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Consumo di carburante di Jeep® Avenger Autonomia benzina l/100 km: 5,6; emissioni CO2 g/km: 127-126. Valori definiti in base al ciclo combinato WLTP, misurati dal costruttore nelle prove di pre-approvazione e che possono essere soggetti a modifiche dopo l’omologazione finale. Importante: il consumo effettivo di carburante e i valori delle emissioni di CO2possono essere diversi e possono variare a seconda delle condizioni d’uso e di vari fattori quali: equipaggiamenti opzionali, temperatura ambiente, stile di guida, velocità, peso totale del veicolo, uso di sistemi del veicolo, aria condizionata, riscaldamento, radio, navigazione, luci, tipi e condizioni di pneumatici, condizioni stradali, condizioni climatiche esterne, ecc. Jeep® è un marchio registrato di FCA US LLC.
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Alessandro Mauro RossiSulla copertina di questo primo numero della nuova serie de L’Espresso, Oliviero Toscani ha ritratto la mano di Adélia Chitula Moura, una ragazza angolana di 30 anni, di cui 20 passati in Italia, dove fa la geometra. È dipinta di bianco nel segno dell’integrazione. L’indice e il medio, colorati di rosso e di verde, formano il segno della vittoria. Vince non solo chi è più bravo o più forte ma anche chi è più tenace, più intelligente, chi non si arrende. È l’immagine degli italiani. Infatti il titolo è “L’Italia di domani”. L’insieme disegna quello che vorremmo fosse, e che in parte sarà per forza di cose, il nostro Paese: multietnico,
Nuovo, coraggioso, visionario. Che il futuro sia con noi
accogliente, vincente, resiliente, tollerante, che guarda al futuro. Il nostro tempo ci dice che dobbiamo impegnarci per la difesa del genere umano: dalle guerre, dalle pandemie, dai cambiamenti climatici, dalle dittature, dalle cattiverie, dallo sfruttamento del lavoro, dalle diseguaglianze. Contemporaneamente guardare avanti per sostenere i protagonisti dell’Italia migliore, di un mondo migliore. L’Espresso continuerà ad essere, orgogliosamente, il giornale che difende gli ultimi, ma saprà anche dare spazio ai primi, a coloro che costruiscono futuro e speranza per il nostro Paese.
Il giornale cambierà, rispetto a quello che siete stati abituati a leggere negli ultimi anni. Fisicamente si vedrà subito: il formato è più grande, la carta, ecologica e certificata, più spessa, il procedimento di stampa, da Rotocalco a Rotooffset, più amico dell’ambiente. Resterà invece intatta l’a-
Resterà intatta l’anima de L’Espresso: combattiva, progressista, laica, indagatrice
nima de L’Espresso: combattiva, progressista, laica, indagatrice. Lo spettro però si allargherà al mondo della produzione, alle tendenze culturali e sociali, alle donne che lavorano, ai giovani più intraprendenti, coinvolgendo sempre di più la gente comune, i protagonisti della vita quotidiana. Mostrerà ai lettori quello che altri non vogliono far vedere. Avrà un occhio speciale verso la scuola, l’Università, il pubblico impiego, i diritti, l’ambiente, ma anche la tecnologia, le startup e la space economy, vere scommesse sul futuro.
In avvio di giornale una gallery fotografica documenterà il nostro tempo. Poi “Prima pagina” con il servizio di copertina. A seguire torneranno le sezioni, in piena sintonia, con il “Settimanale di politica, economia, cultura”. Insisteremo con le inchieste: non a caso un campione come Sergio Rizzo sarà a fianco dei nostri giornalisti più curiosi e irriverenti. Aumenteranno i commentatori: da Maurizio Costanzo a Carlo Cottarelli, da Ray Banhoff a Francesca Barra, da Massimo Cacciari a Nicolas Ballario, da Claudia Sorlini a Virman Cusenza a tanti altri, con nuove rubriche anche meno scontate come quelle dedicate agli animali domestici, al vino di Luca Gardini, il miglior “palato” al mondo, alla tavola con Andrea Grignaffini, questi ultimi due curatori delle Nuove Guide de L’Espresso.
Aumenteremo anche la presenza sul digitale con sempre più articoli, servizi e opinioni sul sito in attesa del lancio del grande Progetto Multimediale a cui stiamo lavorando da tempo in mezzo a mille complessità dovute alla tecnologia che vogliamo proprietaria e alla straordinarietà del prodotto che coinvolgerà i lettori e li renderà protagonisti. Insomma L’Espresso sarà uguale e differente, coraggioso e visionario, rivoluzionato e rivoluzionario. Che il futuro sia con noi.
P.S. Un ringraziamento speciale a Lirio Abbate. Questo progetto è in parte anche suo.Il titolo di questa nuova rubrica descrive un atteggiamento troppo comune nel discutere temi economico-politici. Dal canto mio mi impegno a considerarli nel modo più oggettivo possibile (nessuno è perfetto!), nonostante la mia attuale presenza parlamentare.
Siamo all’inizio dell’anno, e quindi mi butto nelle previsioni, sperando che i lettori siano tanto clementi nel valutarle ex post quanto lo sono con gli oroscopi. Servono per dare un messaggio sul presente più che per predire il futuro. Cominciamo.
Crescita economica: il governo dice che il
Previsioni per il 2023 Speriamo bene
Pil crescerà dello 0,6%, più della Commissione Europea (0,4%) e del Fondo Monetario Internazionale (-0,2%). Io penso che lo 0,6 sia ragionevole; anzi, potremmo crescere anche di più. La Bce sta stringendo la politica monetaria solo gradualmente e la legge di bilancio, seppure più stretta degli ultimi anni, non lo è in modo drammatico. Incognita principale: l’Ucraina. Io assumo che la situazione non porti a ulteriori shock economico-politici. Se questo avvenisse, salta ogni previsione.
Dipendenza dall’Europa: in caso di shock, continuiamo a dipendere dai finanziamenti europei (Ue e Bce). Purtroppo è così e il governo dovrà tenerne conto. Teniamoci buoni, allora, la Francia. Ci potrà servire.
Inflazione: abbiamo finito il 2022 con l’inflazione a 2 cifre. L’inflazione scenderà, anche per il calo dei prezzi delle
Inflazione e conti pubblici le principali incognite. Possiamo cavarcela, salvo nuovi shock
materie prime in corso da metà 2022. Ma il volano dell’inflazione ha una notevole inerzia e la Bce resterà prudente nel combatterla. Scordiamoci di scendere al 2% quest’anno. Più probabile qualcosa intorno al 5-6%.
Tassi di interesse: la Bce sarà pur prudente nell’aumentare i tassi, ma li aumenterà. Un tasso di riferimento del 2,5% per la Bce resta basso rispetto all’inflazione e salirà nel 2023. Mi aspetto arrivi almeno al 3 e mezzo per cento a metà anno.
Politica di bilancio: i soldi stanziati per caro energia bastano solo fino a marzo. Se i prezzi dell’energia non scendono rapidamente, serviranno più soldi. Il governo prolungherà gli aiuti ma, a meno di nuovi shock, li ridurrà visti i vincoli di bilancio. Se non bastano le risorse che potranno derivare da un maggiore inflazione, uno scostamento di bilancio potrebbe essere necessario. Ma la Ragioneria Generale dello Stato di solito mantiene un po’ di riserve nascoste (sottostima entrate, sovrastima spese) per cui fino a metà anno uno scostamento potrebbe non servire. Poi si vedrà.
Politiche economiche di governo: le due questioni principali sono la riforma del fisco e l’autonomia differenziata. Per la prima penso che il governo troverà una certa unità al suo interno, ma incontrerà una forte opposizione parlamentare. Visti i numeri, temo che alla fine l’avrà vinta. Per la seconda, credo sarà più complicato trovare l’accordo anche all’interno del governo, per non parlare dell’opposizione in Parlamento. Prevedo tensioni, ma alla fine il governo terrà. La riforma Mes sarà approvata con una risoluzione, votata dalla maggioranza, che impegna il governo a non usare il Mes mai e poi mai. Promessa che non sarà rotta solo se il governo farà in modo che l’Italia non si trovi mai nella condizione di doverlo usare. Speriamo.
Gianluca è un ragazzo schizofrenico. Anna, sua madre, non si arrende allo stigma sociale a cui è destinato. Non sa dove, ma deve pur esistere, da qualche parte, un’occasione per lui. Per sentirsi meno invisibile, per inserirsi in un contesto confortevole. Per vivere senza spavento. Quella speranza ha un nome: Dario D’ambrosi, un temerario che ha fondato trent’anni fa il Teatro Patologico, nato per accendere una fiamma nella vita di ragazzi con gravi problemi psichici, emarginati dalla società e che invece, in quel Teatro all’avanguardia a Roma, diventano attori sfidando ogni limite immaginabile.
L’esperienza romana del Teatro Patologico che da trent’anni aiuta i ragazzi con disagi psichici
così motivata. Finalmente quella che fino ad allora sembrava solo una grave malattia, assume altri contorni.
Anna e suo figlio iniziano così questo percorso insieme. Si tengono per mano come fossero avvitati in quella piccola immensa sfida e si guardano negli occhi, si riconoscono. Gianluca non ha più crisi schizofreniche, segue sua mamma come fosse un neonato che si affida alle sue cure.
È da lui che arriva Gianluca anche se quell’esperimento si rivela fin dai primi tentativi un fallimento: a lezione di teatro si strappa la pelle, diventa violento creando scompiglio, frena i progressi degli altri studenti. Dario è un resistente e trova una soluzione perché per lui sarebbe troppo semplice mollare i casi più ingestibili e così propone ad Anna non di ritirare suo figlio, ma di iscriversi al corso con lui. Per convincerla riesce perfino a farle avere i permessi per assentarsi dallo studio dove lavora: gli avvocati non restano indifferenti alla richiesta di una persona
Il Teatro Patologico, in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e il Miur, è anche il Primo Corso Universitario al Mondo di “Teatro Integrato dell’Emozione”, si rivolge a tutte quelle persone con disabilità che non vedono riconosciuto il loro diritto allo studio. Le lezioni riguardano diverse discipline: dalla musica alla danza, dalla scrittura di un testo alla sua interpretazione, dalla pittura alla creazione di oggetti scenici, scenografie.
Durante lo spettacolo finale gli avvocati dello studio dove lavora sono schierati in prima fila commossi e Anna confessa: «Avevo messo al mondo mio figlio, ma non lo conoscevo davvero: ora ho capito che sono sua madre». Come Paolo, che non sapeva cosa fosse il pianto, prima di esprimersi su quel palco riuscendo a interpretare Ulisse: «Il teatro mi ha curato». O come Marina che si sente «libera nella follia». Ha sofferto di disturbo bipolare, paranoia, disturbo schizoaffettivo. È stata perfino arrestata: un caso cosiddetto senza speranza. Oggi, con la compagnia teatrale, sente di non essere più sola. Questo è il teatro patologico: un trampolino che restituisce bellezza con un tuffo nella libertà e nella comprensione. «Quando mi portano i figli spesso sono in stato catatonico, i genitori sono distrutti dal dolore, non dormono la notte, ma questo palcoscenico ha prodotto una luce che rientra nelle case», mi dice Dario, un rivoluzionario che ha riconosciuto il loro potenziale e li ha saputi vedere davvero, in una società che li emargina e li tratta come “rifiuti umani”, dimenticandosi di loro nelle emergenze (come durante il lockdown) e nei loro piccoli grandi progressi: riconoscerli vorrebbe dire restituire loro la dignità di una vita complessa, ma meritevole di attenzione, di cure, di amore. Come le nostre. Dario ha restituito loro la dignità del diritto di esistere. Sarà per questo che oggi indossano con orgoglio e un pizzico di sarcasmo una maglietta con una scritta che fa a pezzi un pregiudizio: «Io sono un po’ matto e tu?».
Il diritto di esistere anche se sei “un po’ matto”
Le Feste sono da poco finite e apprendiamo che molti in Italia, anzi gran parte della popolazione, non riescono a sopportare le feste come dire comandate. Sembrerebbe che solo il 42% ama il Natale e il 58 restante non lo sopporta. Studiando, studiando si scopre che in realtà la lunga, e diciamo improvvisa, convivenza con la famiglia è quella che crea turbamento e antipatia per le feste. È però un bene che questo malessere diciamo così tende a sparire o a nascondersi e appena smontiamo l’albero e mettiamo in cantina le luci tutto questo passa. Credetemi: più ci penso e più non capisco per quale motivo succe-
Follie quotidiane dovute alla nuova insofferenza
da tutto ciò. Non riesco a capire che fastidio possa dare l’albero di Natale ammesso che qualcuno in famiglia abbia voluto legittimamente farlo. In passato era più complicato perché in alcune abitazioni si costruivano dei presepi che occupavano mezza stanza. Lì bisognava aspettare l’arrivo della stella cometa per cominciare lentamente a smontare tutto.
La mia sensazione è che con gli anni, per motivi che non conosco, le insopportazioni e le insofferenze siano aumentate. Leggo infatti che una donna di Roma di 40 anni è finita a processo per aver picchiato la figlia diciottenne. Mentre menava la figlia, questa, diciamo madre, ha detto: «Tu sei invidiosa del mio seno e del mio sedere». Davanti ai giudici la ragazza, la figlia della picchiatrice, ha detto che una volta non era potuta andare a scuola per colpa di un occhio viola: c’era stato un intervento della
Fastidio per il Natale. La madre che picchia la figlia “invidiosa”. Tutto lavoro per gli psicologi
madre. E la stessa madre in un’altra occasione le aveva lanciato addosso un phon. Il giudice ha fatto il suo lavoro e ha scoperto i precedenti di quando cioè questa donna, eccessivamente risoluta, aveva lanciato un bicchiere contro la nonna.
Casi d’insofferenza come quelli che leggo, protestano contro Fiorello che conduce tutti i giorni alle 7:15 del mattino, da un pullman vicino a Via Asiago, a Roma, una sua trasmissione che peraltro ha molto successo. Capisco che la quiete pubblica può essere disturbata, però il programma dura un tot poi finisce e c’è silenzio. Talvolta può essere anche piacevole, almeno per me sarebbe così, svegliarsi con Fiorello e le sue gags e le sue canzoni. Una persona ha detto: «Alle 6:30 del mattino ho aperto la finestra e c’era Raf che cantava dentro casa mia». Mi sembra esagerato, forse Raf aveva scambiato la casa di questo signore con il pullman di Fiorello. C’è anche chi sostiene che il pullman all’interno del quale agisce Fiorello oscura il cartello che impone la svolta a destra. La cosa mi fa sorridere, attenti come siamo ai cartelli che c’impongono la svolta a destra, di rallentare perché ci sono le strisce o di fermarsi ad uno stop.
È un momento che ci si occupa molto degli stati d’animo delle persone. Forse perché veniamo dalle Feste, motivo comunque di stress. Sembrerebbe che sono sempre di più gli italiani che si rivolgono agli psicologi. Non sarà piuttosto che andare da uno psicologo è un modo per togliersi dal problema e passare alla soluzione del medesimo?
Io avrei mandato dallo psicologo un imprenditore valdostano di 66 anni che il giorno di Natale telefonò al figlio dicendogli: «Mi hanno rapito». La verità è che l’uomo si era bevuto l’impossibile e in quel momento si trovava in un locale di Biella e continuava a festeggiare qualcosa che nemmeno lui sapeva. Non so come abbia reagito il figlio e come abbia reagito lui quando il figlio è arrivato a togliergli il fiasco di mano.
Perché non potevo non esserci, perché mi ci hanno gettato, perché qualcuno mi ha partorito, perché poi volevo esserci io, perché gli altri lo vedessero, che io c’ero stato, perché esserci è importante, perché esserci non serve a niente, perché c’eri anche tu, e anche lei, e anche altri otto miliardi di persone, io c’ero perché mi hanno invitato, perché non mi hanno invitato ma mi ci sono imbucato, perché ho sbagliato portone,perchéhosbagliatobiglietto,perchéhosbagliato fermata, perché ho sbagliato pianeta, perché
non c’era niente di meglio da fare, perché un corpo da qualche parte lo devi pur appoggiare, perché tanto con la testa ero da tutt’altra parte, perché non sapevo dove nascondermi, perché mi sono nascosto in un sistema solare nel Braccio di Orione, perché mi sono nascosto in un anno a caso, perché gli altri posti erano occupati, perché sono bello, perché altrimenti non sapevo come campare, io c’ero perché ti amo, perché mi ci hanno deportato, perché hanno bombardato il ponte e allora dove potevo scappare, perché mi hanno distrutto la casa, perché ho perso le gambe, perché non riuscivo più a muovermi, perché mi ci hanno rinchiuso, perché non trovavo riparo, perché ormai cagavo sangue, perché ero morto, perché ero famoso, io c’ero e non ho fatto nulla, perché avevo altro da fare, perché mica puoi cambiare il mondo, perché mica puoi cambiare la storia, perché mica puoi cambiare camicia, perché gli accordi erano questi, io c’ero perché volevo provare, perché sennò gli altri mi prendevano in giro, per lamentarmi, per mettermi in posa, per autocelebrarmi, per ricordarmi, perché dopo tutto era un bel posto, perché gli altri non li lasciavano entrare, perché l’universo è il privé del nulla, perché ha insistito il fotografo, perché ha insistito lei, perché ha insistito il ministro, perché mi hanno pagato, perché sono il migliore, perché a mamma faceva piacere, perché io sono diverso, perché io valgo, perché io compro, perché Dio mi ha messo al mondo, perché non avevo il coraggio di non esserci più. In fondo non c’è nessun perché, e basta, e anche tu.
Il mondo che abbiamo creato è il risultato del nostro pensiero. Non possiamo cambiarlo senza cambiare il nostro modo di pensare.
Definire è limitare.
Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza.
La ragione non è nulla senza l’immaginazione.
EDITORIALE
Siamo tutti dei visitatori di questo tempo e di questo luogo. Siamo solo di passaggio.
Il nostro compito qui è di osservare, imparare, crescere e amare...
Poi facciamo ritorno a casa.
A cento giorni dal giuramento, l’identità più forte del governo Meloni è il dietrofront: dai rave alle accise, dai Pos alle pensioni
L’aumento dei prezzi energetici si è fermato. Riparte la speranza che il 2023 vedrà l’uscita dall’emergenza infinita
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Incentivi per smaltire le cause arretrate. Formalmente scomparsi, gli arbitrati sono tornati. Opera di una lobby vicina al potere
numero 2 - anno 69 - 15 gennaio 2023
Il presidente Usa ha adottato una politica di spesa che ricorda il New
che
Verdi. Sostenibili. In prima linea nell’impegno per l’ambiente. I musei del futuro non sono solo contenitori di bellezza
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VIA DALLA PAZZA CRISI
L’aumento dei prezzi energetici si è fermato. Riparte la speranza che il 2023 vedrà l’uscita dall’emergenza infinita dovuta a pandemia e guerra. Ma soprattutto per le famiglie meno abbienti i sacrifici da sopportare saranno ancora pesanti
PRIMA PAGINA L’ITALIA DI DOMANI
VITTORIO MALAGUTTI
023, fuga dalla permacrisi. L’Italia cerca una via d’uscita per lasciarsi alle spalle il tempo dell’emergenza infinita. Pandemia, guerra, inflazione, disastri naturali: un guaio dopo l’altro in rapida successione. Anni segnati da un’incertezza che sembra non finire mai. A tal punto che nel vocabolario ha trovato posto un neologismo, permacrisi, che indica «un periodo esteso di instabilità e insicurezza», spiega la Treccani. Certo, il peggio potrebbe sembrare ormai alle spalle, almeno a voler credere ai listini azionari che dopo mesi di Quaresima, nei giorni scorsi hanno festeggiato il nuovo anno con un filotto di rialzi.
ALIMENTARI
Un mercato rionale di Milano. L’aumento dei prezzi alimentari ha colpito soprattutto i più poveri
L’ottimismo dei mercati si fonda su alcuni dati positivi. Uno su tutti: il calo dei prezzi dell’energia e delle materie prime in generale. Questi numeri, però, sembrano più che altro destinati a giustificare qualche speculazione in Borsa. Giusto un mordi e fuggi. Troppo poco per cantare vittoria in un contesto che resta comunque tutt’altro che rassicurante. Inutile illudersi. «La fiammata dell’inflazione non si esaurirà nel giro di qualche mese. I tassi d’interesse resteranno ancora a lungo sugli stessi livelli di queste ultime settimane», prevede Gianluca Garbi, amministratore delegato di Banca Sistema. La sfida si gioca su tempi più lunghi e non ci sono scorciatoie per la ripresa, perché «il sistema Paese è alla ricerca di equilibri nuovi», riassume Alessandro Valerii, direttore generale del Censis l’istituto di ricerca che nel suo ultimo rapporto, appena pubblicato, ha descritto un’Italia incerta e spaventata di fronte alla tempesta di questi anni. «L’uscita dalla crisi ci consegnerà un mondo molto diverso da quello che nell’inverno del 2020 si è infilato nel tunnel della pandemia», spiega Valerii.
Il tempo dei tassi d’interesse a zero, della liquidità abbondante, dei prezzi stabili è finito per sempre. L’Italia si avvia faticosamente verso una nuova normalità, ma intanto sono soprattutto le famiglie a sopportare il peso maggiore della transizione verso il mondo che verrà. Mentre le aziende possono scaricare sui clienti l’aumen-
to dei costi di produzione, nel 2022 spesa e bollette hanno assorbito mese dopo mese una fetta sempre maggiore di salari e stipendi. In difficoltà sono soprattutto i lavoratori dipendenti che vedono crescere il costo della vita mentre la busta paga rimane invariata o subisce solo piccoli ritocchi al rialzo. Del resto, le retribuzioni sono ferme da tempo. Tra il 2007 e il 2020 - ha calcolato l’Istat - i compensi medi dei lavoratori dipendenti sono diminuiti, in termini reali, del 10 per cento.
Adesso, però, la perdita di potere d’acquisto è molto più accentuata rispetto al decennio precedente, quando l’inflazione è rimasta a lungo vicina allo zero. Va detto che negli ultimi due anni, le misure a sostegno dei redditi varate dai governi hanno attutito gli effetti dei rincari sui consumatori. L’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) ha calcolato che tra giugno 2021 e dicem-
Il Paese sta faticosamente cercando nuovi equilibri. Il tempo dei tassi d’interesse a zero, della liquidità abbondante, dei prezzi stabili è finito per sempre
bre 2022 l’incremento dei prezzi ha fatto salire la spesa delle famiglie del 5,4 per cento. Senza le politiche pubbliche di sostegno l’aumento sarebbe arrivato al 9 per cento. Dentro questa media statistica, però, le cose cambiano molto in base al reddito delle famiglie. La fascia di popolazione più povera (primo decile) ha dovuto far fronte a rincari del 15 per cento, mentre all’estremo opposto le famiglie con reddito più elevato hanno subìto un impatto non superiore al 6,8 per cento. Il paracadute di bonus e aiuti vari ha impedito che la forbice delle disuguaglianze si allargasse ancora: secondo l’analisi dell’Upb, la spesa è aumentata del 4,8 per cento per i meno abbienti contro il 5 per cento dei più ricchi.
I dati appena citati riguardano il passato prossimo. Sul futuro, invece, le previsioni di governo, Banca d’Italia e analisti vari concordano almeno su un punto. I prezzi
dell’energia, anche se in netto calo rispetto ai picchi dell’estate scorsa, sono destinati a restare elevati ancora a lungo e l’inflazione si muoverà di conseguenza. L’istituto di ricerca Prometeia stima per quest’anno un’inflazione non inferiore al 5,8 per cento, in discesa rispetto all’8,1 per cento medio registrato dall’Istat per il 2022, ma comunque ancora molto lontano da quel 2 per cento che è il livello giudicato ottimale per l’economia dalle banche centrali.
I prezzi, quindi, continueranno anche quest’anno la loro corsa al rialzo alimentando una spirale negativa che porta a un calo dei consumi, come prevede l’ultimo bollettino economico di Bankitalia. Messi alle corde dall’aumento del costo della vita, milioni di italiani dovranno metter mano al proprio tesoretto in banca. «Si ridurrà la propensione al risparmio - scrivono gli esperti di via Nazionale - scendendo
sotto alla media pre-pandemia». Questa tendenza è già evidente dai dati sugli ultimi mesi dell’anno scorso. Tra il 2020 e il 2021, in una fase di grande incertezza, le famiglie hanno preferito rinviare gli acquisti di beni non indispensabili e così una quota maggiore di reddito è stata accantonata in vista di possibili ulteriori difficoltà future. E infatti i depositi bancari sono aumentati dai 1.536 miliardi del gennaio 2020, poco prima dell’esplosione del Covid, fino al record di 1.859 miliardi del dicembre 2021.
Poi il clima cambia. Arriva l’alta marea dell’inflazione e aumentano i prezzi, anche quelli dei prodotti essenziali (luce, gas, cibo, abiti). Per far fronte ai rincari, quindi, nei mesi scor-
si un numero sempre maggiore di italiani non ha potuto fare altro che prelevare una parte della liquidità lasciata sul conto corrente. A illustrare questa inversione di rotta sono le statistiche dell’Abi, l’Associazione bancaria italiana. In novembre, ultimo dato disponibile, il denaro contante custodito per conto della clientela privata nei forzieri degli istituti di credito, era già sceso a 1.818 miliardi.
Ovviamente non tutti i correntisti hanno reagito allo stesso modo all’aumento del costo della vita. Per le famiglie più ricche, quelle che impiegano solo una quota marginale del reddito per l’acquisto dei beni di prima necessità, il risparmio non è un problema neppure in tempi di inflazione a due cifre. I money manager delle banche notano semmai quella che definiscono «una maggiore polarizzazione» tra le diverse fasce della clientela: aumenta
Per far fronte all’aumento delle spese gli italiani fanno ricorso ai risparmi accumulati nel periodo del Covid. Dopo due anni di crescita ora i conti correnti bancari cominciano a diminuire
MERCATI
Il New York Stock Exchange. L’incertezza domina i mercati azionari come quelli obbligazionari
RIPRESA IN DUBBIO BORSE INCERTE
La grande finanza ha perso la bussola. Dopo un decennio di listini azionari in rialzo costante, l’anno scorso la bolla è infine scoppiata. Tempi e modi dell’attesa inversione di rotta hanno però disorientato analisti e gestori di patrimoni. «La vera sorpresa è stata la velocità del ritorno a uno scenario di mercato normale, dopo anni in cui l’abbondante liquidità pompata dalle banche centrali aveva aperto una stagione anomala e per certi versi irripetibile, quella dei tassi a zero o sotto zero», commenta Alessandro Foti, amministratore delegato di FinecoBank. Nessuno si aspettava, però, che al crollo delle Borse si sommasse la gelata del mercato obbligazionario, innescata dalla stretta monetaria decisa dalle banche centrali a partire dalla primavera scorsa nel tentativo di arginare il ritorno dell’inflazione. «Chi era alla ricerca di un porto sicuro per mettere al riparo dalla tempesta il proprio patrimonio non lo ha certo trovato rifugiandosi tra titoli di stato e bond di aziende private», riassume Salvatore Bruno, responsabile investimenti di Generali Investments Partners. Anzi, nei portafogli dei risparmiatori, alle perdite nel reddito fisso si sono aggiunte quelle delle azioni. Un evento senza precedenti nell’ultimo secolo. Tanto che adesso, reduci da un viaggio in una terra incognita, gli analisti faticano a disegnare i prossimi scenari.
Sono due i fattori chiave a cui gli investitori guardano per immaginare la traiettoria dei mercati. Da una parte va considerato l’andamento dell’inflazione, da cui dipendono le decisioni delle banche centrali. L’altra incognita riguarda il rischio una nuova recessione che incombe sull’economia europea e americana.
Sull’evoluzione dei prezzi la forbice delle previsioni è ampia. Deutsche Bank, nel suo ultimo report, vede un’inflazione media nel 2023 ancora al 6 per cento nell’area Euro, mentre secondo Goldman Sachs l’aumento del costo della vita si fermerà al 5 per cento quest’anno, per poi planare al 3 per cento nel 2024.
I dati di dicembre resi noti nei giorni scorsi ali-
mentano le speranze di una ripresa, con la crescita dei prezzi che fa segnare una prima frenata rispetto a novembre nei maggiori Paesi Ue. Nell’Eurozona, l’inflazione nell’ultimo mese del 2022 si è assestata al 9,2 per cento, contro il 10,2 per cento di novembre e il 10,6 per cento fatto segnare a ottobre. Il trend delle ultime settimane sembra destinato a proseguire grazie anche a un’ulteriore riduzione dei costi dell’energia. È questo lo scenario su cui scommettono gli ottimisti, che vedono una Bce pronta a ridurre o addirittura a cancellare i rialzi dei tassi già annunciati per febbraio e marzo. Per l’economia questa sarebbe una buona notizia, perché diventerebbe meno probabile una recessione innescata da un ulteriore forte aumento del costo del denaro. La previsione quasi unanime degli analisti vede però i rendimenti delle obbligazioni rimanere ancora per mesi su livelli molto vicini a quelli attuali. «C’è spazio - spiega Bruno di Generali Investments - per impostare strategie d’investimento che puntano sulle cedole dei titoli a reddito fisso, che resteranno ancora a lungo molto convenienti per i risparmiatori». È il caso dei Btp, che a febbraio 2022 rendevano meno dell’1,5 per cento nella scadenza decennale e ora sono stabilmente oltre quota 4 per cento. «E infatti - conferma Foti - in questi ultimi mesi abbiamo registrato forti flussi di risparmio della clientela verso il reddito fisso». Sull’azionario, invece, la maggioranza degli analisti si dichiara ancora molto prudente. Tutti i principali listini partono dai forti ribassi del 2022, ma la rimonta non è affatto scontata, come prevede, per esempio, la banca d’affari Jp Morgan nell’outlook per il 2023 appena pubblicato. L’andamento prossimo venturo delle Borse è ancora condizionato dal rischio recessione. Per questo motivo è preferibile un approccio «molto prudente», consiglia l’ultimo rapporto dell’istituto francese Bnp-Paribas. Se non altro perché, questa la spiegazione degli analisti dell’istituto transalpino, le stime di utile diffuse dalle aziende appaiono fin troppo ottimistiche rispetto alle attese di una crescita economica debole o nulla nell’area dell’Euro. In altre parole, non è ancora tempo di rialzi, almeno fino a quando le nubi della recessione non si saranno diradate del tutto. (V.M.)
L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA
CHE GIOVA AI PIÙ RICCHI
Per il governatore del Veneto Luca Zaia l’autonomia differenziata è un’arma di difesa. Ogni giorno deve accettare le dimissioni di insegnanti pronti a migrare nella vicina Regione a statuto speciale Friuli Venezia Giulia, che paga i docenti quanto vuole. E assiste allo stillicidio di medici, pronti a trasferirsi nel confinante Trentino-Alto Adige, altro territorio autonomo che può decidere quanto retribuire il personale. Nel 2017 il Comune di Sappada ha salutato tutti e ha chiesto l’annessione al Friuli e c’è la fila di comuni di frontiera che gradirebbero fare altrettanto. Zaia, in qualche modo, si deve pur difendere. Come? Chiedendo a Roma più libertà. «E io Zaia lo capisco», dice da Bari l’economista Gianfranco Viesti, esperto meridionalista, già autore di “Verso la secessione dei ricchi?” e presto nuovamente in libreria, sempre con Laterza,
con il libro “Contro la secessione dei ricchi”, per rallentare il passo verso quell’autonomia differenziata a cui punta il ministro per gli Affari regionali, Roberto Calderoli. Il leghista e promotore del disegno di legge intende portare a casa entro l’anno la riforma per liberare Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, ma anche Piemonte, Liguria, Puglia e Campania – tante le Regioni che hanno avanzato una richiesta di autonomia –dai lacci dei palazzi romani.
I primi a puntare i piedi in tal senso sono stati nel 2017 i veneti con un referendum dall’esito plebiscitario, per chiedere a Roma di lasciare sul territorio soldi e competenze in tutti i campi: scuola, sanità, infrastrutture, energia, cultura, ambiente, gestione della cassa integrazione, previdenza integrativa e molto altro ancora. «Il Veneto leghista ha compiuto un’iniziativa politica rivendicando pieni poteri, seguito dalla Lombardia, anch’essa leghista. Più ambigua la posizione dell’Emilia: a parole il governatore Stefano Bonaccini non parla di finanza, ma nei fatti condivide le richieste di Zaia e Fontana. Ma cosa succederebbe se l’intero
la distanza tra i meno abbienti e i ceti più agiati. Questi ultimi, anche nel 2023, non dovranno fare altro che cambiare le loro strategie d’investimento per adattarle al nuovo scenario, con i tassi d’interesse in velocissima ascesa.
Nel frattempo, però, rischia di aumentare ancora la fascia di popolazione che fatica a riempire il carrello della spesa. Tra il 2020 e il 2021 il numero di cittadini in condizioni di povertà assoluta ha raggiunto il massimo storico per l’Italia: circa 5,6 milioni di persone, secondo i calcoli dell’Istat. L’anno scorso, come detto, le misure varate dal governo, a partire da quelle sulle bollette, hanno evitato che la situazione precipitasse. Giorgia Meloni, che nell’ottobre scorso ha preso il posto di Mario Draghi a Palazzo Chigi, ha proseguito sulla stessa linea del suo predecessore. Gli interventi a sostegno di famiglie e imprese sono stati rinnovati anche nella legge di bilan-
cio per il 2023 e valgono quasi i due terzi dell’intera manovra: 21 miliardi su 34 complessivi. Bonus e sgravi fiscali però scadono a marzo. Dopo il primo trimestre dell’anno si vedrà che fare. Se i prezzi dell’energia resteranno sui livelli attuali, per l’esecutivo sarà politicamente molto rischioso chiudere il rubinetto degli aiuti. Il contraccolpo in termini di consenso potrebbe rivelarsi pesantissimo, come dimostra la tempesta che si è scatenata nei giorni scorsi dopo la reintroduzione delle accise su gasolio e benzina. Un provvedimento previsto da tempo, già messo in calendario ai tempi di Draghi, che però è diventato un boomerang per la coalizione di maggioranza, costretta difendersi dalle accuse di non essere in grado di contrastare le manovre degli speculatori.
universo delle politiche pubbliche venisse frammentato?», si chiede Viesti. Circa un centinaio di dossier passerebbe dalla competenza nazionale a quella regionale, con parallela migrazione di funzionari dalla capitale ai capoluoghi locali: «L’articolo 5 del ddl Calderoli sull’autonomia differenziata parla della necessità di trasferire alle Regioni non solo le risorse, ma anche le funzioni amministrative», racconta Paolo Balduzzi, professore di Scienza delle Finanze all’Università Cattolica, che nel 2018 è stato consulente tecnico per la Presidenza del Consiglio al tavolo di trattativa con le Regioni per la stesura delle intese di autonomia differenziata con Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Balduzzi ricorda: «Le Regioni erano più interessate a ereditare le competenze amministrative, anziché quelle legislative. Chiedevano per sé la possibilità di occuparsi dell’esecuzione pratica delle leggi. Con relativo spostamento di funzionari pubblici da Roma. È chiaro che una simile richiesta è concretizzabile solo se ci si concentra su poteri specifici. Per esempio, era del tutto comprensibile la richiesta dell’Emilia Romagna di
trattenere sul territorio la competenza di programmazione dei curriculum formativi delle scuole superiori, che viene dall’esigenza del distretto automotive di avere giovani con specifiche competenze». Balduzzi, invece, esclude la fattibilità di un massiccio progetto federalista, perché significherebbe spostare la competenza di centinaia di dossier nelle mani di singole Regioni. «Il progetto è sostenibile laddove i governatori richiedono quattro o cinque competenze specifiche, mentre esigere il 90 per cento delle risorse, come ha fatto il Veneto, segna una falsa partenza per l’autonomia differenziata, che si scontra con le rivendicazioni dei territori più fragili», commenta.
L’autonomia potrebbe persino diventare controproducente per le Regioni del Nord. Per esempio, la Liguria ha chiesto per sé la gestione delle reti di trasporto e relativi pedaggi. Ora, siamo sicuri che una simile scelta andrebbe a vantaggio delle molte imprese esportatrici del lombardo-veneto che, probabilmente, pagheranno di più l’accesso al porto di Genova? Del resto la Liguria deve finanziarli i propri servizi pubblici, se
Gli aiuti per le bollette scadranno alla fine di marzo. Se dovessero essere prorogati si stima un costo di 20 miliardi. E il Tesoro dovrà piazzare sul mercato 515 miliardi di titoli pubblici, un record
Riesce difficile immaginare, quindi, che a primavera con le bollette ancora ai massimi, il governo decida di lasciar mano libera al mercato. «A marzo, se sarà necessario, saranno introdotte nuove misure di sostegno ai redditi», ha promesso il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti qualche settimana fa, mentre presentava la manovra economica. La correzione in corsa, però, costerà cara. Nell’ipotesi che gli aiuti vengano prorogati per un altro trimestre, i nuovi oneri a carico del bilancio dello Stato potrebbero superare i 20 miliardi. Nei piani della maggioranza per finanziare queste spese supplementari «saranno utilizzate prioritariamente eventuali entrate aggiuntive e risparmi di spesa che si manifestassero nei primi mesi dell’anno». L’uso del termine «prioritariamente» non è casuale: serve a non escludere l’eventualità che, se necessario, si faccia ricorso a nuovo deficit. La spe-
Il ddl Calderoli
sa pubblica già approvata per quest’anno sfiora i 1.200 miliardi di euro, il 35 per cento in più rispetto al 2019, prima della pandemia. È vero che l’inflazione, riducendo il valore reale della moneta, finisce per favorire il debitore. Resta il fatto, però, che quest’anno l’Italia dovrà piazzare sul mercato circa 515 miliardi di titoli pubblici, un record storico. E dovrà riuscirci senza l’aiuto della Bce, che nel recente passato ha finito per assorbire una quota rilevante dei nostri Btp. Il rischio spread incombe, con i tassi che potrebbero prendere il volo. Problemi vecchi, in attesa del mondo nuovo.
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con l’autonomia differenziata si riducono i finanziamenti dallo Stato. «Se Veneto, Lombardia ed Emilia dovessero trattenere per sé la gran parte dei contributi, la ragioneria centrale dovrebbe segnare un ammanco di 190 miliardi e questo vorrebbe dire accrescere il divario fra Nord e Sud. Se anche dovesse passare una linea più morbida come quella dell’Emilia, l’ammanco sarebbe comunque di 120 miliardi», calcola l’economista Andrea Del Monaco, esperto di Fondi europei.
Calderoli, all’articolo 3 del suo ddl, prevede che per prima cosa il Parlamento determini i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, ovvero i diritti civili e sociali di ciascun cittadino. Peccato che i Lep siano in gestazione da oltre vent’anni e ancora non si è arrivati a una conclusione. Una precisazione doverosa, quella di Calderoli, ma smentita poco dopo nel suo stesso testo dalla possibilità che, se il Parlamento nel giro di un anno non riesce a definire i Lep (evento alquanto probabile), allora l’intesa si poggerà sulla spesa storica. La Regione potrà trattenere tanti quattrini quanti ne ha ricevuti negli anni passati. E qui si apre il fronte delle
perplessità dei meridionalisti, visto che storicamente il Sud riceve quattromila euro in meno per ciascun cittadino rispetto al Nord, con il rischio di istituzionalizzare questa ingiustizia.
Ma perché una Regione del Sud dovrebbe caldeggiare una simile riforma? «L’accentramento di maggiore potere nelle mani delle classi dirigenti regionali è una manna dal cielo», risponde ancora Viesti, che invita a rimettere al centro del discorso politico e parlamentare la priorità dei Lep, i livelli minimi di cittadinanza da garantire a tutti i Comuni. Viesti non nasconde le difficoltà: «Raggiungerli è complesso, ma non impossibile. L’unico esperimento di concretizzazione dei livelli essenziali riguarda il diritto dei bambini ad avere un posto in un asilo nido. Con i soldi del Pnrr saranno create le mura dei nuovi nidi, mentre grazie alle analisi di Alberto Zanardi, presidente della commissione tecnica per i fabbisogni standard, dallo scorso anno è stato creato un fondo aggiuntivo in legge di bilancio che assegna a ciascun Comune tanti soldi quanti ne servono per raggiungere il livello es-
senziale di posti al nido, ovvero uno ogni tre bambini». Così facendo, tra quattro anni tutte le madri e i padri d’Italia avranno grosso modo lo stesso diritto a un servizio di prima infanzia.
Viesti insiste nel mettere al centro il diritto dei cittadini, anziché le prerogative delle Regioni. Tanto più che, come mostrano i grafici di Openpolis, in molti ambiti le disuguaglianze non sono tra Nord e Sud, ma fra aree avanzate o meno di una stessa Regione. Ad esempio, sul diritto al tempo pieno nelle scuole di primo grado, non è vero che il Sud è meno avanzato del Nord. Dalla mappa emerge un’alta diffusione in Emilia, Lazio, Toscana, Basilicata, Calabria, una densità elevata attorno a Milano, ma il deserto in ampie aree di Lombardia e Piemonte. «Zaia lo capisco, ma trattenere il 90 per cento dei tributi è incostituzionale, perché è vero che l’articolo 116 comma 3 della Costituzione dice che le Regioni hanno il diritto di domandare maggiore autonomia, ma è altrettanto vero che l’articolo 53 dice che tutti i cittadini sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva».
L'aumento percentuale in valore della spesa pubblica prevista nel 2023 rispetto al 2019, prima della pandemia
5,6
MILIONI
Le persone in povertà assoluta rilevate dall'Istat nel 2021, al massimo storico
3,5
Percentuale di aumento medio dei salari nel settore privato secondo la Banca d'Italia nel triennio 2023-25
0,6
La percentuale di crescita del Pil italiano nel 2023 secondo le previsioni del governo
Percentuale di aumento medio dei prezzi nel 2023 previsto dalla Banca d'Italia
7,3
Altro che costo Non c’è futuro senza migranti
Questo non è un tema da affrontare con argomenti sentimentali o retorici. Non c’entrano la solidarietà, la compassione, la giustizia. Anche, certo. Ma prima ancora c’entra la ragione. L’inserimento dei cittadini stranieri nella comunità italiana è interesse di tutti. Sono il motore di questo Paese. Inceppato per anni, da discussioni su porti chiusi, blocchi navali, possibilità di dare ai loro figli la cittadinanza.
Pagano in tasse più di quanto ricevano in assistenza. E il loro contributo pesa 9 punti di Pil. In un’Italia che invecchia sono una risorsa. Ma, per la prima volta, il numero di presenze è in calo
L’Italia multietnica e il suo valore non è teoria di sinistra ma un dato di fatto censito persino dal rapporto Ocse 2021 che ha evidenziato come «i migranti contribuiscono in tasse più di quanto ricevono in prestazioni assistenziali, salute e istruzione». Siamo un Paese di immigrazione, con oltre cinque milioni di stranieri residenti (Istat, 2020), in valore assoluto dopo la Germania (che ne ha oltre 10 milioni), il Regno Unito (con oltre 6 milioni) e con un numero di presenze analoghe a quelle francesi e spagnole. Per l’Italia il loro contributo all’economia vale quasi 144 miliardi, il 9 per cento del Pil che è tornato a crescere e così l’occupazione straniera. Il tasso di occupazione degli stranieri è oggi al 57,8 per cento, ancora leggermente inferiore rispetto a quello degli italiani (58,3 per cento). La maggior parte di questa “ricchezza” si concentra
nel settore dei servizi, ovvero il comparto che registra il maggior numero di occupati stranieri. Se, invece, osserviamo l’incidenza per settore, i valori più alti si registrano in agricoltura (17,9 per cento), ristorazione (16,9) ed edilizia (16,3).
A calcolare l’impatto del lavoro degli stranieri sull’economia italiana è la Fondazione Leone Moressa, nel Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione. Dalla salute alla scuola, dai servizi sociali all’assistenza, il rapporto calcola i “costi medi” della presenza straniera ovvero l’incidenza sulla spesa pubblica, e la confronta con il gettito fiscale e contributivo generato dagli immigrati. Dati che aiutano «a sfatare il luogo comune secondo cui la presenza immigrata in Italia sia principalmente un costo per lo Stato», spiega il ricercatore della Fondazione, Enrico Di Pasquale.
Il nostro è un Paese che sta morendo di vecchiaia. I piccoli centri sono sempre più spopolati, senza lavoro, le scuole chiudono. Gli stranieri in Italia, per la prima volta in vent’anni, sono in calo. Nessuno si ferma abbastanza per restare: hanno accesso limitato alle risorse del welfare e al riconoscimento sociale e politico. Per la propaganda rappresentano il centro di ogni problema. Ma il futuro dell’Italia non è immaginabile senza di loro. I dati si sviluppano come una fotografia in negativo sul saldo che riguarda cittadini giovani e anziani, che negli ultimi vent’anni si è ridotto di 4,6 milioni (da 23,8 a 19,2). Cioè sono sempre meno le persone tra i 20 e i 50 anni, quelle nella cosiddetta età per il mercato del lavoro. Un deficit che la presenza di stranieri ha compensato solo in parte, passando nello stesso periodo da 900 mila a 3 milioni.
Se apriamo lo sguardo non solo ai migranti in arrivo via mare e successivamente collocati nei centri di accoglienza in Italia (80 mila presenze a fine 2020), ma a tutti i residenti regolari con cittadinanza straniera (5,2 milioni di persone, di cui oltre 2,2 milioni di occupati) possiamo capire l’importanza della loro presenza vitale.
Gli stranieri non sono «un costo», come ripetuto durante la campagna elettorale. Alla sanità sono costati 6,1 miliardi di euro su 130 miliardi di spesa complessiva. Un’incidenza bassa che ha precise ragioni demografiche. Secondo il ministero della Salute la metà dei ricoveri in ospedale riguarda la popolazione con più di 65 anni, dove appena l’1,8 per cento è straniero. E così anche i ricoveri degli immigrati sono più brevi, riguardano i reparti di pronto soccorso e maternità.
I figli di stranieri nati nel nostro Pa-
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ese oggi sono quasi un milione. Nati e cresciuti in Italia ma con il Ghana, la Nigeria e la Somalia nei volti. Sono ragazzi che parlano con l’accento della città che abitano da sempre, che vanno a scuola - quando sono messi in condizione di andarci - coi nostri figli. Nelle classi superano ormai il 10 per cento (877mila nell’anno 2019-2020). Un beneficio per la sostenibilità di un sistema scolastico che altrimenti risentirebbe del calo demografico nazionale, il rapporto Moressa attribuisce alla presenza straniera 6 miliardi di euro di spesa sul totale di 58 miliardi. Inoltre nell’anno scolastico 2019/20 per la prima volta gli alunni stranieri iscritti al liceo superano quelli iscritti agli istituti professionali. Aumentano anche gli imprenditori immigrati, pari al 10 per cento del totale. In dieci anni (2011-21), gli immigrati sono cre-
sciuti (+31,6 per cento) mentre gli italiani sono diminuiti (-8,6 per cento). Incidenza più alta al Centro-Nord e nei settori di costruzioni, commercio e ristorazione.
L’immigrazione resta ai fatti una questione di risorse: l’Italia ha incassato dagli stranieri residenti 3,7 miliardi di Irpef, comprese addizionali comunali e regionali, su un volume di redditi dichiarato pari a 27,1 miliardi. Sulla base delle rilevazioni
Chiara Sgreccia Rifugiati
MINORI NON ACCOMPAGNATI CON IL VISTO PER STUDIARE
Gli occhi vispi, il sorriso e il fare disinvolto sono scomparsi da Moubarak. Non appena, seduto sul tavolo, con i piedi sopra la sedia, ha iniziato a raccontare: «Ho provato a attraversare il mare tre volte: dalla Libia verso l’Europa. Gli stessi a cui avevo dato i soldi per salire sul gommone ci hanno portato indietro. Non conoscevo nessuno a Misurata, anche trovare da mangiare era difficile, ancora di più un lavoro per guadagnare il necessario per un nuovo viaggio. Mi hanno picchiato tante volte», spiega mentre alza i pantaloni per mostrare i segni sulle caviglie. Poi la t-shirt per le cicatrici sui fianchi. Moubarak ha 18 anni, vive a Casa Aylan, una casa-famiglia a Piobesi Torinese, piccolo Comune della città metropolitana di Torino, in Piemonte. Gli piace molto, va a scuola e un paio di sere a settimana a basket, «non sono
sui consumi che indicano per gli immigrati una spesa prevalentemente di sussistenza, il rapporto calcola 3,2 miliardi di Iva, pari al 3 per cento di tutta quella riscossa in Italia. Altri 3,3 miliardi arrivano dalle altre imposte sui beni di consumo, dai tabacchi ai rifiuti, dall’auto al canone tv. Considerando poi che solo il 14 per cento degli stranieri ha una casa di proprietà, Imu, Tasi, Tari e imposte su luce e gas ammontano a 1,9 miliardi di gettito. Tra rilasci e rinnovi dei permessi di soggiorno (2,3 milioni) e acquisizioni di cittadinanza (131 mila
bravo però mi diverto», ride. Dice che quando è arrivato in aeroporto, a Torino, ha capito subito di essere in un luogo diverso da quelli che conosceva. L’ha visto dall’alto: dalle case, dalle strade. E dalle persone che l’hanno accolto. Quando è scappato aveva 15 anni, nel racconto alcune date si confondono ma è chiaro che ha provato un dolore terrificante che non lo lascia in pace. E si chiede dove abbia trovato la forza per andare avanti. Da solo. Dal Sudan, attraverso il Ciad, fino alla Libia.
Moubarak ha conosciuto il Paese da Sud a Nord, si è sentito come in prigione. E dopo un paio d’anni, ha capito che non è un luogo sicuro. Ha ripreso la strada per il Niger. Tanto non aveva una meta, non puntava all’Italia, neanche all’Europa, «volevo solo andar via. Il villaggio del Darfur da cui vengo, è soggetto a continui at-
nel 2020) gli immigrati pagano tasse per 200 milioni di euro. Sono una risorsa anche i contributi previdenziali e sociali versati dagli stranieri, che secondo il rapporto Inps 2022 valgono 15,9 miliardi. Tutto sommato, le entrate così calcolate ammontano a 28,2 miliardi, che a fronte di uscite per 26,8 miliardi di euro restituiscono un saldo positivo di 1,4 miliardi.
«Per tornare ai livelli occupazionali pre-Covid, l’Italia avrebbe bisogno di circa 534 mila lavoratori – scrive la Fondazione Moressa nel suo rapporto -. Consideran-
do l’attuale presenza straniera per settore, il fabbisogno di manodopera straniera sarebbe di circa 80 mila unità. La restante quota di lavoratori potrebbe arrivare valorizzando donne e giovani».
È comune l’equazione stranieri e assistenza familiare – le cosiddette badanti –ma è nella sanità che potrebbero giocare un ruolo fondamentale. Per capirlo basterebbe pensare all’anno conclusosi con l’arrivo a Cosenza dei primi 50 medici cubani che dovranno contribuire a sostenere il deficitario sistema sanitario della Ca-
tacchi delle bande armate. Quando arrivano devi fuggire nei boschi. Così un giorno sono scappato e basta».
SUI LIBRI
Moubarak, arrivato grazie a Pagelle in Tasca. Al centro, un altro rifugiato. A destra, tre giovani giunti in Italia con il corridoio umanitario
In Niger è arrivato al campo per rifugiati di Agadez, gestito da Unhcr e da Intersos, che accoglie migliaia di persone, tra cui centinaia di minori non accompagnati. Come chiarisce Elena Rozzi, responsabile Intersos del progetto Pagella in Tasca, «i minori non accompagnati sono uno dei gruppi più vulnerabili ma, un paradosso, sono esclusi dalla maggior parte dei corridoi umanitari e dei programmi di resettlement perché, giustamente, le norme nazionali e internazionali prevedono più tutele. Gli standard elevati richiesti per il trasferimento dei minori rendono complicato che avvenga». Così,
molti rimangono bloccati nei campi profughi o riprendono il viaggio da soli, senza tutele, spesso nelle mani dei trafficanti.
Secondo i dati Unicef nel 2020 erano 36,5 milioni i bambini con meno di 18 anni in fuga nel mondo. È il dato più alto fino a ora registrato, che non tiene conto della guerra in Ucraina. Molti di questi sono senza famiglia: il 76 per cento, ad esempio, di quelli che nel 2019 sono arrivati in Italia via mare. Per loro il rischio di violenza, abusi, sfruttamento, discriminazione è ancora più elevato. E anche di morire. Come si legge nel report dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, sono almeno 1.024 i bambini scomparsi nel tentativo di raggiungere l’Europa tra il 2014 e il
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labria. È una storia che retroillumina l’esercito invisibile di medici e infermieri presente nel nostro Paese, professionisti, già formati, nati e cresciuti in Italia, ma senza cittadinanza. E, dunque, impossibilitati a partecipare ai bandi pubblici degli ospedali. Secondo le stime di Amsi (Associazione medici stranieri in Italia) sono circa 77 mila, tra questi 38 mila sono in-
Rifugiati
IL LAVORO
Rifugiati impegnati in una campagna di volontariato per la pulizia straordinaria di Milano
fermieri e 22 mila medici. In particolare, secondo Amsi, negli ultimi anni un numero alto di professionisti sono arrivati dall’Est Europa ma non avendo ancora la cittadinanza italiana sono costretti a lavorare nel settore privato.
Dire no all’Italia multietnica è come opporsi al passare del tempo. I numeri che non conoscono eufemismi e mezzi toni ci dicono che il Paese crollerebbe precipitosamente, chiuderebbero le fabbriche, si bloccherebbero i cantieri edili. Certo, sono criteri di convenienza. I migranti non sono semplicemente forza lavoro. Prima, però, chi governa dovrebbe avere in mente dove stiamo andando e come possiamo salvarci. Mettendo ordine nel lavoro precario con salari adeguati, agevolando il riconoscimento dei cittadini che sono già italiani. Non è politica, è affrontare la realtà. Fare un muro per non vedere la direzione della storia non serve a nulla.
2022. Contribuendo a far sì che possa definirsi la destinazione più mortale per i migranti. Ecco perché, spiega Rozzi, «per tentare di superare il paradosso per cui i minori non accompagnati sono esclusi dai corridoi umanitari, Intersos ha promosso con Unhcr Pagella in Tasca». La prima sperimentazione per far entrare in Italia i minori non accompagnati grazie al visto per studio. Un canale di ingresso regolare e sicuro che considera il diritto allo studio una prerogativa di tutti, come è scritto nella Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.
Pagella inTasca si basa su una normaordinariache prevede il rilascio del visto a fronte di requisiti oggettivi e senza limitazioni di numero. È il risultato di un protocollo d’intesa che ha come firmatari, oltre al Comune di Torino e la cooperativa Terremondo, i ministeri degli Affari esteri, dell’Interno, del Lavoro e la Fondazione Migrantes. Per la prima volta sono state definite le procedure per gli ingressi di minori non accompagnati tra i 15 e i 17 anni attraverso il rilascio di un visto per studio non universi-
tario, previsto dal Testo unico sull’Immigrazione ma che non era stato utilizzato per l’ingresso di rifugiati. In questo modovengono accoltidallefamiglie affidatarie subito dopo l’arrivo, per favorire inclusione e integrazione. Così è andata per i primi cinque che sono arrivati nel 2021. Tra cui Moubarak che oggi vive a casa Aylan con quattro fratelli, ognuno di uno Stato diverso del mondo, e con Alice e Federico, i genitori affidatari. «Anche i quattro ragazzi che sono arrivati nel 2022 saranno accolti in famiglia», spiega Rozzi. «Li abbiamo conosciuti sempre nel campo di Agadez. Sono stati selezionati grazie all’impegno per lo studio: Mahjoub ha 17 anni e vuole fare l’ingegnere. Abdel, 17, studierà economia». Ma sono una goccia nel mare: a fronte di 6.290 minori non accompagnati entrati in Italia nei primi sei mesi del 2022, sono 35 quelli del progetto Intersos. Almeno finché non sarà strutturale. Un tentativo per assottigliare il numero di chi mette in pericolo la vita pur di allontanarsi dai luoghi in cui lascia famiglia e amici. Con il rischio di restare senza un posto da chiamare di nuovo casa.
Massimo Cacciari
C
oazione a ripetere: ogni nuovo leader esordisce da noi con qualche grande idea di riforma istituzionale. Oggi tocca ai disegni presidenzialistici della Destra al governo. Nulla di male (a prescindere dal velleitarismo di progetti di questa natura in assenza di partiti e coalizioni politiche degne di questo nome), se finalmente se ne parlasse in termini di sistema e sulla base di una seria riflessione storica e culturale. Non è serio, infatti, metter mano all’Esecutivo senza trasformare il Parlamento, e meno ancora pretendere di riformare Parlamento e Governo senza modificare coerentemente l’assetto di Regioni e Autonomie locali. Oggi convivono nelle proposte della stessa maggioranza due disegni assolutamente opposti: un’esaspera-
ta accentuazione delle tendenze centralistico-decisionistiche assieme a un disegno di puro e semplice rafforzamento finanziario delle Regioni più forti, che nulla ha a che vedere con la riforma dell’istituto regionale, pesante pietra al collo, così come oggi è organizzato, della nostra situazione finanziaria e della nostra macchina burocratico-amministrativa.
Ma, prima ancora, sarebbe necessario riflettere sul senso che si vuol dare a un pro-
gramma di riforma costituzionale. Credo che questo dovrebbe essere uno solo: reinventare la democrazia, che versa in tutta evidenza in uno stato di profonda crisi. È il titolo di un libro denso, importante, di Giuseppe Duso (Reinventare la democrazia, Angeli editore), che meriterebbe la fatica della lettura da parte dei nostri politici e anche dei loro elettori. Reinventare la democrazia potrebbe anche significare ricordarne l’originario significato: demos non è il popolo come nelle retoriche politiche attuali viene inteso, e cioè la “massa di tutti noi”. Popolo è una pluralità di parti e demos è quella parte dei cittadini formata dai meno abbienti, poveri o proprietari soltanto dei mezzi per vivere, della propria forza lavoro. Demo-
crazia è dunque quella forma di governo che è prioritariamente diretta a sostenere questa parte della popolazione, che assume come proprio compito fondamentale condurla a una uguaglianza di opportunità con le parti economicamente, e non solo, più forti. Abbiamo detto “governo”, e non “potere assoluto”; nessuna maggioranza che si eriga a “volontà generale”. Il governo democratico, se vuol durare, svolgerà la sua azione a favore del demos attraverso mediazioni e patti che preservino l’unità della nazione. E in coerenza con questa idea dovrà configurarsi la funzione del partito politico. Parte il partito, come parte è il demos. Senza partiti democratici in questo senso non vi sarà mai governo democratico. Ogni partito “tuttofare”
LA PRESIDENZA
Il palazzo del Quirinale, a Roma, dove risiede il presidente della Repubblica. Tra le riforme su cui punta maggiormente il governo, c’è l’introduzione del presidenzialismo
non reinventa la democrazia, ma ne aggrava la crisi.
Chiariti questi concetti fondamentali, Duso ci invita a proiettarli su scala europea. È evidente che questa è la sede dove si decideranno le sorti anche delle democrazie dei diversi Paesi. Come su scala nazionale il governo va inteso come accordo tra parti distinte (e distintamente rappresentate, conferendo il massimo rilievo al ruolo delle organizzazioni di sindacato e ai corpi intermedi), così occorre pensare a un governo europeo, sulla base di un patto tra entità politiche già costituite. Sciogliere queste ultime, o pensare semplicemente di indebolirle via via, per costituire un macro-Stato sul modello della vecchia sovranità statuale non è che cattiva utopia. Un governo europeo è necessario, non un Potere statuale europeo. Un governo democratico, capace di realizzare un foedus tra le parti che rappresenta, ma un foedus che mantiene fermo quel fine: sostenere prioritariamente il diritto del demos a condizioni di uguaglianza (che nulla ha a che vedere con un’astratta equity, già criticata da Marx nel Programma di Gotha!). Democrazia e federalismo si accordano in questa prospettiva.
Un partito sedicente democratico sta celebrando da noi il suo congresso. Che bello se parlasse di queste cose, se aprisse i suoi lavori discutendo del bel libro di Duso! Ma sono masturbazioni intellettuali, vero? Parliamo “concretamente” se è meglio far ritorno a Renzi o allearsi a Conte, o magari di chi ha più immagine tra la Schlein e il suo presidente di Regione, ultima gloriosa roccaforte del loro partito.
Il grande tema è come uscire dalla crisi delle istituzioni. Ma il Pd a congresso parla d’altro
Retromarcia su Roma
Sorpresa. A cento giorni dal giuramento, l’identità più forte del governo Meloni è il dietrofront: dai rave alle accise, dai Pos alle pensioni. Altro che pericolo fascista.
Impera il cerchiobottismo
LA PRIMA
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. È la prima donna a capo del governo in Italia
Sorpresa del nuovo anno. Si urlava al pericolo fascista, si va verso la deriva democristianoide. Si paventava il decisionismo, si naviga nell'indecisionismo. Invece dell'estremismo, è il cerchiobottismo che impera. Si temeva una nuova marcia su Roma, siamo invece al governo della retromarcia: dal decreto sui Rave alle accise sulla benzina, passando per pensioni, Pos e tentazioni di norme per l’«estinzione dei reati fiscali», insomma condoni. Perfino il famoso spoil system si sta rivelando, per citare Crosetto, un «machete» sì, ma avvolgente: per un dirigente sostituito ce ne è uno che invece viene confermato, e anche questa è una impronta. Forse aveva ragione Giorgia Meloni quando in campagna elettorale ripeteva che nulla ci sarebbe stato da temere circa il suo avvento al potere: nulla o, per meglio dire, da temere c’era semmai altro.
Tra una settimana il governo compie i suoi cento giorni - ha giurato il 22 ottobre 2022 - la presidente del Consiglio vede Papa Francesco e gli regala uno dei suoi angioletti, tesse alleanze europee con il presidente del Ppe Manfred Weber alla faccia del vicepremier Antonio Tajani (e di Berlusconi), finge di farsi piacere la presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen (che ricambia) e cerca di trovare una quadra per rimodulare un Pnrr che così come è non è applicabile - lo sa benissimo il ministro titolare del mastodonte, Raffaele Fitto.
Ma bisogna tornare a prima del voto, al tempo in cui Fratelli d’Italia era all’opposizione, per ascoltare una Giorgia Meloni che fa proclami. Si riprenda l’intervento nodale del 25 febbraio, quello dell’appoggio alla linea Draghi sulla guerra, quando diceva che la capacità di comunicazione del governo era pari a quella che poteva esserci «nella grotta di Bin Laden» e si conquistava la credibilità necessaria a governare scandendo parole chiare su Russia e Ucraina: «È tempo di una risposta compatta a una aggressione militare che non possiamo accettare».
Oppure, il 5 marzo 2022,quando proprio sui prezzi della benzina twittava: «Costi diventati insostenibili per i cittadini: il governo riduca subito accise e Iva e colpisca chi specula sul caro benzina». Riduca subito, diceva: il
GLI IMPEGNI
Meloni interviene in Senato. In basso, con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. A destra, con il presidente francese Emmanuel Macron
governo di prima l’ha realizzato, lei no.
In questi cento giorni infatti la potente voce di Meloni si è fatta sussurro, sibilo, nenia. È scesa di tono, come alla conferenza stampa di fine anno. Stremata, e contenuta. Niente più proclami. La premier ha diradato le conferenze stampa e intensificato i cosiddetti video del taccuino, dove racconta sui social quel che vuole, senza il fastidio delle domande. E le zampate di una volta si son fatte carezzevoli considerazioni, ammissioni di impotenza, quando non unghie sui vetri.
Esempio supremo di unghia sono le parole con cui Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla Presidenza e braccio destro, ha confermato a inizio settimana la bontà dell’eliminazione dello sconto sulla benzina introdotto da Draghi. Negando addirittura che si trattasse di una misura impopolare. Al contrario: «Una mossa direi popolare: quello sconto costava 10 miliardi e andava a van-
Con il ripristino delle tasse sui carburanti, contro le quali tuonava dall’opposizione, ha dovuto scontentare i suoi elettori. E per la prima volta i sondaggi registrano un calo dei consensi
taggio essenzialmente dei ceti più abbienti», ha detto a Libero. Parole già pronte per essere confezionate in manifesti e card da un’opposizione appena meno depressa di questa, per una misura che va peraltro anche contro un pezzo dell'elettorato della destra.
Meloni che urlava contro le accise alte, una volta al potere, ha confermato le accise alte: niente misure per fermare l’aumento dei prezzi, al massimo una specie di gogna per i benzinai. «È il populismo che mangia se stesso», ha scritto Francesco Bei su Repubblica. È il paradosso della promessa che non si può mantenere, della realtà che si vendica mentre sulla testa di Meloni si agita lo spettro dei gilet gialli, che protestavano contro il caro carburante in quella Francia con la quale sempre Melo ni, populisteggiando sui migranti, ha subi to devastato i rapporti. Forse si doveva ca pire tutto dal suo primo incontro con
Giorgia moments
L’agenda della premier
22 OTTOBRE 2022 IL GIURAMENTO
Dopo la vittoria alle elezioni, l’incarico e la formazione della squadra di governo, Giorgia Meloni giura di fronte al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: è la prima presidente del Consiglio donna nella storia repubblicana.
31 OTTOBRE 2022 IL DECRETO “RAVE”
Il Consiglio dei ministri approva il decreto legge “Rave”. Tra le norme che contiene, fa discutere l’introduzione del reato d’invasione di terreni o edifici per organizzare raduni pericolosi: i rave
Meloni partecipa al summit dei capi dei Paesi del G20, a Bali. È il suo primo vertice internazionale, dove si misura la freddezza con il presidente francese Emmanuel Macron.
29 DICEMBRE 2022 IL BILANCIO
Si conclude l’iter parlamentare della legge di Bilancio con l’approvazione a marce forzate (e con voto di fiducia) in Senato. Una manovra da 35 miliardi di euro.
9 FEBBRAIO 2023 IN EUROPA
Tra i prossimi appuntamenti che attendono Meloni c’è il Consiglio europeo di febbraio. Tra i temi, la gestione dei flussi migratori e il Pnrr. Gli stessi discussi con la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, a Roma.
Macron: subito dopo il passaggio della campanella, previa faticosa ricerca della location e scelta finale su terrazza d’albergoquasi da relazione clandestina -, foto venute male, sorrisi stiracchiati, da gufi, nella notte al neon.
È così che, giusto allo scoccare dei cento giorni, i sondaggisti registrano un primo zero virgola di calo del gradimento. «Questa destra è impreparata a governare e i suoi elettori hanno scoperto di essere impreparati alle delusioni della politica», è la mirabile sintesi del sociologo Giuseppe De Rita. Notevole, in effetti, la sequela di dietrofront. La cifra più significativa di questo governo. Quella di maggior impatto riguarda il tetto all’obbligo dei Pos, prima annunciato a 30 euro, poi salito a 60 e infine sparito per il pressing di Bruxelles. Ma l’andamento a retromarcia si poteva in effetti capire dalla prima misura varata in Consiglio dei ministri al suo esordio sostanziale, il 31 ottobre. Lì c’era il mitologico Decreto Rave che - un po’ come i decreti sicurezza per Salvini nei gialloverdi - conteneva l’essenza stessa del governo, la sua identità: una stretta fortissima su una materia del tutto priva di urgenza, visto peraltro che il Rave di Modena che aveva dato l'ispirazione era stato pacificamente disperso già prima che i ministri mettessero la penna sul foglio; una stretta che andava a braccetto con l’allargamento delle maglie per i no vax e la fine dell’obbligo vaccinale anticipata di tre mesi per i medici. Una norma, quella sui rave, frutto di estenuanti mediazioni nel governo e che poi è stata riscritta al Senato e svuotata di gran parte della sua capacità d’urto. Insomma alla fine il punto più significativo è la riforma dell’ergastolo ostativo, la vanificazione della cosiddetta Spazzacorrotti. Un esito assai diverso dalle intenzioni.
Non è andata diversamente per quel che riguarda il capitolo “lotta alle Ong”. C’è il ca-
pitombolo nei rapporti con la Francia, relazioni ancora strappate dal giorno di metà novembre in cui la Lega di Salvini, ma anche Fratelli d’Italia via palazzo Chigi, ha provato a fare propaganda sul sì di Macron ad accogliere alcuni migranti della Ocean Viking. Ma, in generale, la parabola è evidente: in quei giorni il governo ha provato a non far sbarcare i migranti, poi a stabilire criteri di selezione, per finire con l’arrendersi e far scendere tutti dalle navi. Poi, per recuperare, havarato un nuovo decreto sicurezza, che nei fatti complica assai lavita alle navi delle Ong, ma non scoraggia le partenze: nella prima settimana dalla sua entrata in vigore (dati del Viminale), sono sbarcate in Italia quasi 3800 persone, dieci volte in più rispetto allo stesso periodo 2022. E in nove casi su dieci continuano ad arrivare coi barchini indipendenti. Un esito piuttosto magro, anche se Meloni ne parla come di una «rivoluzione».
Il limite al Pos è sparito. E il decreto sbarchi complica la vita delle navi Ong, ma non riesce a fermare gli arrivi.
Che infatti sono aumentati di dieci volte rispetto a un anno fa
«Non mi pento di nulla», ha sospirato del resto la premier celebrando a Piazza del Popolo i dieci anni di FdI, come se l’azione del suo governo avesse scalato montagne, anziché topolini. È accaduto per la Finanziaria, ma anche per le mosse più sottili. Quella ad esempio attorno al delicato tema: portare oltre le ambiguità, di cui è sempre stata accusata, il rapporto col fascismo. Una manovra felpata che la premier ha condotto a dicembre, prima ricordando (il 13) i giornalisti romani espulsi dall’Ordine e vittime della repressione nazifascista, poi (il 19) partecipando all’accensione del candelabro per la festa dell’Hannukka nel Museo ebraico di Roma. Tutto vanificato sette giorni dopo (il 26), quando il presidente del Senato Ignazio La Russa ha voluto celebrare
A NOVEMBRE
La premier Meloni posa con i ministri del suo governo davanti alla facciata di Palazzo Chigi illuminata di rosso per la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne
Palazzi girevoliL’uomo in più del cerchietto
Giorgio ChigiIl cerchietto magico di Giorgia è sempre stato molto piccolo, si sa. Lollo e Fazzo (al secolo Lollobrigida e Fazzolari) si occupano il primo delle scelte di partito e il secondo delle scelte programmatiche, Patrizia Scurti invece è l’unico pivot dell’agenda del Presidente e decide tutto dall’orario del parrucchiere a quello dell’arrivo G20. Tutti gli altri sono compagni di avventura, di governo, di partito, di visioni politiche, ma sono fuori dal cerchietto. Ultimamente c’è però un nuovo pretendente che può ambire a entrare in “zona Giorgia”, è il consigliere diplomatico Luigi Ferrari che si occupa di G7 ma poi diventa centrale su tutte le questioni di visione di politica estera che il Presidente deve incamerare prima di fare incontri o prendere decisioni. Con buona pace dell’ambasciatore Francesco Talò, quello che ha l’incarico di consigliere diplomatico a Chigi ma svolge il suo ruolo più nella forma che nella sostanza. E il segreto di Ferrari che può aspirare a essere l’uomo in più nel piccolo cerchietto? Facile, suo padre era ambasciatore negli anni in cui anche il padre di Fazzolari era ambasciatore. Tutti e due missini, tutti e due amici.
la fondazione del Msi, «partito che si è posto in continuità ideologica e politica con la Rsi», ha rimarcato la presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni. Ovviamente, quando le è stata chiesta una posizione, Meloni ha difeso La Russa e il«ruolo del Msi nella storia della Repubblica». C’è da dire che in quel passaggio le è tornata una voce squillante. L’eco di quella che era da leader politica, ora sepolta dal tentativo di trovare una via capace di far scavallare al suo governo quei «due anni » di vita che pure un De Rita le misura addosso, «al massimo».
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Un eterno ritorno. Il tema del presidenzialismo riaffiora periodicamente lungo la storia politico-costituzionale del Novecento e, accanto alle dotte dissertazioni di dottrina, ha rappresentato per alcuni un modo per “sublimare” anche qualche inconfessabile manifestazione di antiparlamentarismo. Finora, per dirla con Shakespeare, si è trattato di «tanto rumore per nulla». Adesso, invece, potrebbero esserci le condizioni affinché si converta in una frattura reale e in un conflitto politico esplosivo. Perché Giorgia Meloni ha deciso di farne, al tempo stesso, uno strumento identitario-co-
Meloni leader
si costruisce sul presidenzialismo
municativo e un’«infrastruttura istituzionale» da abbinare alla sua idea di partito pigliatutto, cavalcando i sondaggi che indicano un’inclinazione dell’opinione pubblica in materia.
Il presidenzialismo ha una funzione identitaria sostanzialmente “a costo zero”, come gran parte delle proposte della premier alle prese con scarse risorse finanziarie. E, dunque, è un palese messaggio di tipo confermativo indirizzato all’elettorato di destra-destra più fedele. Il consueto «doppio registro» tipico delle destre neopopuliste (e anche, per certi versi, un’arma di distrazione di massa). Ma il presidenzialismo costituisce, altresì, un’infrastruttura istituzionale per un ulteriore target rilevante. In questo caso, sotto il profilo dell’organizzazione e della strutturazione partitica, dato che Meloni coltiva, difatti, il paradigma del doppio ruolo di capo di
partito e di governo. Il suo obiettivo, verosimilmente, è quello di rifondare l’offerta e il sistema dei partiti italiani, egemonizzando con una formazione unitaria quello che chiama da qualche tempo a questa parte, all’insegna di un revisionismo terminologico e lessicale, il «campo conservatore».
Un progetto rispetto a cui incontra ovvie resistenze da parte di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, e che prevede il fine secondario di riuscire quanto meno a stoppare la loro federazione. Il modello a cui la premier aspira è quello del “partito pigliatutto”, la “magnifica ossessione” pure di alcuni dei suoi predecessori a palazzo Chigi (e dintorni). E che si è tuttavia infranta contro la velocizzazione della politica postmoderna e la volatilità dell’elettorato. Il presidenzialismo si presenta, pertanto, come una ricetta volta proprio a scongiurare il rischio della leadership intermittente. I poteri maggiorati del leader si traducono anche in un rafforzamento del suo partito, il quale occupa tutto lo spazio politico e comunicativo possibile nella logica del gioco di sponda. Una maniera per stabilizzare e fissare l’elevato consenso attuale di FdI, tenendolo al riparo dal “pericolo della discontinuità”, sviluppandone appunto ulteriormente la piattaforma di partito pigliatutto, e facendone il partito-ombrello unitario o il partito di raccolta dell’intero destracentro.
Un’operazione evidentemente facilitata dal vuoto di iniziativa di un’opposizione che, anziché scegliere la strada della contrapposizione ideologica, rischiando di apparire pregiudiziale, dovrebbe innanzitutto chiedere a Meloni di “vedere le carte”. Ovvero di discutere su una proposta chiara: a cominciare dalla formula (presidenzialista, semi-presidenzialista o elezione diretta del primo ministro?), e con un’indicazione precisa di tutti i controlli e i contrappesi.
È una proposta identitaria per l’elettorato. Ma anche un modo per stabilire l’egemonia sugli alleati
L’inner circle alla lotteria delle nomine
Eccoci con la carovana di mediatori, lobbisti, sensali, gente informata, indottrinata, indaffarata, bignamini di politica industriale, di politica economica, di politica in purezza, retroscena, retrobottega, roba retrò, scarse novità. Benvenuti nella stagione delle nomine per le aziende controllate (partecipate) dallo Stato e per le strutture nevralgiche della Repubblica. È il momento che disvela cosa c’è sotto, sopra e attorno al governo di Giorgia Meloni e specialmente chi. Anche per le nomine non ci sono più le mezze stagioni e perciò la sua stagione – che scocca a marzo con la primavera – già si fa sentire. Un po’ fastidiosa come il polline di betulle e sequoie che gironzola a gennaio e inganna perché non s’accompagna al tepore, ma soltanto alle allergie. Stavolta c’è particolare apprensione che ben fa rima con confusione e tensione perché le scadenze si sovrappongono, decine di incarichi vanno assegnati in pochi mesi e i riferimenti classici nei partiti sono saltati. A gennaio si completano le agenzie fiscali, il rodaggio nei ministeri e il gruppo dei laici selezionato dai parlamentari per il Consiglio superiore della magistratura. A febbraio tocca al segretario generale del ministero degli Esteri. A marzo e aprile si preparano le liste per Eni, Enel, Poste, banca Mps, Leonardo e poi la rete ferroviaria con Rfi, la società Trenitalia, la centrale acquisti Consip e tante altre. A fine maggio va indicato il comandante generale della Guardia di Finanza.
La domanda più complicata viene soddisfatta dalla risposta più semplice. Chi decide le nomine? Giorgia Meloni, elementare. E per Giorgia Meloni si intende la presidente del Consiglio col supporto tecnico dei suoi principali collaboratori in materia di poltrone e di potere. Questo è un governo di coalizione anche se la coalizione, definita di centrodestra, è formata da un partito verticale, cioè Fratelli d’Italia, e due partiti scarmigliati, cioè Lega ex Nord e Forza Italia. I posti più delicati sono sottratti alle logiche di coalizione. Vuol dire che sugli amministratori delegati (ad) e le presidenze collegate, per esempio di Eni e Enel oppure di Poste e Leonardo, le aziende più grosse, non si tratta, non si spartisce. Dunque è scontato che leghisti e forzisti pretendano poi di avere spazio nei folti consigli di amministrazione e maggiore influenza per le società di livello inferiore.
Caputi istruisce, Fazzolari e Pugnalin suggeriscono, Meloni decide in asse con Giorgetti.
Niente vertici agli alleati, solo poltrone nei cda. Per i Servizi si arriva alla scadenza naturale
Nella stagione delle nomine è fondamentale conoscere lo stradario. Quali strade portano a Meloni. Quali a sperdersi in campagna. Quali nei vicoli ciechi. Il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari è unanimemente un accesso garantito a Meloni. Ha scelto per sé la competenza al programma di governo, una posizione all’apparenza defilata, e invece su ogni tema è il più ascoltato. Per un motivo più umano che squisitamente politico, un motivo che richiede più la ponderatezza del tempo che la lucentezza di una idea: la fiducia incondizionata. Siccome è diffidente di carattere, Meloni si circonda di persone di comprovata, da lei, fiducia. Come Patrizia Scurti, l’onnipresente assistente di Meloni, che ha ottenuto la stanza di Palazzo Chigi più prossima all’ufficio della presidente, quella con le bandiere e il balcone che affaccia sulla colonna aureliana (da lassù i Cinque Stelle per una not-
te abolirono la povertà). Quel luogo solitamente è riservato al capo di gabinetto, fu così per i presidenti Paolo Gentiloni e poi Mario Draghi con Antonio Funiciello, mentre con Giuseppe Conte c’era il comunicatore Rocco Casalino. Gaetano Caputi, il capo di gabinetto di Meloni, è sistemato altrove. L’ultima tappa di Caputi è stata al ministero del Turismo col leghista Garavaglia, ma la sua carriera di governo sgorga dalla fucina di Fortunato/Tremonti al ministero del Tesoro che precede il quadriennio da direttore generale di Consob, l’autorità che vigila sul mercato borsistico. Caputi ha trascorsi robusti per istruire le pratiche sulle nomine, però il filtro con la presidente è sempre Fazzolari. Fra i sussurranti di Meloni, categoria a cui ambiscono in parecchi (forse troppi), va segnalato Riccardo Pugnalin, astuto lobbista, scuola Fininvest, a lungo a Sky, un periodo a British American Tobacco, da un
MINISTRO
Giorgetti, Lega, ministro dell'Economia e delle Finanze
paio di anni a Vodafone. Il collante di Palazzo Chigi è Alfredo Mantovano, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio che si occupa anche di servizi segreti. Questo è il nucleooperativo sulle nominechedeve interagire con il Tesoro, l’azionista di fatto. Premessa: la coalizione di centrodestra e di conseguenza il governo sono sorretti dall’asse Meloni-Giorgetti. Il ministro leghista è l’argine agli eccessi di vari tipi e vari Salvini. Per il bilancio pubblico e quindi per le nomine di Stato. Il Tesoro di Giorgetti non avrà candidati da spingere, semmai obbrobri da respingere. Per esempio con un controllo più serrato soprattutto sui consiglieri e un ruolo più frazionato per le società di reclutamento, i cosiddetti cacciatori di teste, che per l’occasione saranno quattro (tra cui l’americana Spencer Stuart). Il triangolo si chiude sul Colle. Secondo una regola invalsa della Repubblica, che ha in Gianni Letta il suo massimo interprete, quando il contributo e la sorveglianza istituzionale del Quirinale non vengono esercitati sugli amministratori delegati, si esplicitano sui presidenti. È accaduto per Fincantieri. Lo scorso aprile il presidente Mario Draghi ha interrotto il ventennio di Giuseppe Bono (di recente scomparso) in Fincantieri con l’arrivo di Pierroberto Folgiero da Maire Tecnimont. C’erano resistenze politiche al cambio di Bono e c’erano altri papabili muniti di ampio consenso (Lorenzo Mariani di Mbda Italia, consorzio europeo costruttore di missili e tecnologie di difesa), ma Draghi era convinto che Folgiero fosse la figura
più adeguata a una cesura storica nella multinazionale della cantieristica navale militare e civile. Folgiero fu promosso col generale Claudio Graziano e certamente la decisione sulla presidenza fu gradita al Quirinale. In versione presidente, Meloni sfoggia la giusta sensibilità istituzionale per fissare un punto di equilibrio con il Colle. Il punto di equilibrio
Descalzi saldo in Eni, Starace (Enel) dovrebbe far posto a Cattaneo o a Donnarumma che guida Terna. Profumo (Leonardo) a Mariani. In Cdp Scannapieco al sicuro fino al 2024
o galateo istituzionale prevede che, tranne in rare circostanze, non ci siano variazione alla guida dei servizi segreti se non ci sono mandati che finiscono: al dipartimento che coordina le due agenzie operative c’è l’ambasciatrice Elisabetta Belloni (termine 2025), all’Aise c’è il generale Giovanni Caravelli (2026), all’Aisi c’è il generale Mario Parente (2024). Al riguardo non ci sono segnali diversi.
Ci si può esprimere con maggiore criterio su chi esce o resta e non su chi entra nelle aziende di Stato. Il confermato più acclamato è Claudio Descalzi di Eni: risolta con un’assoluzione la questione giudiziaria, l’ad ha gestito col governo Draghi la ricerca di fonti energetiche alternative al gas russo. La quarta nomina per Descalzi è sicura. Al contrario per Francesco Starace di Enel, che fu promosso assieme a Descalzi nel 2014, è sicuro che la quarta non ci sarà.
Ai saluti anche Alessandro Profumo di Leonardo. La coppia Enel e Leonardo sono ingranaggi fondamentali. Debiti e rinnovabili per Enel, occupazione e sviluppo per Leonardo. Le ipotesi sono numerose. Per Leonardo pare il turno del già citato Mariani. Per Enel ci sono papabili interni o papabili stranieri (come Flavio Cattaneo). Atterrato in Terna con i Cinque Stelle, l’ad Stefano Donnarumma ha conquistato Fratelli d’Italia e ha rafforzato le sue aspirazioni: possibile un salto a Enel, più probabile un bis nella società delle linee elettriche. Su Matteo Del Fante di Poste ci sono indiscrezioni positive, ma comunque contrastanti: potrebbe agguantare il terzo giro, andare a Enel o chissà dove. Si parla anche di Cassa Depositi e Prestiti ma la data di scadenza di Dario
Scannapieco è il 2024. L’economista ex vicepresidente della Banca europea per gli investimenti, rimpatriato con Draghi, ha buo-
ni contatti con Meloni (incontro a ridosso di Natale) e beneficia delle intercessioni del ministro Adolfo Urso e di Giuseppe Guzzetti, per vent’anni presidente delle fondazioni bancarie che sono azioniste di Cdp. Scannapieco può contare anche sul rispetto che Meloni nutre per Mario Draghi per questo non peserà, come ipotizza qualcuno, la vicenda sulla rete unica telefonica (Cassa ha il 9,81 per cento di Tim e il 60 di Open Fiber).
A febbraio l’ambasciatore Ettore Sequi lascerà l’incarico di segretario generale della Farnesina e sarà una valida soluzione per le nomine di primavera. Alla Farnesina ci sono pochi dubbi sull’ascesa dell’ambasciatore Armando Varricchio. Giovane (classe ’63) e stimato in maniera trasversale, il comandante generale Giuseppe Zafarana completa a maggio il quarto anno con quattro governi alla Gdf: è senz’altro un profilo adatto per posti liberi o che si possono liberare.
Dall’alto, in senso orario, Claudio Descalzi, Eni; Matteo Del Fante, Poste ltaliane; Francesco Starace, Enel; Alessandro Profumo, Leonardo
Abodi & Lotito carissimi nemici tra sport e affari
GIANFRANCESCO TURANO
Ripicche, dispetti, frecciate a mezzo stampa. I due ministri dello sport non si sono mai voluti bene. Ancor meno adesso che il ministro ufficiale, Andrea Abodi, si ritrova nella coalizione di governo il rivale di una vita, il senatore e ministro ombra Claudio Lotito, proprietario della Ss Lazio ossia il club per il quale Abodi tifa da sempre. Lotito, chissà. È vexata quaestio - inevitabile il latino se si parla del senatore forzista - un torbido passato romanista del patron biancoceleste. Transeat. Ma i due sono davvero troppo diversi. Elegante, quasi curiale, attento alla forma fisica, Abodi è un puro prodotto della Roma nord dei circoli e, nel caso di specie, di quel Canottieri Aniene portato da Giovanni Malagò ai vertici di un potere forse parvenu eppure reale, fatto di partitelle con Francesco Totti superstar o con il costruttore Luca Parnasi e celebrato dal grande torneo estivo, la Coppa dei circoli, dove nell’edizione 2022 Abodi figura come marcatore di due reti e sponsor attraverso l’Istituto di credito sportivo, banca pubblica da lui presieduta fino alla convocazione a palazzo Chigi.
Per raccontare Lotito, rappresentazione plastica della diffidenza verso l’attività sportiva, basta l’aneddoto su certe sue telefonate di qualche governo fa che si aprivano con la frase: «A Pi’, c’è ‘r zotto?», sintesi fulminea in romanesco di «buongiorno Pina, è in ufficio il sottosegretario?».
Nel derby del governo sportivo per adesso è in vantaggio Lotito, il lobbista asociale che comprò la Lazio sull’orlo del fallimento nel 2005 grazie a una rateizzazione in 23 anni delle pendenze fiscali di Sergio Cragnotti. Il massimo esperto mondiale di spalmature ha portato a casa un risultato simile con l’ultima manovra, la prima di Giorgia Meloni, che ha concesso ai club di calcio una dilazione in sessanta versamenti di oltre 1 miliardo di euro fra debiti Irpef, Inps e Iva non pagati durante la fase acuta della pandemia con una sanzione del 3 per cento, più o meno pari a un quarto del tasso di inflazione attuale.
Abodi, che su mandato di Giorgia Meloni era partito lancia in resta contro i privilegi al calcio in crisi, ha dovuto accettare la mossa imposta dalla presidente del Consi-
glio, romanista di cui si favoleggia un torbido passato laziale. Il messaggio della premier è chiaro: sfidare il tifo abbatte l’indice di gradimento. Quanto agli ultras sfasciatutto, quelli non sono veri tifosi, si sa.
Abodi si è adeguato. Uso a obbedir tacendo o parlando il meno possibile, l’ex direttore marketing di Img McCormack e cofondatore di Media partners può sembrare un ministro contro voglia, forse perché ha mancato alcuni traguardi molto desiderati da sei anni a questa parte. Nel marzo 2017, quando guidava la Lega di serie B, è stato bocciato come presidente della Federcalcio a vantaggio di Carlo Tavecchio, riconfermato. Nel marzo 2022 ha perso la corsa alla Lega di serie A contro Lorenzo Casini. In entrambi i casi, lo stop decisivo è arrivato dal proprietario della Lazio.
Ma per rimanere nel sistema così a lungo bisogna sapere incassare qualche rovescio. La prova della flessibilità di Abodi è stata proprio la sua accettazione della nomina a ministro. La ratio economica gli era sfavorevole. Da presidente dell’Ics, banca che sostiene sport e cultura, lo stipendio è di 190 mila euro all’anno. Da ministro si scende a 110 mila. Ma l’obiettivo di Abodi era la guida della Fondazione Milano-Cortina, dove l’emolumento annuale arriva a mezzo milione di euro. Quando si dava per fatta la nomina, Giorgia chiamò. E a Giorgia Abodi non può negare nulla. Il passato comune nelle giovanili del Msi, sebbene a distanza di una generazione, dice ancora poco sulla solidità di un rapporto dove il ministro ha confe-
Guerreggiano da tempo. Il ministro e la sua ingombrante ombra si ritrovano però alleati. E il patron della Lazio incassa una comoda rateizzazione dei debiti fiscali e previdenziali
POLITICA GIOCHI DI POTERE
Il
rito amicizie consolidate in decenni a tutto campo nello sport business. Due su tutte: il numero uno del Coni e membro del Cio Malagò e il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina.
Il terzetto ha nel mirino la conquista degli Europei del 2032. Entro il 12 aprile il governo Meloni dovrà presentare garanzie finanziarie per 2 miliardi di euro e mettersi al lavoro su un dossier che comprende undici candidature per dieci sedi. Fra queste, soltanto l’Allianz Stadium juventino e l’Unipol Domus di Cagliari sono già pronte. Altri nove impianti (Roma, Milano, Napoli, Bari, Firenze, Bologna, Genova, Palermo, Verona) vanno costruiti ex novo o massicciamente ristrutturati. Dopo il no all’abbattimento di San Siro da parte del sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi, il progetto lanciato dall’As Roma sull’area di Pietralata è tornato in testa alla classifica di fattibilità insieme al Franchi di Firenze, in parte finanziato con fondi del Pnrr, mentre la Lazio di Lotito rischia di restare ai margini della festa, con le tante incertezze che gravano sul rifacimento del Flaminio in stato di abbandono da anni e sottoposto a vincolo del ministero dei Beni culturali.
Inoltre, se Lotito può permettersi di focalizzarsi sul calcio, che è il suo core-business personale, Abodi ha un orizzonte molto più ampio e a scadenze quasi immediate. A parte la Ryder cup, uno dei maggiori tornei internazionali di golf che Roma ospiterà a fine settembre al circolo Marco Simone di Guidonia Montecelio con una dotazione da 77 milioni di euro per ammodernamenti infrastrutturali, c’è la colossale spada di Damocle delle Olimpiadi Milano-Cortina del 2026. Sui Giochi invernali il governo si gioca la faccia anche se parte a handicap per ritardi su quasi tutti i fronti.
La raccolta dei 575 milioni di euro in sponsorizzazioni programmate da qui all’inaugurazione, è ancora molto lontana mentre sembra vicina la causa per danni alla fondazione dell’ex ad Vincenzo Novari, eso-
nerato lo scorso agosto. Dopo mesi di trattative fra i soci, Novari è stato sostituito con il veronese Andrea Varnier, l’uomo del cerimoniale di Torino 2006, di Rio 2016 ed ex della Filmmaster molto vicino a Malagò. Il nome di Varnier ha messo d’accordo il presidente veneto Luca Zaia e un Attilio Fontana determinato a sbarrare la strada della Fondazione alla sua allora vice di palazzo Lombardia, Letizia Brichetto Moratti.
dello Sport
con Malagò (Coni) e Gravina (Federcalcio) lavora ai ricchi dossier delle infrastrutture: la Ryder cup, le Olimpiadi invernali del 2026, fino agli Europei del 2032
Il tasto dolente sono impianti e infrastrutture. Torino, che si era chiamata fuori dalla formazione di partenza, è stata pregata di rientrare dopo che Baselga di Pinè (Trento) ha rinunciato a ospitare le gare di pattinaggio su ghiaccio. I costi di ristrutturazione dell’Ice Rink erano schizzati da
PRESIDENTE
Claudio Lotito, senatore di Forza Italia, vicepresidente della commissione Bilancio, è presidente della Lazio
titolare
insieme
30 a 50 milioni di euro. Ma il problema dei budget esplosi con l’aumento delle materie prime investe in modo ancora più pesante le nuove strade in Valtellina e nell’Ampezzano, oltre che il villaggio olimpico a Milano. Senza garanzie statali, le imprese segnano il passo.
Per sostenere un’azione così complessa, Abodi si è attrezzato in modo molto meno settario di quanto le sue origini politiche potevano preannunciare e, una volta ancora, in modo differente dal one man show lotitiano.
Il capo di gabinetto ed eminenza grigia del ministero è Massimiliano Atelli, magistrato contabile ed ex procuratore regionale della Valle d’Aosta. Esperto di diritto dell’ambiente, Atelli presiede la commissione Pniec del Pnrr, dedicata a energia e clima, dal gennaio 2022 e, dal dicembre del 2020, la commissione Via-Vas sull’impatto ambientale delle infrastrutture su nomina dell’allora ministro M5S Sergio Costa. Membro del think tank Riparte Italia, dove figura anche Gabriele Gravina, è anche giudice della corte federale d’appello della Figc. Nel 2019 è stato chiamato da
MINISTRO
Il ministro dello Sport
Andrea Abodi all’inaugurazione dello Skate Park, impianto sportivo di Colle Oppio, a Roma
Virginia Raggi per occupare l’assessorato ai Rifiuti di Roma. Ha declinato nonostante fossero i tempi in cui Luigi Di Maio pescava a piene mani nei ranghi della Corte dei conti. Il vice di Atelli al ministero, del resto, è Daniele Frongia, braccio destro della sindaca Raggi e assessore allo Sport in Campidoglio.
Ultima patata bollente da gestire per Abodi è la sentenza del Tar che si è pronunciato contro il limite di tre mandati ai presidenti delle federazioni sportive a partire dal 2024. Il verdetto finale è stato rimandato alla Corte Costituzionale. Se la Consulta confermasse la bocciatura del tribunale amministrativo, molte nomine di ambito Coni potrebbero essere confermate dopo i prossimi Giochi estivi di Parigi. Fra queste, anche quella di Malagò che potrebbe officiare l’inaugurazione delle Olimpiadi invernali italiane da presidente in carica. Ad Abodi non dispiacerebbe, tanto per bilanciare l’ascesa di Lotito che, del resto, nei Giochi del 2026 giocherà letteralmente in casa, grazie alla villa a Cortina di sua moglie, Cristina Mezzaroma. Quando si dice essere inseparabili.
ome si misura la produttività del Palazzo? Nel Paese del bla bla, ovvero dell’opinionismo a vanvera, un metro non esiste. Ne abbiamo trovato uno per i lettori dell’Espresso.
Sepolti da una montagna di codici «Più lo Stato è corrotto, più sforna leggi», ha denunciato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, contandone 250 mila. Ma quante siano davvero nessuno lo sa. Nemmeno gli stessi ministeri. Alcune certezze: secondo Normattiva (la banca dati del Poligrafico dello Stato) da marzo 1861 a dicembre 2002 sono entrati in vigore 203.068 atti normativi, tra leggi, decreti,
L’Italia alle prese con il mostro delle 250mila leggi
atti regi e perfino “decreti del duce del fascismo”. Alcuni, incredibilmente, sono ancora in vigore, altri abrogati o decaduti. A questi si aggiungono 43.501 atti regionali. Un Everest burocratico. Eppure, il ministero della PA stima diecimila le leggi ancora attive. Siamo lontani dall’avere codici chiari che siano la difesa dall’arbitrio dei potenti e non quella trappola di inganni con cui l’Azzeccagarbugli voleva gabbare
Renzo Tramaglino.Decreti panzer: 10
Un po’ per la corsa di un esecutivo insediato per la prima volta dopo elezioni in autunno (e quindi con tempi strettissimi), un po’ per il vizietto che dilaga soprattutto dalla Seconda Repubblica in poi, in poco più di due mesi i decreti varati dal governo Meloni sono già 10, di cui 4 convertiti in legge. Praticamente alla pari del Berlusconi IV che nei primi 60 giorni di guida
nel 2008 ne sfornò altrettanti. Al secondo posto i governi di Renzi e di Draghi, entrambi a quota 7. Al terzo l’esecutivo tecnico di Mario Monti con 5. Decreto è ormai sinonimo di fiducia: marce forzate per l’approvazione entro 60 giorni, strozzatura del dibattito parlamentare, ostruzionismo compreso. Fin quando non arriverà un sonoro stop dal Quirinale.
Poker di fiducie: 4
Nei primi 70 giorni di vita il governo Meloni ne ha richieste e incassate più di Conte e di Draghi nello stesso arco di tempo. Si va dalle norme anti-rave, alla Nato, al disegno dei ministeri, fino alla legge di Bilancio (doppia). E dire che quello dell’ex presidente Bce era già un discreto record con 55 fiducie in poco meno di due anni. Un bel ritmo: una ogni 9,5 giorni (fonte: Pagella politica).
Consigli dei ministri: 14
Tra riunioni fiume per la Finanziaria, calamità e decreti sicurezza, 14 sedute in poco più di due mesi per un totale di 17 ore circa di discussione.
Ritmo di lavoro delle Camere: convertiti 5 provvedimenti
Al 31 dicembre via libera definitivo a quattro decreti, più la legge di bilancio. Lentezza dovuta anche alla formazione di commissioni e organismi (ancora oggi incompleti) e all’inedito problema della riduzione dei parlamentari. Al momento sono 1.118 le proposte di legge al via della legislatura: 247 già in Commissione e 850 non ancora assegnate. Sono invece 19 i disegni di legge in Commissione, di cui 5 di iniziativa del governo e 14 parlamentari. Più le 32 proposte di legge di iniziativa dei consigli regionali, del Cnel e dei cittadini: in attesa di destinazione (fonte: Openpolis).
Sedute parlamentari: Camera batte Senato
Al 31 dicembre l’aula di Palazzo Madama si è riunita 25 volte, quella di Montecitorio 29. La gara continua.
Nel Paese oberato da troppe norme proviamo a misurare la produttività della politica
Al bancomat della giustizia amministrativa
SERGIO RIZZO
Duecento euro a sentenza. Lordi, s’intende. È l’incentivo che tocca a ogni magistrato del Tar o del Consiglio di Stato per smaltire l’arretrato dei loro processi. Ma l’impresa titanica di far raggiungere al nostro Paese tutti gli obiettivi del mitico Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza che impone di svuotare i cassetti dalle cause ammuffite, avrà pure un prezzo. Ai più volenterosi tocca anche il bonus: chi di ricorsi arriva a smaltirne dieci, si becca 2.500 euro.
La lista dei giudici amministrativi che hanno dato la propria disponibilità a percepire tariffa più bonus scorre su diverse pagine. E la cosa ha avuto anche riflessi ben più discutibili della cosa in sé. Qualche magistrato pagato a parte per celebrare i processi dimenticati si è lamentato dell’eccessivo carico di cause ordinarie, quelle già pagate dal normale stipendio, chiedendo perciò di ridurle. Con il rischio di contribuire a generare nuovo arretrato mentre si liquidava il vecchio. A cottimo.
Sia chiaro, il cottimo in Italia viene usato anche nell’esercizio della giustizia. Ma solo per i peones. Ne sanno qualcosa i cinquemila giudici onorari che chiedono paghe decenti. Qui, invece, se proteste ci sono state, è per la ragione opposta: cioè conquistarselo. Accadde anni fa. Poi è arrivato il Pnrr, ed è stata l’occasione per una ritoccatina alle tariffe. Con bonus incorporato.
E pazienza se così si incrina uno dei pilastri fondamentali della giustizia. Ma nel mondo dei magistrati amministrativi sono possibili cose inconcepibili negli altri pezzi dell’apparato giudiziario. Come certi incari-
chi che esulano dai compiti di un giudice, spesso compensati a parte, e lautamente, oltre allo stipendio. L’ultima scoperta, di gran moda oggi fra i consiglieri di Stato, è la presidenza di “collegi consultivi tecnici”. Nuova e assai generosa fonte di reddito privato per alcuni magistrati.
Il fatto è che questi 450 giudici, circa 120 del Consiglio di Stato e i restanti dei Tar, sono molto particolari. Magistrati al pari dei loro colleghi ordinari, oltre al delicatissimo compito di giudicare le cause contro la pubblica amministrazione, risultano i principali destinatari di ruoli chiave nei governi di ogni colore. Sono capi di gabinetto dei ministeri, capi degli uffici legislativi che scrivono leggi e decreti, talvolta perfino ministri. È la scheggia della giustizia più vicina alla politica, il che ne fa la magistratura più potente. Dunque intoccabile. Con una interpretazione del tutto singolare del concetto di indipendenza assoluta dal pote-
Incentivi per smaltire le cause arretrate e poi gli incarichi. Formalmente scomparsi, gli arbitrati sono tornati. Opera di una lobby molto vicina al potere
CONSIGLIO DI STATO
re politico ed esecutivo fissato dalla nostra Costituzione.
Per di più, i giudici dei Tar e del Consiglio di Stato non rispondono al Consiglio superiore della magistratura previsto dalla Costituzione. Bensì a un proprio piccolo Csm istituito nel 1982 con legge ordinaria, presieduto dal presidente che loro stessi hanno di fatto eletto.
Il suo nome è Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Fino a qualche settimana fa ne era a capo un magistrato per diciotto anni in politica. L’ex parlamentare di Forza Italia ed ex ministro berlusconiano Franco Frattini: nominato un anno fa presidente del Consiglio di Stato e deceduto alla vigilia di Natale.
Questo singolare organo di autogoverno, composto da magistrati e alcuni membri laici designati dal Parlamento, oltre a provvedere a nomine e avanzamenti di carriera autorizza pure gli incarichi “extragiudiziali”. Anche quelli vietati come la peste agli oltre novemila magistrati ordinari. Si va dalle lezioni per i concorsi, alla giustizia sportiva, ai comitati di sorveglianza nelle imprese in amministrazione straordinaria, fino ai “collegi consultivi tecnici” di cui sopra. Non di rado in aperta collisione con le funzioni di magistrato. Ma è un dettaglio che qui passa regolarmente in secondo piano. Anche se è un problema enorme, perché può esporre i magistrati a rischi tremendi, come dimostrano le inchieste per corruzione che coinvolgono sempre più spesso giudici dei Tar e del Consiglio di Stato. Eppure la febbre degli incarichi non scende. Anzi.
Il 2021 è stato l’anno del record assoluto: 140 magistrati ne hanno ottenuti ben 310. Con compensi previsti per un totale di 2,1 milioni oltre allo stipendio. Cifra però calcolata decisamente per difetto, consideran-
do che alcuni compensi verranno resi noti solo in seguito. Soprattutto i più lucrosi. Si chiamavano una volta, senza troppi infingimenti, “arbitrati”. Era una forma anomala di giustizia per risolvere senza andare in tribunale le moltissime controversie che nascevano nel campo degli appalti fra la parte pubblica e le imprese private, affidata a un collegio guidato di norma da un consigliere di Stato scelto di comune accordo fra le parti. I compensi, semplicemente stellari. Il bello è che in queste cause private, giudicate da un collegio presieduto da un funzionario pubblico, lo Stato soccombeva nel 95 per cento dei casi. Dovendo per giunta pagare parcelle sontuose ai giudici che già percepivano un congruo stipendio per fare lo stesso lavoro.
Per decenni si fece finta di nulla. Ignorando che il flusso enorme e ininterrotto di denaro nelle tasche di questi magistrati,
Chi riesce a smaltire una decina di ricorsi pregressi prende il bonus. In totale sono 2.500 euro. Ma l’ultima moda fra i consiglieri di Stato, è la presidenza di “collegi consultivi tecnici”
in molti casi titolari anche di importantissimi incarichi nei ministeri, avrebbe generato mostruosi conflitti d’interessi. Di volta in volta i vari governi giuravano di spazzare via quell’indecenza, che generava anche pericolosi rapporti incestuosi fra giudici e avvocati. Senza mai farlo. Finché un giorno si dovette dire basta. A causa degli arbitrati fra il 2005 e il 2007 il conto di alcune opere pubbliche era salito di 750 milioni. Mentre gli arbitri, magistrati compresi, si erano intascati 50 milioni.
Ma chiudere di colpo i rubinetti a una corporazione così potente non risultò facile. Le pressioni per riaprirli erano continue. E pian piano il muro ha finito col cedere.
Prima crepa: l’”accordo bonario” introdotto nel 2016 dal codice degli appalti targato governo di Matteo Renzi.
Ma era facoltativo e faticoso. Così, ecco dopo un po’ la mazzata.
CANTIERI
Una ruspa all’opera nel cantiere della metro C a Roma
Il 16 luglio 2020 il Parlamento ha appena approvato la risoluzione che apre la strada al Recovery fund, il gigantesco piano di contributi europei per rilanciare le economie continentali provate dalla pandemia. In Italia arriverà una valanga di denaro e il secondo governo di Giuseppe Conte sforna il decreto Semplificazioni. Lì c’è un articolo, il numero 6, che per ogni appalto di importo superiore alla soglia europea, pari a 5,38 milioni, rende obbligatoria l’istituzione di un “collegio consultivo tecnico” incaricato di sciogliere i nodi e sedare le liti. È una specie di arbitrato permanente sotto mentite spoglie, quasi a totale uso e consumo dei consiglieri di Stato. Che non devono collocarsi “fuori ruolo”, come quando assumono incarichi ministeriali, ma possono continuare a fare i giudici. Funziona esattamente come i vecchi arbitrati: il presidente, magistrato amministrativo, è scelto di comune accordo fra l’impresa e la parte pubblica. Tutto per giunta viene confezionato nei minimi dettagli dal Consiglio di Stato. Il capo dell’ufficio legislativo di Conte che partorisce la norma è il consigliere di Stato Ermanno De Francisco.
La stesura del regolamento viene poi affidata a una commissione presieduta dal consigliere di Stato Carlo Deodato, predecessore e successore di Ermanno De Francisco a capo del legislativo di palazzo Chigi nei governi Letta e Draghi, e oggi tornato nel cuore del potere con Giorgia Meloni, stavolta come segretario generale della presidenza.
E parte la carovana. Con i big presidenti di sezione del Consiglio di Stato a guidarla. A Sergio De Felice il collegio per i lavori all’università Giuliano-Isontina di Trieste. A Claudio Contessa quelli della Galleria Montebello, sempre a Trieste. A Raffaele Greco gli appalti della Metro C di Roma. A Mario Lipari la caserma Duca degli Abruzzi, La Spezia. A Carmine Volpe i lavori per una palazzina del ministero della Difesa. A Rosanna De Nictolis l’appalto dell’Anas per un tratto della Salaria. A Mario Torsello
L’ex
il collegio per altri lavori del ministero della Difesa, ancora La Spezia. Robetta, tutto sommato. Robetta, al cospetto di chi raddoppia o addirittura triplica. Giampiero Cirillo, oltre all’incarico di presidente del collegio per l’appalto della caserma Friggeri di Roma, ha quello per l’appalto della linea ferroviaria alta velocità Napoli-Bari, aggiudicato al colosso Webuild della famiglia Salini e della Cassa depositi e prestiti. Mentre lo stesso presidente del Consiglio di Stato nonché dell’organo di autogoverno che autorizza gli incarichi, Frattini, si era già visto assegnare in meno di un anno dall’organismo che presiede (lui assente, ovvio) ben tre (tre!) presidenze di collegi consultivi tecnici. E che collegi. Il primo per la Metrotramvia di Milano, appaltata alla Cmc di Ravenna.
Il secondo per il nuovo tunnel Colle di Tenda dell’Anas, assegnato a Edilmaco. Infine il terzo, a luglio del 2022, per il raddoppio della ferrovia fra Messina e Catania.
Dalla tavola imbandita cade anche qualche briciola. Che finisce a un giudice dei Tar o a un semplice consigliere di Stato. Nella
lista si trova Anna Corrado, incaricata per un appalto dell’Autorità portuale dell’Adriatico centro-settentrionale. Ma anche Italo Volpe, presidente di un collegio per un’opera dell’Anas in Liguria, attualmente vicecapo di gabinetto del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti.
Non che le cose siano filate sempre lisce. Nelle riunioni del plenum in cui sono stati distribuiti gli incarichi non sono mancati i contrari. Come Giampiero Lo Presti, che un giorno è sbottato: «La verità è che attorno agli accordi bonari prima e ai collegi consultivi tecnici poi si sono recuperati gli arbitrati». E c’è stato pure uno dei componenti laici, Marcello Maggiolo, che ha messo in guardia dal rischio di creare un «rapporto di debito-credito» con le imprese private che qualche magistrato potrebbero trovarsi di fronte nel suo ruolo di giudice. Perché la parcella viene pagata anche dalla parte privata, al 50 per cento.
Ma tutte le rimostranze, compresi i pochi voti contrari, finiscono nei verbali che affogano nelle carpette.
All’atto di ricevere l’incarico quasi nessuno dichiara il possibile compenso. Di soldi però, è garantito, ne girano molti: anche se il gioco è iniziato da poco più di un anno qualcuno ha incassato già somme fra 150 e 200 mila euro.
Per capire dove si potrebbe andare a finire, del resto, basta fare i conti. Qualche caso? I componenti del collegio per l’appalto della ferrovia Napoli-Bari di cui è presidente Cirillo potrebbero incassare fino a 1,8 milioni. Più o meno quanto potrebbe spettare al collegio per i lavori sulla Messina-Catania già presieduto dal defunto Frattini. E solo per la parte fissa del compenso, perché è prevista anche una parte variabile in funzione delle decisioni prese di volta in volta. Pagata sulla base di tariffe forensi fino a 500 euro l’ora. Dulcis in fundo, al presidente spetta una maggiorazione del 10 per cento. L’esperienza si paga.
Il conflitto d’interessi legalizzato, invece, è gratis.
Nel 2021 record di compensi extra: 140 magistrati ne hanno ottenuti 310. Con un conto provvisorio di 2,1 milioni oltre allo stipendio. Alcuni importi, infatti, verranno resi noti solo in seguitoNOMINE presidente del Consiglio Giuseppe
Si girò di scatto al suono acre delle parole del sicario e non ebbe nemmeno il tempo di capire che, immediatamente, cinque violentissimi colpi fecero versare sangue nella sacrestia della sua chiesa a Casal di Principe. Erano trascorsi quasi dodici anni da quando la Conferenza episcopale campana, nel 1982, aveva diramato un duro documento contro la camorra. E forse la colpa di don Peppe Diana era stata anche quella di riprendere, assieme ai sacerdoti della Forania di Casal di Principe, il contenuto di quel documento dal titolo “Per amore del mio popolo non tacerò”.
Don Peppe Diana, predicare legalità contro la camorra
Uccidendo don Diana si volle colpire chi, con i fatti e il coinvolgimento dei giovani, denunciava continuamente il disfacimento delle istituzioni civili, che consentiva l’infiltrazione del potere camorristico, chiedendo un’analisi sul piano culturale, politico ed economico capace di abbattere il muro di omertà e silenzio che in quegli anni si ergeva nell’intero Agro aversano.
Erano anni cupi quelli in cui la faida interna alla camorra aversana germogliava morti ammazzati per il controllo delle estorsioni e delle tangenti, che creava facile ed effimera ricchezza attirando i giovani in balia di una disoccupazione galoppante. Sono passati 40 anni dal documento della Conferenza episcopale campana e per celebrare tale decorrenza quest’ultima, presieduta da monsignor Antonio Di Donna, si è nuovamente riunita ad Aversa. Ancora una volta — davanti a un fenome-
no criminale che ha completamente modificato il modo di atteggiarsi scegliendo di non mietere più vittime per strada, ma di praticare percorsi d’infiltrazione criminale nelle istituzioni, gestendo fette di economia e appalti in tutto il Paese — la Chiesa si interroga sulla dimensione sociale della fede e sulla necessità di tener presente che per essere buoni cristiani non ci può essere distanza dai peccati contro la giustizia quali l’evasione fiscale, la facile corruzione, l’assenza dello spirito di servizio negli operatori sociali, l’indifferenza verso il bene comune.
È un nuovo appello, un rinnovato grido di dolore che la Chiesa rivolge al suo interno e al suo esterno, consapevole però di non poter supplire a un necessario impegno di tutti, dalla società alle istituzioni, dalla politica alla scuola, dalle famiglie alla magistratura.
Sulla mia pelle di cittadino dell’Agro aversano ho imparato che non vi è possibilità di lasciare vuoti, per cui è il quotidiano impegno di tutti che diventa motore propulsivo per superare il silenzio e l’indifferenza verso il male criminale.
Se vogliamo tenere a distanza queste nuove e pericolose iniziative criminali è necessario continuare il lavoro incessante di contaminazione dei giovani con valori di legalità diffusa, il che significa predicazione laica dei diritti fondamentali su cui si basano la Libertà e la Bellezza.
Una predicazione nelle scuole, nelle università, nelle associazioni, nella politica, nelle famiglie che possa generare quel senso di appartenenza al bene comune che, se non protetto, viene stritolato nel malaffare criminale.
Ancora una volta la Chiesa si interroga e ci interroga. A noi spetta dare una risposta perentoria e immediata sulla scia della continuità di quanti hanno scelto di non abbassare lo sguardo e lottare per il Futuro della nostra terra e delle nuove generazioni.
Il sacerdote di Casal di Principe non abbassò lo sguardo davanti al malaffare. Un esempio da seguire
ECONOMIA SVOLTE USA
FIRMA Joe Biden sul prato della Casa Bianca firma il Chips Act, che aiuta i produttori di semiconduttoriIl presidente ha adottato una politica di spesa che ricorda il New Deal. Miliardi di dollari di aiuti a famiglie e imprese che consentiranno agli Stati Uniti di evitare la recessione
DA BIDEN PIÙ SOLDI PER TUTTI
EUGENIO OCCORSIO
DIVISIONI
Donald Trump. Le divisioni del Partito Repubblicano rafforzano l’amministrazione
Biden
In America si è tornati al “New Deal”, il mega-piano di investimenti pubblici promosso da Franklin Delano Roosevelt fra il 1933 e il ’37 per risollevare il Paese dalla grande depressione post-1929. La doppia emergenza, pandemia e guerra, che ha portato il Paese - come tutto il mondo - in “permacrisis” (la crisi permanente fra un disastro e l’altro), ha cambiato radicalmente le coordinate economiche a stelle e strisce. Dimenticati sono decenni di libero mercato al di sopra di tutto, di politica economica monetarista, di ambizione alla “trickle-down economics” (arricchiamo i ricchi perché qualcosa “sgocciolerà” sui poveri), insomma delle teorie liberiste che hanno presieduto alle scelte americane dal dopoguerra ad oggi malgrado le prediche di John Maynard Keynes, che ebbe solo la soddisfazione di varare il piano Marshall per l’Europa. Sul fronte interno invece nessuno aveva scardinato la visione “mercatista”: né John Kennedy, né gli altri presidenti democratici Lyndon Johnson (che pure aveva fatto progressi sul welfare), Bill Clinton (anzi accusato di eccessiva contiguità con Wall Street), Barak Obama (che non è riuscito a completare la riforma sanitaria). Finché si è arrivati alla massima esaltazione dell’individualismo degli anni di Donald Trump (“Winner takes it all”, uno dei suoi motti).
Con Biden, presidente silenzioso e apparentemente impacciato, cambia tutto. Per la verità lo Stato aveva cominciato, sotto la spinta della tragedia del Covid, già con Trump: il primo pacchetto di aiuti destinò 700 miliardi di dollari nella primavera 2020 per pagare extra-sussidi di disoccupazione da 600 dollari la settimana, e poi 70 miliardi alle aziende del trasporto locale per compensarle dei mancati viaggi dei pendolari, 80 miliardi alle compagnie aeree per permettere loro di pagare piloti e assistenti mentre non si volava evitandone il licenziamento, e altro ancora. Quasi mille miliardi di misure di supporto. Ma è niente in confronto a quanto stanziato nei due anni dell’era Biden. In totale, gli Stati Uniti hanno finora messo sul tavolo solo per
interventi di ristoro dal Covid oltre 5mila miliardi di dollari: 1.800 destinati agli individui e alle famiglie con assegni di varia entità recapitati a casa, 1.700 per il business (dalle grandi aziende alla drogheria sotto casa), 745 miliardi destinati ai 50 Stati dell’unione (ai quali peraltro le singole amministrazioni hanno aggiunto somme varie per altri 1000 miliardi), e ancora 482 miliardi per la sanità (in via eccezionale le cure Covid, dai tamponi alle terapie intensive, sono gratuite), 288 miliardi per altre voci.
Poi, alla pandemia è seguito il rallentamento globale dovuto alla guerra e all’inflazione, e la risposta americana è anche qui generosa e lungimirante: la rivoluzione nella governance economica ha una vigorosa accelerazione. Nel 2022 arrivano i contributi a cittadini e soprattutto imprese dell’Infrastructure Investment and Jobs Act finanziato con 550 miliardi di dollari, del Chips and Science Act che vale 280 miliardi (fondamentale per affrancarsi dal dominio cinese nei semiconduttori
La politica economica dell’amministrazione è riuscita a ricreare la fiducia in tempo di pandemia e guerra. E ha ribaltato decenni di dominio incontrastato delle teorie e pratiche neoliberiste
con tutte le implicazioni politiche che ciò comporta), dell’Inflation Reduction Act da 394 miliardi, oltre a una serie di provvedimenti minori legati soprattutto all’emergenza ambientale come il programma per le energie alternative “Greenhouse Gas Reduction Fund” finanziato con 27 miliardi di dollari e gestito dall’Environmental Protection Agency. Una massa di aiuti tale da suscitare perfino la critica di Romano Prodi, che ha fatto notare che si tratta di aiuti pari a 10 volte quelli che possono ricevere le imprese europee.
Biden ovviamente non se ne preoccupa. Ha deciso che lo Stato federale c’è ed è vicino ai cittadini: nello spirito di Alexander Hamilton, il padre fondatore che da ministro del Tesoro delineò l’unione fiscale nella seconda metà del ’700, Washington vuole dare il suo tangibile contributo sia in termini di investimenti pubblici nonché misti pubblico-privato, sia di aiuti diretti alle fasce più svantaggiate. «Il merito di Biden sta nell’aver colto che, dopo il Covid, è cambiato l’orientamento economi-
co globale», commenta l’economista Paolo Guerrieri, già docente alla San Diego University e ora a Sciences Po a Parigi. «Perfino il Fondo Monetario, falco dei falchi per esempio nella ristrutturazione della Grecia, dice che non bisogna trascurare gli ultimi e i governi più potenti devono guidare la lotta alle diseguaglianze. Che non a caso negli Stati Uniti, a differenza del resto del mondo, sono diminuite anziché aumentare durante la pandemia».
Arriva l’“helicopter money” vagheggiato da Ben Bernanke ai tempi del primo quantitative easing della Fed - l’acquisto di titoli del Tesoro - nel 2010 (c’era allora da reagire alla crisi finanziaria del 2008) che però si fermò alle banche. Ora invece riguarda direttamente i cittadini: il risultato è che la recessione pandemica è durata pochi mesi del 2020 e poi l’economia si è ripresa a razzo. Non solo: la nuova temuta recessione - dovuta alla guerra, all’inflazione, ai tassi, al rallentamento dei mercati di export - con ogni probabilità gli Stati Uniti, contrariamente alle previsioni
negative dell’ultima parte dell’anno scorso, riusciranno a schivarla. «È merito della forza intrinseca dell’economia, dell’alto valore del dollaro e anche degli ingenti sussidi federali», conferma Stephen Roach, economista di Yale. «Perché le misure abbiano successo però serve la collaborazione sia delle autorità locali sia delle industrie chiamate in gioco. Non a caso buona parte degli aiuti sono sotto forma di crediti fiscali». Le amministrazioni locali peraltro hanno garantito che metteranno abbondanti ulteriori fondi. Il “forecast” diventa favorevole: nel report di gennaio, la Federal Reserve prevede una “forchetta” di crescita del Pil nel 2023 fra lo 0,5 e l’1,5%, che salirà all’1,4-2% nel 2024 e all’1,6-2% nel 2025, quando l’inflazione - che ha cominciato a scendere ed è al 7% dal 10 di quest’estate - raggiungerà il livello di sicurezza del 2%. La disoccupazione regge sui minimi del 3,5%: nel 2022 sono stati creati 4,5 milioni di lavori, secondo miglior risultato di sempre dopo il 1940. L’economia sembra in grado di riassorbire perfino
PARCO EOLICO
Il Presidente della Fed Jerome Powell sugli schermi di Wall Street. A destra: pale eoliche a Palm Springs, California
l’esodo di lavoratori dell’hi-tech, che ha perso in sei mesi 150 mila addetti.
Il coraggio dell’amministrazione Usa con il cambio di passo e l’helicopter money, insomma, ha raggiunto lo scopo. L’anima del cambiamento porta il nome di una donna minuta ed elegante di 76 anni, Janet Yellen. Segretaria al Tesoro in carica, figlia di ebrei polacchi immigrati a Brooklyn, PhD a Yale, docente ad Harvard e Berkeley, presidente dei consulenti economici di Clinton dal 1997 al ’99 e infine numero uno della Federal Reserve dal 2014 al 2018, incappò nello spoils system di Trump e finì in panchina alla Brookings Institution finché Biden l’ha richiamata in servizio appena insediato. Moglie di un altro economista, il premio Nobel George Akerlof, condivide con lui il più genuino spirito democratico. «Non si tratta solo di misure di sostegno alla domanda - ha spiegato la ministra al Congresso - ma di ripensare l’intera politica anche dal lato dell’offerta, migliorando la posizione relativa degli Stati Uniti, restituendo loro la capacità produt-
tiva in settori trascurati e infondendo fiducia strutturale nella nostra gente». Pensiero identico a quello di Biden, che non dimentica di essere stato eletto per la prima volta al Senato nel 1972, togliendo al favorito repubblicano Caleb Boggs il seggio nel Delaware dopo una campagna basata sul ritiro dal Vietnam e sui diritti civili con l’appoggio del sindacato Afl-Cio.
Secondo i più fini analisti, Biden e Yellen hanno dato un colpo agli schemi ideologici precostituiti: «Sono riusciti a dare una scossa alla domanda aggregata, restituendo fiducia a cittadini e imprese, battendo al contempo le spinte recessive derivanti dalle strozzature nelle catene del valore mondiali che rischiavano di soffocare l’economia dal lato dell’offerta», spiega Brunello Rosa, do-
cente alla London School of Economics. «E poi hanno integrato i piani di aiuto con programmi infrastrutturali che rafforzano l’economia dal lato dell’offerta, un tempo tipica posizione del liberismo reaganiano». Un’alchimia che trova oppositori proprio a sinistra: il vecchio saggio dem Larry Summers, ministro del Tesoro di Clinton, attribuisce l’inflazione ai troppi soldi messi in circolo. E James Galbraith, economista e figlio di John Kenneth Galbraith che fu consigliere di Roosevelt e di Kennedy, ci dice dal suo studiodellaTexas University: «L’inflazione ha dato motivo alla Fed di rialzare troppo i tassi, una mina vagante per l’economia tutt’altro che disinnescata dai piani di investimento. Quel che è peggio è che la Fed, sotto l’influenza del mondo della finanza, ha fatto sapere che i tassi non li diminuirà per cui l’insidia sottostante rimane».
Il presidente tira diritto. «Un risultato l’ha raggiunto: con il suo pragmatismo - riprende Guerrieri - ha sconfitto l’antico pregiudizio che vedeva nell’economia il tallone d’Achille dei dem, come prova il favorevole risultato delle elezioni di Midterm a novembre. Per una volta il partito del presidente a metà mandato non diventa un’anatra zoppa e può continuare a far passare al Congresso i suoi progetti. Non solo: si apre un’insperata finestra di opportunità per le presidenziali della fine dell’anno prossimo». Con questo spirito, Biden affronta la rituale battaglia parlamentare per alzare il tetto al debito e tra l’altro proseguire con i piani di riarmo per l’Ucraina (15 miliardi finora). Per sua fortuna l’opposizione - si è visto con il pasticcio dell’elezione dello speaker Kevin McCarthy - è tutt’altro che forte e coesa. Vi ricorda qualche altro Paese?
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Come ha fatto notare Prodi, le aziende statunitensi hanno finora ricevuto sovvenzioni ben dieci volte superiori a quelle a disposizione per i loro concorrenti europei
Piccole rivoluzionarie crescono
EDOARDO PRALLINI 1
Il 40% delle nuove imprese fallisce entro i primi quattro anni di vita. Il dato, proveniente dal Bureau of Labor Statistics statunitense, ridimensiona la leggenda secondo cui nove startup su dieci non ce la fanno, ma dà conferma di quanto sia difficile oggi fondare una startup, farla sopravvivere alle prime fasi e infine consolidarla. Ancora più complicato è individuare un sottoinsieme di quelle che siano in grado addirittura di rivoluzionare le nostre esistenze.
Perché non basta analizzare gli scogli che un’azienda deve superare per affermarsi sul mercato — innovazione, burocrazia, fondi — ma anche il contributo che questa può offrire per vincere le sfide dell’umanità. Le agende dei Paesi sono piene di obiettivi ambiziosi: ridurre l’impatto dell’uomo sull’ambiente, superare la crisi delle materie prime, gestire i flussi migratori. Ed è su questi temi che le startup possono «inventare il futuro», espressione di Nolan Bushnell, 80enne fondatore di Atari.
le nostre vite. Eccone dieci, selezionate in Italia e nel mondo
Ecco allora la lista delle dieci startup del futuro, stilata con l’aiuto della piattaforma di analisi aziendale Cb Insights.
Cinque sono italiane: la realtà nostrana dà segnali incoraggianti, ma resta indietro. Secondo il Mise, a giugno 2022 si attestavano 14.621 startup innovative. E secondo
The Week in Italian Startups sono stati registrati 1,1 miliardi di euro di finanziamenti. Un dato in miglioramento, ma ancora insufficiente.
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In Italia ci sono due unicorni, startup private con una valutazione superiore al miliardo di dollari. Una è Scalapay, la fintech guidata da Simone Mancini che permette di acquistare subito e pagare dopo. Con un incremento del 50-60 per cento di chi frequenta i negozi online e poi acquista. 2
SCUOLABUS PER SATELLITI
Nello spazio, nella fascia dell’orbita bassa, sono presenti circa 5 mila satelliti e 300 mila rifiuti. Perciò D-Orbit, startup fondata da Luca Rossettini nel Comasco, punta a far partire i satelliti con un piccolo motore addizionale che, una volta attivato, li deorbiti alla fine della loro vita.
Il 40 per cento delle giovani aziende fallisce nei primi anni di vita. Tra quelle che resistono, alcune sono in grado di cambiare
I NUOVI ORIZZONTI
L’auto volante progettata da Alef. Un incontro di Unobravo, startup per l’accessibilità della psicoterapia. Rilevamento facciale con intelligenza artificiale
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PSICOLOGIA PER TUTTI
In un biennio ha conquistato oltre 40 mila pazienti e conta un’équipe di duemila psicologi. Unobravo, fondata nel 2019 da Danila De Stefano, rende accessibile la psicoterapia: attraverso un innovativo algoritmo, ogni utente viene abbinato allo psicologo più adatto.
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ADDIO PASSWORD E CODICI
Fondata a Londra da italiani, la startup Keyless vuole creare un sistema informatico universale per l’identità online grazie all’autenticazione biometrica. Si accederà ai dati tramite identificazione di caratteristiche fisiche e comportamentali. La società ora è di Sift, unicorno Usa.
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SMARTPHONE TROVA CASA
Casavo è il primo instant buyer italiano nel mercato immobiliare. La sua piattaforma lanciata da Giorgio Tinacci consente alla società di acquistare una casa in 30 giorni, determinando il valore in tempo reale con un algoritmo. Il sogno? Vendere e comprare casa dallo smartphone.
LE STARTUP STRANIERE CHE DETTERANNO LA LINEA
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LAVORARE NEL METAVERSO
L’azienda indiana NextMeet progetta una piattaforma in realtà virtuale immersiva per il lavoro e l’apprendimento a distanza. Uno strumento che consente di creare avatar 3D capaci di interagire tra loro nel Metaverso. Tra i servizi, ambienti personalizzati per ospitare eventi virtuali.
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ENERGIA E BLOCKCHAIN
Sitigrid è la startup britannica che ha ideato S-Chain, piattaforma di condivisione di energia rinnovabile che utilizza la blockchain per creare un registro di tutta la produzione e del consumo di energia all’interno di una rete. Ciò consente lo scambio peer-to-peer dell’energia in eccesso.
3 IDROGENO DALLE CENERI
La startup statunitense New Age produce idrogeno da ceneri riciclate, limitando la dispersione di elementi nocivi nelle acque e nell’aria. Il processo prevede l’elettrolisi e la trasformazione del carbone in un composto di idrogeno a combustione pulita.
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L’ELISIR DI LUNGA VITA
Nella Silicon Valley cresce una nuova industria, la life science, per prolungare la vita. In questo panorama si muovono Aubrey de Grey, cofondatore di Sens Research Foundation, accusato di flirtare con le pseudoscienze, e la startup Altos Labs che studia la riprogrammazione cellulare.
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LE AUTOMOBILI VOLERANNO
Ha un costo di 300 mila dollari (per ora), un raggio di guida su strada di 200 miglia e uno di volo di 110. È l’auto volante. In testa alle startup che la preparano, nella Silicon Valley, c’è Alef Aeronautics che prende già ordini per i primi modelli, dotati di otto eliche per decollare verticalmente.
ECONOMIA LA NUOVA GEOPOLITICA
Anche l’Italia vuole uno spicchio di Luna
EMILIO COZZILo scorso 16 dicembre si è celebrata la Giornata nazionale dello Spazio, omaggio al San Marco 1, il primo satellite italiano lanciato nel 1964. La ricorrenza non poteva arrivare in un momento più significativo: nei giorni in cui si concludeva la prima missione del nuovo programma lunare, Artemis, eventi all’apparenza poco pertinenti l’uno con l’altro ribadivano quanto i programmi spaziali siano cruciali nell’agenda geopolitica globale. E perché, sulle imprese spaziali, oggi si misuri la capacità tecnico-scientifica e l’incisività diplomatica di un Paese.
Tant’è: la Giornata nazionale è arrivata nemmeno un mese dopo il Consiglio ministeriale dell’Agenzia spaziale europea, appuntamento in cui si decidono gli stanziamenti finanziari per i programmi obbligatori e opzionali del triennio successivo. Con un contributo di 3,083 miliardi di euro, l’Italia ha messo sul piatto il 18,2 per cento del budget complessivo e rafforzato la sua posizione di terzo contribuente dell’Agenzia, subito dopo Francia (3,2 miliardi) e Germania (3,51 miliardi). Buone notizie? Sì, se si considera che le cifre segnano un primato storico sia per l’Italia sia per l’Esa – 16,9 miliardi di euro per tre anni sono il budget più alto di sempre — meno se si pensa che nel solo 2023 la Nasa investirà nello spazio 25,4 miliardi di dollari. E se si ignora quanto sia difficile comporre, in Europa, ambizioni e strategie nazionali differenti.
Basti pensare a una delle partite più importanti giocate alla Ministeriale, quella sui razzi vettore, tanto strategica da aver portato a una dichiarazione sul loro futuro quadro di utilizzo già alla vigilia del vertice Esa. Siglata da Italia, Francia e Germania, la dichiarazione è destinata a riequilibrare la sproporzione a favore francese, alme-
no secondo il firmatario Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del made in Italy con delega alle Politiche spaziali e aerospaziali. Non è un caso, tornando a dicembre, se una delle tappe principali della prima visita di Stato a Washington del presidente francese, Emmanuel Macron, sia stata alla sede della Nasa. Visita ancor più indicativa in un momento in cui, con la guerra in Ucraina e la crisi energetica, il piglio protezionistico dell’Inflation Reduction Act di Joe Biden rischia di acuire le preoccupazioni europee. Tra le priorità discusse con l’amministratore della Nasa, Bill Nelson, ci sono l’aumento degli investimenti congiunti nell’esplorazione lunare e marziana e un accordo, sottoscritto con il presidente dell’agenzia spaziale d’Oltralpe, Phillippe Baptist, per portare sulla Luna uno strumento francese, la Farside seismic suite, nell’ambito del Commercial lunar payload services.
Iniziative in cui l’Italia promette di essere competitiva. «Dobbiamo essere fra i protagonisti dell’esplorazione lunare», conferma Giorgio Saccoccia, presidente
Il nostro Paese si rafforza come terzo contribuente dell’Agenzia spaziale europea. Per essere protagonista dell’esplorazione del satellite. E competere con gli altri Stati
ECONOMIA LA NUOVA GEOPOLITICA
dell’Agenzia spaziale italiana: «La nostra industria specializzata è cresciuta e non ha solo dimostrato di poter lavorare ai progetti richiesti dalle istituzioni, ha anche dato prova di trovare un proprio mercato con partner internazionali. Alla Ministeriale Esa abbiamo lavorato per avere un buon posizionamento di partenza anche su progetti nuovi e attraenti per la nostra filiera. Penso al lander lunare Argonaut, di cui siamo diventati i primi sottoscrittori e che dovrà essere realizzato entro il 2030, ma anche alla riuscita attivazione di Moonlight, il programma per lo sviluppo di sistemi di telecomunicazione e navigazione lunare, ora a prevalenza italo-inglese (la prima tranche è stata finanziata con 150 milioni di euro, ndr)». Altrettanto chiaro il numero uno dell’Asi è sull’attività francese: «Mi è difficile dire se la Francia stia muovendosi in modo autonomo. È però ovvio che ogni Paese sviluppi relazioni al di là del contesto Esa. Ritengo più opportuno ci si concentri sul 2023, anno inaugurale dei progetti Argonaut e Moonlight. Per noi sarebbe importante fare di Artemis uno strumento di collaborazione con altri player internazionali come, per esempio, il Giappone».
Detto altrimenti, mentre evidenzia interessi nazionali diversi, l’ambizione lunare potrebbe aiutare a ricomporli. «Sarebbe il caso di valutare il programma lunare più con l’occhio del cittadino», commenta Luigi Pasquali, amministratore delegato di Telespazio, azienda capofila di Moonlight, nonché coordinatore delle attività spaziali di Leonardo, gruppo coinvolto in Artemis anche attraverso la sussidiaria Thales Alenia Space. «L’obiettivo di Artemis, cioè una permanenza umana stabile sulla Luna, è un traguardo storico; soprattutto, impone di sfruttare ciò che già sappiamo e avrà ricadute importanti sulla Terra, in termini di sostenibilità, arricchimento, conoscenze.
Ci si dovrebbe chiedere perché non partecipare a un’avventura così ambiziosa». Nel contesto lunare ogni investimento promette di essere una frazione del suo ritorno. Come scritto su queste pagine, Artemis richiede scienza e ricerca, reclama infrastrutture da sviluppare, riserva scoperte a beneficio collettivo. Non ultimo, custodisce un eldorado di metalli preziosi, terre rare e acqua ghiacciata. Anche l’approvvigionamento energetico potrebbe giovare di innovazioni sostanziali. La conferma arriva dall’Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, che proprio il 16 dicembre ha annunciato un accordo con l’Asi per uno studio di fattibilità, in vista della futura realizzazione, di Space Nuclear Reactors. L’idea è che mini-reattori nucleari forniscano energia agli insediamenti selenici e alla successiva esplorazione dello spazio profondo. «Quando parliamo di nucleare
L’industria specializzata italiana è cresciuta.
Dimostrando di poter lavorare ai progetti richiesti dalle istituzioni, ma pure di saper trovare un proprio mercato con partner internazionali
sulla Luna o su Marte non ci riferiamo ai sistemi oggi disponibili sulla Terra», precisa Mariano Tarantino, per Enea responsabile della divisione Sicurezza e Sostenibilità per il nucleare e coordinatore della sezione progetti innovativi del dipartimento Fusione e Tecnologie per la sicurezza nucleare: «Parliamo di soluzioni compatte, leggere e affidabili. Stiamo orientandoci verso sistemi modulari, accoppiati con pannelli solari. Da una parte vogliamo colmare il gap con Paesi come Stati Uniti, Russia e Cina; dall’altro verificare l’applicazione di queste tecnologie in una finestra compatibile con Artemis, fra il 2030 e il 2035». Nulla di avulso dalla vita quotidiana. «Un progetto come il nostro – continua Tarantino – implica giocoforza applicazioni terrestri: non solo per lo sviluppo di nuovi materiali, che siano resistenti, leggeri ed economici, ma anche per quanto attiene alla filiera produttiva dell’idrogeno, al nucleare ad
LA RICERCA
Gli studi sulla Luna del Navigation Innovation and Support Program dell’Agenzia spaziale europea hanno portato al nuovo progetto Moonlight
alta temperatura o alle attività per sostenere la decarbonizzazione».
Una preminenza tecnico-scientifica strategica, insomma, come ricordano le ambizioni di Paesi come l’India, pronta a lanciare un lander e un rover lunari a giugno, la Russia, che con Luna 25 a luglio riprenderà il programma sovietico interrotto negli anni Settanta, e la Cina, vera nuova forza nella space race. «Ma credo sia più importante ribadire i benefici che l’avventura lunare promette di restituire a tutti». A dirlo è Massimo Comparini, che alla guida di Thales Alenia Space è coinvolto in Artemis, dalla realizzazione di una parte della futura base in orbita cislunare – il Gateway – fino alla produzione di diverse componenti dei veicoli spaziali anche già testati su Artemis
1: «Dall’epoca Apollo abbiamo ereditato una quantità considerevole di innovazioni. La sfida di Artemis sarà diversa. Occorrerà capire, per esempio, come risponde la fisiologia umana a una permanenza su un altro mondo, cosa non equivalente a sei mesi sulla Stazione spaziale internazionale. Dovremo capire come proteggerci dalle radiazioni, trovare soluzioni più ergonomiche, comprendere cosa portare negli anni sulla superficie lunare per rendere utilizzabili le risorse in situ. Tutto questo genererà una filiera di sviluppi tecnologici, in robotica e intelligenza artificiale».
Rimane tuttavia impossibile ignorare gli appetiti lunari diffusi. «Eviterei sensazionalismi: la dimensione tecnologica, industriale e finanziaria delle missioni spaziali esclude che un qualsiasi Paese europeo possa rivendicare un ruolo autonomo», ribatte Michele Nones, vicepresidente dell’Istituto Affari internazionali: «Ciò premesso, sarebbe ingenuo sottovalutare come nel Vecchio Continente la voglia di mettere la “bandierina” su un’iniziativa comune rimanga forte. Penso, per esempio, all’accesso allo spazio: pur essendo un asset marcatamente europeo, permangono punte di resistenza nazionali capaci di ostacolarne lo sviluppo. Anche in questo caso serve più Europa».
Agli inizi del 2022 le banche centrali hanno cominciato a studiare in che modo arginare la fiammata dell’inflazione, dovuta a una repentina ripresa della domanda aggregata, non controbilanciata da una parallela offerta. Ma dal 24 febbraio per l’Europa si è scatenato l’inferno con l’aggressione della Russia all’Ucraina. L’inflazione nell’Ue, pertanto, da congiunturale si è trasformata in strutturale perché i prezzi del gas e del petrolio sul mercato di Amsterdam sono saliti in un crescendo rossiniano di più del 300 per cento. Un effetto della combinazione tra la speculazione e la crisi delle relazio-
Stretta creditizia contro l’inflazione
Dove sbaglia la Bce
ni che ha investito l’Ue e la Federazione russa, conseguenti, appunto, alla guerra in Ucraina. Non si tratta più, quindi, di un aumento dei prezzi derivante dall’asimmetria congiunturale tra domanda e offerta internazionali di beni e servizi, ma di un incremento dei costi di notevole portata, difficile da traslare sui prezzi, pena una brusca caduta della domanda aggregata.
Al di là dell’impegno dell’Unione europea, anche qualora si arrivasse alla fine della guerra, la sostituzione delle forniture del gas e del petrolio dalla Russia, a prezzi più contenuti degli attuali, non potrà essere conseguita nel breve periodo.
Di fronte a un’inflazione da costi di questa natura e dimensione viene da domandarsi se la Banca centrale europea stia facendo una cosa giusta cercando di combatterla con una brutale stretta creditizia, basata fondamentalmente sul rialzo dei
tassi di interesse, per portarli al 5 per cento, in modo da riportare l’inflazione al 2. Questa stretta, che ci pare sbagliata, corre il rischio di far passare dal circuito inflazione-deflazione a quello della stagflazione, incidendo sul livello della innovazione tecnologica delle imprese, della produzione e della disoccupazione, sulla riduzione del reddito reale degli impiegati della Pubblica amministrazione, delle pensioni, dei salari e degli stipendi delle attività produttive e sull’indispensabile remunerazione del capitale investito delle imprese, eccetto quelle sotto l’egida del capitale finanziario.
Mentre la politica della Federal Reserve corrisponde a esigenze reali dell’economia americana derivanti dall’asimmetria della domanda interna di beni e servizi rispetto all’offerta, quella della Bce è miope perché va in direzione opposta alle esigenze dell’economia europea, laddove sarebbe necessario favorire gli investimenti delle imprese in innovazioni di processo e di prodotto e in quelle infrastrutture, materiali e immateriali, che accrescono la competitività dell’economia. In questo contesto occorre che, almeno a livello nazionale, sia dato ascolto alle richieste di Confindustria e Abi, espresse da tempo, di allungare la scadenza delle rate dei debiti a medio termine ex Covid, che assommano a circa 240 miliardi di euro e che fino a ieri hanno giovato di due anni di preammortamento. Un simile provvedimento consentirebbe di alleviare la situazione di cassa delle imprese, bombardate dai costi dell’energia, raddoppiando la durata residua dell’ammortamento finanziario di detti prestiti mediamente da 5 a 10 anni. Si produrrebbe un miglioramento immediato del cash flow delle imprese, quasi per tutte superiore agli interventi governativi per attutire il costo del gas. È auspicabile che la Bce non frapponga ostacoli.
Combattere l’aumento dei prezzi con il rialzo dei tassi d’interesse porta al rischio di stagflazione
CULTURA NUOVE VISIONI
Verdi. Sostenibili. In prima linea nell’impegno per l’ambiente. Gli spazi del futuro non sono solo contenitori di bellezza. Ma incorporano le sfide della contemporaneità
Utopie ribelli al museo
L’ARTE DEL MONDO
Opere in mostra alla Gnam di Roma di Gideon Mendel, Sandra Cinto, Glenda Léon. In evidenza il globo infuocato di Mona Hatoum e “Stallion” di Daphne Wright
CULTURA NUOVE VISIONI
SABINA MINARDI
In principio - nel 2019 - furono gli attivisti di Extinction Rebellion. Inzuppati di vernice nera, invasero la sala della National Portrait Gallery di Londra che esponeva opere sponsorizzate dal gigante del petrolio BP: il denaro proveniente dai combustibili fossili è incompatibile con le battaglie per la crisi climatica, urlavano. Le proteste proseguirono implacabili, supportate da artisti come Sarah Lucas, Antony Gormley e Anish Kapoor. Fino all’inizio del 2022, quando il museo a due passi da Trafalgar Square ha annunciato il grande strappo: stop alla sponsorizzazione di British Petroleum.
Le incursioni ambientaliste in questi mesi sono state molte: dal liquido nero lanciato su “Morte e vita” di Gustav Klimt al Leopold Museum di Vienna al purè rovesciato su “Il Pagliaio” di Claude Monet, al Museo di Potsdam, in Germania, fino alle azioni italiane di Ultima generazione: con ragazzi incollati al vetro della “Primavera” di Botticelli agli Uffizi o armati di zuppa di verdure contro il “Seminatore” di Van Gogh a Palazzo Bonaparte, a Roma.
Mentre la stampa inglese riaccende ora il dibattito sulle sponsorizzazioni ambigue, scuotendo un’istituzione come il British Museum; mentre i direttori di tutto il mondo siglano un documento per mettere in guardia contro la potenziale pericolosità di certe azioni dimostrative, il tema si allarga, esonda dalle polemiche nazionali e si impone: qual è il museo del futuro? Come i musei possono fare la loro parte nella corsa contro il tempo per salvare il pianeta? E perché non rappresentare modelli di sostenibilità all’interno della società, anziché finire nel mirino degli ecoattivisti globali?
Il presupposto è che i musei inquinano, e tanto. Ma la rotta si può ancora invertire.
«Quando sono arrivata a dirigere la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma l’emissione di CO2 era equivalente a 2.600 tonnellate all’anno. Per bilanciare queste emissioni di gas climalte-
PIANETA BOLLENTE
A fianco: Cristiana Collu, storica dell’arte, dirige la Galleria nazionale d’Arte moderna e contemporanea di Roma. Dall’alto in senso orario, opere dalla mostra “Hot Spot. Caring for a Burning World: Gideon Mendel, “Chinta and Samundri Davi, Salempur Village, Bihar, India. August 2007”; I Gorilla di Davide Rivalta; Gideon Mendel, “Shop Front, San Marco, Jacksonville, Florida”
ranti sarebbe stata necessaria una foresta tre volte più grande di Villa Borghese», interviene Cristiana Collu, al vertice di un luogo emblematico nella sfida di convertire i musei in modelli di sostenibilità: una sede storica, nel cuore della Capitale, con consumi di partenza altissimi e un percorso da campioni di consumi a carbon neutral.
Perché i musei non sono “entità statiche, nascoste nei magazzini o intrappolate all’interno di vetrine chiuse. Al contrario, generano nel tempo una complessa rete di relazioni e una forte influenza sulla società civile”, sottolineano Evelina Christillin e Christian Greco, presidente e direttore del Museo Egizio di Torino, nel saggio a quattro mani “Le memorie del futuro” (Einaudi): non sono semplici custodi del passato, cioè, “ma possono trasformarsi in laboratori attivi di innovazione e cambiamento”.
Collu lo conferma: «Nel 2016, Anno internazionale del Turismo sostenibile per lo sviluppo indetto dalla World Touri-
“Le gallerie d’arte non sono semplici custodi del passato, ma possono trasformarsi in laboratori attivi di innovazione e di cambiamento”
Non tutto è perduto
Si intitola “Hot Spot. Caring for a buring world” a cura di Gerardo Mosquera e rievoca sin dal titolo la grande opera di Mona Hatoum raffigurante la Terra accesa da una luce, rossa come i conflitti che la rendono rovente. Alla Gnam di Roma (fino al 28 febbraio), racconta come la società sia avviata alla catastrofe ambientale. Gli artisti, tutti impegnati nell’attivismo estetico, reagiscono con opere che invitano a immaginare il pianeta in un modo diverso. Foto e video registrano l’innalzamento dei mari (Gideon Mendel e Ange Leccia), animali in via di estinzione (come il gorilla di Davide Rivalta) crisi della biodiversità (Daphne Wright e Ida Applebroog), aumento dei rifiuti (Chris Jordan). Mentre alberi protagonisti delle opere di Cecylia Malik denunciano un mondo malato che può ancora rinascere, come evoca il pianoforte fiorito di Glenda Leòn.
sm Organization, ospitammo un convegno e decidemmo di avviare un piano di ottimizzazione fino al 2025».
Nominano un Energy manager. Avviano la realizzazione di una centrale termoelettrica, migliorano l’illuminazione dei locali con un impianto a led, sostituiscono i lucernari esistenti. E i risultati non tardano: dall’agosto dello stesso anno la Galleria ottiene la certificazione Iso 50001, con risparmi energetici considerevoli ed emissioni di CO2 azzerate. «Nel 2019 siamo stati il primo museo storico in Europa a ottenere questa certificazione; il Louvre è arrivato dopo, nel 2020. Oggi per tutta la sfida è di creare un nuovo paradigma di priorità e fare la nostra parte. Anche i musei inquinano, ma la consapevolezza di ciò è aumentata. E io credo che ognuno debba fare la propria parte. Solo che, anche quando siamo pronti a prenderci responsabilità, a un certo punto ci sentiamo inefficaci, lenti, frustrati: perché servono cambiamenti strutturali. Per richiederli con forza biso-
gna avere la convinzione che le cose possano cambiare. Che siamo ancora in tempo». La Galleria ospita attualmente la collettiva “Hot Spot. Caring for a burning world” a cura di Gerardo Mosquera: 26 artisti da tutto il mondo raccontano l’emergenza climatica e la possibilità, appunto, di fronteggiarla. «Quello che fa la mostra, e che ha fatto silenziosamente il museo prima, è proporre una possibilità: un orizzonte non apocalittico. La mostra dice che esiste l’utopia, intesa alla maniera di Walt Disney però, come sogno che si avvera (“se si può pensare si può fare”). L’utopia è una parola
Attenti a quei soldi
Non c’è posto per i combustibili fossili nell’arte e nella cultura. Sono riesplose, al British Museum, le polemiche per interrompere la sponsorizzazione di British Petroleum. Il supporto della compagnia petrolifera è criticatissimo da anni: non si può dichiarare un impegno per il cambiamento climatico e godere del supporto di chi lavora con i combustili fossili, sostengono gli attivisti. Ora a dare speranza è lo stesso presidente del museo George Osborne che ha annunciato cambiamenti radicali. BP è accusata di sostenere il museo per vantaggi reputazionali. Hanno già interrotto i rapporti con BP Royal Shakespeare Company, Tate Gallery, National Portrait Gallery.
poco usata, che invece dovremmo tutti recuperare: perché è il territorio della possibilità. Il futuro è compromesso, certo, ma non del tutto: è ancora territorio di progetto», sottolinea Collu, che parla di attivismo estetico: bellezza non disgiunta dalle urgenze della contemporaneità.
I musei sono, oggi più che mai, agorà dentro le quali passano memorie e vita. Oggi possono rappresentare hub centrali nell’adozione di buone pratiche ecologiche. La pandemia, del resto, ridefinendo il rapporto tra gli spazi che abitiamo e il nostro benessere, e dimostrando drammaticamente l’interrelazione tra i viventi e la loro impronta sul pianeta, ha accelerato la necessità di ripensare i luoghi fisici. E la crisi energetica di questi mesi ha ribadito la necessità di ridurre consumi e sprechi. Come notano diversi saggi sull’argomento: “The future of the museum” (Hatje Cantz Verlag) di Andras Szanto, dialoghi con direttori internazionali sul potenziale dei mu-
ARCHITETTURA SOSTENIBILE
In alto, da sinistra: California Academy of Sciences di San Francisco; Musée du quai Branly a Parigi; il Muse di Trento. A sinistra: una sala del British Museum, con una colossale testa dall’antico Egitto
sei nel promuovere pratiche virtuose; “La nuova museologia. Le opportunità nell’incertezza. Verso uno sviluppo sostenibile” di Domenico Piraina e Maurizio Vanni (Celid) su come le piattaforme museali possano ispirare nuovi stili di vita e nuove forme dell’abitare. E come indirettamente propone il filosofo Emanuele Coccia (“Filosofia della casa”, “Metamorfosi”) invitando a riscoprire il valore delle “pietre”: pietre modificate, testimoni di vita, modelli che forgiano la vita di oggi. Pietre come memorie che esprimono la biografia dell’uomo. E, oggi, anche le sue preoccupazioni.
«Action speaks louder è una frase che mi piace ripetere: bisogna agire al più presto, e farlo sapere. Perché, come diceva Marie von Ebner-Eschenbach, quando arriva il tempo in cui si potrebbe è finito quello in cui si può», aggiunge Collu.
Come proseguirà l’impegno della Gnam? «Il processo è avviato e certificato. Lo integreremo con lucernari che funzionano come fossero pannelli fotovoltaici, completeremo l’illuminazione a led, potenzieremo l’isolamento delle pareti con finestre che confinano con l’esterno…». Il cambio di passo per integrare cultura e sostenibilità è segnato. Anche dal punto di vista teorico: il 24 agosto 2022, all’Assemblea generale di ICOM a Praga, è stata approvata una nuova definizione di museo, che esplicitamente richiama l’impegno per la Terra: “Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la
“Bisogna agire in fretta e farlo sapere. Perché, diceva Marie von Ebner-Eschenbach, quando arriva il tempo in cui si potrebbe è finito quello in cui si può”
CULTURA NUOVE VISIONI
Cinque musei eco
Il Museo delle Scienze di Trento ha appena festeggiato 20 anni. Progettato da Renzo Piano, ha conseguito la certificazione Leed Gold del Green Building Certification Institute di Washington. Vicino a Trento, a Rovereto, il Mart è fautore di pratiche concrete a favore dell’ambiente. A Roma, ecosostenibile è il Museo per bambini Explora, che utilizza tecniche per un’elettricità pulita e promuove consapevolezza ecologica nei più piccoli. Merita menzione il museo sostenibile Salvatore Ferragamo di Firenze. Perfettamente integrato nell’arco alpino è il Messner Mountain Museum sulla cultura di montagna.
Per approfondire o commentare questo articolo o inviare segnalazioni scrivete a dilloallespresso@lespresso.it i nostri giornalisti vi risponderanno e pubblicheremo sul sito gli interventi più interessanti
sostenibilità”. Gli esempi, nel mondo, sono tanti: dal Museo Quai Branly di Parigi, che accoglie i visitatori con un muro vegetale, da un progetto di Jean Nouvel, alla California Academy Science di San Francisco, modello nella promozione di cultura verde.
Guai, però, a dare l’impegno per scontato: «Tutto dipende da quanto si sente l’urgenza di un cambiamento. Per me lo era. Molti si stanno avvicinando ora all’idea di una rivoluzione sostenibile. Ovviamente ci sono
musei giovani che si strutturano in partenza con tecnologie innovative». Più delicata, e faticosa, è la riconversione dei grandi musei storici. E le polemiche sul fronte delle sponsorizzazioni?
«È sempre complicato per i musei fare a meno del denaro degli sponsor, ma è anche vero che la sensibilità generale non può più ammettere il green washing».
E se la filantropia tossica è smascherata, l’ecoattivismo finisce proprio per sottolineare il ruolo centrale dei mu-
A TUTTA MONTAGNA
In sedi sparse nell’arco alpino, è il Messner Mountain Museum, ideato dall'alpinista altoatesino
sei nella rivoluzione necessaria: «Il museo è un luogo culturalmente iconico, protestare all’interno con azioni eclatanti come quelle che abbiamo visto è sicuramente un modo per attirare l’attenzione. Naturalmente è esecrabile e deve essere respinto. Tuttavia deve anche essere compreso: se la modalità è sbagliata, il principio è corretto e ci riguarda tutti», dice Collu: «E soprattutto riguarda i giovani, cioè quelli ai quali stiamo rubando il futuro e a cui dovremmo restituirlo. Che strumenti hanno i ragazzi, non avendo ancora il potere di prendere decisioni? Io non li giustifico, però non posso non comprenderli, perché sono genitore, perché sono stata anch’io giovane, e perché sento la loro grande preoccupazione verso la Terra che riceveranno in eredità: non sarà semplice il futuro. Per questo abbiamo ancora di più la responsabilità di raccontare quello che stiamo facendo, mostrando di stare dalla loro parte».
Foto: Universal Images Group via Getty ImagesL’ecoattivismo sottolinea il ruolo centrale dei musei nella rivoluzione necessaria: «Non lo giustifico. Ma comprendo la preoccupazione dei giovani»
Arte in dieci tappe
GIUSEPPE FANTASIA
Programmare un museo nell’anno 2023» - spiega il DirettoredelCastellodiRivoli Carolyn Christov-Bakargiev - «significa pensare all’arte come esperienza sensoriale corporea, come luogo di svago e di felicità reale, ma anche pensare all’arte come presa di coscienza dei traumi storici in corso, dall’Afghanistan alle bombe che cadono in Ucraina, fino alle proteste e alla repressione in Iran». L’arte diventa così «una cura attraverso l’estetica, l’intelligenza degli artisti e il pensiero critico che genera nei visitatori».
Anniversari e festeggiamenti
Bologna Si comincia con l’Arte Fiera (dal 3 al 5 febbraio). Poi, dall’11 febbraio, Palazzo Tarasconi di Parma celebrerà il centenario della nascita di Roy Lichtenstein (Variazioni Pop), la Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia renderà omaggio al Perugino. Altri festeggiamenti, dall’11 marzo, al Vittoriale degli Italiani a Gardone Riviera per il 160° anniversario della nascita di Gabriele d’Annunzio con mostre dedicate a Cini e Viani.
Esplosioni al Castello di Rivoli
Torino In quel posto unico a pochi chilometri dal centro di Torino, durante la 30esima edizione di Artissima una personale dedicata a Michelangelo Pistoletto. In primavera Concertino per il mare, di Renato Leotta, il 15 marzo aprirà Esplosioni. Artisti in guerra, con artisti come Nikita Kadan, Rahraw Omarzad e opere di Zoran Mušič, internato a Dachau. E fino al 2 luglio Orizzonti tremanti, con le opere di Olafur Eliasson
Tra le stelle a Firenze
Firenze L’artista danese di origini islandesi è stato al centro del 2022 con un’altra grande mostra a Palazzo Strozzi. Il direttore Arturo Galansino promette meraviglie per “Reaching for the Stars”, mostra in programma dal 4 marzo che farà parlare torinese il museo fiorentino grazie a opere provenienti dalla collezione Sandretto Re Rebaudengo, da Maurizio Cattelan a Damien Hirst, da Lara Favaretto, a William Kentridge.
Per tornare a volare
L’Aquila La nuova sede del museo Maxxi a Palazzo Ardinghelli è un’opera d’arte tra opere d’arte e merita una visita già di suo. Dal 30 marzo doppia personale dedicata a Marisa Merz e all’indiana Shilpa Gupta, riflessione sul presente, sui temi sociali e sulle identità culturali. Il capoluogo abruzzese ospiterà a settembre Panorama di Italics, progetto espositivo con installazioni in tutto il centro storico cittadino .
Miseria e nobiltà nelle Capitali della Cultura
Bergamo e Brescia A San Valentino, il Museo di Santa Giulia di Brescia inaugura l’anno della cultura con Miseria&Nobiltà dedicata a Giacomo Ceruti con un progetto di David LaChapelle, seguito a Los Angeles. A Bergamo, riaprirà dal 26 gennaio l’Accademia Carrara con Cecco del Caravaggio. L’Allievo Modello, dedicata a Francesco Boneri. L’iconica infinity room Fireflies on the Water di Yayoi Kusama è al Palazzo della Ragione.
LE FOTO
Da sinistra: “Cow” di Andy Warhol, a Gallarate. L’artista sarà protagonista dal 22 gennaio al MA*GA; opere di Sarah Lucas a Firenze (Reaching for the stars); caleidoscopio di Olafur
Eliasson alla Tate Modern di Londra; dalla mostra Hilma af Klint e Piet Mondrian, dal 20 aprile; ritratto di Lee Jeffries
Tra innovazioni e arte povera
Roma In attesa di scoprire il titolo della retrospettiva di Francesco Vezzoli ospitata ad aprile al Palazzo delle Esposizioni e di vedere, da febbraio, il nuovo spazio/studio di Nico Vascellari e Codalunga a Ostiense, sarà imperdibile Gesti Universali di Giuseppe Penone, al Giardino dell’Uccelliera di Galleria Borghese, dal 7 marzo. Claudio Abate (24 febbraio), Enzo Cucchi (12 maggio) e Mario Cresci (26 maggio) protagonisti al Maxxi.
Effetto Farfalla per le Langhe
Cuneo e dintorni Ripartiamo da Torino: ai Musei Reali dal 17 marzo c’è Ruth Orkin, dal 4 aprile Sarah Sze alle OGR, dal 22 settembre Ambera Wellmann da Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. Già che ci siete, nel palazzo di famiglia a Guarene, provincia di Cuneo, dal 22 settembre in mostra tanti artisti italiani. Da lì per Alba che ospita in piazza Valerio Berruti, e alla Fondazione Ferrero, con Jacques Henri Lartigue dal 17 febbraio.
London Calling
La capitale inglese si conferma regina dell’arte, con appuntamenti che valgono il viaggio. Dal 23 settembre arriverà Marina Abramović, nel primo grande progetto espositivo sul lavoro di una vita (Royal Academy of Arts). Prima, dal 14 luglio, una mostra dedicata allo studio di architettura Herzog & de Meuron. Al Victoria & Albert Museum dall’11 febbraio Donatello: Sculpting the Renaissance, mentre dal 7 aprile Ai Weiwei sarà protagonista al Design Museum.
Milano, emozioni e ritratti
“Lee Jeffries. Portraits. L’anima oltre l’immagine” è la personale del fotografo inglese diventato la voce dei poveri e degli emarginati (dal 27 gennaio al Museo Diocesano Carlo Maria Martini). Da non perdere, le fotografie di Helmut Newton dal 24 marzo a Palazzo Reale. Non finirà di stupirci Gian Maria Tosatti dal 23 febbraio, nello spazio Shed di Pirelli Hangar Bicocca, e dal 20 gennaio Ettore Sottsass alla Triennale. La Fondazione Prada resta una certezza irrinunciabile.
Venezia verso la Biennale
La città lagunare si conferma protagonista dell’arte italiana dopo una Biennale da 800mila biglietti e mostre da record. Dal 18 gennaio c’è Inge Morath, incantevole, a Palazzo Grimani; dal 12 marzo Chronorama, tesori fotografici del ventesimo secolo, a Palazzo Grassi e Icônes a Punta della Dogana. Imperdibile, alla Peggy Guggenheim Collection, il tributo a Duchamp (14 ottobre). Segnatevi il 20 maggio: si apre la 18esima Biennale Architettura
CULTURA VENT’ANNI SENZA GIORGIO GABER
MILANOStudiamo il Signor G nelle scuole
iorgio Gaber? Sono stato uno dei primi a scoprirlo. Conservo un 45 giri in cui lui ancora non firmava da solista, era del gruppo Rocky Mountain Old Times Stompers, che lui fondò con Enzo Jannacci, Luigi Tenco, Paolo Tomelleri e Gian Franco Reverberi». Lo dice con un certo orgoglio Renzo Arbore, mattatore della tv e ambasciatore della musica italiana nel mondo. «Per uno come me che apparteneva al mondo del jazz non era facile ammettere che un artista come Gaber, che faceva musica country e rock and roll, fosse così bravo. Noi jazzisti avevamo un po' la puzza sotto il naso quando sentivamo parlare di rock and roll, ma Gaber incantava tutti, e così cominciai ad affezionarmi alla sua musica, a seguire il suo percorso artistico». Una carriera densa quella di Gaber (all’anagrafe Giorgio Gaberscik), nato a Milano il 25 gennaio del 1939 e morto il primo gennaio del 2003 in Versilia. Gaber iniziò a suonare come chitarrista nel gruppo di Ghigo Agosti (Ghigo e gli arrabbiati), poi entrò nei Rock Boys, il complesso di Adriano Celentano, e subito dopo nacquero i Rocky Mountain Old Times Stompers. Nell’estate del 1958 cominciò a sperimentare le sue doti canore. Un giorno fu notato da Nanni Ricordi e iniziò la sua carriera da cantante di successo che tutti noi conosciamo. Ma forse la definizione più giusta per lui è quella di intellettuale. A 20 anni dalla sua scomparsa, ne parliamo con Renzo Arbore, che sta lavorando a un progetto per Rai Cultura in cui rilegge le varie tappe della musica ita-
liana, compresi i brani musicali del Signor G, recuperati integralmente. Che ricordo ha di lui?
«Gaber era una persona di grande talento, ma non amava la tv, e questo è un peccato. L’avevo invitato tante volte quando conducevo “L’altra domenica” su Rai 2 ma non accettò mai il mio invito».
All'inizio della carriera si esibiva al Santa Tecla, a due passi dal Duomo, in cui passavano Adriano Celentano e Mogol...
«Sì, in quegli anni Santa Tecla era un club frequentato anche da Luigi Tenco, Gino Paoli, Enzo Jannacci e tanti ragazzi che sognavano il successo. Diciamo che artisticamente Gaber ha avuto due grandi periodi. Il primo fu quello in cui a scrivere le sue canzoni era Umberto Simonetta, che aveva scoperto anche Jannacci. Il suo successo più grande fu “La ballata del Cerutti”, nel 1960, ma ci furono anche “Trani a
G
I primi concerti. Gli anni Settanta, l’impegno, i dubbi. E la voglia di vera libertà. Il grande showman rievoca canzoni e ricordi: “Oggi sarebbe un cane sciolto, critico e perdente”
CULTURA VENT’ANNI SENZA GIORGIO GABER
gogò” o “Il Riccardo”, tutte canzoni ricche di poesia che raccontavano ciò che accadeva al bar del Giambellino, in cui Gaber passava le sue serate e di cui raccontò più avanti anche nel brano “Le nostre serate”, pentito di quelle “serate stupide e vuote”. In quegli anni erano nate anche “Torpedo blu” e “Non arrossire”, ma ad un certo punto Gaber capì che doveva inventare qualcosa di diverso».
Cosa cercava?
«Non voleva solo cantare le sue “canzoncine” e venderle. Per questo incontrò Sandro Luporini, poeta, scrittore, con il quale inventò “Il Signor G”, che ha fatto molto discutere ma ha anche narrato quel periodo lì. Erano gli anni di piombo, gli anni delle proteste e i cantanti dovevano essere “impegnati”. Attraverso il Teatro Canzone, genere di cui Gaber fu l'inventore, rifletteva su tutto ciò che accadeva. Negli anni Settanta lui era controcorrente, critico, ma era anche discutibile. C’era uno sdoppiamento da parte sua, come ci indica anche il titolo dell'album “Dialogo fra un impegnato e un non so”. Una sua frase della canzone “Un’idea” diceva: “Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione”. Quando uscì il brano “La libertà”, in cui cantava che la libertà era uno spazio di partecipazione, non uno spazio libero, fu accusato di essere ambivalente».
Negli ultimi anni di Teatro Canzone fu però molto critico nei confronti della società.
«Quando uscì “Far finta di essere sani” fu molto critico verso il governo e cominciò a raccontare le paure dell'epoca, i suoi monologhi interpretavano la società di allora, finché scrisse “Io se fossi Dio”, un brano spiazzante che era un’invettiva contro tutti, giornalisti, politici, intellettuali. Negli anni di piombo scrisse anche “Qualcuno era comunista” e “Destra-Sinistra”, una canzone scherzosa ma ricca di significato.
Verso gli anni di fine carriera uscì l’album “E pensare che c'era il pensiero”. La seconda vita di Gaber è stata un inseguimento
MUSICA D’AUTORE
Showman, musicista, conduttore radiofonico e televisivo, Renzo Arbore, 85 anni, è stato tra i primi a scoprire Giorgio Gaber
del pensiero che voleva analizzare, criticare, condividere. Gli anni di piombo erano gli anni di Marcuse, Mao, Adorno, ma io penso che in fondo in fondo Gaber fosse un liberale. Lui non si esponeva, voleva decifrare, era stordito dalla politica invadente che etichettava».
Esattamente 10 anni fa lei reinterpretò “Non arrossire”, immagino sia uno dei suoi brani preferiti...
«Sì, “Non arrossire” è un brano che ho amato molto, che interpretai a Viareggio con Stefano Di Battista in un concerto organizzato da Dalia, la figlia di Giorgio. Amo molto anche “Porta Romana”. Mi piaceva quel modo che aveva Gaber di raccontare Milano, lo faceva talmente bene che era impossibile non innamorarsi. Noi “terroni” subivamo il fascino di Milano. E così ho continuato ad amare Gaber per tutta la vita».
Qual è l'eredità di Gaber, perché ancora oggi lo ricordiamo?
«Aveva visto lontano, i suoi brani sono ancora attualissimi, perché affrontava delle tematiche che riguardavano tutti. È importante comporre canzoni a futura memoria. Ed è giusto riscoprirle, come fanno portandole in giro nei teatri Neri Marcorè o Andrea Scanzi».
Gaber parlava spesso di politica, di libertà. Cosa direbbe Gaber della società di oggi?
«Sono argomenti sempre attuali. Ma oggi credo che Gaber sarebbe un cane sciolto, assolutamente critico e perdente, i suoi ideali non sono stati realizzati, sarebbe un deluso della società».
Esistono Festival, manifestazioni, c'è una Fondazione che rendono omaggio a Gaber. Si può insegnare il pensiero critico? «Certo, Gaber è senza dubbio da approfondire. Io credo che andrebbe studiato nelle scuole. Penso sia giusta questa riscoperta di un cantante che è riuscito a fotografare un’epoca complicata. Il suo era un pubblico di sinistra, acculturato, con cui doveva fare i conti. Ma era molto amato».
BeReal sinceritàa scatti
VALERIA VERBARO
algoritmo è impazzito», si continuava a ripetere la scorsa estate, quando pubblicare una foto su Instagram sembrava uno sforzo inutile e invisibile. Si impara presto a familiarizzare con le parole astratte se ricadono nella quotidianità. La legge sfuggente dei social network, infatti, aveva imposto all’improvviso i brevi video - i reel - sui post, in un inseguimento non troppo celato con il colosso cinese TikTok. La corsa ai like e alle visualizzazioni e il forzato “influencer building”, come si definisce la costruzione dettagliata dei profili per ottenere la massima visibilità, per alcune settimane hanno tolto a Instagram tutto il divertimento, creando un vuoto di mercato ben percepibile e subito riempito dall’app che ha promesso di diventare il suo opposto: BeReal. Un solo post al giorno, un selfie e una fotografia frontale scattate nello stesso momento all’orario deciso dall’app, questo è il principio del social network che torna alle origini, ricercando la spontaneità ingenua di dodici, tredici anni fa, quando i trentenni di oggi usavano Facebook come una raccolta di impressioni giornaliere. La Generazione Z, quella che ha portato BeReal al successo globale, non ha mai conosciuto quel primo periodo di assestamento senza filtri dei social network, tra il 2009 e il 2010, e adesso lo scopre e lo ricrea in una nuova veste, autoconsapevole dei trucchi e delle costruzioni operate quotidianamente sul web per distorcere la realtà, anche nei suoi aspetti più banali. È così che alle 23.59 del 31 dicembre, quando il brindisi di Capodanno è già pronto, su milioni di telefoni arriva la stessa notifica: «Time to BeReal!», è l’ora del BeReal, perché è quello il momento di scoprire se tutti gli amici hanno detto la verità, se sono al veglione, in montagna o già in pigiama!
Solo chi pubblica, nei due minuti di tempo a disposizione dalla ricezione della notifica, ha la possibilità di vedere cosa fanno gli altri. Il “post to view”, così come viene chiamato questo vincolo, è la regola forse più importante del gioco, l’incentivo a essere davvero sinceri, letteral-
SI MOSTRI CHI PUÒ
Solo chi pubblica la sua foto può vedere cos’hanno postato gli altri utenti di BeReal
mente immediati nei 120 secondi che l’app concede prima che il proprio post venga etichettato come “In ritardo” e quindi ormai fallato. O peggio, costruito.
«BeReal ti potrà dare fastidio», «non ti renderà famoso, se vuoi diventare un influencer puoi rimanere su TikTok e Instagram», «è la tua opportunità di far vedere ai tuoi amici chi sei realmente», far cadere tutte le maschere. È così che si descrive l’app nella scheda ufficiale. Se usato in modo corretto è molto più veritiero di qualsiasi altro social, ma il senso è tutto qui, nel modo corretto. Dopo 50 milioni di download in un solo anno, con il picco tra agosto e settembre 2022, infatti, l’interesse intorno all’app sembra già essere in rapida discesa. In Italia rimane ancora fra le cinque più scaricate ogni giorno ma solo il 9% degli utenti globali la usa quotidianamente, secondo le stime di Sensor Tower, l’unico software online che al momento fornisce dati attendibili su BeReal. «Si è perso l’hype», afferma Beatrice O., 22 anni, «metà dei miei amici non pubblica più tutti i giorni. L’uso che se ne doveva fare doveva essere fresco, immediato, ma la gente ha iniziato a usarlo come Instagram, a fare la foto solo all’aperitivo». La gente, cioè, ha imparato a barare anche qui.
Una notifica imprevedibile. E due minuti per una foto spontanea e senza filtri.
L’App anti-Instagram è tra le più scaricate al giorno. Ma i ragazzi hanno già imparato a barare
Sono un uomo fortunato
Antonio Albanese è uno dei pochissimi attori in Italia, forse l’unico, ad avere così tante vene artistiche. È un comico straordinario, creatore di personaggi senza tempo. È un raffinato attore drammatico, un talentuoso regista cinematografico e teatrale, un ballerino sopraffino e uno scrittore (sì, ha scritto anche dei libri). Com’è possibile avere tutte queste abilità?
Sa fare tutto, gli dico appena me lo vedo apparire in videochiamata.
«Io non faccio tutto. Semplicemente faccio il mio lavoro. Sono un attore, e per fare l’attore bisogna pensare, osservare. E questo vuol dire scrivere. Fare l’attore implica la conoscenza del proprio corpo, il sapersi muovere, essere in grado anche di ballare, e ballare è musica. Fare l’attore vuol dire comunicare, immaginare, prendere delle decisioni: dunque anche dirigere».
Non mi stupirei se mi dicesse che sa anche disegnare.
«No, sono negato, e ci soffro perché sono un vero appassionato di pittura, di disegni in particolare. Mi piace credere di essere uno dei massimi esperti di George Grosz».
Lei è anche un motivo di speranza per chi crede che la vita non sia già scritta nelle pagine di un destino. Figlio di operai, a quindici anni entra in una piccola azienda come tornitore. A ventidue anni lascia il certo per l’incerto e fa delle scelte che la porteranno al successo.
Antonio Albanese, 58 anni, spazia dal teatro al cinema, dall’opera lirica alla scrittura
«Da bambino nessuno mi ha aperto delle finestre per farmi scrutare un universo al di fuori di quello che conoscevo, familiare, piccolo. Eppure, grazie a un gruppo di amici, grazie a una passione debordante, a molti sacrifici e rinunce, sono riuscito a costruire un solido trampolino di lancio. Una volta a Milano, città alla quale devo tutto, ho seguito dei corsi serali di teatro. Poi ho fatto la “Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi” e da lì ho cominciato a fare cabaret… mi pagavano subito, e visto le mie condizioni economiche di allora mi faceva molto comodo».
Chi è stato a scoprirla?
«Giampiero Solari insieme a Paolo Rossi, mi notarono una sera in un locale. Rossi aveva bisogno di aiutanti, di una spalla nel suo programma televisivo “Su la testa”, e così mi chiese di lavorare con lui. Eravamo a Baggio, dentro un tendone, in un quar-
tiere periferico di Milano. La ricordo come un’esperienza illuminante, capii che mi trovavo nel posto giusto. Da lì poi c’è stato l’incontro con la Gialappa’s Band, che mi chiamò per “Mai dire gol”, quindi mi ha visto Mazzacurati per il cinema e così via, ora non mi pare il caso di declamare il curriculum (ride)».
Se dovessi scrivere qui tutto quello che ha fatto l’elenco sarebbe lunghissimo. Parliamo invece di quello che accadrà nel 2023, che mi pare già tanto.
«Si apre un anno molto particolare per me. Un anno dove farò tutto quello che amo fare. Le spiego: ora esce al cinema un bellissimo film di Riccardo Milani, “Grazie ragazzi”, dove interpreto un regista squattrinato che si ritrova a dirigere un corso di teatro all’interno di un carcere di sicurezza. Allo stesso tempo dovrò spostarmi in Sardegna per realizzare la regia di “Gloria”, un’opera lirica semi-sconosciuta di Francesco Cilea, che il 10 febbraio inaugurerà la stagione del Teatro Lirico di Cagliari. Poi, dal 23 al 26 febbraio, sarò al Teatro degli Arcimboldi di Milano con tutti i miei personaggi. Maschere che ho costruito nel tempo, con minuzia, attenzione ossessiva, precisione, osservazione… non sa quanto ci tengo ai miei personaggi!
Io sono molto più protettivo nei loro confronti che nei confronti della mia immagine. Le faccio un esempio: io non ho social. Non ho tempo. Anni fa c’era uno
Foto: Antonello & MontesiIn molti lo conoscono per Cetto La Qualunque e altri personaggi inconfondibili. Adesso una nuova folgorazione: la regia di opere liriche.
“È stato un colpo di fulmine. Trovo il melodramma una forma d’arte all’avanguardia”
che aveva aperto un canale con la faccia di Cetto La Qualunque, il mio imprenditore-politico calabrese depravato e corrotto; ci guadagnava addirittura qualche soldino. Mi sono arrabbiato e l’ho fatto chiudere. I miei personaggi non si toccano! Adesso, sempre su Instagram, c’è un tizio che usa la mia di faccia, con più di centomila contatti. Beh, non mi importa. Mi dispiace solo per chi crede che sia io». In effetti è strano, ci si aspetterebbe il contrario! Vorrei però tornare all’Opera lirica, che mi incuriosisce molto. Come ha cominciato a fare il regista per i maggiori teatri lirici d’Italia?
«Fare l’attore comico è uno dei mestieri più difficili. Prevede istinto, tecnica, scrittura, abilità motorie, forte espressività, senso del ritmo, ascolto. Se ho tutte queste capacità, come credo di avere, perché non dovrei essere capace di dirigere dei cantanti lirici? E mi ci diverto parecchio. A loro spesso dico: meglio non fare nulla che troppo. Non dovete essere eccessivamente entusiasti! Eliminate la fisicità barricata».
Barricata?
«Sì, come il vino barricato, vecchio! Ho cominciato grazie a Stéphane Lissner, che a quei tempi era il sovrintendente e direttore artistico del Teatro alla Scala di Milano. È stato lui ha propormi la regia di “Le convenienze ed inconvenienze teatrali” di Donizetti. Da lì l’occasione con l’Arena di
CINEMA
Da sinistra: Antonio Albanese, Fabrizio Bentivoglio e Sara Bergamasco in una scena del film “Grazie ragazzi” di Riccardo Milani
Verona, per la quale misi in scena, sempre di Donizetti, il Don Pasquale. Quello con la lirica è stato un incontro folgorante. Trovo il melodramma una forma d’arte all’avanguardia. E poi, non sai che meraviglia stare in mezzo a un’orchestra. Travolto dalla musica, da voci splendide. Questa sulla quale sto lavorando ormai da mesi è una sfida meravigliosa. È stata rappresentata per la prima volta nel 1907 alla Scala di Milano diretta da Arturo Toscanini, poi a Napoli nel 1938, e poi se ne sono perse le tracce fino al 1969, quando venne trasmessa alla radio per la prima volta. Insomma, nessuno oggi può dire di aver mai visto “Gloria” in teatro. E io sarò il primo a metterla in scena dopo oltre ottant’anni».
E tra le tante cose ha in programma anche la regia di un suo film?
«Assolutamente sì. Dopo l’estate uscirà un lungometraggio che si intitola “Cento domeniche”. Mi sta molto a cuore; l’ho girato nella fabbrica dove ho lavorato da bimbo. Ma non dico di più, è ancora presto». Mi sta raccontando una vita in discesa. Non ha mai avuto momenti difficili, ripensamenti, paure?
«Le rispondo con un poco di imbarazzo. La verità è che da quando ho cominciato a lavorare non ho avuto momenti difficili da affrontare. Certo, ho rinunciato a molti progetti anche importanti, ma non mi sono mai pentito. Sono un perfezionista, ogni mia scelta è stata ponderata con estrema attenzione. Ho avuto anche la fortuna di incontrare artisti di valore che mi hanno dato tanto, tra i quali Vincenzo Cerami, Michele Serra, Stefano Benni, Giampiero Solari e tanti altri. Diciamolo, sono un uomo anche molto fortunato».
Cosa pensa del nuovo governo?
«Io sto alla politica come Polifemo sta allo strabismo, quindi difficilmente ne parlo, ma di certo una cosa posso dirla: durante queste ultime elezioni politiche non ho mai sentito pronunciare la parola cultura. E questo è vergognoso».
CULTURA GHOSTWRITING
I fantasmi di Sanremo
Capita che sto ascoltando la radio, in macchina, e passa una canzone che ho scritto io. Allora mi sbrigo a cambiare stazione». C’è un paroliere fuori dalle luci di Sanremo. Ce ne sono più di uno, in realtà, ma lui è disposto a raccontare dall’ombra. «Capita anche di leggere cosa dicono i cantautori nelle interviste, a proposito di testi miei. Perché la curiosità è inevitabile. E capita che dicano: “Questa canzone l’ho scritta in un momento strano della mia vita”...».
Il Paroliere Fantasma sorride, a ridosso del 73° Festival della canzone italiana. Ha un nome sconosciuto al grande pubblico, ma è autore di testi che il grande pubblico conosce magari a memoria. Quel nome non lo faremo, perché la segretezza è una condizione chiave nel suo mestiere. Non viene annunciato dal palco di Sanremo, non compare nel sottopancia, quando chi canta aspetta la fine dell’applauso per cominciare a esibirsi. Ci sono altri nomi a firmare, anche famosi. Eppure è lui il vero autore. Per quanto, vero e falso ancora una volta non sono categorie praticabili. Il Paroliere Fantasma mette insieme parole che a volte hanno successo, in ogni caso lontano da lui e senza che a lui siano riconducibili. Non ci dirà quali canzoni ha scritto in questi anni («Non l’ho mai detto neanche a mia madre»). Non ci dirà quale brano, nell’imminente edizione del festival, ha raggiunto la finale. Farà di più: porterà L’Espresso nelle cucine in cui si prepara il grande spettacolo della musica italiana.
TOMMASO GIAGNIdolescenza. Ho anche partecipato alle selezioni di Sanremo Giovani, molto tempo fa. Mi sono fatto diciotto anni di piano-bar, quindi il festival dovevo seguirlo: nei pub ti chiedono quelle canzoni già dal giorno dopo. E poi Sanremo finisce a febbraio, a maggio prendono il via i matrimoni e i pezzi devi saperli. Scoprire, in questi anni, che il pezzo che faceva piangere gli sposi non era del suo autore, ma di un ghostwriter... Ti dici: come cazzo è possibile?».
«Ho iniziato cinque anni fa. Per gioco, anche se con la paura che fosse qualcosa di illegale. Alcuni cantautori delle mie parti hanno letto testi che avevo scritto e mi hanno incoraggiato. Allora ne ho proposto qualcuno a un’agente, eravamo in contatto perché l’avevo intervistata tempo prima». Il Paroliere Fantasma scrive libri e collabora con i giornali, nella vita emersa, visibile. E proviene dalla musica: «Sono un pianista, scrivo canzoni fin dall’a-
La stagionalità è un fattore importante. Tra settembre e ottobre, in tempo per le selezioni di Sanremo, il Paroliere Fantasma invia i suoi lavori. Tre alla volta, ogni anno. «L’agente scova autori per canzoni, autori che accettano di restare nell’anonimato, e sottopone i loro testi alle produzioni. Così ha fatto per me, ha mandato le mie parole a chi è dietro alle più grandi manifestazioni. Mi ha colpito questo, che
Scrive canzoni e poi le cede ad altri. Che le firmano e le portano al successo.
E spesso al Festival. Ma l’impegno è di rimanere sempre nell’ombra
ha voluto iniziare da subito in grande». Ci parla di un sistema unico, in cui oltre a Sanremo ci sono i grandi talent televisivi, gli album, i tormentoni estivi («Magari mi chiedono dieci parole da inserire nella hit di un deejay»). Ovunque gli stessi meccanismi. La fase creativa, però, mantiene una dimensione personale, isolata. Se c’è qualcosa di autentico in questa storia, bisogna cercare lì. «Non ricevo indicazioni sui temi o su altro. So che l’estate è un tema che piace, per esempio, ma scrivo di quello che mi va. Non saprei fare in un altro modo, mi bloccherei».
All’inizio di dicembre, il Paroliere Fantasma ha saputo che uno dei suoi testi ha passato le selezioni per Sanremo 2023. Verrà interpretato sul palco dell’Ariston. Da chi, lui lo saprà in un secondo momento. «La canzone viene abbinata all’artista dalle produzioni. Indirizzano loro, a secon-
da degli ospiti che hanno. Io lo scopro solo poco prima dell’inizio del festival, quando vengono pubblicati i testi in gara: vado in edicola, compro Tv Sorrisi e Canzoni e vedo a chi è stato assegnato il mio». A quel punto il Paroliere Fantasma e le parole che ha scritto saranno, apparentemente, slegati. «Studio con attenzione le piccole modifiche che sono state fatte al testo. Quasi sempre una frase, una parola qua e là, non un periodo intero. Sono cambiamenti legati alle ritmiche, agli arrangiamenti». Così come, nel momento in cui l’artista di turno aspetterà sul palco la fine dell’applauso per cominciare a esibirsi, il Paroliere Fantasma sarà apparentemente uno spettatore qualunque davanti alla tv. Nonostante quel brano sia fatto di parole sue.
È un paradosso che vale per ogni campo d’applicazione del ghostwriting: una distanza improvvisa separa l’autore dall’opera
COMPOSIZIONE
Chitarra, tastiera, computer e blocco per gli appunti. Il compositore all’opera
(che sia un romanzo, una sceneggiatura, una canzone). Il film “The Ghost Writer” di Roman Polanski, nel 2010, mostrava la tecnica di uno scrittore al servizio delle memorie di un primo ministro. È più difficile immaginare il ricorso a un autore occulto per una cosa legata alla stretta creatività, come il testo di una canzone. Forse perché è diffusa l’idea che il gesto creativo riguardi pochissimo la tecnica e sia invece uno slancio, immediato come i sentimenti che traduce. È certo, però, che il rapporto tra creatività e inautenticità può creare un cortocircuito.
Perché fare il ghostwriter, se non per soldi? Il Paroliere Fantasma non considera altri motivi. Ed è nei soldi l’origine dell’unica frustrazione che ammette di provare in questo mestiere. «Vengo pagato dalle produzioni tramite l’agente, una parte che di volta in volta si pattuisce. Non ricevo percentuali sulle vendite. Un mio testo ha vinto un premio importantissimo: ho ricevuto 4.800 euro, la canzone in pochi mesi ha guadagnato milioni di euro». È una regola di questo gioco, sta nei patti. Il ghostwriter svolge un lavoro in cambio di un compenso, qualcun altro casomai si arricchirà. «Se non scrivessi anche altro, come invece faccio con libri e articoli, di sicuro non scriverei testi per la musica.
L’anonimato mi peserebbe e sentirei di disconoscere il valore della scrittura, di non rispettarla. Invece, così rimane un gioco. E giocarci è un lusso».
Un altro lusso lo vede nell’essere riconosciuto attraverso la scrittura. Il Paroliere Fantasma si attiene al segreto sulle canzoni che hanno le sue parole, ma non nasconde l’attività di ghostwriter alle persone care. E anche quest’anno ci sarà chi, di fronte ai brani in concorso al festival, proverà a riconoscere la sua sensibilità. «Sì, ogni tanto mi beccano», ride. Anche quest’anno, nel caso, non potrà confermare né smentire. La soddisfazione correrà invisibile. Uno dei maggiori crucci di chi scrive, d’altronde, è che la sua voce sia anonima, impersonale. Forse per questo il ghostwriting richiede una maturità stilistica, sparire è per chi ha già una consistenza.
E gli altri parolieri fantasma? Esiste una rete, una solidarietà, un confronto, nell’ombra? «Ne ho conosciuti diversi. Per me una delle rivelazioni più sconvolgenti è stata scoprire che alcuni sono giovanissimi, adolescenti, magari usati per
Il teatro Ariston di Sanremo, tradizionale sede del Festival della canzone italiana
All’Ariston va in scena il trionfo dell’apparenza. Non ci vado mai. Resto a casa e guardo le serate in tv, come uno spettatore qualunqueTEATRO
accorciare la distanza dal target. Per quanto, lo sapevo già che i ragazzi spesso sanno scrivere meglio di noi adulti. In ogni caso, è difficile che venga fuori un’amicizia. C’è una specie di titubanza: il timore di rubarsi il mestiere, di farsi sfuggire qualcosa di delicato». Si fa l’abitudine a stare nascosti, a non esporsi, e in qualche modo l’ombra protegge. È un circuito in cui non bisogna apparire.
Contemporaneamente, le serate della finale sono un evento mondano di tale portata che non esserci può equivalere, per qualcuno, a non essere. «Ci vanno tutti, a Sanremo, nei giorni del festival. Ma io finora non sono andato e anche quest’anno non andrò. Un po’ per paura. Va ricordato sempre che intorno al mio lavoro c’è una grande segretezza. È un gioco, la prima impressione che ho avuto era giusta, però è un gioco serio». Non andrà di persona, sarà uno spettatore qualunque davanti alla tv. Apparentemente, come ha fatto dall’infanzia e fino a qualche anno fa. «L’Ariston sarà pieno, ma molto sarà falso. Un po’ come quando una figura istituzionale visita una scuola e allo-
ra viene tirato tutto a lucido. Il teatro pieno di questo febbraio non sarà, in fondo, dissimile dal teatro vuoto per la pandemia nell’edizione 2021». I cantanti in gara scenderanno in platea, si avvicineranno alle telecamere, mostrando di avvicinarsi al pubblico, di abbattere la distanza. Ma sarà una costruzione, come pure la gran parte dei momenti a prima vista spontanei. Effetti di realtà.
Il Paroliere Fantasma la mette giù lucidamente, ma senza cinismo: «Sanremo è un’industria dello spettacolo, una holding che dà lavoro a migliaia di persone. È un sistema basato sull’apparenza e non ha nulla di improvvisato. È come il metateatro, il metacinema. Io, certo, lo seguirò sempre, per tutta la vita, ma ormai non me lo godo più tanto. Mi sento preso per il culo, ho perso quell’ingenuità bambina che avevo. Scoprire che certe canzoni firmate da autentici miti, canzoni che amo, miei punti di riferimento, sono state scritte da altri...scoprire che non sono emozioni provate da quell’artista è stato uno shock. E allora ho messo in discussione tutto. Quello che ascolto è vero o è falso? Dubito di tutto, da quando scrivo testi per la musica. Mi sono creato una corazza rispetto al mondo». Si sente un avversativo ad accompagnare la frase. In effetti il Paroliere Fantasma, dopo una pausa, dice: «Forse è tutto falso, però quella falsità produce comunque emozioni. Per questo non mi sembra un lavoro sporco: perché è legato a sentimenti veri che provo mentre scrivo. E dà emozioni vere a chi ascolta. Niente vale quanto l’emozione che viene da una canzone, no? Per fortuna esistono le canzoni... A volte questi artisti neanche sanno chi sono i loro ghostwriter, chi c’è dietro alle loro parole». Dal 7 all’11 febbraio lui starà, come il resto del pubblico televisivo, a guardare dall’esterno il festival. «Spero che il mio testo vada a un interprete che mi piace, questo sì. Spero sempre che non abbiano assegnato le mie emozioni a qualcuno che non stimo».
Solo all’ultimo so chi si prenderà i miei versi. Mi consola il fatto che a volte gli amici mi dicono di aver riconosciuto il mio stile
BOOKMARKS Sabina Minardi
Occhio agli inglesi
Che volto ha il potere? Con quale sguardo perpetua il suo carisma? E può una galleria di ritratti addensare e rappresentare il carattere, la cultura, la storia di un Paese? Lo storico Simon Schama, docente alla Columbia University, editorialista del Financial Times e del New Yorker, lo dimostra, riunendo in un imponente volume i visi di re e di capi di Stato, di politici e di letterati, di regine, cortigiane, filantropi, filosofi e persino popstar: “Il volto di un impero” (Mondadori, traduzione di Massimo Parizzi), l’Inghilterra attraverso i suoi capolavori, dal tormentato ritratto di Winston Churchill di Graham Sutherland a John Lennon, fotografato da Annie Leibovitz solo cinque ore prima di essere assassinato.
Nell’era della fretta, di sguardi lunghi il tempo di uno scrolling, di selfie tanto costruiti quanto istantaneamente svaporanti, un affascinante indugio tra abiti regali, simboli misteriosi, posture, gioielli, animali e soprattutto occhi: magnetici, che esprimono talenti e personalità, temperamenti e debolezze di uomini e donne destinati a scavallare i secoli e a tramandare segmenti di storia dell’umanità.
Il potere dello sguardo in un saggio di Simon Schama. La biografia di Clarice Lispector. Un viaggio tra le banche del futuro. E Corto Maltese
Nata nel 1920 in Ucraina ma brasiliana d’adozione, Clarice Lispector ha occupato un posto amatissimo nella letteratura, grazie alla sua capacità di cogliere l’anima moderna e raccontarne “il cuore selvaggio” delle donne. Con una lingua che punta all’esattezza, quasi ricalcando uno stile nel quale ogni singola parola è astratta e precisissima, Ginzburg ne ripercorre la vita. In un raffinato libro, illustrato da Pia Valentinis, anche per i più giovani.
CERCAVO UN’IMMENSITÀ
Lisa Ginzburg
rueBallu, pp. 91, € 22
Osservate, criticate, chiamate a intercettare le sfide del presente come gli obiettivi della transizione ecologica, le banche restano istituzioni decisive nell’affrontare le trasformazioni strutturali della società: dalla crisi dei mercati finanziari alle innovazioni tecnologiche. Un saggio sul delicato rapporto tra poteri delle autorità nazionali e regole europee. Equilibrio che tratteggerà il futuro di tutti.
IL VOLTO DI UN IMPERO
Simon Schama
Mondadori pp. 672, € 40
Schama aveva già indagato il potere dell’arte e della rappresentazione in altre sue apprezzate pubblicazioni. Ma in questo libro destinato a durare, in questo viaggio tra sguardi che anche solo a sfogliarlo ti inseguono implacabili grazie al ricco apparato visivo, c’è di più: l’orgoglio, la presunzione, l’ambizione, la genialità degli artisti e di chi si mette in posa. La personalità di un Paese, arricchita da un’incredibile quantità di aneddoti, retroscena, dettagli intorno a un’opera e a un personaggio. Frammenti di storie che costruiscono un’identità collettiva. Dell’impero, certo, ma in fondo anche dell’umanità: perché veniamo al mondo per guardare. Per compiere un destino che è sempre, prima di tutto, un potente, istintivo incontro di occhi. Sin dallo sfocato sguardo del neonato, che dalle prime espressioni coglie gioia, paura, fiducia, contatto. Da quel ripetuto cablaggio sociale, da quei decimi di secondo di uno sguardo dipendono relazioni, scelte. E la grandeur di un popolo.
IL FUTURO DELLE BANCHE
Stefano Lucchini – Andrea Zoppini
Baldini+Castoldi, pp. 240, € 20
Il marinaio, il pirata, il più amato gentiluomo di ventura. E il mare, il verso degli ibis in volo, l’accendino su uno dei suoi sigari sottili... Corto Maltese in formato audioserie, in un’operazione di rilancio vintage delle prime storie pubblicate sul settimanale “Pif” tra il 1970 e il 1973. Ideate da Federico Castelli Gattinara dai testi di Hugo Pratt, sei puntate che intrecciano in modo suadente avventure, voci, musica. Da ascoltare dal 27 gennaio.
CORTO MALTESE – SUITE CARIBEANA Emons Record
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Gli anziani ci guardano
Non sappiamo se sia vera la leggenda che racconta di un JR diciottenne - che all’epoca faceva lo street artist e si faceva chiamare Face3 - che trova nella metropolitana di Parigi (sua città natale) una macchina fotografica che qualcuno aveva perso o dimenticato. A noi piace pensare che lo sia e siccome l’arte è l’unica disciplina in grado di riscrivere la storia, quella di JR comincia così, per caso, tra quei vagoni romantici e un po’ magici che «si alzano e volano sui tetti e scivolano e scivolano» come cantava Edith Piaf in “Le Métro De Paris”. A volare sui tetti del mondo da quel momento è stato certamente lui, quel Jean René che avremmo conosciuto solamente attraverso le sue iniziali e che oggi è il fotografo vivente più noto e acclamato. E la sua lezione principale ai fotografi è stata proprio quella di non identificarsi con quel termine: il mondo lo chiama artista, non fotografo, proprio perché ha avuto come pochi altri la capacità di uscire dal mezzo che spesso si fa ghetto, per trasformare le sue immagini in opere e installazioni che vanno ben oltre. Dal 31 gennaio arriva a Milano Inside Out, il suo progetto che in questo senso sta facendo scuola, fotografie che dominano gli spazi pubblici scattate da tante persone che JR raggruppa come un collettivo: 700 mq di immagini degli anziani di 40 Rsa d’Italia abbracceranno l’Arengario, sede del Museo del ’900 e l’edificio gemello che ne diventerà estensione. “Ora tocca a voi” è il nome scelto per questa tappa e sarà un ideale passaggio di testimone tra generazioni, una stretta di mano tra la fascia
Nella tappa milanese del suo progetto Inside Out JR porta le immagini scattate a persone ricoverate in 40 Rsa italiane
della popolazione che in questi anni ha più sofferto l’isolamento e i più giovani, che sono poi gli autori e le autrici degli scatti, gli studenti del Corso di Fotografia dell’Accademia di Brera. L’artista però resta lui, JR, che nel lasciare il controllo e la paternità di un suo progetto ad altri, ci racconta in grandi affreschi contemporanei i riflessi della società e del mondo.
Su questo è stato maestro fin da giovanissimo: a vent’anni ha fotografato le rivolte scoppiate nelle Banlieues e ha creato il suo primo grande progetto pubblico, incollando in giro per la città titaniche stampe dei volti catturati. Due anni più tardi crea Portrait of a Generation, ritratti di “teppisti” suburbani, e tappezza i quartieri più ricchi della capitale francese con le facce della controcultura. I suoi progetti di paste-up però sono moltissimi, da Face 2 Face, con il quale mette a confronto israeliani e palestinesi con gigantografie, o Women are Heroes, con il quale fotografa i volti di donne incontrate in Kenya, Brasile, India, Cambogia.
Inside Out, progetto di JR, dal 31 gennaio al 14 febbraio a Milano. Arengario e altri luoghi della città
Inside Out è cominciato nel 2011, dopo la vittoria da parte di JR del Ted Prize e da allora ha prodotto mezzo milione di ritratti, coinvolto 148 nazioni e migliaia di attivisti. Gli ultimi in ordine di tempo combattono lo stigma della malattia mentale in Nigeria oppure uniscono le tante comunità di Beausoleil che si incontrano durante la festa della musica. A Milano a scrutarci saranno invece gli anziani, in riproduzioni rielaborate da JR una a una che ricordano le immagini della grande diffusione dei quotidiani, però con uno sfondo a pois che rende tutto spiritoso e surreale: «Il dialogo intergenerazionale, uno sguardo sul passato e sul futuro - dice l’Assessore Tommaso Sacchi che ha promosso l’iniziativa in collaborazione con la Fondazione Amplifon - nella visione di una Milano sempre più aperta». Per vederla c’è tempo fino al 14 febbraio.
Volti stralunati di cartapesta
Pensiamoci un attimo, cosa dovrebbe fare il teatro? Prima di tutto emozionare, e inventarsi ogni volta un nuovo modo per farlo. Ecco perché per un attore potrebbe sembrare una sfida persino paradossale riuscire a comunicare gioia o dolore indossando una maschera di cartapesta, sproporzionata e anche un po' bruttina. Eppure, quei volti rigidi e stralunati - tratto distintivo della compagnia berlinese Familie Flöz - a guardarli bene sembrano animarsi davanti ai nostri occhi: un sopracciglio corrugato, un sorriso a trentadue denti, una lacrima sul viso. Magia o talento? C’è tutto un mondo fatto di musica, disegni, rumori che rende i personaggi vivi più che mai, goffi e snodabili in quel loro universo strampalato, in cui la comicità garbata dei piccoli gesti diventa poesia. Si intitola “Hokuspokus” la nuova produzione della compagnia tedesca, ormai icona del teatro di figura. Lo spettacolo ha debuttato nei giorni scorsi al Teatro Bonci di Cesena (Emilia Romagna Teatro), e girerà l'Italia alternandosi con altri due lavori: “Hotel Paradiso” e “Feste”. Quando a Roma il collettivo andò in scena con “Infinita”, ormai quasi dieci anni fa, il Teatro Valle Occupato si riempì fino all'ultimo posto in
APPLAUSI E FISCHI
Tutti pazzi per i gatti ballerini di “Cats”. Lo storico musical continua ad andare in scena con successo al Teatro Sistina di Roma. Per la prima volta ambientato nella città capitolina, lo spettacolo è diretto da Massimo Romeo Piparo. Canta, nei panni di una gatta glamour, una inedita Malika Ayane.
Con la fine del 2022 ha annunciato la sua chiusura il Teatro i di Milano. La decisione, sofferta ma a quanto pare inevitabile, è stata comunicata dai direttori artistici Renzo Martinelli, Federica Fracassi, Francesca Garolla, Peccato, la città perde uno spazio di pensiero libero, aperto, indipendente.
La vita di coppia, l’umorismo chapliniano, i personaggi vivi più che mai. La nuova produzione della compagnia berlinese Familie Flöz
Una scena dello spettacolo “Hokuspokus” della compagnia berlinese Familie Flöz
balconata. Anche stavolta i Familie Flöz ci raccontano una storia universale, capace di parlare a tutti senza usare una parola, ma con delle scelte stilistiche molto diverse. Un uomo e una donna si incontrano e si amano, prendono un appartamento in affitto, mettono al mondo dei figli e affrontano le turbolenzedellavita. Gli anni passano, le cose cambiano, si lasciano luoghi, persone, ma senza abbandonare mai quell'elegante umorismo chapliniano (il padre è una via di mezzo tra Charlot e Mr Bean). È la vita che scorre davanti ai nostri occhi, insomma. E i personaggi per la prima volta in assoluto mostrano il loro volto scoperto, ogni volta che si apre una nuova strada o che si compie un destino. Giù la maschera, dunque. E via libera anche all'uso delle telecamere, alle proiezioni, alle musiche dal vivo e ai suoni riprodotti live, come il pianto del bambino o il cinguettio di un uccello. Ma è soprattutto la fantasia dello spettatore a mantenere in vita i personaggi, sempre, perfino quando sembrano essere vicini alla morte. Questa è la vera magia.
“Hokuspokus”
Compagnia: Familie Flöz
Regia e maschere: Hajo Schüler
Teatro Menotti, Milano, fino al 15 gennaio.
Prossime repliche: Teatro della Regina, Cattolica, 7 febbraio; Teatro della Tosse, Genova, dal 9 all'11 febbraio.
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Posaman il Bardo
Pasquale Petrolo detto Lillo ha creato il suo primo supereroe nei fulgenti anni Ottanta. Si chiamava NormalMan e raccontava le gesta di Pier Maria Carletti, un uomo cento volte più stupido del normale che grazie ai superpoteri riusciva a raggiungere la media. Esilarante già all’epoca del fumetto, NormalMan diventò una rubrichetta dentro al programma “Sei Uno Zero” che ancora oggi, dopo vent’anni tondi tondi e una serie di premi portati a casa, continua a essere una delle realtà più gustose del convento radiofonico. A Lillo, col suo compagno di viaggio Claudio Gregori detto Greg, si devono anche le avventure musicali della band Latte e i suoi Derivati, una nutrita presenza sul piccolo schermo tra cui la fondazione de “Le Iene”, e poi partecipazioni illustri, compagnie di grido, musical, doppiaggio, parecchio teatro e una trentina di titoli cinematografici. Poi all’improvviso, dopo tutto questo lavoro pazzo e disperatissimo riservato ai cultori della materia comica, Lillo si veste da Posaman, poggia i pugni sui fianchi e con questa cagata pazzesca, giusto per citare il maestro dei maestri, diventa una star dalla popolarità sfacciata. Sembrerebbe detta così una breve storia triste. E in effetti per certi versi lo è, se non fosse che l’approdo finale, ovvero la serie su Prime Video “Io sono Lillo” fa ridere parecchio, come non succedeva da tempo. E lascia spazio persino a una riflessione. Nonostante la
“Sono Lillo”, serie Amazon Original, è diretta da Eros Puglielli e scritta dallo stesso Lillo, Matteo Menduni e Tommaso Renzoni
Se il personaggio del supereroe
è una falena, Lillo è una solida certezza. Come dimostra ancora una volta la serie (molto) comica
lunghezza eccessiva e una storia che cerca di far tornare i conti a tutti i costi, non solo riesce a mettere insieme una banda di comici e una sfilza di battute da far impallidire la nuova stagione di “Boris” (da cui prende in prestito nomi di prima grandezza, dai Guzzanti a Pietro Sermonti, Lundini, Giraud, Fanelli).
Ma soprattutto mette nero su bianco una sorta di autobiografia su questo destino barbino, in cui l’alter ego in tuta e occhiali prende il sopravvento e diventa il personaggio invasivo, il giullare estremo che sgomita a tutti i costi sino a diventare il protagonista da far fuori per cercare di sopravvivere all’inconsistenza. Perché quello che viene in mente non sono tanto le citazioni altissime da “Birdman” a “Batman”, quanto la cattiva pratica a cui ci ha abituato la tv ordinaria, quella che lascia spazio all’inutile in barba all’utile, che salta di palo in frasca tanto alla fine è tutto uguale e che soprattutto si impegna a creare fenomeni inconsistenti come falene dalla vita breve. Perché, come dice un impeccabile Paolo Calabresi nella citazione di Wilde in chiusura di serie, «nella vita reale ai nostri buffoni tocca il ruolo di Amleto e i nostri Amleti devono fare i buffoni».
DA GUARDARE MA ANCHE NO
Emanuela Fanelli da Morena, con quel raro tocco tra il perplesso e lo stupefatto, si srotola come un filo per legare due racconti del passato che farebbero assai bene anche al futuro. Da rivedere (RaiPlay) con “I magnifici 4 della risata”, da aspettare (Rai Tre) in “Illuminate” dove racconta Franca Valeri. Tutti giganti, lei compresa.
Se per assurdo aveste perso su Real Time l’ennesima intervista esclusiva a quel logorroico del principe Harry, niente paura. Tutte le accuse nei confronti della Casa Reale contenute nella sua nobile autobiografia si potranno recuperare su Discovery Plus. Perché lo sanno tutti che i panni sporchi si lavano in tv.
Questo dolore ti è
già utile
Certi film fanno disperare. “Un bel mattino” è così equilibrato, intelligente, apparentemente sereno, che ci si chiede: possibile? È mai possibile affrontare la malattia neurodegenerativa di un padre, il dolore e l’affanno che investono la sua primogenita, la vita che nonostante tutto va avanti, con tanta composta eleganza? Si può imporre a una materia così bruciante una grazia quasi mozartiana per sottolineare ciò che un’esperienza simile dona, malgrado tutto, lasciando ai margini tutto ciò che toglie?
Possibile, anche se l’esercizio non è senza rischi. La franco-danese Mia Hansen-Løve, 40 anni e 8 film, non è nuova a queste imprese, sempre semi-autobiografiche (come “Il padre dei miei figli”, dedicato al produttore suicida Humbert Balsan) e ha il merito di giocare a carte scoperte. Del padre, professore di filosofia franco-austriaco (un luminoso Pascal Greggory, già volto di Rohmer e Chéreau), sapremo solo l’essenziale e poco per volta, in un crescendo impeccabile anche se non imprevedibile, culminante nella scoperta di una sorta di diario, opera del vero padre della regista.
Il centro del film non è infatti lui ma lei,
ENTUSIASTI E PERPLESSI
Romanzo russo, produzione francese, regista italiano. “Le vele scarlatte” di Pietro Marcello sorprende e prova che possiamo esportare talenti. Chi aveva amato “Martin Eden” o “Bella e perduta” esulta. Ma se uno dei nostri migliori giovani autori va a lavorare in Francia, forse qui qualcosa non va.
Cinema d’autore, una prece. Alzi la mano chi è riuscito a vedere “Fairytale”, “Godland” o “Saint-Omer”. Poche sale, teniture lampo, visibilità quasi nulla. Ogni Natale allarga la forbice fra titoli “forti” e film-meteora. Eppure basterebbe tenerli in sala più a lungo. Continuiamo così e ci vorrà il Wwf.
Il padre si ammala, la figlia entra in crisi. Eppure la famiglia trova un nuovo equilibrio. Il film autobiografico di Mia Hansen-Løve
la primogenita, una Léa Seydoux de-glamourizzata e molto acqua e sapone malgrado un paio di nudi perentori. Sono le sue giornate, divise tra il lavoro d’interprete e la figlia bambina, a scandire il film, ancor più che le visite a quel padre che passa dalla sua casa piena di libri a ospedali e case di riposo. È suo insomma il tempo del film, dentro cui, accanto al dolore per il genitore quasi cieco si affaccia un vecchio amico che diventa un nuovo amore (Melvil Poupaud). Con tutti gli slanci e i dubbi, i languori e le difficoltà (l’amico è sposato), che il nuovo amore porta con sé. Ma sempre con una misura, una “clarté” così francesi da fare un po’ disperare, appunto.
Qua e là si vorrebbe qualche dissonanza in più a ricordare le bruttezze del mondo, le sue ingiustizie, le difficoltà economiche e morali (cui accenna, con ironia, quella madre militante di Extinction Rebellion, la borghesissima Nicole Garcia). Ma Hansen-Løve lo sa bene, così lascia che la Seydoux venga rimproverata. Magari da un’infermiera che le consiglia di accudire lei stessa il padre in bagno, vincendo vergogna e repulsione. O dalla figlia che le rinfaccia di disprezzare puntualmente i film che lei ama. Anche se alla fine, come dubitarne, conta solo la memoria, il passaggio del testimone, l’amata biblioteca paterna smembrata e divisa fra i suoi ex allievi.
UN BEL MATTINO di Mia Hansen-Løve Francia, 112’Ti caccio o non ti caccio?
Espellere o non espellere, squalificare a norma di regolamento o soprassedere, fare finta di nulla? Se ci si accontenta di questioni di poco conto per distrarsi dagli orrori del mondo, il tema della squalifica dal festival, rilanciato alla grande in questi giorni dal caso Madame, ha il suo fascino e non è affatto nuovo, anzi è antico quanto il festival.
Un esempio, antichissimo: nel 1955, a festival ancora bambino, Claudio Villa inventò un geniale escamotage. Era affetto da forte laringite, la sua ugola dorata era a pezzi, e allora pensò bene di non presentarsi sul palco, ma di fare mettere al suo posto un giradischi con l’ascolto del disco della canzone in gara che era “Buongiorno tristezza”. Visto che, preso alla lettera, il regolamento non proibiva un simile misfatto, l’esperimentò non solo passò, ma fece vincere il festival a Claudio Villa.
Poi corsero ai ripari, corressero l’errore marchiano e quando nel 1964 Bobby Solo, superfavorito, cantò in playback “Una lacrima sul viso”, perché anche lui affetto da pesante laringite, fu squalificato senza pietà, malgrado, almeno a fare finta in scena si fosse presentato, con tanto di ciuffo impomatato e occhio bistrato. Insomma i
ROCK E LENTO
I Baustelle, che sono tornati a fare i Baustelle, ed è già molto di questi tempi, con un pezzo che, udite udite, parla del presente con un ironico e gioioso ritornello che dice «criticare il grande vuoto, la sinistra che non c’è, farsi di yoga e qualche droga, supplicare di esser popolari uh uh uh uh uh».
Passi per i self-video da adolescente picchiatella in cui balla e piroetta senza un vero perché, ma se Britney Spears comincia, come ha fatto, a farli col marchio Coca-Cola sul reggiseno, verrebbe da annullare tutte le circostanze attenuanti invocate finora per spiegare la sua confusa condizione esistenziale.
Il caso Madame è antico quanto il Festival di Sanremo. Una lunga storia costellata di squalifiche eccellenti e soluzioni benevole
regolamenti si aggirano, o meglio si aggirano alcune volte e altre no, molto spesso a discrezione degli organizzatori. Quando Fedez nel 2021 si lasciò scappare su Instagram un frammento della sua canzone in gara scoppiò una bufera, ma la direzione del festival decise che era un peccatuccio veniale, una distrazione, e si poteva perdonare. E del resto perdersi Fedez per strada sarebbe stato disdicevole e poco conveniente.
Al contrario Riccardo Sinigallia nel 2014, quando si scoprì che una volta aveva eseguito la sua “Prima di andare via” in un locale davanti a una ventina di amici si decise di essere inflessibili e di squalificarlo, tranne poi concedergli di cantare il suo pezzo alla finale di sabato, fuori concorso.
Ma il caso più clamoroso e più spettacolare rimane quello del 2020, quando Morgan a sorpresa cambiò il testo della canzone in gara facendo infuriare il suo partner Bugo che scappò via dal palco in preda a incontenibile furore. Furono squalificati perché in quel caso non c’era cavillo a cui appellarsi. Cambiare la canzone in corso d’opera non si può proprio fare. Alcune norme di buon senso vanno seguite: non si possono rubare portafogli al pubblico in sala, non si possono palpare donne fuori e dentro il palco, non si può usare la parola “negro”. Per tutto il resto una soluzione la si trova sempre.
Foto: F. PrandoniBorder Collie non per tutti
Benessere animale. Due parole magiche che si trovano ormai ovunque in ogni documento, in ogni slogan, in ogni titolo che riguardi gli animali che siano da reddito o da compagnia. Difficile però capire quale sia questo benessere. Partiamo dalle cinque libertà. Nel 1965 Brambell Report elencò le cinque libertà necessarie a garantire il benessere animale: Libertà dalla fame e dalla malnutrizione; Libertà di avere un ambiente fisico adeguato; Libertà dal dolore, dalle ferite e dalle malattie; Libertà di manifestare le caratteristiche comportamentali tipiche della specie; Libertà dalla paura e dal disagio. In seguito, in ogni Paese sono state scritte delle leggi. Nel 1978 l’Unesco ha sottoscritto la Dichiarazione Universale dei diritti degli animali. Negli anni Ottanta l’unione Europea ha legiferato anche per gli animali detenuti negli allevamenti. Insomma un crescendo di sensibilità che ha travolto l’umanità occidentale. Avere un cane, un gatto, un canarino financo un pesce rosso, significa responsabilità. In Italia un cittadino su due possiede un animaletto. Ma quanti sanno quali siano le vere necessità di un cane, ad esempio? Quelle che servono per farlo stare bene a livello psichico? Cerchiamo di capire il linguaggio dei nostri compagni a quattro zampe. Stanno provando a dirci qualcosa, ma
L’importanza di scegliere la razza giusta per ogni stile di vita. E rispettare i diritti degli animali garantendo il loro benessere
non li capiamo e allora nascono i conflitti. Il primo passo, se vi passa per la testa di prendere un cane, è quello di scegliere la razza giusta per il vostro stile di vita. Visto che in natura il cane non esiste ed è un esercizio di selezione dell’uomo, cominciamo da qui. Mi viene in mente il Border Collie, un simpaticone di media taglia a pelo semilungo, protagonista di un famoso spot televisivo assieme a Fiorello. Un cane che spicca per le doti di capacità associativa, in grado di imparare oltre mille comandi diversi e per questo instancabile lavoratore. Nasce per condurre il gregge nelle lande del Galles e della Scozia, il suo compito è quello di tenere insieme le pecore e portarle dove il pastore desidera. Non pensiate che questa sua memoria di razza si assopisca vivendo in un appartamento. Tenderà a radunare tutto ciò che si muove e a fissarvi per fare assieme a voi qualsiasi cosa. Un cane con un livello di energia altissimo che, se non incanalata, può trasformare in un vero inferno la sua vita e quella della sua famiglia umana. Di certo un padrone pigro non fa per lui perché, in mancanza di pecore, dovrete fare una qualsiasi disciplina sportiva che lo porti ad esprimere la sua vitalità. Ne ho tre e le nostre giornate non sono affatto noiose. Quindi abbiamo detto che scegliere la razza è la cosa principale. Questo va calcolato anche se decidiamo di adottare un meticcio, cercando di farsi aiutare per capire se il nostro cane in arrivo sarà più tendente al segugio o al cane da pastore, perché le sue esigenze e i suoi comportamenti saranno diversi. C’è poi il capitolo di come allestire lo spazio in attesa dell’arrivo di un cane che sia adulto o cucciolo. E non solo, perché sarà basilare capire come gestire anche le risorse e i rinforzi positivi. Alla prossima.
GUIDE DE L’ESPRESSO A TAVOLA Andrea Grignaffini
L’eleganza del gambero blu
Raro, costoso, ma dal gusto davvero raffinatissimo. Viene dalla Nuova Caledonia e ora è di gran moda
Che sia una bufala è ormai incontrovertibile. Però il Blue Monday resiste e ogni anno celebra la sua giornata il terzo lunedì di gennaio. La bislacca teoria nata in realtà da una campagna pubblicitaria è stata ascritta allo psicologo Cliff Arnal che, con un calcolo piuttosto astruso per arrivare alla data in questione, ha inserito un po’ di dati shakerati: dal Natale appena passato ai buoni propositi non ancora realizzati passando per soldi spesi e stanchezze varie. Così nel 2005 nacque l’dea di cristallizzare in un giorno la giornata più nera. Ma visto che festeggiare con un colore così funereo non avrebbe portato benissimo alla ricorrenza si è pensato di contraddistinguerla col colore blu, che con la tristezza ha un legame di lungo corso, in primis nella cultura americana ma non solo. Il Picasso del periodo Blu, l’espressione “to have the blue devils”, lo stesso genere musicale Blues sono vari esempi che il blu si raccorda con sensazioni di freddo non solo esterno ma anche intimo e interiore. Nei cibi il blu è colore raro ma soprattutto non troppo gourmand, almeno fino a poco tempo fa. Forse per l’idea ancestrale di pericolo suggerito da bacche venefiche di questo colore. Le cose cambiano e anche i gusti e ora, seppur ancora numericamente minori, i cibi blu hanno la loro dignità, vieppiù da quando sono stati sdoganati dal pantone dell’anno 2020: il Classic Blue (numero: 19-4052). E partiamo allora dal paradigma del blu gastronomico con i frutti dell’Elaeocarpus angustifolius, albero australiano sempreverde, ma presente in altre regioni estremo-orientali. Le
sue bacche acide sono appunto la degna partenza del nostro viaggio nel blu, quasi come fosse dipinto di blu. Rimanendo in tema bacche non si può dimenticare il Mirtillo Blu (Vaccinium uliginosum) detto anche falso mirtillo o mirtillo delle paludi: un suo parente “in rosso”, l’Ossicocco è noto perché è l’ingrediente principe della Cranberry Sauce che accompagna il Tacchino nel Giorno del Ringraziamento. Rimanendo in tema vegetale sono bellissimi e anche buoni i fiori della Borragine non solo sul piano meramente decorativo ma come protagonisti gustosi di frittate, frittelle e risotti. Passiamo al mondo marittimo e subito arriviamo al Gambero Blu della Nuova Caledonia, ora anche di gran moda, allevato nella più grande laguna al mondo. È raro, costoso ma dal gusto davvero raffinatissimo in bilico tra la dolcezza dello scampo e quella dell’aragosta: ottimo crudo, da sgusciarsi personalmente o in preparazioni in cui non perda il suo gusto. In tema crostacei molto famoso c’è l’astice blu. Quello vero con una livrea scintillante quasi d’un blu cobalto è pressoché introvabile (si parla di uno su due milioni), quindi noi dovremmo accontentarci di quelli del Mediterraneo o quelli americani o canadesi, famosi per finire nei ghiotti lobster roll. Chiudiamo la rassegna, di certo parziale, con una novità sulle tavole italiche: il Granchio Blu o Granchio Nuotatore (Callinectes sapidus). Un crostaceo arrivato in Europa ai primi del Novecento partendo dalle coste dell’Atlantico occidentale, probabilmente trasportato involontariamente dalle grandi navi commerciali. Una specie infestante che trova la sostenibilità ambientale proprio con la sua cattura. Ha un gusto marittimo e iodato che dimostra una personalità gastronomica in linea con il suo carattere.
GUIDE DE L’ESPRESSO IL VINO Luca Gardini
Sfumature di Montalcino
Montalcino è uno di quei rarissimi e insieme fortunati casi in cui la denominazione e il territorio (non a caso inserito nel 2004, insieme a tutto il complesso “agricolo-pastorale” della Val d’Orcia, tra i Patrimoni Mondiali Unesco) vanno a braccetto, identificando immediatamente un brand con grandissima risonanza internazionale.
Una delle cantine capaci di incarnare questo fenomeno è proprio Casanova di Neri, ormai inserita dalla stampa specializzata tra le migliori al mondo.
Una tenuta di circa 500 ettari, di cui 75 vitati, organizzati in sette parcelle totalidotate di grande varietà di collocazioni e microclimi - per circa 300 mila bottiglie prodotte ogni anno, non numeri imponenti insomma, ma una grande capacità di esplorare, con ammirevole sensibilità enoica, tutte le sfumature del Sangiovese Grosso.
Ecco allora (senza tralasciare alcuni Rossi di Montalcino davvero notevoli) i loro Brunelli: il cosiddetto Etichetta Bianca, prodotto fin dal 1978, un vino iconico, di compattezza e croccantezza, con tocchi di mirtillo nero, macchia mediterranea e tannini salmastro-sapidi.
Si passa poi al Tenuta Nuova, un vino completamente diverso per densità, profondità e riconoscibilità, realizzato con uve provenienti da vigneti collocati a Castelnuovo dell’Abate e Sant’Angelo in Colle.
Un vino dal naso verticale, con evidenza di ribes rosso, poi menta selvatica e chinotto, tocchi di peonia e arancia sanguinella e dalla beva croccante-tesa, con tannini salini e ritorni fruttati-agrumati sul finale.
Ma la vera sorpresa, novità assoluta del 2022, è il Brunello di Montalcino Giovanni Neri, un vino ottenuto dalla parcella più recente acquisita appena nel 2017 e chiamata come il capostipite: piante di 50 anni, un Brunello impeccabile, risultato di un lavoro eccellente sia in vigna sia in cantina.
Un territorio e una denominazione che vanno a braccetto. E una cantina tra le migliori al mondo. Spicca il Brunello Giovanni Neri
BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG
GIOVANNI NERI 2018
PUNTEGGIO: 98+/100
Al naso ha profumi intensi di visciole e foglie di alloro, con tocchi salmastri e iodati in chiusura. Si apre al palato succoso e teso, per poi espandersi in ampiezza e profondità. Tannini sapidi e una traccia officinale segnano il finale profondo, di ottima bevibilità e dalla lunga persistenza. Consigliato in abbinamento a piccione in casseruola con patate al rosmarino.
AZ. AGR. CASANOVA DI NERI DI GIACOMO NERI
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Il futuro dipende anche da noi
Cara Rossini, ho sedici anni e penso che, terminata quest’atmosfera di festa che ci fa sempre bene, sia ora di calarci nuovamente nella realtà. Ripercorrendo tutte le originali copertine de “L’Espresso” del 2022, si nota come l'anno trascorso sia stato soprattutto simbolo di guerra, distruzione, morti sul lavoro, corruzione, sfruttamento, inflazione e abolizione di diritti. È proprio per questo che il 2023 rischia di rivelarsi la stessa cosa: un mondo che continua ad essere animato da guerre, soprusi, ingiustizie sociali e disumanità. La nostra Europa continua a perdere identità in favore di quella statunitense, e ormai sembriamo esserci assuefatti all’orrore dei conflitti e della violenza a scopo economico. La parola d’ordine della guerra in Ucraina è diventata “vittoria”, e non più “pace”, proprio quella in cui le persone ragionevoli sperano. Insomma, sembra che nessuno, né russi (aggressori) né ucraini (aggrediti) né l’intero mondo, sia disposto a porre fine a questo massacro. Il 2023 potrebbe essere l’anno della verità, del cambiamento, della riscoperta di ogni principio di solidarietà e ragionevolezza. Dipenderà solo da noi e dalla voglia che metteremo nel cercare di rappacificare il luogo meraviglioso ma martoriato nel quale viviamo. Gli auspici e le promesse non sono nulla
via in Lucina, 17 - 00186 Roma
stefania.rossini@lespresso.it
se non agiamo per mantenerli. Un grande augurio di buon anno a tutte e a tutti, a patto che “nuovo anno” significhi “mondo migliore”, ma ci sono i presupposti per pensare che non sarà così.
Flavio Maria CoticoniOgni volta che ricevo lettere di giovanissimi che si cimentano con le grandi questioni del tempo, rimango sorpresa. Eppure accade tanto spesso da far pensare che per molti ragazzi il giornale di carta, e in specie questo giornale, rappresenti qualcosa di più autorevole, o almeno di più attendibile, rispetto ai social. La lettera di Flavio Maria contiene però anche un pessimismo che non è giusto provare a sedici anni, con una sola spiegazione: lo scenario che fa da sfondo a chi si affaccia oggi alla vita non dà scampo. Eppure bisogna dire a questi ragazzi, capaci di concetti giusti e di speranze perdute, che toccherà a loro cercare di ribaltare la situazione, come molti giovani cercano di fare in Paesi meno fortunati del nostro. Tanto più che sull'anno appena cominciato forse avrà avuto ancora una volta ragione un poeta che faceva anche il musicista: «L'anno che sta arrivando tra un anno passerà, è questa la novità».
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69 - 15 gennaio 2023
DIRETTORE RESPONSABILE:
Alessandro Mauro Rossi
CAPOREDATTORI CENTRALI:
Leopoldo Fabiani (responsabile), Enrico Bellavia (vicario)
CAPOREDATTORE:
Lirio Abbate
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Anno nuovo? Stessa vita. Messi da parte i tipici propositi di buon inizio, spacchettate le agende nuove e lasciatisi alle spalle gli oroscopi del 2023 con i promettentissimi transiti planetari (la spiritualità è il placebo della borghesia, l’unica classe che se la può permettere), smaltite le feste insomma… ecco che arriva la realtà. L’anno nuovo è qui, ma quell’attesa rivoluzione che doveva portare sembra già svanita nei plumbei giorni di gennaio. I cambiamenti in cui speriamo siamo ancora noi a doverli creare.
Difficile ormai credere che qualche cambiamento possa venire, per la gente comu-
La risposta è dentro di noi, ma sbagliata
ne, dal mondo della politica, quasi un settore lavorativo in crisi impegnato in una gigantesca operazione di riposizionamento all’interno del Paese.
La Politica è l’altra istituzione italiana oltre alla Chiesa che è di fronte a un bivio: cambiare o sparire dal cuore delle persone. Le chiese di mezza Europa sono ormai vuote e si prevede che nel giro di qualche decennio la gran parte di esse saranno demolite o riadattate a strutture alberghiere e ristoranti. Non avendo un patrimonio immobiliare su cui fare cassa come la Chiesa (la sinistra avrebbe i circoli Arci ma non li frequenta perché sono un po’ da poveri), la politica cerca di rimodernarsi lasciando sempre di più la sensazione che il Reale, più che raccontarlo, lo rincorra. E purtroppo arriva sempre un attimo dopo. Il risultato sono le nostre elezioni sempre più disertate o quel sentimento di sfiducia nel sistema ormai ben radicato.
La Politica è l’altra istituzione italiana oltre alla Chiesa che è di fronte a un bivio: cambiare o sparire
Che stia attraversando un momento di transizione la politica tutta ce ne rendiamo conto con la classe dirigente di TikToker e i loro risultati. In ordine: la rubrica Gli appunti di Giorgia (didattica, un po’ noiosa, con una smania di autoincensamento a tratti grillina); Salvini e Berlusconi li vediamo solo sulle pagine dei meme come IntrashTtenimento 2.0 presi giustamente in giro per i loro maglioni inguardabili o per un linguaggio desueto. Politici di sinistra rilevanti online? Nessuno, che da una parte potrebbe essere un bene (se non sai fare una cosa meglio non farla o studiarla, ma figurati), dall’altra suona come il morettiano «continuiamo così, facciamoci del male».
Così è iniziato un nuovo anno in cui alcuni sondaggi vi diranno che l’Italia cresce, altri che cresce meno e non saprete a quali credere ma di sicuro sapete che la benzina per ora è tornata alle stelle e le bollette del gas sono improponibili, così come comprare una casa per un precario, figura necessaria al mercato del lavoro e alla società che non sparirà, anzi. Si parla un sacco delle valigie coi soldi del Qatargate ma pochissimo degli stipendi italiani che aumentano troppo poco o del costo della vita e degli affitti nelle città del lavoro come Milano, perché sono argomenti considerati irrisolvibili. Troppo grandi per potervisi concentrare. La politica lavora sulla distanza breve del consenso. Niente ormai fa sorpresa nell’alternarsi delle stagioni politiche. Così come per il cambiamento climatico, ci adattiamo a tutto. Avvocati sconosciuti che diventano presidenti, cicliche crisi di governo che rendono impossibile ogni riforma, corruzione, elezioni anticipate, stati di emergenza. Come se fosse un reality, qualcosa che non ci riguarda davvero. Perché in fondo la gente lo sa, che se cerca un minimo di stabilità, deve costruirla da sola. Non scoraggiatevi, cercate di farlo da voi, poiché nessuno, ma proprio nessuno, si illude che da decreto il cittadino debba esser felice. Quella è utopia.