N°5, 12-25 FEBBRAIO 2017 ISSN: 2284-1024
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Weekly Report Osservatorio di Politica Internazionale (OPI) © BloGlobal – Lo sguardo sul mondo Milano, 26 febbraio 2017 ISSN: 2284-1024 A cura di: Davide Borsani Alessandro Costolino Giuseppe Dentice Nicolò Fasola Antonella Roberta La Fortezza Fabio Rondini Maria Serra
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Photo Credits: Said Khatib/AFP; Vincent Yu/AP/File; LibyaProspect.com; Lapresse; Reuters.
FOCUS SIRIA-IRAQ ↴
I colloqui di pace di Ginevra del 23-24 febbraio – il quarto appuntamento dopo quelli tenuti nel 2016 – non hanno prodotto alcuna svolta significativa per gli sviluppi del conflitto siriano, i cui scenari appaiono in verità fortemente legati alle trame diplomatiche intessute precedentemente e intorno al Vertice di Astana – il cui ultimo round si è tenuto il 16 febbraio – sotto la regia della Russia. Le discussioni, come hanno commentato i capi negoziatori dell’opposizione siriana, Nasser al-Hariri e Mohammad Sabra, sono state più che altro incentrate sugli aspetti procedurali delle trattative – come ad esempio la composizione e l’attribuzione dello stato di negoziatori –, mentre restano rimandate quelle circa la forma e gli obiettivi del piano di transizione politica previsto dalla Risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza e portato avanti dall’inviato speciale dell’ONU, Staffan De Mistura – impegnato in primo luogo a verificare la possibilità, allo stato attuale ancora molto lontana, di negoziati diretti tra le delegazioni della stessa opposizione e del regime di Damasco. Il nodo cruciale resta infatti la presenza di Bashar al-Assad nel futuro politico del Paese, anche soltanto durante un eventuale periodo di transizione, un’opzione inaccettabile per l’opposizione ma che resta essenziale per il regime rappresentato dall’Ambasciatore siriano all’ONU, Bashar al-Jaafari. Sull’instaurazione delle trattative dirette pesano d’altra parte le continue violazioni del cessate il fuoco mediato alla fine di dicembre o delle tregue concordate a livello locale: tra il 18 e il 21 febbraio le forze proregime hanno condotto attacchi aerei e sparato colpi di artiglieria nelle aree settentrionali di Damasco – nei distretti di Barzeh, Qaboun, e Tishreen –, quartieri strategici
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per il transito sotterraneo di armi e di rifornimenti da e verso il sobborgo nord-orientale di Ghouta, in mano ai ribelli. Altre violazioni si sarebbero registrate nelle province settentrionali di Latakia, Aleppo e in quella meridionale di Dara’a. Proprio verso quest’ultima – e in particolare nella valle del fiume Yarmouk, al confine con Israele e Giordania, nonché area strategica per il controllo delle risorse idriche – un gruppo affiliato allo Stato Islamico (IS), Jaysh Khalid ibn al-Walid, ha scagliato una vasta offensiva (20 febbraio), conquistando i villaggi di Tasil, Adwan e Sahem al-Golan con l’aiuto di cellule interne dormienti. Sfruttando l’indebolimento dei gruppi ribelli, i miliziani di al-Baghdadi si sono portati ad un chilometro dal centro nevralgico di Nawa, concretizzando così la possibilità dell’apertura di un ampio fronte bellico meridionale – a diretto contatto con Israele – e in parte ridimensionando le sconfitte subite sul versante settentrionale. Dopo la stretta avviata dall’inizio del mese, difatti, il 23 febbraio i ribelli del Free Syrian Army (FSA) supportati dall’esercito turco nell’ambito dell’Operazione “Euphrates Shield” hanno annunciato la ripresa del pieno controllo del centro cittadino di al-Bab, a cavallo di Aleppo e Manbij, con un duplice effetto. In primo luogo l’ulteriore securitizzazione del territorio settentrionale siriano e quindi del confine turco. In questo senso la caduta di alBab consente al Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan di perseguire le proprie strategie nel nord della Siria, ossia evitare la possibile continuità territoriale curda e paventando in proposito la possibilità che venga avviata una più specifica manovra offensiva nei confronti delle Unità di Protezione del Popolo Curdo (YPG) nei due centri in questione. Il Ministro della Difesa turco, Fikri Işık, ha dichiarato di essere pronto a rivalutare le operazioni militari verso Manbij se gli Stati Uniti non garantiranno il ritiro immediato dell’YPG da questa. In secondo luogo la ripresa di alBab spezza una volta di più lo sforzo bellico del gruppo jihadista e lo costringe a ripiegare verso Raqqa. Le forze curdo-siriane guidate dalle Forze Democratiche Siriane (SDF), supportate da Washington, avanzano costantemente verso la cosiddetta capitale siriana del Califfato, riconquistando molte porzioni di terreno nelle campagne orientali del centro e puntando a completarne l’isolamento in poche settimane: il 17 febbraio l’SDF ha lanciato una duplice offensiva a tenaglia volta dal lato nord-occidentale a prendere il controllo dell’autostrada Raqqa-Hasakah e a puntellare l’area nord della provincia di Deir ez-Zor; da quello meridionale a riconquistare il centro di Judaydat Khabour e quindi a recidere la linea dei rifornimenti. Anche in questo caso, tuttavia, la competizione esistente tra Turchia e Stati Uniti rischia di aprire ulteriori scenari di incertezza ed instabilità. Secondo quanto riportato dal giornale turco Hürriyet, il Capo di Stato Maggiore turco Hulusi Akar e la controparte statunitense, Joseph Dunford, avrebbero discusso durante un incontro nella base aerea di İncirlik (24 febbraio) di due possibili piani congiunti per la riconquista di Raqqa, che pongono tuttavia alcune implicazioni. Il primo, particolarmente caldeggiato da Ankara, prevede lo sfondamento in Siria delle forze speciali turche e degli Stati Uniti – soste-
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nute dai ribelli siriani già vicini alla Turchia – dalla città di confine di Tel Abyad, attualmente in mano alle milizie YPG, per poi avanzare per circa 100 Km a sud in direzione di Raqqa. Ciò evidentemente metterebbe Washington nella posizione di dover convincere il gruppo curdo a concedere il transito – e in prospettiva il controllo – di fette di territorio per almeno 20 Km nei territori di confine con la Turchia, avvantaggiando in questo senso il tentativo turco di sgretolare la continuità territoriale curda. La seconda alternativa prevede un’offensiva direttamente da al-Bab, ma l’eccessiva distanza (almeno 180 Km) e il territorio accidentato e montuoso rendono questa opzione difficilmente praticabile.
SITUAZIONE MILITARE SUL CAMPO IN SIRIA (UPDATE AL 14 FEBBRAIO 2017) – FONTE: ISW
Sul fronte iracheno, dopo un reset operativo durato circa tre settimane a seguito della conquista dell’area orientale, le forze di sicurezza irachene (ISF) hanno avviato le operazioni per strappare all’IS anche la parte occidentale di Mosul (19 febbraio). Similmente a quanto sta avvenendo a Raqqa, le forze di Baghdad puntano a circondare la citta: a sud le unità della polizia federale e della Divisione di Risposta rapida (ERD) stanno consolidando le proprie posizioni – è stato in particolare ripreso il controllo della località di Tel Rayyan. Tra il 19 e il 20 febbraio le stesse hanno raggiunto la base militare di Ghazlani e l’aeroporto della città, entrambe ritornate il 23 febbraio – mentre cadeva al-Bab – in mano ai governativi dopo aspri combattimenti. Ad ovest la nona divisione corazzata dell’esercito, con il supporto di milizie sciite filoiraniane – il Firqat al-Abbas al-Qitaliya (FAQ) –, ha cominciato la chiusura delle uscite cittadine, in particolare in direzione nord verso il Tigri. Il quadro generale lascia presumere una sconfitta in tempi brevi dello Stato Islamico nel suo principale centro iracheno, ma una serie di attentati suicidi avvenuti nella zona est nel corso delle ultime settimane suggeriscono che il territorio è ancora lontano dall’essere stato completamente rastrellato dalle forze jihadiste e che queste possono contare, come nei 3
territori interno a Baghdad, di numerose infiltrazioni che ne rendono difficile l’individuazione e lo smantellamento.
SITUAZIONE MILITARE SUL CAMPO A MOSUL (UPDATE AL 23 FEBBRAIO 2017) – FONTE: BBC
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STATI UNITI ↴
A due settimane dallo stop imposto dalla Corte d’Appello di San Francisco sull’incostituzionalità del cosiddetto “Muslim Ban”, l’amministrazione Trump – che nel frattempo starebbe preparando una revisione del precedente bando includente anche i Fratelli Musulmani – ha conosciuto una nuova dura sconfitta politica lo scorso 14 febbraio a causa delle dimissioni forzate del Consigliere per la Sicurezza Nazionale Michael Flynn. L’ex Generale è stato accusato dai servizi di sicurezza interni di aver violato il Logan Act, una norma oscura che vieta ai privati cittadini statunitensi di negoziare con i governi stranieri nelle dispute diplomatiche con gli USA. Nella fattispecie, Flynn ha mentito deliberatamente più volte circa i suoi rapporti privilegiati con alcune personalità legate al Cremlino. Secondo alcune ricostruzioni del Washington Post, il 29 dicembre scorso, Flynn aveva chiamato l’Ambasciatore russo a Washington, Sergej Kislyak, promettendogli una rimozione delle sanzioni economiche nei confronti di Mosca, proprio nelle ore in cui l’amministrazione uscente Obama imponeva nuove misure punitive contro la Russia, accusata di aver interferito nel corso dell’ultima campagna elettorale presidenziale. Un’accusa grave che Flynn aveva smentito sia alla stampa, sia al vice Presidente Mike Pence, sia nelle audizioni con l’FBI e la NSA il 20 gennaio 2017, ossia il giorno della cerimonia di insediamento di Trump alla Casa Bianca. Più che il sospetto di una promessa non mantenibile, a pesare sulle dimissioni di Flynn è stato da un lato l’aver mentito a Pence e a Sean Spicer, il portavoce della Casa Bianca, i quali avevano pubblicamente difeso il militare in pensione dalle accuse di essere un filorusso, dall’altro il non aver pensato di dover informare il Presidente Trump della conversazione, nota a quest’ultimo solo a scandalo politico emerso, ossia il 26 gennaio 2017.
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Dopo il breve interim del Generale Joseph Kellog, Trump ha nominato il 20 febbraio come nuovo National Security Advisor il Generale Herbert Raymond McMaster, reputato in molti ambienti di Washington un militare dalle posizioni moderate e apprezzate, in parziale discontinuità con il suo predecessore. McMaster ha inoltre servito il Paese nelle missioni in Afghanistan e nelle due Guerre del Golfo in Iraq. Sempre sul piano interno è da segnalare, inoltre, la nomina di Alexander Acosta quale nuovo Segretario al Lavoro (16 febbraio), dopo la rinuncia di Andrew Puzder, che non avrebbe trovato sufficiente sostegno in Senato, a causa dell’emergere di alcune controversie professionali legate ad accuse denigratorie e sessiste da lui rivolte nei confronti dei propri dipendenti. Sul fronte di politica estera si registrano due importanti bilaterali tenuti a Washington da Trump con il Premier canadese Justin Trudeau (13 febbraio) e con il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu (15 febbraio). Nell’incontro con Trudeau, “The Donald” ha rimarcato la bontà delle posizioni assunte dal nuovo corso politico in materia di immigrazione e di libero commercio, ormai considerabili una cifra politica della nuova amministrazione, ribadendo inoltre la centralità del solido legame bilaterale che unisce gli USA al Canada, testimoniata da quella che entrambi i leader hanno definito una “essential partnership”. Più vivace invece è stato il Vertice con il Premier israeliano Netanyahu, dopo i dissapori diplomatici e personali intercorsi tra quest’ultimo e il Presidente uscente Barack Obama. L’agenda politica dell’incontro verteva soprattutto sui temi di maggior disaccordo con la precedente amministrazione: Iran e accordo nucleare, conflitto siriano e processo di pace israelo-palestinese. Se sui rapporti con Teheran e il conflitto siriano, Trump ha confermato quanto già esplicitato ancor prima di insediarsi alla Casa Bianca – ossia contenimento delle aspirazioni nucleari iraniane e possibile coinvolgimento militare terrestre in Siria solo per combattere lo Stato Islamico –, la posizione assunta sulla questione israelo-palestinese ha rappresentato una novità in quanto Trump ha in pratica abbandonato la tradizionale posizione statunitense della “Two State Solutions”, pilastro fondamentale della politica estera mediorientale USA. Durante la conferenza stampa congiunta con Netanyahu, Trump ha affermato che la soluzione per il più lungo conflitto della storia contemporanea passa dal congelamento di tutte quelle pratiche finora tenute, favorendo invece un accordo di pace diretto tra Israele e Autorità Nazionale Palestinese che sia gradito a entrambe le parti. Come ha poi continuato il tycoon newyorkese «uno o due Stati per me fa lo stesso. Mi va benissimo l’una o l’altra scelta». Sugli insediamenti in Cisgiordania, invece, il Presidente ha invitato Israele a fermare temporaneamente i piani abitativi a Gerusalemme Est, al fine di non compromettere i dialoghi politici sul processo di pace. Infine, sull’argomento dello spostamento dell’Ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, Trump ha ripetuto che «stiamo considerando il trasferimento» senza però prendere impegni precisi sulle tempistiche.
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Non meno rilevanti si sono dimostrate le partecipazioni dei massimi vertici politici e militari statunitensi ai Summit e ai forum di dialogo internazionali avvenuti in Europa tra il 14 e il 20 febbraio. La prima missione in ordine temporale è stata quella del Segretario alla Difesa James Mattis alla Ministeriale Difesa della NATO a Bruxelles il 14-15 febbraio. Durante gli incontri con i leader europei e il Segretario Generale dell’organizzazione, il norvegese Jens Stoltenberg, il capo del Pentagono ha rassicurato gli alleati sulla volontà di Washington di non voler ridurre o abdicare ai propri impegni assunti con la comunità atlantica (in particolare in merito alle crisi in Ucraina e in Libia e al contrasto all’immigrazione clandestina nel Mediterraneo), chiedendo tuttavia ai partner europei un maggior impegno nell’incremento delle risorse finanziarie dei rispettivi budget nazionali della Difesa. L’obiettivo da raggiungere rimane lo stesso da anni: riuscire a fare in modo che tutti i contributori alla difesa spendano circa il 2% del proprio PIL per il budget comune NATO. Oltre a ciò, all’interno dei bilanci della Difesa, i Paesi membri dovrebbero allocare il 20% delle risorse destinate al settore militare in migliori dotazioni e in investimenti destinati all’innovazione tecnologica. Come ha ricordato Mattis, ad oggi solo Regno Unito, Estonia, Polonia e Grecia hanno raggiunto tale obiettivo. Un target da raggiungere necessariamente in tempi brevi data l’ancora forte assertività russa nel Vecchio Continente. Infatti come ha spiegato nell’audizione lo stesso Mattis, la Russia rimane il principale ostacolo alla pace e pertanto «non siamo ora in posizione di collaborare [con Mosca] a livello militare». In tal senso l’Organizzazione del Nord Atlantico ha ribadito la centralità dell’area del Mar Nero, decidendo di aumentare la propria presenza navale con azioni di addestramento, esercitazioni e monitoraggio. Immediata è stata la replica di Mosca, che per voce di Vladimir Putin ha definito le dichiarazioni della NATO un’aperta provocazione d’Alleanza miranti a «trascinare [la Russia] in uno scontro diretto». Anche in riferimento al clima sempre teso tra Washington e Mosca, si inserirebbero le recenti dichiarazioni di Donald Trump circa la volontà degli USA di ampliare il proprio arsenale nucleare. Altrettanto importanti si sono rivelate, infine, le missioni diplomatiche di Mike Pence e del neo Segretario di Stato Rex Tillerson al G20 dei Ministri degli Esteri di Bonn, alla Munich Security Conference 2017 e nei bilaterali con le istituzioni comunitarie a Bruxelles. In tutti questi incontri, i leader statunitensi hanno ribadito gli stessi concetti esposti da Mattis alla Ministeriale NATO per quel che riguarda la sicurezza, ma hanno allo stesso tempo tenuto a sottolineare la precisa volontà di Washington di essere ancora un membro attivo e fondamentale nella partnership con l’Europa e nelle principali questioni di carattere geopolitico che rischiano di minare gli equilibri internazionali e l’ordine globale.
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BREVI COREA DEL NORD, 12-14 FEBBRAIO ↴ Pyongyang ha effettuato un nuovo test missilistico nel Mar del Giappone che è stato condannato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per violazione degli obblighi internazionali stabiliti nelle Risoluzioni ONU. Il razzo, che sembra essere stato identificato come un missile a medio raggio Musudan, è stato lanciato il 12 febbraio e ha viaggiato per circa 500 Km prima di cadere nello specchio di mare antistante il Giappone, a circa 350 Km dalla costa nordcoreana. Tokyo ha protestato formalmente con Pyongyang per il lancio, che, a detta di molti analisti, presenta tutti gli aspetti formali della provocazione allo scopo di testare la risposta del nuovo Presidente USA Donald Trump e la tenuta dell’alleanza tra Giappone e Stati Uniti. Un test che avviene inoltre a poche settimane dall’avvio delle consuete esercitazioni militari congiunte tra Washington e Seoul. La notizia del lancio missilistico è arrivata infatti proprio mentre il Presidente statunitense era a cena in Florida con il Premier nipponico Shinzo Abe. Poche ore dopo il test balistico, il regime nordcoreano è tornato all’attenzione dei media internazionali per un altro avvenimento. Kim Jong-nam, fratellastro dell’attuale dittatore, Kim Jong-un, è stato ucciso all’aeroporto di Kuala Lumpur, in Malesia, il 14 febbraio. Esiliato e ormai fuori dai giochi di potere di Pyongyang, tanto da aver avanzato in passato esplicite critiche al regime, Kim Jongnam
è
stato
probabilmente avvelenato
da
due
donne mediante gas nervino. Quest’ultimo particolare, insieme ai ripetuti
tentativi
di
occultare il cadavere, rende
probabile
l’omicidio
sia
che stato
ordinato dalla Corea del Nord, Paese non firmatario
delle
convenzioni internazionali
sulle
armi chimiche, di cui dovrebbe
avere
un’elevata disponibilità. 8
LIBIA, 13-20 FEBBRAIO ↴ Sembra
non
aver
raggiunto
gli
obiettivi
sperati
l’incontro negoziale, organizzato dagli egiziani, tra il Generale Khalifa Haftar e il Premier Fayez al-Serraj, tenutosi al Cairo tra il 13 e il 14 febbraio. Secondo alcune fonti, infatti, i due uomini forti della Libia non si sarebbero neanche incontrati, parlandosi solo indirettamente tramite il mediatore egiziano, Mahmoud Hegazy, uomo di fiducia del Presidente al-Sisi per curare il delicato dossier libico. I punti principali di questo incontro sarebbero stati, in particolare, la formazione di una Guardia Nazionale, le modifiche degli accordi di Skhirat del dicembre 2015 e la definizione di una road map da elaborare congiuntamente tra Tripoli e Tobruk. Il vero fulcro della questione rimane la definizione del ruolo del Generale Haftar in una futura Libia pacifica e unita. L’unico effetto concreto ottenuto da questo incontro indiretto sembrerebbe essere stata la definizione di un comitato congiunto avente come compito principale quello di emendare gli accordi di Skhirat. A pochi giorni dall’incontro del Cairo, il 20 febbraio, il convoglio di auto su cui viaggiava anche il Premier al-Serraj è stato oggetto di una sparatoria a Tripoli. Resta ancora poco chiara la dinamica dell’incidente, avvenuto vicino all’ospedale al-Khadra. Secondo alcune fonti si sarebbe trattato espressamene di un attentato nei confronti del convoglio presidenziale; secondo altre, invece, il convoglio si sarebbe trovato casualmente nel mezzo di una sparatoria tra diverse bande criminali. In ogni caso l’episodio è emblematico di quanto sia precaria la sicurezza nella regione di Tripoli.
PALESTINA, 13 FEBBRAIO ↴ Il Comitato esecutivo di Hamas ha eletto a netta maggioranza
Yahya
Sanwar
nuovo
leader
della
medesima organizzazione islamista. Sanwar, già a capo delle Brigate Izz al-Din al-Qassam (l’ala militare di Hamas), è un militante anziano del gruppo, già Comandante del Munazzamat al Jihad wal-Dawa (gli apparati di sicurezza del movimento) e, negli ultimi anni, punto di raccordo con l’anima politica dell’organizzazione. Più volte arrestrato e scarcerato dagli israeliani, Sanwar era stato definitivamente catturato e condannato all’ergastolo nel 1988 per l’omicidio di un soldato israeliano. Nel 2011 era stato rilasciato nell’ambito dello scambio di prigionieri politici che aveva portato alla liberazione di Gilad Shalit, il caporale israeliano catturato da Hamas nel 2006 – pare da una cellula fedele a Sanwar – durante la Guerra con il Libano, e alla scarcerazione di oltre un migliaio di militanti palestinesi. La nomina di Sanwar, che subentra all’ex uomo forte di Gaza, Ismail Haniyeh, a sua volta subentrante nella carica di guida spirituale al posto di 9
Khaled Meshaal – ormai fuori dai giochi di potere del gruppo dopo il suo esilio volontario in Qatar –, rappresenta una nuova svolta radicale nella storia recente del gruppo, da tempo falcidiato da numerose lotte intestine al movimento. Oltre a rappresentare un segnale forte nei confronti della leadership e nei giochi di potere intra-palestrinesi con Fatah, l’elezione di Sanwar evidenzia anche il definitivo rafforzamento dell’ala militare del gruppo ai danni della componente politica accusata di incapacità e inadeguatezza sia nei confronti della popolazione locale gazawi, vessata da una crisi economica senza fine accentuata dall’embargo economico israeliano e dal ripetersi di conflitti all’interno dei territori della Striscia, sia in merito – a loro dire – alle deboli posizioni assunte sulla causa palestinese, che rischia di essere appaltata in favore dei gruppi radicali ed estremisti (come ad esempio anche lo stesso Stato Islamico) proliferanti a Gaza e nel Sinai egiziano. Una situazione, questa, potenzialmente destabilizzante che potrebbe favorire – come in altri casi analoghi di forte instabilità e insicurezza nella regione – l’ascesa e l’affermazione di IS in loco, con ripercussioni geo-strategiche dirette negli equilibri del Vicino Oriente. È altrettanto evidente che la penetrazione ideologica di frange estremiste esterne alla Striscia suscettibili di orientare l’opinione pubblica locale verso posizioni sempre più radicali rappresenta di fatto una duplice sfida, politica e di sicurezza, al sistema di legittimità vigente promosso da Hamas. In questo senso, quindi, la nomina di Sanwar appare essere una scelta tattica e funzionale alla volontà del movimento di recuperare credibilità in termini di appeal nei confronti del proprio elettorato e di conservazione dei pur sempre delicati e fragili equilibri securitari che coinvolgono anche altri attori locali come Egitto e Israele. Ciononostante, proprio l’ambivalente e tumultuoso rapporto con Tel Aviv potrebbe finire per essere nuovamente oggetto di una campagna retorica e militare da parte del nuovo establishment, con il rischio che un’eccessiva esasperazione dei toni e delle azioni violente possa aprire di fatto le porte ad un quarto conflitto in meno di un ventennio nella Striscia di Gaza. In uno scenario sempre più complesso, polarizzato e mutevole, i cambi al vertice di Hamas potrebbero rappresentare un nuovo banco di prova per la stabilità e per la legittimità delle istituzioni locali, nonché per la salvaguardia dei delicati equilibri del Vicino Oriente.
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ALTRE DAL MONDO CINA, 17 FEBBRAIO ↴ Nuove immagini satellitari diffuse dall’Asia Maritime Transparency Initiative (AMTI), il centro di analisi americano focalizzato sulle dinamiche geopolitiche nell’indo-pacifico, hanno rilevato l’installazione di nuove basi militari cinesi nelle isole Spratly e sugli atolli di Fiery Cross, Subi e Mischief, dove sono già presenti installazioni missilistiche, piste di atterraggio aereo e banchine per l’attracco di navi da guerra. Sugli atolli in questione sono stati collocati sistemi missilistici terra-aria di ultima generazione HQ-9, simili ai russi S-300 russi e ai Patriot statunitensi. Secondo Pechino, la sovranità territoriale, i diritti e gli interessi marittimi cinesi nel Mar Cinese Meridionale trovano unica applicazione nel diritto storico del Dragone riconosciuto dalla “Linea dei Nove tratti”. Con tale riferimento basato su cartografie cinesi del 1947 effettuate, appunto, con nove tratti di penna, Pechino definisce il 90% di quei circa tre milioni quadrati di oceano «territori storicamente soggetti alla sovranità della Cina», risalenti addirittura ai tempi imperiali. Nei cosiddetti “Nove Tratti” sono inseriti gli arcipelaghi contesi con le Filippine delle isole Paracel (Xisha secondo i cinesi) e Spratly (Nansha in cinese), attraverso i quali transitano annualmente merci e materie prime da e verso l’Asia per un valore commerciale di 5.000 miliardi di dollari.
ECUADOR, 19 FEBBRAIO ↴ Durante le elezioni presidenziali nel Paese latino-americano nessuno dei candidati ha raggiunto il 40% dei voti e uno scarto minimo dal secondo candidato di almeno dieci punti percentuali, condizioni necessarie per essere eletti già nel primo turno. Lenín Moreno, candidato di Alianza Paìs, il partito di maggioranza relativa in Parlamento, e già vice Presidente durante la prima presidenza Correa dal 2007 al 2013, ha ottenuto il 39,35% dei voti. A seguire si sono piazzati, rispettivamente in seconda e terza posizione, Guillermo Lasso, leader del Movimiento Creo con il 28,11% e, Cynthia Viteri, la rappresentante del Partido Social Cristiano con il 16,30%, la quale ha già espresso il suo appoggio per Lasso in previsione del secondo turno nel tentativo di riunire un largo blocco di opposizione. In un clima di proteste contro il governo di Rafael Correa in conseguenza dei problemi economici testimoniati dalla riduzione del 1,7% del PIL nel 2016 e con accuse di brogli da ambo le parti, il Paese si prepara infatti al ballottaggio tra Moreno e Lasso, previsto per il 3 aprile.
GERMANIA, 12 FEBBRAIO ↴ L’ex Ministro degli Affari Esteri, Frank-Walter Steinmeier, è stato eletto nuovo Presidente della Repubblica Federale Tedesca con una larga maggioranza di voti (932 voti sui 1253 totali) all’interno della Bundesversammulng (Assemblea Federale). Succeduto a Joachim Gauck, riconosciuto per le sue doti di mediazione, Steinmeier si configura come una scelta volta a rafforzare l’unità delle forze politiche dinnanzi alle 11
minacce populiste che stanno colpendo anche il mondo politico tedesco. Nel suo primo discorso all’Assemblea plenaria, Steinmeier si è soffermato sul ruolo della Germania, diventata simbolo della speranza in tutto il mondo e sulla necessità di difendere i valori democratici occidentali, principi sui quali, ribadisce il neo eletto Presidente, Berlino ha saputo ricostruire il proprio ruolo nell’arena internazionale dopo il secondo conflitto mondiale.
PAKISTAN, 13-23 FEBBRAIO ↴ Una nuova escalation di violenze sta segnando profondamente il Pakistan e in particolare la regione del Punjab, attraversata da numerosi attentati che hanno provocato nelle ultime due settimane la morte di più di 130 persone. L’area più colpita è stata quella di Lahore, capitale del Punjab e principale centro economico nazionale dopo Karachi, sconvolta il 13 e 23 febbraio da due attentati che hanno visto come obiettivo un corteo di lavoratori in sciopero e un’area commerciale della Defence Housing Authority. Gli attacchi, che hanno provocato circa 20 vittime, sono stati rivendicati dal Jamaat-ur-Ahrar, una fazione pachistana dei Talebani. A seguito di tali episodi, l’esercito pachistano ha annunciato l’invio nel Punjab di un contingente di Rangers che per due mesi si confronteranno con i movimenti islamisti clandestini attivi nell’area. Di ben altro tenore e rilevanza è stato invece l’attentato del 16 febbraio contro il santuario sufi di Lal Shahbaz Qalandar, a Sehwan Sharif, nella provincia del Sindh, nel Sud del Paese. Qui un attentatore suicida si è fatto esplodere all’interno della struttura tra la folla di fedeli, causando almeno 72 vittime e 250 feriti. L’attentato è stato rivendicato poche ore dopo dal Wilayat Khorasan, la frangia locale dello Stato Islamico attiva tra Afghanistan e Pakistan.
TURKMENISTAN, 12 FEBBRAIO ↴ Il Presidente uscente Gurbanguly Berdymukhamedov è stato rieletto per un terzo mandato col 97,69% delle preferenze a proprio favore, ad una tornata elettorale che, stando a quanto riportato dalla Commissione elettorale turkmena, ha visto la partecipazione del 97,27% degli aventi diritto. Anche queste elezioni non si sono tenute in un clima di effettiva democraticità. Nonostante per la prima volta nella storia del Paese altri otto candidati abbiano concorso per la carica di Presidente, nei fatti essi non erano altro che candidati deboli scelti in base al metro della lealtà politica, pronti a riversare il supporto raccolto in favore di Berdymukhamedov. La vera opposizione, al contrario, è in esilio dai tempi del precedente Presidente, Saparmurat Niyazov. Berdymukhamedov si è sostituito ad esso dopo il decesso di questi nel 2006, perpetuandone il sistema politico repressivo e trasferendo su di sé il culto della personalità. Dopo questo ennesimo successo elettorale, l’”Arkadog” (protettore, come si fa chiamare) si prepara potenzialmente ad un “regno a vita”, avendo egli riformato nel 2016 la Costituzione così da eliminare il limite di 70 anni di età per candidarsi alla carica di Presidente ed esteso il termine da 5 a 7 anni. Berdymukhamedov ha promesso di investire nel benessere del Paese, che attualmente, con un’economia appiattita sulle sole esportazioni di gas naturale, versa in condizioni non positive. 12
VENEZUELA, 13 FEBBRAIO ↴ Il Dipartimento del Tesoro statunitense ha varato una serie di sanzioni economiche dirette contro Tareck el-Aissami, vice Presidente del Venezuela, accusato di aver ricoperto un ruolo significativo nel traffico internazionale di narcotici e di aver favorito lo spostamento di carichi illegali grazie al controllo dei porti e di alcune basi aeree militari venezuelane. El-Aissami ha definito tale decisione come una «miserabile ed infame aggressione» degli Stati Uniti. “Aggressione” è il termine che riecheggia anche nel comunicato del 16 febbraio attraverso il quale la Commissione delle Telecomunicazioni di Caracas ha dichiarato di voler oscurare il canale della CNN in lingua spagnola sul proprio territorio nazionale, reo di diffondere contenuti che «rappresentano violazioni contro la pace e la stabilità democratica del Paese e favoriscono un clima di intolleranza».
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ANALISI E COMMENTI TRUMP ALLA CASA BIANCA: COSA RESTA DELLA PRESIDENZA OBAMA? SARA SIDDI ↴ Il 10 gennaio 2017, dopo otto anni di presidenza, Barack Obama ha pronunciato il suo discorso di commiato al popolo americano. Lo ha fatto davanti alla folla festante che gremiva il McCormick Place di Chicago e a circa 24 milioni di spettatori in tv. La tradizione – iniziata da George Washington nel 1796 – vuole che il Presidente degli Stati Uniti (POTUS) uscente si rivolga al popolo americano per pronunciare il discorso finale della sua presidenza e lasciare la sua eredità al successore. Obama ha sì continuato nel solco della tradizione ma, anziché pronunciare il suo addio dallo Studio Ovale della Casa Bianca, ha scelto di concludere il suo cammino presidenziale proprio nella città che lo aveva accolto, giovane neolaureato, tre decenni prima. Come per chiudere un cerchio. O forse per mettere un punto, andare a capo e continuare un nuovo capitolo della storia, sua e del Paese. Il suo era un discorso atteso e carico di aspettative. Non solo perché arrivava a conclusione di un percorso amministrativo impegnativo, sia sul fronte interno sia su quello internazionale, ma ancora di più perché andava a sottolineare la fine di un periodo politico e l’inizio di una nuova, particolarmente delicata fase della vita democratica americana (…) SEGUE >>>
JIHADISMO IN EUROPA: IL FENOMENO DEL SINGLE-ACTOR TERRORISM SILVIA CARENZI ↴ Quando ci si accosta al fenomeno del jihadismo in Europa, ci si imbatte frequentemente in espressioni come “lupi solitari”, “solo terrorism”, o “leaderless resistance”, sintagmi che, specialmente negli ultimi anni, sono stati impiegati sempre più diffusamente. Tuttavia, a questa proliferazione lessicale è troppo spesso corrisposto un approccio disorganico e semplicistico, che finisce per assimilare realtà che, nei fatti, non risultano sovrapponibili o, ancora, che vedono tali neologismi come categorie passepartout. A livello complessivo – e dunque trascurando, almeno per il momento, le peculiarità di ogni singola espressione – è possibile affermare che queste nuove concettualizzazioni fanno riferimento a svariati aspetti del jihadismo occidentale, emersi negli ultimi anni: da un lato il numero di terroristi coinvolti in un attentato (pianificato e/o eseguito); dall’altro la natura “decentralizzata” dell’operazione terroristica. In questa ottica, l’ideal-tipo dell’attentato “centralizzato” (ossia emanazione diretta della leadership) eseguito da un gruppo di jihadisti non è l’unico modello esistente; al contrario, gli attacchi possono essere perpetrati anche da un singolo individuo, sostanzialmente autonomo dal gruppo di riferimento (…) SEGUE >>>
CRISI IN COREA DEL SUD: DAGLI SCANDALI INTERNI ALLE DINAMICHE INTERNAZIONALI PAOLO BALMAS ↴ L’avvio della procedura di impeachment per la Presidente Park Geun-hye, approvato dal Parlamento sudcoreano lo scorso 9 dicembre 2016, non è servito a placare la 14
tempesta politica che ha investito da alcuni mesi a questa parte la Repubblica di Corea. Il 3 gennaio 2017 sono cominciate le audizioni della Corte Costituzionale che dovrà decidere nei prossimi mesi se accogliere la mozione sostenuta da 234 parlamentari (i voti contrari sono stati solo 56) per sospendere definitivamente il mandato di Park Geun-hye, prima della sua scadenza a dicembre 2017. Nel frattempo, il Primo Ministro Hwang Kyo-ahn ha assunto la carica provvisoria di Presidente. In queste settimane si sono susseguite numerose manifestazioni, provocate principalmente dalla delusione e dalla rabbia accumulate dai cittadini che hanno assistito a una lunga serie di scandali di corruzione che hanno dominato le televisioni e la stampa. Sono stati colpiti esponenti politici, la dirigenza della Samsung, la più grande impresa del Paese, e del Fondo pensionistico nazionale. Lo schema ricorda molto le vicissitudini che hanno interessato il Brasile con l’impeachment della Presidente Dilma Rousseff e lo scandalo Petrobras. Tuttavia, a Seoul l’obiettivo della presunta corruzione era una manovra specifica per assicurare il controllo di Samsung (…) SEGUE >>>
I RISCHI DELLA PERDITA DI EXPERTISE IN MATERIA DI RUSSIA ALESSANDRO PANDOLFI ↴ Le decisioni di politica estera dipendono dall’abilità di analizzare le informazioni disponibili inserendole in uno specifico contesto storico e culturale. Il legame tra sapere e attività dei governi è assai stretto, in particolare per gli attori che ambiscono ad un ruolo chiave negli affari internazionali. Non a caso un importante atto legislativo che ha contribuito ad aumentare la conoscenza statunitense della sfera sovietica – il Soviet-Eastern European Research and Training Act del 1983 – chiariva che la «conoscenza fattuale, verificata indipendentemente, relativa ai fatti dell’Unione Sovietica e dei Paesi dell’Europa Orientale è di estrema importanza per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, per l’avanzamento degli interessi nazionali nella condotta delle relazioni estere e per una gestione prudente degli affari domestici», precisando anche come lo sviluppo e il mantenimento di queste conoscenze dipendesse dalla «capacità nazionale nella ricerca avanzata di specialisti altamente qualificati, disponibili al servizio dentro e fuori il governo». Dopo il collasso dell’URSS svariati fattori hanno portato ad una marcata decrescita dell’interesse occidentale nei confronti di attori e dinamiche inerenti gli affari russi (…) SEGUE >>>
A cura di OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE Ente di ricerca di “BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO” Associazione culturale per la promozione della conoscenza della politica internazionale C.F. 98099880787 www.bloglobal.net 15