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Ci serve il gas, aiutiamo Baku Sabato Angieri 68 Erdogan gioca d’azzardo Filippo Rossi
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by BFCMedia
Medio O rient e / Turchia ERDOGAN GIOCA D’AZZARDO
DI FILIPPO ROSSI DA ISTANBUL
opo il quarto incontro conse-
Dcutivo con il presidente russo Vladimir Putin in Kazakistan, a metà ottobre, Recep Tayyip Erdogan ha detto: «Non abbiamo tempo da perdere». Parlava della creazione di un “hub” in Turchia per lo smistamento e il trasporto del gas russo verso l’Europa. Ma ha sopratutto messo in evidenza il ruolo sempre più centrale che sta giocando in questi mesi la Turchia, distante da una Nato diffidente e da un’Europa sempre più dipendente.
Il gasdotto, chiamato TurkStream e in funzione già dal 2020 (trasporta oggi 31,5 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno verso l’Europa), permetterebbe, con un potenziamento, di evitare l’Ucraina e i gasdotti sabotati nel Mar Baltico, rendendo la Turchia un passaggio obbligato.
Una delle mosse che ha evidenziato la volontà di Erdogan – alle prese con una crisi interna da risolvere – di portare avanti una diplomazia veloce e concreta. Tesa ad accreditare il presidente come mediatore internazionale e il suo Paese come potenza continentale sullo scacchiere internazionale, indipendente in egual misura da Oriente e Occidente.
SI ACCREDITA COME PONTE TRA EST E OVEST E TIENE IN SCACCO L’EUROPA. APRE AL MONDO ARABO E CON UNA SFILZA DI MISURE POPULISTE IN FUNZIONE ANTI-CRISI PROVA A FARSI RIELEGGERE
Oltre a creare i presupposti per un futuro incontro con il presidente siriano Assad e mediare un sempre più realistico accordo di pace nel Caucaso fra Armenia e Azerbaijan (rispolverando il progetto di avvicinamento dell’Asia centrale turcofona), Erdogan ha trattato la ripresa del trasporto di grano e uno scambio di prigionieri tra Mosca e Kiev. Il vero obiettivo di Ankara rimane però quello di un cessate il fuoco che porti a un accordo di pace fra i due Paesi.
Tuttavia, i legami politici e commerciali
di Erdogan con la Russia hanno fatto imbestialire Bruxelles e Washington, indecise su come trattare l’alleato diventato indispensabile tanto sul grano quanto sul gas ma considerato “pericoloso”.
Dalle relazioni con Putin, Erdogan ha incassato un aumento del proprio export e un prestito di 8 miliardi che gli serve a rimpolpare le esigue riserve della Banca centrale, oltre a uno sconto sul prezzo del gas. Decisiva la scelta di non legarsi le mani rifiutando di aderire alle sanzioni occidentali nei confronti della Russia ma approvando solamente quelle delle Nazioni Unite con annessa condanna dell’invasione in Ucraina. La posizione equidistante della Turchia – parte della Nato dal 1952 – sulla guerra in Ucraina, visto che vende anche armi a Kiev, è lo specchio di prossimo riposizionamento. È ciò che intravede anche l’ammiraglio Cem Gürdeniz, analista politico di stampo liberale che si oppone al governo Erdogan: «La Turchia non ha bisogno della Nato, rimane all’interno perché vuole difendere i propri interessi ma sapendo benissimo che oggi è diventata uno strumento dell’egemonia angloamericana». Secondo Gürdeniz, uno dei motivi per cui Erdogan potrebbe allontanarsi dalla Nato è il sostegno indiretto degli Usa al Pkk: «Perché essere alleati di qualcuno che sostiene un movimento terroristico nel proprio Paese?» si chiede polemicamente Gürdeniz. La Nato, dal canto suo, considera la Turchia come un membro infido e alcuni esponenti hanno considerato la possibilità di sollecitarne l’espulsione. E la situazione non è migliorata dopo il no della Turchia alle richieste di adesione di Svezia e Finlandia, sospese proprio per via del veto di Ankara. Erdogan ha preteso una prova di lealtà chiedendo l’estradizione di terroristi del Pkk che vivono nei due Paesi e ha bollato come «promesse» le rassicurazioni ricevute. Un altro segnale d’allarme per Europa e Stati Uniti è dato dalle relazioni disastrose che la Turchia intrattiene con la Grecia per via di rivendicazioni territoriali, condite da accuse sul mancato rispetto di accordi storici di convivenza pacifica e di violazione dei confini, spinte al limite dell’escalation militare. «Se fosse per me, la Turchia dovrebbe uscire dalla Nato, dall’unione doganale europea, abbandonare la richiesta di adesione all’Ue e allontanarsi dai diktat occidentali. Se ci sono economie fiorenti come la Cina e l’India, perché bisogna continuare a sottomettersi a chi ci considera un peso, inferiori, un pericolo e vuole controllarci dicendo di essere nostro amico?», si interroga Gürdeniz rivendicando il proprio nazionalismo, condiviso da una gran fetta della popolazione indipendentemente dalla collocazione politica rispetto a Erdogan. Il quale, dal canto suo, trae il massimo del vantaggio da questo sentimento diffuso di amore-odio fra Ankara e l’Europa, giocando sul filo del ricatto proprio mentre si guarda intorno e altrove. Per alleviare i suoi problemi economici la Turchia non si è rivolta soltanto a Russia e Ci-
Filippo na ma ha approfondito anche la cooperazio-
Rossi ne con il Qatar, riallacciando rapporti con Giornalista l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti,
Una gigantografia del presidente turco Recep Tayyip Erdogan esposta a una manifestazione filogovernativa a Istanbul, nel 2013
aprendo ai fondi di investimento per decine di miliardi di dollari. Un ulteriore elemento della disinvoltura delle alleanze strategiche arriva da Purnima Anand, la presidente del forum internazionale dei cinque Paesi emergenti del Brics: ha riferito che tra gli Stati interessati ad aderire l’anno prossimo alle intese di cooperazione economica c’è anche la Turchia.
Il Paese, infatti, vive da mesi ormai un momento di difficoltà economica, con la caduta del 27 per cento della Lira, un’inflazione al 90 per cento, e una situazione di difficile convivenza con i milioni di rifugiati siriani ancora in territorio turco. Il governo, attraverso la Banca centrale (che ha cambiato il direttore tre volte nell’ultimo anno), ha deciso di tagliare i tassi d’interesse arrivati fino all’11 per cento (il che porterà il deficit del Paese al 6,4 per cento del Pil).
In un momento di grandi vittorie diplomatiche, quindi, Erdogan e il suo governo devono gestire un conflitto interno dovuto soprattutto alla crisi economica che potrebbe esacerbarsi con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali previste per giugno 2023. Rispecchieranno le tensioni nella società turca contemporanea, che vede opporsi i nostalgici di un’occidentalizzazione forzata kemalista, ormai passata alla storia, a chi appoggia valori più consoni alle radici, riesumando la religione islamica e guardando ad altri lidi per costruire un futuro economico più solido.
A ciò si aggiunge una legge sui media ratificata dal Parlamento a metà ottobre. Prevede fino a tre anni di reclusione per chi «diffonda notizie false tra il pubblico, sia all’estero che all’interno del Paese». Una legge considerata “pericolosa” dagli oppositori del governo e che colpirebbe soprattutto i piccoli media del Paese, ma che Erdogan reputa «impellente per la sicurezza e la pace dei turchi».
Elementi di debolezza che l’opposizione al partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp), presieduto da Erdogan, potrebbe sfruttare per indebolire la propria posizione. Ma la minoranza è disunita e priva di un leader carismatico che possa contrastare la campagna politica del presidente, iniziata già da settimane. Sebbene l’Akp fosse dato in netto svantaggio nelle ultime settimane la tendenza è cambiata sull’onda delle contromisure di stampo populista annunciate da Erdogan per contrastare l’aumento vertiginoso dei costi della vita. Ha tradotto, per esempio, lo sconto sulla vendita del gas con uno slogan a beneficio della popolazione più colpita dalla crisi: «Nessuno avrà freddo». E grazie ai fondi di investimento esteri e a un turismo in ripresa ha annunciato di voler costruire 500 mila nuove abitazioni a basso costo nei prossimi 5 anni destinate a famiglie in difficoltà. Un progetto da 49 miliardi di dollari, con 3 milioni di richieste già arrivate. Ha poi aumentato il salario minimo nazionale, gli stipendi degli statali, eliminato gli interessi sui prestiti per gli studenti, incentivato le esenzioni fiscali per i commerci. E giurato che «l’inflazione ritornerà normale a febbraio», dovendo scommettere sul breve tempo, consapevole che lo spazio di manovra per conquistare il consenso degli indecisi è estremamente ridotto.
E mentre la Turchia si impone come un ponte fra Est e Ovest, tenendo in scacco l’Europa, l’Occidente non sembra intenzionato a riconoscerne il ruolo. In questo quadro, le elezioni del prossimo anno rischiano di trasformare il Paese in una polveriera. Alle prese con la battaglia elettorale, Erdogan giocherà tutte le carte a disposizione per rinsaldare prestigio e potere. Le spinte dell’opposizione per contrastarlo finirebbero per giocare su un terreno di posizioni estreme per conquistare porzioni di elettorato ostili al presidente ma ideologicamente oltranziste.
I LAVORI
L’interno della Pioneering Spirit, nel 2018: la nave posatubi è stata usata per la costruzione del gasdotto TurkStream
DONNE E CURDI UNITI NELLA LOTTA COLLOQUIO CON ASO KOMENI DI MARIA EDGARDA MARCUCCI l 16 settembre 2022 a Teheran una pattuglia della polizia morale fer-I ma una giovane donna accusata di indossare l’HIjab in maniera inapproriata. Si tratta di Jina Mahsa Amini, ventiduenne curda in visita da dei parenti nella capitale. La ragazza viene arrestata, poche ore dopo muore in custodia. La polizia dichiara che la causa del decesso è un malore al cuore, la famiglia smentisce: impossibile, era in piena salute. Escono i referti del ricovero, si vedono diverse fratture, una profonda sul cranio. Amini era originaria di Saqqez, città del Rojhilat, il Kurdistan iraniano, dove nel giro di poche ore le persone cominciano a scendere in strada, chiedendo giustizia. Le manifestazioni si diffondono immediatamente in tutta la regione curda, dalla vicina Sanandaj arrivano fino a Theran e poi in tutto il resto del Paese. È passato poco più di un mese, ma ripercorrere ciò che è successo nelle ultime settimane in Iran, già vuol dire parlare della Storia di questo Paese. Perché queste proteste ne stanno scrivendo un capitolo importante. È presto per capire cosa si potrà leggere al suo interno, però non sembra assurdo pensare a come potrebbe intitolarsi: “Zan, Zandegi, Azadi”, donna, vita, libertà. Come lo slogan più ripetuto nelle strade da quel sedici settembre in poi. Sarebbe normale, sentendo queste parole per la prima volta in occasione delle proteste in corso, non essersi interrogate troppo sulla loro origine, pare basti la traduzione: “Donna, vita, libertà” il protagonismo delle donne è un elemento fondativo in questo movimento contro il regime, torna tutto. Ma chi ha seguito la storia recente del cosiddetto Medio Oriente, e in particolare quella delle donne, probabilmente lo ha trovato familiare: è lo slogan del movimento delle donne libere del Kurdistan, è lo slogan delle Ypg. Spesso, lo si legge anche sui cartelli nelle piazze di Non Una Di Meno, in Italia. «Jin JIyan Azadi Maria Edgarda Marcucci (l’originale in curdo Ndr.) È uno slogan che na-
Giornalista sce dalla Jineolojì, la scienza delle donne: l’ine autrice sieme di teorie e pratiche del movimento delle donne del Kurdistan», racconta Aso Komeni, che ne fa parte. Komeni, esattamente come Amini è una donna curda iraniana, ha trent’anni, oggi vive a Londra, ma non smette di andare e venire dall’Iran. Soprattutto non ha mai interrotto il suo lavoro con il Kjar (Comunità delle donne libere del Rojhilat), la branca iraniana del movimento delle donne. Chi meglio di lei per parlare di quello che sta succedendo nel suo Paese. «Le donne dell’Iran e del Rojhelat sono state sottoposte a trattamenti degradanti e disumanizzanti, tra cui femminicidi, mancanza di istruzione, mancanza di diritti di base. L’obbligo del velo e la regolamentazione dell’abbigliamento ne sono un prodotto: vengono usati come strumento dal regime, per ricordare costantemente alle donne che sono imprigionate». Amini non è certo la prima vittima della polizia morale, che negli ultimi anni ha notevolmente intensificato le sue attività. Da lontano è difficile capire, perché proprio lei? Perché proprio ora? «Il regime iraniano ha sempre impedito qualsiasi evoluzione sociale attraverso un governo fondamentalista che applica la sharia, così ha marginalizzato la posizione e il ruolo delle donne nella società e, per procura, di una vasta maggioranza della popolazione. Ha soffocato le nostre identità, individuali e collettive». Il governo iraniano ha sempre strumentalizzato la presenza di diverse etnie sul territorio per fomentare discriminazioni e guerre tra poveri. «In molti anni di malagestione e corruzione estrema, ha saccheggiato l’economia e le risorse naturali del Paese, facendo perdere ai giovani ogni speranza di un futuro certo e sicuro». La stessa gioventù che oggi sta fronteggiando le guardie di regime e che sta
Manifestazione di protesta per la morte di Jina Masha Amini. Sopra: Aso Komeni
trovando modi sempre nuovi di respingere i suoi attacchi. «Non è stata solo la morte di un’altra donna; è stata il simbolo della morte delle donne e dei giovani in Iran». Un simbolo che oggi ha tutt’altro segno, perché il viso di Jina Amini ormai è noto in tutto il mondo, e chi lo guarda non vede “la morte delle donne e dei giovani in Iran”, vede la loro resistenza.
«Jina è diventata un legame tra la storia del popolo curdo e quella delle donne iraniane». Per comprendere il senso di questa affermazione è necessario conoscere la storia dei curdi in Iran, almeno quella recente. «Nell’agosto del 1979, l’ayatollah Khomeini emise una Fatwa (editto religioso ndr) contro i curdi, che si tradusse in una campagna militare contro la popolazione civile per tutti gli anni Ottanta, in particolare a Sanandaj. Nel 1988 i membri del cosiddetto “Comitato della morte” arrestarono circa 33.000 civili. Ci furono “sparizioni forzate”, stupri, torture e condanne al patibolo, molti considerano ciò che accadde in quegli anni come un tentativo di genocidio. Ebrahim Raisi, attuale presidente, era parte del comitato».
Lo stesso Raisi che ha mandato truppe armate ad assediare proprio Sanandaj nella notte del 15 ottobre. Il numero delle vittime di questo attacco ancora non è accertato: «Quando non si trova il corpo della vittima, per il governo tecnicamente non è considerato un decesso». Ecco spiegato come mai il regime fornisca numeri così discordanti rispetto alle organizzazioni umanitarie e alle testate indipendenti; non è la propa-
ganda del momento, bensì uno strumento rodato perché la popolazione viva nella paura ogni giorno. «È molto difficile dare un numero preciso alle persone uccise nell’assedio. Abbiamo la certezza su 9 vittime, ma stiamo ancora cercando di capire. Le persone ferite sono più di 1.500». È la seconda volta che succede in meno di un mese, durante il primo intervento le truppe iraniane hanno scagliato colpi di artiglieria fino alle città curde dal lato iracheno del confine. Dopo l’attacco le organizzazioni studentesche di Teheran hanno chiamato manifestazioni in tutta la città per rispondere. Il governo ha drasticamente limitato l’accesso a internet e a qualunque social media. «Ma i giovani si affidano a servizi di messaggistica criptati, correndo il rischio che possano vendere i dati a terzi, ci si organizza anche col passaparola, per fortuna ci sono delle comunità molto forti». Del resto pensando alla storia dell’Iran è facile ricordarsi che quando l’attuale governo prese il potere, nel 1979, non c’era internet. Intanto la rivolta quella notte è arrivata fino al carcere di Evin, la struttura di massima sicurezza di Teheran. Per ora il bilancio è di otto morti tra le persone imprigionate, e tra le decine di feriti, 61 sono state colpite da proiettili. C’è qualche persona che conosci detenuta a Evin? «Ognuna di noi conosce qualcuno che è stato a Evin, specialmente se si SEGREGAZIONE FEMMINILE E PERSECUZIONE DELLA MINORANZA SONO DUE VOLTI DEL REGIME REPRESSIVO DEGLI AYATOLLAH. MA ORA, SPIEGA L’ATTIVISTA, LE COSE STANNO CAMBIANDO è parte di un’organizzazione politica. La popolazione curda non supera il 10% di quella di tutto il Paese. Però il 70% delle persone detenute sono curde. Fare nomi che non siano già pubblici però può esporre a molti pericoli. È ironico che “evin” significhi amore, in curdo». Testate indipendenti come Iran International e Iranwire riportano fonti da dentro il carcere, che l’incendio era pianificato. «Se era un tentativo da parte del governo per sedare le idee di rivoluzione, si è rivelato un passo falso. Abbiamo visto i video dei prigionieri riuniti sui tetti che gridavano slogan, gridavano “Jin, Jiyan, Azadi”». Aso deve andare, non posso rubarle altro tempo, c’è qualcosa che vuole aggiungere? «Storicamente, quando ci siamo fidate di vecchi partiti, gruppi e leader, abbiamo scoperto che le nostre voci sono state messe in secondo piano e la società è peggiorata. Dobbiamo trovare una strada diversa, come hanno fatto le donne del Rojava. Non dobbiamo accontentarci né accettare niente di meno».