Azione 51 del 18 dicembre 2017

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Che cos’è l’intuizione? Un pizzico di esperienza, un po’ di conoscenza e forse un briciolo di magia

Ambiente e Benessere Allan Bay, il nostro gastronomo di fiducia ci racconta la sua tavola per le Feste

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXX 18 dicembre 2017

Azione 51 Politica e Economia Catalogna: prosecuzione della sfida indipendentista o ritorno alla normalità costituzionale?

Cultura e Spettacoli Natale, ma quanto sai essere crudele? Alcune riflessioni con Ungaretti, Kantor, Bergman

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I. Quadri

Affreschi antichi del Ticino

L’editore e la redazione di Azione augurano

Buon Natale

alle lettrici e ai lettori, alle socie e ai soci della Cooperativa Migros Ticino


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Speciale Natale

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Speciale Natale

«Ho accompagnato Babbo Natale» È Natale in Val di Blenio

e am rid ul cör

Racconto di Natale Le Feste viste in modo insolito... dalla redazione di un giornale

Feste Testimonianze e ricordi di come si festeggiava una volta l’arrivo del Bambìn

L’avevo promesso. A volte si fanno promesse con leggerezza, con l’impulso del momento, salvo poi ripensarci, immediatamente. Non hai ancora finito di dirlo e già te ne sei pentito. E invece l’hai detto. E il cenno con la testa del caporedattore vale come il gong alla fine dell’incontro di pugilato. Adesso sono qui, a girare il cucchiaino nella tazza del caffè e a capire come togliermi dall’impiccio. Perché se devo dire la verità a me del Natale non è che me ne sia mai fregato molto. Se ci penso sono uno di quelli che non ha mai sopportato bene quei tre giorni di prigionia «Vigilia-Natale-Santo Stefano», quasi un po’ arresti domiciliari, blindati dai rituali delle feste. Finché eravamo piccoli, ancora ancora. Capitava spesso che nevicasse (in realtà non so se è vero o se è un ricordo costruito) e quindi spesso avevamo il pretesto per uscire di casa con le slitte, per stare fuori con cugini e amici, mentre a casa i grandi si bombavano di cibo.

Una proposta un po’ avventata apre la strada a un incontro natalizio del tutto inatteso Di Babbo Natale poi ne facevo volentieri a meno. Anzi, per essere sincero mi ha sempre fatto un po’ paura. Adesso c’è la mania dei clown spaventosi... se fosse per me come protagonista di It ci avrei messo un Babbo Natale. E poi non è nemmeno vero. Mi ispira solo soggezione. C’è quella vecchia foto in cui io e i miei cugini ci mettiamo in posa davanti a un Babbo Natale nella hall del centro commerciale. Io sono quello che ha la faccia di quando ti stanno facendo la vaccinazione nel braccio. Fastidio-sofferenza-necessità. Eppure adesso sono qui a cercare di capire come posso mantenere la promessa. Mi è venuta per disperazione, l’idea dell’intervista a Babbo Natale. Sotto le feste non si sa mai come fare per riempire le pagine. La redazione è sguarnita, tutti ne approfittano per recuperare gli straordinari. Chi rimane deve correre per tutti, ma anche farsi venire delle idee perché, maledizione, il Natale è proprio il momento in cui la gente legge di più i giornali. È a casa tranquilla, si mette in poltrona davanti al caminetto (... al quarto piano di un condominio in un quartiere del centro, sarà difficile...) beh, comunque, ha più tempo per leggere e, accidenti, legge. Ora comunque devo darmi una mossa. Prima cosa, uscire dal bar e dare un’occhiata in giro. Ah, guarda, c’è il mercatino di Natale. Le bancarelle. Faccio un giro per il centro città ma non è che sia molto convinto. La soluzione più semplice sarebbe quella di beccare qualcuno vestito da Babbo Natale e fargli un paio di domande. Due o tre banalità del tipo «Cos’è il Natale per lei?» o «Fa caldo dentro quel costume?» e poi la mettiamo via con qualche dettaglio d’ambiente, un accenno alle luci della città e ai sorrisi dei bambini felici. Dentro al costume di Babbo Natale succedono cose strane. Forse per quello mi è venuta la curiosità. Visti in borghese, i Babbi Natali che ho conosciuto erano sempre personaggi strani. Come il Luigi: faceva lo spazzino comunale e a Natale era sempre pronto alla sua corvée. Le tappe obbligate: asilo, scuole elementari, casa per anziani, festa di

Natale della Bocciofila. Un anno era riuscito persino ad arrivare con un asinello, preso chissà dove. Ma di solito riusciva semplicemente a trasformare il carrello da netturbino, togliendo i secchi e ricoprendolo di carta colorata. Lui era uno di poche parole, ma mentre girava per il paese, dietro la barba finta, gli si intravvedeva un sorriso sornione, quasi stesse interpretando il ruolo di tutta la vita. La mano guantata di bianco si muoveva con una grazia vescovile, accarezzava i bambini, si poggiava sulle spalle degli anziani, suscitava benevolenza e affetto. Difficile immaginare che quella stessa mano nei giorni normali pilotasse la ramazza di saggina, svuotasse i cestini dell’immondizia. Tutti sapevamo del travestimento, ma anche per noi era sempre una sorpresa vedere come Luigi in quei panni rossi si trasformasse. Gli volevamo quasi bene, dimenticando l’odio e le parole che gli lanciavamo contro tutte le volte che ci requisiva il pallone perché lo facevamo finire sulla terrazza del Municipio. Oppure Giancarlo, che era un maestro di quelli estrosi e compagnoni, e che a Natale metteva tutto il suo spirito teatrale e trasgressivo dentro al costume rosso. Lui veniva chiamato dagli istituti della zona, quelli dove c’erano i ragazzi andicappati, dai foyer. Forse la sua preparazione educativa faceva pensare che fosse più adatto a quei ruoli, ma in realtà era esattamente il contrario. Era un Babbo Natale di quelli imprevedibili, capace di baciare sulla bocca le suore degli istituti, di sedersi per terra in mezzo alla palestra, di tracannare grandi bicchieri di vin brulé, squassando l’aria con i suoi «Buon Natale!» roboanti. Il suo sogno era arrivare un giorno calandosi da un elicottero, oppure lanciarsi con il paracadute, lui, il sacco, il vestito rosso e i regali. Era tanto simpatico che gli si perdonava facilmente la vena goliardica e, soprattutto, i ragazzi erano veramente contenti. A me un Babbo Natale di quel tipo, devo dire la verità, non dispiaceva. Mentre penso come sarebbe semplice buttar giù un pezzo su questi due Babbi che ho conosciuto mi rendo conto che, comunque, 10’000 battute da scrivere non sono uno scherzo. E oltretutto, qui in questo mercatino, di dettagli d’ambiente, bambini felici eccetera, non è che se ne vedano tanti. Fa un freddo tremendo, aria umida, è quasi ora di cena. Più che altro gente col passo svelto e senza troppo tempo da perdere. Arrivo fino in fondo alla strada, fino all’ultima bancarella. Per combinazione, nemmeno a farlo apposta, c’è un Babbo Natale che sta cominciando il suo giro. Arrivo mentre sta infilando i guanti. Non è molto alto ma ben imbottito, bello cicciotto: sul viso una barba e una capigliatura molto fitte impediscono di vedere il suo vero viso: ha gli occhi brillanti, però. Ridenti, direi. Bene, è l’occasione buona. Lo abbordo e gli spiego la situazione: sono un giornalista e vorrei realizzare un’intervista a Babbo Natale. Posso? Mi guarda con gli occhi che ridono ancora di più e fa cenno di no con la testa. Esagera un po’ nei movimenti, fa finta di essere un vecchio, si capisce, ma il no è inequivocabile. Ecco, sono fregato. Posso almeno accompagnarla nel giro, chiedo, raccogliendo un’intuizione disperata? Ha dietro di sé un carrettino di legno di quelli di una volta, pieni di sacchetti incellofanati con spagnolette, cioccolatini e mandarini. Ci pensa un momento e mi indica con la mano il timone del carretto. Preso dalla disperazione capisco al volo: eccomi trasformato in aiutante

Sara Rossi Guidicelli

Illustrazione di Lucia Pigliapochi

Alessandro Zanoli

di Babbo Natale. Forse un articolo salta fuori lo stesso. «Ho accompagnato Babbo Natale» suona abbastanza bene, quasi quanto «Intervista a Babbo Natale», in fondo. Mi accodo all’uomo rosso e insieme ripercorriamo la via del mercatino. E qui occorre dire che subito succede qualcosa di inatteso. I bambini ci sono, eccome. Sembrano materializzarsi di tra le bancarelle, vengono fuori dai vicoli e si assembrano di fronte e intorno al mio Babbo Natale. Lui si volta verso di me mi fa cenno di iniziare a regalare i pacchetti, mentre distribuisce carezze e sorrisi ai piccoli, con una dolcezza e una gentilezza signorile ma affettuosa. Io mi trovo immediatamente assediato dai piccoli vocianti. I genitori intorno sorridono e scattano fotografie con lo smartphone. Cerco di difendere i pacchetti, che rischiano il saccheggio immediato, e nello stesso tempo sono preoccupato. Le foto finiranno subito su qualche social e tra poco sarò finito: qualcuno mi riconoscerà e comincerà la serie delle prese in giro. Ma non ho tempo per pensarci, perché Babbo Natale si rimette in cammino. Dovrei seguirlo con il carretto: è una parola, con tutti i bambini intorno che non si spostano, intralciano. Insomma si crea questa curiosa scenetta di un Babbo Natale cicciotto e simpatico che si avvia tra le bancarelle, seguito da un impacciato aiutante che

difende come può un carretto pieno di doni assediato da un’orda di bambini urlanti. In fondo mi sto divertendo, non è il caso di brontolare. Per una volta mi sento davvero coinvolto nello spirito natalizio e i bambini contribuiscono a darmi mille spunti di divertimento e di allegria. Babbo Natale mi volta le spalle e prosegue. Non parla, non dice niente a nessuno ma sprizza bonarietà e simpatia. La gente, anche gli adulti e gli anziani, si fermano a stringergli la mano, anche i proprietari delle bancarelle vengono in mezzo alla strada per salutarlo. E così la nostra sfilata in mezz’ora attraversa il centro storico della città fino all’altro capo della via principale. Le bancarelle finiscono, anche le luci di Natale sono meno invadenti. I bambini poi sono rimasti indietro: così come si sono materializzati ora spariscono. Rimaniamo io e Babbo Natale, quasi soli, in una strada del centro città, con un carretto vuoto e altre persone che ci passano vicino frettolosamente, ignorandoci. Beh, è stata comunque una bella esperienza. Faccio un segno con la mano a Babbo: il carretto è vuoto. Mi accorgo che mi comporto con lui come fosse sordomuto. Non avendo sentito la sua voce mi viene da fare così. Ma Babbo adesso si guarda in giro e mi fa segno col dito: vieni qui... seguimi... Mi conduce in un vicolo scuro lì vicino,

si volta verso di me, mette una mano dietro al suo grande cappello, fruga tra i lunghi capelli bianchi e si toglie la maschera. Sul collo del vestito rosso ora spicca il viso di una bella ragazza con i capelli lisci e lunghi, e con un sorriso molto molto divertito. Rimango esterrefatto: Ma... «Erano anni che desideravo fare una cosa del genere» dice. «Quest’anno ho preparato la scena con cura. Grazie per avermi aiutato. Non avevo considerato che mi servisse un aiutante. È una bella sensazione stare dentro quel vestito. Sembra di vedere il mondo da un prospettiva diversa. Più ottimista, più allegra, ma anche più seria e in qualche modo sacra. È come farsi attraversare da uno spirito di benevolenza che si diffonde sul mondo e specialmente sui bambini, che sono la speranza del mondo. Sono sempre stata curiosa: “cosa si prova a fare il Babbo Natale?”. Quest’anno ho provato. Sono davvero contenta. Va bene come intervista?» La ragazza mi porge la mano, ancora guantata di bianco, si avvia per il vicolo e sparisce dopo un attimo. Io rimango lì, a sentire l’eco delle ruote del suo carretto smorzarsi nel silenzio. Ho incontrato lo spirito del Natale, forse per la prima volta nella mia vita. Ma non è come me l’aspettavo. Mi ha persino rilasciato un’intervista. Adesso come faccio a scriverla?

In Valle di Blenio, e sicuramente anche in altre parti del Ticino e del mondo cristiano, per Natale le campane avevano una parte speciale nella festa. Sonaa d’alegria, si diceva: i giovanotti del paese salivano in cima al campanile e suonavano tutte le campane a distesa e una invece martellata, cioè colpendo direttamente il battacchio con gioia sui bordi della campana. «Per simile concerto che si udiva la sera durante la novena di Natale», racconta Ignazio Pally, sacerdote di Corzoneso nato nel 1940, collaboratore della «Rivista di folclore svizzero», «si seguivano i ritmi tramandati da generazioni di campanari; si usavano i termini dialettali interzà, starlà e ancora a zupéta o a ciòca e martill. Ho conosciuto a Semione e a Ponto Valentino contadini che erano sui monti con le bestie in dicembre e che la sera si radunavano sui promontori per cantare il Regem venturum dominum e ascoltare con nostalgia il suono della novena». Tutte le persone anziane della Valle a cui ho chiesto del Natale degli anni Trenta e Quaranta mi raccontano così: era bella la novena perché c’era un rintocco in più ogni sera, il primo giorno un battito, il secondo due, fino ai nove della sera di Natale. Era bello il Natale perché si cantava, perché c’era il presepe in chiesa, perché gli emigranti tornavano in quel periodo e dunque quella era epoca di matrimoni, perché i bambini aspettavano il Bambìn che portava qualche spagnoletta o magari un paio di mutande calde ed era vero, perché si scopriva molto tardi che era la mamma a riempire la calza. Virginia, nata a Ponto Valentino nel 1934, ricorda: «Ah, il Natale della nostra infanzia era bello! Aspettavamo ul Bambìn. Tutte le sere di novena suonavano d’allegria. Erano i ragazzi d’una volta, non i giovanissimi, ma i giovanotti, che suonavano. Era come alla festa della Madonna in luglio, anche lì si suonava d’allegria. Infatti erano queste due le feste più importanti, le uniche in cui si comprava la carne. Noi a casa facevamo la nostra mazza, quindi di mortadelle e salami ne avevamo tutto l’anno, ma carne comprata, il lesso o l’arrosto, solo a Natale e alla Madonna. Dopo la guerra è cambiato tutto, perché ormai si poteva avere carne tutte le settimane...». Poi la tradizione delle campane si è interrotta, dice Virginia, negli anni Settanta: il parroco di allora disse che gli davano fastidio; i giovani ci rimasero male ma nessuno osò contraddirlo. Piano piano in tutti i paesi l’abitudine festosa andò scemando.

Benedizione delle campane nella chiesa di Leontica. (Fondazione Archivio Fotografico Roberto Donetta)

giorno stesso della Vigilia, scrive il direttore del Centro di Dialettologia e di Etnografia, nelle terre di rito ambrosiano il parroco provvedeva alla benedizione delle case. Arrivava molto presto: a Ghirone si presentava addirittura alle tre del mattino, prima che gli uomini partissero per andare a governare le bestie che in quell’epoca dell’anno stavano sui monti di mezzo. Al parroco, in cambio, si facevano doni in cibo o in

denaro. A Olivone si ha testimonianza di «formaggelle squisite, cubetti di burro fresco, qualche filza di luganighe, mezza o intera dozzina di uova, vasi di miele, tavolette di cioccolata, qualche bottiglia di vino a seconda della disponibilità della famiglia». Ma capitavano invece le annate molto magre, scrive Ignazio Pally in Segni e presenze del sacro in Valle di Blenio, pubblicazione del Museo Et-

Per Natale in Valle risuonava l’allegria: i giovani uomini salivano in cima al campanile e suonavano tutte le campane a distesa e una «a martellata» Per Natale c’era anche un’altra tradizione, quella del parroco che andava a benedire le case. Durante il mese dicembre, iniziava dunque un grande affaccendarsi per pulire bene la propria casa, l’uscio, il salotto, la cucina; era persino l’occasione per cambiare la carta di rivestimento della credenza, come testimonia una signora nel bel libro sul Natale del 2016 di Franco Lurà. La settimana precedente il Natale o nel

Natale a casa della famiglia Pezzati. (Fondazione Archivio Fotografico Roberto Donetta)

nografico vallerano; per esempio, una volta a Prugiasco, si tramanda che il sagrestano, finita la benedizione delle case, rientrò in parrocchia con una sola mortadella nel cesto. «In illo tempore, la tavola di certe famiglie era spoglia come l’altare del Venerdì santo...» commenta Pally. A Malvaglia, all’epoca, non c’era nessuna decorazione, rammenta Mirina, nata nel 1932. Ora lei tiene una ventina di pupazzi di San Nicolao davanti a casa sua, luccicante e bella più di un abete natalizio. Sua figlia è l’organizzatrice del Mercatino di Natale del paese: entrambe hanno una vera e propria passione per le Feste di dicembre. «Noi eravamo cinque figli», racconta Mirina. «La notte di Natale, a mezzanotte, facevamo i Cruciatìn da Malvaia, un piccolo coro composto dai bambini del paese. A noi bambine mettevano la camicetta bianca, la cravattina e la gonna nera; non so neanche dove mia madre avesse trovato quei bei vestiti. Erano le suore Ursula e Caterina, insieme a Don Aurelio, che avevano organizzato il coro dei Cruciatìn da Malvaia. Dopo la messa si andava da un cugino a mangiare il panettone con i parenti. Era una festa: dolci durante l’anno non ne vedevamo praticamente mai. Anche lì, ricominciavamo a cantare e ridevamo moltissimo. Poi il giorno dopo, il 25 dicembre, si stava a casa e la mamma preparava il pollo con le patate fritte: un’euforia per noi bambini». Ognuno per il banchetto aveva le proprie abitudini. C’erano le famiglie con gli emigranti e allora sul tavolo compariva il pudding, o qualche altro piatto di tradizione inglese, belga o francese. Virginia, con la sua famiglia, mangiava i brasc, le castagne arrosto, con la mascarpa, prima della messa della Vigilia. «Noi a casa eravamo dieci, otto figli. Per quello noi da piccoli mettevamo una scatola fuori sul davanzale prima di andare a Messa: una calza per dieci non bastava! Aspettavamo con

trepidazione che ul Bambìn mettesse dentro qualcosa. Non sapevamo che era nostra mamma che vi infilava dentro le spagnolette, i mandarini, le calze o le mutande di cui avevamo bisogno. Avevamo uno zio a la Chaux-de-Fond che ci mandava spagnolette che arrostiva lui e i cinque franchi d’oro, quelli di cioccolato. La mattina del 25 dicembre andavamo ancora a messa, e lì c’erano tutti quelli che erano scesi dai Monti. A volte, da più grandina, è capitato anche a me di essere ancora su ai Monti con le mucche il giorno di Natale; allora o scendevo oppure una volta sono andata su un promontorio dal quale si vede Ponto e ho ascoltato le campane: che bel ricordo! Un’altra volta, c’era la luna piena e sono scesa insieme a una donna del paese e poi dopo la messa è salito mio fratello, per risparmiare a me tutta quella strada di notte». Alcune famiglie benestanti iniziarono ad addobbare un albero di Natale, ma a inizio Novecento questa era considerata dai più una moda un po’ barbara, venuta da nord, dalla Germania; anche adesso c’è chi critica le «nuove tradizioni» come Babbo Natale o Halloween, anche se si tratta sempre di varianti di riti pagani quali la festa delle luci, la cacciata degli spiriti, il ramo propiziatorio da portare in casa prima dell’inizio del nuovo anno. Sono tutti elementi che il cristianesimo ha inglobato nella sua festa per celebrare la nascita di Gesù. A mettere tutti d’accordo, anche allora, erano i presepi, i canti, le campane. In alcune chiese, come quella di Ludiano, tutte le famiglie del paese aiutavano a portare il muschio. Ancora Don Ignazio Pally scrive che aveva sentito raccontare di una signora Bibiana di Ponto Valentino che quando sentiva le campane suonate a festa diceva in vernacolo pontese «am rid ul cör»... e questo è l’augurio bello: che nel giorno di Natale possano ridere tutti i cuori che battono sulla nostra Terra.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Speciale Natale

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Speciale Natale

«Ho accompagnato Babbo Natale» È Natale in Val di Blenio

e am rid ul cör

Racconto di Natale Le Feste viste in modo insolito... dalla redazione di un giornale

Feste Testimonianze e ricordi di come si festeggiava una volta l’arrivo del Bambìn

L’avevo promesso. A volte si fanno promesse con leggerezza, con l’impulso del momento, salvo poi ripensarci, immediatamente. Non hai ancora finito di dirlo e già te ne sei pentito. E invece l’hai detto. E il cenno con la testa del caporedattore vale come il gong alla fine dell’incontro di pugilato. Adesso sono qui, a girare il cucchiaino nella tazza del caffè e a capire come togliermi dall’impiccio. Perché se devo dire la verità a me del Natale non è che me ne sia mai fregato molto. Se ci penso sono uno di quelli che non ha mai sopportato bene quei tre giorni di prigionia «Vigilia-Natale-Santo Stefano», quasi un po’ arresti domiciliari, blindati dai rituali delle feste. Finché eravamo piccoli, ancora ancora. Capitava spesso che nevicasse (in realtà non so se è vero o se è un ricordo costruito) e quindi spesso avevamo il pretesto per uscire di casa con le slitte, per stare fuori con cugini e amici, mentre a casa i grandi si bombavano di cibo.

Una proposta un po’ avventata apre la strada a un incontro natalizio del tutto inatteso Di Babbo Natale poi ne facevo volentieri a meno. Anzi, per essere sincero mi ha sempre fatto un po’ paura. Adesso c’è la mania dei clown spaventosi... se fosse per me come protagonista di It ci avrei messo un Babbo Natale. E poi non è nemmeno vero. Mi ispira solo soggezione. C’è quella vecchia foto in cui io e i miei cugini ci mettiamo in posa davanti a un Babbo Natale nella hall del centro commerciale. Io sono quello che ha la faccia di quando ti stanno facendo la vaccinazione nel braccio. Fastidio-sofferenza-necessità. Eppure adesso sono qui a cercare di capire come posso mantenere la promessa. Mi è venuta per disperazione, l’idea dell’intervista a Babbo Natale. Sotto le feste non si sa mai come fare per riempire le pagine. La redazione è sguarnita, tutti ne approfittano per recuperare gli straordinari. Chi rimane deve correre per tutti, ma anche farsi venire delle idee perché, maledizione, il Natale è proprio il momento in cui la gente legge di più i giornali. È a casa tranquilla, si mette in poltrona davanti al caminetto (... al quarto piano di un condominio in un quartiere del centro, sarà difficile...) beh, comunque, ha più tempo per leggere e, accidenti, legge. Ora comunque devo darmi una mossa. Prima cosa, uscire dal bar e dare un’occhiata in giro. Ah, guarda, c’è il mercatino di Natale. Le bancarelle. Faccio un giro per il centro città ma non è che sia molto convinto. La soluzione più semplice sarebbe quella di beccare qualcuno vestito da Babbo Natale e fargli un paio di domande. Due o tre banalità del tipo «Cos’è il Natale per lei?» o «Fa caldo dentro quel costume?» e poi la mettiamo via con qualche dettaglio d’ambiente, un accenno alle luci della città e ai sorrisi dei bambini felici. Dentro al costume di Babbo Natale succedono cose strane. Forse per quello mi è venuta la curiosità. Visti in borghese, i Babbi Natali che ho conosciuto erano sempre personaggi strani. Come il Luigi: faceva lo spazzino comunale e a Natale era sempre pronto alla sua corvée. Le tappe obbligate: asilo, scuole elementari, casa per anziani, festa di

Natale della Bocciofila. Un anno era riuscito persino ad arrivare con un asinello, preso chissà dove. Ma di solito riusciva semplicemente a trasformare il carrello da netturbino, togliendo i secchi e ricoprendolo di carta colorata. Lui era uno di poche parole, ma mentre girava per il paese, dietro la barba finta, gli si intravvedeva un sorriso sornione, quasi stesse interpretando il ruolo di tutta la vita. La mano guantata di bianco si muoveva con una grazia vescovile, accarezzava i bambini, si poggiava sulle spalle degli anziani, suscitava benevolenza e affetto. Difficile immaginare che quella stessa mano nei giorni normali pilotasse la ramazza di saggina, svuotasse i cestini dell’immondizia. Tutti sapevamo del travestimento, ma anche per noi era sempre una sorpresa vedere come Luigi in quei panni rossi si trasformasse. Gli volevamo quasi bene, dimenticando l’odio e le parole che gli lanciavamo contro tutte le volte che ci requisiva il pallone perché lo facevamo finire sulla terrazza del Municipio. Oppure Giancarlo, che era un maestro di quelli estrosi e compagnoni, e che a Natale metteva tutto il suo spirito teatrale e trasgressivo dentro al costume rosso. Lui veniva chiamato dagli istituti della zona, quelli dove c’erano i ragazzi andicappati, dai foyer. Forse la sua preparazione educativa faceva pensare che fosse più adatto a quei ruoli, ma in realtà era esattamente il contrario. Era un Babbo Natale di quelli imprevedibili, capace di baciare sulla bocca le suore degli istituti, di sedersi per terra in mezzo alla palestra, di tracannare grandi bicchieri di vin brulé, squassando l’aria con i suoi «Buon Natale!» roboanti. Il suo sogno era arrivare un giorno calandosi da un elicottero, oppure lanciarsi con il paracadute, lui, il sacco, il vestito rosso e i regali. Era tanto simpatico che gli si perdonava facilmente la vena goliardica e, soprattutto, i ragazzi erano veramente contenti. A me un Babbo Natale di quel tipo, devo dire la verità, non dispiaceva. Mentre penso come sarebbe semplice buttar giù un pezzo su questi due Babbi che ho conosciuto mi rendo conto che, comunque, 10’000 battute da scrivere non sono uno scherzo. E oltretutto, qui in questo mercatino, di dettagli d’ambiente, bambini felici eccetera, non è che se ne vedano tanti. Fa un freddo tremendo, aria umida, è quasi ora di cena. Più che altro gente col passo svelto e senza troppo tempo da perdere. Arrivo fino in fondo alla strada, fino all’ultima bancarella. Per combinazione, nemmeno a farlo apposta, c’è un Babbo Natale che sta cominciando il suo giro. Arrivo mentre sta infilando i guanti. Non è molto alto ma ben imbottito, bello cicciotto: sul viso una barba e una capigliatura molto fitte impediscono di vedere il suo vero viso: ha gli occhi brillanti, però. Ridenti, direi. Bene, è l’occasione buona. Lo abbordo e gli spiego la situazione: sono un giornalista e vorrei realizzare un’intervista a Babbo Natale. Posso? Mi guarda con gli occhi che ridono ancora di più e fa cenno di no con la testa. Esagera un po’ nei movimenti, fa finta di essere un vecchio, si capisce, ma il no è inequivocabile. Ecco, sono fregato. Posso almeno accompagnarla nel giro, chiedo, raccogliendo un’intuizione disperata? Ha dietro di sé un carrettino di legno di quelli di una volta, pieni di sacchetti incellofanati con spagnolette, cioccolatini e mandarini. Ci pensa un momento e mi indica con la mano il timone del carretto. Preso dalla disperazione capisco al volo: eccomi trasformato in aiutante

Sara Rossi Guidicelli

Illustrazione di Lucia Pigliapochi

Alessandro Zanoli

di Babbo Natale. Forse un articolo salta fuori lo stesso. «Ho accompagnato Babbo Natale» suona abbastanza bene, quasi quanto «Intervista a Babbo Natale», in fondo. Mi accodo all’uomo rosso e insieme ripercorriamo la via del mercatino. E qui occorre dire che subito succede qualcosa di inatteso. I bambini ci sono, eccome. Sembrano materializzarsi di tra le bancarelle, vengono fuori dai vicoli e si assembrano di fronte e intorno al mio Babbo Natale. Lui si volta verso di me mi fa cenno di iniziare a regalare i pacchetti, mentre distribuisce carezze e sorrisi ai piccoli, con una dolcezza e una gentilezza signorile ma affettuosa. Io mi trovo immediatamente assediato dai piccoli vocianti. I genitori intorno sorridono e scattano fotografie con lo smartphone. Cerco di difendere i pacchetti, che rischiano il saccheggio immediato, e nello stesso tempo sono preoccupato. Le foto finiranno subito su qualche social e tra poco sarò finito: qualcuno mi riconoscerà e comincerà la serie delle prese in giro. Ma non ho tempo per pensarci, perché Babbo Natale si rimette in cammino. Dovrei seguirlo con il carretto: è una parola, con tutti i bambini intorno che non si spostano, intralciano. Insomma si crea questa curiosa scenetta di un Babbo Natale cicciotto e simpatico che si avvia tra le bancarelle, seguito da un impacciato aiutante che

difende come può un carretto pieno di doni assediato da un’orda di bambini urlanti. In fondo mi sto divertendo, non è il caso di brontolare. Per una volta mi sento davvero coinvolto nello spirito natalizio e i bambini contribuiscono a darmi mille spunti di divertimento e di allegria. Babbo Natale mi volta le spalle e prosegue. Non parla, non dice niente a nessuno ma sprizza bonarietà e simpatia. La gente, anche gli adulti e gli anziani, si fermano a stringergli la mano, anche i proprietari delle bancarelle vengono in mezzo alla strada per salutarlo. E così la nostra sfilata in mezz’ora attraversa il centro storico della città fino all’altro capo della via principale. Le bancarelle finiscono, anche le luci di Natale sono meno invadenti. I bambini poi sono rimasti indietro: così come si sono materializzati ora spariscono. Rimaniamo io e Babbo Natale, quasi soli, in una strada del centro città, con un carretto vuoto e altre persone che ci passano vicino frettolosamente, ignorandoci. Beh, è stata comunque una bella esperienza. Faccio un segno con la mano a Babbo: il carretto è vuoto. Mi accorgo che mi comporto con lui come fosse sordomuto. Non avendo sentito la sua voce mi viene da fare così. Ma Babbo adesso si guarda in giro e mi fa segno col dito: vieni qui... seguimi... Mi conduce in un vicolo scuro lì vicino,

si volta verso di me, mette una mano dietro al suo grande cappello, fruga tra i lunghi capelli bianchi e si toglie la maschera. Sul collo del vestito rosso ora spicca il viso di una bella ragazza con i capelli lisci e lunghi, e con un sorriso molto molto divertito. Rimango esterrefatto: Ma... «Erano anni che desideravo fare una cosa del genere» dice. «Quest’anno ho preparato la scena con cura. Grazie per avermi aiutato. Non avevo considerato che mi servisse un aiutante. È una bella sensazione stare dentro quel vestito. Sembra di vedere il mondo da un prospettiva diversa. Più ottimista, più allegra, ma anche più seria e in qualche modo sacra. È come farsi attraversare da uno spirito di benevolenza che si diffonde sul mondo e specialmente sui bambini, che sono la speranza del mondo. Sono sempre stata curiosa: “cosa si prova a fare il Babbo Natale?”. Quest’anno ho provato. Sono davvero contenta. Va bene come intervista?» La ragazza mi porge la mano, ancora guantata di bianco, si avvia per il vicolo e sparisce dopo un attimo. Io rimango lì, a sentire l’eco delle ruote del suo carretto smorzarsi nel silenzio. Ho incontrato lo spirito del Natale, forse per la prima volta nella mia vita. Ma non è come me l’aspettavo. Mi ha persino rilasciato un’intervista. Adesso come faccio a scriverla?

In Valle di Blenio, e sicuramente anche in altre parti del Ticino e del mondo cristiano, per Natale le campane avevano una parte speciale nella festa. Sonaa d’alegria, si diceva: i giovanotti del paese salivano in cima al campanile e suonavano tutte le campane a distesa e una invece martellata, cioè colpendo direttamente il battacchio con gioia sui bordi della campana. «Per simile concerto che si udiva la sera durante la novena di Natale», racconta Ignazio Pally, sacerdote di Corzoneso nato nel 1940, collaboratore della «Rivista di folclore svizzero», «si seguivano i ritmi tramandati da generazioni di campanari; si usavano i termini dialettali interzà, starlà e ancora a zupéta o a ciòca e martill. Ho conosciuto a Semione e a Ponto Valentino contadini che erano sui monti con le bestie in dicembre e che la sera si radunavano sui promontori per cantare il Regem venturum dominum e ascoltare con nostalgia il suono della novena». Tutte le persone anziane della Valle a cui ho chiesto del Natale degli anni Trenta e Quaranta mi raccontano così: era bella la novena perché c’era un rintocco in più ogni sera, il primo giorno un battito, il secondo due, fino ai nove della sera di Natale. Era bello il Natale perché si cantava, perché c’era il presepe in chiesa, perché gli emigranti tornavano in quel periodo e dunque quella era epoca di matrimoni, perché i bambini aspettavano il Bambìn che portava qualche spagnoletta o magari un paio di mutande calde ed era vero, perché si scopriva molto tardi che era la mamma a riempire la calza. Virginia, nata a Ponto Valentino nel 1934, ricorda: «Ah, il Natale della nostra infanzia era bello! Aspettavamo ul Bambìn. Tutte le sere di novena suonavano d’allegria. Erano i ragazzi d’una volta, non i giovanissimi, ma i giovanotti, che suonavano. Era come alla festa della Madonna in luglio, anche lì si suonava d’allegria. Infatti erano queste due le feste più importanti, le uniche in cui si comprava la carne. Noi a casa facevamo la nostra mazza, quindi di mortadelle e salami ne avevamo tutto l’anno, ma carne comprata, il lesso o l’arrosto, solo a Natale e alla Madonna. Dopo la guerra è cambiato tutto, perché ormai si poteva avere carne tutte le settimane...». Poi la tradizione delle campane si è interrotta, dice Virginia, negli anni Settanta: il parroco di allora disse che gli davano fastidio; i giovani ci rimasero male ma nessuno osò contraddirlo. Piano piano in tutti i paesi l’abitudine festosa andò scemando.

Benedizione delle campane nella chiesa di Leontica. (Fondazione Archivio Fotografico Roberto Donetta)

giorno stesso della Vigilia, scrive il direttore del Centro di Dialettologia e di Etnografia, nelle terre di rito ambrosiano il parroco provvedeva alla benedizione delle case. Arrivava molto presto: a Ghirone si presentava addirittura alle tre del mattino, prima che gli uomini partissero per andare a governare le bestie che in quell’epoca dell’anno stavano sui monti di mezzo. Al parroco, in cambio, si facevano doni in cibo o in

denaro. A Olivone si ha testimonianza di «formaggelle squisite, cubetti di burro fresco, qualche filza di luganighe, mezza o intera dozzina di uova, vasi di miele, tavolette di cioccolata, qualche bottiglia di vino a seconda della disponibilità della famiglia». Ma capitavano invece le annate molto magre, scrive Ignazio Pally in Segni e presenze del sacro in Valle di Blenio, pubblicazione del Museo Et-

Per Natale in Valle risuonava l’allegria: i giovani uomini salivano in cima al campanile e suonavano tutte le campane a distesa e una «a martellata» Per Natale c’era anche un’altra tradizione, quella del parroco che andava a benedire le case. Durante il mese dicembre, iniziava dunque un grande affaccendarsi per pulire bene la propria casa, l’uscio, il salotto, la cucina; era persino l’occasione per cambiare la carta di rivestimento della credenza, come testimonia una signora nel bel libro sul Natale del 2016 di Franco Lurà. La settimana precedente il Natale o nel

Natale a casa della famiglia Pezzati. (Fondazione Archivio Fotografico Roberto Donetta)

nografico vallerano; per esempio, una volta a Prugiasco, si tramanda che il sagrestano, finita la benedizione delle case, rientrò in parrocchia con una sola mortadella nel cesto. «In illo tempore, la tavola di certe famiglie era spoglia come l’altare del Venerdì santo...» commenta Pally. A Malvaglia, all’epoca, non c’era nessuna decorazione, rammenta Mirina, nata nel 1932. Ora lei tiene una ventina di pupazzi di San Nicolao davanti a casa sua, luccicante e bella più di un abete natalizio. Sua figlia è l’organizzatrice del Mercatino di Natale del paese: entrambe hanno una vera e propria passione per le Feste di dicembre. «Noi eravamo cinque figli», racconta Mirina. «La notte di Natale, a mezzanotte, facevamo i Cruciatìn da Malvaia, un piccolo coro composto dai bambini del paese. A noi bambine mettevano la camicetta bianca, la cravattina e la gonna nera; non so neanche dove mia madre avesse trovato quei bei vestiti. Erano le suore Ursula e Caterina, insieme a Don Aurelio, che avevano organizzato il coro dei Cruciatìn da Malvaia. Dopo la messa si andava da un cugino a mangiare il panettone con i parenti. Era una festa: dolci durante l’anno non ne vedevamo praticamente mai. Anche lì, ricominciavamo a cantare e ridevamo moltissimo. Poi il giorno dopo, il 25 dicembre, si stava a casa e la mamma preparava il pollo con le patate fritte: un’euforia per noi bambini». Ognuno per il banchetto aveva le proprie abitudini. C’erano le famiglie con gli emigranti e allora sul tavolo compariva il pudding, o qualche altro piatto di tradizione inglese, belga o francese. Virginia, con la sua famiglia, mangiava i brasc, le castagne arrosto, con la mascarpa, prima della messa della Vigilia. «Noi a casa eravamo dieci, otto figli. Per quello noi da piccoli mettevamo una scatola fuori sul davanzale prima di andare a Messa: una calza per dieci non bastava! Aspettavamo con

trepidazione che ul Bambìn mettesse dentro qualcosa. Non sapevamo che era nostra mamma che vi infilava dentro le spagnolette, i mandarini, le calze o le mutande di cui avevamo bisogno. Avevamo uno zio a la Chaux-de-Fond che ci mandava spagnolette che arrostiva lui e i cinque franchi d’oro, quelli di cioccolato. La mattina del 25 dicembre andavamo ancora a messa, e lì c’erano tutti quelli che erano scesi dai Monti. A volte, da più grandina, è capitato anche a me di essere ancora su ai Monti con le mucche il giorno di Natale; allora o scendevo oppure una volta sono andata su un promontorio dal quale si vede Ponto e ho ascoltato le campane: che bel ricordo! Un’altra volta, c’era la luna piena e sono scesa insieme a una donna del paese e poi dopo la messa è salito mio fratello, per risparmiare a me tutta quella strada di notte». Alcune famiglie benestanti iniziarono ad addobbare un albero di Natale, ma a inizio Novecento questa era considerata dai più una moda un po’ barbara, venuta da nord, dalla Germania; anche adesso c’è chi critica le «nuove tradizioni» come Babbo Natale o Halloween, anche se si tratta sempre di varianti di riti pagani quali la festa delle luci, la cacciata degli spiriti, il ramo propiziatorio da portare in casa prima dell’inizio del nuovo anno. Sono tutti elementi che il cristianesimo ha inglobato nella sua festa per celebrare la nascita di Gesù. A mettere tutti d’accordo, anche allora, erano i presepi, i canti, le campane. In alcune chiese, come quella di Ludiano, tutte le famiglie del paese aiutavano a portare il muschio. Ancora Don Ignazio Pally scrive che aveva sentito raccontare di una signora Bibiana di Ponto Valentino che quando sentiva le campane suonate a festa diceva in vernacolo pontese «am rid ul cör»... e questo è l’augurio bello: che nel giorno di Natale possano ridere tutti i cuori che battono sulla nostra Terra.



Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Società e Territorio Il gioco da tavolo: intramontabile passione Nell’era dei videogame i giochi di società continuano a piacere, così anche in Ticino nascono nuovi spazi di incontro e condivisione

Sicurezza e web Alcuni consigli pratici per navigare sul web in sicurezza aiutati da siti specializzati e da alcuni semplici principi pagina 8

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Il comun denominatore di ogni evento intuitivo sembra essere l’esperienza passata. (Marka)

L’intuizione fra magia e realtà

Mente Tutte le culture hanno riservato un posto privilegiato all’intuizione e alla sua capacità di risolvere problemi Massimo Negrotti Spesso usiamo il termine «intuizione» come si trattasse di un sinonimo di «intelligenza» ma, se ci si ferma un attimo a pensare, ci rendiamo conto che si tratta di cose ben diverse. La filosofia ha sempre dedicato all’intuizione notevole attenzione nonostante l’abbia regolarmente collegata ai propri temi, anche metafisici, come l’essere, l’intelletto generando così interpretazioni assai diverse fra loro. Una definizione comunemente accettata del concetto in questione non esiste e, per stabilirla, non ha giovato nemmeno, più recentemente, la psicologia della Gestalt di Wolfgang Köhler, fortemente criticata da più parti, che si è occupata dell’intuizione piuttosto intensamente. Un dato trova comunque tutti d’accordo: mentre per intelligenza si intende generalmente la capacità di risolvere problemi razionalmente, usando regole, l’intuizione viene definita negativamente, ossia come la capacità di risolvere problemi senza seguire regole. Quanto alle modalità o le strategie che un soggetto adotta per intuire la soluzione di un problema sussiste, appunto, un disaccordo generale. La teoria di Köhler sosteneva che, davanti ad un problema, l’intuizione consiste nella sua riformulazione fino a produrre una visione

globale nuova, dalla quale scaturirebbe la soluzione. Tuttavia, al di là del carattere imprecisato della riformulazione, sta di fatto che non esistono prove di tale processo. I ricercatori si sono così maggiormente concentrati su ciò che avviene nella mente, intesa come momento operativo del cervello. Ma il mistero rimane e l’intuizione continua a far parte di quella serie di concetti di cui tutti noi abbiamo esperienza ma dei quali non sappiamo dare conto: il dubbio, il sospetto, la «folgorazione», il presentimento e persino l’umorismo sono fenomeni, a volte efficaci e altre volte no, di cui nessuno sa dare convincenti spiegazioni. Tutte le culture hanno riservato all’intuizione un posto privilegiato per la sua capacità di portare alla soluzione di problemi a volte molto importanti. Tuttavia, anche l’intuizione può condurre ad uno sbaglio o ad un errore di valutazione, esattamente come accade nell’uso della nostra intelligenza, per cui non dovremmo dimenticarci che stiamo parlando pur sempre di un fenomeno umano. È sicuro che, assieme alla creatività – altro irrisolto problema, connesso all’intuizione – l’intuizione costituisce una risorsa potenziale di cui le società più evolute sanno fare tesoro, istituendo sedi e canali speciali nei quali i giovani meglio dotati possa-

no esplicare le proprie abilità. Il tutto, però, senza garanzia perché l’atto intuitivo avviene senza intervento della volontà cosciente del soggetto e, dunque, non è un fenomeno riproducibile a piacimento nemmeno per lui. I ricercatori di Intelligenza artificiale, a loro volta, hanno trovato nell’intuizione un ostacolo inatteso. La sua riproduzione nella macchina si è rivelata assai ardua proprio perché, a differenza dell’intelligenza che segue regole, nel comportamento intuitivo non appaiono regole formali consapevolmente adottate dal soggetto. Esistono comunque vari gradi di intuizione. Il primo che si deve necessariamente citare è quello legato a scoperte degne di passare alla Storia. Un primo esempio è l’intuizione di Enrico Fermi nel 1934 quando, per risolvere il problema del rallentamento dei neutroni, prese spunto dall’osservazione dei secchi d’acqua della signora Cesarina che faceva le pulizie nel laboratorio in via Panisperna a Roma. C’è inoltre la notissima intuizione che porterà Albert Einstein alla formulazione della teoria della relatività partendo dall’osservazione dell’orologio di una stazione ferroviaria svizzera. Va poi segnalata l’intuizione dell’esperto che, di fronte ad un problema, sa trovare la soluzione con estrema

rapidità senza snocciolare una dopo l’altra le regole a suo tempo imparate e che il principiante, invece, applicherà passo dopo passo. Ma il caso forse più illuminante è quello del campione nel gioco degli scacchi il quale, più o meno fulmineamente, intuisce la catena di mosse, sue e dell’avversario, che meglio potrà consegnargli la vittoria. C’è infine il livello dell’intuizione, diciamo così, ordinaria, quella di cui ognuno di noi ha esperienza. Ciò accade quando, guidando un’automobile, intuiamo che qualcosa non va nel traffico circostante e sta per prodursi un incidente oppure quando, di fronte ad una sorpresa spiacevole generata da un software del nostro computer, intuiamo rapidamente l’errore operativo che abbiamo compiuto in precedenza. Ad ogni modo, il denominatore comune di ogni evento intuitivo sembra essere l’esperienza passata, entro la quale la conoscenza e le sue regole rimangono fondamentali. Va infatti sottolineato che nessuno può produrre intuizioni su ciò che non conosce. Un ingegnere non sarà mai in grado di intuire l’origine di una patologia immunologica così come un economista non riuscirà in alcun modo ad intuire la soluzione di un problema elettrologico. Altrettanto, nella vita quotidiana, l’intuizione si fonda sulle esperienze pas-

sate e le conoscenze acquisite senza le quali, di fronte ad un problema, rimarremmo semplicemente a bocca aperta. Oltre alla sempre possibile origine puramente casuale di un’intuizione, può essere che, nel suo prodursi, conoscenze ed esperienza vengano trattate per mezzo dell’analogia: se io, a suo tempo, ho risolto un problema di tipo P attraverso i passi A, B, C, D per poi arrivare alla soluzione E, ogni volta che sarò di fronte a problemi di tipo P indicherò E come soluzione, senza rifare il percorso analitico effettuato la prima volta. Ciò spiega, fra l’altro, la rapidità con cui la soluzione viene di norma generata. Quando, tuttavia, il problema è originale, cioè non si è mai presentato in precedenza, e qualcuno genera prontamente una soluzione efficace, la semplice analogia non può essere chiamata in causa se non a livelli di profondità mentale del tutto, per ora, insondabili anche solo ipoteticamente. Sta di fatto che il nostro cervello pare essere in molti casi al lavoro senza che noi ce ne rendiamo conto, come in una sorta di background. Ma, se non c’è alcuna traccia che gli consenta di elaborare almeno frammenti sparsi di conoscenze acquisite o esperienze passate, anche il miglior cervello non produrrà alcuna intuizione. Dal nulla, in altre parole, nulla si può generare. Come è facile intuire.


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Società e Territorio

I giochi da tavolo non muoiono mai Tempi moderni Vi piace giocare a Risiko? Collezionate le carte di Yu-Gi-Oh!? Non siete gli unici: nell’era

dei videogame i giochi di società continuano ad appassionare e anche in Ticino nascono nuovi spazi di incontro Guido Grilli Videogiochi e tecnologie moderne contro giochi di società: chi vince? Se l’immagine dei giovani incollati ai loro inseparabili smartphone e dispositivi digitali appare dominante, indagando e allargando un po’ il campo di osservazione è possibile scoprire che i tradizionali giochi da tavolo non escono per nulla sconfitti nell’universo del tempo libero e meno ancora sembrano prossimi all’estinzione.

Dal Molo 13 alle aule dell’USI, dalle ludoteche al salotto di casa: giocare in compagnia crea contatti e amicizie C’è un luogo che rafforza questo assunto e restituisce il quadro di giovani desiderosi ancora di concepire il gioco come momento di scambio interpersonale e comunione, dove al tavolo l’avversario ti siede di fronte e non è un’entità astratta come dentro a uno schermo: si chiama Molo 13, si trova in via Fola a Pregassona ed è una bottega a conduzione familiare ricolma di scaffali di giochi dove la tecnologia non trova cittadinanza e dove, appena entrati, assistiamo ad una viva situazione di gioco… di società. Paolo, 14 anni, tecnicamente tra i più forti e con già esperienza di tornei locali e a Monza, sfida il suo coetaneo Elias e Francesco 22 anni a Yu-Gi-Oh!, gioco di carte collezionabili giapponese, sul mercato dai primi anni Duemila e popolato di figure di mostri o eroi che si vorrebbero imbattibili. Un gioco ai più di non facile accesso, ma a sentir parlare i giovani partecipanti possiede un codice in piena regola. L’obiettivo, in estrema sintesi, è quello di azzerare per primi il montepremi iniziale di 8mila punti-vita affidato all’inizio della partita ad ogni partecipante. «Veniamo qui una volta la settimana, generalmente il mercoledì» – dice Elias, che assicura: «È molto più interessante il gioco di società che il computer, almeno qui socializzi, conosci nuovi amici, puoi comprare e scambiare le carte». Il Molo 13 deriva dal cognome del suo proprietario, Sergio, classe 1981 che ha fatto della sua passione per i giochi di società una professione, specie di carte collezionabili, a partire dal ce-

Il gioco da tavolo è una passione che molti coltivano fin dall’infanzia. (Marka)

lebre Magic per poi estendersi alle più varie proposte di games, quali Necromunda o Blood Bowl, un gioco sorto in Inghilterra e di fatto una parodia del football americano. Le età dei giocatori oscillano tra i 12 e i 25 ma anche oltre, si arriva fino ai 50 anni – come spiegano Marinella e Riccardo Molo. Il luogo di ritrovo, accogliente e rilassato, mette a disposizione gratuitamente i set di gioco a chi intende imbattersi in partite ai tavoli e inoltre l’ingresso è libero, ma c’è anche la possibilità di acquistare giochi o pacchetti di carte per estendere e rafforzare il proprio armamentario. Periodicamente l’emporio organizza tornei, con tanto di arbitri. Un’altra realtà in cui il gioco da tavolo sta conoscendo un soprendente seguito si realizza in seno a Usi Geek, associazione studentesca dell’università della Svizzera italiana – ma le cui attività sono aperte a tutto il pubblico interessato – nata un anno fa «per condividere passioni e interessi per il mondo dell’intrattenimento e della tecnologia». La presidente, Giulia Da Costa, iscritta al secondo anno della facoltà di Scienze della comunicazione: «Siamo nell’era tecnologica e sicuramente prevalgono i videogiochi. Ma lo scorso 1° dicembre, un venerdì, abbiamo proposto per la prima volta una serata di gio-

chi da tavolo e carte con la possibilità per ognuno di portare i propri giochi e il riscontro è stato enorme: hanno aderito dalle trenta alle quaranta persone, siamo rimasti a giocare fino oltre alla mezzanotte. Un successo tale che ci ha portati a decidere di proporre d’ora in poi un incontro mensile di giochi da tavolo». Quali sono i giochi di società più in voga del momento? «Quello più gettonato è Bang!, un gioco di ruolo con le carte che vede per protagonisti banditi e uno sceriffo». L’età dei partecipanti? «Dai 20 ai 25 anni. Il luogo d’incontro è sempre l’aula SI-008, chiunque fosse interessato ad unirsi è il benvenuto». Ad offrirci un ulteriore orizzonte è Valeria Deschenaux, ludotecaria di Comunità familiare attiva a Chiasso per trent’anni in una delle prime ludoteche sorte in Ticino e dallo scorso settembre in pensione: «Ai giochi di società ci si cimenta dalla primissima infanzia fino all’età adulta, fino ai 99 anni. Naturalmente la maggior utenza riguarda la fascia dei bambini dalla Scuola dell’infanzia alle Elementari, accompagnati da genitori o nonni, che ritrovano nella ludoteca un luogo in cui poter provare i giochi e portarli a casa. Gli adolescenti si sono invece un poco diradati. Ma dall’anno scorso c’è stata una leggera ripresa per il gioco di socie-

tà, penso ai classici Risiko, Monopoli, Forza 4… Questo soprattutto in occasione di compleanni, eventi o feste di fine anno: l’interesse fra gli adolescenti aumenta perché ne fanno serate, tornei o animazioni varie». «Va detto – avverte la ludotecaria – che il ragazzo da solo non viene in ludoteca, ma occorrono stimoli da parte della scuola e dei genitori oppure precise occasioni». Ma come si regola la ludoteca di fronte alla richiesta di video giochi o nuove tecnologie da parte degli utenti? «Non sono da demonizzre i video giochi. Ci sono ludoteche fornitissime di play station. Occorre convivere sia col nuovo sia con il tradizionale» – dichiara Valeria Deschenaux. «Dal canto nostro a Chiasso avevamo introdotto un regolamento che non consentiva di prendere in prestito un gioco elettronico tre volte di seguito, ma dopo la seconda volta l’invito era di cambiare la scelta con un gioco di società per offrire un’alternanza e devo ammettere che questa norma veniva accettata. D’altra parte la ludoteca se vuole funzionare bene deve anche aggiornarsi costantemente nella propria offerta di giochi. E il ruolo del ludotecario dev’essere di stimolo, bisogna presentare i giochi in modo accattivante ed essere chiari nell’esposizione delle regole».

lebre e citatissima frase dickensiana che Haig qui gli fa rivolgere a Babbo Natale, il quale annuisce aggiungendo «anche l’amore di una renna non è male»; quindi Dickens, a presentazioni avvenute, gli dice: «È un enorme piacere conoscere uno quasi famoso quanto me». Gli ambienti in cui le vicende si svolgono sono però due, da una parte c’è Londra, dall’altra c’è Elfhelm, il villaggio popolato di elfi, fate e turbolenti troll, in cui solitamente vive Babbo Natale. Anche tra gli elfi ci sono vicende da seguire, in particolare quelle relative alla famiglia del piccolo Mim, con il suo ansioso papà Trantran (Vice Sostituto Mastro per i Giocattoli che Girano O Rimbalzano) e la sua coraggiosa mamma Noosh (giornalista della Gazzetta Nevosa, inviata speciale nel quartier generale dei troll). Il motivo centrale, che collega i due ambienti, è che nel mondo un po’ di magia è necessaria, per alimentare la speranza. Che a sua volta è alimentata dalla magia. La magia è in grado di fermare il Tempo, altro grande tema del romanzo, dove al magico «qui

e ora» in cui la notte di Natale ferma l’inesorabile trascorrere delle esistenze, fanno da contraltare la caducità e fragilità delle vite umane quotidiane, purtroppo non esenti dal dolore e dalla perdita. La magia non è quella delle bacchette magiche, ma è una magia alla portata di tutti (in quei giardini interiori che tutti abbiamo): «La magia si può trovare dappertutto, se sai come cercare». Un mondo senza speranza, senza senso del mistero e del sacro, può essere un mondo molto triste, sempre, non solo a Natale. Perché, come dice Babbo Natale, «il Natale non è una data, signor Dickens. È un sentimento».

Ma come si può convincere un giovane che la tecnologia moderna non è tutto? «Ci sono già bambini delle Elementari che possiedono e si destreggiano con il telefonino cellulare, ma che sanno parimenti dar spazio alla loro voglia di creatività: costruire torri o gru con i cubi di lego o svolgere giochi di ruolo con i playmobil. La soddisfazione più grande è quando il bambino o il giovane in piena autonomia, senza il suggerimento dei genitori, prende in prestito un gioco frutto di un’autentica scintilla e di una sua propria scelta». Quindi dal suo osservatorio non vede estinto il gioco di società? «Sicuramente – risponde l’ex responsabile della ludoteca di Chiasso, ente affiliato all’associazione mantello della Federazione ludoteche svizzere – complessivamente il gioco di società è in ribasso rispetto ai giochi elettronici, molto più visivi e immediati agli occhi dei giovani. Ma il valore del gioco di società va promosso perché il bambino giocando impara ad interagire con gli altri, ad assoggettarsi alla regola, si confronta con la frustrazione quando perde, apprende il rispetto per gli altri e ad attendere il suo turno di gioco». Sì perché, come già sostenevano gli antichi, il gioco è virtù e saggezza.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Matt Haig, La bambina che salvò il Natale, Salani. Da 9 anni Una storia di Natale incantevole: scalda il cuore senza un briciolo di retorica, è dolce senza essere zuccherosa, è commovente e umoristica al contempo, di quell’humour molto british a cui Matt Haig ci ha abituati, nei suoi romanzi «uno più bello dell’altro» come si usa dire (e per una volta lasciatemelo dire), da Essere un gatto a quel Bambino chiamato Natale di cui questo è in un certo senso un sequel. In un certo senso, perché La bambina che salvò il Natale è un romanzo pienamente autonomo, pur contenendo alcuni piccoli riferimenti, in particolare alla vita passata di Babbo Natale, che chi ha letto l’altro potrà eventualmente cogliere. Ma tutti, anche i neofiti, verranno trascinati dalla scrittura di Matt Haig, dalla profondità toccante del suo procedere narrativo, così limpido e intelligente. E in questo caso «tutti» si riferisce davvero a lettori di ogni età, perché il libro ha molti livelli di lettura. Se i bambini coglieranno soprattutto il pathos dell’intreccio (sia-

mo nell’Ottocento, a Londra, e c’è una bambina spazzacamino, Amelia Wishart, che dopo molte traversie in puro stile dickensiano finisce in un tetro ospizio dei poveri, perdendo ogni speranza nella magia del Natale), gli adulti apprezzeranno alcune citazioni colte (tra i personaggi più altolocati troviamo la regina Vittoria in persona, e tra quelli dei bassifondi c’è persino la vecchietta dei piccioni, celebre icona di Mary Poppins), o l’ironia di geniali scambi di battute, come quelli tra Babbo Natale e lo stesso Charles Dickens (a cui Amelia, trasportata di forza all’ospizio, aveva affidato il suo gatto). «Quale dono più grande dell’amore di un gatto?» è la ce-

Scopri gli animali nascosti. Gioca a nascondino tra gli habitat del mondo!, De Agostini. Da 2 anni È una proposta per lo scaffale della cosiddetta «divulgazione», non è propriamente narrativa quindi, anche se lo può diventare perché le pagine si prestano felicemente a estensioni di racconto tra bimbo e adulto lettore. Il

sistema delle alette, solleva e scopri, è sempre una garanzia di interesse: chi ci sarà qui dietro? Dove si è nascosto il cinghiale? Cucù! E qui sotto?, e via inventando nuove situazioni e nuove sorprese. Le pagine robuste lo rendono adatto già dai due anni, ma l’interesse scientifico non si esaurirà negli anni successivi, ed è un libro che può benissimo essere proposto almeno fino ai cinque, perché offre la scoperta dei vari habitat (ghiacci, bosco, deserto, mangrovie, mare) e di animali anche meno conosciuti, allargando così i possibili discorsi a interessanti esplorazioni zoologiche e geografiche.


PUNTI. RISPARMIO. EMOZIONI.

PHILIPP FANKHAUSER

COMEDY CLUB TICINO

«I’ll Be Around»: Questo suo nuovo album svela un Philipp Fankhauser maturo, sicuro e sereno. Nuova è la musica, ma non solo. È un album blues, ma anche soul. Quando: 17 marzo 2018 Dove: Lugano Prezzo: da fr. 38.40 a fr. 54.40 (invece che da fr. 48.– a fr. 68.–), a seconda della categoria Informazioni e prenotazione: www.cumulus-ticketshop.ch

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Dal sound psichedelico degli esordi alle pietre miliari del rock d’avanguardia: un viaggio spettacolare e unico nel suo genere attraverso cinque decenni dei Pink Floyd. Goditi la musica e la magica atmosfera. Quando: 21 dicembre 2017, 24 marzo e 12 aprile 2018 Dove: Berna, Lugano e Zurigo Prezzo: da fr. 38.80 a fr. 54.45 (invece che da fr. 48.50 a fr. 68.10), a seconda del luogo e della categoria Informazioni e prenotazione: www.cumulus-ticketshop.ch

Vivi un’indimenticabile serata all’insegna del divertimento. Anche nel 2018 il Comedy Club riunisce grandi nomi del teatro comico, pantomima e satirico: 3 Chefs e Pietro Sparacino.

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Quando: 14 marzo 2018 Dove: Lugano Prezzo: da fr. 20.– a fr. 36.– (invece che da fr. 25.– a fr. 45.–), a seconda della categoria Informazioni e prenotazione: www.cumulus-ticketshop.ch

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Società e Territorio

Tre siti utili per la sicurezza

L’avvento del 4K

Tecnologia TV e videogame: è arrivata

la rivoluzione dell’ultra alta definizione

Internet Consigli e curiosità per tentare di circoscrivere

ed evitare i rischi sulla rete

Ugo Wolf Navigare sul web sembra diventare giorno dopo giorno impresa rischiosa. Non si contano ormai le notizie che ci rendono attenti su minacce di vario tipo: furto di dati, richieste di riscatto, intrusioni malevole. Persino i programmi antivirus sono messi sotto accusa e suscitano diffidenza. In balìa di vere e proprie centrali internazionali del malaffare, gli ingenui navigatori spesso si lasciano prendere dallo scoramento. C’è modo di reagire, c’è modo perlomeno di difendersi? La nostra opinione è che nonostante i rischi non siano da sottovalutare, chi naviga con consapevolezza e con precauzione può rimanere tranquillo. Nella maggior parte dei casi, chi si imbatte nelle difficoltà è perché ha sottovalutato certi semplici principi di sicurezza. Con l’esperienza si impara che: 1) la cosa migliore è frequentare una cerchia di siti relativamente ristretta, di cui ci si può fidare; 2) è meglio evitare di cliccare su ogni proposta promozionale che si propone di stupirci con immagini o promesse accattivanti; 3) non accettare mai di rivelare le proprie password o altri dati sensibili a sconosciuti e, anzi, verificare sempre bene che le persone con cui comunichiamo e i siti che ci interpellano siano veramente quelli che dichiarano di essere. Detto questo, in rete si trovano per fortuna anche alcune risorse utili che possono aiutarci a capire quale sia il livello di sicurezza della nostra navigazione. In questo senso uno dei siti più interessanti per valutarla è www.scamadviser.com. Si tratta di un servizio

di controllo che permette di scansionare la presenza di eventuali minacce in pagine Internet. Oggi si sa che a volte soltanto il navigare entro certi siti può essere rischioso, per la presenza di programmi che si attivano nel momento dell’apertura delle pagine e si installano nei nostri PC. Scamadviser compie per noi uno screening di sicurezza della homepage del sito che gli indichiamo e ci restituisce una valutazione compresa tra «safe» e «high risk». Naturalmente è importante conoscere l’inglese per comprendere la diagnosi che ci viene elaborata dalla scansione, ma il significato fondamentale della risposta ottenuta è abbastanza chiaro per tutti, visualizzato con i colori di un semaforo. Un altro sito molto interessante è quello che è in grado di fare un’analisi della sicurezza del nostro account di posta elettronica. Negli ultimi anni gruppi di hacker sono riusciti a intrufolarsi nei server di varie importanti aziende come Linkedin, Sony, Dropbox, ecc., e hanno rubato liste con milioni di email, corredati dalla relativa password. Queste liste sono state rivendute ai commercianti di spam, cioè coloro che organizzano catene di messaggi spazzatura, per i loro invii truffaldini. Ora, tali liste con il passare del tempo si sono diffuse nel web. Il sito https://haveibeenpwned.com, è stato creato da un benefattore dell’umanità che vuole aiutare gli utenti normali a sapere se il loro email è iscritto in uno di quegli elenchi. Inserendo il vostro indirizzo in una casella di ricerca, potete quindi verificare se è mai stato rastrellato da qualcuno, in una delle effrazioni di massa del passato. Una volta inserito, potete ottenere un tranquillizzante se-

maforo verde, che vi assicura di non essere mai stati «incastrati». Se il semaforo è rosso, invece, significa che il vostro indirizzo è finito in una lista di quelle in possesso degli hacker, probabilmente corredato dalla password. Il sito stesso vi segnala persino in che occasione è stato rubato e in che lista è inserito. La prima cosa da fare è quindi correre a modificare la password e poi decidere se volete continuare a utilizzare quell’email. Tra le forme di pirateria online a cui siamo esposti, il phishing è ormai quasi quotidiano. Si tratta di messaggi che cercano di carpire la nostra buona fede con richieste d’aiuto, proposte di regali inusitati, minacce rivolte da varie autorità. L’obiettivo di questi messaggi è potere ottenere il numero della nostra carta di credito o altri nostri dati sensibili. Quando capita, la domanda ricorrente che ci poniamo è: «Ma come posso avvertire le forze dell’ordine?». Ecco che la Centrale d’annuncio e d’analisi per la sicurezza informatica MELANI, servizio della Confederazione, ha messo a disposizione di chiunque voglia segnalare attività truffaldine di questo tipo la pagina www.antiphishing.ch/ it/. Utilizzandola è possibile inviare ai membri del servizio sia l’indirizzo web di una pagina «farlocca» che cerca di carpire i nostri dati, sia inoltrare un email ingannevole che si è ricevuto, in modo che possa essere analizzato. La speranza è che gli specialisti riescano a isolare la centrale d’invio e inizino a tenerla d’occhio. Impossibile reagire a una singola segnalazione, ma certo, l’unione fa la forza: diamo loro una mano tutti insieme.

Analizza la sicurezza dei siti web in tempo reale: www. scamadviser. com.

Davide Canavesi Come ogni anno il periodo che precede il Natale è caratterizzato dallo shopping, che si tratti di fare una bella sorpresa a qualcuno che ci è caro oppure, perché no, per toglierci qualche sfizio o per esaudire qualche desiderio che ci ha accompagnato durante l’anno. E sotto l’albero sempre più spesso trova posto anche la tecnologia. A fine 2016 era la realtà virtuale ad essere in voga ma, con l’avanzare del 2017, la novità è stata soppiantata da una certa mancanza di entusiasmo da parte di produttori e consumatori. Così quest’anno è tutto all’insegna dell’Ultra HD e dell’HDR. In poche parole, di contenuti (che siano film, serie TV o videogames) ad alta risoluzione e con colori più realistici e definiti rispetto al passato. Dietro questi due termini di marketing si nasconde però sul serio una piccola rivoluzione, forse meno appariscente della realtà virtuale ma che è decisamente qui per restare. L’Ultra HD (che equivale ad una risoluzione video di 3840x2160, contrapposta ai soli 1920x1080 pixel del Full HD) significa un’immagine quattro volte più definita e proprio per questo motivo viene anche chiamato 4K. Sullo schermo del televisore si vedono molti più dettagli, con maggiore precisione e accuratezza. L’HDR è un altro concetto tecnicamente complesso e che va visto di persona per poterlo apprezzare. In pochissime parole, significa che i neri sono più neri, i colori sono più vividi e che il contrasto tra zone scure e chiare dell’immagine è molto più netto. Sfortunatamente non è possibile godere di queste novità senza equipaggiarsi di un nuovo televisore e i vari produttori ormai da qualche anno hanno immesso sul mercato apparecchi compatibili. Abbiamo avuto modo di testare la TV Q7F di Samsung di ultima generazione ed in effetti la differenza è molto evidente. Uno schermo adeguato però non è sufficiente. Bisogna anche equi-

paggiarsi di contenuti creati apposta per questi nuovi formati. Microsoft ha lanciato lo scorso novembre Xbox One X, l’evoluzione della propria console di videogiochi. Si tratta di un modello molto più potente, in grado di mostrare giochi come Assassin’s Creed Origins, L’Ombra della Guerra o Forza Motorsport 7 in modo più nitido e con i colori più accurati. Le scorribande dell’assassino Bayek nell’antico Egitto di Assassin’s Creed Origins sono una vera gioia per gli occhi. La maggiore definizione e l’accentuata ricchezza dei dettagli ci immergono come non mai nell’era tolemaica. Ne L’Ombra della Guerra vivremo le emozioni di un’avventura ambientata nel mondo del Signore degli Anelli con maggiore intensità e in Forza Motorsport 7 vedremo dettagli delle autovetture che fino ad oggi semplicemente non c’era modo di vedere su una console da salotto. Anche PlayStation ha lanciato a fine 2016 una sua console creata per l’ultra alta definizione, PlayStation 4 Pro. Come Xbox One X, anche se può disporre di meno potenza di calcolo, la console di Sony è anch’essa in grado di riprodurre giochi e film in 4K. Questa evoluzione però non è limitata ai soli videogiochi. Sul mercato troviamo anche film in formato Blu-Ray Ultra HD, che però necessitano di un lettore apposito (ad esempio, Xbox One X). Il prezzo è ancora piuttosto elevato rispetto a Blu-Ray tradizionale e, come detto, è necessario un lettore creato specificatamente per questo tipo di disco. Questa tecnologia ovviamente continuerà ad avanzare. Tra gli addetti ai lavori già si parla di 8K e 12K ma per noi comuni mortali ci sarà ancora da aspettare. Tuttavia, il 2017 è un buon anno per dare una marcia in più alla nostra esperienza visiva casalinga. Che si tratti di videogiochi, film o serie tv, 4K e HDR sono due sigle da tenere a mente. A volte non è facile districarsi tra i termini tecnici ma dietro questi oscuri acronimi si nasconde, per una volta tanto, una vera piccola rivoluzione.

L’educatore è un direttore d’orchestra Pubblicazioni Nel suo ultimo libro Nicola Gianini propone un innovativo

approccio educativo con gli adolescenti coniugando pedagogia ed etologia Stefania Hubmann Una risposta innovativa per un quesito ricorrente. Alla domanda «Come educare gli adolescenti?» Nicola Gianini nel suo ultimo libro risponde con un approccio che coniuga due discipline solo all’apparenza lontane: pedagogia ed etologia. Nel volume, intitolato appunto Pedagogia etologica, pubblicato di recente da Fontana Edizioni, l’autore fa confluire le riflessioni scaturite dalla sua duplice esperienza, in ambito educativo con adolescenti pro-

blematici da un lato e nel campo della zooantropologia dall’altro. Attraverso l’associazione Orion egli promuove infatti progetti didattici e di analisi culturale incentrati sulla relazione con gli animali e in particolare con i cani. Supportato da una densa bibliografia, il testo intreccia due punti di vista e due linguaggi diversi per offrire a educatori e professionisti del settore pedagogico la possibilità di allargare il proprio orizzonte epistemologico, imparando a dialogare con la complessità della società contemporanea.

Di questa complessità è parte integrante l’attualità scientifica, specificatamente quella etologica. Per Nicola Gianini i modelli pedagogici attuali, pur avendo raggiunto raffinate potenzialità operative, «non considerano in modo sufficiente – se non addirittura non considerano del tutto – il corredo motivazionale dell’essere umano». Per fare ciò è indispensabile, secondo l’autore, riconoscere e metabolizzare da parte della pedagogia la teoria evolutiva. Un altro aspetto essenziale è il

dialogo. Il motore della relazione con l’adolescente è infatti la collaborazione. Nel volume la figura dell’educatore viene accostata a quella del direttore d’orchestra la cui bacchetta, lungi dall’infliggere colpi, serve a dare il via, a tenere il ritmo, a guidare. E può essere vista anche come un legnetto per giocare con il cane, nel senso di un invito al dialogo con gli altri animali e a un progetto di pedagogia nella natura. Essendo gli adolescenti di oggi nativi digitali, non si può inoltre prescin-

dere dal considerare il rapporto con lo smartphone, trattato in un capitolo specifico e sempre ponendo l’accento sulle motivazioni alla base del suo uso.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Gli agnelli degli dei Le esperienze delle primissime settimane «sul campo», come si dice in gergo, sono forse le più cruciali nella vita di un giovane antropologo. L’incontro (e spesso lo scontro) con quella che il gergo chiama «l’Alterità» si svolge infatti a livello delle esperienze di base, elementari forse per chi ti ospita ma per te del tutto nuove, aliene, spesso sconcertanti. «Novità» che presto finiranno per scomparire dagli schermi radar del taccuino d’appunti per divenire scontati come la tappezzeria di una stanza d’albergo che, fatto il check-out, uno non è più in grado di descrivere. Subentrerà allora la routine degli eventi quotidiani con le sue noie e le sue distrazioni, fino a quando tutto finirà per essere «normale» e scontato. O meglio: fino a quando la diversità del quotidiano non farà essa stessa parte dell’abituale e del già visto. Ed è quello il momento di fare lo sforzo, spesso molto difficile, di tornare a casa. Dicono dell’Africa, e con una misura di verità, che se uno in Africa vive una settimana scrive un libro, se ci sta un mese scrive un saggio e dopo un anno non scrive più nulla.

Questo perché, per quanto detto sopra, la superficie appare col tempo esplorata e garantita, mentre d’altro canto l’osservatore che abbia superato la fase di quella condizione morale che in inglese si chiama con il termine intraducibile jaundice (Noia? Svogliatezza? Spossatezza mentale?) comprende che capire fino in fondo, raggiungere le profondità remote di una cultura «Altra» è in pratica impossibile. O richiederebbe una capacità di «apnea morale» che solo pochi, pochissimi atleti nel nostro campo ottengono dopo anni di sforzi e di allenamento. Agli altri – come si dice – basta partecipare. Ricordo, ad esempio, l’impressione che mi fece la pratica dei sacrifici animali nelle prime settimane del mio soggiorno a Jang, nel Ghana del Nord, nell’ormai lontano 1983. Sembrava che la gente altro non avesse da fare che sgozzare polli, capre e pecore – un’escalation che raggiunse l’apice con la stagione dei funerali, quando vacche e tori completavano la macelleria generale. I sacrifici erano sempre – o quasi – un fatto pubblico. Un sacrificio effettuato

«in privato» era un sacrificio fatto di nascosto a questa o quella divinità, e spesso per ragioni poco oneste se non per stregoneria. Le procedure cominciavano presto, sul fare dell’alba. Al termine del lungo e tedioso giro nelle case dei capi, degli anziani e dei vicini per scambiarsi il buongiorno, gli anziani specialisti della divinazione estraevano dalle sacche in pelle consunte gli attrezzi del mestiere e via si cominciava. Tutti prima o poi interrogavano l’oracolo. Su tutto: da questioni matrimoniali a sterilità e malattie. Da questioni agricole a consigli per gli acquisti – se comprare una bicicletta x o y, se andare o no a quel funerale nel villaggio z – e, ah sì, anche per quale sentiero, grazie. Insomma, antenati, spiriti della foresta, divinità-medicina, dei di ogni ordine e grado tutti assoldati ad emettere – dalle cinque alle sette di mattina – il bollettino di prevenzione delle disgrazie per tutto il villaggio. Più spesso che no il verdetto si concludeva con la prescrizione di un sacrificio animale a scanso di guai e per favorire il corso benevolo dell’impresa in

questione. Allora si vedevano i bambini sfrecciare di cortile in cortile agitando fasci di banconote (con l’inflazione di allora si andava a far spesa nei mercati con le sportine di plastica piene di pacchi di banconote) alla ricerca affannosa di un pollo, di una gallina, di un qualche straccio di volatile del colore (molto importante il colore!) appropriato al sacrificio in questione. E qui cominciavano i guai. Notai presto che polli nel villaggio ce n’erano pochi. Molti pulcini morivano di malattia, altri venivano razziati dai falchi, il resto era sacrificato ben prima di potersi riprodurre. Col risultato che più spesso che no i miei amici Vagla dovevano recarsi nei villaggi dei tanto disprezzati Lobi e lì comprare a caro prezzo quello che era – peraltro – molto spesso il risultato di furti di pollame dai villaggi Vagla. Ma tant’è: c’est l’Afrique. Verso le nove del mattino cominciavano i riti sacrificali. Piccoli capannelli di persone si radunavano attorno ad un anziano che fungeva da celebrante. L’animale veniva consacrato alla divinità di turno e poi passato ad uno

specialista che lo sgozzava. Il volatile veniva poi gettato a terra. Dalla postura nella quale sarebbe morto si deduceva se il verdetto oracolare fosse favorevole o contrario. In caso fosse negativo, si doveva ricominciare da capo. In Africa nessuna uccisione di animali è condotta al di fuori di una procedura sacrificale che implica poi una dedica all’antenato o agli dei. Come mi spiegava l’amico Pentu, grande cacciatore di Jang: «Uccidere anche solo un pollo non è una sciocchezza. Non si fa a cuor leggero. Uccidi perché devi vivere, non vivi per uccidere. E sai che ogni morte che infliggi ad un altro essere vivente avvicina anche la tua». Queste parole mi erano ritornate alla mente quando guardavo le decine di sagome di animali da banchetto natalizio disegnate dai militanti animalisti nelle strade del centro di Bologna La Grassa. Dove nessuno si prenderà la briga di consacrare il suo cappone prima di farci il brodo dei tortellini – né tantomeno i virtuosi animalisti potranno immaginare come ci sia modo e modo per farlo. Buone Feste a tutti.

Ma mettiamoci ora dal punto di vista delle signore, piccole o grandi che siano. Ognuna di loro cerca, per quanto possibile, di esprimere il meglio di sé, di rappresentare l’Io ideale, che non coincide mai completamente con l’Io reale. Tra ciò che vorrei essere e ciò che sono c’è sempre un divario che, per quanto mi sforzi di colmare, non sarà mai eliminato del tutto. Gli ideali sono irraggiungibili per definizione, altrimenti non sarebbero tali. Ora il dono rischia proprio di rivelare, tra i due aspetti, una discrepanza sgradevole. È il caso del marito che regala alla moglie una friggitrice mentre lei avrebbe preferito un gioiello, un profumo, una vestaglia di seta, una cena al lume di candela. Oppure il regalo di un libro alla nipote che non studia e non legge, una scatola di cioccolatini alla nuora eternamente a dieta e così via. In famiglia poi scattano facilmente reazioni d’invidia tra chi ha avuto di più e chi ritiene di avere avuto meno. Nello scambio di doni il momento

più bello è forse quello in cui si apre il pacchetto, l’attimo che separa l’attesa dalla sorpresa. In quei frangenti chi ha conservato un cuore di bambino sa gioire con immediatezza senza chiedersi perché e come dovrà ricambiare. Ma è difficile recuperare l’ingenuità dell’infanzia e tra adulti rimane, come lei ha ben compreso, il problema della gratitudine, un atteggiamento rimasto irrisolto persino nella psicoanalisi. Mentre per Melanie Klein la gratitudine ci permette di superare l’ombra dell’odio che ci separa dall’altro, per Freud apre una dipendenza negativa che sarebbe meglio evitare. Lei sottolinea che lo scambio dei doni è più problematico per le donne che per gli uomini e ha ragione perché abbiamo bisogno, per sentirci confermate, di vivere in un una rete di reciproci affetti. Nell’autostima degli uomini invece ciò che conta è la scala gerarchica in cui sono inseriti, il riconoscimento del grado che ritengono di avere. Qualche cosa di obiettivo,

valutabile, confrontabile quindi, ben diverso dall’impalpabilità dell’amore che vorremmo cogliere in ogni cosa, in ogni gesto dei nostri cari. Infine credo che per evitare, nei limiti del possibile, ambiguità e contrattazioni la cosa migliore sia dire semplicemente «grazie» perché ammette la reciprocità dei sentimenti e indulge sull’imperfezione con cui li manifestiamo. Nelle relazioni familiari, proprio perché sono le più prossime, le più dirette e immediate, procediamo per impulsi non sempre razionali, a volte centrando a volte mancando il bersaglio. L’importante è mantenere aperti il cuore e la mente ricordando, come canta Gaber, che il resto è niente.

non abita più qui. Insomma, la Schadenfreude non soltanto procura l’aspro piacere di godere dei mali altrui, ma si vende pure bene. Niente di nuovo, figurarsi, nell’episodio, che abbiamo riportato. E, ovviamente, scontate le reazioni che, sui social, dovevano riaprire, più che una polemica motivata, uno scontro di risentimenti. A cui abbiamo fatto l’abitudine. Rappresenta, proprio in Ticino, paese di frontiera, una costante addirittura storica. Una sorta di bega tra fratelli: i «taian», o «badola» come si chiamavano una volta, sbruffoni e inaffidabili, e «svizzerotti», chiusi e taccagni. Con ciò, al di là delle esternazioni, cariche di pregiudizi, della nostra collega italiana, l’episodio si presta a ben altre considerazioni. Purtroppo, quell’incidente era vero e rivelava, anzi

confermava una realtà che si stenta ad accettare. Rappresentano primizie inverosimili. Già, agli inizi di dicembre, pochi centimetri di neve avevano provocato il caos sulle strade vodesi e solettesi e ritardi e interruzioni nel traffico ferroviario. Il peggio doveva, poi, arrivare con la successiva nevicata del 10 dicembre che, in Ticino, ha avuto effetti senza precedenti. La stazione di Bellinzona chiusa, treni fermi ad Airolo. Neppure nel 1951, l’anno delle storiche valanghe, si era visto qualcosa di simile, come ricordava, allibito, un anziano airolese. Mentre le spiegazioni dei portavoce delle FFS non facevano che accrescere lo sconcerto: colpa dei treni dell’ultima generazione, troppo leggeri. Consapevoli della loro incompetenza tecnologica, i cittadini devono arrendersi, rifugiandosi nel rimpianto: un rischio che va di moda. Per dirla con

Zygmunt Bauman, illustre sociologo recentemente scomparso, «la nostalgia è un sentimento di perdita e spaesamento, ma anche una storia d’amore con la propria fantasia». Ora, perdita e spaesamento sono sentimenti nuovi proprio per gli Svizzeri, abituati a godere i vantaggi di una quotidianità al riparo da disordini, inadempienze, trascuratezze. Insomma, treni puntuali, rifiuti sgomberati, invii postali recapitati, strutture pubbliche ben tenute, scuole e ospedali ben funzionanti. Ovvietà, se si vuole, ma da cui il paese traeva un giustificato orgoglio, da sfoggiare sul piano internazionale. Erano, non da ultimo, un indizio di rispetto nei confronti dei cittadini, abituati, forse viziati dal perfezionismo elvetico. Oggi, francamente, in pericolo. E, per tutti quanti, una lezione di umiltà.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi L’economia del dono Cara Silvia, seguo da sempre la sua «stanza» perché mi aiuta a scoprire i misteri dell’animo femminile. Ho ormai una certa età e per tutta la vita, in qualità di insegnante prima e dirigente scolastico poi, ho avuto a che fare con maestre, mamme e bambini. Sposato due volte, sono circondato da mogli (una ex ma ancora presente nella mia vita), figlie, nuore, consuocere e nipoti. Ed è in occasione del Natale che mi rendo conto di quanto siano difficili i rapporti umani anche quando sembrano regnare la pace e l’armonia. Complicazioni particolarmente sottili e insidiose emergono in particolare nel fare regali alle donne. Capita che anche la più matura e intelligente reagisca indispettita e risentita a un dono o a un gesto affettuosi fatti in buona fede. Messo in difficoltà, le chiedo: è un modo per evitare un sentimento di riconoscenza o un’occasione per affermare la propria libertà? / Antonio

Caro Antonio, grazie per l’attenzione con cui segue questo spazio di dialogo e complimenti per la sensibilità con la quale si interroga sulla complessità del fare un regalo, un gesto ritenuto a torto sempre e comunque positivo. L’economia del dono, studiata a fondo dagli antropologi, come potrà confermare Cesare Poppi, uno dei più autorevoli esponenti della disciplina, smentisce in proposito ogni semplificazione. Il dono infatti si colloca al centro della relazione tra l’io e l’altro e, come tale, intende esprimere atteggiamenti positivi tra chi dona e chi riceve. Ma, come insegna la psicoanalisi, i nostri sentimenti sono sempre ambivalenti e ogni affetto, anche il più luminoso, reca con sé l’ombra del suo contrario. Tra chi dà e chi riceve scatta un implicito confronto dove è difficile calcolare, per dirla con Shakespeare, «misura per misura». Entrambi temono di essere sottovalutati, di non essere considerati come vorrebbero, di fare brutta figura.

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Perfezionismo elvetico: addio? Schadenfreude. È la prima, e intraducibile, parola che viene spontanea leggendo l’articolo, pubblicato sul suo Blog, da Januaria Piromallo, giornalista del «Fatto quotidiano»: dove racconta le sue peripezie di automobilista, bloccata per sette ore, sull’autostrada Aigle-Martigny-Losanna, l’11 dicembre. Semplicemente, per via di un po’ di neve che «ha mandato in tilt il paese più organizzato del mondo». E, poi, giustamente, dalla cronaca di un incidente si passa alla denuncia del mancato intervento dei soccorsi, in termini che vorrebbero essere ironici: «Cucù, dov’era il ministro delle infrastrutture? A godersi il weekend davanti a un caminetto scoppiettante?». Ma, adesso, il tono s’incupisce, diventa da tregenda: «Siamo carne umana chiusa nell’abitacolo della nostra auto. Ma chissenefrega». E così il discorso si

allarga, anzi sbanda. Diventa il pretesto per vuotare il sacco nei confronti di un paese detestato e detestabile. Dove ci si crede «infallibili», dove «l’osservanza maniacale delle norme a oltranza rientra nella loro visione del mondo», «dove vige una precisione da cronometro: il tempo non va sprecato, ma regolato pedissequamente», ecc. Dopo quattro ore, Januaria ha un’urgenza. Chiede di usufruire del WC del camper dei suoi vicini, una coppia di pensionati svizzeri. «Ho le mani ghiacciate, e la signora Eva me le riscalda: un gesto di umanità solidale che solitamente non appartiene allo svizzero». Al termine di questa giornata di sofferenze, la giornalista riceve, però, un sms confortante. Ha appena pubblicato un libro che, come le comunicano, a Roma, sta avendo successo. S’intitola Te la do io la Svizzera. Heidi


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Attualità Migros

M La Storia attraverso le immagini

Premio Migros Ticino 2017 Il riconoscimento alla ricerca è andato a Irene Quadri, autrice dell’opera inedita

intitolata Tra gli intonaci medievali di un’altra Lombardia Martedì 12 dicembre scorso si è tenuta alla Biblioteca cantonale di Lugano la cerimonia di assegnazione del Premio Migros Ticino 2017 per ricerche di storia locale e regionale della Svizzera italiana. Il premio è stato consegnato alla studiosa da Francesca Lepori Colombo, vicepresidente del Consiglio di amministrazione di Migros Ticino e Carlo Agliati, Presidente della Commissione del Premio Migros Ticino. Erano presenti per l’occasione anche Carlo Bertelli, storico dell’arte, professore emerito dell’Università di Losanna e Serena Romano, storica dell’arte, professoressa dell’Università di Losanna e relatrice del lavoro. Il saggio di Irene Quadri è stato infatti presentato nel 2016 quale lavoro di dottorato all’Università di Losanna. Nella stessa occasione è stata assegnata inoltre una menzione onorevole allo storico Manolo Pellegrini per la ricerca inedita intitolata L’azione dell’élite politica della Svizzera sud alpina nell’epoca dell’Elvetica e della Mediazione (1798-1814), anch’essa frutto di una tesi di dottorato discussa all’Università di Losanna quest’anno.

Intervista a Irene Quadri Dottoressa Quadri, dove nasce il suo interesse per un momento così particolare della storia dell’arte ticinese?

Il suo lavoro di dottorato diventerà un libro. (S. Spinelli)

La cerimonia, moderata da Stefano Vassere, direttore della Biblioteca cantonale di Lugano, ha permesso al pubblico di conoscere un lavoro di ricerca interessante e affascinante che permette di riscoprire alcuni capolavori della storia dell’arte del nostro cantone e di metterli nel contesto di un movimento artistico più ampio che ha interessato la cultura di quel periodo.

Carlo Agliati, Irene Quadri e Francesca Lepori Colombo. (S. Spinelli)

Nasce dall’incontro tra la mia passione per l’arte medievale, in particolare quella per i secoli XI e XIII, accesasi al primo anno di Università grazie all’incontro con insegnanti straordinari che mi hanno spalancato le porte di un mondo, e un desiderio in qualche modo autobiografico, dettato dalla voglia di approfondire la conoscenza della storia del territorio nel quale sono nata e cresciuta. Per il periodo in questione, infatti, il repertorio pittorico ticinese offre una grande ricchezza e varietà di materiali che, però, nel loro insieme sono stati poco considerati dalla storiografia artistica, soprattutto da quella recente: si tratta, quindi, di un interesse spontaneo che si è manifestato in maniera del tutto naturale. Uno dei capitoli del suo libro ha un titolo molto significativo: «Una periferia centrale». Può spiegarci il senso di questo apparente paradosso?

All’epoca medievale le terre che compongono l’attuale Canton Ticino costituivano la propaggine estrema delle vaste circoscrizioni delle diocesi e delle città di Como e Milano: la loro distanza da questi due centri le poneva quindi in posizione periferica, per lungo tempo considerata causa di arretratezza culturale. Ma tale condizione di confine era in parte compensata dalla loro collocazione a ridosso delle Alpi che ne faceva un «corridoio» attraversato da alcune

importanti vie di comunicazione che collegavano il Nord al Sud delle Alpi, molto ambito dalle diverse forze politiche che hanno segnato la storia della regione di questi secoli; per le strade con le persone circolavano idee, opere e oggetti. L’apparente paradosso vuole quindi mettere in evidenza come la configurazione politica e territoriale non basti a rendere conto del ruolo avuto dall’odierno Canton Ticino nella storia dell’epoca: altri parametri per così dire congeniti – le Alpi – hanno avuto un impatto determinante e sono essenziali alla comprensione della sua geografia artistica e dei meccanismi che l’hanno informata. Nel suo libro quindi il Ticino di quel periodo viene visto come regione aperta sul mondo, che intrattiene relazioni anche con zone lontane dell’Europa. È una sorpresa?

No, non è una sorpresa. È un dato che possiamo dire assodato, emerso anche dagli studi precedenti che però, per la maggior parte, si sono concentrati sullo studio di singoli episodi. Sulla stregua di quanto già fatto da Virgilio Gilardoni nel suo Il Romanico, l’obiettivo della mia ricerca è stato quello di inserire la produzione pittorica dell’intero territorio ticinese all’interno della cultura artistica dell’epoca, aggiornando la bibliografia, gli strumenti e il metodo di lavoro. Ciò ha permesso di costruire una visione d’insieme inedita che ha non solo confermato, ma reso ancora più limpido ed evidente il legame di certe testimonianze ticinesi con l’arte di regioni anche distanti. D’altronde, per la sua posizione di crocevia tra il

Nord e il Sud delle Alpi, la Lombardia medievale ha spesso giocato un ruolo di catalizzatore artistico. Il suo lavoro che è andato ad indagare testimonianze frammentarie, nascoste, di dimensioni anche minute. È la prima volta che si studiano in modo così sistematico?

No, l’arte medievale ticinese è stata oggetto di analisi di pochi, ma fondamentali studiosi tra i quali meritano una menzione particolare il padre della storia dell’arte svizzera, Johann Rudolf Rahn e, di nuovo, Virgilio Gilardoni. Abbiamo a che fare, però, con opere ormai datate che non contemplano le numerose acquisizioni e scoperte degli ultimi 50 anni: la loro integrazione nel discorso storico-artistico ha permesso di acquisire nuovi e importanti dati e di allargare la conoscenza dell’orizzonte artistico ticinese e quindi anche di quello lombardo, fornendo così una visione d’insieme sostanzialmente rinnovata.

Una curiosità: leggendo i ringraziamenti che aprono il suo libro pare di capire che lei abbia coinvolto nella ricerca anche i suoi famigliari… è una passione di famiglia quella dell’arte antica?

L’arte è sicuramente una passione di famiglia e fin da piccola ho avuto la fortuna di potermi avvicinare a questo universo che mi ha a poco a poco riempito gli occhi. L’interesse per l’arte medievale, quella cosiddetta romanica in particolare, l’ho ereditata dalla mia mamma con la quale ho visitato tanti dei monumenti ticinesi e lombardi che compongono il mio lavoro. / Red.

Due modi di sconfiggere la solitudine Azione di Natale 2017 Pro Senectute e Soccorso d’inverno sono tra le associazioni

a cui saranno destinati i fondi raccolti da Migros La campagna di Natale proposta da Migros nel 2017 ha come obiettivo quello di sostenere le organizzazioni che si occupano di rendere meno grave il problema della solitudine sociale e dell’isolamento delle persone. Per fare questo, Migros si è proposta di coinvolgere i propri clienti in una raccolta fondi che passa attraverso la vendita di cioccolatini colorati a forma di cuore. I proventi della vendita

sono destinati a cinque sodalizi nazionali attivi su vari versanti nella lotta alla povertà e al disagio sociale. Una delle fasce sociali più a rischio in questo contesto è quella degli anziani. Soprattutto in presenza di patologie concomitanti che costringono le persone in casa, è difficile per molte di loro poter mantenere il contatto con la propria cerchia di conoscenze. Per

Come contribuire Alle casse dei supermercati Migros sono presenti degli espositori che contengono cuori di cioccolata confezionati in carta stagnola colorata. Acquistandoli sosterrete l’azione natalizia di Migros. La cifra sarà immediatamente riversata nel fondo di solidarietà. Alla fine dell’azione Migros aggiungerà alla cifra raccolta un milione di

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

franchi. Il ricavato complessivo sarà suddiviso in parti uguali tra Caritas, Heks – Aiuto alle chiese protestanti, Pro Juventute, Pro Senectute e Soccorso d’inverno. Le cinque organizzazioni lo impiegheranno per progetti d’intervento in Svizzera. Altre informazioni di dettaglio sull’azione sono pubblicate nel sito web www.migros.ch/natale Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

tale motivo Pro Senectute ha messo in cantiere, tra le sue attività di sostegno agli anziani, un programma di accompagnamento in cui affida a volontari il contatto sociale con i propri coetanei. In vari momenti della settimana le persone costrette tra le mura domestiche dai loro problemi fisici sono visitate da altri pensionati con un maggior grado di autonomia e sono coinvolte in attività di vario tipo. Uscite al bar, passeggiate, compiute con regolarità settimana dopo settimana, contribuiscono a rompere la routine e il distacco e costituiscono momenti importanti nel corso della vita quotidiana. Oltre a Pro Senectute anche il Soccorso d’inverno si è attivato per creare attività specifiche e ridurre la solitudine delle persone, ricreando nuovi contatti umani. Nel suo caso il sodalizio ha deciso di investire una parte delle proprie risorse per organizzare delle feste di fine anno a cui possano partecipare famiglie e singoli che vivono situazioni di difficoltà e di solitudine. L’organizzaEditore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Una bella festa inizia dai bei pacchetti. (MM)

zione è molto ben strutturata e prende a carico sia gli aspetti logistici e di decorazione degli ambienti, sia quello più relazionale legato alla preparazione e decorazione di doni per tutte le persone invitate. L’obiettivo di creare delle feste

di fine d’anno, calde per accoglienza e partecipazione, contribuisce a diminuire il senso dell’isolamento delle persone in difficoltà e fornisce anche un patrimonio di bei ricordi a cui si può far ricorso nei momenti difficili dell’anno.

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Ambiente e Benessere Una terra per draghi Visita alla penisola greca del Mani, nel Peloponneso, dove il tempo sembra si sia fermato pagina 17

Una proposta Hotelplan Voglia di primavera? All’orizzonte si profila una straordinaria crociera sul Mediterraneo, un viaggio tra natura e cultura

Il Natale di Allan Il nostro gastronomo di fiducia ci svela i segreti della sua tavola per le Feste

Cuccioli come bimbi L’umanizzazione degli animali da compagnia raggiunge a volte livelli che paiono eccessivi

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Rappresentazione artistica dello scontro tra stelle di neutroni. (NASA/Swift/ Dana Berry)

Se le stelle di neutroni si scontrano Notizie dallo spazio – 1. parte Il 2017 sarà ricordato come un anno in cui inattesi eventi astronomici

hanno permesso di comprendere meglio alcuni fenomeni dello spazio Simone Balmelli Lo si diceva già da tempo: la possibilità di misurare le onde gravitazionali avrebbe segnato l’inizio di una nuova era per l’astronomia. A due anni di distanza dalla prima conferma sperimentale, il potenziale scientifico dell’astronomia gravitazionale appare più imponente che mai. Finora, ben quattro misurazioni di onde gravitazionali (l’ultima delle quali compiuta anche dal rilevatore europeo Virgo, costruito nei pressi di Pisa) hanno permesso di identificare uno scontro tra due buchi neri all’origine di ogni segnale, e sono valse il premio Nobel per la fisica di quest’anno a Kip Thorne, Rainer Weiss e Barry Barish, personalità che giocarono a loro tempo un ruolo decisivo per il successo dell’esperimento. Come discusso in un precedente articolo [«Azione» del 25 luglio 2016], si è trattato di un balzo in avanti formidabile: i buchi neri, fino a quel momento osservabili solo in modo indiretto, sono infine entrati a pieno titolo nel panorama astronomico. Ma la storia delle onde gravitazionali ha un secondo protagonista, altrettanto importante: la stella di neutroni. Furono infatti i sistemi binari di stelle di

neutroni ad essere ipotizzati, ancor prima dei buchi neri, come potenziali sorgenti di onde gravitazionali, e fu sempre una binaria di questo tipo, scoperta da Hulse e Taylor negli anni 70, a fornire la prima evidenza indiretta dell’esistenza di onde gravitazionali [si veda anche «Azione» del 27 giugno 2016]. Si tratta di oggetti estremamente densi, ultimi residui di una stella di grandi dimensioni che ha ormai esaurito tutto il suo combustibile nucleare, e la cui materia è di fatto ridotta a neutroni schiacciati l’uno contro l’altro per far fronte all’enorme attrazione gravitazionale. La struttura di una stella di neutroni è governata dalle leggi della fisica nucleare, quasi come se si trattasse di un unico, enorme nucleo atomico, poco più pesante del Sole e del diametro di una ventina di chilometri. Ma, anche a causa dell’impossibilità di riprodurre queste condizioni estreme in laboratorio, i modelli teorici finora a disposizione sono ancora soggetti a grande incertezza. Come detto, già da molti anni si teorizza che uno scontro tra due stelle di neutroni possa emettere onde gravitazionali, in modo simile a quello che succede nel caso di due buchi neri. Due stelle di neutroni che si trovino abbastanza vicine da cadere sotto l’influsso

gravitazionale reciproco comincerebbero a ruotare l’una attorno all’altra, emettendo onde gravitazionali e muovendosi lungo cerchi sempre più stretti fino all’inevitabile collisione. Il risultato finale sarà la fusione dei due oggetti in un’unica stella di neutroni, o addirittura in un buco nero. Ma se nel caso di uno scontro di due buchi neri non viene emessa luce, dal momento che la loro superficie è una barriera da cui nulla può uscire, ci si aspetta che una collisione tra due stelle di neutroni sia al contrario molto luminosa, e dunque osservabile anche con altri strumenti. E questo le rende, in un certo senso, degli oggetti ancora più interessanti. A questo punto dobbiamo aprire una parentesi, perché stiamo affrontando un concetto complesso, e accennare ai cosiddetti lampi gamma (in inglese gamma-ray bursts). Si tratta di intensi flash di raggi gamma scoperti per caso negli anni 60 da satelliti statunitensi che erano stati messi in orbita con lo scopo di monitorare le radiazioni gamma dovuti all’attività nucleare sovietica. Vennero infatti misurati alcuni segnali che non sembravano corrispondere a nessun test atomico, e in seguito, grazie all’uso combinato di più satelliti, si poté

stabilire che la provenienza di questi segnali non era terrestre. Da allora, capire quale fosse l’origine dei lampi gamma è rimasta una delle domande irrisolte dell’astrofisica. Negli anni 90 si osservò che i lampi gamma possono provenire da ogni direzione, senza alcuna preferenza per le regioni del cielo dove è collocato il disco della nostra galassia. Questo significava che la loro origine fosse da ricercare in altre galassie, ponendo però un nuovo problema. Per essere degli eventi così lontani da noi, erano incredibilmente luminosi. Era difficile immaginare un meccanismo in grado di emettere quantità di energia tanto grandi in così poco tempo. Col passare degli anni si è capito che i lampi gamma sono in realtà dei fasci emessi in una direzione ben precisa, dunque estremamente concentrati, il che permetteva di spiegare un po’ meglio la loro intensità. Sarebbero stati osservati solo nel caso in cui questo fascio fosse orientato in direzione della Terra. Di recente si è cominciato a sospettare che i più brevi fra i lampi gamma (della durata massima di pochi secondi) siano dovuti proprio a uno scontro tra stelle di neutroni. Inoltre, nel 2010, un modello teorico portò all’ipotesi che una collisione di stelle di neutroni avrebbe causato anche

un altro tipo di fenomeno luminoso, che è stato definito una «kilonova»: più debole di una supernova e della durata di qualche giorno soltanto, nel cielo apparirebbe come una stella luminosa quanto una piccola galassia. Il motivo di tutta questa luce è da ricercare nel decadimento di atomi radioattivi formati al momento dello scontro, come se un’immensa bomba atomica a fissione venisse creata e poi fatta immediatamente esplodere. Nel 2013 fu osservato un evento che corrispondeva alla descrizione, ma non c’era modo di collegare la sua origine alle stelle di neutroni. Onde gravitazionali, lampi gamma, kilonove: una serie di fenomeni che si sospettava dunque fossero in stretta relazione, ma il tutto restava niente di più di un’ipotesi. Non si era mai riusciti a osservare con un telescopio ottico un evento luminoso che facesse seguito a un lampo gamma corto, e nemmeno si era osservata un’onda gravitazionale dovuta allo scontro tra due stelle di neutroni. Fino allo scorso 17 agosto. Una successione inaspettata di eventi ha scandito i tempi di quel giorno memorabile per l’astronomia, dando alla ricerca scientifica una trama quasi drammatica. Ne parleremo nella seconda parte di questo articolo.


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Ambiente e Benessere

La terra dei draghi

Viaggiatori d’Occidente Nel Peloponneso sulle tracce di Patrick Leigh Fermor

Natalino Russo, testo e foto «Un luogo morto, astrale, un habitat da draghi. L’abominio della desolazione». Così nel 1958 Patrick Leigh Fermor descriveva la penisola del Mani, nel sud della Grecia. I tre promontori del Peloponneso sono come dita allungate nel mare e Mani è quello centrale. Patrick Leigh Fermor è uno dei più autorevoli viaggiatori e scrittori di viaggio inglesi; la sua penna è colta, puntuale, esaustiva, talvolta strabordante di informazioni e curiosità. Durante la Seconda guerra mondiale Fermor aveva combattuto in Grecia e partecipato a operazioni importanti, a cominciare dalla cattura del generale tedesco Heinrich Kreipe a Creta. In Grecia Fermor tornò più e più volte. Se ne innamorò al punto da trasferirsi proprio nel Mani, dove rimase per tutta la vita. Si costruì una casa a Kardamili, poco distante dal Taigeto, l’affilato massiccio montuoso che da Sparta si protende nel mare, verso sud, fino al punto in cui l’Egeo diventa Jonio. Qui c’è il capo Tenaro o Matapan, estrema propaggine del Mani, l’ingresso all’Ade della mitologia classica. Un magnifico sentiero tocca le rovine di una villa romana e si inoltra sulla cresta calcarea e brulla del promontorio, in un orizzonte di vento e solitudine, fino al solitario faro. Verso ovest si scorge la penisola messenica dove si trovano le storiche cittadelle

fortificate di Koroni e Methoni, gli «occhi» della Serenissima: appartennero a Venezia e sorvegliarono i traffici in questo importante braccio di mare. A est si spalanca il golfo di Laconia, che lascia a malapena scorgere la penisola di Capo Malea. Di fronte, verso sud, soltanto la linea dritta dell’orizzonte. Capo Matapan è il punto più meridionale dell’Europa continentale. Ma è nell’entroterra che ancora oggi si ritrova l’atmosfera descritta da Fermor nel suo libro Mani. Viaggi nel Peloponneso (Adelphi). Qui il paesaggio è aspro, le montagne calcaree si alzano dal mare in versanti ripidi e inaccessibili, disseccati, con cupi valloni che diventano veri e propri canyon. Qualche rara mulattiera si inerpica verso l’alto. È tutto ciò che resta delle vie di comunicazione tra gli antichi villaggi manioti, quegli stessi villaggi che Fermor descrive nel resoconto del suo viaggio a piedi tra le montagne. A motivare lo scrittore furono i racconti fantastici ascoltati in giro per la Grecia: storie ombrose, che parlavano di un popolo ostile e bellicoso, dedito a usanze barbare e avvezzo ai crimini più immondi. Incuriosito Fermor si procurò una guida e si mise in viaggio. Partito da Sparta, attraversò la medievale Mistrà e si arrampicò sul ripido sentiero verso le creste del Taigeto. Nel villaggio di Anavriti capì di essere davvero in una dimensione a parte, un mondo difficile da penetrare ma pro-

prio per questo affascinante. Attraversò il Mani cosiddetto esterno o Exo Mani, storicamente parte della Messenia, e quello interno o Mesa Mani, parte della Laconia. Si fermò in centri grandi come Kardamili e Areopoli, ma anche in villaggi minuscoli come Galtes e Kambos, veri e propri grappoli di case e torri in pietra. Di questi luoghi Fermor annotò ogni dettaglio, riempì quaderni di appunti con dialoghi e incontri, magnifiche descrizioni di paesaggi, aspetti anche minimi di una cultura tramandata per secoli sino alle soglie della modernità. Raccolse molte storie di faide spietate tra clan capeggiati da briganti e pirati; descrisse i riti delle mirologistrias, donne esperte in mirologia, cioè le lamentazioni e i canti funebri tipici di questa terra rimasta isolata a lungo. Questo angolo di Grecia è una fortezza naturale di impenetrabili montagne, il Taigeto raggiunge i 2400 metri di quota. Non a caso vi ripararono generazioni di fuggiaschi, spesso nobili decaduti che costruirono palazzetti fortificati e centinaia di torri. Il cristianesimo vi approdò soltanto nel IX secolo. Oggi una strada tortuosa fa il giro della penisola: dalla città di Kalamata, nella parte messenica appartenente al comune di Dytiki Mani, si addentra nella parte laconica, cioè nella penisola vera e propria, interamente parte del comune di Anatoliki Mani; passa per Areopoli e prosegue giù fino al faro, per

poi tornare verso nord fino a Gytheio. Lungo il percorso non si rischia più di imbattersi in una faida tra villaggi, ma a tratti si ha l’impressione che il tempo si sia fermato. Molti villaggi sono abbandonati. Alcuni gruppi di case turrite sono in via di recupero e forse

diventeranno alloggi per turisti; il resto sta lentamente crollando. Il viaggiatore si ritrova a passeggiare tra case dirute e torri sbilenche, chiesette ormai prive di copertura, minuscole piazze in cui riecheggia la vita che vi passò, e quella di chi la vide passare.


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Ambiente e Benessere

Profumi di Mediterraneo

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Vi proponiamo un itinerario ricco di stimoli che vi darà modo di concedervi dei bagni di sole primaverili lungo le coste del Mediterraneo, toccando mete affermate di grande interesse culturale, storico e artistico. Viaggiare molto spesso vuol dire

coniugare il relax con la conoscenza di nuove culture. Questa crociera è l’ideale per chi vuole riposarsi senza rinunciare alla scoperta delle bellezze del passato. Visiterete Atene, una delle città più ricche di storia al mondo, importantissima per il suo patrimonio di arte

Il programma di viaggio 1 giorno – Venezia imbarco ore 17.00 2 giorno – Bari 14.00 – 20.00 3 giorno – Corfù 09.00 – 14.00 4 giorno – Santorini 12.00 – 19.00

5 giorno – Atene 07.30 – 14.00 6 giorno – Dubrovnik 08.00 – 13.00 7 giorno – Navigazione 8 giorno – Venezia sbarco ore 09.00

e cultura; Dubrovnik nota per le sue bellezze artistiche ed architettoniche e infine Santorini e Corfù, due isole affascinanti, vere perle del Mediterraneo. Un viaggio che vi conquisterà e regalerà momenti indimenticabili.

sche idromassaggio, centro benessere. Momenti di svago: la sera spettacoli presso il teatro e musica nelle varie sale. Casinò e discoteca. Di giorno sono previste varie attività per adulti e bambini.

Discipline sportive e benessere: pista di jogging, campo polisportivo. La Spa Wellness Samsara di 3500 mq su due piani, con palestra, piscina per talassoterapia, sale trattamenti, sauna, bagno turco e solarium UVA.

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Equipaggiamento: le cabine spaziose dispongono di bagno o doccia/WC, climatizzazione, TV, telefono, minibar, cassaforte, asciugacapelli, servizio in cabina 24h/24. La nave offre 4 ristoranti (di cui 2 a pagamento su prenotazione), 11 bar, di cui un Cigar Bar e un Coffee & Chocolate Bar, 3 piscine (una con copertura semovente), 4 va-

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Viale Stazione 8a 6500 – Bellinzona T +41 91 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch

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alle attività di animazione a bordo, tasse portuali. La quota non comprende Spese di dossier Hotelplan CHF 70.–, quote di servizio obbligatorie da pagare a bordo (€ 10 per persona al giorno); bevande ai bar e ai pasti; escursioni ed i tour organizzati; assicurazione annullamento CHF 91.– per persona, adeguamento carburante e valutario e ogni extra non menzionato nella voce «la quota comprende». Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

Bacco nel secolo della Rivoluzione

Il vino nella storia Il 1700 fu pieno di avvenimenti per la viticoltura francese e per la popolazione parigina

Davide Comoli I Francesi avevano passato il primo giorno dell’anno 1709 con una temperatura così calda da far pensare che l’inverno fosse finito: così scrivono le cronache dell’epoca. Dalla notte di sabato 5 alla domenica 6 gennaio, il vento proveniente da nord si mise a soffiare in modo violento e il terreno gelò in meno di un’ora. L’ondata di freddo che si era abbattuta sull’Europa, proveniente dalla Siberia era incominciata. Il 13 gennaio a Parigi, la temperatura era scesa a –20° e il freddo durò due settimane. Tutti i fiumi gelarono e a Dunkerque il mare era completamente ghiacciato sino a 500 metri dalla riva. Si dice che in quell’anno sino alla fine d’aprile si poteva, camminando sul ghiaccio, passare a piedi dalla Danimarca alla Svezia. A gennaio, per fortuna cadde anche molta neve che ricoprì con la sua coltre i campi di grano. Le viti, quindi, tutto sommato, furono protette da questo primo assalto. Per contro, gli alberi delle foreste scoppiavano con un rumore di fucilate sotto l’azione del gelo, gli uccelli s’abbattevano morti al suolo e nei campi un po’ dappertutto si trovano carcasse di conigli selvatici congelati nelle loro tane. Dopo il 24 gennaio seguì una settimana di disgelo, ma l’acqua della neve che si scioglieva inondò le campagne, visto che il suolo gelato in profondità non poteva assorbire l’acqua.

Il 3 febbraio, il gelo riportò le temperature molto in basso, circa una settimana, per poi riportarle a temperature primaverili sino al 23 febbraio, quando si ridiscese fino al 15 marzo con temperature a –18°. L’abate Brugeles, nelle sue Chroniques de l’église d’Auch scrive: «Vedevano il vino sgorgare fuori dalle botti attraverso le doghe ricoperte di ghiaccio». Molto vino andò perduto e l’ondata di gelo provocò in Francia una grave penuria del nettare di Bacco. Il prezzo del vino aumentò di molto e spinse i viticoltori a ripiantare un po’ di tutto ciò che si poteva trovare, visto che la mancanza di vino era forte e la domanda era in continuo aumento. Anche la popolazione francese era in continuo aumento. I luoghi ove si vendeva vino si moltiplicavano. Dal punto di vista della qualità i consumatori erano poco esigenti, mentre lo erano a proposito dei prezzi. Come il pane, anche il vino era un fattore di pace sociale e le fluttuazioni di questi due beni di consumo accrescevano l’irritazione di coloro che abitavano nelle città, lontani quindi dalle fonti d’approvvigionamento. Nel giro di un decennio la superficie del vigneto francese era aumentata e la produzione sempre più crescente veniva assorbita senza grande difficoltà, mantenendo i prezzi stabili fino al 1766. Un «muid» (268 litri) s’aggirava intorno alle 38 lire parigine. Ma la crescita della produzione e l’aumento della superficie viticola preoccupava il governo che con

La Guinguette, ancora di moda all’epoca di Vincent van Gogh. (Wikimedia)

diversi decreti cercò d’impedire l’abnorme sviluppo del settore. Il 1780 dimostrò che le preoccupazioni manifestate dallo Stato erano fondate, la produzione superò il consumo e i prezzi crollarono fin sotto le 15 lire parigine. Il crollo del prezzo del vino, fu uno degli elementi che portarono all’impoverimento delle campagne e all’irritazione dei contadini. A quel tempo il prezzo del vino

era regolato da una severa imposizione fiscale. A Parigi, all’imposta sul consumo s’aggiungeva pure un’imposta di dogana, da pagare su tutto il vino che superava le mura della città. Alla vigilia della Rivoluzione, un «muid» di vino, che a causa del crollo dei prezzi costava 30 lire fuori dalle mura, triplicava il suo prezzo entrando nella cinta muraria della città. Per non pagare il diritto di tassa, furono aperti fuori dalle mura dei lo-

cali di mescita chiamati: «guinguettes» dal nome di un vinello chiamato «Guinguet». Inutile dire che i parigini uscivano a frotte a bere considerevoli boccali di questo vino a prezzi molto inferiori dello stesso bevuto in città. Le elevate tasse e le osterie fuori porta, crearono il fenomeno del contrabbando di vino, il quale preoccupò i «Fermiers Généraux» che nel 1784 idearono il progetto, subito iniziato, delle costruzione di una cinta muraria con porte facilmente controllabili. Tra i promotori di questo progetto, ci fu Antoine Lavoisier, il fondatore della chimica moderna, colui che per primo dimostrò che i componenti dell’etanolo sono carbonio, idrogeno e ossigeno, aprendo così la strada allo studio della fermentazione alcolica. Il progetto del muro colpì profondamente le classi popolari con nuove tasse. Con il proseguimento dei lavori del muro, scoppiarono molti disordini che culminarono con la presa della Bastiglia e il 19 febbraio 1791 l’Assemblea Nazionale, abolì tutti i diritti di dogana. Convogli di carri carichi di barili entrarono a Parigi con il vino venduto a 3 soldi la pinta. Nel 1794 Antoine Lavoisier moriva sulla ghigliottina, condannato alla pena capitale come nemico e affamatore del popolo, mentre la folla festante cantava una ballata popolare che diceva: «Bravi francesi consoliamoci / al giusto prezzo ora berremo / e su tigri e lupi, noi vinceremo». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Ambiente e Benessere

Il Natale a casa Bay

Gastronomia E cco cosa proporrà ai suoi ospiti sulla tavola delle Feste il nostro amico Allan Allan Bay È Natale e bisogna celebrare la ricorrenza. Come tutti sanno, non esistono piatti super canonici condivisi: ogni famiglia ha le sue tradizioni e giustamente le ripropone, ma sono appunto famigliari, al massimo cittadine.

Sarà un menu ricco e un po’ magico, il cui piatto forte è un Plateau Royal, seguito da un timballo di Natale Nella mia famiglia, da sempre allargata a cari amici, proprio non esistono tradizioni. A lungo abbiamo, anzi ho, ché da tanti anni questo è il mio incarico, preparato piatti che piacevano a mio padre (mia madre è mancata tanto tempo fa): piatti semplici che lui amava. Oggi, che lui non c’è più, per i pochi parenti che ho (i più vivono in California) e per gli amici devoti, quelli ci sono sempre, preparo piatti ricchi ma eterodossi, visto che siamo tutti curiosi del buono. Non tanto, sia chiaro, il 24 a cena o il 25 a pranzo, quanto «in quei giorni», magari 2 prima o 2 dopo. Dovendo preparare un menù ricco e un po’ magico, quest’anno ho scelto di partire con un Plateau Royal, seguito da un ricco timballo di Natale e di secondo un pollo al tartufo, che trovate nel «Come si fa». Ecco le ricette. E Buon Natale a tutti! Trascrivo qui gli ingredienti del Plateau Royal, ricetta del ristorante San Martino di Treviglio. Lascio i termini un po’ in francese un po’ in italiano, suona meglio… Ostriche: speciales, fines de claires, speciales de claires, belon 000. Conchiglie: coques bianche (Cerastoderma edule, un bivalva), amandes (Glycymeris glycymeris, un bivalva), bulots o buccin (Buccinum undatum, un gasteropode), clams (Mercenaria mercenaria, vongole), pouce-pied o

percebes (in italiano pedunculata, Mitella pollicipes), couteau commun (cannolicchi, Ensis siliqua). Marinate di pesce: cernia, pesce sanpietro, salmone, ricciola. Marinati per poco tempo in olio extravergine di oliva leggero, succo di limone, sale, pepe e qualche fogliolina di erbe aromatiche di stagione. Accompagnamento da aceto di riso, da spruzzare sopra. Timballo alle lumache di Natale. Per 8 persone: pasta frolla, spaghettoni g 600, grana grattugiato g 100, mozzarella g 350, 2 uova sode, lumache cotte tritate g 250, olio per friggere, sale e pepe. Per il ragù: salsiccia tipo mantovana (ovvero quella che si può mangiare cruda) g 200, cipolla g 200, 1 spicchio d’aglio, concentrato di pomodoro g 200, vino rosso, burro g 50, sale e pepe Per il ragù. Mettete la salsiccia intera in un tegame antiaderente e unite la cipolla tagliata a dadini, l’aglio intero leggermente schiacciato e il burro. Coprite e cuocete a fuoco bassissimo. Quando le cipolle prendono colore, scoprite e mescolate spesso, aggiungendo poco a poco 1 bicchiere di vino e lasciandolo evaporare. Unite il concentrato stemperato in poca acqua e cuocete per 1 ora o poco più, mescolando e unendo poca acqua bollente se necessario. Regolate di sale e di pepe. Levate la salsiccia, tagliatela ad anelli e rimettetela nel sugo. Con la trita formate delle piccole polpettine, friggetele in olio per friggere e scolatele su carta assorbente da cucina. Tagliate a dadi la mozzarella e fatela scolare per 30’ in un colino. Sodate le uova e sgusciatele. Lessate la pasta e scolatela a metà cottura, versatela in una grossa ciotola e conditela col ragù e il grana, aggiungete la mozzarella, le uova sode tagliate a fette e le polpettine. Mescolate il tutto e versate in un tegame foderato di pasta frolla, coprite con un altro disco di pasta frolla. Infornate a 180° per circa 30’, fino a che la superficie sarà di un bel biondo carico.

CSF (come si fa)

Di secondo, quest’anno preparo un pollo con tartufo nero. La ricetta è di Daniel Facen, un bravissimo chef che lavora all’Anteprima di Chiuduno, in provincia di Bergamo. Quanto al pollo, deve essere buono buono, quindi di Bresse o qualche equivalente che in Italia si trova, ma oramai non facilmente. Facen poi utilizza nella farcitura del fegato grasso, io uso delle cosce di rana tritate, arricchite con pancetta,

se no sono troppo magre. Però si può farcire con qualsiasi tipo di carne, basta che sia abbastanza grassa. Vediamo come si fa il pollo alla Facen. È per 4, se siete in 8 raddoppiate. Ingredienti per 4 persone: 1 pollo di Bresse da 800 g, Cognac, aglio, scalogno, timo, sale e pepe. Per la farcia: cosce di rana disossate e tritate g 120, pancetta a dadini g 80, pane in cassetta g 200, tartufo nero g 40, timo, vino bianco secco. Per le patate, 4 patate medio grosse, uova, erba cipollina, sale e pepe. Pestate in un mortaio le cosce di rana e la pancetta, poi frullatele a lungo in un frullatore unendo poco vino sobbollito per 3’ e poi passatele al setaccio con il pane e il tartufo, aggiungete un trito di due rametti di timo. Farcite e legate il pollo. Rosolate in una padella mol-

to calda 1 spicchio d’aglio, 1 scalogno e del timo, aggiungete il pollo e fatelo rosolare, flambate con un bicchiere di Cognac caldo poi cuocetelo in forno a 170° per 50’, bagnandolo di tanto in tanto con il suo fondo di cottura. Per le patate lavate le patate, avvolgetele nella stagnola e cuocetele in forno a 180° per 1 ora. A cottura, fatele raffreddare, tagliate un lato e svuotatele. Il ripieno così ottenuto va condito con sale, pepe, erba cipollina tritata e tuorlo d’uovo. Riempite con un sac-àpoche le patate e riscaldatele in forno a 170° per 8’. Tagliate il pollo in 8 parti in maniera che ogni commensale abbia un pezzo di petto e uno di coscia. Decorate con una patata e servite. Per dolce, il canone famigliare: panettone con panna. Su questo non transigo.

Ballando coi gusti E se si volessero anche due antipasti, dato che nel giorni di festa è lecito eccedere? Ecco due proposte.

Capesante alla natalizia

Pomodori alle uova

Ingredienti per 4 persone: 4 capesante · 1 grosso scalogno · prezzemolo · burro · grissini allo strutto · sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: 4 pomodori maturi ma sodi · 4 uova · 4 cucchiai di

Raschiate e lavate le capesante, sbollentatele brevemente e apritele. Eliminate il sacchetto sabbioso e la parte piatta della conchiglia, estraete la parte bianca (noce) del mollusco e tritatela, lasciando intera la parte rossa (corallo). Pestate finissimamente circa 100 g di grissini. Tritate lo scalogno e il prezzemolo, poi lavorateli con una grossa noce di burro ammorbidito fino a ottenere una crema. Incorporatevi il trito, aggiustate di sale e pepe e distribuite la crema e i coralli nelle conchiglie. Disponete le capesante in una teglia, spolverizzatele con i grissini e fatele gratinare in forno a 200° per 5’. Servite subito.

grissini allo strutto pestati · 4 cucchiai di Gruyère grattugiato · timo · basilico · olio di oliva · sale e pepe.

Tagliate la calotta dei pomodori e togliete una parte della polpa e i semi. Salate leggermente i «gusci» ottenuti e poneteli capovolti su un piatto a perdere l’acqua di vegetazione. Pestate finissimamente circa 100 g di grissini. Mettete i pomodori in una pirofila foderata di carta da forno e cuoceteli per 6’ a 180°. Rompete in ogni pomodoro un uovo, poi coprite ognuno con un cucchiaio di grissini pestati e uno di Gruyère e rimettete in forno per 5’ circa. Tagliate a pezzetti la polpa dei pomodori e fatela saltare a fuoco vivace in poco olio; regolate di sale e pepe e insaporite con le erbe aromatiche tritate. Servite i pomodori accompagnati dalla salsa.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Ambiente e Benessere

Loro come noi?

Mondoanimale Dal regalo inopportuno all’umanizzazione: il nostro rapporto con gli animali esige equilibrio

Maria Grazia Buletti Gli animali sporcano. Fanno danni. Mangiano. Possono ammalarsi. Gli animali non si regalano. Non si regalano perché nessuno può essere certo che un regalo simile sarebbe davvero gradito. Non si regalano ai bambini, perché averli sentiti dire «come sono carini i cuccioli» non è condizione sufficiente perché li possa candidare a proprietari modello o per lo meno consapevoli. Gli animali non si regalano perché adottarne uno comporta spese e soprattutto una responsabilità che dura tutta la vita di quel particolare regalo «vivente». Eppure, malgrado le implicazioni di una simile scelta, in prossimità delle feste si intensificano gli acquisti di animali da regalare. «È bene prendere con sé un animale, o regalarlo per Natale, solo dopo essere certi dell’effettiva disponibilità ad accudirlo per tutta la vita, e magari andare a cercare qualche trovatello nei rifugi che ospitano quattro zampe ansiosi di trovare o ritrovare una famiglia», Emanuele Besomi ha raccolto dal padre il testimone di presidente della Società protezione animali di Bellinzona (Spab) e ribadisce un concetto che ogni anno bisogna ricordare. Malgrado queste puntuali raccomandazioni, tutti gli anni, dopo le festività, non si contano i casi di rifiuto o di rinuncia a tenere il cagnolino o il gattino donatogli, soprattutto da parte di chi lo ha ricevuto senza preavviso. Per contro, l’umanizzazione sempre più dilagante degli animali domestici rappresenta l’altro lato di questa stessa medaglia. «Lui mi dice quando vuole mangiare. Lui decide dove stare, se in cuccia o sul divano. Non posso sedermi sul divano perché lo occupa il mio cane. Il mio gatto mangia solo questo tipo di cibo. Non sono un etologo, ma è facile capire che queste affermazioni sono segnali del fatto che la persona sta proiettando se stessa nell’animale e nascondono una pericolosa sottomissione in cui l’alfa del gruppo cede il proprio posto al suo animale domestico», spiega Besomi che da un lato non nega la simpatia di certi aneddoti, ma non si esime di rendere attenti sui pericoli che comporta-

no questi atteggiamenti di umanizzazione dei nostri animali. Se cane e gatto sono i più colpiti dalle interpretazioni tutte umane del loro comportamento animale, non fanno eccezione gli animali esotici: «Parliamo ad esempio di pappagalli che le persone ospitano in gabbiette colorate, con giochini d’ogni genere (che appagano più l’umano che non il bisogno ludico del pappagallo stesso), tutto magari poco funzionale per l’animale in questione che potrebbe addirittura trovarsi in una situazione di disagio, ma assolutamente appaganti per il proprietario». Riconosciamo la grande esperienza accumulata dal presidente della Spab e per questo gli chiediamo quali sono le conseguenze che l’umanizzazione, magari involontaria, dei nostri animali domestici può provocare: «Un esempio concreto è quello di cani o gatti a cui si insegna a sporcare addirittura nel gabinetto di casa. Ora, se di primo acchito questo può sembrare qualcosa di positivo, pensiamo a quell’animale che quando uscirà fuori non saprà bene come comportarsi, mentre dovrebbe semplicemente alzare la zampetta come l’istinto della specie gli indica». I cani sono cani, i gatti sono gatti e via dicendo: «Dovremmo amarli per quello che sono: diversi da noi; e dovremmo riuscire a fare un passo indietro quando stiamo interpretando e attribuendo loro un’indole che appartiene solo a noi esseri umani». Un altro esempio portato da Besomi riguarda le unghie incarnate dei cani: «Non le consumano perché non possono scavare o andare a passeggio a sufficienza (e nel peggiore dei casi, per non farli sporcare, vengono tenuti in braccio e appoggiati sull’erba solo per i bisogni), o ancora i cani obesi perché non praticano sufficiente attività fisica, mentre dovrebbero poter correre e muoversi per scaricare la loro energia. Per non parlare del tagliare le unghie al gatto perché altrimenti gratterebbe il divano!». In sintesi, umanizzare un animale significa perdere di vista le sue necessità e le sue inclinazioni. Ma stare attenti a non interpretare l’animale con

Moda a quattro zampe. (instyle.com)

il nostro metro non significa affatto smettere di coccolarlo: «Anche i cani, per fare un esempio comune, si scambiano effusioni e affetto, ma lo fanno con il gergo proprio della loro specie. Sarebbe dunque opportuno imparare il loro linguaggio. Il riconoscimento, la carezza, fa piacere a tutti, ma non dobbiamo incappare nell’errore di pensare che tutto quanto fa piacere a noi debba per forza far piacere al nostro animale». Un esempio: «Durante il mio

lavoro di macchinista, una volta a Chiasso ho visto una signora che doveva prendere il treno ed era in difficoltà con un passeggino. Mi sono precipitato ad aiutarla, e con grande disappunto ho visto che dentro non c’era un bambino, ma parecchi gatti». Il nostro interlocutore elenca poi: «Cani nelle borsette o abbigliati con i vestitini della stessa marca della proprietaria, unghie pitturate (manco a dirlo) come la loro umana, persone che non lasciano camminare il pro-

prio cagnolino perché si sporcherebbe le zampette: situazioni assurde che fanno ben comprendere come questi proprietari non abbiano capito con chi hanno a che fare». Parlando dell’antropomorfizzazione come il «maltrattamento del 2000», Besomi invita a riflettere sulla dignità dell’animale che in questo modo non viene rispettata. A noi preme un ultimo quesito, ammettiamo un po’ retorico: un gatto dovrebbe fare vita da gatto o essere portato a spasso nel passeggino?

L’algoritmo che ti dà un passaggio Motori Volkswagen sta finanziando una start-up dedicata alla mobilità alternativa, che studia nuove forme

di trasporto condiviso su veicoli elettrici Mario Alberto Cucchi Come eliminare un milione di auto dalle strade? Dicembre 2017, Germania, Berlino. Qui, in occasione dell’evento dedicato alle startup TechCrunch – www.techrunch.com –, Volkswagen ha spiegato come fare; attraverso il Ride-pooling. Di cosa si tratta? Innanzitutto va detto che il Gruppo automobilistico tedesco ha creato circa dodici mesi fa una startup dedicata alla mobilità alternativa. Il nome di questa società è MOIA www.moia.io. Solo dopo un anno dalla nascita, MOIA, ha presentato in anteprima mondiale nella capitale tedesca la prima vettura al mondo pensata per il Ride-pooling: una specie di van a sei posti che si muove grazie ad un motore elettrico. Ma cos’è il Ride-pooling? Consiste nel condividere un veicolo con altri passeggeri. Insomma un evoluzione dell’autobus? Non proprio, dato che l’autobus percorre un tragitto prefissato mentre con il Ride-pooling è possibile utilizzando il proprio telefonino, attraverso una «app», prenotare e pagare

MOIA che mostra al potenziale cliente quali mezzi sono disponibili e quanto costerà il passaggio. Il tutto viene ottimizzato da un algoritmo che raggruppa i passeggeri con destinazioni simili in modo da evitare il più possibile le deviazioni ed ottimizzare i costi. Facciamo un po’ di chiarezza tra le varie modalità di mobilità intelligente oggi disponibili. Il Car-sharing preve-

de il noleggio a tempo di un mezzo di proprietà di terze parti. Poi c’è il Carpooling, che prevede un uso condiviso di veicoli privati tra due o più persone che devono percorrere uno stesso itinerario, il tutto senza finalità di lucro. Invece il Ride-sharing on demand prevede l’attività di trasporto di terzi da parte di un privato con un automobile di proprietà e con finalità di lucro.

L’obiettivo è ridurre il traffico nelle grandi città.

E infine c’è il Ride-pooling per il quale MOIA ha sviluppato integralmente una vettura elettrica a sei posti nella quale ogni passeggero può viaggiare nel massimo comfort. Gli interni sono stati disegnati con sedili singoli e ampio spazio per le gambe. Ogni posto si può raggiungere comodamente senza far alzare gli altri passeggeri. Le poltrone sono equipaggiate con luci da lettura regolabili e porte usb, inoltre su ogni mezzo è presente il WiFi. Per salire e scendere si utilizza una grande porta automatica, mentre i bagagli si possono riporre in uno spazio dedicato di fianco al conducente. «Il grado di comfort della vettura è parte fondamentale del servizio di alto livello. L’abbiamo sviluppata con processi di co-creazione, che hanno compreso molte sessioni con potenziali utenti di varie età che hanno testato le auto e dato il loro riscontro. Molte delle idee emerse da questo procedimento sono confluite direttamente nello sviluppo della vettura. Stiamo lavorando anche ad altre versioni future», ha affermato Robert Henrich, COO di MOIA. Il progetto di Ride-pooling par-

tirà sulle strade di Amburgo nel 2018. «Abbiamo cominciato un anno fa al TechCrunch di Londra con il progetto di allearci con le città per migliorare l’efficienza sulle loro strade. Vogliamo creare una soluzione per i classici problemi di trasporto che le metropoli affrontano, come il traffico, l’inquinamento atmosferico e acustico e la mancanza di spazio, e allo stesso tempo aiutarle a raggiungere i loro obiettivi di sostenibilità. In poco tempo abbiamo messo le basi per aggiungere una nuova componente di mobilità. Nel 2018 saremo pronti per lanciare il nostro concept di Ride-pooling a livello internazionale e per fare i primi passi verso il nostro obiettivo di ridurre di un milione il numero di auto nelle principali città in Europa e negli Stati Uniti entro il 2025», ha affermato Ole Harms, CEO di MOIA. Volkswagen Veicoli Commerciali e Volkswagen Osnabrück hanno pianificato, sviluppato e costruito la vettura MOIA in tempi record: dieci mesi. Ha un’autonomia di più di 300 km secondo gli standard WLTP e può essere caricata fino all’80 % in circa 30 minuti.


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Politica e Economia La strategia di Trump? Gesto prevedibile o l’America sta in realtà regalando il Medio Oriente all’influenza di Putin, Macron e Cina? pagina 27

Medio Oriente in fiamme La decisione di Trump su Gerusalemme sconvolge i già fragili equilibri nella regione e lascia intravvedere nuovi assetti diplomatici regionali e internazionali

Patrimonio dell’umanità Gerusalemme: storia e origini di una città che è soprattutto culla dell’umanità

Gestori patrimoniali al bivio La crisi finanziaria mondiale e nuove regolamentazioni hanno un impatto importante anche sui gestori privati

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Supporter dell’indipendenza catalana sventolano la bandiera Estelada nelle vie natalizie di Bruxelles. (AFP)

La Catalogna allo scontro finale

Elezioni catalane Giovedì sarà il momento della verità per sapere chi vincerà la sfida tra secessionisti e unionisti.

Il risultato si prospetta molto incerto, ma lo svolgimento del voto non porterà comunque alla risoluzione della crisi istituzionale in tempi brevi Gabriele Lurati Prosecuzione della sfida indipendentista o ritorno alla normalità costituzionale? Questa è la risposta che dovranno dare i 5,6 milioni di votanti catalani fra tre giorni, quando si celebreranno le elezioni imposte dal governo di Madrid dopo il commissariamento della Catalogna. La posta in palio è grande, soprattutto per le aspirazioni degli indipendentisti, che si giocano molto (se non tutto) con questo voto. La contesa si profila tiratissima, dato che i sondaggi danno i due schieramenti quasi alla pari (46% per gli indipendentisti contro il 44% degli unionisti). La differenza la farà probabilmente quel mezzo milione di elettori tuttora indecisi, in una partecipazione al voto che si prevede straordinariamente alta (sopra l’80%). Ci si arriverà dopo una campagna elettorale anomala che è stata incentrata sul tema dell’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione spagnola che ha annullato l’autonomia di cui godeva la regione di Barcellona e, soprattutto, sulle sentenze giudiziarie che ne hanno scandito i tempi e condizionato il dibattito politico. Gli indipendentisti hanno cercato

di trasformare questa consultazione elettorale ufficiale (a differenza del referendum del 1. ottobre scorso considerato illegale dai tribunali spagnoli) di nuovo in un plebiscito. In caso di vittoria darebbero inizio a una nuova «road map» verso l’indipendenza che, nelle loro intenzioni, verrebbe implementata gradualmente. Il problema per i secessionisti consiste però nel fatto che solo un ampio successo elettorale potrebbero garantire loro di continuare con il processo verso l’indipendenza. Se le forze indipendentiste non raggiungeranno la maggioranza dei seggi del Parlament (la cui soglia è di 68 deputati) e soprattutto il 50% dei voti, il procès subirà una brusca frenata perché non sarà più legittimato politicamente. Il fronte secessionista, composto dalla sinistra repubblicana di Esquerra (ERC) e dai nazionalisti moderati del PDeCAT, questa volta si presenta diviso e non più in coalizione, come nelle ultime elezioni del 2015. Tuttavia i due partiti hanno in comune gli stessi obiettivi: la sospensione dell’applicazione dell’articolo 155 e la liberazione di tutti quelli che loro definiscono «prigionieri politici» (gli ex membri dell’esecutivo catalano tuttora detenuti e i «due Jordi», i leader di

due grandi associazioni indipendentiste, anch’essi in carcere). ERC è stata a lungo nettamente il primo partito nei sondaggi (con più del 30% fino a scendere al 23%) ma alla lunga ha pagato l’assenza dalla scena pubblica del suo leader Oriol Junqueras (in carcere dal 2 novembre), finendo per lasciare parte del voto indipendentista agli ex alleati del PDeCAT (stimati in recupero fino al 17%). Questo partito si è compattato attorno alla figura dell’ex presidente dell’esecutivo catalano Puigdemont e si presenta a queste elezioni con il nome di «Junts per Catalunya» (assieme per la Catalogna). Dopo un inizio un po’ in sordina, questo movimento (che include nelle sue liste anche esponenti della società civile) ha goduto del cosiddetto «effetto Puigdemont». L’ex presidente in esilio, seppur a distanza, è stato molto attivo in questa campagna elettorale, mandando messaggi in videoconferenza dal Belgio, comunicando via Twitter e concedendo interviste a network catalani o stranieri (ma mai a quelli spagnoli). Puigdemont inoltre si è detto disposto a correre il rischio di finire in carcere nel caso in cui vincesse le elezioni e fosse investito come presidente della Generalitat. L’ultima fazio-

ne del fronte secessionista è composto dal movimento anti-capitalista CUP che con i suoi 10 seggi era stato fondamentale per la nascita del governo di Puigdemont due anni fa, ma che questa volta è dato in calo nei sondaggi (al 6%). Nell’altro campo si schierano le forze unioniste, composte dai partiti che hanno votato a favore del commissariamento della regione: Ciudadanos, Partito socialista catalano e Partito popolare (in ordine di peso politico in Catalogna). I liberali di Ciudadanos, capitanati nella regione di Barcellona dalla giovane Inés Arrimadas, sono stati quelli che più hanno cavalcato l’anti-indipendentismo e sono riusciti a portare in strada la famosa «maggioranza silenziosa», che prima era restia a manifestare pubblicamente la propria contrarietà al secessionismo. Arrimadas, cresciuta in Andalusia e trapiantata a Barcellona solo da una decina d’anni, è stata una dei principali protagonisti dei duelli televisivi della campagna elettorale. Puntando su un unico e chiaro obiettivo come quello di mettere fine al procès, è riuscita ad attirare le simpatie dei votanti di quell’elettorato urbano emigrato in Catalogna dal resto della Spagna e stufo della narrazione

filo-indipendentista che imperversa sulle emittenti catalane. Stando ai dati di alcuni istituti demoscopici, Ciudadanos potrebbe addirittura contendere a Esquerra Republicana il posto di primo partito catalano, prendendo voti sia dall’elettorato socialista (dato al 16%) sia soprattutto da quello del Pp (7%). La polarizzazione (pro o contro l’indipendenza) è stata il leitmotiv di questa campagna elettorale e chi ha scelto di stare nel mezzo ne ha pagato il prezzo in termini di scarso reddito elettorale. È il caso di «Catalunya en Comú-Podem», la versione catalana della sinistra radicale di Podemos, che ha cercato di tenersi equidistante dai due schieramenti. Paradossalmente, però, saranno proprio i «podemiti» catalani (con il loro 10% in intenzioni di voto) ad avere le chiavi per favorire la nascita di un governo, secondo molti analisti. In ogni caso, chiunque sia il partito vincitore delle elezioni, si troverà a dover affrontare un lungo e tortuoso percorso di negoziazioni con altre forze politiche, prima di poter arrivare a formare un nuovo esecutivo. Ma questo sarà solo il prossimo capitolo di una crisi istituzionale che sembra destinata a protrarsi ancora a lungo.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Politica e Economia

Lo strappo di Trump

Usa-Israele Il gesto del presidente americano aggiunge un colpo di scena ad una storia iniziata 70 anni fa

con il riconoscimento dello Stato di Israele da parte dell’Amministrazione democratica di Truman

Federico Rampini Lo strappo di Donald Trump su Gerusalemme ha davvero sconvolto tutti gli equilibri in Medio Oriente? O invece è stato un gesto prevedibile, quasi scontato, il riconoscimento di una realtà di fatto? Quanta parte delle reazioni sdegnate nel mondo arabo sono una pura sceneggiata, un atto dovuto, che non corrisponde ad una indignazione reale? E quanto invece l’America sta regalando il Medio Oriente all’influenza di altri, da Vladimir Putin a Emmanuel Macron? Sono passate meno di due settimane dallo shock di «Gerusalemme capitale» (shock per tutti fuorché gli israeliani ovviamente, che tale la considerano dal 1948 o dal 1967), e non è facile fare un bilancio, distinguere tra reazioni tattiche e cambiamenti di lungo periodo. «Ho deciso, è ora di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come la capitale d’Israele». È il 6 dicembre quando Trump pronuncia quella dichiarazione storica che chiude con 70 anni di tradizione diplomatica americana, crea uno strappo con il mondo arabo e larga parte della comunità internazionale. Lo fa rivendicando di essere «uno che mantiene le promesse». Ricorda che «il Congresso ha votato nel 1995 perché questo avvenisse, altri presidenti lo hanno promesso e poi non lo hanno fatto». Ironizza sull’ipocrisia dei suoi predecessori che «regolarmente visitavano Gerusalemme e lì incontravano i capi dei governi d’Israele» fingendo d’ignorare il ruolo di quella città. Lui non sa che farsene di quelle doppiezze, riconosce «quello che è già evidente», perché Israele «ha il diritto di scegliersi la sua capitale come ogni Stato sovrano». L’anti-politico Trump è su un terreno familiare quando dileggia il conformismo dell’establishment diplomatico: «Non possiamo risolvere i problemi continuando a replicare le strategie fallimentari del passato». È questo il filo rosso che unisce le sue svolte in politica estera: non rinfacciatemi gli strappi rispetto ai miei predecessori, guardate ai loro insuccessi, la vecchia politica estera non ha dato frutti. Una parte del discorso di Trump è rivolto alle sue constituency, disseminato di riferimenti biblici, di elogi alla democrazia israeliana. Nella parte finale cerca di rassicurare il mondo arabo, assicura ai palestinesi che questa svolta non pregiudica i loro diritti, che l’America «non abbandona il suo impegno a un processo di pace, né compromette lo statuto finale che vi avrà Gerusalemme». In teoria lascia aperta la possibilità che la città santa delle tre religioni monoteiste abbia anche funzione di capitale di una Palestina sovrana, almeno nella parte di Gerusalemme Est. Un’ipotesi che lo stesso Trump sfuma assai quando conferma la sua adesione al principio di due Stati, ma solo «se concordato fra le due parti». La formulazione non preclude un ripudio di quel

Donald Trump e il premier israeliano Netanyahu al museo dell’Olocausto di Gerusalemme nel maggio scorso. (Keystone)

principio da parte del governo israeliano come vorrebbero alcune fazioni estreme. Il gesto di Trump aggiunge un colpo di scena ad una storia iniziata 70 anni fa con il riconoscimento dello Stato d’Israele da parte dell’Amministrazione Truman, democratica. Seguì un presidente repubblicano, Dwight Eisenhower, capace di equidistanza e di comprensione verso le ragioni del mondo arabo: intervenne nel 1956 a bloccare l’aggressione contro l’Egitto lanciata nel canale di Suez da Francia Inghilterra e Israele. La destra americana si spostò su posizioni più filo-israeliane ma senza abbandonare, almeno fino a George Bush Senior, un’autonomia di giudizio e una capacità di criticare Israele. Con Bush Junior cominciò un’altra storia, segnata in particolare dal ruolo degli evangelici protestanti come roccaforte elettorale della destra. Il fondamentalismo cristiano che è diventato il più sicuro serbatoio di voti repubblicani ha integrato nella propria identità culturale l’alleanza con Israele con espliciti riferimenti alla Bibbia. L’11 settembre 2001 quella visione messianica incrociò la lettura dei neoconservatori sullo «scontro di civiltà» e la guerra mondiale al fondamentalismo islamico. Pur essendo privo di sensibilità religiosa, Trump ha raccolto da Bush Junior quella constituency, così come l’appoggio della parte più conservatrice della comunità ebraica americana (non maggioritaria ma generosa di finanziamenti elettorali). Netanyahu venne apposta in America in piena campagna

elettorale per dare una mano alla destra: accettò un invito del tutto irrituale dei parlamentari repubblicani, andò a parlare al Congresso senza neppure avvisare Barack Obama. Fra Netanyahu e Trump sbocciò un idillio, confermato dal clima caloroso della visita di Stato a maggio. Ora Trump paga i debiti: con il portatore di voti straniero, con le constituency americane più radicali e più fedeli. Ma i semi di questa decisione storica risalgono a 22 anni fa, è nel 1995 che il Congresso di Washington votò per trasferire l’ambasciata a Gerusalemme. Il giorno dopo la svolta su Gerusalemme capitale, Donald Trump raccoglie quel che ci si aspettava: violente proteste palestinesi, denunce dal mondo arabo, una netta presa di distanza da tutti i governi europei oltre che da Russia e Cina. Tutto previsto? O forse no. Qualcosa sembra mancare all’appello. Per esempio un gesto di Benjamin Netanyahu che risponda al regalo storico dell’America con un’offerta altrettanto generosa. Una mossa israeliana che renda credibile la promessa di Trump sul processo di pace. Non ce n’è l’ombra, per adesso. Dunque la mossa di Trump non s’iscrive in un piano preordinato, in cui altri dovevano fare la loro parte? L’assenza di una contropartita israeliana sembra giustificare la decisione di Trump in chiave di politica interna. «Il presidente che mantiene le promesse», è un messaggio rivolto ad alcune constituency americane che lo hanno portato alla Casa Bianca. In primo pia-

no figura il magnate dei casinò di Las Vegas, Sheldon Adelson, e il suo amico Morton Klein che presiede la Zionist Organization of America, un gruppo ultraconservatore filo-israeliano. Adelson contribuì alla campagna elettorale e ora passa all’incasso sulla promessa che gli stava più a cuore. Oltre all’ala destra della comunità ebraica americana (ricca e generosa ma minoritaria, va ricordato: la maggioranza degli elettori JewishAmerican sono di fede democratica, spesso ultra-progressisti), c’è il mondo degli evangelici. I fondamentalisti protestanti stravedono per Netanyahu, il loro allineamento con la destra israeliana è totale dai tempi di Bush Junior. Sul terreno, in Medio Oriente, i primi a sfruttare il nuovo clima sono Vladimir Putin ed Emmanuel Macron, con due missioni diplomatiche parallele, chiaramente finalizzate a «sostituire» l’America. Colpisce l’ammirazione acritica con cui gran parte dei media osservano queste grandi manovre diplomatiche. Una delle conseguenze deleterie di Trump sembra essere quella di farci abbassare la guardia verso altri pericoli. È percepibile in tanta stampa occidentale un sottile compiacimento per l’avanzata di Putin in Medio Oriente. L’ammirazione sorvola su dettagli imbarazzanti. Putin che consolida il macellaio Assad, che rafforza gli autocrati liberticidi Erdogan e al-Sisi, viene circondato di rispetto come un gigante della geopolitica. Macron è ovviamente assai meglio di Putin, però anche su di lui sta nascendo un culto della personalità (da lui alimentato) sempre grazie

alle credenziali anti-Trump. E tuttavia, dov’è finito l’europeismo di Macron? In Medio Oriente e in Libia lui porta la politica estera francese e gli interessi francesi, non quelli di un’Europa unita. Scrivendo dalla mia America stordita e stremata per le nefandezze del suo presidente, mi permetto di segnalare la pericolosità di un nuovo conformismo. In cui sembra che «tutti gli altri» siano meglio di lui e che si debba gioire quando occupano i suoi vuoti di leadership. Mi sembra di sentire riaffiorare un antiamericanismo molto antico, che in Europa ebbe radici nell’estrema destra, nell’estrema sinistra, nella chiesa cattolica, nel gollismo, ecc. E pur essendo stato un ammiratore di Obama non concordo con chi oggi accusa Trump di affondare il processo di pace: quello era già morto da anni. «Il ritorno di una Russia globale: capire l’agenda del Cremlino», è il titolo di un summit fra esperti americani indetto a Washington dalla fondazione Carnegie. Relatore principale è il massimo responsabile della strategia militare e della politica estera alla Casa Bianca, il generale McMaster (National Security Advisor). Il quale non ha dubbi: Putin sta preparando «la guerra di nuova generazione». Il vicepresidente Pence, notoriamente legato alla destra religiosa, parte per un viaggio in Medio Oriente dove affronterà un’ostilità inattesa: quella dei cristiani. La sua visita è preceduta da duri attacchi (patriarca di Gerusalemme, autorità della chiesa copta) contro l’annuncio su Gerusalemme. È una realtà molto diversa da quella della destra evangelica americana che invece ha esultato per l’annuncio di Trump. Quest’ultimo intanto deve fare pressione sui sauditi perché non vendano ai cinesi una quota di Aramco. La quotazione in Borsa del colosso petrolifero saudita rischia di essere il cavallo di Troia per un’espansione dell’influenza di Pechino nel Golfo Persico. Tra quelli che si muovono per riempire il vuoto d’influenza americana in Medio Oriente non poteva mancare ovviamente la Cina, primo acquirente di petrolio arabo. E dopo il terremoto-Gerusalemme il prossimo obiettivo della politica estera di Trump è l’Iran. La Casa Bianca teme il rafforzamento dell’influenza iraniana in Medio Oriente dopo la sconfitta dell’Isis (a cui hanno contribuito le milizie sciite appoggiate da Teheran). Ovviamente Israele e sauditi concordano. Dove e quando

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Politica e Economia

Rotti gli equilibri in Medio Oriente

Dopo la decisione di Trump Decenni di cautela americana sulla questione di Gerusalemme non hanno fermato

il presidente Usa nel proposito di attuare una decisione definita «coraggiosa» dal premier israeliano Marcella Emiliani Nei vecchi Accordi di Oslo, siglati nel 1993 da Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, con gli Stati Uniti di Bill Clinton quali garanti al di sopra delle parti, erano fondamentali due punti cardine ritenuti imprescindibili per raggiungere la pace tra israeliani e palestinesi: il riconoscimento politico reciproco tra lo Stato di Israele e la nascente Autonomia Nazionale Palestinese (Anp), in secondo luogo la necessità di procedere assieme, step-by-step, ad affrontare quelle che venivano chiamate le red lines, le linee rosse che nessun negoziato preparato a tavolino sarebbe stato in grado di sbrogliare tanto erano complicate e pericolose. Si trattava della definizione dei confini dello Stato ebraico e di quello palestinese, dello sfruttamento delle risorse idriche, della colonizzazione ebraica dei Territori Occupati, del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi ed infine dello statuto futuro di Gerusalemme. Non a caso Gerusalemme era stata lasciata per ultima perché – come scrigno dei luoghi sacri di ebraismo, cristianesimo e islam – il suo valore simbolico era talmente alto da costituire una bomba ad orologeria pronta a scoppiare sotto qualsiasi tavolo negoziale qualora le parti non fossero riuscite a trovare un’intesa chiara e soddisfacente su tutte le cinque red lines. Quell’intesa non è mai stata trovata, gli Accordi di Oslo sono falliti, e le linee rosse sono diventate mura invalicabili che separano oggi più di ieri israeliani e palestinesi. Ma sono sempre lì a ricordare che costruire la pace tra israeliani e palestinesi è un’impresa molto, molto complessa. Quando il 6 dicembre scorso il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato «di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come la capitale d’Israele», avvallando quindi la promessa elettorale di spostare l’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, ha letteralmente buttato all’aria sia le carte diplomatiche che il tavolo da gioco. In pratica ha riconosciuto che Gerusalemme rimarrà «unita e indivisibile» in eterno, come recita la Jerusalem Law, la legge fondamentale israeliana votata dal parlamento nel 1980 che ha ufficialmente annesso Gerusalemme Est conquistata con la guerra dei Sei giorni del 1967 e ne ha fatto la sede di tutte le istituzioni dello Stato.

Il riconoscimento di Gerusalemme potrebbe essere la contropartita per ottenere da Netanyahu qualche concessione nella futura sede negoziale con i palestinesi Tutti sanno che l’annessione di Gerusalemme Est in realtà è cominciata fin dal 7 giugno 1967 quando il generale Motta Gur dichiarò alla radio: «Il Monte del Tempio è nelle nostre mani», quando cioè tutta la cosiddetta Città Vecchia cadde sotto il controllo dell’esercito israeliano, che la strappò alla Giordania di re Hussein. Ma proprio perché si trattava di un territorio conquistato con le armi (al pari della penisola del Sinai, della Striscia di Gaza, della Cisgiordania e delle Alture del Golan), per la legge internazionale non poteva

Un palestinese lancia una molotov contro un muro nella città di Hebron in segno di rabbia dopo la decisione americana su Gerusalemme. (AFP)

essere occupato stabilmente e tantomeno annesso allo Stato di Israele. E infatti, sempre nel 1980 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con la risoluzione n. 478, invitava tutte le rappresentanze diplomatiche a non trasferire le ambasciate a Gerusalemme, perché Gerusalemme Est come gli altri Territori occupati doveva essere restituita. Da allora sebbene tutti sappiano che Gerusalemme è di fatto la capitale unita di Israele, nessuno Stato ha trasferito la propria sede diplomatica a Gerusalemme, nemmeno gli Stati Uniti che pure nel 1995 – presidente Bill Clinton – hanno riconosciuto Gerusalemme quale capitale di Israele, ma poi ogni sei mesi hanno sempre dilazionato il trasferimento dell’ambasciata con l’Executive Waiver che consente al presidente di sospendere una legge votata dal Congresso. E probabilmente succederà ancora se il segretario di Stato Tillermann si è affrettato a chiarire già il 7 dicembre che per il trasloco ci vorrà tempo. Ma ormai la bomba era scoppiata. Mentre infatti il premier israeliano Netanyahu esultava salutando le dichiarazioni Trump come «un atto coraggioso» e «una pietra miliare storica», i palestinesi, gli arabi e i musulmani davano fondo a tutta la loro rabbia e al loro rancore. A loro giudizio Trump il 6 dicembre ha bellamente ignorato il diritto internazionale e tutte le linee rosse, buttato a mare il principio che fino ad oggi ha retto ogni negoziato tra le due parti, ovvero «terra in cambio di pace» e si sarebbe appiattito sulle posizioni israelia-

ne, ergo gli Stati Uniti non possono più essere considerati degli honest brokers per quel piano di pace israelo-palestinese che pure il presidente americano ha annunciato come imminente. Trump in altre parole non avrebbe tenuto conto né delle posizioni né dei rapporti di forza tra Israele (uno Stato forte) e Autonomia nazionale palestinese (un aborto di Stato debolissimo e diviso, nonostante la riconciliazione tra Hamas e la stessa Anp). Prima di annunciare la sua decisione non ha convocato le due parti ad un tavolo negoziale, anzi si è vantato di aver riconosciuto «quanto era già evidente», Gerusalemme di fatto capitale di Israele, per velocizzare un eventuale processo di pace perché – parole sue. «Non possiamo risolvere i problemi continuando a replicare le strategie fallimentari del passato». I primi a scendere in strada sono stati i palestinesi, con Hamas in testa, che hanno lanciato la Terza Intifada continuando a scontrarsi a Gerusalemme e in Cisgiordania con l’esercito israeliano. Bilancio provvisorio: 4 morti e 1795 feriti. Dalla Striscia di Gaza sono anche partiti diversi missili, uno dei quali ha raggiunto la cittadina israeliana di Sderot, con l’inevitabile ritorsione dell’aviazione israeliana. Ma arabi e musulmani sono scesi in piazza in tutte le capitali del Medio Oriente, del mondo islamico in Africa e Asia, in Europa e negli stessi Stati Uniti. Mentre bandiere americane e foto di Trump andavano a fuoco in mezzo mondo, le minacce più incendiarie contro gli Usa e Israele arrivavano dalla Turchia

e dall’Iran. La Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, ha annunciato la «liberazione della Palestina» tutta, candidandosi a guidare un ipotetico fronte della resistenza. La stessa aspirazione ha mostrato di averla anche il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan che domenica 10 dicembre si è lasciato andare ad affermazioni parecchio pesanti, del tipo: «Non abbandoneremo mai Gerusalemme alla mercé di uno Stato terrorista che uccide i bambini». In tutti i casi Erdoğan il 13 dicembre ha convocato un vertice d’urgenza dell’Organizzazione per la cooperazione islamica (Oci), dove in pratica ha invitato i rappresentanti dei 57 paesi convenuti ad opporre fatti compiuti a chi è maestro di fatti compiuti: Israele e gli Usa di Trump. Nella stessa logica lo stravolto presidente dell’Anp, Abu Mazen, ha annunciato di ripudiare d’ora in poi la mediazione americana. Il comunicato finale del vertice ha così raccomandato a tutti gli Stati del mondo di «riconoscere lo Stato della Palestina e Gerusalemme Est come sua capitale occupata», delegando l’Onu a ripristinare lo status legale della stessa Gerusalemme. Ma al di là di parole tanto risolute, i paesi arabi sembrano voler procedere coi piedi di piombo. Primo fra tutti l’Arabia Saudita. Riad per l’occasione ha mantenuto un profilo assolutamente basso con un comunicato ufficiale della famiglia reale che definiva «ingiustificato e irresponsabile» l’annuncio di Trump del 6 dicembre. E forse la chiave di tanto stravolgimento regionale e internazio-

nale sta proprio a Riad. Non a caso l’unico Stato arabo citato dal presidente Usa nel suo annuncio è stato proprio l’Arabia Saudita. Visti gli ottimi rapporti tra l’erede al trono Mohammed bin Salman e Trump è probabile che l’ardimentoso MbS abbia garantito al presidente Usa che erogherà ai palestinesi tutti gli aiuti finanziari necessari a far loro digerire una Oslo Due orchestrata appunto da Riad e Washington col favore di Israele. Il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale dello Stato ebraico sarebbe stato dunque la contropartita per ottenere da Netanyahu qualche concessione nella futura sede negoziale coi palestinesi, tanto più quanto in questo momento Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita hanno un acerrimo nemico in comune, l’Iran. È in questo contesto che va valutato anche l’accenno molto sfuggente e impreciso fatto da Trump nel suo fatidico discorso alla soluzione dei due Stati – che ha detto di condividere –, Stati i cui confini dovrebbero essere disegnati «consensualmente fra le parti», lasciando aperto anche uno spiraglio sul futuro statuto di Gerusalemme. Ma sulle altre red lines ha taciuto e ha lasciato ben poco spazio di manovra al povero Abu Mazen, oggi più debole che mai in un Medio Oriente in fiamme. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Fra i libri di Paolo A. Dossena

AFP

ALBERTO NEGRI, Il musulmano errante, Rosenberg & Sellier, 2017, con la postfazione di Lucio Caracciolo

Gerusalemme, città-mondo Le origini L ’importanza simbolica della città per le tre grandi religioni monoteiste

rende la questione del suo status un nodo cruciale per l’intera comunità internazionale

Filippa Gorgona Si chiamava Rushalimum ed era un piccolissimo insediamento abbarbicato sul colle Ofel nei pressi della sorgente di Gihon. Era la fine del Terzo millennio avanti Cristo e poco si sa di quei coloni che andarono a insediarsi nell’altopiano della Giudea, lontano dalla costa dove fiorivano le città cananee, ai tempi controllate dal gran faraone d’Egitto. Ma l’etimo del nome era già un segno del destino. Rushalimum significherebbe «Shalem ha fondato» e Shalem era un dio semita identificato con la stella della sera o il sole al tramonto. Gerusalemme, dunque, sarebbe una città fondata da un dio-astro ora sparito nelle nebbie della storia, ma con la vocazione di rappresentare l’essenza stessa della spiritualità nei secoli a venire. Oggi racchiude in poco meno di un chilometro quadrato della Città vecchia i simboli più alti delle tre religioni monoteiste: il Muro del pianto per l’ebraismo, il sepolcro di Gesù per il cristianesimo e, per l’islam, la moschea di al-Aqsa, da cui Maometto volò in cielo. È un caso unico al mondo, che ne fa una città-tempio della sacralità. Purtroppo dei suoi primi mille anni di storia poco si sa. L’archeologia fa luce su frammenti di quel lontano passato, ma manca un racconto diacronico esauriente. Certo, c’è il resoconto della Bibbia, ma – con tutto il rispetto per un tale monumento della civiltà – non può essere considerata una fonte storica attendibile, anche se molti degli avvenimenti che narra sono stati confermati da documenti egiziani, assiri e babilonesi. Stando dunque alla Bibbia fu Davide a fare di Gerusalemme la capitale del suo nascente regno di Israele all’incirca verso il 1000 a.C. dopo averla strappata ai Gebusei e fu suo figlio Salomone a erigere il primo Tempio che venne distrutto nel 587 dal re babilonese Nabucodonosor e riedificato dagli ebrei tornati in patria dall’esilio a Babilonia in virtù dell’editto del nuovo signore persiano d’Oriente, Ciro il Grande. Con la conquista della città da parte di Alessandro Magno nel 331 a.C. i dati storici si fanno più precisi e ci raccontano di una città passata attraverso feroci dominazioni e rivolte continue, causate dalla volontà dei nuovi padro-

ni di assimilare alla propria cultura il popolo ebraico, imponendogli anche il proprio pantheon di dei. Dopo Alessandro, non tanto i Tolomei d’Egitto quanto – dal 198 a.C. – i Seleucidi di Siria, nel tentativo di ellenizzare la città e il territorio, causarono la grande rivolta dei Maccabei che cacciarono gli invasori ed instaurarono una loro dinastia, gli Asmonei, e un proprio regno di Giudea destinato a durare fino alla conquista romana avvenuta nel 63 a.C. ad opera di Pompeo. Da quel momento la Palestina divenne una provincia romana e come tale nel 37 a.C. venne affidata a Erode il Grande.

Dal 1948 al 1967 la città è stata divisa in due fino a quando, in seguito alla guerra dei 6 giorni, Israele acquisì il controllo dell’intera città Al di là della cattiva fama che ci hanno tramandato i Vangeli, Erode fu l’artefice di alcune delle più grandi opere architettoniche di Gerusalemme e dei suoi dintorni. Il Muro del Pianto, ad esempio, è tutto quello che rimane delle mura esterne di «contenimento» del sito del Tempio, che lui fece restaurare consolidando e ampliando anche il basamento su cui era stato costruito sul monte Sion o monte di Moriah. Proprio lì, la Bibbia racconta che Abramo avrebbe dovuto sacrificare suo figlio Isacco a Jahvè. Per la tradizione islamica, invece, su quel monte Abramo avrebbe dovuto sacrificare Ismaele, il figlio avuto dalla schiava egiziana Agar, poi cacciata nel deserto dopo la nascita di Isacco. Ismaele sarebbe poi diventato il capostipite del popolo arabo. Tornando a Erode, costruì anche due imponenti fortezze nel deserto, l’Erodion, ma soprattutto Masada, dove centinaia di zeloti si asserragliarono nel 74 d.C, e pur di non arrendersi al console Lucio Flavio Silva, si suicidarono in massa. Gerusalemme, del resto era già caduta e dopo una rivolta durata dal 66 al 70 d.C, Tito, figlio dell’imperatore Vespasiano, l’aveva conquistata e aveva distrutto il Tempio che da allora non è stato mai più ricostruito. E da quel 70 d.C.

il popolo ebraico è stato costretto all’esilio e non ha più avuto un proprio Stato fino alla creazione di Israele nel 1948. L’ultima grande insurrezione contro i romani avvenne nel 132 d.C. ad opera di un altro zelota, Simon Bar Kokhba, ma l’imperatore Adriano riportò presto l’ordine e ribattezzò Gerusalemme Aelia Capitolina. Bisogna aspettare l’imperatore Costantino (272-337 d.C.) perché la città torni ad assurgere a grande centro spirituale, questa volta del cristianesimo. Fu infatti la madre di Costantino, sant’Elena, a raggiungere Gerusalemme e stabilire, su una tradizione tutta orale, dove fossero i luoghi in cui Gesù aveva vissuto, era morto ed era stato sepolto. E in quei luoghi suo figlio fece costruire monumenti e chiese, prima fra tutte il Santo Sepolcro. La storia islamica di Gerusalemme comincia invece nel 637 con la conquista della città da parte di Omar, il secondo dei Califfi Ben Guidati che governarono la nuova comunità mussulmana dopo la morte di Maometto nel 632 d.C. Si dice che Omar volle scendere da cavallo quando entrò in città, in segno di rispetto per la sua santità. La moschea di al-Aqsa venne costruita a partire dal 674 d.C., ma dopo incendi e terremoti nel 747 venne riedificata accanto alla Cupola della roccia, ben nota per lo splendore della sua cupola dorata, fabbricata tra il 687 e il 691 d.C. L’intera area dei santuari mussulmani, l’Haram al-Sharif, costituisce il terzo luogo santo dell’islam, dopo Mecca e Medina. Gerusalemme rappresentò poi la meta ultima delle Crociate, il cui fine era «liberare il Santo Sepolcro». La prima volta che i crociati riuscirono a conquistarla, con orrende stragi di civili, fu nel 1099 e divenne capitale del Regno crociato di Gerusalemme fino al 1187 quando venne riconquistata da Saladino. Contesa fra cristiani e mussulmani ancora per anni, nel 1244 conobbe la dominazione egiziana dei Mamelucchi fino al 1517 quando fu occupata dal sultano turco Selim I. Sotto l’impero ottomano Gerusalemme conobbe una lunga e lenta decadenza, ma ancora nel 1800 resoconti diplomatici testimoniavano che cristiani, ebrei e mussulmani convivevano in un clima di tolleranza reciproca. Le

cose cominciarono a cambiare con la dichiarazione del ministro degli Esteri inglese Arthur Balfour con cui nel 1917 la Gran Bretagna considerava «con favore la creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina». Cominciò così una progressiva migrazione di ebrei soprattutto dall’Europa orientale verso la Palestina medesima. Alla fine della Prima guerra mondiale, poi, con la dissoluzione dell’Impero ottomano, Francia e Gran Bretagna si spartirono il Crescente fertile creando sulla carta gli odierni Stati mediorientali. Alla Francia andarono, come Mandati della Società delle Nazioni, la Siria e il Libano; alla Gran Bretagna la Transgiordania, l’Iraq e la Palestina. Palestina dove di anno in anno si moltiplicavano gli scontri tra arabi ed ebrei, considerati nient’altro che la longa manus della potenza coloniale. Di rivolta in rivolta, nel 1947 la Gran Bretagna rimise il suo Mandato sulla Palestina all’Onu, succeduta alla Società delle Nazioni, che nello stesso ’47 votò la risoluzione n.181 che prevedeva un piano di spartizione del territorio in uno Stato ebraico e uno palestinese. L’area di Gerusalemme invece era destinata ad essere internazionalizzata sotto l’egida delle Nazioni Unite, proprio perché sede dei luoghi santi dei tre monoteismi e città di grande valenza per la cultura e la spiritualità del mondo intero. Gli arabi e i palestinesi rifiutarono la risoluzione 181 e quando le truppe inglesi lasciarono al Palestina, il 14 maggio 1948, Ben Gurion proclamò unilateralmente la nascita dello Stato di Israele. Gli eserciti dei paesi arabi lo invasero immediatamente con l’intenzione di «ributtare tutti gli ebrei a mare», ma vennero pesantemente sconfitti. Gerusalemme si ritrovò così divisa in due: la parte occidentale in mano agli israeliani e quella orientale occupata dalla Legione araba della Transgiordania. Una situazione che si è protratta fino alla guerra dei Sei giorni del 1967 quando Gerusalemme Est con tutto il suo patrimonio storico-sacrale è stata conquistata dall’esercito israeliano. A chi appartiene allora Gerusalemme? Domanda mal posta. A seconda del prisma storico che si usa è ebrea, cristiana, mussulmana, è una città-mondo, patrimonio dell’umanità intera.

La guerra in Siria vista secondo la prospettiva alauita, ovvero una setta i cui testi avrebbero dovuto rimanere segreti. «Come per altri gruppi esoterici», racconta Alberto Negri, «la religione deve essere nascosta alle masse e rivelata soltanto a coloro che superano diversi stadi di iniziazione». Nella postfazione al libro, Lucio Caracciolo (da anni collaboratore di «Azione») scrive: gli alauiti sono «una misteriosa setta, convenzionalmente assegnata all’ambito dei musulmani sciiti, fondata nel IX secolo dal profeta Mohammad Ibn Nusayr. Seguendo una combinazione di elementi islamici, gnostici ed esoterici, i seguaci del credo alauita venerano Alì, quarto califfo e genero di Maometto come divinità suprema». Nel 1970 prende il potere il baathista Hafiz al-Asad, alla cui morte, nel 2000, succede alla presidenza il figlio Bashar. Tutto questo periodo vede l’ascesa degli alauiti, continua Negri, che aderiscono in massa al Baath (partito completamente secolare fondato da un cristiano), prima della cui vittoria erano fermi al gradino sociale più basso: «Il colpo di stato di al-Asad li portò nelle accademie militari, negli apparati pubblici, in mezzo alla borghesia urbana. Fu così che si ripresero la rivincita su secoli di emarginazione. Con gli al-Asad al potere non si avvantaggiarono solo gli alauiti. La Siria è stata per decenni una sorta di kombinat militare mercantile» che ha favorito «i cristiani e le dinastie sunnite come i Tlass. Gli stessi alauiti hanno diluito la loro specificità religiosa costruendo moschee e sposando donne sunnite, come ha fatto Bashar al-Asad». Secondo Negri «gli alauiti del clan al-Asad al potere in Siria non accennavano mai alla loro religione. Anzi tendevano a celebrare in moschea con gli altri le ricorrenze musulmane tradizionali, scegliendo accuratamente dei gran muftì che non facessero discriminazioni settarie». Tutto comincia nel 2011 con la «primavera araba», l’ondata di proteste che ha attraversato i regimi arabi. Negri pone la domanda fondamentale: «Domandatevi perché i francesi all’inizio della rivolta del 2011 provarono a mettersi d’accordo con la Turchia per spartirsi l’influenza sulla Siria. I francesi erano stati i grandi protettori di Damasco per un secolo, al punto che Bashar alAsad era stato invitato il 14 luglio del 2008 alla parata della Bastiglia ma avevano sempre considerato gli alauiti come una sorta di loro creatura. Il loro calcolo era che il regime alauita siriano sarebbe stato spazzato via in pochi mesi: fu così che iniziò l’afflusso dei jihadisti e dei foreign fighters ai confini tra Turchia e Siria, con l’assenso di Parigi e Washington che al regime di al-Asad preferivano nettamente gli affari e gli investimenti con le monarchie del Golfo e il mondo sunnita. L’“autostrada del jihad” per abbattere il regime di Damasco attraversava il territorio alauita e percorreva una storia che nessuno, né in Occidente né tra i musulmani sunniti, voleva più ricordare». Già due anni prima della rivolta del 2011, un ricercatore arabo affermava che la Siria è il terreno ideale per una guerra santa. Quindi, secondo Negri, l’insurrezione, nata su basi popolari, era una sorta di tempesta perfetta per creare un nuovo Libano, con padrini esterni di ogni provenienza, incluse le potenze occidentali. Un ottimo strumento per capire il totale disastro siriano con un’angolazione molto particolare.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Politica e Economia

Gestori privati di patrimoni a un bivio Finanza La crisi finanziaria mondiale e le nuove regolamentazioni portano ad un calo del 30 per cento

degli operatori, secondo vari studi. Tuttavia, il nuovo modello di vigilanza apre anche interessanti prospettive

Ignazio Bonoli A seguito della crisi che ha colpito in questi ultimi anni il settore finanziario, le principali protagoniste in Svizzera, cioè le banche, hanno subito anche quest’anno un notevole ridimensionamento. Il loro numero è infatti diminuito lo scorso anno a 261, contro le 266 del 2015. Vent’anni fa se ne contavano invece oltre 400. L’utile realizzato lo scorso anno si è inoltre dimezzato, anche se solo 35 istituti hanno terminato l’anno in perdita. L’utile globale è però risultato di 7,9 miliardi, contro i 15,8 miliardi del 2015. La somma di bilancio è comunque aumentata del 2,5 per cento. In perdita sono però risultate le banche estere. Queste poche indicazioni nascondono comunque una situazione ben più grave di tutto il settore finanziario. A fianco delle banche sono infatti sorti molti gestori di patrimoni privati che rischiano di seguire la sorte di alcune banche. Questi uffici hanno già incontrato molte difficoltà a seguito delle disavventure delle banche, dell’abolizione del segreto bancario a favore dello scambio automatico di informazioni fiscali e del moltiplicarsi di regole che disciplinano il loro settore di attività. Oggi però temono anche che la nuova legge sulle attività finanziarie, su cui il Parlamento voterà verosimilmente la prossima estate, dia loro il colpo di grazia: se non subito, al momento dell’entrata in vigore nel 2020. È vero che si prevede un periodo di assestamento

di due o tre anni, ma è anche probabile che circa un terzo di questi uffici sia destinato a scomparire nei prossimi cinque anni. Questo, almeno, è quanto prevede uno studio dell’Università di Lucerna sulle conseguenze della nuova legge in questo particolare settore. Secondo la professoressa Sita Mazumder, le nuove regolamentazioni sono però solo una delle cause dell’accelerato consolidamento del settore. Troppi gestori di patrimoni sono ancora oggi «cavalieri solitari» e non sfruttano le potenzialità offerte dalla cooperazione, per esempio nell’informatica. Questo potrebbe però anche essere un fattore di modernizzazione per queste attività. Con un patrimonio gestito tra i 400 e i 600 miliardi di franchi, il settore ha un certo peso. I dati sono approssimativi, perché finora il settore dei gestori indipendenti non è mai stato analizzato a fondo. Lo studio valuta in circa 2000 gli uffici che formano l’offerta su questo mercato. In media danno lavoro a tre dipendenti. Il 90 per cento ha infatti meno di dieci dipendenti, per cui la statistica li considera micro-imprese. Anche altre fonti interne valutano in circa il 30 per cento la diminuzione di questi operatori. Per cui molti si preoccupano del futuro del settore, prevedendo che essere come finora – buoni consiglieri per gli investimenti – potrebbe non più bastare. Qualcuno si è già mosso fondando una società che raggruppa le attività di consulenza

Con patrimoni gestiti fra i 400 e i 600 miliardi di franchi, il settore ha un peso importante. (Keystone)

e quelle amministrative, comprese le nuove regole dettate dalla futura legge. L’importanza del settore non è da sottovalutare, poiché costituisce una notevole controparte all’attività delle banche. Queste ultime tendono infatti a concentrarsi sulla gestione dei grandi patrimoni con una consulenza individualizzata, mentre i rimanenti clienti devono accontentarsi di offerte

standardizzate. Il limite per queste decisioni si situa oggi attorno ai 2 milioni di franchi. È un mondo nuovo per questi esperti di investimenti finanziari che finora hanno potuto vivere e prosperare all’ombra delle banche e grazie a una legislazione svizzera favorevole, a cominciare dal segreto bancario. Ma con l’avvento delle nuove leggi, le cui sigle

sono Fidleg e Finig, anche questi fiduciari vengono sottoposti a una regolamentazione più severa. In particolare dovranno chiedere un’autorizzazione all’Autorità di vigilanza sui mercati finanziari (Finma), ma dovranno anche disporre di un’organizzazione propria, con controlli interni efficaci che garantiscano il rispetto delle prescrizioni legali e di quelle proprie. I costi per questo adeguamento sono oggi valutati dagli operatori stessi in circa 50’000 franchi, cui farà seguito un aumento dei costi ordinari di gestione di circa 30’000 franchi all’anno. Il direttore dell’Associazione svizzera dei gestori patrimoniali non è però negativo, poiché il nuovo modello di vigilanza – del resto proposto dalla stessa Associazione – è favorevole alle piccole e medie attività e dovrebbe essere riconosciuto anche all’estero. L’autorizzazione della Finma migliora inoltre la credibilità degli operatori e chiarisce meglio gli aspetti legali della professione, rispetto a quanto fatto finora. Anche i gestori privati di patrimoni dovranno probabilmente riunirsi per formare una massa critica sufficiente per reggere la pressione che viene anche dalle stesse banche. Depositi fino a 30 milioni di franchi con molti gestori non sono più apprezzati dalle banche, che tendono verso dimensioni di 50 clienti con un patrimonio gestito di 100 milioni. Chi saprà adeguarsi – pensa la professoressa lucernese – avrà spazio anche in futuro su questo mercato. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Politica e Economia

Goodbye Libor La consulenza della Banca Migros

Irina Martín

Il Libor a tre mesi e il Saron mostrano andamenti molto simili 0.5 0 -0.5 -1

-2

Libor a 3 mesi

di riferimento calcolato e pubblicato in Svizzera dal 2009. Per chi desideri accendere un’ipoteca esisterà quindi anche in futuro un tasso di riferimento per i finanziamenti con adeguamento periodico.

Saron

Restano comunque alcune questioni aperte: da una parte, non sappiamo ancora se il Saron sarà l’unico successore del Libor; dall’altra, ogni istituto finanziario deciderà autonomamente come adeguare i contratti

Fonte: Thomson Reuters Datastream

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Tasso d'interesse (%)

Irina Martín è economista presso la Banca Migros

Il Libor è il principale tasso di riferimento in Svizzera e viene utilizzato tra l’altro per il calcolo degli interessi ipotecari. Eppure questo tasso verrà pubblicato solo fino alla fine del 2021. È per questo motivo che i media parlano di «abolizione del Libor». Il suo successore sarà il Saron. Chi ha un’ipoteca Libor o desidera accenderne una è direttamente interessato dall’abolizione di questo tasso di riferimento. Gli interessi che pagate per l’ipoteca Libor funzionano infatti come un prezzo variabile: se il Libor sale, aumentano anche gli interessi, che sono appunto legati all’andamento del tasso Libor. Al contrario beneficiate di interessi ipotecari minori quando il Libor scende. Fondamentalmente ogni istituto finanziario è libero di scegliere un nuovo tasso di riferimento per le proprie ipoteche. Se tutti si accordassero su un unico tasso di riferimento, ne conseguirebbe però un vantaggio, e cioè che sarebbe più facile confrontare le condizioni delle ipoteche. Il 5 ottobre 2017 il Gruppo di lavoro nazionale sui tassi di riferimento ha consigliato di utilizzare il Saron invece del Libor a partire dal 2022. Il Saron è un tasso

delle ipoteche Libor per far fronte al previsto cambio del tasso di riferimento. La Banca Migros sta attualmente lavorando all’elaborazione della migliore soluzione possibile per i suoi clienti. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi La frenata del 2015 Con il solito ritardo di 2 anni sono usciti, un paio di settimane fa, i dati relativi alla crescita delle economie delle regioni svizzere nel 2015. Il 2015, ovviamente, è un anno particolarmente interessante per gli osservatori economici. A metà gennaio di quell’anno, infatti, la Banca nazionale svizzera decise di abbandonare la politica che aveva perseguito sino allora, di sostenere un cambio di 1,2 franchi per un euro, per lasciare fluttuare la divisa a seconda dei capricci del mercato. Il cambio scese immediatamente a 1, 1,01 franchi per un euro per poi risalire e stabilizzarsi verso 1,08-1,09

franchi per un euro. Queste fluttuazioni rincararono naturalmente i prezzi dei beni svizzeri esportati in Europa di almeno un 10% compromettendo così la competitività delle nostre aziende esportatrici. Le stesse furono obbligate ad adottare misure per contenere l’aumento dei costi. In molti casi dovettero decidere se continuare a produrre in Svizzera, realizzando dolorose ristrutturazioni, oppure spostare una parte o l’intera produzione in nuove sedi situate in paesi dell’Unione Europea con livelli salariali non troppo elevati. Come soluzione intermedia le aziende che dovevano contenere i costi di produzione hanno potuto adottare quella di spostare una parte o l’intera produzione in una regione della Svizzera dove i salari erano inferiori alla media nazionale e la manodopera abbondante. Per esempio in Ticino. Per l’economia ticinese, quindi, la rivalutazione del franco ha avuto sì un effetto negativo, compromettendo

la competitività delle aziende esportatrici. Nel contempo, però, ha avuto anche un effetto positivo, rafforzando l’attrattività del cantone per le aziende esportatrici svizzere che necessitavano di manodopera relativamente a buon mercato. La pubblicazione delle stime del Pil regionale per il 2015 ci consente di verificare, almeno per saldo, quale sia stato l’impatto di questi due effetti. Purtroppo la perdita di competitività ha influito in modo molto più marcato che l’aumento di attrattività localizzativa. Come mostra il grafico allegato, l’economia ticinese ha conosciuto, nel 2015, una diminuzione del tasso di crescita del Pil molto maggiore che l’economia svizzera in media. Non solo, ma con il 2015, l’economia ticinese sembra essere ritornata in riga con l’andamento economico nazionale, mettendo termine a un breve, eccezionale, periodo durante il quale il tasso di crescita annuale del suo Pil era sempre superiore a quello medio

nazionale. I dati sulla variazione del Pil cantonale nel 2015 ci consentono ancora due osservazioni. Sempre a proposito della diversa misura nella quale la rivalutazione del franco ha potuto incidere sulla crescita delle economie regionali, possiamo rilevare che l’economia del Ticino si situa nel gruppo numeroso delle economie che hanno risentito mediamente dell’effetto negativo di questa rivalutazione, ossia delle economie nelle quali il tasso di crescita del Pil per il 2015 si è situato tra lo 0 e l’1 per cento. Colpite più gravemente dall’aumento di valore del franco sono state le economie dei cantoni industrializzati, nei quali prevalgono le aziende esportatrici come Basilea campagna, S. Gallo, Argovia, Ginevra e Giura. In questi cantoni il Pil, nel 2015, è diminuito rispetto all’anno precedente. La rivalutazione si è fatta invece meno sentire nei cantoni della Svizzera centrale, nel canton Zurigo e nei cantoni di Appenzello

interno, Vallese e Neuchâtel. Questi ultimi tre cantoni, pur disponendo di una base economica nella quale le aziende esportatrici giocano un ruolo importante, sono riusciti a realizzare un tasso di crescita del Pil largamente superiore all’1%. Se uno volesse cercare il rimedio contro la rivalutazione del franco dovrebbe studiare da vicino questi tre esempi. L’altra osservazione riguarda l’evoluzione dell’occupazione. In Ticino, nel 2015, è aumentata dello 0,6%, mentre in Svizzera è cresciuta dell’1,5%. Di conseguenza sia in Svizzera che in Ticino la produttività del lavoro è diminuita nel 2015, ma in Svizzera più largamente (–0,9) che in Ticino (–0,2%). La lezione da trarre dal 2015 è dunque che, nonostante la libera circolazione della manodopera, il Ticino continua a disporre di un’offerta di lavoro maggiormente flessibile di quella disponibile a livello nazionale. Il lettore intelligente capirà da solo perché.

vidi all’ingresso centinaia di chiavi che non aprivano più alcuna abitazione: al posto delle case abbandonate dagli arabi ora magari c’erano autosaloni, negozi di telefonini, caserme dell’esercito israeliano. Ogni baracca aveva fotografie alle pareti: i martiri del terrorismo, giovani che si erano fatti saltare in aria senza alcuna speranza, con l’unico risultato di accumulare altro sangue, altro dolore, altro rancore. Qua e là le ruspe israeliane stavano abbattendo le

case dei genitori di un kamikaze. Sono sempre andato in Israele nei momenti di speranza. La prima volta che entrai nella Gerusalemme vecchia era il 1993. Era notte, ero con un gruppo di pellegrini, la porta di Damasco sembrava il cancello del paradiso. Era l’anno di Oslo, grazie a Rabin la pace pareva davvero a portata di mano. Una pattuglia di soldati israeliani sorvegliava la casa di Sharon che aveva issato la bandiera con la stella di David in mezzo agli arabi: i soldati stessi ne parlavano come di un estremista che rappresentava una sensibilità esistente ma minoritaria. Due anni dopo Rabin venne assassinato. Tornai nel 1999, al governo c’era Barak, un soldato che alla pace credeva. Nel 2003 il lavoro mi riportò a Gerusalemme: premier era Sharon, che però non era più considerato un estremista, anzi il ritiro da Gaza da lui voluto accese grandi speranze, oltre all’opposizione dei coloni. Tornai

l’ultima volta nel 2005, appunto in occasione dell’avvento di Abu Mazen, considerato l’uomo del dialogo. Si pensò che, tolto di mezzo il leader degli anni del terrorismo, l’accordo sarebbe stato possibile. Non è andata così. Ricordo di quei giorni un’intervista con il grande storico Benny Morris, preveggentemente pessimista, e l’incontro con il cardinal Martini. Entrai nella sua stanza, fuori le mura della città vecchia, mentre uscivano i padri e le madri del «Parent’s Circle», un’associazione sostenuta da Martini che faceva incontrare i genitori delle vittime dello scontro, israeliani e palestinesi insieme. Un segno di pace prezioso, una delle tante speranze che non hanno ancora dato frutto. Purtroppo, l’impressione è che alla pace non creda ormai più nessuno. Ci siamo illusi che sarebbe giunta con un trattato, poi per sfinimento. Ma non è arrivata in nessuno dei due modi. E certo non arriverà con Trump.

è l’unico momento in cui, come nazione, tutta la popolazione è portata a pensare a tutte le componenti della società e ad attenersi agli impegni collegati». Le parole di MacGregor, accolte dai media con grande risalto, sono state recepite come ulteriore segno della rivincita che la festa cristiana per eccellenza sta prendendosi sui suoi detrattori, tanto che altri commentatori si sono allineati, spingendosi a parlare di una «Christmas Revolution» capace di ridare forza al vero Natale. Passano gli anni e, nonostante gli annunci di una sua inevitabile sparizione, appena sull’ultima pagina del calendario vediamo scritto «Natale» alla fine scopriamo che esiste ancora, che si rinnova. Far capire – non ai fedeli di altre religioni, ma soprattutto a noi occidentali aridi e individualisti – che fratellanza, pace e serenità possono nascere solo nel nostro personalissimo e intimo presepe, nei nostri cuori rimane però un’impresa assai complessa. Però

non impossibile, se si pone mente alla «mini rivoluzione natalizia» che molti di noi già avvertono. L’ha descritta anni fa Annalena Benini su «Il Foglio», ricordando l’odio preventivo che sentiamo affiorare e lasciamo prevalere non appena vediamo annunciati con largo anticipo segnali inequivocabili del Natale, e convinti ci diciamo: «Quest’anno niente regali, ma non solo niente regali, neanche una lucina, un panettone, neanche Buon Natale. Anzi, a tutti vaffa... e ci si rivede a gennaio». Poi però, dopo un primo momento di smarrimento, ricominciamo con entusiasmo a organizzare il Natale, contagiati da quella che lei ha definito «sindrome di Stoccolma», cioè «la frenesia che ci fa cantare, già da metà dicembre, “Jingle Bells” per strada, e correre a mettere i regali sotto l’albero». Una «mini rivoluzione» contro chi dice di volerlo togliere dal calendario, mentre in realtà lo vuole estirpare dai nostri cuori. Come quelli che hanno scelto la copertina natalizia di «der Spiegel».

In&outlet di Aldo Cazzullo Chi crede nella pace La mossa di Trump è incomprensibile. Soprattutto perché fatta senza avere nulla in cambio. Riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele poteva avere un senso se Netanyahu avesse dato qualcosa come corrispettivo: un piano di pace, il blocco degli insediamenti, un segno di buona volontà. Nulla di tutto questo è accaduto. L’unica conseguenza della scelta del presidente americano è il riaccendersi di una tensione che cova come il fuoco sotto la cenere. Altri scontri, altri morti. La questione palestinese è intatta. In questi anni Netanyahu ha vinto le elezioni promettendo di non risolverla. L’ultima volta, in ritardo nei sondaggi, ha rimontato proprio annunciando che con lui non sarebbe mai nato uno Stato palestinese. Come a dire che si sarebbe andati avanti con i muri, i soldati, i check-point, lo stillicidio di vite. Dall’altra parte, Abu Mazen ( nella

foto) ha compiuto un estremo tentativo di riprendere il controllo della situazione, ma di fronte ha un nemico interno, Hamas, forte della vittoria russosciita in Siria, che ha rafforzato l’asse Teheran-Damasco-Beirut-Gaza. Nel gennaio 2005 andai a raccontare per il «Corriere» la prima elezione di Abu Mazen. L’atmosfera era carica di speranza. La morte di Arafat lasciava credere che qualcosa poteva cambiare davvero. Andai nei campi profughi,

Zig-Zag di Ovidio Biffi Per un Natale che medita la rivincita Quest’anno a Londra il Natale è contrassegnato da un’importante mostra intitolata «Living with Gods», cioè «Vivendo con gli dei», in corso al British Museum. Non avendo visitato l’esposizione, mi limito a becchettare le recensioni dei principali media londinesi. In particolare quella di Janan Ganesh sul «Financial Times» e una lunga intervista del «Church Times», splendido settimanale online della chiesa anglicana. La prima menzione la merita il critico Alastair Sooke del «Telegraph» per il suo incipit: «Quand’è l’ultima volta che avete pianto a una mostra? Io posso dirvelo subito: è capitato dopo aver visto gli oltre 160 oggetti di “Vivendo con gli dei” al British Museum». A dire il vero io non cercavo spunti per riempirmi di commozione e lacrime, ma piuttosto un «trait d’union» con il Natale cristiano ormai incombente. L’idea mi era nata leggendo una recensione sul «Financial Times», in cui Janan Ganesh definiva la mostra londinese «l’ultimo tentativo di mostrare

a una società secolarizzata la profondità e la ricchezza di tutto quello di cui si sta sbarazzando». Un’accusa tanto chiara quanto pesante, rivolta a un Occidente frastornato dalle zavorre dell’individualismo e dei populismi, ma indirizzata soprattutto a un’Europa che rinnega le sue radici cristiane e a una Francia ormai soffocata da leggi e decreti dettati dal bieco giacobinismo del presidente Hollande per ghettizzare le chiese cristiane. Variando le fonti ho poi scoperto che «Living with Gods» non ha finalità indirizzate alla geopolitica. Anzi: l’esposizione è fin troppo asettica sotto questo profilo, al punto da aver rimosso, in ossequio all’ormai imperante «politicamente corretto», alcuni oggetti di una religione (lo scintoismo) perché recavano l’originaria svastica usata secoli dopo dal nazismo. Mi sono chiesto: vuoi vedere che è colpa di questo orientamento (via anche il presepe, come la svastica) se non ci sono riferimenti al Natale cristiano? Alla fine

una traccia, anche se indiretta, l’ho trovata. Me l’ha fornita il curatore dell’esposizione Neil MacGregor, tra le massime autorità culturali europee, che sul «Financial Times» con un perentorio «Siamo i primi della storia senza religione» aveva rafforzato le critiche lanciate da Ganesh all’Europa. Il giorno dopo sulla rivista online «Church Times» sollecitato dall’intervistatore a chiarire come sia possibile superare le difficoltà che ancora esistono nella separazione fra Stato e Chiesa dapprima ha ricordato che le società che avevano tentato di abolire la religione, come la Francia del 1793 o come l’Unione Sovietica il secolo scorso, hanno finito per vederla rimpiazzata con una religione di Stato. Successivamente egli ha citato il Natale indicandolo come «un momento in cui tutti hanno apertura e sensibilità verso i poveri, i deboli, i diseredati», precisando anche che secondo lui il Natale è articolato in varie celebrazioni (dall’Avvento all’Epifania) proprio «perché ormai


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Cultura e Spettacoli La prima alla Scala Andrea Chénier, diretto da Chailly e Martone, ha visto in scena la coppia NetrebkoEyvazov

Fotografare il futuro Il ticinese Gian Paolo Minelli ha trascorso mesi a fotografare le complesse procedure di trasbordo dalla strada alla ferrovia, trasformando industria in arte

Una vetrina elvetica L’Istituto svizzero di Roma ha proposto un insolito mercatino di Natale musicale made in CH pagina 43

Il canto popolare oggi Con La mia banda suona il folk la RSI ha mostrato il grande potenziale musicale ticinese

pagina 41

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Un Natale vero e spietato nel capolavoro di Bergman, Fanny e Alexander. (Keystone)

Natale crudele

Riflessioni Festività e arte: molto spesso durante la festa più importante dei cristiani, amore e dolore convergono Daniele Bernardi È del 2014 un’antologia di racconti natalizi dal titolo accattivante, che richiama il noto incipit de La terra desolata di T.S. Eliot, Il giorno più crudele – Il Natale raccontato da dodici grandi scrittori (ISBN edizioni). Di per sé l’idea era brillante: riunire in volume quei brani che consegnano un’autentica immagine della festività; sì, perché, come molti potranno confermare, la ricorrenza più e più volte, in famiglia come altrove, non è propriamente idilliaca. Ma oltre le possibili liti, le incomprensioni e i nodi che, almeno una volta all’anno, vengono al pettine c’è dell’altro: il Natale ci riporta a una dimensione di mistero perduto, di attesa e di vano desiderio del miracolo. Col Natale, forse, il fantasma del bambino che eravamo torna a sbirciare il cielo freddo nella speranza di ritrovare un brandello di quella grande patria che è l’infanzia (Baudelaire). Per queste ragioni la citata crudeltà eliottiana sembra calzare a pennello, come un gelido guanto, alle ore che accerchiano la mezzanotte del 24: dove

cade il velo dell’illusione, ci si scopre come espulsi dall’incanto, preda di una pungente nostalgia; e a ciò si sommano la ruvidezza degli eventi e la memoria di quanto è stato. Non a caso molti scrittori hanno ambito a scrivere «il proprio» racconto di Natale: l’antologia annovera Andersen, Čechov, Collodi, Maupassant, ovviamente Dickens... ma anche Dostoevskij, Gogol’, Henry e altri ancora. Non c’è che dire, Il giorno più crudele raccoglie pagine dei più grandi autori della letteratura mondiale... eppure, strano a dirsi, presto la sua lettura cessa di ammaliarci. Sarà forse perché nessuno dei testi scelti, a mio avviso, risulta davvero crudele, perché quando si tocca una data tematica le aspettative sono alte o, ancora, perché quella che si propone come un’operazione originale altro non è, in fondo, che una trovata editoriale. Dove andare a pescare allora, in letteratura, un sentimento vero e spietato che, in modi diversi, ci parli della festa della natività? Dove trovare quella inconfondibile sensazione che, ad esempio, ha certamente saputo cogliere

Ingmar Bergman con quel capolavoro che è Fanny e Alexander? Subito due esempi vengono in soccorso. Il primo, che è davvero celebre, si legge ne Il porto sepolto, fra le poesie de L’allegria (1919) di Giuseppe Ungaretti, e si intitola Veglia – molti, probabilmente, come il sottoscritto, l’avranno incontrato sui banchi delle superiori. Nel 1915 il poeta era mobilitato nel Carso, sul Monte San Michele, mentre attorno infuriava la guerra. «Incomincio Il porto sepolto, dal primo giorno della mia vita in trincea», racconta, «e quel giorno era il giorno di Natale (...). Ho passato quella notte coricato nel fango, di faccia al nemico che stava più in alto di noi ed era cento volte meglio armato». Quindi, per se stesso e non per altri – poiché «quei foglietti», dapprincipio, «non erano destinati a nessun pubblico» ma al proprio «esame di coscienza» – la notte dell’antivigilia Ungaretti scrisse i celebri versi: «Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio / con la congestione / delle sue mani / penetrata / nel mio silenzio / ho scritto / lettere

piene d’amore // Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita». Come Wittgenstein ebbe la forza di forgiare il suo Tractatus sotto le bombe, con l’esperienza estrema de Il porto sepolto Ungaretti confermò quanto poi avrebbe sostenuto nelle pagine di Ragioni d’una poesia; e cioè «che in arte, sì, contavano la pazienza, la tradizione – e contava, in realtà, solo il miracolo»: infatti, proprio come un miracolo, nel macello della Grande Guerra la poesia – una poesia nuova, necessaria, violentemente autonoma – lo soccorse dagli eventi alle soglie della notte santa. Il secondo esempio invece è meno conosciuto, ma non meno bello. Si tratta della poesia Ô Douce Nuit del pittore e regista Tadeus Kantor – la si può leggere in Il teatro della morte. Qui, descrivendo una di quelle notti ora «perdute nel calendario», l’artista polacco rievoca il momento dell’attesa come quello in cui entrò in contatto con l’essenza stessa del segreto: «Poi siamo corsi giù / verso la stalla, / per sentire come gli animali / parlano la lingua degli uomini. / Di colpo sono arrivate le slitte, / il

cocchiere con una torcia, / siamo saliti in quelle slitte / e raggomitolati aspettavamo... / I bambini aspettano sempre qualcosa d’importante... / Durante una notte simile, può succedere di tutto». Poi anche Kantor, come Ungaretti, ci parla dell’arte come di un evento magico: «È stato in una notte come quella che / cominciò il mio teatro, / la Povertà, / la felicità e i PIANTI, / e l’amore... / Lentamente si compiva il / miracolo, / l’arte». Ma ciò che pervade il testo dal principio alla fine è, soprattutto, un sentimento ineludibile di perdita che attraversa ogni immagine quasi fosse una crepa; la notte, quindi, diventa «una fanciulla / amata / attesa con nostalgia» e in un goffo «San Nicolò» l’occhio infantile già riconosce il sagrestano travestito. Che dire: una festa di dolore e amore, quella del Natale, dove sembra coagularsi un insieme di significati per nulla scontati; e se gli esempi menzionati dovessero risultare troppo colti o poco convincenti a questo punto si consiglia, anche, di non disdegnare la visione di Gremlins né di Nightmare Before Christmas.


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Cultura e Spettacoli

Una ghigliottina per due

Opera A ndrea Chénier di Umberto Giordano inaugura la stagione lirica al Teatro alla Scala

Sabrina Faller Ah, la rivoluzione! Avvolta da romantico afflato, è tema prediletto in letteratura, sia essa sfondo di amorose vicende o luogo da cui scaturiscono personaggi fiammeggianti e smaniosi di protagonismo politico. Questo Andrea Chénier che vediamo alla Scala, nato dalla penna del compositore Umberto Giordano e del librettista Luigi Illica, rappresentato la prima volta nel 1896 proprio alla Scala, nasce da una biografia reale: André Chénier è vissuto davvero poco più di un secolo prima dell’opera che lo celebra, è stato poeta appassionato e a trentun anni se l’è portato via la ghigliottina con l’accusa di crimini contro lo Stato, lui che nel difficile momento chiamato Terrore tentava una via politica alla moderazione – la monarchia costituzionale – e aveva addirittura gioito per l’assassinio di Marat. Rileggiamo i suoi versi in lingua originale, per esempio quelli di La Jeune Captive, poemetto scritto in prigione per una giovane aristocratica in catene: sono caldi e frementi come la rivoluzione che lo travolse. Nell’opera di Giordano la vicenda corre parallela con quella amorosa, resa più eccitante dalla presenza di un rivale in politica e in amore, Carlo Gérard, a contendere al protagonista le grazie della bella Maddalena. E a ricordarci vagamente un altro, più sanguigno terzetto che di lì a qualche anno invaderà la scena, composto da Tosca, Mario e Scarpia. Il contrasto tra il mondo frivolo e ricchissimo di un’aristocrazia malata e quello

Anna Netrebko (di spalle) in Andrea Chénier. (Credit Brescia / Amisano – Teatro alla Scala)

pronto all’esplosione dei miserrimi del terzo stato dà il la alla vicenda e offre spunti interessanti alla regia. Che poi la rivoluzione si possa rappresentare tautologicamente solo mettendo in scena la rivoluzione francese è opinione del regista Mario Martone, che comunque l’ha già allestita in teatro con La morte di Danton di Büchner, mentre sul set del film Noi credevamo si muoveva in pieno Risorgimento. La ghigliottina che uccide i due amanti, com’è noto, è sempre la stessa, e ha attraversato ormai tre spettacoli. È altrettanto noto che Martone non è regista rivoluzio-

nario, è piuttosto un rivisitatore della tradizione, magari liberata da qualche orpello – grazie all’ausilio della sempre rigorosa Margherita Palli, scenografa raffinata ed essenziale, elegante e severa, non a caso amatissima da Luca Ronconi – e restituita viva, pure con qualche splendore. È una scelta di campo, quella del Teatro alla Scala e del suo sovrintendente Alexander Pereira: mostrare che la tradizione può anche vivere in tempi altrove registicamente estrosi e innovativi. Fastoso e scintillante, tutto specchi altissimi e ori, questo allestimento pro-

rompe nel primo quadro, ma senza eccessi. Il gioco di riflessi affascina, gli ori rilucono, il fragore della caduta prossima è altrettanto percepibile. Poi attraverso il meccanismo girevole inventato da Margherita Palli, che permette il fluire di un’azione ininterrotta, spazio alla rivoluzione francese – stilizzata dalle linee pure della scenografa ticinese – con il suo tricolore, i ponti parigini, i berretti d’epoca. In scena si muove una coppia che fa parlare di sé: marito e moglie nella vita, lei Anna Netrebko (Maddalena) è una star della lirica, lui Yusif Eyvazov, (Andrea Chénier) un te-

nore azero di grandi speranze. Critica e pubblico li attendono al varco, soprattutto attendono lui, che di bello sfoggia una curatissima dizione italiana. Il resto è cronaca: l’impegno del debuttante è ampiamente apprezzato, rare ma feroci le stroncature, mentre sui social si scatena la battaglia degli amanti della lirica tra pro e contro. Accanto allo sperduto Eyvazov la magnifica e osannata Netrebko sembra non del tutto a suo agio, la sua Maddalena non avvolge né emoziona come la meravigliosa Giovanna d’Arco di due anni fa. Il baritono Luca Salsi, di cui ben si conoscono le doti interpretative e le gesta «eroiche» (ha cantato due opere in un sol giorno al Met, sostituendo Domingo in Ernani al pomeriggio e interpretando Lord Ashton in Lucia di Lammermoor di Donizetti la sera), è una carta sicura da giocare – epperò non convince del tutto – nel ruolo di Gérard, che ha di recente interpretato con successo a Monaco, insieme alla molto coinvolgente coppia Kaufmann-Harteros. Ci seduce dal podio Riccardo Chailly, che tiene in pugno la serata, mentre il finale si congela in un’immagine di fredda bellezza, senza lacrime. E tuttavia pubblico e critica sono – siamo – almeno per un attimo conquistati dall’evento: magia del teatro che diventa grande protagonista della scena mediatica per un giorno e per un giorno ci ricorda quanto l’arte – anche e soprattutto quando è dibattuta con passione – sia necessaria per le nostre vite. Andrea Chénier è in scena alla Scala fino al 5 gennaio. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Il virus dei manga

Mostre A Roma un’imperdibile esposizione su manga, anime & co.

Emergenza anglicismi? Pubblicazioni Nuove prospettive

per un settore un po’ spento della linguistica

Blanche Greco Lo si potrebbe paragonare a un virus che si è diffuso e ha attecchito in tutta l’Asia: evocando immagini, suscitando emozioni, sentimenti e voglia di libertà. Un virus che stimola a creare e raccontare storie di tutti i tipi, vere, o inventate, persino quelle che i governi di alcuni paesi non vorrebbero che venissero ricordate e narrate, perché il manga non è un semplice fumetto, ma molto di più. Ce lo illustra e racconta Mangasia – Wonderlands of Asian Comics, la prima mostra al mondo sulla storia del fumetto asiatico aperta a Roma e curata da Paul Gravett e dal Barbican Centre di Londra.

Stefano Vassere

I manga sono il risultato (complesso) di una lunga serie di contaminazioni tra occidente e oriente Grazie ad un nutrito team di esperti, l’esposizione è una sorta di viaggio in un territorio vastissimo e sorprendentemente sconosciuto, e presenta in anteprima mondiale 281 tavole originali e 200 volumi, oltre ad antichi manufatti in legno, sculture, video e modernissime creazioni artistiche. Si resta sorpresi davanti alla varietà e alla complessità del mondo di Mangasia, ma soprattutto dalla scoperta che oltre al Giappone, alla Cina, alla Corea, del Nord o del Sud, all’India, anche i più piccoli Stati del grande continente asiatico, dal Bhutan, allo Sri Lanka, alla Mongolia, alla Thailandia, producono, si divertono, creano fumetti in un crogiuolo culturale pieno di sottigliezze e di differenze, che nel manga trova modo di esprimersi. Mangasia è una finestra su questo meraviglioso mondo del fumetto. Se siete degli estimatori dei «Manga-Anime» troverete cose di cui non avrete mai sentito parlare: ci sono esempi di questa incredibile cultura, mescolati a esempi di altri paesi, in una sorta di racconto infinito che si nutre di contaminazioni incrociate. La mostra è organizzata in sei grandi aree tematiche: si inizia con una sezione che presenta una mappatura di tutta l’area geografica, caratterizzata dalle differenti peculiarità editoriali dei vari Paesi; una sezione sul folclore, le favole e il soprannaturale; una sulla storia, per dare un’idea dell’incredibile complessità del continente asiatico nel XX secolo; una

Kuniyoshi «guerriero spada tra i denti». (Courtesy of the Library of Congress)

sezione sugli spazi creativi e la vita creativa degli artisti; una sulla censura e i contenuti più scabrosi e talvolta controversi dei manga; e infine una sezione sulle nuove forme digitali e artistiche dei fumetti e come questi si sono adattati dentro ai film di anime. Ma i manga e gli anime più conosciuti e amati, sono mescolati con altre sorprendenti forme di racconto, poiché si desidera che il visitatore sia stimolato da ciò che conosce e si lasci tentare da ciò che non ha mai visto. «L’Europa è entrata in contatto con i manga attraverso i cartoni animati, fu a seguito dell’invasione, nella programmazione televisiva europea, degli anime che, anni fa, il pubblico cominciò a interessarsi ai fumetti da cui erano tratti», ci ha raccontato il curatore Paul Gravett. Anche in Oriente gli anime giocarono un ruolo importante nella diffusione dei fumetti, anche se in buona parte dell’Asia molti manga venivano esportati, o in certi casi «piratati» illegalmente come a Taiwan o in Thailandia, dove non si trovavano nella loro lingua. Del resto il Giappone ha stretti legami linguistici e culturali con la Cina e con gli altri paesi asiatici, per cui il manga in quei paesi non era visto come un fenomeno «alieno», ma piut-

tosto familiare, anche se molto speciale, mentre in Europa era sicuramente percepito come qualcosa di «esotico» e di strano, il che ne aumentava il fascino e contribuì alla sua diffusione e al suo successo. Tuttavia le peculiarità dei manga, l’essere considerato in Asia qualcosa di familiare, ma anche di molto speciale, è dovuto al fatto che il fumetto occidentale ha avuto a sua volta una grande influenza sui manga. I manga moderni non esisterebbero se alla fine del ’900 non fossero arrivati in Asia fumetti e cartoons occidentali dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dall’America. Dal canto suo il Giappone non poté fare a meno di aprirsi alle influenze esterne che s’inserirono in modo proficuo nella ricca tradizione grafica risalente al grande Hokusai e ad altri maestri. I manga sono dunque il frutto della fusione tra est e ovest che oggi noi siamo in grado di capire e di vedere. Dove e quando

Mangasia. Wonderlands of Asian Comics, Roma, Palazzo delle Esposizioni. Orari: do-ma-me-gio 10.00-20.00; ve-sa 10.00-22.30. Fino al 21 gennaio 2018. www.palazzoesposizioni.it

«Il concetto di potere morbido, formulato alla fine del secolo scorso dal politologo Joseph Nye, dell’Università di Harvard, riguarda la capacità di influenzare gli interlocutori suscitandone il consenso attraverso la seduzione e la desiderabilità. È un tipo di influenza che una nazione riesce a esercitare anche senza essere una grande potenza economica o militare». Che il tema degli anglicismi vada ormai un po’ svecchiato è auspicio sacrosanto. L’argomento è scientificamente fermo da anni, pericolosamente esposto alla tentazione, che è anche di qualche linguista illustre, a stare di qua o di là. Dalla parte degli angloscettici neopuristi che sostengono che l’interferenza dall’inglese stia rovinando la nostra lingua, la stia mettendo addirittura in pericolo. O dalla parte degli angloentusiasti, come il tedesco Anatol Stefanowitsch, che insegna all’Università di Amburgo e che dal 2010 indice un concorso per l’anglicismo dell’anno, che è celebrato puntualmente con grande cerimonia. È quindi benvenuto il libro di un linguista meno conosciuto degli altri, ma originale nella trattazione di questo tema, come dimostra in questo suo Diciamolo in italiano. Gli abusi dell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla, appena uscito. Antonio Zoppetti è insegnante e divulgatore; quasi venticinque anni fa, ha per esempio curato la versione digitale del primo dizionario elettronico italiano, l’altrimenti cartaceo Devoto-Oli. In questo suo Diciamolo…, nella meccanica e solida grafica della casa editrice Hoepli, l’argomento è sondato in lungo e in largo. Ci sono i paragoni con altre realtà linguistiche; c’è l’analisi strutturale

di dove vanno a incocciare gli anglicismi quando piombano sul sistema linguistico italiano; ci sono gli ormai immancabili pesudoanglicismi (lessicali, grafici e di costume); gli ambiti da dove planano (mass media, scienze, nuove tecnologie ecc.); c’è un «Che fare» che dovrebbe permettere ai parlanti italiani che soffrono di fare un passo avanti, «dalle lamentele all’azione», come dice il titolo di un paragrafo. Questo libro mette le mani in territori dal respiro certamente ampio e ci tira una certa aria di novità. Dal confronto con le altre realtà (su questo campo, l’italiano è messo sotto da francese e spagnolo e pareggia con il tedesco), al ruolo sottovalutato dell’intervento legislativo francese, alle questioni di costume linguistico e culturale (l’inglese come latinorum contemporaneo è immagine indovinata), all’idea che gli pseudoanglicismi, termini «similinglesi» attestati solo in italiano, siano riconducibili a fenomeni di ibridismo della stessa lingua inglese, che alla periferia dell’impero muta come mutava il latino nel suo periodo di massima espansione. Certo è che il fenomeno riguarda per la sua quasi totalità le parole, e il tentativo di vedere un’avanzata dell’inglese nel cuore del sistema raccoglie solo qualche fraseologia nei territori dove la sintassi è molto prossima al lessico («chi ha comprato cosa», «votare per il tal partito», poca roba). «Che fare?» è capitolo militante, perché su questo tema tutti, anche i più rigorosi, finiscono per cedere alla passione. Nell’ordine: prendere coscienza del fenomeno, non negarselo; mettersi al riparo dal fascino e dalla sensualità della lingua inglese; l’Accademia della Crusca; politica linguistica e intervento statale (chi ha detto che in Francia la Loi Toubon del 1994 non abbia funzionato?); la promozione dell’italiano come portatore di un potere morbido, che di fronte allo strapotere economico e politico conquisti con la dolcezza e la seduzione; l’uso dell’ironia. Consigli superiori e ministeri hanno avviato in Francia e in Spagna campagne che letteralmente prendono in giro chi usa franglais, spanglish, linguaggi sincopati e abbreviati come quelli dei messaggini. Ogni consiglio è benvenuto. Bibliografia

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Cultura e Spettacoli

Sui binari del futuro

Fotografia I n occasione dei 50 anni della Hupac il fotografo di origini chiassesi Gian Paolo Minelli ha realizzato

un importante lavoro sul trasbordo delle merci nello spazio intermodale di Gallarate-Busto Arsizio

Gian Franco Ragno Com’è forse già noto a chi si interessa di fotografia contemporanea, Gian Paolo Minelli, uno dei più noti artisti ticinesi, vive e opera in Argentina, compiendo quindi una sorta di riproposizione dell’emigrazione regionale dello scorso secolo. Nella sua ampia produzione, attività espositiva e bibliografia, segnaliamo, su tutti, il libro The Skin of the Cities (2010) curato da Tobia Bezzola, futuro direttore del MASI, in cui il fotografo esplicita la sua poetica sulla dialettica tra la città contemporanea e coloro che la vivono.

Lo spazio intermodale fotografato da Minelli è come un labirinto che suscita vertigine e smarrimento Per le edizioni Casagrande di Bellinzona, Minelli ha pubblicato recentemente un nuovo libro che tratta essenzialmente di ferrovia, frutto di una commissione dell’importante gruppo Hupac, all’avanguardia nel trasporto di merci, in occasione dei cinquant’anni di attività. In verità, si tratta di una presenza quanto mai discreta, che ha lasciato all’autore la massima libertà d’azione e non è intervenuta sulle scelte stilistiche nel volume. Già presentato nella suggestiva location delle pensili-

ne dello scalo chiassese durante i primi giorni dell’inaugurazione della Biennale dell’immagine da Elio Schenini, curatore del MASI e autore di uno dei sei saggi critici contenuti nel catalogo, il volume è composto da fotografie a colori e in bianco e nero. Alcune di esse, in ripresa notturna, sembrano compiere una sorta di ritorno alle origini, ovvero alle serie Notturni della metà degli anni Novanta, presentata dall’esordiente fotografo durante le sue prime esposizioni personali – forse è stato questo a suggerire il titolo Variazioni su un tema. Le riprese si sono concentrate nello spazio intermodale dell’Hupac nella vicina Gallarate-Busto Arsizio. Uno spazio di cui non si vede l’orizzonte, che ci appare come una sorta di città fantasma di ferro e acciaio, in cui regna la regolarità data dal ritmo dei binari, dall’ordine dei vagoni e dalle strutture annesse. Di conseguenza le immagini (spesso dettagli e scorci di convogli in attesa – pensiamo – di entrare in atto) rinviano e restituiscono un sottile gioco di richiami cromatici e formali, sfiorando in più di un caso l’astrazione – come fu il caso della fotografia modernista di inizio Novecento. Protagonisti assoluti e immobili di tale universo meccanico sono i container: essi infatti sembrano definire la forma minima del mondo, singola unità di quell’immenso fiume carsico mondiale che è il traffico delle merci. Tessere di un domino globale, conte-

La copertina di Variazioni su un tema, di Gian Paolo Minelli.

nitori dal contenuto sconosciuto, forme che nascondono più che rivelare, impongono la loro presenza dai colori accesi e al tempo stesso consumati, con scritte e loghi che sembrano volere sostituire, con autorità, le bandiere nazionali con nuovi invisibili regni. Nel progetto di Minelli, come detto, non vi è un’immagine che riesca a riassumere e cogliere l’interezza dell’area interessata. Ed è proprio da ciò che potremmo partire e trarre uno spunto per una possibile chiave di lettura del volume: possiamo considerare l’intero spazio intermodale come una sorta di

labirinto, nell’accezione data ad esso da Jorge Luis Borges, anch’egli argentino. Ovvero un luogo che suscita vertigine e smarrimento. D’altra parte, il labirinto è una sorta di metafora della complessità del mondo, impossibile da conoscere nella sua interezza: un paragone calzante se pensiamo al tema in questione. La ricerca di una via d’uscita appare simboleggiata dall’immagine di copertina: un gioco di linee e colori che si riuniscono in un punto luminoso, ovvero l’apertura del nuovo tunnel del Gottardo a Erstfeld. Una visione futuristica: astratta, senza precise indicazioni

ma al tempo stesso affascinante e portatrice di promesse. Per concludere, per quanto nato in occasione di un anniversario di un’importante azienda sul territorio, il soggetto del libro di Minelli non perderà a breve la sua attualità, rimanendo anzi funzionale a una lettura non meramente epidermica della realtà che ci circonda. Bibliografia

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Cultura e Spettacoli

Un possibile presepio della musica svizzera d’oggi Musica La scorsa settimana in tour tra Roma, Venezia e Milano

Zeno Gabaglio I mercatini natalizi non sono avanguardia. Non che debbano esserlo, ma certamente chi vi si reca non lo fa per cercare nuove idee, nuove sensazioni, nuovi punti di vista: nei mercatini di Natale si vuole e si deve infatti respirare l’eterno ritorno dell’uguale, la puntuale ripetizione di esperienze già vissute in passato, la riapparizione di sapori e odori immutati fin dalla lontana infanzia. È per questo motivo che risulta perlomeno curioso – quando non schiettamente divertente – il fatto che l’Istituto svizzero di Roma abbia giocato sull’ambiguità del mercatino natalizio per offrire al pubblico italiano le punte più avanzate della creazione musicale confederata. Per cinque giorni della scorsa settimana – nelle sedi di Venezia, Milano e Roma – è infatti andato in scena un mercato d’Avvento sui generis che ha visto l’alternarsi di DJ e musicisti in un virtuoso scambio italo-svizzero. C’erano ovviamente anche delle piccole bancarelle – unico legame fattuale con l’idea di mercatino – ma nessun vino speziato né corone di sempreverdi: tavolini imbanditi esclusivamente con rarità discografiche del presente e del passato, emergenti dal sottosuolo culturale delle Alpi di qua e di là. L’elemento davvero interessante – ed è una prima assoluta, data l’organicità dell’operazione – risiede proprio

nel fatto che la massima istituzione culturale svizzera presente su suolo italiano abbia scelto quel tipo di espressioni musicali per dare un’immagine di sé e di noi. Segno dei tempi che cambiano, verrebbe da dire, la scelta di abbandonare le stantie patinature di altri generi ritenuti più colti o più classici: la Svizzera si mostra nuda e cruda, sincera e sperimentatrice, irriverente e innovativa come frutto imperfetto – ma per questo vivido e meraviglioso – di trent’anni di coerente sottosuolo. Non è forse un caso – a questo punto, con l’underground come requisito unitario – che nel ponte Svizzera-Italia costituito dall’insolito mercatino natalizio a mancare sia proprio stata la Svizzera italiana: troppo poco Svizzera (nell’assenza di una propria vena creativa urbana, dialettica e progressista), troppo poco Italia (nel consentire l’emergere anche solo sporadico di genialità inventive e originali). Poco male: il semplice fatto che il Mercato di Natale sia esistito ci ha consentito di rinsaldare i legami ideali con quanto di buono e bello avviene nel resto della nostra nazione. Alcuni esempi? Tanto per cominciare lui, l’icona dell’indipendenza esistenziale prima ancora che musicale e poetica: Beat Zeller, meglio conosciuto come Reverend Beat-Man. Irriverente alfiere di un non meglio definibile «gospel blues trash», l’ormai cinquantenne musicista ber-

nese è un punto fermo nel panorama nazionale ed europeo sia per quello che ha creato come autore, sia per il movimento di pensiero, idee e stile che ha generato con l’etichetta Voodoo Rhythm Records: ormai mondialmente riconosciuta come un’affermazione di Weltanschauung prima ancora che come marchio musicale. O ancora la pianista e suonatrice di armonium basilese Vera Kappeler, recente premiata al Premio svizzero di musica. Refrattaria a qualsiasi forma di etichettatura, la sua musica spazia da esoterici esperimenti sonori alle canzoni di Paul Burkhard, dalla rivisitazione di vecchi canti popolari fino alla musica per teatro o per le arti visive: produzioni mai scontate, come il programma solistico Grossmutters Flügel, il duo con il batterista Conradin Zumthor (Babylon-Suite il disco uscito nel 2014 per ECM) o le collaborazioni con Marianne Racine. Tra questi due estremi – personaggi già affermati che congiungono categorie e universi opposti, dal ribelle all’accademico – c’è stato modo anche di incontrare e conoscere diversi artisti della nuova generazione, come il performer vocale Arthur Henry: beatboxer, looper e auto-dj dall’inesauribile vena creativa. Ecco tratteggiato un possibile presepio – discontinuo, scomposto, meraviglioso – della musica svizzera contemporanea.

L’eclettico Beat Zeller, anche noto come Reverend Beat-Man. (Wikipedia)

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Cultura e Spettacoli

Quando la brocca si ruppe

Teatro La fortunata pièce di Heinrich Von Kleist, in cartellone alla Schauspielhaus di Zurigo

nell’allestimento della direttrice Barbara Frey Marinella Polli Der Zerbrochne Krug (La brocca rotta), attualmente in cartellone alla Schauspielhaus di Zurigo per la regia della padrona di casa Barbara Frey, viene considerata da generazioni l’opera perfetta di Heinrich von Kleist, nonché una delle commedie più riuscite del teatro tedesco. Una commedia esemplare strutturata con finezza, i cui dettagli e indizi si dispiegano uno dopo l’altro, culminando in un finale che tutti comunque già si aspettano; vale a dire una commedia degli errori che si districa gradualmente, ma completamente solo nella parte conclusiva, catturando però a partire da subito l’attenzione, nonostante il fatto principale sia già chiaro sin dalla prima scena, e il pubblico sia perfettamente consapevole di una verità da tutti i personaggi mascherata e taciuta. Un unico sostanzioso atto, peraltro riarticolato in tre atti dal grande Goethe (non esattamente un ammiratore di Kleist), il primo a metterla in scena nel 1808. Una pièce che, coniugando divertimento a momenti di profonda riflessione sulla natura umana e su situazioni universali e fuori dal tempo, e andando ben oltre l’incidente della brocca rotta, indaga meschinità umana, scarsa moralità, corruzione, abuso di potere, nonché tutti i tentativi di manipolazione dei personaggi, in tutte le relative dinamiche della reciproca comunicazione. Dinamiche

peraltro non sempre attendibili, ed è appunto su questa inattendibilità della comunicazione (Kleist aveva letto avidamente Kant) che Barbara Frey punta, sottolineando magistralmente come i personaggi vogliono in apparenza chiarire un fatto, la rottura di una brocca, volendo in realtà nasconderlo per nascondere le proprie colpe, e per dunque ottenere ogni cosa fuorché la giustizia. Anche l’ambiente scenico funzionale di Muriel Gerstner (scena girevole ad angusti scomparti da cui escono e rientrano i vari personaggi ascoltati durante l’udienza) sta a simboleggiare sotterfugio, clandestinità e menzogna. La Frey si avvale però innanzitutto di un cast dalle notevoli capacità attoriali sempre in grado di resistere alla sollecitazione delle battute più esilaranti senza cadere nella caricatura. Ottima la prestazione di Markus Scheumann nel ruolo del colpevolissimo giudice Adamo innamorato di tutte le Eve di questo mondo, fra il Falstaff scespiriano, il fauno e il Don Giovanni mancato. Gli sono pari tutti gli altri attori, da Hans Kremer nei panni di Walter, il consigliere di giustizia che, arrivando all’improvviso per un’ispezione approfondita, causa la massima agitazione, a Frederike Wagner in quelli di mamma Marta l’accusatrice del fidanzato della figlia. Fino a Lisa Katrina Meyer nella parte di Eva, sempre in bilico fra ingenuità e astuzia e in fondo la sola che potrebbe risolvere la questione, se

Una scena di Der zerbrochne Krug: la pièce sarà alla Schauspielhaus fino a inizio gennaio. (© Matthias Horn)

soltanto rivelasse il nome del visitatore notturno: si noti come qui sia Adamo il seduttore di Eva, e non il contrario. Vi è poi Inga Busch nei panni maschili di Ruprecht, il fidanzato che continua a difendersi sostenendo di non essersi introdotto in casa di Eva e di non esser dunque stato lui ad aver rotto la fatidica preziosa brocca, bensì un altro

uomo visto fuggire dalla camera da letto. Inoltre Michel Tregor nel ruolo di Licht, il segretario di tribunale cui appare subito chiaro come il giudice stia cercando in tutti i modi di togliersi dagli impicci, e Graham F. Valentine in quello femminile di Brigitte, la vicina di casa che, ritrovatane la parrucca, condurrà alla scoperta della colpevo-

lezza di Adamo, ormai non più giudice ma imputato, sia per aver rotto la brocca sia per aver messo la giustizia al servizio dei suoi personali bisogni. Di Der zerbrochne Krug di Heinrich von Kleist, che ha riscontrato un enorme successo alla prima, sono previste repliche alla Schauspielhaus di Zurigo fino al 4 gennaio. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Paolo Fresu, il jazzista mistico Incontri Il celebre musicista sardo ci ha raccontato il suo nuovo

progetto che l’ha portato... nel Medioevo

Enrico Parola Paolo Fresu è l’icona italiana della tromba jazz. L’ha portata addirittura in cima alle Dolomiti: il suo profilo sulla parete di roccia illuminato dall’alba su un mare di nuvole è diventato uno dei simboli della rassegna che si svolge ogni estate tra le montagne trentine. Eppure il musicista di Berchidda si stupisce del suo ultimo viaggio: l’ha portato in regioni prima impensabili, troppo lontane dalla sua storia e dalla sua musica. Un viaggio temporale nel lontano Medioevo, ma non in qualche chiassosa festa profana con giullari, menestrelli e cortigiani, bensì nel francescanesimo più semplice e popolare, quello che staccava la devozione dalla lingua ufficiale della liturgia – il latino, e dalla sua colonna sonora altrettanto canonizzata – il canto gregoriano, per creare quel nuovo connubio di poesia in volgare di sì (l’italiano ai tempi di Dante) e di melodia sacra chiamata Lauda. Fresu ha preso tra le mani la più antica e celebre raccolta di laudi medievali, il Laudario di Cortona, e dopo averlo studiato a lungo ha creato Altissima luce, uno spettacolo presentato a Umbria Jazz e a inizio novembre a JazzMi. Maestro, come le è venuta questa idea?

Sinceramente non è venuta da me,

anzi. Quando Daniele Di Bonaventura, bandoneonista e sodale di vecchia data, mi ha proposto di lavorare assieme sul Laudario gli ho dato del matto. Non è che non avessi mai fatto in carriera delle incursioni nella musica classica: ho suonato Bach con Uri Caine, ho affrontato il Rinascimento profano di Barbara Strozzi e quello vertiginoso e sacro di Monteverdi, però l’idea di laudi francescane del Duecento mi sembrava davvero troppo lontana dalla mia musica.

Che cosa le ha fatto cambiare idea?

Quando ho iniziato a intravedere un punto in comune: le laudi nacquero nella temperie francescana, dalla volontà di avvicinare il popolo ai contenuti della fede: non a caso erano in volgare di sì e non in latino. E siccome anche il jazz nasce come espressione popolare, il primo ponte tra me e quelle note era gettato. Certo, per iniziare a capirlo ci ho messo del tempo: più che sfogliare il famoso Manoscritto 91 ho iniziato ad ascoltare le laudi in tutte le versioni possibili, da quelle più filologicamente informate a quelle più libere e meno rigorose: ad esempio ho trovato su internet Mina che canta Voi che amate lo Criatore accompagnata al piano da Danilo Rea. Insomma, mi sono preso tutto il tempo di cui avevo bisogno per maturare un giudizio, sono passati mesi, ma una volta capito che lo spirito di questa mu-

sica consonava con qualcosa che avevo dentro mi ci sono buttato.

Con quale criterio ha scelto tra le 46 laudi contenute nel manoscritto le 13 da rivisitare?

Puramente estetico. La scelta non è dipesa nel modo più assoluto dal contenuto testuale: le confesso che non ho tenuto in nessuna considerazione le parole, pur sapendo che c’era un’intima relazione tra parola e suono, ma lasciandomi suggestionare solo ed esclusivamente dalla musica. Venite a laudare, Altissima luce, Lauda novella sono le più note anche perché sono le più belle.

Il salto da melodie arcaiche affidate alle sole voci alle sonorità jazz, con tanto di percussioni, bassi e ottoni, non è breve; lei ha parlato di un ponte gettato tra le laudi e il jazz: come l’ha costruito?

Io e Daniele abbiamo lavorato in parallelo, ci conosciamo da tanto e tra noi la sintonia è totale: io scrivevo per un quartetto dove oltre alla mia tromba c’è il bandoneon di Daniele, il contrabbasso di Marco Bardoscia e le percussioni di Michele Rabbia, Di Bonaventura per orchestra d’archi arricchita da oboe e fagotto. Ognuno rileggeva ciascuna laude con sensibilità e gusti suoi; poi abbiamo sovrapposto le nostre elaborazioni. La sovrapposizione orchestra

Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura durante un concerto a Torino. (twitter) classica-quartetto si ripete uguale in tutte e 13 le laudi?

No. Ad esempio in Onne omo ad alta voce laudi la verace croce, una delle laudi che amo di più, ci siamo solo io e Di Bonaventura. Altrove c’è il coro Armonioso Incanto che intona le melodie originali, talvolta all’inizio, come a introdurre le nostre musiche: un procedimento, quello di introdurre con la melodia originale per poi svilupparla, usato anche da Bach o nel classicismo viennese, quando il gregoriano preludeva a polifonie vocali e brillanti accompagnamenti orchestrali. Quanto è stato difficile modulare melodie sacre e millenarie nel linguaggio jazz?

Molto meno di quel che credessi. Le dicevo delle perplessità iniziali, ma riflettendoci ho capito che forse era più facile utilizzare melodie medievali piuttosto che classiche o romantiche: la musica delle laudi è puramente melodica, non ha la profondità armonica di un Bach o un Beethoven, e neppure un ritmo immodificabile, essendo scandita dal testo che accompagnava; quindi abbiamo potuto godere di una libertà ritmica e armonica incredibili. E come l’avete esercitata?

Alcune volte rimanendo vicini all’originale, come in Lauda novella, dove ho mantenuto l’andamento modale tipico di quei secoli: anche nel jazz per improvvisare si usano i modi greci, lidio, dorico ed eolico. Altre volte modificando, flettendo, tagliando, pur cercando di rispettare lo spirito originale: ad esempio in Ave donna santissima ho semplicemente cambiato due note all’interno della melodia per permettermi di sviluppare un certo disegno armonico che la lauda mi ispirava; altrove ho tolto le note finali della melodia, in altre lo sviluppo è stato maggiore, ma chiunque conosce questi brani li riconoscerà immediatamente.

Le laudi sono espressioni di uno spiritualità e di una fede ben precise: ne è rimasta eco?

Direi di sì, penso che la religiosità originale sia rimasta. Infatti più che un progetto jazz lo definirei un progetto mistico, non a caso prima di Milano l’avevo sempre eseguito in chiese; ho accettato di suonare all’Hangar Bicocca perché ha caratteristiche spaziali e acustiche simili e a una moderna cattedrale. Io mi sento cristiano e credo che queste melodie abbiano in sé un messaggio universale capace di attraversare il tempo. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

«E non fermateci... no, oh no ...per favore no!»

In scena Al San Materno di Ascona è stata rappresentata la geniale idea-progetto sul mondo dei giochi

di Enrico Ferretti, mentre la RSI si lancia in un talent convincente capace di suscitare entusiasmi

Giorgio Thoeni Il momento particolarmente delicato che sta attraversando il servizio pubblico radiotelevisivo svizzero, oltre a scatenare feroci dibattiti, spinge ad avvicinare ulteriormente i suoi programmi all’affetto del pubblico con soluzioni innovative. La necessità aguzza l’ingegno, si dirà. Non solo giornalismo d’assalto che mette a nudo i difetti e le lacune del nostro sistema politico, ma anche proposte d’intrattenimento fatte di idee realizzate con intelligenza e professionalità, iniziative che diventano trampolino per nuove strategie «territoriali». Sono alcune delle considerazioni che scaturiscono dopo aver assistito a La mia banda suona il folk. Per il progetto musicale diffuso il 9 dicembre scorso in prima serata e in diretta su RSI LA 1 dal Teatro Sociale di Bellinzona, è stato scelto un titolo accattivante, parafrasi di un successo di Ivano Fossati degli anni ’70. In questo caso calza a pennello con la formula della trasmissione, che consisteva nel declinare la tradizione popolare con un registro moderno. Sembra facile. In realtà gli ideatori del programma (una produzione di Joanne Holder) hanno saputo trasformare il palco ottocentesco in una palestra di talenti musicali, un ponte generazionale ricco e vivace

costruito nel tentativo di spingere un passato tradizionalmente conservatore (e spesso permaloso) verso un presente fresco, dinamico e propositivo. Diciamolo pure, un’operazione che è riuscita mettendo anche in campo una buona dose di coraggio. Costruire infatti due ore di spettacolo di fronte a una platea gremita, palchetti compresi, con l’obiettivo di piacere al pubblico (in questo periodo decisamente ipercritico) non è come gustare un piatto di busecca al grotto. Occorreva lasciarsi guidare da un personaggio dall’indiscutibile simpatia (Carla Norghauer) assicurando le riprese a una visione registica di provata esperienza (Fiorenzo Mordasini), il tutto puntellato da scelte accattivanti (dai filmati d’archivio a una giuria non invasiva) facendo riaffiorare in molti una sana nostalgia di proposte popolari. In passato avevamo avuto un esempio con Guarda la Radio, un programma degli anni ’90 a cavallo fra radio e televisione che, guarda a caso, concludeva la sua maratona con una gran serata al Sociale. Ecco che La mia banda suona il folk oltre a rinverdire gli antichi fasti della diretta (facendo riscoprire la bellezza del Sociale) ha avuto il pregio di mettere in luce la vivacità della scena musicale della Svizzera italiana con una proposta gradevole e ben ritmata: sei giovani emergenti accom-

Dal saggio erudito alla scena comica

Claudio Taddei e Diana, vincitrice con La cavergnesa. (© RSI/M. Aroldi)

pagnati da altrettanti artisti affermati, chiamati ad arrangiare motivi pescati dal «sacro repertorio» e riletti nello spirito della memoria di un passato che viene così ad ancorarsi saldamente al presente. Rivedere personaggi come Vittorio Camponovo, Nella Martinetti o Toto Cavadini, riascoltare le note di veri e propri inni, ai tempi cliché criticati e abusati come Strada alta o La canzone dell’aviator, è stato rivivere senza retorica un carosello di motivi

cantati, «rappati», percorsi da venature rock, arricchiti da arrangiamenti indovinati, dove l’iniziale sorpresa sfociava nel ritornello rassicurante. Pronto a tornare ad essere fischiettato sotto la doccia. Dal violino di Sebalter per la voce di Christel al timbro soul di Judith Emeline con l’esuberante Nick fino alla trascinante metrica latinoamericana di Claudio Taddei al fianco di Diana. Insomma, quando le cose sono fatte bene è giusto farlo notare.

Il dialogo tra discipline è la consolidata caratteristica delle proposte del Teatro San Materno. Una conferma è Gendarmi & Ladri, spettacolo andato in scena recentemente nella piccola sala di Ascona gremita al suo debutto e per la successiva replica. Un successo che corona l’idea di Enrico Ferretti di dar vita ad alcune riflessioni scaturite dal suo saggio Educazione in gioco (Casagrande), uno studio che esplora il mondo dei giochi e dello sport con un taglio scientifico e socio-antropologico dai riflessi regionali. Una fonte seria, dunque, sulla quale la verve espressiva di Ferretti ha voluto ricamare una linea a corollario delle tesi di un lavoro in cui i giochi tradizionali, lo sport e i valori educativi vengono analizzati sotto la lente delle pratiche corporee in relazione alla personalità degli individui. In scena con Faustino Blanchut, la storia si sviluppa partendo dall’iniziale coincidenza sul giorno del compleanno dei protagonisti. L’incontro di due generazioni da cui emerge la sostanza del gioco, del vincitore e del vinto, dello scambio di ruoli nel rispetto delle regole, della correttezza e della lealtà, una metafora della vita. Gendarmi & Ladri sarà presentato nel mese di giugno 2018 a Parigi nell’ambito di un importante Congresso di Scienze Motorie. Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

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Il pranzo di Natale

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shopping

Attualità I mastri macellai di Migros Ticino sono lieti di consigliarvi piatti di carne speciali per i prossimi giorni

di festa. Uno di questi è stato cucinato per il lettori di «Azione» dall’Osteria Carletti di Bedano Il Natale è festa grande, la più lunga dell’anno, e il pranzo natalizio di mezzogiorno ne è la rappresentazione. Pur nel mutare delle consuetudini alimentari e delle differenze dipendenti dalle latitudini e dalla geografia, già nel 1787 Wolfgang Goethe scriveva: «Il giorno di Natale è famoso per le sue scorpacciate ed è un giorno di cuccagna universale». Oggi la gran «mangiata» non è più tanto di moda (salvo eccezioni): cambia la vita famigliare e noi non siamo più abituati a sopportare troppo cibo. Ma molte specialità sopravvivono, cose buone come capponi, tacchini ripieni, filetti,

ariste, faraone, tortellini ecc., per non parlare dei dolci, primi fra tutti panettoni e torroni. Comunque il culto del tema «Pranzo natalizio» non è defunto e per chi volesse allietare questo giorno in modo da conferire unicità a questo avvenimento, i mastri macellai della vostra Migros propongono delle ricette che di sicuro lasceranno un gradevolissimo ricordo in tutti i partecipanti del convivio natalizio. Il quale di sicuro non ha perso il suo significato di collante, soprattutto per la famiglia, perché non dimenticate che la tavola è un moltiplicatore di convivialità. / Davide Comoli

Arrosto di Festa Ingredienti per 8 persone 600 g di filetto di manzo 600 g di fesa di vitello tagliata fine 150 g di champignon 80 g di prosciutto crudo 120 g di paté di fegato 100 g di verdure (carota, sedano e cipolla) rosmarino burro pasta al tartufo vino bianco secco olio di oliva sale, pepe Preparazione Salare e pepare il filetto. Rosolarlo a fuoco vivo nell’olio e nel burro aggiungendo un rametto di rosmarino fino a quando la carne avrà preso colore. Togliere la carne dalla pentola e lasciar raffreddare. Appiattire le fese di vitello con il batticarne e condirle con sale e

pepe. Preparare un rettangolo con le fette di prosciutto, spalmarle con un poco di paté e appoggiarvi sopra il filetto. Coprirlo con il resto del paté e chiuderlo nel prosciutto. Avvolgere il tutto nelle fese di vitello e legare con dello spago. Salare e pepare il rotolo e scottarlo in padella a fuoco vivo per farlo colorire. Trasferire l’arrosto in una pirofila, bagnarlo con il fondo di cottura, unire le verdure a dadolata, gli champignon a spicchi e informare a 200°C per 30 minuti. Sfumare la carne con una spruzzatina di vino bianco a fine cottura. Togliere l’arrosto dalla pirofila e tenerlo in caldo. Portare ad ebollizione il fondo di cottura e insaporirlo con un cucchiaio di pasta di tartufo. Far ridurre a salsina densa. Tagliare la carne e servirla con la salsa e delle patatine al forno. Tempo di preparazione ca. 2 ore

Il team dell’Osteria Carletti di Bedano: da sinistra, gli chef Adriano Gallinaro e Moreno Zham con il gerente Tiago Silva. (Flavia Leuenberger Ceppi)


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Idee e acquisti per la settimana

Il manzo più pregiato Attualità Nei maggiori banchi macelleria Migros Ticino trovate solo carni della migliore qualità, come per esempio

l’entrecôte di manzo di razza Wagyu

Considerata dagli esperti la razza di bovini più pregiata al mondo, la Wagyu è nota per essere forte e resistente, tanto che in passato in Giappone questi animali erano allevati per essere impiegati nei lavori nei boschi e nelle miniere. Oggi i bovini sono cresciuti nel rispetto di severe disposizioni e la loro alimentazione è costituita tra l’altro da preziosi cereali quali frumento, granoturco e riso. Queste particolari attenzioni si riflettono di fatto sulla qualità della carne prodotta, che alla vista spicca per la sua struttura muscolare intensamente marmorizzata da sottili venature di grasso, mentre il palato viene conquistato da un’incredibile tenerezza, succosità e da un sapore robusto. Per ottenere il massimo del piacere culinario dalla carne Wagyu si consiglia di condire l’entrecôte moderatamente solo con un pizzico di fleur de sel e pepe macinato fresco. La carne diventa inoltre meravigliosamente morbida se, dopo una breve rosolatura a fuoco vivo per 2 minuti, se ne completa la cottura a bassa temperatura in forno (80 °C) per un’oretta. Il cuore dovrebbe avere una temperatura compresa tra 52°C e 55°C. Per determinarla al meglio basta utilizzare un semplice termometro da carne. Tagliare il roastbeef a fette spesse 5 mm e servire subito su piatti caldi accompagnandolo con qualche fiocco di burro alle erbe.

Alberto Lucca, capo macellaio presso la Migros di Serfontana, è sempre pronto a consigliarvi al meglio. (Flavia Leuenberger Ceppi)

Altre specialità festive dalla vostra macelleria Migros • Maialino e agnello da latte • Entrecôte Irish Beef • Filetto di bisonte • Arista di vitello o maiale • Gigôt d’agnello • Filetto US Beef • Anatra • Faraona • Oca • Tacchino • Tacchino disossato ripieno • Cappone

L’entrecôte di Wagyu è incredibilmente tenera e succosa.

Per piatti di carattere Sale con tartufo bianco 30 g Fr. 7.30

Specialità aromatizzate al tartufo prodotte artigianalmente nei pressi di Alba, patria del pregiato fungo. Queste raffinatezze culinarie coronano splendidamente qualsiasi banchetto, grazie al loro caratteristico aroma e all’intenso profumo dato dal nobile prodotto dei boschi. Il Sale con Tartufo Bianco è perfetto per insaporire con originalità qualsiasi piatto

della cucina quotidiana, mentre gli amanti della pasta saranno conquistati dall’intenso sapore dei Tagliolini al Tartufo prodotti con il 30 per cento di uova. La selezione comprende anche due prodotti perfetti per l’aperitivo: le Patatine con Tartufo e la Crema con Parmigiano Reggiano e Tartufo, una vera delizia spalmata su fettine di pane appena tostato.

Patatine con tartufo 45 g Fr. 3.70

Crema con Parmigiano Reggiano e Tartufo 90 g Fr. 9.80

Tagliolini all’uovo con tartufo 250 g Fr. 9.90


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Idee e acquisti per la settimana

Dessert dal sapore esotico

Attualità Riscaldate il cuore dei vostri

ospiti con un dessert a base di frutta esotica. Nelle filiali Migros ne trovate al momento un’ampia selezione

In inverno, quando da noi si riduce l’offerta di frutta convenzionale, giungono a completare idealmente la proposta i frutti esotici. Queste delizie dal sapore irresistibile non solo impreziosiscono e colorano la nostra tavola, ma contengono molte vitamine e sostanze minerali in quantità spesso sbalorditive. Che preferiate ananas, melagrana, granadiglia, carambola, kiwano, litchi, mango, mangostano, papaia, frutto della passione, physalis… da noi non c’è che l’imbarazzo della scelta. Ecco delle curiosità relative ad alcuni frutti esotici: L’ananas è un dessert ideale dei ricchi pasti poiché è molto leggero e facilmente digeribile. La polpa leggermente acidula della granadiglia si mangia con il cucchiaino. Essa contiene inoltre dei semini nerastri croccanti che rinfrescano piacevolmente. La succosissima carambola, una volta tagliata, si trasforma in una

bellissima stella ideale per decorare cocktail, torte e insalate. Il litchi possiede una polpa bianca particolarmente profumata che si abbina molto bene con il pollo e la carne di vitello. L’intenso colore del dolcissimo mango è dovuto all’elevato contenuto di betacarotene, sostanza che rinforza il sistema immunitario. La delicata dolcezza della papaia si sposa molto bene con il prosciutto crudo. Essa deve essere gustata a piena maturazione, quando la buccia è gialla. Il mangostano si distingue per il suo alto contenuto di vitamina B1, importante per il buon funzionamento del sistema nervoso e del metabolismo. Infine, segnaliamo che presso i reparti frutta Migros è disponibile un opuscolo gratuito ricco di consigli e ricette sulla frutta esotica.

Flavia Leuenberger Ceppi

Delle patate di blu vestite Mercatino gastronomico

Un contorno per le feste diverso dal solito? Allora provate a farlo con le patate blu, una particolare varietà svizzera di patate conosciuta anche sotto il nome di «Blaue St. Galler», ora disponibili nelle maggiori filiali Migros per un periodo limitato. Essendo di consistenza media,

è una patata particolarmente versatile che si presta bene per la preparazione di fantasiose patate arrosto, patatine fritte, purè, patate bollite, rösti e gratin. Il suo sapore delicatamente cremoso si sposa inoltre molto bene con le erbette aromatiche fresche più disparate. La «Blaue St.

Galler» è coltivata da un numero ristretto di orticoltori svizzeri e alla raccolta ha una resa inferiore rispetto alle patate convenzionali. Il suo bel colore blu-violetto – dovuto agli antociani, pigmenti vegetali benefici contro i radicali liberi – viene mantenuto anche dopo la cottura.

Dal 19 al 24 dicembre, nella mall del Centro S. Antonino, verrà ricreata l’atmosfera di un mercato grazie alla presenza di alcune vivaci bancarelle. Per tutta la durata dell’attività si potranno assaggiare diverse specialità e pure acquistarle a prezzi particolar-

mente vantaggiosi. Tra i prodotti esposti in bella vista, possiamo citare per esempio i salumi Rapelli, i panettoni e i pandoro Jowa, il foie gras, i marrons glacés e le mostarde Vanini, alcune varietà di salmone e specialità di formaggio. Passate a trovarci.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Idee e acquisti per la settimana

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Idee e acquisti per la settimana

Generazione M

Per saperne di più: dal momento che molte specie di pesci non si trovano in un banco puro, le catture accessorie non possono essere evitate. Per ottenere una certificazione MSC, la composizione e la quantità di tali catture accessorie non devono comportare conseguenze negative per le specie catturate.

Solo pesce da fonti sostenibili Nell’ambito del suo programma di sostenibilità Generazione M, Migros ha formulato una promessa ambiziosa: entro il 2020 tutto il pesce e i frutti di mare venduti devono provenire da fonti sostenibili. Un obiettivo già raggiunto lo scorso anno. Da allora tutti i prodotti hanno una certificazione, come MSC per quelli provenienti da pesca selvatica, ASC o Bio per i prodotti provenienti da allevamenti, o sono classificati come «consigliati» o «accettabili» dal WWF. Fino all’adempimento della promessa Migros ha registrato risultati pionieristici. Per esempio, nel 2012 è stata il primo distributore svizzero a proporre nel suo assortimento un pesce certificato ACS e nel 2013 è stato il primo commerciante su scala mondiale a vendere tonno in scatola MSC, catturato con canna da pesca.

Pesca

Prede pregiate dal Mare del Nord

Per maggiori informazioni: www.generazione-m.ch

Louwe de Boer è pescatore da oltre 30 anni e fornisce platesse certificate MSC a Migros. Grazie a sistemi di pesca innovativi la sua impresa di famiglia olandese tutela i fondali marini e il patrimonio ittico Testo Andreas Dürrenberger; Foto Andrea M. Hajmer

1 Louwe de Boer è pescatore nel corpo e nell’anima. Aveva cinque anni quando si avventurò per la prima volta in mare su un peschereccio. «Durante le vacanze ho potuto accompagnare mio padre in un’uscita e ho sofferto terribilmente il mal di mare», racconta ridendo. De Boer proviene da una famiglia olandese di pescatori, dalla località Urk sul Mare del Nord. Suo nonno diede avvio all’attività nel 1930. Il nipote Louwe è cresciuto in una grande famiglia di 17 figli. Lui e quattro fratelli sono ancora oggi attivi nell’azienda. Pesca senza reti a strascico

Mentre ancora oggi i suoi fratelli prendono il largo, Louwe rimane a terra. Ora è responsabile della pesca per il Gruppo Ekofish e lavora in ufficio. Il cambiamento dal ponte del peschereccio alla scrivania non è stato facile per lui. «Da quando avevo 16 anni ho sempre lavorato su una nave. Prima come cuoco, poi nelle sale macchine, come marinaio, alla fine come skipper e quindi come capitano», racconta il 51enne. Per oltre 20 anni la sua vita ha ruotato unicamente attorno alla sua famiglia e al suo lavoro sulle barche. «Non ho mai fatto riflessioni sulla nostra azienda». Ciò è cambiato nel 2004, quando suo padre si è ritirato e gli ha offerto la guida dell’azienda di famiglia. Il nuovo lavoro gli offrì una visione di insieme di tutte le attività dell’azienda, anche nel settore finanza. Ciò che vide lo spaventò. «Per quanto riguarda i volumi di pescato, eravamo i più forti nel nostro villaggio. Ma le spese erano molto alte». Il

motivo: le pesanti reti a strascico utilizzate per catturare dai fondali marini i pesci come la platessa, causavano un elevato consumo di carburante. Louwe continua: «Ci era chiaro che non si trattava di una pratica sostenibile. Dovevamo cambiare qualcosa, ma cosa»? La soluzione è stata trovata nel metodo di pesca twin rig, che anziché un’unica rete ne utilizza due, aperte, che non vengono trainate sul fondale ma scivolano ad alcuni centimetri sopra di esso. Ciò consente un risparmio di carburante e la tutela dei fondali marini. Le nuove reti hanno una larghezza delle maglie che permette alle piccole platesse di fuggire dalla rete. «Il nostro tasso di cattura accidentale è del 2 percento», spiega de Boer. «Se dovessimo trovare troppi pesci giovani nella rete, aumenteremmo la larghezza delle maglie». De Boer ammette di essere stato inizialmente scettico sul fatto che il nuovo metodo di pesca potesse funzionare. «In occasione della nostra prima battuta di pesca twin rig, nel 2006, ci aveva accompagnato un amico danese, che già conosceva il metodo. Abbiamo gettato le reti e sembrava non accadesse nulla». Con il precedente metodo sarebbero avanzati a tutta velocità, mentre ora il motore della barca era sorprendentemente tranquillo. «Dopo alcuni minuti domandai al mio amico quando avremmo cominciato a pescare. Disse solo: rimani tranquillo e aspetta finché non avremo recuperato le reti. Due ore più tardi osservai il modo in cui le reti emergevano: erano piene di pe-

sce! Ciò ci ha aperto gli occhi. Per 30 anni abbiamo fatto la cosa sbagliata». Una abbondante popolazione di platesse

Un anno dopo ci fu un nuovo punto di svolta, quando la platessa, che rappresenta l’80 percento del pescato del Gruppo Ekofish, venne inserita nella lista rossa da organizzazioni di tutela della natura, come il WWF. I supermercati cominciarono a rinunciare alla sua commercializzazione. «Ci siamo seduti al tavolo con il WWF per discutere di pesca e sostenibilità», racconta de Boer. «Erano favorevolmente impressionati dai cambiamenti fino a quel momento intrapresi. Ma noi ci chiedevamo: cos’altro possiamo fare»? Ekofish prese la decisione di ottenere la certificazione MSC (Marine Stewardship Council). «Nel 2009 siamo stati la prima azienda di pesca specializzata nella cattura su fondale a ottenere la certificazione MSC», dice de Boer. Nel Mare del Nord la popolazione di platesse è mediamente aumentata grazie alle inferiori quote di cattura e ai sistemi di pesca sostenibili. Oggi sono a livelli che non si raggiungevano da 50 anni a questa parte. E i pescatori come Louwe de Boer e la sua famiglia provvedono affinché il patrimonio ittico sia pescato in modo sostenibile anche in futuro. «Siamo pescatori fieri. E siamo fieri di lasciare alle generazioni future un patrimonio ittico in salute». Informazioni sulla platessa a pagina 56

2

4

3

1 Il Gruppo Ekofish dispone di tre pescherecci, cheogni settimana sono in mare per cinque giorni.

3 Poche le catture accessorie: la grandezza delle maglie impedisce che vengano pescate le platesse troppo piccole.

2 Pesca rispettosa: con il metodo twin rig si utilizzano due reti, che scivolano a una distanza di alcuni centimetri sopra i fondali marini.

4 Un pescatore fiero: Louwe de Boer va per mare da oltre 30 anni. Oggi è il responsabile della pesca per la sua azienda di famiglia.

Pesci e frutti di mare contrassegnati dal marchio MSC (Marine Stewardship Council) provengono unicamente da pesca sostenibile, che previene la cattura accidentale di altre specie, tutela i fondali marini e garantisce il mantenimento e la crescita del patrimonio ittico.

Parte di


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Idee e acquisti per la settimana

Generazione M

Per saperne di più: dal momento che molte specie di pesci non si trovano in un banco puro, le catture accessorie non possono essere evitate. Per ottenere una certificazione MSC, la composizione e la quantità di tali catture accessorie non devono comportare conseguenze negative per le specie catturate.

Solo pesce da fonti sostenibili Nell’ambito del suo programma di sostenibilità Generazione M, Migros ha formulato una promessa ambiziosa: entro il 2020 tutto il pesce e i frutti di mare venduti devono provenire da fonti sostenibili. Un obiettivo già raggiunto lo scorso anno. Da allora tutti i prodotti hanno una certificazione, come MSC per quelli provenienti da pesca selvatica, ASC o Bio per i prodotti provenienti da allevamenti, o sono classificati come «consigliati» o «accettabili» dal WWF. Fino all’adempimento della promessa Migros ha registrato risultati pionieristici. Per esempio, nel 2012 è stata il primo distributore svizzero a proporre nel suo assortimento un pesce certificato ACS e nel 2013 è stato il primo commerciante su scala mondiale a vendere tonno in scatola MSC, catturato con canna da pesca.

Pesca

Prede pregiate dal Mare del Nord

Per maggiori informazioni: www.generazione-m.ch

Louwe de Boer è pescatore da oltre 30 anni e fornisce platesse certificate MSC a Migros. Grazie a sistemi di pesca innovativi la sua impresa di famiglia olandese tutela i fondali marini e il patrimonio ittico Testo Andreas Dürrenberger; Foto Andrea M. Hajmer

1 Louwe de Boer è pescatore nel corpo e nell’anima. Aveva cinque anni quando si avventurò per la prima volta in mare su un peschereccio. «Durante le vacanze ho potuto accompagnare mio padre in un’uscita e ho sofferto terribilmente il mal di mare», racconta ridendo. De Boer proviene da una famiglia olandese di pescatori, dalla località Urk sul Mare del Nord. Suo nonno diede avvio all’attività nel 1930. Il nipote Louwe è cresciuto in una grande famiglia di 17 figli. Lui e quattro fratelli sono ancora oggi attivi nell’azienda. Pesca senza reti a strascico

Mentre ancora oggi i suoi fratelli prendono il largo, Louwe rimane a terra. Ora è responsabile della pesca per il Gruppo Ekofish e lavora in ufficio. Il cambiamento dal ponte del peschereccio alla scrivania non è stato facile per lui. «Da quando avevo 16 anni ho sempre lavorato su una nave. Prima come cuoco, poi nelle sale macchine, come marinaio, alla fine come skipper e quindi come capitano», racconta il 51enne. Per oltre 20 anni la sua vita ha ruotato unicamente attorno alla sua famiglia e al suo lavoro sulle barche. «Non ho mai fatto riflessioni sulla nostra azienda». Ciò è cambiato nel 2004, quando suo padre si è ritirato e gli ha offerto la guida dell’azienda di famiglia. Il nuovo lavoro gli offrì una visione di insieme di tutte le attività dell’azienda, anche nel settore finanza. Ciò che vide lo spaventò. «Per quanto riguarda i volumi di pescato, eravamo i più forti nel nostro villaggio. Ma le spese erano molto alte». Il

motivo: le pesanti reti a strascico utilizzate per catturare dai fondali marini i pesci come la platessa, causavano un elevato consumo di carburante. Louwe continua: «Ci era chiaro che non si trattava di una pratica sostenibile. Dovevamo cambiare qualcosa, ma cosa»? La soluzione è stata trovata nel metodo di pesca twin rig, che anziché un’unica rete ne utilizza due, aperte, che non vengono trainate sul fondale ma scivolano ad alcuni centimetri sopra di esso. Ciò consente un risparmio di carburante e la tutela dei fondali marini. Le nuove reti hanno una larghezza delle maglie che permette alle piccole platesse di fuggire dalla rete. «Il nostro tasso di cattura accidentale è del 2 percento», spiega de Boer. «Se dovessimo trovare troppi pesci giovani nella rete, aumenteremmo la larghezza delle maglie». De Boer ammette di essere stato inizialmente scettico sul fatto che il nuovo metodo di pesca potesse funzionare. «In occasione della nostra prima battuta di pesca twin rig, nel 2006, ci aveva accompagnato un amico danese, che già conosceva il metodo. Abbiamo gettato le reti e sembrava non accadesse nulla». Con il precedente metodo sarebbero avanzati a tutta velocità, mentre ora il motore della barca era sorprendentemente tranquillo. «Dopo alcuni minuti domandai al mio amico quando avremmo cominciato a pescare. Disse solo: rimani tranquillo e aspetta finché non avremo recuperato le reti. Due ore più tardi osservai il modo in cui le reti emergevano: erano piene di pe-

sce! Ciò ci ha aperto gli occhi. Per 30 anni abbiamo fatto la cosa sbagliata». Una abbondante popolazione di platesse

Un anno dopo ci fu un nuovo punto di svolta, quando la platessa, che rappresenta l’80 percento del pescato del Gruppo Ekofish, venne inserita nella lista rossa da organizzazioni di tutela della natura, come il WWF. I supermercati cominciarono a rinunciare alla sua commercializzazione. «Ci siamo seduti al tavolo con il WWF per discutere di pesca e sostenibilità», racconta de Boer. «Erano favorevolmente impressionati dai cambiamenti fino a quel momento intrapresi. Ma noi ci chiedevamo: cos’altro possiamo fare»? Ekofish prese la decisione di ottenere la certificazione MSC (Marine Stewardship Council). «Nel 2009 siamo stati la prima azienda di pesca specializzata nella cattura su fondale a ottenere la certificazione MSC», dice de Boer. Nel Mare del Nord la popolazione di platesse è mediamente aumentata grazie alle inferiori quote di cattura e ai sistemi di pesca sostenibili. Oggi sono a livelli che non si raggiungevano da 50 anni a questa parte. E i pescatori come Louwe de Boer e la sua famiglia provvedono affinché il patrimonio ittico sia pescato in modo sostenibile anche in futuro. «Siamo pescatori fieri. E siamo fieri di lasciare alle generazioni future un patrimonio ittico in salute». Informazioni sulla platessa a pagina 56

2

4

3

1 Il Gruppo Ekofish dispone di tre pescherecci, cheogni settimana sono in mare per cinque giorni.

3 Poche le catture accessorie: la grandezza delle maglie impedisce che vengano pescate le platesse troppo piccole.

2 Pesca rispettosa: con il metodo twin rig si utilizzano due reti, che scivolano a una distanza di alcuni centimetri sopra i fondali marini.

4 Un pescatore fiero: Louwe de Boer va per mare da oltre 30 anni. Oggi è il responsabile della pesca per la sua azienda di famiglia.

Pesci e frutti di mare contrassegnati dal marchio MSC (Marine Stewardship Council) provengono unicamente da pesca sostenibile, che previene la cattura accidentale di altre specie, tutela i fondali marini e garantisce il mantenimento e la crescita del patrimonio ittico.

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Idee e acquisti per la settimana

Platessa

Un sapore promosso a pieni voti Suggerimento

I collaboratori dei banchi pesce sono disponibili a fornire consigli sulla preparazione o a rispondere a domande inerenti la sostenibilità. La platessa, chiamata anche passera o passera di mare, è un pesce piatto, che vive sui fondali sabbiosi e fangosi. La si trova in quasi tutte le aree costiere europee.

La platessa può essere cucinata in diversi modi. I sottili filetti hanno poche spine e si prestano in particolare per essere impanati, cotti al forno con le mandorle oppure delicatamente affogati.

La platessa è una specie di pesce molto apprezzata. La sua carne, compatta e bianca, ha un gusto corposo.

La parte superiore della platessa è grigio-marrone, costellata da puntini rossastri o giallastri. Per mimetizzarsi può adattare il suo colore a quello del fondale.

Pesca saporita dalle profondità: la platessa vive sui fondali marini tra i 100 e 200 metri.

MSC filetto di platessa da pesca selvatica nell’Atlantico nord-orientale per 100 g al prezzo del giorno


Azione –.2 0

45%

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2.90 invece di 3.10

9.90 invece di 18.80 Prosciutto crudo di Parma Ferrarini Italia, affettato in conf. da 2 x 90 g, 180 g

Il Burro panetto, 250 g

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2.90 invece di 4.90 Clementine Spagna, rete da 2 kg

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1.55 invece di 2.60 Pomodorini datterini Italia, vaschetta da 250 g

30%

3.05 invece di 4.40 Cocktail di gamberetti prodotto in Svizzera, al banco a servizio, per 100 g

a partire da 2 pezzi

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40% Tutti i mitici Ice Tea in brik in conf. da 10, 10 x 1 l, UTZ per es. al limone, 4.50 invece di 7.50

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9.90 invece di 19.80 Salmone dell’Atlantico affumicato ASC in conf. speciale d’allevamento, Norvegia, 300 g

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3.– invece di 5.–

3.35 invece di 5.60

Salame Strolghino di culatello Italia, pezzo da ca. 250 g, per 100 g

Filetto di maiale M-Classic in conf. speciale Svizzera, per 100 g

CONSIGLIO RIMEDIO ANTINVERNO

Serviti con formentino e arance in insalata, gli agnolotti all’arrabbiata riscaldano il corpo e lo spirito. Trovate la ricetta su migusto.ch

conf. da 3

20% Pasta bio in conf. da 3 per es. agnolotti all’arrabbiata, 3 x 250 g, 11.70 invece di 14.70

30%

5.35 invece di 7.70 Entrecôte di manzo TerraSuisse Svizzera, imballata, per 100 g

20%

26.– invece di 32.60 Foie gras torchon Francia, pezzo da 170 g

20% Pesce fresco bio orata, salmone e spigola, per es. filetto di salmone con pelle, d’allevamento, Norvegia, per 100 g, 4.30 invece di 5.40

Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 19.12 AL 26.12.2017, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

20%

4.30 invece di 5.40 Prosciutto affumicato bio in conf. speciale Svizzera, per 100 g

20%

3.70 invece di 4.65 Vitello tonnato prodotto in Ticino, al banco a servizio, per 100 g

20%

3.40 invece di 4.30 Arrosto di spalla di vitello TerraSuisse Svizzera, imballato, per 100 g

30%

1.70 invece di 2.45 Pancetta da grigliare affettata TerraSuisse in conf. speciale per 100 g

15%

2.80 invece di 3.30 Fettine di pollo Optigal Svizzera, per 100 g

30% Prosciutto cotto Puccini Rapelli in conf. speciale, aha! affettato finemente e normalmente, per es. affettato normalmente, Svizzera, per 100 g, 2.45 invece di 3.55


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CONSIGLIO RIMEDIO ANTINVERNO

Serviti con formentino e arance in insalata, gli agnolotti all’arrabbiata riscaldano il corpo e lo spirito. Trovate la ricetta su migusto.ch

conf. da 3

20% Pasta bio in conf. da 3 per es. agnolotti all’arrabbiata, 3 x 250 g, 11.70 invece di 14.70

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Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 19.12 AL 26.12.2017, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

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1.70 invece di 2.45 Pancetta da grigliare affettata TerraSuisse in conf. speciale per 100 g

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20%

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24.– invece di 30.10

1.95 invece di 2.45

San Gottardo Prealpi in self-service, al kg

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11.90 invece di 14.90 Piatto di snack Asia 640 g

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1.75 invece di 2.75 Grana Padano DOP Riserva in conf. da 800 g / 900 g, in self-service, per 100 g

20% Tutta la pasta fresca Garofalo per es. tortellini al prosciutto crudo, 250 g, 4.45 invece di 5.60

– .5 0

di riduzione Tutti i tipi di pane Pain Création per es. pane d’altri tempi cotto su pietra, 500 g, 3.40 invece di 3.90

Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 19.12 AL 26.12.2017, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

20% Tutto l’assortimento di mascarpone e ricotta Galbani per es. mascarpone, 250 g, 2.50 invece di 3.15

20%

2.– invece di 2.50 Mini toasts 255 g

25%

1.70 invece di 2.30

Cicoria belga Belgio, imballata, 500 g

Datteri Majoul USA, imballati, per 100 g

20%

Hit

3.25 invece di 4.10 Insalata delle feste Anna’s Best 250 g

25%

2.70 invece di 3.80 Broccoli Italia, al kg

4.30

Noci Grenoble Francia, imballate, 500 g

40%

2.85 invece di 4.80 Patate Amandine Svizzera, in busta, 1,5 kg

40%

3.50 invece di 5.90 Cuori di carciofo Italia, imballati, 400 g


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Frutta e verdura

Ceppo di Natale cioccolato, 410 g, 6.50 invece di 8.20 20% Michettine M-Classic, TerraSuisse, 180 g, 1.60 invece di 2.– 20%

Litchi, Madagascar, vaschetta da 500 g, 3.80 invece di 5.90 35%

Fiori e piante

Tutti i pannolini Pampers (confezioni speciali escluse), offerta valida per 3 prodotti con lo stesso prezzo, per es. Baby Dry 4, 3 x 44 pezzi, 33.60 invece di 50.40

Tutti i prodotti a base di carne, pollame, pesce e tutti i salumi Sélection (prodotti surgelati esclusi), per es. costata di manzo dry aged, Irlanda, per 100 g, 6.10 invece di 7.65 20% Offerta valida fino al 22.12.2017 Vol-au-vent, prodotti in Ticino, in conf. da 320 g, 9.– invece di 12.90 30% Carne secca dei Grigioni bio, Svizzera, per 100 g, 8.45 invece di 10.60 20% *

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La Pizza in conf. da 2, 2 x 420 g, per es. 4 stagioni, 11.20 invece di 15.– 25%

Tutti i tipi di aceto e olio bio (Alnatura esclusi), per es. olio di girasole, spremuto a freddo, 500 ml, 3.75 invece di 4.70 20% Tutti i cereali in chicchi, i legumi, la quinoa e il couscous bio (prodotti Alnatura esclusi), per es. quinoa bianca Fairtrade, aha!, 400 g, 3.95 invece di 4.95 20% Tutte le spezie bio (Alnatura escluse), per es. Herbamare Original A. Vogel, 250 g, 3.40 invece di 4.25 20% Salse per insalata A Tavola, bio, 450 ml, per es. French, 2.80 invece di 3.50 20% Burro svizzero per arrostire aha! bio e olio di cocco spremuto a freddo Fairtrade bio, per es. olio di cocco, 200 g, 5.20 invece di 6.50 20%

Near Food/Non Food

Tutta la pasta, i sughi per pasta e le conserve di pomodoro bio (Alnatura esclusi), per es. cornetti, 500 g, 1.55 invece di 1.95 20% Tutti i tipi di senape, maionese e ketchup bio (Alnatura esclusi), per es. maionese, 265 g, 1.75 invece di 2.20 20%

Tutte le olive bio (Alnatura escluse), per es. olive greche di Kalamata, 270 g, 2.15 invece di 2.70 20%

Pane e latticini conf. da 2

Pacific Prawns Costa in conf. speciale, surgelati, 800 g, 19.30 invece di 27.60 30%

Tutti i rösti e i prodotti Mifloc bio (Alnatura esclusi), per es. rösti, 500 g, 1.95 invece di 2.45 20%

Racks d’agnello, Nuova Zelanda / Australia, imballati, per 100 g, 4.55 invece di 5.70 20%

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Mini pizze alla mozzarella o al prosciutto Casa Giuliana in conf. da 2, surgelate, 2 x 270 g, per es. al prosciutto, 6.70 invece di 9.60 30%

Tutto il caffè e tutte le capsule di caffè bio e Fairtrade, per es. caffè macinato, 500 g, 6.60 invece di 8.50 20%

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Purea di patate Mifloc in conf. speciale, 5 bustine, 5 x 95 g, 4.55 Hit

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Tutto l’assortimento di tè e tisane bio (prodotti Alnatura esclusi), a partire da 2 pezzi 20%

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Idee e acquisti per la settimana

Apéritiv

Per un frizzante aperitivo festivo

**Azione 20% su tutte le bevande Apéritiv (senza spumanti senz’alcol)

I cocktail senz’alcol sono perfetti per tutti gli ospiti. Tonic Water, Ginger Ale e Bitter Lemon sono già da soli un piacere effervescente. Con pochi ingredienti, in un attimo, possono però trasformarsi in deliziosi longdrink. Le limonate Apéritiv sono prodotte con acqua e aromi naturali e non contengono conservanti.

fino al 26 dicembre

Apéritiv Ginger Ale 6 x 1,5 l* Fr. 8.40** invece di 10.80

Apéritiv Bitte Lemon 6 x 0,5 l* Fr. 5.25** invece di 6.60

Consiglio 1

Con del succo di limone e una goccia di granatina, il Bitter Lemon si trasforma velocemente in un frizzante long drink analcolico.

Apéritiv Ginger Ale 6 x 0,5 l* Fr. 5.25** invece di 6.60 *Nelle maggiori filiali

Consiglio 2

La nota leggermente amara della Tonic Water si sposa bene con succo di pompelmo o d’arancia: il dosaggio si può adeguare secondo i gusti. Apéritiv Tonic Water 6 x 0,5 l Fr. 5.25** invece di 6.60

Chi non ama miscelare, aggiunga semplicemente del ghiaccio alle bevande.

Da tutte le offerte sono esclusi i prodotti M-Budget e quelli già ridotti.

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche le bevande Apéritiv.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Idee e acquisti per la settimana

Papeteria

Un’organizzazione perfetta nel nuovo anno L’inizio del nuovo anno è il momento migliore per riorganizzare ogni cosa, anche in ufficio. A tale scopo alla Migros sono disponibili accessori alla moda e pratici articoli della linea Papeteria Testo Jacqueline Vinzelberg; Foto Roger Hofstetter

Se in ufficio ci si sente a proprio agio, lavorare risulta più divertente. Un ufficio ben organizzato è la migliore premessa per raggiungere tale obiettivo. In questo modo tutto ha un proprio posto ed è immediatamente a portata di mano quando ne si ha bisogno. Che si tratti di carta, buste e penne, classificatori, rubriche o forbici, alla Migros nella sua gamma di prodotti Papeteria si trova praticamente tutto ciò che è necessario in ufficio, sia a casa che al lavoro.

*Azione valida dal 19.12.2017 al 29.01.2018 Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti.

Papeteria Penne inchiostro blu, 10 pezzi Fr. 4.40

Papeteria Colla a stick set da 3 Azione 30% di sconto Fr. 4.40* invece di 6.30

Papeteria Set di foglietti autoadesivi staccabili 13 pezzi Fr. 7.90

Papeteria registro in cartone 6 suddivisioni, 6 pezzi Azione 30% di sconto Fr. 3.75* invece di 5.40

Papeteria Classificatori set da 3 7 cm, diversi colori Azione 3 per 2 Fr. 6.70* invece di 10.05

Papeteria blocco per appunti A4, quadrettato 4 mm 3 pezzi x 100 fogli Fr. 4.90

Papeteria buste C5 senza finestra, 200 pezzi Azione 30% di sconto Fr. 12.–* invece di 17.20

Papeteria divisori diversi colori, assortiti Fr. 3.90


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 dicembre 2017 • N. 51

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Idee e acquisti per la settimana

Papeteria

Un’organizzazione perfetta nel nuovo anno L’inizio del nuovo anno è il momento migliore per riorganizzare ogni cosa, anche in ufficio. A tale scopo alla Migros sono disponibili accessori alla moda e pratici articoli della linea Papeteria Testo Jacqueline Vinzelberg; Foto Roger Hofstetter

Se in ufficio ci si sente a proprio agio, lavorare risulta più divertente. Un ufficio ben organizzato è la migliore premessa per raggiungere tale obiettivo. In questo modo tutto ha un proprio posto ed è immediatamente a portata di mano quando ne si ha bisogno. Che si tratti di carta, buste e penne, classificatori, rubriche o forbici, alla Migros nella sua gamma di prodotti Papeteria si trova praticamente tutto ciò che è necessario in ufficio, sia a casa che al lavoro.

*Azione valida dal 19.12.2017 al 29.01.2018 Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti.

Papeteria Penne inchiostro blu, 10 pezzi Fr. 4.40

Papeteria Colla a stick set da 3 Azione 30% di sconto Fr. 4.40* invece di 6.30

Papeteria Set di foglietti autoadesivi staccabili 13 pezzi Fr. 7.90

Papeteria registro in cartone 6 suddivisioni, 6 pezzi Azione 30% di sconto Fr. 3.75* invece di 5.40

Papeteria Classificatori set da 3 7 cm, diversi colori Azione 3 per 2 Fr. 6.70* invece di 10.05

Papeteria blocco per appunti A4, quadrettato 4 mm 3 pezzi x 100 fogli Fr. 4.90

Papeteria buste C5 senza finestra, 200 pezzi Azione 30% di sconto Fr. 12.–* invece di 17.20

Papeteria divisori diversi colori, assortiti Fr. 3.90


La natura sa cosa fa bene.

30%

15.80 invece di 23.10 Salmone affumicato bio in conf. speciale d’allevamento, Irlanda/Scozia/Norvegia, 260 g

20% Tutti i tipi di aceto e olio bio (Alnatura esclusi), per es. olio di girasole, spremuto a freddo, 500 ml, 3.75 invece di 4.70

a partire da 2 pezzi

20%

Tutto l’assortimento di tè e tisane bio (prodotti Alnatura esclusi), a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione

20%

1.60 invece di 2.– Emmentaler bio per 100 g

Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli già ridotti. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 19.12 AL 26.12.2017, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

20% Tutta la pasta, i sughi per pasta e le conserve di pomodoro bio (Alnatura esclusi), per es. cornetti, 500 g, 1.55 invece di 1.95

20% Burro svizzero per arrostire aha! bio e olio di cocco spremuto a freddo Fairtrade bio per es. olio di cocco, 200 g, 5.20 invece di 6.50

20% Tutti gli yogurt bio (yogurt di latte di pecora esclusi), per es. alla fragola, 180 g, –.60 invece di –.80


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Idee e acquisti per la settimana

zVg

Sony KD-55A1, 55” diagonale dello schermo di 139 cm* Azione Fr. 2299.– invece di 2999.– fino al 24 dicembre

Colori e contrasti brillanti: la nuova serie Sony trasforma il salvaschermo in un’opera d’arte.

Sony

Hightech per i sensi

Sony KD-65A1, 65” diagonale dello schermo di 164 cm* Azione Fr. 3299.– invece di 3999.– fino al 24 dicembre

Le aspettative nei confronti di un televisore sono molteplici: deve integrarsi nell’estetica del soggiorno e nel contempo essere all’avanguardia per quanto riguarda la tecnologia delle immagini e del suono. Come la nuova serie «Bravia OLED A1» di Sony Testo Claudia Schmidt

Display OLED Con oltre otto milioni di pixel controllati individualmente , la tecnologia OLED offre rapporti di contrasto che aggiungono più dettagli, profondità, consistenza e colore all’immagine, anche alla luce del giorno. Con High Dynamic Range (HDR) è inoltre garantita la fruizione delle immagini in 4K, indifferentemente che si tratti di DVD, disco Blu-ray o foto digitali. Anche i normali film beneficiano del processore Sony X1-Extreme: le immagini vengono ottimizzate e risultano così chiare e pulite, come quelle riprese in 4K.

Acoustic Surface In materia di suono Sony sta percorrendo nuove strade: con la nuova tecnologia audio Acoustic Surface la riproduzione del suono avviene sull’intero display. Due cosiddetti attuatori posti nella parte posteriore dell’apparecchio convertono i segnali elettrici in movimento meccanico. Ciò significa che fanno vibrare il display, generando i suoni ma senza avere conseguenze sulle immagini. Le voci sembrano provenire direttamente dai protagonisti, le esplosioni verificarsi sul display. In tal modo immagini e audio risultano perfettamente sincronizzati.

Formato e interfaccia utente La serie «Bravia OLED A1» è disponibile in tre differenti dimensioni, con diagonali dello schermo di 139, 164 e 195 centimetri. Il design «One Slate» propone un supporto che non necessita di piedini e altoparlanti aggiuntivi, così che nella visione nulla distrae dall’essenziale, l’immagine. La serie A1 utilizza Android TV e consente l’accesso web a film, musica, foto e giochi. La gestione avviene tramite il telecomando con funzione di ricerca vocale. Chromecast integrato permette di trasmettere contenuti sul televisore direttamente da Smartphone o Tablet.

Sony KD-77A1, 77” diagonale dello schermo di 195 cm* Fr. 19’999.–

*Disponibile presso melectronics e su www.melectronics.ch Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti.


A Capodanno vinci una carta regalo di fr. 1000.–. famigros.ch/carta-regalo

s.ch

www.famigro

Su famigros.ch/carta-regalo trovi tutte le informazioni in merito al concorso. Termine ultimo di partecipazione: 31.12.2017. Non si tiene alcuna corrispondenza sul concorso.


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Idee e acquisti per la settimana

Potz

Lo specialista per il calcare

L’anticalcare Potz è adatto per le macchine da caffè e da espresso di tutte le marche e di tutti i tipi. Il principio attivo altamente efficace offre una buona protezione dalla corrosione. Di seguito i tre semplici passaggi per liberare l’apparecchio dal calcare

Efficace e delicato Potz Calc Espresso 2 x 125 ml Fr. 8.60 In filiali selezionate

1

Versare una confezione di Potz Calc Espresso nel serbatoio dell’acqua della macchina per il caffè e secondo le indicazioni del produttore dell’apparecchio diluire con acqua.

2

Avviare il programma di decalcificazione. Lasciar fluire il liquido, da raccogliere in un contenitore. Ripetere la procedura, secondo indicazioni del produttore.

3 Illustrazioni Katena Studios

Far scorrere acqua fresca del rubinetto nei circuiti della macchina, per eliminare i residui di calcare.

Azione Tutti i prodotti Potz a partire dall’acquisto di 2 articoli Fr. –.70 di sconto dal 19.12.2017 al 01.01.2018

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche i prodotti di pulizia e decalcificatori Potz.

Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti.

Decalcificare con regolarità migliora il piacere del caffè. Questo perché la presenza di calcare in parti della macchina rallenta il processo di erogazione e influisce sull’aroma del caffè. Per prolungare la durata di funzionamento dell’apparecchio, decalcificare ogni due o tre mesi.


Apertura straordinaria

Domenica 24 dicembre Tutti i negozi e ristoranti Migros saranno aperti dalle ore 10 alle 17


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