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Le due vite di Mazen, “Mi volevano femmina, difendo i diritti” Simone Alliva

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ORGO GLIO LGBTQI+ Le due vite di Mazen "Mi volevano femmina difendo i diritti di tutti”

Bombardato di ormoni, via dalla Libia jihadista, arrestato in Egitto. In Italia per un convegno, c’è rimasto da rifugiato. E ha dovuto ricominciare di Simone Alliva foto di Stefano Schirato

Vengo da Tripoli e sono una persona intersex-trans». Mazen Masoud inizia raccontando l’adolescenza a contatto con il mistero che riguarda il suo corpo ma è solo un pretesto. Un modo per dire una cosa. Ma la Cosa — la luna, non il dito — è un’altra: «Si pensa che siccome cresciamo in Libia, cioè quello che gli occidentali credono il terzo mondo, le persone intersessuali vivano malissimo in realtà vivono ovunque allo stesso modo: non ci sono diritti o riconoscimenti come in tutto il mondo. Alla nascita vengono bombardati di ormoni e cresciuti al maschile o al femminile. Preferisco raccontare quello che non vedete». È lui a impostare la premessa di questa storia.

I racconti sulla difficoltà di vivere la propria identità, difficoltà massima per le persone Lgbt che arrancano in salita sempre, figuriamoci in Libia, vanno molto di questi tempi. Come se ogni altra declinazione possibile delle esistenze non fosse ugualmente colma di dolori e ostacoli. Un’epica, quella del migrante di genere e confini, ben nota. A Mazen non interessa e per questo la scardina.

È un viaggio, questo, che parte dal Libano, attraversa l’Egitto fino ad arrivare in Italia «per caso», dice. Non una necessità, non per scelta. «Io sarei rimasto a Tripoli». Un caso. Come viene definita anche l’esistenza delle persone “intersessuali”, termine che indica alcune condizioni alla nascita: un apparato riproduttivo e/o un’anatomia sessuale, e/o una situazione cromosomica che varia rispetto alle definizioni tradizionali di maschile e femminile. Si possono scoprire anche in età adulta. I segnali non sono tutti uguali. L’intersessualità ci mostra con evidenza che i generi sono frutto di una costruzione. Ed è una realtà del tutto biologica seppure venga spesso erroneamente confusa con il genere o con l’orientamento sessuale che sono, invece, dimensioni indipendenti. L’incidenza dell’intersessualità dei bambini sembra essere nel mondo pari all’1,9 per cento della popolazione, ma vi potrebbero essere persone che non sono state registrate come intersessuali, pur rientrando in questa parte di popolazione.

Tanti genitori nel tempo si interrogano: abbiamo forzato il genere dei nostri figli? E se avessimo aspettato? «I miei genitori hanno reagito come tutti nel mondo. Nell’età dell’adolescenza invece di sviluppare il secondo carattere sessuale femminile ho sviluppato quello sessuale maschile». Cosa succede a una “bambina” che

Mazen, 32 anni, mostra la fotografia della madre. Al centro con Nicole De Leo, 64 anni, attrice e presidente del Mit sente la voce ingrossarsi, la peluria ricoprire le guance? «Ovviamente la vivevo malissimo. Vengo da una famiglia molto importante. Mio padre è stato a lungo vicino a Mu’ammar Gheddafi. Ha lavorato come pilota militare fino alla fine degli anni Settanta, poi come pilota civile. I medici sono intervenuti somministrandomi la terapia ormonale per femminilizzare il corpo che mi era stato assegnato alla nascita, dai 14 ai 19 anni. Nel frattempo, continuavo la mia militanza e viaggiavo».

Mazen si avvicina da subito ai collettivi impegnati nella difesa di diritti umani. «La maggior parte della mia militanza ruota intorno al mondo arabo: Egitto, Marocco, Tunisia, Siria, Giordania. Ho una formazione femminista e marxista. Mi sembra superfluo dire che fare militanza in questi Paesi è molto diverso che farla in Italia. C’è uno spirito di resistenza e unità diverso, granitico, reale. I gruppi sono collettivi che nascono dal basso e lì restano. Non esistono associazioni mainstream. Non esiste un’associazione Lgbt unica o nazionale». Parlare di diritti non è facile. «È illegale, tutta attività clandestina e si rischia il carcere. In quanto uomo transgender ero costretto a indossare un burqa per avvicinarmi al genere femminile indicato sui documenti e diverse volte sono stato fermato dall’Isis ai posti di blocco mentre tentavo di fuggire in Egitto. Ho ricevuto condanne di morte per la mia militanza, sono stato in carcere e ho subito tutto quello che si può immaginare. Ma non ha senso raccontarlo, andare nei dettagli e poi suscitare compassione, pietà o ammirazione. Non mi serve, non serve a nessuno. Dico solo che sono sempre stato molto visibile. Mio padre mi aveva avvertito: sappiamo cosa fai ma devi stare più attento. Avevo la protezione della mia famiglia. Ma dopo la caduta di Gheddafi tutto è crollato. Ho continuato a militare insieme a tantissimi compagni e compagne che oggi non ci sono più. Nel 2015 lavoravo come anestesista in Libia per La Mezzaluna rossa libica. Segretamente ero impegnato come attivista Lgbt mentre l’Isis conquistava ampie strisce di terra nel Paese. Gli amici e i colleghi attivisti venivano presi di mira e uccisi dai gruppi jihadisti. Io sono stato fortunato perché sono ancora vivo. Ho subito violenza, stupro, torture. Non sono un eroe, non sono una vittima, parlo di me come una persona sopravvissuta che ha lottato per i suoi diritti. E se posso: non mi piace parlare in prima persona mentre racconto quello che ho vissuto. Non sono “io”, siamo “noi”. Non ero solo, eravamo in tanti. Io sono qui per raccontarlo».

Messaggi, telefonate, lettere con all’interno foto della sua famiglia da parte dei gruppi jihadisti. «Non volevo lasciare la Libia. Poi il 25 febbraio 2015 tutto è cambiato. C’era questa compagna, un’avvocata con cui lavoravamo insieme per cambiare il nostro Paese. L’hanno ammazzata in macchina. Due giorni prima pranzavamo insieme, mi aveva raccontato anche lei delle minacce, di persone che la pedinavano. È stato tutto così veloce. Quella notte sono fuggito e sono arrivato in Egitto. Non potevo restare. Avevo paura per la mia famiglia». La prima cosa che fanno le persone che si trovano in difficoltà a causa di una guerra o di gravi violazioni dei diritti umani è oltrepassare il confine e cercare un posto sicuro. Ma non esiste sempre un posto sicuro per le persone

Mazen ha tatuata la frase di Gibran: "Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici" Lgbt. Quel confine, quel pezzo di terra che dovrebbe salvare può continuare a condannare orientamenti sessuali o identità di genere diverse. «L’Egitto è tra questi Paesi per la comunità, non è un Paese sicuro. Pensavo che la mia permanenza sarebbe durata poco. Mi dicevo: un mese, cambia la situazione e si torna. Invece no». Qui Mazen ha già una rete sociale stabile e amicizie durature come quella con Saraha Hegezi, la più nota attivista egiziana lesbica per i diritti delle persone Lgbt e delle donne. «La mia amica del cuore. Mi manca ogni giorno». Nel 2020 si è uccisa a Toronto, in Canada, dove aveva ottenuto asilo all’inizio del 2018. L’anno prima era stata arrestata al Cairo per aver sventolato la bandiera arcobaleno durante un concerto. In carcere aveva subito abusi e violenze.

«La polizia mi arrestava spesso, avevo il documento femminile e un aspetto maschile. Ogni volta che uscivo con i miei amici la polizia egiziana mi fermava e mi chiedeva i documenti e mi portava in commissariato». È una costante, ma proprio in questo Paese arriva un’occasione: un invito per partecipare a un workshop in Italia per attivisti e giornalisti impegnati in zona di guerra: «Vengo invitato a Roma per parlare della violenza di genere usata come un’arma durante le guerre. All’epoca facevo parte di un’unità che esercitava l’aborto su donne che avevano subito uno stupro. Dopo il seminario, su suggerimento di un amico andai a Bologna e chiesi protezione umanitaria». Anche questo con difficoltà: «Non esisteva nell’accoglienza una struttura dedicata alle persone Lgbt. In seguito alla richiesta di protezione internazionale, le autorità non sono riuscite a inserirmi in un alloggio dedicato in quanto il genere indicato sui documenti e l’aspetto fisico non corrispondevano. Ho trovato ospitalità e accoglienza in una famiglia di Reggio». L’incontro che gli cambia la vita però avviene nella sede del Mit (Movimento identità trans) di Bologna. È Porpora Marcasciano, attivista storica del movimento Lgbt italiano e all’epoca presidente dell’associazione ad accoglierlo: «La prima volta che sono entrato al Mit mi trovai di fronte Porpora che non parlava una parola in inglese ma disse: “Benvenuto, non preoccuparti”. Mi hanno aiutato con i documenti e finalmente nel 2016 ho iniziato il mio secondo percorso di affermazione di genere, dopo la violenza subita in adolescenza. Non riconoscendo il percorso verso la femminilizzazione del corpo, ho dovuto ricominciare per la seconda volta il mio percorso. Nel 2017 ho ottenuto la protezione internazionale e vinto una borsa di studio per persone rifugiate presso l’università di Bologna». Una premio beffardo, spiega: «Sono arrivato al secondo posto, avrei dovuto studiare biologia. Uso il condizionale perché dopo poco mi hanno negato anche questo. Dovevano accertare che il mio diploma non fosse falso. Difficile con un Paese che era stato bombardato, no? Così ho dovuto rifare tutto, anche la terza media. C’è tanto da fare anche su questo. Tanto da rivedere in questo mondo fatto di migranti di serie A e B. Tanto, anche se non lo vediamo». Mazen si racconta pesando ogni parola e lo fa dalla sede del Mit, dove oggi occupa la poltrona di vicepresidente e responsabile dello sportello per le persone migranti Lgbt. Lo sportello è dedicato a Sarah Hegazi. Q

L A MOSTRA L o sguardo di Leila Alaoui l’ar tist a che catturava le c ontraddizioni dell’ Islam

Venezia celebra la fotografa franco-marocchina rimasta uccisa a 33 anni in un attentato terroristico in Burkina Faso nel 2016. Dalla moda ai reportage, nel suo lavoro la passione dell’antropologa concentrata sulle persone di Angiola Codacci-Pisanelli

Sorride Leila Alaoui, nel ritratto che accompagna la mostra delle sue fotografie. Sono serissimi invece i protagonisti degli scatti, scelti tra centinaia che lei ha realizzato nei tre anni di lavoro sul progetto intitolato “Les Marocains”. L’appuntamento è a Venezia fino al 27 novembre, al Fondaco dei Tedeschi in collaborazione con Galleria Continua. La cura è della Fondazione Leila Alaoui: perché lei, Leila, non c’è più. Lei così impregnata di quel mondo islamico da cui venivano il suo nome («notte»), il suo cognome e i tanti anni vissuti a Marrakesh, è stata uccisa da terroristi islamici in Burkina Faso nel 2016.

«È incredibile la quantità di fotografie che ha lasciato», dice sua madre Christine Alaoui, francese con un nonno italiano. «Abbiamo incaricato una storica dell’arte svizzera di fare un inventario: ci ha messo due anni. È come se Leila avesse saputo di avere i giorni contati», commenta con un tono fermo, assuefatto alla tristezza. E aggiunge: «Il dieci luglio di quest’anno avrebbe compiuto quarant’anni, è un momento difficile per noi».

«Cosa si può dire di una fotografa morta a 33 anni?», ci si potrebbe chiedere, parafrasando l’inizio di “Love Story”. Perché è facile, raccontando una storia come questa, cadere nel patetico. E allo stesso tempo alzare un sopracciglio e pensare: «Poverina, sì: però se non fosse morta chissà che

Leila Alaoui nel 2015. A destra, ritratti di “Les Marocains” realizzati nel 2014 effetto farebbero oggi le sue foto». Per questo è importante, prima di ripercorrere la sua vita con l’aiuto della madre, ricordare che Alaoui aveva avuto una quantità di riconoscimenti.

Le sue foto sono state pubblicate sul “New York Times” ed esposte in tutto il mondo: alla Konsthall di Malmoe in Svezia, al palazzo nazionale della cittadella di Cascais in Portogallo, al Musée des Beaux-Arts di Montreal in Canada e infine alla Maison européenne de la photographie di Parigi, in un’esposizione che terminava proprio il giorno dell’attentato. Ricorda Christine: «Dopo l’inaugurazione mi disse ridendo al telefono: “Pensa, quel matto del direttore, Jean-Luc Monterosso, mi ha detto: Leila, tu resterai nella storia come una delle fotografe più importanti della tua generazione”».

Per i suoi lavori su migranti e immigrati, Alaoui ha collaborato con istituzioni internazionali come il Danish Refugee Council, la Ong americana Search for Common Ground e l’agenzia delle Nazioni Unite, la Unhcr. Quel 15 gennaio del 2016 era a Ouagadougou per un incarico di Amnesty International sui diritti delle donne. Il suo autista, Mahamadi Ouédraogo, aveva parcheggiato davanti al bar Cappuccino subito prima dell’attentato. Ouédraogo è morto sul colpo, Alaoui tre giorni dopo, portando a trenta il numero delle vittime.

Una morte che è tragicamente paradossale, per una fotografa che ha lavorato molto sul legame tra la condizione dei poveri del mondo arabo e dei migranti in Europa e il successo del proselitismo, una che anche nel so lavoro, spiega la madre, «cercava di capire perché quei giovani finivano per diventare terroristi». Non era sempre facile, con quella sua eleganza di “arabopolitan” a suo agio nel jet-set tra Parigi, New York e Marrakesh: «Una volta è andata a fare un servizio sugli immigrati nelle bidonville del Marocco per il New York Times e gli abitanti marocchini l’hanno

I lavori di Leila Aloui alla ventesima edizione di Paris Photo, nel 2016 spintonata, le hanno sputato addosso perché si occupava di “quella gente lì”».

A New York Leila aveva studiato antropologia e sociologia, e si vede: «L’ hanno definita un’antropologa con la macchina fotografica, e in effetti per lei fotografare era un modo per affrontare un problema di persone che la interessavano». Un’antropologa che aveva una facilità di incontro con il mondo islamico ma che non si fermava lì: tra i progetti rimasti interrotti c’è un documentario sugli operai dell’Ile Seguin, la storica fabbrica della Renault vicino a Parigi, e un migliaio di ritratti di operai in India.

Alle immagini si era avvicinata da bambina grazie a quello che per sua madre è sempre stato solo un hobby : «Non ho mai esposto una foto, ma ho sempre una macchina fotografica con me. E i miei figli, da piccoli, mi aiutavano a sviluppare le immagini», racconta Christine. «Nei miei ricordi, Leila è sempre di corsa: da bambina non sapeva attraversare la strada senza correre, per scendere le scale – non so come facesse! - si metteva in equilibrio sulla pancia come se fosse su uno scivolo e si lasciava cadere giù. Avevamo un rapporto strettissimo, ma io non sono come lei. Mi spingeva sempre ad essere attiva, a fare cose, a viaggiare, mi sgridava se rinunciavo a qualcosa: e adesso, a 71 anni, mi ritrovo a fare tutte le cose che lei avrebbe voluto per me…».

Dopo la sua morte, ha parlato a nome di Leila sua sorella Yasmine, un’artista che vive a New York, in un testo fortissimo che unisce il perdono degli assassini e la condanna dei «mandanti»: «Sai, ho incontrato molti giovani della tua età durante la realizzazione di “Crossings”, un video sui candidati per l’immigrazione clandestina. Sai cosa, ti assomigliavano come delle gocce d’acqua. Guardandoli, ti vedo con il tuo kalashnikov puntato su di me e sui miei vicini del bar Cappuccino. Sapevo che tu avresti sparato quando li vedevo salire sulle imbarcazioni di fortuna e perdersi nelle onde alla ricerca di una vita migliore. Stessa foga. Stesso stato alterato, quasi di trance, dove nessun’altra alternativa è possibile. Tu spari. Loro si imbarcano. La mafia che gli vendeva Parigi, Madrid, Milano o Bruxelles, è la stessa che ti ha venduto il Paradiso, con le sue settantadue vergini, i fiumi di vino, il miele che cola dagli alberi… il linguaggio cambia, ma le mafie restano le stesse, siano esse religiose oppure no».

A Venezia, “Unseen stories” accosta i ritratti di “Les Marocains” e il video “Crossings”: la dignità degli africani legati alle tradizioni della loro terra e le traversie di chi è costretto ad affrontare violenze, deserto e mare per inseguire il sogno dell’Europa. Il primo progetto, che univa l’ispirazione dei ritratti di Robert Frank a quelli di Richard Avedon, è costato alla fotografa lunghi viaggi nel Marocco rurale con uno studio fotografico mobile. «Leila passava molto tempo con le persone che finiva per fotografare», racconta la madre. «Trovava un posto per dormire in ogni villaggio, faceva amicizia soprattutto con le donne, andava al mercato con loro, cucinavano insieme. Viveva con loro diversi giorni, e da lì nascevano l’intimità e la fiducia che rendono quei ritratti unici». Dietro alla macchina fotografica, oltretutto, c’era un’antropologa sui generis, in grado di padroneggiare anche le tecniche della fotografia di moda: «A New York, Leila aveva fatto gavetta come assistente per i Milk Studios di Chelsea, dove lavoravano tutti i grandi fotografi di moda. È lì che ha imparato a usare in quel modo le luci e i flash che ha usato per “Les Marocains”».

Ma questo era in un certo senso il passato di Leila Alaoui: il suo futuro lo si vede in “Crossings”, che è di un’intensità davvero rara. «Penso che volesse andare sempre più verso il video e il cinema, la fotografia non le bastava più», conferma Christine. In “Crossings”, lo schermo diviso in nove quadranti alterna foto e video, ritratti di migranti e filmati della superficie dell’oceano o di rami di alberi dei boschi di Tangeri, montati in modo da costruire dei frattali. Binari, onde, dettagli del corpo umano diventano immagini ipnotiche, tagliate e ricostruite in modo da richiamare le figure astratte tipiche della tradizione islamica.

Il sonoro è un collage di voci che raccontano - con il tono fermo del testimone, e senza il lamento della vittima - dettagli del viaggio: i pericoli legati alla cattiveria degli uomini più che alla natura, più che alle incognite del deserto e dell’acqua. Immagini e racconti usurati dalla cronaca riprendono così significato perché diventano arte. E oggi parlano con la stessa dignità e senza patetismo sia dei migranti che compaiono nel video che dell’artista, invisibile dietro alla telecamera e in sala di montaggio. Q

© RIPRODUZIONE RISERVATA Foto: P. Lopez - Afp / GettyImages

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