L'Espresso 31

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Settimanale di politica cultura economia N. 31 • anno LXVIII • 7 AGOSTO 2022 Domenica 3 euro L’Espresso + La Repubblica In Italia abbinamento obbligatorio alla domenica. Gli altri giorni solo L’Espresso 4 euro

ECONOMIA

ESTERI

IDEE

Crisi e rincari, il Grande Freddo è alle porte

Dal Cile al Perù, dove governa la sinistra

Nell’abisso del desiderio con Matteo Nucci

Mazzetta nera

Dall’arresto per tangenti di un manager della Fiera di Milano emerge un sistema d’affari che ruota intorno agli uomini di Ignazio La Russa. FdI fa propaganda sulla famiglia mentre si muovono le cordate



Altan

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Sommario numero 31 - 7 agosto 2022

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Il silenzio di Meloni sui camerati sotto accusa Lirio Abbate 11

Prima Pagina A chi la tangente? A noi! Paolo Biondani e Carlo Tecce Il programma di Meloni: discriminare Loredana Lipperini Noi siamo Giorgia Susanna Turco Capra e cavoli nel campo largo Gabriele Bartoloni I partiti scelgano candidati al di sopra di ogni sospetto Federico Cafiero De Raho Camorra social e affari veri Rosaria Capacchione Nella tempesta la nave ha i motori spenti Vittorio Cogliati Dezza Grande freddo alle porte Gloria Riva Invisibili alla mercé delle bande Pietro Mecarozzi Il pizzo viaggia online colloquio con Roberto Baldoni di Giancarlo Capozzoli Diari di guerra Sabina Minardi

graphic novel di Nora Krug Giuliano Battiston Daniele Mastrogiacomo Federica Bianchi Gianfrancesco Turano

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Matteo Nucci Giuseppe Catozzella Andrea Porcheddu

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Le due vite di Mazen, “Mi volevano femmina, difendo i diritti” Simone Alliva Lo sguardo di Leila Alaoui sulle contraddizioni dell’Islam Angiola Codacci-Pisanelli L’imprenditore mecenate che ha creato una casa-museo Luana de Francisco

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Il dilemma jihad dei Talebani Le tante sinistre del Sudamerica Taiwan, il drago in ansia si fa minaccioso La lotteria del pallone

Idee L’abisso del desiderio Vite da spia L’importanza di chiamarsi Sin

Opinioni Altan Makkox Manfellotto Panarari Corleone Serra

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Rubriche La parola Taglio alto Bookmarks Ho visto cose #musica Scritti al buio Noi e voi

7 19 73 94 94 95 96

COPERTINA Foto di Marco P. Valli / Cesura

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Storie

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La parola

naufragare

© RIPRODUZIONE RISERVATA

«Nave sanza nocchiere in gran tempesta». Sarebbe già vitale, aperta all’avventura l’invettiva dantesca contro l’Italia del VI canto del Purgatorio. E invece non c’è nessuna tempesta da affrontare dopo la caduta del governo Draghi. Nessuno schianto di onde che si contendono il primato. C’è piuttosto un naufragare... Ma non il dolce «naufragar» leopardiano fiducioso verso l’ignoto, ma il naufragare malinconico, rassegnato o esaltato, a seconda dei punti di vista (sinistra/destra), in quel che già era noto, scritto negli umori del Paese, nel malessere sociale ed economico, nella latitanza della dialettica politica, anzi nell’assenza proprio della Politica in sé che, nel naufragio generale di ogni progettualità, ha permesso a una sola voce di imporsi sulle altre e, come accade in ogni regressione, far valere le ragioni del più accanito trincerarsi dietro i vessilli della patria, del sangue, del primato di una stirpe. Faceva paura la voce di Meloni nel suo intervento in Andalusia

a sostegno dell’ultradestra spagnola di Vox qualche mese fa. E faceva paura perché aveva il piglio di chi si sente forte, inarrestabile nei suoi Sì alla famiglia naturale, all’identità sessuale, alla cultura della vita, all’universalità della croce, alle frontiere sicure, alla sovranità del popolo, alla nostra civiltà... Tutti quei Sì propri dell’estrema destra internazionale in cui di contro si schiantano schiacciati da altrettanti No incalzanti come anfibi in marcia: tutti i migranti disperati, i fragili diritti Lgbt, ogni altra religione, quel diritto all’interruzione volontaria di gravidanza che ha segnato la punta dell’iceberg del processo di liberazione della donna, insomma tutto quel che rende un Paese e una Politica capace di ascoltare, e non schiacciare, le voci civili del proprio tempo. Così a naufragare nell’ascesa dell’ultradestra non è solo un Paese ma un’idea di mondo, plurale e libero e più giusto, non soltanto in Italia ma, pericolosamente, anche ben oltre i confini nostrani.

EVELINA SANTANGELO 7 agosto 2022

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Cronache da fuori

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Makkox

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Editoriale

Lirio Abbate

Il silenzio di Meloni sui camerati sotto accusa

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azzetta nera è una storia di corruzione che parte dalla Fiera di Milano e arriva a Fratelli d’Italia. L’inchiesta di copertina di questa settimana, firmata da Paolo Biondani e Carlo Tecce, svela il contesto lombardo in cui sarebbero state divise tangenti che hanno coinvolto uomini del partito di Giorgia Meloni, estranea all’inchiesta, e sono vicini a Ignazio La Russa, che non è indagato. Una storia che ci fa pensare a trent’anni fa, all’arresto da cui partì a Milano quella che poi abbiamo chiamato Tangentopoli. Gli scandali che all’epoca demolirono l’ordine politico italiano portarono a una nuova generazione nella vita pubblica e tra loro c’era Giorgia Meloni, che all’età di 15 anni scelse di entrare a far parte del ramo giovanile del Movimento Sociale Italiano.

La leader di FdI si è sempre proclamata per la legalità. Ma tace sulle inchieste che coinvolgono suoi uomini. È una questione innanzitutto politica che riguarda la sua credibilità davanti agli elettori

Il protagonista di questi giorni è un camerata che dal 2017 al 2021 è stato il capo ufficio acquisti della Fiera di Milano accusato di incassare mazzette, come ammettono tre diversi imprenditori. Tangenti nere, divise tra un gruppo di amici con cui ha fatto politica. Assieme hanno organizzato affari, dall’Italia all’Albania, assieme sono finiti nei guai. Nel fascicolo processuale compaiono i nomi di persone che sono collegati o fanno parte del partito che guida la coalizione di destra che marcia su Roma con i sondaggi in poppa. Di solito nelle indagini si segue la traccia del denaro qui, invece, la fiamma tricolore missina del partito. «Fratelli d’Italia ha sempre fatto della legalità la sua bandiera: se ne facciano tutti una ragione», ripete spesso Giorgia Meloni. Però i fatti dimostrano il contrario, o almeno, i fatti più gravi in cui sono coinvolti gli uomini di Fratelli d’Italia: il voto di scambio politico mafioso alla vigilia delle amministrative a Palermo; la sindaca di Terracina coinvolta in una inchiesta di corruzione e costretta a dimettersi; l’eurodeputato Carlo Fidanza accusato sempre di corruzione. Su questi fatti si registra solo

un silenzio assordante di Meloni. La legalità che intende la leader della destra non fa certo il paio con i reati contestati ai suoi uomini. Certo, si è innocenti fino a terzo grado di giudizio, ma politicamente parlando, e qui di politica stiamo discutendo, quando hanno un rilievo sociale e pubblico, queste storie vanno evidenziate e non vanno certo nella direzione di rispetto delle regole e della società che Meloni e i suoi camerati professano. Abbiamo iniziato ad esaminare il programma elettorale di Fratelli d’Italia, lo spiega nelle pagine successive Loredana Lipperini, la quale fa notare che Meloni ha messo la famiglia - non tutte - al primo punto, e non c’è nessun aiuto alle coppie Lgbtqi+. Non affronta il vero nodo della questione. Per lei le donne devono rimanere a casa e se lavorano guadagnano meno degli uomini. L’ex procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Federico Cafiero De Raho, lancia sulle pagine de L’Espresso un appello: i partiti scelgano candidati al di sopra di ogni sospetto. E sottolinea un passaggio che condividiamo: «Bisogna che i candidati siano assolutamente trasparenti e immuni da rapporti con gli ambienti criminali. I nostri parlamentari non dovranno essere nemmeno sfiorati dal sospetto di illegali relazioni. Il Paese vuole persone affidabili per preparazione ed etica; non è sufficiente non aver riportato condanne penali. Il profilo della responsabilità penale è proprio della giustizia; per il Parlamento occorrono persone credibili per il profilo professionale e, al tempo stesso, per Q quello morale». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Verso il voto / Soldi e politica

A CHI LA TANGENTE? A NOI! C’È UN ONOREVOLE VICINO A LA RUSSA NELLE SOCIETÀ AL CENTRO DELLE TANGENTI CONTESTATE AL MANAGER DELLA FIERA DI MILANO E DIVISE CON I CAMERATI DI FRATELLI D’ITALIA DI PAOLO BIONDANI E CARLO TECCE

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Prima Pagina

Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia


Verso il voto / Soldi e politica

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accetta Nera? No, mazzetta nera: una storia di corruzione che parte dalla Fiera di Milano e arriva a Fratelli d'Italia. Gli inquisiti hanno nomi sconosciuti ai più, vivono nella periferia nord-est di Milano, tra schiere brumose di condomini, fabbriche e centri commerciali, ma è difficile liquidarli come personaggi secondari del teatro politico lombardo. Perché almeno fino a ieri, fino all'arresto per tangenti di un loro camerata e presunto mercante in fiera, sono stati grandi collettori di voti in un centro delle dimensioni di Cologno Monzese, che ha oltre 50 mila abitanti, aziende simbolo come Mediaset, la storica linea della metropolitana che porta dritta in centro, passando da piazzale Loreto. Qui, in questa fetta importante del popoloso hinterland, è cresciuta una destra ambiziosa, determinata, a volte sfrontata, che ha conquistato il Comune per due elezioni consecutive, sotto lo sguardo premuroso di una famiglia di leader di spessore nazionale. La famiglia La Russa.

MARCO OSNATO, NIPOTE ACQUISITO DEL BIG DI FDI HA CREATO QUATTRO AZIENDE CON I SOCI OCCULTI DEL CORROTTO E RAS DI COLOGNO MONZESE. LUI REPLICA: “NON LO SAPEVO E ORA SONO INATTIVE” Fratelli d'Italia, che oggi marcia su Roma con i sondaggi in poppa, ha ai suoi vertici una coppia di casati diversi per territorio, gusti, vezzi, accenti. A Roma e nel Lazio c’è la famiglia Meloni, imparentata con Lollobrigida. Perché il capogruppo alla Camera, l'onorevole Francesco Lollobrigida, ha sposato Arianna, la sorella di Giorgia Meloni. A Milano e in Lombardia c’è la famiglia La Russa, con Ignazio big della destra fin dai tempi del Movimento sociale insieme al fratello Romano. Ma nella famiglia brilla anche un nipote acquisito, l'onorevole Marco Osnato, che ha sposato la figlia di Romano. A Cologno e dintorni, in questi anni, la destra si è abituata alla doppia cifra. Ha rimosso Forza Italia. Insidia la Lega. Come si è allenata al potere, chi ha allevato, quale è 14

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la sua classe dirigente, lo si apprende da un’inchiesta giudiziaria. Non da un trattato di politologia. Il protagonista è un camerata che dal 2017 al 2021 è stato il capo ufficio acquisti della Fiera di Milano: secondo le accuse dei magistrati di Milano, incassava tangenti, come ormai ammettono tre diversi imprenditori. Mazzette nere, divise tra un gruppo di amici che assieme ha fatto politica, assieme ha organizzato affari, dall'Italia all'Albania, assieme è finito nei guai. Li ritroviamo nei titoli di testa del fascicolo dei giudici di Milano: Massimo Hallecker, fino al 2021 responsabile degli appalti Paolo Biondani del colosso fieristico, che Giornalista lo ha prima licenziato, poi denunciato; e i politici-imprenditori Silvestro, detto Franco, Riceputi e Domenico, detto Mimmo, Seidita. Tutti di Fratelli d'Italia. Di solito nelle indagini si segue la traccia del denaro, Carlo Tecce qui la fiamma tricolore del Giornalista partito. Hallecker è agli ar-


Pagine 12-13: M. P. Valli / Cesura Pagine 14-15: N. Marfisi / Agf

Prima Pagina

resti domiciliari per due presunte compravendite di appalti, per un valore totale di circa nove milioni. Riceputi e Seidita sono indagati come suoi complici. «In concorso tra loro, in tempi diversi e in esecuzione di un medesimo disegno criminoso», si legge in uno dei capi d'accusa, «Hallecker favoriva l’impresa Fabbro Logistic Management & Services (oggi Fabbro spa) assegnando alla stessa, in violazione del principio di imparzialità, l’appalto per la gestione dei servizi logistici del magazzino Nolostand (società controllata dalla Fiera) del valore complessivo di 8,061 milioni di euro, ricevendo quale corrispettivo le seguenti utilità: una somma di denaro, allo stato non determinata; l’affidamento alla ditta Idea Servizi ( facente capo a Seidita, ma in stretti rapporti societari e personali con Hallecker e Riceputi) del 92,82 per cento dei lavori già appaltati alla Fabbro da Fiera Milano; la promessa di partecipare a un importante progetto edile del valore di circa 25 milioni nell’ambito del cosiddetto bonus 110 per cento, distribuito tra l’area milanese e la Sicilia, che vedeva coinvolti il consorzio Co. Mi.Pa., i cui soci erano i medesimi Hallecker, Seidita, Riceputi e altri con lo stesso

Rho, Fiera di Milano, Salone internazionele del mobile

gruppo Fabbro; la promessa di concludere una trattativa per la vendita di prodotti di pulizia e sanificazione tra la Sanigea, società nella cui compagine sociale figuravano gli stessi Hallecker, Riceputi e altri, e il gruppo Fabbro in qualità di acquirente». Lo stesso «sodalizio», con alterne fortune e posizioni, nel 2015 è stato protagonista della scalata politica di Fdi a Cologno, col primo mandato del sindaco di centrodestra Angelo Rocchi. Lo stesso Hallecker viene candidato, ma non eletto, quindi dal 2016 si concentra sugli affari. Seidita invece sbanca e diventa capogruppo di Fdi. Mentre Riceputi non si espone, ma è lo stratega della campagna e ne esce da eminenza grigia. È una rivincita della destra dopo la caduta di Gianfranco Fini e Gianni Alemanno, tra accuse romane di corruzione e traffici d’influenza politica. Fratelli d'Italia, giovane partito ancora da svezzare e con modesti consensi, a Cologno è già allora un punto di riferimento. Tant’è che proprio qui Fdi, alla vigilia delle Europee del 2019, apre un circolo per servire tutta l'area della Martesana e attrarre consensi anche a Sesto San Giovanni, l'ormai ex Stalingrado d'Italia. Quel giorno a Cologno arrivano i fratelli La 7 agosto 2022

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Verso il voto / Soldi e politica

Russa, con il sindaco Rocchi e ovviamente Riceputi e i suoi fedelissimi. «Non ho fatto in tempo a vedere le prime due Guerre puniche, ma ricordo bene la terza», scherza ma non troppo Ignazio: «Sino a pochi anni fa in città come Sesto e Cologno per noi era difficile anche solo esserci. Ora è iniziata un'altra epoca». Nell'autunno 2020, il sindaco Rocchi viene rieletto. Fratelli d'Italia ottiene il 12,7 per cento. Riceputi resta l'azionista di controllo esterno di un pezzo di giunta. Il suo cuore batte sempre a destra. Sui social esibisce una foto con Ignazio La Russa, che sosteneva già nel Msi e poi in An, ma con l'attuale bandiera di Fdi. Il portafoglio però ormai è altrove: secondo il giudice delle indagini, il ras di Cologno è al centro di «un coacervo di partecipazioni societarie», con azionisti palesi e soci occulti, create per «far girare» le tangenti e incassarle «con tanto di bonifici» in apparenza regolari. William Fabbro, uno dei tre imprenditori che hanno ammesso di aver dovuto pagare, ha descritto così il sistema: «Nei primi mesi del 2020 venni contattato da Riceputi, persona che conosco da molti anni in quanto attivo in politica a Cologno Monzese. (…) 16

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Venne nel mio ufficio con un signore che non avevo mai visto, tale Hallecker, che si presentò come una figura chiave dell’ufficio acquisti e precisò che la Fiera non è un ente pubblico, quindi non è vincolata dal codice degli appalti. (...) Lui è molto esplicito e molto spregiudicato nel farmi capire che può attribuire autonomamente con ampia discrezionalità i lavori della logistica all’impresa che ritiene più idonea. (...) Mi disse che ci avrebbe dato i lavori a una condizione, chiara e vincolante, di subappaltarli alla società Idea Servizi, che non conoscevo assolutamente, di cui mi presentarono Seidita come titolare (...). Quindi dovemmo procedere a un ribasso per tenere per noi un margine del 7 per cento, sotto il quale non eravamo disposti a scendere. (...) Nel 2021 Hallecker, Riceputi e Seidita si presentavano spesso da me, anche insieme, perché erano interessati a partecipare ad altri nostri progetti come il superbonus». In quei mesi di dolore e morte da Covid c'è un giorno magico. Il 23 novembre 2020, nella stessa data, vengono costituite quattro società, con attività diverse: Bramì Building Management, amministrazione di condomini, pubblicità e gestione di spetta-


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Foto: D. Salerno / Fotogramma, N. Marfisi / Agf

evidenziano i giudici, in una data sospetta: sei giorni dopo le prime perquisizioni. La risposta è sicura: «Io ho mandato la lettera di liquidazione al mio commercialista già un anno fa. E non ho mai avuto alcun potere di gestione». Il giudice delle indagini preliminari, nell'ordinanza, considera straprovate almeno tre corruzioni, ma chiede al pm Paolo Storari di indagare su molti altri affari che unirebbero Hallecker e i camerati di Cologno. Il trio dei Fratelli d'Italia, in particolare, controllerebbe in Albania «un residence al mare con 32 appartamenti per turisti». E in diverse intercettazioni Hallecker e soci sembrano parlare di presunte tangenti su altri appalti: «Per noi come sempre c'è il 5 per cento». Nel frattempo gli indagati hanno perso il controllo politico di Cologno: la giunta di destra si è spaccata, il bilancio è saltato e in luglio il prefetto ha commissariato il Comune. In attesa delle definitive sentenze giudiziarie, tutti gli indagati vanno considerati innocenti. Al di là di ogni accusa, però, è sorprendente che un parlamentare in caricoli; La Martesana, pompe funebri; Il Protagonista, consulenze su tecnologie informatiche; Gruppo Lucia, catering e ristorazione. Una quota per ciascuna, dal 10 al 25 per cento, viene sottoscritta da un socio dichiarato e onorevole: Marco Osnato, deputato dal 2018, pupillo oltre che parente acquisito della famiglia La Russa, membro dell’esecutivo nazionale di Fdi con delega al commercio. Nel luglio 2021, con le prime perquisizioni, la Guardia di finanza sequestra una serie di documenti informatici che svelano i segreti di quelle e altre società: l'azionista occulto è Hallecker. Contattato da L'Espresso, Osnato smentisce qualsiasi coinvolgimento. «Non conosco Hallecker, non l'ho mai visto: se era un socio occulto, io non potevo immaginarlo». Il parlamentare conferma solo l'amicizia con Riceputi: «Lo conosco da vent'anni e sono molto amareggiato. Fu lui a invitarmi a partecipare a quelle società, che però non hanno mai operato. Ho chiesto io di liquidarle perché erano inattive. Quindi non possono aver mediato alcuna corruzione: sicuramente l'inchiesta riguarda altre società». Per la verità, solo due di quelle quattro società risultano chiuse, come

NELLE DITTE SOSPETTE LA CORDATA DI POLITICI CHE HA SBANCATO NELL’HINTERLAND. LE INTERCETTAZIONI: “A NOI IL 5 PER CENTO”. “ABBIAMO 32 APPARTAMENTI IN ALBANIA” Massimo Hallecker, capo ufficio acquisti della Fiera, ai domiciliari per tangenti. In alto, il deputato e nipote acquisito di Ignazio La Russa, Marco Osnato. Nella pagina accanto, Giorgia Meloni alla giornata conclusiva del congresso di Fratelli d’Italia a Milano

ca come Osnato, membro anche della commissione Finanze, non abbia avuto alcuna remora ad aprire nuove società con interessi che spaziano dall'immobiliare alle pompe funebri. Ed è ancora più bizzarro trovare tra gli azionisti palesi diversi altri militanti o candidati di Fdi di Cologno e dei comuni limitrofi, tanto da far sorgere il dubbio se sia nato prima il movimento politico o il comitato d’affari. Almeno un parlamentare nazionale non dovrebbe dedicarsi a tempo pieno alla politica? Osnato non la pensa così: «Sono socio dichiarato anche di due ristoranti, penso che un politico debba organizzarsi un proprio lavoro, per non dover dipendere per sempre dalla politica». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Verso il voto

IL PROGRAMMA DI MELONI: DISCRIMINARE DI

LOREDANA LIPPERINI

È

il 1970. In “Mai devi domandarmi”, Natalia Ginzburg scrive: «da tempo orfani, noi generiamo degli orfani, essendo stati incapaci di diventare noi stessi dei padri». È il 1993. David Foster Wallace (eletto il mio scrittore di riferimento in questa campagna elettorale) dice in un’intervista una cosa molto simile: abbiamo messo sottosopra la casa, come fanno i figli, e aspettiamo che i genitori tornino per sistemare le cose, ma ci rendiamo conto che non torne-

NESSUN AIUTO PREVISTO ALLE COPPIE LGBTQI+. E NON SI AFFRONTA IL VERO NODO DELLA QUESTIONE. LE DONNE RIMANGONO A CASA E SE LAVORANO GUADAGNANO MENO DEGLI UOMINI ranno più. Il dramma della sua generazione, dice, è «e che noi dovremo essere i genitori». È il 2022 e dovremmo aver capito che parlare genericamente di famiglia è impossibile, perché le famiglie sono cambiate e sono diverse da ogni punto di vista (emotivo, sociologico, culturale, statistico). Ma alla famiglia è dedicato il primo punto del programma elettorale di Fratelli d’Italia, che si svela nel suo reale significato solo all’ulti-

Loredana Lipperini Giornalista

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ma riga. Quella riga, alla lettrice di Stephen King che sono da anni, ha fatto venire in mente Margaret White, la madre di Carrie, protagonista del primo romanzo di King: per l’esattezza, il momento in cui la figlia torna a casa e Margaret è immobile su uno sgabello da cucina, con un coltello nascosto nelle pieghe della gonna, e dice alla figlia che «il peccato non muore mai». Per ora lasciamola sullo sgabello. Fino a quella riga la scelta è comprensibile: non è strano che il primo punto riguardi le famiglie («il più imponente piano di sostegno alle famiglie e alla natalità della storia d’Italia», Onmi inclusa), se ricordate quello che si diceva la settimana scorsa su Margaret Thatcher e la sua famosa frase «la società non esiste, esistono le famiglie». Individualismo contro comunità. Non è neanche strano che si parli di sostegno alla natalità in un paese


Prima Pagina

Giorgia Meloni

MAURO BIANI

Foto: N. Marfisi - Agf

TAGLIO ALTO

con sempre meno figli: semmai è la sinistra a occuparsene troppo timidamente, con alcune virtuose eccezioni come Giuditta Pini, o Cecilia D’Elia e Giorgia Serughetti, che hanno spesso ricordato che non è vero che non si facciano figli solo per mancanza di welfare, ma perché decenni di neoliberismo hanno distrutto «lo spazio politico delle relazioni tra esseri umani, e ucciso le promesse del futuro. Mentre diventare genitori è esattamente aprirsi al futuro». Certo, ci sono anche molti motivi pratici per temere di diventare genitori: secondo l’ultimo rapporto Istat, le donne tra i 25 e i 49 anni sono occupate nel 73,9% dei casi se non hanno figli, mentre lo sono nel 53,9% se hanno almeno un figlio di età inferiore ai 6 anni. Se si rimane ai motivi pratici, la proposta di Fratelli d’Italia è indubbiamente condivisibile: «asili nido gratuiti e aperti fino all’orario di chiusura di negozi e uffici e con un sistema di apertura a rotazione nel periodo estivo per le madri lavoratrici». È sottinteso, ma si immagina che magari quegli asili verranno aumentati, visto che la strategia di Lisbona prevedeva il 33% di accoglienza dei bambini entro il 2010 come tetto per garantire «il sano sviluppo di ogni paese». L’Italia è al 26,9%, ma Sud e Isole sono circa al 15%. Anche perché i criteri di selezione delle domande da parte dei comuni per l’accesso ai nidi pubblici tendono a favorire le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano. Le madri sono sacrificabili. Come lo sono nel congedo

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Partecipanti a una giornata del Pride

COSA DICE IL PROGRAMMA Asili nido gratuiti e aperti fino all’orario di chiusura di negozi e uffici e con un sistema di apertura a rotazione nel periodo estivo per le madri lavoratrici. Reddito infanzia con assegno familiare di 400 € al mese per i primi sei anni di vita di ogni minore a carico. Quoziente familiare in ambito fiscale. Deducibilità del lavoro domestico. Congedo parentale coperto fino all’80% ed equiparazione delle tutele per le lavoratrici autonome. Incentivo alle aziende che assumono neomamme e donne in età fertile. Tutela delle madri lavoratrici e incentivi alle aziende per gli asili nido aziendali. Deducibilità del costo ed eliminazione dell’IVA sui prodotti per la prima infanzia. Intervento sul costo del latte artificiale. Difesa della famiglia naturale, lotta all’ideologia gender e sostegno alla vita.

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parentale, che Fratelli d’Italia intende coprire, lodevolmente, fino all’80% della retribuzione. Ma chi prende, oggi, quel congedo? Secondo l’indagine Ipsos-WeWorld, in Italia solo un padre su due usufruisce dei congedi di paternità e se entrambi i genitori lavorano, e nella maggioranza dei casi è la madre a utilizzarlo, semplicemente perché quello femminile è lo stipendio più debole. Il risultato è che la quota di donne che lasciano il lavoro dopo la nascita dei figli è 5 volte superiore rispetto a quella degli uomini: 25% contro 5%. Quel che si intende è che difficilmente il proposito si realizzerà se non si risolve la disparità di stipendi, presenza, possibilità di carriera delle donne. Detto questo, la domanda è semplice: a quale famiglia si rivolge Fratelli d’Italia con tutto il resto degli incentivi e agevolazioni del programma? Perché, appunto, le famiglie sono diversissime rispetto all’immagine pubblicitaria padre-madre-due figli-cane. Sempre l’Istat ci dice che le coppie con figli e le famiglie composte da una sola persona si equivalgono numericamente, nel nostro paese: 33%. E che oltre alle coppie con figli, a quelle che non ne hanno e alle persone sole esistono famiglie con un solo genitore (una su dieci) e le coppie omosessuali. La risposta è nell’ultima riga del primo punto, che propone: «Difesa della famiglia naturale, lotta all’ideologia gender e sostegno alla vita». Il “sostegno alla vita” è immaginabile, se ricordiamo la difficoltà di interrompere la gravidanza in Italia e tutti i tentativi di infiltrare

Verso il voto gruppi no-choice nei consultori (e a proposito, perché non estendere l’azzeramento dell’Iva agli anticoncezionali, oltre che ai prodotti per l’infanzia?). Passiamo alla famiglia naturale: nel concetto di “naturale”, si suppone che le famiglie Lgbtqi+ non rientreranno, e non avranno dunque alcun tipo di agevolazione, anche se con figli. Peraltro, vale la pena ricordare (ancora Istat) che il 26% delle famiglie Lgbtqi+ che hanno contratto unione civile hanno dichiarato che il proprio orientamento sessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della vita lavorativa in almeno uno dei tre ambiti considerati (retribuzione, avanzamenti di carriera, riconoscimento delle capacità professionali). Dunque, gli svantaggi continueranno se ben si intende il senso di quel “naturale”. Infine, il gender. Che non esiste. Pensiamo a due libri, “Il libro delle famiglie” di Todd Parr dove si racconta appunto che le famiglie sono plurali e diverse. Oppure a un classico come “Piccolo blu e piccolo giallo” di Leo Lionni, che parla semplicemente di amicizia. I due testi sono stati censurati e messi all’indice più volte in quanto portatori di ideologia gender (che non esiste). Ci sono gruppi come Rinnovamento per lo spirito santo che li hanno espulsi dalle biblioteche scolastiche. Non paghi, hanno convocato anche un esorcista (è successo davvero, a Siniscola, otto anni fa). Ci sono scuole, tantissime, dove non è possibile parlare di educazione sessuale o sentimentale (a differenza degli altri paesi europei) perché vessate dai movimenti anti-gender (che non esiste). La cosiddetta lotta all’ideologia gender si traduce in censura, in disinformazione e in mancanza di opportunità. È ora di far scendere dallo sgabello Margaret White e di appaiarla a un altro personaggio di King, la signora Carmody, che appare nel racconto “The Mist”. Margaret soggioga la figlia con la paura e l’evocazione di un peccato inesistente, la signora Carmody attira seguaci facendo leva ancora una volta sulla paura, l’incertezza, la disperazione. Disunendo, e non unendo: come avviene nella distinzione tra famiglie considerate naturali e famiglie considerate, probabilmente, aberranti. Distinzione che aggrava lo stato delle cose, altro che piano per la natalità: come dice la protagonista del bellissimo “Negli occhi di una ragazza” di Marina Jarre, «non puoi fartela da solo, la tua rivoluzione». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

Foto: A. Cascio - SOPA Images - LifgtRocket / GettyImages

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Il commento di BRUNO MAFELLOTTO

Più che sulla Nato giuri sulla Costituzione

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a quando è in campagna elettorale Giorgia Meloni fa di tutto per raccontare Fratelli d’Italia come se non fosse Fratelli d’Italia: niente più critiche a Draghi, toni smorzati su vaccini e green pass, silenzio su Bruxelles e sull’Europa, e la perfida Bce come se non esistesse. Poi, nel pieno della guerra all’Ucraina, Meloni si è assicurata l’etichetta di “atlantista” presentata come frutto di una netta svolta. E questo è davvero un paradosso.

La destra, non solo qui, è sempre stata atlantista, dov’è la novità? Certo, un atlantismo temperato dal timore della preponderanza americana, vista come limite alle sovranità nazionali, ma pur sempre dichiarato e praticato. Non basta però dichiararsi atlantista per assicurarsi una patente di democrazia. La destra americana è la stessa che, incitata da Trump, assale Capitol Hill. Anche Orban è gioiosamente atlantista, ma ha fatto dell’Ungheria un regime autoritario che controlla la stampa e sostituisce magistrati con funzionari di governo. In Polonia i fratelli Kaczynsky, ferventi atlantisti in un paese Nato, si distinsero, tanto per dirne una, per la caccia agli omosessuali. Morawiecki, premier dopo di loro, si rifiuta di partecipare alla distribuzione dei migranti tra tutti i paesi Ue, e ha

proposto di perseguire penalmente chiunque attribuisca a cittadini polacchi responsabilità nei campi di sterminio nazisti. La storia e la Shoah cancellate per decreto. Tutti costoro, politicamente legati a Meloni, pensano che l’Europa, per definizione “matrigna”, sia solo un covo di burocrati parassiti. Per non dire della destra di casa nostra. Atlantista era Almirante - che nel 1949 votò contro l’adesione dell’Italia al Patto atlantico, ma più avanti ne condivise i principi - dai cui lombi politici discende Meloni lungo la dorsale Msi-An-Fratelli d’Italia. Atlantista, che so?, era pure Edgardo Sogno, ideatore del golpe liberale del 1974 «contro intellettuali, potentati economico-finanziari, chiesa di sinistra», al quale si unì Randolfo Pacciardi, un ex repubblicano approdato a teorie palingenetiche di destra. Atlantista era pure Licio Gelli, gran maestro di una loggia massonica deviata che inseguiva sovvertimenti istituzionali con il “piano di rinascita democratica”. E l’elenco potrebbe continuare con nomi illustri. A Meloni, che si sente già a palazzo Chigi dopo aver conquistato due terzi dei seggi in Parlamento, bisognerebbe piuttosto chiedere se è tuttora convinta che «La Russia difende i valori europei e l’identità cristiana», come ha scritto un anno fa nel suo li-

IL RAZZISMO SOVRANISTA DEL COMIZIO SPAGNOLO OFFENDE I PRINCIPI DELLA DEMOCRAZIA

bro-manifesto “Io sono Giorgia”; o se ancora pensa che l’Europa «prima ci ricattava con lo spread, ora ci ricatta con i soldi per combattere il covid» (discorso alla Camera, 10 dicembre 2021); o se scenderà di nuovo in piazza contro i vaccini “imposti per una sperimentazione di massa”. Ma sopratutto a Meloni andrebbe richiesta una dichiarazione più che di fede atlantista di fede costituzionale, ancora più necessaria per un partito di opposizione i cui padri e nonni politici non hanno partecipato alla stesura della Carta. E cioè: è disposta a difendere la Costituzione così com’è, compresa la forma di stato e di governo in essa disegnata, o pensa di stravolgerla? ne condivide i valori scolpiti nei suoi articoli? sta dalla parte di Liliana Segre o di Morawiecki? Attenzione, qui non ci riferisce solo ai valori antifascisti della carta (all’inizio rigettati dal Msi), ma a tutti i principi democratici e alle garanzie dei diritti in essa contenuti. Perché a riascoltare la lunga sfilza di “no” urlati da Giorgia a Marbella dinanzi ai dirigenti di Vox, partito neofranchista spagnolo (do you remember Francisco Franco?) sono proprio quei principi e quei diritti che ne escono calpestati, rifiutati, offesi: «no all’idelogia di genere, no al logo Lgbtq, no agli immigrati (“rubano lavoro”, “generano violenze”), no alla finanza internazionale, no ai burocrati di Bruxelles, no all’islamismo, no all’ecologia…». Un concentrato di demagogia, nazionalismo sovranista, razzismo. Solo che qui non è in gioco la riuscita di un comiziaccio, ma il governo di un Paese. Secondo principi di democrazia. n © RIPRODUZIONE RISERVATA N

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Verso il voto / Le liste

NOI SIAMO

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Prima Pagina DIRETTORI DI TG, BOIARDI DI STATO, MAGISTRATI E VECCHIE CONOSCENZE. È PARTITA LA CORSA A SALIRE SUL CARRO DI FDI. TELEFONANO, SCRIVONO, PLANANO. IN VIA DELLA SCROFA LO CHIAMANO L’ESERCITO DI MORDOR

Giorgia Meloni parla ai giornalisti durante una manifestazione a Salerno

Foto:: A. Paduano - Redux / Contrasto

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na candidatura per me? Non mi pronuncio». Parola di Enrico Michetti. Ecco qua il fenomeno, in tutta la sua interezza: il carro di Giorgia Meloni è così vasto e accogliente che potrebbe esserci posto persino per lui, l’avvocato «meravijoso», il mitologico candidato a sindaco di Roma nell’ottobre 2021: sparito dai radar un minuto dopo la rovinosa sconfitta, eppure chissà. Spazio del resto ce ne è, lo sanno tutti. E infatti l’arrembaggio all’improvviso è cominciato. Dentro il partito il fenomeno è stato ribattezzato con ironia alla Tolkien: «Mordor», oppure nella versione più estesa «l’esercito di Mordor», la sterminata armata del male della saga del “Signore degli anelli”. L’esercito è quello degli aspiranti: che sia un nome in lista, una nomina futura, un posto al sole. Telefonano, twittano, scrivono, ammiccano, planano. Presenziano. Mandano pizzini, anche social. Segnalano e fanno segnalare. Un’onda che andava in crescendo dalla primavera - uno dei più pronti è stato il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, come si dirà ma che improvvisamente si è impennata. Le elezioni a settembre, la formazione delle liste, i posti sicuri, le percentuali, i listini. Le poltrone di governo e di sottogoverno. Le nomine. Nei Fratelli d’Italia, dove essendo destra-destra a queste cose sontuose da promessi vincitori non sono granché abituati, si reagisce tra il soddisfatto e lo sbigottito, tra il festoso e l’incredulo. C’è chi ricorda analoghi momenti: ad esempio quando sul carro di Alemanno prossimo sindaco di Roma si affollò gente mai vista fino a un minuto prima. Tutti a dire «Caro Gianni», allora. Tutti a dire «Cara Giorgia», adesso. Il più rapido, come sempre, è stato Gennaro Sangiuliano, anche se per lui si è trattato di un ritorno: attuale direttore del Tg2, incarico giunto sulle ali della sua più pura fase salvinian-sovranista-putiniana, incarico coeren-

temente sopravvissuto nella fase fervente draghiana immediatamente successiva, è risorto pubblicamente a creatura post missina nella convention di fine aprile di FdI, quando in apertura dei lavori ha ricordato copiosamente Pinuccio Tatarella, il ministro dell’Armonia, e la sua ispirazione dialogante. Tatarellianamente oggi Sangiuliano viene dato come possibile quota non solo di Fratelli d’Italia, ma anche di Lega e di Forza Italia. In perfetta armonia: del resto di lui si parlò anche come possibile governatore del Lazio. Sangiuliano ora smentisce qualsiasi candidatura il che, per un paradosso solo apparente, aumenta la possibilità che salga ancora di posizioni in Rai. Assieme con l’uomo che continua a seguire i dossier di viale Mazzini per conto di Meloni e che sembra destinato ad ascendere ai suoi vertici: l’ex consigliere Giampaolo Rossi, marettiniano, già presidente della commissione Cultura alla Regione Lazio, direttore di master alla Link campus university, autore del Manifesto dei Conservatori per Roma di Michetti, nonché di post su Facebook imbarazzanti per via della Scrofa, come quello in cui diede del Dracula a Mattarella o quello in cui evocò le origini del totalitarismo a proposito di Draghi. Per il resto, sulla stanza blindata delle candidature - affidata al tandem dell’eterno Ignazio La Russa e del capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida, entrambi in pole per entrare in un prossimo governo - tenta di arrivare di tutto. Sondaggi alla mano Fdi è quasi l’unico partito dell’arco costituzionale che è destinato ad aumentare di parecchio i suoi parlamentari, nonostante il taglio votato in questa legislatura. E l’accordo con Fi e Lega, che assegna ai Fratelli d’Italia 98 collegi uninominali su 221, sono partite le danze. Il vero Susanna Turco problema, da qui al 22 agoGiornalista sto, sarà dividersi quelli 7 agosto 2022

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Verso il voto / Le liste vincenti (si dice che Fdi vorrebbe accaparrarsene una settantina, cui si aggiungeranno altri 80/90 del proporzionale, per un totale pari a tre volte quello attuale). Intanto la capa, che si fida per nulla di Matteo Salvini e pochissimo delle capacità di tenuta di Forza Italia, ha già stabilito il criterio primario: saranno ricandidati gli uscenti, compresi tutti i responsabili dei vari dipartimenti di Fdi. E insomma priorità all’apparato perché su quello si può contare e di quello ci si deve fidare. Prima l’usato, la sicurezza dentro cui rinchiudersi in caso di traballamenti dell’alleanza con Lega e Fi. Accanto è prevista una quota “società civile”, per la quale la pre-selezione era già stata evidente nella Conferenza programmatica di fine aprile a Milano, vera prova generale di una Meloni che vuol governare, portando il partito che ha come simbolo la fiamma che fu missina stabilmente nell’alveo dei conservatori. C’è ad esempio Beatrice Venezi, direttrice d’or-

NEL DREAM TEAM CI SAREBBE ANCHE IL MINISTRO ROBERTO CINGOLANI, PER FARE DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA UN POSSIBILE PUNTO DI CONTINUITÀ CON L’AGENDA DRAGHI chestra che aprì il concerto del primo maggio della convention milanese, dedicato ai lavoratori precari subito prima dell’intervento finale di Meloni. C’è Matteo Zoppas, ex presidente di Confindustria Veneto e ottimo esempio di come una certa imprenditoria del nord abbia volto gli occhi dal carroccio alla fiamma: a inizio legislatura il rampollo della dinastia degli elettrodomestici si raccomandava alla Lega contro il grillino decreto dignità, da lui avversato; a fine legislatura era ospite di rilievo nella convention in cui Meloni ha voluto parlare al Nord e qualificare il partito agli occhi del mondo economico. C’è Carlo Nordio, l’ex magistrato, anche lui ospite onorato di Meloni nonché fra i nomi dei quirinabili del centrodestra, insieme con Letizia Moratti (in predicato anche lei, non dovesse entrare la candidatura per la regione Lombardia). Ci potrebbe essere anche il numero due del partito, Raffaele Fitto, che però ha un ruolo prezioso in Europa.

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La partita dei nomi che potrebbero entrare in lista si incrocia – visto che si ragiona più del “come” che del “se” della vittoria – con la pattuglia dei ministrabili. Tra questi c’è sicuramente Giulio Tremonti, con cui Meloni ha coltivato un rapporto di stima e simpatia sin dai tempi in cui entrambi erano nel governo Berlusconi (già allora lei, che era ministra della Gioventù, si produceva in una efficace imitazione del superdominus dell’Economia), anche se sull’ex ministro potrebbe pesare un veto di Forza Italia. Nel dream team di Meloni spuntano anche i nomi dell’ad dell’Eni Claudio Descalzi, il cui mandato è tra i molti che scadono a primavera 2023; ma anche Fabio Panetta, uno dei Draghi boys, già dg della Banca d’italia e ora nel board della Bce. Seguendo la filiera del rapporto di stima che Meloni ha coltivato con Draghi in questi mesi da duellanti, si arriva a un altro nome considerato papabile per un posto di ministro: quello di Roberto Cingolani. Considerato d’area centrosinistra, arrivato al governo come presunta garanzia per i grillini (così lo presentò Grillo in persona), rivelatosi draghiano solo all’ultimo Consiglio dei ministri, quando accusò Orlando di «fare il gioco di Conte», il ministro Cingolani ha sempre avuto un dialogo fluido con Fratelli d’Italia, tanto che non stupirebbe restasse dove è anche nel prossimo governo. Meloni, d’altra parte, non ritie-


Foto:: Ipa, Foto A3 (2), Agf

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ne che tutta l’agenda Draghi vada dismessa: e anzi, proprio la Transizione ecologica, fulcro di tanti passaggi del Pnrr, potrebbe rappresentare attraverso la riconferma di Cingolani un punto di continuità con quell’esperienza – e forse non l’unico. Meloni non vuol tirare fuori anzitempo la lista dei ministri (come le chiede Salvini), ma è abbastanza chiaro quali siano gli uomini di Fdi pronti per il salto al governo, posto che nel prossimo, dimezzato, Parlamento non potranno essere molti quelli col doppio incarico, pena il non funzionamento di Camera e Senato. Forse per rassicurare anche su questo fronte, tanto più dopo gli stravolgenti anni dei signori nessuno alla Toninelli e Sibilia, la squadra è un puzzle di già visto. Alla faccia dell’arrivano i nuovi: attorno al tavolone potrebbero stare Ignazio La Russa, magari di nuovo alla Difesa; Adolfo Urso, già finiano, già viceministro del commercio con l’Estero, da sempre collettore di mondi, da quelli at-

Da sinistra, in senso orario: Fabio Panetta, Gennaro Sangiuliano, Guido Crosetto e Giulio Tremonti

torno alla Fondazione Farefuturo a quelli del suo ultimo incarico di presidente del Copasir; Francesco Lollobrigida, detto Beautiful alla fine degli anni Novanta, quando cioè nel pieno solco della endogamica tradizione missina già era fidanzato con la futura moglie Arianna Meloni (secoli prima che lei fosse ribattezzata «sorella di» e lui «cognato di»), e che in ultimo si è segnalato per efficaci manovre a Montecitorio che lo rendono compatibile col ruolo di ministro dei Rapporti col Parlamento. Discorso diverso è da farsi per il consigliere maximo di Meloni, Guido Crosetto: presidente dell’Aiad, assai restio a lasciare un posto del genere che però è incompatibile con qualsiasi incarico politico, sarebbe il nome da mettere in campo nel caso in cui le elezioni non andassero così bene, per il centrodestra. Meloni, infatti, è pronta a guidare il governo. Ma se il risultato del centrodestra, con Fi che zoppica e la Lega che non si sente troppo bene, non dovesse garantire sufficiente stabilità al prossimo governo, spiegano nel partito, scatterebbe un piano B. Il piano Crosetto, ad esempio: un nome capace di convogliare consensi più trasversali, assai benvoluto dai centristi e dai forzisti, come si è potuto toccare con mano quel giorno di gennaio in cui, candidato per provocazione da Fdi prese 114 voti, il doppio di tutti quelli Q di Fdi, solo 11 meno di Mattarella. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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L’analisi di MASSIMILIANO PANARARI

Calenda, una scelta obbligata Impossibile stare al centro

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dopo schermaglie, rinvii e battibecchi a profusione, habemus pactum tra Enrico Letta e Carlo Calenda. Un patto di carattere rigorosamente elettorale fra il Partito democratico e Azione, come specificano i protagonisti, ma che va a formare il “nocciolo duro” dell’alleanza riformista in questa inedita campagna estiva. L’asse preferenziale col Pd porta in dote a Calenda il 30% dei collegi e il trasferimento in quota proporzionale dei candidati espressi da partiti “invisi”; e, soprattutto, gli consente di spostare il timone programmatico dell’intesa saldamente in direzione riformista e verso l’Agenda Draghi (contro cui si sono immediatamente levate le voci dei “rossoverdi”, a proposito delle difficoltà strutturali di tenere insieme quello che, prima della sciagurata decisione del M5S di staccare la spina al governo, veniva chiamato il “campo largo”). Dal punto di vista delle premesse, quindi, si tratta per il leader di Azione di un saldo ampiamente attivo. Dietro il quale si può leggere, altresì, un cambiamento di strategia da parte di Calenda, che ha evidentemente optato per il rilancio del bipolarismo, anziché puntare sull’idea, caldeggiata - in maniera ambivalente

- fino a poco tempo prima, del terzismo liberale e del Terzo polo (che proverà a intestarsi Matteo Renzi nella sua corsa verosimilmente solitaria). Un’opzione per molti versi obbligata: dura lex, sed lex quella del “Rosatellum” che, peraltro, nessuno ha provato a cambiare. E una scelta realista, anche per evitare che, col rifiuto di partecipare al cartello progressista, uno dei temi comunicativi dominanti della campagna elettorale diventasse l’accusa rivolta ad Azione di avere regalato un ulteriore vantaggio competitivo alla coalizione “Msb” (Meloni-Salvini-Berlusconi). Ma pure, probabilmente, un’interpretazione del Centro liberaldemocratico quale luogo politico non in grado di produrre una massa critica decisiva nell’età della polarizzazione. L’Italia della Prima Repubblica non ha mai assistito alla nascita di una Terza forza (anche tendenzialmente) unita, ma il suo peso culturale è stato assai rilevante e il Centro - sotto la forma poderosa della Dc ha sempre “dato le carte” nell’ambito della vita pubblica. In epoca postmoderna, prosciugato nei numeri e nei consensi, esso è divenuto uno spazio mobile, riempibile (od occupabile) con istanze, narrazioni e parole d’or-

CON LA DESTRA SOVRANISTA UNA POSIZIONE TERZA FRA I DUE POLI NON AVREBBE SENSO

dine tra loro differenti, e definibile nei termini di una stretta associazione con un’ulteriore specifica: centrodestra o centrosinistra. Oggi, dopo avere dato il colpo di grazia all’esecutivo presieduto da Draghi, e avere visto il consolidamento senza via di ritorno di un’egemonia culturale di tipo populsovranista, il centrodestra non c’è più, sostituito da quello che andrebbe chiamato col suo nome più appropriato: il destracentro (o, forse, ancor meglio, il destradestra-centro, che ha esiliato lo spirito liberalconservatore rivendicato dalla Forza Italia delle origini in una posizione nettamente residuale). E, dunque, date le numerose incertezze che portava con sé il posizionamento terzo ed equidistante e la natura altamente competitiva e “campale” di queste elezioni politiche, per far vivere la propria piattaforma programmatica il liberalmoderato Calenda non poteva che collocarsi al fianco del fronte progressista. Sapendo, presumibilmente, di dover pagare un pegno immediato, quello evidenziato dalle contestazioni sui social (un termometro vero di quanto si muove nella sua base, al di là delle “bolle” degli ambienti digitali). E chissà che queste proteste non preludano a una futura battaglia “congressuale” in quello che, al momento, è ancora in tutto e per tutto un partito personale e del leader, fondato in maniera indiscutibile sull’esuberante personalità da lottatore (e vincente one man show decisionista) del suo presidente . Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Verso il voto / Il centrosinistra I CALENDIANI SONO PER NUCLEARE E GAS, LA SINISTRA NO. IL REDDITO DI CITTADINANZA VEDE INSIEME ROSSO-VERDI E M5S MA ALLONTANA GLI ALTRI. E IL PD DEVE TENERLI UNITI

CAPRA E CAVOLI NEL CAMPO LARGO DI GABRIELE BARTOLONI

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e in vista delle prossime elezioni politiche a monopolizzare il dibattito pubblico sono più le alleanze elettorali che i programmi da presentare, la responsabilità è da attribuire ad una questione a primo impatto secondaria: la legge elettorale, il Rosatellum. Un argomento ostico, che non scalda i cuori degli elettori nonostante il clima torrido della campagna elettorale, ma di fondamentale importanza per determinare gli schieramenti che si sfideranno il prossimo 25 settembre. Il motivo sta nel meccanismo che occupa buona parte del sistema attualmente in vigore: il maggioritario. In poche parole nei collegi sparsi sul territorio (un terzo del totale) a vincere sarà lo schieramento o il singolo partito che riuscirà ad ottenere un solo voto in più dell’altro. Il ragionamento, dunque, all’interno delle segreterie dei partiti, è presto fatto: meglio raccogliere più alleati, aggregare più liste possibili a sostegno del candidato nel collegio uninominale, in modo da accaparrarsi più prefe-

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renze rispetto all’avversario che, a sua volta, sarà spinto a fare il medesimo ragionamento. Lo schema, va da sé, comporta più di un rischio. Primo tra tutti, il pericolo di creare accorpamenti composti da soggetti che tra loro hanno poco o nulla da spartire. Il rischio implosione, prima o dopo le urne, è dietro l’angolo. All’interno dei partiti del centrodestra, nonostante le frizioni degli ultimi mesi, non si registrano divergenze sul piano ideologico. In più i nodi che ancoravano la coalizione all’immobilismo sono stati sciolti durante il vertice andato in scena la settimana scorsa. Lì Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni si sono accordati sia sulla spartizione dei collegi che sul nodo spinoso premiership. Tutto liscio, dunque, almeno per ora. I problemi sono ancora piuttosto visibili nel campo opposto. Il centrosinistra fatica a trovare una quadra: i partiti che lo compongono - dai centristi fino ai rosso-verdi - non hanno fatto altro che porre veti, lanciare insulti e proporre soluzioni in antitesi


Foto: C. Peri - Ansa

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fra di loro. Il Partito democratico, che della coalizione dovrebbe essere il collante, ora è stretto tra i distinguo lanciati ripetutamente dalla sinistra e dal centro. Mercoledì 26 luglio la direzione del Pd ha dato pieno mandato ad Enrico Letta di gestire l’intera operazione elettorale, compresa la partita delle alleanze. Il segretario non ha posto veti su nessuno ad esclusione del Movimento 5 stelle. Lo ha fatto capire durante la direzione - votata all’unanimità dai dirigenti dem - e lo ha ripetuto nei giorni successivi: «Noi non mettiamo veti nei confronti di nessuno», ha detto rispondendo ai cronisti durante la Festa dell’Unità di San Miniato, in provincia di Pisa. L’obiettivo di Letta è quello di costruire uno schieramento più largo possibile, che vada dall’Alleanza Verdi e Sinistra ( frutto della fusione tra i Gabriele Bartoloni Verdi europei e Sinistra itaGiornalista liana) fino al Patto repub-

Il segretario del Pd Enrico Letta e il leader di Azione Carlo Calenda alla conferenza stampa al termine dell’incontro presso i gruppi parlamentari a Roma di martedì scorso

blicano di Azione e PiùEuropa. Due aree, quelle su cui vorrebbe fare affidamento il Pd, in totale contrapposizione sul piano personale e programmatico. Nei giorni scorsi, tra calendiani e rosso-verdi, sono volati gli stracci. Il segretario di Azione ha definito «frattaglie di sinistra» i leader della cosiddetta alleanza-cocomero (verde fuori e rossa dentro) e ha poi inviato una lettera a Letta chiedendo di escluderli dai collegi uninominali. Ma dietro ai continui botta e risposta ci sono questioni di merito che, ancor più delle scaramucce quotidiane, rischiano di mettere in discussione l’unità dell’alleanza. Calenda, insieme ai principali azionisti di Patto repubblicano (esponenti come Emma Bonino, Benedetto Della Vedova e Riccardo Magi) ha presentato un programma in totale opposizione allo spirito ecologista caro ai rosso-verdi. Al terzo punto si parla apertamente della necessità di investire nei rigassificatori, perché - si legge - «il gas rimarrà una fonte di energia indispensabile». Per quanto riguarda il nucleare - altra questione assai divisiva - il fine dei repubblicani sarebbe quello di costruire nuove centrali «per il raggiungimento dell’obiettivo di zero emissioni». Non solo: nel programma si parla anche di «acqua pubblica» come nient’altro che di uno slogan che ha «portato l’Italia ad avere la peggiore rete idrica europea». Per non parlare del ridimensionamento del reddito di cittadinanza, misura cara tanto ai Cinque stelle quanto ai rosso-verdi, ma costantemente messa nel mirino della galassia centrista. Certo, nel programma si fa riferimento anche a una forma di salario minimo e all’abolizione di tirocini gratuiti. Ma basterà per placare gli animi di chi intende costruire un’agenda di governo incentrata sulla giustizia sociale e climatica? L’accordo raggiunto in settimana tra Pd, Azione e PiùEuropa non ha fatto altro che provocare un’ulteriore crepa all’interno del centrosinistra. Il patto (oltre ai rigassificatori e all’agenda-Draghi) prevede l'esclusione dai collegi uninominali per le «personalità che possano risultare divisive». Fratoianni e Bonelli, fiutata l’aria, hanno subito chiesto un incontro a Letta per «verificare se ci sono ancora le condizioni per un'alleanza elettorale». Nel frattempo il Movimento 5 stelle rimasto orfano del Pd dopo lo strappo sul governo - ha già iniziato a corteggiare 7 agosto 2022

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Verso il voto / Il centrosinistra sono stati benvenuti fin da subito. Persino Enrico Letta, durante la direzione del Pd, ha aperto alla possibilità di pescare dal bacino elettorale degli ex berlusconiani. «Forza Italia è un partito con cui abbiamo collaborato al governo, abbiamo lavorato bene», ha detto. E ancora: «O noi convinciamo una parte degli elettori che hanno votato lì o sarà difficile giocarla solo sugli astensionisti. Dobbiamo parlare anche con chi ha votato Fi alle ultime elezioni o le liste civiche». Durante la direzione alcuni esponenti dem hanno chiesto al segretario di «ponderare bene le alleanze». Matteo Orfini, insieme al ministro Andrea Orlando, è uno di loro. Contattato da L’Espresso ribadisce la linea esplicitata in direzione, secondo cui «è solo sulla base dei contenuti che si devono costruire le alleanze». «È legittimo che Calenda presenti il suo programma, dopodiché

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L’APERTURA DI LETTA AI DELUSI FORZISTI AGITA LE ACQUE DEM. PRIMA I PROGRAMMI, GLI RICORDANO I SUOI. MENTRE DEGLI EX MINISTRI DI SILVIO FRATOIANNI NON NE VUOL SAPERE

Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, responsabili di Sinistra italiana Europa verde. In alto, Enrico Costa, Riccardo Magi, Benedetto Della Vedova, Carlo Calenda, Emma Bonino e Matteo Richetti alla presentazione di Azione-Più Europa

in una coalizione il ruolo di primo piano ce l’ha il partito più importante», spiega l’esponente romano. Prima i temi del Pd, dunque. Anche perché per i dem sarebbe assai difficile presentarsi alle urne come «il più grande partito ambientalista d’Europa» (copyright Enrico Letta) mentre si costruiscono alleanze con chi punta su gas e nucleare. E sarebbe altrettanto complicato presentare i candidati comuni senza aver prima trovato una quadra sui temi. L’accordo raggiunto tra Pd e centristi va in questa direzione. Rimane un punto: il Rosatellum non obbliga le coalizioni a presentare un programma unitario. Ogni partito presenta il suo, anche se nei collegi maggioritari l’elettore è chiamato ad esprimersi sul candidato sostenuto dai partiti di tutta la coalizione: da chi sostiene il nucleare e da chi intende puntare solo sulle rinnovabili, da chi rivorrebbe Draghi a Palazzo Chigi e da chi, allo stesso tempo, è sempre rimasto all’opposizione del governo Q guidato dall’ex capo della Bce. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Foto: G. LAmi - Ansa, S. Carofei / Ipa Agency

Verdi e Si. Finora ci sono stati solo contatti informali, niente di più. L’ambizione dei rosso-verdi, però, sarebbe quella di riportare il M5s all’interno del “campo largo”. Una velleità più che un obiettivo, vista l’ostilità di Calenda e i rapporti che intercorrono tra gli ex compagni di governo. Va detto che l’agenda sulla quale intendono puntare i pentastellati non si distanzia troppo dal programma social-ecologista di Bonelli e Fratoianni. Non a caso, all’interno dell’alleanza “cocomero” non si fa troppa difficoltà nel definire i punti centristi come un programma di destra, soprattutto sul clima. In effetti, sempre da destra, al partito calendiano hanno cominciato a bussare esponenti contrari alla complicità di Lega e Forza Italia alla caduta del governo guidato da Mario Draghi. Si tratta delle ministre Mariastella Gelmini e Mara Carfagna e del ministro Renato Brunetta. Le prime due hanno già ufficializzato il loro ingresso in Azione. Quella degli ex colonnelli azzurri è sicuramente una presenza “scomoda”, per l’ala più a sinistra dell'alleanza. «Non farò strada con Gelmini e Brunetta», ha tagliato corto Nicola Fratoianni. «Non mi troverà mai nessuno sulla stessa strada di chi da ministro insultava un lavoratore, di chi ha tagliato in modo impressionante i finanziamenti alla scuola pubblica. Nessuno mi troverà mai lì perché non avrò mai un programma comune con chi sostiene queste cose, non lo potrei mai avere in nessuna modalità». Per Calenda, al contrario, gli ex azzurri


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L’opinione di FEDERICO CAFIERO DE RAHO

I partiti scelgano candidati al di sopra di ogni sospetto

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utti i clan hanno la propensione a interfacciarsi con la politica. Non avere relazioni con l’economia e la politica è segno di debolezza. Ed è proprio il consenso sociale che genera il serbatoio di voti da destinare al candidato prescelto nelle competizioni elettorali. Il primo ostacolo allo sviluppo sociale, economico, politico e culturale del Meridione d’Italia è rappresentato dalla pervasività delle mafie. Lottare contro le mafie non significa solo reprimere ma anche bonificare, trasformare, costruire, agendo su due livelli quello politico, «attraverso una maggiore giustizi sociale», quello economico, attraverso la correzione o cancellazione di quei meccanismi che ostacolano l’impresa sana e generano disuguaglianze e povertà. Tra le priorità vi è l’esigenza di dare il massimo sostegno alla nostra economia: le misure per sostenere le imprese e le opportunità del Pnrr sono pilastri fondamentali per la crescita del Paese. Al tempo stesso, occorre combattere le disparità sociali e difendere le libertà della democrazia. L’economia va protetta dalle infiltrazioni mafiose. Il problema delle mafie deve esser affrontato, innanzitutto, dalla politica. Numerosi Comuni sono stati sciolti ripetutamente, perché il territorio è infiltrato dalla camorra e dalle mafie e gli esponenti locali sono condizionati dalle organizzazioni criminali. Per battere le mafie è necessario adottare strategie condivise. Troppi territori sono caratterizzati da

densità abitativa elevatissima in zone degradate e promiscue, in cui il mondo giovanile cresce senza prospettive, nella marginalità economica e sociale: in tali ambiti prosperano devianze e crimini minorili, fonti di un reclutamento di massa della camorra, che rafforza il consenso sociale, offrendo, solo apparentemente, opportunità, che imbrigliano i giovani in una rete che li appaga unicamente nell’esigenza di costruirsi un’identità e sentirsi appartenenti ad una realtà forte . Per i giovani e per contrastare efficacemente la camorra, la politica deve impegnarsi in interventi innovativi connessi ad azioni di welfare educativo, al recupero scolastico, alla riqualificazione degli spazi urbani, all’offerta di percorsi lavorativi e di formazione professionale, con strategie di ampio respiro, di livello nazionale; occorre sostenere l’economia per moltiplicare le occasioni di lavoro e restituire dignità. La politica deve proteggere le imprese dalla concorrenza sleale e invisibile dell’economia mafiosa; e ciò non può essere compito della sola repressione, ma un obiettivo prioritario della politica. Occorre realizzare la “Rivoluzione verde” e la “Transizione ecologica”, che sono priorità dell’intero globo. Occorre rendere la stampa libera da condizionamenti e assicurare alla giustizia un servizio efficiente e rapido, capace di soddisfare le esigenze di tutela quotidianamente espresse dai singoli come dalle diverse istituzioni. Siamo alla vigilia delle elezioni. I partiti politici formano le liste eletto-

rali. Bisogna che i candidati siano assolutamente trasparenti e immuni da rapporti con gli ambienti criminali. I nostri parlamentari non dovranno essere nemmeno sfiorati dal sospetto di illegali relazioni. Il Paese vuole persone affidabili per preparazione ed etica; non è sufficiente non aver riportato condanne penali. Il profilo della responsabilità penale è proprio della giustizia; per il Parlamento occorrono persone credibili per il profilo professionale e, al tempo stesso, per quello morale. Per avere fiducia nello Stato bisogna che la politica sia rappresentata da cittadini mossi unicamente dall’obiettivo del bene del Paese, senza mai essere deviati o influenzati da interessi personali. La politica deve scrivere nella sua agenda le priorità e deve poi attuare il proprio programma con serietà: battere le mafie e le illegalità deve essere un obiettivo da inserire nel programma di tutti i partiti. Le mafie guardano al momento elettorale con grandissima attenzione per individuare i candidati sui quali puntare. La forza delle mafie è nella capacità di relazionarsi all’economia e alla politica. Le mafie non sono affatto invincibili e possono essere battute senza pretendere l’eroismo dagli inermi cittadini ma impegnando le forze migliori delle istituzioni e, tra esse, le formazioni politiche devono essere la forza della nostra democrazia e la prima difesa della libertà del Paese e della dignità dei cittadini. n © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Lo scenario

CAMORRA SOCIAL E AFFARI VERI DI ROSARIA CAPACCHIONE

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er fare business c’è bisogno di silenzio. E di discrezione, sempre. Che si tratti di affari legali o di investimenti criminali, la regola non cambia: low profile, buona stampa, un tanto di beneficenza, un po’ di impresa sociale senza profitto, un uso sapiente dei social. Ecco, i social, dall’ormai obsoleto Facebook a Instagram fino a TikTok, proiezione dei bisogni individuali da conoscere e far conoscere, per creare nuovi desideri e per assecondare quelli che ci sono già. Una vetrina sul mondo e un gigantesco spot di se stessi e del proprio marchio di fabbrica. Li usa anche la camorra, ovviamente (non Cosa Nostra, non la ’ndrangheta). O per meglio dire: li usano i piccoli boss delle bande urbane (come i vari rami dei romani Casamonica) per pubblicizzare scorrerie a mano armata, omicidi, attentati, nuove affiliazioni, nuovi nemici. Fanno rumore, molto rumore. E sfilano a volto scoperto, tatuaggio a vista, a favore di telecamere della videosorveglianza. Naturalmente vengono riconosciuti e arrestati. E dunque, si dirà, non sono camorristi. In questa apparente contraddizione è racchiuso il potere delle famiglie storiche dell’alta camorra, quella che continua a ordinare gli omicidi che servono, il meno possibile, ma che è impegnata soprattutto a far girare i soldi che arrivano dal traffico di droga, dalle estorsioni, dal mercato del falso. Investendo nel settore immobiliare, nella sanità pubblica e privata, nei servizi alla persona, nella distribuzione del carburante. E così, mentre Ponticelli, San Giovanni a Teduccio, rione Traiano (l’ultima relazione della Dia ha censito diverse decine di microgruppi che si compongono e si scompongono con una velocità impressionante, generando continui conflitti), si spara e si postano i video delle proprie imprese criminali; mentre i raid nel Decumano o le stese a Toledo seminano paura tra la folla; il clan Contini, i Mazzarella, l’Alleanza di Secondigliano sfruttano la cortina fumogena del terrore per fare affari, grossi affari. Un’operazione di distrazione di massa che funziona eccome, nonostante l’allarme lanciato più volte dal procuratore nazionale antimafia, Giovanni Melillo, durante la sua lunga permanenza alla procura di Napoli, che ha retto fino a due mesi fa. Allarmi pubblici, sui giornali, e diretti agli addetti ai lavori, come nella relazione alla Scuola di specializzazazione della magistratura, a Scandicci. «Una cantilenante e rassicurante narrazione vorrebbe ricondurre la camorra a mero contenitore di una violenza urbana sprigionata dalla contrapposizione armata di bande

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in continua e magmatica trasformazione, nell’ambito di una diffusa e parcellizzata gestione dei tradizionali mercati illegali», aveva detto parlando ai colleghi. Non perché non sia giustificato l’allarme sociale, se non altro per l’efferatezza dei raid tra componenti di bande che «si disputano il controllo della dimensione locale dei tradizionali mercati illegali della droga e del racket». Ma, ha rilevato Melillo, queste bande «sono lasciate ai margini dei settori di confluenza degli interessi mafiosi nel mondo dell’impresa». Una irrisolta questione meridionale, dunque, con il patto tra camorra e borghesia mafiosa, tra i grandi cartelli criminali e quei professionisti che per denaro, per ignavia, per cinismo, hanno messo a disposizione servizi legali e consulenze: fiscali e bancarie. Una saldatura che, con molte difficoltà e incerti risultati, investigatori e magistrati si sforzano di spezzare. E se durante i primi mesi dell’emergenza Covid le società d’affari a capitale mafioso si sono accaparrate le forniture di mascherine e di ossigeno, con la ripresa economica stanno rilanciando sul turismo. In uno studio fatto dalla Kroll Reag, società di consulenza immobiliare che ha analizzato le aree di maggior interesse per le destinazione dei fondi per l’edilizia previsti dal Pnrr, studio pubblicato dal Sole 24 ore nel giugno scorso, Napoli è inserita tra le quindici città intermedie con un elevato potenziale d’ingresso per gli investitori e di potenziale interesse per investimenti a dieci anni. Un settore storicamente appannaggio del clan Contini, in centro, e dell’Alleanza di Secondigliano nell’area nord della città, aggredito attraverso l’accaparramento di immobili alle aste giudiziarie, aggiudicate a prezzi risibili con contrattazioni al ribasso ( fenomeno che si verifica anche in provincia di Caserta, dove il clan dei Casalesi ha perduto quasi del tutto l’ala militare ma dove si registra una convergenza di interessi con il gruppo Moccia), o l’acquisto a prezzo d’occasione di “bassi” e case che fino a tre anni fa erano alloggi per studenti, con la trasformazione in B&B. Un fenomeno che ha già trovato i primi riscontri in indagini giudiziarie svolte dalla Guardia di finanza e che era stato denunciato il 2 dicembre dello scorso anno dal sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, durante la sua audizione a Palazzo San Macuto, in commissione antimafia. Stesso discorso per i locali dell’area della movida, bar, piccoli ristoranti, take-away, nati come funghi in quelli che erano i bassi dei Quartieri Spagnoli, di Chiaia, dei Decumani. Ai piani superiori di palazzi storici abbandonati dai vecchi proprietari e acquistati (il rumore e le risse quotidiane sono tra le cause della fuga verso la periferia o verso città vicine e


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Foto: A. Dadi - Agf, C. Abbate - Ansa

Omicidio di camorra a San Giorgio a Cremano, Napoli

più vivibili), gli ormai immancabili B&B. Una trasformazione radicale che sta modificando la popolazione (più turisti, meno abitanti) e la città stessa, piegandola al modello distopico della Eternapoli di Giuseppe Montesano: un gigantesco parco a tema. Nel pacchetto, anche il tour nella “Napoli della malavita” di ieri e di oggi. Pubblicizzato, ovviamente, sui social. Ed ecco che torniamo al punto di partenza, con il ruolo delle piattaforme nella propaganda della camorra. Un fenomeno che Marcello Ravveduto, storico ed esperto di comunicazione mafiosa, materia che insegna all’Università di Salerno, in una lunga intervista a Fanpage.it, ha definito un inedito nel panorama italiano, trovando una corrispondenza solo nelle forme di linguaggio dei narcos messicani. «Facebook ormai è come la tv generalista. Instagram è come sfogliare una rivista. TikTok è il reality show: è quello che dà possibilità di raccontare il proprio mondo senza più intermediazione e in prima persona. TikTok, a differenza degli altri, si presenta come una piattaforma di contenuti più che come social. Il Cartel de Jalisco Nueva Generacion si sta strutturando così: il dialogo e lo scontro tra cartelli passa attraverso la dichiarazione sui social, su TikTok in particolare. Significa che oggi il controllo del territorio reale passa anche attraverso il controllo del territorio virtuale e della rete dei contatti», sostie-

ne Ravveduto. «Dobbiamo considerare che a utilizzare i social sono soggetti giovanissimi, che parlano il linguaggio dei coetanei, che dialogano quasi esclusivamente sui social o su watsapp. Ve n’è un’ampia dimostrazione nell’ultimo decreto di fermo sui raid nell’area est di Napoli. L’età media di adesione a queste organizzazioni urbane è bassissima: in genere tra i 15 e i 16 anni, talvolta anche di 14 anni. Vengono messi alla prova con prime attività di “motovedetta”, di piccolo ambasciatore di punti di spaccio. Giovanissimi, privi di esperienza e di carisma: per acquistare autorevolezza nel quartiere hanno una sola strada, quella della violenza estrema. Che poi rilanciano sui social», aggiunge Antonello Ardituro, pm alla procura di Napoli, per dieci anni titolare delle più importanti inchieste sul clan dei Casalesi e autore dello studio sulla criminalità minorile in Campania approvato dal Csm nella passata consiliatura. Ragazzi, conclude Ardituro, anche poco strutturati o psicologicamente deboli, pericolosissimi ma ancora poco più che bambini. «E forse questo dato può spiegare perché negli anni sono state tantissime e numerosissime le collaborazioni con la giustizia dei giovani affiliati ai gruppi della camorra urbana napoletana», conclude il magistrato . In periferia e nelle campagne, invece, è tutta un’altra storia. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

MENTRE LE BANDE SI SFIDANO IN STRADA E ONLINE, PROSPERA LA BORGHESIA DEL BUSINESS E PUNTA AL PNRR 7 agosto 2022

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L’intervento

di FRANCO CORLEONE

Un’agenda della democrazia da presentare al Parlamento

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l 14 luglio è la data che Eugenio Scalfari amava e che per coincidenza ha segnato la fine del governo Draghi e di una legislatura dominata da personaggi capaci di tutto e buoni a nulla. Non si è compiuta una rivoluzione civile, ma si è trattato di un mediocre 25 luglio in attesa di un patetico 8 settembre. La legislatura è finita sotto il segno di scambi di accuse legate ai taxi, alle licenze degli stabilimenti balneari e al termovalorizzatore di Roma, un quadro davvero desolante. Doveva proprio andare così? Lasciamo stare le liti da comare e guardiamo in controluce. Giuliano Amato si è assunto la responsabilità di non ammettere il referendum sull’eutanasia e quello sulla canapa, che avevano mobilitato in maniera straordinaria vaste sensibilità, comprese centinaia di migliaia di giovani disillusi da una politica lontana da bisogni e stili di vita. Se non lo avesse fatto, senza dubbio il 12 giugno una valanga di Sì avrebbe cancellato norme da stato etico del Codice fascista Rocco e una legge proibizionista che dal 1990 ha intasato i tribunali e riempito le carceri. È stata una responsabilità fondata

su errori di diritto inconcepibili, se non per l’obbedienza al più vieto politicismo. Un delitto che non è certo sanato da un concerto contro la guerra e la violenza. Sarebbe così cominciata un’altra storia, perché il Parlamento non avrebbe più potuto tergiversare sullo ius scholae e sul fine vita. La centralità dell’agenda della politica sarebbe stata assunta dai diritti civili e umani. Un’occasione perduta per la democrazia. Dopo quella ferita istituzionale, la Società della Ragione, con il particolare impegno del costituzionalista Andrea Pugiotto, immaginò di dedicare il suo tradizionale seminario annuale alla Krìsis politico istituzionale: del Referendum, del Parlamento, dei partiti e della partecipazione politica. Un appuntamento che si rivela ora ancora più indilazionabile nel nuovo scenario. Occorre mettere in campo energie e idee perché il risultato delle elezioni del 25 settembre non si riveli un incubo: una vittoria della mujera fascista farebbe precipitare l’Italia in un pozzo nero di restringimento delle libertà ancora superstiti da una grande stagione di liberazione collettiva. D’altronde, in quello sciagurato caso, il 28

SONO IN GIOCO LA GIUSTIZIA, LO STATO DI DIRITTO E LA PARTECIPAZIONE POPOLARE 34

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ottobre si potrebbero immaginare celebrazioni del centenario della marcia su Roma di mussoliniana memoria. La risposta non potrà che essere quella di alzare la bandiera di Piero Gobetti dell’intransigenza, con la consapevolezza che i sondaggi confermano che il fascismo rappresenta davvero l’autobiografia della nazione. Soprattutto occorre comprendere ciò che è in gioco: la giustizia, lo stato di diritto, una democrazia non nominalistica. La riforma del carcere, spesso evocata e mai realizzata - e nessuno è esente da colpe o omissioni, da Orlando a Cartabia - cederà il passo alla reazione con addirittura il rischio di una modifica dell’art. 27 della Costituzione. Il seminario, promosso da SdR con l’adesione del Centro Riforma Stato e della Associazione Luca Coscioni, si snoderà a Treppo Carnico dal 16 al 18 settembre sull’analisi della Krìsis a tutto campo per domandarsi se esistono spazi, o come crearli, di agibilità politica per battaglie civili antiche e meno: per il diritto penale minimo e mite, le misure di clemenza come l’amnistia e l’indulto, la legalizzazione delle droghe, la valorizzazione delle soggettività politiche, specie dei gruppi sociali più emarginati e vulnerabili. L’obiettivo ambizioso è di costruire una “agenda della democrazia” da presentare al nuovo Parlamento. È una sfida per chi non vuole vivere solo di rimpianti o avere rimorsi per non essersi messo in gioco. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA



L’analisi

NEL PIENO DELLA TEMPESTA LA NAVE HA I MOTORI SPENTI DI VITTORIO COGLIATI DEZZA*

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he fosse un momento difficile della vita politica italiana era evidente, ma era francamente inimmaginabile che la soluzione fosse bloccare la Nave Italia nel bel mezzo delle tempeste, che si susseguono da qualche tempo. Eppure è successo, con governo ed alcuni partiti irretiti dalla sindrome Schettino, senza neanche un De Falco che ordinasse agli irresponsabili di tornare al loro posto. Fermare i motori della Nave Italia non è senza conseguenze. Il Paese è sconquassato dal moltiplicarsi di troppe crisi, in un contesto europeo e internazionale segnato da guerra, divisioni e competizioni sempre più aspre: la crisi energetica, che ha assunto uno spessore inaspettato per la guerra scatenata dalla Russia e che richiederebbe una strategia seria e veloce per uscire dal fossile; la crisi sociale, dove l’impennata inflattiva ed i costi insostenibili dell’energia mettono in ginocchio famiglie vulnerabili e imprese; la crisi sanitaria, che, puntuale, non abbandona la nostra vita quotidiana e richiederebbe un’inossidabile volontà di difendere la salute pubblica. E su tutto aleggia la crisi climatica, mai così violenta e distruttiva, che oggi provoca disastrose siccità a cui faranno seguito inondazioni e frane alle prime piogge e che intersecandosi con le altre in un groviglio devastante soprattutto per i più vulnerabili, dovrebbe diventare il volano di una vera ripresa del Paese, nel segno della giustizia ambientale e sociale. Ma per farlo serve un cambio di passo, a partire dalle politiche energetiche: troppo timidi i segnali di dinamismo con gli 822 MW installati nei primi 5 mesi del 2022 e i 6 GW di grandi impianti autorizzati, troppo forti le contraddizioni sul gas. Basti pensare che mentre la Germania (preceduta da Austria e Olanda), si sta attrezzando per uscire dal gas ed ha deciso che, a partire dal 2024, qualsiasi impianto di riscaldamento di nuova installazione dovrà funzionare con il 65 per cento di energia rinnovabile, escludendo di fatto le caldaie a gas o a gasolio, il governo italiano ha appena stanziato per i rigassificatori risorse pubbliche fino al 2043, dando così un chiaro segnale che di uscire dal gas non

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se ne parla. Intanto Elettricità futura, l’associazione confindustriale delle rinnovabili, vede passare i mesi senza che il suo piano, che prevede 85 nuovi GW di potenza rinnovabile al 2030, pari all’84 per cento di elettricità rinnovabile nel mix elettrico, sia stato preso seriamente in considerazione dal ministro Cingolani, nonostante gli effetti virtuosi che avrebbe su bollette, occupazione e riduzione delle emissioni climalteranti. Avremmo avuto bisogno di un governo capace di accelerare e invece ci troviamo con un governo vincolato al «disbrigo degli affari correnti», a cui seguiranno i tempi morti del passaggio di consegne e le possibili retromarce, soprattutto se vincessero gli scettici dell’Europa, del cambiamento climatico, dei vaccini, del ruolo del pubblico. Intanto le scadenze si affollano. Il 21 agosto scadono gli sconti sulle accise per i carburanti e il 30 settembre i tagli alle bollette. Dal novembre 2021 attendiamo i decreti attutivi di misure in carico al Mite: la definizione delle aree idonee per l’installazione degli impianti di energie rinnovabili, le misure tecniche per liberare le comunità energetiche rinnovabili dagli attuali vincoli, e gli incentivi per l’eolico, il fotovoltaico e le altre tecnologie mature, per le fonti meno competitive come eolico in mare, geotermia e biomasse, per l’idrogeno e il biometano. Poi c’è la sfida del Pnrr. Molte le misure in attesa di decreti e stanziamenti entro il 2022: il 30 per cento delle risorse per il Parco agrisolare, 1,1 miliardi per l’agrivoltaico, la forestazione in aree urbane ed extraurbane, 2,2 miliardi per le comunità energetiche nei piccoli comuni, la promozione delle tecnologie Fer innovative, le misure sul biometano, i progetti per l’approvvigionamento idrico e sull’idrogeno e quelli sulle filiere nazionali di fotovoltaico, eolico e batterie, e ancora sulla mobilità sostenibile nei Parchi nazionali, su smart grid e resilienza climatica delle reti. Una massa di misure che si trovano a stadi diversi del loro iter, ma tutti dipendono da come verrà inteso il vincolo dell’ordinaria amministrazione. Nonostante il presidente Mattarella abbia sottolineato, nell’annunciare lo scioglimento delle Camere, che «il periodo che attraversiamo non


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Foto: M. Frassineti - Agf, N. Marfisi - Agf

Il fumo invade via Bolla e le palazzine dell'Aler occupate, a Milano

consente pause» e la circolare emanata dal presidente del Consiglio, per regolamentare la fase di transizione, ribadisca che si potranno adottare «atti urgenti, ivi compresi gli atti legislativi, regolamentari e amministrativi necessari per fronteggiare le emergenze nazionali, le emergenze derivanti dalla crisi internazionale e la situazione epidemiologica da Covid-19», è facile prevedere che il governo sarà bloccato dai veti incrociati. La discrezionalità dei singoli ministri rimarrà molto alta e, se fino ad oggi il titolare del Mite si è mosso con lentezza e straordinaria attenzione agli interessi del gas, non c’è ragione per pensare che cambi atteggiamento, e visto che gran parte dei provvedimenti dipendono dal suo dicastero, non c’è da aspettarsi nulla di buono, e certo non perché al Mite manchino le competenze. D’altra parte, come dimostra l’azione del ministro Giovannini al Mims, se si vogliono accelerare le trasformazioni, si può fare. Il consiglio dei ministri ha deliberato il via libera di undici parchi eolici, bloccati dal ministero dei Beni culturali da svariati mesi: quasi una beffa, se si considera che quella è una quota minima dei tantissimi progetti eolici e fotovoltaici bloccati dal Mibac che un po’ alla volta, e senza criterio, vengono sbloccati dal consiglio dei ministri. Con la caduta

del governo addio consiglio dei ministri, almeno per qualche mese, e gli impianti per la produzione di energia verde, di cui avremmo urgente bisogno in vista di un inverno durissimo, restano congelati chissà per ancora quanto tempo. A completare il quadro si aggiunge la mancata stesura del Pniec (Piano nazionale integrato energia e clima) che deve recepire i nuovi obiettivi dell’Ue al 2030 definiti dal RepowerEU (riduzione del 55 per cento delle emissioni di CO2 contro l’attuale 40), nonché la Strategia per l’economia circolare che doveva arrivare a giugno 2022 ed il decreto sulle aste per i certificati bianchi, in lista d’attesa da un anno, che dovrebbe rilanciare il risparmio energetico. Chi pagherà tanto immobilismo? Ci risponde il sarcasmo di una vecchia canzone di Giorgio Gaber, che racconta di una nave nella tempesta: «La nave è una nave di classe […]. Sul ponte che è fatto a tre piani / in terza in seconda e / anche in prima si sentono rantoli strani […]. Il mare diventa più grosso / dai piani di sopra / su quelli di sotto si vomita addosso / quelli di prima vomitano su quelli di seconda, quelli di seconda su quelli di terza, lo scontro è sfrenato, violento. […] Quelli di sopra hanno la meglio …. ». Ecco, uno scenario che ci piacerebbe prevenire. Q *Coordinamento Forum Disuguaglianze e Diversità

CON L’ESECUTIVO RELEGATO AGLI AFFARI CORRENTI LE POLITICHE ENERGETICHE RISCHIANO IL BLOCCO 7 agosto 2022

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L’economia in tilt

GRANDE FREDD DI GLORIA RIVA

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opo due trimestri di mancata crescita gli Stati Uniti sono ufficialmente entrati in recessione. E il Fondo monetario internazionale prevede che nei prossimi tre mesi faranno la stessa fine la Francia e la locomotiva d’Europa, la Germania. E l’Italia? È il paese più dinamico d’Europa. Nel secondo trimestre il Pil italiano è salito dell’uno per cento e del 4,6 rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, grazie soprattutto alla tenuta dell’industria e ai consumi interni. L’ottimismo, però, potrebbe non durare a lungo. Dicono gli analisti che i prossimi mesi per l’Italia non saranno facili e che già entro settembre si dovrebbe registrare un rallentamento dell’economia e i maggiori rischi potrebbero materializzarsi fra la fine dell’anno e l’inizio del 2024, a causa dell’impatto ritardato dello choc inflazionistico, del possibile razionamento del gas e dell’instabilità di governo. Al Nord l’industria manifatturiera, che è il motore dell’economia italiana, si sta velocemente attrezzando per reggere l’urto dando il via a una serie di trasformazioni. Le imprese sono un cantiere aperto: i capi reparto sono pronti a far spazio a nuovi robot pur di far fronte alla cronica carenza di tute blu provocata dal fenomeno della Great resignation, gli imprenditori puntano a nuovi business per sopravvivere, i manager individuano innovativi modelli di gestione e mantenere così in vita lo smartworking a cui nessuno vuole rinunciare, l’ufficio acquisti fa i conti con Gloria Riva blocchi improvvisi della Giornalista supply chain e l’urgenza di

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CON GLI USA IN RECESSIONE, FRANCIA E GERMANIA SEGUONO A RUOTA. L’ITALIA VA, MA LA CRISI È SOLO RINVIATA. E LE IMPRESE CAMBIANO PELLE. MA SOLO NORD


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Foto: M. Lombezzi - Contrasto

O ALLE PORTE

reperire altrove semilavorati e materie prime, la produzione deve cambiare stile in nome della circolarità e dell’efficienza energetica, l’ufficio commerciale si apre a mercati diversi dal solito per essere meno dipendente dal partner tedesco, che è alle prese con difficoltà di approvvigionamento energetico ancor più giganti delle nostre. Se queste sfide per il 25 per cento delle imprese manifatturiere significano intravedere la crisi d’autunno, perché non

Le linee di produzione della pasta Barilla con il reparto dove avviene l’inscatolamento nello stabilimento dell’azienda a Parma

possiedono i mezzi per affrontarle, il resto dell’industria è pronto a superare anche questa mareggiata. Per tutti è chiaro che non si tratta di una trasformazione indolore, tanto più che gli imprenditori si apprestano a compierla in solitaria, senza contare sull’aiuto del governo Draghi e neppure di quel partito, la Lega, che un tempo rappresentava le loro istanze. Delusi dall’immobilismo del leghista moderato Giancarlo Giorgetti, che nulla ha fatto per convincere Matteo Salvini e i compagni di partito a tenere in vita il governo Draghi almeno per quegli ultimi quattro mesi che mancavano alla naturale scadenza del mandato – quattro mesi importanti, perché in autunno c’è da scrivere la finanziaria -, allibiti dalle sparate di Silvio Berlusconi, che promette pensioni, alberi e dentista gratis, annoiati da un Enrico Letta che non esprime alcun programma, alcuni puntano sul decisionismo di Giorgia Meloni, pur temendo l’effetto boomerang sui mercati internazionali. Altri – bresciani e veneti in testa – sostengono Mariastella Gelmini che in questi mesi si è data parecchio da fare per allacciare rapporti con le imprese del Nord, mentre al Sud si tifa per Mara Carfagna, concentrata soprattutto al sostegno dell’industria al Sud, e Carlo Calenda, che avevano imparato ad apprezzare ai tempi del governo Renzi, quando era ministro dello Sviluppo economico e aveva varato il piano Industry 4.0 per portare una ventata di modernizzazione nelle loro officine. «C’è grande preoccupazione per settembre, perché alla crisi energetica si somma la preoccupazione elettorale», dice Paolo Scudieri, che guida il gruppo campano Adler, leader nella componentistica per automotive, e continua: «Al Sud si contava sulla messa a terra del Pnrr per ridurre lo storico gap del meridione nei 7 agosto 2022

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L’economia in tilt confronti dell’Europa, ma la crisi di governo e l’incertezza che ne deriva rende tutto più complicato», dice l’imprenditore che, dal canto suo, sta puntando sulla crescita dimensionale, acquistando nuovi stabilimenti, e sull’innovazione tecnologica per rendere gli stabilimenti a emissioni zero e sostituire i derivati degli idrocarburi con materiali biocompatibili. Come spiega Achille Fornasini, professore di Analisi dei mercati finanziari all’università degli studi di Brescia: «I responsabili degli acquisti delle aziende italiane ed europee stanno riducendo gli approvvigionamenti rispetto ai mesi precedenti. Sintomo di una strategia più cauta in vista di una possibile recessione che in ogni caso è destinata a interessare non solo Germania e Francia, ma l’intera economia occidentale, Italia compresa. Del resto, cos’altro ci si può aspettare dopo due anni funestati dalla pandemia, della crisi energetica e dal conflitto russo-ucraino? Effetti tuttora persistenti che hanno contribuito al boom dei prezzi delle materie prime e dell’energia, che a sua volta ha innescato quell’inflazione esplosiva che le banche centrali, in evidente ritardo, stanno tentando di arginare. Le nostre imprese, grazie ad una domanda ancora tonica, stanno resistendo malgrado le crescenti difficoltà di recuperare a valle i maggiori costi energetici e di approvvigionamento. Ma la contrazione dei margini industriali è persistente e rischia di diventare insostenibile». Si stima che gli aumenti delle materie prime stiano riducendo i margini del 75 per cento rispetto allo scorso anno, anche se la crisi che verrà, ovviamente, non impatterà allo stesso modo su tutti. Ad esempio, un’acciaieria come l’Arvedi di Cremona, che da settembre sarà a impatto zero, perché riceve da Enel solo energia da fonti rinnovabili, soffrirà meno delle Acciaierie d’Italia a Taranto, l’ex Ilva, che invece continua ad aver bisogno di carbone e fonti fossili. «Ma per tutti l’autunno sarà complicato», commenta Paolo Streparava, alla guida dell’omonimo gruppo dell’automotive e vicepresidente dell’Associazione industriale bresciana, che continua: «I costi di energia elettrica e gas sono quintuplicati. Farà fatica l’impresa energivora, così come il ristoratore. Sarà un inverno molto difficile». Con una nota 40

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IL MINISTRO Roberto Cingolani ministro della Transizione ecologica. In alto, l’azienda tessile Brioni e, a destra, il reparto saldatura di Fincantieri a Monfalcone, per la costruzione di navi da crociera

di criticità in più per il settore automotive, privo di una direzione chiara: «L’Europa ha messo fuori legge i motori a combustione interna, imponendo quelli elettrici dal 2035, ma restano dubbi sulla capacità della rete di fornire energia da fonti rinnovabili per tutto il parco auto nazionale, qualora dovesse virare interamente sull’elettrico. Questi dubbi spingono gli imprenditori a restare in attesa di capire se puntare sull’idrogeno, sull’elettrico, su motori a impatto zero alimentati a biocarburante. La confusione non aiuta i piani di investimento». Tornando ai problemi di approvvigionamento energetico, fa notare il professor Fornasini dell’università di Brescia che: «Nonostante le rassicurazioni del ministro della transizione energetica Cingolani, il prossimo inverno il gas disponibile potrebbe non essere sufficiente per far fronte alla domanda di famiglie e industrie e ci saranno ripercussioni sulla disponibilità di energia elettrica, con tutto ciò che significa per i settori energivori come metallurgico e siderurgico. Rischiamo razionamenti e fermate produttive». In un momento così complicato, restare immobili non è un’opzione per le imprese, come conferma Massimo Sabatini, direttore generale di Fondirigenti, che ha


Foto: S. Dal Pozzolo - Contrasto, M. Siragusa - Contrasto, M.L. Antonelli - Agf

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da poco ricevuto i risultati di una ricerca condotta sulle 14 mila imprese aderenti, a proposito delle opzioni formative dei manager d’azienda. Su cinque aree di interesse – transizione digitale, sostenibilità, inserimento professionale dei giovani, gestione rischi, competenze per il cambiamento - «su ben 1.200 piani formativi, la metà si è concentrata nell’area delle competenze per il cambiamento. Segnale che le aziende si stanno attrezzando per affrontare un momento di grande trasformazione». Nelle imprese del Sud, invece, c’è una prevalenza di formazione nella gestione dei rischi, avvertimento che le imprese del Meridione temono maggiormente l’impatto della crisi imminente. Coinvolte in questo fenomeno soprattutto le piccole e piccolissime imprese, come

AL SUD, INCUBO USURA: “IL SISTEMA BANCARIO, IMMOBILIZZATO DA NORME EUROPEE, NON RIESCE A VENIRE INCONTRO ALLE AZIENDE”

spiega Michele Albanese, direttore del piccolo Banco di credito cooperativo di Monte Pruno: «Questa crisi porterà gli imprenditori al ricorso al credito usuraio perché il sistema bancario, immobilizzato da normative europee che sembrano puntare a una disintermediazione delle stesse banche, non riesce a rispondere all’attuale richiesta delle imprese. Se consideriamo quello che potrebbe succedere in autunno e in inverno, le condizioni potrebbero essere simili a un’economia di guerra». E aggiunge: «Stiamo arrivato al punto che, a causa dei vincoli bancari calati dall’alto, vengono a mancare le condizioni per finanziare imprese, anche solide e sane, che si trovano alcuni valori di bilancio negativi in conseguenza, nello specifico, di ciò che è accaduto con l’emergenza Covid-19». Anche sul fronte inflazionistico, nonostante la Banca d’Italia abbia annunciato una stabilizzazione dei prezzi nei prossimi due anni, l’apprezzamento del dollaro sull’euro sembra indicare tutt’altro, come spiega l’economista Fornasini: «L’inflazione statunitense è frutto di un eccesso di domanda interna e si può attenuare attraverso il rialzo dei tassi d’interesse. Al contrario l’inflazione europea è generata dall’aumento del costo dell’energia e delle materie prime. La nostra è insomma un’inflazione importata e dal momento che tutte le materie prime sono quotate in dollari il costo dell’importazione di queste ultime aumenta ancora di più a causa della rivalutazione del dollaro sull’euro. Di più. Mentre la Federal reserve punta a spegnere la fiammata inflattiva attraverso l’aumento dei tassi, la Banca centrale europea teme che ciò possa annichilire la tenuta della ripresa». La situazione sembra destinata ad avvitarsi perché la forza del dollaro spinge gli investitori internazionali a puntare sugli alti rendimenti del bond americano e ad abbandonare l’euro che, così facendo, continua a svalutarsi rispetto alla valuta americana: «È una condizione destinata a perdurare, aggravando così il caro prezzi in Europa. Se è vero che l’euro debole favorisce le esportazioni europee dirette verso l’area del dollaro, le conseguenti ricadute inflattive sono destinate a persistere e ad aggravarsi». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Homeless / Il reportage

INVISIBILI ALLA MERCÉ DELLE BANDE DI PIETRO MECAROZZI

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er Giorgio questa è la decima estate che passa per strada. Dopo il rigido inverno che ha percosso Milano, è la volta di un’estate con temperature record. Un caldo soffocante che si è impossessato di ritmi, abitudini e necessità delle migliaia di senza dimora (secondo gli ultimi dati ufficiali il range va dalle 3 alle 7mila persone). Il capoluogo lombardo è infatti la città con più senzatetto in Italia, anche se, come spiega Simone Trabuio, uno dei responsabili del Progetto Arca che dal 1994 offre aiuto a persone senza dimora e a famiglie povere - «le stime non sono aggiornate e non considerano gli ultimi avvenimenti globali e nazionali che hanno fatto aumentare a vista d’occhio le persone in stato di estrema povertà a Milano». Non serve infatti avventurarsi nei quartieri più difficili per capire che gli homeless sono in netto aumento. Si tratta di italiani e stranieri, molti giovani e qualche anziano: dormono ai piedi delle vetrine dei negozi di alta moda, barcollando in corso Buenos Aires tra un fiume di persone troppo impegnate per dedicargli un momento, invisibili agli angoli delle strade, icone di una città controversa e ambivalente. L’Espresso ha vissuto con loro e come loro, ascoltando storie, frugando tra ricordi e traumi con indosso uno stigma che nessun essere umano merita. Perché «non si è senzatetto solo nei mesi d’inverno, per poi finire dimenticati tutto il resto dell’anno», puntualizza Giorgio. Da inizio 2022 a metà luglio, secondo i dati della fio.Psd (Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora), sono 205 le morti su strada di senzatetto, quasi uno al giorno. Una situazione emergenziale. Lunedì scorso una donna è stata accoltellata in pieno giorno a Trastevere. «Povertà e disoccupazione, mancanza di alloggi a prezzi accessibili, eventi drammatici che stravolgono la vita, sono le principali ragioni dietro alla condizione di molti senzatetto», spiega Trabuio. «Ad esempio, molte donne si ritrovano in

queste condizioni, ai margini della società, per la separazione dal coniuge o per sfuggire a una relazione violenta. Mentre altri, che già da prima vivevano situazioni economiche difficili, hanno visto peggiorare le loro condizioni dall’inizio della pandemia e con la crisi economica in corso». Luigi, per esempio, è un veterano della strada. Ha cinquant’anni, si è trasferito dalla Campania a Milano da giovane e ha passato gli ultimi tre anni in carcere. Oggi si ritrova senza una casa, senza una famiglia, e con la difficoltà nel trovare un lavoro.

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«È complicato avere un impiego per un ex detenuto, quindi per vivere mi trovo lavoretti occasionali con imprese edili che non cercano operai da mettere in regola, oppure muovendo piccole quantità di stupefacenti». Luigi ha il volto scalfito dal freddo dell’inverno e svuotato dal caldo dell’estate, sul braccio un coltello tatuato e un buco nero al posto dell’incisivo. «La vita dei senzatetto non è sempre come nei film: nella realtà sono pochi quelli che chiedono l’elemosina e vivono sotto un cartone, il classico “barbone” con abiti puzzolenti e la bottiglia in mano. E per sopravvivere, a volte, ti devi abbassare anche a fare affari poco legali». I soggetti deboli sono una pedina invisibile nelle mani della criminalità. E come ci spiega Francesco Tresca Carducci, coordinatore di “Avvocato di strada Milano”, da qualche anno è stato pensato un nuovo espediente criminale per sfruttarli:

Foto: Courtesy of Fio.PSD

CRESCE IL NUMERO DEI SENZATETTO E DELLE VIOLENZE. ABBANDONATI IN STRADA, TERRORIZZATI DAI CLAN. E USATI COME PRESTANOME


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Il primo piano di uno degli homeless di Milano, da tre a settimila persone, secondo le stime 7 agosto 2022

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Homeless / Il reportage

ovvero l’intestazione fittizia, o sostituzione di persona. «Ci sono persone che hanno bisogno di un cellulare e di una connessione Internet per commettere reati. E in cambio di un panino o di 50 euro convincono un senzatetto a intestarsi un’utenza. Con quello che poi ne consegue, dopo le intercettazioni. C’è perfino chi si è rivolto a noi perché, nonostante lo stato di povertà assoluta, risultava proprietario di immobili, società e auto di lusso», spiega Carducci. Tra la cinquantina di persone che ogni mese bussa allo sportello dell’“Avvocato di strada“, in piazza San Fedele, ci sono anche molti extracomunitari. «Arrivano molti cittadini ucraini, spesso donne, per chiedere il riconoscimento della protezione internazionale. Sono senza una dimora e ci implorano di non farle ritornare nel loro Paese. Stiamo facendo di tutto con Comune e servizi sociali affinché questo non avvenga», continua il legale. L’Ucraina, però, non è la sola nazione dalla quale i cittadini sono in fuga. Nadir, Omar e Rashad sono in un angolo del piazzale della stazione di Lambrate: hanno percorso, a piedi e con l’autostop, dieci Stati per arrivare a Milano dall’Afghanistan. Dormono dove capita, uno di loro ha le gambe insanguinate e tutti e tre hanno i piedi dilanianti dallo sforzo. «Siamo scappati dall’Afghanistan, abbiamo lasciato le nostre famiglie e non sappiamo cosa ci potrà capitare, ma tutto è meglio che vivere sotto il regime dei talebani», confessano all’unisono.

MILANO, CAPOFILA NELL’ASSISTENZA, SPINGE SUL FIRST HOUSING: “SOLO UNA CASA CONSENTE ALLE PERSONE DI RIPRENDERSI LA PROPRIA VITA”

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I tre ragazzi, come molti altri senzatetto intervistati, passano la notte sui treni, in strada, nelle sale d’attesa delle stazioni e del pronto soccorso, sulle panchine nei parchi. Durante l’inverno vanno a scaldarsi sugli autobus, nelle biblioteche, nei centri commerciali. E spesso l’unico sostegno, a parte il barista pietoso o il panettiere, sono i centri d’ascolto e le mense per i poveri. Il Progetto Arca, durante il primo lockdown ha creato la Cucina mobile: a tutti gli effetti un food truck che dona ogni sera 100-130 pasti caldi , 720 totali a settimana. Oltre ai tre ragazzi afghani, ad attendere il sacchetto con i viveri, ci sono laureati ed ex imprenditori, persone che svolgevano lavori più o meno importanti e avevano una casa, degli affetti, persi a causa della crisi o chissà per quale altro motivo. «Il menu è ciclico e cambia ogni giorno: si compie il massimo sforzo per rispettare i regimi alimentari e i divieti religiosi.


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SENZA UN TETTO

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Washington e Sergio, ex senzatetto che lavorano nella Casa della Solidarietà della Fondazione fratelli di San Francesco a Milano. In alto, Omar e Rashad, due giovani afghani fuggiti dal regime talebano. Qui a sinistra, Casa Betania, rifugio per senzatetto a Chiavari. In alto, un rifugio a Milano. Nell’altra pagina, un homeless a Genova

Sempre di più si rivolgono a noi giovani e persone con famiglia, perché si è instaurato un rapporto di mutua fiducia», aggiunge un volontario. Al 2021, secondo l’Istat, sono in condizione di povertà assoluta poco più di 1,9 milioni di famiglie (7,5 per cento del totale da 7,7 per cento nel 2020) e circa 5,6 milioni di individui (9,4 per cento come l’anno precedente). Molti degli «invisibili» sono quindi anche coloro che si confondono con la popolazione socialmente integrata della quale probabilmente facevano parte fino a poco tempo fa. Quanto al dormire, il problema si è intensificato dopo la fine della sospensione degli sfratti nel Comune di Milano a inizio 2022. Molti homeless preferiscono dormire fuori e usufruire dei bagni comunali per ogni necessità, ma la maggior parte cerca asilo nei dormitori. Si tratta di rifugi sparsi in tutto il comune meneghino: sono

circa una decina, offrono in totale più di 1.500 posti letto, e per accederci c’è bisogno di un’intermediazione dell’assistente sociale e quasi sempre di uno screening sanitario. Siamo entrati nella Casa della Solidarietà in via Saponaro, gestita dalla Fondazione fratelli di San Francesco: si tratta di un centro di accoglienza diurno e notturno che accoglie diverse fragilità presenti sul territorio milanese, quali persone senza dimora, persone malate, anziani soli, richiedenti asilo e minori stranieri non accompagnati. Ad accoglierci, oltre al responsabile Bledjan Beshiraj, sono Washington e Sergio, due ex senzatetto entrati a far parte del personale della struttura. «Per stare qui si devono rispettare delle regole, e non tutti ci riescono», puntualizza Sergio. «Il cibo è buono, ci trattano con dignità e nessuno ti manca di rispetto. Nelle camerate sono presenti sei letti e gli ospiti vengono da tutto il mondo, quindi ci possono essere delle incomprensioni, ma è sempre meglio che dormire per strada». Gli ospiti in totale sono più di 250, la mensa fornisce circa mille pasti al giorno, e la Fondazione mette a loro disposizione psicologi, sociologi e uno sportello legale. All’interno dell’edificio molti giovani evitano il contatto visivo, sfuggono ai sorrisi e ai cenni di saluto: «Per parlare e aprirsi c’è il centro d’ascolto. È li che si incrociano le storie di tutti, il luogo dove le persone raccontano i loro drammi quotidiani, elencano le necessità impellenti, chiedono, si informano, sperano», chiosa Beshiraj. 7 agosto 2022

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Homeless / Il reportage

Ma visto l’aumento del numero di senzatetto, serve forse un maggior utilizzo dell’approccio housing first? «Negli ultimi anni il Comune ha investito molto sulle strutture di piccole dimensioni che, molto più dei grandi centri, possono contribuire a superare il fisiologico muro di diffidenza che molti anni di vita in strada hanno creato. Abbiamo privilegiato l’approccio housing first e led con appartamenti singoli o dedicati a pochissime persone, riservati per lo più a coloro che definiamo “irriducibili della strada” e che mal sopporterebbero la vita in comunità», risponde Lamberto Bertolé, assessore al Welfare e Salute del Comune di Milano. Si tratta di una sperimentazione partita da oltre quattro anni e che lentamente sta avvolgendo il tessuto sociale più fragile della città. «Non vogliamo fermarci e, infatti, tra i progetti presentati per i finanziamenti Pnrr abbiamo inserito anche la realizzazione, all’interno di alcuni stabili comunali da ristrutturare di nuovi appartamenti dedicati all’housing first». Nonostante ciò, tra procedure e dedali burocratici, quello che manca è anche «la programmazione e la co-progettazione tra enti e Comune di Milano», svela Alessandro Pezzoni, rappresentante di Caritas ambrosiana. «Non ci possiamo lamentare, perché la città è un esempio nel campo dell’assistenza ai senzatetto, ma ci sono alcuni aspetti che si possono migliorare: dobbiamo andare oltre le misure di emergenza, non possiamo ricordarci che esistono i senzatetto solo quando arriva l’inverno e dimenticarcene per il resto dell’anno». Come? «Bisogna aumentare la qualità degli interventi e avere un’atten-

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zione continua. Prima di tutto, inserire nelle unità di strada psicologi ed educatori. È il solo modo per non fermarsi alla semplice distribuzione di beni di prima necessità. Poi bisogna sposare l’approccio che ha dato buoni risultati ovunque è stato applicato: vuol dire che ai senzatetto bisogna dare prima di tutto un alloggio di cui possano sentirsi responsabili e fare così leva sulle loro capacità di auto-recupero», conclude Pezzoni. Anche perché vivere per strada espone queste persone a rischi molto seri, sia d’inverno sia d’estate. Abbiamo provato a passare qualche notte nelle principali via di Milano, con un sacco a pelo e una valigia vuota. Dormire è difficile: forse perché avvisato da un altro homeless che, riconoscendomi come nuovo in quella via, mi ha consigliato di tenere gli occhi aperti. «Tieni stretta la valigia e abbassa lo sguardo quando passano le bande di ragazzini se vuoi rimanere tutto intero». Le luci e il frastuono della città concedono poche ore di silenzio e di sonno; i passi che risuonano su sampietrini e porfido sembrano essere nenie minacciose; i commenti dei passanti sono lame al vetriolo. «Quello dei pestaggi è una deriva che preoccupa. In molti ci denunciano atti di violenza gratuita nei loro confronti», confessa il coordinatore di “Avvocato di strada”: «Un signore siciliano è stato picchiato da due ragazzi e noi siamo riusciti ad assisterlo nel processo per tentato omicidio e a fargli avere un discreto risarcimento. Non ha fatto in tempo a goderselo. È morto poco Q dopo per le conseguenze di quelle ferite». © RIPRODUZIONE RISERVATA

Foto: Courtesy of Fio.PSD

Un senzatetto dorme per strada a ridosso di un edificio a Milano



Crimini sul web

IL PIZZO VIAGGIA LA GUERRA MA ANCHE I RAID ESTORSIVI ALLE AZIENDE. E LA ZONA GRIGIA DEI MEDIATORI. PARLA IL CAPO DELLA CYBERSICUREZZA ITALIANA COLLOQUIO CON ROBERTO BALDONI DI GIANCARLO CAPOZZOLI 48

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oberto Baldoni, lei è da un anno il direttore dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. L’Agenzia delle entrate è stata attaccata, cosa è accaduto? «È stato attaccato uno studio di commercialisti. La cyber gang ha pensato erroneamente di essere all’interno del sistema tributario nazionale e ha dato la notizia sul suo sito scatenando il panico. Ma sia l’infrastruttura digitale di Sogei, che è la società partner tecnologico della Agenzia delle entrate, sia i server dell’Agenzia non hanno riscontrato danni. Alcune infrastrutture digitali che gestiscono servizi critici per la sicurezza nazionale, come il sistema tributario, sono all’interno del cosiddetto “perimetro di sicurezza nazionale cybernetica”, una legge approvata all’unanimità nel novembre 2019. Il perimetro impone una serie di misure di sicurezza molto elevate definite dal Dis, Dipartimento informazioni per la sicurezza, la struttura da cui io provengo». Sono inattaccabili? «Il rischio zero non esiste, ma seguendo queste misure certamente si aumenta di molto il costo che un attaccante de-


Prima Pagina Un server sottoposto ad attacco hacker

Foto: Getty Images

ONLINE ve sostenere per penetrare la vittima e questo la rende meno appetibile». L’Agenzia che lei dirige compie un anno il 6 agosto. Un primo bilancio? «Un anno fa ero l’unico dipendente, ora siamo 100 e saremo 300 alla fine del 2023. È stato un anno fondamentale in cui abbiamo corso parecchio. Pandemia e guerra hanno avuto un forte impatto sul numero degli attacchi cyber. E le cyber gang criminali sono in costante crescita. Tutto questo ha dato una accelerazione formidabile alla nostra crescita. Se lo smart working non è configurato e gestito adeguatamente dai gestori dei sistemi aziendali può creare vulneralbilità in più e le cyber gang le hanno sfruttate per le loro attività di ransomware». E sul versante bellico? «Oltre agli attacchi meno evidenti che riceviamo costantemente, ci sono state le tre ondate di attacchi che abbiamo ricevuto Giancarlo Capozzoli nel maggio scorso, di tipo Ddos (DistribuGiornalista ted denial of service) con lo scopo di rende-

re non accessibili siti nazionali rilevanti, da parte del gruppo di matrice russa Killnet. Farci trovare operativi e reattivi mentre creavamo l’Agenzia da zero è stata una sfida affascinante. Nella prima ondata sono stati attaccati i siti di grandi organizzazioni statali e diversi sono stati messi offline. Abbiamo studiato questi attacchi e nel giro di 20 ore abbiamo stabilito delle regole per poterci difendere. Regole che hanno fatto sì che alla seconda ondata di attacchi, il numero di siti di organizzazioni governative primarie andati offline siano diminuiti fortemente. Alla terza ondata, nessun sito governativo di una certa rilevanza è andato offline». Più ci evolviamo, più diventiamo vulnerabili. Scenari che ci apparivano fantascientifici si realizzano. Che contromisure abbiamo a disposizione? «Più diventa grande la massa del software utilizzata, più diventa difficile mantenere tutto il software stesso aggiornato e ben configurato. Siamo passati dalle 6.500 vulnerabilità scoperte nel mondo e raccolte dal Cve (Common vulnerabilities and exposures) nel 2016 alle oltre ventimila del 2021. I software andrebbero immediatamente aggiornati quando i produttori intervengono. I ritardi creano finestre di vulnerabilità. Dobbiamo imparare a gestire questo rischio come cittadini, come impiegati, come dirigenti d’azienda. Le vulnerabilità cibernetiche saranno sempre in continuo aumento. Se ne aggiungeranno di nuove che si aggiungeranno a quelle del passato. Se non opportunamente mantenuti, i software aumentano nel tempo le loro stesse vulnerabilità. A questo va aggiunto che più pezzi di software facciamo più bisogna montarli assieme, interfacciarli, in quelle che si chiamano configurazioni». Proprio come per la configurazione dei sistemi di smart working durante la pandemia? «Esattamente: si portano fuori, delle connessioni a delle applicazioni che prima erano all’interno del firewall e se non viene configurato bene il sistema, si creano delle aperture da dove l’hacker può entrare». È difficile stabilire il numero esatto delle vulnerabilità potenziali? «Si stima con le stesse tecniche matematiche per quantificare il numero dei pesci in un lago. Sappiamo che è in continua crescita. Detto ciò, deve essere altrettanto chiaro che dal mondo digitale in cui siamo immersi non è possibile tornare indietro». Anche perché ha vantaggi straordinari. «Di efficienza, di conoscenza e di velocità. Non avremmo più una economia competitiva. Andare avanti significa saper gestire il rischio, proprio come accaduto con la diffusione dell’automobile. Non attraverseremmo mai una strada trafficata senza guardare a destra e a sinistra. Questa consapevolezza che pur non azzera il rischio, rende il pericolo di essere investiti poco probabile. Questa è la mentalità che dovremo avere ciascuno per il proprio ruolo. Se un cittadino deve stare attento a non aprire gli allegati sospetti delle mail e ai siti che visita, il Ceo di un’azienda deve sapere che è necessario attivare dei framework di gestione 7 agosto 2022

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Crimini sul web del rischio cyber che deve governare in linea con le migliori best practices internazionali». Un salto di qualità nella nostra cultura digitale? «Veniamo da un mondo prettamente fisico e stiamo entrando in un mondo che ibrida il fisico con il digitale. Nel mondo fisico ci sono delle regole di sicurezza chiare e stabili e che derivano dalla conoscenza che ci tramandiamo tra le generazioni. In questo mondo ibrido le regole di sicurezza cambiano nel tempo e dipendono dalle tecnologie e dai tipi di attacchi». E dagli alert dell’Agenzia? «L’Agenzia dovrà essere un faro che ricava le regole di sicurezza da adottare studiando l’attacco in corso o dando misure di sicurezza a scopo preventivo». Che sono in costante aggiornamento? «L’avvento del quantum computing renderà lo scenario tecnologico molto diverso da quello attuale. Si supereranno alcuni problemi di sicurezza attuale, ma se ne creeranno di nuovi a cui dovremo trovare delle risposte lungo la strada. Cosa che abbiamo cominciato a fare a livello internazionale definendo algoritmi di cifratura che sono in grado di resistere ad attacchi portati da computer quantistici. Ma contemporaneamente il quantum porterà immense opportunità economiche e di conoscenza per la società. Quindi gestire il rischio e cogliere le opportunità, questo sarà il nostro futuro di società». Con una partecipazione attiva della vigilanza da parte di tutti, è così? «Nella cyber security non si delega. Nel mondo fisico il cittadino delega la difesa dei propri confini nazionali alle forze armate: in questo ambito non si può delegare. Bisogna seguire le indicazioni che dà l’Agenzia ed implementare queste indicazioni nei propri sistemi. Dallo smartphone o dal pc dell’utente domestico al sistema informativo aziendale». Quanto l’Italia è indietro? «Siamo partiti tardi rispetto alle altre esperienze europee: trent’anni dopo la Germania, 15 dopo la Francia, 20 anni dopo Israele. Nel 2013 il Dpcm Monti ha dato una prima organizzazione. Nel 2017, è stata fatta una revisione con il Dpcm Gentiloni, con il quale veniva posto, al centro di questa architettura cyber nazionale, il Dis. Dal 2018 abbiamo iniziato a creare una certa capacità di resilienza a livello nazionale anche in termini di acquisizione di personale specializzato. Siamo in cento anche se con prospettive di crescita fino ad ottocento entro il 2027. Numeri comunque inferiori agli oltre 1000 impiegati nelle agenzie dei nostri colleghi francesi e tedeschi. Ma questo ritardo ci ha dato la possibilità di studiare le esperienze dei nostri colleghi europei, israeliani e americani e creare un’Agenzia che già a livello normativo superasse certe problematiche». Quali? «La prima e più importante, quella del coordinamento: il premier è il capo della cyber security. Significa aver compreso a fondo che è strategica per il nostro futuro. In Germania, l’Agenzia dipende dal ministero degli Interni. È 50

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“SIAMO PARTITI TARDI MA LA NOSTRA CATENA DI COMANDO È CORTA. PRESTO ALTRE ASSUNZIONI” complesso coordinare giganti come il ministero della Difesa o quello dell’Economia. Tanto che stanno studiando una legge che riprende i principi della nostra agenzia creando una catena di comando corta come la nostra». Il mondo cyber non ha confini, vale in termini di dominio su uno spazio dentro al quale i singoli Paesi si muovono. Una condizione che i criminali informatici conoscono bene. La territorialità della risposta è un limite, invece? «Nel cyber spazio tutti confinano con tutti: una cyber gang può aver il suo capo agli antipodi ma può attaccare senza problemi una nostra infrastruttura. Parliamo di organizzazioni che per definizione sono distribuite in varie nazioni e a più livelli. Che permettono di attaccare da più parti. Gli attacchi Ddos di maggio scorso sono arrivati da server ospitati in oltre 40 Paesi diversi». Come si regola la risposta transnazionale? «La Nato ha già definito il cyber come un dominio di guerra al pari degli altri domini. La differenza fondamentale è che nel mondo fisico tutto può essere molto più palese, evidente come l’attribuzione di una certa azione. Certamente la


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Foto: N. Asfouri - Afp Getty Images, A. Scattolon - A3 / Contrasto

Roberto Baldoni. A sinistra la ricostruzione di un attacco informatico

Russia ha attaccato l’Ucraina. Nel mondo virtuale queste certezze sono molto più difficili da raggiungere. Arrivare ad una attribuzione di un attacco cyber, a meno che non ci sia una chiara rivendicazione, può essere molto complesso». Con quello che comporta in termini di controattacco? «Il cyber è un mondo dove è molto facile lasciare “false flag” all’interno di uno scenario di attacco. Per questa ragione, bisogna stare molto attenti quando si attribuisce un attacco a qualcuno e pertanto agire sempre con estrema cautela. Il mondo anglosassone è molto più proattivo rispetto al mondo latino in termini di attribuzione. E in ambito Nato una attribuzione in ambito cyber rischia di generare risposte a livello cinetico con la possibilità di una escalation». L’Agenzia si occupa del versante civile. «La cyber defense è delegata al Comando operazioni in rete (Cor) per la difesa delle infrastrutture digitali militari, l’Agenzia si occupa invece della cyber resilienza del sistema Paese, dalle sue infrastrutture critiche fino ad arrivare progressivamente a tutti i cittadini». Come ridurre la portata degli attacchi ransomware, le estorsioni del mondo cyber? «Una vera piaga criminale. Noi stiamo cercando di capire come diminuire queste ondate di ramsonware sia trovando soluzioni tecniche adeguate sia distruggendo del tutto o in parte il modello di business associato a questo tipo di attacchi ovvero rendendo meno profittevole questa industria criminale che si sviluppa su scala globale. Su questo ultimo punto stiamo studiando delle misure con i nostri partner internazionali. Purtroppo non saranno tempi brevi così come non lo saranno i tempi di innalzamento delle difese di una qualsiasi azienda, perché l’ampiezza di questo intervallo di tempo passa anche per una questione di diffusione della cultura cyber a tutti i dipendenti. Dietro a un attacco

ramsonware spesso c’è infatti un errore umano». All’aumento del cyber crime è corrisposto una diminuzione dei crimini reali. «I rischi a cui ci si espone perpetrando un attacco cyber sono infinitamente minori. Inoltre molte aziende pur di non perdere in credibilità e reputazione e recuperare immediatamente l’operatività preferiscono pagare i riscatti e non lasciare trapelare gli attacchi subiti. Questo sta creando un indotto che si muove in una zona grigia tra le vittima e la cyber gang». Un po’ quello che accade per alcuni fenomeni criminali, penso ai mediatori per i sequestri di persona o al meccanismo che regola il mercato delle estorsioni nel quale tra vittima e carnefice si interpolano soggetti che svolgono una sorta di triangolazione. «È un indotto da bloccare poiché alimenta le azioni criminali foraggiando la ricerca e lo sviluppo di sempre più sofisticate metodologie di attacco. Ricordiamoci poi che nulla garantisce che la cyber gang non lasci delle backdoor nell’azienda anche dopo averle restituito il controllo sui dati e sugli applicativi in modo da riattaccarla successivamente, magari sotto altre spoglie». Torniamo alla Agenzia. A febbraio scorso avete fatto un concorso per assumere le prime sessanta unità di personale. «Ne faremo un altro per cento, centoventi persone a settembre al fine di cercare diplomati con esperienza in cyber security. Poi cerchiamo, laureati con esperienza in relazioni internazionali e in questioni giuridiche, della comunicazione e analisti del mondo tecnologico. Mentre il primo è stato un concorso prettamente tecnico, perché avevamo la necessità di far partire l’Agenzia, ora apriremo a tutta questa serie di professionalità non tecniche ma certamente non meno importanti per la riuscita della missione dell’Agenzia». Con quali obiettivi? «Stiamo cercando persone in grado di lanciare e gestire progetti di ricerca e sviluppo innovativi in alcuni settori come il quantum, l’Intelligenza artificiale, i big data. Creeremo una struttura interna che si occuperà di organizzare partnership pubblico-private per arrivare a realizzare più tecnologia nazionale ed europea». Fin qui dipendiamo molto dall’estero, non è così? «Più saremo indipendenti dal punto di vista tecnologico più saremo capaci di gestire meglio il rischio cibernetico in questo nuovo mondo fisico e digitale. Con la consapevolezza che non saremo mai del tutto indipendenti. Purtuttavia esistono delle tecnologie su cui è fondamentale investire perché ci rendono più autonomi e quindi meno attaccabili. Sottolineo: meno attaccabili. La geopolitica della tecnologia è un fattore che dovremo affrontare, come Italia e come Europa, in termini di dipendenza/indipendenza da determinati Paesi. Questo è un altro aspetto determinante, correlato al rischio di attacchi cyber, per quel che riguarda la prosperità e lo sviluppo del nostro Paese nel prossimo futuro». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Graphic novel

Settimane 17 e 18

“I La scrittrice e illustratrice Nora Krug. Nata in Germania, a Karlsruhe, vive da anni a New York. In Italia ha pubblicato “Heimat” (Einaudi). Di recente ha illustrato “On Tyranny”, saggio di Timothy Snyder L’Espresso sta pubblicando “Diaries of War”, diario illustrato della guerra, in contemporanea con altre testate internazionali e in esclusiva per l’Italia

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l grano è il nuovo oro”. Proprio mentre l’Europa tira un sospiro di sollievo per la partenza da Odessa del primo carico di grano da quando la guerra è scoppiata, K., la giornalista ucraina protagonista del graphic novel di Nora Krug annuncia il postulato. È nel sud del Paese, ha ripreso a documentare, a essere occhi e orecchie altrui come il suo mestiere richiede. E da quella prima linea dove le perdite non si contano più - tra feriti, prigionieri, saccheggi, gente che vive l’inferno della privazione di tutto – prosegue la sua testimonianza. Diciassettesima settimana di “Diaries of War”, work in progress di parole e immagini che L’Espresso sta pubblicando in esclusiva per l’Italia, contemporaneamente ad altre prestigiose testate internazionali. Un progetto inaugurato con lo scoppio della guerra, quando l’artista americana di origini tedesche ha deciso di registrare le esperienze di un uomo e di una donna, cittadini dei due Paesi in guerra, e delle loro vite stravolte. L’Ucraina è devastata. Tra case distrutte e lo scempio dei bombardamenti continui, le immagini restano scolpite non appena enunciate: un vaso, unico superstite di un’abitazione rasa al suolo; una giraffa, non più al sicuro, dopo che lo zoo di Kharkiv, oltre a quello di Mykolaiv, è stato duramente colpito. Il racconto è uno slalom continuo col pericolo, fuoco contro fuoco, la fortuna di sopravvivere. E lo sforzo di ricreare una vita possibile, di riunirsi col resto della famiglia al sicuro in Danimar-

ca, di trascorrere magari qualche giorno di vacanza tutti insieme, in un posto “relativamente tranquillo”. Diviso in due, il diario in presa diretta di Nora Krug prosegue con i giorni di D., l’artista di San Pietroburgo che sta tentando di abbandonare un Paese che non riconosce, nel quale non vuole vivere più: la libertà è continuamente minacciata, la disinformazione regna, molti dei suoi conoscenti – intellettuali, artisti, musicisti che hanno cancellato le date delle loro esibizioni in Russia - stanno emigrando. Lo stigma di essere cittadino di un Paese che ha iniziato questa guerra sta agendo sempre più nel profondo. E condiziona lo sguardo, rendendo inaccettabile il confronto con chi si rivela militarista e imperialista. Insospettabili, talvolta. Come racconta D., riferendosi al direttore dell’Ermitage: «Il nostro Paese sta cambiando la storia del mondo», ha detto pubblicamente il responsabile del museo. Da questa storia D. vuole tirarsi fuori, spostando la sua famiglia a Riga o altrove. Ma migrare vuol dire trovare il coraggio di ricominciare. Credere in un futuro ricostruibile da zero. Rinunciare a un’identità precisa per assumere quella incerta e faticosa del nomade, del senza patria. Il prezzo da pagare alla vera libertà. Come un bagno al mare, in una giornata calda: un tuffo che sa di vita. Senza più il rimpianto di non avere Sabina Minardi Q chi ami accanto a te. Giornalista

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Foto: Nina Subin

di Sabina Minardi




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La prospettiva di GIULIANO BATTISTON

Il dilemma jihad dei Talebani dopo la morte di al-Zawahiri

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veri jihadisti non muoiono di vecchiaia. Recita così la vulgata dell’islamismo radicale armato, che da alcuni giorni celebra un nuovo martire: Ayman al-Zawahiri, il numero uno di al-Qaeda, ucciso da un drone americano a 71 anni - dopo più di 50 anni di militanza e decenni di clandestinità - non in un distretto remoto delle aree di confine tra Afghanistan e Pakistan, ma a Sherpur, quartiere residenziale di Kabul. L’annuncio dell’esecuzione a distanza è stato dato dal presidente Usa, Joe Biden. Per lui è una vittoria, ma di corto respiro. Dimostra che si può fare contro-terrorismo anche senza le truppe sul terreno, come Biden ripete dai giorni del disastroso ritiro dall’Afghanistan, lo scorso agosto. Ma presta il fianco alle critiche: a cosa è servito l’accordo di Doha del febbraio 2020 e poi gli incontri dell’inviato speciale Thomas West, se al-Zawahiri era protetto e ospitato nel cuore di Kabul, nonostante l’impegno dei Talebani a tagliare i ponti con i gruppi terroristici? Per giustificare il ritiro, non era stato proprio Biden a sostenere che al-Qaeda fosse decimata? Al-Qaeda invece è ancora attiva. Gioca facile, ma sbaglia, chi vede al-Zawahiri soltanto come un vec-

chio zio pedante, l’uomo dei lunghi sermoni inascoltati. Certo poco carismatico, l’egiziano ha mantenuto in piedi l’organizzazione, a dispetto della morte del fondatore, Osama Bin Laden, dentro e oltre le primavere arabe. E nonostante la secessione parricida, poi sfida aperta per l’egemonia, del gruppo che sarebbe diventato lo Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi. In Iraq e Siria al-Qaeda è offuscata, ma dall’Africa al sud-est asiatico i gruppi affiliati hanno radicamento territoriale. E rimane una presenza in Afghanistan, culla del jihad contemporaneo. Per i Talebani, una bella grana. «Dal nostro territorio non arriverà nessuna minaccia terroristica». Così il 27 luglio, nel corso di una conferenza internazionale a Tashkent, Uzbekistan, assicurava il ministro degli Esteri dell’Emirato, Amir Khan Muttaqi. Quattro giorni dopo, domenica 31, l’uccisione del capo di al-Qaeda a Kabul. Per i Talebani è un danno d’immagine e di reputazione. Le relazioni tra Kabul e Washington, dalle cui decisioni dipendono le scelte finanziarie di molti organismi internazionali, diventeranno ancora più fredde. Sarà più complicato mantenere canali diplomatici

L’EREDE DI BIN LADEN ERA A KABUL. E BIDEN LO HA COLPITO ANCHE SENZA FORZE SUL CAMPO

aperti, anche per quei governi che avevano scelto la strada della flessibilità. L’isolamento che ne verrà potrebbe condurre ancor più verso l’autarchia i Talebani, già divisi sul “che fare” dell’Emirato. Inevitabili, nuovi dissidi all’interno del movimento, policentrico. L’ala dei pragmatici, incline al recupero delle relazioni diplomatiche con il sistema euro-atlantico, verrà guardata con sospetto dai più radicali. «Qualcuno dei vostri ha forse fatto la soffiata?». Le celebrazioni per il primo anno del nuovo Emirato saranno segnate da nuovi equilibri di potere. A uscire indebolito, per ora, è Sirajuddin Haqqani, erede della solida impresa terroristica messa in piedi dal padre ora defunto, Jalaluddin, nelle zone di frontiera tra Afghanistan e Pakistan: per decenni, una sorta di hub per i jihadisti di mezzo mondo, a partire da Osama Bin Laden. Ministro degli Interni dell’Emirato, una taglia da 10 milioni di dollari “sulla testa”, per mesi Sirajuddin ha cercato di rifarsi il pedigree, incontrando diplomatici stranieri, facendo da mediatore tra il governo pachistano e il Tehreek-e-Taliban, i Talebani pachistani che negoziano la tregua con Islamabad. Facendo sapere che gli Haqqani sono a favore dei diritti delle donne, «non come quei retrogradi di Kandahar». Una strategia ora in fumo: al-Zawahiri era ospite di Sirajuddin Haqqani, a Kabul. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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La politica e i bisogni

LE TANTE SINISTRE

Gustavo Petro festeggia la vittoria a Bogotà

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DEL SUDAMERICA SETTE PAESI SU 12 PREMIANO I PROGRESSISTI. SI PUNTA SU EQUITÀ E AMBIENTE. LA SVOLTA A SORPRESA DELLA COLOMBIA. IN PERÙ DERIVA POPULISTA DI DANIELE

Foto: Xinhua / eyevine/contrasto

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MASTROGIACOMO

edro Castillo in Perú, Luis Arce in Bolivia, Gabriel Boric in Cile, Xiomara Castro in Honduras, fino a Gustavo Petro in Colombia. Solo nell’ultimo anno. Senza considerare i precedenti di Andrés Manuel López Obrador in Messico e Alberto Fernández in Argentina. Sette paesi sui 12 dell’America del Sud; 22 allargando a quelli dell’intero continente meridionale. Tutti guidati da un presidente di sinistra. Cuba, Venezuela e Nicaragua, sono una realtà a parte. Da sempre. Prigionieri di uomini che si richiamano alle rivoluzioni e lotte di liberazione del secolo scorso ma che governano con il pugno di ferro. I nuovi dittatori. Sbattono in carcere vecchi compagni di battaglia perché osano dissentire, chiudono giornali, cacciano le Ong e le università, persino gli enti ecclesiastici, violano sistematicamente i diritti umanitari. Succubi del loro ego e di un potere che non vogliono mollare. Diverso per i primi sette: sono la sinistra del nuovo secolo. Legati da un filo comune, con alcune differenze. Esprimono una tendenza che si è fatta strada, che interroga esperti e analisti. È un’ondata di ritorno, lo tsunami sociale e politico che spazza una destra incapace di governare? Oppure l’effetto di una naturale spinta al cambiamento, all’alternanza, la dimostrazione di una maturità democratica di popolazioni sempre afflitte da golpe e decisioni prese da altri? La vittoria inaspettata della sinistra in Co-

lombia, per la prima volta in 100 anni di storia del paese andino, offre una prima risposta convincente. Dire che si tratta di una sinistra “nuova” sarebbe ovvio. Ma soprattutto parziale e fuorviante. Tutti gli osservatori convergono su un punto: il 2000 ha prodotto una coscienza collettiva che riesce finalmente ad esprimersi. Complici il Covid e adesso l’inflazione, la gente si è resa conto che solo imponendo i temi a cui è più sensibile riusciva a far nascere il governo in grado di raccoglierli e soddisfarli. È una sfida in pieno svolgimento. Di questo sono coscienti gli uomini e le donne che si sono ritrovati al potere, realizzando finalmente un’ambizione sempre frustrata. Le rivolte in Cile, dove sono scesi in piazza non solo gli studenti e gli operai ma una fetta consistente della classe media, tradizionalmente conservatrice, hanno aperto la strada verso cambiamenti epocali. Il 4 settembre i cileni voteranno un referendum sulla nuova Costituzione che metterà in soffitta quella di Pinochet. Prevede trasformazioni importanti sul piano giuridico e di assetto istituzionale. Un gruppo di giovanissimi ex leader universitari è stato eletto per traghettare il Paese verso il futuro. Tra questi ci sono una decina di donne, la maggioranza, che ricopre Daniele Mastrogiacomo cariche importanti, come Giornalista ministre della Difesa e 7 agosto 2022

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La politica e i bisogni dell’Interno. Una vera rivoluzione in un panorama politico dominato dagli uomini. Una risposta al movimento femminista che in Cile ha acceso l’ondata poi riversata sul Messico, la Colombia, l’Argentina. Diverso il Perú dove un maestro rurale, scelto quasi a caso sulla rete da chi voleva usarlo come ariete, ha raccolto il desiderio di riscatto delle popolazioni indigene da sempre relegate ai margini del potere. L’inesperienza e un alto grado di corruzione che ha intossicato tutti i gangli della società lo hanno costretto a rivedere il suo programma politico. Il presidente Castillo ha cambiato 22 ministri e quattro primi ministri in meno di 12 mesi. Ha affrontato due richieste di impeachment dalle quali si è salvato per un soffio. È tenuto sotto scacco dalle diverse mafie che si contendono il potere sotterraneo. Ha stretto alleanze di comodo subito rotte perché incompatibili con i suoi valori omofobici, antiabortisti, classisti. Non c’è più nulla di sinistra nell’ex leader degli insegnanti di Cajamarca. Forse non c’è mai stato. Per sottrarsi ai ricatti di chi lo aveva lanciato nella sfida alla presidenza ha dovuto lasciare il partito, Perú Libre, con cui era stato eletto. Oggi naviga a vista. Ha rinunciato ai programmi rivoluzionari che avevano seminato il terrore tra la borghesia peruviana. Si è adeguato alle leggi imposte dai mercati finanziari. Governa come hanno sempre governato gli ultimi cinque presidenti che lo hanno preceduto. Non si proclama più marxista-leninista. Sono finiti i tempi dell’Alba, l’asse che univa Castro, Chávez, Ortega, Morales e Correa sul progetto della “Rivoluzione bolivariana del XX secolo”. Oggi vince chi punta sul futuro. Che significa immediato presente. Prevale chi tocca temi sempre rimasti in secondo piano ma che la realtà oggi impone come vitali, decisivi per lo sviluppo di un Paese e il

Il presidente cileno Gabriel Boric saluta i suoi sostenitori. In alto, Xiomara Castro, prima presidente donna dell’Honduras

A SETTEMBRE I CILENI VOTERANNO IL REFERENDUM SULLA COSTITUZIONE PER ARCHIVIARE QUELLA DELLA DITTATURA DI PINOCHET

benessere del suo popolo. Gabriel Boric e Gustavo Petro sono riusciti a intercettarli. Li hanno messi in cima alle loro agende e per questo sono stati premiati dall’elettorato. Il nuovo presidente colombiano è riuscito a dirottare, al ballottaggio, 2,7 milioni di voti dal centro e dalla stessa destra, quella che lo aveva demonizzato evocando il solito spettro di finire tra le fauci di Cuba e Venezuela. Ha puntato sulle popolazioni indigene e sulla conversione energetica. «Ciò che è veramente nuovo e distintivo del progressismo che ha vinto oggi in Cile e Colombia è quello che mancava a tutti i governi di sinistra: un’agenda ambientale e un modello economico che capisse quanto i combustibili fossili e le industrie estrattive fossero il passato. Non c’è futuro, né per la sinistra né per altri, su un pianeta inabitabile», conferma Cesár Rodriguez Garavito, avvocato e sociologo, autore de La nuova sinistra in America Latina (2005). In Brasile, gli stessi Lula e Rousseff, che animavano l’ondata rosa e rossa degli Anni 80, hanno finito per realizzare i sogni della dittatura militare. L’Amazzonia è stata aperta a progetti faraonici. Come le centrali idroelettriche di Belo Monte che servono ad alimentare progetti minerari in tutta la regione. In Bolivia, ricorda el Pais, l’ex vicepresidente Alvaro García Linera ha dovuto fare pubblica ammenda per l’intensa attività estrattiva portata avanti nella foresta pluviale. Ma esiste ancora un paradosso: le ragioni che hanno guidato le ultime vittorie progressiste si avvertono nelle differenze che marcarono la prima ondata. Se negli Anni 80 i prezzi delle materie prime e il boom del petrolio erano stati decisivi per sostenere quei 7 agosto 2022

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Il presidente della Bolivia Luis Arce. In alto, il presidente peruviano Pedro Castillo saluta i sostenitori dal balcone del suo quartier generale a Lima

sco per rafforzare l’assistenza sociale e allargare la base dei diritti; ha nominato presidente dell’Assemblea Costituzionale un’indigena. La nuova Carta prevede una giustizia speciale per le istanze dei gruppi autoctoni. Gustavo Petro punta anche lui su un riequilibrio fiscale e rinuncia alle fonti energetiche tradizionali. La transazione significa blocco dell’esplorazione petrolifera per muoversi verso un’economia produttiva, favorendo l’energia pulita. Resta da capire dove trovare le fonti alternative per sostituire quelle minerarie. Soprattutto adesso che il greggio è diventato merce preziosa e richiesta sui mercati. Non è un caso se Joe Biden è stato il primo a congratularsi e a volerlo incontrare «subito» per mettere a punto un piano comune di abbattimento delle emissioni dei gas tossici. Il primo presidente di sinistra ha voluto dare un segnale in più. Concreto, tangibile: ha corso in coppia con Francia Marquéz, attivista ambientale e femminista di origini afro-colombiane. Sarà la prima donna di colore come vicepresidente. Il suo contributo è stato determinante per la vittoria. Obrador in Messico crede ancora nel petrolio e cerca posizioni egemoniche sui minerali emergenti come il litio. Si cura poco dell’ambiente, polemizza con i movimenti femministi, banalizza l’altissimo numero di violenze e di femminicidi che si registrano nel Paese. Stessa cosa nei confronti dei giornalisti che lo accusano di scarsa attenzione alla raffica di omicidi da parte dei sicari dei Cartelli. Naviga in acque agitate e il suo consenso è dimezzato rispetto a tre anni fa. Xiomara Castro tenta di riportare giustizia ed equità sociale nell’Honduras sempre sacrificato dagli interessi Usa. Alberto Fernández deve fare i conti con l’eterno debito argentino e soffre degli attacchi della sua vice Cristina de Kirchner che agita la piazza dell’ala peronista. Si aspetta il 2 ottobre per capire chi guiderà il Brasile nei prossimi 4 anni. Lula è in testa ma per sconfiggere Bolsonaro dovrà offrire una proposta nuova, diversa da quello che lo vide guidare l’ondata rossa del secolo scorso. Guardando alla fame che aggredisce 3 cittadini su 10. Ma anche all’Amazzonia e alle energie alternative. Per rispondere alle richieste di integrazione delle oltre 300 tribù indigene e assolvere all’impegno internazionale di salvare il polmone del mondo. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

Foto: Getty Images (2), Reuters / Contrasto (2)

governi, oggi il motore del cambiamento nasce dal deterioramento degli indicatori sociali in gran parte del Continente. Pesa il fatto che i leader di quell’epoca si sono ritirati o sono morti. Il consenso deve essere ampio, chiaro. E per ottenerlo chi guida oggi la sinistra deve rivolgersi al centro. Lula lo ha capito e ha indicato come vice il suo storico avversario, il socialdemocratico Geraldo Alckmin. «Cercare l’intera fusione delle forze progressiste come entità comune è una chimera. C’è forse più dissonanza che incontri nelle proposte», osserva ancora Garavito. Gabriel Boric ha messo in cima alle sue priorità le rivolte dei Mapuche, l’etnia indigena che infiamma il Sud, e la riforma del fi-

La politica e i bisogni


BIKE il magazine della Smart Mobility


La geopolitica degli affari

TAIWAN IL DRAGO IN ANSIA SI FA MINACCIOSO L’ECONOMIA CINESE RALLENTA E LA PROVA MUSCOLARE SULL’ISOLA TRADISCE LA VOLONTÀ DI XI DI RIAFFERMARE IL PROPRIO RUOLO. ANCHE RISPETTO AGLI STATI UNITI DI FEDERICA BIANCHI

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l presidente cinese Xi Jinping avrebbe potuto glissare sulla visita a Taiwan della speaker della camera americana Nancy Pelosi, magari enfatizzando le parole del presidente Joe Biden su come gli Stati Uniti non abbiano nessuna intenzione di modificare la politica di «una sola Cina» e ricordando che gli incontri con le autorità taiwanesi fanno parte di questa politica. Ma non l'ha fatto. Ha invece minacciato Biden durante una video-chiamata: «Chi gioca col fuoco finisce per bruciarsi». Per i giorni successivi alla partenza di Pelosi ha organizzato esercitazioni militari intorno all'isola, sia nelle acque dello Stretto sia nello spazio aereo taiwanese. Ha persino bloccato le importazioni di oltre 100 popolari prodotti taiwanesi. Il presidente cinese più potente da Deng Xiaoping negli anni Ottanta sembra essere alla ricerca del "casus belli". Sono tre anni che Xi ha preso a dipingere il nemico Usa con pennellate decise e colori vividi. E da almeno un paio di anni ha fatto capire che intende riunificare Taiwan con la forza, visto che decenni di persuasione economica e politica non hanno funzionato. L'isola a est della provincia del Fujian, dove la Cina sta concentrando i suoi mezzi militari, è il luogo in cui nel 1949 si erano rifugiati, sconfitti, gli avversari dei maoisti, trascinandosi dietro buona parte del tesoro reale. Con gli anni è diventata una prospera democrazia, la 21esi-

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ma economia mondiale, protetta dagli Usa e in ottimi rapporti con l'Occidente, nonostante la Cina abbia convinto le nazioni dell'Onu a non riconoscerla come nazione indipendente. Di finire come Hong Kong, Taiwan non ha nessuna intenzione. Ma oramai è chiaro che l’isola sia nelle mire dirette del partito comunista cinese, che intende forzare lo status quo, in una dimostrazione di forza nazionale, di cui ha grande bisogno. Fino ad oggi era stata l'economia a garantirne il potere: in quarant'anni la Cina è passata da Paese in via di sviluppo a seconda economia mondiale, traghettando un miliardo di persone al di fuori della povertà. È diventata prima la culla manifatturiera del mondo e poi il suo nuovo polo tecnologico, sfruttando ogni pertugio aperto dalla globalizzazione occidentale. Complice il Covid e il massiccio invecchiamento di una popolazione che per anni non ha potuto fare figli, adesso l'economia ha preso a rallentare. Non solo non cresce più a due cifre ma non centra nemmeno il più modesto obiettivo del 5,5 per cento: lo scorso trimestre è cresciuta solo dello 0,4 per cento e le attese per l'intero anno si fermano al 4. Federica Bianchi «Xi ha spostato la sua fonte di legittimità Giornalista dalla crescita economica, che non tornerà


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Militari taiwanesi resistono alla simulazione di un’invasione cinese

più ai livelli degli anni passati, ad un senso di prestigio nazionale», dice Gerard DiPippo, senior fellow al Center for strategic & international studies. E dunque non esita più a fare valere la sua raggiunta forza economica anche sulla scena geopolitica. Soprattutto contro quella che reputa la potenza globale al tramonto a cui aspira a sostituirsi nella seconda parte di questo secolo: il 2049 marcherebbe un secolo di vita del partito comunista. L'economia cinese avrebbe dovuto continuare a crescere per almeno un altro decennio così da consolidare la posizione di Pechino nel mondo. Invece sta subendo un pesante rallentamento. Lo scorso luglio l'attività economica è inaspettatamente diminuita in tandem con le vendite immobiliari, cuore dell'economia domestica. L'indice manifatturiero delle aziende è sceso a 49 dal 50,2 di giugno, evidenziando le attese di un'ulteriore contrazione. Milioni di nuovi laureati faticano a trovare lavoro. I vaccini cinesi si sono dimostrati molto meno efficaci di quelli occidentali, costringendo il governo a scegliere tra milioni di morti o milioni di internati, con il risultato di paralizzare migliaia di aziende. Il mercato immobiliare, che rappresenta un terzo del Pil cinese, e che negli anni ha arricchito imprenditori, funzionari governativi locali e banche, è ora bloccato. Con la stretta sui crediti voluta da Pechino per arginare un indebitamento fuori controllo,

centinaia di aziende edili sono andate in bancarotta, e migliaia di appartamenti non sono stati consegnati, spingendo i cittadini a smettere di pagare il mutuo con chiare conseguenze per gli istituti creditizi. Il partito teme a tal punto le conseguenze sul piano della stabilità sociale che la Banca centrale è stata costretta ad annunciare ben 148 miliardi di euro in fondi di sostegno al settore creditizio. Resta il dato che l'economia pre-Covid non tornerà più e che la globalizzazione che aveva spinto la Cina tra le nazioni più ricche del mondo sta prendendo forme molto diverse. Un esempio eclatante, che potrebbe avere conseguenze importanti sia per l'economia cinese sia per l'ordine mondiale, è la prossima uscita di centinaia di aziende cinesi dalla Borsa di New York. Gli Usa hanno varato nel 2020 una legge che richiede a tutte le aziende straniere di rendere accessibili alle autorità le revisioni di bilancio compiute dai loro consulenti ma Pechino si rifiuta di farlo per centinaia di aziende "sensibili" come Alibaba. Una situazione che potrebbe accelerare il decoupling, ovvero la separazione tra le due grandi economie mondiali che fino a un paio di anni fa lavoravano ad integrare le loro catene del valore. La visita di Pelosi alla presidente Tsai Ing-wen, 25 anni dopo quella compiuta dello speaker Newt Gingrich, che aveva però visitato Pechino prima di approdare a Taipei, non poteva essere pianificata in un momento più critico o più opportuno, a seconda dei punti di vista. La terza carica degli Stati Uniti, che da anni si espone in prima persona contro gli abusi dei diritti umani da parte cinese, dopo avere rimandato la visita prevista in primavera perché ammalata di Covid, è giunta sull'isola il 2 agosto, ovvero il giorno dopo la festa nazionale cinese in onore dell'esercito e nel bel mezzo delle esercitazioni militari annuali. Soprattutto, a solo un paio di mesi di distanza da quel congresso bi-decennale del Partito in cui avverrà il rimescolamento delle più alte cariche dei 25 membri del Politburo e in cui il presidente chiederà di rimanere in carica per un terzo mandato, dopo avere già abolito la regola del tetto ai due mandati applicata a tutte le altre alte cariche politiche. Almeno fino a quando non sarà stato formalmente confermato in carica, Xi non può permettersi debolezze ma nemmeno colpi di testa. Dunque via libera alle minacce, alle dimostrazioni muscolari ma non a una vera e propria invasione dell'isola. Fino all'anno prossimo. Dal loro canto anche gli Stati Uniti, che internamente sono profondamente divisi su tutto tranne che sulla Cina, non possono mostrarsi deboli verso Pechino e verso un attacco alla democrazia. Non adesso che sostengono l'Ucraina contro la Russia. In questo contesto la visita di Pelosi, acerrima nemica dei repubblicani, è stata un irrinunciabile punto di orgoglio nazionale bypartisan. Come lei stessa ha twittato: «La solidarietà dell'America ai 23 milioni di taiwanesi è ora più importante che mai: il mondo si trova di fronte alla scelta tra autocrazia e democrazia». Una scelta però che non potrà che passare per la via delle armi. I taiwanesi non hanno dubbi: i venti di guerra tornano a soffiare sul Pacifico orientale. n © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Campionato al via

LA LOTTERIA DEL

PALLONE DI GIANFRANCESCO TURANO

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ancano solo pochi giorni all’inizio della lotteria più amata dagli italiani. È il campionato di serie A, presentato di volta in volta come sport, entertainment business, comitato d’affari che garantisce relazioni e immunità. Ma è la prospettiva del colpo fortunato a tenere insieme tutto. Urbano Cairo, per esempio, editore del Corriere della Sera, ha incassato 41 milioni di euro dalla Juventus per il Bremer (50 milioni con i bonus). Con la cessione del difensore brasiliano il proprietario del Torino si è rifatto quasi in toto dei 70 milioni sborsati per chiudere il contenzioso sulla sede di via Solferino con Blackstone e può finalmente dimenticare di avere rifiutato 75 milioni di euro dal Milan per Andrea Belotti cinque anni fa, quando il “Gallo” segnava a raffica. Altro vincitore del 2022 è Rocco Commisso, numero due fra i presidenti più ricchi del campionato con 6,1 miliardi di patrimonio, uno in meno di Silvio Berlusconi. Il patron italoamericano della Fiorentina riqualificherà il Franchi nel quartiere Campo di Marte con un investimento di 150 milioni di euro entro la stagione 2026-2027. Circa due terzi di questa cifra, per l’esattezza 95 milioni, arriveranno dal fondo complementare al Pnrr, circostanza che ha suscitato le critiche di un tifoso viola certificato come l’economista Lorenzo Bini Smaghi. Fra i premiati c’è anche il tempestoso Aurelio De Laurentiis, multiproprietario del Napoli e del Bari appena risalito in serie B dopo il fallimento del 2018. Per evitare contenziosi

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giudiziari con il produttore cinematografico, il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina ha deliberato di prorogare dal 2024-2025 al 2028-2029 la cessione immediata per chi possiede più club nelle serie professionistiche come ha dovuto fare a dicembre 2021 Claudio Lotito vendendo la Salernitana a Danilo Iervolino (editore de L’Espresso, ndr). Il flirt con la sorte sembra essere la vera anima di un sistema che, sul piano della solidità ordinaria, non esce da tre decenni di crisi strutturale. Per dovere di cronaca e quasi stancamente, a ogni debutto di stagione si riportano dati in peggioramento. Secondo il report Figc di metà luglio l’indebitamento complessivo è arrivato a 5,4 miliardi con una perdita aggregata di 1,3 miliardi. La freccia in basso non riguarda solo l’esercizio precedente ma, in modo ancora più spettacolare, il confronto con gli altri quattro tornei continentali di prima fascia. Nella stagione 2019-2020 investita dalla pandemia, la serie A è quarta su cinque per ricavi totali davanti soltanto alla Ligue 1 francese con 2 miliardi di euro di fatturato, lontano dai 3,1 della Liga spagnola, dai 3,2 della Bundesliga tedesca, e lontanissimo dai 5,1 miliardi della Premier inglese. Siamo invece quinti su cinque nel tasso di riempimento degli stadi con il 61 per cento, a distanza dalla Francia (74 per cento), della Gianfrancesco Turano Spagna (75 per cento), della Germania (88 Giornalista per cento) e degli inventori del football che,


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Un’azione della partita amichevole Juventus-Chivas giocata a Las Vegas

tatura della tv a pagamento, primo finanziatore del calcio, non sempre si concilia con la folla in gradinata. Il derby di Milano sabato 3 settembre alle 18 farà comunque il sold-out, ma molti match fra A e B sono programmati in infrasettimanali del primo pomeriggio. Il calendario sarà ancora più caotico in un campionato che parte prima di Ferragosto in nome del Mondiale del Qatar, primo invernale della storia e secondo consecutivo senza gli azzurri. Anche se comanda chi paga, cioè le tv, gli introiti dalle piattaforme stentano a decollare e il confronto con i grandi tornei d’Europa è mortificante. La Premiership potrà contare per il triennio 2022-2025 su complessivi 12,4 miliardi di euro, oltre 4 miliardi all’anno. Più della metà del totale (6,3 miliardi nel triennio) arriva dai diritti internazionali, che superano per la prima volta il mercato interno. Il contratto 2021-2024 porta alla serie A ogni anno 1,1 miliardi di euro. Di questi, solo 200 milioni di euro arrivano dalle pay-tv estere. La continua fame di denaro crea discordie e un dialogo difficile tra la Federcalcio, affiliata al Coni, e la Lega, l’assemblea dei presidenti. I due principali organi di governo sono finiti in tribunale per l’indice di liquidità, il parametro che la Federazione vorrebbe introdurre per tenere in equilibrio attività e passività correnti su un parametro dello 0,5 per cento. La Lega di A si è opposta alla Figc che, dopo avere perso di fron-

Foto: Ethan Miller / Getty Images

LO STADIO DI FIRENZE CON I SOLDI DEL PNRR, DEROGHE AD PERSONAM, EXPLOIT DI MERCATO. IL CALCIO IN DEFICIT CONTA SUI COLPI DI FORTUNA nonostante il caro prezzi spesso denunciato dalle associazioni di tifosi, si avvicinano al tutto esaurito permanente con il 97 per cento. Che il calcio sia la prima religione del Regno Unito è confermato dal record di presenze in ambito Uefa conquistato da Inghilterra-Germania del 31 luglio scorso. Per la finale dell’Europeo Women si sono contati sugli spalti di Wembley oltre 81 mila spettatori mentre ancora in Italia molti club di prima divisione nicchiano rispetto all’obbligo di organizzare una squadra femminile sebbene da questo luglio la Figc abbia inquadrato il calcio femminile nello sport professionistico. Nella lotteria del calcio nazionale gli stadi perdono quasi sempre. Gli impianti italiani hanno un’età media di 62 anni e pochissime squadre giocano in strutture di proprietà (Juventus, Udinese, Atalanta, Sassuolo). Ma è anche vero che la dit-

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Campionato al via

Maldini. La Juventus vuole tornare alla dittatura dei nove campionati vinti in fila e ha ricomprato Paul Pogba, peraltro già rotto. Ottimo calciomercato per l’As Roma di José Mourinho che il proprietario Usa Dan Friedkin ha tolto dal listino di Borsa dopo un’avventura finanziaria non proprio brillante iniziata nel 2000 ai tempi di Franco Sensi e ormai ampiamente ripudiata in gran parte del continente dopo l’ubriacatura a cavallo del cambio di millennio. Oltre alla normale alea del risultato è possibile che il demonio della contabilità turbi lo svolgimento del torneo. L’Inter che si è riIl presidente della Federazione Calcio Gabriele Gravina. Sotto: Rocco Commisso, patron presa Romelu Lukaku dal Chelsea, sia pure della Fiorentina (a sinistra) e il presidente del Milan Paolo Scaroni in prestito, non è del tutto tranquilla. L’azionista di riferimento Suning, che ha dato il capitale nerazzurro in pegno al fondo Oaktree, non ha ricevuto buone notizie da Pechino. Il governo cinese ha annunciato che non intende salvare Evergrande, colosso immobiliare sull’orlo del fallimento che deve 2,6 miliardi di euro al gruppo Suning. Altra gatta da pelare è quella di DigitalBits. Il main sponsor del club milanese è stato cancellato dalle maglie per ritardi nel pagamento di un quadriennale da 85 milioni di euro, che peraltro prevedeva una microrata da 5 milioni te al tribunale sportivo, ha fatto ricorso al Tar del Lazio. per il primo anno e 26-28 milioni dal secondo al quarto anno. Fra le poche buone notizie spicca l’ultimo anno di lotteria Eppure, nonostante gli inciampi momentanei di questo o vincente per i procuratori. Dal giugno 2023 entreranno in vi- quel club, la corsa degli investitori alla lotteria del calcio itagore le nuove norme Fifa che fissano un tetto massimo alle liano continua. A oggi quindici squadre italiane nelle prime commissioni per i passaggi di mercato, oltre a un albo inter- due serie sono controllate da entità finanziarie estere fra le nazionale degli agenti basato anche su criteri di comporta- quali dodici fondi Usa. Altre società hanno trattative in cormento professionale. Era ora. Nel 2021 sei club di A hanno so. Il 13 agosto parte anche la serie B che, quest’anno, è in versato agli agenti un totale di 111,7 milioni di euro in una effetti un’A2 visto il parco delle partecipanti (Cagliari, Genoa, classifica guidata dalla Juventus con 28,9 milioni, dall’Inter Venezia, Bari, Palermo, Parma). E proprio nella “serie cadetcon 27,5 milioni e dalla Roma, che in seguito ha introdotto ta”, come veniva chiamata nel linguaggio sportivo di un temunilateralmente un tetto del 10 per cento, con 26 milioni di po, c’è il patrimonio più formidabile. Sono i 41,8 miliardi di euro. Almeno in questo caso l’Italia non vanta primati nega- dollari dei fratelli sino-indonesiani Michael e Budi Artono, tivi. Il recente passaggio del centravanti norvegese Erling Ha- rispettivamente numero 64 e 69 nella lista dei miliardari di aland dal Borussia Dortmund è costato 60 milioni di rescis- Forbes nel 2022. I proprietari del Como stanno investendo a sione più 40 milioni di commissioni pagati dal Manchester piene mani con l’obiettivo della serie A. L’uomo copertina dei city agli eredi di Mino Raiola, scomparso il 30 aprile. La mor- lariani è il neoacquisto Francesc Fàbregas Soler detto Cesc, te del superprocuratore di origine campane forse segna la fi- 35 anni e 110 partite con la nazionale spagnola. Il centrone del sistema delle commissioni che nel 2019 hanno rag- campista catalano ha vinto due Europei, un Mondiale e una giunto la cifra globale di 7 miliardi di euro, pari alla somma dozzina di competizioni di club soprattutto con l’Arsenal. I dei ricavi delle prime quattordici società calcistiche del ran- fratelli Artono gli hanno affidato la regia in campo del club king mondiale. lombardo controllato dalla londinese Sent entertainment. L’aspetto sportivo della lotteria si preannuncia interes- Fàbregas è anche diventato azionista del Como, con una forsante. Il Milan campione ha trovato un nuovo assetto azio- mula di ingaggio piuttosto innovativa. Per l’amministrazione nario con l’arrivo del fondo RedBird di Gerry Cardinale ma è stato scelto Dennis Wise, ex star del Chelsea. Per il calcio non ha cambiato la sua politica in campo: giovani promet- italiano, a furia di lotterie e programmazione scadente, il ritenti e usato sicuro. Anche il management è stato confer- schio è diventare colonia. Q mato dal presidente Paolo Scaroni al direttore tecnico Paolo © RIPRODUZIONE RISERVATA 66

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L’Eros in un racconto

L’ a bisso del di Matteo Nucci illustrazione di Antonio Pronostico

Caldo rovente. Una stazione di campagna. E una bugia che riaffiora: “Sei l’unico”. Con una storia di passione e seduzione, prosegue la nostra serie sugli amori d’estate


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L’Eros in un racconto ho riconosciuta subito, mentre scendeva dal treno. Inconfondibile nel passo e nello stile. Quell’eleganza povera solo per chi non ne sa nulla. I colori accesi delle scarpe. Gli accostamenti strambi. L’aria fintamente svagata. La seduttività a ogni costo. Il tradimento nell’anima. Non si cambia mai – mi è venuto da dire. Gli esseri umani sono quel che sono. Si passano vite girando attorno al buco nero dell’infanzia. E hai voglia a frequentare gli esperti della psiche. A che serve? Poi però mi sono accorto che io invece stavolta fingevo di non vederla. E allora forse un po’ si può migliorare – ho detto, prendendomi in giro. Forse qualcosa è possibile. Senonaltro nei casi in cui hai conosciuto a fondo l’abisso del desiderio e sai quando è meglio non sprofondarci. Dicevo così, mentre le cicale dominavano sulla stazione di campagna e un caldo assassino scendeva come una cappa sui binari arroventati. Sì che ero cambiato. Lì sulla banchina, più di quindici anni dopo, ero uno che aveva raffinato l’arte di sollevare lo sguardo e non vedere ciò che non si ha voglia di vedere. Ero un provetto mentitore adesso. Avevo appreso quella maniera di tenere gli occhi puntati nel vuoto che è l’unico modo perché l’altro abbia la percezione di non essere visto. Cantate cicale, fatemi godere – bisbigliavo. E subito mi prendeva un’altra idea. Quella del tutto opposta. Chissà, infatti, se davvero lei mi aveva visto e riconosciuto, come pretendevo. E in quel caso, chissà se aveva realmente creduto alla mia finzione. In realtà, chi è tanto abile nel fingere, generalmente è anche capace di svelare in un attimo la finzione altrui. E allora altro che cicale. Ero io il fallito. E lei dominava ancora incontrastata. Ma no, no, no! Cosa sono questi ridicoli lambiccamenti del cervello? Su, lascia stare – mi sono ripetuto. Eppure le immagini del passato prendevano il sopravvento e intanto cercavo un bar. Sono passato davanti ai bagni. Bagni a pagamento: così c’era scritto. La stazione,

Quindici anni dopo, ero uno che aveva affinato l’arte di sollevare lo sguardo e non vedere ciò che non si ha voglia di vedere. Ero un provetto mentitore 70

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ormai svuotata di biglietterie umane e di addetti ai binari e di giornalai, aveva chiuso anche i cessi. Un mostro di solitudine nell’afa. Solo le cicale. E lei che un giorno comparve nel bagno del ristorante e mi spinse dentro con i suoi occhi trasognati inginocchiandosi. Non era qui. Doveva essere dalle parti di Vejo. Qui non passammo in treno. Ci incontrammo direttamente al mare. Lei aveva detto a suo marito che andava a trovare la cugina. Forse anche adesso andava a trovare la cugina? Forse anche adesso, come sempre, fingeva. «Sei l’unico per me» diceva, e io le credevo. Non le chiedevo nulla. Eravamo in casa e inventava storie per me, storie bambinesche narrate con la voce flautata, cantilenante e mi si stendeva vicino e bisbigliava. «Sei l’unico». Così mi addormentavo. E quando al risveglio aveva una linea sul viso che scompariva appena la guardavo, non pensavo a niente, se non che avesse sonnecchiato male e che desiderasse scendere al mare, dove voleva stendersi nuda, fra gli scogli, e vergognarsi e non vergognarsi, dicendomi che con me stava come con nessuno. Nessuno.


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PAROLE D’AMORE

Non c’era più nessuno al bar della stazione. Sprangato. Come tutto. Sono tornato indietro fra le valigie disseminate da chi si era seduto lungo il filo d’ombra aspettando la coincidenza. Ho controllato i monitor. Il binario era ancora incerto. Tre quarti d’ora di attesa. Lei era sparita, per fortuna. Ho attraversato la sala d’attesa in cui due ragazzi stavano accoccolati a baciarsi. Che estate vi aspetta? Dove andrete? Siete felici? Mi sarebbe piaciuto sedermi lì a chiedere loro come avessero passato i giorni prima della partenza: avevano corso in motorino per le vie della città infestata di caldo, senza meta, mangiando l’aria fresca della sera, incontrando amici, dimenticando tutto il resto? Ero a San Lorenzo, in una di quelle notti estive, quando lei mi richiamò. Era un bar che allora aveva appena aperto, nel giardinetto davanti alle pizzerie di via Tiburtina. La sua voce suonò giocosa, leggera, come se tutto fosse casuale e imprevedibile. Mi diceva che voleva rivedermi: avevo qualcosa da fare? Figuriamoci. Nulla avevo da fare. Non le chiesi del marito. Non le chiesi cosa le avesse fatto cambiare idea e volai da lei. Si era sposata

Il mare, le vacanze, l’innamoramento, il desiderio, il piacere. L’Espresso ha chiesto ad alcuni tra i nostri più amati scrittori un racconto inedito. Per raccontare una passione, rivivere un amore, ripercorrere un’emozione esplosa d’estate. La serie è iniziata il 31 luglio con il revival di un amore giovanile: la prima volta la notte dell’11 luglio del 1982, l’indimenticabile data della finale dei mondiali di calcio vinti dall’Italia: “Cabina 82” di Viola Ardone. Sopra: l’autore del racconto di questa settimana, lo scrittore Matteo Nucci, 51 anni

troppo giovane – così pensavo. Non aveva figli. E sarebbe stata con me. Presto o tardi sarebbe stata con me. Ci credevo davvero. Ma non mi interrogavo. Ero soltanto pieno di un fuoco che mi mangiava il corpo. E che mangiava il suo. Lo divorava. E infatti la divorai, appena mi spinse a salir su per la scala oscura nella villa dei genitori. E quando mi avventai rideva e diceva «incredibile, incredibile, sei incredibile». Poi me ne andai nella notte. All’alba anzi. C’erano già le luci di luglio al mattino quando mi svegliò dicendo che dovevo filare. Filare. Ecco proprio così. Ma cosa mi importava delle parole? Era tornata con me, questo era il punto. Per mesi fece così. Andava e veniva. Poi finì davvero. Nel piazzale davanti alla stazione ciondolavano due tassisti. Ho chiesto il prezzo per il porto. Esorbitante. Sono andato avanti verso la fermata del bus e ho cercato di interpretare i geroglifici dell’orario. Ho concluso che c’era solo il trenino anche se su quel trenino avrei trovato lei e non volevo più vederla, anzi dovevo riuscire a non vederla, a non salutarla, a non domandarle dei figli, a non farmi catturare dal viso sghembo che mi aveva appassionato e che ora – me lo confermavano in molti – era rovinato da quelle punturine a cui ogni donna ricorre, credendo in qualche fantasma dei nostri giorni. Non volevo vederla, non volevo essere deluso, e non volevo desiderarla, non volevo cadere nei suoi occhi sbiaditi che cercavano sempre sesso. Una donna così. Così sublime. Così gretta. Perché c’era solo grettezza in quella lettera che mi scrisse proprio su un treno, per dirmi che no, non ci saremmo visti mai più. Era una lettera piena di riferimenti ambigui e spiegazioni ridicole, incomprensibili, non richieste. Ma non era tanto la lettera il problema. Nessuna dichiarazione di addio è mai geniale a meno che non si limiti a un biglietto o un saluto. Che spiegazioni puoi dare mai? Figuriamoci dopo aver vissuto quello che avevamo vissuto noi. Ma no. La questione fu quando, dopo tutta quella lettera, di nuovo tornò. Fu quasi un anno dopo. Perché per mesi mi fece soffrire come un cane – inutile nasconderlo. Le avevo creduto e ora mi lasciava? Mesi e mesi di vuoto, di malinconia e abbandono. Poi conobbi la sua amica e iniziai a dimenticarla, e allora fu un lampo: eccola di nuovo. Le immagini del suo ritorno mi passavano davanti agli occhi e improvvisamente mi 7 agosto 2022

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Idee

L’Eros in un racconto

sono accorto che, dall’altra parte della strada, all’angolo, c’era un bar. L’insegna barcollava fra tavolini vuoti e la desolazione di un tappeto di prato finto, molto verde, molto sporco. Sono entrato. Ho chiesto una bibita fresca e intanto lei la rivedevo sotto alla mia finestra. «Sono qui» aveva detto spiegandomi che non c’erano pericoli perché aveva appena lasciato la cena a cui partecipavano sia il marito che la sua amica. «Non vuoi tradirla? Mica ti vede. È a cena. E comunque non tradisci lei. Tu stai tradendo me» così disse ridendo, poi fece «Solo un momento, dai, lasciami salire, ho poco tempo, non voglio fare nulla con te, non voglio provocarti». E infatti, dopo poco, eravamo a letto e lei teneva la testa rivolta verso il soffitto e diceva «finalmente, finalmente sei tornato» e io sudavo e a un certo punto il telefono suonò, era suo marito e lei mi disse di non spostarmi, solo di fermarmi, rispose al telefono e io la guardavo sconvolto e cercavo di capire se fosse vero o no, perché lei, in un tono gioioso e sereno, sotto di me, senza guardarmi, diceva «Amore, sì scusa, adesso arrivo, ma certo, sì, cosa dici?, sto veramente venendo, ma certo, sono passata a casa come ti avevo detto, sì, e adesso ci sono, quasi ci sono, vengo in un attimo, c’è traffico, sì, nonostante l’ora, c’è traffico, ma fra poco sono lì». Poi attaccò, smise improvvisamente la voce allegra con cui aveva parlato a suo marito in finzioni piene di verità, e si rivolse a me con l’autorità cavernosa carnale autoritaria del sesso, imponendomi di continuare, anzi di finire, «ma per favore non sporcarmi il vestito». Ho sentito la limonata fredda che mi gorgogliava in gola mentre due voci di ragazzi dietro di me blateravano del mare pieno di gente e di un locale dove erano stati la sera. Poi ho guardato nella vetrina dei panini se qualcosa poteva accompagnarmi nella fine del viaggio e dopo un attimo ho sentito la porta aprirsi. Anche lei aveva cercato un bar e ora stava entrando e dunque stavolta dovevo essere proprio bravo per non lasciarle

Ero soltanto pieno di un fuoco che mi mangiava il corpo. E che mangiava il suo. Lo divorava. Infatti, la divorai. Mentre lei rideva e diceva “Sei incredibile” 72

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credere che l’avevo vista. Ho pagato. Mi sono mosso sempre puntando gli occhi lontano da lei, le sono passato accanto e in quel momento lei si voltava e quindi ho potuto finalmente guardarla con calma da dietro. Si era messa di spalle a me verso il muro. Stava ferma, immobile come un ramarro nel sole. Una posa talmente assurda e innaturale – guardava il muro davanti a sé, il muro spoglio, dentro a un bar, solo muro – che ho capito tutto. Lì per lì volevo ridere e darle una pacca sulla spalla. Volevo dirle: «Sara. Mia dolce Sara. Non sei cambiata proprio per niente. Questa è la stessa identica mossa che facesti quando non volevi più sapere nulla di me e non rispondevi al telefono, non leggevi i miei messaggi e io soffrivo e giravo per Roma cercandoti e una sera arrivai a Trastevere e ti vidi, eri tu, e tu capisti che ero io, ma non sapevi affatto che ti avevo riconosciuta fra i ragazzi fuori dalla galleria d’arte e così ti voltasti verso il muro mentre io passavo, ti voltasti proprio come ora, eri una statua rivolta al muro, perché io non ti vedessi, non ti riconoscessi, come se una donna possa essere riconosciuta solo dal volto, come se girandoti tu non ci fossi più, perché quel che non vedevi non c’era. Una scelta così assurda che quella sera neppure ti salutai. Mi mancava il respiro, volevo stringerti, ma neppure ti salutai. Tirai dritto e me ne andai a casa pensando che una donna così non valeva nulla. Però poi, quando mesi dopo tornasti sotto casa mia tradendo sia tuo marito che la tua amica, io ti aprii subito. Adesso no, non ti aprirei più. E non voglio nemmeno vederti e salutarti. E anzi io sono cambiato e ho imparato l’arte della finzione. E tu devi esserci cascata. Perché mi hai visto eccome e adesso speri che io non ti veda. E non sai che sono io a fingere di non vederti. Non hai capito nulla. Gli anni passano per tutti, ma tu continui a essere quella che sei sempre stata». Sono uscito nel caldo atroce e mi sono avviato verso il trenino. Ho preso posto nel primo vagone aspettando la partenza. Difficilmente sarebbe salita lì. Difficilmente avrei dovuto fingere ancora. Ho sentito una porta sbattere. Sul fondo del treno c’era l’antico bagno con la porta metallica. Ho immaginato che salisse ora e mi facesse segno di seguirla. Allora molto probabilmente sarei andato. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA


Bookmarks/i libri A cura di Sabina Minardi

STORIA DI UN “IO” INVENTATO Un incontro, uno spettacolo, una passeggiata. Cordelli in 48 testi

PAOLO DI PAOLO Occorre – visto che ci autorizza lui – immaginare l’autore alle prese con testi scritti nell’arco di quattro decenni. Li rilegge, li corregge, ma soprattutto li riorganizza e riadatta in una sorta di domino. La cronologia originaria si perde a favore di un tempo diverso: un tempo, per l’appunto, narrativo, romanzesco; di un romanzo scritto per tessere spurie, negli anni, e che in modo imprevisto si ricompone. È un esperimento interessante quello che Franco Cordelli propone con Tao 48 (La Nave di Teseo): il collante è il personaggio, l’alter ego dell’autore, che attraversa la vita e i suoi “casi”, nel senso talvolta proprio di casi clinici, le sue rivelazioni (è un libro fatto di rivelazioni), i suoi miracoli terreni. Si tratta di istanti dilatati dall’intensità della scrittura, sogni anche a occhi aperti, desideri erotici e intellettuali – tutti vissuti nella stessa città, Roma, la cui geografia (e toponomastica) diventa geografia emotiva. I testi, dice o sembra dire il titolo, sono 48, però il lettore ne conta 32 effettivi, e anche questo fa effetto: che ci siano tessere e storie invisibili, o cancellate. Un passaggio dell’infanzia o della giovinezza, un film, un incontro perturbante,

una passeggiata, uno spettacolo visto a teatro (c’è molto teatro: nei nomi shakespeariani dei personaggi femminili e nei lampi dell’esperienza del Cordelli critico teatrale), una lettura, una festa. Il tempo della nostra vita di che cosa è fatto? Le frequentazioni, le amicizie, il conversare. Le passioni. I legami. Il modo in cui li condiziona, o li infiltra, la cosiddetta Storia. Gli amici, i “nemici”, i maestri (con le loro angoscianti contraddizioni: appare, non nominato e riconoscibile, Strehler in pagine bellissime). Userò, per definire questo insolito e avvolgente libro, un’espressione di Antonio Tabucchi (appare anche lui, senza cognome e in modo spiazzante, nel primo testo): una «autobiografia altrui». Non un memoir, non la solita autofiction: la storia di un “io” inventato, ma nel senso proprio dell’etimo. Scoperto, dissotterrato, riportato alla luce. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

“TAO 48” Franco Cordelli La nave di Teseo, pp. 152, € 20

Settembre 1989. Una diciassettenne scompare da un villaggio sulla costa dalmata. Apparentemente è una studentessa qualunque; ma, scavando, qualcosa non torna: droga, soldi, e forse una fuga ora, come sostiene un testimone. Mentre il regime di Tito si sgretola, la cittadina e la famiglia di Silvia assistono alla fine delle loro certezze. Un mistero che solo anni dopo, quando la storia della ex Jugoslavia avrà fatto il suo doloroso corso, si svelerà.

La solitudine, la fatica di rintracciare un’identità, la responsabilità verso la memoria. E l’epopea dei sefarditi, dal Medioevo al Novecento, in una emozionante storia familiare. Un racconto di donne, della loro malinconia, dei loro matrimoni, dei rapporti inquieti con figli cresciuti lontano dalle origini e condannati a muoversi ancora. Al centro, la figura dell’esule Vidal, che condensa la storia di un popolo. Tra Londra, Stoccolma e l’originaria Salonicco.

Un ristorante di lusso a Oslo. Una brigata in cucina dalle rigide regole. E un cameriere che tutto osserva e annota: le relazioni tra colleghi, i tic dei clienti, l’ordine necessario al funzionamento di questo microcosmo. Finché una giovane donna non sconvolge le abitudini di questo delicato mondo, seminando il caos. Dall’artista scandinavo una potente, caustica metafora di una società vecchia, sul punto di finire. E su una contemporaneità pronta a travolgerla.

“ACQUA ROSSA” Jurica Paviþiü (trad. Estera Mioþiü) Keller editore, pp. 367, € 18,50

“ABBANDONO” Elisabeth Åsbrink (trad. Alessandra Scali) Iperborea, pp. 316, € 18,50

“IL CAMERIERE” Matias Faldbakken (trad. M. Podestà) Mondadori, pp. 213, € 19 7 agosto 2022

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La storia invisibile

Vite da

spia

Rete Alice. Andrée Raymonde e la sua compagna. La miss polacca nel 1930. Non solo Mata Hari. Un saggio ricostruisce le storie delle agenti segrete, che hanno cambiato il mondo di Giuseppe Catozzella

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Idee

Foto: Getty Images, Ipa, Alinari

U

Da sinistra, in senso orario: prigionieri tedeschi radunati dai soldati della 9° armata, nel 1945; la spia francese Louise de Bettignies; l’agente polacco Maria Krystyna Skarbek; Andrée Raymonde Borrel

na spia al posto giusto sostituisce ventimila uomini al fronte, diceva Napoleone. Mappare in presa diretta la geologia dei servizi segreti è impossibile, dal momento che i documenti sono classificati. Ma ciò che veniamo a sapere dal loro progressivo desecretamento è da un lato che in un mondo sempre in bilico su un instabile equilibrio tra pace e guerra è l’azione sotterranea dei servizi di spionaggio a mantenere la pace finché dura o a guidare la guerra poi; e dall’altro che spesso ciò che di ufficiale viene emanato dagli uffici stampa dei governi, anche in tempo di pace, nasconde un fittissimo e sotterraneo lavoro di intelligence che serve a depistare il nemico (ci rendiamo per esempio conto oggi, nel pieno della guerra tra Russia e Ucraina, di come la guerra stessa sia innanzitutto propaganda, e di come riuscire a far passare un’affermazione per vera, nell’infinito gioco caleidoscopico delle propagande incrociate, valga più della presa di una città). Il lavoro dei servizi segreti guida sotterraneamente quello dei governi, e invisibilmente disegna il mondo in cui ci muoviamo. Più che i film d’azione ad alto budget servono maestri della rappresentazione del mistero per avvicinarsi alla sottile mente inafferrabile e saturnina di una spia. Doppiogiochisti, triplogiochisti, manipolatori. Ci è riuscito Javier Marìas in “Berta Isla” (Einaudi), che racconta la vita della spia Tomàs Nevinson. Riesce magistralmente a rendere il gioco infinito di specchi tra la realtà e la verità anche Hernan Diaz nel recente “Trust” (Feltrinelli). Ma spie tra le spie più occulte sono sempre state le donne, che per ragioni storiche e culturali (condivise non solo nel blocco occidentale ma anche per esempio in Cina o in Vietnam), rimangono più “coperte”, meno osservabili, e per questo più efficaci nell’arte dell’infiltrarsi, del raccogliere informazioni, dell’essere silenziosamente letali. Queste donne, di cui il libro di Gabriele Faggioni, “Spionaggio femminile del Novecento” (Odoya) fa una veloce

carrellata, spesso per scelte politiche e ideologiche, altre volte per denaro, condizionano il mondo in cui viviamo. Non esiste solo Mata Hari, la celebre spia tedesca doppiogiochista. La rete di spionaggio di maggior successo della Prima Guerra Mondiale si chiamava Rete Alice ed era gestita da Louise de Bettignies, che è passata alla storia come “la regina delle spie”. Nata in una famiglia belga di otto figli, frequentò il collegio religioso di Lille. Allo scoppio della Grande Guerra Luise era in Francia a prestare servizio come governante e lì poté assistere all’occupazione tedesca. Prese subito a occuparsi dei feriti, presto però raggiunse la famiglia rifugiata nella Francia non occupata, portando con sé la posta di diversi rifugiati. La nave fece scalo a Folkestone, e lì il suo inglese fluente e la sua vispa intelligenza furono notati da un funzionario dei servizi segreti britannici. Il maggiore Walter Kirke, responsabile dell'intelligence, a Londra la iscrisse al corso di formazione per agenti segreti e le assegnò il compito di organizzare la rete di intelligence Ramble, con i cittadini belgi già coinvolti nella Resistenza, assistita da Léonie Vanhoutte, un'operaia di Roubaix che aveva già aiutato i soldati alleati ad attraversare il confine. Così, in breve tempo, Louise e Léonie crearono una rete di spionaggio chiamata Rete Alice, la più grande della Grande guerra, di cui facevano parte non solo adulti ma anche giovani e bambini: raccoglievano ogni tipo di informazione sul nemico. La rete ebbe un successo sbalorditivo, e i tedeschi riempirono le strade di posti di blocco per catturare le spie. Louise usava diverse false identità, e ingannava le guardie recitando la parte della donna chiacchierona, riuscendo a passare i confini con i messaggi in codice nascosti tra le pagine di una rivista o arrotolati all'interno dei bastoni degli ombrelli. Nonostante questo la Rete Alice venne scoperta. Léonie fu arrestata all'inizio di settembre del 1915 e pochi giorni dopo la stessa sorte toccò a Louise. Le due donne furono imprigionate a Bruxelles. Nel processo del marzo 1916 Louise fu condan7 agosto 2022

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Idee

La storia invisibile

nata a morte e Léonie a quindici anni di prigione. L'ambasciata di Spagna riuscì a commutare la pena all'ergastolo, ma trasferita nella colonia penale di Siegburg Louise si ammalò di pleurite e morì in due mesi, a soli trentotto anni. Al termine della guerra fu decorata con la Croce di Guerra e con la Legione d'Onore. Andrée Raymonde nacque il 18 novembre 1919 in una famiglia operaia a Bécon-les-Bruyères, un sobborgo nordoccidentale di Parigi. Dopo la morte del padre, Andrée interruppe gli studi e andò a lavorare come commessa. Le piaceva andare in bicicletta e la domenica partecipava a gare ciclistiche femminili finché, nell'autunno del 1939, non si trasferì con la madre a Tolone, dove frequentò un corso di formazione come aiuto infermiera presso l'Association des Dames françaises, per assistere i soldati feriti. Dopo l'occupazione tedesca della Francia immortalata nei romanzi di Irène Némirovsky, Andrée decise di aderire alla Resistenza francese. Collaborò alla rete di fuga creata dal medico belga Albert Guérisse: migliaia di volontari aiutavano soldati non evacuati e aviatori alleati abbattuti a lasciare la Francia e a rientrare nel Regno Unito. Nell’autunno del 1941, però, la Gestapo scoprì il gruppo e molti suoi membri vennero arrestati. Andrée fuggì a Lisbona, dove continuò la propaganda a favore della Francia libe76

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ra. Poi, nella primavera del 1942, raggiunse il Regno Unito. Dal quartiere generale della Francia Libera, comandata dal generale De Gaulle, venne a conoscenza che il SOE, il servizio segreto britannico, reclutava agenti che collaborassero con la Resistenza francese. Venne arruolata e divenne agente speciale. La notte del 24 settembre 1942, lei e la sua compagna Lise de Baissac, partite dalla base aerea della RAF a Tempsford, furono le prime agenti della storia a essere paracadutate nella Francia occupata. Lise atterrò nei pressi di Poitiers, Andrée vicino al villaggio di Mer, dove era attesa da una squadra della Resistenza locale. Fu assegnata come corriere per la nuova rete Prosper gestita da Francis Suttill, prima di prendere parte ad alcuni sabotaggi attuati dai maquis, la Resistenza francese. Quando, il 23 giugno del 1943, i Prosper furono scoperti e smantellati dalla polizia segreta tedesca in seguito alla segnalazione di un traditore, Suttill e Andrée vennero arrestati, interrogati e rinchiusi nella prigione di Fresnes. Nel maggio 1944 Andrée e le sue compagne di prigionia Vera Leigh, Sonya Olschanezky e Diana Rowden furono trasferite nel campo di concentramento di Natzweiler-Struthof. Il 6 luglio 1944 alle quattro donne furono praticate iniezioni letali di fenolo al cuore: morirono all’istante tranne Andrée. Riprese conoscenza e con le ulti-

me energie ferì il suo boia. Venne gettata ancora viva nel forno crematorio. Maria Krystyna Skarbek era di Varsavia, figlia di ricchi conti ebrei. Era bella, bellissima, e si classificò seconda a Miss Polonia 1930. Trasferitasi a Londra con il secondo marito dopo l’occupazione polacca della Germania, chiese di entrare a far parte dell’intelligence britannica. Partì per la prima missione a Varsavia, dove raccoglieva informazioni sulle truppe tedesche e organizzò una rete di corrieri che portavano rapporti di intelligence a Budapest, da dove raggiungevano Londra. Fu lei a scoprire che la Germania aveva stretto un’alleanza militare con il maresciallo Antonescu e con la Romania, e quindi a portare gli Alleati a difendersi con anticipo su quel fronte. Nel gennaio 1941 Krystyna venne arrestata dalla Gestapo insieme al suo amante, l’agente segreto Kowersky, amico d’infanzia ritrovato in Ungheria. Ottenne il rilascio mordendosi la lingua, sputando sangue e dichiarando di essere malata di tubercolosi. Cambiò allora identità in Christine Granville, e raggiunse Sofia nascosta nel bagagliaio di un’auto. Lì consegnò al personale diplomatico britannico microfilm sui preparativi tedeschi di invasione dell’Unione Sovietica. Fu così che Churchill scoprì il piano della Germania e cambiò le sorti della guerra. Krystyna venne promossa a capitano, una delle pochissime donne nella storia, e alla fine della guerra non tornò in Polonia, governata dal regime comunista, ma andò a Londra, dove finì per trovare solo lavori precari, come quello di hostess sulle navi da crociera. Fu in uno di quei viaggi che conobbe uno steward che si innamorò follemente di lei, non ricambiato, e la uccise con un fendente al cuore. Sono migliaia le donne che hanno lavorato, e che lavorano, come agenti segreti. Anche attorno a noi. Non conosceremo mai le loro verità, ma le nostre vite saranno condizionate dalle loro azioni. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Inghilterra, 1918, donne al lavoro su macchinari di guerra


Idee

Foto: Xxxxx Xxxxxx

Heni aliti dignis exeribus nim lamusaped quuntibea nullabore conem. Nequassum, ommolum

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Protagoniste

L’importanza di chiamarsi

Sin A

vederle in scena le signore del Burlesque muoversi suadenti, sorridenti, intriganti, con il boa di struzzo e i ventagli di piume, viene da pensare che l’arte dello svelarsi sia antica come l’Umanità. Da “Salomè danza per me”, passando per i Café Chantant o il Divan Japonaise parigino di fine Ottocento, per arrivare al Burlesque contemporaneo, c’è sempre quel misto di seduzione e disincanto, di erotismo e di gioco che fa del corpo della donna un terreno di appassionata rivoluzione. A Roma, nel quartiere Pigneto – amato da Pasolini e oggi al centro di una costante gentrificazione – c’è un bellissimo locale, l’Ellington, dove si esibisce Giuditta Sin. «È il nome che mi sono scelta, ed è quello che mi rappresenta di più», dice. Nelle atmosfere anni Trenta, da kabarett berlinese o da grande locale newyorchese, all’Ellington, come in molti altri spazi, Giuditta Sin si è imposta come una delle grandi star del Burlesque. Incontrarla, però, significa parlare di danza contemporanea, di coscienza femminile, di bellezza, di performing art. Lei rivendica 78

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Giuditta Sin è performance artist e diva del Burlesque. Arte della resistenza, in una società pornografica. E gesto politico: “Dà alle donne la possibilità di autoraccontarsi. E rinsalda i legami femminili”

come punti di riferimento le pioniere della danza libera: da Isadora Duncan, a Ruth St. Denis e Loïe Fuller: «Studio danza da quando ho cinque anni. Il corpo è sempre stato il mio naturale mezzo espressivo. E ho scoperto queste incredibili donne, vere anticipatrici di culture e fenomeni che si sono affacciati molto dopo nel mondo, anche dal punto dell’emancipazione femminile. Soprattutto Isadora Duncan è il mio punto di riferimento. Ma quel che mi interessa e affascina di tutte loro è il costante tentativo di riportare la danza in un contesto più spirituale. Dunque una danza non solo “estetica”, legata all’artificio, alla forma, ma che guarda al suo significato primordiale di mezzo espressivo dello spirito». Lo spirituale nell’arte, avrebbe detto Kandinskij: e in effetti la consapevolezza della ritualità delle performance fa spostare la gretta prospettiva anche di un maschio cisgender eterosessuale come chi scrive, il cui sguardo si limita banalmente agli aspetti più esteriori delle coreografie Burlesque. «Questo tipo di spettacolo riguarda il significato originario della danza stessa, che nasceva come mezzo per riconnettersi a energie celesti e terrene.

Foto per gentile concessione di: Luca Caravaggio

di Andrea Porcheddu


Idee

Giuditta Sin, diva del Burlesque 7 agosto 2022

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Protagoniste Ricerco quella concezione, in particolare per quel che riguarda il ruolo della donna che, attraverso le danze sacre, poteva attivare forze che avevano a che fare con l’energia erotica. Così, ritrovo un collegamento tra ciò che faccio oggi e l’antichità. Il pubblico assiste a uno spettacolo d’intrattenimento eppure, se corpo e spirito della danzatrice sono in armonia, se l’intenzione è salda, percepisce messaggi ancestrali che appartengono all’immaginario collettivo. Suggestioni che nel tempo sono state contaminate e corrotte ma sono ancora presenti. E si ricrea quel rituale delle origini». Rito pagano, dunque, forse dionisiaco, che però per Giuditta Sin non si sottrae ad un costante impegno politico. Le performing art sono strutturalmente politiche – ce lo ricorda uno studioso come Marco De Marinis nel suo “Per una politica della performance” (edito da Editoria&Spettacolo), così come lo ribadisce Marina Abramovic in ogni sua creazione. Insomma, dice Giuditta Sin, si fa politica anche sui tacchi di scena: «Il corpo è di per sé un fatto politico, ha a che fare con la nostra esistenza, con l’essere nel tempo e nello spazio. E ogni performance è politica, anche il Burlesque, leggero e divertente. Vedere una donna che si toglie qualcosa di dosso, su un palco, è un fatto politico perché influenza il nostro modo di concepirla, di immaginarla. Parlo di donne, perché il mio è un corpo di donna, ma qualunque corpo è politico. E quando si va su un palco, e si rompono degli schemi sociali, lo è ancora di più. Nello spogliarsi si compie un atto di liberazione del sé, da un punto di vista simbolico con il gesto dello spogliarsi, che riguarda anche e soprattutto secoli di concezioni, di ideologie imposte sul corpo della donna». Insomma, la danza, il teatro, la performance e quindi anche il Burlesque sono un modo di cambiare la narrazione che la donna fa di sé stessa. L’obiezione è che questo tipo di spettacolo sia influenzato dallo sguardo maschile, che voglia gratificare il maschio che guarda. «Non è così: qui mettiamo la donna al centro della propria narrazione», irrompe Giuditta Sin: «Mentre in passato l’erotismo, il fascino, la sensualità femminile sono sempre stati raccontati dagli uomini, il Burlesque, come molte altre performance, offre l’opportunità alle don80

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ne di auto-raccontarsi, di dire la loro sul palcoscenico, di essere e vivere la sensualità in prima persona. Una opportunità che poche altre arti offrono, almeno per quel che riguarda l’erotismo». Forse per questo si moltiplicano le scuole di Burlesque, dove la famosa “casalinga di Voghera” si trasforma gioiosamente in Lily La Tigresse? «Il Burlesque ha una funzione che non esito a definire “rivoluzionaria” per le donne: quella di liberarsi e provare a re-impossessarsi della propria femminilità, di viverla in modo giocoso, divertente, sereno. Credo che questo sia il segreto del successo delle scuole: la possibilità di riscoprire quella femminilità che molte donne – per il percorso di vita che hanno fatto – hanno trascurato. È un gioco intimo tra donne, che possono sperimentarsi in una rinnovata e ritrovata femminilità. Fino a ricostruire un discorso sulla sorellanza, accantonato per secoli: ci hanno sempre fatto credere che le donne siano tra loro in competizione. Invece possiamo ritrovare un ambito di sorellanza: le donne re-imparano a stare tra loro, a guardarsi a vicenda e, mettendosi così tanto a nudo, si crea una intimità che porta a legami profondi. Le donne imparano di nuovo a stare fra donne». Viene da chiedersi, allora, cosa sia l’erotismo. Ci hanno provato in tanti a definirlo o a danzarlo. Per Giuditta Sin è chiaro: «È una energia innata all’essere umano. Deriva dalla natura, custode dell’energia creativa. Può assumere sfumature diverse ma sicuramente si distingue dalla pornografia. L’erotismo non mostra sé stesso, anzi crea un mistero, si vela. La pornografia è il con-


Foto per gentile concessione di: Paola Pafa, J. Mitchell - GettyImages, IPA - Alamy (2)

Idee trario, sbatte tutto in faccia: e oggi ha vinto sull’erotismo». Ce lo spiega bene Byung-Chul Han, per cui la “società della trasparenza” in cui viviamo è ormai condannata: i riti sono scomparsi e non resta altro che una diffusa, scontata, aggressiva pornografia, un perenne esporsi laddove non resta nulla da nascondere perché non c’è più niente da s-velare. Nella stagione del “like” eterno, dell’ottimismo comandato, sembra che anche il Burlesque possa essere una forma di resistenza. «Siamo una società pornografica, e il Burlesque è un’arte in controtendenza. Certo, è un bene che esista una pornografia femminile, e che possano essere espressi quegli impulsi, ma è importante ribadire il valore dell’erotismo. L’erotico è ciò che rimane celato, ciò che si sottrae alla vista eppure attiva una fantasia: l’atto erotico inizia nella testa di chi immagina. Invece quando tutto è mostrato, esposto, ingigantito come nel porno, si arriva all’annullamento del desiderio sessuale che, venendo a mancare il discorso erotico, svanisce. Non è un caso, credo, che la nostra società vada verso una diffusa asessualità. Non si fa altro che parlare e mostrare sesso, ma se ne pratica sempre meno. L’erotismo ci ricollega a quel rituale antico ed eterno di cui parlavamo. Invece ci troviamo a vivere dei simulacri di sessualità svuotata di senso». Anche per questo, viene da pensare che Giuditta Sin abbia incarnato icone dell’erotismo, come le splendide donne raffigurate

Spogliarsi coinvolge secoli di concezioni e di ideologie imposte sul corpo femminile. Come sapevano danzatrici libere come Isidora Duncan, Ruth St. Denis, Loïe Fuller

Da sinistra: Ruth St. Denis in "White Jade" al Jacob's Pillow Dance Festival, 1956; Giuditta Sin; locandina di Loïe Fuller; Isidora Duncan nel 1902

da Giovanni Boldini: «I miei spettacoli nascono da una visione, un sogno, che voglio manifestare nella realtà. Cerco delle atmosfere specifiche da ricreare, in cui voglio trascinare lo spettatore. Per questo mi avvalgo degli strumenti, come i costumi di scena, fondamentali per evocare una certa estetica: quel che indosso ha importanza, specie in un omaggio storico come è stato quello per Boldini. Poi c’è la parte più importante, la coreografia, il lavoro del corpo, ossia quel movimento nello spazio che concretizza il processo creativo. E infine interviene la musica: uso spesso musica classica, ma anche musiche tribali o altre composizioni, come recentemente le canzoni di Laura Betti». Resta sul piatto la questione femminile, quel tema scottante che, dal #Metoo in poi, è tornato prepotentemente all’attenzione generale. «Da donna ho sostenuto e sostengo tutte queste iniziative. È passato qualche anno dalla nascita del #Metoo e oggi mi trovo a riflettere sul fatto che troppo spesso certi movimenti non fanno altro che riprendere le stesse dinamiche di ciò che vogliono abbattere. Forse si tratta invece di riportare il femminile nella nostra società: non è solo la questione Uomo/Donna, ma di energie del maschile e femminile. Il nostro mondo è stato impostato esclusivamente sulla prima, quindi sull’elogio del razionale, dello spingere, dell’ottenere, del conquistare. Se invece riuscissimo a calibrare l’elemento femminile in tutti gli ambiti della nostra vita, ci sarebbe maggior equilibrio e armonia. L’accoglienza, l’andare più piano, il rispetto, tanti altri elementi sono connaturati all’energia femminile… Insomma, se è ovvio che le donne debbano avere gli stessi diritti degli uomini, in realtà ogni uomo, ogni essere umano deve capire che dentro sé le due energie vanno calibrate. C’è una frase della scrittrice Adele Venneri che dice: “Io non sono venuta qui per sostituirmi, sono venuta qui per unirmi”. Penso questa debba essere l’attitudine di ogni movimento. La bellezza può parlare con modi gentili, con leggerezza, ad ogni singolo spettatore». E questa arte, come altre forme di danza, di performance, di teatro, non è altro che una via per vivere la propria (e altrui) libertà: allegramente, serenamente, ironicamente, eroticamente. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Il prezzo della libertà ORGOGLIO LGBTQI+

Le due vite di Mazen "Mi volevano femmina difendo i diritti di tutti” Bombardato di ormoni, via dalla Libia jihadista, arrestato in Egitto. In Italia per un convegno, c’è rimasto da rifugiato. E ha dovuto ricominciare di Simone

Alliva foto di Stefano Schirato

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engo da Tripoli e sono una persona intersex-trans». Mazen Masoud inizia raccontando l’adolescenza a contatto con il mistero che riguarda il suo corpo ma è solo un pretesto. Un modo per dire una cosa. Ma la Cosa — la luna, non il dito — è un’altra: «Si pensa che siccome cresciamo in Libia, cioè quello che gli occidentali credono il terzo mondo, le persone intersessuali vivano malissimo in realtà vivono ovunque allo stesso modo: non ci sono diritti o riconoscimenti come in tutto il mondo. Alla nascita vengono bombardati di ormoni e cresciuti al maschile o al femminile. Preferisco raccontare quello che non vedete». È lui a impostare la premessa di questa storia. I racconti sulla difficoltà di vivere la propria identità, difficoltà massima per le persone Lgbt che arrancano in salita sempre, figuriamoci in Libia, vanno molto di questi tempi. Come se ogni altra declinazione possibile delle esistenze non fosse ugualmente colma di dolori e ostacoli. Un’epica, quella del migrante di genere e confini, ben nota. A Mazen non interessa e per questo la scardina. È un viaggio, questo, che parte dal Libano, attraversa l’Egitto fino ad arrivare in Italia «per caso», dice. Non 82

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una necessità, non per scelta. «Io sarei rimasto a Tripoli». Un caso. Come viene definita anche l’esistenza delle persone “intersessuali”, termine che indica alcune condizioni alla nascita: un apparato riproduttivo e/o un’anatomia sessuale, e/o una situazione cromosomica che varia rispetto alle definizioni tradizionali di maschile e femminile. Si possono scoprire anche in età adulta. I segnali non sono tutti uguali. L’intersessualità ci mostra con evidenza che i generi sono frutto di una costruzione. Ed è una realtà del tutto biologica seppure venga spesso erroneamente confusa con il genere o con l’orientamento sessuale che sono, invece, dimensioni indipendenti. L’incidenza dell’intersessualità dei bambini sembra essere nel mondo pari all’1,9 per cento della popolazione, ma vi potrebbero essere persone che non sono state registrate come intersessuali, pur rientrando in questa parte di popolazione. Tanti genitori nel tempo si interrogano: abbiamo forzato il genere dei nostri figli? E se avessimo aspettato? «I miei genitori hanno reagito come tutti nel mondo. Nell’età dell’adolescenza invece di sviluppare il secondo carattere sessuale femminile ho sviluppato quello sessuale maschile». Cosa succede a una “bambina” che


Storie

Mazen Masoud, rifugiato politico e attivista dopo l’intervento di mastectomia sottocutanea

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Il prezzo della libertà

Mazen, 32 anni, mostra la fotografia della madre. Al centro con Nicole De Leo, 64 anni, attrice e presidente del Mit

sente la voce ingrossarsi, la peluria ricoprire le guance? «Ovviamente la vivevo malissimo. Vengo da una famiglia molto importante. Mio padre è stato a lungo vicino a Mu’ammar Gheddafi. Ha lavorato come pilota militare fino alla fine degli anni Settanta, poi come pilota civile. I medici sono intervenuti somministrandomi la terapia ormonale per femminilizzare il corpo che mi era stato assegnato alla nascita, dai 14 ai 19 anni. Nel frattempo, continuavo la mia militanza e viaggiavo».

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azen si avvicina da subito ai collettivi impegnati nella difesa di diritti umani. «La maggior parte della mia militanza ruota intorno al mondo arabo: Egitto, Marocco, Tunisia, Siria, Giordania. Ho una formazione femminista e marxista. Mi sembra superfluo dire che fare militanza in questi Paesi è molto diverso che farla in Italia. C’è uno spirito di resistenza e unità diverso, granitico, reale. I gruppi sono collettivi che nascono dal basso e lì restano. Non esistono associazioni mainstream. Non esiste un’associazione Lgbt unica o nazionale». Parlare

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di diritti non è facile. «È illegale, tutta attività clandestina e si rischia il carcere. In quanto uomo transgender ero costretto a indossare un burqa per avvicinarmi al genere femminile indicato sui documenti e diverse volte sono stato fermato dall’Isis ai posti di blocco mentre tentavo di fuggire in Egitto. Ho ricevuto condanne di morte per la mia militanza, sono stato in carcere e ho subito tutto quello che si può immaginare. Ma non ha senso raccontarlo, andare nei dettagli e poi suscitare compassione, pietà o ammirazione. Non mi serve, non serve a nessuno. Dico solo che sono sempre stato molto visibile. Mio padre mi aveva avvertito: sappiamo cosa fai ma devi stare più attento. Avevo la protezione della mia famiglia. Ma dopo la caduta di Gheddafi tutto è crollato. Ho continuato a militare insieme a tantissimi compagni e compagne che oggi non ci sono più. Nel 2015 lavoravo come anestesista in Libia per La Mezzaluna rossa libica. Segretamente ero impegnato come attivista Lgbt mentre l’Isis conquistava ampie strisce di terra nel Paese. Gli amici e i colleghi attivisti venivano presi di mira e uccisi dai gruppi jihadisti. Io sono stato fortuna-

to perché sono ancora vivo. Ho subito violenza, stupro, torture. Non sono un eroe, non sono una vittima, parlo di me come una persona sopravvissuta che ha lottato per i suoi diritti. E se posso: non mi piace parlare in prima persona mentre racconto quello che ho vissuto. Non sono “io”, siamo “noi”. Non ero solo, eravamo in tanti. Io sono qui per raccontarlo». Messaggi, telefonate, lettere con all’interno foto della sua famiglia da parte dei gruppi jihadisti. «Non volevo lasciare la Libia. Poi il 25 febbraio 2015 tutto è cambiato. C’era questa compagna, un’avvocata con cui lavoravamo insieme per cambiare il nostro Paese. L’hanno ammazzata in macchina. Due giorni prima pranzavamo insieme, mi aveva raccontato anche lei delle minacce, di persone che la pedinavano. È stato tutto così veloce. Quella notte sono fuggito e sono arrivato in Egitto. Non potevo restare. Avevo paura per la mia famiglia». La prima cosa che fanno le persone che si trovano in difficoltà a causa di una guerra o di gravi violazioni dei diritti umani è oltrepassare il confine e cercare un posto sicuro. Ma non esiste sempre un posto sicuro per le persone


Storie

Mazen ha tatuata la frase di Gibran: "Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici"

Lgbt. Quel confine, quel pezzo di terra che dovrebbe salvare può continuare a condannare orientamenti sessuali o identità di genere diverse. «L’Egitto è tra questi Paesi per la comunità, non è un Paese sicuro. Pensavo che la mia permanenza sarebbe durata poco. Mi dicevo: un mese, cambia la situazione e si torna. Invece no». Qui Mazen ha già una rete sociale stabile e amicizie durature come quella con Saraha Hegezi, la più nota attivista egiziana lesbica per i diritti delle persone Lgbt e delle donne. «La mia amica del cuore. Mi manca ogni giorno». Nel 2020 si è uccisa a Toronto, in Canada, dove aveva ottenuto asilo all’inizio del 2018. L’anno prima era stata arrestata al Cairo per aver sventolato la bandiera arcobaleno durante un concerto. In carcere aveva subito abusi e violenze. «La polizia mi arrestava spesso, avevo il documento femminile e un aspetto maschile. Ogni volta che uscivo con i miei amici la polizia egiziana mi fermava e mi chiedeva i documenti e mi portava in commissariato». È una costante, ma proprio in questo Paese arriva un’occasione: un invito per partecipare a un workshop in Italia per attivisti e giornalisti impegnati in zo-

na di guerra: «Vengo invitato a Roma per parlare della violenza di genere usata come un’arma durante le guerre. All’epoca facevo parte di un’unità che esercitava l’aborto su donne che avevano subito uno stupro. Dopo il seminario, su suggerimento di un amico andai a Bologna e chiesi protezione umanitaria». Anche questo con difficoltà: «Non esisteva nell’accoglienza una struttura dedicata alle persone Lgbt. In seguito alla richiesta di protezione internazionale, le autorità non sono riuscite a inserirmi in un alloggio dedicato in quanto il genere indicato sui documenti e l’aspetto fisico non corrispondevano. Ho trovato ospitalità e accoglienza in una famiglia di Reggio».

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incontro che gli cambia la vita però avviene nella sede del Mit (Movimento identità trans) di Bologna. È Porpora Marcasciano, attivista storica del movimento Lgbt italiano e all’epoca presidente dell’associazione ad accoglierlo: «La prima volta che sono entrato al Mit mi trovai di fronte Porpora che non parlava una parola in inglese ma disse: “Benvenuto, non preoccupar-

ti”. Mi hanno aiutato con i documenti e finalmente nel 2016 ho iniziato il mio secondo percorso di affermazione di genere, dopo la violenza subita in adolescenza. Non riconoscendo il percorso verso la femminilizzazione del corpo, ho dovuto ricominciare per la seconda volta il mio percorso. Nel 2017 ho ottenuto la protezione internazionale e vinto una borsa di studio per persone rifugiate presso l’università di Bologna». Una premio beffardo, spiega: «Sono arrivato al secondo posto, avrei dovuto studiare biologia. Uso il condizionale perché dopo poco mi hanno negato anche questo. Dovevano accertare che il mio diploma non fosse falso. Difficile con un Paese che era stato bombardato, no? Così ho dovuto rifare tutto, anche la terza media. C’è tanto da fare anche su questo. Tanto da rivedere in questo mondo fatto di migranti di serie A e B. Tanto, anche se non lo vediamo». Mazen si racconta pesando ogni parola e lo fa dalla sede del Mit, dove oggi occupa la poltrona di vicepresidente e responsabile dello sportello per le persone migranti Lgbt. Lo sportello è dedicato a Sarah Hegazi. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Scatti d’autore LA MOSTRA

Lo sguardo di Leila Alaoui l’artista che catturava le contraddizioni dell’Islam Venezia celebra la fotografa franco-marocchina rimasta uccisa a 33 anni in un attentato terroristico in Burkina Faso nel 2016. Dalla moda ai reportage, nel suo lavoro la passione dell’antropologa concentrata sulle persone di Angiola

Codacci-Pisanelli

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orride Leila Alaoui, nel ritratto che accompagna la mostra delle sue fotografie. Sono serissimi invece i protagonisti degli scatti, scelti tra centinaia che lei ha realizzato nei tre anni di lavoro sul progetto intitolato “Les Marocains”. L’appuntamento è a Venezia fino al 27 novembre, al Fondaco dei Tedeschi in collaborazione con Galleria Continua. La cura è della Fondazione Leila Alaoui: perché lei, Leila, non c’è più. Lei così impregnata di quel mondo islamico da cui venivano il suo nome («notte»), il suo cognome e i tanti anni vissuti a Marrakesh, è stata uccisa da terroristi islamici in Burkina Faso nel 2016. «È incredibile la quantità di fotografie che ha lasciato», dice sua madre Christine Alaoui, francese con un nonno italiano. «Abbiamo incaricato una storica dell’arte svizzera di fare un inventario: ci ha messo due anni. È come se Leila avesse saputo di avere i giorni contati», commenta con un tono fermo, assuefatto alla tristezza. E aggiunge: «Il dieci luglio di quest’anno avrebbe compiuto quarant’anni, è un momento difficile per noi». «Cosa si può dire di una fotografa morta a 33 anni?», ci si potrebbe chiedere, parafrasando l’inizio di “Love Story”. Perché è facile, raccontando una storia come questa, cadere nel patetico. E allo stesso tempo alzare un sopracciglio e pensare: «Poverina, sì: però se non fosse morta chissà che

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Leila Alaoui nel 2015. A destra, ritratti di “Les Marocains” realizzati nel 2014

effetto farebbero oggi le sue foto». Per questo è importante, prima di ripercorrere la sua vita con l’aiuto della madre, ricordare che Alaoui aveva avuto una quantità di riconoscimenti. Le sue foto sono state pubblicate sul “New York Times” ed esposte in tutto il mondo: alla Konsthall di Malmoe in Svezia, al palazzo nazionale della cittadella di Cascais in Portogallo, al Musée des Beaux-Arts di Montreal in Canada e infine alla Maison européenne de la photographie di Parigi, in un’esposi-

zione che terminava proprio il giorno dell’attentato. Ricorda Christine: «Dopo l’inaugurazione mi disse ridendo al telefono: “Pensa, quel matto del direttore, Jean-Luc Monterosso, mi ha detto: Leila, tu resterai nella storia come una delle fotografe più importanti della tua generazione”». Per i suoi lavori su migranti e immigrati, Alaoui ha collaborato con istituzioni internazionali come il Danish Refugee Council, la Ong americana Search for Common Ground e l’agenzia delle Nazioni Unite, la Unhcr. Quel 15 gennaio del 2016 era a Ouagadougou per un incarico di Amnesty International sui diritti delle donne. Il suo autista, Mahamadi Ouédraogo, aveva parcheggiato davanti al bar Cappuccino subito prima dell’attentato. Ouédraogo è morto sul colpo, Alaoui tre giorni dopo, portando a trenta il numero delle vittime. Una morte che è tragicamente paradossale, per una fotografa che ha lavorato molto sul legame tra la condizione dei poveri del mondo arabo e dei migranti in Europa e il successo del proselitismo, una che anche nel so lavoro, spiega la madre, «cercava di capire perché quei giovani finivano per diventare terroristi». Non era sempre facile, con quella sua eleganza di “arabopolitan” a suo agio nel jet-set tra Parigi, New York e Marrakesh: «Una volta è andata a fare un servizio sugli immigrati nelle bidonville del Marocco per il New York Times e gli abitanti marocchini l’hanno


Storie

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Storie

I lavori di Leila Aloui alla ventesima edizione di Paris Photo, nel 2016

spintonata, le hanno sputato addosso perché si occupava di “quella gente lì”». A New York Leila aveva studiato antropologia e sociologia, e si vede: «L’hanno definita un’antropologa con la macchina fotografica, e in effetti per lei fotografare era un modo per affrontare un problema di persone che la interessavano». Un’antropologa che aveva una facilità di incontro con il mondo islamico ma che non si fermava lì: tra i progetti rimasti interrotti c’è un documentario sugli operai dell’Ile Seguin, la storica fabbrica della Renault vicino a Parigi, e un migliaio di ritratti di operai in India.

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lle immagini si era avvicinata da bambina grazie a quello che per sua madre è sempre stato solo un hobby: «Non ho mai esposto una foto, ma ho sempre una macchina fotografica con me. E i miei figli, da piccoli, mi aiutavano a sviluppare le immagini», racconta Christine. «Nei miei ricordi, Leila è sempre di corsa: da bambina non sapeva attraversare la strada senza correre, per scendere le scale – non so come facesse! - si metteva in equilibrio sulla pancia come se fosse su uno scivolo e si lasciava cadere giù. Avevamo un rapporto strettissimo, ma io non sono come lei. Mi spingeva sempre ad essere attiva, a fare cose, a viaggiare, mi sgri88

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dava se rinunciavo a qualcosa: e adesso, a 71 anni, mi ritrovo a fare tutte le cose che lei avrebbe voluto per me…». Dopo la sua morte, ha parlato a nome di Leila sua sorella Yasmine, un’artista che vive a New York, in un testo fortissimo che unisce il perdono degli assassini e la condanna dei «mandanti»: «Sai, ho incontrato molti giovani della tua età durante la realizzazione di “Crossings”, un video sui candidati per l’immigrazione clandestina. Sai cosa, ti assomigliavano come delle gocce d’acqua. Guardandoli, ti vedo con il tuo kalashnikov puntato su di me e sui miei vicini del bar Cappuccino. Sapevo che tu avresti sparato quando li vedevo salire sulle imbarcazioni di fortuna e perdersi nelle onde alla ricerca di una vita migliore. Stessa foga. Stesso stato alterato, quasi di trance, dove nessun’altra alternativa è possibile. Tu spari. Loro si imbarcano. La mafia che gli vendeva Parigi, Madrid, Milano o Bruxelles, è la stessa che ti ha venduto il Paradiso, con le sue settantadue vergini, i fiumi di vino, il miele che cola dagli alberi… il linguaggio cambia, ma le mafie restano le stesse, siano esse religiose oppure no». A Venezia, “Unseen stories” accosta i ritratti di “Les Marocains” e il video “Crossings”: la dignità degli africani legati alle tradizioni della loro terra e le traversie di chi è costretto ad affrontare violenze, deserto e mare per inseguire il sogno dell’Europa. Il primo progetto,

che univa l’ispirazione dei ritratti di Robert Frank a quelli di Richard Avedon, è costato alla fotografa lunghi viaggi nel Marocco rurale con uno studio fotografico mobile. «Leila passava molto tempo con le persone che finiva per fotografare», racconta la madre. «Trovava un posto per dormire in ogni villaggio, faceva amicizia soprattutto con le donne, andava al mercato con loro, cucinavano insieme. Viveva con loro diversi giorni, e da lì nascevano l’intimità e la fiducia che rendono quei ritratti unici». Dietro alla macchina fotografica, oltretutto, c’era un’antropologa sui generis, in grado di padroneggiare anche le tecniche della fotografia di moda: «A New York, Leila aveva fatto gavetta come assistente per i Milk Studios di Chelsea, dove lavoravano tutti i grandi fotografi di moda. È lì che ha imparato a usare in quel modo le luci e i flash che ha usato per “Les Marocains”». Ma questo era in un certo senso il passato di Leila Alaoui: il suo futuro lo si vede in “Crossings”, che è di un’intensità davvero rara. «Penso che volesse andare sempre più verso il video e il cinema, la fotografia non le bastava più», conferma Christine. In “Crossings”, lo schermo diviso in nove quadranti alterna foto e video, ritratti di migranti e filmati della superficie dell’oceano o di rami di alberi dei boschi di Tangeri, montati in modo da costruire dei frattali. Binari, onde, dettagli del corpo umano diventano immagini ipnotiche, tagliate e ricostruite in modo da richiamare le figure astratte tipiche della tradizione islamica. Il sonoro è un collage di voci che raccontano - con il tono fermo del testimone, e senza il lamento della vittima - dettagli del viaggio: i pericoli legati alla cattiveria degli uomini più che alla natura, più che alle incognite del deserto e dell’acqua. Immagini e racconti usurati dalla cronaca riprendono così significato perché diventano arte. E oggi parlano con la stessa dignità e senza patetismo sia dei migranti che compaiono nel video che dell’artista, invisibile dietro alla teleQ camera e in sala di montaggio. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Foto: P. Lopez - Afp / GettyImages

Scatti d’autore



Itinerari d’arte

VERONA

Arredi, dipinti, sculture, oggetti L’imprenditore mecenate che ha creato una casa-museo La collezione allestita in una vita da Luigi Carlon, trasferita dalla sua abitazione a Palazzo Maffei, acquistato e restaurato. Dopo due anni gratis, il ticket serve ora per nuove acquisizioni di Luana

de Francisco foto di Luca Rotondo

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Storie

Una delle sale del museo. A sinistra, l’imprenditore mecenate Luigi Carlon, 83 anni.

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ei suoi occhi, fin da bambino, ci sono stati i colori e le forme dell’arte. Li ammirava nelle chiese, quando i genitori lo portavano a messa, e ha continuato a cercarli nelle case d’asta di tutto il mondo, mentre il tempo ne scandiva i traguardi professionali e i sogni si trasformavano in realtà. Così, tra fascinazioni e scommesse, fino a quando all’esplorazione non si è affiancato il desiderio della condivisione che lo ha spinto a osare ancora una volta. Nasce dal bisogno di offrire una scena alla sua caleidoscopica passione collezionistica la casa-museo che l’imprenditore e cavaliere del lavoro Luigi Carlon, innamorato delle cose belle non meno che della sua città d’elezione, è riuscito a realizzare all’interno del secentesco Palazzo Maffei di piazza delle Erbe, a Verona. Una location a sua volta preziosa,

con la facciata barocca, l’imponente scalone elicoidale, gli stucchi del piano nobile e la balconata panoramica, scelta e acquistata dopo lungo corteggiamento proprio perché era in quella speciale cornice, concepita come una wunderkammer in cui dare dimora e sintesi alle arti, che aveva immaginato di trasferire il patrimonio di altissimo pregio artistico e valore affettivo raccolto negli anni. Più di 600 opere, testimoni di oltre sette secoli di storia, tra pitture, sculture e oggetti d’arte applicata, a disposizione della collettività, e dei giovani in particolare. Come nelle più classiche storie di mecenatismo, insomma. Perché nella testa dei capitani d’impresa non c’è soltanto l’arida ripetitività di numeri e scadenze, ma brulica anche una fucina di pensieri in continua evoluzione. «L’industriale lavora molto con la creatività: fa ricerca, produce prodot-

ti innovativi e studia strategie di marketing per anticipare la concorrenza e imporsi sui mercati internazionali. Un percorso per certi versi simile a quello del collezionista», dice Carlon, dall’alto dei suoi 83 anni di vita ed esperienza e oltre sessanta di attività, prima come impiegato alla Banca cattolica del Veneto e, dal 1978, alla guida della Index, l’azienda che lui stesso costruì da zero, vendendo di giorno gli isolanti che caricava sui camioncini di notte, e ceduta nel 2020 alla multinazionale svizzera Sika, dopo averla fatta crescere fino a diventare leader mondiale nel settore dell’impermeabilizzazione. «Sono sempre stato attratto dall’arte e i miei viaggi all’estero, nei cento e più Paesi in cui esportavamo, dagli Usa al Giappone dove a metà anni Ottanta avevamo già i nostri stabilimenti, mi hanno permesso di espandere le mie co7 agosto 2022

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Itinerari d’arte noscenze tra musei e gallerie», spiega, elencando le epoche incrociate nelle sue ricognizioni, dall’età greco romana a quella contemporanea, passando attraverso il medioevo, il rinascimento, il barocco e il futurismo. Ma è nei cenacoli veronesi che la formazione comincia. «Negli atelier dei pittori locali, che per sbarcare il lunario vendevano ai turisti dipinti dozzinali, ma che sentivano già le spinte dall’America, iniziai a guardare con interesse all’espressionismo astratto di Pollock. Poi, frequentando gli antiquari, la mia attenzione si spostò anche sull’antichità. E nel tempo libero, per conto mio, mi documentavo leggendo di tutto: dai libri d’arte, all’enciclopedia Fabbri e alle riviste, di cui aspettavo con impazienza l’uscita in edicola», ricorda. Finché, affinate le conoscenze, gli acquisti non puntarono a un unico obiettivo: dare compiutezza e organicità alla sua ormai ampia e diversificata collezione, per farne un percorso didattico fruibile da tutti. «Le opere, stipate com’erano nella nostra dimora trecentesca, soffrivano. Compresi allora che avrei dovuto trovare uno spazio vitale in cui trasferirle». La soluzione si presentò dieci anni fa. «Quando le Generali misero all’asta Palazzo Maffei, cui puntavo anche per l’importanza della posizione, colsi al volo l’occasione. Nella mia camera da letto c’era un’opera del pittore veronese Carlo Ferrari, detto il Ferrarin: ritraeva piazza delle Erbe e sullo sfondo c’era quello splendido edificio. Tutte le sere, mi addormentavo guardandolo e chiedendomi se mai avrei realizzato il sogno di possederlo. Mi ha portato fortuna», racconta Carlon.

È

stata Gabriella Belli, che dopo avere guidato per oltre vent’anni il Mart di Rovereto, ora dirige la Fondazione musei civici di Venezia, a concepire l’idea museografica e dare vita e corpo al percorso espositivo, in collaborazione con lo studio Baldessari e Baldessari, che ha curato il progetto architettonico e l’allestimento. Il risultato è

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La sala de L’ira funesta con opere di Antonio Calza e Alberto Burri. Al centro, Piazza delle Erbe

sorprendente, perché conferisce una dimensione di intima familiarità al tesoro e alle 28 sale che lo ospitano. Come se il palazzo, a sua volta inaugurato dopo un importante intervento di restauro, fosse per davvero un’abitazione privata arredata con pezzi da museo, tra autentici capolavori e accostamenti audaci, in linea con il gusto ecclettico del padrone di casa. «L’arte suscita piacere e va gustata», osserva Carlon: «Non volevo la classica pinacoteca, dove la monotonia dell’allestimento appesantisce l’approccio ai quadri e fa scattare nel visitatore il desiderio di scappare via. Pensavo piuttosto a un ambiente che, grazie all’inserimento di mobili e arredi di pregio, potesse interrompere il passo e tenere sempre viva l’attenzione». Da qui, la scelta di raccogliere le opere secondo un doppio criterio cronologico e tematico, mettendo a confronto sensibilità ed epoche an-

che molto distanti e creando così arditi cortocircuiti emotivi tra l’antico e il contemporaneo. La guerra, per esempio, interpretata attraverso le battaglie barocche di Antonio Calza, le Combustioni su tela nera di Alberto Burri e la terracotta informe di Leoncillo. O le figure femminili, rappresentate nell’iconografia classica della Cleopatra di Giambettino Cignaroli del 1770 e nell’inquietudine della Medusa in ceramica di Lucio Fontana. E ancora, giocando su contaminazioni e dialoghi solo apparentemente impossibili, l’accostamento dei tagli su fondo rosso di uno dei Concetti spaziali dello stesso Fontana con un trittico con crocifissione e santi su fondo oro del secondo maestro di San Zeno. Come pure, nella sala della Mater amorevolissima, la monumentale Maternità di Arturo Martini, circondata da rappresentazioni della Madonna con Bambino dal Quattro al


Storie Che ovviamente continua a essere implementato di nuovi arrivi. Anche perché alle tentazioni, per un intenditore come lui, è difficile resistere.

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Antonio Canova, Amorino (Cupido) 1788 – 1794. Gesso

Settecento. «Ogni tanto ho provato a mettermi di mezzo, ma ho fatto soltanto danni», scherza Carlon, che insieme alla moglie Cristina, dopo il trasloco, si è rassegnato a vivere circondato da pareti all’improvviso «più spoglie» e a rinunciare così al piacere che, per anni, gli aveva trasmesso la contemplazione di capolavori della caratura della Strage degli innocenti di Simone Brentana, tanto per citare uno dei pezzi da novanta della collezione. Ma anche di altre chicche, dai mobili antichi in lacca cinese, alle incisioni di Andrea Mantegna e dal Ratto di Elena acquistato dal Metropolitan museum di New York, al porta caviale in cristallo di Fabergé che fu di uno zar, diventate ormai parte integrante della loro quotidianità. Sacrifici compensati dalla soddisfazione di avere creato un’eccellenza culturale nel cuore della sua città e di averne fatto il

motore per collaborazioni e incontri tematici attenti a ogni forma espressiva. Prima di lui, a centrare il nobile intento di comunicare l’arte aprendo forzieri privati erano stati pochi altri imprenditori. Lo aveva fatto Luciano Nicolis a Villafranca, a due passi da Verona, con un “museo non museo” dell’auto, della tecnica e della meccanica. E ci era riuscito Francesco Federico Cerruti, al castello di Rivoli. Carlon, che nella sua vita di imprenditore ha sempre creduto nel coinvolgimento e nella premialità, anche economica, della propria squadra, al punto da «distribuire incentivi in denaro ai collaboratori che si sposavano o che avevano figli», per i primi due anni ha garantito l’ingresso libero alla collezione. Poi, però, tra oneri e costi di manutenzione, si è reso necessario introdurre un biglietto (intero 14 euro, ridotto 6). Un «obolo», spiega, interamente reinvestito nel palazzo.

rova ne sia l’ala interamente dedicata al futurismo, impreziosita dalla copia originale, acquistata a un’asta da Sotheby’s, a Parigi, del quotidiano Le Figaro che il 20 febbraio del 1909 pubblicò il “Manifesto del Futurismo” di Marinetti e, nella teca accanto, dalla prima pagina del quotidiano L’Arena (all’epoca senza l’articolo) di Verona, che il 9 febbraio era riuscito ad anticipare la notizia. In apertura, il celebre quadro Futurismo rivisitato a colori con cui Mario Schifano riprese in chiave pop la foto che ritraeva Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e Severini alla loro prima mostra a Parigi, nel 1912, e tutt’intorno, le opere dei più importanti esponenti del movimento, da Boccioni a Balla. E ancora, in un’esplosione di avanguardie, il viaggio tra suggestioni metafisiche, surrealismo e realismo magico, con le opere di Magritte, Chirico, Duchamp, Picasso, Wharol, Morandi, Afro e Cattelan, tra i tanti. E i contemporanei, con Nannucci, Dynys, Sassolino. Ma anche Canova, con una sala dedicata. Infine, l’area delle riflessioni: sull’uomo, il cosmo, l’infinito. E, solo nella project room, Lotus, il fiore del futuro della star dell’innovazione creativa Daan Roosegaarde. Da giugno, a Verona si respira un’aria nuova. A portarla è stata l’elezione a sindaco del candidato di centrosinistra, Damiano Tommasi, ex calciatore e neofita della politica. «Come in tutto, è giusto che ci sia un’alternanza: serve a uscire dalla zona di comfort», commenta Carlon, che al primo cittadino guarda con la fiducia di chi sa cosa significhi partire da zero. «Sono certo che ce la metterà tutta e mi auguro che presti un’attenzione particolare alla cultura: Verona, con la sua tradizione di musica e teatro, meriterebbe finalmente qualcosa di Q importante». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Ho visto cose/tv

UNO MATTINA, ALMENO NON SONO DUE Un guazzabuglio di argomenti in un tempo ristretto. Che lascia perplessi

BEATRICE DONDI Ci sono programmi assai difficili da guardare. E ce ne sono altri altrettanto difficili da descrivere. Perché riassumono, nella loro insipida consistenza, una sorta di vuoto ideativo che aleggia nelle mattinate da palinsesto, a prescindere dalle stagioni. Basti pensare a “Uno Mattina estate”, contenitore di consolidata tradizione che occupa le prime ore della giornata televisiva sulla rete ammiraglia. E che invece si traduce, in questa edizione, in una sorta di altalena informativa dallo spessore tridimensionale di un fotoromanzo, che passa senza colpo ferire dalla politica al gossip, riuscendo al tempo stesso a condire la frenesia argomentativa con una patina di noia non facile da ottenere. C’è da dire che la sforbiciata bizzarra della durata iniziale, praticamente dimezzata in corsa d’opera e oltretutto spezzata in due parti tra le quali va addirittura in onda un altro programma (“Linea Verde”) non aiuta la concentrazione. Ma ci si augura, con la consueta fiducia che contraddistingue lo spettatore rassegnato, che dietro a tali decisioni ci sia un acuto ragionamento. Anche se, a un primo sguardo (ma anche un secondo) tende a sfuggire. Il risultato, quindi, è che mentre si cerca di seguire il dibattito sulla riforma delle pensioni, la pagina cambia, come quei librini di un tempo che si

sfogliavano velocemente per far animare il disegno. E in pochi minuti si vola dall’uso delle lamine d’oro in cucina, al vaiolo delle scimmie, e poi la sabbia rubata, l’oroscopo beneaugurante, il parere di Cecchi Paone sull’agenda Draghi, il compleanno di Giancarlo Giannini e così via. I due padroni di casa cercano di fare buon viso a cattivissimo gioco, e si passano la palla come se tutto fosse normale, cercando maldestramente di esternare con entusiasmo quanta armonia regni nello studio. Maria Soave, ex mezzobusto del Tg 13,30, solida e capace, tenta anche di lasciarsi andare con arditi passi di ballo e sorrisi fuori misura mentre Massimiliano Ossini, avventuroso conduttore che ricorda incredibilmente nella fisicità e nella dizione il barman di “Primo appuntamento Crociera”, accompagna le sue domande dal garbo monocorde con frasi fatte buone per ogni occasione che si rispetti: i nodi vengono al pettine, abbiamo bisogno di una boccata d’ossigeno, con piccoli passi si scalano le montagne e altre perle di questo tenore. Alla fine resta un pizzico di smarrimento e un po’ di fiatone per la galoppata estiva, la cui unica consolazione è che si tratta di Uno mattina. Ché se erano due forse era peggio. Q

#musica Da Beyoncé ai Calibro 35, l’estate da ascoltare Le onde del tempo social sono mutevoli e tempestose, e quindi per aver detto su queste pagine che la valanga di uscite estive (di argomento spiaggesco) era piuttosto mediocre, sono stato alternativamente additato come eroe del popolo e rincoglionito conservatore. Sperando di non essere né l’uno né l’altro, provo a fare quello che molti mi rimproverano di non aver fatto, cioè a parlare in positivo,

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GINO CASTALDO perché di musica bella in giro ce n’è eccome. Certo che ce n’è, e anche tanta, basta evitare le insidie delle buche nella sabbia, quindi proviamo a immaginare una playlist per accompagnare degnamente questa tormentata estate. Cominciamo dalle uscite recenti. Al primo posto metterei senza esitazioni un gioiellino delle ultime ore, si intitola “Mon amour”, proposto da Stromae in compagnia di Camila Cabello. Provate ad ascoltarlo e forse vi passerà anche la voglia di fare odiosi commenti in rete, è una meraviglia di empatia e musicalità

panafricana. Dopo averla ascoltata ci si vuole tutti più bene. E per continuare sull’onda straniera non sottovaluterei (solo per divertirsi eh…) anche il nuovo singolo di Beyoncé intitolato “Church girl”, potente, risoluto, con un tamburo basso che smuove il bacino come si deve. Ma nel caso che tutto questo suoni un po’ troppo mainstream, comsiglierei di andare a cercare novità nella nuova vivacissima scena napoletana, vedi Luché che in “La notte di San Lorenzo” rievoca Pino Daniele, e Nicola Siciliano con “Vieni”, bella


Scritti al buio/cinema

CORAGGIO E FOLLIA SULL’ORLO DEL VULCANO Le avventure di Katia e Maurice Krafft in un film tra Cousteau e la nouvelle vague

FABIO FERZETTI Non fossero esistiti davvero, Katia e Maurice Krafft sarebbero i perfetti eroi di un romanzo d’avventura. Due spiriti ribelli e amanti dell’estremo che crescono in Alsazia “tra le macerie del dopoguerra”, si incontrano all’università, scoprono di condividere la stessa divorante passione. Quindi si sposano, diventando ben presto due star di una scienza pericolosa e in ascesa, la vulcanologia. Chi ha visto il meraviglioso “Into the Inferno” di Werner Herzog ne ricorda la fine terribile, da loro stessi tante volte preconizzata: investiti da una nube piroclastica in Giappone per essersi avvicinati troppo, ancora una volta, all’oggetto di ogni loro passione. Lasciando al mondo, come dice questo bel documentario ora nelle arene e dal 25 agosto in sala, «decine di libri, centinaia di ore di filmati, migliaia di foto. E un milione di domande». La loro parabola meritava un’indagine accurata. Ma tutte quelle immagini “catturate” cinepresa in spalla in giro per il mondo, con rischi indicibili, esigevano un trattamento all’altezza di due personalità così estreme e così consapevoli. Bisognava scavare nelle zone più oscure senza trascurare i meriti umanitari. Un vulcanologo capace può infatti salvare migliaia di vite, purché sappia farsi ascoltare. I Krafft unirono al rigore scientifico una formidabile

capacità di comunicazione (dunque un notevole peso politico). Sara Dosa, premiata regista canadese, riesce a fondere tutte queste componenti delle loro avventure in un doppio ritratto che usa con efficacia anche il cinema d’animazione. Estraendo dalle loro immagini la testimonianza di un vero talento cinematografico (anche se loro pudicamente si schermivano). Coniugato a un gusto del pericolo e della trasgressione che rasenta la follia. Vedere Maurice pagaiare beato in canotto sul più grande lago di acido solforico al mondo, può provocare il capogiro. Ma non mancano momenti umoristici. Come i 27 guasti subiti dalla loro fragile Renault 4 fra i crateri dell’Islanda, prima dell’incidente definitivo. O il pietrone che Maurice tira sulla testa della povera Katia per collaudare un casco che sembra uscito da un romanzo di Verne. Coraggio, follia, gusto kantiano del Sublime. A cavallo tra Cousteau e le nouvelles vagues europee, i Krafft meritavano il grande schermo. Eccoli risarciti. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

“FIRE OF LOVE” di Sara Dosa Canada-Usa, 93’, 000’

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Foto: L. Busacca - GettyImages

Beyoncé

ombrosa, incalzante. Irrompono senza sosta nuove ragazze, più o meno cattive. Mi ha colpito Cate con “La mia generazione”, visto che con tutto il suo candore la dice dice dritta per dritta, una sorta di “Father and son” di Cat Stevens 2.0, ovvero sia: non capite, fate uno sforzo, può essere che abbiamo ragione noi. Messaggio ricevuto. E per completare il file giovani donne c’è pur sempre Billie Eilish, dolente e raffinata. La

sua “Tv”, al contrario delle frettolose modalità correnti, chiede di essere ascoltata fino alla fine, perché si conclude con una lunga ripetizione della frase “I’m the problem” sulla quale parte un coro di 21mila fan che l’hanno cantata con lei a Manchester. Emozione garantita. Per non dire che permane in classifica Kate Bush con “Running up the hill” e possiamo far finta che

sia un pezzo nuovo per arricchire l’ideale playlist. Torniamo in Italia per concludere in bellezza. Celebriamo il ritorno degli Assalti Frontali che continuano a dire sempre quello che pensano. E lo fanno molto bene in “Ufo nella scena”. Se addirittura si avesse il desiderio di dedicarsi all’ascolto di un intero album, non ci sono dubbi. Il disco da ascoltare, per intero, si intitola “Scacco al Maestro”, meravigliosa rivisitazione delle musiche di Ennio Morricone ad opera dei Calibro 35. Provate ad ascoltare “C’era una volta il west” (feat. Diodato) e non potrete evitare di ascoltarlo tutto. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Noi e Voi

N. 31 7 AGOSTO 2022

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CARO LETTA, TI SCRIVO... RISPONDE STEFANIA ROSSINI [ STEFANIA.ROSSINI@ESPRESSOEDIT.IT ] Cara Rossini, attraverso L’Espresso vorrei mandare una lettera ad Enrico Letta. Eccola: Caro Enrico, avete deciso che a settembre si voterà e io non ci sarò. Non so se quest’anno verrà due volte Natale, ma forse neanche uno, senza profanare ancora Dalla, che sembra abbia già detto tutto. Sì a settembre non verrò alle urne, come ormai da anni, e senza contentezza alcuna. So che non darò un buon esempio alle mie figlie universitarie che incito costantemente a scendere in campo, ma non con questi partiti, che si occupano (e non so come) soltanto di chi ha una pensione o un buon conto corrente, non permettendo a tanti giovani di riuscire pure loro ad avere quelle sicurezze. Mentre scrivo sono all’ingresso di un concerto tenuto da un famoso giovane cantante che va per la maggiore, nell’entroterra marchigiano, osannato da circa 15mila giovanissimi, prevalentemente ragazze. Magari queste avranno nonne che seguivano i vari Morandi o Celentano e che bene o male una pensione o una casa oggi ce l’hanno. Non così nel futuro quelli che vedo qui. Nell’immediato vincerà questo destra-centro, dei cui leader sappiamo tutto e magari qualcuno di loro sul palco dirà, pausinianamente, “io ce l’ho come todos...”. Penso che il Pd dovrà un po’ purgarsi, non darsi una pennellata di vernice fresca, lasciando la scena pubblica ai giovanissimi, ghigliottinando il passato. Spero che non pensi anche lei che non si può far condurre una macchina a chi non ci è mai salito su. Mi sembra che noi adulti, espertissimi nella guida, la macchina Italia l’abbiamo distrutta per bene. O no? Io non ho altra speranza per il futuro che i giovani e vederli scendere in campo subito. Chi le scrive è un iscritto Fiom di origine centrista e nel nostro settore immagino molto astensionismo e melonismo. Avere 20 anni e non essere per niente padroni del proprio futuro è cosa drammatica. Cosa ci diranno domani questi ragazzi, signor Letta, quando saranno adulti, anche se oggi cantano i loro beniamini? A lei la scelta se volerci o no al voto, e come. Andrea Anderlucci

Pubblico volentieri questo appello-rimprovero a Enrico Letta, ma non posso non correggere il signor Anderlucci almeno su un punto: se c’è un politico che tenta di occuparsi di giovani fino a farsi insultare quando propone un bonus di 10 mila ai diciottenni, questi è proprio il segretario del Pd. Per il resto è vero che il partito è pieno di anziani professionisti della politica, incapaci di raccogliere istanze da trasformare in cambiamento e di lasciare spazio a forze più fresche, come ha fatto a suo tempo Rosy Bindi e come sta facendo oggi Pier Luigi Bersani. Va detto però che i ragazzi ci pensano da soli a occupare spazi nuovi e su temi diversi dal passato. Niente più lotta di classe, impraticabile in un mondo del lavoro precarizzato e instabile, ma giustizia sociale e soprattutto ambiente. Vanno a votare poco, è vero, anche perché, come illustra un recente rapporto Ipsos, più del 40 per cento di loro non sa chi votare. E su questo punto è difficile dar loro torto.

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N. 31 - ANNO LXVII - 7 AGOSTO 2022 TIRATURA COPIE 224.750

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Michele Serra

Satira Preventiva

I “nation fluid” reclamano diritti Nessuno può essere inchiodato a una nazionalità solo per nascita. La lotta dell’impiegato andaluso per essere riconosciuto giapponese

Le sorprese I colpi di scena sono garantiti. È recente, per esempio, la scoperta di una agguerrita minoranza russa a Pavia, che ha chiesto la protezione di Mosca, e di una minoranza kosovara all’interno delle minoranza serba del Kosovo. Gli studiosi di cose balcaniche non escludono che dentro questa minoranza kosovara interna alla minoranza serba del Kosovo, sia contenuta una ulteriore minoranza serba, che sarebbe dunque la minoranza serba della minoranza kosovara della minoranza serba del Kosovo. Una situazione molto ingarbugliata che richiederà, nei trattati internazionali, la distinzione tra minoranze nazionali di primo, secondo e terzo grado. La definizione Ma come si definisce una Nazione? Secondo le nuove teorie sovraniste, basta depositare stemma e

bandiera presso un notaio e fissare una capitale e si può cominciare a legiferare in proprio, allegando fotocopia della carta d’identità e tessera sanitaria. Ovviamente, essendo la Nazione un concetto collettivo per eccellenza, bisogna essere almeno un paio di famiglie. È il caso della minoranza slavofona in Tibet, composta da due cugini secessionisti e dalle loro mogli. Sorprendente il fiorire di nuove nazionalità nella ex Unione Sovietica, molte delle quali, sotto il comunismo, erano rimaste sconosciute agli stessi popoli interessati, che hanno scoperto solo recentemente la propria identità nazionale. I berghezi, i turalli, i pàpari, i mornati, gli uriani, gli ottantotti (che prendono il nome dal loro numero): popoli dispersi e perseguitati che finalmente stanno ritrovando le proprie tradizioni e la propria storia, dopo secoli di oblio, e potranno dare vita, ciascuno secondo le proprie possibilità, a conflitti piccoli, medi e grandi, ognuno indossando con orgoglio la sua pittoresca uniforme nazionale: i berghezi con il doppio pennacchio di fagiano, gli uriani con i caratteristici shorts di corteccia, gli ottantotti a torso nudo e con il prezioso copricapo di baffi di foca. Sono le conquiste del nazionalismo: tornare alle usanze degli avi, senza dare alcun peso

SI STA FACENDO STRADA L’IDEA CHE PER APPARTENERE A UN PAESE BASTI L’AUTOCERTIFICAZIONE 98

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all’ipotesi che gli avi potessero essere fior di coglioni. La novità A complicare la situazione, sta entrando in scena il trans-nazionalismo. Si tratta delle persone che rifiutano la propria nazionalità di nascita. Il primo caso fu quello di Manolo Rodriguez, un impiegato andaluso che, pur non essendo mai stato in Giappone, e non sapendo nemmeno una parola di giapponese si è sempre sentito giapponese. La sua lotta per il riconoscimento del proprio diritto di essere giapponese è stata più forte dell’indifferenza del governo spagnolo e di quello giapponese. Ora Manolo conduce la stessa vita di prima (è impiegato postale a Siviglia), ma si fa chiamare Oshima e tutti rispettano la sua scelta. In molti paesi si fa strada l’idea che per definirsi giapponese, o turco, o malese, basti l’autoidentificazione. Interessante anche il fenomeno del nation-fluid: a seconda del momento, ci si può sentire congolesi, californiani, usbechi, svedesi. Questo ha eccellenti ricadute nel campo dei diritti della persona, ma potrebbe comportare qualche problema in caso di conflitto. Se per esempio il congolese fluid, combattendo con i turchi, si sentisse improvvisamente turco, potrebbe arruolarsi all’istante nell’esercito nemico, attraversando la linea di fuoco, o sarebbe crivellato da ambo le parti e dunque non potrebbe esercitare il suo diritto di autodeterminazione? E un presidente russo che un bel mattino si sveglia sentendosi americano, potrebbe insediarsi alla Casa Bianca? Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

Illustrazione: Ivan Canu

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l nazionalismo è tornato di moda, e con lui una serie di usanze collaterali ottocentesche (i baffi a manubrio, le sfide a duello, la cacca di cavallo, le giacche da ufficialetto con gli alamari, i sali per far rinvenire le signore) che parevano sepolte nel tempo, e invece daranno il tono ai prossimi anni, con guerre sempre più avvincenti, sempre più imprevedibili.




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Noi e voi

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Scritti al buio

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Lo sguardo di Leila Alaoui sulle contraddizioni dell’Islam Angiola Codacci-Pisanelli 86 L’imprenditore mecenate che ha creato una casa-museo Luana de Francisco

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Le due vite di Mazen, “Mi volevano femmina, difendo i diritti” Simone Alliva

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L’abisso del desiderio Matteo Nucci

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La lotteria del pallone Gianfrancesco Turano

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graphic novel di Nora Krug 53 Il dilemma jihad dei Talebani Giuliano Battiston

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Il pizzo viaggia online colloquio con Roberto Baldoni di Giancarlo Capozzoli

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Nella tempesta la nave ha i motori spenti Vittorio Cogliati Dezza 36 Grande freddo alle porte Gloria Riva

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Il programma di Meloni: discriminare Loredana Lipperini 18 Noi siamo Giorgia Susanna Turco

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Manfellotto

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A chi la tangente? A noi! Paolo Biondani e Carlo Tecce

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Capra e cavoli nel campo largo Gabriele Bartoloni

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