Transizione • Zeta Numero 1 | Febbraio 2022

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Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” Numero 1 Febbraio 2022

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COVERSTORY

Transizione verso un mondo nuovo 38

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Torna la luce sul Corridoio Vasariano

Giovani, musica e rivoluzioni

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«Diventerò prete» In seminario nel 2022

Jorit, il rito del passaggio

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La scoperta di Gerace paradiso d’Europa


Data Lab

Italian Digital Media Observatory Partners: Luiss Data Lab, RAI, TIM, Gruppo GEDI, La Repubblica, Università di Roma Tor Vergata, T6 Ecosystems, ZetaLuiss, NewsGuard, Pagella Politica, Alliance of Democracies Foundation, Corriere della Sera, Fondazione Enel, Reporters Sans Frontières, The European House Ambrosetti, Harvard Kennedy School e Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale


La parola Start

«Chi dice donna dice donna»

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«Il linguaggio è un luogo di lotta»

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di Elena Pomè

di Valeria Verbaro

Cover story: così si cambia Quanto costa essere se stessi

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La rinascita di Marica

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Figlie dell’incertezza

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di Silvia Stellacci

di Angela Rizzica di Giulia Moretti

Ambiente

Green new city

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La frutta si trasforma in scarpe

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di Francesco Di Blasi di Federica De Lillis

Tech

Il computer mi ha rubato il lavoro

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Il destino extraterrestre dell’umanità

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di Giorgia Verna

di Enzo Panizio e Claudia Bisio

Esteri

Innamorarsi al fronte

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“America first” vale anche in Ucraina

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Francia alle urne

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di Leonardo Aresi di Luisa Barone

di Niccolò Ferrero

Photogallery

Jorit, il rito del passaggio di Anastasia Pensuti

Italia

«Prima ero un cittadino»

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Italiani di seconda generazione

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Giovani senza prospettive

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Mani pulite: parla Gherardo Colombo

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di Claudia Bisio

di Silvia Andreozzi

di Leonardo Pini e Lorenzo Sangermano

Sport

Il gol con l’intelligenza artificiale

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Quanto pesa il pallone sull’ambiente

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di Elena La Stella

di Antonio Cefalù

Cultura

Torna la luce sul Corridoio Vasariano

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In seminario nel 2022

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Bly, prima giornalista investigativa

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di Anastasia Pensuti e Elena La Stella di Silvano D’Angelo

di Ludovica Esposito

Spettacoli

Giovani, musica, rivoluzioni

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Quando l’Italia sorpassa

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Essere umane, la mostra

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di Yamila Ammirata e Alissa Balocco di Dario Artale

di Silvia Pollice

Cibo

Un cocktail di bellezza e tradizione

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Il futuro della cucina è Vegan

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di Caterina Di Terlizzi di Beatrice Offidani

La guida di Zeta

«Si è ciò che si mangia»

di Silvia Stellacci e Leonardo Pini

Parole e immagini Algoritmi del futuro di Silvia Morrone

La transizione Transizione, dal latino trans-ire, letteralmente andare oltre. Trans-ire è proiettarsi oltre il conosciuto e la consuetudine, aborrire la sicurezza, disprezzare la staticità in favore del dinamismo, oltrepassare i propri limiti (o almeno provarci) e squarciare i tralicci del pregiudizio che costringono. Trans-ire è, in definitiva, diventare adulti. È questo che sta provando a fare la nostra società e che in questo nostro primo numero abbiamo provato a raccontare. Un’evoluzione lenta per una società ancora in piena fase adolescenziale che, di fronte alle novità, si veste di borchie e spunzoni di ferro, fiera del suo caos e non ancora pronta ad accogliere il nuovo ordine. Un conflitto tra la nuova e la vecchia generazione, numericamente sbilanciate in favore della seconda, che, spesso, recalcitra alle istanze proposte dai giovani, sminuendole all’insegna di una lode miope e melensa dei tempi andati. Ma l’adultità prevede la capacità di ricomporre il conflitto, non arretrando dalle proprie posizioni dimostrando cedevolezza, piuttosto riconsiderandole sulla base del principio

Giulia Moretti 28

di Martina Ucci

Numero 1 Febbraio 2022

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Nessun vincitore allo stadio Flaminio di Giorgio Brugnoli

Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini”

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ZETA Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” supplemento di Reporter Nuovo Registrazione Reg tribunale di Roma n. 15/08 del 21/01/2008

Direttore responsabile Gianni Riotta Condirettori Giorgio Casadio Alberto Flores d’Arcais

di realtà. Reali sono le storie dei ragazzi che intraprendono il percorso della transizione di genere e non dovrebbero sperimentare marginalità, sia essa sociale o lavorativa. Altrettanto tangibile è il problema ecologico, che deve essere risolto se non si vuole assistere alla prematura morte di tutta la società. E non si può neanche spostare lo sguardo dai conflitti, dalle migrazioni, dalle difficoltà nell’entrare nel mondo del lavoro. Perché adulto è sinonimo di responsabilità. È risaputo anche che, in questa terra di nessuno tra l’infanzia e la maturità, emergano le contraddizioni. Ecco, dunque, il paradosso di una popolazione che tenta di evolvere sull’onda della forza propulsiva dei giovani incontrando l’ostacolo della denatalità e, quindi, della scarsa rappresentazione politica. Come si diceva, però, arrivare al “nuovo ordine” richiede capacità di dialogo, di diplomazia e di progettazione e compito del giornalista è quello di rendere tutti consapevoli di ciò che li circonda. Una missione che noi, appena arrivati in questa redazione e a nostra volta coinvolti in una transizione, raccogliamo da chi ci ha preceduto e portiamo oltre. A cura di Federica De Lillis Giulia Moretti Enzo Panizio Leonardo Pini Silvia Stellacci Valeria Verbaro

Redazione Viale Pola, 12 – 00198 Roma Stampa Centro riproduzione dell’Università Contatti 0685225358 giornalismo@luiss.it

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La parola

Linguistica Car* tutt*, per iniziare il viaggio nella transizione è necessario che essa avvenga prima di tutto a un livello linguistico. Se anche voi avete notato questi asterischi nei vostri ultimi messaggi, è la riprova che l'italiano sta evolvendo, andando verso una maggiore inclusività non solo di genere, ma anche culturale.

TRANSIZ Transizióne s. f. [dal lat. transitio-onis, der. di transire «passare»] di Giorgia Verna

La citazione «Non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare» Sir Winston Churchill

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1a. Passaggio da un modo di essere o di vita a un altro, da una condizione o situazione a una nuova e diversa. 1b. Fase di transizione: una fase intermedia del processo nella quale si altera la condizione, per lo più di approssimativo equilibrio, che si aveva nella fase iniziale, e che dà luogo poi a una nuova condizione di equilibrio. Definizione dal dizionario Treccani


Genere

Sociale

Diventare ciò che si è sempre stati si può chiamare evoluzione? Sono le storie di Marika e Michele, di chi ha cambiato se stesso, anche se solo esteriormente, in un contesto sociale che si apre a nuovi diritti e concezioni. Nella transizione di genere cambia il rapporto binario maschile e femminile, cambia il concetto di maternità all'interno di un nuovo ordine sociale e familiare.

La società cambia. Lo si vede nella televisione e nel suo programma più rappresentativo: Sanremo. Lo si vede nel mondo lavorativo e nelle difficoltà sempre maggiori che i giovani si ritrovano ad affrontare. Lo si vede nelle nuove abitudini alimentari con un occhio alla tradizione: ristoranti storici all'avanguardia.

ZIONE Ambientale

La transizione ambientale si impara da bambini: le quattro stagioni, il cambiamento della natura che si adatta ed evolve. Ma qui si vogliono analizzare le conseguenze delle nostre azioni: in negativo, ovvero tutto ciò che abbiamo fatto e facciamo per contribuire al cambiamento climatico. In positivo, ovvero tutto ciò che facciamo e faremo per inquinare meno e proteggere il nostro ecosistema. Aziende più sostenibili, squadre di calcio attente all'ambiente, nuovi capi di abbigliamento con tessuti ecosostenibili.

Digitale Computer che scrivono da soli, chatbox che rispondono alle tue domande e ti aiutano a scovare le false notizie. L'avvento di internet e le nuove tecnologie, tra cui l'intelligenza artificiale, portano a una transizione all'interno della società e degli stili di vita professionali. La transizione digitale fa nascere nuovi stili di comunicazione e nuovi modi di vivere la realtà: il mondo del Metaverso.

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Start zare la presenza femminile nei luoghi di lavoro nei quali la donna era, ed è ancora, un’anomalia». I media chiamano le professioniste per nome o in base alla prossimità con un uomo e raccontano i traguardi lavorativi femminili come un’eccezione alla regola, come è accaduto per l’elezione di una Presidente della Repubblica “donna”. Una narrazione che rafforza il pensiero patriarcale anche in molte donne, che «percepiscono il femminile come degradante e rivendicano il maschile come riconoscimento di prestigio». La parità di genere, infatti, «è nominalmente garantita, ma non è agita, perché una donna fatica nel conquistare le posizioni apicali, è discriminata nella retribuzione e viene bloccata per la gravidanza».

«Chi dice donna dice donna» Linguaggio inclusivo e parità di genere: cambiare la società con il vocabolario PAROLE

di Elena Pomè

«L’uso del linguaggio inclusivo, cioè della declinazione anche femminile del mondo, è fondamentale per rendere visibili le donne» prosegue Mariella Martucci, autrice con Capria di libri per ragazze e ragazzi. L’educazione alla consapevolezza dei generi e all’inclusione deve iniziare dall’infanzia, a partire dal superamento del sessismo intrinseco nelle parole e

«Se una bambina legge Femmina non è una parolaccia. Eppure, Natalia Ginzburg desiderava scrivere solo la parola “ministro”, come un uomo, Oriana Fallaci ha inciso e mai la parola “ministra”, sulla lapide “scrittore” e Beatrice Venezi ha reclamato il ruolo di “direttore” d’orimmaginerà un signore in chestra sul palco del Festival di Sanremo. giacca e cravatta, e non una Introiezioni del pensiero patriarcale, perché il linguaggio racconta la realtà, e la donna» realtà ha riservato per secoli la cura della famiglia alle donne e il prestigio del lavoro agli uomini. nell’apparato iconografico dei libri scolastici. «Se una bambina legge solo la parola «Siamo cresciute in un mondo in cui “ministro”, e mai la parola “ministra”, imil maschile sovraesteso era normale, non maginerà un signore in giacca e cravatta, e esistevamo in classe, non esistevamo da non una donna» spiega Martucci. nessuna parte» spiega Carolina Capria, scrittrice e autrice della pagina Instagram Anche secondo Vera Gheno, sociolinL’ha scritto una femmina, dove approfondi- guista e traduttrice, l’uso dei femminili sce la letteratura femminile. professionali è necessario per «normaliz6 — Zeta

Serve dunque un grande cambiamento culturale, sociale e linguistico della mentalità androcentrica, che non giustifichi più il comportamento predatorio del catcalling come rinforzo della bellezza femminile, i chiarimenti indesiderati del mansplaining e le cronache di femminicidi inconsapevoli. «Scalpitiamo, ma non può avvenire dall’oggi al domani» ricorda Gheno. Bisogna sfogliare i vocabolari, riscoprire il femminile e, se serve, inventare parole nuove. «Lo spettro delle parole, come quello dei colori, è infinito». Se la “maestra” è sempre esistita, e se Virginia Raggi e Chiara Appendino hanno sdoganato il termine “sindaca”, non resta che attendere l’evoluzione della vita delle donne e della lingua italiana. ■

FEMMINA NON È UNA PAROLACCIA è il libro inclusivo per ragazzi e ragazze di Carolina Capria e Mariella Martucci


«Il linguaggio è anche un luogo di lotta» Il lento processo dell’italiano che si trasforma ed evolve per includere la propria multiculturalità PAROLE

di Valeria Verbaro

«Le nostre parole significano, sono azione, resistenza, luogo di lotta» scriveva bell hooks in Elogio del margine. Sono uno spazio di scontro e quindi di mutamento. Rappresentano gli equilibri sociali vigenti, perciò quando si trasformano diventano indice di una cultura che cambia e che, nel caso dell’inclusività linguistica, non è più plasmata soltanto dalle identità dominanti: bianche e maschili. La lingua è in continua evoluzione e le parole creano e ricreano il nostro immaginario. Quando non esistono quelle giuste per parlare di determinate esperienze, o ci si ostina a non usarne di nuove, diventa difficile trattare determinati temi, come il razzismo e la multiculturalità in Italia. «Ci sono parole che abbiamo mutuato dal contesto angloamericano - afferma Nadeesha Uyangoda, autrice e conduttrice del podcast La cura delle parole - e questo ha portato a credere che la questione razziale e coloniale non riguardi l’Italia in forma violenta». Invece, nell’italiano che cambia, imparare a riconoscere il portato storico di termini offensivi, razzisti e co-

loniali di uso comune e imparare a non ridicolizzare il politically correct è il primo passo per capire il presente. «Si pensa al politicamente corretto come a qualcosa di estremista, ma è uno strumento di inclusione di quelle minoranze che in passato non hanno avuto occasione di riflettere sul linguaggio, perché appannaggio solo di chi lo utilizzava nelle sfere di potere».

deve ancora fare i conti con il passato coloniale rimosso, prima di poter davvero costruire un vocabolario in grado di parlare della propria multiculturalità. In questo percorso graduale e necessario, progetti come La cura delle parole aiutano a individuare i punti ciechi del processo, permettendo di riflettere sulla violenza nascosta dietro certi termini comuni. Ambaradan ne è un esempio: a metà febbraio cade l’anniversario del genocidio dell’Amba Aradam da parte dell’esercito italiano, eppure non lo si ricorda quando si usa quella stessa parola come semplice sinonimo di confusione. La cura delle parole parte, soprattutto, da qui. ■

Il dibattito pubblico sempre più forte, soprattutto sui social, dimostra che è possibile destrutturare abitudini linguistiche colme di pregiudizi, perché anche se le parole sono di per sé neutrali e arbitrarie, l’uso che se ne fa non lo è mai», come af-

«Perché se le parole sono di per sé neutrali e arbitrarie, l’uso che se ne fa non lo è mai» ferma Bianca Maria Aravecchia, responsabile del progetto La cura delle parole per il Comune di Milano. Concetto ricalcato anche dalla professoressa Franca Bosc, linguista che nel podcast si occupa dell’etimologia dei termini che nel tempo hanno acquisito un’accezione offensiva. «È il contesto di un atto comunicativo che ha una connotazione situazionale e culturale: fattori extralinguistici come lo spazio, il tempo, il vissuto e il bagaglio di conoscenze di una persona». Il contesto italiano, tuttavia, sulla questione razziale

LA CURA DELLE PAROLE è un podcast realizzato dall’Ufficio reti e cooperazione culturale del comune di Milano in collaborazione con l’Istituto Confucio e il patrocinio di Fondazione Cariplo Attraverso l’approfondimento su singole parole di uso comune prova a costruire un uso del linguaggio più consapevole, soprattutto riguardo termini radicati in accezioni offensive o nel retaggio coloniale. Disponibile su Spotify

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Coverstory

«No fear, be strong» Quanto costa essere se stessi La transizione di VOLTI genere è un cammino difficile, a volte reso più complesso dal contesto in cui si vive. Il piccolo paese in provincia di Bari in cui Michele è cresciuto è stato uno dei maggiori ostacoli incontrati nel suo percorso

di Silvia Stellacci

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I tatuaggi sul corpo di Michele sono come le pagine di un libro. Ogni tappa del suo percorso è incisa sulla sua pelle. «Tra la prima visita al Policlinico di Bari e l’inizio della transizione è passato più di un anno. Le liste d’attesa sono lunghissime. È stato in quel momento che mi sono tatuato sulle gambe “No fear, be strong”: niente paura, sii forte. Era un modo per dirmi di resistere ancora e non smettere di crederci. Subito dopo mi richiamarono dall’ospedale. Potevo finalmente avere la vita che sognavo fin da quando ero un bambino». Michele è un uomo di 27 anni che non ha mai conosciuto altre realtà al di fuori di una piccola città in provincia di Bari. Il contesto in cui è cresciuto non l’ha aiutato nella sua adolescenza. «C’era chi mi apprezzava per quello che ero, chi non voleva proprio saperne nulla di me. Alcuni genitori dicevano ai propri figli di non frequentarmi e di non uscire con me.

Come se fossi un delinquente o una persona pericolosa. Vaglielo a spiegare che sono una persona normale e che non ho nessuna colpa. Qui sono tutti un po’ più ottusi, è stato difficile lottare con questa situazione». Soprattutto quando, ad appena 14 anni, gli è stato fatto credere che fosse lui la causa della malattia della madre. Per quello che era, perché voleva essere se stesso. A quella età non aveva armi per opporsi a un pensiero del genere. È entrato talmente tanto nella sua testa, che ha pensato di cambiare, illudere sua madre di essere una persona che non era, solo per guarirla dal suo male. Così, per alcuni mesi, ha indossato abiti femminili, è uscito di casa con la matita nera intorno agli occhi, nascondendo la sofferenza che da dentro lo logorava. Finché non ce l’ha più fatta. «Ho fatto sedere mamma sul divano e le ho detto come stavano veramente


e non richiesti dalla gente intorno a lui. «Credo che la transizione non sia uguale per tutti. Io ho deciso di sottopormi a due operazioni – all’istero-annessiectomia (asportazione di utero e ovaie) quattro mesi dopo la prima – perché volevo avvicinare il mio corpo all’identità di genere che ho sempre percepito. Però siamo tutti un po’diversi». Il primo classico preconcetto nei confronti delle persone transgender è pensare che tutte vogliano andare incontro a una modifica del proprio aspetto. La realtà, però, è un’altra. Chi sente di avere un’identità di genere non allineata al sesso biologico può decidere di affermare se stesso anche senza ricorrere a terapie ormonali o chirurgiche.

questo, non lo assumeva. Ha rinunciato anche al calcio, quando, raggiunta una certa età, doveva giocare per regolamento in una squadra femminile, e a una carriera nell’aeronautica, perché costretto a vivere nella palazzina delle donne. C’è qualcosa, però, che nessuno gli ha mai tolto: la passione per le moto. «La moto è la mia libertà, lo specchio della mia anima. Sono arrabbiato, prendo la moto. Sono felice, prendo la moto. Dico sempre che la vita vista da dentro il casco è molto più bella. Si vive a pelle la velocità, il luogo, qualsiasi cosa».

“ Il mio non era un capriccio né tantomeno un periodo passeggero in cui preferivo avere l’aspetto di un maschio. Io volevo essere solo un ragazzo” Michele

le cose. Il mio non era un capriccio né tantomeno un periodo passeggero in cui preferivo avere l’aspetto di un maschio. Io volevo essere un ragazzo. La mia famiglia, per fortuna, mi ha compreso e mi ha dato completa libertà di scelta. I miei genitori sapevano già da allora che avevo intenzione di intraprendere, una volta cresciuto, un percorso che potesse rendere la mia vita più simile a quella che sognavo». Occasione che arriva nel 2017 e che viene ricordata con un altro tatuaggio, la data scritta in numeri romani. Dopo 18 mesi di psicoterapia e cure ormonali, con la relazione che gli viene rilasciata, può finalmente chiedere il cambio del nome al tribunale. È anche abbastanza fortunato, perché non deve aspettare molto per i nuovi documenti, già pronti a qualche mese di distanza dall’invio della richiesta. Poi, nell’ottobre del 2019, affronta la prima operazione, la mascolinizzazione del torace, e per la prima volta si sente davvero libero. Libero di non indossare più quella stretta fascia intorno al petto, che per anni l’ha compresso talmente tanto da lasciargli i segni sulla pelle. Torna a respirare. Torna al mare senza maglietta e senza paura di ricevere sguardi indiscreti

Come si legge su infotrans.it – primo portale istituzionale europeo che fornisce informazioni al riguardo – «i percorsi seguiti dalle persone transgender sono molteplici ed è fondamentale non ragionare per categorie precostituite ma porsi in una posizione di ascolto e sostenere le persone nel loro percorso». Tra le varie figure che hanno sostenuto Michele ce ne sono due in particolare. «Vicino a me ho sempre avuto mia madre e se oggi sono il ragazzo che sognavo di essere è grazie a lei, che mi è stata accanto più di qualsiasi altra persona. Le ho dedicato l’ultimo tatuaggio: un leone sulla schiena con gli occhi verdi come i suoi». «Anche i miei nonni, che mi hanno cresciuto, mi sono stati molto vicino. Mio nonno passa a trovarmi al lavoro quasi tutte le mattine per chiedermi come sto. Il suo bene è indescrivibile, non si può quantificare, e io sono davvero orgoglioso di portare il suo nome». Al momento Michele lavora in una pizzeria. Negli anni ha avuto diversi problemi a livello lavorativo. Si è dovuto arrangiare più volte, perché, prima della transizione, chi guardava il suo curriculum notava solo che il suo aspetto non corrispondeva al nome che leggeva e, per

Per il suo futuro Michele sogna una carriera nel mondo della moda. Esser stato finalista al “Bellissimo di Italia”, qualche anno fa, ha avuto un grande significato per lui, perché prima non poteva neanche immaginare di partecipare a una competizione del genere. «Pensare di intraprendere la carriera di modello transgender qui è un’utopia, ma niente è mai perduto. Spero che un giorno potrò cambiare ancora una volta la mia vita, allontanarmi dal mio paese e stare con persone che mi capiscono e mi valorizzano per quello che sono». ■ Zeta — 9


Coverstory

«Tutti hanno il diritto di lavorare» la rinascita di Marica È addetta vendite in un negozio del centro di Roma. I titolari di Marica hanno accettato senza difficoltà il suo percorso di transizione ma, per chi fa parte della popolazione transgender, non è sempre così GENERE

di Angela Rizzica 10 — Zeta

«Appena me ne sono accorta, ho specificato che quel nome appartiene alla mia vecchia vita. La titolare mi ha risposto che a loro non cambiava nulla, che l’importante era l’esperienza». Marica si era candidata per un lavoro ma, per sbaglio, aveva inviato il curriculum di Marco. Lei non è più Marco [deadname usato con il permesso di Marica, ndr] da settembre 2021 e il suo percorso è stato accettato senza difficoltà dall’azienda che l’ha assunta. Per le persone transgender, l’identità di genere e/o ruolo di genere non si identifica col sesso assegnato alla nascita

e perciò, alcune, cominciano l’iter per allinearsi al genere percepito. «Il loro consulente mi ha chiesto se i documenti fossero già aggiornati per poterlo comunicare subito all’Inps. Gli ho risposto che per la rettifica del nome ci vorrà tempo. È una procedura lunga». Ora Marica lavora come addetta vendite in un negozio al centro di Roma ma è stata anche graphic designer. Mentre parla, la sigaretta è appena appoggiata nell’incavo tra indice e medio. Il ritmo dei suoi passi è cadenzato e la falcata sinuosa, merito del suo passato da modella. È nata in Sicilia, in un contesto che le


impediva di esprimersi appieno. Così, ha deciso di andarsene: si è trasferita prima a Torino e poi a Roma, dove ha intrapreso il percorso di transizione. «Qui sono seguita dal Servizio di adeguamento tra identità fisica e identità psichica di un ospedale. C’è un’equipe che si occupa del sostegno psicologico e medico. Ora sto scoprendo un lato di me che avevo ignorato per questioni sociali, culturali ma anche economiche perché molte aziende hanno dei pregiudizi nei nostri confronti». Nel mondo, le persone transgender adulte sono comprese tra lo 0,5 e l’1,2% della popolazione totale. In Italia, secondo Infotranws, sarebbero circa cinquecentomila ma si tratta di un numero approssimativo ottenuto da cifre internazionali. Per rimediare alla carenza di dati, nel 2020 è stata promossa la prima ‘stima della popolazione transgender’ italiana, chiamata SPoT. All’indagine ha collaborato anche l’Istituto superiore di sanità ma i risultati ancora non sono stati pubblicati. Queste persone, spesso, non riescono a trovare un’occupazione. Marica ha sperimentato sulla propria pelle cosa voglia dire non ottenere un lavoro per il solo fatto di essere sé stessa. Poi, finalmente, ha incontrato i

«Il loro consulente mi ha chiesto se i documenti fossero già aggiornati per poterlo comunicare subito all’Inps. Gli ho risposto che per la rettifica del nome ci vorrà tempo. È una procedura lunga» Marica

3,3% Le imprese che hanno previsto la possibilità di usare bagni e spogliatoi coerentemente con la propria identità di genere

suoi attuali titolari. «Quando mi hanno assunta, è stata valutata prima di tutto la mia professionalità. Purtroppo, però, non per tutte le persone in transizione o che hanno terminato il percorso è così». Nella vita di Marica non c’è solo il lavoro: a Roma ha scoperto il vogueing. «È uno stile di danza che si rifà al mondo delle sfilate. Si studiano addirittura gli atteggiamenti che devi avere mentre balli o mentre cammini». Questo le permette di essere più sicura e la accompagna alla scoperta di sé stessa. «La transizione è personale, non deve riguardare gli altri. Nei contratti, al momento dell’assunzione, c’è scritto che i datori di lavori non possono fare discriminazioni in base al sesso o all’identità di genere ma questo non è rispettato, non equivale alla realtà. Dovrebbero esserci delle leggi più dure per poter risolvere questa forma di discriminazione». Nel 2018, l’Istituto Nazionale di Statistica (Istat) e l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (Unar) hanno firmato un accordo per promuovere studi statistici sull’accesso al lavoro, sulle condizioni di lavoro e sull’applicazione di politiche di inclusione dei lavoratori LGBTQI+. Per ora, l’unica stima ufficiale – grazie all’approvazione della c.d. Legge Cirinnà – è quella sulle persone unite civilmente, circa 17.500 fino a tutto il 2019. Nell’ambito del progetto di Istat e Unar, è stata pubblicata a novembre 2020 l’indagine sul diversity management: solo cinque imprese su cento (oltre mille imprese con almeno cinquanta dipendenti ciascuna) hanno adottato una o più misure non obbligatorie per includere e valorizzare questi lavoratori. Le imprese di queste dimensioni sono solo lo 0,6% del totale delle imprese italiane ma occupano oltre il 36% dei lavoratori italiani. La maggior parte delle politiche di inclusione è destinata alla tutela dei lavoratori transgender: Il 3,3% delle imprese ha previsto la possibilità di usare bagni e spogliatoi coerentemente con la propria identità di genere e il 2% di manifestare la propria identità con ogni mezzo visibile, anche attraverso l’abbigliamento. Un tiepido passo avanti verso l’inclusione che, però, è ancora lontana «soprattutto dopo la bocciatura del Ddl Zan». Marica, prima di incontrare i suoi attuali datori di lavoro, era demoralizzata ma la determinazione l’ha spinta a non arrendersi: «è possibile trovare un titolare in grado di valorizzare, prima di tutto, il profilo lavorativo. Un titolare che non discrimina. È importante non perdere mai la speranza». ■ Zeta — 11


Coverstory del fenomeno: ogni cento bambini nati nel 2010, nel 2020 ne sono nati 78. Il documento dell’Istat ha contraddetto il luogo comune secondo cui i lunghi periodi di lockdown - quando le coppie passavano molto tempo insieme - avrebbero potuto incoraggiare la natalità. Ebbene, se nei primi mesi del 2020 la discesa delle nascite era stata in linea con il ritmo del periodo precedente (-2,8% annuo), è aumentata nella seconda parte dell’anno, specie a partire da novembre. Considerando che i primi casi di Covid in Italia sono stati registrati a febbraio 2020, il crollo vertiginoso ha iniziato a registrarsi esattamente a nove mesi di distanza, l’arco temporale di una gravidanza. Ad una fase di stabilizzazione e parziale ripresa delle nascite è seguita un’altra pesante diminuzione a partire da maggio 2021, proprio in corrispondenza dei nove mesi dall’inizio della seconda ondata. Il Covid ha, quindi, influenzato in negativo gli indici di natalità il cui saliscendi ha diretti collegamenti con l’evolversi della pandemia. La crisi sanitaria ha fatto da volano all’incertezza e all’instabilità, già piuttosto diffuse fra la popolazione giovanile, che ha rimandato, prima di qualche mese e poi a data da destinarsi, i progetti di genitorialità.

Figlie dell’incertezza Calano i nuovi nati in Italia, tra le ragioni un profondo cambiamento dei paradigmi culturali e di genere FEMMINILITÀ

di Giulia Moretti

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«Parlando della famiglia mi viene una preoccupazione vera, almeno qui in Italia: l'inverno demografico. Sembra che tanti abbiano perso l'illusione di andare avanti con i figli, tante coppie preferiscono rimanere senza o con un figlio soltanto». Così il papa durante l’Angelus di Santo Stefano ha commentato i dati relativi al calo di nascite in Italia, toccando una tematica su cui anche Mario Draghi aveva posto l’attenzione. Qualche giorno prima delle parole di papa Francesco, l’Istat aveva pubblicato i dati sulla natalità relativi al 2020 e l’opinione pubblica si era allertata. Secondo il report, infatti, nel 2020 le nascite totali sono state 404.892 con un calo di 15mila unità rispetto all’anno precedente. Il dato appare ancor più significativo, se lo si confronta con quello relativo a dieci anni prima, quando le nascite avevano sfiorato quota 562mila. Per dare un’istantanea

Indagare, però, la questione demografica significa anche interrogarsi su costrutti culturali che interessano la società e ne dirigono lo sviluppo. Nello specifico, le conquiste civili e sociali delle donne, negli ultimi cinquanta anni, hanno fornito carburante al protagonismo femminile. Dal momento che a fare i figli sono le donne, è utile chiedersi come questi fattori abbiano inciso sui livelli di natalità. Maria Serena Sapegno, professoressa associata di Studi di genere all'Università di Roma La Sapienza, sostiene che il cambiamento di costume e il riscatto femminile, sancito anche sul piano legislativo con la riforma del diritto di famiglia e la legittimazione di aborto e divorzio, si siano integrati ai principi del neoliberismo. Secondo questa concezione che pone al centro l’individuo, il soggetto è esclusivamente «orientato al successo, al denaro, all’affermazione dell’individuo senza alcun limite». Alle donne sarebbe dunque arrivato un messaggio contradditorio: «da una parte un’idea di libertà che le spinge a identificarsi con il modello maschile sul lavoro, con una assoluta separazione tra pubblico e privato. Dall’altra l’aspettativa


che tutto il lavoro di cura continuasse a ricadere ‘naturalmente’ su di loro, senza che la collettività trovasse un modo di ridisegnare e redistribuirne il peso».

Grafico del calo nascite durante i mesi di pandemia

A ciò ha fatto da sfondo, soprattutto negli ultimi anni, uno scenario economico e lavorativo scoraggiante che ha frenato il desiderio di maternità delle donne. È qui che la professoressa Sapegno mette in evidenza un altro paradosso: «tutte le inchieste Istat sulle giovani donne dai 15 ai 25 anni confermano il numero assolu-

«Sta venendo a galla un problema più profondo sul fatto che la nostra società è disegnata solo sugli uomini e su una divisione dei ruoli che non prevedeva le donne nello spazio pubblico» Maria Serena Sapegno tamente maggioritario delle donne che desiderano avere figli, eppure ogni anno il numero dei bambini che vengono al mondo diminuisce». In effetti, l’aspirazione ad avere figli è diffusa, contrariamente a quanto talk show e commentatori moralisti tendono a far pensare. Vanessa, ventottenne romana, è prossima al parto e per lei «è come se arrivasse, a un certo punto, una sorta di istinto che ti porta a desiderare l’arrivo di un bambino. La voglia di mettersi in gioco, creando qualcosa di unico con la persona che ami». Come si potrebbero creare le condizioni necessarie alla concretizzazione del desiderio di genitorialità? «Beh, basterebbe allungare il naso e guardare cosa fanno i nostri vicini», suggerisce la professoressa Sapegno.

La professoressa Maria Serena Sapegno, associato di Studi di genere all'Università La Sapienza di Roma

«Qualche passo nella giusta direzione si sta facendo con l’assegno unico per i figli, l’allungamento del congedo obbligatorio e retribuito per i padri (ancora quasi simbolico di dieci giorni), l’aumento degli asili nido pubblici. Ancora drammaticamente poco». E incalza, sottolineando che «sta venendo a galla un problema più profondo sul fatto che la nostra società è disegnata solo sugli uomini e su una divisione dei ruoli che non prevedeva le donne nello spazio pubblico». Flessibilità dovrebbe, secondo lei, essere la parola chiave nell’invertire la rotta della denatalità. «Sospendere l’attività lavorativa per un figlio non può voler dire (negli stessi anni cruciali per il lavoro e per la riproduzione) perdere per sempre il treno della carriera». Purtroppo, invece, non sono infrequenti i casi in cui la maternità è vista come un ostacolo alla piena realizzazione degli obiettivi lavorativi delle donne. «Qualche settimana fa - ha raccontato Agnese Pini, direttrice del quotidiano La Nazione - una collaboratrice del mio giornale mi ha chiamato sul punto di piangere, comunicandomi di aver appena scoperto di essere incinta e dicendomi che temeva che la gravidanza mettesse fine alla sua carriera. Le ho detto che le avrei fatto un contratto da dipendente che l’avrebbe tutelata, ma non sempre è questa la reazione dei datori di lavoro». Le donne sono, dunque, strette nella morsa dei modelli lavorativi patriarcali, si stanno disinnamorando dei progetti di maternità, traghettando il concetto di femminilità verso una ridefinizione di quegli elementi strutturali che lo hanno sostanziato fino a pochi anni fa. È inutile ostinarsi a non guardare la realtà addu-

cendo fantasiose ipotesi sulle cause della diminuzione delle nascite. Da ambienti conservatori si sono levate, a più riprese, aspre critiche contro le coppie omosessuali, che, in quanto infertili, avrebbero contribuito ad aggravare il trend negativo delle nascite. «Questa mi pare davvero una sciocchezza! E quante sarebbero le coppie alternative per incidere sui grandi numeri? E ci sono da noi più che altrove? Ma non scherziamo!» commenta seccata Sapegno.

-28% Il tasso di decrescita delle nascite in Italia nel 2020 rispetto al 2010 (Fonti: Istat)

«Piuttosto la mia generazione si prenda le proprie responsabilità. Nel tentativo di affermare la libertà di scelta sulla maternità abbiamo messo insieme, un po’ frettolosamente, la retorica del materno, la fatica del doppio lavoro, la mancanza di cooperazione degli uomini. Così poco spazio è rimasto alle meraviglie dell’avventura genitoriale». Per uscire da questo «inverno demografico» occorre riflettere con serietà e senza pregiudizi o falsi moralismi sulle sue reali cause e, se possibile, introdurre politiche che valorizzino la maternità o, in senso più ampio, la genitorialità, permettendo contemporaneamente a uomini e donne di essere cittadine e cittadini a pieno titolo. ■ Zeta — 13


Ambiente

Coverstory

Green new city il futuro delle città Come la transizione ecologica prevista dal Pnrr cambierà le nostre città ECONOMIA

di Francesco Di Blasi

Parlare di transizione ecologica significa parlare di transizione urbana. Le città occupano il 3 per cento della superficie terrestre, ma sono responsabili del 60-80 per cento del consumo energetico e del 75 per cento delle emissioni di carbonio mondiali (fonte: Agenda 2030 dell’Onu). In Europa, dove tre quarti degli abitanti vivono in città, sfruttando un reticolo di insediamenti le cui tracce possono essere fatte risalire fino ai tempi dell’Impero Romano, queste percentuali aumentano. Le metropoli sono al centro del Green New Deal, il piano di riforme economiche e sociali dell’Unione Europea per combattere il cambiamento climatico. In Italia, il nuovo patto verde è protagonista del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) che alla transizione ecologica dedica il 37 per cento delle risorse per un totale di quasi 72 miliardi di euro. Di questi, agli enti locali è affidata la gestione di 20 miliardi di cui le città metropolitane sono responsabili per circa il 42 per cento.

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La rivoluzione verde è iniziata e continuerà a procedere grazie a loro perché «nelle città sono concentrati i grandi inquinatori, i cittadini più facoltosi in grado di investire nel green e le amministrazioni pubbliche più sensibili e con più esperienza nei confronti dei temi ecologici», spiega Valentino Piana, esperto di economia sostenibile dell’University of Applied Sciences Western Switzerland di Valais. Foreste urbane, edifici all’avanguardia e reti elettriche intelligenti capaci di ridistribuire l’energia nel tessuto cittadino per evitare sprechi: la green new city del futuro immaginata nel Pnrr ha l’ambizione di ripensare il nostro modo di vivere.

Energia Tagliare il consumo superfluo di energia è il primo passo verso una riduzione delle emissioni inquinanti. Gli edifici italiani rappresentano quasi la metà dei consumi energetici del Paese e la maggior parte è stata realizzata prima che entrasse in vigore la normativa per il


risparmio energetico del 2015. Finanziare la loro ristrutturazione energetica e sismica è uno delle voci più sostanziose del Pnrr che, a riguardo, interviene con detrazioni fiscali al 110 per cento. Isolamento termico delle facciate per ridurre l’utilizzo di termosifoni e condizionatori, installazione di pannelli solari, tecnologie di riciclo dell’acqua: il privato che diventa green guadagna in termini economici e di qualità della vita.

Le risorse del Pnrr che saranno gestite da soggetti territoriali Risorse in mld di euro

E se a fine giornata le nostre case producessero più energia del loro fabbisogno? Si potrà vendere o regalare l’energia in eccesso al proprio vicino di casa tramite sistemi di smart grid, reti elettriche capaci di redistribuire l’energia in modo da ottimizzarne il consumo. Tecnologie che potranno essere utilizzate anche per supportare l’alimentazione di veicoli elettrici e colonnine di ricarica che nel giro di pochi anni saranno parte integrante dell’ecosistema delle nostre città. Entro il 2026, quando gli interventi del Pnrr saranno completati, i punti di ricarica realizzati saranno più di 20mila, di cui 13mila solo nei centri urbani. Il traffico cittadino sarà ridotto di oltre il 10 per cento grazie a 231 nuovi km di rete servita dal trasporto pubblico a basse o zero emissioni.

Verde Il Piano nazionale punta a rigenerare il verde urbano piantando 6,6 milioni di alberi e realizzando 6.600 ettari di foreste in modo da aumentare la qualità dell’aria e del paesaggio di tutte le principali città italiane, che oggi non godono di una buona qualità dell'aria. La percentuale della popolazione urbana sottoposta a livelli di inquinamento superiori a quelli consentiti dall’Ue in Italia è del 34,4 per cento, contro il 14,4 della Germania e l’11,1 della Francia (Fonte: European Environment Agency). Gli alberi e le foreste urbane saranno i filtri naturali pensati per contrastare questo fenomeno, ma la loro utilità sarà ben maggiore. Contribuiranno a ridurre l’inquinamento acustico e i consumi energetici grazie alla loro capacità isolante che renderà le nostre città più fresche e meno rumorose.

Fonte: Portale "Italia domani"

a sfruttare il cambiamento. Il progetto prevede 365 km di nuove piste ciclabili cittadine e altri 1.235 km di piste ciclabili turistiche. Il 50 per cento delle risorse sarà destinato alle regioni del Sud.

Conflitti Le proteste sul rincaro dei carburanti viste in Francia nel 2019 hanno mostrato che le politiche climatiche possono avere ricadute sociali. Diversi osservatori hanno sottolineato l’importanza di pianificare politiche di welfare a sostegno di quei lavoratori che rischiano di essere esclusi dalla nuova economia verde. «Prevedere un “ponte” che miri a reintegrarli è fondamentale, ma se il lavoratore pensa che per salvare il suo impiego si fermi la transizione ecologica si sbaglia di grosso. O la sua azienda cambia i suoi modi di

produzione o verrà travolta e con essa i suoi dipendenti» sostiene Piana, secondo cui i veri conflitti a cui dovremmo prestare attenzione sono altri: «Vi immaginate cosa succederebbe se si interrompese la fornitura idrica a una metropoli anche solo per due settimane, come è già successo a Città del Capo? Mancherebbe acqua potabile dai rubinetti, le fogne non riuscirebbero a smaltire gli scarichi, la gente scapperebbe in campagna e le tensioni sociali esploderebbero». In uno scenario di questo tipo non è difficile pensare città o quartieri limitrofi lottare per accaparrarsi gli aiuti e le risorse idriche. Adattarsi al cambiamento climatico genererebbe conflitto: cercare di mitigarlo, come cerca i fare il Piano nazionale di ripresa e resilienza, è l'unica strada percorribile. ■

Il nuovo ecosistema urbano sfrutterà una ramificazione di nuove piste ciclabili che saranno costruite in 40 città, in particolare quelle che ospitano le principali università del Paese in modo da coinvolgere l’utenza più giovane e pronta Zeta — 15


Ambiente

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La frutta si trasforma in scarpe Arriva un nuovo business sostenibile che si oppone al fast fashion SOSTENIBILITÀ

di Federica De Lillis

Uva, ananas e mele. Non è la parte finale di una vecchia lista della spesa, ma i materiali di cui potrebbero essere fatte le vostre scarpe. Uno scenario che non viene dal futuro. È già presente tra i prodotti della moda sostenibile, come quelli creati da Giuliana Borzillo e Dong Seon Lee. Lei, 33 anni, product manager nel settore calzaturiero, lui stilista di 42 anni originario della Corea del Sud. Il loro è un progetto che nasce nel 2019 dalla difficoltà di trovare sul mercato scarpe prodotte con materiali ecologici, che al tempo stesso andassero oltre la ricorrente estetica minimal ed essenziale. Questo ha por16 — Zeta

tato Giuliana a lanciare Dong una sfida: progettare una sneaker eco-sostenibile dal design ricercato. Nasce così il primo modello “Hana Fluo” «la cui suola curvilinea – sostengono - simboleggia l’arrivo di un’onda green e rivoluzionaria, mentre i colori fluorescenti dovevano riecheggiare le luci di Seoul». Nel 2020, grazie a una campagna di crowdfunding, hanno raggiunto la somma necessaria per dar vita al loro brand “ID.EIGHT”. «Un nome che - spiegano - ha un preciso significato: “Id” evoca la parola “identity” e indica l’importanza della coerenza e della riconoscibilità; “Eight”, sotto forma di otto rovesciato nel nostro logo, simboleggia la rigenerazione e la circolarità». La più grande novità introdotta dalla giovane coppia sta nelle materie prime utilizzate. Le loro sneaker sono composte in buona parte da materiali biologici, sottoprodotti delle attività agricole o industriali. Il primo è la Piñatex, un prodotto brevettato da un’imprenditrice spagnola, Carmen Hijosa, realizzato a partire dalla lavorazione degli scarti dell’ananas coltivato nelle Filippine. Il secondo è la Apple-

Skin, una “pelle” vegetale creata da un’azienda di Bolzano, la Frumat, che utilizza le bucce e i torsoli delle mele del Trentino. L’ultimo tessuto innovativo scelto da Giuliana e Dong è la Vegea, ottenuto dagli scarti della lavorazione vitivinicola, la vinaccia. Rifiuti destinati a discariche o inceneritori, che vengono invece recuperati e trasformati in articoli alla moda. ID.EIGHT è l’esempio di un nuovo approccio produttivo che si sta affermando negli ultimi anni, attento agli sprechi e alla tutela dell’ambiente. L’obiettivo di Dong e Giuliana è quello di «creare capi di ottima manifattura, il cui uso, se unito a una corretta manutenzione, può essere prolungato anche per decenni». Entrambi sono consapevoli della scommessa che rappresenta la loro scelta che, almeno per quanto riguarda il costo del prodotto finito, non può competere con i colossi del fast fashion. L’espressione “moda veloce” fu utilizzata per la prima volta dal New York Times nel 1989 per descrivere un model-


lo di business basato sull'offerta ai consumatori di frequenti novità sotto forma di prodotti a basso prezzo e di tendenza. Ciò ha dato vita a un sistema che non realizza articoli resistenti all’usura, anzi, si rivolge a consumatori che rinnovano il proprio armadio a ogni stagione e non si preoccupano della durevolezza di ciò che indossano.

A questo si aggiunge un massiccio consumo di acqua (79 trilioni di litri l’anno) e un vasto contributo all’inquinamento delle risorse idriche e degli oceani. L’impatto negativo sull’ambiente è dato anche dal fatto che, a fronte dei circa 13 kg di vestiti a persona prodotti ogni anno, ci sono in tutto più di 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili destinati a essere inceneriti o gettati in discariche.

«La chiave per agevolare una transizione ecosostenibile è l’informazione»

Secondo Livia Crispolti, docente di Design della moda presso l’università “La Sapienza” di Roma, «il successo del fast fashion si deve alla capacità delle aziende di cambiare la mentalità dei consumatori. I capi di abbigliamento non vengono più visti come beni di uso, concepiti per durare nel tempo, ma solo e soltanto come beni di consumo. Pensiamo al fatto che le collezioni di abiti delle principali marche non sono due o tre l’anno, in base alle stagioni, ma quasi cinquanta.

Prof.ssa Livia Crispolti

Tutto questo ha un prezzo. Secondo la ricerca “The environmental price of fast fashion” pubblicata sulla rivista specializzata Nature Reviews Earth & Environment, se la spesa media pro capite per l’abbigliamento e le calzature nell’Unione Europea e nel Regno Unito è passata dal 30 per cento negli anni Cinquanta a solo il 5 per cento nel 2020, il costo di questa rivoluzione, dal punto di vista ambientale, è alto. La fashion industry è infatti responsabile di circa il 10 per cento delle emissioni globali di Co2.

92 milioni Le tonnellate di rifiuti tessili destinati a essere inceneriti o gettati in discarica ogni anno

Ciò comporta ritmi di produzione velocissimi e tempi di obsolescenza dei capi molto brevi. Si origina nel consumatore una necessità non reale di beni. Si desidera averne sempre di più. È un modello di business che non può andare avanti ancora per molto. È necessario orientarsi verso una logica circolare che non crei rifiuti e che tenti di rigenerarsi di continuo, avviando un modello produttivo virtuoso».

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La bioeconomia, intesa come sistema che sfrutta le risorse biologiche, inclusi gli scarti, come base per la produzione di beni ed energia, potrebbe rappresentare una risposta efficace. Nel settimo rapporto “La Bioeconomia in Europa”, redatto dalla Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo, si sottolinea come questo settore fornisca occupazione a oltre due milioni di persone generando, nel 2020, un output di circa 317 miliardi di euro. Un sistema, quello delle produzioni biobased, che abbraccia vari settori come la filiera agro-alimentare, il Sistema moda, l’industria della carta, il settore chimicoindustriale, la filiera del legno e l’industria farmaceutica. A trainarne lo sviluppo sono in gran parte le start-up, insieme a università e centri di ricerca.

1. Giuliana Borzillo e Dong Seon Lee, fondatori di ID.EIGHT 2. Sneaker ID.EIGHT modello "Hana light mix". Courtesy of Giuliana Borzillo e Dong Seon Lee

Per Crispolti, «la scintilla nasce proprio dai giovani ricercatori e designer, che spesso hanno dato vita a progetti innovativi come i tessuti di terza generazione, realizzati dal recupero di materiali biologici». Nel caso del settore moda, il prezzo spesso elevato del prodotto finito si deve all’impiego di tecniche in gran parte sperimentali. Secondo la docente «siamo ancora agli inizi, ma la transizione è in atto. Nella storia, le avanguardie sono sempre state l’opposizione a un sistema consolidato. Ci stiamo avvicinando alla deadline del fast fashion: un modello di produzione incosciente, insostenibile per il Pianeta. Certo, ci vorrà tempo per cambiare la mente dei consumatori. La chiave per agevolare una transizione ecosostenibile è l’informazione. Dobbiamo renderci conto del reale costo che ha quello che indossiamo, solo così si può sperare che molti si orientino verso opzioni più etiche». Alla consapevolezza si accompagnano, poi, la ricerca e le nuove tecnologie: «L’avvio di un nuovo corso è possibile mettendo a sistema le idee, ed è ciò che i giovani stanno già facendo». ■ Zeta — 17


Tech

Il computer mi ha rubato il lavoro Intervista a Vladimir Alexeev: come l’Intelligenza Artificiale sta cambiando il quotidiano ROBOTICA

di Giorgia Verna

Se pensate che l’Intelligenza Artificiale (IA) sia uno strumento pericoloso che presto si ribellerà sostituendosi agli umani, avete letto troppi libri di Asimov. Via “Io Robot” e passiamo ai fatti.

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Anche se non esiste una definizione universalmente accettata in dottrina, per IA si fa riferimento ad una branca dell’informatica focalizzata sulla simulazione dell’intelletto umano. In particolare, basandosi su quanto riportato dall’Oxford English Dictionary, è la capacità dei computer o di altre macchine di esibire o simulare un comportamento intelligente. Zeta ha intervistato Vladimir Alexeev,

digital experience specialist, artista che crea immagini, video, poesie e testi utilizzando solo l’intelligenza artificiale. «Mentre negli anni novanta lavorare con l’IA era molto difficile, ora c’è sempre più una democratizzazione di questi strumenti, non solo nell’utilizzo, ma anche nell’accessibilità». Si usano, infatti, diversi tipi di intelligenza artificiale ogni giorno. Basti pensare agli algoritmi di Facebook o Twitter, basati sul rilanciare nelle bacheche degli utenti i contenuti che più piacciono. «Questo è uno degli aspetti controversi delle nuove tecnologie» commenta Vladimir «da una parte gli algoritmi dei social mi permettono di approfondire ciò che più mi piace o trovare più facilmente la mia community, ma dall’altra creano una sorta di framing effect: l’algoritmo ti mostra solo ciò che vuoi». Specialmente durante la pandemia questo è stato uno dei principali problemi che le persone, e in particolare i giornalisti, si sono ritrovati ad affrontare: la forte diffusione di fake news e teorie


«Si va verso un’era di collaborazione tra esseri umani e macchine» continua Vladimir. Uno degli aspetti principali della creazione dell’IA è studiare il collegamento tra linguaggio e mente umana. Questo permette di creare contenuti estremamente simili alla realtà e all’operato umano. Nel 2020 il giornale The Guardian ha pubblicato un articolo interamente scritto dall’IA, in particolare dal sistema GPT-3, un modello linguistico all'avanguardia che utilizza l'apprendimento automatico per produrre un testo simile a quello che scriverebbe un umano. Accetta un prompt e tenta di completarlo. Si deve, dunque, temere un robot giornalista?

Impossibile. «Dal mio punto di vista l’IA non potrà mai sostituire gli esseri umani, specialmente nelle parti più creative del suo lavoro. Pensiamo ad un cronista di calcio. L’intelligenza artificiale sarà più veloce nel fornire informazioni, nel collegare avvenimenti e partite accadute nel passato. Ma non potrà mai trasmettere al pubblico l’adrenalina, la verve di un commentatore umano».

In definitiva, l'IA è realmente un nuovo strumento al servizio dei giornalisti e non solo. Aiuterà a migliorare la velocità e la portata delle notizie in situazioni di routine e persino a creare nuove opportunità e forme di lavoro: «come i prompt designer» aggiunge Vladimir «per utilizzare sistemi come GPT2 o GPT3 è necessario conoscere un certo tipo di linguaggio. Sapere bene quale richiesta fare alla macchina per ottenere esattamente ciò che si vuole: alle volte una virgola o un punto nel posto sbagliato possono cambiare tutto». Come nel caso dei social network, anche la democratizzazione dell’IA può creare problemi a livello di controllo. «Non ci sono gatekeepers, non si può controllare l’open source. C’è sicuramente un aumento di uso improprio delle tecnologie e dobbiamo avere una maggiore competenza digitale per combatterlo. Ma vedo che le persone preferirebbero chiudere internet e la tecnologia per evitare questi problemi. Non è possibile aggiustare la società rompendo la tecnologia. Le persone non sanno cosa è possibile, ma temono l'impossibile».

Salvato il posto di lavoro, si pensi invece a quanto l’intelligenza artificiale possa aiutare nel riconoscimento delle fake news, nel fact-cheking o nel semplificare molti problemi minori come il

La parola chiave, dunque, è istruzione digitale secondo Vladimir Alexeev. Anche perché senza non si potrà mai sapere se questo testo sia stato scritto da un essere umano o da un computer. ■

«Non è possibile aggiustare la società rompendo la tecnologia. Le persone non sanno cosa è possibile, ma temono l'impossibile» della cospirazione. «Se il mio algoritmo rilancia in continuazione un contenuto sbagliato, avrò sempre più l’impressione di avere ragione, dal momento che non riconosce teorie della cospirazione o false come pericolose e non mostra contenuti contrari ad esse». Quindi se nella vostra bacheca continuano ad apparire gattini e foto di Roma, non pensate che lo stesso avvenga anche sul portatile del vostro vicino. «Le persone oggi credono solo a quello che vedono» afferma convinto Alexeev «è necessario fornire competenze digitali sin dall’infanzia, di modo che possano comprendere autonomamente come funziona il deep fake o le fake news».

temuto ‘blocco dello scrittore’. Così come internet, i social e le nuove app, l’IA sta portando ad una transizione verso un nuovo tipo di giornalismo. «GPT3 e l’IA in generale possono dare degli input, ma il resto è lavoro umano. Nella mia arte amo lasciare il lavoro crudo, così come l’IA lo fornisce per preservare e studiare la creatività di queste piattaforme. Ma senza una mano umana sarebbe tutto da buttare».

Vladimir sostiene che ognuno potrebbe essere in grado di riconoscere un’ immagine falsa «a prima vista». Un esempio? Si digiti su Google thispersondoesnotexist.com per scoprire un mondo fatto di primi piani, volti sorridenti, tante persone con volti familiari, ma che non avete mai visto…semplicemente perché non esistono! La pagina permette la creazione di volti inesistenti grazie all’uso dell’IA. «Un occhio allenato saprebbe subito accorgersi di piccoli glitch o imperfezioni che possono aiutare a capire se un’immagine è creata in digitale». 1. The Guardian - Articolo scritto con GPT3 2. Sweet dreams - Opera di Vladimir Alexeev creata con l'Intelligenza Artificiale

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Tech

Verso l’infinito e Oltre il destino extraterrestre dell’umanità Marte e Metaverso, la comunicazione delle Big Tech sconfina nella fantascienza per inibire i tentativi di regolamentazione FUTURO

di Enzo Panizio e Claudia Bisio 20 — Zeta

Una nuova realtà, «un internet incarnato dove sei nell’esperienza, non solo la guardi». Così Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, il 28 ottobre scorso, ha presentato il Metaverso. Da quel momento in poi la società ha cambiato nome in Meta, che in greco significa ‘Oltre’. Il 13 dicembre Elon Musk, Ceo di Tesla e Space X, all’indomani della nomina del Time a ‘Person of the year’, twittava: «Space X sta iniziando un progetto per rimuovere Co2 dall’atmosfera e convertirla in carburante per razzi». E nel primo commento: «c’entra con Marte». Scelte comunicative molto simili, che dipendono più dalla necessità di preservare patrimonio e potere, che dalle singole (e diverse) fasi economiche.

L’anno appena trascorso è stato uno dei più difficili per Zuckerberg. Prima le accuse per il ritardo nel silenziare Trump nei fatti di Capitol Hill, poi lo scandalo “Facebook Papers” e le inchieste seguite ai documenti divulgati dalla ‘whistleblower’ Frances Haugen, hanno scosso l’autorevolezza del re dei social network. Il valore dell’azienda – comunque in crescita nel 2021 – ha iniziato a scendere in autunno, salvo un rialzo tra novembre e dicembre dovuto proprio al rebranding e all’annuncio del Metaverso. A causa dell’utenza in calo per la prima volta in diciotto anni e dei profitti sotto le aspettative, poi, il 3 febbraio Meta ha visto crollare il 24% dell’intero valore di mercato. Una perdita di oltre duecentocinquanta miliardi di dollari in un solo giorno.


La necessità di far fronte alla pandemia, o anche al cambiamento climatico, ha accelerato questo processo e ha reso più elevato il rischio che le organizzazioni internazionali tentino la regolamentazione.

«Un pagliaccio, un genio, un uomo sempre al limite, un visionario, un industriale, un uomo di spettacolo, un mascalzone», così il Time ha definito Elon Musk nominandolo ‘Person of the year’. Il 2021 è stato infatti per il Ceo di Space X l’anno della consacrazione: è diventato l’uomo più ricco della storia, Tesla ha superato i mille miliardi di capitalizzazione e la Nasa lo ha preferito al competitor Jeff Bezos per riportare l’uomo sulla Luna. L’obiettivo di costruire il primo avamposto umano su Marte entro il 2025 è solo l’ultima trovata di una delle menti più celebrate del nostro tempo. La retorica è quella dell’uomo più ricco del mondo che vuole salvare l’intero genere umano. Due delle persone più facoltose e potenti della Terra, dunque, pur vivendo momenti diametralmente opposti in termini di reputazione, si giocano il presente nel futuro remoto. Con scelte comunicative ambiziose, la narrativa del progresso si è spinta al limite dell’immaginabile: la trasmigrazione dell’umanità verso un nuovo pianeta, o una nuova realtà. Che la loro comunicazione rasenti la fantascienza, in verità, torna molto utile a questi colossi per consolidare la loro influenza e accrescere (o salvare) i propri patrimoni.

Sfruttando questa posizione dominante si può impedire che il mercato torni contendibile e concorrenziale. Dopo il meritato trionfo iniziale, restano i migliori impedendo agli altri di entrare in competizione. «Un potere così grande è difficile da regolare per l’autorità pubblica – continua Raitano – monopoli così imponenti di fatto sfidano il potere politico». L’autoregolamentazione, gli sgravi e l’enorme elusione fiscale limitano la libera concorrenza. La natura globale del fenomeno impedisce l’applicazione delle varie legislazioni nazionali e non esiste un legislatore internazionale che possa regolare queste attività. Così «nasce quella che io ho chiamato ‘coopetition’: autorità statali abituate a competere fra loro devono imparare a collaborare per risolvere questioni che sfuggono al potere dei singoli ordinamenti territoriali» dice Antonio Cocozza, professore di Comunicazione d’impresa e gestione delle risorse umane alla Luiss.

Tutto allora si sposta sul terreno della comunicazione. In questo, «il futuro è fondamentale, è il loro campo di gioco» continua Cocozza «pongono un obiettivo che diventa meta-obiettivo: costruire il futuro». «In verità sono poco più che ipotesi. Marte è lontano, il Metaverso è avvolto da grandi punti interrogativi, sulla realizzazione ma anche sulla compatibilità con il sistema dei diritti e valori democratici». La promessa del progresso, però, serve a intestarsene la paternità. Così facendo, le Big Tech vogliono apparire «indispensabili al raggiungimento di questi obiettivi ultraterreni, ammesso che essi siano raggiungibili». E questo, almeno nell’immediato, rabbonisce politica, mercati e opinione pubblica mondiale. Più difficile valutare gli effetti di simili strategie nel lungo periodo. Ci vorranno anni prima di poter dire se puntare tutto il piano comunicativo su nuove realtà ed esperienze extraterrestri avrà portato benefici. Magari si scoprirà che le Big Tech, per migliorare la propria reputazione, avrebbero fatto meglio ad affrontare i problemi che affliggono il mondo che ancora abitiamo, combattere le disuguaglianze. Magari l’utenza le benedirà, passeggiando nel Metaverso oppure ammirando uno splendido tramonto marziano. Per il momento solo sappiamo che, per dominare il presente, bisogna puntare a colonizzare il futuro. ■

Le logiche di mercato che seguono queste super potenze infatti non sono le stesse valide per gli altri player del mercato. «Questi ‘top incomes’ hanno rivoluzionato il modello economico» dice Michele Raitano, professore di politica economica alla Sapienza. «Sono persone con un talento particolare, emerse grazie alle proprie capacità, che hanno accumulato patrimoni colossali. Sono i cosiddetti ‘winner takes all’, vincere in un momento favorevole garantisce il controllo sull’intera fetta del mercato». Zeta — 21


Esteri

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Innamorarsi al fronte Amore e patriottismo: la storia di Oksana Ruban è quella di un’intera generazione di donne ucraine VOCI

di Leonardo Aresi 22 — Zeta

«Sono partita per il fronte nel 2014, non appena è scoppiata la guerra. I nostri soldati erano stati mandati allo sbaraglio: senza adeguati mezzi di protezione, senza cibo. Un vero disastro. Io e le altre volontarie siamo partite per portare loro viveri ed equipaggiamento. Prestare aiuto ai combattenti di Chernihiv, città nella quale sono nata e cresciuta, è stato un dovere morale». Ascoltare le parole di Oksana Ruban equivale ad ascoltare la voce di un’intera generazione di donne ucraine. Da quando il paese è entrato in guerra con la Russia, il sostegno della popolazione femminile non è mai venuto a mancare. Stando ai dati del Ministero della Difesa ucraino, il 23% dell'esercito è costituito da donne: una cifra cresciuta di 15 volte in soli dieci anni. La metà di loro sono soldatesse, mentre la restante parte è operativa in ruoli di assistenza civile. Nel 2008 erano solo 1.800 le donne a servire sotto le armi: un numero che è salito vertiginosamente fino ad arrivare a 31.757 unità nel 2021. L’immaginario legato all’importanza del loro ruolo nell’esercito viaggia a doppio filo con la valorizzazione di un sentimento e di una coscienza patriottica.

Un immaginario scolpito nel “Monumento alla Madrepatria” di Kiev che raffigura una donna con una spada e uno scudo nelle proprie mani. «Prima della guerra avevo un negozio di cucito e una piccola fabbrica di scarpe. Attività che stavano dando i loro frutti». La vita di Oksana, una mamma cinquantenne con tre figlie, a partire dal 2014 è cambiata per sempre. «Sono stata volontaria di guerra dall’inizio del conflitto fino a 3 mesi fa. Mi sono concessa solo qualche intervallo per poter tornare a casa dalle ragazze. Il primo anno ho portato gli aiuti umanitari al fronte. Io e le mie compagne abbiamo tessuto reti mimetiche, cucito giubbotti antiproiettile, preparato kit di pronto soccorso, acquistato caschi, droni e mirini. Abbiamo fatto tutto il possibile per aiutare i nostri soldati. Compreso studiare fondamentali di medicina e primo soccorso». La sua dedizione è stata messa a dura prova in molte occasioni. «Nell'estate del 2014 abbiamo visitato i nostri nelle loro postazioni all’interno dell’insediamento di Stanytsia Luhanska, portandogli tutto ciò di cui avevano bisogno. Di ritorno


l'auto militare che ci stava davanti è stata colpita dai cecchini nemici. Dopo si è abbattuta una serie di colpi anche sulla nostra macchina. A quel punto ci siamo fermati, siamo saltati fuori dall'auto e ci siamo sdraiati sul ciglio della strada, nascondendoci nell'erba alta. Sentivamo il fischio dei proiettili sopra le nostre teste. È stato il momento più spaventoso della mia vita fino ad allora. Due interminabili minuti dopo, ho notato che un combattente giaceva sulla strada vicino a un veicolo militare tenendosi la testa fratturata tra le mani. Sono strisciata da lui con un kit di pronto soccorso per aiutarlo. Quando è cessata la raffica ci siamo rimessi in macchina e, nonostante le ruote fossero state danneggiate, siamo riusciti a raggiungere in tempo l’ospedale da campo più vicino. Ci sono state molte situazioni in cui sono miracolosamente sopravvissuta ma questa è la più memorabile». Durante gli anni al fronte, ha imparato a fare i conti con l’abisso della paura più grande: quella di perdere la propria vita. Ma ha anche avuto la fortuna di riscoprire il sentimento più nobile. «Nella primavera del 2018 - prosegue - assieme agli altri volontari del “Battaglione per la vita” abbiamo allestito a Luhans’k un centro di accoglienza per i feriti. In estate siamo stati poi mandati in ospedale dai medici per organizzare una équipe infermieristica. Qui ho conosciuto Artur, mio marito. È un chirurgo. Nella vita civile forse non ci saremmo mai avvicinati l’un l’altro. Abbiamo caratteri molto diversi. Lui è calmo ed equilibrato. Io, al contrario, sono molto emotiva e istintiva. Siamo come l'acqua e il fuoco. Ma quando l'ho visto curare i feriti, guidato da un’incredibile forza d’animo, ho pensato che avrei voluto sempre stare al suo fianco.

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«Quando l'ho visto curare i feriti, guidato da un’incredibile forza d’animo, ho pensato che avrei voluto sempre stare al suo fianco» In guerra le persone sembrano nude: manifestano subito la propria autenticità. Siamo diventati complici, aiutandoci a vicenda. Tre mesi dopo il nostro primo incontro ci siamo sposati. Abbiamo cementato la nostra unione lavorando per tre anni assieme in ospedale. Vivevamo in una piccola casa non molto distante da lì. Affacciandoci dal balcone della camera da letto potevamo vedere le finestre della sala operatoria. Nel vialetto del giardino di fronte al portone d’ingresso c'era l’ambulanza che guidavo ogni giorno per prestare soccorso ai feriti. Eravamo sempre lì, pronti a fare la nostra parte». Oksana, che aveva alle spalle un matrimonio fallito, in mezzo a tanta morte e desolazione ha ritrovato l’amore. La coppia da quando è tornata a casa a Vinnycja, città d’origine di Artur, si gode finalmente del tempo senza le pressioni del fronte. «Passeggiare nei boschi, incontrare i nostri amici, dormire serenamente, sentirci più protetti: non ci sembra vero».

Oksana e Artur immortalati in occasione del loro matrimonio, nell'estate del 2018

Lungo il confine orientale i soldati ucraini invece rimangono nelle trincee all’erta. Le tensioni con la Russia sembrano sul punto di esplodere. Tra la gente

3 1. Oksana a Kiev per commemorare i caduti ucraini 2. La coppia nella sala operatoria dell'ospedale di Luhans'k 3. Lezione di pronto soccorso al fronte

nelle piazze cresce il malumore per la gestione del paese. Corruzione dilagante e scelte politiche scellerate hanno portato la popolarità del presidente Zelens'kyj ai minimi storici. Lo scorso 17 dicembre il Ministero della Difesa con un’ordinanza ha chiamato nuovamente le donne che hanno meno di 60 anni e si trovano in buona salute ad arruolarsi. Oksana se sarà necessario tornerà al suo posto: «Le nostre anime sono sempre sulle montagne dove abbiamo trascorso anni tanto difficili quanto indimenticabili. In caso di escalation torneremo immediatamente al fronte per salvare le vite dei nostri fratelli e delle nostre sorelle». ■ Zeta — 23


Esteri

cui si troverebbero i paesi dell’Unione di fronte a uno stop della fornitura di gas – opzione che Putin si riserva nel braccio di ferro diplomatico – potrebbe avere l’effetto di unire i membri del Patto Atlantico e diminuire la frustrazione del Pentagono rispetto al disallineamento degli alleati europei.

“America First” vale anche in Ucraina Biden sulla stessa linea di Trump e Obama: la Cina rappresenta una minaccia più grande della Russia USA

di Luisa Barone

«L’Ucraina è la fidanzata della Russia che flirta con l’Unione Europea. Da qui la tensione, ma non credo ci saranno importanti conseguenze a livello geopolitico». Per spiegare la crisi in Est Europa, usa una metafora David H. Bearce, professore all’Università del Colorado con un’esperienza nel dipartimento economico di Washington. A Mosca è sempre più evidente che il processo di democratizzazione in corso nel paese ha avvicinato l’Ucraina all’Occidente. Perciò, quelle di Putin sono azioni volte a preservare il blocco russo: Ucraina, Bielorussia e Moldova «è tutto ciò che gli rimane».

ternazionali presso l’Università Sciences Po di Bordeaux, la crisi ucraina «is not going to impact the world». Significative risorse militari combinate a un’economia debole fanno di Mosca una minaccia relativa, ma soprattutto di vecchia data. Le stesse condizioni valevano per l’URSS negli anni '80 e la Russia degli zar all’alba della Prima Guerra Mondiale. Ma più di tutto, a Washington prevale la convinzione secondo cui Putin, nel caso di un’invasione, non avanzerebbe nel continente europeo oltre i confini dell’Ucraina. La conseguenza immediata sarebbe l’attivazione della clausola di difesa collettiva e quindi trovarsi a combattere contro l’intero blocco Nato.

Quindi «perché gli Stati Uniti dovrebbero impegnare le loro forze militari nella regione?» chiede retoricamente David Bearce. La decisione di Biden è stata quella di armare il Paese in vista di uno scontro, in modo da rendere le truppe ucraine capaci di difendersi in caso di attacco. Secondo questa logica, «Putin sa anche che non ci sarà alcuna risposta militare della Nato ad un’invasione russa «Nel migliore dei casi, la Russia ha dell’Ucraina». La reazione occidentale solo capacità di disturbo». Secondo Da- consisterebbe invece in sanzioni econorio Battistella, professore di Relazioni In- miche «paralizzanti». Ma la difficoltà in 24 — Zeta

Che i difensori della democrazia abbiano abbandonato la filosofia dei “poliziotti del mondo”? La politica estera americana è dettata dagli interessi economici, ed è il secondo mandato di Barack Obama (2012-2016) a rappresentare un momento di transizione chiave. La sua amministrazione opta «per una strategia soft in Libia e in Siria mentre si ritirava dall'Iraq e iniziava a ridimensionare il numero di truppe americane in Afghanistan dopo il surge iniziale» in un momento in cui il Medio Oriente non rappresentava più un’area di interesse. Gli States riescono a diventare indipendenti in termini di risorse energetiche, così Washington adotta il cosiddetto Indo-Pacific Pivot nel tentativo di rafforzare il proprio ruolo nella regione asiatica e contrastare la rapida crescita economica cinese. Trump – anche se non lo ammetterebbe mai – e poi Biden continuano su questa falsariga, con il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan e la guerra commerciale contro la Cina. Dopo la Guerra Fredda la comunità internazionale si è illusa che la prospettiva del futuro potesse essere quella dell’unipolarismo, con gli USA come unica superpotenza. Ma la più importante transizione in corso è il graduale passaggio al bipolarismo, che vede l’opposizione dell’America alla Cina. «Entriamo in un’era di strategie di politica estera estremamente sofisticate». La reale preoccupazione a Washington è il rischio che l’invasione russa dell’Ucraina senza alcuna risposta della Nato possa spingere la Cina a fare lo stesso con Taiwan. ■

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la presidenza, il parlamento e la maggior parte delle regioni e delle grandi città? Oggi nessuno dei suoi candidati è in grado di superare il 10 per cento. «Troppe teste per un palco piccolo» titola il quotidiano Libération. Ma è anche vero che le differenze, nella sostanza e nella forma, esistono e sono profonde.

37% degli elettori francesi si considera di destra

+4%

rispetto al 2017

Francia alle urne sfida al presidente Le elezioni di aprile dividono il Paese. La conferma di Macron non è scontata FRANCIA

di Niccolò Ferrero

«La Francia è un Paese di sinistra che vota a destra». La frase del sociologo Roger Sue fotografa la transizione in atto nella politica francese in vista delle elezioni presidenziali del 10 aprile. Il 37 per cento degli elettori si considera di destra, il 4% in più rispetto al 2017. Cinque anni fa Emmanuel Macron ha conquistato l’Eliseo proclamandosi «di destra e di sinistra». Dimenticando poi la seconda parte della formula, ha nominato un primo ministro gollista e ha attuato delle politiche fiscali che agevolano i ceti più abbienti. Eppure gli elettori di centro e di sinistra sembrano meno ostili nei suoi confronti. Oggi il presidente, con il 25 % dei sondaggi, è quasi certo di passare al secondo turno. Ma la rielezione non sarà facile. È cruciale capire se Marine Le Pen ed Eric Zemmour si candideranno in solitaria:

uniti rappresenterebbero il miglior risultato di sempre per l’estrema destra, ma divisi perderebbero entrambi il ballottaggio. La leader populista, che si accredita come una statista, ha preso le distanze dall’estremismo del padre. Zemmour, giornalista antislamico condannato per incitamento all’odio, ha una strategia elettorale che ricorda quella di Trump, colma di attacchi ai media e all’establishment. Più pericolosa, per il presidente in carica, appare la sfida con la candidata repubblicana Valérie Pécresse, che cerca di immaginare un modello capace di conciliare sicurezza e integrazione, liberismo economico e solidarietà sociale. La quadratura del cerchio, insomma.

Eppure, secondo il sociologo Sue, la Francia è un Paese di sinistra: «Il movimento del ’68 non si è mai fermato. Dal riconoscimento dei diritti Lgbtq+ al matrimonio tra persone dello stesso stesso, dall’assimilazione degli stranieri alla parità di genere». Secondo i sondaggi l’area più forte non è la destra, estrema o repubblicana, ma l’astensione. Una parte della società civile non sentendosi rappresentata appoggia i movimenti di contestazione che la sinistra non riesce a interpretare. «Siamo quelli che fanno andare avanti la società» urlavano i gilet gialli nel 2018. Una frattura sociale, che avrà la sua influenza nei rapporti con l’Unione Europea, di cui la Francia ha assunto la presidenza dal primo gennaio. ■

«La sinistra non ha il monopolio del cuore» disse l’ex Presidente della Repubblica Giscard d’Estaing durante un duello elettorale, ma che fine ha fatto la gauche che un decennio fa controllava Zeta — 25


Photogallery

Jorit, il rito del passaggio A Firenze il murales di Gramsci evoca la transizione. Le guance solcate da lunghe cicatrici rosse sono il segno della scarnificazione. È la Human Tribe contro i mali dell’inerzia. L’arte urbana diventa una denuncia contro l’indifferenza, che è paralisi. Nessuna transizione è possibile senza una tensione che la sostenga. Un animo indifferente, è un animo immobile PHOTOGALLERY

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a cura di Anastasia Pensuti

1. Gli occhi: vedere è prendere coscienza e “possedere“ il mondo

2. L'ape: l'eterno divenire della vita. L'operosità al servizio di una comunità ideale

3. La perseveranza di una con il passare del tempo pu

“Odio gli in 4

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goccia d'acqua: uò forare la pietra

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4. La bocca: la sede dell'identità, del logos e del soffio vitale

5. Odio gli indifferenti: “L'indifferenza è abulia, è parassitismo, è viaghiaccheria, non è vita“

ndifferenti”

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Italia

Nessun vincitore nella partita del Flaminio A fine febbraio si deciderà il futuro dello stadio che tra vincoli, decreti e indifferenza continua a sbiadire nella giungla romana ROMA

di Giorgio Brugnoli

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La storia dello stadio Flaminio è l’emblema di un’Italia che conosciamo tutti segnata da speranza, gloria e oblio. Sì perché dopo cinquant’anni di attività, il capolavoro di Pier Luigi Nervi è diventato il centro di un labirinto burocratico per cui nessun Teseo sembra arrivare a una soluzione. Era il 15 giugno 1955 quando a Parigi, il Comitato Olimpico Internazionale scelse Roma per la XVII edizione delle Olimpiadi. Una nuova occasione per la Capitale che aveva un solo significato: grandi opere urbanistiche, innovazioni e soprattutto fondi da spendere. Venne deciso di posizionare il Villaggio Olimpico nel quartiere Flaminio che all’epoca era formato prevalentemente da baracche e campi brulli. Demolito il vecchio ippodromo ormai andato in disuso, la stessa sorte toccò anche lo stadio Nazionale, allora dedicato alla squadra calcistica del Torino. Le regole per la nuova costruzione erano già all’epoca rigorose ed era tassativo che l’area rimanesse la stessa.

L’architetto Antonio Nervi studiò, assieme al padre ingegnere Pier Luigi, un’angolazione innovativa per le tribune che si inclinarono sempre più per arrivare al totale di 41 mila posti a sedere. Il calcestruzzo a vista e l’idea pioneristica dei Nervi contribuirono a rendere l’edizione italiana delle Olimpiadi come esempio di architettura d’avanguardia e l’Italia fu messa in vetrina agli occhi del mondo. Il nuovo stadio venne innaugurato in diretta televisiva il 19 marzo 1959 con un’amichevole calcistica tra Italia e Paesi Bassi. Terminate le competizioni olimpiche, nel decennio degli anni Sessanta venne utilizzato soprattutto per partite di rugby mentre in seguito anche le squadre romane di calcio cominciarono a giocare al Flaminio. Tra gli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio per motivi di sicurezza il numero di posti a sedere venne dimezzato segnando un primo duro colpo per la vita dell’impianto. Il Comitato Olimpico Nazionale Italiano rilevò la gestione nel 1997 ma venne sollevato dagli oneri della gestione circa dieci anni più tardi. In tutto questo periodo la Federazione Italiana Rugby continuava però ad avere la delega della gestione e di fatto a occuparsi del campo. Il 2010 è l’annus horribilis con i lavori di ristrutturazione che finiscono prima


ancora di cominciare e quattro anni più tardi anche la Federazione del Rugby decide di deviare le proprie attività allo stadio Olimpico, ben più preparato a soddisfare le esigenze dello sport moderno. Da allora il Flaminio è uno spettro. L’erba incolta ha preso il posto di quello che un tempo era un prato all’inglese e l’area che lo circonda è diventata riparo per senza tetto e vagabondi.

siedono la proprietà intellettuale e morale della struttura e che al primo segnale di modifica rigettano il progetto proposto.

Il presidente della Lazio, Claudio Lotito, ha più volte espresso la volontà di «mettersi a tavolino con il Comune» per un possibile acquisto anche se, a questo punto, non è più questione di volontà ma di burocrazia e leggi che si accavallano tra loro. Una certezza però c’è. Fino al Lo stadio Flaminio è un rompicapo 26 febbraio, infatti, lo stadio sarà oggetmoderno e chi ha cercato di trovare una to della Conferenza dei servizi per una soluzione si è scontrato contro una serie possibile gestione da parte della SS Lazio infinita di vincoli che pongono una lapide Nuoto. marmorea sul futuro della costruzione. In primis infatti il Flaminio è vincolato Progetti di ripristino a parte, questi dall’ultimo piano regolatore di Roma che anni di degrado e abbandono sono stalo classifica come “Edificio speciale”, il ti inutili e, per giunta, illegali. Il decreto che significa che non si possono effettua- ministeriale del 2004, che vanifica gran re interventi che modifichino “l’integrità parte delle proposte, prevede, all’articolo dei caratteri costruttivi” dell’edificio. Se 30, gli obblighi conservativi. “Lo Stato o anche una proposta superasse questo gli altri pubblici territoriali hanno l’obbliostacolo inciamperebbe però subito in un go di garantire la sicurezza e la conservasecondo vincolo architettonico costituito zione dei beni culturali di loro appartedal decreto ministeriale del 2018. L’allora nenza” e questo non è mai accaduto. Le ministro Franceschini aveva consegnato gradinate deserte, la ruggine e gli arbusti infatti in Campidoglio un atto formale in che crescono in mezzo al campo rapprecui si ribadiva l’interesse storico dell’a- sentano il fallimento di una transizione rea, confermando il decreto legislativo che poteva risolversi senza sprecare un numero 42 del 2004 che disciplina il co- solo euro. Un’occasione buttata che padice dei beni culturali e del paesaggio. A gano i romani e che colpisce la già prebuttar benzina sul fuoco però ci sono an- caria credibilità delle amministrazioni che gli eredi della famiglia Nervi che pos- capitoline. ■

Il Flaminio in numeri 13 milioni di € (900 milioni di lire) 42.000 posti nel 1960 21.000 mq di superficie 181 m di lunghezza 131 m di larghezza 8.000 posti coperti

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Italia

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«Prima ero cittadino del mio Paese, ora non sono più nulla» La ricerca della libertà non finisce mai, è una lotta che continua anche di qua dal mare DIRITTI

di Martina Ucci

Questa è la storia di Abraham e di tanti altri che come lui sono partiti dal loro Paese, alla ricerca di una libertà che difficilmente sono riusciti a trovare qui, nell’ “Europa dei diritti”, e non senza grandi fatiche. Status di rifugiato, asilo politico, protezione umanitaria, protezione sussidiaria, protezione speciale. Queste sono solo alcune delle principali forme di protezione che un migrante può richiedere per vedersi riconosciuti diritti fondamentali, primo fra tutti la possibilità di rimanere in un paese in cui non è nato.

tava, l’arrivo in Italia non è stato molto diverso per lui. «La prima cosa che ci hanno fatto fare scesi dal gommone, ancora prima di poter attraversare il cancello, è stato lasciare le nostre impronte. Insomma, la prima cosa che fai arrivato in Italia è un obbligo». Tre mesi chiuso in un centro di prima accoglienza in Sicilia in cui «non hai la possibilità di conoscere i diritti, le libertà, di approcciarti a persone diverse da te. È come se fossimo stati ancora in Africa». Dopo questo periodo è arrivata una risposta: Abraham ha ricevuto la protezione umanitaria.

«Se avessi conosciuto i miei diritti l’avrei rifiutata, avrei fatto ricorso chiedendo lo status di rifugiato e al 99% avrei vinto». Infatti, con la protezione umanitaria puoi avere molti problemi, non è riconosciuta da tutti quando cerchi lavoro, non prevede il ricongiungimento familiare, non ti permette di spostarti liberamente e dopo un anno scade, se non sei in grado di di«In Eritrea non avevo una coscienza mostrare di avere una casa e un lavoro per politica, nessuno di noi l’aveva». Quando poterla rinnovare. Abraham è scappato dall’Eritrea non sapeva cosa fossero i diritti, «non era una cosa «Io avevo il diritto di essere riconodi cui si parlava, era tutta una questione di sciuto come rifugiato, ma non lo sapevo, doveri». Diversamente da come si aspet- e nessuno mi ha messo al corrente di ciò. 30 — Zeta

Così ho iniziato a lottare per i diritti miei e di chi era scappato dal proprio Paese come me perché ho assunto coscienza e consapevolezza. Prima non avevo né l’energia né i mezzi». Abraham, rispetto a molti altri è stato anche fortunato, ha dovuto aspettare solo tre mesi per avere una risposta. Sono 67 mila i migranti sbarcati in Italia soltanto nel 2021, stando ai dati del Viminale aggiornati al 31 dicembre. Il limbo in cui si ritrovano queste persone può durare mesi, se non addirittura anni, e una volta ricevuta una forma di protezione che renda legale la tua permanenza e ti assicuri perlomeno il diritto al lavoro.

«Così ho iniziato a lottare per i diritti miei e di chi era scappato dalla propria nazione come me perché ho assunto coscienza e consapevolezza» Ma la lotta non è finita qui, perché questi diritti te li devi continuare a guadagnare giorno per giorno, dimostrando di esserne degno, se no la possibilità di essere rispedito nel tuo paese di origine è sempre dietro l’angolo. Queste migliaia di persone scappano dai loro paesi in cerca di libertà, di diritti, di una vita semplicemente un po’ più dignitosa, e quando fortunatamente riescono ad entrare nell’Europa dei diritti, si ritrovano invischiati in un sistema disfunzionale che non li rende mai liberi davvero. ■


dietro di me che sosteneva non avessi i soldi per pagarmela. È finita che l’ho offerta io a loro». E queste sono solo alcune delle situazioni che Omar ha dovuto affrontare durante il corso della sua vita. «Si dice che il razzismo in Italia non esiste. Esiste eccome, semplicemente viene nascosto».

«Oggi i miei genitori sono più che integrati. A casa si mangia purè di patate e arrosto e si parla solo italiano»

«Italiani di seconda generazione, ma sempre outsider» I figli di immigrati sono considerati stranieri ma la transizione che affrontano dalla nascita racconta qualcosa di diverso STORIE

di Claudia Bisio

Omar, 27 anni, figlio di genitori immigrati: Burkina Faso e Costa D’Avorio, un contesto povero, ma affrontato con dignità e tanta forza di volontà nell’aiutare chi sta peggio. «I miei genitori sono arrivati qui in Italia circa 30 anni fa. Mio padre è approdato a Napoli e ha cominciato a lavorare nei campi. Ad un certo punto ha deciso di farsi una famiglia e si è spostato a Milano. Così mia mamma l’ha raggiunto». Un anno dopo è nato lui, Omar, il primo di tre figli. «Oggi i miei genitori sono più che integrati. A casa si mangia purè di patate e arrosto e si parla solo Italiano». Nato

e cresciuto a Bergamo, ha affrontato un percorso di vita diverso da quello dei suoi genitori. Grazie ai valori trasmessi dalla famiglia è riuscito a non dimenticarsi di ciò che è essenziale, rimanendo fedele alla persona che è. Grazie, anche e purtroppo, a quello che ha vissuto.

Negli ultimi anni, però, dei cambiamenti ci sono stati grazie alle nuove generazioni che vivono un periodo di forte globalizzazione. La generazione Z è, fra tutte, la più inclusiva, coinvolta nelle problematiche sociali e interessata a ciò che accade, convinta di poter rendere il mondo un posto migliore grazie al dialogo. E Omar è d’accordo. Crescendo ha mantenuto gli insegnamenti di suo nonno: aiutare il prossimo e lavorare onestamente. Senza emarginare. «Ho amici che appartengono a qualsiasi ceto sociale, con qualsiasi colore di pelle. L’importante è che tu abbia dei valori, che tu sia una brava persona». Perché è facile, quando cresci in un mondo che discrimina, iniziare a odiarlo, a chiuderti nella tua bolla e frequentare persone simili a te. Mantenere un senso di appartenenza e familiarità è sicuramente più facile di affrontare il mondo di petto. Ma non è quello che ha fatto Omar. ■

«Alle elementari questa diversità non l’ho sentita, sarà per via dell’età. Sono sempre stato una persona empatica e questo penso mi abbia aiutato molto. Mi sono sempre circondato di belle persone. Alle medie e al liceo, invece, penso a causa di una maggiore consapevolezza di ciò che ti circonda, ho avuto qualche problema di discriminazione». La figura dello straniero, in Italia, è troppo stereotipata secondo Omar e ancora non è completamente accettata. È impensabile, ad oggi, credere che un immigrato possa ricoprire ruoli di prestigio. «Non è solo questo. Se vado in un bel ristorante mi guardano con disprezzo, assumendo che per il colore della mia pelle io non abbia soldi per permettermelo. Una volta mentre stavo facendo colazione in un bar ho sentito bisbigliare qualcuno

2 1. Courtesy of Ton Peters 2. Omar da bambino

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Italia prima appianare le difficoltà di tipo materiale». Ma il lavoro toglie tempo alla preparazione e, anche ammettendo di riuscire a vincere il dottorato, una volta concluso il periodo di ricerca, «sei solo una persona con un titolo in più, senza garanzie». Così dopo la laurea Andrea ha svolto lavori nella ristorazione. «Ho fatto la stagione in un albergo a Milano Marittima e dopo sono andata a lavorare in un bar di Bologna. In entrambi i casi venivo pagata 5 euro l’ora». Nonostante la paga bassa e l’assenza di tutele è stata l’unica via immediata che le permettesse di avere la certezza di poter pagare l’affitto ogni mese.

Giovani, entusiasmo senza prospettive Tre laureate raccontano la loro vita dopo l’università , tra contratti a termine e mancanza di certezze per il futuro LAVORO

di Silvia Andreozzi

«Tutti i miei colleghi universitari erano persone interessate, appassionate. La mancanza di prospettiva però ammazza l’entusiasmo. Nessuno ti prepara a quello che viene dopo la corona d’alloro». Andrea, laureata in scienze filosofiche all’Università di Bologna, riassume così l’esperienza di molti giovani che, finito il percorso universitario, cercano il loro posto nel mondo del lavoro. Frustrazione, smarrimento, ansia. L’incertezza per il futuro e la sensazione di entrare in un mondo interessato a sfruttare le tue potenzialità, più che a valorizzarle. Questi sentimenti affiorano come un filo a legare le parole di chi, ve32 — Zeta

nendo da mondi accademici differenti, vive il periodo di transizione che dovrebbe portare verso l’autonomia che solo un’occupazione stabile e retribuita adeguatamente può garantire. Prima della pandemia Andrea aveva immaginato il suo futuro nell’ambiente accademico. La tesi all’estero doveva aprirle le porte del dottorato, ma adesso il progetto è almeno rimandato. «Non essere più uno studente ti pone davanti ad alcune domande. Rischio? Vado avanti? Posso permettermi di rimanere nella precarietà economica? Se hai dei genitori che possono aiutarti è più semplice. Se non hai un sostegno hai più paura. Devi

«Ho fatto la stagione in un albergo a Milano Marittima e dopo sono andata a lavorare in un bar di Bologna. In entrambi i casi venivo pagata 5 euro l’ora» Andrea, filosofa

Andrea non si sente l’eccezione. «L’unica persona del mio gruppo di ex colleghi di facoltà che può continuare serena sulla strada della carriera accademica è quella che ha basi economiche familiari solide. Un ragazzo, che può fare quello che gli piace senza pensare ad altro perché sa di avere le spalle coperte dal punto di vista economico». La capacità di supporto materiale da parte della famiglia di provenienza è un elemento importante anche nell’esperienza di Paola, laureatasi in giurisprudenza nell’aprile 2019 all’Università di Pisa. Per il suo futuro si augura una carriera nella magistratura, per questo dopo la laurea ha iniziato un tirocinio presso il tribunale per minori di Firenze. Il periodo di stage è una delle opzioni obbligatorie per poter accedere al concorso indetto dal ministero della Giustizia, ma durante quei 18 mesi non è previsto alcun compenso. «L’unica possibilità è fare richiesta per una borsa di studio emessa dal ministero della Giustizia. Non si tratta, però, di un contributo che viene erogato ogni mese, ma l’anno successivo rispetto al periodo del tuo tirocinio». Non certo una soluzione che permette di raggiungere una propria autonomia, sia per l’entità della


somma che viene versata, circa 400 euro per mese di tirocinio, sia per il fatto che viene eventualmente erogata a distanza di un anno. La preparazione universitaria, poi, è insufficiente a sostenere le tre prove di esame scritto e l’eventuale prova orale che regolano l’accesso alla carriera in magistratura. Molti si affidano a corsi a pagamento pensati appositamente allo scopo. «Sono corsi non economici, bisogna poterselo permettere. Io, per esempio, ne frequento uno che ha una durata minore di un anno e lo pago usando la borsa di studio presa nel periodo di tirocinio». Ma un sistema di questo tipo non può essere considerato meritocratico. «Non tutti possono arrivare alle prove con gli stessi strumenti. Ci sono persone che riescono a frequentare i corsi per un anno, altri per tre anni, altri non possono proprio permetterseli. Le somme richieste rispecchiano l’offerta formativa dei corsi ma non tutti le hanno a disposizione». Non sono solo l’attesa e l’incertezza possono rendere faticoso il periodo di transizione dal mondo dell’università a quello del lavoro. Francesca si è laureata in infermieristica a Pisa il 18 marzo 2020, all’inizio della prima ondata della pandemia. Quattro giorni dopo lavorava in un reparto di terapia intensiva per malati covid dell’Ospedale Cisanello. «Il personale sanitario era insufficiente. Per questo

hanno buttato dentro il reparto noi neolaureati, ma non eravamo preparati alla responsabilità che ci è stata attribuita in modo repentino». Tutti i giovani, circa 50, impiegati nell’ospedale pisano in quel periodo sono stati assunti con contratti interinali che venivano rinnovati ogni tre mesi. «Eravamo numeri, non persone. Il primo giorno, alla presentazione, il responsabile ci ha detto di fare quello che potevamo, che la situazione era critica. Poi siamo stati lasciati soli». I primi mesi di lavoro di Francesca sono stati traumatici. La velocità con cui

«Il personale sanitario era insufficiente. Per questo hanno buttato dentro il reparto noi neolaureati, ma non eravamo preparati alla responsabilità che ci è stata attribuita in modo repentino» Francesca, infermiera

tutto è avvenuto è stata determinante nell’aumentare lo stress del ruolo. «Non ho avuto il tempo di capire cosa stessi facendo. Nell’arco di una settimana mi è cambiata la vita». Per i giovani appena entrati in reparto non è stata prevista nessuna forma di supporto, pratico o psicologico. Ma la pressione era forte su entrambi i fronti. Durante quei primi mesi di lavoro Francesca si è sentita «allo sbando». Di quel periodo non ricorda molto, i colleghi che svenivano sotto gli strati delle tute protettive e i tanti pazienti morti. «Alla morte non ci si abitua mai. Ho avuto problemi nella gestione del sonno, ho iniziato un percorso di terapia». Francesca ha poi vinto un concorso che le è valso un contratto a tempo indeterminato. Alcuni dei suoi colleghi sono rimasti a lavorare da interinali, senza diritto a ferie o malattia, in attesa di qualcosa di meglio. I giovani di oggi, per qualcuno “sdraiati”, secondo altri “choosy”, che fanno il loro meglio per trovare l’equilibrio in un mondo precario. ■ Zeta — 33


Italia

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L’Italia delle tangenti Mani Pulite compie 30 anni Trent’anni dopo i processi, l’Italia non ha trovato un accordo su cosa abbia significato Tangentopoli STORIA

di Leonardo Pini e Lorenzo Sangermano

«Iniziò una rivoluzione abbastanza insensata perché la questione andava affrontata su due livelli: giudiziario e politico. Il reato andava accertato e punito. Da subito nei toni della magistratura, la loro azione divenne palingenetica: restituire l’Italia all’onestà». Mattia Feltri, direttore dell’Huffington Post, è tra coloro che, a trent’anni di distanza, criticano alcune delle modalità con cui si svolse l’inchiesta Mani Pulite. «Era emozionante e allo stesso tempo triste. Ci rendevamo conto che una parte dell’Italia, fino ad oggi, non voleva la scomparsa dell’illegalità». A parlare è Piero Colaprico, allora inviato per La Repubblica e coniatore del termine “Tangentopoli”. Il 17 febbraio 1992, al Pio Albergo Trivulzio di Milano, una casa di cura, i cara34 — Zeta

binieri e il magistrato Antonio Di Pietro irrompono nello studio dell’Ingegner Mario Chiesa, funzionario socialista colto sul fatto dopo aver appena incassato una tangente. Bettino Craxi, segretario del PSI, parla di un caso isolato, “un mariuolo”. Si sente, di rimbalzo, una vittima. In realtà i legami tra imprenditoria e politica sono molto più profondi di quanto dice il segretario socialista. La prima fase dell’inchiesta è seguita da altri avvisi di garanzia. Dopo le politiche del 1992, a capo dell'esecutivo viene nominato Giuliano Amato, vice-segretario del PSI. L’opinione pubblica si schiera apertamente dalla parte del pool: la dimostrazione più eclatante arriverà con il Decreto Conso (marzo 1993), che avrebbe depenalizzato il finanziamento illecito ai partiti, salvando tanti inquisiti di Mani Pulite. A Milano, moltissimi scendono in piazza con striscioni e candele, urlando la loro indignazione. Gli arresti non si fermano, tutti si tirano in mezzo a un fuoco incrociato colpendo anche i leader di partito. Davanti ad Antonio Di Pietro, si presenteranno Bettino Craxi, Giorgio La Malfa, segre-

tario repubblicano, Renato Altissimo, segretario liberale e Arnaldo Forlani, segretario democristiano tra l'89 e il '92. Il 29 aprile ’93 la Camera nega l’autorizzazione a procedere contro Craxi. Il PDS e i Verdi ritirano la sera stessa i ministri e all’Hotel Raphael, la residenza romana del segretario socialista, si è radunata una gran folla. Quando esce viene colpito da monetine, banconote, sassi. L’inizio di una nuova stagione è imminente, di quella vecchia non è rimasto quasi più niente. «Ordinamento politico e giuridico sono confinanti: quello politico dà le regole, quello giuridico le applica, anche nei confronti della politica. Quando l’ordinamento politico cede, quello giuridico avanza perché finisce con il dare lui stesso le regole: non si limita ad applicarle». Luciano Violante, ex parlamentare comunista e Presidente della Camera dal 1996 al 2001, nota che in un momento, quando la politica non ebbe più sponde su cui appoggiarsi, ci fu un avanzamento della magistratura. Un altro dei fenomeni rilevati dall’ex Presidente è che “a un


certo punto venne fuori che la legittimazione del magistrato viene dal consenso dei cittadini e non dalle leggi. Questo è un punto di forte ribaltamento per quanto riguarda la democrazia». Piero Colaprico interpreta invece il sentimento che dominava all’interno dell’opinione pubblica: «Si aveva l’idea che i partiti in superficie combattessero tra di loro e nel retroscena si spartissero il bottino. Questo per me è molto più grave di qualsiasi possibile errore abbia commesso un giornalista». «[Mani Pulite] rappresenta la fine dell’illusione che si possa cambiare un paese e che questo possa rigenerarsi eticamente e moralmente attraverso un’inchiesta giudiziaria». Questo è cosa significa l’inchiesta oggi per Goffredo Buccini, editorialista del Corriere della Sera e membro del pool di giornalisti, creato nei mesi dell’inchiesta del Tribunale di Milano, che comprendeva alcuni cronisti delle maggiori testate nazionali. La sua creazione è una delle novità introdotte da Tangentopoli: «Il gruppo nasce sulla base di una legge economica. Se hai 10 arresti e 20 avvisi di garanzia al giorno è assurdo competere, devi solo verificare le notizie». L’altra novità introdotta è la pubblicazione integrale dei verbali e delle carte d’accusa. Per Mattia Feltri ci fu «uno svilimento del potere giornalistico. [I cronisti] avevano un potere che derivava direttamente dalla magistratura. Era come se fossero un’unica testata nazionale: lì il giornalismo d’inchiesta si ammala gravemente». Piero Colaprico non è d'accordo con le critiche su chi aveva il compito di raccontare quei mesi. «Il problema è che si guarda solo al lavoro dei giornalisti e dei magistrati e non si tiene conto di quello che succedeva davvero al tempo». L'inchiesta di Milano è un evento rilevante della storia politica italiana con i partiti di allora (DC ed ex PCI, Partito Democratico della Sinistra, in particolare) che «avevano ancora consenso ma non più senso di sé», come ha detto Luciano Violante. Il 26 gennaio 1994, l'ingresso in politica di Silvio Berlusconi certificherà la fine di una storia durata quasi cinquant'anni.

«Abbiamo applicato la legge» Parla Gherardo Colombo Dopo l’arresto di Mario Chiesa, lei e il pool avevate capito il livello di corruzione esistente? Quale era la vostra percezione della politica di allora? Nel giro di un paio di mesi si vedeva chiaramente che avevamo scoperto un sistema della corruzione. Riguardo la giustizia, il procedimento penale serve a giudicare persone riguardo al compimento di reati. Nel processo penale si guarda a quello, solo a quello e non ad altro. Luciano Violante, ex presidente della Camera, ha detto che con Mani Pulite «la legittimazione del magistrato ha iniziato a provenire dal pubblico e non dalla legge». Cosa ne pensa? La legittimazione deriva dalla legge. Noi potevamo fare quello che facevamo perché esistono dei codici legislativi. È certo però che contemporaneamente la cittadinanza ha manifestato a favore delle indagini. Ma se non ci fosse stato questo sostegno avremmo fatto le stesse cose. Per certi aspetti a mio parere è stato anche un po’ faticoso questo appoggio così evidente. Per Mattia Feltri è stato il momento in cui si è persa l’illusione di poter cambiare l’Italia e, allo stesso tempo, l’avvento di uno stretto legame giornalistico e politico che si è creato con i magistrati. Sicuramente non pensavo che la via giudiziaria fosse quella che potesse cambiare la cultura italiana. A luglio

del 92 feci una proposta che evitava le condanne a chi avesse raccontato come erano andate le cose e avesse restituito il denaro allontanandosi dalla vita pubblica per un certo tempo. Per me era un problema della vita pubblica, non della magistratura. Nell’uscire dal sistema di corruzione che si era trovato, la politica non ha dato le risposte che avrebbe dovuto dare. Mani Pulite si è concentrata a Milano e lì si è fermata come luogo simbolo? O aveva bisogno di espandersi in tutta Italia? Ci sono state anche in altre città indagini di corruzione. La più famosa è quella di Milano perché ha coinvolto più di cinque mila persone, quattro ex presidenti del Consiglio, qualche centinaio di parlamentari, dodici ministri, quasi tutte le imprese italiane di maggior spessore. A me non sembra di ricordare vicende particolarmente significative successe in altre città. L’interrogativo è: perché non si è indagato o perché non c’era la corruzione? Questo non glielo posso dire.

A trent’anni di distanza l’immagine di Mani Pulite, in tutti i suoi pixel, sembra destinata a rimanere sgranata ancora a lungo. ■ 1. Il tribunale di Milano. lì si svolse l'inchiesta di Tangentopoli

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Sport

Il gol con l'intelligenza artificiale Il Vesta Calcio: dalla seconda categoria alla serie D grazie all’innovazione CALCIO

di Elena La Stella

Per la prima volta al mondo una squadra di calcio dilettantistica italiana sfrutta la tecnologia e l’intelligenza artificiale per scalare le classifiche dei campionati. L’obiettivo è arrivare entro quattro anni dalla seconda categoria all’Eccellenza, per poi sbarcare in Serie D. Il Vesta Calcio rinasce in piena pandemia grazie a Gian Luca Comandini. L’attuale direttore finanziario è stato contattato per scongiurare il fallimento del Santa Francesca Cabrini, squadra della chiesa del quartiere nomentano a Roma. In collaborazione con il team di Starting Finance sono stati trasformati nome, logo e divise attraverso una mirata strategia di rebranding. La squadra è stata dotata delle tecnologie più avanzate: la blockchain viene utilizzata per la tracciabilità del bilancio e dei flussi finanziari. L’IoT (Internet of Things), invece, è stato inserito per monitorare le prestazioni degli atleti e i movimenti sul campo 36— Zeta

attraverso l’applicazione di sensori negli scarpini e nelle calze. Il Vesta nel mondo è pioniere ed esploratore del connubio fra sport e hi-tech. Negli ambiti professionistici queste tecnologie vengono usate come strumento di marketing, ma è ancora lontano il loro impiego nella quotidianità delle attività sportive e gestionali. La squadra ha tifosi in tutta Italia che possono seguire le partite in diretta Facebook o streaming. Grazie a telecamere HD, che vengono posizionate in cima al campo, le inquadrature restituiscono una panoramica di 360 gradi e seguono il pallone e le azioni. Vesta Calcio detta moda: molte celebrità seguono le sue partite. Inoltre, alcuni atleti hanno preferito una retrocessione di categoria, dall’Eccellenza o dalla Serie D, pur di giocare in questo contesto giovane e con un forte potenziale. La partecipazione dei fan emoziona Gian Luca Comandini: «la più grande soddisfazione è vedere la passione e l’affetto dei tifosi che seguono le nostre partite da tutta Italia. In noi percepiscono la genuinità e la purezza che mancano da tempo nel calcio professionistico». Le sponsorizzazioni oggi garantiscono il finanziamento totale di tutte le spese, ma il CFO Comandini guarda al futuro: «Per il salto in Serie D il mio sogno è la tokenizzazione». Per raggiungere questo ambizioso traguardo è stato avviato un

processo di digitalizzazione della società e di inserimento su blockchain – il registro digitale dove è possibile certificare gli scambi in modo incorruttibile. Una volta iscritta nella “catena di blocchi”, la società viene trasformata in un insieme di token che, come i pezzi di un puzzle, posso essere venduti separatamente ai sostenitori. In questo modo i fan diventano soci della squadra, dando vita ad un «azionariato popolare digitale». La tecnologia non deve spaventare: «può essere un sostegno importante. Deve essere sfruttata per potenziare la qualità del gioco e amplificarne la sua capacità comunicativa». Il Vesta Calcio sta dimostrando alla Lega e ai professionisti del settore che è possibile partire dal nulla e raggiungere luminosi traguardi in poco tempo grazie all’impiego di risorse hi-tech». ■


Quanto pesa il pallone sull’ambiente L’industria ha preso coscienza del suo impatto sul pianeta, ma è ancora tanta la strada da fare SOSTENIBILITÀ

di Antonio Cefalù

Un pallone da calcio pesa 400 grammi, quello che gli ruota attorno molto di più. Nel 2018, l’Unione Europea stimava che un solo spettatore, nel giorno di una partita, producesse quasi un chilo di rifiuti. In media, la bellezza di 4,2 tonnellate per un intero stadio. Nello stesso anno, e proprio dalla UE, nasceva Life Tackle, un progetto pionieristico mirato ad aiutare il calcio a ridurre la propria impronta sull’ambiente. «In quel momento club e federazioni difficilmente si preoccupavano del loro impatto ambientale, ora c’è fermento, sono tutti molto più interessati», ci dice Tiberio Daddi, direttore del progetto, pur riconoscendo che «il percorso davanti è lungo e ci sono ancora grossi margini di miglioramento». In Italia «qualcuno è un po’ più indietro, sia nelle pratiche adottate che nella sensibilità». Ma ci sono anche esempi virtuosi, come la Juventus. «Avere uno stadio di proprietà aiuta», riconosce Daddi, ma qui la maggior parte degli impianti sono vecchi ed appartengono ai comuni di riferimento, una condizione che «complica considerevolmente le azioni sulle infrastrutture».

guarda l’ambiente. «Serve una direzione ambientale indipendente che possa creare un impatto consistente». Tuttavia, non tutto è colpa dei club. Nel suo ultimo studio, inedito per il mondo del calcio, Life Tackle ha calcolato che impronta sull’ambiente ha una squadra che gioca le coppe europee e porta quarantamila tifosi allo stadio. Il 15% dell’impatto è generato dal food and beverage, il 35% dall’energia e il 40% dalla mobilità di chi si reca allo stadio — quindi, soprattutto i tifosi. Il peso di questa voce si intensifica quando gli spostamenti avvengono in aereo (all’industria dell’aviazione si attribuisce il 5% del riscaldamento globale). Un dato in contrasto con le ultime politiche del calcio continentale, che continua ad aumentare le gare internazionali, proprio quelle che vanno raggiunte in aereo. Dopo l’Europeo itinerante dell’ultima estate, quest’anno le partite delle fasi a gironi sono aumentate del 20% con l’introduzione della Conference League, e lieviteranno al 55% con la nuova Champions nel 2024. «È vero che più giochi, peggiore è il tuo impatto ambientale, ma non si risolve il riscaldamento globale smettendo di giocare. L’obiettivo dello sviluppo sostenibile è aumentare il volume degli affari e parallelamente ridurre l’impatto ambientale. Come in ogni industria, va conside-

«In molti club mancano le strutture organizzative per mettere in atto politiche ambientali» Tiberio Daddi, project director Life Tackle

rato quanto si inquina in relazione alla produzione, non solo l’inquinamento in generale». Insomma, se il pallone pesa troppo, sgonfiarlo non è la soluzione. ■

Quello che serve più di tutto, però, è una governance specializzata: «Più che la volontà, spesso, manca la conoscenza. Tanti si stanno muovendo in un’ottica operativa, fomentando alcune buone pratiche minori, ma molti meno club stanno agendo sulla loro struttura organizzativa. Troppi non hanno mai utilizzato criteri verdi nella selezione dei fornitori, né raccolgono dati sull’impatto ambientale». Se va bene c’è un dipartimento di responsabilità sociale, ma di solito giusto un 10% delle loro attività riI coriandoli lanciati sul prato della Bombonera di Buenos Aires. Foto di Juan Salamanca

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Cultura

A Firenze torna la luce sul Corridoio Vasariano In primavera l’attesa riapertura della storica passeggiata aerea che attraversa la città, dagli Uffizi a Palazzo Pitti ARTE

di Ananstasia Pensuti e Elena La Stella

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Il Corridoio Vasariano, un luogo vibrante di bellezza rinascimentale da anni inaccessibile, diventerà presto «un’esperienza veramente democratica». È questo l’impegno che il direttore degli Uffizi Eike Schmidt desidera realizzare per la primavera 2022: rendere questo spazio, intriso di arte e di storia, nuovamente fertile per i cultori della bellezza. «In passato era aperto solo saltuariamente e per gruppi di poche persone, spesso a prezzi che lasciavano a bocca aperta» spiega il Direttore degli Uffizi, desideroso di cambiare la rotta e restituire a chiunque la possibilità di sperimentare quella che è stata definita “una pas-

seggiata aerea” sopra il cuore della culla del Rinascimento. Il Corridoio, chiuso al pubblico nel 2016 per mancanza di uscite di sicurezza, fu commissionato dal Duca Cosimo I de’ Medici nel 1565, in occasione del matrimonio del figlio Francesco con Giovanna d’Austria. L’utilità era quella di consentire ai Granduchi un passaggio privilegiato e protetto da Palazzo Vecchio, che era la sede del governo, a Palazzo Pitti, la residenza privata. La galleria si articola per un totale di 760 metri al di sopra della città e del fiume, entra nei palazzi, accerchia la Torre de' Mannelli, si affaccia nella Chiesa di Santa Felicita e approda a Pitti e a Boboli. Finalmente le 72 finestre che si aprono sull’Arno, costruite per volontà di Mussolini in sostituzione delle piccole feritoie rinascimentali, torneranno a far entrare la luce sui tesori sopiti nel buio per troppo tempo. Alla grande bellezza che irrompeva dalle vedute non rimase insensibile neppure Adolf Hitler che, in visita a Firenze per stringere l’alleanza italo-tedesca, decise di risparmiare la città dalle tragiche sorti di un bombardamento.


verrà riposta al fine di contenere il consumo energetico e renderla interamente accessibile anche ai disabili. Grande spazio sarà destinato ad epigrafi e antiche sculture che verranno poste in dialogo con i capolavori della pittura rinascimentale. La storica collezione di autoritratti verrà sostituita da affreschi cinquecenteschi, che storicamente adornavano le superfici esterne della galleria, e da due memoriali in ricordo della strage dei georgofili e dei bombardamenti avvenuti durante la seconda guerra mondiale.

Scrigno di tesori dal valore inestimabile, ha ospitato a partire dal 1973 la più completa collezione di autoritratti di artisti di fama mondiale. Molte delle opere custodite nel corridoio sono state danneggiate o irrimediabilmente distrutte nel 1993, nella tragica notte tra il 26 e il 27 maggio, quando un attentato di stampo mafioso tinse di nero le pagine della storia del capoluogo toscano.

Nel 2016, la struttura, reputata inagibile, è stata chiusa al pubblico. Adesso l’impresa sarebbe quella di ripristinare la sicurezza del Corridoio entro il 27 maggio 2022. Tale data, coincidendo con l’anniversario della strage dei Georgofili, rappresenterebbe, come afferma Schmidt, uno specifico «monito verso ogni forma di aggressione contro l’umanità e contro il nostro patrimonio culturale».

Le schegge e i detriti ridussero in brandelli la tela di Bartolomeo Manfredi “I giocatori di carte“ che, come ricorda lo storico dell’arte Claudio Sagliacco, «rimase talmente compromessa da scoraggiare per molti anni il suo recupero».

I lavori di ripristino della galleria saranno anche un’occasione per dare al percorso un’interpretazione filologicamente corretta. La galleria sarà percorribile in un senso soltanto, dagli Uffizi verso Palazzo Pitti, e grande attenzione

Sebbene l’iniziativa di Schmidt sia animata da un intento democratico, il costo del biglietto appare proibitivo per buona parte dei curiosi. I tesori saranno infatti fruibili solo da coloro che potranno affrontare una spesa di 45 euro, non giustificata rispetto agli altri luoghi di interesse culturale italiani. ■

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Cultura

na e le feste si è liberi di tornare a casa. «Qualcosa che per i sacerdoti più anziani è inconcepibile», fa notare Giorgio, sottolineando il distacco con la più dura disciplina che caratterizzava il seminario nelle generazioni precedenti. Terminato l’anno di discernimento, i seminaristi entrano nel biennio filosofico e a seguire nel triennio teologico, in cui oltre alla dimensione spirituale vengono curate anche quella intellettuale, attraverso gli studi accademici, e quella umana. Al termine del primo anno teologico si ha l’effettivo passaggio rituale con la cerimonia dell’ammissione agli ordini sacri, in cui i ragazzi sono chiamati a confermare la propria scelta.

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«Diventerò prete» In seminario nel 2022 Nella società moderna la formazione dei futuri sacerdoti punta sempre di più allo sviluppo della persona RELIGIONE

di Silvano D'Angelo

Sono le nostre azioni a definire ciò che siamo. Ma cosa sono le azioni se non il continuo passaggio da uno stato all’altro? Un passaggio che diviene effettivo nel momento in cui queste azioni subiscono una codifica “rituale”, specialmente quando si tratta di scelte forti. È la storia di Giorgio, un ragazzo di 23 anni che nel 2018 ha deciso di entrare nel seminario di Chieti, in Abruzzo, e affrontare la “transizione” necessaria per diventare sacerdote. Nonostante il calo delle vocazioni, ci sono ancora migliaia di ragazzi che fanno questa scelta ogni anno, guidati certamente da una fede profonda, ma anche dalla volontà di fare la differenza nella propria comunità attraverso il nuovo ruolo che si va ad assumere. Non a caso, la “conferma” della vocazione di Giorgio è arrivata mentre 40 — Zeta

faceva il volontario dell’Unitalsi, l’associazione che si occupa del trasporto dei malati al Santuario di Lourdes, marcando da subito un legame strettissimo tra fede e impegno sociale. Un percorso che non è certo privo di sacrifici. «Il più duro», racconta Giorgio, «è la separazione dalla famiglia». La “separazione” è stata individuata più di un secolo fa dall’antropologo Arnold Van Gennep come la prima fase cruciale dei riti di passaggio. Ma nel caso del seminario non si tratta di un distacco repentino, perché gli stessi educatori desiderano che i ragazzi ponderino bene una scelta destinata a cambiare la loro esistenza. Il primo anno è infatti un “anno propedeutico” che prevede un distacco “soft”. Durante la settimana si fa esperienza di vita comunitaria, ma per il fine settima-

«Bisogna tenere sempre insieme uomo e sacerdote, affrontando senza nascondere i problemi con il lato affettivo e sessuale, da cui derivano certe storture della Chiesa di oggi» Durante questo periodo la “separazione” diviene molto più sentita, con rientri limitati alle feste, alla fine degli esami o in caso di lutti. «E devono essere lutti stretti, già per un amico è difficile avere un permesso», dice Giorgio con un velo di tristezza, ma subito spiega il perché di questa durezza: «So che può sembrare qualcosa che va contro il lato umano, ma bisogna entrare nell’ottica che si tratta di una scelta di vita in cui ci si prepara ad essere di tutti». Questo è anche il periodo in cui si comincia a vivere la dimensione pastorale, il momento in cui i seminaristi vengono assegnati ad una parrocchia diversa da quella di provenienza per entrare in contatto con la comunità dei fedeli. Ed è qui che comincia la fase che Van Gennep avrebbe chiamato di “riaggregazione”, in cui i giovani aspiranti sacerdoti possono cominciare ad avere un ruolo attivo per far sì che attraverso di loro sia la Chiesa stessa a cambiare volto. Giorgio racconta infatti che se dovesse individuare la principale differenza tra la formazione seminariale di trent’anni fa e quella attuale starebbe proprio nella centralità della dimensione umana. I giovani seminaristi sono seguiti non solo da un educatore e da un Padre Spirituale, a cui possono confidare i propri dubbi più intimi, ma anche da una psicologa che tiene incontri di gruppo e sedute individuali su tematiche concordate.


«L’obiettivo è quello di tenere sempre di pari passo l’uomo e il sacerdote», dice Giorgio, anche «affrontando senza nasconderli quei problemi umani, specie con il lato affettivo e sessuale, da cui derivano alcune storture della Chiesa di oggi». Difficile non cogliere il riferimento a due delle questioni più spinose per la Chiesa del 2022. La prima è il rapporto con la comunità LGBTQ+ con cui la Chiesa deve dialogare nonostante le divergenze. La seconda, più grave, sono i numerosi casi di abusi su minori che hanno investito alti esponenti delle gerarchie ecclesiastiche. Ma proprio per far sì che episodi del genere diventino sempre più marginali bisogna partire dai singoli. «Solo dopo aver affrontato questi problemi all’interno di sé stessi si possono affrontare insieme ai giovani, attraverso un rapporto diretto con quelli che alla fine sono dei coetanei, che non avrebbero la stessa interazione con un prete di settant’anni». Il prete infatti non è più un notabile, una figura di riferimento a sé stante, e non deve limitarsi ad una celebrazione che se rimane chiusa in sé stessa perde di senso. Al momento del rientro in società il compito del sacerdote è curare le relazioni perché «la Chiesa non sono le pareti, ma le anime», anime che hanno necessità e sensibilità completamente diverse. Il “rito di passaggio” a cui si va incontro in seminario diviene una transizio-

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ne umana e sociale che ha il suo cuore nell’ultimo momento, quello della riaggregazione alla comunità, cosicché anche l’istituzione Chiesa possa attraversare un cambiamento che la porti più vicino al sentire di oggi. Un passaggio che permetta all’uomosacerdote di tornare a dialogare in maniera nuova con la comunità di partenza. Questo anche attraverso un’evoluzione nel modo di comunicare che non può non passare attraverso i social. «Se usati bene sono finestre sul mondo e possono diventare uno strumento di evangelizzazione», dichiara Giorgio.Da questo punto

di vista la pandemia è stata certamente uno spartiacque, ma la sfida ora è rendere strutturali questi cambiamenti così da permettere alla Chiesa di tornare ad essere un punto di riferimento sempre più solido, capace di dialogare con tutte le parti della società, sull’esempio di papa Francesco. Un balzo nel futuro dunque per tornare, rinnovata, alla forza del passato. ■ 1. Cerimonia di ammissione agli ordini sacri 2. Adorazione eucaristica in seminario

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Cultura

A cosa serve Nellie Bly, prima giornalista investigativa

Elizabeth Jane Cochran fu inviata sotto copertura, fece il giro del mondo in 72 giorni e indagò sulla condizione femminile GIORNALISMO

di Ludovica Esposito

Quando Elizabeth Jane Cochran scrive una lettera di risposta all’articolo A cosa servono le ragazze pubblicato sul Pittsburgh Dispatch Journal, la sua vita cambia per sempre. Ironico, dato che la sua vita era “cambiata per sempre” già diverse volte negli anni precedenti.

la madre con lui. Queste esperienze segnano la giovane, ma la formano anche: è vedendo i soprusi che la madre e la sorella subiscono nei loro infelici matrimoni con uomini violenti che Elizabeth decide di scrivere della condizione femminile.

La morte del padre senza testamento riduce la famiglia di seconde nozze a una vita di stenti. L’amministratore dell’eredità usa i soldi per tornaconto personale e la priva dei fondi per l’istruzione. Il nuovo patrigno, pieno di debiti, dilapida quel poco di patrimonio rimasto e spinge i fratelli a cercare fortuna altrove, lasciando Elizabeth e

Da Apollo a Pittsburgh a Città del Messico a New York, dal Dispatch di George Madden al World di Joseph Pulitzer, Elizabeth vuole dare voce alle donne relegate al ruolo di mamme. Ci riesce diventando Nellie Bly: era usanza che i giornalisti si firmassero con uno pseudonimo e questo fu il suo.

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Accanto al suo obiettivo principale, Elizabeth ne ha un altro: battere Phileas Fogg, protagonista del libro Il giro del

Da Apollo a Pittsburgh a Città del Messico a New York, dal Dispatch di George Madden al World di Joseph Pulitzer, Elizabeth vuole dare voce alle donne


mondo in 80 giorni dell’autore francese Jules Verne, e concludere il viaggio in meno tempo. Ci riesce e senza compagnia maschile. «Se tu credi veramente in un sogno e lotti per realizzarlo, riesci a farcela, anche se ci impieghi vent’anni» è il principio di Melania Soriani, autrice del romanzo Bly (Mondadori, 2022). Il libro racconta della vita di Nellie, ma la sua esperienza è quella di tante donne: anche della scrittrice stessa, che ha dovuto aspettare tanti anni, dedicati al lavoro e alla famiglia, prima di riuscire ad avverare il suo desiderio di scrivere. Il messaggio che arriva è che Nellie può essere un’icona per le donne, ma anche per i giovani e per tutti perché la sua è una storia universale di voglia di riscatto. Il romanzo non accompagna Elizabeth dalla nascita alla morte, arriva fino al 25 gennaio 1890. Solo 25 dei 57 anni che vivrà la giornalista: una scelta dell’autrice che vuole evidenziare come Elizabeth sia diventata Nellie Bly. Eppure, meno di tre decenni bastano per rendersi conto dell’impatto di questa figura, sia in ambito lavorativo che personale.

Il punto di vista del romanzo è quello di un’Elizabeth adulta che ricorda la sua storia, ci sono quindi alcune anticipazioni nel corso della narrazione che tengono alta l’attenzione del lettore. Sebbene questo faccia già sapere che Elizabeth sopravvivrà alle avversità che incontra e diventerà una giornalista, vivere in prima persona i soprusi e le violenze della giovane permette al lettore di immedesimarsi e comprenderne la rabbia e il dolore. Il racconto presenta alcune licenze poetiche. Ad esempio, «era noto che Elizabeth avesse avuto un mentore nei primi anni, ma non si è mai saputo chi fosse» e allora nasce la figura della nobildonna Miss Belinda Ghettisbury. Oppure, «era poca la conoscenza della sua vita privata sentimentale: era una donna non sposata e i tempi erano

«Non si capisce come questa donna, che ha fatto una cosa così importante, sia sparita»

raccolto tutto il materiale disponibile in America su Bly. Soriani è interessata a raccontare storie di personaggi che sono stati importanti, ma purtroppo dimenticati: ha altri progetti in cantiere allo stesso scopo e spera di riuscire a ridare il giusto lustro a queste persone.

Nellie Bly fu pioniera del giornalismo investigativo, andò sotto copertura per scrivere articoli: fece l’operaia in una

«Se tu credi veramente in un sogno e lotti per realizzarlo, riesci a farcela, anche se ci impieghi vent’anni»

fabbrica per denunciare le condizioni di lavoro delle donne, pagate meno degli uomini e importunate dai loro superiori, e si finse pazza per entrare in un manicomio femminile e informare sulle sevizie che le pazienti subivano a opera di infermiere e medici. La sua dedizione riuscì a cambiare anche la vita delle persone accanto a lei. Nei primi capitoli del libro, la madre di Elizabeth è pronta a sopportare le violenze del marito pur di non chiedere il divorzio e infangare il nome della famiglia, ma, più avanti nella storia, accompagna la figlia in Messico e si batte per liberarla quando un articolo contro il presidente Díaz la fa finire in prigione.

diversi, c’erano solo delle voci» e l’autrice ha scelto quella che riteneva più interessante: la relazione con lo scrittore Joaquin Miller, che Elizabeth davvero conobbe. Tuttavia, «tutto quello che riguarda la carriera e le esperienze di vita di Elizabeth è vero». Il romanzo esce in concomitanza con il centenario della scomparsa della giornalista, ma l’idea è in lavorazione dal 2016, quando Melania Soriani lesse per la prima volta il nome della sua protagonista in un articolo su internet. L’autrice ha impiegato numerosi anni per documentarsi: ha consultato i registri della cittadina di Apollo, ha letto gli scritti della stessa Nellie e, soprattutto, il libro della giornalista Brooke Kroeger, che ha

A cento anni dalla morte di Nellie Bly, tutti sanno chi è Pulitzer, ma pochi ricordano la prima giornalista investigativa che scrisse per il suo quotidiano. «Non si capisce come questa donna, che ha fatto una cosa così importante, sia sparita», soprattutto quando la sua battaglia è quanto mai attuale ed è «la lotta per sentirsi liberi ed essere chi si vuole essere». ■

Il libro Bly Melania Soriani Mondadori pp. 360 euro 20 Zeta — 43


Spettacoli

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«Non mi ci riconosco più» Giovani, musica e rivoluzioni Incontro con Ernesto Assante. Le fratture generazionali tra la storia della canzone italiana e il festival di Sanremo TELEVISIONE

di Alissa Balocco e Yamila Ammirata

«Viviamo in un curioso medioevo di passaggio tra l’analogico e il digitale. I giovani di 15 o 16 anni non hanno nemmeno idea di cosa sia un cd. È una rivoluzione paragonabile a quello che è avvenuto negli anni Sessanta con il rock». Dai primi divi della canzone sanremese fino ai Måneskin, a raccontare la canzone italiana è Ernesto Assante, giornalista e critico musicale de “La Repubblica”. «Ancor più della letteratura e del cinema, il primo elemento vero di unità culturale in Italia è stata la canzone. Ed è pazzesco che non si sia mai sentita l’esigenza di studiare storicamente questo fenomeno nonostante il ruolo che ha avuto nella costruzione dell’identità nazionale». Nata come pratica destinata ad eventi come matrimoni, funerali e tutto ciò che riguardava la scansione del tempo e del lavoro, la canzone popolare costituiva prima di tutto un patrimonio di informazioni per la comunità. «La diffusione di

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un repertorio di canzoni d’intrattenimento come la intendiamo oggi è un fenomeno che comincia nel corso dell’Ottocento con la circolazione della forma-canzone napoletana, e ha un punto di svolta nel Novecento grazie alla radio». Questo nuovo strumento contribuisce ad affermare un repertorio di canzoni condiviso dalla nazione. Il festival di Sanremo, dal 1951, sarà un altro passo determinante. Così la storia musicale del festival diventa anche storia sociale: la rassegna registra le trasformazioni della società. Nel corso degli anni Cinquanta nasce il concetto di giovane: i ragazzi cambiano il modo di vivere. Capelli, vestiti, musica. Rispetto ai loro genitori, la generazione del dopoguerra ha soldi e tempo libero. Per i giovani «Elvis è una manifestazione divina». Il beat e il rock ‘n roll sono la manifestazione di un nuovo modo di essere che rompe con la generazione dei padri.


«Nel 1963 Celentano si esibisce al festival di Sanremo con la canzone “24000 baci”. Sul palco si scuote, si muove e si gira. Non vincerà, ma è un campanello per il paese che qualcosa sta cambiando». L’Italia si trasforma e così anche la canzone: non si canta più fermi davanti al microfono e non si parla più solo di mamme e di fiori. “Volare” di Modugno si ispira a un quadro di Chagall e racconta di una visione: non è l’immagine, ma il suono del nuovo tempo. Nel corso degli anni Sessanta, la rassegna non riesce a stare al passo coi tempi. «Per l’emergente generazione di cantautori, lo spazio del festival non risponde più alle loro esigenze. La canzone non è più intrattenimento, è arte e vita». I cantautori vendono molti dischi, ma si rifiutano di partecipare al festival e preferiscono soluzioni alternative, più vere e autentiche. Comincia la prima crisi del festival della canzone, che negli anni Settanta sopravvive a fatica: alcune edizioni non vengono neanche trasmesse in tv. Ma è negli anni Duemila che inizia il periodo più buio della canzone italiana. Arrivano i talent, il filone del mainstream e Sanremo diventa solo una vetrina che attesta che esisti. In questo contesto, è fondamentale riconoscere la rivoluzione portata dalla trap e dalla musica indipendente. Con gli smartphone e le nuove tecnologie tutto cambia, sia per chi fa musica sia per chi la ascolta: posso scrivere nella mia camera, e posso sentire ciò che voglio quando voglio. «Paradossalmente, la Dark Polo Gang è stata una delle band più rivoluzionarie. I ragazzi adesso ascoltano una musica diversa da quella dei loro genitori e dei loro fratelli». Allo stesso modo i Måneskin «hanno fatto tanto successo perché suonano il rock, inteso come atteggiamento culturale. Dicono 'io sono così e me ne frego'». Non bisogna dunque stupirsi se le opinioni sull’ultimo festival della canzone siano così divisive tra le generazioni. «Per i giovani può anche andare bene, ma noi ormai non riusciamo più a capirlo» dice un signore che chiacchiera con un gruppo di amici al di fuori del Teatro Ariston. Tra le vie di Sanremo, il giorno dopo la serata inaugurale, tutti discutono sulle esibizioni che hanno visto. Dalle loro parole emerge un binomio pressoché costante: i più anziani si dispiacciono di non riuscire ad apprezzare performance degli artisti più giovani. «Meglio che chieda a un ragazzino un commento, per noi è proprio difficile». I giovani, invece, non fanno altro che parlare di Achille Lauro. «È sempre fantastico», dicono .

2 1. Amadeus e Lorena Cesarini sul palco dell'Ariston durante la seconda serata 2. Murales dei Måneskin a Sanremo 3. Mahmood e Blanco premiati dal conduttore Amadeus, foto AGI per gentile concessione Ufficio Stampa Rai

Siamo decisamente immersi in un «medioevo di passaggio», ma l’invito è di non voltare mai le orecchie dall’altra parte. I Måneskin sono la prima band internazionale ad usare le piattaforme di

«I Måneskin hanno fatto tanto successo perché suonano il rock, inteso come atteggiamento culturale. Dicono 'io sono così e me ne frego'» Ernesto Assante streaming per arrivare a tutto il mondo in contemporanea. Mahmood e Blanco hanno vinto il festival di Sanremo dopo che da giorni erano posizionati quinti nella classifica globale di Spotify. «La musica di consumo ti dice cosa sta succedendo nelle strade. Che piaccia o no, parla dell’oggi e bisogna comprenderne la portata». ■

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Alessandro Mahmoud, 29 anni, in arte Mahmood. Concorrente nel 2012 alla sesta edizione di X Factor, vince nel 2015 il concorso Area Sanremo e partecipa alle Nuove Proposte del festival nel 2016. Autore di canzoni per Elodie, Fabri Fibra e Michele Bravi, nel 2018 è tra i due vincitori di Sanremo Giovani, mentre l’hanno successivo si classifica primo nella selezione ufficiale con Soldi. Nello stesso anno arriva secondo all’Eurovision Song Contest. Riccardo Fabbriconi, Blanco, 19 anni, comincia la sua carriera nel 2020 ed è conosciuto in tutta Italia per Notti in bianco e Mi fai impazzire. Nel 2022 Mahmood e Blanco vincono il festival di Sanremo con Brividi.

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Spettacoli

Quando l’Italia sorpassa di Dario Artale

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Può un film come Il Sorpasso indicare la strada a un paese che ha nuovamente acceso la freccia? CINEMA

...piangi piangi, che ti compero un grosso capidoglio di gomma piuma, un albero di Natale, un pirata con una gamba di legno, un coltello a serramanico, una bella scheggia di una bella bomba a mano: piangi piangi, che ti compero tanti francobolli dell’Algeria francese, tanti succhi di frutta, tante teste di legno, tante teste di moro, tante teste di morto...

È il Ferragosto del 1962, Roma è ancora in bianco e nero. Sullo schermo assolato un’auto si aggira per la città deserta, seguita dalla coda di un sassofono che va trionfando in sottofondo. Inizia così il primo road movie della storia del cinema italiano, che porta la firma di Dino Risi. Al volante della sua Lancia Aurelia B24, in pieno giorno, un uomo di nome Bruno va in cerca di un distributore di sigarette e di un telefono pubblico. Che se fosse mezzanotte e non fosse Ferragosto, potrebbe anche essere l’uomo in frack di Domenico Modugno. «Posso usare il telefono?»: è così che in punta di fioretto Bruno Cortona si prende la scena e sorprende Roberto, studente di legge al quarto anno, rimasto in città, nel proprio appartamento, per preparare l’esame di procedura civile. Dal momento in cui Bruno – un Vittorio Gassman in forma splendente – avrà varcato la soglia del suo soggiorno, non sarà più possibile per Roberto – un giovanissimo Jean-Louis Trintignant – opporsi all’esuberanza di quel “fanfarone” sconosciuto e irresistibile, alla ricerca di chiunque pur di festeggiare quel 15 di agosto come tutti gli altri giorni. Senza solitudine. ...piangi piangi, che ti compero una lunga spada blu di plastica, un frigorifero Bosch in miniatura, un salvadanaio di terracotta, un quaderno con tredici righe, un’azione della Montecatini: piangi piangi, che ti compero una piccola maschera antigas, un flacone di sciroppo ricostituente, un robot, un catechismo con illustrazioni a colori, una carta geografica con bandiere vittoriose... Bruno e Roberto, insieme, intraprenderanno un viaggio verso il mare, giocato sul filo dei 130 km\h e a doppio filo legato al nome di un’auto e di una strada consolare, l’Aurelia, capace di portare – a furia di sorpassi e condomini in cemento – l’Italia fuori dalle rovine della seconda guerra mondiale e dentro il boom economico degli anni Sessanta, fatto di amore per la velocità e ribrezzo per i ciclisti, di televisioni, frigoriferi e vacanze con le pinne, il fucile e gli occhiali.

La transizione Vittorio Gassman e Dino Risi sono protagonisti di una transizione. Per Gassman, si tratta del passaggio dal mondo del teatro a quello del cinema, dal genere tragicomico a quello della commedia all'italiana. Risi, piazzando una cinepresa al posto del passeggero dietro il conducente, riscrive le regole della cinematografia mondiale, aprendo le porte del road movie al cinema di casa nostra

Aurelia, dunque. L’auto e la strada protagoniste de Il Sorpasso portano, non casualmente, lo stesso nome. E simboleggiano la stessa idea di evasione, di benessere, di trasformazione. La Via Aurelia è la strada consolare lungo la quale si annoda e si snoda “il giretto” di Bruno e di Roberto: dopo essersi staccata dal centro di Roma, l’Aurelia attraversa dapprima i nuovi quartieri borghesi in espansione – come Balduina, quartiere simbolo del boom economico nella capitale, dove Il Sorpasso ha inizio – in seguito fiancheggia le borgate popolari, e infine si abbandona verso le riviere argentate di Fregene, di Capalbio, di Castiglioncello, sorpassate le quali finisce. La Lancia Aurelia B24, concepita da Gianni Lancia e dalla Pininfarina per canonizzare le idee di eleganza e di raffinatezza, ben presto avrebbe tradito le aspettative, finendo vittima dell’impatto grottesco con la collettività. Truccata nel motore e negli allestimenti, derisa dal clacson tritonale montatole a bordo da Dino Risi, la Lancia Aurelia diviene simbolo di aggressività e di prepotenza e finisce a pezzi contro una scogliera. È il naufragio di un’idea – quella di benessere economico, collettivo e generalizzato – che si infrange nel consumismo sfrenato, amorale, impersonale. Nel “piangi piangi” generale in cui Bruno congederà Roberto, finito in fondo alla scarpata di Calafuria, senza vita e senza cognome. ...oh ridi ridi, che ti compero un fratellino: che così tu lo chiami per nome: che così tu lo chiami Michele. ■ Nel testo: Piangi Piangi, poesia di Edoardo Sanguineti, 1964. Si tratta di una feroce critica in versi alla società consumistica caratterizzante l'Italia del boom economico Al centro: scene tratte da Il Sorpasso, regia di Dino Risi, 1962. In foto i protagnoisti Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant nei panni di Bruno Cortona e Roberto Mariani

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Spettacoli

“Essere umane” con la macchina fotografica di Silvia Pollice

Inge Morath, Untitled (from the Mask Series with Saul Steinberg), 1962. © Inge Morath / Magnum Photos © The Saul Steinberg Foundation/ARS, NY

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I principali cambiamenti sociali, politici e di costume nel Novecento raccontati attraverso gli scatti, tutti al femminile, di trenta fotografe di fama internazionale MOSTRE

(Fashion show in Harlem, 1950). Immagini che convinceranno il fotografo francese Henri Cartier-Bresson ad assumerla nella prestigiosa agenzia fotografica parigina Magnum, fondata da Robert Capa.

Tre epoche storiche diverse, un unico punto di vista: quello femminile. Dorothea Lange, Tina Modotti, Eve Arnold, Letizia Battaglia, Annie Leibovitz, Graciela Iturbide, Susan Meiselas e Newsha Tavakolian sono solo alcune delle trenta grandi fotografe che hanno immortalato la realtà del proprio tempo. Attraverso l’obiettivo delle loro macchine fotografiche, hanno raccontato il cambiamento dei costumi sociali e del ruolo della donna nel Novecento, l’affermazione della società dei consumi e le diverse sfumature della figura femminile nei Paesi extraoccidentali. Walter Guadagnini, professore di Storia della fotografia all’Accademia di Belle Arti di Bologna dal 1990, per la mostra “Essere umane. Le grandi fotografe raccontano il mondo” ha selezionato, insieme ai curatori Monica Fantini e Fabio Lazzari, 310 scatti che hanno reso eterni volti comuni ed eventi storici, rendendo la fotografia uno strumento di indagine e di riflessione, a volte più poetica e altre volte più cruda. La mostra, ospitata dai musei di San Domenico a Forlì dal 18 settembre 2021 al 30 gennaio 2022, è suddivisa in tre sezioni che ripercorrono la quotidianità, i momenti di rottura e di evoluzione del secolo breve, vissuti da donne completamente diverse tra loro. GLI ANNI 1930-1950 Nella prima sezione, la fotografa statunitense Dorothea Lange racconta gli anni della Grande Depressione attraverso il viso stravolto dalla sofferenza di una madre costretta a migrare in California in cerca di fortuna con i suoi sette figli (Migrant mother, 1936). Ruth Orkin immortala il fascino etereo della sua amica pittrice Ninalee Craig mentre, passeggiando per le strade di Firenze, cattura l’attenzione di alcuni ragazzi che iniziano a corteggiarla (American girl in Italy, 1951). Se Tina Modotti rappresenta l’impegno politico femminile con il profilo fiero di una manifestante comunista messicana (Donna con bandiera, 1928), Eve Arnold “ruba” alcuni retroscena di una sfilata di moda nel quartiere afroamericano di Harlem, a New York

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GLI ANNI 1960-1980 La seconda sezione, invece, si apre con Mask series (1959-63), una serie di maschere realizzate con sacchetti di carta sui quali il disegnatore statunitense di origini rumene Saul Steinberg ha disegnato una serie di facce stilizzate, indossate dallo stesso Steinberg e dai suoi amici, e fotografate da Inge Morath. Ma le immagini diventano anche un mezzo di approccio alle civiltà molto lontane da quella occidentale, attraverso gli scatti di Graciela Iturbide che, pur avendo fatto del bianco e nero il suo segno di riconoscimento, riesce a trasmettere i colori brillanti della cultura messicana attraverso copricapi variopinti fatti di iguane vive (Nuestra

señora de las iguanas, 1979) e corone di fiori (Conversación, 1986). Con l’italiana Letizia Battaglia, infine, la fotografia diventa uno strumento di denuncia sociale contro la povertà (Bambina con sacchetto di pane, 1980) e la violenza di Cosa nostra a Palermo durante gli anni di piombo (Triplice omicidio, 1983). GLI ANNI 1990-2010 La mostra si chiude con la fine del XX secolo e l’inizio del nuovo millennio, ma anche con due idee di femminilità diametralmente opposte. Da un lato, ci sono le donne guerrigliere delle FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) come Diana, 20enne colombiana che si è arruolata quando ne aveva soltanto 13, protagonista di uno degli scatti della fotografa iraniana Newsha Tavakolian (Diana, 20, 2017), alla quale racconta come la sua infanzia difficile l’abbia spinta ad unirsi al gruppo armato. Dall’altro, invece, lo sfarzo e la sontuosità del Palazzo Valguarnera di Palermo fa da sfondo alla serie Gli ultimi gattopardi – Ritratti dell’aristocrazia siciliana (19952007) della fotografa Shobha Stagnitta che, seguendo le orme della madre Letizia Battaglia, ritrae un’eleganza snob e senza tempo di alcune donne aristocratiche palermitane, parte di un mondo che sembra essersi fermato ai tempi di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Se “Essere umane” ripercorre in maniera accurata la storia del Novecento attraverso i punti di vista molteplici di tutte quelle donne che, con il loro obiettivo, ne sono state testimoni, allo stesso tempo lascia uscire il pubblico dalla porta dei musei con qualcosa in sospeso rispetto al mondo di oggi. Domestica (2020) della forlivese Silvia Camporesi rende perfettamente l’idea di un presente incerto, quello della pandemia, scandito dall’alternanza tra la quarantena e la voglia di ritornare alla normalità. ■ 1. Dorothea Lange, Migrant mother, 1936 Credit Line: Library of Congress, Prints & Photographs Division, FSA/OWI Collection 2. Lena on the bally box, USA, Essex Junction, Vermont, 1973 © Susan Meiselas / Magnum Photos

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Cibo tato da mio nonno, i tagliolini gratinati, la torta al limone e il più famoso dei cocktail: il Bellini. Tutto questo mi ha portato ad essere cuoca e scrittrice di cucina. Ho scritto più di dieci libri di ricette, sia per i piccini che per i grandi. «La nostra azienda vive attraverso il mantenimento vigoroso delle tradizioni centenarie, quelle della cucina italiana, ma attenta ai mutamenti. Il segreto è non cambiare mai. Se vai in un posto e mangi qualcosa che ti piace molto, che sia anche solo salsiccia di montagna, è sicuro che tornerai, per ritrovare il piatto che ti è rimasto nel cuore».

Un cocktail di bellezza e tradizione Carmela Cipriani e lo storico ristorante diventato simbolo dell’ospitalità italiana nel mondo STORIE

di Caterina Di Terlizzi

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Bionda, anzi biondissima. Carmela Cipriani, scrittrice, figlia di Arrigo, nipote di Giuseppe, erede dunque della dinastia che, nel 1931, fonda uno di quei luoghi per cui, per molti, vale la pena vivere: il ristorante Harry’s Bar a Venezia. Anni di lavoro con il padre, tre figlie, i suoi ritratti coloratissimi della città dei Dogi, sono raccolti in volumi pubblicati con successo. «Ho iniziato a cucinare con i nonni quando ero una bambina. Il famoso Carpaccio inven-

La magia dei Cipriani rivive in Carmela, far diventare elegante e buono qualsiasi cosa tocchino. Per esempio un semplice prosciutto crudo, compagno spesso anonimo dei panini al lavoro: «Quello che si mangia all’Harry’s bar, invece, lo facciamo fare a Parma da un produttore che lo marchia giusto per noi, non si trova da nessun’altra parte, e va tagliato sottile come una nuvola». La regola da seguire per Carmela Cipriani è «la semplicità. Nonno Giuseppe, quando andava al ristorante, ordinava la pasta al burro con il parmigiano. Se gliela portavano scotta con il burro spento e il parmigiano non grattugiato fresco, lui non tornava» perché «se un ristorante non sa fare una buona pasta al dente, non sa cucinare nulla». «La transizione culinaria sta infatti nel conservare bene la tradizione», questa la carta che gioca un ristorante storico, ma sempre all’avanguardia. Un luogo piccolo, come i tavolini minuscoli, che hanno accolto attori come Katherine Hepburn e Gary Cooper, stelle dell’arte, cultura e spettacolo da Giancarlo Menotti a Peggy Guggenheim. Non importa essere famosi, basta che i clienti siano “gli affezionati dell’Harry’s bar”. Il turista in bermuda non è un affezionato dell’Harry’s Bar, il passante vestito da spiaggia gira i tacchi e se ne va. Poi ci sono invece i “clienti dello storico banco dell’Harry’s bar”, quelli che si godono lo show dei barman, i più bravi, elegantissimi nei movimenti con shaker, bicchieri, ghiaccio e bottiglie. «I cocktail fanno paura a tanti, ma un po’ di trasgressione fa bene allo spirito» conclude Carmela. Gesti asciutti, però, solo mosse essenziali. Il barman rimane fermo, non un passo, concentrato al centro del bancone, complice fedele dei sogni del cliente, miscela, versa e passa un Martini gelato, ghiaccio liquido di gin e Vermouth. Il Martini viene fatto raffreddare nel pozzetto speciale, meno 27 gradi è la temperatura del piccolo frigorifero sul piano del bar, invenzione di Giuseppe Cipriani. ■


in anno, che sceglie un’alimentazione di questo tipo. Secondo il Rapporto Italia 2021 di Eurispes, il 5,8% della popolazione è vegetariano, mentre il 2,4% sceglie un’alimentazione plant based, quindi vegana.

Il futuro della cucina è Vegan Pietro Leemann, chef del ristorante Joia, parla di come il vegetale ha ridefinito gli standard del gourmet VEG

di Beatrice Offidani

«Sono diventata vegana perché viviamo in un’epoca in cui si apre una nuova frontiera di diritti. Oltre a quelli civili, per cui si è sempre lottato, oggi c’è un’attenzione particolare anche per i diritti degli animali e per l’ambientalismo». Erica, 23 anni, è vegana da tre. La molla è scattata perché una volta sua sorella le ha parlato di cosa succede negli allevamenti intensivi. «È una presa di coscienza da cui è difficile tornare indietro, una volta che sai cosa succede in quei posti».

Secondo Leemann l’alta cucina è rimasta indietro rispetto alle persone comuni, che avevano iniziato a cambiare le loro abitudini già da prima. «I social hanno giocato un ruolo importante nel rendere un trend la scelta di questo stile di vita», continua Erica. Anche lei ha aperto da qualche anno una pagina Instagram, “Eri Does Green”, dove pubblica brevi video di ricette e pillole di informazione su questi temi. Erica rappresenta una parte di popolazione, in crescita di anno

Ora lo scenario è cambiato rispetto agli anni Novanta. «Il Joia è diventato un simbolo di ciò che la società sta diventando». Anche i gusti delle persone si sono trasformati. La gente cerca «sapori più freschi, che si possono trovare solo nelle verdure poco condite o cotte. Con la carne è più difficile ricreare quella freschezza nei sapori». I piatti di Leemann sono coloratissimi, invitanti e non si legano all’idea punitiva che si ha spesso di questo tipo di dieta. «Il piacere è un aspetto importante del mangiare. Perché il cambiamento avvenga è fondamentale che il piacere ci sia. Quello vegetariano è molto più sottile, etereo, puro». Sulle nostre tavole la carne non è così centrale come si crede. Leemann spiega che le regioni italiane, a parte il maiale, si caratterizzano molto di più per i loro vegetali. «Quando un italiano va a fare la spesa e compone il suo menu, pensa prima alle verdure e poi parte da quello per decidere cosa mangiare. Soprattutto al sud Italia, il vegetale è sempre stato un elemento fondamentale». «Ho tantissimi giovani che negli ultimi anni hanno iniziato a venire a mangiare al Joia», continua Leemann. L’età media della sua clientela è scesa tra i 20 e i 35/40 anni. «Il futuro sarà sempre più vegetariano. Mi aspetto che voi giovani abbiate il coraggio di rifiutare idee legate a un modo vecchio di concepire la società, che deve consumare il più possibile fino a distruggere il pianeta». ■

La scelta di diventare vegetariani è «radicale, coraggiosa e coinvolge tutta la vita di una persona». La pensa così Pietro Leemann, chef svizzero che nel 1989 ha aperto il Joia, il primo vegetarian in Italia ad aggiudicarsi una stella Michelin. «Il mio sogno era quello di aprire un ristorante vegetariano di alto livello. Quando ho iniziato io qualcosa cominciava a muoversi, ma la qualità dei piatti era ancora molto bassa». Zeta — 51


La Guida di Zeta a cura di Silvia Stellacci e Leonardo Pini

«Si è ciò che si mangia» meglio se verde e bio Vivere in maniera sostenibile senza rinunciare a nulla è possibile, anche a tavola. A Roma sono molte le realtà che propongono un servizio di ristorazione compatibile con uno stile di vita sano ed ecologico

Hosteria del Mercato , Via Bocca di Leone 46

A pochi metri da Piazza di Spagna, in un suggestivo giardino rinascimentale, si trova, dal 1870, l’Hosteria del Mercato. Ristorante, organic juice bar, sala da the, cocktail bar e bio food market in un solo luogo. Ricche le proposte biologiche, sia nel menù che nel mercato interno, in cui è possibile acquistare prodotti che provengono direttamente dalle aziende agricole.

Rosemary Terra e Sapori, Via Modena 14 Insieme all’Associazione Legambiente – suo main partner – Rosemary Terra e Sapori promuove un’idea di ristorazione in linea con la tutela dell’ambiente. Seleziona dai suoi fornitori, piccole e medie imprese laziali, ingredienti biologici, stagionali e a Km0, basando la sua attività su una filiera produttiva sostenibile.

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Terre e Domus, Foro Traiano 82 A Palazzo Valentini, a due passi da Piazza Venezia e proprio davanti al Foro di Traiano, nasce Terre e Domus. Gestito dalla cooperativa Men At Work, che dal 2003 si occupa del reinserimento nella società di detenuti ed ex detenuti, è diventato il centro di un percorso sostenibile a livello sociale. Il lavoro di questa enoteca ristorante non è solo di riabilitazione. Concentra una grande attenzione anche sulle materie prime utilizzate nel menù, senza perdere di vista il valore rieducativo. Le verdure, ad esempio, sono coltivate in ciclo biologico nel carcere di Rebibbia.

Aromaticus, Via Urbana 134 Situato dietro la Basilica Papale di Santa Maria Maggiore, Aromaticus è un piccolo bistrò che integra al suo interno anche un market. È possibile acquistare piante, sementa e growbox, con tutti gi attrezzi utili per coltivarle da soli. Il menù è bio e vegan friendly, con una grande attenzione per le piante aromatiche e i germogli, che diventano centrali anche nel menù. Il locale ha ricevuto la certificazione “Minimo Impatto”, dal momento che garabtisce l'utilizzo di piatti e stoviglie compostabili.

Grezzo Raw Chocolate, Via Urbana 130 Per gli amanti del cioccolato, in Via Urbana, nel Rione Monti, si trova Grezzo Raw Chocolate, la prima pasticceria crudista al mondo aperta dal 2014. Oltre ai classici pasticcini, il locale produce anche la propria linea di barrette di cioccolato e di creme spalmabili, vegane e senza glutine. Gli ingredienti utilizzati sono vegetali e nessun dolce viene cotto a più di 42C°, come vuole la tradizione crudista. Inoltre, all'interno del locale, è possibile acquistare prodotti per riprodurre a casa le prelibatezze tipiche di questo posto. Ogni cosa qui è 100% bio, vegan, gluten free, senza lattosio e senza zucchero bianco. Il gusto è unico.

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La recensione di Silvia Morrone

LIBRO INTELLIGENZA ARTIFICIALE Politica, economia, diritto, tecnologia Paola Severino LUISS University Press 184 pagine 16 euro

Algoritmi del futuro Che cosa accade se l’evoluzione tecnologica permette il controllo sull’uomo? Quando si sfogliano le pagine del libro Intelligenza artificiale si ha subito la sensazione di essere teletrasportati nel futuro. La curatrice Paola Severino – presidentessa della Scuola Nazionale dell’Amministrazione, professoressa emerita di Diritto penale e vicepresidentessa della Luiss Guido Carli, ex ministra della Giustizia nel governo Monti e vicepresidentessa del Consiglio Superiore della Magistratura Militare – accompagna il lettore in un viaggio nei meandri dell’intelligenza artificiale, conosciuta come IA: lo studio della simulazione della mente dell’uomo con l’utilizzo del computer. La macchina prova a copiare l’uomo e lo conduce in un nuovo inizio: la Digital Age, l’era che disegna un’opportunità e una sfida per il futuro della comunicazione. L’origine della trasformazione comincia nel 1948 con il matematico Claude Shannon, il padre dell’intelligenza artificiale 54 — Zeta

che descrive il processo di umanizzazione della macchina con la teoria dell’informazione. È la prova matematica che il messaggio non ha bisogno di un destinatario, ma può essere espresso digitalmente. L’esperimento del topo che, mediante l’impulso elettrico, riesce a trovare la via di fuga è il primo esempio di intelligenza artificiale. È così che la macchina comincia ad anticipare i bisogni del cittadino, lo guida nelle scelte, ottimizza i risultati. Sono tanti i vantaggi: l’assistenza sanitaria con rapidi interventi chirurgici eseguiti anche da remoto, la prevenzione del crimine come le frodi online e l’uso di automobili più sicure. La cibernetica, lo studio del rapporto tra il cervello e il computer, con lo statistico Norbert Wiener insinua nella mente del lettore la complessità del rapporto con la macchina. L’individuo rischia di essere «qualcosa di pianificato, controllabile». È affidabile l’algoritmo che segue le tracce del cittadino, ma non si ispira a scelte

etiche e a valori di libertà, di sicurezza, di giustizia e di privacy. L’intelligenza rimane sempre appannaggio dell’essere umano. L’utilizzo dell’IA è un problema nella professione del giornalista? La verità della notizia è salvaguardata? Si assiste ad un giornalismo come «scienza dell’informazione». La molteplicità dei dati e il calcolo eseguito permettono in pochi secondi di leggere, produrre testi e scegliere foto. La nuova figura professionale scrive algoritmi che mettono in evidenza la notizia. Sono tanti i laboratori di ricerca che supportano le redazioni. L’aiuto della tecnologia rende competitiva la professione, ma quali sono i rischi se il computer sostituisce il giornalista? Sono le «probabilità di errori» di cui parla Wiener nella raccolta ed elaborazioni dei dati: le informazioni in rete possono essere manipolate. La comunicazione, nell’era tecnologica, è istantanea: le notizie arrivano da persona a persona senza intermediari. I dati, a disposizione di tutti, non subiscono sempre controlli sufficienti.

Gli algoritmi generati dall’intelligenza artificiale possono danneggiare la reputazione delle persone, modificare l’opinione pubblica e invadere la privacy. Migliorare il benessere sociale è complesso e la tecnologia ha bisogno dell’uomo. È l’equilibrio della teoria dei giochi dell’economista statunitense John Nash che il lettore può ricavare dai capitoli di questo libro. Il giocatore non ha interesse a cambiare la sua strategia se anche gli altri non lo fanno: è la forza della cooperazione. Ugualmente per il raggiungimento della verità il giornalista può richiedere una collaborazione alla tecnologia per minimizzare il rischio di errori nella comunicazione della notizia. L’anima di questo libro - con uno stile ricercato nella scelta accurata delle parole e con una punteggiatura attenta - consente al lettore di scoprire come la macchina sia valida se orientata al bene comune. Il controllo sul computer è possibile se «l’uomo è posto al centro della riflessione come fine che qualifica il progresso».


Data Lab

Luiss Data Lab Centro di ricerca specializzato in social media, data science, digital humanities, intelligenza artificiale, narrativa digitale e lotta alla disinformazione Partners: ZetaLuiss, Media Futures, Catchy, CNR, Commissione Europea, Soma, T6 Ecosystems, Harvard Kennedy School

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Faculty: Roberto Saviano, Francesca Mannocchi, Bill Emmott, Jeremy Caplan, Sree Sreenivasan, Moises Naim, Virginia Stagni, Gianni Riotta

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