N°3, 22 GENNAIO – 4 FEBBRAIO 2017 ISSN: 2284-1024
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Weekly Report Osservatorio di Politica Internazionale (OPI) © BloGlobal – Lo sguardo sul mondo Milano, 5 febbraio 2017 ISSN: 2284-1024 A cura di: Oleksiy Bondarenko Giulia Bernardi Alessandro Costolino Giuseppe Dentice Nicolò Fasola Antonella Roberta La Fortezza Giorgia Mantelli Fabio Rondini Maria Serra
Questa pubblicazione può essere scaricata da: www.bloglobal.net Parti di questa pubblicazione possono essere riprodotte, a patto di fornire la fonte nella seguente forma: Weekly Report N°3/2017 (22 gennaio – 4 febbraio 2017), Osservatorio di Politica Internazionale (OPI), Milano 2017, www.bloglobal.net
Photo Credits: Getty Images; Reuters; Il Sole 24 Ore; Boris Roessler/DPA.
FOCUS SIRIA-IRAQ ↴
Il Vertice di Astana degli scorsi 23-24 febbraio, se non ha segnato un punto di svolta per il prosieguo delle operazioni belliche in Siria, ha quanto meno certamente messo a fuoco i punti fermi intono a cui si snoderanno la trama diplomatica internazionale e il possibile processo di transizione politico interno siriano. Il ruolo di garante della Russia, supportato dall’alleato iraniano e da quello turco – appoggio evidentemente motivato da entrambi da un ritorno, per lo meno immediato, in termini di influenza sul territorio siriano (nel lungo periodo esistono infatti tra il Cremlino e i due partner più motivi di competizione che non di effettiva cooperazione) –, nonché facilitato dal concomitante cambio della guardia alla Casa Bianca, è emerso con evidenza nel comunicato finale del summit; il documento, ribadendo e inscrivendosi nella cornice politico-istituzionale dell’ONU con specifico riferimento alle Risoluzioni 2185 (2014), 2254 (2015) e 2336 (2016) – posizione d’altra parte attestata dalla partecipazione dell’Inviato speciale Staffan De Mistura –, colloca legittimamente l’asse Mosca-Teheran-Ankara alla guida dei lavori dei negoziati di pace di Ginevra, slittati dall’8 al 20 febbraio, che avranno ad oggetto i seguenti punti: 1. l’istituzione di un meccanismo trilaterale per il consolidamento del cessate il fuoco in applicazione degli accordi conclusi lo scorso 29 dicembre attraverso il monitoraggio della riduzione delle violenze, l’adozione di strategie di confidence building, il rapido accesso alle operazioni umanitarie e la garanzia della protezione e della libera circolazione dei civili siriani; 1
2. la prosecuzione delle operazioni contro lo Stato Islamico (IS) e le formazioni qaediste (principalmente Jabhat Fatah al-Sham-JFS, l’ex Jabhat al-Nusra), con una specifica attenzione alle strategie volte ad evitare una saldatura tra questi e i gruppi armati di opposizione; 3. il coinvolgimento degli stessi gruppi armati di opposizione ai cicli di negoziati. Relativamente all’ultimo punto occorre comunque sottolineare non solo la mancanza di qualsiasi riferimento al futuro di Bashar al-Assad, ma anche la diversa posizione degli stessi gruppi rispetto al ruolo assunto dall’Iran – e dalle milizie da questo sostenute –, punti su cui è lecito supporre che il dialogo politico farà fatica ad affermarsi, come d’altra parte evidenziato dagli accesi scambi di accuse tra Bashar Jaafari, Ambasciatore del regime di Damasco all’ONU, e il capo negoziatore dei ribelli Mohammed Alloush, formalmente capo dell’ala politica di Jaysh al-Islam, tra i gruppi ribelli più influenti e il cui leader Zahran Alloush era stato ucciso nel dicembre 2015 in un raid russo. Al tempo stesso va in questo senso evidenziato come delle sette sigle ribelli indicate dal Ministero della Difesa russo all’annuncio della tregua di fine 2016, accanto a quella di Alloush si sono presentate solo il leader di Faylaq al-Sham e i delegati della Jabha al-Shamiyya mentre le altre quattro (Ahrar al-Sham, Jaysh al-Mujahedin, Jaysh Idlib e Thuwwar al-Sham) hanno rifiutato di partecipare al Vertice kazako come segno di protesta contro le ripetute violazioni. Il dialogo governo-opposizione, e la relativa tenuta del cessate il fuoco, è non di meno messo in discussione dal tentativo delle formazioni jihadiste di ispirazione qaedista di inserirsi in questo cuneo di tensioni e dunque di rafforzarsi: il 29 gennaio JFS ha annunciato la fusione con altri tre gruppi di opposizione locali – dando vita al gruppo Hayat Tahrir a-Sham (HTS) sotto la guida di Hashem Al Sheikh, alias Abu Jaber, ex leader di al-Qaeda –, aumentando quindi la competizione con le altre sigle ribelli, in particolare il blocco facente capo ad Ahrar al-Sham, rendendo più difficile l’identificazione dei gruppi ribelli legittimati a portare avanti le trattative di pace e inficiando l’azione dei governativi e della coalizione internazionale primariamente intorno ad Idlib e nel nord-ovest della Siria. Le difficoltà a proseguire sul cammino negoziale intrapreso trovano d’altra parte rilievo nell’ancora poco chiara strategia americana. Sembra solo apparente la propensione della neo-insediata amministrazione a non impegnarsi politicamente sullo scenario mediorientale: se da un lato lo sforzo bellico sembra collimare con le azioni russe – Donald Trump e Vladimir Putin hanno infatti tenuto una conversazione telefonica (28 gennaio) in cui si è fatto riferimento alla, pur generica, istituzione di un vero e proprio coordinamento contro “gruppi terroristici” che operano in Siria –, dall’altro i colloqui telefonici (29 gennaio) anche con il Re saudita Salman bin AbdulAziz e con il vice Comandante Supremo delle Forze Armate degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed, volti a rilanciare il progetto di una safe zone sulla Siria e i cui dettagli restano tutti da chiarire, richiamano la possibilità di un rafforzamento 2
dell’asse Washington-Golfo (chiaramente in funzione anti-iraniana) e pone in difficoltà il governo turco. Se da un lato ciò va infatti in contro ai desiderata di Ankara, che nel mese di settembre aveva – infruttuosamente – proposto all’amministrazione Obama la creazione di una no-fly zone nel nord della Siria, dall’altro solleva il timore che il controllo di tali aree possa essere affidato ai curdi siriani favorendo l’implicita formazione di uno Stato curdo indipendente al confine della Turchia. Al tempo stesso infatti il Dipartimento della Difesa statunitense, coerentemente con le direttive interne in materia di anti-terrorismo, sta imbastendo una serie di opzioni per accelerare la campagna contro l’IS, tra cui il dispiegamento di una nuova brigata di combattimento per la riconquista di Raqqa e la fornitura di nuove armi ai miliziani delle Unità di Protezione del Popolo Curdo (YPG). La coalizione guidata dagli Stati Uniti continua a fornire intelligence, sorveglianza e mezzi di ricognizione alla Turchia nella lotta contro l’IS attorno al-Bab nel nordovest della Siria, dove da gennaio sono intervenuti anche i bombardamenti della Russia. Ciò ha permesso tra il 28 gennaio e il 2 febbraio alle forze speciali dell'esercito siriano di recuperare il controllo di almeno cinque villaggi a sud del centro in questione e di rafforzare così la presenza per un’ultima offensiva nei confronti delle linee del gruppo di al-Baghdadi presenti nella provincia di Aleppo.
SITUAZIONE POLITICA E MILITARE SUL CAMPO
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Sul fronte iracheno la battaglia di Mosul vive una situazione di stallo dopo che il 24 gennaio, a tre mesi di distanza dall’avvio della campagna, l’esercito iracheno (ISF) hanno annunciato la completa riconquista dell’area orientale della città. Allo stato attuale non sono ancora chiari i tempi di avvio delle azioni sulla restante parte del centro cittadino. Malgrado ciò restano due le criticità per Baghdad: in primo luogo tra il 25 gennaio e il 1° febbraio l’IS ha rafforzato la propria presenza nelle sue principali aree di riferimento – Tikrit, Diyala, e la valle del fiume Eufrate – lanciando diversi attacchi contro le forze di sicurezza e dimostrando l’aumento delle proprie capacità operative: eloquente in questo senso è il primo attentato a Ramadi dopo la riconquista da parte delle forze governative nel febbraio 2016; pur avendo prodotto danni limitati, l’episodio del 25 gennaio attesta la significatività della rete di cui lo Stato Islamico può ancora godere nella capitale dell’Anbar e certifica la tendenza del Califfato a concentrarsi pressoché esclusivamente sul territorio iracheno anziché su quello siriano. Al tempo stesso sembra che altri gruppi di insorti sunniti stiano innalzando le proprie capacità: il 31 gennaio la polizia ha arrestato a Samarra due uomini che hanno dichiarato di avere legami con al-Qaeda. Il gruppo di al-Zawahiri starebbe lavorando al fianco di gruppi locali, come il gruppo neo-ba’athista Jaysh al-Rijal Tariq al-Naqshabandiya (JRTN), al fine di stabilire una filiale locale in Iraq come in Siria. Secondariamente il governo di Haider al-Abadi è costantemente puntellato dall’azione di indebolimento condotta dall’ex Primo Ministro Nouri al-Maliki, il quale gode della maggioranza in Parlamento (il Partito islamico Dawa). L’approvazione del nuovo Ministro dell’Interno, Qasim al-Araji, leader dell'Organizzazione Badr, da parte della Camera dei Rappresentanti (30 gennaio) su indicazione di al-Abadi, nonostante precedenti riserve di quest’ultimo in merito, va infatti letta nella prospettiva dell’attuale Primo Ministro di placare i partiti politici – consentendo alle milizie a loro affiliate un maggiore raggio di manovra nei confronti dello Stato Islamico – nonché di tamponare il tentativo dell’ex Premier di mettere a capo dei dicasteri chiave uomini a questo stesso favorevoli e di allontanare la base filo-iraniana da alAbadi per tornare alla guida del Paese.
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STATI UNITI ↴
I primi giorni di Donald Trump alla guida degli Stati Uniti sono stati caratterizzati dalla firma di una cospicua serie di provvedimenti (executive orders) in totale conformità con quanto promesso durante la lunga campagna elettorale. Infatti, in continuità con quanto annunciato nel discorso d’insediamento, i primi atti della nuova amministrazione hanno virato soprattutto verso il ripudio di alcuni trattati commerciali multilaterali, una decisa attenzione verso il protezionismo economico e la sicurezza, la chiusura dei confini statunitensi e la nomina del giudice alla Corte Suprema. Sul primo fronte, il 23 gennaio Trump ha firmato un memorandum che ritira formalmente gli Stati Uniti dal Trans-Pacific Partnership (TPP) – l’accordo di libero scambio tra USA, Canada e altri dieci Paesi della regione del Pacifico, tuttavia non ancora entrato in vigore; un risultato, questo, non così eclatante dopotutto. Il trattato era già stato dichiarato pressoché decaduto e senza futuro dallo stesso Barack Obama ancor prima di lasciare lo Studio Ovale. Il Presidente, invece, ha compiuto passi formali presso i governi di Messico e Canada per progettare una rinegoziazione del North America Free Trade Agreement (NAFTA), da lui definito come il «peggior accordo commerciale della storia degli Stati Uniti». Il ripudio del TTP, lo stallo sulla conclusione del Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) e la rinegoziazione del NAFTA sono dimostrazioni della volontà della nuova amministrazione di rivedere alcuni capisaldi della globalizzazione economica. Trump ha spinto verso la conclusione di un nuovo accordo bilaterale con il Regno Unito, anche grazie alla visita del Primo Ministro Theresa May a Washington. Infine, a seguito dell’incontro con i grandi leader industriali e delle grandi aziende automobilistiche, Trump ha espresso la propria intenzione di procedere verso l’imposizione di pesanti dazi commerciali per le imprese statunitensi che faranno offshoring, favorendo così il rilancio della produzione americana, specificamente in aree 5
nelle quali il sostegno dell’elettorato industriale è stato cruciale per la sua elezione (Ohio, Michigan, Pennsylvania). Sul fronte migratorio, il neo Presidente ha emesso un decreto che dà il via alla costruzione di quella parte di muro non ancora edificata al confine col Messico e un secondo provvedimento che vieta l’ingresso per 90 giorni negli USA a coloro che provengono da sette Paesi a maggioranza musulmana (Iraq, Siria, Libia, Yemen, Iran, Somalia e Sudan) e per 120 giorni a tutti i rifugiati indipendentemente dalla nazionalità. Questa misura ha innescato una serie di tensioni interne ed internazionali. Sotto il primo profilo, ha portato al licenziamento del Ministro della Giustizia Sally Yates, colpevole di aver ordinato al proprio Dipartimento di non applicare il bando in quanto non convinta che il decreto fosse legittimo. Yates era l’ultima esponente rimasta ancora in carica della squadra di Obama, in attesa dell’insediamento di Jeff Session, suo successore. L’ordine esecutivo ha scatenato numerose e accese proteste anche negli aeroporti principali del Paese, dove circa 100 persone sono state trattenute per accertamenti. Dal punto di vista internazionale, le critiche non sono certo mancate: dagli Ambasciatori presenti a Washington, al Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, all’Alto Commissario per i Diritti Umani Zeid Ra’ad al-Hussein che ha definito la mossa di Trump “illegale” e da molti leader europei. Particolarmente danneggiate risultano anche le relazioni con l’Iran, che ha espresso le proprie critiche verso il bando e intende applicare un principio di reciprocità contro i cittadini americani, mentre il Dipartimento del Tesoro ha annunciato di voler introdurre nuove sanzioni contro Teheran a seguito dell’esperimento missilistico compiuto il 29 gennaio, che ha aumentato la tensione tra i due Paesi. Il provvedimento intende colpire 13 individui e 12 enti coinvolti nello sviluppo del programma missilistico iraniano, accusati di favorire atti di terrorismo e di contribuire allo sviluppo di armi di distruzione di massa. Trump, inoltre, ha provveduto alla designazione del 49enne conservatore Neil Gorsuch a giudice della Corte Suprema. La sua nomina dovrà essere approvata dal Senato con almeno 60 voti favorevoli, ma l’attuale composizione dell’organo vede i repubblicani in maggioranza con 52 seggi, seguiti dai democratici con 48. Si profila una strategia di ostruzionismo da parte democratica, in quanto, se la nomina di Gorsuch fosse confermata, la Corte Suprema tornerebbe a maggioranza repubblicana dopo la morte del giudice Antonin Scalia, pilastro dell’ala conservatrice. Questo consentirebbe al Grand Old Party di orientare anche il massimo organo giudiziario su posizioni più conservatrici su vari temi sociali (aborto, matrimoni omosessuali, ecc), ottenendo così il “monopolio del potere”, con la maggioranza assoluta al Congresso, al Senato, alla Corte Suprema, oltre alla riconquista della Casa Bianca. Per quanto riguarda le relazioni internazionali, il neo Presidente, che ha sempre dichiarato il volere di ricostruire i rapporti con il Cremlino, ha intrattenuto una conversazione telefonica con Vladimir Putin, nella quale sono state imbastite idee per una potenziale collaborazione tra i due Paesi per la lotta contro lo Stato Islamico, 6
mentre non sembra ci siano state aperture significative sul tema delle sanzioni economiche verso Mosca. Trump ha avuto un colloquio telefonico anche con Angela Merkel, nel quale i due leader hanno riaffermato l’importanza della NATO, definita in realtà “obsoleta” dal Presidente in campagna elettorale. Il tycoon ha intrattenuto una telefonata anche con François Hollande, che ha esortato il neo Presidente a tenere conto delle conseguenze di un approccio economico protezionista. Infine, il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, ha espresso l’intenzione della nuova amministrazione di rivedere le politiche statunitensi su Cuba, dopo la distensione inaugurata soprattutto nell’ultimo anno di presidenza Obama. Tracciando un bilancio sui primi atti dall’assunzione dell’incarico presidenziale, emerge l’immagine di un Donald Trump risoluto ed energico su immigrazione e protezionismo nonché seriamente intenzionato a realizzare quanto prima possibile le promesse formulate agli elettori, piuttosto che ricucire gli strappi e le divisioni creatisi nel corso della campagna elettorale. Appare, inoltre, una netta preponderanza nel cercare di garantire in primis la sicurezza degli Stati Uniti attraverso la chiusura dei confini, un approccio deciso contro i cosiddetti “Stati canaglia” del Medio Oriente e una politica estera assai drastica, ispirata all’”America First”. Trump sta mantenendo le promesse attraverso una politica ispirata alla risolutezza, alla rapidità decisionale e alla conduzione di una politica estera completamente opposta rispetto alla presidenza Obama (Iran, Cuba, Unione Europea, rapporti con la Russia ed accordi commerciali).
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BREVI CANADA, 29 GENNAIO ↴ Un uomo armato ha attaccato il Centro culturale islamico di Québec City durante la consueta preghiera serale, uccidendo 6 persone e ferendone almeno 19. Secondo le forze di polizia l’attentatore sarebbe un bianco canadese, spinto da motivazioni di odio e pregiudizio
religioso.
L’arrestato
è
Alexandre
Bissonnette, uno studente dell’Università di Laval, sostenitore degli ambienti dell’ultra-destra nazionalista e xenofoba canadese ma non affiliato a nessuno dei gruppi locali attivi nel Paese. Sebbene non siano state ancora formulate delle accuse specifiche a carico del giovane, le autorità canadesi sarebbero propense a considere l’attacco non come un mero e isolato atto di violenza politica, bensì un attentato di natura terroristica. Per stessa ammissione dell’attentatore, l’attacco al Centro culturale in questione sarebbe infatti stato mirato a colpire esclusivamente i cittadini di fede musulmana. L’atto non rappresenta in ogni caso una novità sostanziale nel panorama nazionale a causa del ripetersi di episodi di intemperanza e violenza a sfondo religioso: nel settembre 2013 la Moschea di Sangenay, vicino a Montreal, fu vandalizzata con del sangue di maiale; il 14 novembre 2015, il giorno dopo gli attentati di Parigi, venne bruciata la Moschea di Peterbourgh in Ontario; infine, nell’agosto 2016, durante il mese sacro di Ramadan, nello stesso centro islamico quebecchese venne rinvenuta una testa di maiale nel pazziale antistante la struttura. Questi episodi si inscrivono in un clima nazionale di crescente violenza, non solo verbale, anche a causa dell’emergere di soggetti non trascurabili dell’estrema destra locale – attiva soprattutto in Ontario Occidentale, Alberta, British Columbia e Québec per l’appunto – capaci di influenzare il dibattito politico e l’opinione pubblica canadese con manifestazioni dichiaratamente anti-islamiche e anti-immigrazione. Non meno rilevante, infine, si è d’altra parte dimostrato il timore di nuovi attentati terroristici nel Paese, dopo quello avvenuto al Parliament Hill di Ottawa, nell’ottobre 2014, ad opera di un radicalizzato canadese di origine libica. Una situazione dunque di generale insicurezza che entra in netto contrasto con la tradizionale immagine positiva del Paese e con le continue aperture multiculturaliste del Premier Justin Trudeau.
LIBIA, 1-2 FEBBRAIO ↴ Il Premier libico Fayez al-Serraj ha fatto visita al quartier generale della NATO a Bruxelles dove ha incontrato il Segretario Generale Jens Stoltenberg. I colloqui hanno riguardato in particolare il delicato tema della sicurezza del Paese nordafricano: la NATO sarebbe pronta ad assistere la Libia nella costruzione di un efficace sistema di 8
sicurezza e di difesa rafforzando le sue capacità di combattere il terrorismo e di controllare i flussi migratori. Conclusosi l’incontro con Stoltenberg, al-Serraj si è poi recato nelle sedi europee dove ha incontrato il Presidente del Parlamento europeo, il neo eletto Antonio Tajani, l’Alto Rappresentante europeo per la Politica Estera, Federica Mogherini, il Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, e il Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker. L’obiettivo del Premier libico è quello di ottenere un sostegno più concreto da parte dell’UE utile a stabilizzare il Paese nordafricano. Partito alla volta di Roma, al-Serraj ha qui incontrato il Premier Paolo Gentiloni. Nel pomeriggio del 2 febbraio è stato, infatti, siglato a Palazzo Chigi il Memorandum d’intesa italo-libico sull’immigrazione illegale, la lotta al traffico di esseri umani e il rafforzamento dei controlli alle frontiere libiche. L’Italia si è impegnata ad aiutare il governo al-Serraj nel controllo dei flussi migratori: in particolare l’Italia rafforzerà il proprio sostegno nel controllo delle frontiere meridionali della Libia, quelle da cui proviene la maggior parte dei migranti che poi si riversa nelle acque del Mediterraneo nell’intento di raggiungere le coste italiane. L’applicazione e l’efficacia concreta di questo accordo, tema centrale del vertice di Malta del 4 febbraio, dipenderà logicamente dagli sviluppi del governo al-Serraj e dalle sue capacità o meno di raggiungere un controllo effettivo del territorio libico.
SITUAZIONE POLITICA E MILITARE SUL CAMPO – FONTE: ECFR
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MALTA, 3 FEBBRAIO ↴ I leader europei si sono riuniti alla Valletta in occasione di
un
Vertice
informale
centrato
sul
tema
dell’immigrazione clandestina e della conseguente lotta al fenomeno criminale. L’ordine del giorno prevedeva la discussione delle misure da prendere per sostenere la Libia e contenere il flusso migratorio, in particolare
nella
rotta
del
Mediterrano
Centrale.
Stando alle cifre ufficiali dell’Unione Europea, nel solo 2016 oltre 180.000 migranti hanno seguito questa rotta. Il summit si è concluso con una dichiarazione congiunta dei 28 leader, i quali si sono accordati su una serie di misure concrete atte a contenere il flusso migratorio. «Abbiamo raggiunto un accordo su un pacchetto di misure che ci aiuterà a gestire meglio il flusso e a salvare vite», ha dichiarato Federica Mogherini, l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza. Il piano d’azione, che era stato proposto dalla Commissione Europea pochi giorni prima il Vertice, prevede sia il potenziamento della capacità dei rimpatri e il rafforzamento della Guardia Costiera libica sia lo stanziamento di ulteriori 200 milioni per il continente africano. I leader europei hanno inoltre mostrato particolare sostegno al memorandum d’intesa recentemente siglato tra il Presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni e il Premier libico Fayez al-Serraj. «L’Unione Europea accoglie con favore ed è pronta a sostenere lo sviluppo dell’accodo firmato tra Italia e Libia il 2 febbraio», si legga nella dichiarazione congiunta. «L'accordo con la Libia apre un capitolo nuovo. Sappiamo che è dalla Libia che arriva il 90% dei migranti: il fatto che ci sia un accordo che prevede una collaborazione apre un capitolo nuovo cui abbiamo lavorato per mesi», ha dichiarato Gentiloni a riguardo dell’intesa. Non tutti appaiono d’accordo però. Diverse organizzazioni non governative e gruppi per la difesa dei diritti umani hanno lanciato dure critiche accusando i leader europei di avere un approccio disumano. «La Libia non è un luogo sicuro e bloccare o riportare le persone in questo paese rende i cosiddetti valori fondamentali dell’UE a riguardo del rispetto della dignità umana e dello stato di diritto ridicoli», ha dichiarato un rappresentante di Medici Senza Frontiere alla BBC. Nella seconda parte della giornata, i leader europei hanno anche discusso la postura assunta dal neoeletto Presidente statunitense Donald Trump riguardo al tema dell’immigrazione.
REGNO UNITO, 27-28 GENNAIO ↴ Settimana diplomatica di grande rilevanza per il Primo Ministro
britannico
Theresa
May,
impegnata
in
importanti bilaterali a Washington e ad Ankara con il Presidente USA Donald Trump e il turco Recep Tayyp Erdoğan. Nell’incontro del 27 gennaio alla Casa Bianca, May e Trump hanno discusso dei legami commerciali post-Brexit tra i due Paesi e della possibilità di dare un 10
nuovo forte impulso alla storica “special relationship”. «Dobbiamo ridare prosperità ai nostri popoli» ha dichiarato Theresa May, indicando la missione dei governi di Regno Unito e Stati Uniti. E ha poi aggiunto: «Servono economie che funzionino per l'intero Paese, che mettano gli interessi della gente comune davanti a tutto il resto». Durante la visita alla Casa Bianca si è anche parlato del rapporto con Mosca a proposito del quale Trump ha definito premature le discussioni sulle sanzioni verso Mosca. Il giorno successivo, il 28 gennaio, in una visita di un giorno nella capitale turca, la Premier britannica ha avuto colloqui ufficiali con Erdoğan e con il Primo Ministro Binali Yıldırım, nella speranza di espandere i legami politici e di sigillare un nuovo rapporto di mercato. Il Presidente turco ha dichiarato di mirare ad aumentare il volume degli scambi tra Turchia e Regno Unito da 15,6 miliardi di dollari a 20 miliardi di dollari all’anno. May ha, da parte sua, reso noto un accordo che prevede l’istituzione di un gruppo di lavoro per aumentare il commercio e per rafforzare le relazioni bilaterali tra i due Paesi in vista della Brexit. Al centro dell’incontro anche il processo di riunificazione di Cipro, la sicurezza aerea, la questione siriana e la lotta contro lo Stato Islamico. I due incontri bilaterali sembrano mirare a rendere la Brexit, non a caso definita da Trump un’“opportunità fantastica”, un successo politico e commerciale per Londra e per l’esecutivo britannico, moltiplicando i viaggi e gli incontri bilaterali di Theresa May con i leader mondiali.
TERRORISMO, 26 GENNAIO – 1 FEBBRAIO ↴ Una serie di operazioni anti-terrorismo hanno avuto luogo nelle ultime settimane nell’Europa centrale, portando all’evidenza di inquirenti e di strutture preposte alla sicurezza nazionale una vasta rete operativa di soggetti più o meno legati tra loro e pronti a compiere attentati nelle principali città dell’Austria e della Germania. Un primo round di operazioni ha visto il coinvolgimento di circa 800 tra forze di polizia federale austriache e gruppi speciali della locale SWAT in due raid distinti a Vienna (solo pochi giorni prima nella capitale vi è stata un’altra azione, che aveva condotto in carcere un ragazzo di 18 anni accusato di preparare un’attentato) e a Graz, che hanno portato all’arresto di oltre una decina di persone, la gran parte di loro cittadini austriaci di origine kosovara e albanese. Secondo il procuratore della Repubblica di Graz, gli uomini arrestati farebbero parte di una cellula salafita sospettata di avere diretti collegamenti con lo Stato Islamico (IS). Tra gli arrestati figura anche un predicatore di lungo corso e personalità cruciale all’interno degli ambienti estremisti mitteleuropei: l’uomo è Mirsad Omerovic, noto anche come Abu Tejma, un cittadino austriaco di origini serbo-bosniache, variamente accusato dall’autorità locali di incitamento e proselitismo religioso con fini terroristici. Omerovic si ritiene sia una figura chiave anche in termini di reclutamento: si reputa il predicatore capace di aver “arruolato” diversi soggetti radicalizzati, locali e balcanici, 11
che da Vienna e dintorni sono andati a combattere tra le fila dell’IS in Siria e Iraq. Queste operazioni fanno seguito ad altre avvenute nel corso del 2016 nei pressi di Salisburgo e Monaco di Baviera, che avevano portato all’arresto di due importanti miliziani dell’IS coinvolti negli attentati di Parigi e Bruxelles. Secondo il Ministro degli Interni Wolfgang Sobotka sarebbero state all’incirca 300 le persone che hanno abbandonato l’Austria dal 2012 per andare a ingrossare le fila dei gruppi radicali armati in Medio Oriente. Di questi almeno 90 hanno fatto ritorno nel Paese, mentre altri 50 sono morti nei teatri di crisi mediorientali. Poche ore dopo le operazioni austriache, una vasta e radicata azione di contro-terrorismo è stata condotta in Germania tra Berlino, il suo distretto federale, Francoforte sul Meno, Offenbach, Darmstadt, Wiesbaden e lo stato dell’Assia. Nella maxi operazione, che ha visto il coinvolgimento di circa 1.100 operativi tra forze di polizia e squadre speciali, sono state condotte oltre 54 perquisizioni tra abitazioni, imprese e moschee, portando all’arresto di 3 persone e al fermo di 16 soggetti già attenzionati e ritenuti passibili di essere importanti ai fini investigativi. Tra gli arrestati vi è un reclutatore di origine tunisina dell’IS. L’uomo, di cui non sono state fornite le generalità, è ritenuto un plausibile contatto di Anis Amri, l’attentatore di Berlino dello scorso 19 dicembre. Secondo le autorità dell’Assia, il tunisino sarebbe inoltre legato alla cellula responsabile dell’attentato del marzo 2015 al museo del Bardo a Tunisi, in cui furono uccise 21 persone, tra cui anche 4 italiani.
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ALTRE DAL MONDO FRANCIA (1), 22-29 GENNAIO ↴ Il ballottaggio delle primarie socialiste in Francia ha consacrato la vittoria di Benoît Hamon, esponente della fazione più radicale del partito. Sarà lui il candidato socialista alle elezioni presidenziali del 23 aprile dopo aver battuto nettamente l’ex Premier Manuel Valls: l’ex Ministro dell’Istruzione si è aggiudicato il 58% dei consensi contro il 41% dell’avversario. Valls indubbiamente ha pagato la scarsa popolarità del governo di François Hollande. Tra le proposte formulate nel programma elettorale di Hamon si prevede la riduzione delle ore lavorative settimanali da 36 ore a 32, la legalizzazione della marijuana e l’erogazione del reddito di cittadinanza; un programma ribattezzato come “socialista utopico” da molti. Il suo slogan è “Far battere il cuore della Francia”, promettendo un nuovo modello di sviluppo basato principalmente su ecologia e lotta alla povertà.
FRANCIA (2), 3 FEBBRAIO ↴ Un uomo armato di machete ha attaccato le forze di sicurezza dispiegate all’esterno del centro commerciale sotterraneo Caroussel del Louvre, ferendo 4 militari, di cui 2 in maniera lieve, prima di essere fermato e arrestato. L’attentatore è un uomo di origine egiziane, Abdallah al-Hamahmy, che lavora e vive abitualmente negli Emirati Arabi Uniti e che è arrivato in Francia da Dubai con regolare visto turistico. Il padre di al-Hamahmy è figlio di un alto ufficiale della polizia e ha parenti che lavorano in apparati statali. Secondo voci di stampa pare che l’attentatore fosse simpatizzante della Fratellanza Musulmana. Toccherà ora ai magistrati scandagliare i diversi aspetti della vita privata e professionale dell’uomo, capire i motivi che lo hanno portato a Parigi, nonché scoprire se abbia agito da solo o con altri potenziali soggetti coinvolti nell’attacco.
GERMANIA, 30 GENNAIO ↴ Sarà Martin Schulz, ex presidente del Parlamento europeo, il candidato cancelliere del Partito Social-Democratico tedesco nella sfida a Angela Merkel nelle prossime elezioni d’autunno. Il presidio dell’SPD ha infatti nominato ufficialmente e all’unanimità Schulz Presidente del partito e candidato alla cancelleria contro l’Unione Democristiana formata da CDU e CSU dopo che nei giorni scorsi l’attuale Ministro degli Esteri e ormai ex leader SPD Sigmar Gabriel aveva, a sorpresa, rinunciato a candidarsi, cedendo la presidenza del partito. Gabriel ha affermato di ritenere l’ex Presidente del Parlamento europeo un candidato più adeguato all’appuntamento elettorale di settembre. Schulz dovrà però essere eletto anche dalla base del partito, in un congresso speciale che si terrà a metà marzo. La scelta di Schulz, politico che per decenni ha vissuto tra Bruxelles e Strasburgo, rappresenta forse più di ogni altra candidatura l’idea di una maggiore solidarietà della Germania con i paesi dell’Europa 13
meridionale, su tutti la Grecia, e l’apertura di Berlino a temi tabù come gli eurobond, rispondendo forse anche alla necessità per la SPD di recuperare voti in campagna elettorale prendendo le distanze dalla linea di governo della Grosse Koalition presieduto da Angela Merkel.
IRAN, 1 FEBBRAIO ↴ L’Iran, per voce del suo Ministro della Difesa, Hussein Dehqan, ha confermato il test missilistico che ha avuto luogo alla fine del mese di gennaio. Il test sarebbe avvenuto in un sito ad est di Teheran; il missile balistico ad alta precisione e medio raggio avrebbe coperto una distanza di circa 600 miglia per poi esplodere. Il Ministro Dehqan ha nei giorni scorsi sottolineato la soddisfazione iraniana per la riuscita del test, precisando che l’Iran ha tutto il diritto di sviluppare il proprio programma di difesa senza che vi siano interferenze esterne. La precisazione iraniana arriva dopo le accuse rivolte dagli USA di aver violato le risoluzioni ONU approvate dopo l’accordo sul nucleare del gennaio 2015. Proprio a seguito del test missilistico, il Presidente Trump ha approvato nuove sanzioni contro 25 persone, enti e società sospettate di aver favorito il programma balistico iraniano.
PAKISTAN-TURCHIA, 25-26 GENNAIO ↴ A seguito del 12° round del Gruppo di dialogo militare di alto livello tra Turchia e Pakistan svoltosi presso il Ministero della Difesa a Rawalpindi, nel Pakistan settentrionale, i due Paesi hanno annunciato l’avvio dei negoziati per un accordo di cooperazione strategica bilaterale nel campo della difesa. I dettagli dell’intesa non sono stati divulgati, ma, stando alle dichiarazioni ufficiali, Turchia e Pakistan hanno deciso di incrementare la propria collaborazione militare sia per quanto riguarda gli addestramenti che la co-produzione di armamenti. In aggiunta, il legame tra le rispettive forze armate dovrà essere incrementato con visite di alto livello. Nel corso dell’incontro le parti hanno inoltre discusso questioni di mutuo interesse quali la sicurezza regionale e le misure contro il terrorismo, con particolare attenzione alla delicata situazione in Afghanistan e in tutto il Medio Oriente in generale. Il prossimo incontro ufficiale del Gruppo di dialogo militare di alto livello si terrà in Turchia.
REGNO UNITO-UE, 24 GENNAIO ↴ Confermando la sentenza di primo grado emessa lo scorso 3 novembre dall’Alta Corte di Giustizia, la Corte Suprema britannica – con 8 giudici favorevoli e 3 contrari – ha respinto il ricorso presentato dal governo circa il diritto di attivare d’autorità l’art. 50 del Trattato di Lisbona (relativo alle procedure di uscita dall’Unione Europea), secondo la Premier Theresa May rientrante nelle competenze della “Royal prerogative” e nel pieno rispetto dell’esito referendario dello scorso 23 giugno. Alla base della decisione dell’organo giudiziario di affidare al Parlamento la possibilità di invocare l’articolo in questione vi è invece la considerazione per cui l’uscita dall’UE implica la 14
revisione dei dispositivi legislativi interni e quindi richiede necessariamente il coinvolgimento dell’Assemblea parlamentare. Apparentemente favorevole all’esecutivo, invece, sembra essere la restante parte della sentenza, la quale stabilisce la non obbligatorietà di consultare i Parlamenti di Galles, Irlanda del Nord e Scozia: la possibilità tuttavia che Londra possa non trattare le amministrazioni decentrate come partner non alla pari rischia difatti di alimentare le spinte centrifughe nel Regno Unito.
ROMANIA, 31 GENNAIO ↴ Tra il 31 gennaio e il 1 febbraio Bucarest e le principali piazze del Paese sono state attraversate da imponenti manifestazioni popolari, le più grandi dalla fine della dittatura nel 1989. Il motivo è stata l’adozione da parte del Parlamento di una proposta di legge fatta dalla maggioranza di governo – a guida social-democratico e liberale – che prevede la riduzione drastica delle pene per i reati di corruzione e incompetenza anche per coloro che ricoprono cariche pubbliche. Dopo sole due ore dall’approvazione di questo provvedimento, una folla di 12.000 persone si era raccolta per le strade di Bucarest, accompagnata da migliaia di cittadini in altre città, fino a toccare la cifra di circa 300.000 partecipanti nei giorni successivi. Tale provvedimento è osteggiato in quanto del tutto contrario al senso del voto espresso in sede elettorale e alla lotta anti-corruzione sostenuta da anni nel Paese. Nonostante il governo legittimi la legge, invocando la necessità di ridurre il sovraffollamento delle carceri, i cittadini la contestano nel timore che la Romania lasci del tutto impunita una classe dirigente in taluni casi collusa con vasti ambienti di illegalità. La Romania ospita infatti una delle classi politiche più corrotte d’Europa, tra cui spicca lo stesso leader del PSD, Liviu Dragnea, nel passato recente estromesso dalle cariche pubbliche per frode elettorale e al momento sotto processo per corruzione; tali i motivi per cui egli a dicembre non fu nominato Primo Ministro e per cui il governo abbia ritardato di quasi due mesi la propria formazione. La protesta, oltre all’attenzione dell’Unione Europea, ha raccolto il supporto del Presidente Klaus Iohannis. Anche sulla spinta della protesta di piazza il governo ha deciso di ritirare e revocare l’emendamento per maggiori approfondimenti.
RUSSIA, 25 GENNAIO ↴ Trapela il nome di un terzo individuo coinvolto nella serie di arresti effettuati tra le alte sfere della sicurezza interna russa nel dicembre 2016 a seguito di accuse per alto tradimento. Oltre al numero due del Centro di Sicurezza Informatica dell’FSB, Sergej Mikhailov, ed il suo collaboratore nonché ex hacker Dmitrj Dokuchayev, è stato incarcerato anche Ruslan Stoyanov. Egli aveva lavorato prima per il Ministero dell’Interno e poi, dal 2011, per la nota società di sicurezza informatica Kaspersky, contribuendo in entrambi i casi a sgominare diversi tra i più pericolosi gruppi di cybercriminali russi. L’identità della quarta persona arrestata ancora non è nota e rimangono non chiare anche le azioni in seguito alle quali sarebbero state formulate le accuse di alto tradimento. Prima tra le ipotesi è che i quattro siano coinvolti nella diminuzione nell’arco del 2016 degli standard di sicurezza informatica del Paese, che 15
avrebbe subito più di 70 milioni di attacchi al proprio sistema bancario e informativo. Parimenti, l’arresto di profili di così alto livello potrebbe essere frutto di uno scontro interno tra gli apparati di intelligence russi FSB e GRU o tra questi e l’élite del cybercrimine, in seguito alla violazione tramite indagini “troppo invasive” del delicato equilibrio tra criminalità e giustizia che esiste in Russia. Credibile è anche l’ipotesi che i quattro fossero partecipi delle attività condotte dal noto gruppo Shaltai-Boltai, un network di esperti cyber-criminali che negli anni ha reso nota la corrispondenza elettronica di numerosi politici russi, svelandone gli illeciti. In questo senso, al di là della facciata formale da operazione per la sicurezza del Paese, gli arresti potrebbero qualificarsi come un tentativo dell’élite politica di assicurare la propria posizione apicale da eventuali futuri scandali. Ad oggi, tuttavia, a destare più interesse per la propria portata è l’eventualità secondo cui questi eventi potrebbero avere un collegamento con la fuga di notizie ricondotta a non meglio definite fonti russe di alto livello che avrebbe permesso alla CIA di provare il coinvolgimento di Mosca nella manipolazione delle ultime elezioni presidenziali statunitensi. Questo spiegherebbe l’elevata segretezza che circonda la vicenda, senza la quale il Cremlino sarebbe altrimenti costretto ad ammettere, nonostante le smentite, il proprio ruolo.
SOMALIA, 3 FEBBRAIO ↴ Almeno 28 persone sono state uccise e oltre 10 sono rimaste ferite nell’attacco contro l’Hotel Dayah di Mogadiscio. Tra le vittime ci sono due capi tribù e quattro assalitori. L’attentato non è stato rivendicato in modo diretto, ma si presume possa essere opera del gruppo terroristico al-Shabaab. L’annuncio è stato dato dalla radio al-Andalus, legata al gruppo jihadista, con le seguenti parole: «i nostri combattenti sono riusciti a fare irruzione nell’albergo». Secondo il capitano Mohammed Hussein, decine di persone, compresi deputati, si trovavano nell’hotel al momento dell’attacco, cominciato con l’esplosione di un’autobomba all’ingresso. In continuità con le ultime operazioni terroristiche avvenute su scala regionale e sfruttando un modus operandi ormai ben definito e mirato all’attacco di soft target, al-Shabaab si è pertanto inserita in questo trend prendendo di mira strutture alberghiere e altri obiettivi non necessariamente sensibili nella capitale somala. A giugno 2016 aveva colpito il Nasa-Hablod Hotel e intorno alla metà dello stesso mese aveva attaccato l’Ambassador Hotel, importante luogo di ritrovo operativo dei politici locali e del governo somalo.
UCRAINA, 29 GENNAIO ↴ In un nuovo crescendo di violenze avente preso il via già a dicembre 2016, l’esercito regolare di Kiev e i separatisti filo-russi hanno ricominciato a darsi battaglia, questa volta intorno alla cittadina di Avdiivka, poco distante dalla roccaforte ribelle di Donetsk. Le due parti sono state oggetto di numerosi scambi di artiglieria ed operazioni offensive che nei soli primi tre giorni avevano già causato 13 morti, di cui più della metà afferenti alle unità governative. Gli scontri – la responsabilità per l’inizio dei quali non è chiara – si qualificano come l’ennesima violazione degli accordi di Minsk e del cessate-il-fuoco stabilito a dicembre in seguito alla recrudescenza delle ostilità. 16
Se il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg è intervenuto nella questione rinnovando l’appello alla Russia di sfruttare la propria “considerevole influenza” per porre finalmente un termine al conflitto, Washington è stata invece più tiepida nelle proprie dichiarazioni. Pur chiamando le parti a cessare le ostilità, Trump non ha in alcun modo menzionato eventuali responsabilità del Cremlino – il quale nel frattempo prende ancora una volta le difese dei separatisti e accusa l’Ucraina di volere attirare le attenzioni della comunità internazionale provocando una nuova escalation. Il Presidente ucraino Petro Poroshenko è stato costretto dagli eventi a sospendere la visita ufficiale in Germania, così da poter meglio gestire quella che ha definito una “crisi umanitaria”; il conflitto ha infatti comportato la sospensione dell’erogazione di elettricità e acqua a migliaia di civili ad Adviika e nella zona limitrofa. Poroshenko ha contestualmente avuto modo di dar voce alla volontà di indire un referendum per accedere alla NATO, ma permangono dubbi sulle reali prospettive di un simile atto, che, almeno dal punto di vista legale, sarebbe ostacolato dal conteso stato dei territori secessionisti.
UNIONE AFRICANA, 30 GENNAIO – 2 FEBBRAIO ↴ Il Ministro degli Esteri del Ciad Moussa Faki Mahamat è stato nominato a sorpresa nuovo Commissario dell’Unione Africana (UA), battendo sul filo di lana il candidato più accreditato, la diplomatica kenyana Amina Mohamed, attualmente segretaria di gabinetto del Ministero degli Esteri a Nairobi. Mahamat sostituirà la sudafricana Nkosazana Dlamini-Zuma, che ha dovuto estendere il proprio mandato di sei mesi quando a luglio 2016 i leader africani non erano riusciti a trovare un accordo sul nome del suo successore. Quest’ultima è probabile che torni in Sudafrica per cercare di prendere le fila dell’African National Congress – il partito che fu di Nelson Mandela – e di puntare così a un’investitura ufficiale per le prossime elezioni presidenziali del 2018. Nello stesso consesso riunito ad Addis Abeba (Etiopia) è stato eletto anche il nuovo Presidente dell’UA, che ha un ruolo puramente istituzionale. La nomina è andata ad Alpha Condé, Presidente della Guinea, che ha sostituito il Presidente del Ciad, Idriss Déby. Infine, i membri dell’UA hanno votato a favore del ritorno del Marocco nell’organizzazione, che aveva lasciato nel 1984 in segno di protesta per l’ammissione della Repubblica Democratica Araba Sahrawi nel consesso panafricano.
UNGHERIA-RUSSIA, 2 FEBBRAIO ↴ Il Presidente russo Vladimir Putin si è recato per la seconda volta negli ultimi 2 anni in visita ufficiale a Budapest per un incontro bilaterale con il Premier ungherese Viktor Orbán. Nel corso del colloquio i due leader hanno discusso questioni di natura politica, economica ed energetica. Oltre ad aver vagliato la possibilità di stipulare nuovi contratti nel settore del gas naturale, il Presidente russo si è detto disposto a finanziare la costruzione di due nuovi reattori nucleari presso la centrale nucleare di Paks, in Ungheria. Dal punto di vista politico invece non sono mancati segnali di allarme per Bruxelles. Entrambi i leader hanno criticato la postura dell’Unione Europea nei con-
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fronti di Mosca. Orbán ha espresso il suo dissenso nei confronti delle sanzioni economiche imposte alla Russia, non solo ritenendole inutili al fine della distensione delle relazioni internazionali, ma anche negative per l’economica ungherese. «L'Ungheria ha perso almeno 6,5 miliardi di dollari in esportazioni a causa delle sanzioni contro la Russia», ha sottolineato Orbán.
YEMEN, 2 FEBBRAIO ↴ Le forze governative yemenite, supportate dai raid aerei della coalizione guidata dall’Arabia Saudita e da caccia bombardieri ed elicotteri da assalto Apache, hanno riconquistato il porto strategico di Mokha, presidio dello stretto di Bab el-Mandeb che divide e congiunge il Mar Rosso con il Golfo di Aden e l’Oceano Indiano, dove si affacciano Gibuti, sulla costa africana, e lo Yemen, nella Penisola Arabica. L’avamposto strategico era nelle mani dei ribelli sciiti Houthi fin dalle prime fasi del conflitto iniziato nel marzo 2015. La riconquista di Mokha da parte delle forze governative rappresenta un’importante vittoria tattica e strategica in grado di imprimere una svolta alle sorti della guerra in favore delle forze pro-lealiste.
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ANALISI E COMMENTI UNA REALPOLITIK KISSINGERIANA PER L’AMERICA DI TRUMP? DAVIDE BORSANI ↴ Incertezza è la parola chiave per comprendere questa fase di possibile, se non persino probabile, fase di transizione della politica estera americana alla luce dell’insediamento di Donald Trump come quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti. Un’incertezza che parrebbe attraversare più sfere: dai rapporti all’interno dell’amministrazione – in particolare tra le Segreterie di Stato e della Difesa da una parte e la Presidenza dall’altro –, alle relazioni tra Washington e le maggiori potenze globali o regionali – come, ad esempio, Cina o Russia –, passando per il ruolo nel foreign policy decision-making process del Congresso a maggioranza repubblicana, che sembra tutt’altro che in sintonia con la nuova Casa Bianca. Rex Tillerson al Dipartimento di Stato e James Mattis al Pentagono sono state due scelte che, almeno in apparenza, tenderebbero a sconfessare buona parte della visione del mondo di Trump. Il neo Presidente, infatti, si è speso in campagna elettorale per presentare agli americani l’immagine di un Paese in declino non solo relativo – una realtà che lo stesso predecessore, Barack Obama, ha riconosciuto, nei fatti, ma addirittura assoluto. Un Paese che, quindi, a suo avviso dovrebbe ripiegare maggiormente su se stesso, rinunciando a una qualsivoglia leadership globale. Tillerson, stando a quanto dichiarato nella recente audizione di fronte al Committee on Foreign Affairs del Senato, ha affermato l’esatto contrario, ovvero la necessità di rilanciare l’influenza americana sul sistema internazionale (…) SEGUE >>>
IL BILANCIO DELLE ELEZIONI PRESIDENZIALI IN BULGARIA E MOLDAVIA NICOLÒ FASOLA ↴ In linea con un permanente clima di tensione tra Occidente e Russia, i risultati delle elezioni presidenziali di Bulgaria e Moldavia hanno rinvigorito le paure per un’estensione della sfera di influenza di Mosca nell’Europa Orientale e balcanica. I due nuovi Presidenti eletti, rispettivamente Rumen Radev e Igor Dodon, infatti, sono stati descritti come marcatamente filorussi e dunque inclini, se non palesemente volenterosi, a ri-orientare geopoliticamente i propri Paesi, segnando una battuta d’arresto nel loro percorso di “ritorno all’Occidente” – più marcato per la Bulgaria, già membro dell’Unione Europea dal 2007, più contraddittorio e incompleto per la Moldavia. Una simile prospettiva si dimostra tuttavia alla prova dei fatti soltanto parzialmente corretta. Il grado di tensione verso la Russia nelle nuove presidenze in questione non è difatti equivalente nei due casi, non ha giocato lo stesso peso nel dibattito elettorale, né tantomeno sembra in grado di esercitare la stessa pressione sulle linee di politica estera. Nonostante Bulgaria e Moldavia abbiano alla base delle proprie dinamiche politiche un sostrato socio-economico simile, l’interazione di questo con il quadro geopolitico è marcatamente differente. Il contesto domestico in cui queste elezioni
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hanno preso luogo è ancora, come d’altronde per la Moldavia, fortemente caratterizzato dalle tipicità e dalle contraddizioni della transizione dal modello socialista a quello liberale-capitalista (…) SEGUE >>>
HAFTAR E RUSSIA: UN MODELLO SIRIANO PER LA LIBIA? ANTONELLA ROBERTA LA FORTEZZA ↴ Negli ultimi anni si è assistito ad un ritorno importante e manifesto della Russia nelle vicende economiche e militari del Grande Medio Oriente e nella fattispecie in quelle del Mediterraneo. Lo sbocco e la proiezione verso i mari caldi e in particolare verso il Mare Nostrum ha costituito un punto cruciale della politica estera russa, dall’Impero zarista a quello sovietico arrivando fino alla nuova Russia di Vladimir Putin. La penetrazione strategica russa verso il Mar Mediterraneo mira infatti ad assicurarsi una presenza stabile nel cuore di una regione ricca di risorse e di rilievo geopolitico. In questo contesto tattico e strategico si inserisce lo schema teorico-pratico disegnato da Putin e volto a ricostruire una sorta di rete di alleanze che colleghi su un’unica linea immaginaria tutti gli sbocchi marittimi russi, dalla Crimea alle basi presenti sulle coste del continente africano, passando per quelle mediorientali. È in questa ottica che va dunque letta la politica di Mosca degli ultimi anni volta ad aumentare quantitativamente e a migliorare dal punto di vista qualitativo i legami bilaterali con i Paesi della regione del Mediterraneo, sostenendo specifiche personalità tramite le quali assicurarsi un governo politicamente vicino anche per il futuro. Emblematico è il caso siriano, situazione nella quale Mosca ha sostenuto politicamene, diplomaticamente e, a partire dal 2015, militarmente, l’antico alleato Assad (…) SEGUE >>>
A cura di OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE Ente di ricerca di “BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO” Associazione culturale per la promozione della conoscenza della politica internazionale C.F. 98099880787 www.bloglobal.net 20