Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” Numero 5 Giugno 2022
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Colore Holi festival dove i fiori diventano coriandoli
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L’Italia che cambia
Procida, l’isola che non isola
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Pride
Blu mare verde montagna
L’arcobaleno è sottovalutato
Data Lab
Italian Digital Media Observatory Partners: Luiss Data Lab, RAI, TIM, Gruppo GEDI, La Repubblica, Università di Roma Tor Vergata, T6 Ecosystems, ZetaLuiss, NewsGuard, Pagella Politica, Alliance of Democracies Foundation, Corriere della Sera, Fondazione Enel, Reporters Sans Frontières, The European House Ambrosetti, Harvard Kennedy School e Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale
La parola
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Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini”
Le sfumature dell’orgoglio LGBTQ+
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Numero 5 Giugno 2022
All’ombra dell’arcobaleno
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Un sogno “verde pilota”
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Coverstory
di Giulia Moretti e Silvia Stellacci di Lorenzo Sangermano
di Luisa Barone ed Elena La Stella
Italia
Sfidare la gravità col tricolore
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La messa è finita, non su Tik Tok
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Nel silenzio si modella l’arte
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Procida, l’isola che non isola
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Rinascere con l’arte
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di Leonardo Aresi
di Giorgio Brugnoli di Silvia Andreozzi di Elena Pomè
di Maria Teresa La Croce
Photogallery Gente di mare
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di Luisa Barone ed Elena La Stella
Esteri
«Il Grande Fratello vi guarda»
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Holi Festival
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di Martina Ucci
di Claudia Bisio
Economia
Decifrare le immagini
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di Francesco Di Blasi
Photogallery
I mille colori del Pride
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di Giorgia Verna
Ambiente
Un cucchiaio di verde al giorno
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Svolta green nelle aziende
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Uno scudo legale per il paese
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Il volto ecologico dell’idrogeno
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di Silvano D’Angelo
di Yamila Ammirata di Silvia Morrone di Enzo Panizio
Cultura
«L’arcobaleno è sottovalutato»
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Il cielo non è più blu
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Il domani è queer
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Il segreto dei pastelli
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Il fiato perso del paesaggio
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di Beatrice Offidani di Giulia Moretti
di Alissa Balocco
di Federica De Lillis
di Lorenzo Sangermano
Spettacoli
«Va ora in onda la tv a colori»
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Dal bianco e nero al colore
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di Dario Artale
di Valeria Verbaro
Sport
Quando la maglia racconta la storia
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Fight Club in piazza Santa Croce
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di Niccolò Ferrero di Leonardo Pini
Cibo
Dallo schermo alla tavola
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L’amore nel bicchiere
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di Antonio Cefalù
di Caterina Di Terlizzi
La guida di Zeta
Blu mare, verde montagna
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di Silvia Pollice
Parole e immagini Wicked
di Ludovica Esposito
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Blue’s the colour of the sky, In the morning, when we rise. Freedom is a word I rarely use, Without thinking Of the time When I’ve been loved. “Colours” di Donovan, 1965
Il colore Il colore è uno spettro, un ventaglio di possibilità, principio basilare della fisica prestato all’interpretazione psicologica ed emozionale della realtà. È un fenomeno scientifico ma soggettivo, che non esiste al di là della percezione sensoriale individuale, eppure portatore di una sua convenzionale universalità. Il colore è un codice condiviso, un insieme di senso che all’interno di un gruppo sociale contribuisce a ordinare il mondo e a marcarne i passaggi antropologici più significativi. Simbolo, bandiera, segno visibile di identità e appartenenza, rivendicato con forza nelle strade e negli spazi collettivi, nelle manifestazioni arcobaleno e al grido di black lives matter. Unisce sotto le insegne di una stessa squadra, di uno stesso Stato e di uno stesso corpo militare e separa, determinando privilegi culturali e civili nella struttura profonda delle società. Significante arbitrario di categorie umane, di fedi sportive e rituali sacri, racconta tanto con la sua presenza quanto con la sua assenza. Mutuando il termine dal vocabolario anglosassone, non esiste più una società pluralista che non sia anche colour conscious e non esiste società inclusiva che abbia senso definirsi colorblind, indifferente e neutra rispetto alla diversità. Reclamare i propri colori è un modo per ricollocarsi rispetto al mondo, per riconoscersi in relazione Valeria Verbaro
ZETA Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” supplemento di Reporter Nuovo Registrazione Reg tribunale di Roma n. 15/08 del 21/01/2008
Direttore responsabile Gianni Riotta Condirettori Giorgio Casadio Alberto Flores d’Arcais
all’Altro. È un atto di liberazione e di autoaffermazione per chi appartiene alla comunità LGBTQIA+ ed è un atto di rivendicazione politica costante. Nell’arte diventa espressione visiva autonoma, forma sciolta (ab-soluta) dal contenuto: dal marmo candido di Carrara, che nel suo bianco contiene in potenza tutte le sfumature del reale, fino alle paste delle tempere o degli olii, diverse per ogni pittore e per ogni sguardo che prova a rappresentare l’immanente, dai drappi rubini di Caravaggio ai caotici cieli in movimento di Van Gogh. Nel cinema, invece, il colore convive con il suo opposto, con la totale desaturazione della scala di grigi, talvolta anche nello stesso film. Prima che il Technicolor diventasse comune sul grande schermo, era la televisione ad avere la prerogativa del colore e della riproduzione fedele. Oggi denotazione e connotazione si alternano, riservando al bianco e nero il ruolo del sogno, del ricordo o del documento ma costruendo anche nell’uso del colore l’identità riconoscibile di una regia. Ogni analisi del concetto di colore comporta dunque una scomposizione, dentro e fuor di metafora, di un fascio di luce unico, attraverso il prisma dello sguardo collettivo. È un’operazione astratta solo nella misura in cui non si riconosce che i piani di realtà, filosofici e antropologici, scientifici e sociali, in cui è inserito il significato dei colori siano indici concreti, vivi e in evoluzione dell’abitare il mondo.
A cura di Yamila Ammirata Federica De Lillis Giulia Moretti Silvia Pollice Silvia Stellacci Giorgia Verna
Redazione Viale Pola, 12 – 00198 Roma Stampa Centro riproduzione dell’Università Contatti 0685225358 giornalismo@luiss.it
Zeta — 3
La parola a cura di Federica De Lillis
Coló r e s. m. d [ al lat. color - 2ris] Sensazione che dà all’occhio la luce ri0lessa dai corpi; qualità dei corpi per cui essi ri0lettono in vario modo la luce
4 — Zeta
COL
Pride
Cultura
Nel giorno in cui nasciamo uno specifico codice cromatico interviene a specificare chi dovremmo essere: rosa, una bambina; azzurro, un maschietto. Negli ultimi dieci anni una rivoluzione è intervenuta a mescolare le tinte, aprendo un ventaglio policromo di possibilità prima non contemplate. Le strade tremano al ritmo andante dei tamburi, sta arrivando la danza dei colori, la rivendicazione delle identità.
L’uomo primitivo non vedeva i colori, classificava le cose solo in base al loro grado di luminosità. L’evoluzione gli ha donato un’abilità in più, quella di elaborare il riflesso dei raggi luminosi sugli oggetti. La capacità di vedere i colori ha dato forma al mondo che conosciamo e ci ha permesso di pensare le emozioni dal bianco e nero di una pellicola cinematografica, fino al rosso intenso di un fico maturo fotografato in un giorno d’estate.
La citazione «Ci sono modi infiniti, ora inerti ora palpitanti, con cui il colore può rivelarsi» Cromorama, Riccardo Falcinelli
Esteri In primavera, per le strade dell’India, è vietato offendersi se camminando si viene ricoperti di polvere colorata. L’unica risposta all’espressione imbronciata sarà «è l’Holi», quando i colori celebrano la stagione dei fiori e l’eterno amore tra Krishna e Radha.
Ambiente
Sport
La responsabilità nei confronti delle generazioni future ha un unico colore: verde. La società sta entrando in una fase nuova in cui la preoccupazione è sostituita dall’azione effettiva. Il progresso scientifico consente di reinventare i consumi, mentre l’Unione Europea muove passi importanti verso la transizione ecologica e l’indipendenza energetica grazie all’idrogeno verde.
I colori rievocano un legame affettivo e storico tra giocatori e tifosi, tra squadre e antiche casate nobiliari. Gli Azzurri di Santa Croce, i Bianchi di Santo Spirito, i Rossi di Santa Maria Novella e i Verdi di San Giovanni: i quattro quartieri della Firenze di 500 anni fa tornano in città in occasione della rievocazione storica dell’harpastum, gioco a metà tra calcio e pugilato.
ORE
Zeta — 5
Coverstory de nella capitale fin dal 1994, anno in cui per la prima volta la comunità LGBTQ+ italiana ha avuto la possibilità di sfilare con orgoglio. «Siamo nel ’94, è passato diverso tempo da quando c’è stato Stonewall e dai primi Pride americani. In Italia nessuna delle associazioni che erano presenti – nel 1971 era nato il Fuori, nel 1980 l’Arcigay, nell’83 il Mieli – aveva pensato di fare un corteo di giorno: era una faccenda che metteva moltissima paura, si temeva, infatti, più che l’ostracismo esterno quello interno». L’allora presidente del Mario Mieli, Deborah Di Cave, ricorda quella manifestazione come «il più grande coming out di massa», nonostante il timore che l’ostacolo più grande potesse essere proprio la reticenza della comunità LGBTQ+ italiana a mostrarsi.
Le sfumature dell’orgoglio LGBTQ+ SFIDE La storia del Pride, a Roma, inizia nel 1994, attraversa tappe importanti come il World Gay Pride del Duemila e torna oggi a «fare rumore», in omaggio alla famosa canzone di Raffaella Carrà
Rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, blu, viola. Sotto sette colori, tante le rivendicazioni. Il Pride raccoglie, ogni anno, decine di migliaia di persone, che lottano per amare chi vogliono ed essere chi sono. A muoverle è l’orgoglio, la voglia di non nascondersi più e di riunirsi in un unico festoso corteo.
di Giulia Moretti e Silvia Stellacci 6 — Zeta
«Dopo due anni di limitazioni, “Torniamo a fare rumore” è lo slogan che nasce dalla volontà di far sentire di nuovo la nostra voce, di essere visibili. Ovviamente è anche un riferimento alla mitica Raffaella Carrà». Mario Colamarino è il presidente del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli, che organizza il Pri-
Le criticità dell’organizzazione non riguardarono il confronto con le autorità cittadine. «Quando andai con la cartina di Roma in questura, per concordare l’itinerario della manifestazione, furono talmente stupiti dal vedere una richiesta di questo tipo, peraltro portata avanti da una ragazza molto femminile come me, che il funzionario che mi accolse fu talmente imbarazzato, che mi raccontò di aver letto tutta Virginia Woolf per dimostrarmi quanto fosse friendly». Il vero lavoro fu, in un’epoca pre-internet, quello di convincere le associazioni sul territorio a organizzarsi in massa e a persuadere altre formazioni, politiche e sindacali, a partecipare. Contro ogni pronostico, si presentarono circa diecimila persone e, per la prima volta, aderirono anche associazioni e persone note, come gli attori Ricky Tognazzi e Simona Izzo. «Fu il segnale che personaggi del mondo etero si esponevano a favore delle nostre rivendicazioni». Il grande assente fu il sindaco di Roma, Francesco Rutelli, che tra un «sì ci saremo» e un «vediamo se possiamo venire», alla fine «scese dal Campidoglio quando il corteo passava di lì, ma senza fascia tricolore, come se presenziasse a titolo personale». La svolta, a detta dell’attuale presidente del Circolo Mario Mieli, Colamarino, «arrivò negli anni Duemila, quando abbiamo organizzato il World Pride a Roma. Quello è stato un cambiamento epocale nel modo di fare il Pride». Imma Battaglia, l’allora presidente dell’associazione, racconta che «dal 1997 si parlava solo del Grande Giubileo». Poi, il 13 gennaio del 1998, il qua-
rantenne siciliano Alfredo Ormando, omosessuale, prese il treno da Palermo, dopo 24 ore arrivò a Roma. Andò a San Pietro, sul sagrato si diede fuoco lasciando una lettera, che subito venne sequestrata dalla polizia. «Ero sconvolta, non ci potevo credere. Per me quel gesto rendeva chiaro ai più qualcosa che io già sapevo: l’oppressione delle religioni sulla comunità LGBTQ+. Per me divenne una dichiarazione di battaglia, come il mio cognome». Alfredo non morì subito. Nei giorni successivi all’episodio in Piazza San Pietro, con le comunicazioni all’epoca ancora ridotte al minimo, «fu problematico anche ritrovare la famiglia, per individuare qualche parente pronto a donare ad Alfredo la propria pelle per il trapianto». Dopo dieci giorni passati tra sofferenze atroci, l’uomo morì. «Questa cosa mi segnò talmente tanto che in una riunione di qualche giorno dopo mi alzai e dissi: ‘Noi dobbiamo fare il giubileo dei gay. Dobbiamo inondare Roma di ricchioni’. Iniziammo allora a costruire una rete internazionale di contatti. Spiegavo a tutti quelli che incontravo che organizzare il Pride a Roma nell’anno del Giubileo sarebbe stata un’onda mondiale. Infine, presentai la candidatura di Roma per l’Euro Pride, ottenendo il consenso.» Ma Imma decise che non bastava: occorreva allargare gli orizzonti perché la religione cattolica non era praticata solo in Europa. Si pose l’obiettivo di «organizzare il primo Pride mondiale nell’anno del Giubileo». Dal 1999 si intensificarono i contatti con l’America, Imma trascorse le proprie ferie ad Atlanta e San Francisco, cercando di spiegare la necessità di organizzare questo evento mondiale. «L’Ilga, associazione organizzatrice dei Pride non
europei, votò all’unanimità il benestare al World Gay Pride». La rete sociale e associazionistica, creata da Imma, continuò ad allargarsi e attivisti da tutto il mondo vennero coinvolti nell’organizzazione. Tra questi c’era Gilbert Baker, il disegnatore della bandiera arcobaleno, e Sylvia Rivera, icona transgender del movimento LGBTQ+. E le istituzioni cittadine? «Nel 1998, l’allora sindaco Rutelli, alla conferenza stampa di presentazione del World Pride, mandò un funzionario a
fare gli onori di casa. Poi nel 1999, quando il Vaticano prese coscienza della portata di ciò che stava accadendo, iniziando ad attaccare ferocemente e cercando di fermare la manifestazione in tutti i modi, il sindaco si trasformò da alleato in nemico. E in una seduta del novembre ’99, il consiglio comunale cancellò il patrocinio del comune al Pride, mentre rimase quello del Ministero dei Beni culturali, sotto la guida di Giovanna Melandri». Ma le azioni di disturbo non cessarono e i gruppi neofascisti della capitale iniziarono a insidiare pericolosamente la comunità LGBTQ+ al punto che il Circolo Mario Mieli, supportato da Rifondazione comunista, intervenne a Strasburgo per chiedere il sostegno della comunità europea. «Sfinita un giorno dissi al questore: ‘Con o senza autorizzazione noi marciamo. Sono sicura che lei che rappresenta la polizia saprà mantenere la sicurezza per tutti noi’». Nonostante l’ostinazione e la caparbietà degli organizzatori, però, «la marcia non riuscì ad oltrepassare il Colosseo, dove i gruppi di estrema destra stavano facendo la contromanifestazione. Ma il World Gay Pride ha cambiato la storia e il volto di questo nostro Paese: da quel momento la politica ha preso coscienza della questione omosessuale». ■ Zeta — 7
Coverstory
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All’ombra dell’arcobaleno Dalla prima festa Muccassassina negli anni Novanta a oggi, le dark room hanno invaso gli spazi LGBTQ+, non senza dubbi e polemiche DIRITTI
di Lorenzo Sangermano
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Era il 3 gennaio del 1993. Alessio aveva vent’anni e una grande esperienza dei luoghi d’incontro della comunità gay romana. Villa Borghese, bagni pubblici, spiazzi nascosti nella periferia della capitale. Al telegiornale il presentatore annunciava l’uccisione di Walter Norbert Heymann, il cartomante di piazza Navona, soprannominato Maga Magò dai giornali. Dal primo momento l’omicidio, uno dei tanti di uomini omosessuali avvenuti dagli anni Ottanta, apparve singolare. Il caso esplose e concentrò su di sé l’attenzione mediatica. Le indagini andavano a rilento, l’attenzione della polizia era scarsa e la comunità gay romana viveva in panico. Dal 1991 le serate della Muccassassina all’ex Mattatoio di Testaccio animavano la movida gay di Roma. «Scoprii che al suo interno avevano organizzato una dark room. Dovevo andarci e scoprirla. Non solo per fare sesso, ma per farlo senza il rischio di morire» dice Giorgio. Fino ad allora le dark room erano conosciute solo per le voci che giungevano dalle grandi città europee. «Gli omicidi erano sempre di più e l’AIDS ci stava decimando. Avevamo bisogno di un posto sicuro e accessibile dove poter fare prevenzione e informazione con facilità», chiarisce Andrea Pini, ex presidente del Circolo Mario Mieli e autore di Omicidi. Gli omosessuali uccisi in Italia e Quando eravamo froci. Gli omosessuali nell’Italia di una volta. All’ingresso della discoteca, i clienti erano illuminati da neon colorati. I coriandoli si mischiavano con i vestiti colorati delle drag queen. Poco distante una porta conduceva alla dark room. Un materasso a terra ricoperto da un lenzuolo giornaliero, salviette e una luce fioca a illuminare solo i contorni. All’entrata i volontari distribuivano volantini sull’Hiv e preservativi. A maggio del 1993 nel circolo Michelagniolo un gruppo della comunità LGBTQ+ romana si riunì per discutere la questione: dark room sì o no? Per Massimo Consoli, storico attivista gay, «invece di pretendere a pieno diritto di far parte della società nel suo insieme e di operare per il riavvicinamento tra gay ed etero dopo secoli di separazioni e di persecuzioni, ci stiamo ghettizzando ogni giorno di più in stanzoni bui dove è impossibile vedere il proprio vicino». Già allora, presente in quella stanza, Andrea Pini non era d’accordo. «Partiva da un presupposto sbagliato. Le persone hanno bisogno di fare sesso. La ghettizzazione la fanno coloro che decidono di escludere una
parte della popolazione. L’esercizio della sessualità non è un problema e non risolve l’AIDS». Strumento di controllo, prevenzione e socialità. «Pensavamo fosse giusto fare un discorso di sostegno ma allo stesso tempo difendere l’idea di sessualità come valore e come qualcosa a cui poter accedere, frutto della liberazione sessuale», continua Andrea Pini. Sotto la direzione di Giorgio Gigliotti, le serate di Muccassassina conquistarono Roma settimana dopo settimana e la fila al di fuori della dark room cresceva in modo esponenziale. Entro la fine del 2000 la capitale osservò il fiorire di club, saune e bar gay. L’oscurità delle stanze era una costante sempre presente. Affiliati alle associazioni ARCO, Associazione Ricreativa Circoli Omosessuali, e Anddos, Associazione nazionale contro le discriminazioni da orientamento sessuale, i club iniziarono a offrire a tutti i tesserati la possibilità di frequentare luoghi sicuri, dove poter bere, incontrarsi e giocare nell’oscurità. Per Mario Colamarino, presidente del Circolo Mario Mieli, «le dark room sono un fenomeno trasversale. Si potrebbe pensare che sia un fenomeno legato alle necessità del passato, ma i numeri dimostrano il contrario. Alle feste della Muccassassina persone di ogni età la frequentano ed è un modo molto comodo per divertirsi»
evitando gli sguardi indiscreti dei genitori o dei coinquilini. Secondo Mario Colamarino sarebbe ingenuo considerare le dark room una semplice richiesta del mercato. «Penso che sia contemporaneamente una convenzione e un reale desiderio della comunità. È l’espressione di un bisogno di socialità che affonda nella comunità». Dopo più di trent’anni, Alessio ha cambiato abitudini.
«Avevano organizzato una dark room. Dovevo andarci e scoprirla. Non solo per fare sesso, ma per farlo senza il rischio di morire» La domenica mattina passeggia per Villa Borghese con il suo cane. I cespugli nascondono ancora i preservativi e gli incontri del passato. La sera raggiunge un locale Lgbtq+ nel quartiere Monti. Si appoggia al bancone, i suoi gusti sono maturati e ordina sempre un whiskey sour. Alla schiena lo raggiunge la corrente d’aria che soffia dalla porta sul retro. Alessio osserva quel via vai e i sorrisi dei visitatori. «Sono contento di non vederli al telegiornale con un coltello nel cuore perché volevano solo conoscersi». ■ Zeta — 9
Coverstory
Un sogno “verde pilota” Nati per stare tra le stelle. Un mestiere che vola tra mito e realtà MILITARI
di Luisa Barone e Elena La Stella 10 — Zeta
«Se incontri un pilota a una festa, non avrai problemi a riconoscerlo. Sarà lui stesso a dirtelo»: così si prendono scherzosamente in giro i piloti nell’ambiente militare, nascondendo dietro i sorrisi un filo di verità. A renderli immediatamente riconoscibili sono le conversazioni su aerei, missili e velocità supersoniche, oltre alle iconiche uniformi. Ma la fierezza nell’indossare la divisa «non è rude orgoglio da testosterone, è coscienza di un’ideale che vola più in alto dei nostri aerei».
rio presente negli zaini di tutti coloro che pilotano un aeromobile, a testimonianza dell’influenza che ha il cinema sulla realtà. Ma dove si interrompe la sottile linea che separa l’artefatta realtà cinematografica dalla quotidianità di chi fa parte delle forze armate? «In realtà, non è proprio come nei film. Dietro ci sono molta fisica e matematica, tanto studio e preparazione, briefing e debriefing interminabili dove si impiegano fino a 40 minuti per analizzare un'interazione tra velivoli di nemmeno 2 minuti».
Blu, verde, nero, mimetico. Diversi colori indicano le varie macro categorie delle forze armate, insieme alle patch, i gradi e altri accessori distintivi che caratterizzano le funzioni specifiche di chi li indossa. «Giriamo con il giubbotto di pelle perché ci differenzia dagli altri. Sono in molti a desiderarlo, ma solo chi vola ne ha uno in dotazione». Anche gli iconici Ray-Ban indossati da Tom Cruise in Top Gun, pur non essendo parte dell’equipaggiamento, sono un accesso-
Poi ci sono le patch, piccoli stemmi che si attaccano alla divisa disegnati dai componenti dei diversi gruppi. Si applicano nei punti indicati, sulle spalle o sul petto. «Niente è casuale, niente viene scelto dai singoli. Tutto deve essere ordinato e dobbiamo essere tutti uguali». Motivo di orgoglio, come il cognome, le patch caratterizzano una grande famiglia in cui i militari sono uniti da una forte affezione reciproca. «Non siamo colleghi, siamo più che fratelli. Quando siamo
in missione la mia vita dipende dal mio compagno e la sua dipende da me». Il gruppo sopravvive ai singoli e tutti lavorano in funzione dell’obiettivo comune. L’individualità, appiattita dalle uniformi verdi, risalta grazie a piccoli dettagli. Il nickname attribuito a ciascuno e posto in basso sotto il cognome, diviene segno di riconoscimento per i componenti della parte aer della Marina e riflette l’adesivo posto sul casco di volo. «Fa parte di quei riti, gesti e simboli che evidenziano quella streak of rebelliousness. È un modo per personalizzare qualcosa che senti tuo e per mostrare un lato del nostro carattere».
«Fighter pilot is an attitude. It is aggressiveness. It is sef-confidence. It is a streak of rebelliousness, and it is competitiveness. But there is something else - there is a spark. There is a desire to be good. To do well; in the eyes of your peers, and in your own mind» Robin Olds
di esserlo». I piloti della Marina si identificano con il lupo, che caccia per la propria esistenza con l’attribuzione di ruoli definiti all’interno del gruppo, cosciente che a volte può essere necessario sacrificare se stessi per la sopravvivenza degli altri. «È un paradigma che viene dalla natura e che ti ricorda che non sei qui da solo e che la forza del gruppo è sempre maggiore della forza del singolo». L’uniforme supera il concetto di indumento con lo scopo di omologare essendo, nelle sue mille sfaccettature, strumento di identificazione non solo con valori e ideali militari, ma anche con gli altri componenti della forza armata. La moda ha ripreso le peculiarità del classico abbigliamento militare per trasformarlo e riadattarlo agli abiti civili. «Molti brand hanno costruito la loro identità sulle uniformi militari, intitolando “uniform” le nuove stagioni»: Andrea Mascia, editor per il magazine online Outpump, vede nei due anni di pandemia uno “spartiacque” per la moda. La divisa serve diverse funzioni: il desiderio di passare inosservati e omologarsi agli altri ma allo stesso tempo identificarsi in un ruolo. «Con i CEO della Silicon Valley si è creata una vera e propria associazione tra “potere” e “vestiti”». ■
Allo stesso tempo indossare la divisa vuol dire anche attenersi a una serie di norme comportamentali: «quando sono in uniforme smetto di essere me stesso. Incarno la Marina e non importa più chi sono, cosa penso o quello in cui credo. Parlo in nome della forza che rappresento». «Dico sempre di essere un bambino fortunato: io faccio quello che desideravo da piccolo. Quando non indossi la divisa per un po’ di tempo, magari dopo una licenza, la rimetti, ti guardi allo specchio e pensi che quel bambino che vedeva i film alla tv con la sua tuta ora la indossa. Fa effetto un secondo e poi, grato, torni alla quotidianità». Gli abiti militari sono intrisi di valori e ideali che spesso sfuggono a coloro che non li indossano. Il senso di appartenenza a un mondo «fantastico, tecnologico e anche un po' glamorous» è dato dalle stellette che rappresentano la Repubblica, i gradi simbolo della funzione ricoperta e le ali, che ricordano la storia «della quale facciamo parte, seppur in piccola misura». «Non credo che mi piaccia solamente fare il pilota, più di tutto mi piace pensare Zeta — 11
Italia
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Sfidare la gravità col tricolore L’estetica del volo nelle parole di Massimiliano Salvatore, solista delle Frecce AERONAUTICA
di Leonardo Aresi
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«Durante l’esecuzione delle figure acrobatiche non c’è tempo per soffermarsi sulle emozioni. Dal decollo all’atterraggio l’istinto lascia spazio alla razionalità e alla concentrazione. Soltanto quando dopo l’atterraggio riapro il tettuccio, ripensando a ciò che ho vissuto, mi lascio invadere dalle sensazioni che ho provato in volo». Massimiliano Salvatore è nato per vivere in altre dimensioni. Classe 1981, avellinese originario di Casalbore. Dal 2001 veste l’uniforme dell’Aeronautica Militare. Fa parte dell’élite di dieci piloti che compongono la pattuglia acrobatica delle Frecce Tricolori. Il maggiore
è la figura che ha il compito di portare all’estremo le capacità del velivolo. Da quattro stagioni acrobatiche, con il suo MB339 Pony 10 ricopre il ruolo del solista. «Sono sempre stato affascinato dal senso di avventura racchiuso nella sfida ad andare oltre ciò che si profila davanti agli occhi nudi quando i piedi sono piantati sulla terra. Da bambino erano due le cose che più di tutte rapivano la mia immaginazione: osservare gli aerei in cielo, immaginandomi il mondo dall’alto, e osservare le barche navigare al largo,
fantasticando su come si vedesse da lì la terraferma. Cielo e mare rappresentano un sogno d’infanzia divenuto realtà». Il programma delle Frecce Tricolori è costituito da un’alternanza tra il solista e la formazione da nove velivoli. Quest’ultima si divide in due sezioni composte rispettivamente da cinque velivoli guidati dal leader della formazione e da quattro velivoli guidati dal leader della seconda sezione. Dopo la separazione, la formazione disegna due traiettorie speculari per poi intersecarsi di fronte al pubblico con un incrocio. «La vista privilegiata di cui godiamo dall’alto è qualcosa di unico. In più, grazie alla mia posizione, ho la straordinaria possibilità di poter osservare le manovre delle Frecce in formazione da un punto di vista privilegiato. Conservo gelosamente nella memoria dei flash eccezionali di queste prospettive». È durante la fase di ricongiungimento delle due sezioni o di riposizionamento della formazione che entra in scena il solista eseguendo manovre spettacolari dall’elevato contenuto tecnico. «Terminato il mio programma, mentre osservo dall’alto la formazione che si esibisce nell’ultima manovra del programma acrobatico, la manovra dell’Alona, stendendo il tricolore accolto con tripudio dal pubblico, provo sempre un grande orgoglio. In quelle fasi io e i miei colleghi viviamo la piena consapevolezza di rappresentare la nazione. Ogni sforzo è ripagato dall’affetto della gente che ci segue. È una passione che arriva fino in cabina di pilotaggio».
«Da bambino erano due le cose che più di tutte rapivano la mia immaginazione: osservare gli aerei in cielo, immaginandomi il mondo dall’alto, e osservare le barche navigare al largo, fantasticando su come si vedesse da lì la terraferma. Cielo e mare rappresentano un sogno d’infanzia divenuto realtà» Dal 1961, anno di fondazione, le Frecce fanno base a Rivolto. È in Friuli che Salvatore ha scoperto nuovi, affascinanti aspetti di una vocazione divenuta professione. «In volo si riesce a percepire esattamente come variano i colori nell’incedere delle stagioni. L’aeroporto di Rivolto è immerso nel verde. Vedere il cambiamento cromatico della vegetazione dall’alto è mozzafiato. Si passa dal verde rigoglioso della primavera al giallo accesso dell’estate per poi godere del denso rosso autunnale e quindi del bianco candido delle mattine ghiacciate d’inverno. È come se si trattasse di una sequenza di cartoline. La mia preferita è quella che ci dona l’autunno, quando gli alberi che circondano l’aeroporto si spogliano delle foglie morenti. Ai loro piedi si formano dei cerchi arancioni che creano delle geometrie naturali bellissime». Con le stagioni più calde le frecce si spostano lungo i litorali italiani, dove
gli elementi si confondono tra loro. «La bellezza dei colori del mare è seducente quanto quella che domina il cielo. Librandosi in aria si può notare come le nuvole intrise d’azzurro si specchino nel mantello grigio e blu dei fondali marini: è un trionfo di tonalità sfumature». Volare e navigare: attività affini non solo spiritualmente ma anche da un punto di vista tecnico. «I principi fluidodinamici che fanno alzare in volo un aereo sono anche alla base della vela. Lo scorso fine settimana sono riuscito a scorgere lungo la darsena di Ravenna l’esposizione del Moro di Venezia che negli anni Novanta ha infiammato i cuori di tanti velisti italiani. Ho avuto modo di apprezzare questa barca in tutta la sua bellezza estetica ed espressione tecnologica, che è la stessa del nostro velivolo. L'Aermacchi MB-339, infatti, equipaggia le Frecce Tricolori dal 1982. È un fiore all’occhiello della nostra industria aeronautica. Così come è stata l’imbarcazione di Coppa America per quella nautica. Le cronache veliche degli ultimi anni, poi, fanno emergere punti di contatto ancora più intensi: il foiling di fatto permette alle barche di sollevarsi sopra la superficie dell’acqua». Come riassumere in una parola le Frecce? Eccellenza. Sfidando la gravità in perfetta sincronia, Salvatore e la squadra delle Frecce Tricolori incarnano l’estetica pura della ricerca del limite. Come l’Icaro di Yukio Mishima in “Sole e acciaio”. «Appartengo, fin dal principio, al cielo? Se non v’appartengo, perché mi ha fissato così, per un attimo, con il suo sguardo infinitamente azzurro, e mi ha attirato lassù, con la mia mente, in alto, sempre più in alto, e senza tregua mi seduce e mi trascina verso altezze remote all’umano?».■ Zeta — 13
Italia
La messa è finita non su TikTok Il caso mediatico di suore e preti che hanno deciso di adattarsi ai nuovi mezzi di comunicazione RELIGIONE
di Giorgio Brugnoli
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Dal pulpito dell’altare alla diretta Instagram, dal catechismo sui banchi della parrocchia alle piccole pillole di storia da 60 secondi pubblicate su TikTok: la religione è approdata nel terzo millennio e lo ha fatto conquistando i social media. Al primo video si storce il naso, ma dopo pochi secondi la curiosità ha la meglio ed ecco che i tabù della vita religiosa iniziano a cadere uno dopo l’altro.
mi piace. «Pensavo fosse qualcosa che non rimanesse, invece ho scoperto che ci sono buone opportunità. Penso di essere riuscito a rispondere a tante domande» e a confermarlo sono i numeri, tutti in costante crescita. Nei suoi video e nelle sue dirette racconta il messaggio della Chiesa Cristiana a piccole dosi, sfatando miti e parlando di tabù poco toccati all’in-
Tra gli “influencer” della chiesa c’è Don Ambrogio, 31 anni. Alto, magro e con un taglio di capelli classico, è diventato sacerdote a 25 anni, ma non ha proprio l’aria di essere un classico prete. Aiuta in una parrocchia nella periferia di Vicenza e da qualche mese è sbarcato sui social su consiglio di un amico. Titubante all’inizio sul tipo di aiuto che potesse dare, ha da poco superato i 300 mila followers su TikTok con più di 10 milioni di
«Non bisogna svecchiare nulla, ci vogliono solo linguaggi nuovi perché anche io, che ho trent'anni, a volte mi accorgo di parlare un linguaggio che un vent'enne non parla più»
«Non mi interessano i numeri. La qualità vince sulla quantità»
terno delle omelie tradizionali. Dal sesso all’omosessualità ogni minuto di ripresa viene seguito da una valanga di commenti positivi e negativi. «Ho perfino gli haters» ammette sorridendo ma «sono persone che mi rinfacciano i luoghi comuni legati al mio mondo: soldi, mente chiusa e pedofilia». Un nuovo modo di comunicare che ha permesso a tutti, anche ai più scettici, di ascoltare gli insegnamenti del cristianesimo anche durante dirette con il Vescovo di Vicenza, ospitato sul profilo di Don Ambrogio.
scosta tra le mura della parrocchia. Il video ha come sottofondo le canzoni delle domeniche che tutti sappiamo e in pochi secondi ci si trova incollati al telefonino a canticchiare quei motivetti che si pensava di aver dimenticato. Il cambiamento per sua natura porta con sé una certa dose di incertezza e anche in questo caso le critiche non hanno tardato ad arrivare. Ad avvicinarsi maggiormente sono i non religiosi, dice suor Maria ormai tiktoker a tutti gli effetti. «Un prete che beve un bicchiere di vino con gli amici, una suora senza l’abito talare fanno scandalo» racconta Maria sorridendo e precisando che la maggior parte dei cosiddetti leoni da tastiera sono credenti. Un bigottismo, di cui spesso si accusa la Chiesa, ma che a sua volta colpisce chi vuole e prova a modernizzare il modus operandi della religione. ■
Suore, preti ma anche membri del clero di altre religioni come imam e monaci buddisti hanno capito il potenziale offerto dai social network e hanno iniziato a produrre e pubblicare post virali. L’hashtag #ChristianTikTok è entrato nei trend delle principali piattaforme e dalle prime analisi il giro di impressions, ovvero la mera visualizzazione di un video, avrebbe toccato la quota del miliardo. In Italia ad arrivare a cifre da capogiro sono video semplici in cui si mostra la realtà della vita religiosa, spesso na-
Suor Valentina, 11mila follower su TikTok
Don Mauro, 189mila follower su TikTok
Don Ambrogio, 337mila Follower su TikTok Zeta — 15
Italia cro per un committente americano, un tondo con al centro un grande cuore. Tommaso si è approcciato al lavoro di artista e artigiano nei laboratori versiliesi «come fosse una cosa naturale» ma racconta l’importanza di aver incontrato persone che si sono interessate al suo percorso aiutandolo. Dopo il periodo di formazione all’Accademia di Belle Arti di Carrara, è stato impiegato per alcuni mesi allo Studio d’Arte Cave Michelangelo dove lavorava il marmo. Di quei mesi ricorda la fatica e i geloni. «Il marmo è un materiale duro. Durante il periodo in cui l’ho lavorato ho scoperto che ha un verso e ho capito come seguirlo per scolpirlo meglio. In quei mesi ho anche imparato a lavorare senza farmi scoraggiare dalle dimensioni dell’opera che bisogna creare». Al freddo del materiale e degli ambienti aperti e polverosi adibiti alla lavorazione del marmo, Tommaso ha preferito il calore e la duttilità della creta.
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Nel silenzio si modella l’arte Nei laboratori versiliesi la collaborazione tra artigiani e artisti dà forma alle opere attraverso tecniche antiche SCULTURA
di Silvia Andreozzi
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Dalle alte vetrate del laboratorio di Giancarlo Buratti a Pietrasanta filtra la stessa luce per tutto il giorno a illuminare le statue di creta e gesso che affollano l’ampia stanza. Il bianco e il grigio dei modelli che serviranno come punti di riferimento per lavorare il marmo e il bronzo e trasformarli in opere d’arte, colpiscono l’occhio di chi varca la soglia dello studio fondato nel 1959 dal padre di Giancarlo nella cittadina toscana. «Il laboratorio è stato creato per ospitare la scultura in creta. La luce che vedi è voluta, non è diretta, è una luce diffusa» spiega Tommaso Milazzo, artista e scultore che nello studio lavora da circa sette anni. Le mani sporche di creta si muovono a indicare i vari punti dello spazio e si interrompono solo quando, come un riflesso, prendono un pezzo del materiale argilloso per continuare il lavoro cui sono intente in questi giorni. Un soggetto sa-
«Questo è quello che mi gratifica di più e mi dà la possibilità di lavorare anche con altri artigiani per poi portare a compimento un lavoro di alta qualità. Si collabora con marmisti e fonderie. Noi prepariamo il primo modello in creta che viene poi approvato dai committenti, ed elaboriamo gli stampi siliconici oppure a forma a perdere. Nel secondo caso si prepara il calco che va rotto per ottenere il negativo in gesso che viene poi dato al marmista per la realizzazione della scultura definitiva in marmo attraverso la tecnica a punti». Nello studio ci si muove tra i modelli di busti, di statue classiche e moderne. Il volto di Nelson Mandela sorride accanto al tronco di un uomo d’altri tempi. Alle sue spalle il tondo che ritrae una Madonna con bambino è sovrastato da un bassorilievo raffigurante il momento della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre. I modelli si tengono perché servono come punto di partenza per le nuove opere. «Verrocchio, Jacopo della Quercia, le teste romane e Michelangelo, costituiscono un patrimonio visivo che a noi serve per realizzare i nuovi pezzi. I modelli diventano punti di riferimento per la torsione muscolare o la giunzione delle mani. Nell’altra stanza abbiamo un piccolo filare di mani messe in diverse posizioni e di altre parti del corpo. I visi, le mani e i piedi sono le cose più difficili». Tommaso prende uno dei modellini per aiutarsi a spiegare meglio il suo lavoro. Indica i punti che segnano il gesso
della statua di una nobildonna. «La tecnica a punti consiste nell’avere accanto un piccolo modello dell’opera che deve essere realizzata e nel trasferire i punti di riferimento dal gesso al marmo. Via via lo scultore toglie materiale dal blocco di marmo fino ad arrivare al punto esatto di riferimento». Abituato ad affidarsi alle immagini per spiegare i propri pensieri, l’artista accompagna le parole con i gesti. «Tutti questi punti di riferimento vengono presi con un ago grazie a una macchina ideata proprio qui a Pietrasanta nei primi anni ’90, il pantografo, che da queste parti si chiama “macchinetta”. Se i modelli sono troppo complicati, si mettono dei chiodi a cui si aggrappa una croce di legno. A questa croce viene attaccata la macchinetta. Ogni punto è uno spostamento di questa croce dal modello al blocco di marmo». Nel passaggio dalla creta, al gesso, al marmo e al bronzo sta il senso di una collaborazione necessaria. Non solo tra le botteghe del luogo, anche tra artigiani e artisti. Se nei primi anni ’60, quando il laboratorio è nato, infatti, le commissioni erano principalmente religiose, il Concilio Vaticano II ha cambiato questo realtà. Adesso sono gli scultori di fama internazionale a rivolgersi ai laboratori della città versiliese, da Henry Moore a Jeff Koons e Damien Hirst. E la bellezza del suo lavoro, per Tommaso Milazzo, sta anche nella possibilità di fare questi incontri, di condividere con dei grandi artisti lo spazio e collaborare con loro «in un rapporto paritario. Si mangia e si beve insieme». La collaborazione, però, non limita il silenzio in cui il mestiere dell’artigiano solitamente si svolge. «Anche con le persone con cui si lavora fianco a fianco ci sono tanti momenti di silenzio perché siamo concentrati ognuno su ciò che deve fare. Spesso
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in questo lavoro non c’è bisogno di parlare, ma solo di mettere creta». Le tecniche di produzione delle opere, quindi, si nutrono ancora degli stessi modi di sempre. Anche se committenti tendono a pretendere sempre più velocità nell’esecuzione dell’opera. «Questo lavoro avrebbe bisogno di una lentezza che si sta riducendo notevolmente. Bisogna essere sempre più elastici nell’accettare il fatto che i tempi di consegna sono sempre più stretti». Silenzio, quindi, e tempo. Di questo l’arte ha ancora bisogno. ■ 1. Tommaso Milazzo mentre lavora nel laboratorio di Giancarlo Buratti a Pietrasanta. 2. Particolari del busto di Nelson Mandela in creta e di un busto in gesso. 3. Una camicia da lavoro appesa nel laboratorio di scultura. 4. Particolari degli studi anatomici che servono come modelli per le nuove opere d'arte appesi nello studio di Giancarlo Buratti.
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Italia
Procida, l’isola che non isola Il viaggio nella Capitale Italiana della Cultura 2022 STORIE
di Elena Pomè
Nel giardino di limoni dell’Albergo Eldorado, luci e ombre scompigliavano le mani tumultuose e i piedi nudi di Elsa Morante. Sulla Spiaggia del Pozzo Vecchio, le acque lente lambivano le poesie di Mario, Il Postino di Neruda interpretato da Massimo Troisi, per l’amata Beatrice.
«Procida Racconta nasce come gioco letterario che rovescia l’assunto pirandelliano e ospita sei autori in cerca di un personaggio» spiega Andrea Palombi, direttore della casa editrice Nutrimenti, che nel 2014 ha aperto la prima libreria dell’isola e con la scrittrice Chiara Gamberale ha ideato il festival. Sei scrittori sbarcano a Procida, scoprono l’isola, scovano le storie e raccontano un abitante. «In un’edizione precedente, Walter Siti ha raggiunto a piedi il cimitero e ha scritto il racconto sul guardiano» racconta Palombi.
Anche lo scrittore Mattia Zecca ha spolverato l’isola di parole. «Ho raccontato l’amicizia tra Carlo, che vive l’autismo e ricerca la dimensione che tutti cerchiamo, l’amore degli altri, e Luigi, che ha affrontato la voragine della depressione» spiega. «Da soli, sono isole diverse, ma insieme diventano arcipelago e sono liberi di essere sé stessi».
L’isola di Procida, Capitale Italiana della Cultura 2022, incornicia tra le insenature un saliscendi di borghi e barche di pescatori, cortili variopinti e memorie. Tra le celle di Palazzo d’Avalos, l’ex carcere borbonico che domina la cima medievale di Terra Murata, il mare bussa alle finestre e dalle pareti il tempo gratta via donne sbiadite di carta. L’antica reclusione respira nuova libertà con le installazioni dei cinque artisti della mostra di arte contemporanea SprigionArti, che sfiorano le sbarre attorcigliate nella vegetazione, ravvivano le file di brandine consunte e abbattono le barriere. Il porto di Marina di Corricella, un pentagramma arcobaleno di case marinare, tira le reti e insegue su banchine e balconi le note dei canti della tradizione napoletana con il coro di Opera (a) Mare. Sul molo, cullati dallo sciabordio dorato del tramonto, gli autori del festival letterario Procida Racconta leggono le storie degli abitanti dell’isola. 18 — Zeta
le nella loro casa. Il nome Graziella è un simbolo per Procida, ricorda la ragazza bella e semplice che ha conquistato il giovane scrittore francese Alphonse de Lamartine durante il Grand Tour in Italia. La protagonista dell’omonimo romanzo ottocentesco, manifesto del Romanticismo, è celebrata ogni anno sull’isola con un concorso di bellezza in costume procidano tradizionale» racconta Palombi. «Michele ha scritto un racconto sul significato dell’essere donna a Procida, sulle passioni, sulle occasioni mancate e sui ricordi delle due signore».
Nell’edizione attuale, che ha coinvolto anche il narratore internazionale Gavin Francis, affascinato dalle isole, e il vincitore del Premio Strega 2021 Emanuele Trevi, protagonista della lectio magistralis su L’isola di Elsa Morante, ha partecipato anche il cantautore Michele Bravi. «Due signore anziane, entrambe di nome Graziella, hanno accolto Miche-
L’innamoramento di Zecca per Procida, «isola talmente autentica, carica di storie, densa di vita e di bellezza da non esserne consapevole fino in fondo», si nutre anche delle peripezie del giovane Arturo di Elsa Morante. «L’Isola di Arturo non ha tempo, racconta la crescita individuale, l’adolescenza, la scoperta di sé. Il momento in cui abbandoniamo l’isola per andare incontro al mondo, è il momento in cui cresciamo». Elsa Morante non ha mai abbandonato Procida. «Ah, io non chiederei d’essere un gabbiano, né un delfino; mi accontenterei di essere uno scorfano, ch’è il pesce più brutto del mare, pur di ritrovarmi laggiù, a scherzare in quell’acqua».■
avuto una vita così sofferta dal punto di vista fisico e morale, non andava dimenticata», racconta Dora. Quello che ha dato nuova vita a Valogno è un progetto autofinanziato: «Non abbiamo chiesto nulla a nessuno perché pensiamo che ognuno di noi può farcela con le proprie forze, quindi abbiamo investito di tasca nostra. Tutti abbiamo pensato di non fare la vacanza per alcuni anni e abbiamo messo da parte i soldi». Tanti anche i singoli e le associazioni che hanno scelto di donare al borgo un murale, finanziandone la realizzazione.
Rinascere con l’arte Valogno, il paese salvato dai murales dove ogni casa racconta una storia BORGHI
di Maria Teresa Lacroce
«Quello che è successo è stato un miracolo. Questo progetto dimostra come da una situazione di dolore possa nascere qualcosa di bello». Quando Dora Mesolella e suo marito Giovanni Casale scoprono che il proprio figlio è affetto da una malattia autoimmune, la loro vita cambia improvvisamente. Ma è proprio in quel momento che decidono di trasformare il dolore in un’opportunità. Così, per far fronte alla malattia, Dora e Giovanni lasciano Roma e i rispettivi lavori e tornano a Valogno, una frazione di Sessa Aurunca alle pendici del vulcano Roccamonfina, in provincia di Caserta, di cui erano originari. Dopo aver acquistato una casa, decidono di affidare a un artista del territorio, Vincenzo Tortolino, la realizzazio-
ne di un murale. Succede così che, a poco a poco, quella che era un’iniziativa personale finisce per coinvolgere l’intero paese dando vita a I colori del grigio, un progetto dal duplice significato: «la voglia di colorare il grigio dell’anima che per noi è rappresentato da questo dolore» e la necessità di restituire a Valogno la sua identità deturpata da un intervento urbanistico che ne aveva ricoperto di cemento le sue mura antiche, come spiega Dora. Tanti gli artisti, non solo italiani ma anche stranieri che, a partire dal 2009, hanno raggiunto Valogno per trasformare le sue stradine in una coloratissima galleria d’arte a cielo aperto. Oggi gli abitanti del borgo, circa settanta, fanno a gara a chi cura meglio il vicinato. Il colore ha risvegliato Valogno e lo ha fatto rinascere, valorizzandolo e sottraendolo alla lista dei tanti borghi italiani che rischiano di scomparire a causa dell’abbandono e dello spopolamento.
A Valogno non ci sono bar e negozi, è un borgo che vive e pulsa con la bellezza dei colori e dell’arte, in cui riscoprire l’importanza della compagnia e del confronto tra le persone. Dora e Giovanni accompagnano spesso per le vie del borgo i turisti in visita, raccontando loro il filo che lega la loro storia a quella di Valogno e il significato di tutti i murales. Passeggiate condivise durante le quali si parla tanto e «ci si apre nei confronti di quello che accade nella nostra vita. Ognuno di noi ha sempre qualcosa da raccontare. Un punto di forza di questo progetto è quello di voler stare insieme agli altri a parlare. Abbiamo notato che soprattutto i giovani sono catturati da questa voglia di condivisione». Tra i vicoletti del borgo c’è anche un piccolo cortile in cui è possibile fermarsi a suonare il pianoforte e il pensatoio, un luogo di raccoglimento. A breve, inoltre, Dora e Giovanni daranno vita ad uno spazio in cui le persone affette da malattie come quella che hanno diagnosticato al figlio, avranno la possibilità di esprimersi mediante la partecipazione ad alcuni laboratori. «Si viene a creare la voglia di sorridere: la gente viene in un certo modo ma va via con il sorriso perché è una realtà sospesa Valogno, sospesa un po’ dal mondo, sospesa un po' dal caos che viviamo sempre». ■
Quarantadue i murales che decorano Valogno. Ogni opera racconta una storia. Ci sono Gli sposi protagonisti della Trilogia dell’amore realizzata dall’artista romana Alessandra Carloni, San Michele Arcangelo patrono di Valogno, la Spedizione dei Mille ma anche fate, folletti, la bambina che raccoglie le stelle e il volto sorridente dell’artista messicana Frida Kahlo che Dora e Giovanni hanno fatto dipingere su una parete della propria casa. «Non potevamo non ricordarla perché lei rappresenta la resilienza. Avendo Zeta — 19
Photogallery
Gente di mare La vita sulla Cavour durante l'esercitazione Mare Aperto 2022. La nave ammiraglia della Marina Militare è salpata da Civitavecchia il 3 maggio solcando i mari italiani per 24 giorni PHOTOGALLERY
a cura di Luisa Barone ed Elena La Stella
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Esteri
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«Il Grande Fratello vi guarda» USA Il sistema di riconoscimento facciale viene usato a New York City come mezzo di profilazione razziale
Sono decine di migliaia le telecamere a circuito chiuso installate nella città di New York. Dal 2016 al 2019 la polizia ha utilizzato tecnologie di riconoscimento facciale in almeno 22 mila occasioni e le comunità nere e latine sono state il bersaglio principale. Bronx, Queens e Brooklyn, i quartieri dove la percentuale di abitanti non caucasici è maggiore, sono le aree della città più esposte alla sorveglianza attraverso l’utilizzo di tecnologie di riconoscimento facciale. Queste nuove tecnologie violano il diritto alla riservatezza e negano alle persone la possibilità di essere a conoscenza di quanto accade e di dare il loro consenso. Funzionano confrontando le immagini catturate dalle telecamere di sorveglianza a circuito chiuso della città con milioni di foto che vengono catturate dai profili social, senza che i diretti interessati abbiano rilasciato il permesso, per rilevarne le somiglianze.
di Martina Ucci 22 — Zeta
«Il dipartimento di polizia di New York ha nascosto questo sistema di sorveglianza per anni. Il riconoscimento facciale è in corso da almeno due decenni, anche se non sappiamo esattamente
da quanto tempo, perché lo hanno usato in segreto per anni prima di ammetterlo». Albert Fox Cahn, direttore generale del Surveillance Technology Oversight Project (Stop) presso lo Urban Justice Centre, sta combattendo con la sua associazione in tribunale per poter aver accesso ai documenti governativi che il New York Police Department (Nypd) continua a rifiutarsi di fornire. «Anni dopo l'inizio dell’utilizzo di questi sistemi di sorveglianza, hanno iniziato a usare l'11 settembre o casi di omicidio come giustificazione, ma penso che ciò che è davvero importante sottolineare è che il primo approccio che la polizia della Grande Mela adotta sempre è la segretezza e poi, quando sono costretti a discutere di questa tecnologia, invocano il terrorismo, l'omicidio e le peggiori difese immaginabili, ma in realtà non forniscono mai i dati a sostegno di quanto dichiarano». Secondo Amnesty International ci troviamo di fronte a una nuova forma di profilazione razziale che ha iniziato a colpire anche movimenti politici di protesta. «Se si unisce il rischio di identificazione errata (insito in questi sistemi) con il
fatto che sono prevalentemente utilizzati per tracciare movimenti di persone ritenute sospette per il colore della loro pelle, siamo di fronte a una situazione grave di violazione dei diritti umani» ha affermato il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, ribadendo l’importanza di una lotta contro un tipo di sorveglianza sistemica di questo tipo. Infatti, l'algoritmo utilizzato si è rivelato essere un fattore di distorsione, poiché riscontra più problemi nella corretta identificazione dei tratti del viso di persone non caucasiche. Secondo il direttore di Stop, la problematicità di questo sistema non si riscontra soltanto nella tecnologia, ma in chi la utilizza: «Ogni aspetto della polizia americana è viziato dal razzismo, anche se l'algoritmo fosse neutrale. Questo sistema di sorveglianza alla fine è solo un’altra prova di un sistema di polizia profondamente razzista».
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È un sistema assai difettoso che ha più volte dimostrato una non trascurabile marginalità di errore in questi anni. Come per il caso di Derrick “Dwreck” Ingram, co-fondatore dell’organizzazione per la giustizia sociale “Warriors in the Garden”. Il 7 agosto 2020 è finito nel mirino della polizia newyorkese che ha provato ad arrestarlo, facendo irruzione nel suo appartamento, con l’accusa di aggressione di un agente durante una protesta risalente a due mesi prima. La teoria secondo cui era stato utilizzato il riconoscimento facciale è nata dopo che un agente, ripreso fuori dall’abitazione di Ingram, teneva in mano un documento intitolato “Rapporto guida della sezione informativa sul riconoscimento facciale”. Contemporaneamente, la polizia aveva sparso per tutto il quartiere fotografie di Derrick prese da Instagram, con su scritto “Ricercato”. «Siamo presi di mira da questa tecnologia a causa dei motivi per cui protestiamo e perché stiamo cercando di decostruire un sistema di cui la polizia è parte integrante», ha dichiarato Ingram.
facendo causa alla polizia di New York per conto loro per ottenere i documenti di quella sorveglianza e - ha continuato Cahn - ancora una volta, se questo sistema va avanti da diversi anni è solo un altro esempio di quanto la polizia di New York abbia reso segreto ogni aspetto del suo sistema di riconoscimento facciale, specialmente quando prende di mira il dissenso politico».
Nel 2021 Amnesty International ha lanciato una campagna intitolata “Ban The Scan”, nata con l’obiettivo di vietare l’uso dei sistemi di tecnologia facciale, una forma di sorveglianza di massa, che oltre ad amplificare il razzismo della polizia, con la nascita del movimento Black Lives Matter (Blm), ha mostrato quanto può mettere a rischio i diritti alle libertà di protesta e di espressione politica. Infatti, l’impatto discriminatorio della tecnologia di riconoscimento facciale va ben oltre l’uso da parte della polizia che prende di mira manifestanti pacifici. «Gli attivisti di Blm sono stati presi di mira con il riconoscimento facciale e stiamo
«Quello del riconoscimento facciale è un sistema guasto - secondo Cahn - che si nutre di pregiudizi e che è in conflitto con l’istituzione della democrazia». ■
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«Questa forma di sorveglianza non ha avuto conseguenze sulla forza dell’attivismo, che ora si è rivolto anche a documentare la presenza di queste telecamere: molti attivisti sono diventati mappatori di queste telecamere», ha commentato Riccardo Noury. Il portavoce di Amnesty Italia guarda agli esempi virtuosi delle città di Boston, Portland e San Francisco, dove grazie a movimenti di protesta, questi sistemi di sorveglianza sono stati messi al bando, obiettivo a cui punta la campagna “Ban the Scan”.
1. Manifestazione di Ban The Scan, New York City, aprile 2021 2. Telecamere di sorveglianza, New York City 3. Avviso di videosorveglianza attiva da parte del dipartimento di polizia di New York City
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Esteri
Holi Festival dove i fiori diventano coriandoli Sreshta racconta una delle tradizioni più importanti della cultura hindu. Tra colori e antiche usanze lei e i suoi connazionali accolgono la primavera INDIA
di Claudia Bisio
Rosso, giallo, blu e verde. I colori della primavera nel vento, sui vestiti, sui capelli. Ovunque, sotto forma di polvere colorata o vernice. Occhi socchiusi, corpi che ballano, bocche che cantano. «Benvenuta primavera» grida Sreshta, giovane indiana in mezzo alla folla, mentre tiene sottobraccio suo fratello e insieme celebrano l’Holi Festival a Chennai, in India. 24 — Zeta
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Holi è una festa Hindu popolare, chiamata anche Festa di primavera, Festa dei colori o Festa dell’amore. Gli indiani del nord, la parte di popolazione che più è legata a questa tradizione, celebrano l’eterno divino amore di Radha Krishna. «Una delle storie più raccontate nell’India del nord, legata alla festa e al bene che vince sul male, è quella di un ragazzo la cui zia era uno spirito cattivo che poi ha sconfitto» racconta Sreshta. La sera prima della festa dei colori, la popolazione ha l’usanza di raccogliersi davanti a un falò che ha la funzione di bruciare tutti gli spiriti negativi circostanti, purificando le anime. «Dietro questa usanza c’è il Dio Krishna dove lui stesso presenzia la cerimonia sotto forma di avatar per incontrare Prahlada, figlio del demone Hiranyakashipu che è ammirato perché sopravvissuto, grazie alla fede, ai numerosi tentativi del padre di ucciderlo». Una parte molto importante della celebrazione è il cibo che viene preparato. Sreshta lo ricorda bene perché i preparativi iniziavano un paio di giorni prima dell’Holi. «Non si frigge il giorno in cui comincia l’Holi, che si celebra dalle 6 del mattino, per questo ci prepariamo prima» e ricorda «mia mamma ha sempre cucinato il Gujiya. È un dolce che viene preparato solamente per la festa. Sono come dei panzerotti che spesso vengono farciti con latte condensato o frutta secca e cardamomo. A volte anche con il cocco».
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I bambini iniziano a giocare alle prime luci dell’alba e Sreshta li vede scorrazzare dalla finestra felici mentre lanciano polveri colorate a chiunque incontrino.
La storia narra infatti che Krishna, geloso della bellezza della pelle di Radha, dipinse il volto dell’amata per renderla più simile alla propria.
«A volte le persone, soprattutto stranieri, si offendono perché non capiscono. Spesso gli va detto “Hey non ti offendere, è Holi!”: la prendono sul personale».
Anche se sembra un evento più unico che raro, Sreshta ci tiene a sottolineare che la cultura indiana è molto vasta e che celebrazioni di questo tipo sono molto comuni.
Sreshta spiega che a volte i turisti hanno paura che i colori siano tossici. «Quando si pensa all’Holi e ai colori si pensa a colori artificiali. Molto spesso però, provengono da fiori essiccati. Ogni colore ha ovviamente un suo significato. Tutto nasce dalla leggenda che parla del grande amore fra Krishna e Radha».
«Un altro festival molto simile con cui siamo cresciuti è il “Diwali” ovvero festa delle luci. È molto simile anche se si festeggia in due periodi diversi dell’anno ma simboleggia la vittoria del bene sul male, proprio come l’Holi». In Italia l’Holi viene festeggiato durante il Festival dell’Oriente a Roma nei giorni dal 22 al 25 aprile, 29 e 30 aprile e 1 maggio. Il Festival è una finestra sulle tante culture asiatiche dove insieme all’India partecipano la Cina, il Giappone e il Tibet. Durante i festeggiamenti nella capitale, si ha l’occasione di assistere a dei veri e propri dj set, e palchi da concerto, mentre le polveri colorate vengono sparate attraverso dei “cannoni”. La festa in questi casi prende un significato meno spirituale e più goliardico. L’unica regola da rispettare? Abbandonare ogni sentimento negativo. ■
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1 - 2. A sinistra Sreshta e suo fratello da bambini, a destra da adulti, mentre festaggiano l'Holi 3. Falò di preparazione ai festeggiamenti 4. Sreshta e suo fratello durante l'Holi Festival
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Economia
«Le persone non leggono più decifrano le immagini» Il mondo della pubblicità ci conosce e sa come catturare la nostra attenzione: viaggio tra i suoi colori e le sue forme MARKETING
di Francesco Di Blasi 26 — Zeta
Di che colore è il logo del McDonald's? Se eri un bambino negli anni ‘90 è probabile che tu abbia risposto rosso e giallo, ma in verità il marchio McDonald's in Europa è verde e giallo dal 2007. E quali dei due loghi del Burger King presentati in questa pagina è corretto? Diresti il primo? E invece è il secondo. Gli ecosistemi digitali si moltiplicano e gli impulsi informativi che riceviamo ogni giorno da aziende, partiti politici e altri soggetti aumentano. «Le informazioni sono così tante che tendenzialmente le persone non leggono più, piuttosto decifrano le immagini e una serie di elementi visivi» dice Margherita Antonucci, Art Director per la Wunderman Thompson, agenzia leader nel campo della comunicazione. «Le aziende si rivolgono a noi per assicurarsi che la propria brand identity venga ben comunicata soprattutto sul piano visivo perché sono consapevoli che l’attenzione dell’utente medio è poca e si concentrerà sulle immagini prima di tutto. E la riconoscibilità del marchio passa soprattutto dalla sua color palette», continua Antonucci. In Europa McDonald’s si tinge per la prima volta di verde nel 2007 riconoscendo la tendenza a consumare cibo più salutare da parte dei suoi clienti. Introduce latte biologico, caffè coltivato in modo sostenibile, insalate e prodotti vegetariani nei suoi menù e per testimoniare il suo impegno per l’ambiente e la salute dei consumatori inaugura un logo verde. Il rebranding di Burger King è più moderno, risale al 2021, quando l’azienda fondata a Miami decide di ispirarsi alle linee e ai colori del suo logo anni ‘80. Lo stile retrò è in contrasto con i colori brillanti e moderni della versione precedente. «Il blu era stato inserito per far risaltare l’arancione che ora scompare a favore del giallo, un colore primario che ha la capacità di restare più impresso negli occhi dei consumatori» dice Antonucci che ritiene la svolta anni Ottanta un trend che potrebbe crescere in futuro: «È un periodo in cui siamo circondati da colori brillanti e la scelta di tornare ai colori opachi degli anni Ottanta è un modo per differenziarsi». Non solo, i prodotti culturali pensati su uno stile retrò stanno aumentando. Il successo di Strangers Things su Netflix o il ritorno dei pantaloni a vita bassa nella moda sono solo alcuni esempi. «Come spesso accade nei periodi di crisi, le aziende tendono a guardare al passato, a periodi più sicuri», sostiene Antonucci. Tra colori e forme il marketing comunica più per pittogrammi che per parole, ma chi decide
il significato di un verde piuttosto che di un bianco? Quando McDonald's decise di puntare sul verde il significato culturale di questo colore era chiaro: ambiente, salute, equilibrio. Quarant’anni prima, quando Land Rover decise di ripensare il suo marchio con tonalità verdi, la decisione fu presa per via della forte associazione che nella testa del consumatore questo colore aveva con la benzina, oltre che con l’ambiente. «Il pubblico è abbastanza malleabile quando si tratta di interpretazione dei colori e tende a crescere insieme ai contenuti a cui viene esposto. Per questo non si notano grandi differenze generazionali nell’interpretazione dei colori», dice Antonucci. Ogni brand ha una sua palette di colori che l'azienda di marketing che ne cura l’identity conosce bene. I colori brillanti
per i prodotti per la casa, quelli opachi per i marchi del settore food, il viola per i prodotti legati alla notte e al dormire. Ogni categoria merceologica è collegata a una tinta. Decidere di comunicare un prodotto con un colore che ad esso non si associa può essere deleterio per un’azienda, ma talvolta generare una piccola rivoluzione. Il mondo del tech era sempre stato associato al nero e alle forme nette, finché non è arrivata Apple. «Steve Jobs voleva rendere la creatività una caratteristica a portata di ogni persona e per questo scelse di comunicare i suoi prodotti con il bianco e le forme curvilinee associate fino a quel momento al mondo dell'infanzia. Tutto doveva essere semplice, come il prodotto per un bambino», ricorda Antonucci. Se la scommessa dell’azienda di Cupertino non fosse riuscita oggi, nessuno assocerebbe il bianco a un computer o a un carica batterie. ■ Zeta — 27
Photogallery
I mille colori del Pride Roma si tinge di arcobaleno per il Pride 2022 dopo due anni di pandemia. Sono più di novecentomila le persone scese in piazza per i diritti LGBTQ+ PHOTOGALLERY
a cura di Giorgia Verna
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Ambiente specializzata nell’uso innovativo del verde come elemento architettonico. I suoi lavori sono legati al concetto di “verde che cura”, teoria che ha cominciato a circolare attorno agli anni Ottanta, grazie al lavoro di molti studiosi, prima fra tutte di Clare Cooper Marcus, paesaggista inglese e autrice di Therapeutic Garden, Design for Healing spaces. Come viene ribadito più volte nel libro, prima di entrare nel vivo della progettazione è fondamentale un buono studio preliminare, che deve focalizzarsi su un concetto imprescindibile: «Quello di fragilità. Bisogna considerare le debolezze delle singole persone e pensare come organizzare un ambiente che un non vedente possa percepire con gli altri sensi o in cui un disabile si possa sentire a proprio agio». Non si tratta solo di garantire un soggiorno piacevole ai degenti nelle strutture sanitarie, ma di contribuire attivamente al loro recupero a seconda delle diverse esigenze «Ad esempio per i pazienti affetti da Alzheimer userò accortezze per far fronte alle difficoltà di utilizzo degli spazi, come fiori dai colori sgargianti che mettano in evidenza i passaggi cromatici».
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Prenda un cucchiaio di verde al giorno Monica Botta è un architetto che realizza spazi green per accelerare i processi curativi e per il trattamento delle malattie neurodegenerative INNOVAZIONE
di Silvano D'Angelo
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I nostri sensi ci curano? Scopriamolo con un piccolo esperimento: immaginate di essere in una stanza di ospedale spoglia, con le pareti bianche e affacciata su una serie di palazzoni grigi. Pensate ora che quella stanza dia invece su un giardino in cui è possibile passeggiare tra i colori e i profumi della vegetazione, fare esercizio all’aria aperta e conversare con gli altri pazienti. Non è difficile capire quale dei due ambienti faciliti di più la guarigione. «Dobbiamo pensare a quanto la semplice vista del verde durante il ricovero possa favorire il recupero». A parlare è Monica Botta, architetto paesaggista e socia dello studio Green Bricks, azienda
La costruzione di uno spazio di cura efficace non può prescindere da una stretta sinergia tra l’attività dell’architetto e quella del personale sanitario. «Anni fa mi interfacciavo con medici a digiuno di questi temi e la gran parte del mio lavoro consisteva nell’attività di formazione. Ora per fortuna la situazione è cambiata e anzi è lo stesso personale a offrire spunti per la progettazione» spiega Botta. «La difficoltà è far capire la bontà di uno spazio in termini di cura. Alla fine dei lavori io non sto consegnando un giardino, ma una palestra all’aperto, un orto, uno spazio per attività ricreative, educative e per la riabilitazione motoria e psicologica». Spazi che possono essere sfruttati al me-
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glio soltanto se il personale che li riceve è in grado di comprenderne e valorizzarne appieno le potenzialità. La complessità del ruolo dell’architetto sta nel saper collegare l’aspetto paesaggistico con quello sanitario attraverso la cura di ogni dettaglio: «Anche il mal posizionamento di un’ombra può tradursi in un fastidioso vuoto architettonico. Devo considerare tutti gli effetti e le altezze che voglio dare. La scelta delle piante è una fase successiva che va coniugata con la funzionalità del luogo». Il lavoro di Monica Botta non si limita alle strutture sanitarie. Anche all’interno del tessuto urbano possono essere inserite aree verdi che facciano dialogare le esigenze dell’ambiente con quelle della comunità. «In ambito pubblico la cura dell’aspetto botanico si intreccia anche a fattori culturali: se progetto un giardino per Novara non metterò le stesse piante che utilizzerei in una località di mare». L’attenzione verso il territorio si traduce anche nella considerazione delle sue criticità, soprattutto in un momento cui la tutela dell’ambiente ha assunto caratteri sempre più urgenti. «Spesso sono le stesse amministrazioni che ci commissionano i lavori a segnalarci esigenze specifiche e a sottolineare la loro scarsità di risorse», spiega Botta. Per questo Green Bricks sta sviluppando sempre più progetti che richiedano poca manutenzione e rendano la città più vivibile: «Nelle zone con problemi idrici cerchiamo di utilizzare piante che non abbiano bisogno di molta acqua, mentre nelle città più calde l’obiettivo è creare zone d’ombra per abbassare la temperatura. In altre aree utilizziamo la vegetazione per arginare gli effetti delle piogge torrenziali». La progettazione resta però sempre legata alla persona: «Anche in questo caso dovrò sempre avere come guida chi sono i destinatari dell’opera: in un parco per bambini non bisogna tralasciare di inserire elementi di stimolazione visiva accanto alle aree gioco e qualcosa di simile va fatta anche per gli anziani». Una delle opere più significative realizzate da Botta e dal suo studio è il Parco dei nonni di Varese, completato nel 2020. Si stratta di uno spazio a pianta triangolare pensato per incoraggiare le attività che i nonni possono svolgere insieme ai nipoti, ma di cui tutta la comunità può usufruire. La costruzione è stata sponsorizzata da Family Care, un’azienda specializzata nel fornire assistenza qualificata agli anziani, e alla sua inaugurazione è stato
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anche benedetto da Papa Francesco, con l’augurio che possa diventare strumento di «una sempre più piena integrazione delle diverse generazioni presenti nel territorio».
cie di fiori commestibili come la Stella De Oro, dal sapore dolce e intenso». Il resto del giardino è invece costituito da piante come gelso, salice e ginko biloba che richiamano la tenacia e la longevità.
Al centro si trova un rain garden per la raccolta dell’acqua piovana e tutt’attorno sono posizionati un giardino per le attività motorie, un’area per il gioco della campana, una scacchiera formato gigante e un pannello per il gioco delle coppie: tutte attività che stimolano le capacità cognitive di bambini e anziani, limitando anche gli eventuali effetti di malattie neurodegenerative. «Abbiamo inserito piante che assumono diverse colorazioni tra estate e inverno e altre che danno vita a un percorso visivo, tattile, olfattivo e anche gustativo, grazie ad alcune spe-
Il lavoro del paesaggista è creare un legame tra spazi, persone e di cui la sua stessa personalità costituisce parte integrante. «Ci deve essere sempre una storia dietro un giardino, un filo conduttore», conclude Botta, «in questo modo è come se ogni volta consegnassi agli altri un mio racconto dotato di un’anima, qualcosa che rimarrà impresso a chi lo vivrà».■ 1. Il Parco dei Nonni di Varese - Il Rain Garden 2. Il gioco della campana e del twister 3. Il senior park con le sue attrezzaturre 4. Giardino Alzheimer "Il Faggio" di Salerano Canavese
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Ambiente l’impatto dell’abbondanza, «meno non deve necessariamente significare perdita». In un gruppo di discussione online di Fjord Trends è emerso che quasi la metà dei partecipanti ha dichiarato di voler smettere – o che ha già smesso – di acquistare vestiti, calzature e mobili «in nome della sostenibilità». I clienti richiederanno innovazioni e soluzioni a lungo termine che portino a un vero cambiamento sociale. Le imprese dovranno fornire informazioni trasparenti e dettagliate sulle loro iniziative per raggiungere più persone. «Oggi la conversazione sulla sostenibilità si è spostata da come le aziende possono minimizzare i loro danni ambientali a come possono creare attivamente un impatto positivo» ha affermato Jamie Lippman, direttrice ESG (Environmental, Social & Governance) di Bacardi. Nel Cocktail Trends Report 2022 si legge che «l’azienda ha come scopo quello di eliminare la plastica entro il 2030. Come produttori di alcolici, siamo anche concentrati sulla riduzione del consumo di acqua, con l’obiettivo di ridurlo entro il 2025».
Una svolta green per ripensare il futuro delle aziende Dai trend del 2022 emerge la preoccupazione per il clima. Gli effetti delle politiche verdi saranno visibili all’interno dei piani delle imprese TREND
di Yamila Ammirata
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«Le imprese mirano a creare un mondo migliore nel processo di business, bilanciando la compatibilità con gli ecosistemi naturali», spiega Accenture Interactive nel report Fjord Trends 2022. Affrontare il cambiamento climatico è la sfida più urgente. Avrà importanza il movimento nature positive, che ha come obiettivo migliorare il pianeta e le società per fermare il progressivo danneggiamento della natura. «Secondo il report Future of Nature and Business, questo potrebbe aprire opportunità commerciali per un valore di 10.000 miliardi di dollari, trasformando i tre sistemi economici responsabili all’80%: cibo, infrastrutture ed energia». Le aziende devono mettere in discussione
«Un’iniziativa dei cittadini europei sta facendo pressione sui consigli locali affinché venga seguito l’esempio di Amsterdam, che vieta pubblicità di automobili, compagnie aeree e marchi di combustibili fossili inquinanti» - racconta l’azienda Contagious in Most Contagious Report 2021 - «l’innovazione è cruciale, ma la sfida più grande è la normalizzazione dei cambiamenti per evitare il disastro climatico». La scienza sta reinventando i consumi. «Il laboratorio Aether si sta occupando della trasformazione di CO2 in diamanti. Una singola pietra di un carato rimuove 20 tonnellate di carboni dall’aria». Il mondo sta cambiando velocemente, si sta passando da una preoccupazione climatica a un’azione effettiva. Il report di World Economic Forum Top 10 Emerging Technologies of 2021 analizza l’emergenza della carbonizzazione a livello mondiale. «General Motors, Volkswagen e altre grandi case automobilistiche hanno fissato obiettivi ambiziosi nell’ultimo anno». Questo costringerà a far emergere alcune tecnologie, «i dati provenienti dai sensori connessi tramite l’Internet of things consentiranno sempre di più una gestione intelligente dei terreni e delle colture, così come l’uso dei fertilizzanti e dell’acqua». Ma il problema è anche a livello politico, dato che tali programmi di trasformazione richiedono investimenti di capitale. «Le nazioni devono sviluppare metodi di governance globale per garantire l’u-
guaglianza energetica. I governi avranno bisogno di un’infrastruttura di monitoraggio ambientale, simile ai protocolli dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica». Il report Journalism, Media and Technology Trends and Predictions 2022 del Reuters Institute ha sottolineato gli ostacoli che impediscono un buon racconto di queste problematiche: non esistono soluzioni facili per la biodiversità e le emissioni di CO2, mentre i proprietari e gli inserzionisti esercitano ancora una pressione contraria ai cambiamenti necessari. Mancano, inoltre, giornalisti specializzati.
ANNA. Il periodo preso in considerazione va da dicembre 2016 a giugno 2022, e sono state esaminate le tematiche relative a sostenibilità e cambiamento climatico legato all’attività delle aziende. Gli algoritmi, dunque, sono stati allineati in modo molto preciso e restrittivo. Sono nove le testate nazionali selezionate: ANSA.it, Avvenire, Corriere della Sera, HuffPost Italia, Il Messaggero, Il Post, Il Sole 24 Ore, La Repubblica e La Stampa. Gli articoli emersi sono all’incirca 1300, un numero basso se si pensa che sono sei gli anni di riferimento. Questo fa capi-
re come sia necessario creare maggiore consapevolezza all’interno delle redazioni. L’informazione è uno strumento fondamentale per far capire alle persone ciò che sta danneggiando la natura e gli atteggiamenti che si devono adottare. ■ ANNA è un motore di intelligenza artificiale sperimentale che si occupa di analizzare gli articoli dei quotidiani, perlopiù italiani. È sviluppato da Catchy in collaborazione con il Data Lab
Nelle redazioni c’è poca cultura scientifica, «il nostro modo di selezionare e assumere i giornalisti è troppo incentrato sulla cultura classica e letteraria». È quindi necessario iniziare a trattare l’argomento sotto ogni punto di vista, da quello economico a quello sociale. Per far fronte alla carenza di budget, vengono consigliati i vantaggi delle collaborazioni, «l’European Perspective facilita la condivisione di contenuti originali tra le emittenti pubbliche partecipanti. La traduzione automatica con strumenti di machine learning rende facile l’utilizzo di questi contenuti condivisi». L’Oxford Climate Journalism Network offre un nuovo programma di collaborazione, finanziato dal Pulitzer Center, tra il Reuters Institute e la Rainforest Investigations. Vengono utilizzati dati disponibili al pubblico relativi alla perdita delle foreste per trasformarli in storie. «Si stanno sviluppando nuove competenze giornalistiche che combinano statistica, dati e cartografia». Da un punto di vista giornalistico italiano è stata svolta un’analisi attraverso Zeta — 33
Ambiente
Uno scudo legale per il pianeta Dall’inquinamento al cattivo smaltimento di rifiuti tossici. La green criminology può fermare i reati contro l’ambiente e salvare l’umanità e il suo habitat SALUTE
di Silvia Morrone
Studiare i danni e i crimini contro il pianeta, le leggi e le politiche ambientali sono gli obiettivi della Green Criminology, la Criminologia Verde. Il termine fu introdotto nel 1990 dal professore di criminologia Michel J. Lynch del dipartimento di criminologia dell'università del Sud della Florida. Come nella criminologia investigativa anche in quella verde si indaga sui colpevoli e sui danni causati dai reati. Pensiamo all’inquinamento ambientale, alla deforestazione (Amazzonia) che provoca un aumento dell’anidride carbonica, al cattivo smaltimento di rifiuti tossici (contaminano aria, acqua e terra) ed anche ai reati contro la fauna selvatica che rappresenta, dopo il traffico di droga e di armi, il terzo commercio illegale al mondo. Sono alcuni dei disastri ai quali pensa la Green Criminology, esaminando le leggi ambientali, affrontando il problema della giustizia ambientale, delle vittime e dei motivi che spingono l’uomo a commettere crimini contro l’ambiente. Il primum movens è il profitto. Il vantaggio economico prevale sulla salvaguardia del pianeta. Questi interrogativi hanno suscitato l’interesse di gruppi di studiosi come il Green Criminology Specialist Group (GCSG). Una rete internazionale di ricercatori, di studiosi e di esperti esamina il degrado ambientale ovvero come cambia 34 — Zeta
l’ambiente a causa della scarsa attenzione della società alle risorse naturali come l’acqua, l’aria e il suolo. Il gruppo indaga su come il contesto in cui viviamo influisce sulla salute ambientale. Esaminare i danni significa capire come i disastri ambientali si ripercuotono sulle persone. Anche in Italia ormai da tempo si avverte la necessità di proteggere il nostro habitat naturale e l’uomo. Ne sono un esempio l’enorme lavoro messo in atto da problematiche come lo smaltimento dei rifiuti della “Terra dei fuochi”, l’inquinamento atmosferico dell’Ilva di Taranto ed il caso Eternit/amianto di Casale Monferrato. L’Osservatorio Nazionale Amianto (ONA), nato in Italia il 5 agosto 2008, rappresenta e tutela i cittadini e i lavoratori dal rischio amianto e di altri cancerogeni. «Solo nel 2021, l'amianto ha provocato circa 7000 morti. Un caso, in provincia di Latina che mi ha molto colpito, riguarda un lavoratore di una nota azienda di produzione di pneumatici. Esposto ad amianto e ad altri cancerogeni, ha contratto già da giovanissimo una serie di cancri. L'ultimo gli ha provocato la morte a poco più di quarant’anni» mette in chiaro il presidente dell’ONA, Ezio Bonanni. «L’ecocidio, la distruzione consapevole di un ambiente
naturale, dovrebbe essere considerato un crimine contro l'umanità». Anche la fondazione “Stop Ecocide”, ritenendo l’ecocidio un crimine internazionale lo ha definito: «l’insieme di tutti quegli atti illegali o sconsiderati, commessi con la consapevolezza di poter causare gravi danni ambientali diffusi o a lungo termine». Si attende che l’ecocidio diventi il quinto reato, perseguibile dalla Corte Penale Internazionale dopo i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, il genocidio e il crimine di aggressione. Il principio della «prevenzione» pertanto deve prevalere perché la «distruzione dell'ambiente ovvero il consumo del suolo, dell'aria e dell'acqua, impediscono la sopravvivenza dell'essere umano. Il rischio è di morire soprattutto di cancro. L’alterazione degli ecosistemi e della fauna che non vive nella sua condizione naturale determinano anche esplosioni virali. I nostri due ultimi anni di vita, dominati dall’emergenza epidemiologica, ne sono un esempio». Il presidente dell’ONA, riprendendo le novità introdotte negli articoli 9 e 41 della Costituzione, chiarisce che «la salute, l’ambiente e l’economia devono essere le stelle polari di tutte le attività economiche e produttive e devono guidare il legislatore». Solo così si potrà vivere in sicurezza. ■
degli strumenti migliori per l’Unione nel cammino verso un futuro più verde. Questo perché «l’idrogeno verde può essere impiegato in aree in cui l’uso diretto di elettricità è antieconomico a causa di limitazioni tecniche», continua André Wolf. «Ad esempio, può fungere da sostituto del carburante nel trasporto di merci pesanti, nell’aviazione e nel trasporto marittimo a lunga distanza». In questi campi, l'idrogeno è addirittura superiore agli altri combustibili, «perché ha una maggiore densità di energia». Un aspetto cruciale, dato il momento che stanno vivendo le economie europee, perché «consente di incanalare le energie rinnovabili in settori come i trasporti, finora solo sfiorati dalla decarbonizzazione. L’idrogeno, insieme all’uso diretto di elettricità da fonti rinnovabili, è un elemento chiave per raggiungere gli obiettivi climatici dell’Ue».
Il volto ecologico dell’idrogeno Ottenuto da un processo alimentato con fonti di energia rinnovabile, è una delle risorse più importanti dell’Ue per la transizione ecologica FUTURO
di Enzo Panizio
Diversi colori e nessuno. Pur essendo un gas incolore, l’idrogeno viene indicato con diverse cromie. Viola, nero, grigio, blu e verde: la classificazione cromatica indica infatti la diversa modalità di estrazione, dal momento che l’H2 non si trova in natura se non combinato con altri elementi. L’idrogeno verde è quello estratto con un impatto ambientale pressoché nullo. Gas ottenuto «dalla scissione delle molecole d'acqua per mezzo dell'elettrolisi, per cui l'elettricità necessaria proviene da fonti rinnovabili», spiega André Wolf, capo dipartimento alla sede di Berlino del Centres for European Policy Network (Cep), un network di centri studi senza scopo di lucro che ha una filiale anche a Roma. «È chiamato verde perché, a differenza della produzione convenzionale di idrogeno, non è ottenuto da risorse fossili e non viene rilasciata CO2 durante la produzione». Una tale risorsa rappresenta uno stru-
mento importante per le politiche europee che mirano all’indipendenza energetica, un’urgenza resa emergenza dalla guerra in Ucraina. Soprattutto considerato che «l’idrogeno prodotto può essere immagazzinato a lungo termine in vari modi» e facilmente venire «riconvertito in energia elettrica in qualsiasi momento, ad esempio utilizzandolo come combustibile nelle centrali elettriche a gas o negli impianti di cogenerazione». Così si legge nell’ultima pubblicazione del Cep, a firma dello stesso André Wolf. Nel RepowerEu, il piano presentato dopo lo scoppio della guerra dall’Unione Europea per accelerare il processo di emancipazione dalle fonti fossili (specie quelle russe), il «renewable hydrogen» viene menzionato tra le misure per la «diversificazione del gas», la «trasformazione dell’industria» e «l’elettrificazione del settore dell’energia». In sostanza, uno
Se il clima politico per lo sviluppo delle tecnologie per la sua estrazione è quanto mai propizio, però, esistono una serie di ostacoli tecnici e normativi per lo sviluppo di un mercato paneuropeo dell’idrogeno verde. Oltre a comportare elevati costi fissi, l’elettrolisi ha bisogno di grandi quantità di energia prodotta da fonti rinnovabili. «A causa della sua dipendenza dall’elettricità come input, il suo futuro successo dipenderà in modo critico da una più rapida espansione della produzione di energia eolica e solare in tutta Europa», continua Wolf. «A tale riguardo, obiettivi politici poco ambiziosi e procedure di approvazione lente rappresentano oggi gravi ostacoli in molti Paesi europei. Il risultato è un’incertezza nella pianificazione e un comportamento esitante negli investimenti». L’Unione europea ne è consapevole e sostiene lo sviluppo «di un’economia dell’idrogeno», come previsto nella “Strategia europea sull’idrogeno” proposta dalla Commissione nel 2020 e già approvata dal Parlamento europeo. In più, «molti Stati membri promuovono anche autonomamente la ricerca per migliorare ancora la tecnologia per l’elettrolisi. La sua efficienza così è aumentata notevolmente». Secondo il Cep, «l’idrogeno verde diventerà presto competitivo rispetto all'idrogeno convenzionale». A livello globale, tuttavia, «l’Europa deve affrontare una dura concorrenza, soprattutto da parte di Cina, Giappone e Stati Uniti. Nei prossimi anni, saremo testimoni di una corsa globale per la leadership tecnologica in questo campo». Vincere questa sfida rappresenterebbe un passo importante nel cammino verso un futuro più verde. ■ Zeta — 35
Cultura
«L’arcobaleno è sottovalutato» Piero Percoco racconta le storie piccole e la quotidianità delle infinite giornate estive del Sud Italia FOTOGRAFIA
di Beatrice Offidani
Nelle foto di Piero Percoco è sempre mezzogiorno. Immortalano il momento di mezzo tra il pranzo e la discesa al mare del pomeriggio, durante una di quelle estati di quando eravamo bambini. I gesti si ripetono, ogni giorno, sempre uguali. Tornare a casa dal mare, scrollarsi la sabbia dai piedi. Pranzare e sonnecchiare all’ombra aspettando che i raggi del sole si facciano meno caldi per poter scendere di nuovo in spiaggia. È quel momento di attesa, dove le tende colorate di perline si muovono al vento, si tolgono le briciole dalla tovaglia e si mangia l’anguria alla fine del pranzo. «Vengo dalla provincia di Bari e ho iniziato a fotografare quello che vedevo 36 — Zeta
intorno a me. L’intimità del quotidiano, la monotonia più totale, lo sprofondare nella noia della provincia». Il fotografo, classe 1987 e più di 84 mila follower su Instagram, racconta a Zeta come tutto è iniziato. «Non vedevo prospettive, la mia famiglia non poteva permettersi di mandarmi a studiare fotografia in una buona scuola. Ho iniziato Scienze Forestali a Bari, ma poi ho abbandonato l’università. Vivevo un momento di sconforto più totale, fino a quando la mia ragazza mi ha regalato il primo iPhone e con quello ho iniziato a scattare». Piero cammina per le vie del suo paese in provincia di Bari con una consapevolezza nuova. Vede un vecchio che aspetta sui gradini di pietra bianca della chiesa, due bambini con maschera e boccaglio che pescano dei ricci sulla spiaggia di Polignano. Tutto viene filtrato dalle lenti del suo iPhone 4. Il corpo di un anziano si distende su un sdraio, di quelle a righe bianche e blu che si trovano nei lidi del Sud Italia, mettendo in evidenza le rughe e le pieghe della schiena piena di nei. Una signora dai capelli cotonati esce
a fare la spesa trascinandosi dietro il carrellino. Un fico troppo maturo si sfalda al sole, lasciando intravedere il rosso della polpa che contrasta con il verde della buccia. I colori sono vividi, saturi. Alla mente tornano le opere di Martin Parr, il più celebre fotografo inglese contemporaneo, conosciuto per lo stile diretto della sua fotografia, l’uso contrastato e luminoso del colore e la volontà di raccontare la gente ordinaria, i posti qualunque. «C’è tanta antropologia nella mia fotografia. Mi piace soprattutto ritrarre le persone. Scattare con l’iPhone apre molte possibilità. Lo smartphone resta, infatti, il mezzo più invisibile e meno invadente per fotografare gli individui senza metterli in imbarazzo. Quando passeggio tra la gente provo un mix di repulsione e attrazione. Spesso scelgo di immortalare certi soggetti perché mi ricordano persone della mia infanzia e della mia famiglia, ma per la maggior parte è una questione di energia. Se esco e vedo una persona che mi attrae, proprio a livello istintuale, la fotografo». «Mi dicono che fotografo troppo gli anziani», aggiunge
Piero, «ma qui sono rimasti solo loro. I giovani se possono scappano al Nord per studiare o lavorare». «Il mare è un altro elemento fondamentale per me. Ci vado poco, però, con la mia carnagione chiara è facile scottarsi. Sembro un turista tedesco e non passo per un barese. Questo mi dà la possibilità di passare inosservato e fare tutte le foto che voglio. La spiaggia è un aggrovigliato di umanità, tra i miei luoghi preferiti dove scattare». Mentre parla si aggiusta il ciuffo rosso che cade sugli occhi chiari. «Non ho l’aspetto di un ragazzo di qua. I miei amici hanno tutti capelli e occhi scuri. Sono cresciuto con la sensazione di essere fuori posto, come un extraterrestre in casa mia». Un senso di inadeguatezza che si riflette anche nei suoi lavori. «Non so relazionarmi con le persone. Le poche volte che l’ho fatto, perché desideravo tantissimo fotografarle, mi emozionavo e rovinavo tutto». Ma la fotografia è anche un antidoto alla timidezza e l’ha portato a diventare uno dei fotografi italiani più seguiti e conosciuti. Percoco racconta di essere vittima di una fascinazione per tutto ciò che è brutto, strano, non convenzionale. «Mi provoca una strana eccitazione il fatto che chiunque, in qualsiasi parte del mondo, possa vedere la foto che ho scattato dello straccio appoggiato al muro del mio terrazzo». Le sue sono istantanee di momenti dove la noia è sublimata, ritraggono cose banali che sono sotto gli occhi di tutti, ogni giorno.
profilo perché da sempre sono attratto dai colori, come un animale quando vede la preda, la mia fotografia è istinto». Nei suoi lavori ci sono anche tutti i colori e i paesaggi del Sud Italia, ma senza scadere in una retorica provinciale. «Mi sentivo soffocare dalla fotografia banale che aveva la pretesa di descrivere la mia terra. Esiste molto altro al sud, oltre al lungomare di Bari, ai gabbiani, al polpo sbattuto, alle basiliche e al mare cristallino». «Le foto che faccio sono una proiezione
di una realtà che vorrei. A volte assomigliano alle scene dello storyboard di un cartone animato. Nel mio lavoro ritrovo pezzi della mia infanzia e del bambino che ero. Descriverei i miei lavori come una sintesi tra il gioco e il trauma, che si lega a vari momenti della mia vita. Le mie foto sembrano felici e serene, ad un occhio distratto, ma nascondono comunque dell’inquietudine. Ognuna ha il suo lato oscuro, nonostante il colore», conclude Percoco. ■
Il grande pubblico lo ha conosciuto nel 2018, in seguito alla collaborazione con The New Yorker. «Mi hanno dato la possibilità di pubblicare sul loro profilo Instagram tre foto al giorno, per sette giorni. Quel progetto ha portato clienti, photo editor, riviste americane ad interessarsi al mio lavoro». Da quel momento sono successe molte cose. È uscito per Skinner Box il suo primo libro “Prism Interiors” e, poco dopo, anche il secondo, “The rainbow is underestimated”. Sono arrivate le collaborazioni con brand del calibro di Leica o Marni, oppure con personaggi del mondo dello spettacolo del web, come lo youtuber da due milioni di follower, Luis Sal. «The rainbow is understimated», l’arcobaleno è sottovalutato, è una scritta incisa da adolescente su un tavolino plastica. «L’ho scelto come nome del mio Zeta — 37
Cultura
flusso sterminato dei versi, ma così incisive nelle convenzioni sociali da stimolare la curiosità sulla razza delle pecore del ciclope o far nascere teorie sulla possibilità che quel particolare tipo di miele fosse tossico o psicotropo.
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Il cielo non è più blu I colori plasmano la nostra identità e ci aiutano a dare forma al mondo, ma la loro percezione non è univoca ANTICHI
di Giulia Moretti
«Sullo sfondo blu del cielo, una corona di dodici stelle dorate rappresenta l'unione dei popoli europei». Questa la bandiera con cui i padri fondatori scelsero di presentare al mondo la comunità europea. A tutela della concordia che regna tra i popoli il blu del cielo, lo stesso cantato da Modugno in Volare, canzone simbolo di un’epoca e tutt’oggi intonata a qualsiasi latitudine. Quel colore nel quale reciprocamente mare e cielo si specchiano e che identifica il nostro pianeta visto dall’esterno. Il blu è così presente nel nostro immaginario e nella nostra identità che non oseremmo mettere in discussione la sua esistenza. Eppure, se andassimo alle origini della civiltà, troveremmo popoli di continenti differenti, e quindi non influenzati l’uno dall’altro, che non conoscevano questo colore. Cinesi, greci antichi, popolazioni mesopotamiche: tutti ignari dell’esi38 — Zeta
stenza del blu. «Navigando sul mare color del vino» scrive Omero nell’Odissea. Una metafora, ricorrente nei poemi omerici, che riporta un’istantanea del mare all’ora del tramonto, quando i raggi del sole colpiscono le onde e dipingono l’acqua di rossastro, quasi trasformandola in vino. Mai un cenno all’azzurro o al verdino, in nessun passo. Un’evidenza che richiamò l’attenzione di William Gladstone, studioso e primo ministro inglese nell’ultimo quarantennio del 1800. La dispercezione cromatica di Omero e, per estensione dei greci antichi, non si limitava però a questo colore. Le pecore a cui Ulisse e i suoi compagni si aggrappano per riuscire ad uscire dalla grotta del mostruoso Polifemo sono coperte di lana viola! Il miele, ingrediente del filtro che la maga Circe somministra ai malcapitati ospiti per trasformarli in porci, è verde. Particolari quasi impercettibili nel
Lazarus Geiger, un filologo contemporaneo di Gladstone, sull’onda delle sue scoperte, si interessò al fenomeno con l’intento di comprendere se questo sfasamento percettivo fosse comune a più popolazioni. Studiò allora diversi testi sacri, tra cui la Bibbia e il Corano, oltre alle saghe islandesi e le antiche leggende cinesi. «Più di diecimila righe piene di descrizioni del cielo. Difficile che ci sia un argomento più evocato di questo. Il Sole e il progressivo arrossamento al tramonto, il giorno e la notte, nuvole e fulmini, l’aria e l’etere, tutti questi fenomeni si dispiegano innanzi a noi ancora e ancora, ma c’è una cosa che nessuno potrà mai imparare da questi antichi canti: che il cielo è blu» scrive, dopo averli esaminati. Da ciò dedusse che nel lessico delle culture antiche i primi colori a comparire sono bianco e nero, quelli associati a luce e oscurità. Poi è la volta di sangue, vino e piante: nascono, quindi, parole che indicano il rosso, il giallo e il verde. Infine, molto più tardi, il blu. Soltanto sulle rive del Nilo, presso gli Egizi, si parla precocemente di questo colore e la spiegazione è semplice: sono l’unico popolo a saper produrre questa tinta. Ma ad essere oggetto dello studio di Geiger furono anche i Maya. Per loro l’universo non aveva un colore preciso, lo identificavano con un misto di blu e verde. Una commistione percettiva che riguarda anche un popolo africano contemporaneo: gli Himba. Nel 2014 Jules Davidoff, professore di psicologia cognitiva alla Goldsmiths University di Londra, ha fatto un viaggio in Namibia presso questa tribù scoprendo che non solo è priva di un termine che indichi il blu, ma proprio come i Maya non lo distinguono dal verde, di cui, al contrario, riescono a individuare numerose sfumature. L’anno dopo il linguista Guy Deutscher, autore de La lingua colora il mondo. Come le parole deformano la realtภè intervenuto in una trasmissione radiofonica, RadioLab, raccontando di aver condotto un esperimento sulla propria figlia. Insieme con la madre della bambina l’avevano educata facendo attenzione a non descriverle mai il cielo come “blu”. Quando un giorno Guy le ha domandato di che colore fosse il cielo la figlia in un primo momento non riuscì a dare una risposta, poi lo associò al colore bianco. Solo in un terzo momento lo associò al blu. ■
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Il domani è queer A Palazzo Merulana una mostra rompe i canoni del binarismo di genere GENDER
di Alissa Balocco
«Oggi per noi non è solo l’apertura di una mostra: è anche il nostro coming out». Nicola Brucoli è architetto e fondatore di TWM Factory, uno studio creativo per giovani millennials. Indossa una camicia rosa acceso, dello stesso colore della locandina della mostra che sta inaugurando. Ultraqueer - espressioni artistiche metagender ha aperto le porte al pubblico l’11 giugno, lo stesso giorno del Roma Pride. «Da oggi, ancora di più, prendiamo l’impegno di fare cultura per cercare di rompere tutti i muri che abbiamo di fronte, andando incontro a una libertà totale di espressione». Ospitata negli spazi di Palazzo Merulana, Ultraqueer ha l’obiettivo di divulgare e parlare della comunità LGBTQ+ nella maniera più esaustiva possibile. «Il nostro scopo non è quello di definire in maniera totalizzante il queer ma dare rappresentanza alle sue pratiche artistiche ed espressive», racconta Davide Lunerti, tra i curatori del collettivo. La mostra ospita opere di artisti appartenenti alla comunità LGBTQ+ di tutto il mondo: progetti fotografici, illustrazioni, cortometraggi, i cui soggetti sono corpi che si ribellano al binarismo imposto dalla società patriarcale.
Pelle nuda che rivendica il proprio spazio e la propria esistenza. «La sezione più sperimentale è quella del mostruoso queer. È la parte che lo declina nei canoni estetici più diversificati e lontani dall’eteronormatività: corpi considerati perturbanti in quanto anormali, dunque aberranti». Quattro le aree tematiche in cui è divisa l’esposizione: oltre al mostruoso si indagano l’identità di genere, la sex positivity e il corpo non conforme. Dietro tutte le opere ci sono storie di persone realmente esistenti che affermano i propri valori di inclusività e accettazione di sé.
4 1. Alessio Maximilian Shroeder, Pòrne 2. Ornella Mercier, Blossom 3. Veronique Charlotte, Trascendent, Gender Project 4. Silvia Clo Di Gregorio, T-boy
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«Ultraqueer rappresenta un passo importante per l’arte contemporanea. In Italia, in questo momento, c’è un bisogno di voci differenti molto grande rispetto alla politica italiana. Prendete cosa è successo con il Ddl Zan». Silvia Clo Di Gregorio è regista e artista. La sua opera, T-boy, è un dittico di fotografia e illustrazione su un bugiardino, in cui la parte fotografica cattura il momento in cui il suo ragazzo, Samuele, si inietta il testosterone in corpo. «Il disegno è invece opera del soggetto trans e rappresenta il suo mostro interiore». Una visione di difficoltà ma anche di «quotidianità e di normalizzazione dell’essere trans sia in questa società sia in un rapporto intimo come il nostro». La prospettiva contemporanea si unisce a quella storica. Parte del progetto mette in mostra i materiali dell’archivio del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli: si attraversa così la storia del movimento di liberazione sessuale dagli anni Settanta al Duemila. In un angolo lettura, allestito in collaborazione con la Biblioteca comunale di Cisterna di Latina, è possibile sfogliare più di un’ottantina di libri tra riviste di cultura queer, romanzi di narrativa e saggistica. Una sorta di archivio letterario della comunità LGBTQ+. L’intera esposizione è un’esplorazione alla ricerca di quelle identità che, parte della nostra società, appaiono ancora fuori dalla norma. A pochi giorni dal tragico suicidio di Cloe Bianco, donna transgender che aveva perso il lavoro di insegnante dopo il suo coming out, la mostra reclama lo spazio affinché questi corpi possano esistere. L’appello, nelle parole di Nicola Brucoli, è chiaro. «Ultraqueer è il nostro modo di essere, è una modalità di azione, è come immaginiamo il mondo da oggi in poi, oltre le differenze e gli stereotipi. Ultraqueer siamo noi, ma da oggi, spero, possiate esserlo anche voi». ■ Zeta — 39
Cultura
Avevo le indicazioni per creare pastelli di dieci colori. La pagina più importante era ammuffita e bagnata e non si vedevano alcune dosi degli ultimi due ingredienti». Dopo molte prove andate male, il primo pastello: il bianco. «Piano piano mi sono accorto che la ricetta non è sempre la stessa, ogni tinta ha le sue dosi». Sono 130 i colori che Claudio è riuscito a produrre, realizzando a mano ogni singolo pastello. «Quest’anno ne ho fatti 2.500. Sto dietro a ogni passaggio come farei con un bambino».
Il segreto dei pastelli La cura e la passione di un bottegaio ridanno vita all’antica ricetta della coloreria Bordi di Roma TRADIZIONE
di Federica De Lillis
«Chi compra una scatola di pastelli non compra solo una scatola di pastelli, acquista 280 anni di storia di una famiglia». Non sono ancora le dieci quando Claudio Bordi apre la porta della sua bottega. Il primo cliente della giornata lo stava già aspettando, una valigia rossa in una mano e una lista nell’altra. «Buongiorno Claudio, sono venuto a prendere un po’ di cose. Vado di fretta, ho il treno tra poco. Me ne vado in campagna a dipingere». Il bottegaio si muove agile tra gli alti scaffali di legno scuro. La mente di chi ascolta inizia a vorticare in un tripudio di tinte e sfumature: magenta, giallo, nero, bianco, carminio, ftalo. «Non ce l’hai il rosso cinabro?» chiede il cliente con la valigia. «No, non si produce quasi più» dice Claudio in piedi sulla scala, ricordandolo 40 — Zeta
come un bel rosso intenso, fatto col minerale estratto dal Monte Amiata, dichiarato poi tossico e quasi del tutto eliminato dal mercato. Nei discorsi del bottegaio le tinte non sono solo emanazioni luminose impresse su una tela, ma storie dinamiche e vibranti, che da sempre accompagnano la famiglia Bordi. «I miei antenati gestivano una drogheria. L’attività accertata risale al 1766. In un luogo così potevi acquistare di tutto: chiodi, veleno per topi, sale, spezie, pennelli e colori». L’attività nel tempo si è trasformata e al ridursi delle dimensioni della bottega, oggi un piccolo negozio a pochi passi da via Merulana, ne è aumentata la specializzazione fino a occuparsi solo di belle arti. «La nostra non è solo una bottega, è una vera fabbrica di colori. Siamo gli unici in Italia che producono pastelli artigianali all’interno del negozio. Qualche anno fa abbiamo trovato una scatola di metallo contenente alcuni taccuini risalenti a metà Ottocento. Contenevano ricette che andavano dai profumi ai liquori, fino ai colori. Erano le tre branche di attività della drogheria di una volta». All’inizio prese come un qualsiasi pezzo di antiquariato, le ricette sono state messe a punto grazie a vari esperimenti.
Modellare, tagliare, macerare, far riposare, scolare, impastare, far decantare, stagionare. «Ogni pastello richiede in media un mese e dieci giorni per essere pronto» dice Claudio mentre passa le dita sugli ultimi pezzi a cui sta lavorando. «Sento se la consistenza è giusta o meno. Toccando capisco se sono stagionati abbastanza, quando sono freddi vuol dire che ancora sono troppo umidi, c’è bisogno di altro tempo». La cura del bottegaio si vede in tutte le irregolarità dei pastelli, impresse dai lenti e pazienti movimenti delle mani e capaci di raccontare una storia vecchia di secoli. Trovandosi a svolgere da solo l’attività, Bordi ancora non è in grado di mettere in commercio i suoi colori, per ora venduti ad appassionati o come pezzi da collezione. «Spero di tramandare questa eredità anche ad altri membri della famiglia. Aziende come la mia possono andare avanti solo se in quello che si fa si impiega la stessa passione». ■
Il fiato perso del paesaggio Paolo Cognetti nel suo libro sfida l’indescrivibile e rende la montagna e le sue sensazioni le vere protagoniste NARRATIVA
di Lorenzo Sangermano
«L’idea dell’indescrivibile è insopportabile. Se qualcosa è impossibile da descrivere a parole allora non bisogna fare lo scrittore», dice Paolo Cognetti. Ne La felicità del lupo l’autore mette in scena un romanzo dai tratti poetici che, proprio dalla forza di raccontare ciò che pare impossibile, trae la sua forza. Fausto siede sempre su una delle sedie di legno grezzo che popolano la locanda di Babette, che nella neve vede il riflesso degli sciatori che aprono i loro portafogli. Prepara ogni giorno piatti diversi e combatte lo spirito abitudinario dei montanari di Fontana Fredda. Al bancone Silvia ripone i piatti al loro posto e taglia uno a uno i panini che Babette ha trascinato in un sacco lungo il vialetto. Agli occhi di Fausto, la ragazza sembra straniera. Di sicuro non la solita anima che anima quelle altitudini. In lei riconosce la sua ricerca della felicità, il desiderio di ritrovare in quel luogo sperduto il baricentro della propria vita.
Un romanzo nato all’alba della pandemia e al termine degli anni affollati dalla fama per il romanzo precedente, Le otto montagne. «L’ho iniziato nel primo lockdown, che è stato drammatico ma anche un dono, un momento di concentrazione e di semplificazione». Proprio la lentezza e la vista da Milano delle montagne ha ispirato un romanzo fatto di piccole soddisfazioni. Silvia e Fausto si conoscono a piccoli passi creando un’intimità che mette in ombra le loro vite differenti. Fausto ha quarant’anni, da poco separato dalla moglie ha raggiunto il rifugio per la stagione estiva. Silvia di anni ne ha ventotto, fuggita dal suo girovagare senza meta tra le case di conoscenti e vite che non le appartengono. Da una parte all’altra del bancone, i loro sguardi si innamorano. Silvia conosce la montagna nei suoi piccoli dettagli. Ne coglie la lentezza, la solitudine e il freddo che le raggrinzisce la pelle delle mani. Fausto le insegna i nomi delle piante, i colori delle foglie e delle rocce. Le porge un pezzo di pane caldo e di toma mentre l’odore della stufa invade il locale. Questo per lui significava la montagna, «il luogo dell’equilibrio, quello da cui ricominciare la propria vita». La guarda chiudendo gli occhi e ne assapora la vista.
Non più solo ambientazione o un panorama da riassumere in una vista “mozzafiato”. «Bisogna capire come rendere la montagna viva, un elemento potente e collaborativo, un super personaggio». Paolo Cognetti trae ispirazione dalla scrittura della natura di origine anglossassone per poter dialogare con i crinali della sua vita. «Il fatto che ci sia un’immigrazione dalla città alla montagna è un fatto da raccontare. Ho assaggiato la montagna della solitudine, dell’alcolismo, della rabbia prima di conoscerne l’idea di rivoluzione e sogno di felicità». La felicità del lupo sussurra le piccole gioie di un lavoro ripetitivo, dell’abbronzatura per i riflessi sui cumuli di nevi a lato della strada. Fausto e Silvia si conoscono perché non sanno chi sono o cosa vogliono e, in fondo, a loro poco importa. Le preoccupazioni scompaiono di fronte al sole nascosto tra le cime e alle orme leggere ma decise di un lupo che, dopo anni, ha riscoperto il desiderio di essere felice. ■
Il libro La felicità del lupo Paolo Cognetti Einaudi-Supercoralli pp 152 Zeta — 41
Spettacoli
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«Va ora in onda la tv a colori» Il passaggio epocale dal bianco e nero al colore ricordato da Rosanna Vaudetti e Maria Giovanna Elmi, storiche annunciatrici Rai che ne furono protagoniste TELEVISIONE
di Dario Artale
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Rosanna indossava un abito in seta bianco. Ma quel 26 agosto del 1972, per la prima volta, i telespettatori videro sfavillare anche il rosso dei segni zodiacali disegnati sul suo tailleur. E il verde petrolio della parete che campeggiava sullo sfondo. E poi il biondo dei suoi occhi intonati a un casco di capelli d’oro. «Fu il primo annuncio a colori della televisione italiana - ricorda Rosanna Vaudetti, volto storico della Rai – diedi la linea alle Olimpiadi di Monaco», rimaste impresse nella memoria collettiva per il massacro degli atleti israeliani uccisi al villaggio olimpico per mano del commando terroristico palestinese Settembre Nero. «Per tutta la settimana precedente all’annuncio mi fu chiesto di non apparire in televisione, i vertici Rai temevano che la notizia trapelasse e che la politica potesse porre il veto a questo esperimento». L’Italia aveva atteso per lungo tempo il passaggio alla tv a colori (Germania e Inghilterra, per esempio, avevano smesso di trasmettere in bianco e nero già nel 1967), impantanata in un dibattito politico che si protraeva da anni. Da una parte c’era chi sosteneva il passaggio epocale
ai colori, come l’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti, dall’altra chi, come Ugo La Malfa, segretario del Partito Repubblicano, temeva che la corsa all’acquisto dei televisori avrebbe messo a rischio i risparmi degli italiani. E poi c’era anche chi dibatteva sull’opportunità di utilizzare il sistema di trasmissione a colori brevettato in Francia, il Secam piuttosto che quello brevettato dall’azienda tedesca Telefunken, il sistema Pal. Tanto che, come ricorda Rosanna Vaudetti, l’allora direttore generale della Rai Luigi Bernabei fece installare all’ingresso della storica sede di Viale Mazzini due televisori a colori per trasmettere le olimpiadi: l’uno in Pal e l’altro in Secam. Ma il paradosso, generato dalla contesa politica, era un altro. «All’epoca – prosegue Rosanna Vaudetti – conducevo Giochi senza frontiere con Giulio Marchetti, con la Rai che lo trasmetteva a colori in tutta Europa, ad eccezione dell’Italia, dove andava in onda in bianco e nero». Ciò prova il fatto che le reti televisive italiane fossero pronte a ospitare i colori sui propri schermi già all’inizio degli anni
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Settanta. A frenarle, oltre all’austerità evocata da alcune parti politiche, fu anche la pressione avversa esercitata dalla più importante azienda del Paese, la Fiat, preoccupata dal fatto che gli italiani potessero preferire all’acquisto della nuova 127 – l’iconica familiare che proprio nel ’72 vincerà il premio di “auto dell’anno” – uno o più apparecchi televisivi a colori. Come osserva l’ingegnere Stefano Mannu, appassionato di storia della televisione, «la posizione assunta da La Malfa ebbe un effetto catastrofico sul Paese e sull’industria elettronica italiana, se consideriamo che l’Italia è stato l’ultimo tra i Paesi più evoluti a passare alla tv a colori e che moltissime aziende italiane che producevano televisori – come la Sinudyne, la Magnadyne o la Fonola – finirono per pagare questo ritardo scomparendo dal mercato». Le Olimpiadi di Monaco, che proseguirono malgrado l’attentato terroristico, si conclusero per gli atleti azzurri con diciotto medaglie: cinque ori, tre bronzi, dieci argenti. L'evento venne trasmesso sulle reti Rai alternando i sistemi Pal e Secam. Dalla fine dei giochi trascorsero cinque anni prima che a Viale Mazzini giungesse l’ordine di spegnere uno dei due apparecchi voluti da Bernabei. A soccombere fu quello che trasmetteva in Secam. L’Italia optò per il sistema tedesco Pal, ritenuto più affidabile, e le trasmissioni ufficiali presero il via nel febbraio del 1977, in tempo per il primo Festival di Sanremo a colori. A presentarlo, insieme a Mike Bongiorno, un’altra storica annunciatrice Rai, Maria Giovanna Elmi, che ricorda bene quei giorni in riviera e
“quel filino d’oro” che accompagnava il suo abito candido. Scintillò per tutta la sera davanti agli occhi di milioni di telespettatori, riuniti intorno a quella prodigiosa scatola nera che, con timidezza, dava prova dell’esistenza del colore anche al Teatro Ariston. «Le prime serate vennero trasmesse soltanto via radio, la ripresa televisiva avvenne soltanto l’ultima sera, quando arrivò anche Mike. Ricordo che fu gentilissimo con me». E poi un colpo di scena. «Nel momento in cui stava per pronunciare il nome dei vincitori – gli Homo Sapiens, che trionfarono con Tu sei bella da morire – partì, puntuale, la sigla del Tg1 e così l’annuncio venne bruscamente interrotto. Mike ci rimase malissimo». Ben presto i televisori a colori avrebbero trasmesso il furore degli anni di piombo, che raggiunse il suo culmine appena un anno dopo con il sequestro e
l’omicidio del leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Nella tragica diretta del cronista Paolo Frajese, accorso in via Mario Fani nei momenti successivi all’agguato, colpisce l’indugio della telecamera sul sangue degli agenti e dei carabinieri rimasti uccisi nel conflitto a fuoco. Maria Giovanna Elmi ricorda quelle immagini e gli annunci dolorosi di quei giorni senza pace. «Entrammo nelle case degli italiani consapevoli del fatto che chi annuncia – a differenza di chi vive una notizia tragica, come ad esempio un cronista – non può farsi condizionare dal dolore, dalla disperazione. Deve essere incolore». Di fronte al sangue versato, la voce era tornata in bianco e nero. ■ 1. Prove tecniche in uno studio televisivo Rai, archivio fotografico del dott. Fernando Menichini 2. Maria Giovanna Elmi e Mike Bongiorno sul palco di Sanremo 1977 3. Rosanna Vaudetti dà il primo annuncio a colori
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Spettacoli
Dal bianco e nero al colore una storia per l’Italia che cambia In “C’eravamo tanto amati” Ettore Scola ripercorre trent’anni di storia attraverso l’amicizia di tre partigiani e un amore in comune CINEMA
di Valeria Verbaro
di Valeria Verbaro
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Una Seicento verde petrolio avanza, vecchia e ammaccata. Per tre volte il montaggio ripropone la scena, sempre identica a se stessa, una per ogni personaggio che scende e si appresta a scoprire l’ultima parte di un racconto che dura da tre decenni. Luciana (Stefania Sandrelli), Antonio (Nino Manfredi) e Nicola (Stefano Satta Flores) sbirciano oltre l’alta recinzione della villa di Gianni (Vittorio Gassman), delusi nello scoprire in lui un padrone, lontano da tutti gli ideali che nel tempo hanno unito i loro percorsi. Comincia così un viaggio a ritroso, in cui la grana della pellicola degli anni Settanta, con i suoi colori desaturati e tenui, lascia il posto ai forti contrasti del bianco e nero neorealista. Il sottotesto dell’estetica cinematografica racconta una storia nella storia, un’identità collettiva italiana che attraverso i film compie un esercizio di memoria. «Senza memoria non esiste nessuna cultura», affermava Ettore Scola in un’intervista del 1984 per il programma Rai Vediamoci sul Due. «Una cultura senza passato, senza indicazioni né per il presente né per il futuro è una cultura anomala che non so come possa sopravvivere». Il Dopoguerra e gli anni Cinquanta, affrontati da un film del 1974, sono passato recente, ancora vivo nell’esperienza degli spettatori. Scola se ne distacca con sguardo critico, agendo per sottrazione del colore. Il bianco e nero è al tempo stesso strumento concettuale, stilistico e tematico. È il mezzo della memoria e del metalinguaggio, della riflessione del regista su ciò che viene messo in scena. Appartengono solo alle scene in bianco e nero della prima metà del film, infatti, i soliloqui in cui i personaggi esprimono pensieri, motivazioni e segreti.
Il bianco e nero del teatro e il colore della vita Nero tutto intorno, con la forte luce di un solo riflettore che illumina i volti di Sandrelli e Gassman, come in un quadro teatrale. Gli occhi di Luciana e Gianni si incontrano per la prima volta e i rumori dell’osteria popolare svaniscono, trasformandosi in musica per un passo a due. È solo uno dei momenti di C’eravamo tanto amati in cui è sufficiente che le ombre si facciano più dense e i tagli di luce più netti, affinché la fotografia in bianco e nero del cinema del reale diventi invece quella del sogno, del teatro e della finzione. Nel momento in cui Luciana sopravvive a un tentativo di suicidio,
tuttavia, la realtà e il presente prendono il sopravvento e il film si divide in due esatte metà, colorandosi. Mentre i quattro protagonisti si allontanano gli uni dagli altri, in altrettante direzioni, per incontrarsi solo anni dopo, il manto rosso di una Madonna disegnata sull’asfalto diventa sempre più acceso. La vita scorre, l’Italia cambia e a Scola basta una sola immagine per comunicarlo. «È lo snodo narrativo del film, ottenuto con una successione di fotogrammi saturati uno per volta», come spiegato nella monografia del regista a cura di Stefano Masi (Ettore Scola. Uno sguardo acuto e ironico sull’Italia e gli italiani, Gremese Editore, 2006). Tutto quello che viene rappresentato in seguito ha il retrogusto amaro di una vita vissuta nella nostalgia dei legami passati. «Il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà» La Resistenza sulle montagne, il referendum del 1946 e l’Italia di De Gasperi, la Dolce Vita di Fellini negli anni Sessanta e la riforma del diritto di famiglia nella metà dei Settanta. L’Italia si guarda allo specchio nei suoi primi tre decenni repubblicani e affida il suo riflesso alla rappresentazione immortale del cinema, di cui si fa monumento e documento, attraverso citazioni dirette e un cast artistico e tecnico che costituisce il meglio dell’ultima commedia all’italiana. ■ Zeta — 45
Sport «Perché nessuna squadra di calcio ha una maglia marrone?» Secondo Sergio Salvi e Alessandro Savorelli, autori di Tutti i colori del calcio, il motivo deriva dall’araldica medievale. I cavalieri evitavano il bruno perché era il colore dei contadini: facile da ottenere, poco costoso e soggetto a deteriorarsi. Secondo Salvi «il calcio è diventato un’araldica, una delle più incisive a livello planetario di tutti i tempi». L’idea di indossare colori per distinguersi è più antica delle guerre feudali. L’uomo è sempre andato in guerra con vestiti o ornamenti colorati fino al conflitto franco-prussiano di fine ottocento, proprio quando in Inghilterra è nato il gioco del calcio. La necessità di uniformare la divisa dei primi calciatori è stata affidata alla casacca, che risponde alla stessa logica del riconoscimento degli scudi medievali. «Non c’è araldica senza colore: esistono scudi senza figure, ma non senza colore». Secondo una ricerca della società Soccer Association, che prende in considerazione 500 squadre nei principali campionati del mondo, la percentuale nell’uso dei colori è simile tra araldica e calcio. Al primo posto c’è il rosso, spesso collegato con «fatti d’arme». Seguono il bianco e il giallo, che in Italia viene utilizzato poco perché ritenuto il colore dei giullari di corte e dei pazzi. È presente solo in combinazioni che ricalcano gli stemmi araldici cittadini dove l’oro fa la sua parte, come per la Roma. Il verde e il viola sono i meno utilizzati, proprio come nell’araldica. Il primo in Italia era riconducibile ai ghibellini, quindi a “gente senza Dio”, ai laici.
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Quando la maglia racconta la storia La scelta dei colori delle squadre ha origine dall’araldica medievale di cui il calcio è l’interpretazione moderna. Oggi che i cavalieri si vedono soltanto sul terreno di gioco CALCIO
di Niccolò Ferrero
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Il Toro del Torino, la Lupa della Roma, l’Elefante di Catania, il Grifone del Genoa. Anche il bestiario cittadino conferma lo stretto rapporto tra araldica storica e calcistica. Se è vero che un animale da combattimento appare più adatto, esistono totem che non hanno a che fare con la ferocia: la foca del Chester, il canarino del Norwich city o l’asino del Napoli. La maggior parte dei colori sociali sono stati scelti rifacendosi all’araldica medievale in maniera più o meno conscia. Altri sono dovuti al caso. Gli studenti del Liceo D’Azeglio che a Torino fondarono la Juventus nel 1897 colsero al volo l’opportunità di acquistare a un ottimo prezzo molti metri di percalle rosa rimaste invendute in un negozio
femminile. Le loro madri ne ricavarono delle divise, usate per tre anni fino a che divennero inservibili. A quel punto un sostenitore fece arrivare da Nottingham alcune divise bianconere del Notts Country Football Club. La concittadina della Juventus, il Torino, aveva adottato una casacca a righe verticali arancio e nere, ma l’abbinamento venne ritenuto un insulto dalla casa Savoia perché richiamava i colori degli Asburgo. Si optò per il granata in onore alla Brigata Savoia di Pietro Micca, l’eroe torinese che nel 1706 si fece saltare in aria nei sotterranei per impedire ai francesi di entrare in città. La casa regnante ha poi trovato postuma soddisfazione nella maglia dell’Italia, una delle poche casacche nazionali che sfugge alla regola di utilizzare uno dei colori presenti nella bandiera del Paese. L’azzurro deriva dallo scudo dei Savoia, nonostante non compaia più nel tricolore. Una scelta simile a quella della nazionale olandese, che con la sua maglia arancione richiama la casata degli Orange e non il tricolore rosso-biancoblu. «Le maglie devono essere rosse perché noi siamo i diavoli. Mettiamoci un poco di nero per fare paura a tutti» disse il protestante e antipapista fondatore del Milan Herbert Kilpin. Nel 1899 il giovane Stato italiano dopo la presa di Roma si professava laico in polemica con la Chiesa e per i fondatori inglesi l’icona del diavolo, da mostrare in un Paese cattolico, era motivo di orgoglio. In opposizione studiata ai colori milanisti il club rivale, Football Club Internazionale, risponde con «il nero come la notte e l’azzurro come il cielo» come disse il pittore futurista Giorgio Maggiani che disegnò il primo logo. Il nome mirava a tutelare l’anima internazionale del calcio e il biscione era l’animale presente nello stemma dei Visconti. La prima forma di pubblicità cromatica è riconducibile al Palermo. Uno dei sostenitori del club era l’industriale Florio, produttore di un liquore dolce rosato e di un digestivo amaro nero, che decise di adottare il rosa-nero come colori sociali dal 1907. L’unico esempio di casacca a quattro colori in Europa è la Sampdoria che assorbì i colori del Sampierdarena e dell’Andrea Doria da cui nacque la squadra azzurrofasciata e non blucerchiata come spesso viene chiamata.
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Il Manchester United venne fondato da un gruppo di ferrovieri che decisero di optare per la casacca rossa come la banderuola che segnalava ai treni la presenza di un pericolo, metafora per gli avversari del pericolo nell’incontrare i giocatori della loro squadra. In città come Milano, Torino, Firenze, Napoli e Palermo i colori delle squadre sono diversi da quelli municipali eppure tendono a essere utilizzati come colori identitari. Il comune di Roma ha rinunciato a esporre sulla bandiera i simboli caratteristici per adottare un semplice bicolore calcistico. A Tarquinia, in provincia di Viterbo, la bandiera ufficiale del comune ha adottato i colori della squadra cittadina, amaranto e blu, inesistenti nello stemma civico. I colori delle squadre sono principi di appartenenza che hanno delineato nuove mappe nazionali. Si è formato un codice di riconoscimento visivo che ha restituito al colore la funzione di cui godeva nell’antica araldica. ■
1. Evoluzione dalla casacca medievale a quella calcistica 2. Prima maglia della squadra di calcio Juventus, risalente a fine Ottocento 3. Il bestiario negli stemmi delle squadre calcistiche d'Europa: dal Chelsea Football Club al Levante Unión Deportiva
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Sport
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Fight Club in piazza Santa Croce Da quasi 500 anni Firenze tramanda la sua storia non risparmiando i colpi. La finale è in programma, come da tradizione, per San Giovanni (il 24 giugno), patrono della città TRADIZIONI
di Leonardo Pini
17 febbraio 1530. Firenze si prepara a un’altra giornata di assedio. Le truppe di Carlo V, imperatore asburgico, accerchiano la città dall’ottobre precedente e spingono per entrare all’interno delle mura. Il boato dei colpi di cannone risuona in tutta la città, ma i fiorentini non si scompongono. Cinquantaquattro nobili si presentano in Piazza Santa Croce vestiti in livrea, ventisette di bianco e ventisette di verde. In segno di scherno nei confronti dell’assediante si disputa una partita di palla, la prima partita di calcio storico fiorentino della storia. 48 — Zeta
La rievocazione storica prosegue ancora oggi, portata avanti da quattro squadre che rappresentano i quartieri storici della città: gli Azzurri di Santa Croce, i Bianchi di Santo Spirito, i Rossi di Santa Maria Novella e i Verdi di San Giovanni. «Noi che giochiamo siamo ragazzi di quartiere. Ci dedichiamo per gran parte dell’anno ad allenarci solo per tramandare la storia di Firenze e per rendere orgogliosa la nostra comunità.» Duccio, calciante di parte bianca, ha esordito quattro anni fa per la prima volta. «Entrare nel ‘sabbio-
ne’ è un onore, ma quando ci entri per la prima volta da giocatore sei emozionato. Sai come entri, ma non come esci.» dice scherzando. Oltre alla partita del 1530 la storia del Calcio Storico ha le sue radici anche nell’antica Roma. Si ritiene che il gioco originario che ispirò i cinquantaquattro nobili fiorentini durante i bombardamenti di Carlo V fosse l’harpastum. Un gioco che i soldati romani utilizzavano per passare il tempo prima delle battaglie dell’Impero Romano. Di stanza a Firenze nell’antichi-
tà furono i romani i primi a portare il “gioco della palla” nel capoluogo toscano. La prima regola del Calcio Storico è l’apparente assenza di regole. Ci si schiera ventisette contro ventisette su un campo di sabbia. L’obbiettivo è segnare più “cacce”, o gol se si vuole usare un termine più riconoscibile, dell’avversario. Le porte si estendono su tutto il lato corto del campo e per questo le squadre giocano con tre portieri o più. La parte caratteristica non è quella con la palla, ma i confronti in mezzo al campo, perché per fermare un avversario è consentito tutto (placcaggi, arti marziali e pugilato) purché sia un leale confronto uno contro uno. «I portatori di palla sono solitamente rugbisti e calciatori, mentre al centro del campo ci sono lottatori e pugili, anche se tutti noi dobbiamo saperci difendere perché i rischi di entrare in campo impreparati si pagano con l’ospedale.» Anche perché durante la partita non c’è la possibilità di effettuare sostituzioni. Mettere fuori gioco un avversario significa creare un vantaggio strategico per la propria squadra perché avere la superiorità numerica significa avere maggiori possibilità di vittoria. Nel corso della partita è facile che diversi calcianti vengano espulsi perché autori di scorrettezze. Qualora i giocatori espulsi non escano dal campo possono incorrere anche in denunce da parte della Polizia che supervisiona tutte le partite del torneo. Negli anni sono state molte le critiche rivolte al calcio storico. La manifestazione ha visto addirittura una pausa di tre anni
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dopo che, nel 2006, Bianchi e Azzurri avevano “nascosto la palla” e la partita era diventata un regolamento di conti, in cui solo l’intervento della polizia in tenuta antisommossa aveva prevalso sul rancore dei cinquantaquattro. I provvedimenti portarono a sanzioni più severe per coloro che giocano in maniera scorretta, oltre che l’impossibilità di partecipare alla manifestazione per chi aveva superato i quaranta anni o aveva carichi pendenti. Queste regole, specie le restrizioni sull’età, durarono poco e adesso chiunque può scendere in campo. «Le regole di oggi massacrano quello che era questo ‘giochino’ negli anni ’70, ’80 e ’90. Prima non c’era l’obbligo
dell’1 contro 1, potevi fare quello che volevi in quanti volevi. Si pensava che così il gioco ne avrebbe beneficiato. Non è stato così: prima si picchiavano di più ma davano uno spettacolo più divertente anche con la palla. In un certo senso le regole hanno peggiorato questo gioco». A parlare è Marco, un sostenitore dei Verdi di San Giovanni che segue il calcio fiorentino da quando è bambino. La location in cui si gioca da anni il calcio storico è Piazza Santa Croce, sede storica della prima partita in assoluto. In passato si sono provate altri luoghi molto suggestivi come Piazza del Carmine, il Giardino di Boboli e «i più anziani, come me, si ricordano le partite in notturna in Piazza della Signoria che avevano un sapore davvero speciale». Gli strascichi delle partite, in passato, proseguivano per mesi e si racconta che qualcuno per via dei rapporti aspri con membri di altre squadre sia arrivato a tirare fuori la pistola. Per questo motivo i calcianti non hanno mai goduto di grande fama a Firenze, al di fuori dei giorni delle partite, anche se eventi del genere oggi non accadono quasi più. «Facciamo divertire Firenze e i suoi turisti, ma non tutti a Firenze amano questa rievocazione. Le uniche cose che contano sono il quartiere, la squadra e chi viene al campo tutti i giorni per sostenere i nostri sforzi. Il resto non conta».■
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1. Stendardi delle quattro squadre del calcio storico 2. Due calcianti si affrontano 3. L'arena di Santa Croce adibita per il calcio storico
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Cibo fuoco acceso dai social», spiega Matteo Di Cola, co-fondatore di @italyfoodporn, popolarissima pagina che propone «l’estetica del food porn americano – figlia dei classici burger, pancake e fritti vari – ma esaltando l’eccellenza del prodotto italiano». Il rischio, però, è che per seguire le mode i ristoranti si omologhino: «Il 90% sembrano fotocopie, fra la pizza con mortadella e pistacchio, la burrata nel panino e la carbonara cremosissima, con il tartufo», continua l’instagrammer. «Bisogna differenziarsi con studio e qualità. Creare prodotti belli da fotografare, ma che poi siano anche buoni», aggiunge Seidita.
Dallo schermo alla tavola L’ossessione per i cibi grassi, grossi e peccaminosi tipica del food porn è nata su Instagram, ma si sta diffondendo sempre di più nella ristorazione SOCIAL
di Antonio Cefalù
Mondello è esattamente quello che ti aspetteresti da un posto che chiamano la spiaggia dei palermitani. Infinite tavolate di bagnanti allestite direttamente sulla sabbia, pescatori che sistemano le reti su barchette in legno colorato, grida, clacson. In una parola: folklore. Ma solo fino ad ora di pranzo. Uno dei ristoranti più gettonati della piazza di questo borgo marinaro, infatti, non serve né polpo bollito né le classiche sarde a beccafico. Il locale si chiama D2 e l’insegna avvisa gli avventori che stanno per entrare ne «La casa de food porn». L’occhiolino alla celebre Casa di Carta spiega che qui si rivisitano in tema serie tv i piatti più popolari dei social, dai giganteschi hamburger grondanti di formaggio a torte che nuotano nella crema di pistacchio. Il food porn, appunto: quella cosa che Urban Dictionary definisce come «immagini da acquolina in bocca di cibo succoso e dall’aspetto incredibilmente delizioso» e che dopo aver spopolato su Instagram oggi sta colonizzando la ristorazione. Il perché è semplice e lo spie50— Zeta
ga Daniele Seidita, proprietario del D2: «Prima facevamo cucina tradizionale, come tutti qui, e lavoricchiavamo. Poi, nel 2020 abbiamo aggiunto il food porn e in una stagione abbiamo decuplicato i guadagni. Abbiamo capito che quando la gente viene bombardata sui social da queste immagini finisce per desiderare solo quello, le cose vastase». Cioè grasse, grosse e peccaminose. Come il loro panino più venduto: «Doppio hamburger, salsa, doppio cheddar fuso, un disco di cheddar impanato e fritto, e pane ricoperto da altro formaggio e bacon». Meglio non fare il bagno dopo. Il D2 è solo uno degli esempi dei ristoranti che, ogni giorno di più negli ultimi due anni, stanno portando le tendenze food porn dagli schermi alla tavola. Un altro esempio fortunato è quello di Golocius, una catena creata da due influencer del mondo del cibo che in tre anni ha aperto venti ristoranti. Ma le iniziative abbondano in tutta Italia. «Il format ha successo e i ristoratori non fanno altro che buttare benzina sul
E attenzione a dormire sugli allori (o sugli incassi): come i trend cambiano alla velocità della luce, così fanno anche le voglie dei consumatori e alla ristorazione social verrà chiesto di adattarsi. «Adesso tutti sbavano per le colate di pistacchio. Ma la Nutella te la ricordi? Tre anni fa spaccava, oggi non la vuole più nessuno», nota Di Cola. Dietro la cultura del food porn, però, c’è un «grande equivoco», secondo l’esperta gastronomica Eleonora Cozzella. «Cibi come l’hamburger, ormai il simbolo di questa categoria, hanno cambiato la percezione del termine. Oggi dire food porn fa pensare a qualcosa di negativo, di gastronomicamente sconcio. Al cibo spazzatura, per intenderci, ma in origine questo termine si riferiva all’arte di fotografare bei piatti, l’abbandonarsi alla seduzione del cibo». ■
propri prodotti che il rosso frizzante è alla base della loro alimentazione. «Il Lambrusco è buono freddo anche se è rosso, urliamolo, è buono freddo» esulta Carlo. Che sia nelle sue migliori declinazioni di rosa, nei dolci violacei che rivela il grasparossa o nei bianchi così puri e trasparenti, si beve fresco. Il più chiaro di tutti si chiama Puro ed è prodotto da una grande riserva di Sorbara vinificata in bianco. «Si toglie il colore che risiede nelle bucce così che quando si schiaccia il frutto senza pelle, la bevanda alcolica diventa bianca, leggermente giallina» Il Lambrusco è un vino molto riconoscibile, deve tutta la sua fama a essere il re fra i rossi con le bolle. Questa tecnica di produzione, riesce a ingannare il consumatore che non avrà indizi cromatici all’interno del bicchiere di cristallo.
Bianco, rosso, viola l’amore nel bicchiere Nel modenese la grande tradizione del Lambrusco, il vino frizzante dell’Emilia Romagna ENOLOGIA
di Caterina Di Terlizzi
«C’è un Lambrusco per ogni colore, da quello più scuro, viola, quasi tendente al nero fino al bianco, che può essere confuso con qualsiasi altra bollicina proveniente da un altro territorio». È dal suo ufficio a Sorbara, piccola frazione nel modenese, che Carlo Cavicchioli, vinicoltore da oltre quattro generazioni, racconta la storia di come viene prodotto il colore di uno dei vini più importanti d’Italia.
grande amico della famiglia Cavicchioli. La vivacità del vino rosso frizzante, che si ritrova spesso nel carattere di chi lo produce, fa quasi credere che il vitigno del lambrusco sia pensante. La sua duttilità non è arrendevolezza all’intervento dell’uomo, ma sembra più uno scambio di idee fra l’enologo e il grappolo. «Parlando di vicini di vigna. L’uva è pressoché la stessa, i vini sono simili, rifermentati entrambi in bottiglia, ma all’assaggio, nonostante nascano dallo stesso frutto e nello stesso territorio, sono molto diversi. Io avrò una tinta rubino molto carica e lui magari un rosa più tendente al cipria» spiega Carlo all’interno del suo regno di Sorbara. I modenesi sono così legati ai
Il più scuro è il Robanera, un elegante uvaggio di Grasparossa, Sorbara e Salamino (questo salamino non si affetta ma è una varietà di Lambrusco), tanto viola già dalla schiuma e tanto nero nel bicchiere, porta un nome dedicato a Coco Chanel e al suo famoso abito robe noir, il tubino nero senza maniche adatto a tutte le occasioni proprio come il lambrusco. Infinite le gradazioni di colore in un vino che con il suo delicato tasso alcolico piace universalmente anche per la sua leggerezza. «15 gradi e mezzo difficilmente dissetano invece questo funziona come dissetante» racconta a zeta Griffignani. La cromia del Vigna del Cristo è il colore madre, un Sorbara al cento per cento ottenuto da uve dell’omonimo vigneto in località Cristo, il suo color rosa divino, rosso morbido, trasparente d’aspetto e di carattere lo fanno preferire al primo assaggio. Carlo Cavicchioli e la sua famiglia elegantemente frizzante rimarranno «per sempre dei sorbaristi» preferendo l’acidità al fruttato grasparossa. Regalando momenti di gioia e di bellezza il lambrusco con i suoi colorati rossi frizzati rimane simbolo di italianità. ■
La tintura del vino si trasforma, rendendosi malleabile. È poliedrico e le varietà rendono appetibile qualsiasi scenario «Non solo il lambrusco funziona con il mondo e gli abbinamenti delle cose grasse: prosciutto, mortadella, cotechino, zampone, tortellini, ma risalta anche l’universo delle cose verdi, come l’insalata mista, che diventa buonissima». Spiega il parmense Andrea Grignaffini, docente di enogastronomia, membro del comitato scientifico della scuola di cucina Alma, critico enogastronomico e Zeta — 51
La Guida di Zeta a cura di Silvia Pollice
Blu come il mare verde come la montagna Che sia una passeggiata ad alta quota nei boschi o un’immersione nelle sfumature di azzurro marino, ciò che rende speciale una vacanza è soprattutto il significato legato ai luoghi che si scelgono di visitare
Favignana Tre amiche in sella alla loro bici a noleggio fanno il giro dell’isola, visitando le calette più incontaminate che la contraddistinguono. Non è la trama di un film, ma uno dei modi per conoscere la regina delle Egadi e riempirsi gli occhi delle mille sfumature di azzurro, che rendono uniche le sue acque cristalline. Oltre che per la famosa Cala Rossa, difficilmente balneabile per le forti correnti marine, e la rocciosa Cala del Bue Marino, Favignana è nota anche per il suo pregiato tonno rosso, sul quale la famiglia Florio costruì il suo impero tra il XIX e il XX secolo.
Lago di Scanno Letteralmente il cuore dei verdi Monti Marsicani, ciò che rende unico il lago aquilano è la sua forma, visibile soltanto da un punto esatto del Sentiero del cuore, un percorso lungo circa 2 km che sovrasta in parte lo specchio d’acqua. Ma i più temerari possono alzare l’asticella, facendo il giro completo (che dura circa 7 km) e arrivando al Santuario della Madonna del Lago, che si affaccia sulla sponda sudoccidentale. 52 — Zeta
Sentiero degli dèi Si narra che Ulisse, dopo essersi fatto legare all’albero della sua nave per ascoltare il canto delle sirene senza caderne vittima, sia stato salvato dagli dèi giunti dall’Olimpo all’arcipelago Li Galli percorrendo questo sentiero. Oggi il suo nome è dovuto soprattutto all’esperienza mozzafiato che offre: un percorso da trekking di circa tre ore, che da Bomerano bussa alle porte di Positano, raggiungibile scendendo i 1.500 scalini che conducono dritti al suo cuore. Dall’inizio alla fine, con una vista a strapiombo sul mare.
Rocca Calascio Da castello medievale diroccato, con un’altitudine di circa 1.400 metri (che lo rende uno dei più elevati d’Europa), a set cinematografico: oltre ad essere uno dei simboli dell’Abruzzo, la fortezza ha fatto da sfondo ad alcuni film cult italiani ed internazionali, come Lady Hawke (1985), Il nome della rosa (1986), La piovra 7 (1995), Il viaggio della sposa (1997) e The American (2010).
Costa dei Trabocchi «La macchina pareva di vivere di una vita propria, aveva un'aria e un'effige di corpo animato» scriveva Gabriele D’Annunzio nel suo Trionfo della morte, celebrando le doti del trabocco, una struttura simile ad una palafitta con cui i pescatori si assicuravano ricchi bottini senza dover affrontare i pericoli del mare in tempesta. Oggi trasformati perlopiù in ristoranti, venticinque trabocchi affollano questo particolare tratto di costa abruzzese, dove si alternano stabilimenti balneari a spiaggette segrete e intime. Ma all’azzurro incontaminato del mare si affianca la via verde, una pista ciclopedonale che si estende per 40 km, collegando nove comuni diversi da Francavilla al Mare a Vasto.
Blockhaus Anche se le origini germaniche del suo nome possono trarre in inganno, questa cima fa parte del massiccio abruzzese della Majella, dove gli occhi si perdono cercando di rintracciare le sue mille sinuosità. Si dice che, tra il 1863 e il 1867, ospitasse un fortino di legno e pietra sfruttato da un comandante austriaco per respingere le incursioni dei briganti della “Banda della Majella”, che saccheggiavano i villaggi circostanti. Del loro passaggio si trova traccia ancora oggi sulla Tavola dei briganti, una serie di rocce calcaree con delle incisioni effettuate dai banditi durante il periodo post-Unità d’Italia. Ma al monte è legata anche un’altra tradizione più moderna, iniziata nel 1967: quella di essere stata, finora per sette volte, una delle tappe più dure del Giro d’Italia. Zeta — 53
Parole e immagini di Ludovica Esposito
LIBRO
Wicked
Gregory Maguire Mondadori 2022 468 pagine 22 euro
Un nuovo film sul mago di Oz è in programma per Natale 2023, primo di due – il secondo in arrivo un anno dopo – che traspongono sul grande schermo il musical di Broadway Wicked. The Untold Story of the Witches of Oz per il suo ventesimo anniversario. Nel 1939, Il mago di Oz portò al cinema una versione con canzoni del classico di L. Frank Baum e fu un successo (si aggiudicò l’Oscar per miglior colonna sonora e per miglior canzone). Questa nuova pellicola non prova a sostituirlo, ma si basa sul musical del 2003, a sua volta tratto dal romanzo di Gregory Maguire, Wicked. Vita e opere della perfida strega dell’Ovest. Una delle tendenze che sta prendendo piede nel panorama letterario è rielaborare narrazioni classiche riabilitando il cattivo. Maguire lo fece nel 1995, raccontando la celebre storia de Il meraviglioso
mago di Oz del 1900 dal punto di vista della nemica di Dorothy, la malvagia strega dell’Ovest. Il libro segue Elfaba dalla nascita alla morte, ma non è lei l’unica narratrice, né la principale. L’autore preferisce far parlare personaggi secondari e raccontare le loro vite e la loro visione della strega verde. Se, da un lato, questo permette di avere numerosi punti di vista e approfondire più aspetti dell’Oz oscura e adulta creata da Maguire, dall’altro, rallenta la narrazione perché il lettore vuole arrivare al tornado e non perdersi in sottotrame. Dorothy compare in scena solo nelle ultime pagine, l’autore si concentra su quello che accade prima, creando anticipazione per il celebre scontro finale, che poi viene liquidato in pochi concitati paragrafi. La storia originale non è riproposta tutta, il lettore
sa che sta accadendo, ma i momenti salienti che si vedono sulla pagina sono un paio. Non mancano, però, i rimandi all’intera saga di Oz che rendono necessario conoscere la fonte per capire questo libro. L’avventura di Dorothy Gale è una storia per bambini, questa versione è, invece, una rielaborazione per grandi sotto molti aspetti. Ci sono situazioni più adulte ed esplicite, ma anche i temi narrati sono più maturi. Nell’opera originale di Baum il Mago si rivela un imbroglione, ma è una situazione quasi comica, per i bambini. Qui, invece, Maguire rende davvero evidenti le profonde e terribili conseguenze che il suo inganno ha avuto sulla terra di Oz. La critica al razzismo è prevalente, ma anche il femminismo è trattato. L’aspetto è molto importante, eppure lo stile dell’autore offre poco spazio alle descrizioni fisiche dei personaggi e ne lascia tanto alla filosofia e ai pensieri. La protagonista è discriminata per la tonalità
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verde dell’incarnato e per essere donna, questo la porta a compiere scelte che la rendono la cattiva della situazione e spingono il lettore a porsi la fatidica domanda “si nasce malvagi o lo si diventa?”. Elfaba era segnata dalla nascita per il colore della sua pelle, oppure è stata l’assenza dell’amore della famiglia che l’ha resa perfida? Gli eventi sono tutti esposti e ognuno può giungere alla propria conclusione. Il libro era già stato pubblicato in italiano nel 2006 con il titolo Strega. Cronache dal Regno di Oz in rivolta da Sonzogno. Nel 2022 arriva in una nuova veste per la collana Oscar Fantastica di Mondadori, nell’edizione celebrativa illustrata con una postfazione dell’autore. A questo, autoconclusivo, sono seguiti altri tre libri dopo il successo del musical: Son of a Witch, del 2005, è dedicato al cast di Broadway. Chiudono la tetralogia The Wicked Years i volumi A Lion Among Men del 2008 e Out of Oz del 2011.
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