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graphic novel di Nora Krug 53 Il dilemma jihad dei Talebani Giuliano Battiston

di GIULIANO BATTISTON

Il di l emm a ji h a d d ei Ta l eb ani do p o l a m or t e di a l-Z awa hiri

Iveri jihadisti non muoiono di vecchiaia. Recita così la vulgata dell’islamismo radicale armato, che da alcuni giorni celebra un nuovo martire: Ayman al-Zawahiri, il numero uno di al-Qaeda, ucciso da un drone americano a 71 anni - dopo più di 50 anni di militanza e decenni di clandestinità - non in un distretto remoto delle aree di confine tra Afghanistan e Pakistan, ma a Sherpur, quartiere residenziale di Kabul.

L’annuncio dell’esecuzione a distanza è stato dato dal presidente Usa, Joe Biden. Per lui è una vittoria, ma di corto respiro. Dimostra che si può fare contro-terrorismo anche senza le truppe sul terreno, come Biden ripete dai giorni del disastroso ritiro dall’Afghanistan, lo scorso agosto. Ma presta il fianco alle critiche: a cosa è servito l’accordo di Doha del febbraio 2020 e poi gli incontri dell’inviato speciale Thomas West, se al-Zawahiri era protetto e ospitato nel cuore di Kabul, nonostante l’impegno dei Talebani a tagliare i ponti con i gruppi terroristici? Per giustificare il ritiro, non era stato proprio Biden a sostenere che al-Qaeda fosse decimata? A l-Qaeda invece è ancora attiva. Gioca facile, ma sbaglia, chi vede al-Zawahiri soltanto come un vecchio zio pedante, l ’uomo dei lunghi sermoni inascoltati. Certo poco carismatico, l ’egiziano ha mantenuto in piedi l ’organizzazione, a dispetto della morte del fondatore, Osama Bin Laden, dentro e oltre le primavere arabe. E nonostante la secessione parricida, poi sfida aperta per l ’egemonia, del gruppo che sarebbe diventato lo Stato islamico di Abu Bak r al-Baghdadi. In Iraq e Siria al-Qaeda è off uscata, ma dall ’Africa al sud-est asiatico i gruppi affiliati hanno radicamento territoriale. E rimane una presenza in Afghanistan, culla del jihad contemporaneo. Per i Talebani, una bella grana. «Dal nostro territorio non arriverà nessuna minaccia terroristica». Così il 27 luglio, nel corso di una conferenza internazionale a Tashkent, Uzbek istan, assicurava il ministro degli Esteri dell ’Emirato, Amir K han Muttaqi. Quattro giorni dopo, domenica 31, l ’uccisione del capo di al-Qaeda a Kabul. Per i Talebani è un danno d ’immagine e di reputazione. Le relazioni tra Kabul e Washington, dalle cui decisioni dipendono le scelte finanziarie di molti organismi internazionali, diventeranno ancora più fredde. Sarà più complicato mantenere canali diplomatici aperti, anche per quei governi che avevano scelto la strada della flessibilità. L’isolamento che ne verrà potrebbe condurre ancor più verso l ’autarchia i Talebani, già div isi sul “che fare” dell ’Emirato.

Inev itabili, nuov i dissidi all ’interno del mov imento, policentrico. L’ala dei pragmatici, incline al recupero delle relazioni diplomatiche con il sistema euro-atlantico, verrà guardata con sospetto dai più radicali. «Qualcuno dei vostri ha forse fatto la soffiata?». Le celebrazioni per il primo anno del nuovo Emirato saranno segnate da nuov i equilibri di potere. A uscire indebolito, per ora, è Sirajuddin Haqqani, erede della solida impresa terroristica messa in piedi dal padre ora defunto, Jalaluddin, nelle zone di frontiera tra Afghanistan e Pak istan: per decenni, una sorta di hub per i jihadisti di mezzo mondo, a partire da Osama Bin Laden. Ministro degli Interni dell ’Emirato, una taglia da 10 milioni di dollari “sulla testa”, per mesi Sirajuddin ha cercato di rifarsi il pedigree, incontrando diplomatici stranieri, facendo da mediatore tra il governo pachistano e il Tehreek-e-Taliban, i Talebani pachistani che negoziano la tregua con Islamabad. Facendo sapere che gli Haqqani sono a favore dei diritti delle donne, «non come quei retrogradi di Kandahar». Una strategia ora in fumo: al-Zawahiri era ospite di Sirajuddin Haqqani, a Kabul. Q

L’EREDE DI BIN LADEN ERA A KABUL. E BIDEN LO HA COLPITO ANCHE SENZA FORZE SUL CAMPO

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Prima Pagina

TRE DE L SUDAME RICA

Foto: Xinhua / eyevine/contrasto

SETTE PAESI SU 12 PREMIANO I PROGRESSISTI. SI PUNTA SU EQUITÀ E AMBIENTE. LA SVOLTA A SORPRESA DELLA COLOMBIA. IN PERÙ DERIVA POPULISTA

DI DANIELE MASTROGIACOMO

edro Castillo in Perú, Luis Arce Pin Bolivia, Gabriel Boric in Cile, Xiomara Castro in Honduras, fino a Gustavo Petro in Colombia. Solo nell’ultimo anno. Senza considerare i precedenti di Andrés Manuel López Obrador in Messico e Alberto Fernández in Argentina. Sette paesi sui 12 dell’America del Sud; 22 allargando a quelli dell’intero continente meridionale. Tutti guidati da un presidente di sinistra. Cuba, Venezuela e Nicaragua, sono una realtà a parte. Da sempre. Prigionieri di uomini che si richiamano alle rivoluzioni e lotte di liberazione del secolo scorso ma che governano con il pugno di ferro. I nuovi dittatori. Sbattono in carcere vecchi compagni di battaglia perché osano dissentire, chiudono giornali, cacciano le Ong e le università, persino gli enti ecclesiastici, violano sistematicamente i diritti umanitari. Succubi del loro ego e di un potere che non vogliono mollare.

Diverso per i primi sette: sono la sinistra del nuovo secolo. Legati da un filo comune, con alcune differenze. Esprimono una tendenza che si è fatta strada, che interroga esperti e analisti. È un’ondata di ritorno, lo tsunami sociale e politico che spazza una destra incapace di governare? Oppure l’effetto di una naturale spinta al cambiamento, all’alternanza, la dimostrazione di una maturità democratica di popolazioni sempre afflitte da golpe e decisioni prese da altri?

La vittoria inaspettata della sinistra in Colombia, per la prima volta in 100 anni di storia del paese andino, offre una prima risposta convincente. Dire che si tratta di una sinistra “nuova” sarebbe ovvio. Ma soprattutto parziale e fuorviante. Tutti gli osservatori convergono su un punto: il 2000 ha prodotto una coscienza collettiva che riesce finalmente ad esprimersi. Complici il Covid e adesso l’inflazione, la gente si è resa conto che solo imponendo i temi a cui è più sensibile riusciva a far nascere il governo in grado di raccoglierli e soddisfarli. È una sfida in pieno svolgimento. Di questo sono coscienti gli uomini e le donne che si sono ritrovati al potere, realizzando finalmente un’ambizione sempre frustrata. Le rivolte in Cile, dove sono scesi in piazza non solo gli studenti e gli operai ma una fetta consistente della classe media, tradizionalmente conservatrice, hanno aperto la strada verso cambiamenti epocali. Il 4 settembre i cileni voteranno un referendum sulla nuova Costituzione che metterà in soffitta quella di Pinochet. Prevede trasformazioni importanti sul piano giuridico e di assetto istituzionale. Un gruppo di giovanissimi ex leader universitari è stato eletto per traghettare il Paese verso il futuro. Tra questi ci sono una decina di donne, la maggioranza, che ricopre cariche importanti, come ministre della Difesa e

Daniele Mastrogiacomo Giornalista

dell’Interno. Una vera rivoluzione in un panorama politico dominato dagli uomini. Una risposta al movimento femminista che in Cile ha acceso l’ondata poi riversata sul Messico, la Colombia, l’Argentina.

Diverso il Perú dove un maestro rurale, scelto quasi a caso sulla rete da chi voleva usarlo come ariete, ha raccolto il desiderio di riscatto delle popolazioni indigene da sempre relegate ai margini del potere. L’inesperienza e un alto grado di corruzione che ha intossicato tutti i gangli della società lo hanno costretto a rivedere il suo programma politico. Il presidente Castillo ha cambiato 22 ministri e quattro primi ministri in meno di 12 mesi. Ha affrontato due richieste di impeachment dalle quali si è salvato per un soffio. È tenuto sotto scacco dalle diverse mafie che si contendono il potere sotterraneo. Ha stretto alleanze di comodo subito rotte perché incompatibili con i suoi valori omofobici, antiabortisti, classisti. Non c’è più nulla di sinistra nell’ex leader degli insegnanti di Cajamarca. Forse non c’è mai stato. Per sottrarsi ai ricatti di chi lo aveva lanciato nella sfida alla presidenza ha dovuto lasciare il partito, Perú Libre, con cui era stato eletto. Oggi naviga a vista. Ha rinunciato ai programmi rivoluzionari che avevano seminato il terrore tra la borghesia peruviana. Si è adeguato alle leggi imposte dai mercati finanziari. Governa come hanno sempre governato gli ultimi cinque presidenti che lo hanno preceduto. Non si proclama più marxista-leninista.

Sono finiti i tempi dell’Alba, l’asse che univa Castro, Chávez, Ortega, Morales e Correa sul progetto della “Rivoluzione bolivariana del XX secolo”. Oggi vince chi punta sul futuro. Che significa immediato presente. Prevale chi tocca temi sempre rimasti in secondo piano ma che la realtà oggi impone come vitali, decisivi per lo sviluppo di un Paese e il

Il presidente cileno Gabriel Boric saluta i suoi sostenitori. In alto, Xiomara Castro, prima presidente donna dell’Honduras

A SETTEMBRE I CILENI VOTERANNO IL REFERENDUM SULLA COSTITUZIONE PER ARCHIVIARE QUELLA DELLA DITTATURA DI PINOCHET

benessere del suo popolo. Gabriel Boric e Gustavo Petro sono riusciti a intercettarli. Li hanno messi in cima alle loro agende e per questo sono stati premiati dall’elettorato. Il nuovo presidente colombiano è riuscito a dirottare, al ballottaggio, 2,7 milioni di voti dal centro e dalla stessa destra, quella che lo aveva demonizzato evocando il solito spettro di finire tra le fauci di Cuba e Venezuela.

Ha puntato sulle popolazioni indigene e sulla conversione energetica. «Ciò che è veramente nuovo e distintivo del progressismo che ha vinto oggi in Cile e Colombia è quello che mancava a tutti i governi di sinistra: un’agenda ambientale e un modello economico che capisse quanto i combustibili fossili e le industrie estrattive fossero il passato. Non c’è futuro, né per la sinistra né per altri, su un pianeta inabitabile», conferma Cesár Rodriguez Garavito, avvocato e sociologo, autore de La nuova sinistra in America Latina (2005). In Brasile, gli stessi Lula e Rousseff, che animavano l’ondata rosa e rossa degli Anni 80, hanno finito per realizzare i sogni della dittatura militare. L’Amazzonia è stata aperta a progetti faraonici. Come le centrali idroelettriche di Belo Monte che servono ad alimentare progetti minerari in tutta la regione. In Bolivia, ricorda el Pais, l’ex vicepresidente Alvaro García Linera ha dovuto fare pubblica ammenda per l’intensa attività estrattiva portata avanti nella foresta pluviale.

Ma esiste ancora un paradosso: le ragioni che hanno guidato le ultime vittorie progressiste si avvertono nelle differenze che marcarono la prima ondata. Se negli Anni 80 i prezzi delle materie prime e il boom del petrolio erano stati decisivi per sostenere quei

governi, oggi il motore del cambiamento nasce dal deterioramento degli indicatori sociali in gran parte del Continente. Pesa il fatto che i leader di quell’epoca si sono ritirati o sono morti. Il consenso deve essere ampio, chiaro. E per ottenerlo chi guida oggi la sinistra deve rivolgersi al centro. Lula lo ha capito e ha indicato come vice il suo storico avversario, il socialdemocratico Geraldo Alckmin. «Cercare l’intera fusione delle forze progressiste come entità comune è una chimera. C’è forse più dissonanza che incontri nelle proposte», osserva ancora Garavito.

Gabriel Boric ha messo in cima alle sue priorità le rivolte dei Mapuche, l’etnia indigena che infiamma il Sud, e la riforma del fi-

Il presidente della Bolivia Luis Arce. In alto, il presidente peruviano Pedro Castillo saluta i sostenitori dal balcone del suo quartier generale a Lima sco per rafforzare l’assistenza sociale e allargare la base dei diritti; ha nominato presidente dell’Assemblea Costituzionale un’indigena. La nuova Carta prevede una giustizia speciale per le istanze dei gruppi autoctoni. Gustavo Petro punta anche lui su un riequilibrio fiscale e rinuncia alle fonti energetiche tradizionali. La transazione significa blocco dell’esplorazione petrolifera per muoversi verso un’economia produttiva, favorendo l’energia pulita. Resta da capire dove trovare le fonti alternative per sostituire quelle minerarie. Soprattutto adesso che il greggio è diventato merce preziosa e richiesta sui mercati. Non è un caso se Joe Biden è stato il primo a congratularsi e a volerlo incontrare «subito» per mettere a punto un piano comune di abbattimento delle emissioni dei gas tossici. Il primo presidente di sinistra ha voluto dare un segnale in più. Concreto, tangibile: ha corso in coppia con Francia Marquéz, attivista ambientale e femminista di origini afro-colombiane. Sarà la prima donna di colore come vicepresidente. Il suo contributo è stato determinante per la vittoria.

Obrador in Messico crede ancora nel petrolio e cerca posizioni egemoniche sui minerali emergenti come il litio. Si cura poco dell’ambiente, polemizza con i movimenti femministi, banalizza l’altissimo numero di violenze e di femminicidi che si registrano nel Paese. Stessa cosa nei confronti dei giornalisti che lo accusano di scarsa attenzione alla raffica di omicidi da parte dei sicari dei Cartelli. Naviga in acque agitate e il suo consenso è dimezzato rispetto a tre anni fa. Xiomara Castro tenta di riportare giustizia ed equità sociale nell’Honduras sempre sacrificato dagli interessi Usa. Alberto Fernández deve fare i conti con l’eterno debito argentino e soffre degli attacchi della sua vice Cristina de Kirchner che agita la piazza dell’ala peronista.

Si aspetta il 2 ottobre per capire chi guiderà il Brasile nei prossimi 4 anni. Lula è in testa ma per sconfiggere Bolsonaro dovrà offrire una proposta nuova, diversa da quello che lo vide guidare l’ondata rossa del secolo scorso. Guardando alla fame che aggredisce 3 cittadini su 10. Ma anche all’Amazzonia e alle energie alternative. Per rispondere alle richieste di integrazione delle oltre 300 tribù indigene e assolvere all’impegno internazionale di salvare il polmone del mondo. Q

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