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Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Ripresi i lavori della nuova centrale idroelettrica di Piotta, entrerà in funzione nel 2024
Ambiente e Benessere Antropocene: l’influsso dell’uomo sull’ecosistema globale è stato minuziosamente descritto per la prima volta già nel 1873 da Antonio Stoppani
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 10 agosto 2020
Azione 33 Politica e Economia Nasce ufficialmente il nuovo partito Lega per Salvini premier
Cultura e Spettacoli Ballenberg, museo all’aperto fra i più illustri in Europa
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AFP
TikTok, nuovo fronte di scontro
di Federico Rampini pagina 20
Potere e religione nel Ventunesimo secolo di Peter Schiesser Quando conduce al tempio del potere, il cammino dei re della modernità oltre che delle bandiere dei nazionalismi si adorna volentieri anche di simboli religiosi. Putin, l’antesignano, ha già abbracciato la fede cristiano-ortodossa e restituito prestigio e potere alla chiesa russa; l’islamico Erdogan ha reso moschea l’Hagia Sophia a Istanbul e inferto una profonda ferita simbolica al laicismo imposto alla Turchia da Atatürk cent’anni fa; e adesso è il turno di Narendra Modi, il primo ministro indiano seguace dell’ideologia hindutva (hindu first, si potrebbe parafrasare), che suggella la supremazia del nazionalismo indù sulle altre minoranze, quella musulmana in primis (quasi 200 milioni su 1 miliardo e 300 milioni di abitanti in India, un decimo dei musulmani nel mondo). Non è stato un caso che Modi abbia posato la «prima pietra» (un lingotto d’argento di 40 chilogrammi) per il futuro tempio di Rama ad Ayodhya il 5 agosto, prostrandosi più volte davanti a un idolo della divinità e compiuto una lunga cerimonia religiosa. Su quel luogo fino al 1992 si ergeva la Babri Masjid, una moschea fatta costruire
nel Seicento dal primo imperatore Mogul, Babar. Ma in tutti questi secoli gli indù l’hanno considerato come il luogo della nascita del dio Rama e nel 1992 una folla di integralisti ha attaccato e distrutto la moschea, scatenando violenze in tutta l’India, con oltre duemila morti. La controversia storica e soprattutto legale su a chi appartenesse il luogo, agli indù o ai musulmani, durò fino all’anno scorso, quando la Corte Suprema sentenziò che spetta agli indù, riconoscendo ai musulmani la potestà su un terreno poco distante, per erigervi una nuova moschea. Perché il 5 agosto? Esattamente un anno prima, con un colpo di mano il suo governo aveva isolato il Kashmir, confinato la popolazione in casa, bloccato internet, inviato decine di migliaia di soldati, fatto incarcerare tutti i leader politici (compresi quelli filo-governativi), intellettuali, economici, per poi decretare decaduto l’articolo 370 della Costituzione che ha garantito dal 1949 uno statuto speciale a questa regione abitata in prevalenza da musulmani, incorporando il Jammu&Kashmir nell’India a tutti gli effetti. Il Kashmir è conteso da India e Pakistan, vi sono state più guerre per il suo controllo, la votazione promessa sull’indipendenza o meno dall’India non ha
mai avuto luogo, e nel 1989 è nata un’insurrezione costata fra le 70 e le 100 mila vittime. Rafforzato dalla rielezione stravinta l’anno scorso in maggio, Narendra Modi ha voluto risolvere una volta per tutte la «questione kashmira» e dare inizio all’induizzazione della nazione. L’ha fatto usando il pugno di ferro: benché ai giornalisti stranieri sia vietato recarsi in Kashmir e internet è attivo solo da pochi mesi (a seguito di una sentenza della Corte Suprema), dalla regione giungono notizie e testimonianze di detenzioni illegali, torture, intidimazioni, confermate da fonti ONU. Il lockdown decretato in seguito al Covid-19 ha di fatto prolungato lo stato di prigionia dei kashmiri e dato un ulteriore severo colpo all’economia della regione. Sempre non a caso, con l’abolizione dell’articolo 370 viene a cadere anche il divieto per i non kashmiri, quindi per gli indù, di comprare terreni e proprietà. L’intenzione è di mettere col tempo i musulmani in minoranza, rendere indù tutto l’India. Una lenta pulizia etnica. Questo non avviene in un regime autocratico come la Cina o la Russia, bensì in quella che ama definirsi la democrazia più grande (popolosa) del mondo. Una prova ulteriore che in questi tempi la democrazia non ci mette al riparo da chi è assetato di potere.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 agosto 2020 • N. 33
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Società e Territorio Nuova centrale a Piotta Ripresi dopo il lockdown i lavori a Piotta e al Ritom, la moderna centrale idroelettrica entrerà in funzione nel 2024
Anziani e demenza Entra nel vivo la campagna centparcent, per una vasta raccolta di dati sullo stato di salute degli over 65 pagina 10
Ticino di altri tempi Visita al Piccolo museo di Sessa e Monteggio, alla riscoperta del passato rurale del Malcantone pagina 10
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Disabili e golf, un’accoppiata vincente Sport e socialità L’esperienza unica di
Nicola Valerio, docente e monitore sportivo che con il suo progetto Par 54 a Bellinzona ha infranto alcuni tabù sull’handicap e la pratica di uno sport considerato di élite
Mauro Giacometti Ma chi l’ha detto che a golf non possano giocarci tutti? E chi ha stabilito che chi è affetto da disabilità intellettiva non possa cimentarsi con mazze e palline da imbucare? Se lo è chiesto Nicola Valerio, docente di Economia e Comunicazione alla Scuola di Commercio di Bellinzona e da sempre appassionato di sport (snowboard e golf su tutti). «Nel 2008 ho iniziato a praticare con assiduità il golf, incuriosito appunto dal fatto che quasi tutti lo considerassero uno sport per pochi, benestanti e magari un po’ in là con gli anni. E invece ho scoperto che è uno sport adatto a tutti, completo, che oltretutto ti permette una immersione totale nella natura. Poi, siccome come monitore G + S mi sono da sempre occupato di sport per disabili, ho cominciato a pensare che potesse essere una disciplina adatta anche a chi soffre di deficit intellettivo. La spinta conclusiva per fondare l’associazione Golf dei Castelli (2012) e la struttura PAR 54, che promuovono questa disciplina a tutti i livelli, dai più giovani agli adulti principianti, me l’ha data una collaborazione per gli Special Olympics nel 2009 e la responsabilità del Team di golf svizzero Special Olympics ai Mondiali di Atene del 2011», racconta Valerio. Il suo progetto di realizzare un campo pratica aperto a tutti nella zona del Bagno Pubblico è piaciuto alla Città di Bellinzona, così nel 2016, con il benestare del Municipio, nasce ufficialmente il Golf dei Castelli PAR 54, area attrezzata con strutture che permettono l’allenamento del gioco lungo («driving range», con cinque postazioni a disposizione) e per l’allenamento del gioco corto («pitching», «putting» e «bunker shot»). «Inoltre durante il periodo invernale di chiusura al pubblico della piscina comunale, viene disposto un percorso di nove intriganti buche che si snodano nel magnifico parco
del bagno pubblico», spiega il docente. Che racconta come, fin dall’inizio, il suo obiettivo è stato quello di rendere popolare e divulgativo il golf, mettendo a disposizione delle scuole elementari, scuole medie e scuole superiori – e la zona del Bagno Pubblico e del Parco Urbano di Bellinzona è densamente occupata da istituti scolastici – un’area attrezzata per avvicinare e far divertire bambini e ragazzi con ferri e palline. Inoltre sono programmati corsi doposcuola per avvicinare i giovanissimi al golf come pure corsi mirati papàmamma/bambino, corsi per famiglie e corsi per adulti. Dal gennaio 2016, la struttura è aperta al pubblico (non c’è bisogno di iscrizione, bastano 10 franchi per l’ingresso) permettendone l’utilizzo ai singoli golfisti locali e ai turisti che possono sfruttare il soggiorno per praticare il loro sport preferito all’ombra appunto dei Castelli (info: www.par54.ch). Quindi ci sono i disabili, una dozzina in totale dalla fondazione del club e quattro nell’attuale team, di cui si è occupato e continua a seguire direttamente il fondatore del Golf dei Castelli coadiuvato da altri monitori. «All’inizio lo ammetto non è stato facile: pur lavorando costantemente con persone disabili non avevamo riferimenti e metodologie da seguire. Il nostro Golf club, uno dei quattro membri della Federazione Golf Ticino, è stato il primo infatti a cercare di avvicinare i portatori di handicap mentali a questa disciplina. Sugli altri impianti, l’atleta disabile non si vedeva proprio, poi però con caparbietà e grazie anche ai risultati che abbiamo ottenuto nelle competizioni nazionali e internazionali, l’atteggiamento di scetticismo è cambiato e da allora la collaborazione con le altre strutture golfistiche funziona alla grande. Tant’è che proprio recentemente, ad Ascona, durante i campionati ticinesi, è stata inserita una categoria “Special”, alla quale hanno
Atleti disabili impegnati in un green internazionale.
preso parte 5 coppie». A questo salto di qualità nei confronti dell’accettazione di questa disciplina per disabili, oltre alla sua carica entusiastica, ha contribuito anche il fatto che Nicola Valerio è diventato vicepresidente della Federazione ticinese di golf, sodalizio nato nel 2013 proprio sotto la spinta del docente bellinzonese. Entusiasmo che traspare anche dai racconti delle imprese con il suo gruppo di disabili. «Le trasferte ad Atene, ai mondiali di Los Angeles o al prestigioso Torneo di Macau dell’anno scorso sono state memorabili. Eravamo soli, lontani, ma i miei ragazzi si sono comportati veramente alla grande. Questa disciplina, forse più di altre, offre ai disabili una delle occasioni più importanti per socializzare, per cominciare a conoscere e rispettare le regole, per uscire dall’ambiente familiare ed entrare nella cosiddetta “scuo-
la di vita” dove potersi confrontare con nuovi mondi ed esperienze. Il golf insomma rappresenta una “terapia riabilitante” che insegna a controllare le proprie emozioni in gara come in allenamento. Tanti benefici che giovani e adulti hanno sia sul piano motorio che relazionale, superando in molti casi le aspettative dei loro accompagnatori. Allenatori, familiari ed educatori hanno infatti potuto constatare nei praticanti un significativo aumento dell’autostima e un miglioramento a livello di socializzazione al di fuori dello spazio ristretto della famiglia, della scuola e del lavoro. Da non trascurare poi gli aspetti atletici e quelli legati ai magnifici parchi naturali in cui sono inseriti i campi da golf», sottolinea il presidente del club. Il periodo di «lockdown» ha un po’ congelato l’attività del gruppo Golf dei Castelli PAR 54, soprattutto per il
mancato appuntamento a Macau, il più famoso e prestigioso torneo di golf al mondo per disabili. «Avevamo le valigie già pronte, ma ci siamo dovuti fermare. Il Golf Masters di Macau, che si disputa in primavera, è l’evento internazionale più grande per atleti con handicap intellettivo. Un evento organizzato fin nei minimi dettagli e che ha avuto il merito di accendere i riflettori sul tema dell’handicap e della pari dignità a tutti i livelli. Basti pensare che l’anno scorso, nell’ottava edizione del Master, erano presenti 25 delegazioni di 17 paesi di tutto il mondo, con oltre 70 atleti e 50 coach e numerosi familiari al seguito. Il Team Golf dei Castelli di Bellinzona, che rappresentava la Svizzera, era composto dagli atleti Mario e Yuri e dai coach Nicola e Silva. Si sono comportati benissimo e ora continuano ad allenarsi con entusiasmo per ritornarci nel 2021».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 agosto 2020 • N. 33
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Con lo sguardo rivolto al futuro
Nuova centrale idroelettrica In costruzione a Piotta, realizzata dalle FFS e dal Canton Ticino, entrerà in funzione
nel 2024 – Importanti lavori anche al lago Ritom – Previste una trentina di misure ambientali, fra cui un impianto di risalita per i pesci che li porterà fino ad Airolo Stefania Hubmann Ad un secolo esatto dalla sua inaugurazione la centrale idroelettrica del Ritom a Piotta sembra guardare con una certa indifferenza il vasto cantiere del principale progetto energetico ticinese degli ultimi 50 anni, ossia la costruzione della nuova centrale realizzata dalle FFS e dal Cantone Ticino, rappresentato dall’Azienda Elettrica Ticinese (AET), attraverso la società Ritom SA. Nel 2024 al momento della prevista messa in funzione dei nuovi impianti l’imponente edificio in pietra, bene culturale protetto a livello cantonale e federale, sarà ancora lì e in parte pure in funzione. Gli spazi che si libereranno troveranno nuove destinazioni grazie agli attuali contatti delle FFS (proprietarie dello stabile) con i locali enti pubblici. I lavori per una centrale in grado di assicurare a lungo termine l’approvvigionamento energetico al traffico ferroviario e alla popolazione sono accompagnati da importanti misure ambientali che valorizzeranno in particolare le zone interessate dai cantieri a valle come a monte (lago Ritom). Il progetto condivide con l’opera pionieristica del secolo scorso lo spirito innovativo, la cui visione oggi si declina per i singoli partner in risparmio energetico e promozione delle energie rinnovabili attraverso l’aumento dell’efficienza e dell’efficacia degli impianti. L’emergenza legata alla pandemia ha bloccato i lavori anche nei due cantieri della nuova centrale. «Abbiamo ripreso intensificando il ritmo», ci spiega il direttore della Ritom SA Luigi Cadola. «I cantieri sono in funzione sei giorni su sette». Le principali ditte coinvolte sono una ventina con al momento una sessantina di operai impegnati a Piotta e Piora, operai che potranno raggiungere il centinaio. Da rilevare che i lavori, iniziati nel 2018, vengono effettuati mantenendo in funzione gli impianti di FFS e AET esistenti. Cosa vedranno fra quattro anni i numerosi frequentatori della regione di Piora, oggi confrontati con gli ine-
Ecco come sarà la nuova centrale una volta ultimata. (Immagine Ritom)
vitabili disagi di questa importante realizzazione? Risponde il direttore: «Giungendo a Piotta si noteranno il moderno stabile che conterrà i nuovi impianti – due turbine da 60 MW di potenza – e il bacino di demodulazione. Quest’ultimo potrà contenere 100mila metri cubi di acqua, permettendo di regolarizzare i deflussi nel fiume Ticino. L’intera area, dove è presente anche la funicolare, sarà riordinata e valorizzata. A monte è pure prevista la sistemazione dell’area attorno ad un nuovo immobile, più piccolo rispetto a quello di Piotta, che si troverà sopra il pozzo forzato. Quest’ultimo non sarà visibile all’occhio del visitatore, ma rappresenta una parte imponente dell’intera opera anche per quanto riguarda la sua realizzazione. Viene infatti scavato dal basso dopo aver raggiunto la posizione esatta attraverso una galleria orizzontale di 2,5 km». Dal punto di vista tecnico una delle caratteristiche del nuovo impianto è la sua flessibilità. Precisa Luigi Cadola:
«La prima delle due nuove turbine servirà all’approvvigionamento tramite generatore della rete ferroviaria, mentre la seconda, muovendo un altro tipo di generatore, a soddisfare le esigenze della rete cantonale di AET. Grazie a un convertitore di frequenza le due reti saranno collegate, così da poter sfruttare al meglio l’impianto a dipendenza delle esigenze dei due partner. Se per le FFS le punte di consumo sono legate alla concentrazione di viaggiatori e quindi di convogli nelle ore del primo mattino e in serata, per AET questi momenti corrispondono alle fasce orarie del mezzogiorno e della sera. Il nuovo impianto permette nel complesso di triplicare la potenza attuale in previsione delle necessità future, legate per le FFS in particolare alle alte velocità e al comfort dei nuovi treni». Fra gli obiettivi dei nuovi grandi progetti è ormai d’obbligo anche il risanamento ambientale e la costruzione della nuova centrale idroelettrica leventinese non fa eccezione. Così
dispongono leggi federali e cantonali. Come sottolinea il nostro interlocutore, tale scelta riflette però anche gli intenti dei promotori. Luigi Cadola: «Saranno realizzate circa trenta misure ambientali che prevedono interventi in un’area geografica che va da Airolo a Faido, compresa la regione di Piora. Esse hanno soprattutto lo scopo di migliorare il paesaggio, il bosco e di favorire la fauna ittica. A questo proposito va citato l’innovativo impianto di risalita dei pesci, una specie di lift che li porterà fino ad Airolo». Per la valle Leventina il progetto, il cui investimento è pari a 250 milioni di franchi, rappresenta pertanto un’opportunità anche in quest’ottica. Riqualificare il fiume Ticino da Airolo, la zona di Piotta e quella di Piora significa creare un valore aggiunto sia dal punto di vista naturalistico, sia da quello turistico. Queste ricadute si affiancano a quelle di carattere economico rappresentate in primis dai lavori in corso e dal mantenimento in Ticino di posti di lavoro qualificati.
L’impianto di nuova generazione offre quindi ulteriore slancio all’intera valle esattamente come avvenuto un secolo fa con la prima centrale idroelettrica delle FFS entrata in esercizio. L’impianto del Ritom venne infatti costruito assieme a quello di Amsteg per elettrificare la linea del Gottardo a seguito della penuria di carbone prussiano dovuta alla prima guerra mondiale. Da cento anni, senza interruzione, fornisce la corrente di trazione per la linea che attraversa le Alpi. È stato calcolato che ha fatto muovere oltre 30 milioni di treni, risparmiando 87mila milioni di tonnellate di anidride carbonica rispetto all’uso dei veicoli a motore. Quello del Ritom è e rimarrà un impianto che sfrutta il dislivello di 850 metri fra il lago e la centrale. Quest’ultima, rileva Luigi Cadola, «era già improntata al risparmio energetico un secolo fa, perché priva di impianto di riscaldamento. Si era infatti pensato di sfruttare a questo scopo il calore proveniente dalle macchine situate nella parte bassa, facilitando tramite le scale la diffusione dello stesso ai piani superiori». Oggi in Svizzera le centrali delle FFS sono otto, mentre altre sei sono gestite in partenariato. Per quella leventinese la Ritom SA ha ottenuto una concessione di 80 anni per lo sfruttamento delle acque dell’omonimo lago che da bacino naturale divenne un secolo fa fonte di energia rinnovabile grazie alla costruzione della diga, ulteriormente innalzata negli anni Cinquanta. Quale direttore della Ritom SA, che è stata creata per gestire questo progetto strategico, Luigi Cadola corona da parte sua quarant’anni di attività nelle FFS, azienda nella quale ha assunto diverse funzioni lavorando a stretto contatto con il Cantone Ticino già prima di assumere questo incarico nel 2015. Il dirigente è convinto che questo partenariato costituisca una formula vincente per soddisfare le esigenze e le strategie dei promotori fornendo nel contempo un apporto sostanziale all’attuazione della strategia energetica nazionale.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Clara Vulliamy, Dotty Detective. Il mistero delle impronte, Giunti. Da 7 anni Un giallo per i più piccoli? Eccolo, in tutta la sua tenera suspence, questo Mistero delle impronte, secondo titolo della serie «Dotty Detective», che speriamo si arricchisca con ulteriori uscite. Speriamo, perché sono libri carini, semplici ma non privi di una loro grazia nella delineazione dei personaggi e delle trame, adatti a lettori non ancora esperti ma desiderosi di misteri e indagini da risolvere. Forse più lettrici, che lettori, come si intuisce sin dai pois brillanti della copertina, per i quali va matta la simpatica protagonista, insieme a tutto il corollario di quelle inutili deliziose kitschissime cose che spesso accompagnano per qualche tempo le infanzie al femminile (collana di graffette, adesivi, oggettini vari di cancelleria...). Ma Dotty non è solo glitter e pallini, è ben altro: è una ragazzina tosta, intelligente, curiosa e intraprendente, attenta a ciò che succede e acuta nel risolvere casi e problemi. Dotty vive con la mamma, due fratellini più
piccoli e il cane McClusky. Ha anche un nonno e un amico del cuore, Beans, il quale è suo compagno di scuola nonché suo socio nella segreta Agenzia «Detective Unisci i Puntini» (traduzione difficile in italiano dell’espressione inglese «Join the Dots», che nell’originale permetteva di giocare con il diminutivo di Dottie, Dot appunto). In questa avventura, Dotty coinvolge Beans in un mistero legato a strane presenze – rumori, passi – che lei avverte nella notte, al di là della porta di camera sua. La mamma e i fratellini dormono, e allora chi sarà mai? Che ci siano dei fantasmi in casa? Ma Dotty e Beans
hanno metodi scientifici per indagare, e cercano prove. La storia, scritta come se fosse un diario di Dotty, scorre agilmente, anche grazie alle immagini e alla grafica variegata e accattivante (che sempre più nei libri per bambini diventa elemento peculiare, sin da Geronimo Stilton e dalla Schiappa) e non potrebbe essere altrimenti, perché l’autrice (l’inglese Clara Vulliamy, che tra l’altro è figlia della pluripremiata autrice per l’infanzia Shirley Hughes) nasce come illustratrice. E in questa piccola detective story i disegni fungono da vivida punteggiatura. Agnese Sonato – Telmo Pievani, Giganti per davvero, Editoriale Scienza. Da 8 anni I giganti non esistono solo nelle fiabe, ma anche sul nostro meraviglioso, reale, pianeta. Li troviamo però non nella nostra specie, Homo Sapiens (che spesso anzi ne è diventato e ne diventa predatore e distruttore), bensì tra gli altri animali e tra le piante. È un invito all’esplorazione del mondo attraverso l’incontro con i giganti animali e
vegetali che lo popolano, questo libro di divulgazione scientifica, scritto a quattro mani da Telmo Pievani, studioso di evoluzione e docente di Filosofia delle scienze biologiche presso l’Università di Padova, e da Agnese Sonato, esperta in comunicazione della scienza, in particolare per i ragazzi. Altre due mani hanno collaborato al volume – dal grande formato di albo illustrato – e sono quelle dell’illustratrice Alice Coppini, che rende visibili queste creature gigantesche. Il filo narrativo è assicurato dalla presenza di due personaggi, Gully (da Gulliver) e Lilly (da Lilliput) che accompagnano i lettori in questo
viaggio, il quale ci porterà, a differenza delle vicende immaginate da Swift, in luoghi reali come le isole indonesiane di Komodo e di Flores, il Madagascar, l’Australia, il Sud America. Per giungere infine vicino a noi, in Italia, al Parco NaturaViva di Bussolengo (Verona), importante centro di tutela delle specie minacciate, che ha collaborato al volume. Perché si parte dalle isole? Perché esse «sono laboratori a cielo aperto dell’evoluzione, perché qui gli animali possono diventare molto più grandi o molto più piccoli rispetto alle dimensioni di specie simili». Qui troviamo ad esempio quella gigantesca lucertola che è il drago di Komodo, lungo tre metri per una settantina di chili di peso, o la cicogna gigante, ora estinta, come i dinosauri o gli altri giganti del passato a cui è dedicato un capitolo del libro. In altri luoghi troviamo altri mastodontici animali, ad esempio tra gli insetti, o tra i cetacei. E non manca qualche osservazione del contraltare al gigantismo, ossia i piccolissimi, come le velenose rane freccia del Sudamerica. Un viaggio pieno di sorprese!
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 agosto 2020 • N. 33
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Idee e acquisti per la settimana
Le melanzane nostrane bio
Attualità Gli ortaggi dell’orticoltore Floriano Locarnini di Sementina per succulenti piatti
dal sapore mediterraneo
Floriano Locarnini coltiva melanzane e altri ortaggi esclusivamente in modo biologico. (Giovanni Barberis)
Le melanzane sono tra i grandi classici dell’orticoltura e della cucina mediterranea. Anche il Ticino vanta una lunga tradizione nella coltivazione di questo ortaggio, accanto a quella del pomodoro e delle zucchine. Per crescere bene, le melanzane prediligono i climi ben soleggiati e con temperature non inferiori ai 15 gradi durante il periodo di vegetazione. Mentre il terreno ideale dovrebbe essere «poco argilloso, ma
ricco di materia organica», precisa Floriano Locarnini, produttore biologico da oltre vent’anni. Nella sua azienda orticola di Sementina coltiva questa pianta della famiglia delle solanacee tra maggio e settembre su una superficie di ca. 2000 metri quadri, senza l’utilizzo di fertilizzanti chimici e fitosanitari di sintesi, ma solo con l’ausilio di sostanze e antagonisti naturali. «In linea di massima, le melanzane sono facili da
coltivare e non richiedono particolari trattamenti», spiega Floriano Locarnini. «Per prevenire le malattie fungine e gli insetti dannosi utilizziamo dello zolfo e un olio a base di sale di potassio. Per quanto riguarda i parassiti, uno dei maggiori nemici delle piante è il pericoloso ragnetto rosso, un insetto in grado di distruggere intere colture. Per combatterlo utilizziamo degli antagonisti naturali, per esempio il phytose-
iulus persimilis e il macrolophus pygmaeus, dei voraci insetti predatori che si nutrono del nocivo ragnetto ». In cucina le melanzane sono l’ingrediente base nella preparazione delle più classiche ricette mediterranee, come la parmigiana in Italia, la ratatouille francese oppure la moussaka greca. Sono ottime anche grigliate condite con un filo d’olio d’oliva. Non si prestano per il consumo crudo poi-
ché contengono solanina, che può essere problematica per la salute. Per distruggerla è opportuno consumare gli ortaggi cotti o spurgati della loro acqua di vegetazione, tagliandoli a fette e cospargendoli di sale. Quest’ultima operazione permette anche di eliminarne il sapore amarognolo. Le melanzane si sposano a meraviglia con aromi quali origano, basilico, coriandolo, curcuma e peperoncino.
Per gli amanti del pesce
Attualità Il branzino: una deliziosa proposta dal sapore di mare per la stagione delle grigliate Considerato da molti il re dei pesci per la sua carne soda, delicata e povera di lische, il branzino, detto anche spigola, è una delle specie marine più pregiate d’Europa. È un pesce dal profilo slanciato, con due pinne dorsali ben sviluppate, dal colore grigio scuro sul dorso e argenteo sul ventre. È molto presente nelle zone costiere del Mar Mediterraneo e negli ultimi anni è anche diffusamente allevato. In natura può raggiungere una lunghezza di 50 cm e arrivare a pesare anche oltre 3 kg. Come detto, il branzino, al pari dell’orata, della sogliola e del rombo, per le sue qualità è tra i pesci più apprezzati dal mercato. È delizioso cotto intero. Può essere preparato in tutti i modi, alla griglia, al forno o in padella. Per la cottura al grill il pesce va cotto inizialmente a fuoco vivo, moderato in seguito affinché cuocia bene internamente. Occorre una ventina di minuti, girandolo un paio di volte. Si può utilizzare l’apposita griglia doppia per racchiudere il pesce, in questo modo risulta più facile girarlo in cottura e si evita di sfaldarlo o romperlo. Il branzino non deve mai essere cotto troppo a lungo poiché altrimenti la carne si indurirebbe.
Branzino alla griglia Ingredienti per 4 persone 1 spicchio d’aglio 1 mazzetto di coriandolo ½ limone 2 cucchiaini di sale 1 dl d’olio d’oliva 2 peperoncini 2 branzini di ca. 450 g ciascuno olio per spennellare
Azione 25% Branzino 3-600 g, ASC, Grecia, per 100 g Fr. 1.80 invece di 2.40 dall’11 al 14.8
Preparazione Scaldate il grill a ca. 180 °C. Tritate l’aglio grossolanamente. Staccate le foglie del coriandolo dai gambi. Spremete il limone. Frullate finemente il succo con l’aglio, il coriandolo, la metà del sale e l’olio d’oliva. Tagliate i peperoncini ad anelli. Sciacquate i pesci sotto l’acqua fredda e asciugateli tamponandoli. Cospargeteli di sale restante e strofinateli. Spennellate la griglia con un po’ d’olio. Grigliate i pesci da entrambi i lati a fuoco medio per 15-20 minuti. Voltateli delicatamente. Il pesce è cotto quando la pinna dorsale si stacca facilmente. Servite con l’olio al coriandolo e i peperoncini. Ottimi con i fagiolini in insalata.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 agosto 2020 • N. 33
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Idee e acquisti per la settimana
Diario scolastico della Svizzera italiana
Divertimento assicurato con la tiptoi® Mania
2020-2021 è disponibile nelle maggiori filiali Migros
ritorna un’altra avvincente Mania dedicata ai bambini
Attualità Dall’11 agosto al 28 settembre
Novità La nuova agenda
Diario scolastico della Svizzera italiana 2020-2021 Fr. 9.95 In vendita nelle maggiori filiali
L’ecologia è la grande protagonista nell’81° edizione del Diario scolastico della Svizzera italiana. Edito dall’Istituto Editoriale Ticinese, la pubblicazione propone, oltre al consueto calendario scolastico e alle diverse informazioni utili per gli allievi, anche consigli sulla protezione dell’ambiente, link ad associazioni ambientaliste e 12 coinvolgenti storie vere sulla situazione climatica. Si
potranno per esempio conoscere tematiche quali i frigoriferi di Madame Frigo contro lo spreco alimentare; il gruppo di Guardiani della foresta che lotta contro la deforestazione dell’Amazzonia; come il riscaldamento climatico influisce sul ghiaccio dell’Aletsch; gli incendi in Australia e l’importanza della biodiversità come pure l’ascesa dell’attivista ambientale svedese Greta Thunberg. Il diario
contiene pure suggerimenti per vestirsi in modo sostenibile, su come ridurre l’inquinamento digitale e un calendario dei prodotti ortofrutticoli stagionali. L’agenda è stata realizzata su carta riciclata al 100%, stampata con inchiostri a base di materie rinnovabili e senza oli minerali, mentre la copertina è di carta erba, ciò che contribuisce a risparmiare CO2 e ridurre il taglio di nuovi alberi.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 agosto 2020 • N. 33
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Società e Territorio
Ognuno di noi conta
Centparcent Entra nel vivo lo studio SwissDEM, il primo sulla salute degli anziani in Ticino. Obiettivo, raccogliere
i dati di mille persone per ottenere una fotografia dettagliata sui rischi di demenza e Alzheimer
Natascha Fioretti La campagna centparcent promossa dall’Istituto di salute pubblica dell’USI per lanciare e far conoscere lo studio SwissDEM, il primo studio sulla salute degli anziani in Ticino, doveva partire proprio nei mesi in cui è scoppiato il Covid-19 e come molti altri appuntamenti e progetti è stata rimandata. Pensando però al suo motto «Ognuno di noi conta» non poteva esserci momento più propizio per partire del post emergenza sanitaria COVID-19, in cui anche a fronte di nuove possibili ondate vale la pena riflettere su come le persone anziane nei mesi scorsi siano state colpite dall’epidemia e su come siano state toccate e stravolte le loro abitudini di vita e le loro relazioni sociali. Secondo il Consiglio svizzero degli anziani, proprio a causa del Covid, nella società si osservano crescenti tensioni tra le giovani generazioni e quelle più anziane. Ha fatto molto discutere la notizia pubblicata dal «Tages-Anzeiger» del 3 maggio scorso secondo la quale due signore anziane sedute su una panchina davanti al Lago dei Quattro Cantoni sono state assalite verbalmente da tre giovani. La co-presidente del Consiglio Bea Heim evidenzia come il fatto di definire «gruppo a rischio» tutte le persone in età pensionabile non sia né adeguato né corretto, e potenzialmente discriminatorio mentre per Alain Huber, direttore di Pro Senectute, attenersi strettamente al solo criterio anagrafico fa in modo che le persone al di sopra dei 65 anni siano tagliate fuori dalla vita sociale. La campagna centparcent (ufficialmente chiamata «100%SwissDEM Ognuno di noi conta») promuove lo studio omonimo condotto dall’Istituto di salute pubblica (IPH) dell’USI e dal Dipartimento della sanità e della socialità (DSS) del Cantone Ticino, in collaborazione con Pro Senectute, il Consiglio degli Anziani, e Alzheimer Ticino. Per capire meglio di cosa si tratta ne abbiamo parlato con Maddalena Fiordelli, docente e ricercatrice all’USI. «SwissDEM è uno studio di popolazione condotto con la popolazione per la popolazione
e fa parte della strategia cantonale sulle demenze. È una ricerca che intende restituire la fotografia dello stato di salute delle persone al di sopra dei 65 anni. Attraverso una serie di test cognitivi (cioè di memoria, attenzione, orientamento, ragionamento, e linguaggio) abbiamo la possibilità di dare una indicazione del rischio di demenza o malattia di Alzheimer. I nostri test non si sostituiscono quindi alla diagnosi di uno specialista ma ci dicono se la persona intervistata ha un rischio maggiore o minore di essere affetto rispetto ai suoi coetanei». Finanziato dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca, il progetto si svolgerà in canton Ticino, Ginevra e Zurigo, ed è guidato da Emiliano Albanese, medico, professore ordinario presso la Facoltà di scienze biomediche dell’USI, direttore del neo Istituto di salute pubblica USI e del Centro Collaboratore OMS per la ricerca e la formazione in salute mentale dell’Università di Ginevra. Da tempo si occupa di epidemiologia dell’invecchiamento cognitivo e di demenza e ci ricorda come «una ventina d’anni fa la demenza non era percepita come un malattia, e sia i clinici che i ricercatori se ne occupavano relativamente poco. Relazionandomi con i pazienti, ho vissuto (e tuttora vivo) la frustrazione della mancanza di un trattamento per la demenza e della poca enfasi messa sull’importanza cruciale della prevenzione. Per questo ho deciso di occuparmi di sanità pubblica, che mette l’accento non solo sulla prevenzione ma anche sulla presa a carico socio-sanitaria-assistenziale sia dei pazienti che dei loro famigliari». L’Organizzazione Mondiale della Sanità indica la demenza come la principale causa a livello mondiale di disabilità e di perdita di autonomia delle persone anziane. In Svizzera sono circa 155.000 le persone affette da demenza, la maggior parte ha un’età compresa tra i 65 e i 95 anni e per ogni persona malata sono coinvolti da uno a tre familiari. Per questo nel quadriennio 2014-2019 è stata elaborata una strategia nazionale sulla demenza al fine di costituire un quadro di riferimento che permetta a Confederazione e Cantoni di affrontare il tema
In Collaborazione con USI, DSS, Pro Senectute, Consiglio degli Anziani e Alzheimer Ticino. (SwissDEM)
congiuntamente agli attori principali. «SwissDEM si inserisce negli obiettivi della strategia cantonale sulle demenze e nasce dall’esigenza di aggiornare le stime datate e approssimative a disposizione sulla prevalenza della demenza e ci consentirà di andare più a fondo e di trovare nuovi elementi per avere una fotografia più accurata e completa. Per le demenze non ci sono terapie farmacologiche o soluzioni mediche, ma meglio conosciamo la situazione meglio si riesce a rispondere ai bisogni delle persone» puntualizza Maddalena Fiordelli dell’USI. Lo studio, partito lo scorso anno con tutta la fase di preparazione e di validazione in cui sono stati testati e affinati gli strumenti di ricerca, durerà due anni a partire dal prossimo agosto, quando
inizierà la raccolta dati su un campione di 1000 persone selezionate casualmente. «Ognuna – spiega la docente dell’USI – riceverà a casa una lettera informativa da parte del Cantone in cui si presenta lo studio, si spiega di cosa si tratta e in cosa consiste. Due settimane dopo la persona riceverà la lettera di invito vero e proprio per prendere parte alla raccolta dati con il consenso informato approvato dal comitato etico cantonale, un formulario per indicare la propria adesione e la volontà di essere contattati. Si riceve anche una panoramica degli intervistatori. Una volta data l’adesione si viene contattati dall’USI per concordare luogo e momento dell’intervista che può svolgersi nel proprio domicilio o all’università, o in altra sede. Deve essere un luogo silenzioso nel quale la persona si senta
a suo agio». L’intervista consiste nel rispondere a una serie di domande sulla salute e nel prendere parte ad alcuni test di memoria, linguaggio e orientamento. Alcune domande vengono rivolte anche a un famigliare o ad un amico/a con lo scopo di ottenere impressioni da un punto di vista diverso, soprattutto su eventuali cambiamenti. Tutti i dati vengono raccolti in formato digitale da una intervistatrice, una giovane psicologa e su un apposito tablet in modo confidenziale e protetto». L’importante, dunque, è partecipare. «Siamo convinti che il modo migliore per persuadere le persone a partecipare sia la testimonianza di chi ha già fatto questa esperienza. Proprio per questo abbiamo condotto uno studio qualitativo per investigare barriere, aspettative ed esperienze di chi aveva preso parte alla fase preliminare dello studio» evidenzia la docente dell’USI. L’intento di coinvolgere e informare la popolazione nasce dalla volontà di raggiungere il campione prefissato delle 1000 persone, obiettivo che può considerarsi ardito, non impossibile, visto che negli ultimi anni la ricerca clinica e epidemiologica ha registrato tassi di risposta critici a volte decrescenti: «è chiaro che se il tasso di partecipazione non è ottimale ne risulta una fotografia sbiadita». La campagna si muove e si racconta sul sito creato www.centparcent. ch, sulla pagina Facebook e Instagram. Su tutte e tre le piattaforme è possibile saperne di più e ascoltare le interviste realizzate agli ambasciatori e alle ambasciatrici del progetto. «La comunicazione sui social ci permette di raggiungere anche i più giovani creando una sorta di passaparola tra le generazioni e una maggiore consapevolezza non soltanto tra chi è in età per partecipare a SwissDEM. centparcent è una sorta di opera culturale che permette di avvicinarci alle persone anziane. Dopo i mesi di lockdown c’è voglia di un messaggio positivo che noi speriamo di far arrivare chiaramente all’interno di uno scopo più ampio: favorire una cultura della fiducia tra scienza e comunità che può portare molti frutti, attraverso un dialogo, cioè una comunicazione davvero bi-direzionale».
Omaggio alla civiltà contadina
Storia minuta Il Piccolo museo di Sessa e Monteggio offre la possibilità di rivivere il passato rurale con i suoi
mestieri, le sue fatiche e i suoi aneddoti Elia Stampanoni Il Piccolo museo di Sessa e Monteggio può ingannare: sia per il fatto che non è poi così piccolo sia perché non si trova né a Sessa né a Monteggio. È invece situato a Bonzaglio, frazione di Sessa a pochi metri di distanza dall’altro comune malcantonese di Monteggio, dove abita Angelo Comisetti, che assieme al presidente del museo Franco Caravatti si occupa di aprire le porte dell’esposizione ai visitatori e di condurli, se richiesto, nella visita. «La nostra stagione va grossomodo da maggio a ottobre e solitamente siamo aperti su richiesta, oppure il sabato e la domenica dalle 16 alle 19. Quest’anno però, vista la situazione sanitaria particolare, apriamo solo su appuntamento. Ma la gente non deve aver timore a contattarci, anche con breve preavviso noi siamo sempre pronti per aprire le porte del museo, abitando a pochi minuti di distanza», spiega Angelo. Oltre ai turisti, sono molte le scolaresche che si recano a Bonzaglio per visitare il piccolo museo lasciandosi condurre nella visita da Angelo o Franco che, aggiungendo aneddoti e racconti, riescono a far rivivere gli oggetti espo-
sti nella struttura, un’antica abitazione che s’affaccia sulla piazza del bel borgo malcantonese. L’esposizione, distribuita su diverse salette, custodisce utensili, documenti, giochi, fotografie, abiti e altri beni caratteristici del passato rurale della regione, ma aprendosi anche al resto del Ticino. La visita inizia solitamente al piano inferiore, in quella che era una volta la cucina ma anche lo spazio abitativo attorno al 1600. Spazi che, come racconta la nostra guida, «sono in seguito stati adattati e ampliati, ma che una volta erano contigui alla stalla, in modo che il calore emanato dal bestiame, solitamente una mucca, servisse anche per riscaldare le stanze dove le famiglie dormivano». Al piano superiore, oggi luogo adibito all’esposizione, vi era il fienile, dove inizialmente si dormiva pure. Nella cucina sono presenti vari oggetti caduti ormai in disuso, come il tostino per il caffè, il macinacaffè o altri utensili che rimandano alla civiltà contadina e che permettono al visitatore di assaporare al meglio gli aneddoti raccontati dalle guide. La stalla, una volta luogo di riposo della mucca che ogni famiglia (o quasi) aveva per avere del latte a disposizione, ospita ora una moltitudine d’attrezzi legati
Attivo dal 1968. (E. Stampanoni)
all’agricoltura, ma anche alle altre attività tipiche del passato: antichi torchi, una vecchia smielatrice, attrezzi dello spazzacamino, martelli, falci, rastrelli, gerla, vagli per castagne (vall in dialetto) e molto altro ancora. In un’altra sala vengono proposti alcuni mestieri del passato, quali lo zoccolaio (zocorin in dialetto locale), il calzolaio (sciavatin), il fabbro (ferée), l’arrotino (moléta) o il riparatore
e fabbricante di sedie (cadregatt). Sono esposti attrezzi che permettevano di praticare questi mestieri indispensabili e Angelo mostra per esempio come si utilizzava la capra, un attrezzo utilizzato per intagliare le zoccole e le suole degli zoccoloni, di cui se ne possono ammirare alcuni esemplari tipici delle nostre regioni. Al falegname e ai mestieri del bosco, è invece dedicata un’altra stanza intitolata bosch, boschiröö e legnamée, in cui si segue il percorso di un oggetto dall’albero al prodotto finito, con fili a sbalzo, seghe, pialle e i vari utensili esposti su un bel tavolo da falegname, il tutto corredato da alcune foto d’epoca. La lavorazione della canapa, del lino e della lana erano pure delle attività importanti del secolo scorso e occupano altri spazi del Piccolo museo di Sessa e Monteggio, anche qui tramite attrezzi e oggetti che si animano con i racconti o con le dimostrazioni delle guide. Ci sono per esempio arcolai, pettini, gramole, filatoi o un piccolo telaio che ricordano queste attività. Non manca la seta, legata all’allevamento dei bachi e alla loro vendita, le macchine da cucire o i ferri da stiro, con i diversi modelli a carbone o con inserti
di ferro riscaldati sul fuoco. In questa vita rurale caratterizzata dal lavoro c’era anche un po’ di tempo per i giochi e il museo offre una piccola rassegna di alcuni giocattoli in legno, costruiti prevalentemente a mano da abili mani. Il museo, giunto ormai al suo 52° anno d’esistenza, si trova lungo il Sentiero dell’acqua ripensata e si è evoluto con gli anni, aggiungendo regolarmente degli oggetti che vengono perlopiù donati da persone del luogo. L’ultimo settore, nato nel 2019, è quello dedicato al latte, con una latteria riscostruita in una delle stanze dell’antica abitazione, dove ritroviamo utensili tipici del casaro, in metallo o in legno, come zangole (penagie), conche, stampi per formaggini, assi, bidoni e secchielli del latte. Il prossimo progetto, spiega Angelo, è quello di una sala con abiti e vestiti di una volta, per i quali il museo sta già cercando dei manichini per l’allestimento. Contatti
Angelo Comisetti, angelocomisetti@ hotmail.com, 079 467 67 32 o Franco Caravatti, franco.caravatti@bluewin. ch, 079 444 36 33
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 agosto 2020 • N. 33
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Mons Egere
Keystone
«Prego, Herr Barrington, dopo di lei!». Così, attorno a mezzogiorno dell’11 agosto 1858, dopo nove ore di ascesa, gli sherpa svizzeri Chistian Almer e Peter Bohren, cortesissimi, cedevano il passo e dunque l’onore del Primo in Vetta al loro cliente Charles Barrington. Barrington, da buon irlandese, aveva evidentemente più voglia di scalare di quanto avesse denari. Pare infatti che le sua prima intenzione fosse stata quella di scalare
il Matterhorn (Cervino). Non avendo però le finanze per viaggiare fin là decise di rimanere in zona e compiere invece la prima ascesa di un’altrettanto celebrata montagna, quell’Eiger, nelle Alpi bernesi, destinato a divenire un’icona dell’alpinismo mondiale. Un documento del 1252 si riferisce al picco come «mons Egere», ma non vi è indicazione del come, già allora, la montagna avesse acquisito quel nome fatale che si sarebbe guadagnato più tardi come killer di alpinisti. L’Orco (Eiger essendo variante dialettale del tedesco Ogre) è stato peraltro associato al latino «acer», che significa affilato, appuntito. Ma il fascinoso appellativo tedesco ben si accompagna alle altre due celebrate vette della catena che sono la Jungfrau (la Vergine) e il Mönch (il Monaco). Il Monaco, l’Orco e la Vergine: una sorta di Trinità che ben si presterebbe come titolo di un film di Sergio Leone con gli scarponi al posto degli stivali. E leggendario l’Orco è diventato non tanto per la salita standard alla sommità dei suoi 3,967 metri lungo la rotta Ovest – la stessa scelta da Barrington quando ancora l’agone delle «prime ascensioni» non im-
poneva ascese sempre più impegnative e stravaganti per il solo obiettivo di «essere primi». Come tutti sanno, l’Eiger è noto semplicemente con il nome – ora brand di successo di attrezzatura sportiva – di North Face, «la Parete Nord», in tedesco Nordwand o meglio, orchescamente parlando nel gergo scaramantico e un po’ guascone degli alpinisti Morwand: «la parete assassina». Milleottocento metri di strapiombo interrotti all’altezza di 2899 metri dallo sbocco in parete del tunnel della Stazione ferroviaria di Eigerwand scavata all’interno della montagna. Quasi uno scherzo surreale (parola di Altropologo) per una delle tante bizzarrie dell’umano spirito: da lì partono di quando in quando le spedizioni di soccorso per alpinisti in difficoltà (e peggio) che preferiscono salire a piedi piuttosto che usare la comoda e suggestiva ferrovia. Si fa per dire… Fattostà che dal 1935, anno del primo tentativo di salire la Parete Nord, almeno 64 alpinisti sono morti nel tentativo di fregiarsi dell’impresa. La sequenza recita come un tragico rosario. 1935: Karl Merhinger e Max Sedlmeyer, primi a
tentare la salita, vengono trovati morti assiderati a 3300 metri in quello che ancor oggi è noto come «Bivacco della Morte». La spedizione di dieci alpinisti tedeschi ed austrici che l’anno seguente ci riprovarono fu lentamente decimata da incidenti dovuti al maltempo ed abbandoni. Gli ultimi quattro componenti il gruppo – austriaci e bavaresi – decisero di tentare comunque. Resisi conto dell’impossibilità dell’impresa cominciarono la discesa e furono carpiti della montagna uno dopo l’altro. Il racconto della lenta agonia di Toni Kurz, ultimo superstite della cordata deceduto per assideramento a pochi passi dei suoi soccorritori incapaci di raggiungerlo è una delle pagine più agghiaccianti della letteratura alpinistica. Un altro tentativo nel 1937 dovette ugualmente fallire ma stavolta senza vittime. Finalmente, il 24 Luglio 1938, Anderl Heckmair, Ludwig Vörg, Heinrich Harrer e Fritz Kasparek si associarono e in tre giorni di strenua ascesa fra neve e valanghe giunsero in vetta – Harrer senza nemmeno l’aiuto dei ramponi da ghiaccio. L’epoca del colonialismo si sviluppò in due direzioni. La prima consistette
nell’esplorazione «orizzontale» delle zone sconosciute della terra e dell’inclusione dei suoi abitanti – a vario titolo – nella crescente koinè globale. L’altra direzione fu quella della conquista «verticale» della montagna. Su questi assi ortogonali si consuma la vicenda culturale – in senso simbolico ed ideologico – dell’autoaffermazione dell’Io borghese emergente con la rivoluzione industriale come Signore della Natura e dei Naturvölker – i «popoli di natura». Il famoso dipinto di Caspar David Friedrich Die Wanderer (1818) ci mostra un Signore in un elegantissimo abito da pomeriggio con bastone da passeggio svettare sopra un mare di nubi in vista di orizzonti alpini dai quali emergono picchi lontani e misteriosi. Il Wanderer (letteralmente «colui che vaga» – «il camminatore» non renderebbe il senso profondo del termine tedesco) è visto di spalle. Così da suggerire come la sua vista panoramica sia – anche – il punto di vista di chi guarda il quadro e l’orizzonte al quale esso invita lo sguardo. Quell’orizzonte che ha segnato il destino – o la follia? – dei sessantaquattro Wanderer dell’Orco. Requiescant.
In particolare, i nostri rapporti interpersonali si sono rivelati , nei duri mesi di lock-down, più attenti, premurosi e solidali del solito. Ma non è su questo piano, sui dati oggettivi, che riuscirò mai a convincerti. Ti dirò piuttosto che tutte le madri, che ho avuto modo di ascoltare in tanti anni di esperienza personale e di attività professionale, hanno sempre riconosciuto nella maternità l’esperienza più positiva della loro vita, comprese quelle che potevano vantare grandi successi professionali. Se non riusciamo a prevedere la grandezza, la sacralità del «dare alla luce» è perché la modernità non sa valorizzarla e rappresentarla com’è accaduto, ad esempio, nel Rinascimento. Basta evocare la produzione pittorica dedicata alla Madonna. Solo nella seconda metà del Novecento, affidata interamente alla gestione medica, la procreazione perde desiderabilità in confronto ad altri valori come il successo sociale, la ricchezza, la popolarità, la bellezza, sostenuti e
diffusi dai mass-media. La fecondità femminile, per secoli, considerata un effetto dell’istinto e una conseguenza del matrimonio è diventata, grazie alla diffusione di presidi anticoncezionali sicuri, una scelta razionale e cosciente. Ma scegliere non è mai facile in quanto comporta la rinuncia ad altre possibilità. Tuttavia accade ancora che il desiderio di un bambino s’imponga senza essere progettato, che una prefigurazione del nascituro compaia all’improvviso nel teatro del sogno. È il modo con cui si manifesta un desiderio che si radica dell’inconscio e sboccia nelle terre di mezzo tra la mente e il corpo. Il corpo femminile predisposto alla generazione da un grembo cavo, da organi fatti per nutrire, da braccia per accogliere, da un viso particolarmente empatico e speculare. Certo tutto questo non costituisce un dovere. L’autodeterminazione è una conquista irrinunciabile che non esime tuttavia dall’interrogarci, dal chiederci quale sia il nostro più segreto
desiderio e in che misura siamo condizionate dalla società in cui viviamo. La conoscenza di sé comprende anche la parte in penombra della mente: la fantasia, il sogno, il sintomo. Purtroppo mancano, nella fretta della vita moderna, ambiti di silenzio, di riflessione, di confidenza. La trasmissione delle esperienze da una generazione all’altra si è interrotta e il filo rosso della maternità, che connetteva madre e figlia, sembra ormai reciso. In sostanza, cara Elisa, quello che cerco di dirti è che, rinunciando a un figlio, eviti sì una grande responsabilità, forse la più grande, ma con essa anche una occasione di impareggiabile felicità.
riconoscibili. Sono i viali lungomare e lungolago, su cui si affacciano i «grand hotel». A Nizza, la Promenade des Anglais, consacrata icona della «Belle époque». E bella per i privilegiati in grado di offrirsi la pausa elitaria di una vacanza altrove. Gli stessi, inglesi e tedeschi, che animarono sulle sponde del Ceresio il Quai, termine francese entrato persino nel dialetto locale e che ne sottolineava la valenza turistica. Di quella passeggiata, lungo un tragitto alberato, protetto da ringhiere e illuminato da lampioni stile liberty, i luganesi furono, agli inizi, spettatori incuriositi. Nel tardo pomeriggio e nelle serate, soprattutto autunnali, assistevano alla sfilata di eleganze da ammirare: signore in lungo, mantellina orlata di pelliccia, ombrellinoparasole, signori in marsina, bombetta e bastone dal pomello argentato. Il co-
siddetto bastone da passeggio sarebbe diventato un pezzo da collezione. Questo vestirsi per comparire entrò poi nelle abitudini persino nei doveri civici di una città ambiziosa, futura terza piazza finanziara elvetica. Si rispettava il «dress code», che imponeva abbigliamenti diversificati, secondo le situazioni: ufficio, teatro, chiesa. L’abito della festa era il piacevole obbligo della domenica, indossato dai luganesi che frequentavano la messa di Sant’Antonio e scendevano in Piazza Riforma per l’acuisto di dolci nelle pasticcerie di Via Nassa. Strada che, a sua volta, diventò il passeggio proverbiale dei giovani, che vi praticavano lo «struscio», cioè un su e giù, senza uno scopo preciso, se non quello di vedersi e chiacchierare. Del resto, non riservato esclusivamente a loro. Anche signori in età, fra cui un farmacista e
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Una scelta che implica rinunce Cara Silvia, leggo sempre la Stanza del dialogo e su qualche questione che non riesco a sbrogliare capita di chiedermi : «chissà che cosa ne pensa Silvia?». Finalmente questa volta ho deciso di lasciare le ipotesi e domandartelo davvero. Sono un’ infermiera di 35 anni, e puoi immaginare quale sia stato il mio impegno in questi mesi si pandemia. Ma ora, che stiamo uscendo dall’emergenza, mi pongo un problema che diventa sempre più urgente. Il problema non è da poco: avere o non avere un figlio? Mio marito è indifferente e rimanda a me la scelta. Lui sta bene con me, con o senza figli. So bene che dai 35 anni in poi cala progressivamente la curva della fecondità, ma perché mai dovrei subire il ricatto dell’urgenza e mettere al mondo una creatura? Per quali motivi? L’equilibrio della biosfera è compromesso, una grave crisi economica probabile, la fiducia nel futuro incrinata, i rapporti umani ingiusti e così via. Perché allora
dire sì a una nuova vita? Attendo la tua risposta e ti ringrazio. / Elisa E io ti rispondo, cara Elisa, capovolgendo la domanda: « Perché no?» È vero tutto quanto elenca la tua lucida analisi ma altrettanto vero che l’umanità ha conosciuto momenti peggiori. Se siamo così allarmati è perché abbiamo raggiunto, almeno sul piano della conoscenza, maggior responsabilità morale e più diffusa sensibilità ecologica. Convengo che il pianeta è gravemente malato e la prognosi riservata ma possediamo conoscenze scientifiche, risorse tecnologiche, mezzi di trasporto e di comunicazione, progetti condivisi di ricerca e di impegno impareggiabili rispetto al passato. Nonostante mille tensioni, l’Europa sta mostrando una solidarietà inaspettata rispetto alle sorelle in difficoltà e , come non smetto mai di ricordare, la Svizzera è tra i Paesi più generosi nell’aiuto alle popolazioni più povere del mondo.
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Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Il passeggio: piacere ritrovato Età che hai, svago che ti meriti. Nella fase due della riapertura dopo il lockdown, ai giovani sono spettati gli intrattenimenti serali e notturni, nelle discoteche, alle terrazze dei bar, o in spazi all’aperto, appositamenti allestiti, tipo la Foce di Lugano. Occasioni per ritrovarsi e fare qualcosa insieme, dando sfogo a una naturale esuberanza, magari a rischio di eccessi. Per gli anziani, categoria per il suo bene sotto tutela, ha signficato, più semplicementem, uscire, oltre i limiti di un provvisorio confinamento, e riprendere le abitudini quotidiane. Cioè, camminare in città lungo un percorso assimilato e amato. Per quanto mi concerne, lo considero il mio chilometro: qual è, più o meno, la distanza che separa l’abitazione dall’ufficio, dai negozi, dai bar, fequentati da decenni, dove so già cosa e chi incontrerò.
Infatti, la prevedibilità è la rassicurante prerogativa di questo genere di spostamenti cittadini ripetitivi , che vanta una lunga tradizione e si chiama passeggio, Parola con cui si definisce sia un movimento a piedi sia il luogo dove avviene. Ma sottintende qualcosa in più rispetto a un’esigenza di trasferimento utilitaristico. Un conto è recarsi al lavoro, fare la spesa o sbrigare un’operazione amminisrativa, un conto concedersi una tregua di svago. Citando l’insostituibile Gillo Dorfles, è un valore aggiunto che fa della passeggiata su itinerari noti e in determinati orari e giorni «un rito fisicamente liberatorio e socialmente appagante». Nato nella seconda metà dell’800, in concomitanza con l’avvento del turismo, il rito del passeggio ne è un’emanazione diretta, che ha lasciato segni
un sindaco, per citare i più noti, animavano, persin a notte tarda, via Nassa e via Canova. Erano i nottambuli a tempo perso, categoria in estinzione, rievocatai da scrittori come Arpino, Fruttero e Lucentini, torinesi doc. Questo svago senza uno scopo preciso, fine a se stesso, fu poi sostituito dal passeggio organizzato e, innanzi tutto di tipo sportivo. Con l’avvento del jogging, i marciapiedi del centro, il lungolago, il parco Ciani si trasformarono in piste per atleti in tuta e, infine, per ciclisti e cultori del monopattino elettrico. Sopravvivono, tuttavia, i fedeli del passeggio tradizionale, che sfocia in incontri, scambi di opinioni o pettegolezzi, e sempre a tempo perso. Ma forse non inutili. Tanto che persino nell’austero Palazzo federale, c’è la galleria dei passi perduti. Una sorta di riabilitazione ufficiale.
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Ambiente e Benessere Più lavoro per i maniscalchi Il lockdown nel mondo equestre ha fatto rientrare i cavalli stazionati Oltreconfine
Il cibo dei malacofagi Esistono dei coleotteri che predano e si cibano esclusivamente di lumache
Motori ecologici La novità di questa estate è la Ghibli Hybrid, la prima vettura elettrificata della Maserati pagina 15
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Poca terra, tanto mare La Liguria è una zona difficile da coltivare, e forse proprio per questo produce vini eccezionali
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L’era in cui l’uomo domina la Terra Geologia Osservazioni di un sacerdote-
naturalista che già nel 1873 intuì la portata dell’impatto dell’uomo sull’ecosistema globale
Rudolf Stockar La consapevolezza che le attività umane, sebbene di durata irrisoria a scala geologica, abbiano un impatto determinante e persistente sull’ecosistema Terra è ormai radicata in tutti noi. Siamo appena entrati nell’Antropocene, termine informale proposto da Crutzen e Stoermer nel 2000 per l’epoca attuale, e già ci chiediamo come ne usciremo. Non si tratta tuttavia di una presa di coscienza del tutto inedita. L’influsso dell’uomo sull’ecosistema globale è stato, infatti, minuziosamente descritto per la prima volta nel 1873 da Antonio Stoppani (1824-1891), che introdusse il termine «Antropozoico» per indicare un’era iniziata con «il primo indizio dell’uomo (…), nuova forza tellurica che, per la sua potenza e universalità, non sviene in faccia alle maggiori forze del globo». Nato a Lecco nel 1824, ordinato sacerdote nel 1848, Stoppani fu patriota, geologo, paleontologo e infine direttore del Museo Civico di Storia Naturale di Milano tra il 1882 e il 1891. Alla nuova era dedica dieci pagine del secondo volume del suo Corso di geologia pubblicato nel 1873. La visione di Stoppani non ammetteva alcun conflitto tra Sacre Scritture e scienza. Forte della sua concezione liberale di cattolicesimo, tenta di conciliare scienza e fede, rigettando ostinatamente l’idea darwinista (L’Origine delle specie era apparsa pochi anni prima, nel 1859). Le leggi della natura sono per lui la dimostrazione della sapienza e potenza divina. Quale contrasto poteva mai sussistere tra fede e scienza, giacché quest’ultima conduceva a Dio attraverso la comprensione della sua opera? L’influenza dell’uomo sull’ambiente è conseguenza di quel «dominio
sovrano che da Dio venne all’uomo trasmesso» che si riallaccia al passo della Genesi «Crescete, moltiplicatevi e riempite la Terra. Avranno timore e spavento di voi tutti gli animali della terra e tutti gli uccelli del cielo». Se l’approccio è tale da spingere molti a etichettare Stoppani come un cieco anti-evoluzionista ormai fuori dal suo tempo, resta comunque lucidissima – e attualissima – la sua percezione dell’impatto dell’uomo sulla Terra. Nel Corso di geologia ritroviamo, infatti, i criteri alla base dell’attuale definizione di Antropocene. «Rivale dei poderosi agenti del mondo interno, l’uomo scompone ciò che la natura ha composto» si riferisce alla produzione dei metalli che introduce elementi inesistenti in natura, ora disseminati sulla superficie del globo attraverso i cosiddetti tecnofossili. «Già sorgono nuovi monti ove esistevano antiche valli» indica invece l’azione dell’uomo come agente modellatore del paesaggio, oggi prevalente su quella dovuta ai processi naturali di erosione. Guarda all’Inghilterra, culla della Rivoluzione industriale, «ovunque tarlata e minata da tanti insaziabili cercatori di carbone, di salgemma, di calcari e di metalli». E si chiede «Che sarà quando tutta l’Europa sia lavorata come l’Inghilterra, e tutto il mondo come l’Europa?». Antonio Stoppani osserva, portando numerosi esempi, l’alterazione dell’uomo sulla distribuzione geografica degli animali e delle piante. «Così a poco a poco alle flore locali si sostituisce una flora universale, derivante dalla fusione di esse». È un concetto attualissimo, che spinge alcuni studiosi a definire l’epoca corrente «Omogenocene» anziché «Antropocene», poiché segnata da un’omogeneizzazione della biogeografia e degli ecosistemi per opera delle specie
Antonio Stoppani, busto presso il Museo Civico di Storia Naturale di Milano. (G. Dall’Orto)
aliene (neofite e neozoa) disseminate dall’uomo, con conseguente diminuzione della biodiversità. Stoppani riconosce addirittura come l’influenza dell’uomo si estenda all’atmosfera in cui «riversa a torrenti i prodotti della sua industria, i gas de’ suoi fuochi e de’ suoi grandiosi laboratori». Oggi conosciamo le conseguenze di ciò che lui vedeva come il «respiro dell’umana intelligenza». La sua conclusione «La Terra non uscirà dalle mani dell’uomo, se prima non sia tutta profondamente istoriata dalle sue orme», è da lui intesa come suggello della potenza del Creatore, ma ha oggi per noi, consapevoli uomini dell’Antropocene, il suono di un oscuro monito.
Nel 1876 Stoppani pubblica Il Bel Paese, libro che lo renderà famoso in tutto il mondo consacrandolo quale primo divulgatore scientifico italiano, missione che assunse come un apostolato. Un vero best-seller, o piuttosto un long-seller adottato come libro scolastico fino al 1948 con oltre 150 ristampe, in cui veste i panni di uno zio naturalista che, con l’oralità tipica della fiaba, racconta ai suoi nipoti le bellezze geologiche d’Italia. Un’opera che gli valse il premio letterario intitolato alla memoria dei fratelli Giacomo e Filippo Ciani quale «miglior libro di lettura per il popolo italiano» ma che contribuì a far passare in secondo piano l’importanza delle sue
osservazioni prettamente scientifiche. Anche se la sua «Era Antropozoica» non fu mai accolta nelle scale geologiche ufficiali, gli effetti oggi palesi delle attività antropiche sugli ecosistemi ci devono portare a riconoscere l’incredibile pertinenza delle osservazioni del sacerdote-naturalista. Bibliografia
Stoppani A. (1873) Corso di geologia del professore Antonio Stoppani. Vol 2, Milano, Editore G. Bernardoni. Stoppani A. (1876) Il Bel Paese, conversazioni sulle bellezze naturali, la geologia e la geografia fisica d’Italia. Milano, Editore Giacomo Agnelli.
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Al galoppo verso il 2021
Mondoanimale I cavalli del mondo equestre elvetico stanziati Oltreconfine rientrano in Svizzera
pxhere.com
a seguito del Coronavirus Maria Grazia Buletti «Avere timing» con i cavalli significa comprendere quando è l’attimo giusto per dare un comando e, in generale, per agire. Ebbene il Coronavirus ha agito allo stesso modo obbligando il mondo equestre e i cavalli ad applicare quel timing di chiusura e confinamento per seguire le indicazioni che Confederazione e Cantone emanavano di settimana in settimana, lungo tutti questi mesi.
Il lockdown è stato un momento oggettivamente complicato anche per i cavalli e per i loro proprietari Dopo febbraio, quando guardavamo con incredulità agli sforzi cinesi che ci parevano così lontani da noi, passando per marzo, quando perplessi guardavamo le immagini della vicina Lombardia che mostrava strade e negozi vuoti, immersi in un mondo sempre più spettrale, il lockdown ha raggiunto il Ticino senza risparmiare il suo mondo equestre: «Si è deciso di fermarci per rallentare la crescita esponenziale del contagio anche nell’equitazione e, come amazzone, non posso fare altro che comprendere e salutare positivamente il tempismo con cui, pure grazie a una lodevole collaborazione delle strutture sanitarie presenti sul nostro territorio, si è fortunatamente riusciti a contenere la pandemia, permettendo al sistema sanitario di affrontare e reggere la crisi Covid-19 con la dovuta qualità delle cure», afferma l’avvocatessa Ester Camponovo, presidente della Commissione cavallo e ambiente (CCA) della Federazione Ticinese Sport Equestri, che ricorda il contesto vissuto nelle regioni a ridosso del nostro confine: «La situazione nelle regioni a noi limitrofe ha attestato in maniera inconfutabi-
le come pochi giorni possano essere determinanti nel contenimento dei numeri. Oltregottardo i casi si sono rivelati relativamente bassi per rapporto al nostro Cantone e per questo la crisi è stata percepita in modo minore dalla popolazione. Malgrado ciò, anche la Federazione Svizzera Sport Equestri si è allineata alle direttive della Confederazione, emanando una serie di misure di chiusura del mondo equestre». Ricordiamo che tutto questo è successo in un momento in cui gli esseri umani non potevano avvicinarsi fra loro: «Paradossalmente, gli unici corpi caldi e vivi da abbracciare senza rischi erano gli animali domestici e, naturalmente, i nostri cavalli che però non potevamo più, a un certo punto, andare a trovare come di consueto». La categoria sportiva di cavalieri e amazzoni ha pure fatto la sua parte per evitare contatti non indispensabili e arginando il rischio di aggravare
maggiormente il sistema sanitario in conseguenza all’esercizio dell’attività sportiva equestre che avrebbe potuto causare anche qualche incidente. Pure se, ricorda Camponovo: «Da un punto di vista prettamente economico, come per molti altri settori di attività, questa situazione di chiusura è stata sicuramente pregiudizievole anche per le nostre scuole di equitazione». Senza dimenticare tutti i cavalli, perno vivente del mondo equestre che non si possono riporre in un ripostiglio come una bicicletta: «Le strutture equestri hanno costi fissi non indifferenti, pensando anche solo al foraggiamento e all’accudimento dei cavalli che necessitano in ogni caso di foraggio e di cure, ragione per la quale anche il personale di scuderia ha dovuto continuare a prestare il proprio servizio in condizioni spesso estremamente complicate». Un momento oggettivamente complicato per i cavalli e per i loro pro-
prietari, anche se la presa di coscienza pragmatica e positiva è stata il fiore all’occhiello della FTSE e di tutti i cavalieri e le amazzoni proprietari di un cavallo: «Nelle settimane salienti, l’equitazione è stata limitata allo stretto necessario: a brevi e tranquille attività individuali volte per lo più a preservare il benessere del cavallo che, ricordiamo, per sua natura necessita di costante esercizio fisico». Le difficoltà non sono certo mancate, anche per coloro che detenevano il proprio cavallo nella vicina Penisola dove non è più stato possibile recarsi: «La scelta di frequentare una scuderia Oltreconfine ha dimostrato i propri limiti, dovuti sostanzialmente al fatto di recarsi in un altro Stato con regole e leggi proprie differenti da quelle che ci appartengono». L’emergenza sanitaria ha fatto emergere questi svantaggi: «In Italia le scuderie sono state letteralmente chiuse al pubblico e i proprietari italiani dei cavalli non hanno
nemmeno più potuto recarsi a far loro visita. Ne è conseguita una riflessione e in queste settimane si è assistito a un letterale “rientro” di molti di questi cavalli e dei loro cavalieri, producendo una maggiore occupazione delle scuderie ticinesi e più lavoro per i professionisti di questo settore come ad esempio maniscalchi e veterinari». L’11 maggio è la data che ha segnato la possibilità di ricominciare ad avvicinarsi ai cavalli e ricominciare a praticare l’equitazione. Abbiamo chiesto all’istruttore Fabio Graldi come ha gestito questi mesi, e ci siamo naturalmente interessati dei cavalli e di come essi abbiano fatto fronte a questo riposo forzato: «Dal momento in cui non si è più potuto fare lezione, e con la fortuna del bel tempo meteorologico, ho concesso ai miei cavalli un mese di vacanza: pascolo sei ore al giorno! Era un tempo a loro completa disposizione. Poi, a inizio maggio è arrivata la pioggia, ma già si intravedeva la possibilità di riaprire: allora sono dovuto andare a lavorare con loro ogni giorno affinché potessero essere pronti a riprendere l’attività insieme agli allievi che sarebbero ritornati il giorno 11». Egli ci rassicura sui benefici che comporta il lasciare riposare i cavalli per un tempo ragionevole: «Lasciare il cavallo fermo, permettendogli di fare un po’ di vacanza, non gli arreca danno purché esso si possa muovere adeguatamente nel pascolo. Cinque settimane senza mai la sella e senza qualcuno sulla schiena gli permettono così di rigenerarsi». Oggi tutto pare stia riprendendo il suo corso, nel timing degli equini, e pure il decennale della Giornata cantonale del cavallo (che avrebbe dovuto svolgersi il 9 maggio scorso) progetta la sua realizzazione a inizio 2021, spiega la segretaria della FTSE Betta Garobbio: «A primavera del prossimo anno speriamo di poter organizzare una bella giornata e mettere in prima linea questo splendido animale che è il cavallo. Tutti ne abbiamo uno speciale nel cuore!»
Colori cascanti che sanno arrampicarsi
Mondoverde A far da concorrenza ai tradizionali gerani e alle surfinie ecco la Dipladenia e la Thumbergia alata Anita Negretti Hanno vinto la scommessa di poter competere (e molto spesso battere) surfinie e gerani nelle fioriere da balcone. Pochi avevano scommesso sulla loro fortunata popolarità, eppure in soli pochi anni il genere Dipladenia, della famiglia delle Apocynaceae, ha registrato numeri di produzione importanti, grazie ai loro fiori eleganti e all’ottima resistenza alla calura estiva. I fusti di queste belle piante originarie di Argentina, Messico, Brasile e Cile, hanno una crescita veloce. Per loro natura si comportano sia da rampicanti sia da ricadenti, ciò che li rende ideali per decorare non solo balconi, ma anche muri spogli, anche se il loro impiego maggiore le vede riempire di colore le cassette da appendere alle ringhiere. Ideale a mezz’ombra o in pieno sole, la dipladenia, chiamata anche mandevilla (è questo il suo nome botanico), la si può coltivare all’aperto
da fine aprile fino agli ultimi giorni di settembre, quando andrà ripulita e leggermente potata, per permetterle di svernare in un locale luminoso a circa 10°C per una buona sopravvivenza invernale. È importante ricordare che dai primi di marzo è indispensabile intervenire con una buona e abbondante concimazione con prodotti specifici. Le dipladenie hanno fiori rossi, bianchi, porpora, rosa e da qualche anno, non molti, esistono anche nella varietà di colore giallo, tutti a forma di tromba imbutiforme, in grado di resistere a lungo sulla pianta prima di appassire e lasciare spazio a fiori nuovi. Sempreverdi, queste pianticelle hanno foglie verde scuro molto lucide che non vengono colpite da insetti, se non rari attacchi di afidi, ragnetto rosso o cocciniglia se posti in situazioni infelici: all’ombra o con irrigazioni errate. Molte sono le varietà e gli ibridi: tra le Sundaville (Dipladenia sanderi) troviamo la nuovissima «Apricot»,
color albicocca come dice il nome, che ama il pieno sole; o nella linea Diamantina dalla crescita più compatta e dai colori più brillanti, spicca «Citrine», giallo carico, «Robin rosso» squillante e «Jade White» bianca con la parte centrale gialla, mentre «Turmaline Pink» è rosa con il centro rosso. Il terzo gruppo delle dipladenie viene chiamato «Suntory Collection» e si distingue per i fiori più grandi di tutti: ne è un esempio «Giant Pink» che porta un ambiente esotico sui terrazzi. E questo tripudio di colori dovrebbe già bastare, ma se a qualcuno venisse il desiderio di completare l’opera trasformando il terrazzo in un angolo tropicale, consiglio un’altra pianta rampicante, questa volta di origine sudafricana: si tratta di «Thumbergia alata», un’annuale dalla crescita rapidissima. I fiori molto numerosi a corolla tubulosa con cinque petali dal caldo colore arancione e gola nera sono un vero incanto, e rimangono fioriti a lungo, da maggio fino a fine settembre.
Un bell’esemplare di Dipladenia. (needpix.com)
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Ambiente e Benessere
I cacciatori di lumache
Entomologia Non sono solo gli uomini ad apprezzare les escargots à la bourguignonne… mangia-lumache
si trovano anche tra gli insetti coleotteri
Alessandro Focarile Tritate finemente aglio, scalogni e prezzemolo. Amalgamate il burro dandogli la consistenza di una crema. Incorporate il tritato aggiungendo al tutto un po’ di sale, una presa di pepe, e due cucchiai di buon vino bianco secco. Scolate le lumache già spurgate (acquistate in un supermercato ben fornito), e disponetele in una casseruola con un bicchiere di vino bianco secco. Scaldate il tutto a fuoco lento durante cinque minuti, e accendete il forno. Guarnite ciascun guscio vuoto con una noce del ripieno già pronto, una lumaca e un’altra noce di ripieno. Mettete le lumache «imbottite» nel forno a fuoco lento durante dieci minuti, fintanto che il ripieno diventi spumoso. Fatto? Ebbene: preparatevi a gustare una vera leccornìa, ammesso che «les escargots à la bourguignonne» rientrino nel vostro scenario culinario. Ma sappiate che non siete i soli estimatori delle lumache. Gli scavi archeologici – quelli fatti negli insediamenti palafitticoli sulle rive dei grandi laghi in Svizzera (Neuchâtel, Bienne, Lemano e Zurigo) e nelle regioni della Padania – hanno permesso di scoprire anche considerevoli depositi di gusci di lumache. I nostri antenati, alcune migliaia di anni or sono, erano essenzialmente dei «silvicoli», cioè abitanti dei boschi. Essi aprivano lentamente, e a fatica, radure sempre più ampie in un paesaggio di immense e dense foreste ricche di vita, per creare i primi insediamenti umani.
Un bosco ricco di lumache è indice della presenza di comunità animali e vegetali strutturate e di buona qualità Prima di divenire lentamente un agricoltore sedentario, l’uomo è stato un raccoglitore errante e vagabondo. Insieme con la selvaggina, la pesca, la raccolta di funghi e di bacche, le lumache costituivano una componente essenziale dell’alimentazione quotidiana. Le lumache sono da sempre cibo per un vasto popolo di vertebrati di bosco: volpi, tassi, scoiattoli e topolini di bosco. Ma soprattutto di insetti co-
leotteri, che hanno adottato un regime alimentare esclusivo: sono i malacofagi, che si nutrono soltanto di lumache. In taluni casi, come nei coleotteri carabidi del genere Cychrus, e in parte i Carabus (foto), essi hanno progressivamente modificato – durante la loro lunghissima storia evolutiva – una parte della loro struttura corporea per facilitare il raggiungimento della preda che tenta di rifugiarsi ben all’interno della sua casetta. Tale trasformazione anatomica si evidenzia con l’allungamento della parte anteriore del corpo (foto). Questi predatori malacòfagi hanno adottato una sofisticata tecnica di attacco, iniettando nel corpo della lumaca delle neurotossine che la paralizzano. In seguito, i loro succhi gastrici realizzano la digestione al livello della bocca (extra-orale), e non nello stomaco, permettendo loro di ingerire così un gradito «passato di lumaca». Altre specie di insetti carabidi, come i Licinus, hanno modificato la conformazione delle loro mandibole trasformandole in potenti ed efficienti strumenti di demolizione, che consentono all’insetto di raggiungere la preda. I più spettacolari «mangia-lumache» sono le ben note lucciole, che sono sempre più rare a causa dello sfrenato uso di prodotti chimici in agricoltura. Il loro adulto luminescente è un essere che vive soltanto pochi giorni, non si nutre, e lascia alla sua larva (foto) il compito di adempiere alla parte più attiva: cacciare e nutrirsi di lumache. Dalle rive del Lago Maggiore (Verbano) a 196 metri s.l.m. sino alle morene del Basòdino a 2500 metri s.l.m., 190 specie di lumache terrestri con guscio – escludendo quindi le ben note «limacce» così dannose negli orti e nei giardini – sono attualmente conosciute in Svizzera (Turner, Mollusca. Documenta faunistica Helvetica, Neuchâtel 1996). Dalla ben nota e vistosa Helix pomatia, che può raggiungere quattro centimetri di statura, e si gusta «à la bourguignonne», alle minuscole Vitrina che vivono in alta montagna dove sono predate dal raro Cychrus cordicollis. Tutti questi organismi striscianti popolano una vasta e diversificata gamma di ambienti, contribuendo ad arricchire la loro biodiversità. Un bosco ricco di lumache è indice della presenza di comunità animali e vegetali ben strutturate e di buona qualità.
Helix pomatia. (Alessandro Focarile)
La larva della lucciola (Lampyris noctiluca) in predazione. (Alessandro Focarile)
«Quel ramo del Lago di Como che volge a mezzogiorno tra due catene non interrotte di monti…» è l’incipit (inizio) della grande opera letteraria di Alessandro Manzoni (1785-1873): I promessi Sposi. E a oriente di questo bacino lacustre, si eleva fino a 2410 metri s.l.m. l’imponente e isolato gruppo calcareo-dolomitico delle Grigne. «Le Grigne sono le più frequentate montagne della catena alpina. Ad esse accorrono numerosi i turisti, a frotte vi salgono gli alpinisti per le arrampicate
Gruppo di coleotteri malacòfagi (Carabus). (Alessandro Focarile)
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
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II Cychrus cylindricollis - Pini 1871 mentre preda la lumaca Cheilostoma achates. (Alessandro Focarile)
più impegnative. Isolati le percorrono i cacciatori in traccia della preda, il botanico in cerca dei fiori più rari, il geologo per lo studio del terreno e per la raccolta degli eventuali fossili» (Saglio, 1937). E aggiungiamo l’entomologo, che trova su queste montagne insetti del più grande pregio scientifico, e spesso unici (specie endemiche). «Lumaga, lumaghin, tira föra i to curnin, se no te massi» recita una filastrocca lombarda. Nel fervore di vita culturale (scientifica, artistica, letteraria e musicale) che distingueva Milano durante la seconda metà del 1800, era attivo un personaggio di spicco: il conte Napoleone Pini, appassionato naturalista e studioso di lumache (un malacologo). Il Pini, esulando dal suo principale campo di interesse scientifico, descriveva nel 1871 uno straordinario coleottero carabide scoperto sul versante settentrionale della Grigna, a oltre 2000 metri, insieme con una nuova chiocciola: Helix frigida, attualmente Cheilostoma achates. E precisamente il coleottero carabide Cychrus cylindricollis, predatore specializzato della suddetta chiocciola, così denominato per avere la parte anteriore del corpo «cilindrica» (foto). Nei decenni successivi venne ritrovato su diverse montagne delle Alpi Bergamasche con evidente carattere di raro relitto faunistico.
Prima della Prima Grande Guerra (durante la belle époque) vi era una numerosa schiera di danarosi collezionisti disposti a sborsare notevoli somme per assicurarsi il possesso dei più rari e vistosi coleotteri conosciuti all’epoca, animando un attivo commercio con celebri nomi conosciuti in tutta l’Europa. Un montanaro di nome Bertarini, abitante a Esino Lario (un paesotto ai piedi della Grigna settentrionale), mentre conduceva le sue pecore al pascolo sulla montagna raccoglieva il maggiore numero possibile del raro cicro dal collo cilindrico. Con il frutto delle sue cacce riuscì a radunare un cospicuo gruzzolo che gli permise di costituire la dote «in oro» da assicurare alla figlia! E pensare che all’origine di questo lucroso commercio c’era una lumaca predata da un prezioso coleottero. A quanto pare, tuttavia, il bravo Bertarini non si limitò a dare la caccia al prezioso «mangia-lumache»: due coleotteri da lui scoperti sulla Grigna settentrionale portano il suo nome, eternati nella nomenclatura entomologica.
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Bibliografia
Silvio Saglio, Le Grigne. Guida dei Monti d’Italia, Club alpino Italiano – Touring Club Italiano (Milano, 1937, 492 pp.)
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Ambiente e Benessere
Elettrica ma sempre reboante, è la nuova Ghibli Hybrid
Motori Il marchio della Maserati non permette al progresso tecnologico di snaturare la sua essenza
Mario Alberto Cucchi Il 1. dicembre del 1914 in Italia, a Bologna, il vogherese Alfieri Maserati fonda l’Officina meccanica che avrebbe reso il suo cognome famoso in tutto il mondo. Lavora alacremente per una decina di anni con i suoi fratelli, modificando e sviluppando vetture di altri marchi. Solo nel 1926 la Maserati inizia a progettare, costruire e vendere automobili proprie. Quell’anno, alla Targa Florio esordisce la Tipo 26 con alla guida proprio Alfieri Maserati che giunge nono. Il Tridente – ricreato dall’artista di famiglia Mario Maserati ispirandosi alla famosa statua di Nettuno di Bologna – da quel momento rende immediatamente riconoscibili le Maserati. Dalla Bora alla Merak. Dalla Biturbo alla Quattroporte passando per la Coupé e la Spyder. Sino alla Granturismo. La Levante e la Ghibli. Modelli diversi per forme, dimensioni e potenza, ma con due comuni denominatori: eleganza e sportività. La novità di questa estate è la Ghibli Hybrid, la prima vettura elettrificata nella storia della Casa Italiana. La tecnologia ibrida debutta su un modello che è stato prodotto in oltre 100mila unità dal lancio nel 2013 a oggi. Ghibli ben rappresenta il DNA del marchio, che non vuole essere snaturato dal progresso tecnologico. Un esempio? Il sound del motore, il rombo, resta un
elemento fondamentale grazie all’ottimizzazione dello scarico e all’adozione di risonatori appositamente studiati. Maserati interpreta la tecnologia ibrida alla ricerca dell’esaltazione delle prestazioni sportive. Gli ingegneri del Maserati Innovation Lab di Modena hanno sviluppato un motore turbo quattro cilindri da 2000 cc alimentato a benzina. Quest’ultimo lavora insieme a un alternatore a 48 volt e un compres-
sore elettrico aggiuntivo (e-booster), il tutto supportato da una potente batteria. Come funziona? L’energia cinetica accumulata dal veicolo in marcia viene recuperata e trasformata in energia elettrica in fase di decelerazione e frenata, e accumulata in una batteria. Il risultato è una potenza massima di 330 cavalli e 450 NewtonMetro di coppia disponibile già a 1500 giri. La velocità massima è di 255 chilometri orari e per
scattare da fermi a cento orari bastano solo 5,7 secondi. Molta cura anche per la dinamica di guida che beneficia del posizionamento della batteria nella parte posteriore della vettura. Va detto che, rispetto alla versione diesel, il peso è inferiore di ben 80 chilogrammi. Ghibli Hybrid è riconoscibile anche per un nuovo design che interessa particolari sia esterni sia interni. Il comune
denominatore degli interventi, sviluppati dal Centro Stile Maserati, è il colore blu, scelto per connotare le vetture interessate dalla tecnologia ibrida e per identificare questo nuovo mondo. Ecco allora che il blu personalizza le tre iconiche prese d’aria laterali, le pinze dei freni e la saetta all’interno dell’ovale che racchiude il Tridente sul montante posteriore. Lo stesso colore blu si ritrova negli interni della vettura, in particolare nelle cuciture che ricamano i sedili. La nuova Ghibli Hybrid porta al debutto anche nuovi contenuti estetici a cominciare dalla nuova griglia frontale, dove le «stecche» sono state ridisegnate per rappresentare il diapason, lo strumento musicale che produce un suono puro e che ricorda anche il simbolo del Tridente. Non da meno gli interventi nella parte posteriore della vettura, dove è stata completamente ridisegnata la fanaleria, con un profilo che riprende il concetto stilistico di un boomerang, ispirato alla 3200 GT e al concept Alfieri. Due gli allestimenti previsti: GranSport e GranLusso, con interni firmati Ermenegildo Zegna. I prezzi non sono ancora stati comunicati. Ghibli Hybrid rappresenta il primo passo nel percorso che porterà all’elettrificazione di tutti i nuovi modelli Maserati. Le prime vetture completamente elettriche saranno le nuove GranTurismo e GranCabrio previste per il 2021. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Una cotoletta cotta ad arte Sono cresciuto a pane, patate e cotolette!, beh, anche a polpette, risotto, insalata di pollo e altro, ma siccome papà amava pochissimi piatti e fra questi pochissimi si annoveravano per l’appunto le cotolette e le patate fritte, queste erano spesso sul menù di casa. Un piatto che non faceva contento però solo papà: anche il resto della famiglia ne godeva, noi figli e mamma compresa, sebbene lei amasse di più la buona cucina (che però non amava cucinare). Insomma mamma era contenta quanto lo eravamo noi tutti. Unanimità! Sia chiaro, erano cotolettine di fesa di vitello, molto, molto battute, canonicamente passate in uovo sbattuto e poi in pangrattato, cotte in metà olio di oliva non extravergine – ma allora l’extravergine non esisteva… – e metà burro. Di accompagnamento patate tagliate a bastoncino, saltate in padella. Variante: ogni tanto si mescolava il pangrattato con poco grana padana grattugiato, una tradizione nata non so quando ma che oggi non credo esista ancora. Adesso questa ricetta la continuo a fare, perché fa parte della mia storia personale, ma parzialmente: nel senso che le faccio in saor, cioè le cuocio come indicato sopra poi le metto in un contenitore da frigo di vetro e le annego in una marinata bollente fatta con acqua, vino bianco, aceto, ogni tanto bianco, ogni tanto di mele, ogni tanto balsamico, quello industriale, sia chiaro, pepe e zucchero. È un ottimo piatto estivo, ma anche delle altre stagioni. La cotoletta, però, è un’altra cosa. Non ricordo quando scoprii che la vera, nobile cotoletta si facesse con la lombata. Forse su qualche libro, ma non sul Pellaprat, mitico autore de l’Arte della Cucina Moderna, il libro cardine ancora oggi per chi ama cucinare, che dice, nella ricetta della cotoletta alla milanese, di «pestare» la carne fino a renderla «assai sottile»: «quandoque bonus dormitat Homerus» («ogni tanto dorme anche Omero»), come diceva Orazio. Alla fine, fu un bravo e colto
macellaio, che era diventato amico e tanto mi insegnò, così tanto che mi spiegò i segreti della lombata e della cotoletta: e luce fu. Di mio, poco dopo scoprii la magia del burro chiarificato, cioè di un burro che essendo stato privato di caseina e acqua ha un punto di fumo (la temperatura alla quale incomincia a degradare, ne ho parlato tante volte qui su «Azione») più elevato, ottima cosa per le fritture in burro. L’ho fatta per anni. Bella alta, quattro centimetri, mai battuta. E passandola un poco anche nella farina per compattarla, lo so non è canonico ma… Ovviamente dovendo essere cotta in un’ampia casseruola e dovendo badare alla cottura, all’epoca la facevo sempre e solo per mai più di tre persone, cioè il massimo di cotolette possibile nella mia padella più grossa ma anche il massimo di amici che possono accomodarsi nella mia cucina: così potevo cucinare e contemporaneamente parlare con gli amici. Una cosa però mi turbava: i tempi di cottura. Che erano attorno ai 14 minuti, 7 per lato, un tempo necessario per un motivo solo: che nessuno vuole non dico mangiare ma neanche vedere il sangue che resta fra osso e polpa se cuoci di meno. Il problema è che così facendo la carne veniva stracotta. Di soluzioni alternative, però, all’epoca non ce n’erano. Al contrario di oggi che una soluzione c’è, anche se vale solo per i ristoranti. Per abbassare i tempi di cottura sul momento basta investirne parecchio nei giorni precedenti, ecco come: occorre mettere le lombate sottovuoto in buste singole, cuocerle nel roner a 55° per 1 ora e mezza anzi esattamente fino a che la temperatura al cuore sarà 55°. A questo punto andranno abbattute nell’abbattitore a + 3°, prima di metterle in frigorifero dove potranno essere conservate anche per due settimane o più. Questa procedura si concluderà al momento della cottura finale, quando – cuocendole come indicato sopra – vi basteranno un solo 1 minuto per lato per ottenere carne rosa e morbida, ma niente sangue vicino agli ossi!
CSF (come si fa)
Couleur
Allan Bay
pixabay.com
Gastronomia Al di là dei limiti degli attrezzi disponibili in casa si può ottenere carne rosa e morbida
Vediamo come si fanno quattro ricette con patate. Chifeletti di patate (ingredienti per 4 persone). Lessate 800 g di patate farinose, schiacciatele con lo schiacciapatate e, quando sono intiepidite, aggiungete 150 g di farina, 1 uovo e un pizzico di sale. Con il composto ottenuto fate un rotolo spesso circa 1 cm. Tagliatelo a pezzetti di circa 7 cm di lunghezza, piegate i bastoncini ot-
tenuti a ferro di cavallo e friggeteli in olio di semi ben caldo. Frittelle di patate e funghi (per 4). Sbucciate e grattugiate 300 g di patate e fatele cuocere per pochi minuti in un filo d’olio con 400 g di funghi mondati e spezzettati. Aggiungete 4 cucchiai di soffritto di cipolle e proseguite la cottura fino a ottenere un impasto asciutto. Fuori dal fuoco unite 2 cucchiai di besciamella e 50 g di grana grattugiato. Regolate di sale e di pepe. Fate raffreddare il composto versandolo su un piano e, quando sarà ben freddo e rassodato, ritagliate dei dischetti o dei rombi. Passateli in uovo sbattuto, poi in pangrattato e friggeteli in olio di semi. Insalata di patate e cetrioli (per 4). Lessate 800 g di patate, sbucciatele e tagliatele a cubetti. Mescolatele in un’insalatiera con 1 cipollotto fresco
tagliato fine e 6 cetrioli piccoli tritati. In un tegame rosolate 100 g di pancetta affumicata a dadini in 3 cucchiai d’olio e, quando è dorata, amalgamatevi 1 cucchiaiata di senape e 2 cucchiai d’aceto. Mescolate bene e versate il condimento sulle patate, regolate di sale e di pepe e fatele raffreddare a temperatura ambiente. Patate in umido (per 4). Sbucciate 800 g di patate a pasta bianca, lavatele, asciugatele e tagliatele a pezzi non troppo piccoli. In una casseruola rosolate le patate con 4 cucchiai di olio di oliva, 1 spicchio di aglio e un ciuffo di salvia per qualche minuto poi regolate di sale. Unite 400 g di dadolata di pomodori e cuocete a fuoco basso bagnando con poca acqua bollente perché non asciughino troppo. Infine, spolverizzate con prezzemolo tritato.
Ballando coi gusti Estate è sinonimo di griglia. Ecco due semplicissime ricette, una a base di patate e una a base degli umili ma saporiti cefali
Cefali alla griglia
Patate al rosmarino
Ingredienti per 4 persone: 1,2 kg di cefali piccoli · farina di mais · limone · olio di
Ingredienti per 4 persone: 4 patate di dimensioni uguali · rosmarino · olio di oliva
Pulite i cefali eliminando le teste e le interiora, lavateli e asciugateli. Metteteli in uno scolapasta e cospargeteli di sale grosso, rigirandoli con le mani in modo che il sale si distribuisca uniformemente. Lasciateli riposare per circa 30 minuti rigirandoli ogni tanto. Trasferite i cefali in una terrina, insaporiteli con pepe e spolverizzateli con farina di mais, rigirandoli con le mani in modo che siano rivestiti completamente. Lasciateli riposare per circa 30 minuti, quindi irrorateli di olio e mescolateli. Scolate i pesci e cuoceteli sulla griglia a calore sostenuto per 15 minuti circa, girandoli; il tempo di cottura dipende comunque dalle dimensioni. Gustateli spruzzandoli con limone.
Lavate e asciugate le patate. Mi raccomando non sbucciatele. Ponetele sulla griglia a fuoco medio e, rigirandole di tanto in tanto, lasciatele cuocere per circa 40 minuti. Spennellatele leggermente con olio insaporito con sale e pepe. Mettetele su un piatto di portata, se volete tagliatele a metà, salatele, pepatele, irroratele con un filo di olio e cospargetele di aghi di rosmarino, interi o tritati. Servitele subito. Variante. Prima della cottura, praticate nelle patate una serie di profonde incisioni parallele. Inserite in ognuna un po’ di alloro spezzettato e procedete come sopra.
oliva · sale grosso · pepe
· sale e pepe
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Ambiente e Benessere
I vini della Liguria
Scelto per voi
Bacco Giramondo È nelle Cinque Terre che si può gustare quella perla dell’enologia
che è lo Sciacchetrà Davide Comoli
Quando parlano della loro regione, i liguri amano definirla: «poca terra e tanto mare». Una sottile striscia di terra spesso impervia, sassosa e difficile da coltivare. Eppure, la sua collocazione geografica e il modo di spalancare le riviere per accogliere chi arriva da lontani lidi, ha fatto di questa regione un crocevia di scambi economici, sociali e soprattutto umani. Dopo i secoli bui, bisogna arrivare al Medioevo per veder primeggiare i vini delle Cinque Terre e dello spezzino. Petrarca (1304-1374), nella sua Africa, dedica versi vibranti ai vini della riviera di Levante, mentre per quella di Ponente nel 1400, si fa portavoce l’umanista Jacopo Bracelli, che loda il Moscato di Taggia. Ma è Andrea Bacci (1524) che nella sua opera De naturali vinorum historia, dà risalto alla viticoltura di questa regione. Il Bacci, infatti, già mette il dito nella piaga del vigneto ligure, per risaltarne le particolari condizioni topografiche (in primis) e la grande varietà di vitigni che si sono stratificati nel corso dei secoli.
Una terra condizionata dalla duplice attività della gente di questa regione, che trascorreva gran parte della loro vita in mare. Poi quando sbarcavano andavano a coltivare le cosiddette «fasce» o «pianete», piccoli appezzamenti ricavati sulle balze collinari retrostanti ai villaggi pescherecci o dotati di porti d’imbarco. Venendo ai giorni nostri, il territorio ligure è per circa due terzi montuoso, piccole zone pianeggianti si trovano nelle aree costiere di Albenga e Sarzana. Il vigneto si estende prevalentemente in zona collinare con circa 1600 ettari vitati, con il 65 % di vitigni a bacca bianca. L’incontro tra le Alpi Marittime e l’Appennino crea una naturale barriera alle fredde correnti provenienti da nord. Il clima è mediterraneo, con forti escursioni termiche, le quali condizionano in modo favorevole il corredo aromatico delle uve. I vigneti salgono fino a 500/600 m slm e grazie alle fresche brezze marine le malattie fungine sono drasticamente limitate. Il territorio convenzionalmente è diviso da Genova in due aree distinte, la Riviera di Levante e quella di Ponente, le
Vigneti tra Corniglia e Manarola. (Elisavans)
quali sono molto diverse anche dal profilo vitivinicolo. In provincia di Imperia, al confine con la Francia, tra la Valle Nervia e la Val Crosia, si produce nel comune di Dolceacqua il Rossese, incontrastato vitigno di questa zona, che dà il meglio di sé dopo 3-4 anni d’invecchiamento, con i suoi profumi di marasca e fragole è un ottimo compagno sugli arrosti, in particolare il coniglio. A Campochiesa, lo stesso vitigno (Rossese), coltivato lungo la costa, dà vini meno colorati e tannini molto più morbidi, ottimo vinificato in rosato con una zuppa di crostacei. Lungo le valli che risalgono il Colle di Nava, troviamo un antico vitigno: l’Ormeasco, intensamente vinoso, con note di more e viola, dà vini di pronta beva, lo si trova pure in versione rosato con il nome di Sciacchetrà. Nella fascia collinare tra Sanremo e Taggia, non perdetevi il Moscatello, delicatamente dolce e frizzante. Nel 1500 Ortensio Lando nel suo Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia scrisse: «tanto buono che se in un tinaccio di detto vino mi affogassi parerebbemi far una felicissima morte». Il Pigato è forse il vino di maggior prestigio del Savonese, il suo nome sembra che derivi da «pigau», cioè macchiettato, per le piccole macchie color ruggine presenti sull’acino. Il Pigato e il Vermentino, strettamente imparentati tra loro, trovano nella piana d’Albenga e lungo la strada che porta a Pieve di Teco, la zona più classica per la loro coltivazione. Ottimi con piatti di verdure ripiene e i risotti alla marinara. Obbligo di sosta tra i villaggi di Noli e Spotorno per gustare l’autoctono bianco chiamato Lumassina. Attraverso la Val Polcevera, si entra in territorio di Genova; è sulle alture del-
la Coronata che troviamo la Bianchetta, vino bianco, fresco, che consigliamo sulla classica frittura di paranza. Lasciando Genova verso Levante, ci fermiamo ad Altare, dove nella piccola frazione di Uscio nell’entroterra, ci fermiamo a gustare il gradevole Dolcetto prodotto. Dopo questa puntata in «rosso», mangiamo a Camogli. E sfiorando il Monte Portofino, con qualche vigneto sparso qua e là, giungiamo nella frazione di Nozarego (S. Margherita Ligure), dove degustiamo, accompagnati dai pansoti alle noci, un bianco locale molto profumato, prodotto con i vitigni Bosco, Bianchetta e Rollo, e tra i rossi il fragrante Ciliegiolo, dal caratteristico aroma di ciliegia, assolutamente da bere giovane, d’abbinare al classico «bagnun» (acciughe e pomodoro in umido). «L’ampia curva di Sestri oltre s’allarga. Di qui vigneti sotto biondo sole, da Bacco prediletti, altri contemplano Monterosso e Corniglia, con i giochi così famosi per i dolci pampini», siamo in provincia di La Spezia e questi sono i versi con cui il Petrarca descriveva le Cinque Terre. In questa provincia si produce quasi il 50 % del vino ligure, sulle colline intorno al Levanto troviamo il Sangiovese, ma è nelle Cinque Terre, i cui vini potrebbero bastare per una non breve monografia, che ci arrestiamo per gustare non solo il panorama, ma la freschezza dell’Albarola, l’esuberanza del Bosco e l’eleganza del Vermentino, tutti vitigni a bacca bianca, e gustare quella perla dell’enologia che è lo Sciacchetrà. Concludiamo il nostro giro alla foce del fiume Magra, siamo nella D.O.C. Colli di Luni, dove i vini prodotti già allietavano le legioni di Roma.
Colli del Mendrisiotto 2018
Quasi il 35 % della superficie vitata del Ticino si trova nel Mendrisiotto. Di questi, 6,3 ha sono coltivati a Coldrerio, Balerna e Castel San Pietro, dall’Azienda Agraria Cantonale di Mezzana, diretta da Daniele Maffei. Il Merlot regna su questi terreni basici, ricchi di calcare e poveri d’argilla, i quali producono profumati vini bianchi. Qui lo Chardonnay, il Pinot Bianco, il Doral (ChasselasChardonnay), raggiungono un’ottima maturazione. Il Colli del Mendrisiotto 2018 è ottenuto dai tre vitigni citati. Vino fresco e beverino è ottimo d’estate (ma non va trascurato durante il resto dell’anno). La piacevolezza dal Doral, i sottili aromi citrini del Pinot Bianco e i riconoscibili profumi fruttati e la morbidezza dello Chardonnay, vinificati in acciaio, fanno di questo vino (dal 1913) l’ottimo partner per un aperitivo, o per piatti estivi come il vitello tonnato, un carpaccio di pesce di lago e con i filetti di pesce persico con risotto. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 14.50.
Giochi
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba Nel film «Biancaneve e i sette nani» c’è un nano che ha un particolare diverso dagli altri, come si chiama e cosa lo distingue? Lo scoprirai a soluzione ultimata, leggendo le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 8, 3, 2, 2, 5)
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
Soluzione:
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
1. È formata da trefoli 2. Osso del corpo umano 3. Malvagia in poesia 4. Pronome personale 5. Una bevanda 7. Le iniziali dell’attore Schwarzenegger 8. Tagliano con il... filo 9. A est della Francia... 10. Satellite di Giove 12. Relativi alla morale 16. Tre vocali 19. Sono in mezzo ai guai! 20. Osservata 21. Isola delle Grandi Antille 23. Durano millenni 26. Si spinge alla partenza 29. Le iniziali di Leoncavallo 30. Un anno a Parigi Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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1. Una rotondità 6. Pedate 11. Sui tavoli del ristorante 13. Indumento per religiosi 14. Acido ribonucleico (sigla) 15. La piantagrane dell’Olimpo 17. Può precedere il se 18. Preposizione 19. Fa la forza 22. Adoperato dai cowboy 23. Le iniziali dell’imitatrice Aureli 24. L’ultimo re Umberto d’Italia 25. Caricano a testa bassa 26. Le iniziali del cantante Antonacci 27. Congiunzione latina 28. Un pesce 31. Canta «Felicità»
Sudoku
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N. 28
Soluzione della settimana precedente
BEETHOVEN – Veniva chiamato: LO SPAGNOLO, PER LA SUA CARNAGIONE SCURA
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A G A S T U T R I
N A E R I A R N E
luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 agosto 2020 • N. 33
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Politica e Economia Social media sotto accusa Indebolire i grandi Padroni della Rete potrebbe favorire i rivali cinesi. Trump questo non lo vuole
Minsk-Mosca: rottura clamorosa La Bielorussia accusa Mosca di tramare alle sue spalle, Putin invece grida al tradimento. È ormai senza ritorno l’allontanamento di Lukashenko che era (quasi) disposto a tornare fra le braccia della Russia pagina 21
Una storia italiana Sull’onda delle proteste scatenate dal movimento Black Lives Matter è stato deciso di intitolare la stazione romana «Amba Aradam» al partigiano di colore italo-somalo Giorgio Marincola. Per cancellare un retaggio razzista e colonialista pagina 23
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C’era una volta la Lega Nord Secessione addio Con la chiusura
della campagna di tesseramento è nato ufficialmente il nuovo partito di Matteo Salvini premier. Ma molti vecchi tesserati non accettano che sia stata tradita l’anima del partito di Bossi
Alfredo Venturi C’era una volta la Lega di Umberto Bossi. Dapprima Lega Lombarda e più tardi, attraverso la fusione con la Liga Veneta, Lega Nord. Proprio in quel Nord stavano il senso del partito, la sua anima e il suo programma: autonomia al Lombardo-Veneto e alle altre regioni settentrionali d’Italia, alla larga da Roma ladrona e dai «terroni» del Mezzogiorno parassitario. Il movimento ospitava anche chi non si accontentava dell’autonomia ma aspirava addirittura alla secessione, alla nascita di una Padania indipendente capace di competere alla pari con l’Europa più avanzata e più florida. Era la Lega che disdegnava l’Appennino e piuttosto guardava oltre le Alpi, all’Austria, alla Svizzera, al Libero Stato di Baviera. La Lega delle nostalgie medievali e dei riti padani: il pellegrinaggio alle sorgenti del Po sul Monviso, la sacra ampolla con l’acqua del grande fiume non ancora intorbidata dagli inquinamenti a valle, il giuramento sul prato di Pontida dove un giorno distante otto secoli e mezzo i comuni lombardi strinsero il loro patto contro il nemico imperiale. Quel nemico che contraddicendo in qualche modo la narrazione leghista non veniva dal Sud ma proprio da Oltralpe. Ebbene quella Lega sta scomparendo. Già da alcuni anni era in atto una conversione, il partito si stava trasformando da territoriale a nazionale. Proprio questa metamorfosi strisciante ha permesso a Matteo Salvini, che più di ogni altro ha preso le distanze dalla tradizione bossiana, di far sì che alle
ultime elezioni politiche nel 2018 la coalizione di centrodestra da lui guidata raggiungesse il 37 per cento dei voti, e che successivamente i sondaggi assegnassero proprio alla Lega il ruolo, che tuttora detiene, di capofila del consenso. Altro che Lega Nord: il partito aveva sfondato lungo tutta la penisola e perfino in Sicilia, co-protagonista assieme al Movimento Cinque Stelle del terremoto che assestando un duro colpo alla tradizione ha squassato la politica italiana. Che fare dunque di quel Nord appiccicato al nome del partito? Semplice, va cancellato o per meglio dire messo da parte, ecco nascere la Lega per Salvini premier. Vi si può aderire conservando anche la tessera della vecchia Lega che gli iscritti ricevono gratuitamente. Ma buona parte del Nord non ci sta, non accetta la scomparsa della «questione settentrionale», per non parlare del mito inebriante di un’autonomia che arrivi a sfiorare l’indipendenza. Secondo valutazioni interne quasi un terzo dei tesserati potrebbe non rinnovare l’iscrizione. Intanto una nuova figura di staglia sull’orizzonte del partito: è quella di Luca Zaia, il presidente della Regione Veneto, l’uomo dall’aspetto pacato e rassicurante che tutti stimano e che a quanto pare ha saputo gestire nel modo più convincente l’emergenza pandemica. «È vero, siamo identitari», dice Zaia applauditissimo al raduno della Lega a Cervia. Al tempo stesso smentisce ogni ipotesi scissionista, pur ribadendo che i leghisti veneti puntano, come sempre, sull’autonomia. Nessuna scalata al partito, assicura. Quanto
Umberto Bossi alle sorgenti del Po sul Monviso riempì un’ampolla con l’acqua che riversò nella Laguna di Venezia. (Keystone)
a Salvini, che appare nervoso e infastidito a chi lo incalza su questo tema, sostiene che si tratta di fantasie, e non ha alcuna voglia di parlarne. Per l’ex ministro dell’Interno continua dunque il momento difficile avviato un anno fa con la decisione di affossare il primo governo di Giuseppe Conte, quando fallì il disegno di prendere il posto dell’«avvocato degli italiani». Si impelagò in quel tentativo dopo avere richiesto, stimolato dai sondaggi favorevoli e dai bagni di folla, niente altro che i pieni poteri per rimettere in riga il Paese. Una disinvolta manovra di Matteo Renzi, avallata dal presidente della repubblica Sergio Mattarella, portò alla sostituzione del Conte uno con il Conte due, dal giallo-verde al giallo-rosso, fuori la Lega dentro il Partito democratico. Poco più tardi i consensi per il partito di Salvini interrompono la tendenza ascensionale, mentre a destra si fa strada un’altra formazione, i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, e i grillini a
cinque stelle pagano con un vistosissimo arretramento il conto del mutamento di alleanza. Intanto si allontana la prospettiva di elezioni anticipate, sulle quali il leader leghista contava per consolidare il primato ancora registrato dai sondaggi, prima che calasse ancora e magari scomparisse. A questo punto la concomitanza di tante circostanze avverse deve avere indotto Salvini a puntare sul nazionale, troncando ogni residuo collegamento con il vecchio partito territoriale di Bossi. Ma il proposito di ribattezzarlo Lega per Salvini premier non piace affatto allo zoccolo duro del leghismo lombardo-veneto. Non soltanto perché molti contestano la scomparsa del riferimento esplicito alle radici geografiche del movimento. C’è anche chi non è d’accordo sulla concessione a Salvini del ruolo di potenziale capo del governo e per questo chiede che l’etichetta venga ulteriormente modificata. Il retro-pensiero è evidente: perché puntare le nostre carte su un leader non di rado
imbarazzante, che nei comizi elettorali sgranava rosari e sbaciucchiava crocifissi, che sulle misure protettive contro i contagi ha cambiato più volte opinione e comportamento, che si dimostra così spesso insofferente al dibattito e alle critiche? Tanto più che la Lega ha a disposizione un’alternativa del calibro di Luca Zaia, il governatore veneto che ha una parola sola, e non contesta la proiezione nazionale del partito a patto che non si rinunci alle autonomie. Non soltanto del Veneto ma di tutte le regioni, perché il federalismo da lui auspicato, ecco il punto cruciale, non riguarda solamente il Nord ma è una grande questione nazionale. E così il convergere sulla sua persona delle bordate di chi rimpiange la Lega identitaria di Bossi e dei colpi di chi non lo vuole candidare al governo del Paese accentua la solitudine di Salvini, la frustrante condizione in cui andò a cacciarsi, l’estate scorsa, stordito dal miraggio di insediarsi a Palazzo Chigi.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 agosto 2020 • N. 33
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Politica e Economia
Usa-Cina, divorzio traumatico
Tensioni geopolitiche I padroni della Rete come Twitter e Facebook sono all’esame dell’antitrust a causa del loro
(stra)potere di mercato, ma un loro indebolimento potrebbe nuocere a Trump nella grande sfida con Pechino
Federico Rampini I Padroni della Rete sono più ricchi che mai. Sono anche più odiati, attaccati e accusati che mai. Ma sono indispensabili: nella nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Cina, i «campioni dell’Occidente» (o presunti tali) sanno di avere un valore strategico. È questo il sunto di una folle estate che ha già visto sovrapporsi tre conflitti. In primo luogo c’è stato il «processo» ai big digitali imbastito dal Congresso di Washington, dove sono stati interrogati dai parlamentari americani i chief executive di Amazon (Jeff Bezos), Apple (Tim Cook), Alphabet-Google (Sundar Pichai) e Facebook (Mark Zuckerberg). Non si è trattato però di un remake dei grandi processi del passato al «capitalismo malefico», per esempio Big Tobacco o Big Pharma. Stavolta infatti l’istruttoria ha preso direzioni divergenti. La destra liberale accusa alcuni di questi potentati di avere un’agenda politica antiTrump. La sinistra, invece, riecheggia i temi dell’antitrust europeo: vorrebbe ridurre il potere oligopolistico dei giganti della West Coast, e possibilmente fargli pagare un po’ più di tasse. A conferma dei sospetti repubblicani, a una settimana di distanza dall’audizione al Congresso ben due social media, Facebook e Twitter, hanno censurato il presidente. Quest’ultimo però potrebbe aver bisogno di loro nella grande sfida con la Cina: sul dossier TikTok il «cavaliere bianco» di Microsoft può risolvere a suon di miliardi una tensione geopolitica. Procedendo a ritroso, lo sviluppo più recente è l’ennesimo scontro fra social media e Trump sulla libertà di … dis-informazione. A tre mesi dall’elezione Facebook si unisce a Twitter, per la prima volta, nel «cancellare» una fake-news di Donald Trump. A scatenare la censura dei due social media è il video di un’intervista del presidente alla tv Fox News, in cui esortava alla riapertura immediata delle scuole. «Se guardiamo ai bambini – dice Trump nell’intervista – i bambini sono quasi immuni da questa malattia, direi completamente». L’estratto dal colloquio in tv era stato diffuso sul sito di Team Trump, la campagna elettorale del presidente. Verificata l’infondatezza di questa informazione, Twitter ha sospeso l’intero account di Team Trump fino a quando non è stata rimossa l’intervista. Facebook ha cancellato il solo video, e per il social media di Zuckerberg si è trattato di una svolta rispetto all’atteggiamento tenuto finora. A differenza di Twitter che si era già mosso in passato, Facebook era restìo a intervenire sui contenuti degli utenti, in nome della libertà d’informazione. Nella dirittura d’arrivo verso il voto del 3 novembre, Trump potrebbe vedersi privato di uno dei suoi canali prediletti nella comunicazione con il pubblico: il presidente professa diffidenza e ostilità verso i media tradizionali e già nella campagna del 2016 fece un uso abbon-
dante dei social per aggirare l’intermediazione di stampa e tv. La Fox News di Rupert Murdoch fa eccezione, trattandosi di un network che gli ha sempre dato ampio spazio. L’azione «censoria» dei due maggiori social media è il risultato di una lunga battaglia che ha visto mobilitati settori dell’opinione pubblica, i media tradizionali, e sempre più spesso gli stessi dipendenti di Facebook e Twitter. I fautori di un intervento attivo sui messaggi presidenziali sono gli stessi che hanno criticato la lunga «neutralità» di Zuckerberg verso la disinformazione disseminata nel 2016 da fonti russe per influenzare la campagna. Facebook e Twitter furono criticati anche perché tollerarono a lungo la diffusione di messaggi di odio, razzista o sessista. Zuckerberg in passato si trincerava dietro il Primo Emendamento alla Costituzione americana, che offre una garanzia quasi illimitata alla libertà d’espressione. I media tradizionali a loro volta contestano il fatto che la normativa vigente rende responsabili giornali e tv per i contenuti che diffondono, mentre non fa altrettanto con i giganti della Rete. Alla fine, a smuovere Zuckerberg è stato l’effettoCoronavirus. Da tempo Facebook ha mostrato una preoccupazione maggiore quando le fake-news riguardano la salute dei cittadini, in una fase in cui la pandemia conosce una recrudescenza in molti Stati Usa (California inclusa), e Trump è accusato di avervi contribuito con la sua tendenza a minimizzare il pericolo.
Sotto inchiesta al Congresso il capitalismo globalista si è ormai convertito alla guerra fredda fra Usa e Cina Se questo atteggiamento più interventista dovesse confermarsi, potrebbe avere qualche influenza sulla battaglia elettorale che vede il presidente in carica già in svantaggio rispetto al candidato democratico Joe Biden. Rilancerà anche le polemiche della destra sulla «faziosità» dei big digitali, considerati più vicini alla sinistra. Su altri fronti peraltro Trump è stato e continua ad essere un loro difensore: contro la digital tax e le offensive dell’antitrust europeo, il presidente ha messo da parte le sue animosità e ha difeso a spada tratta i colossi della Rete, in nome dell’interesse nazionale. È tuttora aperto anche il dossier TikTok, la app di proprietà cinese che Trump vuole mettere al bando, e che potrebbe salvarsi se viene acquisita dalla Microsoft. Il nazionalismo economico ha portato a delle alleanze di convenienza tra la Casa Bianca e una West Coast dove i vari Zuckerberg, Jeff Bezos e Bill Gates hanno spesso beneficiato del liberismo economico repubblicano, ivi compreso nei regali fiscali che hanno consentito il rimpatrio di capitali dall’estero.
Mark Zuckerberg viene ascoltato in videocollegamento dalla commissione Giustizia della Camera dei Rappresentanti di Washington che sta conducendo un’ampia indagine antitrust. (AFP)
L’ultimo capitolo della guerra fredda Usa-Cina investe un social media a cui probabilmente sono affezionati vostra figlia o vostro nipote. TikTok ha centinaia di milioni di utenti nel mondo, decine di milioni solo negli Stati Uniti. Per lo più adolescenti, troppo giovani per votare a novembre, altrimenti forse Trump sarebbe meno drastico. L’offensiva del presidente americano contro questo social apparentemente innocuo – vi circolano soprattutto video musicali e balletti improvvisati, ma ha visto nascere vere e proprie star – ha la stessa logica di quella scatenata contro Huawei per la telefonia di quinta generazione. TikTok fa capo a una proprietà cinese, il gruppo ByteDance. Come per il 5G, il sospetto è che una tecnologia made in China invada il nostro universo digitale e serva da cavallo di Troia per saccheggiare i nostri dati, depredare la nostra privacy, oppure censurare e manipolare la comunicazione. Può sembrare cattiva fanta-politica, dietrologia paranoica agitata da un presidente in caduta di consensi. Però quel che accade a Hong Kong consiglia di non sottovalutare la prepotenza di Xi Jinping, né l’implacabile determinazione del Grande Fratello cinese nel soffocare il dissenso. Un’azienda di proprietà cinese non è in grado di disobbedire alle direttive del governo di Pechino, di qualunque natura esse siano. A risolvere l’ennesimo scontro di natura geopolitica ci prova un gigante capitalista, la Microsoft fondata da Bill Gates. Se Microsoft comprasse TikTok, il passaggio sotto una proprietà americana risolverebbe il casus belli. Ma altre mine sono desti-
nate a esplodere, poiché il mondo ne è disseminato. Dopo trent’anni di integrazione Usa-Cina, il «decoupling» o divorzio è traumatico. La nuova guerra fredda ha continuato la sua escalation nelle ultime settimane. Washington ha varato nuove sanzioni contro dirigenti cinesi responsabili degli abusi contro la minoranza islamica degli uiguri nello Xinjiang; ha dichiarato illegali le pretese territoriali di Pechino nel Mare della Cina meridionale; ha tolto a Hong Kong tutti i privilegi commerciali fiscali e diplomatici; ha chiuso il consolato della Repubblica Popolare a Houston, Texas, sospettato di essere un covo di spie (tra le altre cose i diplomatici cinesi di stanza a Houston avrebbero tentato di carpire segreti sulle ricerche di vaccini anti-Coronavirus). Il capitalismo globalista si adatta al nuovo scenario geopolitico. Ormai si è convertito alla guerra fredda perfino Zuckerberg. Ancora pochi anni fa il giovane padre-padrone di Facebook si era distinto per un corteggiamento sfrenato verso Xi Jinping. Sperando di farsi aprire il mercato cinese da cui il suo social media è bandito, Zuckerberg aveva moltiplicato i gesti di piaggeria: in una cena di Stato offerta da Obama in onore di Xi Jinping, il chief executive di Facebook era arrivato a chiedere al presidente cinese un nome in mandarino per sua figlia allora neonata. Adesso, sotto inchiesta al Congresso di Washington per ragioni di antitrust, Zuckerberg chiede comprensione al governo degli Stati Uniti presentandosi come un’azienda patriottica, un condensato di valori americani. Nell’ostilità totale tra America e
Cina si aggiunge un elemento nuovo. È l’idea contenuta nel recente discorso di Mike Pompeo secondo cui «il dialogo va condotto con il popolo cinese, con chi ama la libertà, perché il partito comunista non rappresenta quel popolo di un miliardo e 400 milioni». Come ai tempi dell’Unione sovietica, il conflitto tra le due superpotenze diventa ideologico, a tutto campo. Dopo le tante offensive già aperte nel campo economico e tecnologico, diplomatico e militare, l’appello ai cinesi perché rovescino la «tirannide» era l’ultimo tassello che mancava. Trump userà la Cina nella sua campagna contro Biden, cercando di descrivere il suo rivale democratico come un esponente del vecchio establishment che firmò accordi di libero scambio ai danni della classe operaia americana, e fece concessioni fatali al regime di Pechino. Ma Biden ha indossato a sua volta i panni del falco. Lungi dal promettere un disgelo, il democratico preannuncia che sarebbe più duro di Trump sui diritti umani, più credibile di Trump nel chiamare a raccolta gli alleati per fare fronte unito contro Pechino, più efficace di Trump nell’attuare una politica industriale che recuperi il ritardo americano nella tecnologia 5G. A proposito di 5G, incassa vittorie la pressione americana per dissuadere gli alleati dal comprare la nuova generazione di infrastrutture telecom dai cinesi. Il Regno Unito ha ceduto di recente, l’India sta per fare lo stesso. Il mondo si divide in sfere, la logica del bipolarismo impone di scegliere da che parte stare. Gli adolescenti catturati da TikTok fanno fatica a capire, ma anche il loro divertimento è un terreno conteso fra superpotenze. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 agosto 2020 • N. 33
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Politica e Economia
Juan Carlos: addio poco regale
Corona spagnola Il re emerito abbandona
il Paese dopo l’ennesimo scandalo Angela Nocioni
Frattura epocale
Minsk-Mosca Aleksandr Lukashenko ha accusato il Cremlino
di aver voluto organizzare una rivolta contro di lui
Anna Zafesova «Stanno preparando un massacro». Alla vigilia delle seste elezioni presidenziali che lo vedevano protagonista dal 1994, Aleksandr Lukashenko ha operato una rottura clamorosa: da Paese (quasi) disposto a tornare tra le braccia della Russia, la Bielorussia è stata trasformata da lui in una vittima dell’imperialismo di Mosca. Una settimana prima del voto, il KGB (che in Bielorussia ha conservato il nome, oltre alle funzioni) ha arrestato 33 russi «in mimetica e dal portamento marziale», che ha accusato di essere mercenari del famigerato «gruppo Wagner», la squadra di contractor che svolgono il lavoro sporco per i militari russi in Siria, Libia e altrove. Al parlamento un presidente visibilmente provato anche fisicamente, al punto da far circolare voci su un suo improvviso peggioramento di salute, ha raccontato che un secondo gruppo di mercenari è stato arrestato nel Sud della Bielorussia, e ha lanciato accuse pesanti di ingerenza verso Mosca.
Dopo la rivoluzione del Maidan in Ucraina nel 2014, Lukashenko si era distanziato dalla Russia temendo un’ingerenza sul modello di quella tentata a Kiev Un plot da spy story che all’inizio era stato preso con scetticismo dagli osservatori, anche perché l’autocrate bielorusso non ha mai mostrato problemi a manipolare i fatti: soltanto pochi giorni prima aveva annunciato di aver preso il coronavirus ed esserselo sopportato «in piedi» da asintomatico, mandando un brivido lungo la schiena di Vladimir Putin, che l’aveva abbracciato appena una settimana prima. Ma nei giorni successivi la storia dei «turisti russi in mimetica» ha assunto toni inquietanti: Mosca prima non ha reagito, poi ha smentito, ma con toni stranamente pacati, molto più miti di quelli che usa di solito verso qualunque critica anche molto innocente alla Russia. Secondo la versione ufficiale russa, i militari erano diretti nel Sudan, o forse in Turchia, dove avrebbero dovuto svolgere mansioni di sicurezza in un impianto non meglio precisato. I «Wagner», interrogati, hanno sostenuto di aver voluto andare a Instanbul per ammirare «la cattedrale di Aghia Sofia», forse ignari che Erdogan l’avesse appena trasformata in moschea. I canali Telegram che trasmettono inside del Cremlino sostengono che i mercena-
ri fossero diretti in Libia, transitando da Minsk perché lo spazio aereo civile di Mosca è chiuso per la pandemia, e il Ministero della Difesa russo non voleva inviare per soli trenta uomini un aereo militare. Secondo Lukashenko, invece, i russi erano arrivati in Bielorussia per «aspettare gli eventi», perché «si sta preparando un massacro». Una teoria meno assurda di quanto sembra. Nei sondaggi non ufficiali (quelli ufficiali non esistono) Lukashenko si guadagna appena il 3%, pagando 26 anni di povertà e repressione, e ora anche il negazionismo del Covid-19 (in presenza del presidente è vietato indossare la mascherina). Come sua abitudine, ha arrestato o minacciato tutti i suoi oppositori, ma si è visto sfidare da una triade insolita di donne, le mogli dei due candidati eliminati, Svetlana Tikhanovskaya e Veronica Tsepkkalo, e Maria Kolesnikova, la capa della campagna elettorale del terzo oppositore arrestato, Viktor Babariko. Il trio è stato bollato da Lukashenko come delle «poverette» in un Paese dove «la politica è roba da maschi», ma la frontrunner Tikhanovskaya, una mamma che non lavora di 37 anni, moglie-coraggio di un blogger finito in carcere, sta raccogliendo ai comizi decine di migliaia di persone, fenomeno mai visto nella mite Bielorussia, e dalle stime non ufficiali potrebbe spuntarla al primo turno. Quando le autorità le negano le piazze organizza comizi nella foresta, e migliaia di giovani accorrono ad ascoltarla anche senza vederla in mezzo agli alberi. Sul palco sfoggia braccialettini di fili intrecciati e mostra il pugno chiuso, con Kolesnikova che invece forma con le dita il segno del cuore e Tsepkalo che alza le dita a V, vittoria, e pace. Un linguaggio in codice che non c’entra nulla con il machismo militarista dell’autocrate, che gioca a hockey sul ghiaccio con Putin, si veste di improbabili e sontuose uniformi militari e si porta dietro un figlio adolescente di cui si ignora la madre. Tikhanovskaya e le sue colleghe rappresentano quella nuova generazione postsovietica che non si accontenta più di una stabilità nella miseria che ricorda tanto gli ultimi anni dell’Unione Sovietica. Difficile credere che Lukashenko le conceda la vittoria: nel suo ultimo discorso al parlamento ha detto che non lascerà mai il Paese in altre mani, perché «l’amata non si abbandona», e ha minacciato i «traditori». Un risultato elettorale palesemente falsificato porterà la gente in piazza, in una riedizione del Maidan che nel 2014 ha rivoluzionato l’Ucraina chiedendo e ottenendo la svolta del Paese verso l’Ue. Il rischio che un Maidan si trasformi in una Tienanmen è molto elevato, anche se da molte testimonianze indirette pare che almeno parte dei poliziotti e militari si
rifiuterebbe di sparare contro il popolo per difendere «l’ultimo dittatore d’Europa», come venne chiamato da Condoleezza Rice. Per Mosca perdere il Paese che lo stesso Lukashenko ha definito «l’ultimo alleato rimasto alla Russia» sarebbe fatale, e che possa aver inviato uomini fidati ad impedire il crollo del regime pare perfettamente plausibile. Il problema è che in questa ipotesi – come in quella che i «Wagner» fossero a Minsk in transito verso altre destinazioni – Lukashenko non poteva non sapere della loro presenza, ed averla autorizzata. L’arresto dei soldati di Mosca in questa ottica non può non venire letto da Putin come un tradimento. Che il leader bielorusso abbia deciso di presentarsi come il candidato anti-russo dà la misura delle sue difficoltà, ma paradossalmente finisce per aumentarle. Il Cremlino si era già risentito per il rifiuto di Lukashenko a una unificazione tra i due Paesi, che avrebbe ridato il fiato alla fama di Putin come restauratore dell’impero, e per i continui litigi sul prezzo del petrolio e del gas russo. Ma finora aveva considerato la Bielorussia incapace di allontanarsi troppo, e i commentatori vicini al Cremlino stanno già accusando Lukashenko di aver tradito i russi a favore dell’Occidente. Che il leader bielorusso avesse deciso una svolta europeista appare poco probabile, sia perché sono vent’anni che l’Ue non riconosce la legittimità delle sue elezioni, sia perché in questo momento è troppo presa da problemi interni per osare una politica di espansione a Est. Ma intanto ha rotto con Mosca, mostrando anche di non considerare più Putin – alle prese anche lui con la pandemia, le proteste in piazza e il crollo dei consensi – come una scommessa a lungo termine. E il fatto che Minsk abbia passato le carte dei mercenari arrestati all’arcinemico russo, l’Ucraina, che vuole vedere se qualcuno di loro avesse partecipato alla guerra nel Donbass, non può non venire visto dal Cremlino come alto tradimento. Resta da vedere il prezzo che gli farà pagare Putin. Lukashenko aveva già cominciato a prendere le distanze da Mosca dopo l’annessione della Crimea, autorizzando perfino la riapparizione di un discorso etnico bielorusso fino a quel momento bandito in un Paese che perfino come lingua ufficiale usava quella dei vicini. La tradizione della politica di Mosca esige di appoggiare sempre l’autocrate contro il popolo, anche perché il Cremlino non può non temere lo stesso scenario per Putin. Ma alla vigilia delle elezioni l’ultranazionalista Vladimir Zhirinovsky, che spesso esprime in provocazioni da giullare quello che Putin pensa, ha consigliato a Lukashenko di non opporre resistenza e scegliere la fuga.
Appena eletto lo chiamavano «Juan Carlos el Breve», convinti che non avrebbe retto a lungo. Invece è stato re dal 1975 al 2014, quando ho abdicato in favore del figlio Felipe. Che la settimana scorsa l’ha messo alla porta. Juan Carlos I (foto) se ne è andato alla chetichella, per ora rifugiato in un resort nella Repubblica Dominicana. La condizione imposta dal figlio perché mantenesse il titolo era che l’ottantaduenne re emerito andasse quanto più lontano possibile dalla Spagna. Perché l’eco dell’ultimo scandalo che lo riguarda, l’ennesima puntata di una telenovela su 66 milioni di euro arrivati in valigette dall’Arabia Saudita e mai dichiarate al fisco, non travolgesse quel che resta della Corona spagnola, già scalcagnata di suo. Maldestro il re fuorilegge è sempre stato. Non riesce a chiunque andare in luna di miele segreta in Botswana, cadere in piena notte dal lettone della capannetta di lusso e finire su tutti i giornali del mondo con l’anca rotta e la faccia da europeo ancién regime in Africa. Col fucile da guerra imbracciato accanto a una signora bionda che non è sua moglie. Da tener riservata, quella volta, nell’aprile buio del 2012 - crisi economica a Madrid, spagnoli imbufaliti attaccati ai rotocalchi a scolarsi i dettagli della figuraccia reale - non era tanto l’amante tedesca, stranota alle cronache e alla Reina Sofia che quella volta aspettò tre giorni prima di andarlo a visitare in ospedale. Quanto la compagnia di certi amici sauditi. Da lì, poi, i guai di questi giorni. Valigie con milioni di petrodollari inguattati dall’ex sovrano in vari conti. Il fatto è che Juan Carlos I non voleva fare il re. E invece, ostaggio per lungo tempo dei tira e molla tra suo padre e Francisco Franco, alla fine gli toccò il trono. A dedazo si dice in Spagna, su indicazione esplicita del dittatore, nemmeno per successione diretta. Ed è stata la fortuna degli spagnoli perché lui, fanfarone e gaffeur, ha garantito nel 1978 alla cattolicissima Spagna, per buona metà fedelissima al regime, la transizione alla democrazia, con i comunisti tirati dentro. L’ha fatto da erede al trono designato. Mica da anarchico izquierdista. E si è inventato giorno per giorno un passaggio incruento, smontando il franchismo pezzo per pezzo attraverso leggi franchiste, quelle stesse leggi che garantivano la legittimità del suo potere, senza concedere chance ai militari scalpitanti, quando la struttura e gli uomini della dittatura erano pronti a prendersi il governo. Tanto convinti di farcela che il 23 febbraio del 1981 tentarono il golpe con il famoso «Todos al suelo» urlato in Parlamento. Se sembrò un colpo di Stato da operetta è soltanto perché non riuscì. Juan Carlos annusò l’aria, con la rivoluzione dei garofani in Portogallo ormai andata e i colonnelli greci finiti, seppe convincere i golpisti a lasciar perdere. Ma la democrazia non era un esito inevitabile in Spagna allora, era solo una delle possibilità. Poi i
fascisti sono diventati in un battibaleno tutti riformisti, si sono riciclati alla svelta nelle braccia spalancate del partito popolare di cui hanno costituito e costituiscono ancora la nerissima maggioranza. Quindi fermi un attimo prima di liquidare come avanzo della storia il vecchio Juan Carlos che con sguardo acquoso sorride comprensivo ai figli che lo detestano. Se a Madrid dopo la morte di Franco non ci furono spari casa per casa parecchio del merito è suo. Vuoi mettere lui, un pasticcione capace di uscite fulminanti (memorabile quel «perché non ti stai zitto?» urlato al venezuelano Hugo Chavez in piena logorrea durante un incontro di capi di Stato) vuoi mettere lui, dicevamo, con quel lungaccione mesto mesto di suo figlio Felipe VI? Che come somma rivolta non è riuscito a far di meglio che sposare una giornalista borghese, la reportera Leticia, la quale dopo sei anni da regina ancora cammina sempre tre passi davanti al marito calpestando il protocollo? Quel Felipe che, dopo aver accettato sempre a muso lungo la corona grazie all’abdicazione paterna nel 2014, ha tolto all’ingombrante padre anche i 194.232 euro l’anno che gli spetterebbero come ex sovrano cercando così di ingraziarsi i repubblicani spagnoli che lo odiano lo stesso? Grosse miserie umane alla corte di Spagna. Pedro Sànchez, il premier socialista, lo sa e infatti è tutto un inchinarsi in questi giorni al ruolo fondamentale avuto dalla monarchia nei passaggi delicati della storia recente. Mentre il re Felipe VI, con quell’aria da ragioniere affranto anche quand’è coperto di mostrine come un cavallo da parata, ringraziava via etere il padre per essersene finalmente andato all’estero, Juan Carlos era già lontano. Scappato nottetempo per fare l’ennesimo regalo al figlio ingrato. Niente di nuovo nello scandalo del vecchio ex re. La faccenda saudita si conosce da mesi. È accusato di aver convinto il consorzio di imprese spagnole che ha realizzato il treno veloce tra la Medina e la Mecca a fare un bello sconto ai committenti sauditi. Che l’hanno ricompensato in nero. Ha facilitato un affare, lo fanno gli ex governanti di mezzo mondo. Solo che lui i soldi li ha fatti sparire in un fondo che alla sua morte doveva andare al figlio. Felipe VI, furibondo quando il dettaglio sul suo ruolo passivo è stato svelato, ha rinunciato all’eredità. Sapendo benissimo che la mossa non ha alcun effetto se non d’immagine perché il codice civile non consente di rinunciare a un’eredità quando ancora non è morto nessuno. Ritardando appena un po’ l’uscita di scena, Juan Carlos alla fine s’è levato di torno. Santiago Carrillo, segretario del partito comunista spagnolo dal 1960 al 1982, uno di quelli che lo pensava non in grado di fare il sovrano e poi ha cambiato idea, tempo fa ha raccontato che Juan Carlos, già re, gli confidò: «Per vent’anni ho dovuto far finta d’essere scemo, guarda amico mio che non è mica facile».
AFP
Putin e Lukashenko all’inaugurazione del memoriale di Rzhev dedicato al soldato sovietico, giugno 2020. (AFP)
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Idee e acquisti per la settimana
Buone le patate, buone le chips
Da oltre 60 anni Zweifel attribuisce una grande importanza alla selezione delle migliori materie prime svizzere per produrre le sue chips croccanti. Lo stesso avviene per le nuove chips bio
Zweifel Chips bio Nature e Paprica 110 g Fr. 3.40 Nelle maggiori filiali
Rintracciabilità della qualità Adrian Feitknecht di Cadenazzo è uno dei dodici coltivatori svizzeri che forniscono a Zweifel le loro patate certificate dalla gemma di Bio Suisse. Ogni confezione di chips Zweifel riporta l’indicazione relativa all’azienda agricola da cui provengono le patate, così che gli acquirenti conoscano l’origine di queste leccornie salate.
Foto Nik Hunger
Adrian Feitknecht, di Cadenazzo, è per convinzione un agricoltore biologico. Nel 2016 il 32enne ingegnere agronomo ha rilevato la fattoria di 90 ettari dei suoi genitori, che ora gestisce con sua moglie. Oltre ad allevare mucche e maiali, ha dedicato cinque ettari alla produzione di patate, tra le quali la «Lady Rosetta» destinate alle chips bio della Zweifel. La coltivazione di patate biologiche richiede molto lavoro: «Nella fase iniziale vanno tenute a bada le erbacce. Come concime utilizzo prevalentemente liquame, che rispetto ai fertilizzanti minerali a lento rilascio è più difficile da dosare», ci spiega l’appassionato agricoltore. Non può far ricorso a prodotti chimici di sintesi nemmeno in caso di malattie della patata. Per questo motivo sperimenta anche mezzi non convenzionali, come l’utilizzo del tè di compost o di microrganismi effettivi (EM). Per Feitknecht l’aspetto più importante è legato al terreno, che rimane vitale grazie alla grande biodiversità e a trattamenti rispettosi. «Normalmente vengono concimati i vegetali coltivati, ma io mi prendo maggiore cura del terreno in modo che possa fornire minerali alle piante». La qualità delle chips bio non dipende tuttavia solo dalla materia prima. Durante la produzione sono altrettanto importanti le conoscenze e l’esperienza: una lavorazione attenta, senza l’aggiunta di aromi e coloranti e, nient’altro che olio di girasole bio. In omaggio al lavoro pionieristico nella coltivazione di patate biologiche del Katzenrütihof di Rümlang, nel Canton Zurigo, dove sono state fritte le prime patatine a marchio Zweifel, l’immagine della storica fattoria è ora presente sulle confezioni delle nuove chips.
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Politica e Economia
Prossima fermata: Giorgio Marincola Roma Sulla scia di Black Lives Matter, un piccolo movimento d’opinione ha proposto di rinominare una stazione
della metro C in costruzione. Sarà intitolata al partigiano nero che morì combattendo i nazisti in val di Fiemme Pietro Veronese La zona intorno a via dell’Amba Aradam a Roma, alle spalle della basilica di San Giovanni in Laterano, è da tempo sottosopra per la presenza di un grande cantiere. Sono i lavori della linea C della metropolitana: uno dei tanti miti romani che si spera possa un giorno, chissà, diventare realtà. Se tutto andrà bene, nel 2024 la città avrà una fermata della nuova metro chiamata per l’appunto «Amba Aradam».
Alla grande maggioranza degli italiani questo nome non dice alcunché. Eppure la decisione maturata nelle settimane delle recenti proteste antirazziste anche in Italia è una svolta importante, di rilevante significato politico Anzi, non più. Martedì 4 agosto l’Assemblea capitolina ha approvato – con l’appoggio della sindaca Virginia Raggi – una mozione che vincola l’Amministrazione cittadina a cambiare quel nome. Niente Amba Aradam: la stazione si chiamerà «Giorgio Marincola». Alla grande maggioranza degli italiani nessuno di questi due nomi – di luogo il primo, di persona il secondo – dice alcunché. Il primo è da tempo dimenticato dai più; il secondo nemmeno l’hanno mai sentito. Eppure la decisione di sostituire l’uno con l’altro, maturata nelle settimane recenti sulla scia del movimento Black Lives Matter e delle sue ripercussioni in Italia, è una svolta importante, di rilevante significato politico. Certifica l’opposta curva che la reputazione, l’eco dei due nomi percorre nella coscienza dei contemporanei. L’Amba Aradam, gruppo montuoso della regione del Tigrè, fu teatro a metà febbraio 1936 di una battaglia nel corso dell’aggressione fascista all’Etiopia. All’epoca venne celebrata in Italia come una grande vittoria, tacendo che era stata ottenuta con l’uso massiccio e indiscriminato di gas asfissianti proibiti dalla Convenzione di Ginevra. Ventimila morti tra combattenti e civili inermi abissini:
I lavori della fermata Amba Aradam, in zona archeologica, che sarà intitolata a Giorgio Marincola .
una strage, un crimine di guerra per il quale nessuno è mai stato processato. Il Negus, costretto all’esilio, denunciò l’accaduto dalla tribuna della Società delle Nazioni, attirando sull’Italia l’obbrobrio delle democrazie. Oggi gli italiani in massima parte non sanno o non vogliono sapere. Restano i nomi di strade e piazze in varie località del Paese e un’espressione, «ambaradàn», di cui s’è scordata l’origine e che sta a significare una gran confusione. All’epoca della battaglia Giorgio Marincola aveva 12 anni e mezzo e frequentava la scuola media a Roma. La sua esistenza, sia prima che dopo, non ebbe nulla dell’apparente banalità che sembrano indicare queste scarne notizie. E merita di essere raccontata, perché troppo pochi ancora la conoscono. Giorgio era nato in Somalia nel settembre del ’33. Suo padre Giuseppe era un maresciallo maggiore della Regia Fanteria; sua madre, Askhiro Hassan, era somala; la sua pelle era color caffellatte. Prendere una concubina del posto, per gli italiani che a vario titolo si trovavano nella colonia somala era, all’epoca, comportamento diffuso. Per niente diffusa, viceversa,
la scelta di riconoscere i figli nati da quelle unioni: ma Giuseppe Marincola volle comportarsi così, e li portò con sé in Italia. Giorgio, negli anni dell’infanzia, fu affidato a una coppia di zii che vivevano in Calabria e non avevano figli. La sorellina Isabella, di due anni più giovane, crebbe invece presso il padre e la moglie italiana che Giuseppe aveva nel frattempo sposato. Questa precoce separazione segnò le vite dei bambini: il maschio fu avvolto dall’affetto degli zii come fosse figlio loro; Isabella fu respinta dalla cattiveria e dai maltrattamenti di una matrigna che non l’amava. (La sua storia è narrata nel bel libro di Wu Ming 2 e Antar Mohamed Timira, pubblicato da Einaudi nel 2012, dal quale sono tratte la maggior parte delle informazioni qui riferite). Adolescente, Giorgio Marincola fu riunito alla sua famiglia a Roma. Negli anni del liceo, iscritto all’Umberto I, ebbe come insegnante di Storia e Filosofia Pilo Albertelli, al quale quello stesso istituto scolastico è oggi dedicato. Il professor Albertelli, partigiano, eroe della Resistenza, medaglia d’oro al valor militare, fu arrestato il primo marzo del ’44 mentre faceva
lezione, torturato, infine trucidato tra i martiri dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. A quel punto Giorgio, che nel frattempo aveva terminato le superiori e si era iscritto a Medicina, ne aveva già seguito l’esempio unendosi ai gruppi partigiani legati a Giustizia e Libertà attivi a Roma e nel Lazio. Nel giugno del ’44 i tedeschi lasciarono Roma e i compagni d’avventura di Giorgio, deposte le armi, si apprestarono a tornare all’università. Lui volle invece continuare a combattere: raggiunse la Puglia, dove ricevette una sommaria formazione da parte delle forze speciali alleate, e qualche settimana dopo fu paracadutato sul Biellese. Si unì alle formazioni partigiane di GL in Piemonte, finché non fu catturato. I fascisti repubblichini usavano costringere i prigionieri a lanciare appelli dalla loro emittente Radio Baita, affinché convincessero i compagni a deporre le armi. Messo davanti al microfono, Marincola pronunciò invece parole che andrebbero riportate su ogni manuale scolastico di storia: «Sento la patria come una cultura e un sentimento di libertà, non come un colore qualsiasi sulla carta geografica… La patria non è identificabile con
dittature simili a quella fascista. Patria significa libertà e giustizia per i popoli del mondo. Per questo combatto gli oppressori…». Così il giovane eroe fu consegnato ai tedeschi, che lo deportarono nel campo di transito di Gries, alle porte di Bolzano. Lì lo raggiunse la Liberazione, all’indomani del 25 aprile 1945. La guerra in Italia era finita ma ancora una volta Giorgio si mise a disposizione dei comandi militari di Giustizia e Libertà. Insieme ad altri cinque o sei ragazzi, fu incaricato di presidiare un bivio in località Stramentizzo in Val di Fiemme, poco a nord di Trento, sulla strada della ritirata delle colonne tedesche le quali, in base agli accordi di resa, avevano avuto concesso libero transito verso il loro Paese. Per evitare incidenti, la piccola unità partigiana aveva ricevuto ordine di non portare le armi: si trattava insomma soltanto di dirigere il traffico. Alle prime ore di una bella mattina di maggio, il giorno 5, una colonna di SS si presentò all’incrocio, preceduta da bandiere bianche. I soldati scesero dai camion e fecero fuoco. Poi procedettero verso il paese di Stramentizzo, seminando morte tra le case: fu l’ultima strage nazista in territorio italiano. L’episodio è stato variamente raccontato: sta di fatto che così finì la giovane vita di Giorgio Marincola, a 22 anni non ancora compiuti. Quando i comandi di GL ricevettero le prime confuse notizie dell’accaduto, furono informati che tra i morti c’era un ufficiale di collegamento americano: nessuno immaginava che un uomo dalla pelle nera potesse essere italiano. Da molti decenni Stramentizzo non esiste più: alla metà degli anni Cinquanta finì sul fondo del lago artificiale creato dalla diga costruita sul corso del torrente Avisio. A Marincola fu conferita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria; nel ’46 l’Università di Roma gli attribuì la laurea in Medicina honoris causa. Poi il suo nome finì nel dimenticatoio: una via a Biella, nelle cui vicinanze aveva combattuto; un’aula della scuola italiana a Mogadiscio, in Somalia, in seguito demolita. Nient’altro. Finché, piano piano, con una lotta sorda e ostinata per salvarne la memoria, si è tornati a parlare di lui: un libro, Razza partigiana, di Carlo Costa e Lorenzo Teodonio; l’aula di Scienze del liceo Albertelli di Roma, dove oggi ai ragazzi viene raccontata la sua storia. E, nel prossimo futuro, una stazione delle metropolitana, affinché i romani ricordino. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 agosto 2020 • N. 33
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Due ricerche sulle migrazioni di prossimità Da circa 50 anni il movimento migratorio è uno dei temi più discussi nell’agenda politica svizzera. A far parlare, naturalmente, sono le migrazioni internazionali con il loro corollario di aspetti positivi e negativi che vengono evocati ogni qualvolta l’elettorato deve recarsi alle urne per pronunciarsi su questo o quel decreto, su questa o quella modifica del regime di controllo vigente su questa o quella impossibile iniziativa popolare. Pochi sanno tuttavia – a meno che lavorino in un’azienda di traslochi – che accanto alle migrazioni internazionali esistono spostamenti di prossimità, ossia movimenti migratori su distanze che raramente superano i 25 chilometri, che, per numero, sono altrettanto importanti. E ancora meno sono coloro che sanno che la popolazione residente in Svizzera, pur contando
tra le sue file moltissime persone ostile ai movimenti migratori, è largamente formata da persone mobili che, almeno una volta, nel corso della loro esistenza, hanno cambiato il proprio comune di domicilio. Se è così è perché questi movimenti migratori sono formati, come si è detto, da migrazioni di prossimità che, da quando Napoleone, nel 1803, decise di introdurre nel nostro paese la libertà di circolazione per i suoi cittadini, non sollevano praticamente più nessuna discussione. Al massimo questi movimenti interessano gli statistici e i ricercatori del sociale che vogliono stabilirne l’importanza e, se del caso, ricercarne anche le cause. Due interessanti ricerche, pubblicate nell’ultimo numero di «Dati» cercano di ricostruire le caratteristiche principali di questo tipo di movimenti. La prima di Lisa Bottinelli e Danilo Bruno
fa il bilancio dei movimenti migratori intracantonali nella seconda decade di questo secolo, più precisamente nel periodo 2010-2018. La seconda, di cui sono autori Matteo Borioli e Vincenza Giancone descrive l’evoluzione delle migrazioni transfrontaliere – tra i comuni ticinesi e quelli delle regioni italiane – negli anni tra il 2015 e il 2018. Pur essendo state sviluppate in modo del tutto autonomo, le due analisi in un certo senso si compendiano e certamente rappresentano un grande aiuto per chi vuole comprendere la grande complessità del mondo delle migrazioni di prossimità. Per lo studio dei movimenti migratori interni, il territorio del Cantone è stato suddiviso in 6 aree ossia gli agglomerati di Lugano, Bellinzona, Locarno, e Chiasso-Mendrisio, la Regione Tre Valli (Leventina, Blenio e Riviera) e il
Locarnese non urbano. Sono stati però analizzati anche i movimenti interni agli agglomerati (che sono, numericamente parlando, gli spostamenti più importanti) suddividendo il territorio di ogni agglomerato in città, comuni di prima corona e comuni di seconda corona. Ovviamente, nelle poche righe di questa presentazione non possiamo restituire la ricchezza e la qualità delle informazioni contenute in questa ricerca. Ci limiteremo a ricordare che nel periodo analizzato si sono registrati circa 100’000 cambiamenti di domicilio (spostamenti da un comune a un altro) generati da 76’000 migranti. Chi sono queste persone alla ricerca di un nuovo domicilio? Si tratta, soprattutto, di giovani tra i 25 e i 30 anni o di neonati, il che suggerisce che la modifica nella composizione del nucleo famigliare è una tra le cause più importanti
delle migrazioni di prossimità. Due parole, per terminare, sulla seconda ricerca, quella che concerne le migrazioni transfrontaliere. Due sono, nel contesto del nostro articolo, le regioni interessanti, la Lombardia e il Piemonte. Nel periodo analizzato, i migranti da e per quelle regioni sono stati circa 3’500 all’anno. Anche in questo caso, dunque, si tratta di effettivi importanti. Operando con medie annuali e aggiungendo i movimenti transfrontalieri a quelli intracantonali, possiamo poi constatare, e questo sarà l’ultimo dato che dedurremo dalle due ricerche, che le migrazioni di prossimità sono formate in Ticino per i ¾ da movimenti all’interno del Cantone, in particolare all’interno dei suoi agglomerati urbani e per ¼ da movimenti con i comuni – probabilmente vicini alla frontiera – delle regioni Lombardia e Piemonte.
di solito è il capo di questo genere di attività. Anche le persone coinvolte nel Lincoln Project lo fanno diventare matto. Tra tutti spicca George Conway, che è il marito di Kellyanne Conway, la quale è una trumpiana in via d’estinzione: è una tra i pochissimi della Casa Bianca a essere sopravvissuta dal 2016 a oggi. Kellyanne non si è mai stancata di difendere Trump e allo stesso tempo è riuscita a mantenere in piedi il proprio matrimonio. Come abbia fatto a sopravvivere al presidente (furioso) e al proprio marito contemporaneamente è un mistero, anche perché se lui oggi sa bene dove e come colpire Trump è perché ha ascoltato con attenzione (interessata) i racconti della moglie, forse anche qualche sua conversazione. Il mistero di casa Conway è appassionante ma ancora di più lo è la capacità di questo progetto di creare, dal nulla, quell’unità che il Partito democratico da solo non è riuscito a creare. Alle pressioni del Lincoln Project
si sono aggiunte altre dinamiche. I sondaggi, prima di tutto, che danno Trump in notevole calo. Nessuno vuole fidarsi ciecamente delle rilevazioni, anche perché la campagna elettorale del presidente ripete che sono tutte sbagliate e nel 2016 aveva avuto ragione, ma la gestione della pandemia ha creato un’inversione di tendenza del consenso a Trump anche nel suo elettorato. S’è perdonato di tutto al presidente, in questi quattro anni, lo hanno fatto gli elettori che parevano immuni a qualsiasi genere di ripensamento, e lo ha fatto il Partito repubblicano, ma la gestione altalenante (eufemismo molto grosso) dell’emergenza sanitaria ha contribuito a cambiare la percezione del «successo» del presidente. È per questo che anche i repubblicani che fino a ora avevano dato il loro sostegno a Trump ora iniziano a fare i loro calcoli: si vota anche per il Congresso, per il Senato e per alcuni governatori a novembre, e il trumpismo potrebbe diventare nocivo.
I calcoli di questo tipo rischiano sempre di essere tardivi ed errati. Ma la speranza di formare un blocco trasversale anti Trump non è mai stata tanto alta, visto che a dissociarsi dal presidente non sono soltanto i nemici interni o i politici che cercano conferme elettorali, ma soprattutto i donatori. Il pericolo che attorno a questa speranza si stia creando una bolla esiste e crescerà con il tempo: quel che è virale sui social non è detto che sia virale poi nelle urne, anzi. Il nervosismo di Trump è palpabile, si sta preparando alla sconfitta dicendo che le elezioni saranno piene di brogli e con tutta probabilità l’esito elettorale non ci sarà la notte del 3 novembre, a causa del grande voto via posta. Quel periodo sarà molto complicato. Ma intanto il Lincoln Project si gode le risate, ancora più forti e appassionanti se si pensa che il Partito democratico con Joe Biden ha scelto una strategia opposta: stare fermi, affidarsi a Barack Obama, aspettare che Trump cada da solo.
ghi del CdT) riguardante una mostra in allestimento alla Pinacoteca Züst di Rancate sino a ottobre: uno sguardo completo sulla pittura espressionista di Jean Corty. Primo input: Rancate, bel paesotto che nonostante le stimmate viarie mantiene atmosfere di ruralità ticinese e conserva una preziosa pinacoteca. Secondo impulso: una mostra capace di cogliere l’anima autentica di un artista emarginato e trascurato per oltre mezzo secolo. Corty non era proprio un «maudit», ma di sicuro un artista perseguitato da quel «maledettismo» che contrassegnò anche gli ultimi anni di Van Gogh: figlio di emigranti, ritornò in Ticino poco più che ventenne negli anni Trenta per essere purtroppo ospite più del manicomio di Mendrisio che di altri luoghi. Terzo e ultimo spunto: la disponibilità sia di chi un tempo ha aiutato o comunque ascoltato un artista sfortunato comprandogli le sue opere, sia di curatori d’arte impegnati a salvaguardare le radici di un rinascimento culturale. Il collegamento fra
quei tre punti, cioè il paese defilato, il pittore minore e l’impegno prolungato, non presenta forse tutta una serie di «emozioni» indicative anche per altre offerte di nicchia? L’incentivo per la natura lo trovo nientemeno che in Hermann Hesse. O più precisamente: in un notevole saggio del geografo luganese Claudio Ferrata sulla «fabbricazione» di un’ideale paesaggio turistico in cui venivano riportato i giudizi dello scrittore tedesco su quanto i turisti trovavano a sud delle Alpi nel periodo fra le due guerre del secolo scorso. Nel breve racconto Die Fremdenstadt im Süden, pubblicato nel 1925, Hesse accennava a una «città per stranieri» e a una «urbanità meridionale» capaci di soddisfare le esigenze e le aspirazioni etiche ed estetiche dei visitatori di allora, quindi di un nuovo modo di fare villeggiatura, lontano da certe «cineserie» utili solo al turismo di massa. Citando Lugano e i suoi dintorni, Hesse scriveva: «Questa città è una delle iniziative più divertenti e redditi-
zie dell’ingegno moderno. La sua nascita e installazione si basa su una sintesi geniale che può essere stata concepita solo da conoscitori molto profondi della psicologia degli abitanti della metropoli (…) Questa creazione realizza infatti in modo ideale, perfetto, ogni desiderio di vacanza e natura dell’individuo metropolitano medio». Ma c’è di più: per lo scrittore di Montagnola il turista che sceglie il Ticino «esige anche compagnia, esige igiene e pulizia, esige una atmosfera cittadina, esige musica, tecnica, eleganza, si attende una natura del tutto sottomessa all’uomo e da lui rimodellata, una natura che gli dia stimoli e illusioni ma anche sia docile e non gli chieda niente, nella quale potersi trapiantare con tutte le sue abitudini metropolitane, le sue usanze ed esigenze». Suggerimenti attualissimi, di grande aiuto per un Ticino turistico che fra due guerre (sia pure minori: crisi economica e emergenza sanitaria) torna a cercare nuovi «momenti» per donare nuove «emozioni».
Affari Esteri di Paola Peduzzi Il fuoco repubblicano del LP
Wikimedia
Il Lincoln Project ha una creatività e un’inventiva che ricordano Led By Donkeys, l’idea di quattro amici al pub che diventò una campagna nazionale di cartelloni contro la leadership britannica durante il negoziato sulla Brexit: la ricorderete, finì con un video di saluto all’Europa proiettato sulle mitiche scogliere di Dover, nella notte dell’uscita del Regno. Ma il Lincoln Project non è l’improvvisazione di un gruppo di amici, è il progetto fondato
da repubblicani che non vogliono la rielezione di Donald Trump (foto), e quindi fa più male perché ogni giorno – a volte ogni ora – mette il dito nella grande frattura politica e ideologica creata dal trumpismo nel mondo conservatore. Il presidente ha alimentato una lotta diretta tra amici e nemici (scelti da lui) e certo il Lincoln Project è tra i nemici, ma appunto: gli ex amici fanno più male dei nemici di sempre. Il Lincoln Project ha avuto molto successo con la sua sfacciata campagna online contro Trump (divertente e affilatissima anche) perché in questa tornata elettorale così polarizzata, si sta cercando di creare un fronte trasversale per impedire al presidente di ottenere un secondo mandato. I video virali e i tweet che prendono in giro la leadership di Trump, la sua intelligenza e il suo patriottismo hanno permesso al Lincoln Project di raccogliere molti fondi, da parte di donatori sia repubblicani sia democratici. Il presidente si infuria, perché si sente trollato, lui che
Zig-Zag di Ovidio Biffi Tornare a donare emozioni Su «Il Sole 24 Ore» del 1. agosto mi colpisce questa frase: «Non si ha davvero idea di quale ecatombe di posti di lavoro e imprese stia avvenendo nel turismo, né di quella che avverrà nel 2021». Immagino che qualche timore aleggi anche sul futuro del turismo cantonale, nonostante gli sforzi che l’Agenzia turistica ticinese sta compiendo, supportata da istituzioni e dai settori imprenditoriali dei commerci e dei servizi. Al di là di aiuti, sussidi e garanzie già approntati per superare la pandemia, la domanda che conta riguarda la capacità di attrarre ospiti e di rimettere in moto un settore zavorrato da un trimestre di forzata inattività. Il filone più gettonato della campagna promozionale è lo «stay at home», con BancaStato in esemplare ed encomiabile evidenza a movimentare ristoranti e alberghi grazie alla forza del suo «Vivi il tuo Ticino». Ma anche altri cantoni e una miriade di località turistiche estere ancor più competitive (i prezzi austriaci o le spiagge italiane
sono difficili da concorrenziare...) stanno insistendo sullo stesso richiamo, rafforzato spesso con il prefisso «eco» a conferma che nel marketing un po’ di «eco-qualcosa» è sinonimo di successo sul piano mediatico. Gettando un’occhiata a una dozzina di queste promozioni alla ricerca di potenziali incentivi utili anche da noi, ci si accorge che in prevalenza si orientano verso due sole nicchie: arte e natura. Inizio dall’arte, chiedendomi se in Ticino sia possibile scoprire qualcosa di nuovo e genuino sotto il profilo artistico, da potenziare e da offrire come attrazione turistica. Provo a immaginare la risposta tenendo come guida la scritta sotto il logo dell’Agenzia («piccoli momenti / grandi emozioni») e mi accorgo che il motto diventa più accessibile semplicemente rovesciandolo: possono essere le «piccole emozioni» a dare vita a «grandi momenti». Ricordo che in piena crisi sanitaria avevo trovato potenziali suggerimenti per il turismo in un articolo (di Matteo Aira-
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 agosto 2020 • N. 33
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 agosto 2020 • N. 33
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Cultura e Spettacoli Nel paese degli altri L’ultimo romanzo della scrittrice franco-marocchina Leila Slimani su sradicamento, esilio e disillusione
Ritratto di giovane uomo Fra le opere d’arte scomparse e mai ritrovate, il celebre dipinto di Raffaello Sanzio, andato perduto nell’ultima guerra mondiale
Addio a Gianrico Tedeschi Scomparso all’età di 100 anni, di cui 70 a calcare le scene, uno dei più grandi attori italiani pagina 33
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Verso un nuovo futuro Orfano dei coniugi Dimitri, il Teatro di Verscio viene affidato al figlio David, mentre l’Accademia trasloca a Losone
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La Svizzera del passato ricomposta Musei all’aperto Visita al Museo
Ballenberg a Hofstetten, nell’Oberland bernese, uno degli esempi più illustri in Europea del suo genere
Ada Cattaneo Quest’estate sembra arrivato il momento opportuno per una visita al museo all’aperto Ballenberg di Hofstetten, fra Brienz e Meiringen, a qualche chilometro da Interlaken. Non siamo gli unici ad avere avuto quest’idea. Tra gli altri, un amico, con lieve ironia, mi dice che dedicherà le vacanze estive a quei luoghi che «ogni svizzero dovrebbe vedere almeno una volta nella vita»: il circuito non potrà trascurare lo Jungfraujoch, con il ghiacciaio dell’Aletsch, la Cappella Tell a Sisikon, il prato del Grütli ed infine il Freilichtmuseum Ballenberg. Una specie di pellegrinaggio laico in formato elvetico. Personalmente ritengo non trascurabile che la gita al Ballenberg coniughi qualcosa di attrattivo per i bambini con gli interessi culturali dei genitori. Perciò i piccoli visitatori vengono motivati con proposte di giri in giostra, corse in carrozza, o l’osservazione di ruote di mulini in funzione, mentre sono omesse con cura le finalità di studio. Il Ballenberg infatti è certamente uno dei casi più emblematici della museologia svizzera, oltre che un passaggio obbligato della storia internazionale dei musei all’aperto. Una vicenda che spesso scaturisce dal tentativo di singoli personaggi di salvaguardare un contesto a repentaglio, che rischia di essere compromesso o addirittura del tutto cancellato. Capostipite di questo mondo e caso esemplare è lo Skansen di Stoccolma, aperto nel 1878 grazie all’idea di Artur Hazelius, maestro di scuola, appassionatosi ai temi del folklore e già fondatore del più tradizionale Museo Nordico di Stoccolma. In un secondo tempo Hazelius si accorge però che ci sono interi edifici – la prima è una torre campanaria – ad avere bisogno di tutela. Sono veri e propri documenti che non possono andare persi sulla via per la modernità poiché nella loro collocazione originale hanno perso la loro funzione. Quindi, già ne-
gli anni Novanta dell’Ottocento la collina su cui sorge il Museo Nordico – lo Skansenberget – è la nuova ambientazione di case tradizionali acquistate in tutto il paese e poi ricostruite lì, a Stoccolma. In un secondo tempo arrivano intere fattorie, mulini, officine. Tutto viene corredato dai mobili e dagli utensili originali. Un elemento fondamentale del progetto era inoltre il rapporto con la natura, cosicché si riportava la vegetazione locale che circondava questi edifici nel loro ambiente originale, si creavano fiumi e stagni, oltre a portare renne, bestiame da allevamento, alveari e altri animali. Si doveva avere l’impressione di «sgattaiolare in casa, mentre i padroni erano usciti per un attimo». La formula ha immediatamente fortuna, dapprima negli altri Stati nordici e in seguito altrove. Ben presto tutte le capitali dei paesi limitrofi si dotano di un proprio museo all’aperto: Copenhagen nel 1897, Kristiania (Oslo) nel 1902 e Helsinki nel 1907, sull’isola di Seurasaari. In altri paesi, sulla via dello storicismo, si era già tentato di ricreare interi contesti del passato: è per esempio il caso del borgo medievale al Parco del Valentino di Torino, dove erano stati eretti edifici nei vari stili architettonici tipici dei castelli piemontesi e valdostani del XV secolo, in occasione dell’Esposizione generale italiana del 1884. Ma i casi nordici si discostavano da questi tentativi per due elementi fondamentali: la tutela degli edifici originali e una visione d’insieme del contesto nazionale. Nei decenni successivi, in alcuni paesi l’idea fu purtroppo messa al servizio delle idee nazionaliste, tanto che anche il Nazionalsocialismo tedesco si sarebbe servito di questa fonte per celebrare le origini ariane e le «sane tradizioni di una volta» al Museumsdorf di Cloppenburg, che veniva regolarmente usato per raduni di partito. È invece negli Stati Uniti che l’idea degli open-air museums ha uno svilup-
Dal 22 maggio il laboratorio di tessitura ha ripreso la sua attività, dopo i mesi di lockdown. (Keystone)
po interessante nel periodo fra le due guerre: qui furono i capitali privati a permetterne la creazione e l’accento fu messo sull’interpretazione piuttosto che sulla conservazione. A tutt’oggi, in molte di queste istituzioni vengono impiegati attori per l’«historical reenactment» di vicende o di stili di vita del passato. Il fine educativo e la costituzione di un comune senso nazionale prevalsero fin da subito. Un esempio emblematico è il Greenfield Village, poco fuori Detroit, fondato nel 1929 da Henry Ford: nato per salvaguardare la fattoria della sua infanzia, in un secondo tempo si trasformò in un vero centro per raccontare la vita in America sin dai tempi dei primi coloni. I museologi europei in visita rimasero estasiati davanti all’inarrivabile chiarezza di presentazione e alla capacità di coinvolgere ogni tipo di pubblico. Altro stile, ma uguali finalità, per il museo all’aperto di Colonial Williamsburg, finanziato da un altro grande magnate americano, John D. Rockefeller, che rievocava il periodo della guerra d’indipendenza.
Dal periodo post-bellico in poi i musei all’aperto conoscono un sempre più rapido sviluppo ed è in questa fase che si inserisce il Ballenberg. Benché proposte per un’istituzione simile fossero già state fatte nel periodo fra le due guerre, fino agli anni Sessanta non ricevettero molta attenzione, anche perché le autorità cantonali per la cura dei monumenti e le associazioni per la protezione della memoria rurale del paese preferivano che gli edifici significativi venissero conservati in loco. Sostenevano che la Svizzera era sufficientemente piccola per permettere a chi lo desiderava di viaggiare da un punto all’altro del paese per osservarne le diverse tradizioni. Fu lo storico dell’architettura vernacolare Max Gschwend – peraltro autore di un importante studio sulla Val Verzasca – ad impegnarsi per superare queste opposizioni. Sarà lui il primo direttore scientifico dell’istituzione, a partire dalla fondazione nel 1968, anche se l’apertura avverrà solo dieci anni dopo. Oggi il Ballenberg merita senza dubbio una visita. Ogni regione si trova
rappresentata con edifici che sono stati accuratamente smontati e ricostruiti come da originale: lo spazio dedicato al Ticino è considerevole. D’altronde, la collocazione a Hofstetten, nel centro esatto del paese, non è affatto casuale, ma voluta per sottolineare che l’istituzione rappresenta l’intera Svizzera. Forse però l’aspetto più interessante del Ballenberg, che lo distingue rispetto ad analoghi luoghi in altre nazioni, è il centro dell’artigianato, dove tutti i giorni è possibile seguire corsi nei più svariati ambiti, dalla costruzione di muri a secco a quella di sci e snowboard, dalle coperture lignee a scandole alla raccolta delle erbe selvatiche. Questa commistione fra tradizioni del passato e contemporaneità è davvero l’elemento che oggi rende più vitale il Ballenberg ed è forse un insegnamento che il turismo in Ticino potrebbe trarre dalle istituzioni della Svizzera Centrale. Aspetti della nostra cultura e del nostro saper fare che ci paiono inutili stereotipi potrebbero forse così essere convertiti in interessanti aspetti da riscoprire per noi e da svelare ai turisti.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 agosto 2020 • N. 33
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Cultura e Spettacoli
Sradicamento, esilio, disillusione
Libri Intervista con la scrittrice franco-marocchina Leila Slimani sul suo ultimo libro, Nel Paese degli altri
Blanche Greco È stato pubblicato in Francia lo scorso marzo (ha venduto più di centoventimila copie in un mese), il libro destinato a far discutere i Francesi ancora per molto, è: Nel Paese degli altri di Leila Slimani, trentanovenne franco-marocchina diventata in pochi anni una «penna da bestseller» e una voce originale della società multiculturale parigina, apprezzata anche in Marocco.
Nel Paese degli altri, un vasto affresco con tratti epici popolato di personaggi iconici, è una trilogia e in Francia questa prima parte ha un sottotitolo esplicito ed eloquente: «La guerra, la guerra, la guerra» Premio Mamounian nel 2006 con Il giardino dell’orco; premio Goncourt nel 2016 con Ninna Nanna, Leila Slimani, il cuore schierato dalla parte delle donne e lo sguardo penetrante posato sull’attualità, ha pubblicato anche il saggio I racconti del sesso e della menzogna, sulla vita sessuale delle donne marocchine e Il diavolo è nei dettagli, quasi un pamphlet sull’integralismo e la religione a seguito dei sanguinosi attentati del 2015 in Francia. Adesso con Il paese degli altri (La nave di Teseo) si lancia nei meandri di una saga familiare che la riporta in Marocco, suo paese natale, a tu per tu con la storia coloniale e con quella di sua nonna: Anne Ruetsch, giovane alsaziana, alta, bionda, con gli occhi azzurri, che per amore di un soldato marocchino nel 1946, lasciò la Francia per Meknès. «Questo libro nasce dalla mia esigenza personale di esplorare quella sensazione di estraneità che mi
Scrittrice da bestseller, ha vinto nel 2006 il Premio Mamounian e nel 2016 il Premio Goncourt. (Keystone)
colpisce in Francia come in Marocco. L’idea di essere una sorta di ibrido, di meticcio, mi ha sempre accompagnato, facendomi sentire ovunque straniera, qualcuno che vive nel “paese degli altri”. Poi ho capito che era un sentimento che faceva parte della nostra famiglia, qualcosa iniziato con il matrimonio dei miei nonni.» – Ci ha scritto in un intervista a distanza Leila Slimani – «È nata così Mathilde, la mia protagonista ventenne che sposa Amin, il suo esotico amore incontrato durante la Seconda Guerra Mondiale tra i francesi delle truppe di Liberazione, e lo segue in Marocco. Volevo raccontare una storia di sradicamento, di esilio e di disillusione, soprattutto quando Mathilde si ritrova immersa in una
realtà ben diversa da quella dei suoi sogni adolescenziali. Le vicende di mia nonna e la sua vita sono state lo spunto iniziale, ma il romanzo, è totalmente frutto della mia fantasia, salvo per alcuni aneddoti che fanno parte del bagaglio familiare e che riguardano anche la paura, il razzismo e la vergogna, sensazioni che mia madre e mia nonna hanno vissuto sulla loro pelle». Nel paese degli altri è una trilogia e in Francia, questa prima parte ha un sottotitolo esplicito quanto eloquente: «La guerra, la guerra, la guerra», sottile citazione di Via col Vento che, come ci ha raccontato Leila Slimani, assieme a Novecento di Bertolucci, sono stati i film che l’hanno più influenzata nel costruire un romanzo dallo stile evo-
cativo che sin dall’inizio progredisce per immagini. Se l’incontro fatale tra Mathilde e Amin avviene sullo sfondo del vasto conflitto europeo, è in un Marocco già percorso da rigurgiti indipendentisti che proseguono le loro peripezie. E mentre la famiglia cresce, la quotidianità diventa una continua battaglia che porta a galla tutto ciò che li separa: cultura, regole sociali, abitudini alimentari e desideri. Intanto, nel paese divampa la guerra d’indipendenza e loro, «ibridi e irregolari», si ritrovano circondati da diffidenza e odio. È il 1956, il primo libro si conclude con la fine del vecchio protettorato francese e l’indipendenza del Marocco. Il Paese degli altri è un vasto
affresco a tratti epico, popolato di personaggi iconici: dai ricchi e sprezzanti coloni francesi; al medico ebreo ungherese; a Selma, la giovane cognata di Mathilde, infantile, spavalda, un po’ Rossella O’Hara, che sogna un amore proibito; a Murad soldato marocchino che ha combattuto per la Francia ovunque, sino in Indocina; all’intransigente Omar forse più voglioso di mettersi in mostra che di indipendentismo. Leila Slimani fa rivivere con abilità il Marocco degli anni ’30 del Novecento, pieno di dolcezza, tollerante, suggestivo, all’apparenza un fascinoso ed esotico spicchio di Francia dove s’incrociano italiani, greci, russi, spagnoli, ebrei, rifugiati e avventurieri approdati in una terra promessa che sotto la superficie nasconde pregiudizi, divisioni e crudeltà. «Mio nonno marocchino ha combattuto per il paese degli altri e poi è tornato a casa in un paese dominato da altri. Mia nonna, francese, si è ritrovata a vivere nel paese degli altri, ma anche le donne marocchine sottomesse a regole arbitrarie, vivevano nel paese degli altri, cioè quello degli uomini.» – E ci ha spiegato l’autrice – «Per questo ho voluto calarmi nei vari personaggi e sposare il punto di vista di ognuno di loro, anche quando il loro modo di agire arriva alle estreme conseguenze. Voglio turbare il lettore portandolo da un essere umano all’altro e farlo riflettere.» Uno stratagemma narrativo, o una spasmodica ricerca di equidistanza? Forse la voglia, se non di giustificare il modo di agire di ognuno dei protagonisti, comunque sempre di spiegarli, perché questa saga destinata nei prossimi libri ad avvicinarsi sempre più ad epoche recenti, se per noi è una storia interessante e insolita, in Francia e in Marocco rischia di sollevare aspre polemiche e controversie su fatti storici, politici, religiosi oltre che sul posto nella società francese dei cittadini di origine marocchina, sino alle «ragioni del cuore» che muovono i nostri eroi.
Ridere in tempi di pandemia
LongLake Come raccontare con ironia l’esperienza del lockdown: incontro con Paolo Cevoli, comico romagnolo
Enrico Parola «Penso proprio che noi romagnoli siamo stati tra le categorie più colpite dal lockdown». L’affermazione, autorevole, è di un romagnolo doc, anzi, di colui che la regione Emilia-Romagna ha scelto come testimonial: Paolo Cevoli. Però il motivo che adduce non è il crollo del turismo causa Covid: «Sa che cosa ha voluto dire per noi evitare gli assembramenti? Noi proprio non ce la facciamo: se parliamo con una persona dobbiamo almeno metterle una mano sulla spalla, se stiamo passeggiando la prendiamo anche sottobraccio, se si rimane distanti sembra che ci si stia antipatici. Per noi la vita è una gita, va sempre vissuta in compagnia: qui si mangia perché si è felici, il divertimento è una religione, siamo i terroni del Nord, ma lavoriamo tanto e di solito ci lamentiamo poco». Infatti proprio durante il lockdown l’Emilia Romagna gli ha commissionato la serie Romagnoli dop, dove il comico divenuto famoso a Zelig grazie ai monologhi surreali di Cangini Palmiro, assessore delle attività varie ed eventuali del comune di Roncofritto, illustra con la sua acuta ironia i vizi e i difetti dei
Vizi e difetti dei romagnoli, nell’ultimo spettacolo che gira l’Italia. (Paolo Cevoli)
romagnoli. Ne è nato uno spettacolo che sta portando in giro per l’Italia e non solo: giovedì scorso «la lingua più parlata dopo l’inglese nei paddock del Motomondiale» è risuonata alle Terrazze Foce, per la gioia del pubblico
del LongLake che ha imparato i tre ingredienti fondamentali del romagnolo verace: «Sburonaggine: l’essere sboroni, il voler sempre dimostrare di essere di più e di avere di più. Pataca: l’essere maldestro e un po’ coglione. Ignoran-
tezza: non è sinonimo di ignoranza, è il mettersi a fare le cose prima ancora di sapere come si fanno». Tra tante risate, non poche riflessioni. Cevoli, figlio di albergatori di Riccione, laurea in giurisprudenza e un discreto successo imprenditoriale prima di darsi completamente allo spettacolo, negli ultimi anni ha unito il sacro e il profano con spettacoli (e poi libri) in cui fa ridere e riflettere su storia, fede e arte: basti pensare a La penultima cena, Il sosia di lui (che sarebbe Mussolini), Perché non parli (dove è Cencio, apprendista muto nella bottega di Michelangelo) o la Bibbia. E così anche in questo tour estivo non mancano riferimenti a come lui ha vissuto questi mesi: «Il lockdown mi ha colto nel mezzo della tournée con La sagrada famiglia. Non è stato facile fermarsi senza sapere quando si sarebbe ripreso, però si è rivelato un periodo intenso e pieno. Non vorrei dire di aver vissuto questo come una sfida perché è ormai una frase abusata, ma è andata proprio così. In 34 anni di matrimonio non avevo mai vissuto a così stretto contatto con mia moglie e non avevamo mai giudicato così da vicino il lavoro l’uno dell’altro; è stato un tempo di splendida fioritura seppur non sen-
za spine, nello spettacolo lo racconto a modo mio. Mia moglie ha un atelier di vestiti da sposa in centro a Bologna e ha dovuto decidere se chiudere e mettere in cassa integrazione le sue cinque sarte o tenere duro: ha iniziato a produrre mascherine di alta qualità. Anch’io ho dovuto reinventarmi: nello staff c’è gente di Milano, Bologna e Rimini, mai fatta in vita nostra una callconference, ora invece siamo esperti di zoom. Poi la serie video sui Romagnoli dop e la Bibbia, e ne ho iniziata un’altra che chiamerò Capriole: storie di gente che già prima del Covid aveva vissuto il suo lockdown, perdendo il lavoro o l’azienda, sbagliando e finendo in carcere. Però queste cadute hanno rappresentato per loro la possibilità di una risalita, quasi di una rinascita. Per questo il titolo Capriole: come Dante che arrivato in fondo all’Inferno fa la capriola, si ribalta di 180° e torna a rivedere le stelle». Ora Cevoli sta tornando a rivedere il pubblico: «Da una parte fa tristezza non vedere i soliti assembramenti di pubblico, vedere la gente distanziata; però c’è un coinvolgimento straordinario, profondo, raro, e questo è bellissimo: la gente ha bisogno di alzare lo sguardo».
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Cultura e Spettacoli
Quel ritratto perduto
Opere scomparse e mai ritrovate/3 Il celebre dipinto di Raffaello
Sanzio, Ritratto di giovane uomo, di cui si sono perse le tracce nella seconda guerra mondiale, ha una storia ricca di peripezie Emanuela Burgazzoli Nel film The Monuments Men si racconta la vicenda della task force degli alleati incaricata di recuperare le opere d’arte saccheggiate durante la Seconda Guerra mondiale dai nazisti; in una delle sequenze finali appare il Ritratto di giovane uomo di Raffaello avvolto dalle fiamme all’interno di una miniera, che dovrebbe essere quella di Altaussee nell’alta Austria, il più grande deposito di opere d’arte del Terzo Reich scoperto casualmente nel maggio del 1945 dai «monuments men». Da quel nascondiglio, che ha rischiato davvero di andare distrutto, furono recuperati capolavori come la Madonna di Bruges di Michelangelo, il Polittico dell’Agnello mistico di Gand di Van Eyck e L’astronomo di Vermeer. Ma in realtà il «giovane uomo» di Raffaello – un dipinto a olio di 75 x 59 cm– che figura oggi nel catalogo nazionale polacco delle opere d’arte andate perdute durante la guerra, con il numero di inventario V-239, non si trovava lì e nulla prova che sia andato distrutto. La storia del dipinto – realizzato probabilmente attorno al 1513-1514 da Raffaello Sanzio, all’apice della sua carriera a Roma – si intreccia dal XIX secolo con altri due capolavori: La Dama con l’ermellino di Leonardo e Il paesaggio con il buon samaritano di Rembrandt. Sono i principi polacchi Adam Jerzy Czartoryski e suo fratello Augustyn Jozef a comprare il «giovane
uomo» a Venezia nel 1801 dalla famiglia Giustiniani e a portarlo in patria, dove entra nella collezione di famiglia, iniziata dalla madre, la principessa Izabela Czatoryska che fonda di fatto il primo museo della Polonia nel 1809, a Pulawy. Da allora però il dipinto ha un destino avventuroso; dapprima è minacciato dalle insurrezioni anti-zariste del 1830 che costringono gli aristocratici Czatoryski a mettere al sicuro le opere d’arte nel loro palazzo di Sieniawa; nel 1848 i moti rivoluzionari porteranno Adam Jerzy in esilio a Parigi, dove il dipinto prende la strada di Londra, nella capitale inglese resta tre anni (con l’intenzione di essere rivenduto in Germania), prima di tornare a Parigi. Il ritratto di Raffaello e la collezione di famiglia tornano in Polonia con il figlio di Adam, il principe Wadyslaw, che sceglie il palazzo reale di Cracovia come sede della sua residenza e del nuovo museo d’arte; nel 1876 nasce infatti il Museo Czatoryski. Con la prima guerra mondiale i tre capolavori sono di nuovo in pericolo e vengono così prestati alla Gemäldegalerie di Dresda, dove restano fino al 1920. Nel 1939, alla vigilia della Seconda guerra mondiale e dell’invasione tedesca, i proprietari sono costretti a mettere in salvo di nuovo la collezione e i tre dipinti in un luogo segreto a Sieniawa, dove però sono alla fine scoperti dai nazisti; spediti a Berlino, i tre capolavori avrebbero dovuto arricchire il monumentale museo personale di Hit-
ler di Linz, mai costruito. Ma finiscono invece nelle mani di Hans Frank, il governatore tedesco della Polonia occupata, che li custodisce nel castello reale di Wawel a Cracovia, fino alla sua fuga nel gennaio del 1945; inspiegabilmente Frank scappa portando con sé soltanto il Leonardo e il Rembrandt, qualche mese dopo recuperati dalle forze alleate e ancora oggi i fiori all’occhiello della Collezione Czatoryski, acquisita nel 2016 dallo Stato polacco per 100 milioni di euro e ora parte integrante del Museo nazionale di Cracovia. Ma che fine avesse fatto «il giovane uomo» di Raffaello nessuno lo sa; sarebbe forse una delle centinaia di opere d’arte scomparse in quei mesi, forse finite in mano a facoltosi collezionisti privati. A nulla sono valsi i ripetuti tentativi di recuperare il dipinto, di cui è stata controversa per anni l’attribuzione, come pure l’identità del modello; le ricerche erano anche ostacolate dal nuovo assetto geopolitico dell’Europa, con la Polonia al di là ormai della Cortina di ferro. I tentativi di risanare la più grave ferita inferta al patrimonio artistico polacco riprendono dopo la caduta del muro di Berlino; nel 2012 suscita scalpore un annuncio del Ministero degli esteri secondo cui il dipinto si troverebbe «in un paese le cui leggi sono favorevoli alla sua restituzione», senza specificare tuttavia quale. Affermazione poi subito smentita. Dal Museo nazionale di Cracovia,
Raffaello lo realizzò attorno al 1513-1514. (Wikipedia)
Dominik Budny ci conferma in una email che «sì, Il Giovane uomo di Raffaello è tuttora “perduto” e che la cornice originale vuota è appesa alle pareti del museo, ma che quest’ultimo non ha offerto nessuna ricompensa per la sua restituzione», non escludendo però che possano farlo il Ministero della cultura polacco e il Patrimonio nazionale. Si stima che il dipinto oggi potrebbe valere fino a 100 milioni di dollari. Ma questo ritratto che è considerato da molti (e per inciso fra i primi a ipotizzarlo figura lo storico dell’arte svizzero Jakob
Burckhardt) il ritratto ideale dell’uomo del Rinascimento, raggiunto grazie alla perfezione formale, all’armonia compositiva e all’equilibrio cromatico, rappresenta soprattutto una perdita, questa sì inestimabile, per il patrimonio mondiale. Nel frattempo quel giovane uomo dai tratti androgini, dai sontuosi abiti e sicuro di sé – che è stato copiato e riprodotto e ha esercitato una notevole influenza sulla ritrattistica - con il suo sguardo obliquo e ironico sembra farsi gioco di noi. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Cento anni di vita, settanta di teatro In memoria Se ne è andato Gianrico Tedeschi, «grande vecchio» della scena italiana
Giovanni Fattorini Inclini all’enfasi e all’iperbole, molti dei giornalisti che in Italia si occupano a vario titolo di arte e di spettacolo sono accomunati dall’uso frequente e disinvolto del termine «gigante» (da qualche tempo in netto vantaggio su «titano»). Di recente, se ne sono smodatamente serviti per qualificare Ennio Morricone (accostandolo talora a Mozart e Stravinsky), e più moderatamente per festeggiare il centesimo compleanno della sempre vigile Franca Valeri. (C’è anche chi lo ha usato per il cantautore Rosalino Cellamare, in arte Ron). Com’era facile prevedere, il vocabolo ha proliferato in occasione della definitiva uscita di scena di Gianrico Tedeschi (Milano 1920 – Pettenasco 2020). Quanto a Morricone, non saprei dire, dato che aveva grandi ambizioni e una grande opinione di sé. Immagino invece che Franca Valeri, apprendendo di essere un «gigante» (al femminile suonerebbe grottesco: «gigantessa»), abbia accennato uno dei quei sorrisetti ironici che le sono propri, magari aggiungendo con understatement non meno peculiare e irresistibile: «E dire che ho sempre pensato di essere un po’ bassina». Un sorrisetto ironico (da vecchio milanese che ha in odio i discorsi enfatici) lo farebbe anche Gianrico Tedeschi, che durante la sua lunghissima carriera (iniziata nel campo di concentramento di Sandbostel, dove fu internato per non aver aderito, dopo l’armistizio, alla Repubblica Sociale di Salò) è stato quanto di più lontano si possa
immaginare dagli atteggiamenti narcisistici, esibizionistici e compiaciuti di un mattatore. E dunque, non sarebbe sufficiente definirlo un «grande attore»? Diversamente da ciò che sembra credere la maggior parte dei cronisti e dei recensori italiani (di quelli teatrali, soprattutto), non sono molti i grandi attori. Per ragguagliare sbrigativamente chi non ha mai avuto il piacere di vederlo e ascoltarlo recitare (o lo ha visto e ascoltato solo in rare occasioni), mi limiterò a un elenco penosamente inadeguato. Attore di straordinaria e singolare versatilità, Gianrico Tedeschi ha interpretato testi importanti sotto la direzione di registi famosi quali Orazio Costa (La dodicesima notte), Luchino Visconti (Le tre sorelle), Giorgio Strehler (La vedova scaltra, L’opera da tre soldi, Arlecchino servitore di due padroni), Luca Ronconi (La compagnia degli uomini di Edward Bond). Ha lavorato in diversi sceneggiati televisivi (Delitto e castigo, Demetrio Pianelli), nel teatro di prosa in tv (Il gabbiano, La professione della signora Warren), e poiché sapeva cantare, anche nella rivista (Enrico ’61), nel musical (My Fair Lady), nel varietà e nell’operetta. Inoltre, in più di 40 film e nella pubblicità (Carosello). L’eccellenza assoluta, a mio parere, l’ha raggiunta interpretando in età avanzata due personaggi che egli erano quasi coetanei. Uno è il protagonista di un’opera di Thomas Bernhard, Il riformatore del mondo, inscenata da Piero Maccarinelli nel 1997. In quello spetta-
Gianrico Tedeschi, Franca Valeri e Walter Chiari nello spettacolo Luv, di Murray Schisgal, negli anni Sessanta. (Keystone)
colo, Tedeschi indossava i panni di un vecchio filosofo diventato celebre, dopo anni di misconoscimenti e umiliazioni, per un suo frainteso trattato sul miglioramento del modo. Costretto su una poltrona da grave infermità (in parte, forse, simulata), «il riformatore del mondo» attende nella sua casa l’arrivo di alcune autorità cittadine, che verranno a consegnargli la laurea honoris causa. Tra le cinque e le undici del mattino,
il vegliardo monologa o scambia rare battute con una serva-amante (quasi sempre silenziosa) sui più disparati argomenti: la cucina e la filosofia, la natura e l’arte, l’abbigliamento e la storia, la malattia e i viaggi. Le sue enunciazioni (asseverative e radicali nel loro nichilismo) sono spesso interrotte dai rimproveri, dalle osservazioni a volte crudeli e dagli ordini indirizzati con mutevole umore alla serva-amante (interpretata,
sia nella messinscena del 1997 che nella ripresa del 2005, dalla moglie di Tedeschi, Marianella Laszlo), alla quale, ben più di rado, si rivolge chiedendo scusa e riconoscendo i propri debiti. Sarcastico e dolente, aggressivo e lamentoso, lucidissimo e folle, Tedeschi dipingeva, tocco dopo tocco, un ritratto memorabile. L’altro personaggio è Giovanni Chierici, il protagonista settantaseienne di una delle più belle commedie del Novecento: La rigenerazione di Italo Svevo. Spronato dal nipote Guido, studente di medicina, e sedotto dall’idea di compiere biologicamente un passo all’indietro, Giovanni Chierici si sottopone a un’operazione di ringiovanimento. L’intervento chirurgico non può dirsi privo di efficacia, ma ringiovanire parzialmente nel corpo non significa essere rigenerati nello spirito. La giovinezza dei giovani è cosa diversa da quella dei vecchi ringiovaniti. La sua nuova condizione può consentirgli al massimo una camminata più spedita, e il fuggevole bacio carpito a una servetta, ma avendo in mente l’immagine di una donna amata quando la giovinezza era reale. L’interpretazione di Tedeschi, nello spettacolo del 1990 inscenato da Marco Bernardi, aveva gli stessi pregi del testo di Italo Svevo: una serietà dal tocco lieve; una gravità senza pesantezze; un umorismo e un’ironia venati di malinconia; un senso struggente del tempo, delle stagioni della vita; una capacità di unire con luminosa leggerezza memoria e desiderio, illusione e chiaroveggenza, sarcasmo e compassione. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Il tempo di vivere e di trasformarsi
PRO SENECTUTE
informa
Dimitri Teatro e Accademia a Verscio: due
realtà verso un nuovo futuro
Novità Giorgio Thoeni
Ripresa corsi e sport per «over 60» Dal fine settembre/inizio ottobre riprenderanno, con le limitazioni necessarie, i corsi del Creativ center. Sarà possibile iscriversi alle attività di movimento varie (ginnastica, ginnastica dolce, nordic walking, acqua-fitness, danza popolare) oppure ai corsi legati alle nuove tecnologie, ai corsi di lingua e a tanto altro ancora. Il programma, sarà adattato alle disposizioni legate alla situazione sanitaria. È già possibile chiedere informazioni telefonando al Creativ Center: 091 912 17 17
Ogni anno, a dispetto degli accadimenti del nostro tempo, al Teatro Dimitri di Verscio, solitamente in questo periodo, si assiste al debutto di una nuova edizione del «Variété»: una tradizione che si perpetua e che in qualche modo lascia rivivere il marchio di famiglia. Quest’anno lo spettacolo, che rimarrà in scena nel Parco del Clown di Verscio praticamente per tutto il mese di agosto, è stato allestito con la regia di Masha Dimitri e vede in scena otto giovani allievi dell’Accademia che stanno per affrontare il terzo e ultimo anno di formazione. Il titolo scelto è «Il tempo di vivere», un inconscio memento mori che attraverso il teatro si trasforma in un auspicio per cui l’arte diventa un inno alla vita. È uno spettacolo che ricalca i presupposti elementari dello stare in scena attraverso abilità acrobatiche, jonglage canti e danze attorno al tema della vita, del tempo, della memoria, delle scoperte, dell’amicizia e dell’amore. È un insieme di spunti e pretesti narrativi che, come spesso accade, hanno però ancora bisogno di misurarsi con le leggi della scena, perfezionando dinamiche ancora sospese, raffinando le sorprese senza abbandonare l’effetto della performance individuale e collettiva verso un drammaturgia più solida, dove emerge l’affiatamento di un gruppo che si sta confrontando con ciò che può considerarsi a tutti gli effetti un «rito di passaggio». Un’esperienza ben rappresentata nel titolo stesso dello spettacolo e che sembra voler alludere all’atmosfera che sta avvolgendo quella straordinaria realtà delle Terre di Pedemonte e che ci spinge a una breve considerazione. A quattro anni dalla scomparsa del popolare clown Dimitri e a un paio di mesi da quello dell’amata moglie Gunda, le sorti del Teatro da loro fondato nel 1971, dopo essere passate per diverse mani, sono ora affidate a quelle del figlio David, celebre One-Man Circus che dovrebbe gestirlo fra una tournée e l’altra accanto alla direzione artistica del festival austriaco di Salzburg: un vero funambolo che sta facendo di tutto per difendere la memoria e il prestigio di quel teatro chiamato a fare i conti con una realtà giunta alle soglie di un importante cambiamento: l’Accademia.
BarAtto a Morbio Inferiore Un’osteria sociale presso il complesso residenziale Ligrignano, inserita in un progetto di lavoro sociale comunitario che si sviluppa nel territorio. Venite a conoscerci e a scoprire le nostre attività per la popolazione del quartiere! Ogni giorno a pranzo è proposto un menù con prodotti del territorio. Per maggiori informazioni sul progetto: 091 682 28 53
Attività e prestazioni – Docupass Con questo documento mettete per iscritto i vostri desideri, le vostre esigenze e le vostre aspettative per i casi di emergenza. Offriamo consulenza per compilare il dossier previdenziale e durante l’anno scolastico anche incontri informativi. Corsi strutturati in un incontro di 2 ore a livello regionale. Le date dell’autunno sono già disponibili. Telefonare al centralino per informazioni. – Mangiare sano Pasti a domicilio in tutto il cantone: per un’alimentazione sana ed equilibrata a casa propria. Il nostro centro di produzione pasti di Lugano-Besso è disponibile per organizzare catering a enti, scuole e privati, con servizio regolare oppure per eventi particolari – Podologia Il nostro personale specializzato si prende cura dei vostri piedi. Curando e trattando le affezioni della pelle e delle unghie, allevia il dolore migliorando la deambulazione. Per informazioni sulle sedi e per prendere appuntamento rivolgersi al centralino di Lugano. – Volontariato Cerchiamo volontari per i diversi ambiti della nostra Fondazione, in particolare cerchiamo persone disponibili per il servizio fiduciario nel Mendrisiotto.
Nata come scuola dalla costola del teatro nel 1975, da tempo è cresciuta notevolmente diventando Accademia, inserita a pieno titolo fra le Scuole Universitarie Superiori svizzere. Dotata di programmi articolati per l’ottenimento di Diplomi di Bachelor e Master in Teatro Fisico, ha ormai conquistato i requisiti necessari per proseguire nella sua strada di formazione teatrale. Un percorso costato impegno e sacrifici a tutti, insegnanti e ricercatori: una squadra che per soddisfare le richieste di decine di studenti provenienti da tutto il mondo, deve offrire prestazioni di livello poste costantemente sotto la lente delle istituzioni ma che non può più misurarsi con la sede originale divenuta insufficiente.
Nel 2021 l’Accademia si trasferirà nell’ex Caserma di Losone, più spaziosa e idonea, benché «lontana» Come è noto, la scelta è caduta sulla ex-Caserma di Losone, un edificio decisamente più spazioso e idoneo per l’Accademia che vi inizierà a essere completamente operativa nel 2021, dando ulteriore lustro al progetto didattico originale nato nel 1975 quasi in sordina e di cui andar fieri. Ma evidentemente è un successo che deve ancora fare i conti con la percezione di chi considera quel cambio di sede come una sorta di amputazione dal tessuto territoriale, un sentimento di rinuncia che rischia di creare solo incomprensioni mentre invece occorrerebbe un’intelligente e creativa rimessa in discussione dei rapporti fra Teatro e Accademia, che possono solo tradursi in collaborazione per generare una realtà ancora più forte. Nel frattempo il cartellone teatrale deve poter continuare senza soccombere alla paura del nuovo guardando al futuro con ottimismo e, soprattutto, con idee originali e complementari. Il problema si farà più concreto in autunno, quando quel glorioso piccolo tempio dello spettacolo vedrà diminuire la presenza dei fedeli confederati e dovrà ricominciare a programmare nuove avventure teatrali alla conquista del pubblico. E il confronto aiuta…
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I giovani del «Variété», durante una prova. (Teatro Dimitri)
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 agosto 2020 • N. 33
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Torino e il suo ramo bizzarro La riproposta televisiva del film di Luigi Comencini La donna della domenica è lo spunto per libere riflessioni sul rapporto fra Torino e il cinema. Il romanzo dallo stesso titolo da cui è tratto il film è opera della coppia di autori che si firmava Fruttero&Lucentini e ha un memorabile incipit: «Il martedì di giugno in cui fu assassinato, l’architetto Garrone guardò l’ora molte volte». È quasi identico all’incipit del romanzo di Gabriel Garcia Màrquez «Cronaca di una morte annunciata». «La mattina del giorno in cui fu ucciso, Santiago Nasar si alzò alle cinque e mezzo». Chi ha copiato? Chiaro: il romanzo di F&L è del 1972, quello di Gabo del 1981. Il romanzo di F&L è incentrato su un dato di fatto: se gli italiani (più uomini che donne) sono pressoché tutti commissari della Nazionale di calcio e si considerano tutti più bravi di quello in carica, i torinesi (uomini e donne a pari merito) sono tutti commissari di polizia e in quanto accaniti lettori della cronaca nera, hanno le idee chiare sui
colpevoli e sarebbero in grado di risolvere i casi molto meglio di quelli pagati per farlo. Pressoché tutti i personaggi del romanzo si danno da fare per risolvere il mistero al punto che uno di loro ci rimette le penne per essersi avvicinato troppo alla verità. L’unico titolato per farlo, il commissario Santamaria, ha pochissima voglia di mettersi all’opera, preferisce sfruttare l’occasione per penetrare negli ambienti esclusivi della Torino bene. Non per niente è romano e risponde agli stereotipi che connotano gli abitanti della Città Eterna. Il regista Luigi Comencini ha fatto un ottimo lavoro ma era impossibile cogliere tutti i segni della «torinesità» disseminati nel romanzo. A cominciare dal cognome della prima vittima, l’architetto Garrone, che ricorda uno scolaro del Cuore di De Amicis: «Il ragazzo che mandò il francobollo al calabrese è quello che mi piace più di tutti, si chiama Garrone, è il più grande della classe, ha quasi quattordici anni, la testa grossa, le spalle larghe; è
buono, si vede quando sorride; ma pare che pensi sempre, come un uomo». Per una curiosa coincidenza Luigi Comencini aveva realizzato nel 1984 la versione televisiva in sei puntate di Cuore affidando il ruolo del protagonista Enrico Bottini, colui che redige il diario, al nipote, figlio di Cristina e futuro ministro Carlo Calenda. Altra chiave della torinesità è il retaggio del dialetto, utilizzato anche dalle classi alte, abilitate in ciò dai Savoia (Vittorio Emanuele II, il Padre della Patria lo parlava abitualmente). Lo usava anche l’avvocato Gianni Agnelli e, per imitazione, tutta la catena dei sottoposti. Far cadere qua e là nel discorso un modo di dire, un proverbio, un termine colorito manda un segnale preciso: facciamo tutti parte della medesima koinè. Quando, dopo la metà degli anni ’50 ho iniziato a lavorare come operaio in uno stabilimento tipografico, ricordo che l’uso ostentato del dialetto da parte nostra aveva la funzione di marcare il territorio rispetto ai colleghi meridio-
nali che facevano sforzi disperati per apprenderlo. La vicenda gialla che si dipana nelle 538 pagine del romanzo ruota tutta attorno a un proverbio in dialetto che un impiegato del catasto (guarda caso un meridionale) sbaglia a tradurre in italiano.»La cativa lavandera a treuva mai la buna pera». In italiano è «La cattiva lavandaia non trova mai la buona pietra». In altre parole chi non ha voglia di lavorare trova sempre una scusa per sottrarsi al suo dovere. «Pietra» in piemontese è «Pera» che il nostro impiegato, sbagliando, pensa che il termine indichi un albero di pere, generando una catena di tragici equivoci. Il romanzo termina quando si è appena consumato il primo «congresso carnale» (per usare un termine da verbale di polizia) fra Anna Carla e il commissario Santamaria. «Il commissario accese la luce, guardò l’orologio. “Sono le sette e venti” “Oh, mipovradona!” disse ridendo Anna Carla. “Ma è tardissimo!” Scese dal letto leggera, e cominciò in fretta a rivestirsi». Carlo
Fruttero mi confidò durante un’intervista che il titolo che loro avevano dato al romanzo era per l’appunto in piemontese. Avrebbe dovuto essere «Oh, mipovradona» (Oh,mia povera donna!). Alla Mondadori che avrebbe pubblicato il libro destinato a scalare tutte le classifiche di vendita naturalmente si opposero. Quanto al rapporto fra il cinema e Torino è in questa città che nasce e si sviluppa. Nel 1904 Arturo Ambrosio torna da Parigi con un nuovo modello di macchina da presa e fonda il primo stabilimento. Nel 1914 sono attive 12 case che producono 250 pellicole all’anno proiettate in 73 sale. Concludo citando Carlo Fruttero, un amico che mi manca e che vorrei qui a parlare degli effetti del lockdown: «Io mi spiego e non mi spiego come i torinesi, proprio i torinesi, abbiano potuto investire, all’inizio del ’900 e quando la cosa costituiva una scommessa, nel cinema. Torino è, come si sa, una città regolare, ordinata, sobria, ma ha sempre avuto un suo ramo bizzarro».
bandoniamo l’idea del big bang, e sostituiamola con una gigantesca lavatrice, dove è stato messo però un detersivo che fa molta schiuma; qualcuno si è sbagliato e ha scambiato i fustini. Il cestello gira ed ecco che nascono i tanti universi, tra cui il nostro con le nostre leggi di fisica che permettono la vita e l’uomo, ed eventualmente gli extraterrestri che ancora non abbiamo conosciuto. Ma questa è una faccenda che non riguarda la lavatrice, lei gira secondo il programma, la schiuma cresce, gli universi sono compressi, passa ogni tanto un lenzuolo e esplodono milioni di bolle, niente esclude che anche noi finiremo perché un lenzuolo o una salvietta ci hanno travolto; poi bisogna considerare che la temperatura crescerà, speriamo che non sia in corso il programma a 80 gradi; supponiamo di no; oggi i detersivi lavano bene anche a bassa temperatura. La nostra bolla resiste. Poi però, inevitabile,
il risciacquo, e sarà il diluvio, non oso immaginarlo. La nostra bolla resiste? Può darsi, niente è escluso a priori, il primo risciacquo lascia ancora molto detersivo, e ai margini, tra un lenzuolo e il cestello, potremmo sopravvivere come bolla residua. Ma poi lo scarico e la centrifuga; la centrifuga sarà il disastro. Tutta l’Apocalisse di Giovanni va ripensata come centrifuga; a seimila giri nessuna bolla si salva, e questa sarà la fine dei tempi, niente ci salverà. A meno che siamo dentro ad un programma per lana, che esclude la centrifuga e lo scarico è dolce; in tal caso sopravviviamo; se avete notato sulla lana resta qui e là qualche bolla, tenuta in vita anche dall’ammorbidente. Quindi, riassumendo: dobbiamo sperare nell’ammorbidente e in un programma delicato per capi in lana. I cosmologi da tanti indizi dovrebbero fin da ora capirlo.
Se scrivo «Sei un bastardo:-)» non può prendersela in nessun caso. Le emoji traducono i segni grafici in segni più propriamente iconici: sono emoticon che non devono più nulla alla scrittura alfabetica e ricordano casomai quella lettera che Lewis Carroll scrisse a una giovane amica, disegnando un occhio per dire «Io» («eye» = «I»), e simili. La rilevanza odierna delle emoji nell’evoluzione della comunicazione virtuale è innegabile, a tal punto che nel 2015 l’Oxford Dictionary ha scelto come parola dell’anno proprio una di queste: «The face with tears of joy». Questo ci fa ragionare sul fatto che una emoji sia stata considerata al pari di una parola. E se è così, significa che il linguaggio è davvero cambiato, così come è cambiato il nostro modo di comunicare: attraverso le emoji, è sicuramente meno mediato da parole e più da simboli, il che potrebbe sembrare un’involuzione. E forse lo è, ma ciò che è più interessante è il ritorno al figurato. Possiamo parlare di un nuovo Espe-
ranto digitale che ci permetta addirittura di comunicare senza conoscere la lingua dell’interlocutore? Ogni tanto nasce questo sogno: in passato si pensava che la fotografia prima e la televisione poi potessero svolgere questo ruolo di lingua franca, attraverso cui fosse possibile comunicare con persone di ogni lingua e cultura. Poi si è scoperto che la fotografia non può essere linguaggio universale perché si presta a molte letture, a molte interpretazioni. E la tv esiste perché c’è un sonoro che la ancora al suo contesto. Il critico americano Charles Finch sul «New York Times» ha osservato che «le comunicazioni, dietro un flusso incessante di dati, si sono evolute continuamente mirando a funzioni cerebrali sempre più primitive»; srotoliamo il testo infinito dei social come un papiro composto dai pochi ideogrammiemoji, e la letteratura sembra come messa a riposo. Ecco di nuovo la vera domanda di fondo: le «faccine» sono un’evoluzione del linguaggio o una sua regressione?
Un mondo storto di Ermanno Cavazzoni L’ammorbidente dell’universo Attualmente il modello più fedele che rappresenta l’universo è la schiuma del bucato. Se prendete una bacinella d’acqua, ci mettete dentro del detersivo per il bucato a mano, meglio se l’acqua è tiepida, lo agitate per bene, vedrete che si forma una schiuma di grosse bolle, e più agitate l’acqua più la schiuma cresce. Ecco, questo è l’universo totale. Noi siamo dentro una singola bolla, che è il nostro particolare universo, ancora nella fase di espansione, cioè si sta ancora gonfiando per effetto del moto della mano nell’acqua. I cosmologi non parlano di una grande mano all’origine di tutto; come si sia formata la schiuma non si sa, e neppure cosa ci sia dentro alle altre bolle, magari le leggi di fisica sono diverse: se ad esempio in una bolla la materia invece di attrarsi e formare oggetti, pianeti e stelle, si respinge, quella bolla sarà piena solo di un gas uniforme e inerte, come ad esempio
l’azoto, un universo di azoto rarefatto. Il nostro invece, visto da un punto esterno, risulterebbe pieno di onda elettromagnetica; per intenderci, pieno di luce, che qui e là si raggruma in palline, che sono le stelle, e in ciambelline, che sono le galassie. Che poi su un invisibile pallino che ruota attorno ad una pallina all’interno di una ciambella, o forse è più esatto dire all’interno di una frittella che è la via Lattea, ci siamo noi, aggregati instabili di molecole, questo dall’esterno non si capisce, siamo troppo minuscoli. La grande lavandaia che ha creato tutto con un piccolo moto della sua mano non è responsabile di cosa succede all’interno di ciascuna bolla e neppure lo sa, non le interessa; a lei interessa il bucato. Quindi dobbiamo immaginare che in mezzo a questa schiuma di universi ci siano immense lenzuola sporche con le relative federe, tovaglie macchiate, tovaglioli, asciugamani, mutande, eccetera,
le quali nel loro moto possono spezzare o traversare una bolla, e quindi possiamo immaginare che un giorno ai confini del nostro particolare universo passi una immensa mutanda, la vedremo coi grandi telescopi di Arecibo o del monte Palomar, gli astronomi resterebbero interdetti vedendo passare nei lontani abissi del cosmo qualcosa che non è una frittella che loro interpreterebbero come galassia, ma un aggregato che somiglia paurosamente ad una mutanda che nuota nello spazio profondo. Difficile sarebbe da capire. Se non ricorrendo al modello matematico della grande lavandaia all’origine di tutto, e sostituendo il big bang, lo scoppio, che finora spiegava la nascita della nostra bolla; chiunque capisce che un bucato non è fatto di tante esplosioni, non si lava la biancheria con la polvere da sparo, sarebbe un disastro, la lavandaia ustionata, niente universi, solo cenere e fumo. Quindi ab-
A video spento di Aldo Grasso Le faccine che hanno cambiato la comunicazione Il 17 luglio si svolto il World Emoji Day, la giornata dedicata alle «faccine» che ci permettono di esprimere tanti stati d’animo via chat e social. L’iniziativa è nata nel 2014 dall’idea di Jeremy Burge, uno storico delle emoticon e fondatore di Emojipedia, sito web che raccoglie e cataloga tutte le emoji. In questo periodo di pandemia e lockdown, si sono aggiunte diverse faccine a tema, come quella di Twitter che ha sensibilizzato sul lavaggio delle mani e quella di Facebook che ha raffigurato un abbraccio. La pandemia ha però avuto un impatto anche su questo settore: le nuove emoji già programmate, e in arrivo il prossimo autunno, non subiranno modifiche, mentre le emoticon previste nel 2021 non ci saranno: slitteranno al 2022. A darne notizia nelle scorse settimane è stato il consorzio Unicode, che si occupa della loro standardizzazione e si basa sul lavoro di volontari, che ha subito delle modifiche durante la pandemia. Quest’anno, tuttavia, arriveranno
nelle mani degli utenti le nuove emoji legate alla versione 13 dello standard. Si tratta di 117 pittogrammi già noti, tra cui la mano con i polpastrelli uniti nel gesto «ma che vuoi?», l’allattamento con biberon, la bandiera transgender e una carrellata di nuovi oggetti, cibi e animali. Il termine emoticon nasce dall’unione di emotion e icon. La data di nascita, ormai riconosciuta universalmente, è il 1982. In quell’anno, infatti, l’informatico Scott Fahlman suggerì che nel sistema messaggistico della Carnegie Mellon University si sarebbero potuti usare :–) e :–( per distinguere le battute dalle affermazioni. Le emoji sono invece nate tra il 1998 e il 1999, create da una società di comunicazione giapponese, ovvero la NTT DoCoMo (oggi è l’operatore predominante in Giappone nel campo della telefonia mobile). L’etimologia della parola emoji arriva dall’unione di «e» (immagine) + «mo» (scrittura) + «ji» (carattere). La traduzione di emoji è «pittogramma». Sono immagini usate per sostituire le parole
e raffigurare il significato dei vocaboli. Emoji ed emoticon possono aiutare a semplificare il linguaggio e la sua comprensione. Per capire il perché, bisogna partire dal fatto che oggi si comunica sempre di più tramite scrittura (basti pensare all’uso massiccio che facciamo di chat o social network). Questo ha creato la necessità di accompagnare le parole scritte con dei segni, con lo scopo di diminuire il rischio di fraintendimenti. Ecco allora che le faccine diventano fondamentali per chiarire le nostre intenzioni. Come ha scritto Stefano Bartezzaghi, «Le vecchie emoticon, fatte solo di segni già presenti su una macchina da scrivere (parentesi, due punti, uguale, trattino...), sono nate agli albori della comunicazione personale telematica per l’esigenza di segnalare, per esempio, l’ironia». Che prima o poi sarebbe successo l’aveva già previsto Jean-Jacques Rousseau. Se scrivo «Sei un bastardo» la frase fa un certo effetto anche se l’amico che la riceve sa benissimo che non parlo seriamente.
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Fogli di carta da forno M-Classic in conf. multipla, 2 x 30 fogli, offerta valida fino al 24.8.2020
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