L'Espresso 31

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La prospettiva di GIULIANO BATTISTON

Il dilemma jihad dei Talebani dopo la morte di al-Zawahiri

I

veri jihadisti non muoiono di vecchiaia. Recita così la vulgata dell’islamismo radicale armato, che da alcuni giorni celebra un nuovo martire: Ayman al-Zawahiri, il numero uno di al-Qaeda, ucciso da un drone americano a 71 anni - dopo più di 50 anni di militanza e decenni di clandestinità - non in un distretto remoto delle aree di confine tra Afghanistan e Pakistan, ma a Sherpur, quartiere residenziale di Kabul. L’annuncio dell’esecuzione a distanza è stato dato dal presidente Usa, Joe Biden. Per lui è una vittoria, ma di corto respiro. Dimostra che si può fare contro-terrorismo anche senza le truppe sul terreno, come Biden ripete dai giorni del disastroso ritiro dall’Afghanistan, lo scorso agosto. Ma presta il fianco alle critiche: a cosa è servito l’accordo di Doha del febbraio 2020 e poi gli incontri dell’inviato speciale Thomas West, se al-Zawahiri era protetto e ospitato nel cuore di Kabul, nonostante l’impegno dei Talebani a tagliare i ponti con i gruppi terroristici? Per giustificare il ritiro, non era stato proprio Biden a sostenere che al-Qaeda fosse decimata? Al-Qaeda invece è ancora attiva. Gioca facile, ma sbaglia, chi vede al-Zawahiri soltanto come un vec-

chio zio pedante, l’uomo dei lunghi sermoni inascoltati. Certo poco carismatico, l’egiziano ha mantenuto in piedi l’organizzazione, a dispetto della morte del fondatore, Osama Bin Laden, dentro e oltre le primavere arabe. E nonostante la secessione parricida, poi sfida aperta per l’egemonia, del gruppo che sarebbe diventato lo Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi. In Iraq e Siria al-Qaeda è offuscata, ma dall’Africa al sud-est asiatico i gruppi affiliati hanno radicamento territoriale. E rimane una presenza in Afghanistan, culla del jihad contemporaneo. Per i Talebani, una bella grana. «Dal nostro territorio non arriverà nessuna minaccia terroristica». Così il 27 luglio, nel corso di una conferenza internazionale a Tashkent, Uzbekistan, assicurava il ministro degli Esteri dell’Emirato, Amir Khan Muttaqi. Quattro giorni dopo, domenica 31, l’uccisione del capo di al-Qaeda a Kabul. Per i Talebani è un danno d’immagine e di reputazione. Le relazioni tra Kabul e Washington, dalle cui decisioni dipendono le scelte finanziarie di molti organismi internazionali, diventeranno ancora più fredde. Sarà più complicato mantenere canali diplomatici

L’EREDE DI BIN LADEN ERA A KABUL. E BIDEN LO HA COLPITO ANCHE SENZA FORZE SUL CAMPO

aperti, anche per quei governi che avevano scelto la strada della flessibilità. L’isolamento che ne verrà potrebbe condurre ancor più verso l’autarchia i Talebani, già divisi sul “che fare” dell’Emirato. Inevitabili, nuovi dissidi all’interno del movimento, policentrico. L’ala dei pragmatici, incline al recupero delle relazioni diplomatiche con il sistema euro-atlantico, verrà guardata con sospetto dai più radicali. «Qualcuno dei vostri ha forse fatto la soffiata?». Le celebrazioni per il primo anno del nuovo Emirato saranno segnate da nuovi equilibri di potere. A uscire indebolito, per ora, è Sirajuddin Haqqani, erede della solida impresa terroristica messa in piedi dal padre ora defunto, Jalaluddin, nelle zone di frontiera tra Afghanistan e Pakistan: per decenni, una sorta di hub per i jihadisti di mezzo mondo, a partire da Osama Bin Laden. Ministro degli Interni dell’Emirato, una taglia da 10 milioni di dollari “sulla testa”, per mesi Sirajuddin ha cercato di rifarsi il pedigree, incontrando diplomatici stranieri, facendo da mediatore tra il governo pachistano e il Tehreek-e-Taliban, i Talebani pachistani che negoziano la tregua con Islamabad. Facendo sapere che gli Haqqani sono a favore dei diritti delle donne, «non come quei retrogradi di Kandahar». Una strategia ora in fumo: al-Zawahiri era ospite di Sirajuddin Haqqani, a Kabul. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

7 agosto 2022

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