OPI Weekly Report N°6/2017

Page 1

N°6, 26 FEBBRAIO – 25 MARZO 2017 ISSN: 2284-1024

I

www.bloglobal.net


Weekly Report Osservatorio di Politica Internazionale (OPI) © BloGlobal – Lo sguardo sul mondo Milano, 26 marzo 2017 ISSN: 2284-1024 A cura di: Davide Borsani Alessandro Costolino Giuseppe Dentice Nicolò Fasola Antonella Roberta La Fortezza Maria Serra

Questa pubblicazione può essere scaricata da: www.bloglobal.net Parti di questa pubblicazione possono essere riprodotte, a patto di fornire la fonte nella seguente forma: Weekly Report N°6/2017 (26 febbraio – 25 marzo 2017), Osservatorio di Politica Internazionale (OPI), Milano 2017, www.bloglobal.net

Photo Credits: ANSA/AP; Reuters; Emmanuel Dunand/AFP/Getty Images; Cable News Network/Turner Broadcasting System/Getty Images; Getty Images; AFP/STR; AFP 2017/Delil Souleiman.


FOCUS LIBIA ↴

Dopo alcuni giorni di scontri armati, il 3 marzo la Brigata della Difesa di Bengasi, milizia qaedista fondata nel giugno del 2016 e raggruppante combattenti di diversi movimenti jihadisti inclusi Ansar al-Sharia e il Consiglio della Sharia dei rivoluzionari di Bengasi, ha annunciato di aver sottratto il controllo dei terminal petroliferi di Sidra e Ras Lanuf all’Esercito Nazionale dell’Est fedele al generale Khalifa Haftar che ne deteneva il controllo militare dal settembre 2016. Nonostante il governo guidato da Fayez al-Serraj si sia subito preoccupato di condannare l’azione militare in questione, non è riuscito ad evitare che fossero sollevate contro di lui talune accuse relative ad una possibile “convergenza” tra il suo governo e le milizie islamiste in funzione anti-Haftar. Alcune fonti avrebbero, infatti, parlato di un possibile avvicinamento tra Serraj e le suddette milizie; le accuse sarebbero poi state fomentate dal fatto che alla Brigata della Difesa di Bengasi si sarebbero uniti anche alcuni elementi appartenenti alle Guardie petrolifere e alle milizie di Misurata, fedeli ad al-Serraj. In pochi giorni, tuttavia, l’esercito di Haftar ha organizzato la propria controffensiva riuscendo a riprendere il controllo dei due porti. Una tale celerità ed efficacia dell’azione ha alimentato nuovi sospetti – già emersi nelle settimane precedenti – circa la possibilità che l’esercito di Haftar stia godendo dell’appoggio di forze speciali russe. Il 13 marzo l’agenzia Reuters ha pubblicato un articolo secondo cui diverse decine di contractors privati provenienti dalla Russia sarebbero stati operativi almeno fino al mese di febbraio in una parte della Libia sotto il con-

1


trollo di Haftar aggiungendo che difficilmente tali mercenari, sebbene sotto il comando di un operatore privato, possono essere arrivati in Libia senza l’approvazione del governo russo. Le indiscrezioni in tal senso non hanno trovato però alcuna conferma da fonti ufficiali, né russe né libiche. Medesima situazione si è creata in merito ad alcune rivelazioni fatte da funzionari statunitensi all’agenzia Reuters circa taluni reparti speciali russi sbarcati nella ex base militare sovietica egiziana di Sidi Barrani, situata in prossimità del confine con la Cirenaica. La base egiziana sarebbe, secondo le stesse fonti, utilizzata come appoggio per potersi temporaneamente e all’occorrenza spostarsi su territorio libico per dare sostegno alle forze di Haftar. La notizia è stata però subito smentita sia da Mosca che dal Cairo. A prescindere dalla veridicità o meno delle diverse indiscrezioni, ciò che sembra ormai indiscutibile è la sempre maggiore presenza della Russia nelle vicende libiche. I russi, del resto, portano avanti la propria penetrazione in Libia anche seguendo la direttrice petrolifera: a margine della IP Conference tenutasi a Londra a fine febbraio, la Rosneft, una delle più grandi società petrolifere russe, ha siglato un accordo con la Compagnia petrolifera nazionale libica, la NOC, tramite il quale si prevede la creazione di un comitato di lavoro tra i due partner avente il compito di valutare le opportunità esistenti in varie settori inclusi quelli dell’esplorazione e della produzione petrolifera. In pochi giorni le forze fedeli al Generale della Cirenaica hanno, dunque, riconquistato i sottratti terminal petroliferi concludendo contestualmente, dopo circa due anni, con l’assalto, il 18 marzo, al distretto di Ganfouda la liberazione della zona intorno a Bengasi. Eliminando o costringendo alla fuga le restanti milizie jihadiste, le forze di Haftar hanno di fatto assunto il controllo della seconda città più grande della Libia. Proprio in seguito alla battaglia nel distretto di Ganfouda, sono state sollevate proteste da parte delle agenzie sui diritti umani contro il Libyan National Army di Haftar a seguito di talune immagini brutali pubblicate da alcuni media della Cirenaica che testimonierebbero una serie di gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. In particolare, Human Rights Watch ha chiesto l’apertura di un’inchiesta relativa alla commissione di eventuali crimini di guerra. Dopo le due importanti vittorie riportate da Haftar, alcuni ambienti vicino al Generale avrebbero lasciato intendere che questa volta l’avanzata delle milizie di Tobruk non si fermerà a Bengasi o alla Mezzaluna Petrolifera ma procederà in direzione Tripoli. La possibile escalation militare che ne deriverebbe è tanto più temibile ora che la situazione di Tripoli risulta più che mai delicata: approfittando del viaggio di al-Serraj a Mosca, le forze fedeli all’ex Premier Khalifa Ghwell, da poco strutturatesi in una milizia vera e propria denominatasi Guardia Nazionale, hanno cominciato a premere sempre più sulla stabilità di Tripoli e del suo governo. Per giorni Tripoli ha visto sfilare convogli e mezzi militari messi a presidio delle principali strade della regione in vista di un imminente scontro tra milizie. Scontro che è ufficialmente scoppiato il 13 marzo tra la Guardia Nazionale e le forze fedeli ad al-Serraj. Tra il 13 e il 16 marzo le milizie della Guardia presidenziale facenti capo al governo di Tripoli hanno stretto d’assedio l’Hotel Rixos e gli edifici adiacenti che fungevano da quartier generale per l’esercito di 2


Ghwell, il quale sarebbe stato, tra l’altro, ferito durante gli scontri. Ma la sera del 19 marzo le milizie di Ghwell rispondevano attaccando la base navale di Abu Sittah, sede del governo di accordo nazionale. Il terzo contendente, Ghwell, sembra ormai essersi definitivamente inserito nelle vicende libiche, dimostrando una minaccia a tratti più grave di quella rappresentata da Haftar per la stabilità del governo alSerraj. La situazione del Governo di Unità Nazionale potrebbe essersi poi ulteriormente aggravata qualora risultasse fondata la notizia secondo la quale, lo stesso 19 marzo, le milizie di Misurata avrebbero ufficialmente ritirato il proprio appoggio al governo di Tripoli. Nonostante l’assoluta precarietà della situazione di Tripoli, al-Serraj ha tuttavia scelto di non mancare ai lavori del Gruppo di contatto sui flussi migratori nel Mediterraneo tenutisi a Roma il 20 marzo. In tema di immigrazione bisogna anche evidenziare la pronuncia della Corte di Appello di Tripoli, in seguito ad un ricorso inoltrato da alcuni giuristi, ex politici ed intellettuali libici in relazione al Memorandum of Understanding firmato da al-Serraj e Gentiloni a Roma il 2 febbraio. Il ricorso era stato promosso da un lato con l’obiettivo di opporsi alle linee guida contenute nel memorandum con il quale si prevedeva il ritorno dei migranti in campi di accoglienza allestiti in territorio libico; dall’altro il ricorso nasceva dalla chiara contestazione circa l’effettiva autorità di al-Serraj a firmare un tale memorandum e a prendere quegli impegni che da esso sarebbero derivati a nome di una Nazione che chiaramente non si riconosce in toto nel Governo di Unità Nazionale. La corte di Appello avrebbe dichiarato non valido ogni accordo futuro sui migranti derivante dal memorandum d’intesa, rimettendo in questo modo in discussione la cooperazione italolibica sulla gestione dei flussi migratori.

SITUAZIONE SUL CAMPO (AGGIORNAMENTO AL MARZO 2017) – FONTE: AL-JAZEERA ENGLISH

3


SIRIA-IRAQ ↴

Al termine dell’ultimo round dei negoziati di pace di Ginevra (3 marzo), che non ha segnato alcun significativo progresso per gli esiti del conflitto in Siria, lo scenario bellico ruota intorno a due dinamiche specifiche: da un lato l’inasprimento della questione curda in una partita operativa che coinvolge i rapporti tra Stati Uniti e Turchia e quelli tra quest’ultima, il regime di Damasco e la Russia; dall’altro la correlata stretta finale dell’offensiva nei confronti dello Stato Islamico (IS) su Raqqa. Dal primo punto di vista, la riconquista di al-Bab da parte dei ribelli del Free Syrian Army (FSA) supportati dall’esercito turco nell’ambito dell’Operazione “Euphrates Shield” (23 febbraio) ha aperto le porte all’avvio di una manovra turca contro le forze curdo-siriane guidate dalle Forze Democratiche Siriane (SDF), sostenute da Washington, a Manbij (1° marzo) nel quadro di una possibile più vasta offensiva volta a respingere le formazioni curde nuovamente al di là della Diga di Tishrin, oltre l’Eufrate, e a spezzarne i tentativi di continuità territoriale nel nord della Siria. I combattimenti si sono in particolar modo registrati nell’area di Arima, 20 Km a nord-ovest di Manbij, aggiungendosi agli scontri già in corso intorno alla base aerea di Menagh (anch’essa nella provincia di Aleppo) e nell’area di Sinjar (al confine con l’Iraq, dove dai primi di marzo si registrano costanti tensioni tra i peshmerga siriani vicini alla Turchia, oltre che al Presidente del Kurdistan iracheno Barzani, e le milizie yazide addestrate dal PKK). Il limite oggettivo ad un’operazione turca più massiccia è però rappresentato primariamente dall’immediato annuncio di un accordo (2 marzo) tra il Consiglio Militare di Manbij (MMC), legato alle SDF, e la Russia sulla riconsegna di alcuni territori ad ovest del centro cittadino all’esercito governativo, creando sostanzialmente una zona cuscinetto in mano a Damasco – che in tal modo può tornare a puntellare contestualmente le proprie posizioni sul fronte nord-occidentale – mirata ad evitare punti di contatto tra curdi e turchi e ad 4


arginare i tentativi di espansione di quest’ultima. Un’intensificazione dell’azione di Ankara minerebbe pertanto il già fragile accordo di cessate il fuoco, compromettendo i rapporti con il governo di Bashar al-Assad e, soprattutto, con la Russia – unica relazione che, dopo la ricucitura dei rapporti, ha concesso ad Erdoğan di poter condurre una politica assertiva, almeno sullo scenario in questione. In ogni caso, la sostanziale incompatibilità delle politiche turche e russe sulla questione curda sta emergendo come prevedibile su tutto il fronte settentrionale: il 20 marzo Mosca ha annunciato l’accordo con le Unità di Protezione del Popolo Curdo (YPG) per la creazione di una base militare nel cantone nord-occidentale di Afrin e per l’addestramento delle forze curde in chiave di anti-terrorismo, come ha dichiarato il portavoce delle YPG, Redur Xelil, nel quadro di un rafforzamento dell’YPG quale forza sempre più simile ad un esercito tradizionale. L’operazione della Turchia è non di meno scoraggiata dalla decisione degli Stati Uniti (9 marzo) – la prima in questo senso assunta dall’amministrazione Trump in Siria – di schierare nella provincia orientale di Aleppo un contingente di interposizione appartenente al 75th Army Ranger Regiment, al fine di prevenire di fatto un’escalation tra SDF e turchi. Il ritorno sul terreno da parte degli USA, finora assicurato dalla presenza di soli consiglieri militari con compiti di mentoring e training, è ora certificato dall’invio di ulteriori 400 soldati dell’11th Marine Expeditionary Unit (MEU) formalmente per sostenere lo sforzo della coalizione contro l’IS a Raqqa e in via generale per supportare le SDF nello stesso quadrante: il 7 marzo il Capo di Stato Maggiore americano Joseph Dunford ha in questo senso tenuto un inedito incontro trilaterale con gli omologhi turco e russo, Hulusi Akar e Valery Gerasimov, per attivare misure di de-escalation nella regione di Manbij e per far convergere gli sforzi degli attori in questione nella lotta all’IS. Da questo secondo punto di vista, dunque, intorno a Raqqa sembra potersi delineare una nuova intesa tra Washington e Mosca avente il suo punto cardine nelle operazioni condotte dall’SDF: queste sono infatti impegnate a strangolare le azioni del Califfato sia dal fronte orientale – dove hanno riconquistato il villaggio di Karama (24 marzo), portandosi a meno di 20 Km dalla città – sia da quello occidentale, dove tra il 21 e il 22 marzo hanno raggiunto la diga di Tabqa, fondamentale testa di ponte sull’Eufrate da cui – secondo quanto dichiarato dal Ministro della Difesa francese, Jean-Yves Le Drian – nei primi giorni di aprile dovrebbe partire l’assalto finale sulla cosiddetta capitale siriana dell’IS. Con il ripiegamento delle proprie forze su Raqqa e con la riconquista di Palmira per la seconda volta (2 marzo) da parte delle forze di Damasco con il sostegno dei bombardamenti russi, allo stato attuale l’IS in Siria può contare solamente sul controllo del governatorato di Deir ez-Zor (dove tuttavia le SDF incalzano, come evidenziato dalla ripresa del controllo del villaggio di Kubar) e sulla presenza intorno a Dara’a, tentando di approfittare degli scontri tra esercito e ribelli – in particolare Hayat Tahrir al-Sham (HTS), il quale gruppo ha contestualmente lanciato una campagna di attentati (attraverso un largo uso di vehicle-borne improvised explosive devices - SVBIEDs) a Damasco, ad Homs e ad Hama, incancrenendo il 5


conflitto con il regime e logorando i flebili margini di trattative di quest’ultimo con le opposizioni moderate. Dal punto di vista degli equilibri generali del fronte meridionale siriano, occorre sottolineare il rischio di un’escalation tra Damasco e Israele in seguito ai raid di quest’ultimo sia nelle Alture del Golan sia nelle aree desertiche intorno a Palmira (17 marzo) contro convogli di armi di Hezbollah. Non è la prima volta che lo Stato ebraico effettua incursioni in Siria contro target specifici del gruppo islamico, ma l’inedita risposta siriana con il lancio di missili terra-aria – intercettati e distrutti dal nuovo sistema anti-missilistico Arrow 3, benché le forze damascene parlino dell’abbattimento di un aereo israeliano –, simbolo del possibile cambiamento dell’atteggiamento del regime di Assad nei confronti di Tel Aviv, insieme con le evidenti divergenze tra Israele e Russia in merito alla posizione di Hezbollah – e dunque indirettamente dell’Iran – dopo l’incontro tra Benjamin Netanyahu e Vladimir Putin a Mosca (9 marzo), ha indotto il governo israeliano ad assumere una posizione ufficiale – almeno dal punto di vista operativo – sui possibili esiti del conflitto e del processo di pacificazione.

Collegato alla crisi siriana, il quadro di sicurezza irachena appare compromesso in tre diversi settori. A nord la stabilità del Paese è inficiata dagli sviluppi 6


legati alla questione curda, con il rischio di un conflitto con l’Iran nella misura in cui gli elementi iraniani delle Forze di Mobilizzazione Popolare (PMF) stazionate a Tel Afar sostengono che le milizie yazide del Sinjar – area che il Partito Democratico del Kurdistan (KDP) vorrebbe integrare con il supporto turco nel governo regionale del Kurdistan (KRG) – fanno parte dello stesso PMF. Mosca sta contestualmente tentando di accrescere una certa influenza nei settori settentrionali attraverso una serie di accordi finanziari sulle esportazioni di greggio verso la Russia (si veda in questo senso l’intesa con Rosneft dello scorso 21 febbraio), incoraggiando indirettamente in tal modo l’indipendenza del Kurdistan iracheno da Baghdad. Nel centro del Paese, invece, si assiste agli effetti dell’arretramento dello Stato Islamico dopo l’avvio della campagna su Mosul: la riconquista della parte orientale della città e le prime operazioni per la riconquista del versante occidentale, nonché i continui rastrellamenti di jihadisti da parte delle forze di sicurezza irachene (ISF) nei quartieri centrali, hanno indotto i miliziani di al-Baghdadi a ripiegare sulle posizioni a nord di Baghdad, ossia nella provincia di Tikrit (8 marzo), nel distretto di Hit (18 marzo), nelle aree occidentali di Ramadi (3 marzo), nel governatorato di Diyala (6 marzo) e nei quartieri occidentali della stessa capitale irachena (20 marzo), dove i jihadisti hanno intensificato la guerriglia urbana attraverso l’uso di SVBIEDs, provocando decine di morti. A sud, infine, in particolare nella provincia di Maysan, si acuisce la violenza tribale, evidenziando la crescente concorrenza intra-sciita in vista delle elezioni provinciali programmate per il prossimo mese di settembre.

7


STATI UNITI ↴

Lo scorso 6 marzo, il Presidente Donald Trump ha firmato l’ordine esecutivo 13780 in materia di immigrazione, che costituisce una versione rivista del precedente “Muslim Ban” (ordine esecutivo 13769) attraverso il quale l’amministrazione intendeva impedire l’ingresso negli Stati Uniti per 90 giorni ai cittadini, inclusi i rifugiati, provenienti da Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria, Yemen e Iraq. Il precedente provvedimento, bocciato dall’apparato giudiziario, è stato dunque aggiornato, risparmiandone l’applicazione a chi provvisto di green card e di visto, prevedendo inoltre l’estensione a 120 giorni e l’esenzione dell’Iraq. Eppure, anche questo ordine esecutivo è incorso in ostacoli di natura costituzionale. Il 16 marzo, infatti, il giudice delle Hawaii, Derrick K. Watson, ne ha bloccato l’entrata in vigore con la motivazione che esso avrebbe carattere discriminatorio in termini religiosi. La decisione ha provocato l’ira del Presidente, che l’ha definita «un abuso senza precedenti», promettendo che «lotteremo e vinceremo». Sulla scena internazionale, gli Stati Uniti sono intanto molto attivi. Il 17 marzo, Trump ha accolto alla Casa Bianca il Cancelliere tedesco, Angela Merkel. L’incontro, del tutto dissonante rispetto alla visita a Washington del Premier britannico Theresa May, non è stato privo di momenti di tensioni, simboleggiati dalla mancata stretta di mano finale tra i due leader. Secondo Trump, il summit è stato “produttivo”; secondo Merkel, “soddisfacente”. Tre sono state le questioni che maggiormente hanno mostrato crepe tra i due Paesi. La prima è stata l’immigrazione, che per Trump «è un privilegio, non un diritto». Parole che non hanno trovato il sostegno di Merkel, la quale ha invece sottolineato che «dobbiamo guardare ai rifugiati che scappano dalle guerre e dalla povertà». La seconda questione è stata la NATO e, in particolare, la ripartizione delle spese e degli oneri in seno all’Alleanza. Il Presidente statunitense ha sottolineato come sia prioritario per Washington che gli europei paghino la loro 8


“giusta quota” per la difesa dell’area euro-atlantica, assolvendo al dovere di destinare almeno il 2% del PIL alle spese militari. Il Cancelliere tedesco ha affermato sì di voler rispettare tale impegno, ma non prima del 2024: la Germania, infatti, attualmente spende l’1,2% del PIL per la difesa e prevede di raggiungere il 2% non prima di 7 anni. Diversità di vedute sono emerse anche a livello commerciale, con Merkel che, a nome dell’Unione Europea, ha affermato di volere «riprendere i negoziati con gli Stati Uniti per l’accordo di libero scambio TTIP». Non certo una priorità per Trump, che guarda con scetticismo all’UE e al multilateralismo commerciale. Contemporaneamente, il Segretario di Stato, Rex Tillerson, ha intrapreso un importante viaggio in Asia volto a rassicurare gli alleati, soprattutto Giappone e Corea del Sud, di fronte al rinnovato attivismo della Corea del Nord. Tillerson ha infatti affermato che l’opzione militare non è da escludersi nei confronti del regime di Pyongyang alla luce del fallimento della Cina nel porre un freno alle pericolose ambizioni del dittatore Kim Jong-un. Il Segretario di Stato ha poi ribadito il supporto degli USA allo scudo missilistico THAAD dispiegato in Corea del Sud e osteggiato da Pechino col timore di destabilizzare la regione. Tillerson ha infine incontrato il 20 marzo il Presidente cinese Xi Jinping in una riunione interlocutoria intesa a preparare la visita di quest’ultimo negli Stati Uniti per un “faccia a faccia” con Trump in aprile.

9


TERRORISMO↴

Ad oltre un anno dagli attentati di Bruxelles, il fenomeno terroristico più o meno direttamente collegato e/o ispirato alle azioni dello Stato Islamico (IS) è tornato a colpire nuovamente l’Europa, attaccando con modalità differenti due città simbolo del vecchio continente: Parigi e Londra. Ancora una volta, gli attacchi rivendicati dall’IS provano la vulnerabilità e in taluni casi l’impreparazione degli Stati europei nel condurre adeguate strategie di contenimento della minaccia terroristica in rapida e costante evoluzione, comportando quindi nuove incertezze circa la pericolosità e la stessa natura multiforme del fenomeno. Un cambio di paradigma che potrebbe aumentare la percezione di insicurezza intra-europea, anche in virtù della dispersione dei miliziani dell’IS tra Europa e Medio Oriente. Ciò sembra dimostrare la necessità di una ampia strategia di contro-radicalizzazione che tenga conto dell’ampiezza e diversità delle cause del fenomeno jihadista.

FRANCIA, 18 MARZO ↴ Un uomo ha aggredito una pattuglia di agenti di polizia presso l’aeroporto parigino di Orly, il secondo scalo cittadino dopo Roissy-Charles de Gaulle. L’assalitore, identificato dalla polizia come Zied Ben Belgacem, pregiudicato trentanovenne di origine maghrebina e noto ai servizi di intelligence francesi, aveva rubato un fucile d’assalto ad una poliziotta, tenendola anche in ostaggio prima di venire colpito a morte dagli agenti. L’uomo teneva uno zaino al cui interno vi era una tanica di benzina, che, probabilmente nelle sue intenzioni, doveva fungere da detonatore per una grande esplosione all’interno dello scalo aeroportuale. Secondo le informazioni diffuse alla stampa, prima di giungere a Orly per compiere l’attentato, Ben Belgacem aveva ferito 10


una poliziotta durante un normale controllo stradale a Stains, nella periferia settentrionale parigina, e aveva rubato un’auto sulla quale era giunto al terminal. L’assalitore, che avrebbe detto di agire “in nome di Allah”, non avrebbe avuto collegamenti con gli ambienti estremisti dato che le sue pendenze legali riguardavano soprattutto il traffico di stupefacenti. Tuttavia dagli interrogatori con i familiari e dalle indagini che proseguono, l’uomo si ritiene possa aver subito un processo di rapida auto-radicalizzazione che lo ha condotto a tentare un atto così estremo. Ad ogni modo l’ennesimo attentato a Parigi e in Francia certifica l’esistenza di un’ampia e stabile presenza endogena di movimenti, anche individuali, fiancheggiatori di fenomeni più strutturati afferenti la galassia estremista e radicale islamista, nonché di un tentativo da parte di questi ambienti di ampliamento del proprio bacino di utenza anche a soggetti apparentemente non credenti o praticanti, a persone con problemi di varia natura personale e sociale, nell’intento appunto di poter differenziare e rendere sempre più complessa l’identificazione della minaccia terroristica.

REGNO UNITO, 22 MARZO ↴ Un uomo a bordo di un furgoncino preso a noleggio ha investito diverse decine di passanti nella zona antistante il complesso di Westminster prima di fermare la sua corsa contro il cancello del cortile del Parlamento. Qui l’uomo è sceso dal SUV e ha tentato di colpire a piedi i passanti e le guardie con alcune lame, prima di essere ucciso da una scarica di colpi di pistola degli agenti di sicurezza presenti sul posto. Il bilancio definitivo dell’attentato – trattato fin da subito dalle autorità come un atto di terrorismo – è stato di 4 vittime, di cui un agente e due civili, oltre che l’attentatore, e circa 40 feriti, alcuni in gravi condizioni. Dopo un primo identikit sbagliato fornito dai media inglesi – il soggetto in questione, già in carcere per reati connessi al terrorismo, è un imam di origine giamaicana –, le autorità hanno individuato in Khalid Masood l’autore della strage. Masood è un cittadino inglese di origine afghana, già noto ai servizi di sicurezza interna britannici (MI5) per essere coinvolto in alcune attività sospette non meglio precisate ma legate ad ambienti islamisti radicali autoctoni. In base alle indagini di Scotland Yard, l’uomo aveva in realtà molteplici identità, tra cui Adrian Russell Ajao, alias del suo vero nome anagrafico, Adrian Russell Elms – il cognome gli sarebbe stato dato dalla madre naturale, Janet Elms, che nel 1966, quando Khalid aveva due anni, si era sposata con Phillip Ajao –, che ha adoperato al pari di Masood nei suoi spostamenti britannici tra il Kent, Londra, Luton e infine Birmingham. L’attacco è stato rivendicato in più lingue – tra cui anche il tedesco e l’italiano – dallo Stato Islamico attraverso il proprio organo di propaganda, l’agenzia Amaq, dichiarando che l’attentato è stato opera di un “soldato del Califfato”. Sebbene inizialmente ci fossero dei dubbi sulla dinamica, gli inquirenti britannici hanno confermato che Masood ha agito da solo senza alcun supporto logistico di cellule organizzate. In continuità e in analogia con i fatti di Nizza (luglio 2016) e Berlino (dicem-

11


bre 2016), anche questo attentato sarebbe opera di un uomo radicalizzato apparentemente non collegato in alcunché alle leve dell’IS, benché magistrati e forze di polizia inglesi stiano lavorando su questa direzione per valutare l’effettiva assenza di reti connesse all’uomo, in modo da definire l’attacco come quello di un cosiddetto lupo solitario. Ad ogni modo questo attentato racchiude un elemento di novità rispetto ai due precedenti citati: l’uomo ha proseguito il suo attacco attraverso l’uso di armi da taglio come le aggressioni avvenute al museo del Louvre di Parigi (nessuna vittima, febbraio 2017), a Magnanville (2 vittime, giugno 2016) – un sobborgo nord-occidentale nella periferia di Parigi –, e quella condotta a Rochdale (2 vittime, febbraio 2016) – nella periferia nord-occidentale di Manchester – da parte di un imam radicalizzato di origine bengalese nel febbraio 2016. Seppure si configuri come una sorta di ibrido in termini di tipologie di attacco, l’attentato di Londra rientra di fatto nella casistica di atti criminali ispirati dallo stesso IS, che nell’estate del 2016 chiedeva a tutti i suoi adepti, reali o presunti tali, di condurre il jihad contro l’Occidente e i suoi simboli con tutti i modi possibili, utilizzando anche semplici armi (coltelli) o oggetti che potenzialmente, senza grandi conoscenze tecniche, possono divenire tali (furgoni). Ancora una volta l’obiettivo dell’attentatore e del suo ispiratore è quello di massimizzare il numero di vittime e attirare l’attenzione mediatica in modo da alimentare un profondo senso di terrore e insicurezza. Nelle ore successive l’attentato di Londra, le forze speciali di Scotland Yard hanno lanciato una serie di operazioni antiterrorismo su vasta scala nazionale che hanno condotto ad alcune decine di arresti di sospetti militanti britannici jihadisti accusati di preparare nuovi attentati nel Paese. Tuttavia poche ore dopo il fermo sono stati quasi tutti liberati, ad eccezione di due soli sospetti, per insufficienza di prove a loro carico.

12


BREVI COREA DEL NORD, 22 MARZO ↴ Un

nuovo

test

missilistico

nordcoreano

è

stato

effettuato il 22 marzo, ad appena due settimane il successo del lancio di quattro missili balistici, tre dei quali poi inabissatisi nel Mar del Giappone. Presentato da Pyongyang come una esercitazione per un possibile attacco contro le basi statunitensi in Giappone, il razzo di media portata è stato infatti lanciato da una base nel porto di Wonsan, che si trova sulla costa orientale del Paese. Secondo il Ministero della Difesa di Seoul, che ha allertato l’esercito sudcoreano nel caso di nuove provocazioni, il test sarebbe fallito. L’esercito americano ha confermato il fallimento e ha indicato che il missile è esploso poco dopo il lancio. Secondo gli esperti l’ulteriore intensificazione dei test missilistici avvenuta nelle ultime settimane potrebbe considerarsi la risposta del regime nordcoreano alle esercitazioni congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud, che continueranno sino alla fine di aprile, sebbene già nel febbraio di questo anno si era assistito al lancio di un missile proprio durante la visita del Premier giapponese Shinzo Abe in Florida dal Presidente statunitense Donald Trump. L’ultimo esperimento di Pyongyang, arrivando a poco più di due settimane dall’atteso incontro proprio tra il nuovo inquilino della Casa Bianca e il Presidente cinese Xi Jimping, sembrerebbe mettere di fronte ad un’altra prova la “pazienza strategica” che gli Stati Uniti stanno usando nei confronti del regime nordcoreano e che il Segretario di Stato Rex Tillerson ritiene ormai esaurita.

PAESI BASSI, 15 MARZO ↴ Le elezioni per assegnare i 150 seggi della Camera bassa (Tweede Kamer) olandese si sono risolte, citando il Primo Ministro uscente Mark Rutte, con una «vittoria per l’Europa». Infatti, sebbene i pronostici elettorali non dipingessero uno scenario positivo per le forze

europeiste,

il

partito

anti-islam

e

anti-

immigrazione guidato da Geert Wilders non è riuscito ad

affermarsi

come

primo

schieramento

politico

all’interno del Parlamento. Pur perdendo voti rispetto al 2012, il Partito popolare per la Libertà e la Democrazia (VVD), già alla guida del governo uscente, ha raggiunto la maggioranza relativa con 33 seggi, permettendo a Rutte di proseguire nel proprio incarico. Ciononostante, il panorama politico circostante risulta particolarmente

13


mutato

rispetto

alle

precedenti elezioni. I populisti del Partito per la

libertà

Wilders,

(PVV) infatti,

di si

attestano pur sempre come

seconda

forza

politica in Parlamento, forti di 20 seggi (5 in più rispetto al 2012) e battendo di misura sia i democristiani (+6), sia i liberali di sinistra (+7) – entrambi con 19 seggi. Se è considerevole il successo dei Verdi, che in termini relativi hanno guadagnato più di ogni altro concorrente ai seggi (+ 10 rappresentanti), notevole è anche, in senso opposto, la débâcle vissuta dai laburisti del PvdA, che subiscono un crollo della rappresentanza da 38 seggi a 9 soltanto. Wilders s’è dichiarato aperto ad entrare in una colazione con le altre forze politiche, ma da queste già è arrivato un netto rifiuto; con tutta probabilità il nucleo della coalizione sarà invece costituito dal VVD più democristiani e liberali di sinistra, così da avvicinarsi con uno scarto di soli 5 seggi ai 76 necessari per governare in autonomia. Credibilmente, la vittoria del VVD è derivata non solo dal richiamo ai cittadini ad un comportamento elettorale razionale, onde evitare anche in Olanda scenari à-la Brexit, ma anche e soprattutto dal rendimento economico superiore alla media europea garantito dal governo di Rutte, nonché la sorprendente durevolezza dello stesso – in un’Olanda che, data l’alta frammentazione del Parlamento, non è cosa scontata. Invero, è da notare come lo stesso VVD, partito tradizionale, abbia fatto uso durante la campagna elettorale di retoriche velatamente populiste, richiamando alla riscoperta delle radici nazionali e all’obbligo degli immigrati di adeguarsi ai valori liberali – o di andarsene dal Paese. Non è dunque appannaggio del solo PVV il ricorso a simili retoriche, il che è significativo di una ben più diffusa insofferenza verso gli effetti non solo della crisi migratoria, ma della globalizzazione in generale. Non a caso, i sostenitori in Olanda del progetto di integrazione europea sono, secondo alcuni sondaggi, solo il 40% dei cittadini.

TURCHIA-PAESI BASSI-UE, 11 MARZO ↴ Il governo olandese ha vietato l’atterraggio sul proprio territorio di un aereo con a bordo il Ministro degli Esteri turco, Mevlüt Çavuşoğlu, e di altri diplomatici turchi. Il Ministro turco si stava recando a Rotterdam per tenere un

comizio

in

favore

del

“Si”

al

referendum

costituzionale turco che si terrà il 16 aprile. Molte 14


autorità turche infatti in queste settimane sono in tour diplomatico per l’Europa per fare incetta di voti data l’alta rilevanza numerica delle comunità turche nei vari Paesi europei. Il voto delle comunità estere è, infatti, di fondamentale importanza soprattutto in un momento in cui i sondaggi relativi al referendum danno in vantaggio il “No”. I Paesi Bassi sono, del resto, particolarmente importanti in questa prospettiva poiché vi risiedono quasi mezzo milione di turco-olandesi, molti dei quali ancora di prima generazione aventi pertanto doppia cittadinanza e diritto di voto. A poche ore dalla decisione che ha impedito il comizio del Ministro degli Esteri turco, le autorità olandesi hanno proibito anche alla collega turca di governo, il Ministro delle Politiche Sociali Fatma Sayan Kaya, di entrare nelle strutture del consolato turco di Rotterdam, scortandola con un’auto diplomatica turca verso il confine con la Germania e invitando il Ministro a lasciare i Paesi Bassi e a rientrare in Turchia. Infine, nella notte tra l’11 e il 12, la polizia olandese ha usato cani e cannoni ad acqua contro la folla di cittadini che si era recata davanti al consolato turco per protestare contro le decisioni del governo olandese arrestando, alla fine degli scontri, 12 persone. La serie di spiacevoli episodi hanno scatenato la reazione turca che ha accusato l’Olanda di violare la Convenzione ONU del 1961 sulle Relazioni diplomatiche e di portare avanti una politica di stampo “nazi-fascista”, contraria a quegli stessi principi di giustizia, libertà e tutela dei diritti umani di cui l’UE dovrebbe essere naturale difensore. In un comizio, parlando alla folla, il Presidente Erdoğan ha sottolineato come l’Occidente stia mostrando il suo vero volto islamofobico arrivando addirittura a ricordare la grande vergogna olandese del Novecento: il non intervento, agli occhi del leader turco, degli olandesi nel genocidio di Srebrenica. La ritorsione turca ai fatti dell’11 e del 12 marzo si è concretizzata nella chiusura del Consolato olandese ad Istanbul e dell’Ambasciata olandese ad Ankara con il divieto per l’Ambasciatore, Cornelis Van Rij, che si trovava momentaneamente fuori dal territorio turco, di far rientro ad Ankara e, infine, nella chiusura dello spazio aereo turco ai diplomatici olandesi. Il 13 marzo, poi, Erdoğan ha convocato l’incaricato d’affari olandese al quale ha consegnato due note di protesta ufficiali per le pratiche adottate contro i Ministri e i cittadini turchi in Olanda. A due settimane dai fatti dell’11 marzo, la crisi diplomatica tra Olanda e Turchia non accenna a rientrare e anzi sembra subire una costante e pericolosa escalation di toni, questo nonostante i vari richiami alla moderazione da parte della stessa UE e della NATO. Altri Paesi europei hanno, infatti, seguito la stessa strada dell’Olanda: la Danimarca ha chiesto al Primo Ministro turco Binali Yıldırım di rinviare la visita prevista a Copenaghen; Berlino ha predisposto ulteriori limiti ai comizi delle autorità turche per il referendum su suolo tedesco; l’Austria ha annunciato che vieterà ai Ministri turchi di fare campagna referendaria in Austria e, infine, anche in Francia la polemica si fa sempre più accesa. Il braccio di ferro tra Ankara e l’Aja e, più in generale, tra alcuni Paesi europei e la Turchia mette a rischio l’accordo tra Ankara e UE sulla gestione dei flussi migratori. Il Ministro turco per i Rapporti con l’UE, Ömer Çelik, ha sottolineato come in questo momento la Turchia stia rispettando i termini di quell’accordo «solo per motivi umanitari e per salvare l’onore del genere umano» non sentendosi più obbligati nei confronti di un’organizzazione, l’UE, che non ha mantenuto la parola né sull’abolizione dei visti né sui contributi da versare alla 15


Turchia. Il rischio concreto di questa crisi diplomatica è, dunque, quantomeno quello di vedere compromesso l’accordo in questione e più in generale di rendere sempre più tesi i rapporti tra l’UE e la Turchia di Erdoğan.

UNIONE EUROPEA, 25 MARZO ↴ A sessant’anni dai Trattati di Roma, i Ventisette Capi di Stato

e

di

Governo

dell’Unione

Europea

hanno

sottoscritto nella capitale italiana una Dichiarazione contenente

completamento

fedele e

agli

storici

dell’approfondimento

pilastri –

i

del punti

cardine per il futuro dell’Europa unita in un’epoca di profonde trasformazioni a livello regionale e globale: sicurezza per tutti i cittadini europei anche attraverso la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata; efficacia, responsabilità e sostenibilità delle politiche migratorie; capacità di generare crescita ed occupazione in un mercato unico forte, connesso e in espansione, con una moneta unica competitiva nello scenario internazionale; progresso economico e sociale, coesione e solidarietà tra gli Stati membri, nonché inclusione e garanzia dei diritti per tutti i cittadini; capacità di sviluppare i partenariati regionali ed internazionali esistenti e di crearne di nuovi, promuovendo la stabilità e la prosperità nell’immediato vicinato, assumendo in questo contesto maggiori responsabilità – anche attraverso la creazione di un’industria della difesa più competitiva e integrata e rafforzando la cooperazione e la complementarità in seno alle organizzazioni multilaterali. Il nodo essenziale della Dichiarazione di Roma, che dovrebbe così avviare il dibattito per la formazione di commissioni di studio che delineino nel breve periodo il superamento del Trattato di Lisbona, riguarda la possibilità di integrazioni differenziate e in particolare la possibilità per un numero ristretto di Stati membri di procedere a un’integrazione più stretta in diverse materie di competenza non esclusiva UE (come politiche sociali, giustizia, mercato interno, politica estera e di difesa comune). Se tuttavia è vero che – come hanno affermato taluni leader – che i Trattati non saranno revisionati, il progetto di un’“Europa a più velocità” – già abbozzato nel Libro Bianco presentato dalla Commissione europea il 1° marzo e prospettato a margine del Vertice di Versailles del 6 marzo tra Francia, Germania, Italia, e Spagna quale primo effetto dell’uscita del Regno Unito (la quale attiverà ufficialmente l’art.50 del Trattato il prossimo 29 marzo) sul futuro dell’architettura istituzionale europea – si scontra comunque con la necessità di salvaguardare il mercato unico, i meccanismi che lo regolano e le finalità che esso persegue. È pertanto lecito supporre che il dibattito europeo nei prossimi mesi non sarà focalizzato solo sulle materie sulle quali potrà essere esercitata la sovranità e sui metodi di cooperazione rafforzata, ma soprattutto sullo status e sulle funzioni da attribuire agli organi deputati a vigilare sulla convergenza degli Stati membri ai meccanismi di stabilità su cui si è incentrata l’azione europea nell’ultimo decennio.

16


FONTE: LIBRO BIANCO, COMMISSIONE EUROPEA

17


ALTRE DAL MONDO COREA DEL SUD, 10 MARZO ↴ La Corte Costituzionale della Corea del Sud ha ufficialmente destituito dal suo incarico il Presidente Park Geun-hye. Gli otto giudici dell’Alta Corte, chiamati a pronunciarsi in merito alla procedura di impeachment votata il 9 dicembre scorso dal Parlamento a seguito del caso di corruzione che ha scosso il Paese, si sono espressi favorevolmente e all’unanimità per la messa in stato di accusa di Park. La decisione, che ha scatenato le proteste tra i sostenitori dell’ex Presidente e causato numerosi scontri nella capitale Seoul, durante i quali due manifestanti sono stati uccisi, ha inoltre privato dell’immunità parlamentare la prima donna a ricoprire la carica di Presidente nella storia del Paese. La cessazione del mandato presidenziale di Park, arrivata in un momento di crescenti tensioni con la vicina Corea del Nord, può portare ad un cambiamento non solo in politica interna, dove Moon Jae-in, leader del Partito Democratico Unito promette alle prossime elezioni di riportare la sinistra al potere dopo dieci anni, ma anche negli equilibri dell’area rimettendo in discussione l’accordo di cooperazione tra Seoul e Washington per l’installazione del sistema anti-missile THAAD.

MAROCCO, 17 MARZO ↴ Re Mohammed VI ha revocato l’incarico di Primo Ministro ad Abdelilah Benkirane nominando al suo posto Saad Eddine el-Othmani, già Ministro degli Esteri e tra i leader del partito di governo PJD. Alla base della decisione del monarca marocchino vi sarebbero state le numerose difficoltà da parte di Benkirane nello stringere un’alleanza con partiti utili a garantire una necessaria forza di maggioranza al governo. Infatti dopo cinque mesi dalle vittoriose elezioni di ottobre 2016, il partito islamista Giustizia e Sviluppo (PJD), espressione del Premier in carica e principale forza di maggioranza relativa del governo, non è stato in grado di chiudere delle trattative con altri gruppi minoritari dell’arco costituzionale per formare un esecutivo nonostante fosse riuscito a ottenere l’appoggio del Partito del Progresso e del Socialismo e di Istiqlal. Tuttavia per giungere alla maggioranza necessaria a governare mancavano ancora 15 seggi e il PJD non è stato capace di superare l’impasse. Nonostante i tentativi di coinvolgere anche forze più vicine alla monarchia, come il Raggruppamento Nazionale degli Indipendenti, che aveva ottenuto 37 seggi ed è guidato Aziz Akhennouch, un imprenditore molto ricco e vicino al Re, Benkirane di fatto non è riuscito a smuovere le acque, tanto da costringere il monarca ad intervenire. Tuttavia fonti ufficiose dicono che alla base della sostituzione dell’ex Premier vi fossero dissapori con le autorità reali circa la conduzione del governo e sui mancati risultati ottenuti in termini di equità sociale e sviluppo democratico.

18


RUSSIA, 17 MARZO ↴ Basandosi su dati rilasciati dalla Tesoreria di Stato russa, gli analisti di Jane’s IHS stimano per il 2017 un taglio di oltre 25 punti percentuale al settore della Difesa. Calando da circa 65 miliardi a 48 miliardi di dollari, tale ridimensionamento sarebbe il più corposo sin dagli anni Novanta e seguirebbe in controtendenza ad un lungo periodo di rimpinguamento delle casse della Difesa, che dal 2011 avevano beneficiato di una crescita media annua del 19,8% in termini nominali. A parità di condizioni, questo taglio farebbe scendere la Russia dal quarto all’ottavo posto nella classifica globale delle spese militari stilata da SIPRI. Una simile scelta è certamente collegabile ai problemi di bilancio implicati dalle sanzioni e i bassi prezzi del petrolio, nonché, evidentemente, la previsione che non vi sarà alcun grande conflitto nel prossimo futuro. Ciononostante, vi sono numerosi dubbi riguardo all’attendibilità delle stime di Jane’s. Da più parti si sostiene che esse siano ingigantite da un errore logico di fondo: infatti, il centro terrebbe conto – quando non dovrebbe – nei propri calcoli dell’aumento del PIL per l’anno 2016, dovuto in realtà al pagamento da parte di Mosca dei debiti nei confronti del complesso industriale-militare russo e dunque presentante una spesa per la Difesa inflazionata. Secondo questi analisti, dunque, ci sarà un taglio ai fondi di questo settore, ma di un maggiormente credibile 7%.

SVEZIA, 2 MARZO ↴ Dopo 7 anni dalla sua sospensione, il governo svedese ha deciso di reintrodurre la coscrizione obbligatoria per i propri cittadini, senza distinzione di sesso, a decorrere dal 1° gennaio 2018. Il provvedimento è una risposta al mutato contesto della sicurezza nella regione baltica. Per quanto Stoccolma sottolinei che non vi siano minacce dirette alla propria sovranità, si pronuncia comunque preoccupata per le recenti azioni della Russia, dall’occupazione della Crimea alle imponenti esercitazioni militari. Già nel febbraio 2015 si era tentato di far fronte a questa necessità aumentando le spese per la Difesa, ma ci si era scontrati con lo scoglio strutturale di un personale militare sotto-dimensionato. Così, la reintroduzione del servizio di leva si pone l’obiettivo di avere, entro il 2025, almeno 6.600 soldati a tempo pieno e 10.000 in servizio part-time, ogni anno. In parallelo, continuerà il rafforzamento della cooperazione militare con Finlandia e NATO. Invero, la suddetta decisione da parte della Svezia non deve essere letta come una svolta negli equilibri regionali, persino preannunciante una richiesta di entrare a far parte dell’Alleanza Atlantica dietro la spinta della minaccia russa. Piuttosto, è da identificarsi come un ritorno ad uno status quo ante degli eventi pre-2010: fu proprio la decisione di sospendere la coscrizione obbligatoria in tale periodo ad essere dissonante rispetto alla cultura strategica baltico-scandinava la quale, per via della ridotta demografia di quegli Stati e dell’esempio storico del successo della guerriglia finlandese contro i sovietici, fa della milizia popolare un proprio cardine.

19


UNGHERIA, 7 MARZO ↴ Il Parlamento magiaro ha approvato con un’ampia maggioranza una legge in base alla quale i richiedenti asilo dovranno attendere l’esito delle proprie domande in container siti lungo il confine serbo-ungherese. Al di là degli evidenti problemi con riferimento al rispetto dei diritti umani, il nuovo provvedimento legislativo implica problemi pratici per coloro i quali già hanno presentato richiesta di asilo ma ancora non gli è pervenuta una risposta: essi infatti rischiano di vedere la propria procedura annullata e di dover ripetere tutto l’iter da capo, con l’aggravante del soggiorno in container. La norma si applica a tutti gli individui a partire dai 14 anni e prevede l’appellabilità del rifiuto della domanda di asilo una sola volta, entro tre giorni – dopo la quale nessun nuovo appello è permesso e i richiedenti saranno chiamati a lasciare la zona di transito. La nuova legge si situa in continuità con le politiche già promosse dal Premier Viktor Orbán, la cui visione di un’Europa «sotto assedio» da parte di «orde di migranti» che sono «cavalli di troia del terrorismo» promuove paura e sospetto tra la popolazione ed impone un ostacolo alla concertazione delle risposte a livello europeo. Riscontro diretto di questo lo si ha anche nello scarso numero di rifugiati accettati dalle autorità ungheresi nel 2016, che corrisponde solo ad un terzo di quanto pattuito in sede UE.

20


ANALISI E COMMENTI LA NUOVA DIRIGENZA DI HAMAS E I RISCHI DI INSTABILITÀ NEL VICINO ORIENTE GIUSEPPE DENTICE ↴ Le elezioni interne ad Hamas iniziate nel gennaio scorso e volte a scegliere la nuova dirigenza al potere nella Striscia di Gaza hanno definito un ulteriore step nel processo di radicalizzazione politica che il gruppo islamista sta conoscendo da alcuni anni a questa parte. Infatti, la nomina di un nuovo leader considerato un “falco tra i falchi” e le ripercussioni che questa può comportare nello scenario politico palestinese potrebbe rappresentare altresì un’alquanto pericolosa sfida al quadro di sicurezza e di stabilità vicino-orientale. Il 13 febbraio scorso il Comitato esecutivo di Hamas ha eletto a netta maggioranza Yahya al-Sinwar (anche noto come Abu Jamil o Abu Ibrahim) nuovo leader della medesima organizzazione islamista. Sinwar, già a capo delle Brigate Izz al-Din al-Qassam (l’ala militare di Hamas), è un militante anziano del gruppo, già Comandante del Munazzamat al-Jihad wal-Dawa (MAJD, gli apparati di sicurezza del movimento e uno dei tanti attivi a Gaza) e, negli ultimi anni, punto di raccordo con l’anima politica dell’organizzazione (…) SEGUE >>>

TRUMP, L’IRAN E IL FUTURO ASSETTO DEL MEDIO ORIENTE SIMONE ZUCCARELLI ↴ L’imprevedibilità connessa con l’ascesa di Donald Trump alla Casa Bianca ha messo in allarme un numero consistente di attori internazionali. Tra essi è indubbiamente collocabile l’Iran – uno degli Stati sui quali si sono concentrati gli affondi del tycoon in campagna elettorale – la cui rilevanza nella visione di politica estera trumpiana è ben evidenziata all’interno dell’ultimo libro del neoeletto Presidente – Crippled America: How to Make America Great Again – che, a tale riguardo, si apre con un duro attacco all’“Iran Deal” (14 luglio 2015), indicato come «one of the worst agreement in our history». Nel volume vengono sottoposti a critica, allo stesso tempo, sia il Paese mediorientale – considerato inaffidabile e pericoloso – sia la politica perseguita dal suo predecessore che, al contrario, ritiene il JCPOA un importante successo della diplomazia e il miglior strumento per prevenire l’acquisizione di armi nucleari da parte dell’Iran e provare a stabilizzare l’arena mediorientale (…) SEGUE >>>

A cura di OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE Ente di ricerca di “BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO” Associazione culturale per la promozione della conoscenza della politica internazionale C.F. 98099880787 www.bloglobal.net 21


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.