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Il programma di Meloni: discriminare Loredana Lipperini 18 Noi siamo Giorgia Susanna Turco

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Noi e voi

Noi e voi

Giorgia Meloni parla ai giornalisti durante una manifestazione a Salerno DIRETTORI DI TG, BOIARDI DI STATO, MAGISTRATI E VECCHIE CONOSCENZE. È PARTITA LA CORSA A SALIRE SUL CARRO DI FDI. TELEFONANO, SCRIVONO, PLANANO. IN VIA DELLA SCROFA LO CHIAMANO L’ESERCITO DI MORDOR

Foto:: A. Paduano - Redux / Contrasto

Una candidatura per me? Non mi pronuncio». Parola di Enrico Michetti. Ecco qua il fenomeno, in tutta la sua interezza: il carro di Giorgia Meloni è così vasto e accogliente che potrebbe esserci posto persino per lui, l’avvocato «meravijoso», il mitologico candidato a sindaco di Roma nell’ottobre 2021: sparito dai radar un minuto dopo la rovinosa sconfitta, eppure chissà. Spazio del resto ce ne è, lo sanno tutti.

E infatti l’arrembaggio all’improvviso è cominciato. Dentro il partito il fenomeno è stato ribattezzato con ironia alla Tolkien: «Mordor», oppure nella versione più estesa «l’esercito di Mordor», la sterminata armata del male della saga del “Signore degli anelli”. L’esercito è quello degli aspiranti: che sia un nome in lista, una nomina futura, un posto al sole. Telefonano, twittano, scrivono, ammiccano, planano. Presenziano. Mandano pizzini, anche social. Segnalano e fanno segnalare.

Un’onda che andava in crescendo dalla primavera - uno dei più pronti è stato il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, come si dirà - ma che improvvisamente si è impennata. Le elezioni a settembre, la formazione delle liste, i posti sicuri, le percentuali, i listini. Le poltrone di governo e di sottogoverno. Le nomine.

Nei Fratelli d’Italia, dove essendo destra-destra a queste cose sontuose da promessi vincitori non sono granché abituati, si reagisce tra il soddisfatto e lo sbigottito, tra il festoso e l’incredulo. C’è chi ricorda analoghi momenti: ad esempio quando sul carro di

Alemanno prossimo sindaco di Roma si affollò gente mai vista fino a un minuto prima.

Tutti a dire «Caro Gianni», allora. Tutti a dire

«Cara Giorgia», adesso.

Il più rapido, come sempre, è stato Gennaro Sangiuliano, anche se per lui si è trattato di un ritorno: attuale direttore del Tg2, incarico giunto sulle ali della sua più pura fase salvinian-sovranista-putiniana, incarico coerentemente sopravvissuto nella fase fervente draghiana immediatamente successiva, è risorto pubblicamente a creatura post missina nella convention di fine aprile di FdI, quando in apertura dei lavori ha ricordato copiosamente Pinuccio Tatarella, il ministro dell’Armonia, e la sua ispirazione dialogante. Tatarellianamente oggi Sangiuliano viene dato come possibile quota non solo di Fratelli d’Italia, ma anche di Lega e di Forza Italia. In perfetta armonia: del resto di lui si parlò anche come possibile governatore del Lazio. Sangiuliano ora smentisce qualsiasi candidatura il che, per un paradosso solo apparente, aumenta la possibilità che salga ancora di posizioni in Rai. Assieme con l’uomo che continua a seguire i dossier di viale Mazzini per conto di Meloni e che sembra destinato ad ascendere ai suoi vertici: l’ex consigliere Giampaolo Rossi, marettiniano, già presidente della commissione Cultura alla Regione Lazio, direttore di master alla Link campus university, autore del Manifesto dei Conservatori per Roma di Michetti, nonché di post su Facebook imbarazzanti per via della Scrofa, come quello in cui diede del Dracula a Mattarella o quello in cui evocò le origini del totalitarismo a proposito di Draghi.

Per il resto, sulla stanza blindata delle candidature - affidata al tandem dell’eterno Ignazio La Russa e del capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida, entrambi in pole per entrare in un prossimo governo - tenta di arrivare di tutto. Sondaggi alla mano Fdi è quasi l’unico partito dell’arco costituzionale che è destinato ad aumentare di parecchio i suoi parlamentari, nonostante il taglio votato in questa legislatura. E l’accordo con Fi e Lega, che assegna ai Fratelli d’Italia 98 collegi uninominali su 221, sono partite le danze. Il vero Susanna Turco problema, da qui al 22 ago-Giornalista sto, sarà dividersi quelli

vincenti (si dice che Fdi vorrebbe accaparrarsene una settantina, cui si aggiungeranno altri 80/90 del proporzionale, per un totale pari a tre volte quello attuale).

Intanto la capa, che si fida per nulla di Matteo Salvini e pochissimo delle capacità di tenuta di Forza Italia, ha già stabilito il criterio primario: saranno ricandidati gli uscenti, compresi tutti i responsabili dei vari dipartimenti di Fdi. E insomma priorità all’apparato perché su quello si può contare e di quello ci si deve fidare. Prima l’usato, la sicurezza dentro cui rinchiudersi in caso di traballamenti dell’alleanza con Lega e Fi. Accanto è prevista una quota “società civile”, per la quale la pre-selezione era già stata evidente nella Conferenza programmatica di fine aprile a Milano, vera prova generale di una Meloni che vuol governare, portando il partito che ha come simbolo la fiamma che fu missina stabilmente nell’alveo dei conservatori. C’è ad esempio Beatrice Venezi, direttrice d’or-

chestra che aprì il concerto del primo maggio della convention milanese, dedicato ai lavoratori precari subito prima dell’intervento finale di Meloni. C’è Matteo Zoppas, ex presidente di Confindustria Veneto e ottimo esempio di come una certa imprenditoria del nord abbia volto gli occhi dal carroccio alla fiamma: a inizio legislatura il rampollo della dinastia degli elettrodomestici si raccomandava alla Lega contro il grillino decreto dignità, da lui avversato; a fine legislatura era ospite di rilievo nella convention in cui Meloni ha voluto parlare al Nord e qualificare il partito agli occhi del mondo economico. C’è Carlo Nordio, l’ex magistrato, anche lui ospite onorato di Meloni nonché fra i nomi dei quirinabili del centrodestra, insieme con Letizia Moratti (in predicato anche lei, non dovesse entrare la candidatura per la regione Lombardia). Ci potrebbe essere anche il numero due del partito, Raffaele Fitto, che però ha un ruolo prezioso in Europa.

La partita dei nomi che potrebbero entrare in lista si incrocia – visto che si ragiona più del “come” che del “se” della vittoria – con la pattuglia dei ministrabili. Tra questi c’è sicuramente Giulio Tremonti, con cui Meloni ha coltivato un rapporto di stima e simpatia sin dai tempi in cui entrambi erano nel governo Berlusconi (già allora lei, che era ministra della Gioventù, si produceva in una efficace imitazione del superdominus dell’Economia), anche se sull’ex ministro potrebbe pesare un veto di Forza Italia. Nel dream team di Meloni spuntano anche i nomi dell’ad dell’Eni Claudio Descalzi, il cui mandato è tra i molti che scadono a primavera 2023; ma anche Fabio Panetta, uno dei Draghi boys, già dg della Banca d’italia e ora nel board della Bce. Seguendo la filiera del rapporto di stima che Meloni ha coltivato con Draghi in questi mesi da duellanti, si arriva a un altro nome considerato papabile per un posto di ministro: quello di Roberto Cingolani. Considerato d’area centrosinistra, arrivato al governo come presunta garanzia per i grillini (così lo presentò Grillo in persona), rivelatosi draghiano solo all’ultimo Consiglio dei ministri, quando accusò Orlando di «fare il gioco di Conte», il ministro Cingolani ha sempre avuto un dialogo fluido con Fratelli d’Italia, tanto che non stupirebbe restasse dove è anche nel prossimo governo. Meloni, d’altra parte, non ritie-

NEL DREAM TEAM CI SAREBBE ANCHE IL MINISTRO ROBERTO CINGOLANI, PER FARE DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA UN POSSIBILE PUNTO DI CONTINUITÀ CON L’AGENDA DRAGHI

ne che tutta l’agenda Draghi vada dismessa: e anzi, proprio la Transizione ecologica, fulcro di tanti passaggi del Pnrr, potrebbe rappresentare attraverso la riconferma di Cingolani un punto di continuità con quell’esperienza – e forse non l’unico.

Meloni non vuol tirare fuori anzitempo la lista dei ministri (come le chiede Salvini), ma è abbastanza chiaro quali siano gli uomini di Fdi pronti per il salto al governo, posto che nel prossimo, dimezzato, Parlamento non potranno essere molti quelli col doppio incarico, pena il non funzionamento di Camera e Senato. Forse per rassicurare anche su questo fronte, tanto più dopo gli stravolgenti anni dei signori nessuno alla Toninelli e Sibilia, la squadra è un puzzle di già visto. Alla faccia dell’arrivano i nuovi: attorno al tavolone potrebbero stare Ignazio La Russa, magari di nuovo alla Difesa; Adolfo Urso, già finiano, già viceministro del commercio con l’Estero, da sempre collettore di mondi, da quelli at-

Da sinistra, in senso orario: Fabio Panetta, Gennaro Sangiuliano, Guido Crosetto e Giulio Tremonti torno alla Fondazione Farefuturo a quelli del suo ultimo incarico di presidente del Copasir ; Francesco Lollobrigida, detto Beautiful alla fine degli anni Novanta, quando cioè nel pieno solco della endogamica tradizione missina già era fidanzato con la futura moglie Arianna Meloni (secoli prima che lei fosse ribattezzata «sorella di» e lui «cognato di»), e che in ultimo si è segnalato per efficaci manovre a Montecitorio che lo rendono compatibile col ruolo di ministro dei Rapporti col Parlamento. Discorso diverso è da farsi per il consigliere maximo di Meloni, Guido Crosetto: presidente dell’Aiad, assai restio a lasciare un posto del genere che però è incompatibile con qualsiasi incarico politico, sarebbe il nome da mettere in campo nel caso in cui le elezioni non andassero così bene, per il centrodestra. Meloni, infatti, è pronta a guidare il governo. Ma se il risultato del centrodestra, con Fi che zoppica e la Lega che non si sente troppo bene, non dovesse garantire sufficiente stabilità al prossimo governo, spiegano nel partito, scatterebbe un piano B. Il piano Crosetto, ad esempio: un nome capace di convogliare consensi più trasversali, assai benvoluto dai centristi e dai forzisti, come si è potuto toccare con mano quel giorno di gennaio in cui, candidato per provocazione da Fdi prese 114 voti, il doppio di tutti quelli di Fdi, solo 11 meno di Mattarella. Q

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