Azione n 07 del 13 febbraio 2017

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Società e Territorio In rete la violenza è difficile da arginare, sono soprattutto le donne a subire molestie e minacce

Ambiente e Benessere Nel saggio Una storia commestibile dell’umanità Tom Standage traccia la storia della coevoluzione tra la nostra specie e le colture agricole domesticate

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXX 13 febbraio 2017

Azione 07 Politica e Economia Il Muslim Ban promulgato da Donald Trump è oggetto di disputa fra i poteri americani

Cultura e Spettacoli Adelphi ripubblica il pamphlet Eros e Priapo di Carlo Emilio Gadda

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ping M shop ne 41-43 i alle pag pagina 6

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Il futuro di casa a Singapore

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di Massimo Morello pagina 12

In nome del popolo di Peter Schiesser In tempi di crescente populismo, di nazionalismi, di politici che affermano di parlare in nome del popolo, c’è una domanda che potrebbe essere utile porsi: che cos’è il popolo? Nella visione del sedicente «uomo forte» è una comunità che pensa, sente, vive all’unisono con il proprio leader, i suoi valori, le sue idee, le sue azioni. Nella realtà un popolo omogeneo non esiste. Non è mai esistito. Gli «uomini forti» che in passato hanno provato a forgiarlo nella realtà si sono scontrati con ostacoli che non sono riusciti a superare (indenni): siccome l’unanimità non esiste, chi sono gli individui che non è possibile catalogare fra il «popolo tutto d’un pezzo», un non-popolo? E che fare di questi cittadini recalcitranti a uniformarsi: sottometterli, eliminarli, poiché tollerarli significherebbe annacquare l’idea di popolo? Inoltre, come rispondere al popolo di un paese vicino che magari si sente ancora più popolo di noi e sarebbe disposto a darci una lezione con le armi per dimostrarlo? La storia d’Europa fornisce innumerevoli esempi, tutti a senso unico, di come sono andati a finire quei tentativi. Eppure, quando si è convinti che le cose vanno male (anche se deci-

samente peggio vanno in molte altre parti del mondo), l’immagine di un salvatore della patria che sappia restituirci una mitica età dell’oro e un’innocente identità primordiale fa sempre ancora breccia. Non sottovalutiamo l’influsso dei vari Marine Le Pen, Gert Wilders, Matteo Salvini, Frauke Petry – anche alla luce di quanto vanno sperimentando autocrati come Viktor Orban, Recep Erdogan e governi reazionari come quello polacco. Ma se trovano crescenti se non già ampi consensi, il vero problema è dato da chi trova conforto e speranza nella loro visione del mondo, nei loro slogan e nelle loro promesse. Il grosso problema è che si può riuscire a farsi eleggere alla guida di grandi paesi dell’Occidente spacciando illusioni per soluzioni, senza indicare come raggiungere gli obiettivi, o almeno non in modo coerente. Significa che una parte della cittadinanza ha abdicato al senso critico in cambio di un desiderio di certezza. Ma non limitiamoci a stigmatizzare questo fatto, interroghiamoci sui motivi che portano questi cittadini a non avere più fiducia nell’ordine costituito, nelle istituzioni, nei partiti storici e nei media tradizionali, in sintesi nelle élite. Forse occorre innanzitutto riconoscere che nei decenni passati la democrazia è andata avanti senza dover contare troppo sul senso critico

dei cittadini. Fintanto che l’economia cresceva, bastava ingraziarsi gli elettori con qualche promessa, toccando sapientemente le corde della «pancia» (che con il tempo è diventata sempre più agitata e esigente). Spiegare come andava veramente il mondo, la sua complessità, le contraddizioni cui non si poteva sfuggire (per esempio, che la ricchezza del nord poggiava pur sempre sulla povertà del sud), non era strettamente necessario. Per contro, ora che il brontolìo della pancia di molti cittadini è salito a livelli di guardia, la democrazia può diventare lo strumento per cancellare i caposaldi delle società liberali moderne: se un «uomo forte» viene eletto democraticamente, può tentare di limitare le libertà individuali, imporre uno stato autoritario, discriminare i diversi e le minoranze, in nome di un interesse superiore (quello del popolo). Eppure, pur non nascondendo né minimizzando le oggettive difficoltà in cui versano le democrazie occidentali, c’è ancora motivo di sperare che un sano senso critico, cresciuto nel confronto quotidiano con la complessità di una società moderna, sia ancora maggioritario in Occidente. Le elezioni in Francia, in Germania, in Olanda e probabilmente presto in Italia lo confermeranno o lo smentiranno.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 febbraio 2017 • N. 07

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 febbraio 2017 • N. 07

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Società e Territorio Un sito per ricordare Il Museo della memoria è un progetto online dell’Associazione ticinese terza età che raccoglie documenti e testimonianze del nostro passato

La Cooperativa Baobab di Bellinzona Nata un anno fa è attiva in ambito educativo, psicologico e sociale: abbiamo visitato lo spazio di socializzazione per genitori e bambini da zero a quattro anni pagina 8

Il passato in digitale

Museo della memoria Ricordi, racconti, lettere, scatti fotografici e filmati: il progetto online dell’Associazione

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ticinese terza età testimonia la vita di un tempo in Ticino e nel Grigioni italiano Stefania Hubmann Interessarsi al passato della nostra regione attraverso uno strumento moderno, uno strumento tecnologico che con i suoi click ci permette di aprire finestre su persone, luoghi, attività e tutto un mondo oggi in gran parte scomparso. Questa opportunità la offre il Museo della memoria della Svizzera italiana, che strizza l’occhio soprattutto ai giovani essendo un museo virtuale accessibile unicamente tramite il suo sito (www.museodellamemoria.ch). L’iniziativa, nata nel 2012 proprio quale progetto intergenerazionale, è opera di ATTE (Associazione Ticinese Terza Età) che in questi anni l’ha notevolmente sviluppata, includendo il Grigioni italiano e promuovendo diverse collaborazioni. Associazioni, archivi, media e istituzioni affiancano il gruppo di volontari guidati da Elio Venturelli nella raccolta e nell’elaborazione di informazioni e documenti che testimoniano la profonda trasformazione della Svizzera italiana negli ultimi due secoli. Dallo scorso 17 gennaio il sito si presenta in una nuova veste grafica che facilita la ricerca di interviste, filmati, immagini, libri, articoli e altri documenti. In cinque anni di attività il Museo della memoria ha arricchito la sua collezione con l’intento di presentare un quadro sempre più completo e variegato del nostro passato. Migliaia di fotografie, oltre sessanta interviste e innumerevoli testi fanno rivivere la vita quotidiana, così come i piccoli e i grandi avvenimenti che hanno caratterizzato l’Ottocento e il Novecento in Ticino e nei Grigioni di lingua italiana. Ricordare per comprendere e motivare i giovani ad interessarsi al passato sono le finalità del Museo della memoria che conta una trentina di collaboratori tutti pensionati volontari, di formazione ed estrazione professionale diverse, ripartiti su tutto il territorio. Presidente della Commissione sociale di ATTE, Elio Venturelli ha avviato questo progetto in collaborazione con le scuole. «Nel maggio 2012 ho proposto ad alcuni docenti di scuola elementare di far scoprire agli allievi come vivevano i loro nonni e bisnonni partendo dai

Le donne nella rete delle minacce Web Per invertire il fenomeno delle

molestie e della violenza online, serve educare le nuove generazioni e occorre denunciare i molestatori

Stefania Prandi Sono sempre più le donne molestate e minacciate su internet. In rete si scatena una violenza difficile da immaginare, come dimostra la denuncia di Arianna Drago, giovane informatica italiana. Pochi giorni fa ha segnalato che su Facebook esistono gruppi che pubblicano foto rubate a ragazze, commentandole senza riguardo e persino inneggiando allo stupro. Il fenomeno è globale: nei mesi scorsi la rivista americana «Time» ha dedicato la copertina alla «cultura dell’odio online» e il marchio di sicurezza digitale Norton ha intervistato un migliaio di donne, metà delle quali ha dichiarato di avere subito trolling, molestie, intimidazioni. Tra le ragazze con meno di 30 anni la percentuale sale al 76 per cento e almeno una su dieci ha avuto esperienza di revenge porn, termine con cui si intende la pubblicazione online di foto o video che riprendono rapporti intimi con l’ex partner. Anche in Svizzera si è discusso della questione del revenge porn quando, lo scorso maggio, è stata bocciata la proposta di legge in merito, dopo che il Consiglio federale ha stabilito che l’apparato giuridico attuale è sufficiente per tutelare le vittime. Secondo il «Guardian», le donne ricevono il doppio delle minacce di morte e di violenza sessuale degli uomini e in un caso su cinque vengono attaccate per il proprio aspetto. Il quotidiano inglese ha realizzato una lunga inchiesta, analizzando 70 milioni di commenti agli articoli pubblicati dal 2006; dei 10 giornalisti più insultati, 8 sono donne e 2 uomini di colore. Le reporter Jessica Valenti e Nesrine Malik, prese di mira dalla furia dei lettori, hanno raccontato l’impatto negativo dei messaggi di discredito sulla loro vita personale e sui familiari. Bisogna ricordare che anche gli uomini non sono immuni dalla violenza online, che li colpisce però in maniera diversa: vengono insultati, presi a male parole, messi in imbarazzo, ma

non minacciati di stupro né molestati sessualmente. Secondo la ricerca di Norton il problema non accenna a diminuire, anzi per il 60% delle donne è in aumento. Manca ancora la consapevolezza adeguata per affrontarlo: viene ignorato nel 40% dei casi e denunciato alle forze dell’ordine soltanto nel 10%. Come spiega Danielle Keats Citron, docente di Legge all’università del Maryland, nel libro intitolato Hate Crimes in Cyberspace, i comportamenti virtuali violenti non sono né normali né inevitabili: «se esistono è perché c’è un problema culturale che dobbiamo cercare di risolvere collettivamente usando tutti gli strumenti tecnologici e sociali a disposizione». I modi per difendersi ci sono, spiega Ornella, attivista di Hollaback, movimento internazionale nato nel 2005 a New York per porre fine alla molestie in strada, che ha lanciato HeartMob (https://iheartmob.org), un sito per aiutare a reprimere la violenza di genere online. Come le altre partecipanti del gruppo, Ornella sui media non appare con il proprio cognome, proprio per evitare ripercussioni. Ad «Azione» spiega che, se si viene prese di mira, «è importante rendersi conto che non bisogna sentirsi in colpa perché è il molestatore ad essere in errore. Se ci si trova in difficoltà, si deve chiedere aiuto agli amici, alla famiglia, ai siti specializzati. Anche se si ha voglia di cancellare subito i messaggi offensivi o minacciosi, è meglio fare uno sforzo e aspettare, documentando prima tutto, attraverso screenshot (foto della schermata) e copiando i link. Le prove, infatti, sono determinanti in fase di denuncia. Successivamente va chiesto che i contenuti vengano rimossi dalla piattaforma social e dai motori di ricerca». Per limitare il fenomeno occorre agire sull’educazione e sulla formazione, spiega Giovanni Ziccardi, professore alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano,

Se si subiscono minacce o molestie online è meglio non cancellare i messaggi e chiedere aiuto. (Marka)

dove ha fondato e dirige il corso di perfezionamento post-laurea in Computer Forensics e Investigazioni Digitali. «Il punto è fare in modo che i giovani non si abituino a considerare normali le espressioni di odio e di violenza. Siamo in un periodo storico in cui gli smartphone e i tablet vengono regalati ai bambini di otto anni. È necessaria, da parte degli adulti, una maggior attenzione a come i più piccoli affrontano le insidie del mondo digitale, anche attraverso una buona conoscenza degli strumenti informatici. Va ricordato, inoltre, che molto spesso le tecnologie vengono usate per imitazione, osservando i compagni e i genitori». Gli abusi accadono soprattutto sui social media, tanto che Twitter ha annunciato di avere rinnovato l’impegno a tracciare chi minaccia, molesta e diffama. Facebook ha sviluppato un nuovo strumento per prevenire il rischio di suicidio. Il rischio di cadere in depressione e avere pensieri autodistruttivi, infatti, riguarda una donna su cinque. Per rendere l’idea di quanto i messag-

gi «virtuali» possano essere dannosi, negli Stati Uniti è stato girato un video dal titolo #PiùCheMeschino (MoreThanMean). Nella clip, realizzata dalla comunità web Just Not Sports, alcuni uomini leggono le parole che sono state indirizzate alle giornaliste sportive Sarah Spain (di ESPN) e Julie DiCaro (del canale radio di Chicago 670). Si comincia da messaggi più innocui fino ad arrivare a insulti pesanti e auguri di morte violenta. A rendere ancora più toccante il filmato, il fatto che le due reporter siano proprio lì davanti, ad ascoltare. Un esperimento che dimostra quanto l’odio diffuso sul web abbia conseguenze reali. Non è un caso che proprio in rete si scatenino certi meccanismi perché, dice Ornella di Hollaback, «nel mondo virtuale è più facile per l’aggressore nascondersi sotto identità fittizie. Inoltre, si riescono a organizzare attacchi collettivi, bullizzando e diffamando in gruppo. Nuove parole stanno entrando nel vocabolario, per nominare queste forme di violenza online. Pensiamo al

doxing, una tecnica per tracciare le persone nei loro comportamenti, raccogliendo ogni sorta di informazione privata e rivelando poi in rete dati sensibili come foto (esponendo a casi di pornografia involontaria) o corrispondenza email. Un altro esempio è il grooming, l’adescamento sessuale sotto mentite spoglie». Le molestie riguardano anche le donne che giocano ai videogiochi. Uno studio dell’Università dell’Ohio, negli Stati Uniti, ha analizzato i comportamenti di 293 giocatrici, che hanno in media 26 anni. Dall’indagine risulta che oltre a ricevere parolacce e insulti riguardo alle proprie capacità, vengono prese di mira con scherzi su stupro e richieste di favori sessuali. Le giocatrici, da parte loro, per neutralizzare il problema decidono di assumere un’identità maschile. In questo modo, però, diventano invisibili nella comunità dei gamer, con una serie di conseguenze anche sui contenuti di chi progetta i giochi, che continua a considerarli di fruizione prevalentemente maschile.

proverbi», spiega Venturelli. «L’esperienza si è poi allargata, anche perché ai ragazzi è piaciuta l’idea di trasferire in Internet i racconti di persone della terza e della quarta età. Parallelamente abbiamo scoperto, attraverso indagini presso i soci ATTE, i Comuni e le redazioni dei periodici, da un lato il bisogno di molti anziani di raccontare le loro esperienze e dall’altro l’esistenza di una grande quantità di prezioso materiale. Oggi stiamo cercando di coinvolgere i Comuni per valorizzare e rendere accessibile al pubblico la documentazione in loro possesso». La collaborazione con le scuole continua? «La partecipazione dei giovani nell’accrescere l’offerta del Museo della memoria è un aspetto al quale teniamo molto, proprio per favorire i rapporti fra le diverse generazioni. Negli ultimi anni abbiamo concentrato l’attenzione in altre direzioni, ma desideriamo riprendere il contatto con le scuole a breve termine, anche perché nel frattempo abbiamo assistito alla realizzazione di diversi progetti interessanti, come ad esempio quello dell’istituto scolastico di Monte Carasso». In effetti «Generazioni a confronto» (2013/2014) è un’esperienza che ha riunito bambini e anziani in diversi laboratori (cucina, natura, lettura, racconto), offrendo a entrambi i gruppi opportunità d’incontro e di scambio molto apprezzate. In questi anni sono state realizzate anche numerose interviste a persone anziane che ci rendono così partecipi del loro intenso vissuto. Da Ida Rezzonico (intervistata nel 2015 a 105 anni),

Locarno, 2 novembre 1926, Fondo Frida Spinella. (Museo della memoria)

nata nel 1910 nelle terre dell’impero austro ungarico e adottata nel 1920 da una famiglia ticinese, a Oscar Schweizer, testimone oculare del bombardamento di Soletta durante la seconda guerra mondiale da lui documentato con una serie di fotografie; dal piccolo Rino, che a nove anni è stato mandato da solo sull’alpe senza conoscere il percorso e con la sola indicazione di seguire la scrofa, allo spazzacamino Cesare, autore a 11 anni di lettere in cui dal Piemonte scriveva che tutto andava bene, perché le missive venivano controllate. Tante altre storie permettono di compiere un salto nel passato. O addirittura di viaggiare nel tempo, come è il caso dell’estratto di una presentazione

Brione, 1956, immagini del Carnevale. (Museo della memoria)

multimediale sulla trasformazione urbanistica di Bellinzona sull’arco di cento anni, realizzata sovrapponendo circa 200 immagini con la stessa prospettiva. La ricerca parte dalle nove categorie nelle quali è stato suddiviso il materiale finora catalogato: fotografie, fondi fotografici, filmati, dossier, articoli, libri, scuole, mestieri, Comuni. Il nuovo sito, finanziato da ATTE e realizzato anche grazie a un piano occupazionale e al sostegno di BancaStato e Swisslos, è per sua natura un cantiere aperto che deve essere continuamente arricchito. Precisa al riguardo Elio Venturelli: «Cerchiamo nuovi volontari per coprire meglio tutto il territorio ticinese. Per il Grigioni italiano lavora con noi da circa un anno e mezzo un gruppo di quattro persone. Desideriamo anche elaborare una vera e propria strategia finanziaria per assicurare continuità al lavoro svolto finora. Non basta disporre di documentazione interessante, bisogna trasferirla sul sito con regolarità per renderla accessibile agli interessati». I dati relativi al vecchio sito confermano, con una media di 350 visite quotidiane, la curiosità suscitata dal Museo, ora presente anche su Facebook. Il Museo della memoria è vicino ai giovani nella forma ed offre diverse possibilità di approfondimento particolarmente utili per le scuole. Il respon-

sabile richiama l’attenzione sui dossier, materiali dedicati a diversi aspetti del Ticino di una volta presentati nell’ambito di mostre, conferenze o lavori scolastici e adattati per essere fruibili attraverso il sito. Per Elio Venturelli «grazie al Museo della memoria è possibile prolungare l’esistenza di iniziative caratterizzate da notevole impegno anche finanziario ma destinate a durare poco nel tempo. Uno degli obiettivi futuri è di poter arricchire il sito collegandolo ad altri portali in modo da facilitare le ricerche e massimizzare la visibilità delle diverse iniziative. Al momento stiamo lavorando a questo livello con il Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport e con la RSI. Abbiamo inoltre già instaurato una collaborazione con Teleticino». Il carattere intergenerazionale del progetto e la forza del volontariato che lo ha fatto nascere e crescere sono due aspetti essenziali del Museo della memoria della Svizzera italiana. Esso racchiude numerose testimonianze anche minute di un passato che ai giovani d’oggi sembra molto lontano. Un passato che sicuramente li sorprende e che nella forma del museo virtuale sono invogliati a scoprire. Informazioni

www.museodellamemoria.ch

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Vanna Cercenà, Una gatta in fuga, Giunti. Illustrazioni di Giulia Dragone. Da 8 anni «Io gli uomini proprio non li capisco. Perché si buttano addosso delle cose che scoppiano e fanno una gran fiamma?»: a parlare è una gattina, è lei l’io narrante e il punto di vista attraverso cui seguiamo le vicende di questa storia semplice e intensa. La storia di una famiglia di profughi, in fuga dalla Siria. A Damasco, una micina atterrita per le esplosioni si imbatte in una bambina, Alya, spaventata come lei, che la porta a casa con sé. Ma quella che è la casa di Alya e della sua famiglia – con il bel giardino e il calore delle mura domestiche – sarà presto solo un ricordo, nella fuga di tutti loro, micia compresa, dall’orrore della guerra. E proprio l’insensatezza della violenza degli umani si staglia con maggiore incisività se a raccontarcela non è un umano, ma un punto di vista «altro» quale è appunto quello di un animale. Non è certo la prima volta che in un romanzo per ra-

gazzi si affida a un animale la funzione di narratore (sin dal classico di Anna Sewell Black Beauty, del 1877, fino al celebre e recente War Horse di Morpurgo; oltre a svariati altri esempi) e infatti uno sguardo diverso, in senso sia visivo sia valutativo, opera un interessante effetto di straniamento sulle pratiche degli umani. In tal modo l’assurdità della guerra emerge immediatamente, così come il disagio dell’essere costretti a emigrare: «Tornatevene a casa!» dicono alcuni, «Come se questa non fosse la cosa che Alya desidera di più», commenta la gatta. Ma se c’è chi non accoglie o chi, come gli scafisti, lucra sul viaggio dei profughi, ci sono anche tante persone aperte e accoglienti, che

aiutano Alya e la sua famiglia a ritrovare la speranza in un futuro migliore. La storia è tenera, ma avvincente e realistica: dal racimolare i soldi per il viaggio, al campo profughi sul confine con la Giordania, al disagio degli spostamenti verso l’Egitto «in una scatola con le ruote» (come osserva la micia), fino al mare, che nessuno di loro ha mai visto; poi il terribile attraversamento a piedi del tunnel del Canale di Suez, e infine la traversata sul barcone, il dileguarsi degli infidi scafisti e il salvataggio in acque italiane. Alya si è portata dietro di nascosto la gattina (clandestina tra clandestini), ma nel corso del lungo viaggio non potrà tenerla celata a lungo: dopo un primo stupore verrà accettata e accolta da tutta la famiglia, e sarà un’accoglienza che oltretutto porterà fortuna. Jon Klassen, Toh! Un cappello!, Zoolibri. Da 4 anni Dopo il grande successo di Voglio il mio cappello! e Questo non è il mio

cappello, ecco un terzo albo sull’oggetto del desiderio degli animali protagonisti, scritto e illustrato dall’artista canadese Jon Klassen: Toh! Un cappello!. A trovare un cappello sono due tartarughe, ma il problema è appunto che il cappello è uno e loro sono due. E la capacità di dialogo o di negoziazione non è proprio il loro forte. «C’è solo una cosa da fare. Lasciare il cappello dove si trova. E dimenticare di averlo trovato». Asciutto e sobrio il testo, con una vena di sorniona ironia, com’è nelle corde dell’autore, declinata qui però con meno cinismo rispetto ai precedenti due albi e con un finale più delicato (del resto delicatamente è la parola preferita dell’autore, ci informano sul sito dell’editore). Le due imperturbabili tartarughe hanno un soprassalto di empatia proprio nel finale, che ci apre al sorriso. Il libro sembra semplicissimo ma non lo è, e di certo si gioverà di una mediazione adulta. Ciò non toglie che sia godibile

anche dai piccoli, perché il tema del condividere, del «lascialo giocare col tuo giocattolo» è cruciale proprio nella prima infanzia. Le illustrazioni sono notevoli, pochi elementi essenziali, pochi colori in sfumature che seguono la luce nel giorno in una sorta di deserto con cactus da Far West (non è forse un duello infatti quello che si sta svolgendo?) e tutta l’espressività concentrata negli occhi delle tartarughe. La divisione in tre capitoli, intitolati utilizzando tre gerundi (Trovando il cappello, Contemplando il tramonto, Andando a dormire) scandisce inoltre con efficacia il ritmo della breve storia.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 febbraio 2017 • N. 07

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Società e Territorio Un sito per ricordare Il Museo della memoria è un progetto online dell’Associazione ticinese terza età che raccoglie documenti e testimonianze del nostro passato

La Cooperativa Baobab di Bellinzona Nata un anno fa è attiva in ambito educativo, psicologico e sociale: abbiamo visitato lo spazio di socializzazione per genitori e bambini da zero a quattro anni pagina 8

Il passato in digitale

Museo della memoria Ricordi, racconti, lettere, scatti fotografici e filmati: il progetto online dell’Associazione

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Le donne nella rete delle minacce Web Per invertire il fenomeno delle

molestie e della violenza online, serve educare le nuove generazioni e occorre denunciare i molestatori

Stefania Prandi Sono sempre più le donne molestate e minacciate su internet. In rete si scatena una violenza difficile da immaginare, come dimostra la denuncia di Arianna Drago, giovane informatica italiana. Pochi giorni fa ha segnalato che su Facebook esistono gruppi che pubblicano foto rubate a ragazze, commentandole senza riguardo e persino inneggiando allo stupro. Il fenomeno è globale: nei mesi scorsi la rivista americana «Time» ha dedicato la copertina alla «cultura dell’odio online» e il marchio di sicurezza digitale Norton ha intervistato un migliaio di donne, metà delle quali ha dichiarato di avere subito trolling, molestie, intimidazioni. Tra le ragazze con meno di 30 anni la percentuale sale al 76 per cento e almeno una su dieci ha avuto esperienza di revenge porn, termine con cui si intende la pubblicazione online di foto o video che riprendono rapporti intimi con l’ex partner. Anche in Svizzera si è discusso della questione del revenge porn quando, lo scorso maggio, è stata bocciata la proposta di legge in merito, dopo che il Consiglio federale ha stabilito che l’apparato giuridico attuale è sufficiente per tutelare le vittime. Secondo il «Guardian», le donne ricevono il doppio delle minacce di morte e di violenza sessuale degli uomini e in un caso su cinque vengono attaccate per il proprio aspetto. Il quotidiano inglese ha realizzato una lunga inchiesta, analizzando 70 milioni di commenti agli articoli pubblicati dal 2006; dei 10 giornalisti più insultati, 8 sono donne e 2 uomini di colore. Le reporter Jessica Valenti e Nesrine Malik, prese di mira dalla furia dei lettori, hanno raccontato l’impatto negativo dei messaggi di discredito sulla loro vita personale e sui familiari. Bisogna ricordare che anche gli uomini non sono immuni dalla violenza online, che li colpisce però in maniera diversa: vengono insultati, presi a male parole, messi in imbarazzo, ma

non minacciati di stupro né molestati sessualmente. Secondo la ricerca di Norton il problema non accenna a diminuire, anzi per il 60% delle donne è in aumento. Manca ancora la consapevolezza adeguata per affrontarlo: viene ignorato nel 40% dei casi e denunciato alle forze dell’ordine soltanto nel 10%. Come spiega Danielle Keats Citron, docente di Legge all’università del Maryland, nel libro intitolato Hate Crimes in Cyberspace, i comportamenti virtuali violenti non sono né normali né inevitabili: «se esistono è perché c’è un problema culturale che dobbiamo cercare di risolvere collettivamente usando tutti gli strumenti tecnologici e sociali a disposizione». I modi per difendersi ci sono, spiega Ornella, attivista di Hollaback, movimento internazionale nato nel 2005 a New York per porre fine alla molestie in strada, che ha lanciato HeartMob (https://iheartmob.org), un sito per aiutare a reprimere la violenza di genere online. Come le altre partecipanti del gruppo, Ornella sui media non appare con il proprio cognome, proprio per evitare ripercussioni. Ad «Azione» spiega che, se si viene prese di mira, «è importante rendersi conto che non bisogna sentirsi in colpa perché è il molestatore ad essere in errore. Se ci si trova in difficoltà, si deve chiedere aiuto agli amici, alla famiglia, ai siti specializzati. Anche se si ha voglia di cancellare subito i messaggi offensivi o minacciosi, è meglio fare uno sforzo e aspettare, documentando prima tutto, attraverso screenshot (foto della schermata) e copiando i link. Le prove, infatti, sono determinanti in fase di denuncia. Successivamente va chiesto che i contenuti vengano rimossi dalla piattaforma social e dai motori di ricerca». Per limitare il fenomeno occorre agire sull’educazione e sulla formazione, spiega Giovanni Ziccardi, professore alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano,

Se si subiscono minacce o molestie online è meglio non cancellare i messaggi e chiedere aiuto. (Marka)

dove ha fondato e dirige il corso di perfezionamento post-laurea in Computer Forensics e Investigazioni Digitali. «Il punto è fare in modo che i giovani non si abituino a considerare normali le espressioni di odio e di violenza. Siamo in un periodo storico in cui gli smartphone e i tablet vengono regalati ai bambini di otto anni. È necessaria, da parte degli adulti, una maggior attenzione a come i più piccoli affrontano le insidie del mondo digitale, anche attraverso una buona conoscenza degli strumenti informatici. Va ricordato, inoltre, che molto spesso le tecnologie vengono usate per imitazione, osservando i compagni e i genitori». Gli abusi accadono soprattutto sui social media, tanto che Twitter ha annunciato di avere rinnovato l’impegno a tracciare chi minaccia, molesta e diffama. Facebook ha sviluppato un nuovo strumento per prevenire il rischio di suicidio. Il rischio di cadere in depressione e avere pensieri autodistruttivi, infatti, riguarda una donna su cinque. Per rendere l’idea di quanto i messag-

gi «virtuali» possano essere dannosi, negli Stati Uniti è stato girato un video dal titolo #PiùCheMeschino (MoreThanMean). Nella clip, realizzata dalla comunità web Just Not Sports, alcuni uomini leggono le parole che sono state indirizzate alle giornaliste sportive Sarah Spain (di ESPN) e Julie DiCaro (del canale radio di Chicago 670). Si comincia da messaggi più innocui fino ad arrivare a insulti pesanti e auguri di morte violenta. A rendere ancora più toccante il filmato, il fatto che le due reporter siano proprio lì davanti, ad ascoltare. Un esperimento che dimostra quanto l’odio diffuso sul web abbia conseguenze reali. Non è un caso che proprio in rete si scatenino certi meccanismi perché, dice Ornella di Hollaback, «nel mondo virtuale è più facile per l’aggressore nascondersi sotto identità fittizie. Inoltre, si riescono a organizzare attacchi collettivi, bullizzando e diffamando in gruppo. Nuove parole stanno entrando nel vocabolario, per nominare queste forme di violenza online. Pensiamo al

doxing, una tecnica per tracciare le persone nei loro comportamenti, raccogliendo ogni sorta di informazione privata e rivelando poi in rete dati sensibili come foto (esponendo a casi di pornografia involontaria) o corrispondenza email. Un altro esempio è il grooming, l’adescamento sessuale sotto mentite spoglie». Le molestie riguardano anche le donne che giocano ai videogiochi. Uno studio dell’Università dell’Ohio, negli Stati Uniti, ha analizzato i comportamenti di 293 giocatrici, che hanno in media 26 anni. Dall’indagine risulta che oltre a ricevere parolacce e insulti riguardo alle proprie capacità, vengono prese di mira con scherzi su stupro e richieste di favori sessuali. Le giocatrici, da parte loro, per neutralizzare il problema decidono di assumere un’identità maschile. In questo modo, però, diventano invisibili nella comunità dei gamer, con una serie di conseguenze anche sui contenuti di chi progetta i giochi, che continua a considerarli di fruizione prevalentemente maschile.

proverbi», spiega Venturelli. «L’esperienza si è poi allargata, anche perché ai ragazzi è piaciuta l’idea di trasferire in Internet i racconti di persone della terza e della quarta età. Parallelamente abbiamo scoperto, attraverso indagini presso i soci ATTE, i Comuni e le redazioni dei periodici, da un lato il bisogno di molti anziani di raccontare le loro esperienze e dall’altro l’esistenza di una grande quantità di prezioso materiale. Oggi stiamo cercando di coinvolgere i Comuni per valorizzare e rendere accessibile al pubblico la documentazione in loro possesso». La collaborazione con le scuole continua? «La partecipazione dei giovani nell’accrescere l’offerta del Museo della memoria è un aspetto al quale teniamo molto, proprio per favorire i rapporti fra le diverse generazioni. Negli ultimi anni abbiamo concentrato l’attenzione in altre direzioni, ma desideriamo riprendere il contatto con le scuole a breve termine, anche perché nel frattempo abbiamo assistito alla realizzazione di diversi progetti interessanti, come ad esempio quello dell’istituto scolastico di Monte Carasso». In effetti «Generazioni a confronto» (2013/2014) è un’esperienza che ha riunito bambini e anziani in diversi laboratori (cucina, natura, lettura, racconto), offrendo a entrambi i gruppi opportunità d’incontro e di scambio molto apprezzate. In questi anni sono state realizzate anche numerose interviste a persone anziane che ci rendono così partecipi del loro intenso vissuto. Da Ida Rezzonico (intervistata nel 2015 a 105 anni),

Locarno, 2 novembre 1926, Fondo Frida Spinella. (Museo della memoria)

nata nel 1910 nelle terre dell’impero austro ungarico e adottata nel 1920 da una famiglia ticinese, a Oscar Schweizer, testimone oculare del bombardamento di Soletta durante la seconda guerra mondiale da lui documentato con una serie di fotografie; dal piccolo Rino, che a nove anni è stato mandato da solo sull’alpe senza conoscere il percorso e con la sola indicazione di seguire la scrofa, allo spazzacamino Cesare, autore a 11 anni di lettere in cui dal Piemonte scriveva che tutto andava bene, perché le missive venivano controllate. Tante altre storie permettono di compiere un salto nel passato. O addirittura di viaggiare nel tempo, come è il caso dell’estratto di una presentazione

Brione, 1956, immagini del Carnevale. (Museo della memoria)

multimediale sulla trasformazione urbanistica di Bellinzona sull’arco di cento anni, realizzata sovrapponendo circa 200 immagini con la stessa prospettiva. La ricerca parte dalle nove categorie nelle quali è stato suddiviso il materiale finora catalogato: fotografie, fondi fotografici, filmati, dossier, articoli, libri, scuole, mestieri, Comuni. Il nuovo sito, finanziato da ATTE e realizzato anche grazie a un piano occupazionale e al sostegno di BancaStato e Swisslos, è per sua natura un cantiere aperto che deve essere continuamente arricchito. Precisa al riguardo Elio Venturelli: «Cerchiamo nuovi volontari per coprire meglio tutto il territorio ticinese. Per il Grigioni italiano lavora con noi da circa un anno e mezzo un gruppo di quattro persone. Desideriamo anche elaborare una vera e propria strategia finanziaria per assicurare continuità al lavoro svolto finora. Non basta disporre di documentazione interessante, bisogna trasferirla sul sito con regolarità per renderla accessibile agli interessati». I dati relativi al vecchio sito confermano, con una media di 350 visite quotidiane, la curiosità suscitata dal Museo, ora presente anche su Facebook. Il Museo della memoria è vicino ai giovani nella forma ed offre diverse possibilità di approfondimento particolarmente utili per le scuole. Il respon-

sabile richiama l’attenzione sui dossier, materiali dedicati a diversi aspetti del Ticino di una volta presentati nell’ambito di mostre, conferenze o lavori scolastici e adattati per essere fruibili attraverso il sito. Per Elio Venturelli «grazie al Museo della memoria è possibile prolungare l’esistenza di iniziative caratterizzate da notevole impegno anche finanziario ma destinate a durare poco nel tempo. Uno degli obiettivi futuri è di poter arricchire il sito collegandolo ad altri portali in modo da facilitare le ricerche e massimizzare la visibilità delle diverse iniziative. Al momento stiamo lavorando a questo livello con il Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport e con la RSI. Abbiamo inoltre già instaurato una collaborazione con Teleticino». Il carattere intergenerazionale del progetto e la forza del volontariato che lo ha fatto nascere e crescere sono due aspetti essenziali del Museo della memoria della Svizzera italiana. Esso racchiude numerose testimonianze anche minute di un passato che ai giovani d’oggi sembra molto lontano. Un passato che sicuramente li sorprende e che nella forma del museo virtuale sono invogliati a scoprire. Informazioni

www.museodellamemoria.ch

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Vanna Cercenà, Una gatta in fuga, Giunti. Illustrazioni di Giulia Dragone. Da 8 anni «Io gli uomini proprio non li capisco. Perché si buttano addosso delle cose che scoppiano e fanno una gran fiamma?»: a parlare è una gattina, è lei l’io narrante e il punto di vista attraverso cui seguiamo le vicende di questa storia semplice e intensa. La storia di una famiglia di profughi, in fuga dalla Siria. A Damasco, una micina atterrita per le esplosioni si imbatte in una bambina, Alya, spaventata come lei, che la porta a casa con sé. Ma quella che è la casa di Alya e della sua famiglia – con il bel giardino e il calore delle mura domestiche – sarà presto solo un ricordo, nella fuga di tutti loro, micia compresa, dall’orrore della guerra. E proprio l’insensatezza della violenza degli umani si staglia con maggiore incisività se a raccontarcela non è un umano, ma un punto di vista «altro» quale è appunto quello di un animale. Non è certo la prima volta che in un romanzo per ra-

gazzi si affida a un animale la funzione di narratore (sin dal classico di Anna Sewell Black Beauty, del 1877, fino al celebre e recente War Horse di Morpurgo; oltre a svariati altri esempi) e infatti uno sguardo diverso, in senso sia visivo sia valutativo, opera un interessante effetto di straniamento sulle pratiche degli umani. In tal modo l’assurdità della guerra emerge immediatamente, così come il disagio dell’essere costretti a emigrare: «Tornatevene a casa!» dicono alcuni, «Come se questa non fosse la cosa che Alya desidera di più», commenta la gatta. Ma se c’è chi non accoglie o chi, come gli scafisti, lucra sul viaggio dei profughi, ci sono anche tante persone aperte e accoglienti, che

aiutano Alya e la sua famiglia a ritrovare la speranza in un futuro migliore. La storia è tenera, ma avvincente e realistica: dal racimolare i soldi per il viaggio, al campo profughi sul confine con la Giordania, al disagio degli spostamenti verso l’Egitto «in una scatola con le ruote» (come osserva la micia), fino al mare, che nessuno di loro ha mai visto; poi il terribile attraversamento a piedi del tunnel del Canale di Suez, e infine la traversata sul barcone, il dileguarsi degli infidi scafisti e il salvataggio in acque italiane. Alya si è portata dietro di nascosto la gattina (clandestina tra clandestini), ma nel corso del lungo viaggio non potrà tenerla celata a lungo: dopo un primo stupore verrà accettata e accolta da tutta la famiglia, e sarà un’accoglienza che oltretutto porterà fortuna. Jon Klassen, Toh! Un cappello!, Zoolibri. Da 4 anni Dopo il grande successo di Voglio il mio cappello! e Questo non è il mio

cappello, ecco un terzo albo sull’oggetto del desiderio degli animali protagonisti, scritto e illustrato dall’artista canadese Jon Klassen: Toh! Un cappello!. A trovare un cappello sono due tartarughe, ma il problema è appunto che il cappello è uno e loro sono due. E la capacità di dialogo o di negoziazione non è proprio il loro forte. «C’è solo una cosa da fare. Lasciare il cappello dove si trova. E dimenticare di averlo trovato». Asciutto e sobrio il testo, con una vena di sorniona ironia, com’è nelle corde dell’autore, declinata qui però con meno cinismo rispetto ai precedenti due albi e con un finale più delicato (del resto delicatamente è la parola preferita dell’autore, ci informano sul sito dell’editore). Le due imperturbabili tartarughe hanno un soprassalto di empatia proprio nel finale, che ci apre al sorriso. Il libro sembra semplicissimo ma non lo è, e di certo si gioverà di una mediazione adulta. Ciò non toglie che sia godibile

anche dai piccoli, perché il tema del condividere, del «lascialo giocare col tuo giocattolo» è cruciale proprio nella prima infanzia. Le illustrazioni sono notevoli, pochi elementi essenziali, pochi colori in sfumature che seguono la luce nel giorno in una sorta di deserto con cactus da Far West (non è forse un duello infatti quello che si sta svolgendo?) e tutta l’espressività concentrata negli occhi delle tartarughe. La divisione in tre capitoli, intitolati utilizzando tre gerundi (Trovando il cappello, Contemplando il tramonto, Andando a dormire) scandisce inoltre con efficacia il ritmo della breve storia.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 febbraio 2017 • N. 07

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Società e Territorio

Sostenere i genitori

Famiglia Siamo entrati nello spazio di socializzazione per genitori

Molti gadget elettronici sulla rete sono vulnerabili. (Marka)

e bambini fino ai 4 anni della Cooperativa Baobab di Bellinzona Roberta Nicolò Nel cuore della città di Bellinzona, proprio dietro Piazza del Sole, si trova Baobab. La cooperativa, nata circa un anno fa e sostenuta dalla Segreteria di Stato della migrazione (Dipartimento federale di giustizia e polizia), da Info famiglie e dal Dipartimento delle istituzioni del Canton Ticino, gestisce attività diverse mirate all’ascolto e all’accompagnamento di bambini, giovani e anziani. Una cooperativa che ha scelto di operare con un approccio inclusivo, per raccogliere le esigenze del territorio. È nato così lo spazio di socializzazione per genitori e bambini dagli zero ai quattro anni, che apre le porte ogni mattina a tanti bimbi accompagnati da un adulto. Una giornata qualunque al centro Baobab: sono le nove e il citofono del portone inizia a suonare. Martino è un giovane architetto bellinzonese, papà da un anno e mezzo. Entra accompagnato dal suo bambino e si siede al tavolo nella sala giochi dell’appartamento dove ci sono già Debora, una mamma ticinese, e Indika una mamma dello Sri Lanka. Martino si offre di preparare il tè per tutti, mentre i bambini nella stanza giocano tranquilli in piena libertà. Davanti a delle tazze fumanti e a una scatola di biscotti i genitori iniziano a chiacchierare. È sempre Martino a rompere il ghiaccio «per me e mia moglie, S. è il primo figlio, e avendo la fortuna di essere un lavoratore indipendente lo seguo molto. Ho scelto di frequentare il centro di socializzazione per offrire a mio figlio l’opportunità di entrare in contatto con altri bambini in uno spazio accogliente e a misura d’uomo». È Debora a prendere la parola «qui lo spazio è davvero ideale. Io ho anche una figlia più grande che ora va all’asilo e questo è il mio secondogenito. Avevo frequentato altre strutture, ma mancava questa dimensione famigliare. I miei figli a casa giocano insieme, gli stimoli non mancano, ma venire qui una volta ogni tanto è piacevole anche per me. Ti siedi, chiacchieri e i discorsi nascono naturalmente. A volte un genitore ha dei dubbi, si pone delle domande. Ricordo che con la mia prima figlia, quando avevo qualche incertezza, chiamavo l’infermiera pediatrica, ma dovevi prendere appuntamento e con i bambini la necessità è spesso immediata. Quando arrivavo all’appuntamento avevo già risolto. Qui, invece, ti siedi e parlando tra genitori, o con il personale del centro che è molto competente, capita che riesci a

trovare risposte puntuali e soprattutto in maniera del tutto spontanea». Indika sorride, lei interviene in inglese, si scusa perché il suo italiano non è ancora sufficiente e spiega che proprio qui a Baobab sta seguendo un corso di lingua italiana «quando sono venuta per la prima volta mia figlia, che oggi ha quasi tre anni, era molto timida. Era un po’ spaesata, ma proprio frequentando il centro di socializzazione ha imparato a prendere fiducia in sé stessa. Per me questo è importante, perché presto andrà all’asilo e aver imparato ad essere più aperta con i coetanei le gioverà senza dubbio. Anche per me il tempo passato qui è fondamentale, ho incontrato altre mamme e papà con i quali ho fatto amicizia e ora frequento il corso di italiano che hanno organizzato. È uno spazio che ritaglio per me stessa. Mi rilassa e mi è utile». Martino prende di nuovo la parola «Sì, anche per me è rilassante. Quando sei qui parli, il clima è informale. Io sono uno dei pochi papà. In generale ci sono più mamme e soprattutto ci sono mamme che provengono da culture differenti. La multiculturalità è un ulteriore stimolo perché, soprattutto per me che sono un uomo, mi fa riflettere sul modo di pormi e mi obbliga a prestare attenzione all’aspetto comunicativo. Stimola una riflessione sul rispetto reciproco delle differenze». Indika aggiunge «è vero con gli altri genitori ci si capisce, magari anche senza condividere la stessa lingua. Perché siamo tutti mamme o papà e questo ci dà un terreno comune sul quale relazionarci. I sentimenti che proviamo sono gli stessi». Debora prosegue il ragionamento indicando un piccolo ospite che si è avvicinato a Martino chiedendogli aiuto con un giocattolo: «quando arrivi qui cambia la dimensione della relazione. Non sei attento solo al tuo bambino, ma automaticamente diventi attento a tutti i bambini. Non serve che una mamma che si assenta dalla stanza si preoccupi di chiedere a qualcuno che dia un’occhiata a suo figlio, si fa in maniera del tutto naturale. E i bambini sono i primi a cogliere questo senso di comunità». Martino ha preso in braccio sia suo figlio sia l’altro bimbo e spiega «è incredibile come i bambini siano molto più aperti degli adulti. Questo è un luogo che ci aiuta a capirli meglio. Venendo qui, per esempio, mi sono accorto che mio figlio amava molto giocare con la cucina. I fornelli, i mestoli e le pentole.

Sono gesti che vede fare a casa da me e dalla mamma e che quindi imita volentieri. Così abbiamo deciso di comperare una piccola cucina e anche a casa lui ci gioca molto. Se non fossi venuto qui non avrei mai scoperto questo amore di mio figlio per i fornelli». Il citofono di casa Baobab continua a suonare e la stanza dei giochi si riempie di voci di bimbi, mamme e anche di nonne. Elena Conelli, psicoterapeuta e membro fondatore di Baobab, spiega che la cooperativa è nata per mettere a sistema le esperienze in campo sociale e sanitario delle sue operatrici. Un team tutto al femminile, con buona esperienza e soprattutto con grande attenzione ai bisogni della società. «Ognuna di noi era già attiva in campo psicologico, educativo e sociale, ed eravamo quindi già confrontate con le difficoltà delle persone. Vedevo mamme e papà affaticati dal compito di essere genitori, ma questo era enfatizzato dall’essere spesso soli. Si creava per loro una specie di spirale in negativo, nella quale la nascita di un figlio poteva diventare un problema, se gestito senza una rete familiare o amicale nella quale inserirsi. Per chi arriva sul territorio da un paese straniero, la nascita di un bimbo rischia di costituire un aggravarsi dell’isolamento e un accentuarsi delle paure. Per un neo genitore avere dei timori rispetto ai figli è normale, ci si pone delle domande e non sempre si è in grado di trovare risposte in tempi utili. Poter confrontare i propri dubbi, le proprie incertezze con altri genitori è di grande aiuto. Anche in ambito educativo, da parte delle mie colleghe, c’era la voglia di poter sostenere l’essere genitore a titolo preventivo. La sfida è stata quindi quella di costruire uno spazio nel quale l’accento fosse posto fortemente sulla genitorialità e che permettesse a mamme e papà, ma anche a nonne e nonni di poter trovare un ambiente a misura d’uomo dove sentirsi accolti e rassicurati, ma anche dove poter semplicemente passare del tempo rilassandosi con i propri figli. Noi offriamo uno spazio informale, con molti momenti conviviali, ma anche degli appuntamenti strutturati, per chi ne ha bisogno. Offriamo gratuitamente sostegno individuale e mediazione culturale per garantire un diritto fondamentale: quello di crescere dei bimbi sani e felici». Il progetto Baobab può essere sostenuto su progettiamo.ch

Lo spazio di socializzazione è un ambiente accogliente e rassicurante dove l’accento è posto sulla genitorialità. (Cooperativa Baobab Bellinzona)

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

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Zombie sulla rete, la minaccia futura Alfabeto Digitale L’«internet delle cose»

è la prossima frontiera del web ma rende ancora meno sicura l’architettura dell’intero sistema Ugo Wolf Il 21 ottobre del 2016 rischia di diventare una data memorabile per la storia di Internet. Molti siti tra i più importanti, tra cui alcuni dei principali portali sulla Grande rete come Amazon e Twitter, sono stati resi irraggiungibili per qualche ora, bloccati da un attacco informatico. Il termine tecnico per descrivere questi frangenti è DDoS, Distributed Denial of Service, qualcosa che potremmo tradurre come «impedimento di servizio dovuto ad accessi multipli». Si tratta di un metodo di disturbo tra i più semplici e stupidi possibili: un sito web viene mandato in stallo perché letteralmente bombardato da una quantità smisurata di richieste di accesso. E quando si dice smisurata è proprio termine giusto: se 10 milioni di persone cercano contemporaneamente di accedere a un server questo va KO in poco tempo. Invece di reclutare 10 milioni di persone in tutto il mondo per convincerle a collaborare nell’impresa insensata, gli hacker hanno sviluppato tecnologie molto più efficaci, Installando sui PC di utenti ignari piccoli programmi nascosti (i cosiddetti BotNet, cioè robot della rete), possono fare in modo che migliaia di macchine si sincronizzino tra loro. In un particolare momento, predisposto dai malintenzionati progettisti, i computer infettati possono inviare delle richieste di contatto a siti web, oppure inviare ondate di posta elettronica non richiesta: insomma mettere in atto attività informatiche autonome, completamente all’insaputa dei proprietari dei computer su cui sono ospitati. Unendosi tra loro a migliaia di migliaia possono costituire eserciti. Per quanto sembri macchinoso, questo principio di funzionamento è in realtà piuttosto semplice. Per inoculare macchine di proprietari innocui e in buona fede gli hacker sfruttano la leggerezza e la superficialità di tutti quegli utenti che rinunciano a difendere il loro computer con programmi antivirus. A dire la verità, anche chi ha installato un antivirus non può dirsi completamente Tiratura 101’614 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

al sicuro, visto che alcuni di questi BotNet sono in grado di aggirare i sistemi di difesa (e adesso sappiamo meglio a cosa serve lo spam che riceviamo ogni giorno...). Quel che è peggio, ritornando all’attacco registrato il 21 ottobre, è che ha dato modo di scoprire come i guastatori della rete non considerino interessanti soltanto le postazioni informatiche «personali», quelle legate cioè a computer casalinghi. Sta progressivamente aumentando, infatti, la diffusione in rete di apparecchi monitorati a distanza: sistemi di sorveglianza, centrali termiche e di illuminazione, dispositivi elettronici di vario tipo, persino elettrodomestici di ultima generazione sono stati collegati al web per permetterne una gestione remota. Si tratta, in questo senso, di una estensione delle tecnologie del web al funzionamento di «oggetti», ciò che tecnicamente si definisce «Internet of Thing», l’internet delle cose. Apparentemente innocua e quasi simpatica perché siamo abituati a ritenere «le cose» semplici apparecchi senza volontà, l’internet delle cose è in realtà estremamente pericolosa. Si calcola che oggi siano diversi miliardi gli oggetti collegati in rete, in una varietà di dispositivi che va dalla macchina da caffè alla centrale idroelettrica. Nella loro diversità, tutti questi «cosi» sono in effetti pilotati da un sistema operativo e sono collegati alla rete, spesso (anzi molto spesso) senza un adeguata protezione da password a prova di hackeraggio. Un malintenzionato capace di decrittarne la parola d’ordine e di introdurre un BotNet, potrebbe sfruttarli senza problemi come potenziali esecutori di un DDoS. L’attacco del 21 ottobre scorso ha per la prima volta messo in luce un pericolo incombente dalle dimensioni difficilmente calcolabili. Molti commentatori hanno descritto la situazione usando una metafora fantasy. L’internet delle cose rischia di trasformarsi in un «esercito di zombie», pronto ad essere risvegliato dai malintenzionati e a infliggere seri grattacapi all’integrità del web. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 febbraio 2017 • N. 07

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi La cattedrale che fu pagata in anguille Ci è dato (o forse è meglio dire ci tocca) vivere in un’epoca nella quale ci piace parlare di «natura» come di qualcosa indipendente dall’attività umana. Il modello prevalente di conservazione dell’ambiente, modellato su un’idea di «natura naturale» prevalente dai tempi di formazione dei Parchi Nazionale americani (Yellowstone, 1872), prevede che the wilderness escluda sistematicamente l’interferenza del fattore antropologico. Per quanto riguarda il continente europeo, è segnato dalla specifica storia di cul de sac dove popolazioni su popolazioni che muovevano da Est a Ovest si sono impaccate almeno dall’Età del Bronzo fino a colonizzarne gli angoli più remoti e gli ecosistemi più ostili. Non vi è dunque prospettiva più fuorviante che pensare al paesaggio europeo come wilderness. Dalle praterie alpine, risultato di millenni di pascolo e di fienagione, agli stagni costieri, alle lagune ed altre features del paesaggio, il lavoro umano ha modellato, deviato, spianato e scavato il paesaggio toscano come quello delle valli dolomitiche, la murgia pugliese come la costiera romagnola, i polder olandesi come la Murcia iberica. Al punto che, con quella

rivoluzione culturale a tutti i livelli della realtà antropologica che fu il passaggio dalla Pax Romana alla Pietas Cristiana, l’addomesticamento della Natura divenne un mandato che andava di pari passo con la missione di salvare le anime. Molte delle grandi fondazioni ecclesiastiche sorsero infatti in territori acquitrinosi e paludosi. Nel Nord Italia, ad esempio, quell’immenso caos di acque emerse, ristagni e imbancamenti di terre alte che era la pianura padana mano a mano che si drenavano le acque del Mare Padano, ebbe nelle abbazie benedettine un fattore fondamentale nella trasformazione di lande malariche nei terreni agricoli fra i più fertili d’Europa. Se le risaie del vercellese costituiscono la memoria storica dell’acqua come fondamentale protagonista della storia padana, le pinete costiere che dal Ravennate al Riminese marcano la zona immediatamente a ridosso, le dune del litorale raccontano invece la storia opposta. Le abbazie degli ultimi secoli prima del Mille – prima fra tutte forse Pomposa – sorsero col preciso intento di governare le acque. Occorreva da un lato impedire che l’acqua utile alla terra l’abbandonasse, mentre d’altro lato oc-

Ely deriva da eel, termine anglosassone per anguilla. E le anguille sono state per secoli l’oro delle Fens, pescate a milioni e commerciate fino in Olanda sotto il controllo di una potente Gilda di Mastri Pescatori. La prima fondazione ecclesiastica ad Ely porta il marchio reale: fu infatti Santa Etheldreda, figlia del Re dell’East Anglia, a fondare qui un’abbazia di monaci e monache nel 672. Dopo una serie di raid vichinghi, nel 970 fu rifondata come abbazia benedettina – l’Ordine al tempo di gran moda, e tale rimarrà fino alla Riforma protestante, quando, estinto l’ordine per legge, divenne sito cattedrale della Chiesa Anglicana. Ma la storia della costruzione attuale comincia nel 1102, poco dopo la conquista normanna, con la firma di un contratto per la fornitura di pietre da costruzione con la non lontana abbazia di Peterborough. Il prezzo della cattedrale? Ottomila anguille all’anno. La costruzione del colosso di pietra si protrasse per anni – e per decine e decine di migliaia di anguille. Tormentata da drammatiche crisi nella storia amministrativa dell’abbazia, dalla morte di abati intraprendenti e dall’ascesa di autorità politiche ostili

al potere abbaziale, la cattedrale di Ely appare oggi come un impressionante accrescimento di navate e contrafforti, cappelle laterali ed aggiunte successive tenute assieme da arcate di rinforzo quasi come se non vi fosse mai stato un piano di costruzione definitivo che potesse conferirle la simmetria di una vera cattedrale. E storta e sbilenca la costruzione fu fin dall’inizio. Il cantiere fu tormentato da crolli da subito: il terreno paludoso semplicemente non reggeva il peso delle guglie ambiziose e dei contrafforti troppo massicci. Eppure si continuò a costruire, con quell’ostinazione che solo regge ad majorem Dei gloriam. Si dovette venire a più miti consigli, tuttavia, quando la torre centrale della facciata rovinò a terra. Era la notte fra il 12 ed il 13 febbraio del 1322: la città delle Anguille fu scossa come da un terremoto, e finalmente ci si convinse che il gigante non poteva reggere su piedi di argilla. La torre fu ricostruita più leggera, fu necessario però appoggiarci contro un potente, massiccio contrafforte: è ancora là, testimone men che elegante ma indispensabile di quando le cattedrali si pagavano in anguille.

realtà il due parti contrapposte: da una parte il buono che inghiotte, introietta dentro di sé, dall’altra il cattivo che sputa, proietta fuori di sé. La mamma è buona quando è presente, nutre e gratifica, è cattiva quando è assente, non appaga e delude. Questa polarità risulta mirabilmente rappresentata nelle fiabe dove alla fata si oppone la strega, all’amore l’odio. Solo in un secondo tempo, quando la mamma reale è diventata una presenza mentale, un’immagine salda e positiva, il bambino può accettare l’ambivalenza, ammettere che in realtà la mamma è un po’ buona e un po’ cattiva. Come tutti, compresi noi stessi. Invece tu, l’ambivalenza non l’hai ancora accettata e, nei confronti del partner, alterni atteggiamenti di accettazione e di rifiuto: vorresti introiettare alcune parti di lui e respingerne altre, dire sì o no, entra ed esci, ti accolgo e ti respingo. L’armadio che rimane chiuso, la libreria che non consente neppure uno spiraglio, nessun

ripiano sul quale appoggiare le foto di famiglia dell’uomo che hai accolto nella tua vita e nel tuo cuore parlano per te, ti rappresentano. Mettono in scena le tue ambiguità. Il mobile che nella parte alta contiene gli abiti e, nei cassetti, la biancheria intima, simboleggia l’Io-corpo, la nostra prima identità, la componente più profonda e segreta di noi. La libreria rappresenta invece la parte intellettuale, razionale della nostra personalità. Infine il rifiuto di far posto alle foto dei tuoi «suoceri» rivela la difficoltà di accogliere la persona che ami nella tua storia, di scrivere nella tua biografia un capitolo nuovo. Poiché sei consapevole dell’immobilità in cui ti trovi e avverti il rischio di una crisi affettiva, potresti sforzarti di agire in modo diverso, magari di spostarti in un appartamento più grande. Ma non servirebbe a niente perché il cambiamento deve avvenire prima di tutto dentro e non fuori di te. Siamo fatti per vivere insieme ma, dopo che per tanti anni si sono ap-

prezzate l’autonomia e l’indipendenza, non è facile cambiare registro. Occorre superare la diffidenza iniziale e buttare il cuore oltre la siepe: passare dal corpo narcisistico al corpo di coppia, che non appartiene né all’uno né altro ma alla relazione. Quando i due io, fondendosi, diventano noi, emerge un terzo, il possibile figlio. A quell’appello, che proviene dall’inconscio, si può rispondere sì, no o più tardi, ma è impossibile eluderlo. In ogni caso l’incontro con il progetto procreativo rappresenta il raggiungimento della maturità sessuale ed esistenziale. Il percorso non è agevole ma vale la pena di rischiare e tu, cara Adriana, mi sembri pronta ad affrontarlo.

cide con quello di una stazione, nodo ferroviario importante, a metà strada fra Berna e Zurigo, dove transitano, ogni giorno, 80’000 persone: viaggiatori frettolosi che cambiano treno, e basta. Neppure un’occhiata, fuori dal recinto delle FFS, come se la città, sulle rive dell’Aar, ai piedi del Giura, non esistesse, con una propria fisionomia degna di attenzione. Sta di fatto che, a Olten, la voglia di riscattarsi è motivata. Negli ultimi decenni, la città ha registrato un’incessante perdita di abitanti. Tanto che, per frenare l’esodo, le autorità hanno lanciato un’insolita operazione: abitare in prova. Consiste nella possibilità di usufruire di soggiorni gratuiti, o a prezzi di favore, in appartamenti e alberghi e, in pari tempo, di abbonamenti per i mezzi di trasporto e di ingressi a spettacoli,

impianti sportivi, musei. Ora la proposta, rivolta in particolare ai pendolari, provenienti da Zurigo e da Berna, non ha ottenuto l’esito sperato: gli ospiti, in prova, non sono poi diventati abitanti in pianta stabile. Secondo i commenti, letti sui giornali d’oltre Gottardo, è una tipica «questione d’immagine». Dopo la chiusura del Letten, la famigerata scena zurighese della droga, dalle rive della Limmat si era trasferita su quelle dell’Aar. Con prevedibili conseguenze. Ma, al di là di quest’episodio, si rimprovera, ai politici, l’incapacità di valorizzare, con la necessaria efficacia, le risorse locali, sul piano culturale e politico, in particolare. Olten ha, infatti, alle spalle un passato importante: qui, nel 1912, fu fondata la prima Società degli scrittori elvetici. E, qui, nel 1970,

nacque il «Gruppo di Olten», che riunì intellettuali dissidenti, fra cui Adolf Muschg e Giovanni Orelli. Personaggi che animarono una stagione artistica che ha lasciato tracce da riscoprire. Si deve, non da ultimo, tener conto di un altro fattore: qual è la simpatia che circonda, e non solo in Svizzera, le città di piccole dimensioni, dove la quotidianità ha ritmi più rilassati, favorisce gli incontri e riporta alla luce le radici identitarie. Ed è quel che avviene a Bellinzona che, al pari di Olten, ha legato il suo nome alle ferrovie. E, adesso, con Alptransit sta rinnovando l’immagine, puntando su obiettivi forse un po’ illusori. Lavorare a Zurigo ma abitare a Bellinzona? Ogni cambiamento apre incognite. E rifare la propria immagine comporta rischi. Comunque da correre.

correva che quella inutile la aggredisse: arginare le paludi di Comacchio, riserva ricchissima di pesce andava dunque di pari passo con l’impedire al mare di sfondare e riportare tutto al largo. Ecco allora che i monaci intrapresero un lavoro millenario di rimboschimento dei litorali coi pini marittimi. Il monachesimo benedettino, con la formula «Ora et Labora» e la sua globale presenza continentale, fu l’interprete e l’imprenditore ideale a condurre quel movimento di «costruzione del paesaggio» che rappresenta l’approccio europeo alla Natura. E torniamo così nel territorio delle Fens, a nord di Cambridge, dove già si trovava l’Altropologo non più di due settimane fa. È qui, in questa vasta zona di terre basse, nere e pesanti all’aratro, intersecata da fiumi e canali costantemente sull’orlo di campi e pascoli, con un mare ostile e non lontano pronto ad inghiottirsi interi paesi, che lo sforzo di articolare Lavoro e Preghiera ha prodotto uno dei risultati più spettacolari. L’hanno chiamata La Nave Arenata nelle Fens. La cattedrale di Ely si eleva per 66 metri su di una lunghezza della navata centrale di 163 su di un imbancamento di terre alte visibile da miglia tutt’attorno.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Lo spazio nell’armadio Cara Silvia, ho quasi quarant’anni, un lavoro che mi piace, tante amiche e uno sport, il tennis, che mi ritempra e diverte. Proprio sul campo da tennis ho incontrato tre mesi fa l’uomo capace di indurmi, per la prima volta, a uscire dal guscio protettivo che mi ero creata, a mettermi in gioco, a tentare la convivenza. Chi mi conosce non voleva crederci, si chiedeva come aveva potuto accadere una simile resa. Non lo so neanch’io: è accaduto e basta. Lui voleva che andassimo a vivere insieme in un appartamento più grande rispetto ai nostri due, ma io non me la sentivo di abbandonare il mio rifugio e così l’ho invitato a venire da me. Ero entusiasta all’idea e rimango convinta di aver trovato l’uomo della mia vita. Ma allora perché non riesco a far spazio alle sue cose? Potrei togliere degli abiti che non uso dall’armadio, i libri che ho già letto dalla libreria, le scarpe di troppo dalla scarpiera, lasciargli mettere sul comò le foto dei suoi genitori, morti da

tempo ma a lui molto cari. Ma non trovo mai il tempo per un riordino radicale, così lo costringo a vivere un po’ dentro e un po’ fuori dalla mia casa, a non disfare mai la valigia, a sentirsi un ospite, desiderato sì, ma pur sempre un ospite. Perché tutto questo? / Adriana Cara Adriana, la tua domanda, apparentemente riguarda la casa, le cose. Ma in realtà è su te stessa che t’interroghi, è il quesito «chi sono io?» a indurti a scrivere e a condividere con noi il tuo malessere. Hai dichiarato indisponibili l’armadio e la libreria ma accogli l’«ospite nel tuo letto», e neppure tu sai spiegare una simile incongruenza. Seguendo il metodo psicoanalitico che, per comprendere gli enigmi del presente sonda il passato, suppongo che, nella tua prima infanzia, uno snodo precoce dello sviluppo sia rimasto irrisolto. Durante la fase orale, che corrisponde grosso modo all’allattamento, il neonato suddivide la

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Città in cerca d’immagine La vocazione turistica funziona, e come, con effetti concreti proprio in Svizzera. Il nostro Paese fu, tra i primi, a fare dell’ospitalità un’industria, fiutando gli umori dell’epoca: gli inglesi che, nella seconda metà dell’800, si erano innamorati delle Alpi e i tedeschi dei laghi a sud del Gottardo. E fu così che, per accoglierli, località, prima di allora anonime, villaggi, borgate e piccoli centri provinciali, diventarono mete di richiamo internazionale, con un’alta qualificazione dal profilo mondano e persino culturale. Stiamo parlando di San Moritz, Gstaad, Zermatt, Interlaken, Lucerna, e, naturalmente, di Locarno, Lugano, Ascona, tanto per citare esempi ormai simbolici in questa scalata al successo, in termini di affari ma, soprattutto, di notorietà. Un attributo, quest’ultimo, più che mai,

ambìto, nell’era del far parlare di sé, sul piano individuale e collettivo: una sorta di lasciapassare. Per ottenerlo serve un’immagine. E, per i luoghi, qui entra in gioco l’etichetta «località turistica», sinonimo di potere d’attrazione, di piacevolezza, di qualità di vita. Se non c’è, bisogna inventarsela. In verità, anche in una Svizzera, privilegiata da bellezze naturali a iosa e da monumenti storici ben conservati, ci sono, per forza di cose, località destinate a un anonimato, per altro decoroso e vivibile: al quale, però, adesso ci si vuol ribellare. È il caso di Olten che, recentemente, ha fatto notizia; appunto perché sembra decisa a uscire da un oblio forse immeritato. Confessiamolo: per noi ticinesi, come probabilmente per la maggioranza degli svizzeri, il nome di Olten coin-


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Ambiente e Benessere La città intelligente Singapore è sempre più uno Stato del futuro, soprattutto per la sostenibilità pagina 12

Migusto, la cucina sul web Una nuova proposta per gli appassionati di gastronomia: la piattaforma online di Migros, offre ricette e consigli

Buffet sempre più ricchi Pare essere tornato di moda offrire una vasta gamma di piatti anche nei ristoranti «In»

Cade l’obbligo, non il valore Addestrare il proprio cane non è più obbligatorio, ma non significa dover smettere di farlo

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Meno di due minuti fa non eravamo agricoltori Etnobotanica Genetisti da sempre, abbiamo

selezionato piante e animali per nutrirci

Lorenzo De Carli «La semplice verità è che l’agricoltura è profondamente innaturale». Con questa affermazione finisce il capitolo con il quale Tom Standage – economista ma anche storico dell’alimentazione – descrive il passaggio dalle società di cacciatori-raccoglitori all’agricoltura nel suo studio intitolato Una storia commestibile dell’umanità; e con buona pace di chi si oppone agli alimenti geneticamente modificati, soggiunge: «il mais resistente agli erbicidi non esiste in natura, d’accordo, ma del resto neppure il mais». Facciamo risalire l’inizio dell’agricoltura, più o meno, a diecimila anni or sono. Nel 2000 a.C., avevamo già praticamente domesticato tutte le specie botaniche di cui ci alimentiamo ancora. Se mettiamo a confronto una pannocchia di mais con il teosinte, la pianta da cui abbiamo evoluto il mais, possiamo affermare che i nostri antenati vissuti diecimila anni or sono furono dei grandissimi ingegneri genetici, selezionando i tratti desiderabili delle colture domesticate e propagandoli con quella che gli storici hanno denominato «rivoluzione agricola». Ma è una storia recente: «se paragoniamo i 150mila anni dalla comparsa dell’uomo ad un’ora, è solo negli ultimi quattro minuti e mezzo che gli esseri umani hanno cominciato a coltivare la terra, e solo nell’ultimo minuto e mezzo che l’agricoltura è diventata il maggior mezzo di sussistenza». Per tracciare la storia di questa coevoluzione tra il nostro genere e le colture domesticate che hanno dapprima permesso il passaggio dalle società di cacciatori-raccoglitori, poi allo sviluppo delle prime civiltà urbane, Standage fa ricorso a varie discipline, dalla genetica all’archeologia, dall’antropologia all’etnobotanica, senza mai trascurare

l’economia. Il risultato è una serie di capitoli che documentano come i modi nei quali ci siamo approvvigionati di cibo abbiano trasformato le nostre società, spesso a tal segno da modificare profondamente le pratiche sociali. Nel 2000 a.C. la maggior parte dell’umanità aveva adottato l’agricoltura. È stato davvero un progresso? Gli antropologi che studiano le attuali società di cacciatori-raccoglitori ci dicono che i boscimani !Kung del Kalahari dedicano dalle dodici alle diciannove ore settimanali alla raccolta del cibo, mentre i nomadi Hazda della Tanzania, meno di quattordici. Durante il tempo in cui, dunque, gli agricoltori sono impegnati quotidianamente, i cacciatoriraccoglitori hanno una settimana lavorativa di due giorni. Anche sulla salute, la rivoluzione agricola produsse effetti di enorme impatto. Non si tratta solo del fatto che la varietà dei cibi così come la costante attività fisica contribuivano a conservare in buona salute i cacciatori-raccoglitori mentre gli agricoltori versavano in uno stato spesso cagionevole, si tratta del fatto che la vita condotta in prossimità di animali domesticati aveva esposto i sedentari agricoltori al contatto con patogeni prima ignoti e pronti a diffondersi in società sempre più grandi. Ma se le società di agricoltori e di allevatori furono fortemente caratterizzate dalla condizione stanziale, l’attività mercantile per terra e per mare dette luogo a una fitta rete di relazioni che permise lo scambio di alimenti e di idee. Probabilmente si diffuse piuttosto l’agricoltura che gli agricoltori, ciononostante alcuni alimenti contribuirono, come poche altre cose, non solo a moltiplicare i contatti tra società lontane ma a stimolare l’esplorazione del mondo. Tra questi alimenti le spezie hanno avuto un ruolo senza paragoni.

Da economista, Tom Standage ne segue la storia fin dal V secolo a.C., quando Erodoto per primo, attraverso la descrizione delle spezie e del loro uso, parlò delle loro virtù e narrò di come procacciarsele. Sino al I secolo a.C., la rete mondiale del commercio delle spezie era nelle mani di marinai arabi e indiani. Solo pochi anni prima di Cristo, i marinai alessandrini prima e romani poi appresero il segreto degli alisei stagionali e scoprirono la rotta marittima per raggiungere direttamente la costa occidentale dell’India. Seguendo le molteplici vie delle spezie, Tom Standage descrive la storia delle esplorazioni e le scoperte geografiche; così come i cibi che, giunti dal Nuovo mondo, produrranno profondi cambiamenti nel vecchio; ma anche quelli casualmente scoperti quando ancora l’obiettivo ultimo era quello delle spezie. Mentre la canna da zucchero stava attraversando l’oceano e con essa il carico di schiavi per coltivarla, le piantagioni avevano introdotto già a metà del Cinquecento un’organizzazione del

lavoro che duecento anni dopo fecero proprie in Inghilterra: dapprima le manifatture, successivamente le prime industrie. Ricchi di osservazioni sulle trasformazioni del cibo, sono i capitoli dedicati al rapporto tra alimentazione e guerra, dalle campagne napoleoniche sino alla seconda guerra mondiale. Ma il lavoro di ricerca condotto da Standage tratteggia con efficacia anche le catastrofi prodotte dalla collettivizzazione dell’agricoltura nell’Unione sovietica e nella Cina maoista. Se la rivoluzione verde degli anni Sessanta, resa possibile dalla combinazione della selezione di varietà di grano ad alto rendimento con l’uso di fertilizzanti chimici, scongiurò la morte per denutrizione di centinaia di milioni di persone, il lascito nella forma di una diminuita varietà delle specie coltivate unitamente all’uso massiccio anche quando non necessario di prodotti chimici, sono oggi fonte di preoccupazione. La storia del modo in cui ci siamo alimentati prima e dopo la rivoluzione agricola c’insegna che se siamo stati

bravi a selezionare i tratti di vegetali e animali funzionali alla nostra alimentazione, abbiamo anche ripetutamente sofferto le conseguenze di carestie verificatesi perché troppo dipendenti da monoculture e da una generale diminuzione della varietà. Per consentire alle future generazioni di ovviare ai problemi che abbiamo creato con un’ingegneria genetica che dura ormai da diecimila anni, nell’isola norvegese di Spitsbergen è stato costruito lo Svalbard Global Seed Vault. Progettata per raccoglierne quasi cinque milioni di tipi, è la più grande e sicura struttura per l’immagazzinamento di sementi. Nel corso della nostra storia, abbiamo scartato le varietà di alimenti vegetali meno produttive. Ed è Standage a ricordarci che «non c’è modo di sapere quali varietà si dimostreranno utili in futuro perché tollerano bene la siccità, sono immuni alle malattie o tollerano bene i disinfestanti». Possiamo solo sperare che quei semi conservati sotto il permafrost garantiscano cibo anche alle future generazioni.


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Ambiente e Benessere

Cartoline dal futuro

Viaggiatori d’Occidente Singapore è il modello della città asiatica del XXI secolo

Massimo Morello, testo e foto «Quando ero bambino qui c’era il mare» dice il gentile signor Chan, l’uomo delle pulizie all’Esplanade di Singapore. Adesso due immense cupole a scaglie coprono un teatro, una concert hall, studi di registrazione, un centro commerciale, ristoranti e una biblioteca. Chan ha cinquantacinque anni, è nato poco prima dell’indipendenza, nel 1965, quando Singapore si staccò dalla Malesia diventando di fatto una Città-Stato. L’Esplanade è stata aperta nel 2002 segnando l’inizio della metamorfosi di Singapore: da centro finanziario e commerciale a città d’arte e cultura, centro di ricerca, innovazione e intrattenimento.

Da generic City a smart City: secondo Gerhard Schmitt entro cinquant’anni Singapore apparirà come «un vero e proprio paradiso tropicale» Là dove Chan andava a fare il bagno, oltre l’Esplanade, è sorto il complesso di Marina Sands, penisola artificiale intorno a un grande lago, collegata al centro da un ponte pedonale che riproduce la struttura del Dna. Il tutto dominato da tre torri unite da una piattaforma aerea, che ospitano oltre duemila stanze d’albergo, e da una struttura polifunzionale che combina casinò, centro commerciale e convegni. Lungo la promenade, dallo spazio d’acqua emergono due isolotti artificiali. Uno di questi, collegato al Marina Sands da un tunnel sottomarino, è l’Espace Luis Vuitton, un prisma poliedrico di vetro che scompone e riflette il panorama circostante: da un lato i grattacieli del nuovo Financial District, dall’altro il grandioso fiore di loto che è l’Art Science Museum. Il tutto progettato dall’archistar Moshe Safdie. Poi è stata la volta dei Gardens By The Bay: centodieci ettari di giardino botanico con gigantesche serre che sembrano navi spaziali e superalberi hi-tech coperti da vegetazione tropicale. «Nella visione di Singapore la prospettiva del mondo è diversa» dice Kiat W. Tan, amministratore delegato di questo iperprogetto. «Per uomini e piante la regola è la stessa: cambiamento e adattamento. Dice un filosofo: se guardi la foresta non vedi l’albero; se guardi l’albero non vedi la foresta. Qui puoi fare entrambe le cose». Gli alberi cominciano a crescere anche sui grattacieli, boschi verticali come quelli della nuovissima South Beach Town, eco-quartiere costruito

Il complesso di Marina Sands, sulla sinistra l’Art Science Museum.

I supertree dei Gardens by the Bay.

attorno a due torri, progettato dallo studio Foster+Partners con una tettoia lunga duecentottanta metri che riproduce la volta di una foresta e giardini terrazzati. I settecentoventi chilometri quadrati di Singapore sono destinati ad aumentare. Basta osservare il modello della città nella hall dell’Urban Redevelopment Autority (URA), l’organizzazione per la pianificazione urbana. Oltre i Gardens si estende quasi un’altra città in divenire, senza conta-

Il plastico di Singapore nella sala della Urban Redevelopment Authority.

L’interno di una delle due serre dei Gardens by the Bay.

re il progetto di una città sotterranea destinata a ospitare quasi cinquemila scienziati e ricercatori. Nel frattempo i laboratori della Agency for Science, Technology and Research operano nei grattacieli di una cittadella della scienza. «Non so dove potrei trovare un altro posto così» dice Antonio Bertoletti, italiano che dirige un programma di ricerca su infezioni e immunità. «Qui si assimilano e scambiano idee, come una rete neurale». Gli studenti di Singapore, parte di questo cervello, si sono classificati al primo posto nel Pisa test, il Program for International Student Assessment, che valuta il livello d’istruzione in settanta paesi al mondo (la Svizzera è al diciottesimo posto). Singapore investe moltissimo nell’insegnamento e nelle architetture scolastiche, come la biblioteca della National University, un «uovo» in vetro e acciaio. Sembrano trascorsi secoli, non qualche decennio, da quando l’architetto Rem Koolhaas prese Singapore a modello di ciò che definiva generic city. Oggi la definizione più diffusa è smart city, una città intelligente, una sorta di unica, immensa app, che ognuno può visualizzare sul proprio smartphone. Magari per trovare il parco più vicino, non più di dieci minuti a piedi da qualsiasi punto. «In una smart city avete a disposizione tutte le

informazioni che vi servono e, grazie a un sistema di information architecture, potete interagire con la città» ha detto Gerhard Schmitt del Politecnico federale di Zurigo, fondatore e direttore del Singapore-ETH Centre. Secondo Schmitt, entro cinquant’anni Singapore apparirà come «un vero e proprio paradiso tropicale». È lo scenario di un’altra definizione di Singapore: Renaissance City. «Vogliamo che Singapore sia un luogo d’ispirazione e apprendimento per i creativi della nuova società multidimensionale» dice Jean Tan, direttrice della Singapore International Foundation. L’ispirazione si trova in una passeggiata nell’Art Precinct, il distretto artistico, tra musei e centri culturali che ospitano, oltre alle esposizioni permanenti, un cartellone di mostre temporanee e manifestazioni quali la Singapore Art Biennale e il Singapore Writers Festival. Prima tappa di questo tour può essere l’Asian Civilisations Museum, che presenta il più chiaro panorama storico e culturale del Sud-est asiatico. Quindi il Singapore Art Museum, le cui opere compongono la maggior collezione di questa parte di mondo. E ancora il National Museum, dove viene esaltata l’identità nazionale nell’ipertecnologia dell’allestimento. Infine la

grandiosa National Gallery, aperta nel 2015. «Uno degli obiettivi è ridefinire il concetto dell’arte nel Sud-est asiatico attraverso esposizioni e ricerche che la facciano comprendere nel contesto globale» spiega il curatore Seng Yu Jin. Per molti, specie in Occidente, Singapore appare come il lato distopico della globalizzazione, con tutti i suoi progetti al limite della fantascienza. «Il problema vero è un altro. Gli abitanti di Singapore temono la perdita di quello che hanno conquistato» dice Yeng Pway Ngon. Nel 1978 questo scrittore è stato incarcerato perché sospettato di attività sovversive. Dagli anni Ottanta si dedica alla scrittura e alla sua libreria, la Grassroots Book Room. «Il sistema si è stabilizzato, ha raggiunto il suo scopo. Una volta i libri di Mao erano proibiti; adesso si possono vendere, ma nessuno li compera». Il nostro uomo delle pulizie, il gentile Chan, più che temerne la perdita, sembra soddisfatto di ciò che ha. È felice, come la maggior parte dei singaporean. Secondo il World Happiness Report (indagine sul livello di felicità in centocinquanta Paesi del mondo) Singapore si classifica al ventiduesimo posto (al primo tra le nazioni del Sud-est asiatico). Per la cronaca, il paese più felice al mondo sarebbe la Danimarca, seguito dalla Svizzera…


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Billy Elliot – il musical per la prima volta in Svizzera. Al Palazzo dei Congressi di Lugano potrai immergerti nella storia dell’undicenne Billy Elliot, che nonostante le condizioni di vita difficili scopre l’amore per la danza. Musica di Elton John, copione e testi delle canzoni di Lee Hall, già autore della sceneggiatura del film. Quando: 21 e 22 febbraio 2017 Dove: Lugano Prezzo: da fr. 38.80 a fr. 62.40 (invece che da fr. 48.50 a fr. 78.–), a seconda della categoria Informazioni e prenotazione: www.cumulus-ticketshop.ch

DAZ ZELT offre in un’atmosfera unica intrattenimenti di qualità quali sketch comici, spettacoli circensi, concerti e show per famiglie. A marzo questo teatro itinerante farà tappa in Ticino. Entra nel mondo di DAS ZELT e a Lugano ammira gli show dei seguenti artisti: Andrea Bignasca, Starbugs Comedy e Family Circus.

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Ambiente e Benessere

L’auto del futuro?

Motori Il Gruppo Bosch, esperto nello sviluppo della tecnologia da applicare ai veicoli a motore,

sta lavorando per brevettare un sempre maggior numero di nuove soluzioni

Nel 1886 a Stoccarda, in Germania, Robert Bosch fondò la «Officina di meccanica di precisione ed elettronica». Oggi l’azienda che porta il suo nome ha circa 390mila collaboratori e un fatturato annuo di 73,1 miliardi di euro. Il Gruppo Bosch con le sue 450 consociate e filiali è presente in oltre 60 Paesi e si occupa della progettazione, della costruzione e della vendita di elettroutensili, elettrodomestici, tecnologie per imballaggio, termotecnica, sistemi di sicurezza. Ma non solo.

Al Salone CES di Las Vegas, Bosch ha esibito una show car ipertecnologica, dove un riconoscimento facciale adatta l’abitacolo alle esigenze personali Da decenni il Gruppo tedesco sviluppa tecnologia da applicare ai veicoli a motore. Basti pensare che nel 1936 a Robert Bosch fu assegnato il brevetto 671’925 per un «dispositivo anti-incollaggio freni». Il nonno dell’ABS che entrò poi in produzione di serie nel 1978. Ogni anno Bosch presenta circa duemila nuovi brevetti. «Oggi ci troviamo nel mezzo del processo di trasformazione più sostanziale che abbiamo mai vissuto contribuendo attivamente al cambiamento di industria, mercati e tecnologie» spiega il presidente del colosso tedesco, Volkmar Denner. I suoi ingegneri stanno sviluppando l’auto del futuro puntando su connettività ed elettromobilità. Secondo nuovi studi condotti da Bosch «il 62

per cento degli acquirenti di auto nuove ritiene che entro il prossimo decennio la sua famiglia possederà almeno un veicolo totalmente elettrico e il 71 per cento pensa che tutte le vetture di famiglia saranno completamente a zero emissioni entro 15 anni». Ecco allora che al Salone dell’Auto di Detroit, da poco concluso, Bosch ha presentato nuove soluzioni che consentiranno di rendere l’elettrificazione accessibile alle masse. Anteprima mondiale per il sistema di trazione elettrico «eAxle» che attraverso una piattaforma modulare scalabile garantisce una riduzione dei costi del 5-10 per cento rispetto ai componenti singoli. «Flessibile per diverse architetture, “eAxle” unisce in un unico sistema i migliori componenti dei dispositivi di propulsione e trasmissione Bosch» spiegano gli ingegneri tedeschi. «È la Thermal Management Station a mostrare l’efficienza con cui la tecnologia Bosch gestisce i flussi di calore nei veicoli elettrici e incrementa l’autonomia fino al 25 per cento, in particolare durante la guida invernale». Sempre negli Stati Uniti, ma al CES di Las Vegas, Bosch ha presentato una show car che riunisce molte delle tecnologie attualmente disponibili. Un esempio? Non appena il guidatore si siede a bordo del prototipo Bosch la tecnologia di riconoscimento facciale sistema il volante, gli specchietti, la temperatura interna e la stazione radio in base alle specifiche preferenze (foto a lato). Tutto è controllato da un display aptico, che reagisce al tocco, e da un innovativo sistema di controllo gestuale. La connettività dell’auto verso il mondo esterno grazie a servizi basati sul cloud consente di partecipare a videoconferenze oppure permette a guidatori e passeggeri di pianificare i propri appuntamenti o di vedere i loro

Il prototipo eAxle: un mix di connettività ed elettromobilità.

video preferiti. Interessante lo studio Connected Car Effect 2025 presentato sempre da Bosch e focalizzato su USA, Cina e Germania: «Nel giro di 8-9 anni la guida connessa e assistita contribuirà in maniera significativa alla sicurezza stradale» spiegano i ricercatori tedeschi. «Sistemi come la frenata automatica di emergenza e la guida predittiva eviteranno circa 260mila incidenti con lesioni, riducendo di 360mila unità il bilancio dei feriti. Inoltre, i sistemi di assistenza connessa potrebbero salvare la vita di 11mila persone». Bosch si impegna come sempre a rendere le sue tecnologie disponibili a tutti. In pratica saranno sul mercato e qualsiasi Casa automobilistica potrà decidere di comprarle per integrarle sulle proprie auto, com’è stato fatto sino ad oggi con ABS ed ESP.

M Divertirsi ai fornelli Migusto Da questa settimana parte la nuova piattaforma online

per appassionati di cucina proposta da Migros: sia i principianti sia gli esperti potranno trovarvi le migliori ricette

Migusto è un portale gastronomico pensato per un pubblico molto ampio, che sulla piattaforma web dovrà sentirsi a proprio agio. Si rivolge a tutti: a chi sfoggia già una certa abilità ai fornelli e a chi desidera iniziare. Migusto è anche un club, il cui accesso è possibile se si possiede una Carta Cumulus. Questo perché ai membri vengono offerti buoni esclusivi e con-

corsi: affinché gli iscritti possano usufruire di questi vantaggi devono essere registrati. Le proposte di Migusto avranno un legame molto stretto con l’assortimento Migros e la realizzazione delle ricette sarà in questo modo resa ancora più semplice. I contributi su Migusto. ch, poi, avranno la possibilità di essere commentati dagli utilizzatori. In futuro sono previsti anche eventi esclusivi legati alla cucina, in cui i membri potranno conoscersi tra loro. In questo modo si rafforzerà ulteriormente il concetto del club per appassionati di gastronomia.

Un club per amanti della buona tavola.... (MM)

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Iscriversi è semplice Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus. Ecco come si procede: una volta entrati nel sito web migusto.ch cliccare sull’opzione «iscriversi», inserendo il proprio indirizzo di posta elettronica e la password personale Migros. Si possono poi indicare i parametri sul tipo di cucina preferita: si tratta di specificare il proprio grado di abilità, se si soffre di eventuali allergie o intolleranze, se si è interessati a proposte vegane o vegetariane. Da questo momento il nuovo membro di Migusto riceverà ricette personalizzate e altri consigli di cucina, che si adattano precisamente ai suoi gusti o alle sue necessità. Chi non possiede una carta Cumulus può ottenerla sia iscrivendosi su www. migros.ch/carta-cumulus oppure richiedendola nella più vicina filiale Migros. Si riceverà poi una lettera di benvenuto contenente di dati personali di accesso che permetteranno l’iscrizione a Migusto.

Ti-Press

Mario Alberto Cucchi

I lavori si erano resi necessari dopo il rogo di martedì scorso nel parcheggio privato al livello –2 della palazzina di via Besso 74. Nell’intervento Migros Ticino è stata supportata dalle autorità cantonali e si è affidata a esperti e alle migliori ditte specializzate nel campo. I lavori sono andati in porto spediti e senza intoppi: le pulizie, il risanamento ambientale e la deodorizzazione, nonché il ripristino degli impianti, delle apparecchiature elettriche ed elettro-

niche sono ora terminati e la riapertura dell’esercizio è prevista per domani, martedì 14 febbraio 2017. Ricordiamo che fino a questa sera alle 18.00 è a disposizione della clientela il bus navetta gratuito organizzato da Migros Ticino per garantire un collegamento veloce, comodo e sicuro da Massagno Radio alla vicina filiale di Crocifisso di Savosa e viceversa. La capacità operativa della linea garantisce una corsa ogni 30 minuti.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 febbraio 2017 • N. 07

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Ambiente e Benessere

Torna di moda il buffet Prima o poi ci capita di inciampare in un buffet. Può essere in un resort dove siamo andati a passare qualche giorno di vacanza, può essere durante un meeting di lavoro o una presentazione di qualcosa, può essere da amici che hanno tanti ospiti, e il buffet arriva. E quanto ci piace!

Ma attenzione: evitare sempre di offrire in un buffet pasta o risi tondi all’italiana che l’attesa rovinerebbe In verità, abbiamo un rapporto ambivalente verso questa tipologia di servizio. Ci viene facile parlarne male soprattutto perché, parere mio sia chiaro, non essendo ordinati di natura, attorno ai tavoli di servizio si creano bolgie inenarrabili, che tirano fuori il peggio di noi. Ma poi possiamo riempire i nostri piatti senza limiti, e siamo usciti dalla fame storica da abbastanza poco tempo per non amare di amore totale i piatti colmi di ogni ben di Dio. Poi ne avanziamo tantissimo, che sarà forse gettato, ma questo è un altro discorso. Cosa sia un buffet è semplice: basta mettere su un grosso tavolo tutti i piatti preparati. Poi ognuno prenderà quello che vuole. Tutto qui. I piatti possono essere tantissimi. Già solo la cucina classica ne suggerisce molti: da arrosti vari alla lingua salmistrata, dal roastbeef alle insalate miste, dalle uova sode ai pesci affumicati, dal fegato grasso alle aringhe e a tanto altro. Tutti comunque serviti freddi, o meglio a temperatura ambiente. O così si faceva una volta: oggi però abbiamo gli scaldini e quindi possiamo anche proporre piatti caldi, sebbene forse sarebbe meglio definirli comunque tiepidi, che per almeno un’ora non degradano. Quindi vanno altrettanto bene tanti piatti caldi.

Quali non vanno bene? Quelli cosiddetti al salto, cioè quelli finiti di cuocere in una padella e immediatamente serviti. Ahimè, ahinoi, la cucina italiana è però a base di piatti fatti al momento, per essere mangiati subito, paste e risi in primis. E quindi non vanno bene per un buffet, classico o moderno: se mettete una pasta su uno scaldino in poco tempo diventa di una qualità che offende non solo gli dei ma pure i garzoni del cibo. Pazienza, il mondo è grande. Vale anche per le cucine cinesi e messicane, tutte e tre al salto. Il buffet ideale? In primo luogo proporre delle basi di amidi come polenta, riso pilaf, bulgur e cuscus, ma appunto non pasta o riso tondo italiano. Poi ci vogliono basi proteiche: spezzatini di manzo o di vitello o di altre carni, i ragoût dei francesi e tedeschi, pesci come gamberi, scampi, moscardini, seppie e tanti altri, cotti in umido, legumi lessati. I ceci non devono mai mancare; ma anche tofu, seitan e tempeh, sia chiaro. A questi si aggiungono delle verdure, singole o già mescolate, cotte al vapore o sbianchite e saltate in padella. Per concludere, ciotole con abbondanti salse, classiche come pomodoro, pesto, di noci o più curiose come una salsa agrodolce, alla menta o al cren. E poi infiniti dolci: quelli classici da pasticceria da asporto. È un modello che ha, può avere, un vantaggio collaterale: che non richiede l’uso del coltello, basta e avanzano forchette e salsacoltelli, che sono cucchiai piatti perfetti per tagliare ingredienti teneri e raccogliere sughi. È un modello che, fra l’altro, permette ai vegetariani di non essere discriminati, e lo stesso vale per i vegani, basta prevedere le loro proposte in un mix stimolante. Il buffet in questi ultimi tempi ha poi un rilancio clamoroso. Alcuni ristoranti di alta gamma hanno scoperto che era un modello perfetto per il pranzo del sabato e della domenica. È sostanzialmente un all you can eat di livello top, che fa contenti tutti.

CSF (come si fa) Pinterest

Allan Bay

Smuconlaw

Gastronomia Oggi come non mai si è arricchito di proposte più esotiche grazie alle diverse culture

La minestra maritata è una delle grandi glorie della cucina napoletana. Questa minestra andrebbe fatta con gli ingredienti tradizionali, che sono: broccoli di foglia mondati, broccoletti mondati, cicoria e scarolella, cavolo cappuccio, torzelle (un cavolo antico) mondate, erbe aromatiche a piacere, un osso di prosciutto, cotenne salate, salamino, pezzentelle (spuntature), tracchiolelle (puntine), carne mista,

salsicce fresche, lardo macinato, caciocavallo secco, peperoncino forte, un mazzetto di cipolla, sedano, carota, piperna o maggiorana, prezzemolo e sale (se occorre). Purtroppo molti ingredienti sono di difficile reperimento, non solo in Ticino o a Milano, ma anche a Napoli, quindi vi propongo una versione ridotta, un po’ meno ricca ma sicuramente più facile da fare e anche più digeribile. Vediamo come si fa. Ingredienti per 6 persone: 1 osso di prosciutto, 250 g di cotenna, 250 g di salamino, 300 g di puntine di maiale, 3 salsicce, 150 g di lardo, 100 di caciocavallo stagionato, 100 g di grana, 1 mazzetto di gambi di prezzemolo, dragoncello e alloro, peperoncino, sale. Lavate la carne e il salame, metteteli in una pentola con il mazzetto aroma-

tico, ricoprite di 4 dita d’acqua e fate cuocere a fuoco lento. Dopo circa due ore e mezza la carne sarà cotta, levatela, mettetela su un tagliere, tagliatela a pezzettini, spolpate l’osso di prosciutto e mettete il tutto in una ciotola con un paio di mestoli di brodo, per evitare che asciughi troppo. Coprite e mettete da parte. Lavate le verdure e gettatele in una pentola in acqua a bollore con poco sale, coprite il recipiente e non appena il bollore avrà ripreso, scolatele bene. Finite di cuocerle nel brodo bollente filtrato dove è stata cotta la carne, insieme al caciocavallo a pezzetti e peperoncino su fuoco moderato per circa mezz’ora. Aggiungete le carni nel tegame, mescolatele alla verdura e servite la minestra accompagnando con grana o pecorino romano. Regolate di sale, ma solo alla fine.

Ballando coi gusti Oggi due arrosti che veramente più semplici non possono essere. Ma, come sempre per i piatti semplici, più che mai la bontà delle materie prime è fondamentale. Arrosto in agrodolce

Coniglio al forno

Ingredienti per 4 persone: 600 g di filetto · 2 porri o 2 cipolle · 1 carota · 1 costa di sedano · 1 spicchio di aglio · 2 rametti di rosmarino · aceto a piacere · zucchero · olio di oliva · sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: 1 coniglio pulito da circa 800 g · 4 spicchi di aglio ·

Pennellate di olio la carne, legatela con rosmarino. Mondate e tagliate a dadini le verdure. Mettete in una casseruola un filo di olio, rosolatevi il pezzo di carne da ogni lato, poi copritelo con le verdure. Cuocete per 20’, a fuoco basso: ma allungate questo tempo in funzione di quanto vi piace cotto il filetto. Levatelo, tenetelo in caldo in forno a 100° per 5’. Asciugate il fondo di cottura con le verdure a fuoco allegro, unendo un bicchierino di aceto, 2 cucchiai di zucchero, sale e pepe. Affettate la carne e servitela, accompagnando col sugo agrodolce.

Fate sobbollire il vino per 3’ in modo che la parte alcolica, che in cottura è amara, evapori. Lavate e tagliate a pezzi il coniglio. Scaldate l’olio in una teglia da forno. Rosolate la carne nell’olio insieme con gli spicchi di aglio mondati e leggermente schiacciati e 2 foglie di alloro. Bagnate con il vino, unite i pomodori secchi, cuocete in forno a 180° per circa 1 ora, bagnando con poca acqua bollente se necessario. Sfornate, eliminate l’aglio, regolate di sale e di pepe e servite.

1 rametto di mirto · 1 bottiglia di vino rosso · 4 pomodori secchi · alloro · olio di oliva · sale e pepe.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 febbraio 2017 • N. 07

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Ambiente e Benessere

Le conquiste vinicole del Nord-Ovest

Bacco giramondo La viticoltura dell’Oregon e dello Stato di Washington, fortemente condizionata dai terreni grassi

o vulcanici e dai fiumi, ha raggiunto livelli eccelsi, con un Pinot Noir che rivaleggia con quelli francesi Davide Comoli Fu verso la metà degli anni Sessanta che David Lett, ignorando i consigli degli esperti che consideravano il clima dell’Oregon troppo freddo per poter coltivare il Pinot Nero, decise di provare. Forse questi «esperti» non avevano tenuto conto del fatto che il Pinot Nero sembra prosperare in condizioni difficili e apparentemente impossibili, come quelle che alle volte si trovano in Borgogna o in altre zone europee come i Grigioni. L’Oregon così come Washington sono i due Stati del Nord-Ovest americano. I fiumi Columbia e Snake sono di vitale importanza per la viticoltura di queste aree. Il clima è moderato nell’Oregon, ma quasi arido e desertico nello Stato di Washington, che dipende in modo totale dall’irrigazione visto che qui gli inverni sono molto freddi. Il terreno varia da terra molto grassa nell’Oregon a un substrato vulcanico nello Stato di Washington. La scelta del vitigno è quindi di fondamentale importanza: se nello Stato di Washington predominano tra i rossi il Cabernet Sauvignon e il Merlot, mentre tra i bianchi lo Chenin Blanc, il Sémillon e il Sauvignon Blanc, nell’Oregon invece predomina il Pinot Noir tra i rossi e un poco di Chardonnay tra i bianchi. David Lett piantò i suoi primi piedi di vigna nella Willamette Valley, dove oggi la superficie vitata è di circa 5mila ettari dei quali più di 3800 sono vitati a

Pinot Nero. Nel 1975 i suoi Pinot Noir si dimostrarono pari ai migliori Pinot di Borgogna e nel 1976 il Pinot Noir di David Lett, ottenne il secondo posto dietro a un Chambolle Musigny del 1959, in una degustazione a Beaune. Dopo questo segnale, molti ebbero fiducia nel suo progetto visionario. L’Oregon è sulla stessa latitudine del sud della Francia, ma la parte ovest del Paese ha un clima fresco e umido. Coltivare la vigna nell’Oregon è una vera scommessa, qui non si trova lo spirito californiano, ma piuttosto dei vignerons filosofi, aperti ma ben quadrati, che ricordano un po’ lo spirito dei vecchi coloni che arrivarono in queste zone un secolo fa. Per meglio capire la gente dell’Oregon, niente di meglio che partecipare all’International Pinot Noir Convention, dove una volta all’anno produttori appassionati del Pinot Nero, si ritrovano nella piccola città di McMinnville. Quaranta ettolitri a ettaro è mediamente la resa del Pinot Nero, le uve sono colte a mano e cernite sia in vigna sia in cantina da eventuali muffe che possono alterarne il gusto. Molti winemaker usano lieviti naturali, che anche se lavorano più lentamente, danno più carattere ai vini; la vinificazione dura in media 18-21 giorni. L’élevage normalmente si protrae invece dai dodici ai tredici mesi in botte. Sempre di più il Pinot Nero, in particolare quello coltivato nella Willamette Valley, è diventato uno dei vini più

richiesti negli USA. Willamette Valley è l’eccellenza dell’AVA (American Viticultural Areas) dell’Oregon. Il suolo di origine vulcanica, il clima temperato, la densità di impianto, ma con rendimenti bassi, danno dei vini con profumi di ciliegia matura e molto fruttati, tannini setosi, con acidità e struttura che permettono un buon invecchiamento. Il secondo vitigno per importanza è il Pinot Grigio, con spiccati sentori di albicocca, pesche e agrumi, tant’è che ha retrocesso lo Chardonnay al terzo posto. Da notare come in questi ultimi anni, molti viticoltori si sono riconvertiti a una viticoltura biologica trovando sempre più adepti. Con i suoi 17mila ettari vitati, lo Stato di Washington, negli USA, contende

a quello di New York il posto di secondo produttore di vino con ceppi europei. Le due cantine più importanti (oggi se ne contano 500 circa) si trovano nella periferia di Seattle e sono: la Columbia Winery e Château Sainte-Michelle. La ragione è puramente commerciale: in effetti, le vigne per il 99 per cento crescono a est dietro la Catena delle Cascate che raggiungono i 4400 m s/m (M. Rainier 4367 m) sulle quali s’infrangono le piogge provenienti dal Pacifico. Ai piedi delle montagne si estende la grande valle desertica della Columbia Valley, prima AVA dello Stato. Se in questa regione si può coltivare la vite, lo si deve unicamente alle acque del Columbia e dei suoi affluenti lo Snake River e Yakima River.

In questa vallata è solo dal 1930 che si scoprirono le potenzialità per la produzione vitivinicola, ma prima si dovettero creare dei canali per l’irrigazione. Fu solo nel 1951 che si piantarono i primi ceppi da parte di Chateau Ste. Michelle e nel 1957 fu il turno della Columbia Winery, ma la prima bottiglia ufficiale entrò sul mercato solo nel 1967. Lo Stato di Washington non ha mai conosciuto il flagello della filossera, quindi tutti i vitigni sono a pied franc (con la base non innestata, cioè). Il suolo è molto povero e molto permeabile; il sottosuolo è composto di basalto che si decompone in superficie, mischiato a sabbia e argilla. A eccezione della parte est del Paese dove l’influenza del mare penetra nel terreno e rinfresca la temperatura, la Columbia Valley è caratterizzata da suoli aridi, da una grande luminosità e poche nuvole. Le notti sono però fredde, questo implica una lunga maturazione all’uva che beneficia di un ottimo sviluppo degli aromi. Malgrado le condizioni favorevoli i vigneron hanno un nemico: il winter killer, colpi di freddo che possono gravemente danneggiare i ceppi di vite a –25° (come avvenne nel 1996 e nel 2004). I vitigni più coltivati sono per i rossi il Cabernet Sauvignon e il Merlot, per i bianchi lo Chardonnay, il Riesling, con i quali con l’aiuto del Pinot Nero (foto) si sta incominciando a produrre dei discreti spumanti. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 febbraio 2017 • N. 07 1 2 3 4

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C I R 1 A 2Ambiente N O e Benessere 8C A 4 S 9 10 11 12 I T E R T7 2E A 1 T M 13 14 15 E E 5G 6 T R 3I D I O 16 17 18 Mondoanimale Abrogato l’articolo 68 OPAn: in Ticino saranno solo i detentori C di caniI «potenzialmente E 3 R I 6 pericolosi» T I L 19 20 8 5 9 3 6 a dover sostenere i corsi educativi, che per tutti gli altri restano comunque un’offerta di4 valore7e utilità A L A T A C E R E O 4 6 21 dell’importanza dei corsi d’educazione con un cane O diventa N una scelta di vita». Maria Grazia Buletti 5 4 EZ 6 con il decadimento 2 8 E dell’ob1 cinofili che aiutano proprietario e22 cane oggi, 23 La notizia dell’Ufficio sicurezza ali- a inserirsi correttamente nella nostra bligatorietà a frequentare questi corsi, Tle5 persone A sono N comunque Z 8 3A mentare e veterinaria (Usav) è di quelle complessa società, aiutando a conoscecoscienti 24no25 26 che danno adito a qualche interroga- re, e interpretare, il linguaggio dei della loro valenza? tivo: l’obbligatorietà federale dei corsi stri amici a quattro zampe. Corinne ha le idee O R l’obbligatorietà: Cchiare Re reputaI N. 6 MEDIOmarginale per detentori di cani è stata abrogata il Comprendere i segnali che il cane «Prima del27 31 dicembre 2016. La decisione è ma- ci mostra in differenti situazioni nelle legge la gente frequentava comunque 6corsi,TperchéE 5 R inteMlai nostri A I turata in seguito a una mozione depo- quali si viene a trovare favorisce una li rendiamo

Non più obbligatorio, ma consigliato

sitata il 18 marzo dello scorso anno dal consigliere agli Stati Ruedi Noser, in base alla quale «il Consiglio federale è incaricato di abolire l’obbligo per i detentori di cani di conseguire l’attestato di competenza». Mozione accettata dal Consiglio degli Stati a giugno 2016, e dal Consiglio nazionale a settembre. Il Consiglio federale ha così deciso di abrogare l’articolo 68 OPAn che disciplinava i corsi obbligatori per tutti i detentori di cani, con effetto il primo gennaio 2017. Dal canto suo, l’Ufficio del veterinario cantonale ticinese comunica che in Ticino questa modifica non comporta conseguenze per la Legge sui cani (ndr: per “Legge sui cani” si intende solo quella cantonale inerente le 30 razze soggette a restrizione), che resta integralmente in vigore. Ciò significa che da noi «non vi sono cambiamenti riguardo ai corsi obbligatori per la tenuta dei cani delle razze soggette all’obbligo di autorizzazione». Di pari passo, il timore della Federazione cinofila ticinese sta nel fatto che la popolazione ticinese possa recepire la decisione federale come «un fallimento dei corsi obbligatori» e che si faccia largo il pregiudizio che l’educazione dei cani risulti inutile. Di fatto, parecchi istruttori e addetti al lavoro nell’ambito cinofilo sono convinti

buona convivenza e aiuta a prevenire i problemi generati spesso da un modo non sufficientemente consono di tenere l’animale. A questo punto è lecito chiedersi se i nuovi proprietari, e i proprietari di un nuovo cane, saranno abbastanza coscienti e responsabili per seguire da soli i corsi, approfittando dunque di tutti i benefici, come impa1 a conoscere 2 3il proprio 4 nuovo ami-5 rare co e capire cosa significa avere il primo 7 cane. È innegabile che questi corsi8 permettono l’accesso ai nuovi metodi educativi e d’apprendimento. Abbiamo 9 parlato, con un’esperta, delle10conseguenze della decisione di abolire l’obbligatorietà dei corsi OPAn: 11 12 «Non basta amare gli animali per sapersene occupare; nello specifico, occuparsi di un 13 serio e importante cane è un impegno da assumere». Così esordisce la titolare del 18Centro 19 cinofilo Mulino Prudenza di Novazzano, Corinne Ferrari. Al Mulino Prudenza, Corinne 21 Ferrari è allevatrice di Border Collie e22 lavora con i cani in diverse discipline sportive come agility, obedience24e altro. 23 Guardiana d’animali con diploma federale e Pet coach in comportamento 26 Joel Dehasse, com(allieva del dottor portamentalista, titolare di una cattedra all’Università di Zurigo), Corinne è stata fra i primi istruttori cinofili ad

ressanti e attrattivi: come istruttori non

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4 si devono perdere di vista gli obiettivi di cui abbiamo parlato, ma è necessario

7 3 incontri entusiasmanrendere questi ti per proprietari e cani». La qualità

dell’istruzione fa dunque la differenza 8 3

(N. 6 - Cina nord orientale)

Giochi Cruciverba Trova una saggia verità risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 5, 2, 5, 3, 3, 2, 2)

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(N. 7 - Le cause 1

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ed è la risposta ai timori che oggi, non 7 più obbligati 2 1dalla 9legge, 6i detentori di cani non si occupino più di verificare le 6 proprie conoscenze e acquisirne delle 4 nuove insieme al proprio animale. «Proponiamo corsi di sensibiliz6 1 zazione e di gioco; insegniamo alle Corinne Ferrari e il suo Border collie. (Natalie Anselmini) persone la relazione giocosa col cane, 5 8 prendere loro l’educazione,9facciamo aver conseguito l’abilitazione quale mentale, risolvendo molti problemi sul coscienza delle necessità dell’animale 9 che l’edu- e li facciamo 4 2divertire insieme», racistruttrice per corsi OPAn in Ticino, e nascere; non dimentichiamo ha l’abilitazione per il corso riconosciu- cazione porta al controllo del cane che, conta Corinne Ferrari che per ora non to inerente le trenta razze. Così parla una volta ben educato,N. potrà li- vede calare gli interessati a partecipare 7 essere DIFFICILE 14 15 16 nell’ambito 17 dell’esperienza acquisita berato nelle apposite aree così adibite e ai corsi proposti, anche se non più obdi questi anni di corsi obbligatori: «Nel saprà comportarsi bene». Cani felici ed bligatori. «Forse non interesseremo più 7 alcune4persone, 1 ma molti comprendefrequentare i corsi, diversi cani hanno educati, dunque, se i proprietari hanno 20 potuto finalmente correre liberi; questo compreso come tenerli, insegnando ranno che si tratta di momenti impor9 5 e di grande utilità, 3 li frequenteè il problema più grosso che si presen- loro a vivere insieme a noi. tanti ta ai proprietari, dato che non possono «I corsi teorici (ndr. che dovrebbe- ranno comunque e inviteranno altri a lasciarli scorrazzare ovunque». L’i- ro precedere l’acquisto del cane) 8 erano fare altrettanto». 3 struttrice ribadisce l’importanza di un altresì molto importanti, perché servoCorinne termina con un’efficace 25 luogo di libera socializzazione dei cani: no a farsi un’idea di cosa significhi ave- similitudine: 7 «Se acquisto3un’automo«Per una migliore relazione con il pa- re un cane prima di acquistarlo; si capi- bile e non prendo la patente, non posso 27 drone, e per una buona socializzazione sce che non è una moda, si valuta se si guidare. È la stessa cosa: se decido di 5 con altri cani». In quanto alla parte più dispone del tempo necessario per pren- avere un cane, devo in qualche modo educativa, «durante i corsi si è potuto dersene cura a dovere, ma si compren- prendere la patente di proprietario». Di 7 vivere buon proprietario, 9 8 6 lavorare parecchio sul lato comporta- de soprattutto che decidere di aggiungiamo noi.

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ORIZZONTALI 1. Consentita, legittima 6. Ispiravano i poeti 10. Un buco nella stoffa 11. Stato africano 12. Può essere allegro o accigliato 13. Riunione di capi... 14. Non cambia letta al contrario 15. Dentro un baccello 16. Si ripete nella risatina dei fumetti 17. Ha un proprio servizio 18. Piacevole, ameno 19. Ne hanno tutti quattro 20. Arcobaleno 22. Stato dell’America del Sud 23. Le iniziali del calciatore Totti

24. Una pietanza come il sushi VERTICALI 1. Un elettrodomestico 2. Sottile, fragile 3. La parola più generica 4. Infossatura del polmone 2 fin di3vita 4 5.1 Sono in 6. Un dito 7.9Primo cardinale italiano 10 8. Nota musicale 9. Nome maschile 13Non approvata, respinta 14 11. 13. Anagramma di none 15. Una teca per16film... 16. Due lettere nella scheda 18. Una gonna a campana

19. Venerato dagli antichi egizi 21. Un reparto dei Carabinieri (Sigla) (N. 23. 6 - Iniziali Cina nord di unorientale) noto ciclista di altri tempi 1 2 3 4 5 6

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4 settimana 6 2 precedente 8 1 9 3 5 4 6 7 2 8 Soluzione5della UN PO’8DI BOTANICA – L’albicocco è originario della: CINA 5 3 6 8 NORD 4 5ORIENTALE. 2 1 3 9

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N. 6 MEDIO (N. 8 Prima avevo il tre e ora il trentasei)

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle 6 bis 2017 Giochicolorate. per “Azione” - Gennaio

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15B. Ceccato P. Soldini, L. Invernizzi, 22

Vincitori del concorso Sudoku: 24 25 su «Azione 05»,17 del 30.1.2017: P.26Delcò, E. Palli 19

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 febbraio 2017 • N. 07

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Politica e Economia Trump debutta in Yemen Con i raid aeri anti al-Qaeda The Donald mette in atto le promesse elettorali

Dalla parte degli uomini Fra i diversi provvedimenti firmati da Trump c’è anche la reintroduzione della norma a sfavore della tutela della salute riproduttiva delle donne, che taglia i fondi federali alle Ong internazionali che praticano aborti o forniscono informazioni

Debiti privati alle stelle Si parla poco dell’indebitamento privato, ma la costante crescita deve preoccupare

Meno neve, più concorrenti Le stazioni sciistiche svizzere devono lottare contro lo scarso innevamento ma anche contro una crescente concorrenza, in Europa e in Asia pagina 28

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L’America riscopre la minaccia

Muslim Ban Gli americani, soprattutto

la maggioranza dell’elettorato trumpiano, non hanno ancora assorbito il trauma dell’11 Settembre. Ma questo decreto rivela anche lo spirito del tempo, attraversato da una grande crisi d’identità

Lucio Caracciolo Il provvisorio divieto all’immigrazione dei cittadini di sette paesi islamici – Siria, Iran, Iraq, Somalia, Sudan, Yemen e Libia – promulgato da Donald Trump il 27 gennaio, poi sospeso da un giudice del tribunale federale di Seattle e oggetto di disputa fra i poteri americani, svela il carattere profondo della visione del mondo del nuovo presidente e dell’America che è con lui. Gli Stati Uniti si considerano in guerra non contro il terrorismo islamista, ma contro l’«islam radicale» (Trump dixit). In realtà, l’aggettivo è pleonastico. Quella della nuova amministrazione è una vera e propria guerra di religione. Crociata moderna. Perché Washington (ri)scopre la centralità della minaccia jihadista – anzi, islamica – dopo che per otto anni, con Obama, l’aveva declassata a fenomeno secondario, fino ad abolire persino il termine «guerra al terrorismo»? La ragione principale, confermata da vari sondaggi, è che gli americani non hanno ancora assorbito il trauma dell’11 settembre. Naturalmente, pochi fra i sostenitori di Trump notano che il paese da cui proveniva la grande parte degli attentatori di quel fatidico mattino americano era l’Arabia saudita, espunta dall’elenco dei sette «cattivi» selezionati dal neopresidente. Negli ultimi mesi, pur in assenza di attacchi paragonabili a quello che abbatté le Torri Gemelle e colpì il Pentagono, la paura di nuovi attentati sembra attanagliare buona parte dell’opinione pubblica. Soprattutto, la netta maggioranza dell’elettorato trumpiano. Di qui la richiesta di misure drastiche di prevenzione, anche in contrasto con lo spirito originario della nazione – ma non con alcuni suoi comportamenti in tempo di guer-

ra, che colpirono le minoranze «pericolose» nelle due guerre mondiali. E la promessa del presidente di presentare entro un mese dall’insediamento un piano dettagliato per «eradicare» definitivamente lo Stato Islamico, considerato oggi l’emanazione più minacciosa della galassia islamista. Qualche ulteriore elemento per capire lo sfondo ideologico-geopolitico dei «falchi» dominanti nella nuova amministrazione lo offre la lettura di un saggio pubblicato lo scorso anno dall’attuale consigliere per la Sicurezza nazionale, il generale Michael T. Flynn. S’intitola The Field of Fight (Il campo di lotta) ed è stato scritto a quattro mani con Michael Ledeen, veterano dell’intelligence a stelle e strisce. Flynn vi descrive la superpotenza come impegnata in una guerra mondiale destinata a durare generazioni contro gli «islamisti radicali», alleati con Corea del Nord, Russia, Cina, Cuba e Venezuela. Quasi una partita Usa-Resto del Mondo, con un nemico variegato, perfido e numeroso. È chiaro che se questo scenario è valido ne consegue che Washington deve mobilitare tutte le risorse disponibili per vincere la guerra. Infine, il decreto di Trump rivela lo spirito del tempo – almeno nella pancia della nazione americana, in particolare nei cosiddetti «flyover States», compressi fra le due coste e le loro popolazioni assai più liberali e cosmopolite. Questa America soffre di una crisi di identità. Soprattutto per effetto dell’immigrazione ispanica, la «razza padrona» bianca si sente minacciata nelle sue certezze di gruppo dominante. Vede in pericolo il proprio primato, fondato su due secoli e mezzo di storia. In questo scenario, distinguere fra flusso immigratorio da paesi mu-

Dimostrazioni di protesta contro l’ordine esecutivo voluto da Trump per impedire agli islamici di entrare negli Stati Uniti. (AFP)

sulmani e potenziali terroristi islamici è esercizio troppo faticoso per menti piuttosto eccitate. Allo stesso tempo questa vicenda svela i limiti dei poteri del presidente. L’America non è una dittatura e Trump non è – anche se talvolta sembrerebbe volerlo essere – un dittatore. Le reazioni suscitate nell’opinione pubblica, nel Congresso e negli apparati istituzionali – a cominciare dal potere giudiziario – testimoniano della vivacità del sistema di pesi e contrappesi che da sempre caratterizza la repubblica a stelle e strisce. L’esito del braccio di ferro fra Trump e alcuni giudici sarà un primo test del confronto fra Casa Bianca e altri centri di potere disseminati a livello federale come nei singoli Stati. Entro qualche anno

avremo probabilmente un quadro nuovo dei rapporti di forza nel parallelogramma istituzionale, proprio nel momento in cui la stragrande maggioranza degli americani mostra sfiducia nel sistema politico e in entrambi i partiti. Tale scontro intestino si rifletterà inevitabilmente sulla proiezione della superpotenza nel mondo. Fino a che punto l’impero americano è compatibile con le dispute interne alla federazione? Quale sarà l’impatto di tali conflitti sull’immagine globale degli Stati Uniti? In particolare, come reagiranno i musulmani a una sfida così esplicita e muscolosa? La galassia islamica è estremamente variegata. Oggi molti musulmani sono in guerra, soprattutto con-

tro altri musulmani. Trump potrebbe un giorno rivelarsi come il catalizzatore di un odio diffuso e specifico di islamici di varia etnia, cultura e vocazione contro gli Stati Uniti d’America. In tal caso, lo scopo stesso dell’ordine esecutivo del 27 gennaio sarebbe rovesciato, esponendo ancor più l’America proprio a quei pericoli che Trump promette di voler stroncare. Paradosso dei paradossi, una sequenza di attentati di matrice jihadista negli Usa avrebbe probabilmente l’effetto di cementare attorno al presidente il consenso non solo dei suoi sostenitori, ma anche di molti suoi attuali oppositori. L’effetto di compattamento patriottico sarebbe scontato. Ma vogliamo credere che questo non fosse lo scopo di Trump, firmando quel decreto.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 febbraio 2017 • N. 07

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Politica e Economia

Si riaccende la fiamma del Jihad

Yemen L’intervento anti-al-Qaeda deciso in passato da Obama e ora autorizzato da Trump è il primo atto

di quella lotta al terrorismo islamico promessa in campagna elettorale. Ma è anche un attacco indiretto all’Iran Marcella Emiliani Quella che si combatte in Yemen dal 2014 è una guerra vergognosamente dimenticata e d’altronde nel Medio Oriente di oggi gli scenari di conflitto sono tali e tanti da contendersi il triste onore del diritto di cronaca. Invece, mentre l’attenzione internazionale era ed è concentrata sulla Siria, sull’Iraq piuttosto che sulla Libia, appena entrato in carica il neo-presidente americano Donald Trump ha immediatamente approvato un raid in Yemen contro l’Aqap, alias al-Qaeda nella penisola arabica (foto). Fonti del Centcom (il Comando centrale unificato del Dipartimento della difesa Usa che coordina gli interventi rapidi in Medio Oriente, Nord Africa e Asia Centrale, con particolare attenzione all’Afghanistan e all’Iraq) hanno poi chiarito che il raid era stato pianificato da tempo, ma Barak Obama non l’aveva mai autorizzata. Probabilmente, per non chiudere il suo secondo mandato alla Casa Bianca con un’operazione che avrebbe potuto comportare grosse perdite tra i civili. Trump questo tipo di tentennamenti non sa nemmeno cosa siano, anzi l’intervento in Yemen è stato il primo atto di quella che già in campagna elettorale prometteva come una muscolosissima lotta contro il terrorismo islamico. Così il 29 gennaio scorso, approfittando della prima notte senza luna, elicotteri da combattimento e droni della marina americana hanno bombardato Yakla, un villaggio sperduto sulle montagne del distretto meridionale di al-Bayda, quindi un commando del Team Six dei Navy Seals, sceso a terra, ha completato l’opera andando ad eliminare casa per casa i capi tribali affiliati ad al-Qaeda nella penisola arabica. Stando ai testimoni oculari la battaglia sul terreno è stata molto dura. I morti in totale, secondo il Centcom, sarebbero 20 (compreso un marine americano, altri tre sarebbero rimasti feriti); fonti del governo yemenita parlano di 4 uomini, 8 donne e 7 bambini mentre l’Aqap di vittime ne ha contate 31, tra cui 10 donne e tre bambini. Ma il vero trofeo del raid americano è stata l’uccisione di Abdulrauf al Dhahab, un leader di lunga data

dell’Aqap che gli americani avevano già tentato invano di uccidere coi droni negli anni scorsi, e dei capi tribali suoi alleati: Saif Alawai al-Jawfi e i fratelli Abdelrauf et Sultan al-Zahab. Pare comunque che il vero obiettivo non fossero loro, bensì il capo in testa di al-Qeda nella penisola arabica, l’emiro Qassim al-Raymi, sfuggito per ben due volte ai raid americani e ai tentativi di catturarlo dell’esercito yemenita. E mentre Trump, all’indomani del blitz a Yakla, esultava definendo l’operazione «un successo», al-Raymi lo insultava pesantemente sul web definendolo «il nuovo idiota alla Casa Bianca». Tra le vittime civili, c’era anche la piccola Nawar al-Awlaki, di otto anni. Tanto per rinfrescarci la memoria si trattava della figlia minore di Anwar al-Awlaki, imam e intellettuale americano-yemenita, ucciso da un drone Usa il 30 settembre 2011 sempre in Yemen. Al-Awlaki, che i sauditi chiamavano «il bin Laden di internet», era autore di quel vero e proprio manuale del perfetto terrorista dal titolo 44 modi di sostenere il jihad che teorizza il jihad-fai-da-te, una pratica che ha decisamente preso piede in maniera funesta come testimoniano molti degli attentati contro i civili compiuti in Europa e negli Stati Uniti soprattutto dai cosiddetti lupi solitari targati Isis o al-Qaeda, indottrinati su internet. In breve la piccola Nawar al-Awlaki è diventata l’icona di tutte le vittime della «superbia americana» e la sua immagine è diventata virale sul web non solo in Yemen, dove suo padre era ben noto, ma in tutto il mondo arabo. E in varie città yemenite la gente è scesa in strada per dare alle fiamme la bandiera a stelle e strisce e manifestare contro il governo di Abdrabbuh Mansour Hadi, alleato degli Stati Uniti. Dal canto suo Mansour Hadi, presidente-travicello, per non essere delegittimato dalla piazza, e decisamente seccato dall’inserimento dello Yemen nella lista dei 7 paesi ai cui cittadini è stato vietato l’ingresso negli Usa dal Muslim Ban di Trump, avrebbe tolto al Centcom l’autorizzazione a compiere raid nel suo Paese, con grave danno per le sue stesse sorti. Hadi, infatti, dal 2014 si ritrova a fronteggiare la ribellione degli Houthi, una tribù sciita del Nord che sempre nel 2014 è riuscita a impadronirsi della

capitale Sana’a, e nel febbraio 2015 lo ha costretto a rifugiarsi ad Aden, nel Sud del Paese. Mentre gli Houthi sono stati armati e sostenuti fin dall’inizio della loro offensiva dall’Iran, in seguito hanno ottenuto anche l’appoggio dell’ex presidente-padrone dello Yemen, Ali Abdallah Saleh, che – a differenza di Mansour Hadi, già suo vice-presidente – è sciita, ma soprattutto non ha ancora digerito la defenestrazione con cui è stato cacciato dal potere il 27 febbraio 2012 a seguito della primavera araba scoppiata anche a Sana’a. A sostenere quello che la comunità internazionale considera l’unico governo legittimo dello Yemen, ovvero quello di Mansour Hadi, è intervenuta invece una coalizione sunnita guidata dall’Arabia Saudita e coadiuvata militarmente dagli Stati Uniti, che nel marzo 2015 ha letteralmente invaso il Paese confinante per tenere in piedi il presidente in carica e contemporaneamente contenere la doppia minaccia terroristica al regno rappresentata non solo dell’Isis, ma anche della «vecchia» al-Qaeda. Mentre nella penisola arabica alQaeda può vantare una presenza di lungo corso (non a caso bin Laden era yemenita-saudita), l’Isis ha faticato ad impiantarsi, non ultimo perché la sua leadership è sostanzialmente di origine irachena e siriana e le sue pretese di radicarsi territorialmente come califfato lo hanno portato a concentrarsi sostanzialmente nel Siraq (Siria-Iraq). Ma i rovesci subiti dal Daesh in Iraq, in

Siria e in Libia, hanno spinto molti dei suoi miliziani a tentare la sorte in Yemen dove la situazione è estremamente «liquida», lo scontro tra il governo Hadi e gli Houthi ha creato ampie zone di terra di nessuno e soprattutto la catastrofe umanitaria causata dall’intervento saudita ha spinto la popolazione ad affidarsi a chi prometta di nutrirla, proteggerla e difenderla. Inutile dire che sia al-Qaeda sia l’Isis sono maestri di propaganda ed «elemosine mirate». Detto in parole povere nel giro di tre anni lo Yemen si è trasformato in uno dei più drammatici terreni di scontro tra sunniti e sciiti, tra Arabia Saudita e Iran (nonché i loro alleati), ma anche tra le diverse anime del terrorismo sunnita, i suddetti Isis e al-Qaeda. In un Paese, ricordiamolo, che non solo fatica da sempre a tenere a freno le sue innumerevoli lobby tribali, ma non è mai riuscito a sanare davvero la frattura Nord-Sud che dal 1971 al 1990 ha diviso lo Yemen in due Stati, peraltro al centro di una guerra fratricida e della guerra fredda, essendo lo Yemen del Nord allineato con l’Occidente e quello del Sud con l’Unione Sovietica. Oggi, per quello che riguarda gli Stati Uniti, la minaccia maggiore in Yemen è rappresentata dall’Aqap che ha già colpito più volte gli interessi americani nel Paese. La reazione degli Usa – i raid con i droni – però non ha fatto che alienare ancora di più la popolazione alla causa contro-terroristica americana e a quella del presidente Hadi. La

stessa cosa, peraltro, è successa in Afghanistan nella lotta contro i Talebani. Anche per questo Trump ha consentito, oltre al bombardamento su Yakla, anche l’impiego di truppe di terra, che Obama specie negli ultimi tempi aveva accuratamente evitato. In tutti i casi in Yemen gli Stati Uniti sono considerati i burattinai del Paese che sta procurando i guai peggiori alla popolazione, ovvero l’Arabia Saudita coi suoi alleati (Qatar, Kuwait, Emirati arabi uniti, Bahrein, Egitto, Marocco, Giordania, Sudan e Senegal). Ryiad invece sta giocando in Yemen un suo gioco molto pericoloso che dovrebbe portarla ad acquisire maggior autonomia da Washington, ma rischia di spingerla sull’orlo di un nuovo Vietnam. Lo strappo tra la monarchia e gli Usa è arrivato dopo l’accordo sul nucleare iraniano del 2015 che ha spinto i sauditi a non affidarsi più in toto agli Stati Uniti per la tutela dei propri interessi e della propria sicurezza e il primo passo di questa nuova politica apertamente interventista è stata proprio l’invasione dello Yemen nella notte tra il 25 e il 26 marzo del 2015. Forse le cose cambieranno con Trump alla Casa Bianca che come re Salman detesta l’accordo con l’Iran e non ha inserito l’Arabia Saudita nel Muslim Ban. Ma intanto per gli yemeniti non c’è nessuna differenza tra i bombardamenti sauditi e quelli americani. Lo Yemen, del resto, non può fare molto sullo scenario internazionale, ridotto allo stremo com’è, ma sui giornali yemeniti è stato riportato con risalto l’anatema che il 7 febbraio scorso ha lanciato contro Trump la Guida della rivoluzione iraniana Ali Khamenei che si è detto felice del Muslim Ban perché così «gli Stati Uniti hanno mostrato il loro vero volto» di architetti del Male. Il Male, seminato anche dall’Iran, intanto in Yemen si è tradotto in oltre 10’000 morti, 2,5 milioni di sfollati e crimini di guerra di ogni tipo. Non c’è obiettivo civile in tutto il Paese che non sia stato bombardato, dagli ospedali alle scuole, ai campi profughi. E l’Unicef il 27 gennaio scorso rendeva noto che su una popolazione di 24,4 milioni di persone, ben 14 sono ormai sull’orlo della fame e ogni dieci minuti muore un bambino sotto i 5 anni per denutrizione e malattie causate da gravi carenze alimentari.

Flirtando con il terrore

Pakistan L’«arresto» di Saeed segna apparentemente un cambio di rotta nella gestione

del terrorismo da parte di Islamabad, in seguito alle pressioni di New Delhi e alla paura di finire nella lista dei paesi «cattivi» di Donald Trump Francesca Marino Qualche giorno fa, a Lahore, è stato messo agli arresti domiciliari Mohammed Hafiz Saeed (foto): fondatore della Lashkar-i-Toiba, capo della Jamaat-uDawa e della Falah-e-Insaniat Foundation: come dire, l’organizzazione che ha compiuto, tra le altre cose, il massacro di Mumbai del 2008 e le sue cosiddette organizzazioni umanitarie già da tempo nel mirino delle Nazioni Unite che le considera organizzazioni terroristiche. La notizia ha fatto sprecare tra India e Pakistan fiumi di inchiostro e di parole ma, all’atto pratico, è di pochissima rilevanza: Islamabad mette in genere ai domiciliari Hafiz Saeed quando viene messa particolarmente alle strette dalla comunità internazionale. La cosa dura in genere poco e non ha conseguenza alcuna, tanto che all’arresto non sono seguite accuse formali e dai domiciliari il barbuto patriarca continua a rilasciare dichia-

razioni e a tenere conferenze stampa. In cui dichiara, tra le altre cose, che «non smetterà di lottare fino a che non sarà risolta la questione del Kashmir». Come? Per usare le sue stesse parole, su cui pende una taglia della Cia e dell’India: «C’è un solo modo per risolvere la questione del Kashmir: jihad, jihad, jihad». Dopo avere arrestato Hafiz Saeed, la polizia di Lahore ha tolto di mezzo le bandiere della Jaamat-u-Dawa che tappezzavano varie strade della città: prontamente sostituite da altre bandiere inneggianti alla lotta per il Kashmir libero. Il 5 febbraio, difatti, per il Pakistan è «la giornata del Kashmir»: niente di strano quindi che a Lahore e dintorni l’occasione si sia celebrata con manifestazioni e grida di guerra varie. Quello che stupisce, invece, è che la stessa occasione si sia celebrata a Milano, in Piazza Castello. Circa duecento persone, rigorosamente tutte di sesso maschile, si sono riunite per protesta-

re contro le violazioni dei diritti umani nel Kashmir indiano. In italiano, e per circa venti minuti complessivi durante le quattro ore della manifestazione. Perché tutta la manifestazione si è difatti svolta quasi esclusivamente in urdu: e in urdu, la narrativa era completamente diversa. Non solo. I kashmiri, tra i partecipanti, erano relativamente pochi: si trattava in maggioranza di pakistani, e difatti lo slogan più adoperato non era «pace» ma «viva il Pakistan». A organizzare la manifestazione è stata un’organizzazione che si chiama Tehrik-i-Kashmir: ha sede in varie capitali europee e che è legata a doppio filo sia alla suddetta Jamaat-u-Dawa che al Kashmir Centre, organizzazione finanziata dall’ISI pakistana allo scopo di fare pressione sui governi e sulle istituzioni europee e di raccogliere fondi. Alla manifestazione si sono uniti anche i rappresentanti della comunità Sikh con la sigla «Khalistan Khalsa»: quasi a

provare, se ce ne fosse bisogno, la verità di ciò che da anni sostengono i servizi indiani: che il terrorismo di matrice sikh, che sembrava da anni scomparso dalla scena, si sta riorganizzando per mano dell’Inter-Service Intelligence pakistana (ISI) e che avrebbe stretto legami con le organizzazioni islamiche combattenti in Kashmir (e con sede ufficiale a Lahore) come la Lashkar-iToiba e la Jaish-i-Mohammed. Lo spettacolo lasciava francamente senza parole: soprattutto perché, vale la pena ricordarlo, proprio da Brescia provenivano alcune delle Sim card usate nell’attacco di Mumbai e del denaro che è servito a finanziare il recente attacco di Uri. Fare due conti non dovrebbe poi essere così difficile. Sembra quasi che in Italia si stiano adoperando metri di giudizio alla pakistana: a Lahore Hafiz Saeed è stato ogni volta liberato dai fantomatici arresti domiciliari perché «non ha mai compiuto alcun reato in territorio pakistano». Con la

medesima scusa, per anni, il Pakistan ha dato mano libera, e continua a farlo, a tutte le organizzazioni jihadi che non compivano reati in patria ma soltanto in India e dintorni: e per questo, ha pagato alla fine un prezzo altissimo. Alla fine il terrore si è riversato anche tra le strade del Pakistan, quando i «bravi» jihadi, creati e adoperati dai servizi segreti come strumento sporco di politica estera, hanno rilanciato con poste sempre più alte. I «buoni» terroristi non esistono, esistono terroristi, di qualunque nazionalità e con qualunque nome. E nessun paese civile dovrebbe fare finta di non vedere o di non capire. La lettura del Frankenstein di Mary Shelley agli alti vertici di governi, servizi segreti e forze dell’ordine dovrebbe essere obbligatoria. A Islamabad, si sono accorti da tempo del pericolo di flirtare con il terrore: solo, se ne sono accorti troppo tardi.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 febbraio 2017 • N. 07

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Politica e Economia

Trump contro le donne?

Global Gag Rule Restaurando la legge anti-aborto, Trump blocca i finanziamenti del governo federale

a tutte le organizzazioni che praticano o fanno informazione sulle interruzioni di gravidanza nel mondo Luisa Betti Dakli All’indomani del suo insediamento alla Casa Bianca, Donald Trump ha firmato diversi ordini esecutivi, provvedimenti immediati che non passano per il Congresso ma usati per imprimere la propria direzione all’amministrazione del Paese, e tra il muro col Messico e il ritiro dall’accordo Tpp, ha iniziato lo smantellamento dell’Obamacare e reintrodotto una norma a sfavore della tutela della salute riproduttiva delle donne: oltre cioè a ridurre il peso economico dell’Affordable Care che consentiva una copertura sanitaria anche ai meno abbienti, il neo presidente – ritratto nello studio Ovale con intorno solo altri 7 uomini sorridenti – ha ripristinato la «Mexico City policy», detta anche «Global Gag Rule» (Regola del bavaglio globale), con cui ha bloccato i fondi federali alle Ong internazionali che si limitano a fornire informazioni sulla salute riproduttiva delle donne, compresa l’interruzione di gravidanza, e si occupano di pianificazione familiare in tutto il mondo. A pochi giorni dalla Women’s March – che contro le politiche di discriminazione promesse da Trump ha visto sfilare a Washington mezzo milione di persone e altre centinaia di migliaia negli Usa e in diverse città del Pianeta – e all’indomani del 44.mo anniversario della legalizzazione dell’aborto negli Usa (Roe vs. Wade: la storica sentenza vinta davanti alla Corte Suprema da Norma Leah McCorvey, alias Jane Roe, che fece ricorso contro la legge del Texas che violava la libertà individuale e il diritto di interrompere una gravidanza indesiderata), Trump ha voluto subito questo provvedimento in quanto, come ha riportato il suo portavoce Sean Spicer, è un atto «in linea con i valori pro-life della nuova amministrazione, che tutelano la vita».

È una legge che viene accesa e spenta dal 1985: i repubblicani la attivano, i democratici la disattivano Il «Global Gag Rule» però ha una sua storia: introdotto da Ronald Reagan nel 1984 e sottoscritto a Città del Messico, è sempre stato revocato dai presidenti democratici e reintrodotto dai repubblicani, quindi ripristinato da George W. Bush e abolito sia da Bill Clinton che da Barack Obama. Se Bush nel 2001 mantenne però l’assistenza per HIV/Aids, Trump ha ampliato la legge coinvolgendo l’agenzia americana per lo sviluppo internazionale (Usaid), il Dipartimento di Stato, e tutte le agenzie, le Ong e i progetti che riguardano la salute riproduttiva senza eccezione, compresi quelli che contrastano l’HIV, e anche l’Unfpa, l’agenzia Onu per la pianificazione familiare.

Sul ripristino della Global Gag Rule firmato da Trump è guerra aperta. (Keystone)

Un decreto che ostacolerà l’impegno in Asia, in Africa e soprattutto nei Paesi in via di sviluppo e/o in stato di guerra nel fornire servizi sanitari e informazione su prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili – tra cui l’HIV – sui metodi contraccettivi, parto e aborto. Una legge che congela l’assegnazione di finanziamenti americani alle organizzazioni internazionali che offrono sostegno su pianificazione familiare e salute riproduttiva, nel caso in cui includano, anche in maniera non specifica, l’interruzione di gravidanza di cui non si potrà neanche parlare. Si tratta di circa 600 milioni di dollari l’anno che gli Usa stanziano permettendo alle donne di questi Paesi di usufruire di servizi per la tutela della salute a cui altrimenti non avrebbero accesso, un denaro però che, grazie all’emendamento Helms del 1973, non viene impegnato direttamente per praticare l’aborto, ma senza il quale, afferma il Guttmacher Institute, molti saranno costretti a chiudere o ridurre i servizi, negando la tutela della salute riproduttiva compresi gli sforzi di prevenzione HIV. Finanziamenti che permettevano a 27 milioni di donne e coppie di ricevere servizi per la pianificazione familiare e contraccettivi, e che evitavano 6 milioni di gravidanze indesiderate, 2.3 milioni di aborti clandestini e 11mila morti materne. Con la «Mexico City Policy», Ong come Pathfinder International, che si occupa di contraccezione, HIV e tutela per mamme e bambini in 20 paesi tra Africa, Asia, Medio Oriente e America

Latina, dovranno scegliere se modificare i servizi o rinunciare ai finanziamenti del governo federale americano: decisione su cui per esempio l’International Planned Parenthood Federation (IPPF), presente in 180 paesi del mondo, non cambierà una virgola anche dovesse perdere 100 milioni di dollari all’anno come ai tempi di Bush. Secondo uno studio della Population Action International tra il 2002 e il 2006, durante l’applicazione del «Global Gag Rule», molte Ong hanno dovuto interrompere la loro assistenza in Kenya tra le comunità più povere e rurali, mentre in Ghana c’è stato un aumento del 20% degli aborti clandestini, e l’Usaid ha dovuto tagliare le spedizioni di contraccettivi a 16 paesi dell’Africa sub-sahariana, Asia e Medio Oriente. In India, Cambogia, Ghana, Etiopia, 7 milioni di donne ogni anno sono soccorse per complicazioni di parti non sicuri, anche quando vivono in Paesi in cui c’è il diritto all’aborto, perché non sono informate o non hanno la possibilità di andare in ospedale: e di queste 68’000 muoiono ogni anno. Sul ripristino della «Global Gag Rule» è già guerra. Nancy Pelosi, capogruppo dei Democratici alla Camera, ha detto che questo ordine esecutivo «fa tornare gli Stati Uniti in quell’epoca vergognosa che disonorava il valore americano della libertà di parola e infliggeva sofferenze di cui non sappiamo nulla a milioni di donne in tutto il mondo», mentre la senatrice Democratica del New Hampshire, Jeanne Shaheen, ha fatto un post su Twitter in cui afferma di voler proporre una legge che impedi-

sca per sempre la «Mexico City Policy». Ma a ribellarsi non sono solo i democratici: per la senatrice repubblicana Susan Collins, conservatrice moderata, l’ordinanza di Trump non ha molto senso perché «tutte queste organizzazioni hanno già il divieto di usare i soldi dei contribuenti americani per finanziare aborti, e quello che si sta realmente facendo è scoraggiare le donne ad avere un controllo delle nascite che impedirebbe invece gli aborti, aiutandole nella pianificazione familiare». E mentre legislatori, funzionari governativi, e operatori umanitari si stanno preparando per una vasta offensiva contro il programma che ostacola la parità di genere in tutto il mondo, 138 Ong hanno già firmato una petizione contro la «Global Gag Rule». L’Olanda si prepara a trovare finanziamenti che coprano il buco di 600 milioni di dollari con un fondo per quelle organizzazioni internazionali alle quali Trump ha tagliato i fondi federali: fondo al quale hanno già aderito 20 Paesi e a cui possono partecipare tutti. L’annuncio è stato dato dalla ministra per lo Sviluppo e la Cooperazione Internazionale olandese, Liliane Ploumen, che ha dichiarato: «Rispettiamo le decisioni di un presidente democraticamente eletto, ma anche noi lo siamo e possiamo prendere decisioni diverse». «Vietare l’aborto non ha ridotto il numero degli aborti, ma ha portato solo a pratiche irresponsabili nei retrobottega e a un numero maggiore di madri morte», ha aggiunto Ploumen il cui obiettivo è quello di sostenere i programmi esistenti gestiti

da organizzazioni come il Fondo delle Nazioni Unite per le popolazioni, l’International Planned Parenting Federation e la Marie Stopes International: «Si tratta di programmi di successo ed efficaci, un sostegno diretto, distribuzione di preservativi, accompagnamento al parto, sicurezza durante l’aborto». Ma la partita non finisce qui perché dopo aver tagliato i fondi alle Ong internazionali, i pro-life confidano che il Congresso completi l’opera con una legge che tagli tutti i finanziamenti alla Planned Parenthood of America – l’organizzazione che si occupa di salute riproduttiva negli Usa accusata di commercio dei feti dal movimento per la vita – cosa annunciata dallo speaker della Camera, il Repubblicano Paul Ryan, che a gennaio, tra le misure per smantellare l’Obamacare, aveva parlato della cancellazione dei fondi a Planned Parenthood grazie alla maggioranza repubblicana al Congresso. Una battaglia in cui Trump ha acquisito un altro asso nella manica con la nomina alla Corte Suprema, dopo la morte di Antonin Scalia, dell’ultra conservatore Neil Gorsuch, noto per le sue posizioni contro i gay, contro l’Obamacare e contro l’aborto, e che nel suo libro The Future of Assisted Suicide and Euthanasia, ha scritto: «Tutti gli esseri umani hanno valore intrinseco e l’intenzione di uccidere vite umane per motivi personali è sempre sbagliata». Nomina che permette all’ala conservatrice della Corte di ritrovare la maggioranza: un dato non trascurabile se si pensa agli imponenti poteri della Corte Suprema anche in ambito etico. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

La trappola del debito privato Consumi 3 All’ombra dell’attenzione mediatica la situazione finanziaria di molte categorie di persone

è rapidamente peggiorata

Edoardo Beretta

Il debito privato, in particolare delle famiglie, è una passività da finanziare con risorse proprie o ulteriori debiti Da un lato, l’indebitamento pubblico non soltanto costituisce una modalità di finanziamento del fabbisogno statale in eccesso rispetto a quello già coperto con imposte, tasse e tributi vari, ma (almeno per il risparmiatore) è una forma alternativa di detenzione del reddito. Dall’altro lato, il debito del settore privato – in special modo, dei nuclei familiari – non rappresenta un’obbligazione commerciabile, bensì è una mera passività da finanziare con risorse proprie o ulteriori prestiti (con il rischio di divenire «preda» di spirali debitorie), su cui corrispondere interessi passivi talvolta non indifferenti. Interessante è che il Consiglio federale

Una consulenza può aiutare a evitare di cadere nel sovraindebitamento. (Keystone)

abbia «ritoccato» il limite delle soglie di usura dei crediti di cassa al 10% (cf. 1. luglio 2016). Si potrebbe aggiungere che il debito degli attori finanziari sia nondimeno preoccupante: tuttavia, per quanto la salute delle banche tenda ad inquietarci, per queste ultime – che si sa finanziarsi anche tramite titoli – può essere valido un discorso simile a quello per gli Stati. Dovrebbe, quindi, essere l’indebitamento dei soggetti non finanziari ad essere inteso come minaccia, ma esso è pericolosamente trascurato e non sufficientemente nel focus degli analisti. Se gli economisti sono sì consapevoli che risparmi individuali eccessivi nel breve periodo possano comportare un freno per la congiuntura economica (in quanto non destinati ai consumi), nel lungo periodo risparmi positivi sono di imprescindibile importanza per ampliamento degli standard di benessere. Ecco, che diviene cruciale interrogarsi sui motivi dell’indebitamento delle famiglie, per cui dovrebbe valere la regola d’oro vigente già ora per ogni tipologia di passività: a dipendenza del fatto se quest’ultima sia incorsa

Percentuale di popolazione con almeno un prestito (escl. ipoteche) (2013) Percentuale di popolazione Motivo principale dell’accensione di prestiti: – auto – mobilio per casa/ufficio – vacanze, attività di tempo libero – equipaggiamento, oggetti personali – formazione adulta – formazione, cura dei figli – copertura dei costi sanitari – creazione d’impresa, finanziamento d’attività – rimborso di altri debiti, conti (in sospeso) – difficoltà finanziarie – crediti/prestiti non classificabili

Valore % 31,8 – 18,4 6,9 1,7 0,9 0,9 0,4 1,3 1,3 3,2 1,8 1,3

Intervallo di confidenza (+/–) 1,7 – 1,5 1,0 0,6 0,5 0,4 0,2 0,5 0,4 1,1 0,5 0,4

per spese di consumo, difficilmente potrà essere considerata «benigna». Al contrario, se il debito (privato o pubblico) derivasse dal finanziamento di

investimenti durevoli, allora il discorso tenderebbe a cambiare. Il problema dell’indebitamento privato familiare è troppo spesso una conseguenza di

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Un «merito» paradossale della crisi economico-finanziaria globale iniziata nel 2007 (con la sua propagazione ad indebitamento sovrano dell’Area Euro) è stato l’approfondimento di alcuni vizi strutturali dell’odierno sistema economico internazionale. Già tempo addietro ho avuto modo di riflettere – certamente, non da unico nel panorama economico – che, se ampio spazio è stato riservato al concetto di «debito pubblico» (alla ribalta della cronaca degli eventi nell’Eurozona), poco inchiostro è stato speso sul tema dell’indebitamento privato. Eppure, fra le distinzioni all’interno della voce «passività» (fra pubbliche o private ed interne o esterne) in certi Paesi oltremodo evoluti spicca proprio quella del debito privato. Se il rapporto debito (pubblico)/ PIL con i suoi «verdetti» percentuali (spesso preoccupanti in quanto in certe nazioni oltre il 100%) già fa notizia, i riflettori non si sono (ancora) accesi su valori simili nei confronti del debito privato. Perché l’opinione pubblica non viene resa attenta ad un «100%» d’indebitamento privato rispetto al PIL, mentre lo è per valori similari riferentisi allo Stato? La risposta a tale legittimo quesito rinvia alla natura stessa dei debiti menzionati.

Era soffocato dalla miseria.

Era soffocato dai problemi.

(Elaborazione propria da: http://www.bfs.admin.ch/bfs/portal/de/index/themen/20/02/ blank/dos/04/02.Document.194455.xls)

Indebitamento domestico (% del reddito netto disponibile), 1995-2015. (Elaborazione propria da: https:// data.oecd.org/ hha/householddebt.htm)

mala gestione dei risparmi, che sono (con le eccezioni del caso) utilizzati per spese difficilmente categorizzabili come «necessarie». La problematica è talmente pressante da abbisognare di «istruzioni per l’uso», che la società stessa dovrebbe insegnare alle giovani generazioni: in altri termini, il debito privato è in molti casi evitabile. Come può tale affermazione, però, conciliarsi con altre pregresse, per cui il consumatore odierno sembrerebbe essere sempre più «informato»? La risposta più probabile è che – come è più attento alle caratteristiche dei singoli prodotti – ne risulta inevitabilmente troppo attratto, incorrendo nel rischio di fare il «passo più lungo della gamba». La soluzione è, quindi, l’assenza totale di debiti? Non necessariamente, dipendendo (come detto sopra) da tipologia e scopo delle necessità di finanziamento. Certo è che i bisogni del Ventunesimo Secolo sono tanti (ed altrettante le spese). Malgrado ciò, si potrebbe iniziare a trasmettere ai «futuri adulti» che l’impulsività tipica del processo decisionale d’acquisto – articolato e contestuale risultato dell’interazione fra variabili – non debba necessariamente essere a «senso unico», cioè soltanto nella direzione di comprare: può anche essere nei termini di valutazione di un «sano» risparmio. Perché – questo è ormai chiaro – «c’è debito e debito».

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La scuola è la sua boccata d’ossigeno.


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Politica e Economia

Il turismo dello sci soffre

Sport e econiomia Aumenta la concorrenza delle nuove stazioni invernali all’estero, mentre la forza del franco

rende la Svizzera più cara – Gli svizzeri rimarranno un popolo di sciatori?

Ignazio Bonoli Le bizze di questo tempo invernale, la scarsezza (o addirittura la mancanza) di neve sembrano accrescere il calo di frequenze sulle piste di sci e di altri sport invernali, in atto ormai da qualche anno. Le eccezioni a questa tendenza generale sono pochissime e di scarsa entità. Ovviamente i paesi che si stanno affacciando a questo sport divenuto di massa, soprattutto in Europa, fanno notare tassi di sviluppo di un certo rilievo. Ne sono un esempio classico la Cina in Oriente e la Cechia in Europa. La Cina dispone di 568 stazioni di sport invernali e ha visto i loro frequentatori salire dai 4,6 milioni del 2011 ai 9,4 milioni del 2016. Le possibilità di sviluppo di queste attività in Cina sono ovviamente molto ampie. Lo stesso si può dire della Cechia in Europa, che ha visto i frequentatori dei suoi 176 impianti salire dai 3 milioni del 2011 agli 8,7 milioni del 2016. In quest’ultimo caso contano molto sia le proporzioni di sciatori, sia i prezzi praticati dalle stazioni sciistiche, mentre continuano però a presentare alcune carenze le strutture di accoglienza. Per quanto concerne gli altri paesi europei, la Francia e la Germania hanno potuto contare lo scorso anno su un leggero aumento delle frequenze. Le 498 stazioni invernali, e rispettivamente le 325 stazioni, hanno visto passare il numero di frequentatori da 13,6 a 15 milioni e rispettivamente

da 54,8 a 55,1 milioni. In America, gli Stati Uniti, con 470 stazioni sciistiche, hanno visto i frequentatori scendere da 58,2 milioni nel 2011 a 55,7 milioni nel 2016. Meno pronunciato il calo in Canada, nel quale le 288 stazioni sciistiche hanno visto scendere i frequentatori da 19,1 milioni a 18,4 milioni. Anche in Italia, con 349 stazioni sciistiche, gli ospiti sono scesi da 26,8 a 25,8 milioni, mentre l’Austria (254 stazioni) ha potuto contenere il calo da 52 milioni a 51,6 milioni. Il paese che ha conosciuto il più intenso sviluppo negli scorsi anni è senz’altro il Giappone, con 547 stazioni sciistiche, ma con un vistoso calo da 38,9 milioni nel 2011 a 33,8 milioni nel 2016. Anche in Svizzera però il calo di frequenze si fa sentire in modo abbastanza importante. Gli ospiti delle 194 stazioni sciistiche sono scesi da 27,6 milioni nel 2011 a 24,5 milioni nel 2016. Nel nostro paese un certo disamore per lo sci non è dovuto soltanto alle difficoltà climatiche, ma quasi sicuramente alla forza del franco svizzero che fa risultare quasi proibitivi i prezzi, peraltro già più cari che altrove. Non sorprende quindi che anche l’inizio della stagione in corso abbia creato ulteriori difficoltà, anche rispetto al già debole anno precedente. A causa dello scarso innevamento, i titoli di trasporto per gli impianti di risalita sono diminuiti del 12% e anche il trasporto di persone per raggiungere le stazioni di sci è diminuito del 4%.

C’è ancora una possibilità di recupero nei periodi di vacanze di febbraio e marzo, in modo che la stagione non sia irrimediabilmente compromessa, ma gli operatori del settore non nascondono le preoccupazioni. Sanno infatti di dover contare sui turisti svizzeri, perché la Svizzera risulta ormai troppo cara in generale, ma in particolare per alcuni paesi, come la Gran Bretagna, che soffre della debolezza della sterlina. In Svizzera si sono potute fare proposte favorevoli per gli inglesi, ma la cosa non può durare a lungo. Da non dimenticare che, anche in questo settore, la concorrenza sta sensibilmente aumentando. Paesi come la Slovacchia, la Cechia o la Bulgaria si stanno attrezzando e offrono prezzi molto concorrenziali. Ma molti altri paesi si stanno lanciando in queste attività. Una statistica riportata dalla «Handelszeitung» ha contato ben 66 paesi che dispongono di almeno una stazione sciistica. Il grande mercato dello sport invernale resta per ora concentrato nelle Alpi, ma la concorrenza di nuovi arrivati si intensifica. Qui si può sviluppare anche la passione per lo sci che potrebbe creare potenziali clienti anche per la Svizzera. Paesi come Cina (0,5%), USA (8%), Giappone (9%) possono offrire un buon potenziale di sviluppo e quindi potenziali clienti. Difficile però dire come e quando questo turismo potrebbe svilupparsi. Anche per questo bisogna poter contare su un forte turismo interno,

Freeski a Laax: le stazioni invernali svizzere sono costrette a compiere salti mortali per far quadrare i conti. (Keystone)

che dispone pur sempre della maggior proporzione di sciatori sul totale della popolazione (37%). Ma anche qui non mancano le difficoltà: la popolazione invecchia e quindi vi sono meno giovani, che poi dispongono di altre alternative allo sci. Molte scuole hanno soppresso la

«settimana bianca» e i costi sono aumentati. Si comincia a chiedersi chi pagherà i grandi investimenti per le piste, dai nuovi impianti all’innevamento artificiale. Ci vorrà tempo prima che una corrente di nuovi turisti scopra i pregi della Svizzera e sia disposta a pagarli. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Berna non teme la digitalizzazione Nell’ambito dei lavori per la formulazione di una strategia del digitale – tema che lo appassiona da mesi – il nostro Consiglio federale ha pubblicato, un paio di settimane fa, un rapporto sulle condizioni-quadro dell’economia digitale. Sono tre gli aspetti importanti discussi in questo rapporto. Il primo concerne la legislazione. Stando al nostro governo non c’è bisogno di nuove leggi per regolare i problemi posti dall’avvento dell’economia digitale. Questa conclusione non farà piacere ai gruppi che, a protezione dei loro interessi, vorrebbero proprio il contrario. Si tratta, per essere più chiari, dei tassisti, da un lato, e delle associazioni di inquilini e degli albergatori dall’altro. I tassisti perché sono confrontati con la concorrenza di Uber, un’azienda che fornisce un servizio automobilistico privato attraverso un’applicazione software per telefono mobile che mette in collegamento diretto passeggeri e autisti. Gli albergatori perché, a loro

volta, sono sempre di più minacciati da Airbnb, una società che alloggia i turisti in appartamenti privati, consentendo loro un risparmio sui costi di soggiorno. Siccome però l’appartamento ceduto al turista rende sempre di più di quello affittato a una famiglia residente, in diverse città europee, Airbnb sta facendo concorrenza non solo agli albergatori, ma anche ai residenti in cerca di un appartamento. Le due società sono attive anche in Svizzera e cominciano a creare qualche difficoltà. Tuttavia il Consiglio federale pensa che il quadro legislativo esistente basti per regolare questo tipo di problemi. Il nostro governo è insomma del parere che occorre lasciar fare al mercato e attendere i possibili sviluppi prima di prendere eventuali misure. La seconda questione è più impegnativa perché riguarda l’evoluzione del mercato del lavoro. Nel corso degli ultimi dieci anni gli studi sul possibile impatto della rivoluzione digitale sull’offerta di posti di lavoro sono stati numerosissimi. Le loro

conclusioni però non sono univoche. C’è chi pensa che nei prossimi decenni potrebbero scomparire, anche in Svizzera, più della metà dei posti di lavoro. Altri invece minimizzano la possibile perdita di posti di lavoro e sottolineano invece che il digitale potrebbe creare migliaia di nuovi posti di lavoro. Tra gli ottimisti si trova l’azienda di consulenza Deloitte che, in uno studio del 2015, ha stimato che, in Svizzera, la digitalizzazione farebbe perdere, nei prossimi dieci anni, «solo» 270’000 posti di lavoro, il che rappresenta appena un po’ di più del 5% del totale. Tra il 5 e il 50% di perdite in posti di lavoro il ventaglio di possibili evoluzioni è amplissimo. Si capisce allora perché, anche rispetto a questa questione, il Consiglio federale sia attendista. Secondo lui il mercato del lavoro svizzero è sin qui sempre riuscito a padroneggiare i problemi posti dal cambiamento strutturale. Non si vede perché non debba riuscire anche a superare le sfide che gli saranno posti dalla

digitalizzazione. Tre sono le premesse sulle quali si basa il suo ottimismo: la qualità elevata del nostro sistema educativo e di formazione, la relativa flessibilità del mercato del lavoro e il partenariato sociale. Infine, il terzo argomento del rapporto appena pubblicato concerne i punti sui quali non si è ancora in chiaro e che il Consiglio federale vorrebbe chiarire con mandati esterni entro quest’anno o, al più tardi, l’anno prossimo. Un primo punto riguarda i possibili ostacoli che la legislazione esistente pone alla digitalizzazione. Un secondo punto concerne le possibili conseguenze della digitalizzazione sulla politica dell’educazione e della ricerca. Gli altri tre punti, invece, sono più specifici e si riferiscono a problemi che sorgono nell’uso dell’internet e delle sue piattaforme. In conclusione, di fronte ai problemi che stanno nascendo in seguito alla sempre maggiore diffusione dei processi di digitalizzazione il nostro governo mantiene la calma pur non perdendo di vista gli

sviluppi in atto. Dal rapporto appena pubblicato risulta in modo chiaro che Berna non reputa necessario dover intervenire per regolare questo tipo di sviluppi, in particolare perché non pensa che gli stessi avranno conseguenze negative importanti. Per regolarli basta la legislazione in atto. Le loro conseguenze negative potranno essere attenuate dal nostro sistema educativo e dal partenariato sociale. E se questo non bastasse, un mercato del lavoro flessibile come il nostro sarà in grado di gestire facilmente gli adattamenti necessari. Pur ammettendo che sulle conseguenze possibili dell’evoluzione della digitalizzazione non si debba drammatizzare, a me sembra che non si debba nemmeno minimizzare troppo. Potrebbe però darsi che quello che il Consiglio federale non vuole fare possa, nel prossimo futuro, diventare competenza dei Cantoni, come sembra indicare, almeno nelle intenzioni, il recente rapporto del tavolo di lavoro sull’economia ticinese.

come ha sottolineato l’alto capo della diplomazia europea Federica Mogherini, alla sua prima visita presso l’Amministrazione Trump. Ma il presidente americano non tiene in grande considerazione la voce dell’Unione europea: le rimostranze pro deal sono destinate a cadere nel vuoto. Se si aggiunge che tra le poche questioni su cui il Partito repubblicano va d’accordo con il «suo» presidente c’è proprio la volontà di rivedere l’accordo con l’Iran, è facile immaginare che ci sarà un tentativo comune in questa direzione. In più Trump ha un obiettivo ulteriore: coltivare l’alleanza con la Russia sperando così di spezzare quella tra la Russia e l’Iran. In Siria, ancora prima dell’arrivo di Trump, si erano già sentiti alcuni scricchiolii: nella discussione sull’evacuazione di Aleppo, ci sono stati molti disaccordi tra Mosca e Teheran, e si sono moltiplicate le voci di insofferenza reciproca. Quando però gli Stati Uniti hanno

annunciato nuove sanzioni all’Iran per i test missilistici, la Russia è stata rapida e perentoria nel definire le misure «inappropriate». L’avventura siriana, costosissima, non è affatto terminata e Vladimir Putin non intravvede ancora un tornaconto preciso nello spezzare l’alleanza con Teheran, anzi: quest’asse non gli ha impedito di coltivare i rapporti con i governi sunniti del Medio Oriente, costruendo una rete di relazioni – di dipendenze, in alcuni casi – che amplia le sfere di influenza di Mosca, per ora in modo più o meno complementare con quello iraniano. Per questo la domanda che tutti si pongono, alla quale non c’è alcuna risposta come accade con un po’ tutto quel che riguarda Trump, è: che cosa l’Amministrazione americana è disposta a dare a Putin in cambio di una revisione dei suoi rapporti con gli ayatollah? La risposta non c’è ma il nervosismo di Teheran è molto evidente. Il regime

iraniano percepisce che tutto sta cambiando, nel momento in cui ancora non è riuscito a iniziare quel che i più pragmatici si auguravano, cioè un riscatto economico. Questo è anche un anno elettorale per la Repubblica islamica e il cambio di passo di Washington avrà un effetto immediato sulla conferma o no del presidente Hassan Rohani, che è molto amato a livello internazionale, ma nella partita interna al regime potrebbe risultare indebolito: al falchissimo Trump molti vorranno contrapporre un falchissimo leader iraniano. Intanto la Guida Suprema Ali Khamenei che a ogni preghiera, da sempre, accusa gli Stati Uniti di manovre meschine, ora ha trovato il modo di infierire: l’America ora mostra «la sua vera faccia», dice dal pulpito, e dall’altra parte del mondo ci si tormenta, perché la faccia dell’America non è mai stata tanto confusa, e pasticciata.

to del collega Mimmo Lombezzi: «Più che rabbia queste “vignette” spettrali, in cui il terrore della propria fine ha spento la pietà per quella degli altri, suscitano un sentimento di pena». Prima ancora, in dicembre, mi aveva colpito la quasi contemporanea morte dei vignettisti della Svizzera romanda Raymond Burki e Philippe Bécquelin che avevano un seguito mediatico notevole. Mentre Burki era un disegnatore tradizionale, più umorista che satirico, diventando editorialista senza parole del quotidiano «24 Heures», il secondo, che si firmava Mix & Remix, metteva in scena una corrosiva satira e con le sue figure stilizzate realizzate per l’«Hebdo» (testata defunta anch’essa da pochi giorni…) aveva rivoluzionato il giornalismo disegnato non solo in Svizzera. La differenza fra i due è ben fotografata da un aforisma di Roland Knox: «L’umorista corre con la lepre, il satirista insegue con i cani». Alla fine è però stato un disegno pubblicato il mese scorso sulla rivista «The New Yorker» a convincermi a dedicare

questo spazio a vignette e vignettisti. Anzi, a essere precisi l’illustrazione è apparsa sulla pagina Facebook del popolare periodico statunitense. Mostra la carlinga di un aereo in cui un passeggero si rivolge agli altri passeggeri dicendo: «Questi piloti snob e arroganti non sanno più riconoscere i bisogni dei passeggeri normali come noi. Chi pensa che dovrei guidare io l’aereo?», e sono in molti, tra i passeggeri, ad alzare la mano. La vignetta, firmata da Will McPhail, sui social media è subito diventata virale: gli utenti hanno immediatamente captato e commentato la sottilissima satira del disegno contro l’ascesa dei diversi «populismi» in atto un po’ ovunque nel mondo politico occidentale, compreso ovviamente quella che ha permesso a Donald Trump di diventare presidente degli Stati Uniti. Per diversi giorni anche sui blog dei giornali online di casa nostra che hanno pubblicato e commentato la vignetta di McPhail c’è stato un colorito dibattito, ovviamente centrato su «populismi», politici imbonitori e

millantatori. Difficile fare un bilancio o un resoconto delle variegate e generalmente faziose posizioni dei blogger (nella vignetta di McPhail qualcuno è persino riuscito a vedere una critica agli intellettuali che disprezzano i populismi...). A mio avviso merita citazione, a mo’ di chiusura, il commento di un lettore de «Il Fatto quotidiano» alla vignetta del «New Yorker»: «Il politico non deve “saper guidare un aereo” ma deve sapere dove andare o meglio la rotta da seguire con l’aereo e la deve dichiarare durante la campagna elettorale. Io semplice cittadino, con il mio voto accetto e convalido quella rotta. La bravura del politico deve consistere nel sapersi circondare di tecnici (piloti) in grado di portare la nazione (aereo) dove inizialmente aveva dichiarato. Purtroppo, sempre rimanendo nella metafora, siamo in presenza di compagnie aeree (partiti politici) che dichiarano una destinazione e quando sali sull’aereo ti portano da tutt’altra parte». Ovviamente si riferiva solo all’Italia…

Affari Esteri di Paola Peduzzi L’Iran torna ad essere l’asse del male Al dipartimento di Stato americano regna il caos. Il segretario di Stato, Rex Tillerson, è stato confermato dal Congresso, ma i briefing di routine che solitamente si tengono ogni giorno feriale non sono ancora stati fissati, manca lo staff del nuovo ministro e la macchina di Foggy Bottom è temporaneamente inceppata, mentre si continua a parlare di dimissioni (che forse sono licenziamenti) di figure senior con un conseguente impoverimento del capitale umano esperto di politica estera. Fuori dal mondo della diplomazia – che è straordinariamente sotto pressione in un momento in cui di diplomatico non c’è nulla e il presidente, Donald Trump, si è intestato tutti i dossier – si cerca di capire in che direzione si muoverà questa nuova America. Senza documenti, senza briefing, senza spiegazioni, non è affatto semplice. Dai resoconti sui giornali, che intercettano dichiarazioni e

interpretazioni con una certa fatica, si può intendere che Trump vuole creare un’alleanza fattiva con la Russia di Vladimir Putin nella lotta al terrorismo globale e sostituire quest’asse a quello che Mosca ha creato in questi anni con l’Iran degli ayatollah. L’Amministrazione Trump è contraria al deal sul nucleare negoziato dal predecessore Obama e dagli europei con Teheran: lo reputa oltre che impraticabile (come ha scritto John Bolton, che era nella rosa dei papabili per i ministeri sulla sicurezza ma è stato poi scartato, si dice perché a Trump non piacciono i suoi baffi) molto pericoloso, e quindi da annullare. I recenti test missilistici fatti dalla Repubblica islamica sono stati subito oggetto di sanzioni da parte dell’America: «È soltanto l’inizio», ha detto Trump, sottolineando «il disprezzo» che il regime di Teheran nutre per l’America. L’Europa è recalcitrante sulla politica aggressiva di Washington verso l’Iran,

Zig-Zag di Ovidio Biffi Vignette che parlano Tra i più bei lavori giornalistici con la redazione di questo settimanale, oltre a un inserto/survey sulla Svizzera che proponeva, tradotto in italiano, l’analogo fascicolo pubblicato dagli analisti della rivista britannica «Economist», mi piace ricordare soprattutto i numeri speciali di fine anno: quelli pubblicati prima di Natale – affidati a scrittori, illustratori e personalità religiose (tra cui anche l’attuale cardinal Gianfranco Ravasi) – e quelli attorno a Capodanno, in cui inserivamo un riepilogo incentrato su vignette e citazioni, quest’ultime scelte per privilegiare i messaggi che cronache o avvenimenti suggerivano. In casa ho ancora alcuni faldoni pieni delle mie («strane» le definiva qualcuno) raccolte di vignette: ogni mese archiviavo una dozzina di ritagli, tratti da riviste o quotidiani (a dominare era il mitico «Herald Tribune» che regalava ogni giorno una vignetta e strisce di fumetti) e a fine anno con colleghi e tipografi ne sceglievo poche, cercando di rievocare avvenimenti o personaggi del mese, an-

che se sovente si finiva per privilegiare e riproporre quelle che consideravamo le migliori vignette dell’anno. A parte alcuni Altan geniali («Mi vengono in mente opinioni che non condivido»), tra le tante «usate» una si merita ricordo imperituro. Sulla vignetta si vede una scala che sale in cielo, sino a scomparire tra le nuvole, lasciando immaginare il paradiso o comunque l’ultimo viaggio. Alcune persone ritratte di spalle precedono un distinto signore, ben vestito, che al centro sta telefonando e dice: «Questi avvocati! Quando c’è più bisogno di loro, non si fanno mai trovare…». Rievoco questi aneddoti perché negli ultimi mesi vignette e vignettisti hanno ritrovato un posto di primo piano nelle cronache. Il «punto zero» di questo ritorno andrebbe retrocesso a due anni fa, all’attentato contro il giornale satirico «Charlie Hebdo», rivista che ora è tornata alla ribalta per alcune sgradevoli vignette sui morti sotto la valanga in Abruzzo, meritandosi questo commen-


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Cultura e Spettacoli Quei treni di Nessi Interlinea di Novara ha pubblicato la raccolta di poesie Un sabato senza dolore

I silenzi di Fosse, le voci di Napoli A Ginevra va in scena per la regia di Andrea Novicov una pièce del commediografo scandinavo; a Lugano il teatro musicale di Massimo Ranieri

Assonanze inattese Una mostra stimola il dialogo tra le opere di Erich Lindenberg e Gabriela Maria Müller pagina 37

Nei ricordi di Sting L’ex leader dei Police propone ai suoi fan un omaggio agli anni di New York

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Il machismo fascista messo alla berlina Recensioni Eros e Priapo, il pamphlet

di Gadda ripubblicato da Adelphi senza tagli e censure

Pietro Montorfani Uomo di grandi tormenti fu Carlo Emilio Gadda, costantemente alle prese con problemi economici e professionali, assediato dagli editori (cui prometteva senza mantenere), scostante con i colleghi e con gli amici. Al netto di una personalità che avrebbe comunque faticato a trovare il suo posto nel mondo, in qualunque tempo e in qualunque epoca, l’aver vissuto nell’Italia del Ventennio non gli facilitò certo le cose. Il sofferto rapporto con il fascismo fu infatti, in sede storica, uno dei suoi rovelli più esasperati. Il caso Gadda è, anche da questo punto di vista, emblematico ed esemplare: da una convinta seppur temperata adesione iniziale (tra gli emigrati italiani nell’Argentina degli anni Venti) all’ottimistica fiducia nella «ardente e virile azione del nostro Duce» a ridosso del conflitto, fino al primo svelarsi di un’illusione nella quale erano caduti in molti e di cui tutti portavano almeno una fetta di responsabilità («ho passato una troppo cagna vita: e certe tracce non mi lasciano più»). La svolta si misura, per lui, quasi in extremis, tra l’autunno del ’43 e l’estate del ’44, che lo vedono ramingo nelle campagne toscane nella più completa disperazione. È in questi mesi cruciali che inizia a scrivere un ferocissimo pamphlet antifascista, nella forma di un caustico «j’accuse» che è troppo onesto per non trasformare presto in un «m’accuse» rivolto a se stesso e, di rimbalzo, al complesso della nazione e della società italiane. Il frutto di questo slancio fu stampato in una collana di Garzanti, con il titolo Eros e Priapo, soltanto nel 1967, dopo un rosario di rifiuti, adattamenti e censure che ne avevano edulcorato in gran parte forma e contenuto. L’unico ad anticipa-

re, sulla rivista «Officina», alcune pagine non censurate era stato – manco a dirlo – Pier Paolo Pasolini, nel maggio del 1955. E davvero il futuro regista di Salò o le 120 giornate di Sodoma era forse l’intellettuale più adatto a cogliere la portata eversiva non soltanto delle tesi del libello, ma anche della sua costruzione metaforica, attraverso la quale l’autore rilegge il fascismo alla luce di una regressione all’istinto sessuale da cui nessuno poteva dirsi indenne. Questo è insomma il grande tema di Eros e Priapo: il ritorno, dopo aver accarezzato con la modernità le conquiste dell’età dell’oro, alla barbarica età del sesso, in cui tutto tende inevitabilmente ed esclusivamente al coito e alla sua smaccata rappresentazione, anche quando in apparenza si tratti d’altro (politica, società, guerra, cultura). Il testo, condotto con andamento saggistico, si apre con alcune pagine programmatiche («il male deve essere noto e notificato») che non risparmiano strali a una storiografia ritenuta troppo timida e pudica, cui fanno seguito tre capitoli organizzati attorno ad un «teorema centrale», cioè il prevalere «di un cupo e scempio Eros sui motivi del Logos». Inforcati gli occhiali dello psicanalista freudiano, Gadda può dunque considerare nel dettaglio le abitudini sociali fasciste (lo squadrismo, l’esaltazione del leader, l’elogio della guerra, della patria e delle donne fertili) quali esiti inevitabili di narcisismo ed esibizionismo, insomma delle più comuni abitudini sessuali dell’età puberale, qui trasferite dal singolo a un’intera comunità di persone. Non stupisce allora che, in un simile contesto, la proverbiale fantasia gaddiana si esalti nelle più mirabolanti invenzioni lessicali, specie attorno all’immagine di

Rachele e Benito Mussolini con i figli in una foto non datata scattata a Ostia. (Keystone)

Mussolini, il «Predappiofallo», il «Giuda pestifero dalle gambe a roncola», «il fass tut mè» che avrebbe fecondato tutto un popolo e che invece terminò i suoi giorni «appeso come Cola, con rivoltate coglia» («coi ball per aria», chiosa la voce milanese dell’autore, ripensando con disagio allo scempio di Piazzale Loreto). E nemmeno si risparmiano le molte figure femminili (dalla madre alla Petacci alle «Marie Luise» di ogni provincia e paese) che lo attorniarono e lo esaltarono lungo tutta la sua parabola: donne che videro in lui «il portatore del modello formale del branco o specie, il vessillifero della patria spaghettifora co’ ’a pummarola in coppa, il mastio unico, l’empito spermatoforo della stirpe gloriosa divenuto persona». Parole dure, a tratti durissime, che

nel descrivere la «ventennale maialata» del fascismo assumono i toni di una missione epuratrice non disgiunta da senso di colpa. Negli ultimi giorni della guerra Gadda sente di avere un compito, quello dello scrittore, che non può fare a meno di giudicare e nominare le cose. «Il Predappio era un brigante che ci ha rovinati nel modo più atroce», scriverà un decennio più tardi alla nipote Anita Fornasini, «nei miei scritti [...] è chiamato solo con epiteti spregiativi, e più frequentemente e sistematicamente: il Merda. Spero di avere il lauro dell’immortalità solo perché quel fetente schifoso e vigliacco, a cui Belzebù sta facendo dei clisteri di acido solforico, passi a sua volta nell’immortalità col nome che io gli ho dato, e cioè il suddetto».

Dire la verità, renderla per sempre «chiara» grazie ai mezzi linguistici di cui dispone, è ciò che davvero preme allo scrittore di questo aspro libello restituito finalmente alla sua forma originaria. Una nuova tappa verso gli opera omnia che la casa editrice Adelphi, dando seguito a un progetto filologico di Dante Isella e favorita dal rinnovato accesso ai materiali dell’Archivio Liberati, ha intrapreso oramai da qualche anno (qui per mano di Paola Italia e Giorgio Pinotti, autori di inappuntabili apparati). Un vecchio libro, sì, ma un nuovo Gadda. Bibliografia

Carlo Emilio Gadda, Eros e Priapo, Adelphi 2016. 451 pagine


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Cultura e Spettacoli La locandina dell’esilarante film di Sydney Sibilia, di cui è attesa la seconda parte.

Quattro stelle per Isabelle Filmselezione U na straordinaria Huppert

nel capolavoro di Verhoeven, e il ritorno dell’autore di L’albero degli zoccoli Fabio Fumagalli **** Elle, di Paul Verhoeven, con Isabelle Huppert, Laurent Lafitte, Anne Consigny, Charles Berling, Virginie Efira (Francia-Olanda 2016)

La commedia, divina invenzione

Cinema Un genere apparentemente leggero e popolare,

che possiede però una propria forza comunicativa Nicola Falcinella La commedia è da sempre uno dei generi principi del cinema italiano. Facendo ridere e usando la risata come strumento di critica sociale o politica, registi come Mario Monicelli, Dino Risi e altri hanno saputo trattare e leggere momenti drammatici della storia o affrontare temi delicati dell’attualità.

Negli ultimi anni la commedia italiana si è trasformata, ma è rimasta un genere molto amato Nell’ultimo decennio la commedia ha vissuto una stagione di grande diffusione e incassi al botteghino, ma anche di trasformazione. Il successo di pubblico ha portato una ripetizione di temi, interpreti e schemi che ha inaridito la vena. Ora il genere continua a richiamare spettatori, pur non dominando più, nemmeno nel periodo natalizio: si limita infatti a proporre sì molti titoli ogni anno, ma questi sono spesso modesti. Se i nomi più consolidati perdono verve, si affacciano nuovi registi che promettono di percorrere strade meno battute. Il «cinepanettone», termine orrendo per definire i film natalizi, ibrido di commedia, comicità e farsa, è cambiato: la separazione della coppia Boldi-De Sica ha portato all’esaurimento della formula. Massimo Boldi propone ogni novembre il suo film per uno zoccolo duro di pubblico, Christian De Sica

ha fatto incursioni in film più autoriali (Fräulein) continuando i film per le feste. Bandita la ricetta originaria, il cinepanettone, inteso come film natalizio di bassa qualità e dubbia comicità, è però proliferato, lo scorso anno ne abbiamo visti ben quattro, oltre al prenatalizio Boldi: Natale a Londra: Dio salvi la regina di Volfango De Biasi con Lillo e Greg, Non c’è più religione di Luca Miniero con Bisio, Angela Finocchiaro e Gassman, Fuga da Reuma Park con i collaudati (e forse declinanti) Aldo, Giovanni e Giacomo e il fiacchissimo Poveri ma ricchi di Fausto Brizzi. De Biasi, suoi anche Un Natale stupefacente e Natale con il boss, sta diventando specialista del filone, il nuovo Neri Parenti. Miniero, che ha realizzato Benvenuti al sud, Benvenuti al nord e La scuola più bella del mondo, lavora sugli stereotipi regionali in bilico tra soluzioni intelligenti ed esigenze di cassetta. Il suo vecchio compagno di lavoro Paolo Genovese (insieme si rivelarono con Incantesimo napoletano) dopo Immaturi e Tutta colpa di Freud ha fatto il botto a livello internazionale con Perfetti sconosciuti. Anche la commedia hollywoodiana è marginale nei gusti del pubblico italofono: nessuna è stata tra i 50 più visti del 2015/2016. Meno intenso il passaggio di comici e personaggi della tv al cinema, si assiste spesso a rifacimenti di film francesi (lo stesso Benvenuti al sud, Il nome del figlio o Un paese quasi perfetto). Se Brizzi (Notte prima degli esami) sembra in calo, salgono le quotazioni di Enrico Lando con I soliti idioti, grazie alla coppia Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli, e al recente Quel bravo ragazzo.

Tra commedia e comico puro si muove, diretto da Gennaro Nunziante, Checco Zalone, attualmente il fuoriclasse della risata all’italiana, nonché primatista di incassi con il buon Quo vado. Tra gli emergenti c’è Maccio Capatonda reduce da Italiano medio con la sua spalla Herbert Ballerina. I personaggi da commedia sono parecchi, da Alessandro Siani, che ha sempre successo anche se la spinta ascendente forse si è arrestata, a Enrico Brignano, da Vincenzo Salemme (meglio quando diretto da altri) a Ficarra e Picone o Rocco Papaleo. Resta immarcescibile Carlo Verdone, mentre Roberto Benigni è da tempo lontano dallo schermo e Leonardo Pieraccioni è sulla scena senza la verve dei primi lavori. Tra i registi, Paolo Virzì ha portato avanti la tradizione della commedia all’italiana negli ultimi decenni insieme alle incursioni di Daniele Luchetti (La scuola) o Silvio Soldini (Pane e tulipani), stanno tra autorialità e commedia commerciale Giovanni Veronesi e Luca Lucini, mentre caso a parte sono Enrico e Carlo Vanzina. Un gruppetto di giovani prova a mettere in pratica la lezione del compianto Carlo Mazzacurati, trattare temi seri o sociali con il sorriso: Matteo Oleotto di Zoran il mio nipote scemo, Roan Johnson (anche cosceneggiatore di Fuori mira di Erik Bernasconi) in concorso alla Mostra di Venezia con Piuma dopo Fino a qui tutto bene e Duccio Chiarini di Short Skin. Da tenere d’occhio pure Sydney Sibilia, del quale è atteso il seguito di Smetto quando voglio, e Ciro de Caro, segnalatosi per Spaghetti Story.

L’ultimo film dell’autore di Basic Instict è uno dei più straordinari della stagione grazie a due energie mostruose: quella nota da sempre di Paul Verhoeven, sommata alla personalità incredibilmente versatile di Isabelle Huppert, un’attrice che ha ormai pochi confronti al mondo. Proprio per questo incontro ai vertici dell’intuizione creativa, Elle rappresenta un oggetto misterioso e affascinante: un thriller da soprassalto, al tempo stesso commedia esilarante, riflessione sociale infine. Tratto dal romanzo di Philippe Djian, il film ne è una derivazione delirante, ma sempre significativa nei suoi paradossi: il capolavoro del cineasta olandese, perfettamente in equilibrio fra un grande mestiere perfezionato alla scuola hollywoodiana e una voglia proverbiale di destabilizzazione tutta europea. «Non si è mai demoni per sole ventiquattr’ore»: su quella traccia, Verhoeven si affida per il nostro diletto ai fantasmi di Hitchcock e Chabrol, Cronenberg e Haneke. Ma per approdare in un universo poetico nel quale ogni logica (psicologica, veristica, drammaturgica) viene costantemente contraddetta e resa addirittura improbabile: una festa di fantasia, provocazione e humour di magistrale facilità. Quello di Elle è un intrigo al quale è giocoforza aderire: ma mai più di tanto. Michèle dirige infatti una società di videogame con la medesima freddezza con la quale gestisce i propri affari amorosi. Alcuni ci verranno subito illustrati: in una aggressione sessuale sotto gli occhi indifferenti del gatto di casa, che il film riproporrà più volte. Una violenza forzatamente traumatica, ma paradossale: affrontata come in una partita a scacchi, non tanto strategica, ma tutta interiorizzata. A cominciare dal fatto che la vittima non sembra assolutamente intenzionata a denunciare il fatto; continuando a frequentare la propria vita privata e professionale come niente fosse. Più di un thriller, più dell’identità criminale dell’intruso in tuta di latex, che è subito chiaro non importa più di tanto a nessuno, Elle si scompone allora come un puzzle. Per ricostruirsi, sul rigore di uno sguardo dall’impressionante virtuosismo capace di prendersi gioco delle proprie regole, in una lucida e grottesca analisi. Dei diversi fan-

tasmi che abitano il desiderio sessuale, certo; ma quando messi in continua relazione con le ambiguità della morale borghese. *** Torneranno i prati, di Ermanno Olmi, con Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti ( Italia 2014)

Una delle cose più significative dell’ultimo film di Ermanno Olmi è il suo titolo. La guerra, ci dice, è una delle piaghe che sembrano accompagnare l’umanità da sempre; ma con un aspetto che sembra sommarsi all’ineluttabilità della tragedia: l’ipocrisia che l’avvolge. Quella che, non appena ricomparsa la pace, dimentica ogni orrore e ingiustizia, cancella l’imposizione dei tanti valori fasulli. Mentre l’erba ritorna sui prati. Nella trincea della Prima Guerra Mondiale scavata sotto metri di neve, nell’avamposto che il caso ha situato a pochi metri da quello austriaco, sono ovviamente i poveracci – ormai rassegnati al suicidio annunciato da ordini lontani e assurdi – le vittime predestinate di un concetto di patriottismo che l’autore de L’albero degli zoccoli ha generosamente definito «un malinteso». Ma se l’ultimo dei grandi anziani del cinema italiano traduce l’infamia della trappola in un lento, sontuoso kammerspiel girato fra i meandri sgocciolanti di un buco sepolto sotto il biancore abbagliante dell’altopiano di Asiago, è in un’altra dimensione del dramma che Torneranno i prati lascia l’impronta. Non tanto, nel generoso antibellicismo degli aneddoti; gli stessi che il cinema, dal Kubrick di Orizzonti di gloria al Malick di La sottile linea rossa ha magnificato da sempre. Non solo, l’intreccio degli sguardi persi nella disperazione, i mormorii incessanti, l’ipnotica follia dei soliloqui colti ai confini dell’accademismo. Ma anche un martirio che, assieme a quello degli uomini, è assunto dalla natura; annientata assieme agli alberi circostanti che garantivano una parvenza di serenità ai reclusi; al mondo animale che, malgrado la devastazione delle bombe, proseguiva nel proprio eterno rituale. La fine della montagna, tanto amata da Ermanno Olmi dopo l’abbandono della pianura padana che lo aveva reso celebre, diventa allora la scomparsa di un ordine morale. In un processo di astrazione, altrettanto significativo di ogni realtà, che ricorda quello creato nel 1995 da Aleksej Sokurov all’interno delle trincee in Tadjikistan nell’indimenticabile La voce dell’anima.

L’attrice francesce Isabelle Huppert in una scena di Elle. (quinlan.it )


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Cultura e Spettacoli

Di treni e di genealogie minute Editoria Interlinea di Novara ha pubblicato Un sabato senza dolore, ultimo libro di poesie

dello scrittore ticinese Alberto Nessi Alessandro Zanoli

«InterRegio, giorno feriale / la purezza della neve nel cielo si scontra con l’oscenità del giornale» Per Nessi il treno è un campo di studio antropologico-poetico fondamentale. Il suo contributo non è il solo, certo, per ciò che riguarda la poesia ticinese. Vengono in mente alcune liriche di Giovanni e Giorgio Orelli, e persino le mucche che cambiano colore a seconda dei confini cantonali messe in versi da Scharpf. Ma nel caso di Nessi la situazione logistica «treno» diventa una delle metafore predilette dell’esistenza. Questo non è certo un caso per un autore chiassese, laddove la località stessa ha acquisito identità, rilievo e importanza grazie alla sua posizione strategica nel contesto del traffico ferroviario. Il merito di Nessi, ciò che rende i suoi treni diversi da quelli degli altri poeti, è la sua fedeltà sistematica all’osservazione, anzi alla testimonianza umana. Impossibile non alludere, pensando a queste cose al titolo del suo bel libro di racconti Tutti discendono. Immaginiamo la frase pronunciata da un capotreno e accuratamente annotata da Nessi: frase significativa che unisce lo strafalcione italo-elvetico, il calco francofono da «italiano-dellaferrovia», ad un retaggio esistenzialferroviario. Tutti discendono accomuna l’umanità piccola e minuta, il mondo di persone semplici e dimenticate ma degne di attenzione e rispetto e, in fondo, anche di una loro piccola epica. In questo senso, ben oltre la sua appartenenza geografica, ben oltre ai chiari e costanti richiami alla vita del Mendrisiotto, Nessi mi sembra un vero poeta ticinese. Tanto quanto i binari, i vagoni, i viaggi oltre Gottardo caratterizzano la vita «ai margini» di tutti noi in questo spicchio di Svizzera meridionale, così la voce di Nessi ci mette davanti agli occhi e trasforma la nostra quotidianità inosservata, meccanica: registrandola, commentandola con l’attenzione di un etologo ne riporta alla luce il senso morale, il significato che, trascurata, rischierebbe di perdere.

Lo scorso anno gli è stato assegnato il Premio svizzero di letteratura. (Keystone)

Il nuovo libro di Nessi è un’occasione per confrontarsi con un racconto della realtà non molto ottimista, non molto conciliante. Nel ritmo piacevole dei suoi versi, nella sua capacità di di-

pingere scene in pochi tratti si ritrova da sempre la puntura della spina che richiama al presente. Ma non si deve equivocare: per questo il mondo ha bisogno dei poeti. Perché ci aiutino a im-

parare a districare nella trama confusa del quotidiano i fili più importanti che ci riportino alla preziosità della nostra esistenza. Non sempre sono i fili più colorati o quelli tinti d’oro. I fili che ci

Bibliografia

Alberto Nessi, Un sabato senza dolore. Con una nota di Fabio Pusterla. Interlinea, Novara, 2016. Annuncio pubblicitario

Il semplice vecchio bicarbonato di sodio Una farmacia dentro una scatola? Le nostre nonne avevano sempre a portata di mano una scatola di bicarbonato di sodio. Un prodotto dai mille usi che era considerato sicuro e molto efficace. La preziosa polvere bianca veniva utilizzata per lavare la frutta e la verdura e, in casi di difficoltà di digestio ne o bruciore di stomaco, bastava assumerne una dose. Ideale per la pulizia della cucina e del bagno, per disinfettare gli indumenti e gli oggetti dei neonati, veniva aggiunta anche una piccola quantità all’acqua della lavatrice, come anticalcare. Il libro « La Magia del Bicarbonato di Sodio » La farà riscoprire un prodotto straordinario ed ecologico al 100%, con una raccolta che contiene oltre 500 suggerimenti e preparazioni tradizionali che si sono dimostrati efficaci e validi. Ricette facili che Le insegneranno come mescolare il bicarbonato di sodio con altri ingredienti comuni quali: aceto, latte, miele, farina, cenere, ecc. Il tutto per dare sollievo, per pulire e deodorare la casa, la biancheria, la cucina, il bagno, il garage, gli animali domestici, ecc. Scoprirà come un po’ di bicarbonato di sodio aggiunto ad una goccia di questo e a un cucchiaio di quello possa : • assorbire i cattivi odori • rendere i denti più bianchi • eliminare l’alito cattivo • alleviare il bruciore di stomaco • dare sollievo in caso di afte, mal di gola, punture di insetti • rimuovere la crosta lattea • sturare gli scarichi • prolungare la vita dei fiori recisi • pulire una pentola il cui fondo si è bruciato • rimuovere le macchie di ruggine Imparerà che il bicarbonato di sodio è puro, efficace e sicuro per l’ambiente. Per di più è naturale al 100%. E risparmierà pure ! Il libro “La Magia del Bicarbonato di Sodio” La affascinerà con oltre 500 modi per migliorare la vita quotidiana in maniera semplice ed economica. Un libro indispensabile in ogni biblioteca !

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Se per caso un giorno le FFS volessero dedicare ad Alberto Nessi uno dei loro bei treni Intercity ICN 500, così come hanno fatto per molti famosi scrittori elvetici, ne avrebbero tutte le ragioni. Prima di tutto perché molte delle sue poesie sono nate lì, tra un sedile e l’altro, tra uno scompartimento e l’altro, tra un riflesso sul vetro e una frase colta al volo da un suo compagno di viaggio. L’Intercity «Alberto Nessi» (se posso avanzare un consiglio) dovrebbe essere tutto decorato all’interno non soltanto con una scelta di belle frasi scritte in orizzontale, sotto il portabagagli. Nel caso del treno dedicato al poeta di Chiasso sarebbe perfetta un’antologia di liriche intere (tanto sono corte) stampate sulla fodera dei sedili, appiccicate ai vetri, alle porte. Magari anche foglietti che pendono dal soffitto al neon. Si assisterebbe allora, è sicuro, a un andirivieni di passeggeri, che cambierebbero sedile ad ogni stazione. Per poterle leggere tutte si sposterebbero lungo il treno, chiedendo magari informazioni al controllore. Il quale, opportunamente formato, fornirebbe loro precise indicazioni bio-bibliografiche, elementi utili per l’interpretazione, e altre spiegazioni di uso pratico per avvicinarsi all’opera del nostro autore.

presenta Nessi sono naturalmente parole: parole precise, come «colchico», «fusaggine», ma anche «bancomat». Gli ultimi versi di una delle più belle e significative poesie di questa raccolta recitano al proposito «ancora l’aspetto nascosto nell’erba/ la parola che non tradisca la sua genesi», e ci spiegano tanto della voglia del poeta di incidere sul mondo con l’energia rarefatta della sua lirica. Sfogliando il nuovo libro di Alberto Nessi viene da pensare anche che tutti dovrebbero avere il coraggio di entrare in libreria e comprare un libro di poesia. Ci vuole forza d’animo, in effetti. È una cosa fuori moda. È una cosa che si lascia di solito agli addetti ai lavori, ai letterati. I poeti sono coraggiosi e impegnano la vita per noi. Per questo dovremmo ricordarci, ogni tanto, di esserlo altrettanto, quando entriamo in libreria.

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Cultura e Spettacoli

Il teatro della parola sospesa e l’estro tradizionale partenopeo

In scena La regia contemporanea di Novicov sul palcoscenico di Ginevra, mentre Massimo Ranieri è al Lac

Giorgio Thoeni «Mettere in scena Fosse è uno degli esercizi più pericolosi». Ad affermarlo è Andrea Novicov, regista ticinese ma romando d’adozione da una quindicina d’anni. Dopo aver visto La voce umana di Jean Cocteau (il 17 febbraio nuovamente al Foce) e Elektra di Hugo von Hoffmannstal, due sue recenti regie teatrali di successo prodotte in collaborazione con LuganoInScena, abbiamo voluto andare al Théâtre Pitoëff Ginevra per seguire una delle ultime repliche di Et jamais nous ne serons séparé, prima commedia scritta nel 1994 dal norvegese Jon Fosse (1959), drammaturgo, poeta e romanziere norvegese, da molti definito come genio «del non detto», con una scrittura attenta alle lezioni di Beckett, Ionesco e Pinter. Un gioco della ripetizione spesso ossessiva nel contesto di una narrazione perfetta, in equilibrio sulla quarta parete delle contraddizioni della vita, fra lacerazioni e sentimenti avvolti da intensa umanità. È un teatro della sospensione, fatto di parole che non devono svelare nessun sottotesto ma lasciare uscire le voci. Quelle che hanno fatto innamorare Patrice Chéreau, Claude Régy, Thomas Ostermeier, ma anche Valerio Binasco, Valter Malosti, Sandro Marbellini…, grandi regie che hanno indugiato sul carattere spesso scuro, depressivo e algido delle situazioni descritte da Fosse. In realtà l’autore di Bergen può essere

Un momento di Et jamais ne nous serons séparés di Jon Fosse, regia di Andrea Novicov.

letto anche con un respiro diverso senza snaturarne la complessità drammaturgica. È quello che ha fatto Andrea Novicov con la sua messa in scena di Et jamais…, per la quale ha utilizzato un registro vero, talvolta straniato, farcito di ironia. Una partitura ideale dove la recitazione diventa oggetto descrittivo di un mondo in cui il dramma dell’abbandono – tema della pièce – si trasforma in un gioco a tre dai molteplci piani d’ascolto. Superba la prova di Natalie

Boulin, protagonista, con l’ottimo Roberto Molo e la giovane Lara Khattabi. Belle le luci per una scenografia asettica che ricorda Berlino Est negli anni 60. E quel tappeto sonoro subliminale… La Napoli di Viviani con Massimo Ranieri

Potrà suonare un po’ «retrò» ma a noi quella sua sempreverde vena popolare è sempre piaciuta. Stiamo parlando di Massimo Ranieri, un artista dalle ori-

gini umilissime che presto è volato al successo: dalla canzone al cinema e al teatro. Anche se il trampolino di questo napoletano verace è stata la musica leggera diffusa alla televisione. Ma la sua vera essenza artistica si è espressa soprattutto sul palcoscenico grazie alle sue straordinarie doti comunicative in continua simbiosi con la sua espressività teatrale (come aveva intuito Strehler). Dopo il successo ottenuto con Viviani Varietà, passato al Teatro

di Chiasso nel marzo del 2014, Ranieri ha continuato a esplorare il suo progetto legato a Raffaele Viviani con un secondo spettacolo dedicato a Napoli e a questo importante attore, cantante, compositore e commediografo vissuto nella prima metà del ’900. Tre anni dopo è così tornato, questa volta al LAC per LuganoInScena con Teatro del Porto per la regia di Maurizio Scaparro, uno spettacolo incentrato su una raffinata ricerca filologico-musicale (Pasquale Scialò) tra rivista e Café Chantant d’inizio secolo, una solida base per lo sviluppo della drammaturgia popolare, dai tempi del Futurismo a Scarpetta e poi a Eduardo. Sciantose, cocottes e prostitute, guappi, gagà e mariuoli, emigranti, operai e pescatori, scugnizzi e miseria: sono le atmosfere raccontate da macchiette, sketch e numerose canzoni che dipingono l’amore e l’ironia della Napoli di cent’anni descritta da Viviani. È il popolo dei quartieri bassi, quelli raccontati ne La paranza dei bambini di Roberto Saviano ma anche dal fantastico dialetto barocco di Annibale Ruccello. Con Il Teatro del Porto la memoria storica di Viviani si sintonizza con l’attualità dei nostri giorni grazie alla straordinaria bravura di Ranieri, sul palco con Ernesto Lama, Angela De Matteo, Gaia Bassi, Roberto Bani, Mario Zinno, Ivano Schiavi, Antonio Speranza, Francesca Ciardiello … e la musica dal vivo. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Assonanze silenziose

Mostre A Porza un dialogo tra le opere di Erich Lindenberg e Gabriela Maria Müller Alessia Brughera Nel 2006 Erich Lindenberg, quasi settantenne, moriva all’improvviso nel suo atelier berlinese. Ai tempi dell’Accademia di Belle Arti a Monaco, erano gli anni Sessanta, aveva fatto promettere all’amica e pittrice Mareen Koch di occuparsi in futuro del suo lascito artistico. È così che, dopo la sua scomparsa, prestando fede all’impegno preso in gioventù, la Koch decise di istituire una fondazione intitolata all’artista tedesco con lo scopo di custodire e mostrare al pubblico le sue opere. Alla creazione del museo, che ha preso vita negli spazi di Villa Pia a Porza nel 2012, ha partecipato attivamente anche il fratello di Erich, Udo, rockstar molto nota nel panorama musicale teutonico.

I materiali preferiti dall’artista sono naturali: cera d’api, aghi di pino, semi di soffione e di cardo Da subito la Fondazione Lindenberg non si è limitata a conservare la produzione del pittore, ma ha proposto eventi espositivi che potessero ampliare la conoscenza dei suoi quadri avvalendosi del dialogo con figure a lui vicine per linguaggio espressivo o per obiettivi di ricerca. La rassegna presentata in questi giorni nelle sale del museo ci fa scoprire le affinità tra Lindenberg e Gabriela Maria Müller, nata a Teufen ma residente a Pura da vent’anni. Sono corrispondenze sottili quelle tra i due artisti, legate soprattutto alla modalità di lavoro, un lavoro paziente e minuzioso affidato a una gestualità che diventa rito e che richiede nel suo svolgersi calma e

meditazione. Ad accomunarli è anche la propensione all’essenzialità, è l’esplorazione della dimensione temporale attraverso la purezza delle forme e la trasparenza della materia. Le loro opere sono fatte di riflessi, di sfumature e di riverberi, di chiarore e di silenzio. Un silenzio che per la Müller è sostanziale fin dal principio, quando immersa nella natura si apre ai suoni e ai ritmi della terra empatizzando con l’ambiente tramite la vista e il tatto. Qui l’artista raccoglie ciò che più la suggestiona, frammenti di un mondo mutevole e precario su cui esercita la propria manualità per originare piccoli universi di pensiero. Cera d’api, soffioni, semi, aghi di pino popolano i suoi lavori come entità di una visione elementare, come segni primari che definiscono una simbologia ancestrale ed esistenziale. La Müller appartiene a quella schiera di artisti che trovano nella natura una fonte inesauribile di ispirazione e che riescono a trasporre nelle proprie opere la loro esperienza quotidiana con il creato. Se dovessimo citare un autore a lei molto vicino, il nome sarebbe quello di Wolfgang Laib, non solo per l’utilizzo dei medesimi materiali, ma soprattutto per il considerare l’opera d’arte una sorta di nutrimento per l’anima, un luogo dall’incontaminato nitore che porta con sé qualcosa di atavico e che sa evocare il senso di armonia che regola l’universo. È un’arte che non passa dall’imitazione della natura, ma dalla sua appropriazione: ne preleva l’essenza quasi a volerla preservare dalla sua caducità, trasmutandola in nuclei narrativi improntati a uno spirito profondamente poetico. Diafane e fragili, le creazioni della Müller vivono di una quiete visiva che le avvicina alle superfici pittoriche di Lindenberg, in cui le forme si fanno impressioni dissolte nella luminosità.

Gabriela Maria Müller, Un souffle de l’infini, 2016. (Fondazione Lindenberg)

In un confronto che favorisce l’introspezione, nella mostra vediamo difatti i dipinti del maestro tedesco, lavorati nell’acqua per ottenere effetti di rarefazione che rendono figure e oggetti presenze evanescenti, intessere delicate consonanze con i lirici microcosmi dell’artista di Pura. Dall’accostamento dell’opera Il mistero oltre il visibile, dove la Müller cosparge una grande tela con della cenere di legno alluvionale, a uno dei quadri d’ombre di Lindenberg, dove l’immagine di un teschio sembra smarrirsi nella limpidezza del colore, scaturisce ad esempio una comune riflessione sul tema della morte, a cui entrambi riescono a conferire un’aura di misticismo. Interessante è notare come i lavori

della Müller siano spesso frutto di un vero e proprio mestiere artigianale. È il caso dell’opera dal titolo Un nuovo mondo, del 2012, in cui l’artista ha cucito accuratamente più di milleduecento semi di dente di leone su di un velo tondo, a richiamare i vecchi telai e il paziente lavoro femminile, o de L’abbraccio dell’albero, del 2013, in cui ha realizzato con meticolosità ed energia fisica il frottage del tronco di un castagno secolare. Aghi di pino vengono poi deposti con precisione su più strati di voile, a farne nitide pagine di un grande erbario; semi di soffione dorati vengono diligentemente adagiati in ciotole di cera d’api messe a fluttuare sull’acqua, a farne un tributo alla natura; semi di cardo

vengono appesi con zelo all’interno di un cubo di plexiglas su una trama di fili che segue le forme delle costellazioni, a farne un’invocazione al raccoglimento. Come quelle di Erich Lindenberg, le opere della Müller sono creazioni lente, per una fruizione dilatata, che sanno ricondurci a una dimensione di candore spirituale intrisa di luce e di silenzio. Dove e quando

Erich Lindenberg e Gabriela Maria Müller. Nel riverbero della natura. Museo Villa Pia, Porza. Fino al 12 marzo 2017. Orari: ma 10.00-18.00, do 14.00-18.00. www.fondazionelindenberg.org

Arte che cura e unisce

Mostre Le opere di Mirella Marini e Alice Marinoni, in un allestimento

che testimonia della loro toccante esperienza creativa Eliana Bernasconi L’esposizione organizzata nella Sala del Torchio di Balerna dal Dicastero cultura del Comune, curata da Vito Calabretta, oltre all’intrinseco valore artistico delle opere pone l’accento ed evidenzia per la prima volta un inedito aspetto nel lavoro di queste due artiste. Sono raccolti disegni, tempere e acrilici, oli e incisioni, monotipi e prove d’artista realizzati dai primi anni Sessanta ad oggi e ci mette di fronte a una selezione ricavata da trenta anni di attività delle due artiste, Mirella Marini e Alice Marinoni. Raggruppati in percorsi tematici

e declinati in raffigurazioni ogni volta diverse, troviamo soggetti tratti dalla quotidianità che le due artiste, madre e figlia, condividono da sempre. Sono volti e ritratti di persone e animali, sono la bicicletta, gli alberi e il bosco, sono tracce di cibo e fiori, ma incontriamo anche immagini recenti che alludono alle migrazioni del Mediterraneo, all’emergenza dell’esodo, ai drammatici aspetti del momento storico attuale. Mirella Marini nasce a Genova, vive e lavora in Ticino alternando soggiorni in Portogallo, ha alle spalle una grande formazione nelle arti plastiche e incisorie e una lunga attività espositiva. Contraddistinte da una forte carica di

Uno degli spazi della Sala del Torchio di Balerna. (V. Calabretta)

matrice espressionista, da un segno potente e incisivo che delimita essenziali forme primarie in una sintesi quasi architettonica, le sue opere ci riportano molto spesso anche a riflettere sugli aspetti sociali e politici della contemporaneità che riguarda ognuno di noi. Quando nel 1962 Mirella diventa mamma di Alice, sordomuta e autistica dalla nascita, i metodi delle Artiterapie, oggi così diffusi, stanno appena nascendo in Francia e in America, ma contrariamente a quanto potrebbe sembrare questo non ha niente a che vedere con le opere di Alice, così come non sarebbe esatto farle rientrare nell’Art Brut. Alice inizia presto a crescere e a condividere il mondo della madre, interiorizza il suo totale rapporto con l’arte che è ragione di vita, ne osserva attenta il lavoro, visita in continuazione musei e gallerie d’arte. Se i suoi primi disegni in esposizione al Torchio presentano le strutture archetipiche primarie che troviamo in tutti i disegni infantili, ben presto si rimane colpiti dai lavori successivi dove un sicuro istinto circoscrive e domina lo spazio, un’innata sapienza compositiva sembra guidarla, dove dalla familiarità con le stesure del colore sembra trarre nutrimento vitale, e quasi misterioso è il rapporto immediato che riesce a stabilire con i materiali, come quando, ci dice sua madre, dopo averla vista incidere una lastra di rame, raccoglie da terra una lattina di metallo, la appiattisce e la utilizza.

Incontrando Alice in Galleria, tra le sue opere, mentre con gesti gioiosi e entusiasti con la mano ti invita ad avvicinarti alle sue opere, percepisci in lei la soddisfazione dell’artista realizzata, l’appagamento di chi si è espresso e ha comunicato con il mondo. A questo punto sarebbe logico dedurre che tra Mirella e Alice si sia stabilita una relazione di tipo gerarchico, come tra allievo e maestro, dove è la madre, con la sua conoscenza ed esperienza, a indirizzare la figlia lungo una precisa strada. Nulla che vada in questa direzione, ci dice Vito Calabretta, che volendo chiarire i motivi che portano al dominio dell’espressività nell’arte ha fatto dell’analisi di questo rapporto, della sua dinamica e dei suoi risultati uno degli obiettivi della mostra. «Nella scelta delle opere» ci spiega «ho evitato accuratamente di adottare ogni criterio di tipo cronologico e ogni dimensione di tipo pedagogico e terapeutico. Nella mostra si viaggia nel tempo in ogni direzione». Se la condivisione di vita e di lavoro delle due artiste farebbe pensare a una forte simbiosi, il processo creativo le differenzia totalmente, anche se i due percorsi possono intrecciarsi, scambiarsi, condividere spazi comuni anche se le due artiste non lo avvertono. A volte è la figlia che imita la madre, a volte è la madre che si ritrova dopo decenni senza rendersene conto a riprendere lavori fatti dalla figlia, per esempio con una certa congruenza

di piani, una certa struttura di forme. Ma in tutto questo, come ben si evince nella mostra, emerge come condizione irrinunciabile la totale autonomia delle due personalità che vivono un totalmente differenziato ma continuo e stimolante percorso di crescita. Si vedano ad esempio i due ritratti della ballerina di Flamenco: se la raffigurazione di Mirella esprime con matura e raffinata cultura un certo tipo di emozioni indefinite, ironiche o tragiche, Alice con pochi tratti cattura, fulminea e sintetica, solo la perfetta, concisa immagine di una ballerina. Anche la serie di tele con vasi di fiori mostra chiaramente come le due impostazioni siano lontanissime, violento e quasi gestuale il segno di Alice, ricca di cromatismo e profondità l’immagine della madre, ma l’emozione poetica che trasmettono, mediata da due linguaggi espressivi diversi e lontanissimi, è ugualmente intensa. Nelle serie recente delle calzature, Mirella Marini colloca delle infradito abbandonate e perdute in uno spazio sabbioso dove troviamo striature dorate, il miraggio di chi attraversa il Mediterraneo e inseguendo una vita migliore può anche incontrare la morte. Anche Alice riprende il tema delle calzature, ma per lei rappresenta tutt’altro, le impronte dei piedi si immergono felici in un favoloso fondale azzurro, ci raccontano la vitalità del libero movimento, la scoperta gioiosa dei passi di chi conquista felice lo spazio del suo mondo.


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Cultura e Spettacoli

Sotto la stella di Bach

Incontri A colloquio con il clavicembalista di origine iraniana Ramin Bahrami che da anni

si dedica al repertorio del grande compositore tedesco Enrico Parola C’è stato un tempo, era la metà del secolo scorso ma erano anche pochi anni fa, in cui le esecuzioni di Bach erano liturgie sacre officiate da austeri musicisti-filologi, per lo più mitteleuropei o anglosassoni. Poi, dopo i Richter, Leonhardt, Gardiner, Herreweghe è arrivato un pianista scappato con la famiglia da una Teheran dominata dagli ayatollah, cresciuto musicalmente in Italia, il volto e il carattere tutt’altro che austeri; e Bach è diventato un fenomeno pop, ha allargato il suo pubblico e ha conosciuto nuova linfa nell’asfittico mercato discografico. È Ramin Bahrami, quarant’anni compiuti il 27 dicembre festeggiati in pubblico a fine gennaio in un concerto dove ha suonato tre Concerti bachiani per due clavicembali e orchestra con la moglie, Marialuisa Veneziano. Non è un caso, perché l’amore e il culto per il sommo Johann Sebastian dominano totalmente anche la vita e lo spirito di Bahrami. «Verissimo. Se devo sintetizzare i miei primi quarant’anni mi basta un nome, Johann Sebastian Bach. E non è un’esagerazione» sorride Bahrami, che simpaticamente nel suo indirizzo email ha modificato il cognome trasformandolo in «Bachrami»: «I miei primi anni non sono stati facili, ma Bach già illuminava le mie giornate. Mi ricordo che lo ascoltavo su un giradischi che saltava: le bombe detonavano vicine e tremava tutto, ma sinceramente – sarà stata anche l’ingenuità del bambino – non mi sembrava di vivere in un incubo; i miei genitori hanno sempre cercato di farmi vedere e vivere cose belle e Bach fu una delle prime e forse la più significativa. Lo faccio anch’io con mia figlia, Shihin Maria: ha tre anni ed è già un’esperta, canta e fa finta di suonare mentre io e la mamma suoniamo, mi chiede brani precisi,

Il pianista di origini iraniane Ramin Bahrami. (DallaPorta)

il suo preferito è il terzo movimento di un Concerto che ho inciso con Riccardo Chailly e la Gewandhausorchester di Lipsia. Ma non solo Bach e musica: quando suono in tournée spesso Marialuisa e lei vengono, è già stata a Venezia, Vienna, Parigi… E nelle cose belle ci metto anche certi cartoni animati». Le frasi divagano tra passato e presente; rieccolo a quegli anni a Teheran: «Le mie radici sono persiane, turche, russe e tedesche, la mia fede era lo zoroastrismo; il regime ci impose l’islam, ma l’adesione di tutta la famiglia fu sempre formale, giusto per salvare le apparenze; però non si poteva reggere a lungo così e mio padre, un ingegnere inviso al regime degli ayatollah, decise di abbandonare l’Iran, passando prima in Germania e poi, quando avevo tredici anni, in Italia. Sono diventato uno studente del Conservatorio di Milano,

ho approfondito le conoscenze musicali ma soprattutto ho incontrato un mondo nuovo». Bach era già il suo idolo: un compositore che appuntava sopra ogni spartito Soli Deo Gloria e che Joseph Ratzinger, quando era ancora cardinale, avevo definito più efficace di tante prediche ascoltate per convincere dell’esistenza di Dio; eppure la conversione di Bahrami al cristianesimo è venuta dopo i trent’anni ed è legata a un episodio particolare: «Ero reduce da una tournée massacrante in Messico; mi sentivo spossato e avevo quasi la tentazione di smettere la vita frenetica del concertista; ma dovevo suonare in Veneto e nella chiesa di un paesino di cui non ricordo il nome, ero entrato quasi per caso mentre passavo di lì, vidi un’immaginetta su cui c’era scritto “seguiMi per come sei, per come stai,

ovunque sia e qualunque cosa tu stia vivendo”; sembrava stesse parlando a me che mi sentivo così privo di ogni energia e risorsa; da lì iniziò un cammino rapido e soprattutto interiore. Però ho preso i sacramenti solo prima di sposarmi, perché volevamo farlo in chiesa». Inutile dire che Bach fu determinante anche per il matrimonio: «Ho conosciuto Marialuisa a una masterclass su Bach che tenni a Roma, lei mi colpì per come aveva interpretato la seconda suite inglese, si vedeva che oltre ad avere una bella tecnica aveva un’umanità viva e uno spirito ricco che rendevano interessante anche il suo modo di suonare. All’inizio mi mossi timidamente: un messaggio via facebook per incoraggiarla prima di un concerto, una email…» E poi l’altare; facile immaginare la marcia nuziale: «Certo,

non c’è da chiedere di chi fosse! Ce la suonarono i Solisti Aquilani, amici cari con cui ho suonato varie volte; però c’è stato anche l’Ave verum corpus di Mozart, l’autore prediletto da mia moglie». Bach – Mozart: chi vince in casa? «Anche lei ammette che Bach è il più grande di tutti, talvolta ci sono discussioni animate perché lei è più organista e ha un modo diverso di approcciare le frasi musicali, ma confesso che quando suoniamo insieme tra le mura domestiche eseguiamo soprattutto le Sonate di Amadeus: la considera la sua grande vittoria!». La dimensione familiare l’ha comunque aiutato a capire meglio Bach: «Essere marito e padre, con le incombenze tipiche come cambiare pannolini o consolare un pianto, mi ha permesso di immedesimarsi ancora di più con un genio che componeva, preparava le orchestre, suonava e insegnava trovandosi in casa un numero incredibile di figli: gliene nacquero 19!» Ma questa passione e soprattutto questa dedizione assoluta non rasentano il fanatismo? «No perché lui non solo fu il più grande, ma è l’unico che può bastare da sé. Ci sono stati vari musicisti che come me hanno dedicato l’intera loro carriera a Bach, ma non ne conosco nessuno che abbia suonato solo Mozart, Beethoven o Chopin: la loro musica è segnata da un certo periodo storico, da un gusto estetico e una temperie spirituali ben determinate, sono fantastici ma capisci che c’è qualcosa d’altro; invece Bach, che tecnicamente sarebbe da ascrivere al Barocco, in pratica non è collocabile in un tempo preciso: è passato, è sempre presente ma in tanti punti è assolutamente futuro per l’audacia visionaria di certe soluzioni. E nella sua musica non manca niente: quando lo suono io metto sulla tastiera anche tutti i miei difetti perché quelle note li abbracciano e li consolano; e così mi sento salvato».

Difficile migliorarsi, quando si è Sting... Musica Il nuovo album del musicista inglese non convince del tutto chi ha da sempre intravisto in lui

una vena artistica più profonda e sensibile Benedicta Froelich Tra le varie band inglesi che hanno sfondato sulla scena musicale internazionale tra la fine degli anni 70 e l’inizio del decennio degli 80, la formazione dei Police può senz’altro definirsi una delle più interessanti, principalmente grazie all’ardito mix stilistico tra reggae bianco e sonorità puramente pop che l’ha caratterizzata fin dagli esordi. E benché nemmeno questo gruppo sia scampato all’immancabile scioglimento, il suo frontman e cantante – il carismatico Gordon Sumner, meglio noto al grande pubblico con l’appellativo di «Sting», «pungiglione»,

a causa della sua passione per i maglioni a righe – ha più che compensato questa perdita con una stellare carriera solista, che ne ha fatto in breve tempo uno dei più osannati (e facoltosi) nomi della scena pop-rock angloamericana, responsabile, tra gli altri, di brani ormai classici quali If I Ever Lose My Faith In You, Russians e Desert Rose. Oggi, dopo circa tre anni di silenzio discografico, Sting torna sulle scene con questo nuovo lavoro, 57TH & 9TH – titolo che si riferisce all’incrocio tra le due traverse newyorchesi che il cantante era solito percorrere ogni giorno per recarsi in studio di registrazione. E basta inserire il CD nel lettore per

Il lavoro più recente di Sting.

rendersi subito conto che il singolo di lancio (nonché traccia apripista dell’album), I Can’t Stop Thinking About You, sembra tratto direttamente da un disco dei Police (per la precisione, Synchronicity): il che non ne fa certo un esempio di grande originalità compositiva, relegandolo al rango di brano minore, forzatamente privo di vera personalità. Purtroppo non è un caso isolato: infatti, sebbene ben più vivace e meglio arrangiato, anche un pezzo pur gradevole come One Fine Day suona piuttosto banale e ritrito, poiché mancante di una linea melodica sufficientemente definita da sostenerlo con reale efficacia. Una scintilla narrativa interessante la si ritrova però in 50,000, buon esempio di songwriting a metà strada tra il brano d’evasione puramente pop e la drammatica introspezione tipica di pezzi più complessi e dall’impostazione maggiormente cantautorale – una misura nella quale Sting si è sempre trovato a suo agio, ma che in questo 57TH & 9TH sembra, in verità, sfuggirgli. Così, il resto della tracklist scorre senza troppe sorprese; mentre una traccia cadenzata e allusiva quale Down, Down, Down non riesce, benché piacevole, a qualificarsi come davvero memorabile nella memoria dell’ascoltatore, l’esuberante Petrol Head si distingue invece per il fatto di essere l’unico brano davvero rock dell’intero

album: un perfetto prototipo di trascinante cavalcata upbeat che, per quanto ben poco originale, svolge bene e senza troppe pretese il suo compito. Tuttavia, sono i brani più lenti a distinguersi per una maggiore impronta creativa e una più chiara intenzione stilistica, in grado di risollevare il disco dalla mancanza di spessore che affligge la maggior parte delle tracce: è il caso dell’eccellente Pretty Young Soldier, una ballata «old style» particolarmente intensa ed evocativa, che richiama la tradizione folk della «tragedia romantica». Interessante anche il delicato e «impegnato» Inshallah, concepito come una sorta di preghiera mediorientale, idealmente scritta dal punto di vista di un rifugiato in fuga dal proprio paese; sulla stessa linea troviamo pure The Empty Chair, pezzo dedicato al reporter americano James Foley, la cui morte è rimasta indelebilmente impressa nella memoria collettiva a causa del filmato che i suoi carcerieri, militanti dell’ISIS, fecero circolare su Internet nel 2014. Eppure, benché composto con le migliori intenzioni, il brano non riesce a mantenere del tutto le promesse, forse a causa di una vena vagamente melensa – difetto spesso riscontrabile in canzoni incentrate su argomenti tanto delicati ed emotivamente potenti. Ciò conferma che purtroppo, per quanto riguarda la capacità compo-

sitiva di Sting come solista, quest’album si colloca ad anni luce di distanza da lavori del calibro di The Soul Cages (1991) o Ten Summoner’s Tales (1993) – e in verità, a mancare sono anche quella creatività ed energia narrativa che hanno animato l’ultimo progetto dell’artista, l’atipico ma interessante musical The Last Ship (2013): un esperimento che, seppur non di grande successo, ha mostrato come Sting non abbia mai perduto il proprio tocco per lo storytelling di qualità. Purtroppo, però, non molto di tutto ciò sembra risaltare in 57TH & 9TH, che finisce così per presentarsi come un album perlopiù manierato, nel quale, a parte qualche eccezione, il cantante appare quasi ripetere a memoria le lezioni compositive assorbite in passato. E se qualcuno potrà vedere in ciò un sintomo di una funesta «deriva commerciale», chi scrive conserva comunque la speranza che la vena artistica di Sting possa presto spingerlo nuovamente verso sentieri più sperimentali e meno ovvi, riavvicinandoci ai fasti di un passato di cui forse oggi rimpiangiamo un po’ l’effervescente entusiasmo creativo. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 febbraio 2017 • N. 07

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Idee e acquisti per la settimana

shopping L’arte della salumeria nostrana

Attualità Le luganighe accompagnate dal risotto sono uno dei piatti tipici del carnevale.

Ma è possibile gustare il tradizionale insaccato da cuocere tutto l’anno grazie al savoir-faire della Salumi del Pin di Mendrisio

Angelo Valsangiacomo della Salumi del Pin e una fase della produzione delle luganighe nostrane. (Flavia Leuenberger)

Nel cuore di Mendrisio ha sede un salumificio con una lunga storia alle spalle: la Salumi del Pin. Nata come Salumificio Brenni nel 1926, oggi l’azienda è guidata da Angelo Valsangiacomo ed è specializzata nella produzione artigianale di salumi seguendo antiche ricette tramandatesi da tre generazioni. Tra i prodotti principali dell’azienda momò troviamo ovviamente anche le luganighe. Ma come si producono delle luganighe di prima qualità? «Per avere un prodotto eccellente – ci spiega Angelo Valsangiacomo – è necessario partire dalle migliori carni di suini nati e allevati in Ticino, accuratamente selezionati già a partire dall’allevamento, il quale deve essere gestito nelle migliori condizioni per gli animali, in modo da non avere maiali stressati». Subito dopo la macellazione, le mezzene fresche vengono consegnate al salumificio dove sono immediatamente lavorate da macellai specializzati. «Dopo il sezionamento e la selezione di diversi tagli, la carne viene macinata e miscelata ad altri ingredienti di altissima qualità, nella fattispecie lardo, spezie e buon vino rosso. L’impasto così ottenuto viene lasciato riposare per qualche tempo nella cella frigorifera affinché possa maturare al meglio. Infine si passa all’insaccatura, in budello naturale, e alla successiva legatura manuale. Dopo l’asciugatura, il prodotto viene confezionato ed è pronto per essere fornito alla Migros».

Le «sue» luganighe Angelo Valsangiacomo le gusta preferibilmente bollite, con il risotto, le patate in umido oppure, soprattutto in estate, grigliate brevemente. Per la preparazione classica raccomanda di cuocerle per una mezzoretta in acqua calda – ma non bollente – evitando di bucarle. Infine segnaliamo che la Salumi del Pin di Mendrisio, oltre alle luganighe, produce per Migros Ticino anche il Cotechino, il Salame e i Salametti al Merlot, la Mortadella e la Luganighetta, tutti quanti a base di carne di suino nostrano.

Luganighe Nostrane 100 g Fr. 2.–


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Idee e acquisti per la settimana

Un tubero meraviglioso

Attualità Le Amandine hanno tutto quel che serve per conquistare i palati I buongustai le apprezzano per il loro delicato aroma mandorlato, la consistenza soda che permane anche dopo cottura e la versatilità culinaria. Le patate Amandine sono un prodotto eccelso originario della Bretagna; ma dalla fine degli anni Novanta sono coltivate con grande successo anche in Svizzera e commercializzate da Migros. Lessate con la buccia sono perfette con una fondente raclette oppure con della panna acidula alle erbette, in insalata accompagnano ottimamente ogni grigliata, mentre arrostite al forno sono il contorno imprescindibile di succulente specialità a base di carne e pesce. Questi tuberi resistenti alla cottura hanno una buccia chiara talmente sottile e priva di imperfezioni che sbucciarle è praticamente superfluo. Grazie all’alto contenuto di potassio, ferro e magnesio, nonché di altre importanti sostanze nutritive, sono particolarmente indicate per sportivi, anziani e bambini. Le Amandine sono coltivate principalmente nella Svizzera Occidentale. La raccolta avviene verso la fine agosto e sono disponibili in negozio dall’autunno fino a primavera inoltrata.

Le Amandine si gustano con la buccia

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Patate piccanti al forno Per 4 porzioni Ingredienti 1 kg di patate Amandine 2 cucchiai d’olio d’oliva 1 peperoncino 80 g di pomodori secchi 1 cucchiaino di pepe nero macinato grosso o pepe di Sichuan 1 mazzetto di prezzemolo fleur de sel Preparazione 1. Scaldate il forno a 180 °C. Lavate accuratamente le patate. Tagliatele a metà senza sbucciarle. Accomodatele in una pirofila e irroratele d’olio. Date una precottura al centro del forno per 20 minuti.

2. Nel frattempo, a piacere, eliminate i semi del peperoncino. Tritatelo finemente insieme con i pomodori. Dopo 20 minuti di cottura, distribuite il trito e il pepe sulle patate. Terminate la cottura per altri 10 minuti circa. Tritate il prezzemolo e spargetelo sulle patate a fine cottura. Condite con il sale.

Ricetta di

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Risotto da chef

Attualità Chi desidera sorprendere i propri ospiti con un piatto

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Come cucinare un risotto allo zafferano con porcini ben saporito e mantecato al punto giusto? Semplice, basta scegliere bene gli ingredienti in base alla loro comprovata qualità. Come per esempio quelli di alcuni noti marchi italiani, disponibili sugli scaffali dei maggiori supermercati Migros. L’ingrediente principe, il riso, arriva dalla Riso Scotti, la quale propone il Carnaroli Invecchiato 18 mesi. Il riso, coltivato esclusivamente nelle risaie della Lombardia, prima della lavorazione subi-

sce una stagionatura di almeno 18 mesi. Processo, quest’ultimo, che permette al prodotto di migliorare la capacità di assorbire aromi e condimenti in cottura e di preservare una consistenza croccante. L’altro ingrediente indispensabile da aggiungere a metà cottura è lo zafferano: lo zafferano 3 cuochi, marchio leader in Italia del settore, utilizza esclusivamente miscele dei migliori zafferani presenti sul mercato. Per produrre un solo kg di zafferano servono qualcosa come 150’000 fio-

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ri. Lo zafferanno non conferisce solamente il suo gusto caratteristico alle pietanze – non solo il risotto – ma aiuta anche la digestione. Infine, non possono certo mancare i funghi porcini, tanto apprezzati per il loro intenso profumo e l’aroma delicato. Vi suggeriamo di assaggiare i Funghi porcini secchi «extra» firmati Dama. Questa piccola azienda senese seleziona solo i migliori boleti essiccandoli ancora con antichi metodi tradizionali.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 febbraio 2017 • N. 07

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Idee e acquisti per la settimana

Evviva il carnevale!

Attualità I festeggiamenti carnascialeschi

sono entrati nel vivo

CdT_Crinari

Sono molte le località della Svizzera italiana in cui impazza il carnevale. Coloro che non hanno ancora deciso come travestirsi per la festa più divertente dell’anno non devono preoccuparsi: nelle maggiori filiali di Migros Ticino troveranno un ampio assortimento di articoli di carnevale a prezzi particolarmente attrattivi. Dai costumi dei personaggi dei fumetti più famosi a quelli degli animali, passando per i protagonisti dei cartoni animati fino a quelli dei film di fantascienza; sia bambini, adolescenti che adulti potranno trovare ciò che fa al caso loro per prendere parte con stile alla festa mascherata preferita. Oltre ai travestimenti, ovviamente la gamma annovera ancora una miriade di accessori, come coriandoli, stelle filanti, trucchi, spray per capelli, maschere...

Alcuni esempi: Costume adulto messicano Fr. 45.– Costume bambino «Spiderman» 5-12 anni Fr. 59.– Costume bambino «Ninja» 4-12 anni Fr. 39.90 Costume bambina «Principessa» 4-12 anni Fr. 39.90 Costume bambino «Superman» 5-12 anni Fr. 49.– In vendita nelle maggiori filiali Migros.

Alcuni carnevali nella Svizzera Italiana Roveredo «Lingera»

Chiasso «Nebiopoli»

Prosito «Gosc»

Locarno «Stranociada»

dal 14 al 19.2

dal 16 al 18.2

Bironico «Scimas»

dal 16 al 19.2

Cugnasco «Sciavatt & Gatt»

dal 17 al 19.2

Bellinzona «Rabadan»

dal 23 al 28.2

dal 23 al 28.2 dal 24 al 25.2

Biasca «Re Naregna»

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Tesserete «Or Penagin»

dal 2 al 4.3

Osogna «Re Bordell»

dal 4 al 6.3

Flavia Leuenberger

San Valentino: tutto l’amore in un dolcetto

A volte non è necessario spendere troppo per regalarsi qualcosa di speciale in occasione della festa degli innamorati, che si celebra domani. Un piccolo gesto è sufficiente per dimostrare il proprio affetto alla persona a cui si vuol bene. Perché non farlo con una finissima creazione di pasticceria artigianale? Gli specialisti del laboratorio Migros hanno preparato alcune specialità a base di materie prime di

alta qualità, cuoriformi e con grande effetto decorativo garantito. Il cremoso Cuore al kirsch seduce il palato grazie al fondo di morbidissimo pan di spagna guarnito con crema al burro, croccanti mandorle e dall’inconfondibile e delicato aroma di liquore di ciliegie. Lo squisito fondo di friabile pasta sfoglia decorato con frutta fresca mista o fragole rendono il Cuore alla sfoglia perfetto per soddisfare tutte le voglie

di golosità. Quest’ultimo esiste anche nella variante a base di pan di spagna e crema alla vaniglia: un autentico tripudio di fruttati sapori. Infine, grandi classici della gamma sono ancora i Cuori Foresta Nera e Saint Honoré, nonché le mini mousse in cinque diversi gusti. Tutti i prodotti sono in vendita solo il 14 febbraio presso i banchi pasticceria Migros.


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di riduzione l’uno Tutte le crostate Anna’s Best a partire da 2 pezzi, –.50 di riduzione l’uno, per es. crostata di albicocche, 215 g, 2.60 invece di 3.10

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1.30 invece di 2.20 Carote Svizzera, busta da 1 kg

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Patate resistenti alla cottura Svizzera, busta da 2,5 kg

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! o i m r a p is r iù p r o c n A conf. da 2

25% Pizza Anna’s Best in conf. da 2 Margherita e ai funghi, per es. Margherita, 2 x 410 g, 9.40 invece di 12.60

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Tutti i succhi freschi bio per es. succo d’arancia, 750 ml, 2.70 invece di 3.40

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di riduzione Tutti i tipi di pane fresco bio per es. corona del sole, 360 g, 2.40 invece di 2.90

33% Agnolotti e fiori bio in conf. da 3 per es. agnolotti all’arrabbiata, 3 x 250 g, 9.80 invece di 14.70

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Tutti i prodotti in tubetto e la senape e la maionese in vasetto Thomy a partire da 2 confezioni, 20% di riduzione

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20% Tutti gli yogurt bio (yogurt di latte di pecora esclusi), per es. al naturale, 500 g, –.95 invece di 1.20

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Tutte le zuppe istantanee e in bustina Bon Chef a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione

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50% Tutti i tipi di 7up e 7up H2Oh! in conf. da 6, 6 x 1,5 l o 6 x 1 l per es. 7up Regular, 6 x 1,5 l, 5.85 invece di 11.70

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6.05 invece di 12.10 Cornetti al prosciutto Happy Hour in conf. speciale surgelati, 24 x 42 g

33% Tutte le acque minerali Vittel in confezioni multiple per es. con chiusura sportiva, 6 x 75 cl, 3.80 invece di 5.70

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Tavolette di cioccolato, palline e Friletti Frey Suprême, UTZ a partire da 2 confezioni, 20% di riduzione, offerta valida fino al 27.2.2017

20% Tutti i sottaceti e gli antipasti Condy per es. pannocchiette di granoturco, 190 g, 2.05 invece di 2.60

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di riduzione Tutti i biscotti in rotoli (Alnatura esclusi), per es. biscotti di spelta con uvetta, bio, 260 g, 3.45 invece di 3.95

50% Tutto l’assortimento di tessili per la cucina e la tavola Cucina & Tavola per es. guanto da forno, rosso, il pezzo, 6.40 invece di 12.80, offerta valida fino al 27.2.2017

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30% Carta igienica Hakle in conf. speciale per es. Verwöhnende Sauberkeit, 24 rotoli, 17.50 invece di 25.05, offerta valida fino al 27.2.2017


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Altre offerte. Pesce, carne e pollame

conf. da 3

40% Tutto l’assortimento di calzetteria da uomo e da donna per es. collant Vitale Ellen Amber, color ostrica, tg. M, il pezzo, 7.20 invece di 12.–

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Carpaccio di polipo, prodotto in Ticino, in confezione take away, per 100 g, 4.70 invece di 5.90 20% disponibile nelle maggiori filiali Pizzoccheri, prodotti in Ticino, in confezione take away, per 100 g, 1.10 invece di 2.20 50%

Pane e latticini

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Biancheria intima da uomo John Adams disponibile in diversi colori e misure, per es. boxer aderenti in conf. da 3, blu marino, tg. M, offerta valida fino al 27.2.2017

Torte Foresta Nera, per es. torta Foresta Nera, 440 g, 7.65 invece di 9.60 20% Pasta per pizza Anna’s Best rettangolare, 40 x 25 cm, 580 g, 1.95 invece di 3.90 50% Brezel alle mandorle, 110 g, 2.05 invece di 2.60 20% Panino Wellness bio, 90 g, –.95 invece di 1.20 20%

Altri alimenti

50%

23.10 invece di 46.30 Detersivi Elan in conf. speciale Color Powder e Active Powder, 7,5 kg, per es. Color Powder, offerta valida fino al 27.2.201

3 per 2

Tutti gli aceti e gli oli bio (Alnatura esclusi), per es. aceto di mele, 50 cl, 1.75 invece di 2.20 20% Boleti secchi, porcini secchi ed extra secchi, in sacchetti, 20 g e 50 g, per es. porcini secchi, 2.95 invece di 3.70 20%

Tutti i pannolini Pampers (confezioni speciali escluse), offerta valida per 3 prodotti con lo stesso prezzo, per es. Baby Dry 4, 3 x 44 pezzi, 33.60 invece di 50.40, offerta valida fino al 27.2.2017

Riso Carnaroli invecchiato Riso Scotti, 850 g, 4.55 invece di 6.50 30% Tutti i tè e le tisane bio, Klostergarten bio, Swiss Alpine Herbs bio e Yogi bio, a partire da 2 confezioni 20% Barrette di cioccolato Frey in conf. da 18, UTZ, per es. al latte finissimo, 18 x 35 g, 10.– invece di 14.40 30% Sofficini al formaggio e agli spinaci M-Classic in conf. da 2, surgelati, per es. sofficini al formaggio, 2 x 10 pezzi, 1200 g, 8.95 invece di 12.80 30% Succo d’arancia Fairtrade M-Classic e succo di mela M-Classic in conf. da 8, 8 x 25 cl, per es. succo d’arancia Fairtrade, 2.70 invece di 3.60 25% Tutti i sottaceti bio (Alnatura esclusi), per es. cetrioli alle erbe aromatiche, 270 g, 1.80 invece di 2.30 20% Tutti i prodotti surgelati bio, per es. purea di castagne, 250 g, 2.05 invece di 2.60 20% Punte di asparagi in barattolo di vetro M-Classic in conf. da 4, bianchi e verdi, per es. verdi, 4 x 100 g, 6.– invece di 7.60 20% Tutti i tipi di riso bio da 1 kg (Alnatura esclusi), per es. Mister Rice Jasmin, 3.– invece di 3.80 20% Tutte le bevande bio (Alnatura escluse), per es. mirtilli rossi Plus, 500 ml, 3.80 invece di 4.80 20% Crema alla vaniglia e al cioccolato Stalden in conf. da 2, per es. alla vaniglia, 2 x 470 g, 7.60 invece di 9.60 20% Tutti i tipi di confetture e di miele bio, per es. confettura ai mirtilli extra, 350 g, 2.70 invece di 3.40 20% Tutti i tipi di senape, maionese e ketchup bio (Alnatura esclusi), per es. maionese, 265 g, 1.75 invece di 2.20 20%

Tutte le olive bio (Alnatura escluse), per es. olive greche Kalamata, 150 g, 2.15 invece di 2.70 20% Burro per arrostire bio e olio di cocco spremuto a freddo bio Fairtrade, per es. olio di cocco spremuto a freddo Fairtrade, 200 g, 5.50 invece di 6.90 20% Tutti i cereali in chicchi, i legumi, la quinoa e il couscous bio, per es. quinoa bianca Fairtrade, aha!, 400 g, 3.95 invece di 4.95 20% Ripieno per vol-au-vent M-Classic in conf. da 3, Forestière o con funghi prataioli e carne, per es. con funghi prataioli e carne, 3 x 500 g, 9.70 invece di 12.15 20% Salse per insalata A Tavola, bio, French, French alle erbe aromatiche e Italian, per es. French, 450 ml, 2.80 invece di 3.50 20% Tutti i dolciumi bio (Alnatura esclusi), per es. bastoncini di cioccolato al latte, Fairtrade, 115 g, 2.80 invece di 3.50 20% Tutte le spezie bio (Alnatura escluse), per es. erbette per insalata, 58 g, 1.80 invece di 2.25 20%

Near Food/Non Food

Maisto RC Rock Crawler 3XL, 59.– Hit ** Tutto l’assortimento Keep Warm da uomo e da donna, per es. collant da donna, neri, tg. S, 17.80 20x Punti Salviettine umide per bebè Pampers in conf. da 9, Fresh Clean e Sensitive, per es. Fresh Clean, 9 x 64 pezzi, 23.70 invece di 39.60 40% ** Ricarica Sangenic Universal, 52.80 invece di 79.20 6 per 4 ** Tutti i rasoi Gillette e Gillette Venus (esclusi lame di ricambio, rasoi usa e getta e confezioni multiple), per es. Mach 3 Turbo, il pezzo, 8.25 invece di 11.80 30% ** Tutta la biancheria per bebè confezionata, disponibile in diversi colori e misure, per es. body per bebè a maniche lunghe Smile in conf. da 3, Bio Cotton, giallo chiaro, tg. 62–68, 10.50 invece di 15.– 30% ** Tutti i mascara e gli eyeliner Maybelline, a partire da 2 pezzi, 4.– di riduzione l’uno, per es. mascara Push up Drama Black, 9,5 ml, 11.90 ** Tutto l’assortimento Sheba, per es. Fresh and Fine al pollame, 12 x 50 g, 7.– invece di 8.75 20%

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Padelle Color Party Cucina & Tavola, Ø 28 cm, disponibili in diversi colori, per es. verde, il pezzo, 19.80 Hit ** Guanto da forno e presina Cucina & Tavola in set da 2, disponibili in verde, rosso e blu scuro, per es. verde, 6.90 Hit ** Mattoncini colorati, 120 pezzi, 24.80 Hit ** Scatola di mattoncini Lego Classic o Duplo, per es. scatola di mattoncini creativi Lego Classic, 39.80 Hit **

Mini Cubes Snickers e Twix, per es. Mini Cubes Snickers, 266 g, 3.95 Novità ** Crunchy Clouds Maispops Frey, UTZ, 150 g, 5.90 Novità **

*In vendita nelle maggiori filiali Migros. **Offerta valida fino al 27.2 Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 14.2 AL 20.2.2017, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

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Cuscino regginuca Inaki 30 x 50 x 10 cm, il pezzo, offerta valida fino al 27.2.2017

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Pausa lunga o corta? Menù del ristorante a soli

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Tutto il latte di proseguimento Aptamil e il latte Aptamil Junior a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione, offerta valida fino al 27.2.2017 Offerte valide dal 13.2 al 18.2.2017

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Combo De Gustibus a soli

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Near Food/Non Food

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Pausa lunga o corta? Menù del ristorante a soli

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Orata in crosta di sale con salsa al limone Tappe di preparazione Scaldate il forno ad aria calda a 180 °C. Sciacquate i pesci sotto l’acqua fredda e asciugateli. Tritate le erbe. Tagliate il lemongrass ad anelli sottili. Mescolate entrambi e sistemateli nelle cavità ventrali dei pesci. Tagliate la metà dei limoni a fette. Mescolate bene il sale con gli albumi e versatelo in una teglia formando uno strato alto ca. 1 cm, della grandezza dei pesci. Accomodate le orate sul sale. Distribuite le fette di limone sui pesci e ricoprite il tutto di sale. I pesci devono essere sigillati in una crosta di sale. Cuocete al centro del forno per ca. 25 minuti. Per la salsa, grattugiate la scorza del limone rimasto e spremete il succo. Tritate lo scalogno e fatelo appassire nel burro. Aggiungete la farina e mescolate bene. Incorporate la scorza e il succo di limone, la panna, il brodo e la crème fraîche. Fate sobbollire la salsa per alcuni minuti a fuoco basso. Regolate di sale, pepe e curcuma. Rompete la crosta di sale. Liberate i pesci dal sale e serviteli con la salsa. Accompagnate con pasta alle verdure.

Tempo di preparazione

Ingredienti per 4 porzioni

Preparazione ca. 20 minuti + cottura in forno ca. 25 minuti

4

orate intere di ca. 300 g

2 mazzetti

d’erbe fresche, ad es. aneto,

Valori nutritivi

prezzemolo 80 g

di lemongrass

2

limoni

4 kg

di sale marino

1,5 dl

d’albumi

1

scalogno

1 cucchiaio

di burro

Consiglio per questa ricetta:

1 cucchiaino

di farina

1,5 dl

di panna

si accompagna molto bene con la pasta alle verdure.

1 dl

di brodo di verdura

2 cucchiai

di crème fraîche

Per porzione ca. Calorie Proteine Grassi Carboidrati

360 kcal 23 g 24 g 11 g

sale pepe curcuma

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