori dal comune. Soprattutto nella vostra generazione, così socievole distratta e pragmatica. Mi ha davvero sorpreso». Tom guardò quell’uomo vecchio, vestito con abiti costosi e consueti. Gli guardò le unghie perfettamente curate, inspirò il profumo di un dopobarba muschiato, ascoltò la voce senza accenti, il timbro sicuro, intonato. Gli parve che rassomigliasse a quella di Frank Sinatra. Parlava cantando e certamente era in grado di
cantare parlando. Improvvisamente fare bella figura con lui gli parve una priorità assoluta, più importante di tutte le possibili risposte gelose o aggressive. No, non gli avrebbe chiesto come faceva a sapere che lui era il marito della donna rimorchiata la sera prima. Non gli avrebbe dato del porco né dello spione. Disse semplicemente: «Sì, mia moglie è speciale». «E dunque è sua moglie, non la sua fidanzata». «Mi retrocede a fidanzato quando vuole rimorchiare». Sentì nella sua stessa voce una nota sgradevole. Provò fastidio per sé stesso. Una sensazione frequente, nell’ultimo periodo. Il vecchio rise con gusto, dissipando ogni ombra. «Lei mi lusinga, mio caro Tommaso. Io sono al di là di ogni possibile desiderio. Non desidero e non vengo desiderato. È uno dei vantaggi della condizione senile». Tom si rese conto che era stanco della
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Stupidità su quattro ruote Una delle notizie più interessanti degli ultimi tempi, sui giornali italiani, riguarda l’esigenza di rifornire le scuole, per settembre, di banchi con le ruote. Infatti, il ministero dell’Istruzione avrebbe già indetto un bando per l’acquisto di almeno tre milioni di «sedute scolastiche attrezzate di tipo innovativo, ad elevata flessibilità di impiego, per gli istituti della scuola secondaria». Non si capisce perché, ma solo questi banchi semovibili garantirebbero il cosiddetto distanziamento sociale imposto dalle nuove norme anti-Covid. Subito, ovviamente, si sono scatenate le ironie: Massimo Gramellini, ne Il Caffè, la rubrica quotidiana del «Corriere della Sera» (5½: provate voi a scrivere tutti i giorni trenta righe davvero degne di una prima pagina!), ha auspicato che il banco venga perfezionato in un Ferrarino monoposto tipo Formula Uno non soltanto a rotelle ma motorizzato (e rigorosamente elettrico per ragioni ecologiche), in modo da rendere più comodo e rapido lo spostamento intorno ai secchioni, durante i compiti
in classe. In tal caso si tratterebbe, eventualmente (ma questo lo aggiungo io), di riflettere se dotare l’automezzo di cambio automatico o manuale, di freno a pedale e a mano, di cinture di sicurezza, airbag, aria condizionata, finestrini elettrici, ma soprattutto di tettuccio apribile, di gomme per la neve e di tergicristalli in caso di pioggia all’interno della classe, viste le condizioni precarie delle strutture scolastiche. Per quanto mi riguarda, posso testimoniare che non più di un anno fa, in una mattinata invernale, mi è capitato di dover aprire l’ombrello per attraversare il corridoio di un liceo lombardo e raggiungere l’aula magna dove avrei tenuto una conferenza. «Se la mi’ nonna aveva le rote, era ’na carriola», recita un antico proverbio toscano per dire che alcune cose sono semplicemente impossibili. In effetti, pensare di mettere le ruote ai banchi per migliorare le scuole, è una pia illusione. Forse sarebbe utile mettere un paio di ruote a qualche ministro o a certi professori e dar loro una bella spinta.
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