ISSN: 2284-1024 NUMERO 1/2014, 1-18 GENNAIO 2014 WWW.BLOGLOBAL.NET
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RASSEGNA DI BLOGLOBAL OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE
BloGlobal Weekly N°1/2014 - Panorama
MONDO - Focus RUSSIA – A poche settimane dalle Olimpiadi invernali di Sochi (7-23 febbraio 2014), il Caucaso settentrionale è di nuovo scosso da un attentato. Il 17 gennaio due esplosioni hanno provocato il panico a Makhachkala, capitale del Daghestan, nel Caucaso settentrionale russo. Il duplice attentato sarebbe stato compiuto da gruppi terroristici caucasici non meglio precisati. Secondo i dati ufficiosi forniti dal Ministero dell’Interno russo e confermati dal Comitato Nazionale Antiterrorismo, ci sarebbero state 7 feriti, fra cui due agenti, e nessuna vittima. Le esplosioni sono avvenute contemporaneamente al discorso di Putin alle tv straniere per assicurare che la Russia farà “tutto ciò che è in suo potere” per garantire la sicurezza dei Giochi e all’annuncio del Presidente ceceno, il filo-russo Ramzan Kadyrov, dell’uccisione di Doku Umarov, noto come il “Bin Laden del Caucaso”, un signore della guerra che da anni si muove tra il Daghestan, la Cecenia e il Kabardino-Balkaria per combattere la guerriglia anti © BloGlobal.net 2014
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-Cremlino. Salito alla ribalta internazionale nel 2007 quando raccolse il testimone da Shamil Basaev, il padrino del terrorismo ceceno ucciso l’anno prima in circostanze mai chiarite, Umarov fondò l'Emirato del Caucaso, uno Stato islamico non riconosciuto, trasformando di fatto la causa cecena da battaglia secessionista ad una guerra di religione a colpi di attentati sanguinari come quello del treno Mosca-San Pietroburgo del 2009 (28 morti), passando per quello delle “vedove nere” nella metro di Mosca nel 2010 (38 morti), fino all’attacco-kamikaze all’aeroporto Domodedovo della capitale nel 2011 (37 morti). Subito dopo l’atto terroristico il Presidente Putin ha lanciato un nuovo monito alla Comunità internazionale per “unirsi e combattere il terrorismo” e ha rivendicato la dura lotta agli estremismi come “una condizione necessaria al perseguimento della pace nella regione”. Infatti poche ore dopo l’attentato le forze speciali russe hanno ucciso a Semender, in Daghestan sette sospettati di appartenenza a gruppi armati, tra cui una donna. Il Daghestan – salito agli onori della cronaca per essere stata la patria di Dzhokhar e Tamerlan Tsarnaev (i due attentatori di Boston) – insieme ad Inguscezia, Kabardino-Balkaria e Cecenia, è da anni teatro di un conflitto a bassa intensità tra le autorità centrali moscovite e i gruppi indipendentisti e da oltre un decennio anche un epicentro della ribellione islamista radicale nell’area. I tre recenti attentati kamikaze a Volgograd – uno su un bus (21 ottobre, 7 morti) e due alla stazione ferroviaria (29 e 30 dicembre, 34 morti) – e l’accertata presenza di ribelli islamisti in Siria provenienti dal Caucaso hanno convinto le autorità moscovite ad aumentare al massimo livello il grado di allerta e di sicurezza in vista dell’atteso evento internazionale di Sochi. SIRIA – A pochi giorni dalla nuova conferenza di pace sulla Siria denominata “Ginevra 2”, che si aprirà il prossimo 22 gennaio a Montreaux in Svizzera, le diplomazie sono in fermento. Uno dei nodi da sciogliere nei primi giorni del 2014 è stata la partecipazione dell’Iran, potenza influente sulle dinamiche siriane, che non era stata inserita nella lista degli invitati diramata dal Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-Moon. Il Presidente iraniano Hassan Rouhani aveva già dichiarato che Teheran era pronta a dare il proprio contributo al processo di pace partecipando a pieno titolo alla Conferenza. Il Segretario di Stato americano John Kerry, stretto tra le pressioni dell’Arabia Saudita, di quelle israeliane e di quelle del Congresso, aveva aperto solo tiepidamente all’Iran, non potendogli garantire un posto al tavolo del negoziato; non aveva però respinto del tutto le istanze del governo degli Ayatollah, auspicando per questi il ruolo di osservatore. Mentre Washington cercava di mantenere un certo equilibrio, Rouhani si era già attivato per convincere la Russia di Vladimir Putin a spingere per l’accoglimento di Teheran tra i ‘grandi’ che decideranno il futuro siriano. Il Presidente si è rivelato piuttosto convincente – in realtà impresa non difficile dato che Mosca mantiene un occhio di riguardo per l’Iran – convincendo Putin ad emanare un comunicato dove si parlava di Iran come “giocatore chiave” della Conferenza. Mentre la partecipazione di Teheran come ‘giocatore chiave’ od osservatore rimane ancora sospesa, è certa invece la presenza al tavolo di una delegazione della Coalizione Nazionale Siriana, che pare sufficientemente rappresentativa delle forze d’opposizione al regime di Bashar al-Assad. La decisione è arrivata in seguito a vari riunioni che si sono tenute a Cordoba, in Spagna, dove – considerata la presenza degli uomini di al-Assad in Svizzera – si era valutato se fosse utile ed opportuno dialogare col nemico. Al termine del meeting, cinquantotto membri della Coalizione hanno votato a favore, quattordici contro, due astenuti e una scheda bianca. Le divisioni all’interno del corpo politico dell’opposizione rispecchia la spaccatura che si sta materializzando sul campo tra ribelli ‘moderati’ e jihadisti, tanto che alcuni parlano di una ‘seconda guerra civile siriana’ tra gli estremisti dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS) e i reduci di quello che fu l’Esercito Nazionale Siriano, costituitisi in gruppi autonomi. Hanno preso piede, dunque, ulteriori scontri tra le nuove formazioni, tra cui spicca il Fronte Islamico Siriano, e gli uomini dell’ISIS; i combattimenti hanno avuto luogo in città come Aleppo e Raqqa, dove l’ISIS avrebbe avuto la peggio. Attualmente tali scontri proseguono, in particolare nel nord della Siria, dove i jihadisti sembrano essersi riorganizzati. Le divisioni interne ai ribelli ovviamente hanno facilitato le Forze armate di al-Assad, che attualmente sono impegnate a consolidare la propria presa su aree già sotto il loro controllo, a partire dalla capitale Damasco e dalla sua periferia. Che il regime ormai sia tornato in auge è testimoniato anche dalla riapertura del dialogo tra le potenze occidentali e Damasco; in particolare, gli europei hanno inviato vari uomini dei propri servizi di intelligence per condividere informazioni con il regime: la notizia è stata fatta filtrare ad arte dal Vice Ministro degli Esteri di Damasco, Faysal al-Miqdad, che non ha però precisato quali fossero i governi interlocutori. Nel frattempo, seppur con un lieve ritardo, procede lo smantellamento dell’arsenale chimico di al-Assad: il porto ita-
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liano di Gioia Tauro è in attesa dell’arrivo delle navi con a bordo il carico da distruggere; un’operazione che si stima richieda un periodo di tempo pari a novanta giorni. SUD SUDAN – Dopo due giorni di violenti scontri, l’esercito sud-sudanese ha annunciato di aver ripreso il controllo della strategica città di Bor, capitale dello stato di Jonglei, che era stata conquistata dalle brigate ribelli fedeli all’ex-vice Presidente Riek Machar alla fine di dicembre. In realtà, le truppe lealiste avevano ripreso il controllo della città all’inizio dell’anno, ma le truppe di Machar l’avevano rioccupata progressivamente, anche grazie all’apporto fondamentale di una brutale milizia denominata White Army, nome dovuto all’usanza di cospargersi il corpo di cenere per rendere il proprio aspetto più temibile. Secondo un portavoce dei ribelli, invece, i sostenitori di Machar non avrebbero perso la battagli di Bor, bensì avrebbero pianificato una ritirata strategica dalla città perché avrebbero bisogno di riorganizzare le proprie forze per sferrare attacchi più decisivi in futuro, mirati direttamente alla conquista della capitale Juba. Le ostilità, iniziate il 15 dicembre, dopo che il Presidente sud sudanese Salva Kiir aveva denunciato alla televisione di Stato un tentativo fallito di golpe perpetrato dal suo ex vice Riek Machar, da lotta di potere tutta interna al Sudan People’s Liberation Movement (SPLM), si sono presto trasformate in guerra civile tra le due principali etnie del Paese, i Dinka, a cui appartiene Salva Kiir, e i Nuer, a cui appartiene Riek Machar. Nell’operazione di riconquista della città di Bor sarebbero state impiegate anche truppe dell’esercito ugandese, che reclamano gran parte del merito della vittoria: l’Uganda ha partecipato al conflitto sin dal principio, dichiarando, inizialmente, che i propri soldati avevano il solo scopo di difendere gli ugandesi e le strutture chiave del Paese, ma in seguito, il Presidente ugandese Yoweri Museveni si è espresso chiaramente a favore di Salva Kiir, scatenando le proteste degli altri Paesi dell’area. Kenya ed Etiopia hanno espresso il loro disappunto per l’intervento dell’Uganda, temendo che il conflitto civile sud sudanese possa trasformarsi in un conflitto regionale, provocando il coinvolgimento anche di Ruanda e Sudan, entrambi con forti interessi nell’area. Intanto le cifre fornite dalle Nazioni Unite, mentre gli scontri sono ancora in corso, parlano di migliaia di morti e di circa mezzo milione di sfollati: tra questi circa 2.000 persone al giorno si sono rifugiate nel vicino Uganda, mentre 80.000 sono le persone accolte nei campi ONU. Paradossale è la situazione di una base ONU che è divisa in tre, con due zone separate riservate agli appartenenti alle due etnie in fuga dalla guerra, e una zona per gli stranieri. Preoccupato per l’evolversi della situazione, il Dipartimento di Stato americano ha evacuato tutto il personale dell’ambasciata statunitense dislocata a Juba, lasciando a protezione della struttura 45 soldati, mandati sul posto da Obama all’inizio del conflitto. Allo stesso tempo l’inviato speciale americano in Sud Sudan e Sudan, Donald Booth, insieme a rappresentanti dell’Unione Africana (AU) e dell’Intergovernamental Authority on Development (IGAD) si è prodigato per favorire un incontro tra i rappresentanti delle due fazioni in lotta, che si sta svolgendo in questi giorni ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia. Riek Machar, col chiaro intento di provocare il risentimento del suo rivale e accaparrarsi le simpatie dell’etnia avversa, ha deciso di inviare ai colloqui Rebecca Nyadeng Garang, la vedova di John Garang, l’eroe della resistenza sud sudanese, appartenente all’etnia Dinka, morto in uno strano incidente aereo nel 2005. Subito dopo la riconquista di Bor, i rappresentanti del Presidente Kiir hanno annunciato di essere ora disponibili a siglare un accordo di cessate il fuoco, sotto la supervisione dell’IGAD, nonostante persistano ancora delle divergenze da sanare: il principale ostacolo al raggiungimento di un’intesa sarebbe rappresentato dagli 11 sostenitori di Machar arrestati dalle forze governative, con l’accusa di essere gli organizzatori del tentato colpo di Stato, che il Presidente Kiir non sarebbe intenzionato a rilasciare. UNIONE EUROPEA – Dal 1° gennaio 2014 la Grecia ha assunto la presidenza del Consiglio dell'Unione Europea, completando di fatto il trio di presidenze detenute precedentemente da Irlanda e Lituania e garantendo così nelle aspettative, in vista del turno italiano (1° luglio), il ritorno ad una maggiore attenzione alla dimensione mediterranea della crisi economica europea. Impegnata com'è a negoziare un nuovo piano di aiuti (il terzo), a cercare di ottenere una dilazione delle scadenze dei debiti contratti con gli altri Paesi europei e a fronteggiare i propri estremismi interni e il crescente sentimento anti-europeista, ad Atene toccherà dunque dare un segnale della forza del motto che ha scelto ("Uniti navigheremo insieme") rispettando un'agenda per lo più incentrata sulle politiche a favore dell'occupazione, della conclusione dei negoziati per la prossima fase dell'unione bancaria (entro la fine della legislatura è infatti previsto il voto in seno al Parlamento sui meccanismi di gestione delle crisi bancarie) e della lotta all'immi-
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grazione clandestina. Come dichiarato dal leader del partito di governo Pasok, Evangelos Venizelos, la Grecia ha peraltro intenzione di proseguire sulla strada della creazione di una strategia marittima integrata del'UE - essenziale non solo per la sicurezza dei confini ma anche per le derivanti possibilità estrattive nei bacini sottomarini circostanti - e del potenziamento delle "politiche blu", ossia pesca, turismo, infrastrutture e pianificazione dello stesso spazio marittimo. Guardando alla sponda sul del Mediterraneo, Atene presiederà il Vertice con i Paesi africani durante il quale dovrebbe esser concluso un accordo con il Marocco in materia di pesca. Lasciati in eredità dalla presidenza lituana, la Grecia si troverà a fare i conti con il rapporto tra UE e Russia, fattosi sempre più delicato non solo a causa della recente scelta del governo ucraino di sospendere l'iter per la firma dell'Accordo di Associazione per avvicinarsi all'Unione Doganale eurasiatica, ma anche dalla decisione dell'Ungheria di affidare alla Rosatom - la corporation russa che si occupa della gestione del nucleare - l'incarico di espandere la centrale di Paksi Atomeromu, l'unica del Paese, attraverso la costruzione di due nuovi reattori e la concessione di un credito da 10 miliardi di euro. Un accordo che stupisce se si considera l'ostilità che Orban ha sempre nutrito nei confronti di Putin e del precedente governo socialista ungherese di Gyurcsany, ma che conferma anche la rinnovata capacità contrattuale del governo russo nello spazio ex-sovietico. A cercare di bilanciare questa nuova fase dei rapporti euro-russi interviene tuttavia l'ingresso dal primo giorno dell'anno della Lettonia nell'eurozona: poco più di vent'anni dopo dall'indipendenza dall'URSS, Riga segue le orme di Tallinn (che ha adottato l'euro nel 2011) e apre la strada anche per l'altra Repubblica baltica, la Lituania, che dovrebbe entrare nel club della moneta unica dal 1° gennaio 2015. I leader comunitari hanno salutato con grande soddisfazione l'ingresso del 18° Paese nella zona euro, constatando come il lungo percorso di austerità a cui si è negli scorsi anni sottoposto ha portato il Paese ad avere una disoccupazione dell'11% (inferiore alla media europea), un PIL in crescita (+4% nel 2013 e si prevede del 4,1% nel 2014) un debito pubblico inferiore al 40% del PIL e, infine, un deficit al 1,4%. Restano tuttavia dubbi sul settore bancario, non dotato di strumenti che garantiscono controlli seri ed esposto a fondi provenenti da Paesi esteri instabili come Russia e Kazakistan.
MONDO - Brevi EGITTO, 14-15 gennaio – Con il 98,1% dei “SI” è stato approvato a maggioranza schiacciante il referendum sulla nuova Costituzione nazionale. Un dato importante che stride, tuttavia, con la bassa affluenza (38,6%), comunque superiore al 33% di elettori che avevano votato la Costituzione islamista del 2012. Un dato quello della partecipazione politica che costituisce di fatto una vittoria ridimensionata per lo stesso Ministro della Difesa Abdel Fattah al-Sisi, che dal referendum si auspicava una fortissima investitura popolare. Secondo le prime analisi elettorali, hanno votato in massa solo alcune categorie della società: i copti, la classe media, gli imprenditori e le donne, mentre i giovani - anima delle rivolte anti-Mubarak e anti-Mursi - hanno disertato il voto, così come molti liberali e moderati. Una diserzione di massa legata alle recenti e dure decisioni assunte dall’attuale esecutivo di transizione che ha approvato una legge contro le manifestazioni non organizzate in base alla quale nelle settimane scorse sono stati incarcerati numerosi attivisti e leader della protesta anti-Mubarak come Alaa Abdel-Fattah, Ahmed Douma e Ahmed Maher. Intanto la coalizione a sostegno del deposto Presidente Mohammed Mursi, capeggiata dai Fratelli Musulmani, ha invitato i propri seguaci a manifestare il 25 gennaio in occasione del terzo anniversario della rivolta contro Mubarak. Pronta la risposta del governo che per voce del Ministro dell’Interno Mohammed Ibrahim ha annunciato una manifestazione di piazza “contro i reazionari che vorrebbero mettere a repentaglio la sicurezza della nazione”. Nonostante il voto, pare evidente una profonda spaccatura nella società egiziana così come non si prospetta una rapida riconciliazione. IRAQ, 4 gennaio – Non c’è pace per l’Iraq a più di due anni dal ritiro degli Stati Uniti. Le politiche ritenute discriminatorie, in particolare le controverse leggi sul contro-terrorismo, del governo sciita (ed accentratore) di Nouri al-Maliki hanno rinfocolato la divisione religiosa tra sunniti e sciiti, rinforzando le fila di al-Qaeda – in particolare quelle che fanno capo allo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS) – le quali nel corso delle ultime settimane hanno dato dimostrazione di forza. Le forze jihadiste stanno infatti combattendo per la conquista di città come Falluja e Ramadi, all’interno della provincia di al-Anbar, che fu loro roccaforte nell’insurrezione post-invasione americana (quantomeno fino al 2007). Vari capi tribù dell’area si sono opposti al ritorno di alQaeda, chiedendo anche l’aiuto delle Forze armate irachene. Al-Maliki ha ordinato un’offensiva dell’Esercito, mentre l’Aeronautica
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ha effettuato vari raid nei pressi di Falluja, in particolare nelle zone di Na'emiya e Zooba. Anche gli Stati Uniti sono tornati a ricoprire un ruolo, seppur non “stivali sul terreno”. Già durante la sua visita alla Casa Bianca nel 2013, al-Maliki aveva richiesto ad Obama un sostegno militare nel fronteggiare l’insurrezione jihadista. Il Pentagono si è fatto in parte carico delle richieste irachene: da una parte ha smentito qualsiasi impiego di forze di terra, dall’altra ha acconsentito all’invio di forniture militari per l’Esercito iracheno e all’utilizzo di droni americani, che decolleranno dalla base in Giordania. Pare inoltre che Washington abbia rifornito Baghdad di alcune decine di missili Hellfire, ed altri saranno consegnati in primavera. Il Segretario di Stato John Kerry ha dichiarato che “siamo pronti a dare tutta l’assistenza necessaria, ma questa è una battaglia che appartiene agli iracheni”. Nel frattempo, il Wall Street Journal ha riportato che le forze di al-Qaeda avrebbero messo mano sulle armi lasciate dagli Stati Uniti in vari depositi iracheni al momento del ritiro. REPUBBLICA CENTRAFRICANA, 10 gennaio – Il Presidente della Repubblica Centrafricana, Michel Djotodia, e il suo Primo Ministro, Nicolas Tiangaye, hanno rassegnato le dimissioni e lasciato il Paese recandosi in esilio nel vicino Benin. L’allontanamento di Djotodia è stato fortemente voluto dal Presidente del Ciad, Idriss Déby Itno, longa manus di tutto ciò che avviene in Africa centrale, il quale, preoccupato per le conseguenze che l’instabilità della Repubblica Centrafricana avrebbe potuto avere sul suo Paese, ha convocato a N’Djamena un summit della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Centrale (ECCAS). Le dure accuse rivolte da Déby a Djotodia, reo di non essere riuscito a fermare le violenze che da tempo interessano il suo Paese, sono sembrate a tutti la fine annunciata del governo Djotodia: tutti i leader della regione hanno accettato le sue dimissioni, definendole una decisione dall’alto valore patriottico, funzionale al ritorno della calma nel Paese. Déby ha, inoltre, preso l’inconsueta decisione di convocare a N’Djamena anche i 135 rappresentanti del Parlamento Transitorio Centrafricano (CNT), costringendoli a lavorare ad oltranza per trovare una soluzione condivisa. Mentre Djotodia andava in esilio, i parlamentari centrafricani facevano ritorno nella capitale Bangui, eleggendo Alexandre-Ferdinand Nguendet Presidente ad interim della Repubblica Centrafricana, che avrà, tra gli altri, il compito di trovare una personalità che possa guidare il Paese fino alle prossime elezioni. Le dimissioni di Djotodia sono state accolte da grandi manifestazioni di gioia tra la gente, convinta che le violenze fossero un lontano ricordo: ma con la dipartita di Djotodia le milizie cristiane hanno iniziato le rappresaglie contro i musulmani che avevano collaborato con i Seleka. Il primo atto del Presidente Nguendet è stato quello di annunciare il dispiegamento di altri 400 soldati per le strade della capitale, al fine di disarmare le milizie Seleka e anti-Balaka, e la costituzione di un team di reazione rapida, capace di rispondere in breve tempo alle richieste di intervento inoltrate dai cittadini. STATI UNITI, 10 gennaio – È un momento di fermento per gli Stati Uniti tanto sul fronte interno quanto su quello internazionale. L’economia americana si sta lentamente ma costantemente riprendendo. Gli ultimi dati diffusi sul mercato del lavoro statunitense sono incoraggianti. La disoccupazione continua a diminuire, attestandosi al di sotto della temuta soglia del 7%: secondo varie statistiche, sarebbe pari al 6,7%; in particolare, nel solo mese di dicembre sarebbero state effettuate oltre settantamila assunzioni. Questo mentre il Congresso approvava la nomina di Janet Yellen a capo della FED in sostituzione di Ben Bernanke, che a sua volta aveva da poco annunciato l’avvio del tapering per ridurre l’iniezione di liquidità sul mercato ad opera della stessa banca centrale. Sul fronte internazionale è ancora una volta la questione iraniana a costituire uno dei principali grattacapi per Washington. Al di là del continuo dibattito interno, che divide ‘falchi’ e ‘colombe’, sono da registrarsi progressi nei colloqui tra Stati Uniti e Teheran. A Vienna, nell’ambito dei colloqui tra Iran e il G5+1, si è raggiunto un accordo per rendere operativo dal 20 gennaio il nuclear deal dello scorso novembre; questo dopo che in dicembre la delegazione iraniana aveva abbandonato il tavolo delle trattative in segno di protesta per il varo di ulteriori sanzioni economiche da parte di Obama verso le aziende in affari con gli iraniani. Anche su questo versante, quello delle sanzioni, si sono verificati passi in avanti: gli USA, affiancati dagli altri Paesi, libereranno circa 7 miliardi di dollari di risorse per l’economia di Teheran e “scongeleranno” oltre 4 miliardi di asset iraniani custoditi nelle proprie banche. Da segnalare, infine, il ritorno di soldati statunitensi in Somalia, a Mogadiscio, nell’ambito della missione dell’Unione Africana, con funzioni di training and mentoring a distanza di oltre vent’anni dal flop di Restore Hope. THAILANDIA, 13 gennaio – Con il passare dei giorni diminuisce la possibilità che si possa giungere ad una soluzione condivisa e soprattutto pacifica in Thailandia Dopo aver sciolto il Parlamento, a seguito delle proteste di dicembre, la Premier Yingluck Shinawatra ha comunicato più volte che non cederà alle pressioni dell’opposizione e che, per il bene del Paese, proseguirà il suo lavoro
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fino alle annunciate elezioni del prossimo 2 febbraio. Ma i contestatori vogliono che la Premier lasci subito, permettendo ad un consiglio di nomina reale di dar vita alle riforme politiche necessarie al Paese, prima di procedere a nuove elezioni. Lo scopo principale dei contestatori è quello di porre fine a ciò che definiscono Thaksin regime, ovvero il controllo che l’ex Primo Ministro thailandese, rimosso dal suo incarico nel 2006, esercita sul governo, nonostante sia in esilio a Dubai. Nel frattempo l’opposizione, guidata dal leader del Partito Democratico Suthep Thaugsuban, continua imperterrita nell’occupazione dei luoghi chiave della capitale, nel tentativo di provocare il blocco totale di Bangkok e costringere Shinawatra alle dimissioni. Le continue marce di protesta, nonostante non abbiano ottenuto le dimissioni della Premier, sono sempre state pacifiche e hanno, negli ultimi tempi, evidenziato alcune differenze di vedute all’interno dell’opposizione. Il 17 gennaio, durante il quinto giorno dello shutdown Bangkok, una granata lanciata sul corteo di protesta da un edificio nelle vicinanze, ha causato 35 feriti e un morto tra i contestatori. Il leader dell’opposizione Suthep Thaugsuban ha subito puntato il dito contro il governo di Yingluck Shinawatra, reo di aver pianificato e compiuto l’attentato con lo scopo di sfaldare il fronte delle proteste. Nonostante la paura, il giorno dopo l’attentato, l’opposizione è nuovamente tornata in strada. TUNISIA, 14 gennaio – Dopo due anni di lavoro e tre stesure, nonché dopo una lunga crisi istituzionale che sembra per il momento essersi risolta grazie alla nomina di Mehdi Jomaa come Primo Ministro al posto del dimissionario Ali Laarayed (9 gennaio), l'Assemblea costituente tunisina ha trovato l'accordo per l'approvazione della bozza della nuova Carta costituzionale. Il compromesso tra islamici e laici darebbe forma a quella che è stata definita una delle più grandi Costituzioni liberali del mondo arabo, grazie al fatto di non sancire la supremazia della sharia e di garantire il riconoscimento dei diritti universali, tra cui la non discriminazione davanti alla legge e il diritto al processo equo, il diritto alla riservatezza e alla protezione dei dati personali, il diritto di asilo politico e l'uguaglianza di genere. Resta invece in vigore la pena di morte. A tre anni dall'inizio della cosiddetta "Rivoluzione dei Gelsomini", si tratta dunque probabilmente di un momento di svolta per il Paese nordafricano: la decisione del partito islamico di governo Ennahda di scendere a compromessi con le opposizioni laiche - grazie anche alla mediazione del sindacato dell'UGTT e delle altre parti della società civile -, pur salvaguardando alcuni dei propri capisaldi che rendono il testo costituzionale non poco ambiguo in alcuni punti, dipende evidentemente dall'aggravarsi della crisi economica di Tunisi e dai crescenti rischi alla sicurezza interna e ai confini, nonché dall'opportunità politica di scongiurare uno scenario simile a quello egiziano. TURCHIA, 16 gennaio – Venti procuratori, tra cui il Procuratore capo di Istanbul e i responsabili delle inchieste anti-corruzione condotte nei confronti di uomini vicini al governo turco, sono stati rimossi con decisione del Consiglio Supremo dei giudici a seguito dello schieramento ufficiale di cinque membri di quest'ultimo a favore del Premier Erdoğan. Già durante i primi dieci giorni dell'anno l'esecutivo aveva silurato 350 agenti e altri dirigenti della polizia nell'ambito dello scandalo corruzione scoppiato nel Paese nel mese di dicembre 2013 e che è stato definito dal leader di AKP un "complotto" ordito contro di lui e il suo governo. Erdo ğan era stato peraltro costretto ad operare un rimpasto di governo di urgenza, che ha coinvolto anche i Ministri degli Interni (Muammar Guler), dell'Economia (Zafer Çağayan) e dell'Ambiente (Erdoğan Bayraktar), dimessisi a seguito dell'arresto dei rispettivi figli. Coinvolti anche il Ministro della Giustizia, della Famiglia, dei Trasporti e degli Affari europei. L'ex titolare dell'Ambiente ha peraltro invitato il Premier a dimettersi, aprendo così una spaccatura all'interno di AKP (tra i sostenitori di Erdoğan e quelli di Fatullah Gül en, leader spirituale del movimento “Hizmet”) e inducendo migliaia di manifestanti a scendere nuovamente in piazza conto il governo. Si fa pertanto più difficile la posizione di Erdoğan in vista delle elezioni amministrative del 30 marzo - che potrebbero vedere dunque una netta affermazione del partito di opposizione laica CHP - e delle presidenziali di agosto, per le quali il Primo Ministro potrebbe essere costretto a rinunciare alla candidatura dopo il già fallimento del processo di revisione costituzionale in senso presidenziale. VENEZUELA, 9 gennaio – Dopo l’omicidio dell’ex miss Venezuela 2004, Monica Spears Mootz, e di suo marito durante un tentativo di rapina avvenuto il 6 gennaio a Puerto Cabello, nel nord del Paese, il Presidente Nicolas Maduro ha annunciato attraverso il suo account Twitter che tutti i Ministri del suo governo hanno ufficialmente rimesso il loro mandato. Le motivazioni delle dimissioni di massa risiederebbero nella volontà dei Ministri di “facilitare il rinnovo del governo in questo nuovo anno appena iniziato”, ma il gesto – come sottolineato da gran parte della stampa nazionale e latinoamericana – rientra in uno scenario di grande commozio-
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ne popolare suscitata dall'omicidio dell'ex Miss che ha acuito l'emergenza nazionale sulla questione sicurezza. Esecutivo e opposizione hanno così deciso di unire le forze, aprendo un gabinetto di crisi per predisporre un piano di emergenza contro la criminalità dilagante. Uno dei leader dell'opposizione, Leopoldo Lopez, ha apertamente accusato Maduro e il suo esecutivo per la morte della donna. Secondo l'Osservatorio venezuelano sulla violenza (OVV), nel 2013 sono avvenute quasi 2mila morti violente, con un tasso di omicidi pari a 79 abitanti ogni 100.000. Ma nonostante la gravità della situazione, la sicurezza non è l’unico problema con cui Maduro, da nove mesi al potere, deve fare i conti. A rendere ancor più instabile Caracas è lo stato in cui versa l’economia: una crisi interna che ha portato l'inflazione al 56% nel 2013 e il Bolivar, la moneta nazionale, a perdere il 39% del suo valore rispetto al dollaro nello stesso anno.
ANALISI E COMMENTI 1914-2014: LE SFIDE DELLA DIPLOMAZIA di Maria Serra – 2 gennaio 2014 [leggi sul sito] L’AMERICA LATINA TRA CRISI ECONOMICHE ANNUNCIATE E NUOVI MODELLI DA INTERPRETARE di Francesco Trupia – 7 gennaio 2014 [leggi sul sito] DA TEHERAN A TAIPEI PASSANDO PER CANBERRA: ASIA, LA “POLVERIERA ATOMICA” DEL PIANETA di Daniel Angelucci – 9 gennaio 2014 [leggi sul sito] NORD KIVU: UNA PACE IMPOSSIBILE? di Martina Tulimiero – 14 gennaio 2014 [leggi sul sito] EGITTO AL VOTO, CONTRORIVOLUZIONE COMPIUTA di Giuseppe Dentice – 16 gennaio 2014 [leggi sul sito]
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