4 minute read

ECONOMIA SUCCESSI D’OLTREOCEANO

MARCO FERRARI

Quando gli italiani si dispiegarono a migliaia nel continente latino-americano, una delle prime cose a cui pensarono fu il bere. Gran parte delle etichette di vino prodotto in Argentina e Uruguay portano cognomi italiani. Tra le «bodegas» uruguaiane si distinguono quelle della famiglia Giacobbe che nel 1903 da Genova si stabilì nella zona di Manga, allora periferia rurale a nord di Montevideo, giunta alla quarta generazione; cantina Bracco Bosca è sorta dalla fusione di due famiglie che erano vicine di casa in Piemonte; alla Bodega Mori Maglio si deve invece l’introduzione in Uruguay dell’uva Ancellotta, originaria dell’Emilia. Questo vitigno si produce ora a Parada Dayman, nel dipartimento di Paysandú, ed è venduto in edizione limitata sotto il nome María Rosa Ancellotta, omaggio alle donne della famiglia. Una delle più grosse aziende del settore in Uruguay fu avviata dal piemontese don Próspero José Pizzorno a Canelón Chico, dipartimento di Canelones. Il salto avvenne agli inizi degli anni Novanta quando Carlos, nipote del fondatore, decise di scommettere sulle innovative tecniche di coltivazione per i vini di alta qualità oggi venduti prevalentemente all’estero.

Ma la zona più nota in Sud America per la vite è quella di Mendoza, situata nelle colline pedemontane delle Ande. Qui i primi vigneti vennero innestati dai gesuiti nella metà del Cinquecento. All’inizio dell’Ottocento con l’introduzione delle barbatelle malbec, innestate a un’altitudine da 650 a 1.070 metri sul livello di mare, si ebbe una crescita impressionante della qualità del vino mendozino. Il merito va a un veneto, Antonio Tomba, nato a Valdagno nel 1849, giunto in Argentina nel 1873: capì che la ragione per cui il vino non veniva troppo buono, era il caldo eccessivo al tempo della vendemmia. Scelse cantine fresche e riparate e quindi i frigoriferi. Sposatosi con Olaya, figlia dei Pescara, nobile famiglia italiana, ebbe un tale successo che venne raggiunto dagli altri fratelli, già viticoltori in Italia. La famiglia Tomba è stata la prima a esportare nella penisola il vino di Mendoza, rivo-

PRECURSORI

Felipe Rutini e, in alto, Antonio Tomba. A destra una sala da concerti in una cantina vinicola nel distretto di Valle de Uco nella provincia di Mendoza, in Argentina luzionando pure i sistemi di macinazione e di filtrazione avvalendosi prima dell’enologo ligure Gracco Spartaco Parodi e quindi di Adriano Fugazza. Altri imprenditori italiani del vino sono i Galise, i Toso e soprattutto Felipe Rutini: sbarcato in Argentina nel 1889, ha fondato la sua cantina, la Bodega La Rural che oggi ospita un museo con i più vecchi macchinari vinicoli. Nel 1887 è stata la volta di Juan Giol e Bautista Gargantini che hanno comprato un pezzo di terra a Maipú diventando a inizio Novecento i viticoltori più ricchi del Paese. Al suo apice, la cantina, chiamata Colina de Oro, occupava 260 ettari, producendo metà del vino argentino. Venduti i terreni e tornato in Italia, Giol ha lasciato il Museo Nacional Del Vino y la Vendimia nella Casa de Giol a Maipú, contribuendo anche alla creazione della Escuela Nacional de Vitivinicultura, corroborata da docenti italiani quali Renato Sanzín, patologo botanico e Modestino Jossa, enochimico e diretto- re del laboratorio della scuola. Con l’arrivo di migliaia di emigranti italiani, nel 1885 si costituì la ferrovia Mendoza-Buenos Aires che serviva a trasportare il prodotto sulla costa ma anche manodopera italiana nella regione. Oggi tre quarti della produzione vinicola annuale dell’Argentina (circa 1.240.000 bottiglie) viene dalla regione di Mendoza, pari a 1,3% del Pil del Paese.

Lo spezzino Dante Salvietti si avventurò nella giungla. Era partito nel 1918, lasciando i genitori Anselmo e Assunta e dieci fratelli, nella loro piccola mescita di vino, come racconta un suo discendente, Renato Pucci Salvietti. A Genova salì su un transatlantico che lo scaricò ad Antofagasta, in Cile. Con in tasca un biglietto con l’indirizzo di un’altra famiglia spezzina, i Mosca, stabilitosi in Bolivia raggiunse La Paz, si spostò a Chulumani e, nel solco di una ditta che vendeva gazzose alla Spezia avviò una fabbrica di bibite e sciroppi. Iniziò a sperimentare una miscela di estratti

Per approfondire o commentare questi articoli o inviare segnalazioni scrivete a dilloallespresso@ lespresso.it di frutta, acqua di sorgente e ginger seltz. Un po’ scienziato, esploratore e uomo d’affari, scoprì per caso un frutto speciale, dalla polpa fresca e dal sapore incantevole, la papaya di Chulumani e nel 1920, riuscì a introdurre nel mercato boliviano il prodotto chiamato “Champan Cola”. Il 24 luglio di quello stesso anno mise in vendita con il nome di Papaya Salvietti la sua invenzione in una bottiglia di vetro spesso, di colore verde. Quando un branco di muli imbizzarriti distrusse interamente la piantagione di papaya tornò nella capitale, come racconta Mauricio Belmonte Pijuan nel libro “Polenta, Familias Italiana en Bolivia”. Lì, chiamando dalla Spezia i fratelli Ruggiero e Pierino avviò la più laboriosa industria di bibite della Bolivia. Lo sciroppo di papaya dolce e aromatico prodotto nelle Yungas si trasformò gradualmente fino a diventare una consistenza gassosa ed effervescente, come è noto ancora oggi. Sposatosi con una boliviana, Esther Nieto, Dante ebbe tre figli, Guillermo, Mario e Anselmo. Nel 1954 decise di tornare alla Spezia, dove morì nel 1974. La Papaya Salvietti è diventato uno dei prodotti tipici della Bolivia e lui un personaggio da leggende. Si narra che Dante, passeggiando nel boschetto Pura Purao si imbatté in un folletto che gli fornì una ricetta segreta per la papaya in cambio di comparire sulle etichette delle bottiglie. La ditta è però fallita nel 1995 e tutte le proprietà, ad eccezione della formula della soda, furono messe all’asta. Ha riaperto nel 2015, quando la bevanda è stata rilanciata e il folletto è ricomparso negli scaffali dei negozi. «Da cento anni, sebbene siano state apportate alcune modifiche, il sapore della bevanda è stato mantenuto», dicono dall’azienda, gestita prima da Anselmo Salvietti, successivamente dal figlio Armando, adesso da Gabriele Salvietti, pronipote di Dante. Dal 2011 la produzione è passata da 20 mila a 100.000 confezioni di tutti i formati esportati in gran parte dei Paesi latino-americani.

Flor de Caña, il rum più noto al mon-

This article is from: