N°8, 9 APRILE – 6 MAGGIO 2017 ISSN: 2284-1024
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Weekly Report Osservatorio di Politica Internazionale (OPI) © BloGlobal – Lo sguardo sul mondo Milano, 7 maggio 2017 ISSN: 2284-1024 A cura di: Davide Borsani Alessandro Costolino Giuseppe Dentice Nicolò Fasola Antonella Roberta La Fortezza Fabio Rondini Maria Serra
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Photo Credits: CNN; AP Photo/Fernando Llano; Eric Feferberg/AP; Bloomberg; al-Jazeera English/EPA; AP; Stanislav Filippov.
FOCUS LIBIA ↴
Il leader del governo di Tripoli, Fayez al-Serraj, e il suo omologo della Cirenaica, il Generale Khalifa Haftar, si sono incontrati ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, per un meeting di circa 2 ore per provare a trovare un’intesa politica – anche minima – sullo sblocco della situazione di stallo in cui si trova la Libia da oltre due anni. In questa sede si sarebbe raggiunto un accordo tra i due governi libici sul quale però al momento si hanno soltanto indiscrezioni rilanciate dai media arabi. Nel loro incontro, i due leader avrebbero affrontato principalmente due temi: il comando delle forze armate e la formazione di un governo di unità nazionale. In particolare, sarebbe stata trovata un’intesa sullo scioglimento delle milizie locali o sulla loro integrazione in un comando condiviso delle forze armate, abolendo de facto l’articolo 8 degli accordi di Skhirat, che attribuiva ad al-Serraj, in qualità di capo del Governo di Accordo Nazionale, la guida unica delle forze armate. Sul piano politico si prevedrebbe poi la formazione di un organismo che andrebbe ad affiancare e successivamente sostituire l’attuale Consiglio presidenziale di Tripoli e che dovrebbe essere composto dal Premier dell’esecutivo libico di unità nazionale, Fayez al-Serraj, dal Generale Haftar e dal Presidente del Parlamento di Tobuk, Aghila Saleh; un triumvirato, dunque, che dovrebbe guidare il Paese fino alle prossime elezioni. Ed infatti l’ultimo punto fondamentale dell’accordo dovrebbe essere quello di indire nuove consultazioni da tenersi entro marzo 2018. Si sarebbe poi deciso di creare un gruppo di lavoro composto dai rappresentati di entrambi i governi con lo scopo di rafforzare i contatti e di garantire pertanto l’effettività delle decisioni prese. È atteso che l’accordo di Abu Dhabi venga dai due contraenti durante il mese di maggio al Cairo. 1
Nonostante manchi ancora un piano dettagliato per l’attuazione dell’intesa, rimane un dato fondamentale: i due contendenti libici si sono incontrati dopo più di un anno. Il loro ultimo incontro risaliva infatti al gennaio del 2016; un tentativo era stato poi fatto a febbraio del 2017 sotto gli auspici del Presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, ma era fallito a causa dell’intransigenza di Haftar che si era rifiutato di incontrare Serraj consapevole dell’impossibilità di giungere ad una revisione di alcuni passaggi, soprattutto relativi al comando delle forze armate, dell’accordo siglato nel 2015 in Marocco. Qualora fossero confermati i termini così come in questi giorni emersi sulla stampa araba, l’accordo, prevedendo la formazione di un nuovo organismo politicamente diverso da quello ora guidato da al-Serraj, metterebbe in discussione gli accordi firmati finora dal governo di Tripoli, tra cui anche quello di febbraio con l’Italia sulla gestione dei flussi migratori.
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SIRIA-IRAQ ↴
Dopo una fase di stand-by diplomatico volto ad accertare i nuovi possibili margini di negoziazione per una soluzione condivisa del conflitto siriano – in particolare all’indomani dell’attacco statunitense del 6-7 aprile contro la base aerea siriana di alShayrat –, Russia, Iran e Turchia – già riconosciuti garanti del processo di pace – hanno firmato ad Astana (3-4 maggio) un nuovo memorandum d’intesa per l’istituzione di cosiddette “zone di de-escalation”, entrato in vigore dalla mezzanotte del 6 maggio, per favorire una tregua tra le parti in conflitto. La proposta russa, nello specifico, prevede la creazione di quattro zone cuscinetto: a nord-ovest di Idlib, nei territori sotto il controllo dei ribelli; nel Ghouta orientale, nella provincia di Damasco e nei suoi sobborghi controllati dalle forze governative; a nord della città di Homs, nel centro del Paese; nella Siria meridionale lungo il confine con la Giordania. Checkpoint e postazioni di controllo saranno istituite per assicurare la libera circolazione di convogli civili e umanitari. I tre Paesi firmatari, che appronteranno nell’arco delle prossime settimane una mappa maggiormente dettagliata delle safe zone, si sono detti peraltro concordi ad istituire dei meccanismi per sottoporre queste stesse aree al monitoraggio di truppe internazionali, anche se resta oltretutto preliminarmente da definire la spartizione del controllo dei territori in questione tra gli stessi. Resta in ogni caso inteso che lo scopo dovrà essere quello di garantire delle aree interdette al sorvolo aereo, non solo a quello delle forze del regime di Damasco, ma anche dei jet della coalizione internazionale guidata dagli USA. Sebbene il documento finale non faccia esplicitamente riferimento ad eventuali operazioni di volo degli Stati Uniti, e sebbene lo stesso accordo nella sua complessità abbia avuto l’avallo di Washington come delineato durante il colloquio telefonico tra
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Donald Trump e Vladimir Putin (2 maggio), il delegato russo presente al Vertice kazako, Alexander Lavrentiev, ha palesemente escluso il sorvolo dei velivoli americani sulle safe zone siriane.
SITUAZIONE MILITARE SUL CAMPO E SAFE ZONE IN SIRIA – FONTE: REUTERS
Nonostante l’intesa di massima sul merito dell’accordo tra Russia e Stati Uniti – a cui ha evidentemente contribuito il clima di dialogo instauratosi, nonostante le ampie divergenze sull’approccio al conflitto, durante la visita a Mosca del Segretario di Stato americano Rex Tillerson (11-12 aprile) – e nonostante gli auspici di attuazione in tal senso da parte delle Nazioni Unite per tramite del suo Rappresentante speciale Staffan De Mistura, restano molti dubbi sull’effettiva riuscita del piano di deconflitto. In primo luogo, in effetti, resta critico il ruolo dei gruppi di opposizione, i cui rappresentanti ad Astana, continuando a non accettare la permanenza di Bashar al-Assad nel futuro processo di transizione politica, hanno abbandonato i lavori della Conferenza in segno di protesta per la partecipazione dell’Iran, accusato di alimentare la natura settaria del conflitto. Una posizione condivisa sia dagli stessi Stati Uniti, che nel lungo periodo difficilmente accetteranno un’estensione dell’influenza iraniana in aree a maggioranza sunnita e comunque in diretta competizione con il soft power esercitato dalle monarchie del Golfo, dove peraltro Trump si recherà in visita alla fine di maggio nel suo primo viaggio all’estero da Presidente al fine di rassicurare i propri partner, sia da Israele – fuori dal reticolo diplomatico ma impegnata a contenere la posizione di Teheran effettuando raid mirati sulle strutture logistiche delle milizie sciite che sostengono militarmente il regime di Assad 4
(l’ultimo il 27 aprile all’aeroporto di Damasco). In via generale le stesse opposizioni, che lamentano la mancanza di un’applicazione del cessate il fuoco anche in altre aree della Siria, non sono disponibili ad accettare iniziative o accordi politicimilitari che non siano stati concertati nell’ambito di un processo di pace esclusivamente basato sulle Risoluzioni delle Nazioni Unite. Secondariamente, l’accordo del 4 maggio non fa accenno al problema curdo, che resta primariamente una questione dirimente per la posizione della Turchia in relazione non solo ai rapporti con gli Stati Uniti ma anche con la Russia (tiepida con Ankara dopo l’avvio da parte di quest’ultima di un’offensiva contro le forze curdosiriane guidate dalle Forze Democratiche Siriane - SDF, sostenute da Washington), sebbene occorra sottolineare come l’incontro tra Recep Tayyip Erdoğan e Putin a Sochi (3 maggio) abbia ulteriormente rafforzato – almeno dal punto di vista formale – la convergenza strategica tra i due Paesi. A ciò risulta infine indirettamente collegato il problema della lotta allo Stato Islamico (IS), che non trova rilievo nel documento di Astana, continuando a lasciare formalmente sul campo il principale nemico comune a tutti gli attori coinvolti. In questo senso lo sforzo contro i miliziani di al-Baghdadi resta principalmente nelle mani delle SDF, che nelle ultime settimane hanno ulteriormente guadagnato posizioni verso Raqqa, espugnando pressoché totalmente la parte vecchia città di Tabqa (2 maggio), come dichiarato dal portavoce del gruppo curdo Ghadab al-Furat, e lasciando all’IS pochi avamposti dell’area di al-Thawra. Un’accentuazione degli scontri in corso tra forze turche e curde lungo i confini settentrionali – allo stato attuale nel cantone di Afrin –, nonché un’eventuale manovra di Ankara contro la città di Tel Abyad in mano alle milizie YPG, intorno a cui sembra che Erdoğan stia ammassando le proprie truppe (ufficialmente con lo scopo di puntare su Raqqa, in realtà per spezzare la continuità territoriale curda) con il sostegno delle tribù locali (il 19 aprile la Turchia ha infatti ufficialmente formato una nuova forza militare arabo-siriana denominata Eastern Shield Army, comprendente membri della tribù al-Naim oltre a combattenti ribelli legati ad al-Qaeda che operavano nella Siria orientale prima dell’avvento dell’IS), potrebbe inficiare l’azione contro il Califfato, far saltare il banco delle trattative diplomatiche e protrarre ulteriormente il conflitto. La situazione siriana ha dei riverberi sullo scenario iracheno, dove le azioni turche contro i curdi sono localizzate nell’adiacente area del Sinjar. La Turchia sta esercitando pressioni politiche sul governo di Haider al-Abadi per convincere Teheran a frenare le azioni di controllo del territorio delle milizie sciite filo-iraniane nelle aree intorno a Tel Afar, impedendo allo stesso tempo possibili attriti o scontri sul terreno contro l’esercito turco presente. In questo contesto rischia di trovare vantaggio l’IS, il quale – a fronte di un rallentamento dell’offensiva di Baghdad su Mosul, nonostante la riconquista di alcuni villaggi circostanti da parte delle forze irachene – prosegue la propria campagna di attentati suicidi non solo nel centro cittadino, ma anche nelle province settentrionali del Paese.
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SITUAZIONE MILITARE SU MOSUL – FONTE: AL-JAZEERA
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STATI UNITI-COREA DEL NORD ↴
La tensione diplomatica tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti ha raggiunto livelli estremamente elevati nelle ultime settimane. La possibilità che Pyongyang compia un nuovo test nucleare, le recenti dichiarazioni poco distensive del leader coreano Kim Jong-un e del Presidente Donald Trump, con il conseguente aumento del livello di tensione nella penisola coreana, costituiscono le problematiche principali di questa ennesima escalation. A seguito dei commenti espressi da Trump su Twitter («La Corea del Nord cerca guai. Se la Cina ci aiuterà sarà ottimo, altrimenti faremo da soli») e della decisione di inviare verso il Mar del Giappone una squadriglia navale di attacco comprendente anche la portaerei USS Carl Vinson, il dialogo tra le parti è stato caratterizzato da toni sempre più bellicosi. A seguito di ciò, la Corea ha voluto mostrare il proprio arsenale bellico nella grande parata militare del 15 aprile in onore del “fondatore della nazione” Kim Il-sung. Il Paese ha ostentato tutti i nuovi tipi di missili e vettori balistici realizzati dai tecnici nordcoreani, compresi missili balistici intercontinentali, potenzialmente in grado di raggiungere anche le coste statunitensi, anche se mai sperimentati finora e, perciò, difficilmente impiegabili nel breve termine. La minaccia nucleare nordcoreana al momento graverebbe, dunque, principalmente sugli alleati degli Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud. Eppure, l’Ambasciatore coreano alle Nazioni Unite ha dichiarato il 17 aprile che «una guerra nucleare tra Washington e Pyongyang potrebbe esplodere da un momento all’altro» perché «gli Stati Uniti stanno disturbando la pace mondiale con la loro logica da gangster». Il vice Presidente Mike Pence ha subito replicato: «L’era della pazienza è terminata», mentre uno dei portavoce del regime comunista ha dichiarato che, in caso di conflitto, la Corea del Nord sarebbe pronta a «spazzare via gli Stati Uniti dalla faccia della terra».
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In realtà, la potenziale escalation nella regione, alimentata dall’approccio “muscolare” di Trump costituisce una questione diplomatica presente ormai da decenni nell’area. Nessuno dei precedenti Presidenti USA è riuscito ad impedire la costituzione dell’arsenale nucleare nordcoreano. La spregiudicatezza impressa da Trump alla postura internazionale statunitense sembra discostarsi molto dall’“America First” promossa dal tycoon nei mesi della sua campagna elettorale e ciò risulta evidente anche nel caso del lancio dei missili in Siria a seguito dell’utilizzo di armi chimiche. Traspare, dunque, l’immagine di una nuova strategia e di un nuovo approccio di Washington, impegnata a livello globale e in grado di poter intervenire qualora le azioni compiute dagli altri attori internazionali (es. dalla Russia alla Corea) si dimostrino contrarie agli interessi degli alleati degli Stati Uniti (ad es. Giappone e Corea del Sud) oppure in contrasto con valori fondamentali dalla comunità internazionale (divieto dell’uso di armi chimiche). In questo contesto gioca un ruolo fondamentale anche la Cina, che si sta trasformando da principale oggetto di critiche da parte di “The Donald” in un prezioso alleato per Washington. Dopo l’incontro avvenuto a Mar-a-Lago in Florida tra Trump e il Presidente cinese Xi Jinping tra il 6 e il 7 aprile scorso, la posizione di Pechino sulla questione sembra essersi spostata da una reticenza cinese verso un’azione decisa di Washington contro Pyongyang ad una maggiore collaborazione. Pechino, infatti, pur costituendo l’unico alleato del regime nordcoreano al quale è legato da affinità ideologica e da un legame commerciale, sembra essere sempre più infastidita dai suoi test nucleari e, dopo che Trump sembra aver accantonato un possibile riavvicinamento alla Repubblica nazionalista cinese di Taiwan e le minacce di rappresaglie commerciali contro Pechino, le autorità cinesi sembrano intenzionate ad esercitare forti pressioni su Kim Jong-un. Se tale situazione proseguirà, la strategia di Trump avrà ottenuto un parziale ridisegno degli equilibri nell’Estremo Oriente e un’importante frattura nei rapporti tra i due regimi comunisti ancora esistenti in Asia.
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TURCHIA ↴
Il 16 aprile si è tenuto in Turchia l’atteso referendum costituzionale il cui quesito riguardava il passaggio dall’attuale forma di governo repubblicana-parlamentare a quella presidenziale. Il referendum si è svolto nel contesto dello Stato di emergenza proclamato sin dal golpe di luglio 2016 e dopo una campagna elettorale dura e contestata che ha sollevato non poche polemiche in Europa. Il referendum ha registrato un’affluenza alle urne elevata: circa l’86% della popolazione residente in Turchia e il 45% dei turchi residenti all’estero hanno espresso il proprio voto. La vittoria è andata al “Sì” con il 51,3%, decretando dunque il passaggio della Turchia ad una forma di governo di tipo presidenzialista.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA DEL VOTO – FONTE: YENI ŞAFAK
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A decidere il risultato sono stati soprattutto gli elettori del Partito del Movimento Nazionalista (MHP), fortemente divisi fino all’ultimo momento circa la linea da seguire, e più in generale il fronte degli indecisi. La riforma sottoposta a quesito referendario prevede, nei suoi 18 articoli, un notevole allargamento dei poteri del Presidente della Repubblica: quest’ultimo diventa infatti contemporaneamente Capo dello Stato e dell’Esecutivo; sarà il detentore presso di sé, secondo quanto previsto dalla riforma, del potere di nominare e rimuovere i vice Presidenti, i Ministri, i funzionari di governo, i più alti comandi militari, i rettori delle università, il Capo dei servizi di sicurezza e alcuni giudici della Corte Costituzionale. Il Capo dello Stato e del Governo avrà poi il potere di iniziativa legislativa e di emettere decreti legislativi su argomenti tipicamente di competenza degli esecutivi. Il Parlamento da un lato non avrà più il potere di votare una mozione di sfiducia nei confronti del capo dell’esecutivo e dall’altro vede fortemente ridimensionate anche le proprie prerogative sul controllo dell’azione di governo e Presidente; il Capo dello Stato potrà poi mantenere il legame con il proprio partito di provenienza, relazione che nella precedente struttura istituzionale turca doveva obbligatoriamente essere troncata a favore di un giuramento di totale imparzialità, tipico della figura del Presidente della Repubblica. Con la riforma, infine, il periodo di permanenza di Erdoğan alla massima carica dello Stato dovrebbe allungarsi fino al 2029.
PUNTI NEVRALGICI DELLA RIFORMA PRESIDENZIALE – FONTE: ANSA-CENTIMETRI
Secondo l’opposizione e molti osservatori internazionali una simile riforma avrà come conseguenza diretta la trasformazione della Turchia in uno Stato autoritario in cui risulteranno annullati i confini tra i tre poteri statali (esecutivo, giudiziario 10
e legislativo). I sostenitori della riforma, invece, così come già sottolineato in campagna elettorale, hanno salutato la vittoria ribadendo che proprio grazie a questi nuovi provvedimenti legislativi si potrà dotare lo Stato turco di un esecutivo stabile, lasciandosi definitivamente alle spalle i fragili governi di coalizione del passato. Subito dopo il referendum si sono levate innumerevoli accuse di brogli elettorali, provenienti ovviamente dall’opposizione ma anche dalla missione OSCE incaricata di sorvegliare il processo referendario. Il capo degli osservatori OSCE, Tana de Zulueta, ha precisato che il voto non è stato all’altezza degli standard del Consiglio d’Europa e che il contesto legale in cui si è svolto «è stato inadeguato allo svolgimento di un processo genuinamente democratico». Erdoğan ha risposto alle accuse provenienti dagli osservatori internazionali sostenendo la politicizzazione e l’approccio ideologico di tali critiche e precisando, inoltre, che il referendum «è stato il voto più democratico mai visto in un Paese occidentale». L’opposizione partitica interna ha fatto ricorso alla Commissione elettorale suprema turca richiedendo di annullare il voto. Il motivo principale del ricorso riguarda circa 2,5 milioni di schede sospette poiché non riportanti il timbro ufficiale. La Commissione elettorale, con 10 voti contro 1, ha respinto la richiesta di annullamento sostenendo la legalità anche di quelle schede senza timbro. Ad ogni modo, i dati sulla vittoria del “Sì” consegnano l’immagine di un Paese spaccato in due: non vi è infatti stato il plebiscito che tanto auspicava Erdoğan, ma una maggioranza appena risicata e questo nonostante la campagna elettorale fortemente sbilanciata, soprattutto nei media turchi, a favore di quelle voci sostenitrici del “Si”. Per di più nelle città principali quali Istanbul, Ankara e Smirne, si è registrata una forte erosione del consenso personale nei confronti del Presidente; la riforma voluta da Erdoğan ha invece vinto nettamente nelle province interne della Turchia, sottolineando come già emerso in altre vicissitudini europee, una netta polarizzazione tra città e campagna. Gli effetti del referendum si avranno anche e soprattutto sui rapporti tra la Turchia e l’Europa, relazioni già irrigiditesi successivamente al golpe di luglio e degenerate, quantomeno nei toni, durante la campagna elettorale per il referendum. Il tema è delicato sia per la Turchia che per l’UE: il commercio turco dipende per il 50% dagli europei; il 70% dei capitali stranieri che affluiscono in Turchia sono europei; infine, le aziende turche sono fortemente indebitate soprattutto con banche europee. Dall’altro lato l’UE ha bisogno della Turchia e di mantenere in vita gli accordi esistenti sull’immigrazione per poter gestire al meglio dei flussi migratori che con un’eventuale apertura delle frontiere turche risulterebbero incontrollabili. Nonostante questo rapporto di reciproca dipendenza, Erdoğan ha già ripreso, senza timori, la sua sfida, per ora quantomeno verbale, nei confronti dell’Europa annunciando la concreta possibilità di indire entro l’anno un nuovo referendum per la reintroduzione della pena di morte. Evidentemente una simile decisione chiuderebbe definitivamente il capitolo dei negoziati Turchia-Europa.
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BREVI AFGHANISTAN, 13 APRILE ↴ L’aviazione statunitense ha condotto nella provincia orientale afghana di Nangarhar, al confine con il Pakistan, un bombardamento contro le postazioni della branca locale dello Stato Islamico (il Wilayat Khorasan o IS-K) utilizzando per la prima volta in operazioni di combattimento un GBU-43 Massive Odnance Air Blast Bomb (M.O.A.B) – uno dei sistemi d’arma convenzionali più potenti in dotazione all’esercito americano – e distruggendo, secondo quanto dichiarato dal Pentagono, un reticolo di tunnel del gruppo jihadista nel distretto di Achin all’interno del quale erano presenti un centinaio di miliziani. Dubbi sulla reale efficacia dell’ordigno sono stati invece riportati dall’istituto di analisi geografiche Alcis, le cui immagini tridimensionali, come riportato dal Guardian, dimostrerebbero la sola distruzione di 38 case in un raggio d’azione di 150 metri anziché di 3 Km. In ogni caso l’attacco, benché riconducibile alla politica estera muscolare impressa dall’amministrazione Trump nel corso dell’ultimo mese, si inscrive in un più ampio programma di lotta al terrorismo in Afghanistan a cui dovrebbe peraltro far seguito la presentazione da parte del Pentagono di un piano di rafforzamento militare con il dispiegamento di un nuovo contingente di 3.000-5.000 unità con compiti di addestramento. Tale richiesta sarebbe dettata dall’esigenza non solo di contenere la diffusione di IS-K – il cui leader, Abdul Hasib, sarebbe stato ucciso nel corso di un ulteriore raid effettuato il 28 aprile – ma anche di fronteggiare l’aumento degli attacchi talebani registrato in tutto il Paese negli ultimi mesi, soprattutto contro avamposti militari. Si vedano in questo senso gli attentati contro la base aerea USA di Camp Chapman (24 aprile) – nel corso della
visita
del
Segretario alla Difesa James
Mattis
–,
contro un convoglio della NATO a Kabul (3
maggio)
e,
soprattutto, contro la caserma dell’esercito afghano a Mazar-iSharif, provincia (22
nella di
Balkh
aprile), in
cui
sono stati uccisi 150 soldati e feriti altri 60.
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FRANCIA, 23 APRILE ↴ Lo scorso 23 aprile si è tenuto il primo turno delle elezioni presidenziali francesi, in una corsa tra 11 candidati che ha visto in particolare 4 di questi darsi battaglia fino alle ultime ore del voto: il candidato liberale indipendente Emmanuel Macron, la leader dell’estrema destra Marine Le Pen, il conservatore Farnçois Fillon e il radicale di sinistra Jean-Luc Mélenchon. La tornata elettorale ha registrato un’affluenza molto elevata (76%), in linea con gli ingenti sforzi di comunicazione attuati dai candidati lungo tutta la durata della campagna e, più in generale, con il clima politico francese. Infatti, dopo la serie di attacchi terroristici subiti negli ultimi anni e le incerte prospettive di rilancio del sistema-Paese, la popolazione si è mobilitata chiedendo maggiore sicurezza sia materiale, sia economica. Richieste, queste, ormai diffuse a livello europeo, ma che hanno trovato in Francia un élite politica particolarmente ricettiva. Marine Le Pen ne è l’esempio più eclatante e non a caso la maggior parte delle proiezioni pre-elettorali ne dava per scontato l’accesso al secondo turno – accompagnata alternativamente da Macron, Fillon e Mélenchon. Gli elettori hanno infine deciso per la prima combinazione, premiando Macron con il 24,01% delle preferenze e la candidata del Front National con il 21,3%. Fillon si ferma ad un passo da quest’ultima (20,01%), riuscendo soltanto ad evitare il sorpasso da parte di Mélenchon (19,58%).
RISULTATO ELETTORALE (1° TURNO) – FONTE: MINISTERO DEGLI INTERNI; RIELABORAZIONE GRAFICA: AFP
I socialisti, che pure hanno partecipato alle presidenziali, hanno raccolto con il proprio candidato Benoît Hamon soltanto il 6,3%. Per la prima volta nella vita della Quinta Repubblica,
nessuno
dei
candidati
appartenenti
alla
classica
dicotomia
tra
centrodestra e centrosinistra parteciperà al ballottaggio, surclassati da partiti che sfuggono alle dinamiche della politica moderata o che si propongono come alternative al sistema vigente – un fenomeno ormai diffuso in Occidente. Gli esperti si aspettano 13
che Macron trionferà nel secondo turno, raggiungendo un significativo 60% delle preferenze. In realtà, le incognite sono ancora molte, ma è chiaro che Le Pen incontrerà difficoltà in questa seconda fase delle elezioni, soffrendo del problema di tutti i partiti estremi – ossia, raccogliere il favore degli elettori di altre estrazioni politiche, tutte più moderate, rimasti senza un proprio candidato. Si può infatti osservare come già la quasi totalità del mondo politico, da destra a sinistra, si sia mobilitata per arginare l’ascesa del Front National: Hollande, Fillon, Hamon e numerosi altri hanno invitato i cittadini a votare per Macron, lasciando passare il messaggio che da ciò dipenderanno le sorti della nazione. Il ballottaggio decisivo per la scelta del nuovo Presidente della Repubblica francese si terrà il 7 maggio.
ISRAELE-PALESTINA, 1-3 MAGGIO ↴ Dopo settimane di discussioni interne e di annunci pubblici ripetutamente smentiti, Hamas ha annunciato ufficialmente l’adozione di un nuovo statuto, che modifica e sostituisce in parte quello del 1988, nel quale, oltre a non riconoscere ufficialmente Israele quale Stato sovrano, si impegna a definire un chiaro riferimento al conflitto con gli israeliani come “lotta contro gli occupanti” e non più “lotta contro gli ebrei”, rinunciando anche alla rivendicazione dei territori della Palestina storica e accettando così i confini post-1967 come base per un futuro Stato palestinese. Pur non essendoci un riconoscimento effettivo di Israele in termini di entità statuale, Hamas si impegna di fatto a riconoscerne l’esistenza, il che equivale pertanto ad individuare una controparte con cui confrontarsi in qualsiasi momento, di guerra o di pace. Per quanto innovativo e funzionale alle priorità politiche del gruppo, questo nuovo approccio di Hamas sarebbe principalmente mirato a garantire una sorta di patto tattico e temporaneo di non-belligeranza con Israele. Allo stesso tempo, l’adozione del nuovo statuto potrebbe condurre anche ad una svolta politica e simbolica nei rapporti tra Hamas e i Fratelli Musulmani, ai quali è storicamente collegato fin dalle sue origini. Infatti nel documento non si fa riferimento alle comuni radici ideologiche, né a qualsiasi altro tipo di legame tra le due entità islamiche. Una decisione rilevante che spiegherebbe anche la rinnovata e opportunistica sintonia tra Egitto e l’ala politica del movimento, nonché il supporto prestato dall’intelligence egiziana
nel
processo
di
nomina
di
Yahya
al-Sinwar
quale
nuovo
leader
dell’organizzazione. Una “pragmatica” evoluzione ideologica e politica di Hamas mirata non solo a migliorare le relazioni con l’Egitto, ma anche con gli altri Stati sunniti della regione (Arabia Saudita, Turchia, Qatar, Emirati Arabi Uniti), ufficiosamente alleati di Israele e uniti contro le forze sciite sostenute dall’Iran. All’apparente processo di cooptazione di Hamas all’interno dei ranghi del blocco regionale
arabo-sunnita
fa
da
contraltare
un’apparente
minore
minaccia
e
aggressività del gruppo nei confronti di Israele. Una situazione, questa, che farebbe prefigurare una tensione bilaterale controllata a bassa intensità che, al momento, 14
non farebbe preannunciare possibili escalation o l’inizio di un nuovo ampio conflitto. Ciononostante l’emergere di figure politiche così radicali e per certi versi controverse all’interno di Hamas non esclude totalmente l’ipotesi dell’avvio di un processo di estremizzazione dell’organizzazione stessa con ripercussioni dirette anche nel quadrante politico-securitario vicino-orientale. Nel frattempo, a Parigi, nel quartier generale dell’UNESCO è passata ai voti del Comitato esecutivo la risoluzione presentata dai Paesi arabi proponenti (Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan) che nega la sovranità di Israele su una parte di Gerusalemme, non riconoscendone alcun vincolo culturale o spirituale che lega lo Stato ebraico alla città santa delle tre religioni monoteiste. A differenza di un’analoga Risoluzione contro Israele votata nello scorso ottobre, nella quale l’Italia tenne una posizione di astensione, Roma si è schierata al fianco di Stati Uniti, Paesi Bassi, Regno Unito e altri 7 Paesi, chiedendo all’UNESCO di rivedere tale posizione al fine di non compromettere gli sforzi verso la pace tra israeliani e palestinesi.
VENEZUELA, 1 MAGGIO ↴ Continuano
in
Venezuela
le
manifestazioni
anti-
governative, durante le quali, solo nell’ultimo mese, sono morte 35 persone, così come ormai sono centinaia i manifestanti rimasti feriti o arrestati in diverse città del Paese da parte del regime chavista. Gli
scontri
sono
stati
ulteriormente
inaspriti
dall’annuncio, avvenuto durante le manifestazioni del primo maggio, da parte del Presidente Nicolás Maduro, la cui impopolarità è in continua ascesa, circa l’imminente convocazione di una «Assemblea Costituente per riformare lo Stato e redigere una nuova Costituzione». Le proteste delle forze di opposizione, per le quali il progetto di una Costituente “del popolo” in realtà cela un nuovo tentativo di golpe da parte del regime, sono state duramente represse dalla Guardia Nazionale e, secondo numerose fonti, da gruppi armati e franchi tiratori sostenitori del forze chiaviste al potere di Miraflores. È stata quindi prevista per il 6 maggio una protesta di sole donne, senza uomini e senza armi, annunciata da Lilian Tintori, moglie del leader oppositore venezuelano Leopoldo López in carcere da tre anni, per chiedere che cessi la repressione e si torni alla democrazia. Mentre le tensioni sociali e la protesta stanno scuotendo il Paese sudamericano, il governo del Venezuela attraverso il suo Ministro degli Esteri, Delcy Rodríguez, ha annunciato lo scorso 26 aprile la decisione di ritirarsi dall’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), affermando presso la televisione di stato VTV che il «Paese si trova assediato da tentativi dei governi stranieri di interferire nei propri affari interni». La decisione senza precedenti di lasciare l’organizzazione panamericana, che arriva dopo la sospensione del Venezuela dal MERCOSUR per iniziativa degli altri Stati membri avvenuta nel dicembre del 2016, sembra in realtà testimoniare le crescenti difficoltà 15
del regime che risponde allo stato attuale di agitazione, isolando ulteriormente un Paese ormai fuori dal suo stretto controllo.
TIMELINE RECENTE DELLA CRISI VENEZUELANA – FONTE: WIRE AGENCUES; IMMAGINI AP-GETTY IMAGES
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ALTRE DAL MONDO EGITTO, 9 APRILE ↴ Non conosce sosta la profonda escalation di violenze e di attentati che sta caratterizzando il Paese nordafricano dalla seconda metà del 2016. Ancora una volta i soggetti principali degli attacchi condotti e rivendicati dal Wilayat Sinai (WS) – branca egiziana dello Stato Islamico – sono stati i cristiano-copti, duramente colpiti in un doppio attentato avvenuto in due chiese della comunità a Tanta (sul delta del Nilo, a nord del Cairo) e ad Alessandria. Il resoconto ufficiale della polizia egiziana parla di 44 morti e di 126 feriti. Il governo, in realtà obiettivo ultimo e reale dell’azione jihadista di WS, ha condannato le violenze, ha aumentato immediatamente il livello di sicurezza nei luoghi di culto e nelle proprietà in mano ai cristiano-copti e ha, infine, esteso all’intero territorio uno Stato di emergenza di 3 mesi, diretto a colpire e contenere possibili nuovi attentati contro la stabilità delle istituzioni nazionali. Da parte sua, all’indomani degli attentati di Tanta e Alessandria, il governo israeliano ha deciso di chiudere la frontiera sinaitica con l’Egitto, prestando una particolare attenzione nell’area di confine tra l’egiziana Taba e l’israeliana Eilat – distanti soltanto 11 chilometri – dove da tempo i servizi di intelligence israeliani segnalano la possibilità di attentati da parte di gruppi infiltrati provenienti dalla penisola del Sinai. Un clima di profondo caos sociale che ha indirettamente coinvolto anche il Santo Padre impegnato in una visita pastorale al Cairo (28-29 aprile) mirata a stimolare le autorità locali ad azioni più forti contro il radicalismo islamista e in favore del dialogo politico nazionale, nonché in difesa degli interessi e della libertà di culto dei cristiani in Egitto e Medio Oriente.
MACEDONIA, 27 APRILE ↴ Alcuni sostenitori del partito conservatore VMRO-DPMNE hanno fatto irruzione nella sala stampa del Parlamento macedone con l’intenzione di bloccare l’annuncio dell’elezione del nuovo Presidente dell’Assemblea, Talat Xhaferi, sostenuto dai socialdemocratici (SDSM) e da diversi partiti afferenti alla minoranza albanese. I dimostranti sostenevano che la procedura di elezione fosse regolare in quanto avvenuta a chiusura dei regolari lavori parlamentari. Diversi i feriti, tra cui il leader dell’SDS Zoran Zaev. L’evento è giunto al culmine di mesi di tensioni politiche sorte in seguito all’inconcludente tornata elettorale di dicembre 2016, la quale aveva aperto alla possibilità di spezzare il decennale monopolio politico dei conservatori, consegnando il governo a socialdemocratici e ai partiti albanesi. Infatti, VMRO vinse in tale occasione 51 seggi su 120 ma non riuscì a formare una coalizione credibile, privo del supporto delle rappresentanze albanesi, con le quali vi sono numerose frizioni riconducibili a motivazioni nazionalistiche. Zaev riuscì ad accattivarsene il supporto, senza però vedersi affidare l’incarico dal Presidente della Repubblica Gjorge Ivanov, che appoggia le posizioni dei conservatori. L’irruzione ha sollevato lo sdegno di gran parte delle forze politiche dell’Unione Europea, preoccupate non solo per la reticenza del VMRO a lasciare il potere rispettando i processi democratici, ma anche per il più generale stato 17
di intolleranza che caratterizza la Macedonia, schiacciata com’è sotto il peso delle rivendicazioni identitarie che ostacolano l’integrazione della popolazione di etnia albanese entro la società.
REGNO UNITO, 19 APRILE ↴ L’avvio del processo negoziale per il recesso del Regno Unito dall’Unione Europea, attivato ufficialmente il 28 marzo scorso attraverso la lettera presentata dall’ambasciatore britannico al Consiglio Europeo Tim Barrow al Presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, si dimostra caratterizzato da toni iniziali molto accesi. Dopo le dichiarazioni formulate dal Primo Ministro inglese Theresa May sulla necessità di una “hard Brexit” e del Presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker sul fatto che gli «inglesi rimpiangeranno la scelta compiuta il 23 giugno», si aggiunge una serie di polemiche sull’ammontare che Londra dovrebbe corrispondere a Bruxelles. Secondo alcune indiscrezioni, infatti, il “conto del divorzio” che il Regno Unito dovrebbe pagare alle istituzioni europee ammonterebbe a 100 miliardi di euro, molto superiore ai 60/70 preventivati da Juncker. Theresa May, dopo aver ottenuto l’approvazione della Camera dei Comuni necessaria per anticipare le elezioni politiche nazionali all’8 giugno, ha accusato Bruxelles di voler condizionare il voto britannico con minacce economiche.
IL CALENDARIO DELLA BREXIT – FONTE: AFP
REPUBBLICA CECA, 2 MAGGIO ↴ Il Primo Ministro Bohuslav Sobotka ha annunciato che entro la metà del mese di maggio rassegnerà le proprie dimissioni al Capo di Stato, facendo così cadere il proprio governo, in carica dal 2014. La decisione sarebbe legata ad uno scandalo finanziario che coinvolge il Ministro delle Finanze, nonché vice Primo Ministro, Andrej Babiš. Quest’ultimo, imprenditore tra i più ricchi in Repubblica Ceca, è infatti accusato di evasione fiscale ed altri illeciti finanziari. Le intenzioni di Sobotka hanno colto di sorpresa gli osservatori, essendo le prossime elezioni parlamentari tra solo sei mesi. Il motivo principale che avrebbe indotto Sobotka a tale scelta potrebbe risiedere nel fatto che Babiš costituisce per il Primo Ministro uscente un problema non soltanto di 18
natura per così dire legale ma, ancora prima, politica. Il tycoon, infatti, è a capo del movimento di centro (ANO) che forma la coalizione di governo assieme ai socialdemocratici di Sobotka (CSSD) e che, stando ai sondaggi, gode delle maggiori possibilità di vincere le prossime elezioni: il Premier, dunque, avrebbe tutto l’interesse a danneggiarne l’immagine. Sobotka potrebbe ben limitarsi a chiedere le dimissioni del solo Ministro delle Finanze, ma scegliere di far cadere l’intero esecutivo gli permetterebbe, da un lato, di discreditare comunque quest’ultimo; dall’altro lato, così facendo sottrarrebbe a Babiš tempo utile al consolidamento del proprio movimento politico, indicendo elezioni anticipate. Tuttavia, una simile operazione per diventare realtà dovrebbe trovare l’appoggio sia del Parlamento, sia del Presidente della Repubblica, Miloš Zeman. In particolare quest’ultimo potrebbe volutamente rifiutare le dimissioni del governo avanzate da Sobotka, eventualmente accettando soltanto quelle di Babiš; in un certo senso, infatti, ciò giocherebbe a favore di quest’ultimo, smarcandolo dagli impegni governativi e lasciandogli la possibilità di poter fare campagna elettorale fino ad ottobre, così avvantaggiandolo ai seggi.
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ANALISI E COMMENTI LA SOSPENSIONE DEL VENEZUELA DAL MERCOSUR COME SINTESI DEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE IN AMERICA LATINA ALESSANDRO COSTOLINO ↴ Dopo soli quattro anni, ricchi di proclami e dichiarazioni di intenti, ma poveri di fatti e concreti passi in avanti nell’integrazione, pare essere giunta al termine la permanenza del Venezuela nel MERCOSUR, non il maggiore in termine quantitativi ma certamente il più riuscito tra i molti blocchi politici ed economici che caratterizzano ad oggi l’America Latina. Come è noto l’organizzazione sudamericana ha infatti sospeso nel dicembre dello scorso anno il Venezuela per non aver rispettato né gli standard economici né tanto meno quelli legati ai principi e ai valori del blocco. Il Venezuela, per tutta risposta, attraverso il suo Ministro degli Esteri Delcy Rodriguez, ha parlato apertamente di “aggressione” contro il suo Paese. Tuttavia non sembra che la sospensione sia stata un evento inaspettato quanto piuttosto il punto finale di un processo da tempo in atto. Nel MERCOSUR, organizzazione istituita con la firma di Trattato di Asuncion, firmato nel marzo 1991 da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay e dove i progetti di una concreta integrazione regionale si sono formati, la crisi dei sistemi di integrazione sub-regionale è stata senza precedenti (…) SEGUE >>>
GLI EQUILIBRI GEOPOLITICI DELL’EUROPA ORIENTALE NELL’ERA TRUMP GIORGIO CELLA ↴ Il quadrante geopolitico dell’Europa Orientale in questi ultimi mesi è stato attraversato da un aumento della tensione determinato da varie issues, da alterazioni degli equilibri politici regionali, da accenni di escalation militari e di spostamenti di truppe da un lato all’altro della frontiera mobile con la Federazione Russa. Il tutto sullo sfondo dello “shock geopolitico” globale che ha avuto il suo epicentro a Washington, dove la fiducia accordata dal popolo americano al 45° Presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump ha già prodotto, seppur prima del suo effettivo insediamento avvenuto il 20 gennaio 2017, scosse sismiche in varie aree calde dello scacchiere globale e innescato nuove dinamiche e orientamenti, sia nella dimensione percettiva sia nelle azioni concrete di determinati player regionali. Si potrebbe declinare questo discorso su diversi flashpoint dello scacchiere mondiale, ma ci si focalizzerà nel presente Research Paper su quello europeo orientale (…) SEGUE >>> A cura di OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE Ente di ricerca di “BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO” Associazione culturale per la promozione della conoscenza della politica internazionale C.F. 98099880787 www.bloglobal.net 20