BloGlobal Weekly N°16/2014

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N째16, 6-19 LUGLIO 2014 ISSN: 2284-1024

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BloGlobal Weekly Report Osservatorio di Politica Internazionale (OPI) © BloGlobal – Lo sguardo sul mondo Milano, 20 luglio 2014 ISSN: 2284-1024 A cura di: Davide Borsani Giuseppe Dentice Danilo Giordano Maria Serra

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Photo credits: Ilia Yefimovich; Olamikan Gbemiga/AP; Reuters; AFP; The Mirror; The Telegraph; Foxnews;


FOCUS AMERICA LATINA ↴

I BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) hanno tradotto in fatti ciò che avevano auspicato nel febbraio scorso a margine del summit del G-20 di Sidney. Alla luce delle crisi valutarie innescate dalle procedure di tapering della Federal Reserve statunitense, le cinque potenze economiche in ascesa hanno ufficialmente inaugurato in occasione del vertice di Fortaleza in Brasile (15-17 luglio) la New Development Bank, ovvero una banca gestita dai Paesi emergenti alternativa al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale, di cui l’Occidente (soprattutto gli USA) è il primo azionista. La NDB sarà operativa solo dal 2016, avrà sede a Shangai, in Cina, e avrà il compito di sostenere economicamente progetti di sviluppo nel contesto delle relazioni SudSud. I BRICS hanno scelto di adottare il dollaro come valuta della banca. Essa avrà un capitale iniziale intorno ai 50 miliardi di dollari che dovrebbe essere suddiviso in parti uguali tra i cinque Stati fondatori. La NDB sarà affiancata da un fondo di garanzia per scongiurare nuove crisi valutarie tra i BRICS. Tale fondo sarà composto da 100 miliardi di dollari gestiti dalle banche centrali nazionali con la possibilità di essere trasferiti da un Paese all’altro; sarà poi competenza delle stesse banche centrali firmare accordi di aiuti per lo sviluppo. A differenza della NDB, i Cinque contribuiranno al fondo su basi differenti: 41 miliardi saranno garantiti dalla Cina, solo 5 dal Sud Africa e India, Brasile, Russia forniranno 18 miliardi a testa.

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A seguito del vertice dei BRICS, vi è stato un importante incontro tra il Presidente cinese Xi Jinping e gli omologhi membri della Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (CELAC). Per l’occasione, è stato varato il Forum della Cooperazione tra Pechino e la CELAC, già ufficialmente approvato nel summit del gennaio scorso dell’organizzazione americana tenutosi a Cuba. Il Presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, ha affermato che i vertici di questa settimana sono stati «storici e segnano il nuovo tempo del secolo XXI». La Cina è d’altro canto molto attenta a quanto accade nel subcontinente americano, dove ha recentemente incrementato la propria presenza economica. Testimonianze ne sono i fondi devoluti al Nicaragua per la costruzione di un canale che taglierà l’America Centrale e che si proporrà come alternativo a quello di Panama. Anche il Presidente russo, Vladimir Putin, ha colto la possibilità offerta dal vertice di Fortaleza per rafforzare i rapporti tra Mosca e l’America Latina. La Russia ha stretto un accordo con l’Argentina per l’estrazione di idrocarburi nella regione di Vaca Muerta; ha risolto il 90% del vecchio debito che L’Avana aveva con l’Unione Sovietica in cambio della riapertura di una base militare russa sull’isola; ha promesso nuovi finanziamenti al Venezuela di Maduro; ha raggiunto accordi sull’energia con la Bolivia di Evo Morales. Putin ha manifestato anche un aperto sostegno al processo di dialogo tra le forze marxiste rivoluzionarie della Colombia, le FARC, e il rieletto Presidente colombiano, Juan Manuel Santos. Sono infatti ripresi in questa settimana a L’Avana i colloqui tra le due parti per porre fine ad un conflitto ultradecennale. Santos pare fortemente intenzionato a portare a termine il dialogo, sottoponendo poi l’eventuale accordo ad un referendum nazionale. L’opinione pubblica colombiana ripone molta speranza nel buon esito del processo: da maggio a luglio, la fiducia è aumentata di oltre venti punti percentuali, dal 42% al 64%. Tuttavia, un grosso ostacolo è rappresentato dalla mancata cessazione delle ostilità: le operazioni per sconfiggere le FARC proseguono, radicalizzando la fazione meno disposta a siglare un compromesso.

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IRAQ ↴

Nonostante i numerosi appelli della comunità internazionale per una ricomposizione della crisi irachena, la situazione nel Paese continua a degenerare. L’avanzata dello Stato Islamico (IS) guidato dal Califfo Abu Bakr al-Baghdadi sembra non avere ostacoli e le conquiste degli islamici diventano ogni giorno che passa il segnale dell’effettiva potenza islamista, dato che le truppe governative non riescono a riconquistare i territori perduti. Nei giorni scorsi l’esercito iracheno ha provato a riprendere l’importante snodo petrolifero di Tikrit, in mano all’IS dal giugno scorso. In un primo tempo è sembrato che le truppe governative fossero riuscite a riconquistare la città, ma nella serata di martedì 15 luglio il profilo Twitter della Divisione del Saladino dello Stato Islamico ha rivelato che l’attacco dell’esercito iracheno era fallito e che le stesse fossero state respinte. La debacle di Tikrit mostra chiaramente come sia tutt’altro che scontato riprendere il possesso dei territori conquistati dall’IS che nel frattempo ha aperto molti più fronti di battaglia di quanti l’esercito iracheno sia effettivamente capace di affrontate. I fatti di Tikrit rivelano, inoltre, come l’esercito iracheno abbia assoluta necessità di cambiare strategia: da mesi i 300 consiglieri militari americani dislocati in Iraq invocano, inascoltati, i leader iracheni di non puntare subito alla riconquista delle città ma di puntare dapprima al controllo delle principali arterie stradali, per poi avanzare. I consigli americani sono stati fatti propri invece dalle truppe dell’IS: nella giornata di sabato 20 luglio i militanti islamici hanno preso il possesso di uno strategico ponte che collega la città di Muqdadiyah, dove vi è un importante quartier generale dell’esercito, alle città di Hamrin e Khanaqin, in modo da tagliare i rifornimenti delle truppe irachene. Nelle stesse ore, l'intera comunità cristiana di Mosul, la

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seconda città dell'Iraq, caduta nelle mani dei jihadisti, è stata costretta a fuggire, dopo che i miliziani avevano intimato loro di convertirsi all'Islam o di pagare la jiziya, una sorta di obolo da pagare dalla minoranza religiosa “infedele”. I ribelli hanno prima attaccato le chiese cristiane e poi, dopo averle conquistate e chiuse, vi hanno issato la loro bandiera. Sul fronte politico interno la situazione non è meno critica, poiché i partiti politici iracheni sembrano arrivati ad un punto di stallo per l’elezione del nuovo Presidente. Secondo un accordo di power-sharing approvato nel 2003, sotto mediazione americana, le tre più importanti cariche dello Stato devono essere divise equamente tra i principali gruppi etnici iracheni: il Presidente deve essere un curdo, il Primo Ministro sciita e lo Speaker della camere sunnita. Mentre l’elezione dello speaker sunnita è avvenuta in poco tempo – è stato eletto il giurista sunnita Salim al-Jabouri – più difficile appare la scelta del nuovo Presidente. Proprio questa carica è stata fino al 19 luglio scorso vacante a causa della prolungata assenza di Jalal Talabani dal dicembre 2012, ovvero da quando il Presidente in carica a causa di un forte attacco cardiaco venne portato in Germania per curarsi. I curdi sono divisi sulla scelta: alcuni preferirebbero l’ex Primo Ministro del Kurdistan iracheno Barham Salih, altri l’attuale Governatore di Kirkuk Najmadin Karim. Secondo diversi analisti, i tentennamenti dei curdi derivano principalmente dal fatto che con l’avanzata dello Stato Islamico, e il conseguente disgregamento dello Stato iracheno, i curdi vedono per la prima volta la possibilità di costituire un proprio Stato autonomo. Infatti gli unici in grado di tener testa all’avanzata dello Stato Islamico sono stati i peshmerga curdi, che hanno più volte manifestato esplicitamente la loro riprovazione per la debolezza dell’esercito iracheno e l’incapacità del governo centrale. La soluzione migliore per puntellare nuovamente l’unità dello Stato iracheno potrebbe essere quella di eleggere Massoud Barzani, Presidente della regione autonoma del Kurdistan iracheno e principale figura politica curda, alla presidenza dell’Iraq: in realtà, proprio Barzani, in queste difficili giornate politiche, ha affermato di essere pronto ad indire un referendum per l’indipendenza del Kurdistan, in virtù anche dei recenti sostegni politici ricevuti da Israele e Turchia. Dal canto suo il Premier Nouri al-Maliki ha avvertito i leader degli Stati arabi delle conseguenze a cascata che un eventuale smembramento dell’Iraq potrebbe avere sui loro Paesi.

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ISRAELE ↴

Dopo 12 giorni di raid aerei e di bombardamenti della marina israeliana, l’Operazione Protective Edge nella Striscia di Gaza assume una nuova fisionomia in virtù dell’inizio dell’offensiva terrestre, la prima dal ritiro unilaterale di Tel Aviv dal territorio nel 2005. L’operazione è stata autorizzata nella serata del 17 luglio – intorno alle 22 italiane – durante una riunione ormai ordinaria del Gabinetto per la sicurezza israeliana; questa è stata poi formalmente annunciata in conferenza stampa dal Premier Benjamin Netanyahu e dal Ministro della Difesa Moshe Ya’alon. L’offensiva è partita in simultanea dai confini a nord, al centro e a sud di Gaza, dove da settimane pattugliavano le frontiere circa 65mila unità di Tsahal (l’esercito israeliano). L'azione, seguita alla tregua umanitaria di 5 ore del 17 luglio scorso, è stata accompagnata da un’intensificazione dei bombardamenti su alcune zone della Striscia, tra cui la stessa Gaza City. Come annunciato dal portavoce dell’IDF Peter Lerner, l’obiettivo dell’operazione è «la distruzione dei tunnel che consentono ai terroristi di infiltrarsi in Israele e portare attacchi». Lo stesso Premier israeliano ha più volte giustificato la decisione con «il rifiuto da parte di Hamas di accettare il piano egiziano per un cessate il fuoco e con il proseguimento dei lanci di razzi contro Israele». Netanyahu e Ya’alon hanno poi precisato che l’operazione di terra non avrà un termine temporale definito e che essa sarà ulteriormente ampliata e continuerà fino a quando «Israele non si considererà sicura». Oltre alle pressioni interne all’esecutivo da parte delle ali radicali come Liebermann e Bennett, a convincere Netanyahu a lanciare l’offensiva terrestre sarebbe stata la scoperta di un tentativo di infiltrazione di un commando palestinese in Israele attraverso uno dei tunnel controllati da Hamas che collegano la Striscia di Gaza 5


con lo Stato Ebraico. Già il 13 ottobre 2013 ad Ein HaShelosha, nei pressi della frontiera con Gaza all'altezza della città palestinese di Dir al-Balaj era stato scoperto un tunnel costruito «per attività terroristiche contro civili israeliani e personale militare dentro Israele». Un altro fattore a favore dell’intervento militare è stato anche il ritrovamento di venti razzi di Hamas nascosti in una scuola dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) a Gaza che conferma indirettamente le accuse israeliane a Hamas di usare i civili e le loro strutture come depositi di armi sotterranei e obiettivi strategici da cui lanciare gli attacchi verso lo Stato Ebraico. Una duplice situazione che ha convinto il governo israeliano a intervenire anche per via terrestre e a lanciare un’offensiva mirata alla sola distruzione delle infrastrutture e che, come ha ricordato Lerner, «non ha l’obiettivo di rovesciare il governo di Hamas». Una condizione che ha permesso ad Israele di trovare una sponda politica nell’Egitto di al-Sisi che, dalla deposizione di Mohammed Mursi del 3 luglio 2013, ha fatto della distruzione dei circa 800 tunnel che collegano Rafah con il Sinai la sua priorità in termini di politica di sicurezza. Proprio Il Cairo accusa la dirigenza islamista al governo nella Striscia di Gaza di fornire aiuti militari ai gruppi radicali e jihadisti attivi nel Sinai. Intanto continuano le prove di dialogo e di negoziati differenti al Cairo e a Doha, sollecitati da Abu Mazen e con mediatori rispettivamente Egitto e Qatar, i quali però continuano ad accusarsi reciprocamente di boicottare i tentativi di pace e di armare o di fomentare lo scontro. Il Ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry ha imputato alla dirigenza di Hamas di non aver rispettato il cessate il fuoco mentre il Presidente al-Sisi ha auspicato che le parti mostrino “flessibilità” nella speranza di giungere ad una tregua. La Turchia e il Qatar, principali sponsor politici ed economici di Hamas, accusano invece Egitto e Israele di voler boicottare la tregua. Ad ogni modo questi tentativi sembrano rimanere casi poco credibili di una soluzione negoziata della crisi. Sullo sfondo rimangono Stati Uniti, Unione Europea e Nazioni Unite, i quali non sembrano essere in grado di incidere sull’evoluzione degli eventi. Il Segretario di Stato USA John Kerry ha chiesto al governo israeliano di condurre attacchi mirati contro Hamas cercando di salvaguardare i civili; Bruxelles è rimasta ad una semplice condanna ufficiale delle violenze e alla negoziazione di una tregua; infine, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha chiesto a Israele di fermare gli scontri e di tornare al tavolo dei negoziati. Dall'8 luglio Israele ha condotto 2.570 attacchi contro obiettivi militari e strategici di Hamas a Gaza. Secondo l’IDF le milizie islamiste hanno lanciato 1.705 razzi verso lo Stato Ebraico su una disponibilità totale di 10.000. Dall’inizio dell’operazione militare sono stati uccisi all’incirca 400 palestinesi e più di 2.600 sono i feriti, mentre sul fronte israeliano si registrano tredici vittime e una cinquantina di feriti. Si tratta del conflitto più sanguinoso in Terra Santa dall’Operazione Piombo Fuso del 2009. Infine, secondo le cifre diffuse dalle Nazioni Unite, dall'inizio degli attacchi a Gaza sono state distrutte 1.370 case e più di 62.000 persone sarebbero gli sfollati 6


interni. Sempre le Nazioni Unite hanno lanciato un appello alla comunità internazionale per continuare a fornire loro cibo, cure mediche e aiuti d’emergenza.

FONTE: ISRAELI DEFENSE FORCES

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UCRAINA ↴

L'abbattimento lo scorso 18 luglio dell'aereo civile Boeing 777 MH17 della Malaysia Airlines, diretto da Amsterdam a Kuala Lumpur e caduto vicino a Grabovo, nell'oblast di Donetsk, nell'Ucraina orientale, getta nuova benzina sul fuoco della crisi ucraina: secondo fonti dell'intelligence americana, confermate peraltro dal giornalista britannico ed esperto di armamenti Eliot Higgins, l'aereo sarebbe stato infatti colpito da un missile terra-aria Buk/SA-11 di fabbricazione russa lanciato dai separatisti filorussi presumibilmente dalle aree circostanti a Snizhne. Restano tuttavia ancora da chiarire non solo le dinamiche dell'incidente – resta dibattuto il ritrovamento delle scatole nere del velivolo, nonché il luogo e le modalità di decifrazione delle registrazioni di bordo –, ma anche i perché della distruzione del velivolo e l'esatta entità delle armi in possesso dei ribelli. Secondo indiscrezioni fornite dal New York Times, al di là delle forniture messe a disposizione direttamente dal Cremlino, i separatisti potrebbero infatti aver sottratto tali strumenti a Mosca e averli utilizzati in occasione dei recenti abbattimenti di un aereo di trasporto militare e di un elicottero (a cominciare dall'aereo AN-26 impegnato in ricognizione counterterrorism), sempre nelle aree orientali del Paese, grazie anche al know-how appreso durante l'esperienza all'interno del settore missilistico nelle armate sovietiche/russe prima e dell'Ucraina poi. Mentre gli osservatori dell'OSCE sono parzialmente riusciti ad accedere nell'area del disastro, il Segretario Generale dell'ONU Ban Ki-moon, nel condannare l'atto in cui hanno perso la vita tutti e 298 i passeggeri e i membri dell'equipaggio, ha chiesto che venga al più presto attivata un'indagine da parte delle Nazioni Unite. Anche Vladimir Putin e il Cancelliere tedesco Angela Merkel si sono detti d'accordo sull'apertura di un'inchiesta internazionale ed indipendente sotto l'egida dell'Organizzazione Internazionale dell'Aviazione Civile (ICAO).

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Le tensioni tra il Presidente russo – a cui è stata imputata una responsabilità politica per quanto accaduto al volo MH17 – e i Paesi occidentali erano tra l'altro tornate a riaccendersi in seguito alla decisione di inasprire le sanzioni già poste in essere nel corso della primavera. Il Consiglio Europeo del 16 luglio ha stabilito che entro la fine del mese i 28 Paesi UE dovranno stilare una lista di aziende/personalità russe ritenute responsabili della destabilizzazione ucraina e a cui comminare nuove misure restrittive. Mentre i Ventotto dovranno sostenere egualmente le conseguenze di questa nuova ondata di sanzioni, sono stati congelati i programmi di aiuto della Banca Europea degli Investimenti (BEI) e della Banca Europea di Ricostruzione e Sviluppo (BERS) attivati in Russia. Come dichiarato dalla Merkel, a sostegno della cui azione vi sono soprattutto i Premier olandese Rutte, quello britannico Cameron e quello polacco Tusk, il contributo della Russia alla de-escalation della crisi ucraina è ancora insufficiente e non sono stati compiuti significativi passi in avanti nell'attuazione della richieste europee. Più duro, ancora una volta, l'atteggiamento degli Stati Uniti, che sempre il 16 luglio hanno applicato nuove sanzioni mirate a banche e società di energia e difesa russe. L'Executive Order 13662 del Dipartimento del Tesoro USA proibisce infatti a persone americane di concedere finanziamenti a due delle maggiori società finanziarie russe, Vnesheconombank (VEB) e Gazprombank, e a quelle energetiche, Novatek e Rosneft, limitando l'accesso ai mercati di capitali statunitensi. Il documento individua inoltre le otto case produttrici di armi ritenute direttamente coinvolte nel conflitto ucraino: oltre alla Kalashnikov, produttrice dell'AK-47 e di numerosi dispositivi per lo più impiegati in Afghanistan e in Africa, e alla Almaz-Antey, le cui forniture sono per lo più dirette alla Siria, sono state sanzionate anche Bazalt, Kret radio-electronic technologies, Sozvezdie, NPO Mashinostroyenia, KBP Instrument Design Bureau and Uralvagonzavod. Rosoboronexport, la più importante casa produttrice di armamenti, non è stata sottoposta a misure restrittive, ma già le sanzioni alle compagnie menzionate potrebbero avere ricadute importanti sul flusso di armi diretto in Ucraina e, in una prospettiva allargata, anche negli altri contesti di crisi e nell'interscambio tra aziende russe ed europee nel comparto Difesa. Sottoposti a restrizioni, infine, altri rappresentanti dell'establishment russo (tra cui Sergey Beseda, alto ufficiale dei servizi segreti FBS), nonché i rappresentanti delle auto-proclamate Repubblica Popolare di Donetsk, Aleksandr Borodai, e Repubblica Popolare di Lugansk, accusati di minaccia alla sicurezza e all'integrità territoriale dell'Ucraina. Sul campo, infine, terminato il 1° luglio il cessate il fuoco proposto da Poroshenko, il quale si è detto disponibile ad attuare una nuova tregua, l'offensiva di Kiev si è diretta proprio nei territori circostanti a Lugansk: annunciata la riconquista anche delle città di Artemivsk e Druzhkivska, i combattimenti si stanno concentrando intorno all'aeroporto della città in questione. Secondo l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite, intanto, almeno 150 mila persone avrebbero abbandonato l'est dell'Ucraina e almeno 110 mila di queste avrebbero sconfinato in Russia.

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BREVI AFGHANISTAN, 12 LUGLIO ↴ Lo spoglio delle schede elettorali che avrebbe dovuto decretare il vincitore delle presidenziali nei prossimi giorni ha sollevato parecchie critiche. Era stato inizialmente previsto che ad inizio agosto si sarebbe insediato il nuovo Presidente, ma nuove circostanze hanno portato al rinvio dell’ufficializzazione. Uno dei due candidati al ballottaggio, Abdullah Abdullah, aveva accusato di brogli lo sfidante, Ashraf Ghani, aggiungendo di non riconoscere l’esito del conteggio quasi certamente a favore di quest’ultimo. Abdullah aveva persino dichiarato che era pronto a formare un governo parallelo se Ghani fosse stato eletto Presidente. È dovuto intervenire per sbloccare lo stallo il Segretario di Stato americano, John Kerry. La prima ipotesi sul tavolo era quella di ricontare una parte degli otto milioni di schede depositate nelle urne. Abdullah l’ha respinta, richiedendo il riconteggio totale. Nel weekend scorso, quindi, Kerry è riuscito ad ottenere il consenso delle due parti per un nuovo spoglio completo. Il Segretario di Stato ha aggiunto che tale processo richiederà molte settimane con la conseguenza che la proclamazione del vincitore sarà posticipata a data da destinarsi. Il Presidente uscente, Hamid Karzai, e Catherine Ashton, Alto Rappresentante dell’Unione Europea, hanno espresso sollievo per un accordo che ha allontanato lo spettro di una crisi istituzionale. Da segnalare, comunque, che le violenze in Afghanistan non sono ancora cessate. Il 16 luglio scorso un nuovo attentato suicida ha colpito un mercato nella provincia di Paktika, al confine con il Nord Waziristan pachistano, provocando ottantanove morti. Puntuale è arrivata la condanna dell’ONU, a firma del Segretario Generale Ban Ki-moon, che ha definito l’attacco un «atto criminale ignobile».

IRAN, 19 LUGLIO ↴ È scaduto il 20 luglio il termine ultimo per raggiungere un accordo tra l’Iran e il Gruppo 5+1 (i cinque Paesi membri del Consiglio di Sicurezza + la Germania) sul dossier nucleare di Teheran. A Vienna erano da più giorni riunite le due delegazioni ma l’accordo non è mai davvero sembrato a portata di mano. In assenza di un accordo, le parti hanno deciso di prolungare i negoziati sul nucleare fino al 24 novembre. Già negli ultimi mesi l’ottimismo iniziale era venuto progressivamente meno a causa di mancati passi in avanti nelle trattative. Il Segretario di Stato americano, John Kerry, ha ammesso nel corso dell’ultima settimana che «abbiamo divergenze significative, un accordo in tempi brevi è improbabile». Il Ministro degli Esteri britannico uscente, William Hague, ha sottoscritto tali parole. Il vice-Ministro

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degli Esteri della Cina, Li Baodong, ha chiesto di «dare prova di flessibilità» sia agli iraniani che agli occidentali. Gli ha risposto il Ministro degli Esteri di Teheran, Mohamed Javad Zarif, affermando che «la fiducia deve essere reciproca». L'Iran è disposto a fermare per alcuni anni la produzione di uranio, a concedere l'accesso ad osservatori internazionali alle proprie centrali, a convertire lo stesso uranio per non essere utilizzato a fini militari, ma non è disposto a rinunciare alle centrifughe che già possiede. Viceversa gli occidentali richiedono che il numero delle centrifughe cali sensibilmente da oltre centomila (la Guida Suprema ha indicato l’obiettivo delle 190mila) a una decina di migliaia all’incirca. Considerata l’impasse, le due delegazioni si sono accordate per il momento sul rinvio della data ultima per la firma dell’accordo. La nuova deadline è dunque il 24 novembre. Nel frattempo, l’accordo di Ginevra del novembre 2013, rispettato da Teheran, resterà in vigore. Secondo quanto affermato dal Presidente USA Barack Obama, «l'Iran ha mantenuto le promesse sul proprio programma nucleare negli ultimi sei mesi» e dunque le trattative proseguiranno.

LIBIA, 13 LUGLIO ↴ Non sembra conoscere sosta il caos che imperversa in Libia alle prese dal giugno scorso con un’insurrezione armata

di

milizie

anti-islamiste

guidate

dall’ex

Generale Khalifa Haftar. Se la Cirenaica rimane il maggiore tra i teatri di conflitto nel Paese, nelle ultime settimane tuttavia anche la capitale Tripoli e il suo aeroporto hanno conosciuto un’impressionante escalation di violenze. A fronteggiarsi i gruppi “laici” di Zintan e i “filo-islamisti” di Misurata. Quest’ultimi hanno dato il via il 13 lulio ad una serie di attacchi contro la milizia rivale che controlla l'aeroporto internazionale da quando, nel 2011, fu rovesciato Mu’ammar Gheddafi. Al momento tutti i voli dell’aeroporto sono stati sospesi. L’attacco, che ha provocato 6 morti e 25 feriti, è stato rivendicato dalla Cellula Operativa dei Rivoluzionari Libici, una coalizione di milizie islamiste considerate il braccio armato degli islamisti all'interno del Parlamento libico. Le violenze di questi giorni si inseriscono in un clima generale di crescente tensione alimentato da un lato dall’instabilità politica-istituzionale (incertezza sulle ultime elezioni politiche e contenstazioni del Premier Maiteg/alThani) e dall’altro dalla crisi nel settore dell’industria energetica, da tempo ferma a causa del blocco imposto dal governo ai principali terminal petroliferi ora in mano ad alcune milizie separatiste della Cirenaica. Una situazione, questa, che ha indotto le Nazioni Unite ad annunciare il ritiro forzato di diverse decine di funzionari della propria missione nel Paese.

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NIGERIA, 16-19 LUGLIO ↴ Mentre le alte sfere dell’esercito nigeriano continuano a sostenere la necessità della guerra contro Boko Haram, gli attentati degli islamisti si susseguono in tutto il Paese, aumentando i timori della popolazione civile. Il 16 luglio diversi membri di Boko Haram hanno attaccato la città di Dille, nello Stato del Borno, uccidendo 45 persone, tra cui anche il capo villaggio e hanno bruciato case e chiese cristiane. Nel frattempo altre 20 persone venivano uccise a seguito di un attacco a Sabon Gari. Venerdì 18 luglio uomini armati di Boko Haram hanno attaccato la città di Damboa, nel Borno, gettando esplosivo nelle aree residenziali e sparando indiscriminatamente sulla popolazione, anche su coloro che si stavano arrendendo: il bilancio definitivo dell’attacco non è ancora stato fornito. La città di Damboa era stata già attaccata lo scorso 6 luglio, quando i militanti di Boko Haram avevano cacciato dalla città le forze di sicurezza, che a quanto pare, da allora, avevano abbandonato la popolazione locale. L’ultimo attacco perpetrato da Boko Haram è avvenuto proprio nella notte tra il 19 e il 20 luglio, ai danni di una città situata a circa 80 km a nord est di Maiduguri, capitale dell’omonimo Stato, lasciando sul terreno circa 100 morti. In questo stillicidio continuo giunge la notizia dell’arresto di Mohammed Zakari, alto comandante di Boko Haram, accusato di aver ucciso centinaia di persone dal 2009, tra cui numerose donne e bambini. Nonostante ciò, nella popolazione nigeriana si fa largo la sensazione di incapacità/impotenza da parte del governo centrale nel far fronte alla minaccia Boko Haram e favorendo di contro una proliferazione di gruppi di autodifesa da parte delle comunità.

REGNO UNITO, 14 LUGLIO ↴ Con l'annuncio delle dimissioni dall'incarico di Ministro degli Esteri da parte di William Hague, che andrà ora a ricoprire il ruolo di leader della House of Commons rimpiazzando Andrew Lansley, il Premier britannico David Cameron ha operato un importante rimpasto dell'Esecutivo. Ministro

della

Difesa,

Philip

Al

Hammond

Foreign –

che

Office in

più

andrà

l'attuale

occasioni

ha

sottolineato l'opportunità di un'uscita dall'Unione Europea qualora non vengano negoziate condizioni più favorevoli per il Regno Unito – sostituito a sua volta dal vice Ministro alle Imprese, Michael Fallon. Michael Gove, Segretario all'Educazione e ora Chief Whip per il coordinamento Tory per le elezioni, sarà sostituito da Nicky Morgan, sottosegretario

per

le

questioni

femminili.

Promossa

anche

Liz

Truss,

ex

sottosegretario all'Educazione, che andrà a guidare il Ministero dell'Ambiente,

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dell'Alimentazione e degli Affari Rurali al posto di Owen Paterson. Dimissionati anche il Procuratore Generale Dominic Grieve e il Ministro per lo Sviluppo Internazionale Alan Duncan, rispettivamente sostituiti da Jeremy Wright e Nick Boles. Il reshuffle ha inoltre coinvolto i titolari all'Energia, della Polizia e gli affari della sicurezza interna, oltre a quelli per la gestione dei rapporti con Galles, Nord Irlanda e Commonwealth. Jonathan Hill, capogruppo dei Tories alla House of Lords, è stato infine designato da Cameron quale Commissario europeo per il Regno Unito nella compagine di JeanClaude Juncker. Quello che è stato letto dai giornali nazionali come un “drammatico bagno di sangue” in cui la vecchia guardia conservatrice è stata silurata per lasciar spazio ad una nuova linea governativa, ha risposto evidentemente alla duplice esigenza di rafforzare la posizione del governo Cameron all'interno delle Istituzioni europee e, in particolare, quella del Partito Conservatore – accusato di un atteggiamento troppo morbido nei confronti di Bruxelles – dopo l'affermazione di UKIP e in previsione delle elezioni legislative nazionali del 2015, senza dimenticare le possibili conseguenze dell'imminente referendum indipendentista della Scozia fissato per il prossimo 18 settembre.

SIRIA, 16 LUGLIO ↴ Mentre Bashar al-Assad a seguito delle elezioni dello scorso giugno ha prestato giuramento come Presidente, avviando così il suo terzo mandato che in base alla nuova Costituzione avrà una durata settennale, l'esercito di Damasco è impegnato in un'offensiva nella Siria centrale, in particolare intorno alla città di Morek per riconquistare i territori ancora in mano ai ribelli, e settentrionale, riprendendo principalmente grazie al supporto fornito da Hezbollah il controllo di alcuni avamposti intorno ad Aleppo, da dove si dispiega l'azione dell'IS (già ISIS). Sul fronte delle opposizioni il 9 luglio Hadi al-Bahra, già capo negoziatore durante i lavori della Conferenza di pace di Ginevra II e uomo politicamente sostenuto dall'Arabia Saudita, è stato nominato nuovo capo della Coalizione Nazionale Siriana, rimpiazzando Ahmad al-Jarba in scadenza di mandato. Dal punto di vista della diplomazia internazionale le Nazioni Unite hanno intanto affidato al diplomatico italo-svedese Staffan De Mistura, ex vice Ministro degli Esteri e già inviato in India per il caso Marò, il delicato incarico di rappresentante speciale dell'ONU per la crisi siriana (mentre resta ancora da vedere se assumerà anche quello per conto della Lega Araba) dopo le dimissioni di Lakdhar Brahimi. Il 14 luglio il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha peraltro autorizzato, pur senza l'approvazione del governo siriano, l'accesso di convogli umanitari nel Paese attraverso quattro valichi: due in Turchia, uno in Iraq e uno in Giordania. Sarebbero oltre 10 milioni i bisognosi di assistenza umanitaria.

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TUNISIA, 17 LUGLIO ↴ Quattordici soldati tunisini sono stati uccisi in un attentato a Henchir Tella, nel governatorato di Kasserine, nei monti dello Djebel ech-Chaambi, vicino al confine con l'Algeria. L’attacco sarebbe stato condotto da un commando armato islamista contro un checkpoint dell'esercito. Secondo la ricostruzione fornita all'agenzia d'informazione TAP dal portavoce del Ministero della Difesa, Rachid Hawela, i terroristi hanno portato la loro azione grazie a lanciarazzi, RPG e armi d'assalto. Una ricostruzione confermata anche dal Generale Souheil Chemingui, responsabile delle forze di terra tunisine. L’attentato rappresenta il più grave lutto per terrorismo nella storia del Paese. La pericolosità dell’area era salita alla ribalta delle cronache internazionali già dall'aprile dell'anno scorso quando il governo l’aveva dichiarata una zona ad alto rischio di infiltrazioni jihadiste. In risposta a questo atto e alla paura che nelle montagne possano trovare rifugio gruppi islamisti più o meno vicini al terrorismo qaedista – come le brigate di Okba ibn Nafaa, gruppo affiliato ad al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), e la cellula di Kamel Ben Arbia, alias Abu Fida –, dal 28 luglio 2013 il governo di Tunisi ha approvato una serie di operazioni antiterrorismo per cercare di contrastare il crescente peso dei fenomeni jihadisti nel Paese. Le autorità locali, in collaborazione con quelle algerine, hanno inviato nei monti Chaambi reparti speciali dell’esercito e dell’aviazione con l’intento di stanare e di distruggere le cellule lì presenti ed evitare una proliferazione di questi attori nell’intera regione. Solo pochi giorni prima (13-14 luglio) si erano riuniti a Tunisi tutti i leader del Nord Africa (ad eccezione del Marocco) e del Sahel per discutere di sicurezza regionale e di terrorismo.

YEMEN, 17 LUGLIO ↴ La città di Amran è caduta nelle mani dei ribelli Houthi lo scorso 12 luglio, dopo una battaglia di tre giorni, che secondo la Mezzaluna Rossa avrebbe costretto alla fuga 10.000 famiglie. I ribelli sciiti Houthi, conosciuti anche come Ansar Allah, hanno attaccato il quartier generale della 310ma Brigata Corazzata, hanno preso fucili e pistole ed ucciso un numero imprecisato di soldati e ufficiali, tra cui anche il comandante, secondo quanto reso noto dal Consiglio Supremo di Sicurezza. Comunque i ribelli hanno lasciato che le truppe governative riprendessero le loro posizioni ad Amran, a seguito di un accordo con il Ministro della Difesa. Alla base dell’attuale ribellione vi sarebbe il progetto di suddivisione in senso federalista dello Yemen, approvato in febbraio dal governo centrale e che potrebbe acuire le disugua-

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glianze interne al Paese. Secondo esponenti governativi, invece, i ribelli Houthi vorrebbero approfittare di questa suddivisione per prendere il controllo di uno dei sei Stati in cui verrebbe suddiviso lo Yemen. Conquistando la città di Amran, che è stata teatro di scontri sin dal mese di febbraio, i ribelli hanno compiuto un passo importante in direzione della capitale Sana’a, portando una minaccia diretta al governo del Presidente Abd Rabbo Mansour Hadi. In seguito alla disfatta, il Presidente yemenita ha licenziato il capo militare della regione di Amran così come quello della regione di Hadramawt, dove vi è stata una ripresa degli attacchi di gruppi legati ad AQAP. In aggiunta agli attacchi Houthi, nella parte occidentale del Paese, diverse tribù locali hanno sabotato numerose pipeline con lo scopo di fare pressioni sul governo per ottenere lavoro, terra e la liberazione di qualche parente dalle prigioni. Lo Yemen sta attraversando una difficile transizione da circa tre anni, da quando nel 2011 l’allora Presidente Ali Abdullah Saleh fu costretto ad abbandonare il Paese e a rifugiarsi in Arabia Saudita a causa delle proteste popolari. Nel frattempo, il Ministro degli Esteri Abu Bakr al-Qirbi ha accusato esplicitamente l’Iran di inviare armi agli Houthi, interferendo così negli affari interni dello Stato yemenita.

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ALTRE DAL MONDO BAHRAIN, 7 LUGLIO ↴ Manama ha dichiarato “persona non gradita” il diplomatico statunitense Tom Malinowski, assistente Segretario di Stato per la democrazia, i diritti umani e il lavoro. Malinowski era giunto in Bahrain il 6 luglio per una visita ufficiale di tre giorni nell’isola con lo scopo di ravvivare il già minato Dialogo Nazionale. L’espulsione di Malinowski è stata giustificata dal Ministero degli Esteri locale come una reazione agli incontri tenuti dal diplomatico USA con i rappresentanti di al-Wefaq, un gruppo dell'opposizione sciita che da anni contesta il regime sunnita al potere degli al-Khalifa, e con l’attivista bahrainita per i diritti umani Nabeel Rajab.

CINA-STATI UNITI, 9 LUGLIO ↴ Si è tenuto a Pechino il sesto turno del dialogo strategico-economico Cina-Stati Uniti e il quinto turno di consultazioni di alto livello sugli scambi culturali e di personale fra i due Paesi. Negli incontri aperti dal Presidente cinese Xi Jinping hanno partecipato i Segretari di Stato e del Tesoro USA John Kerry e Jacob Lew, mentre la delegazione locale era guidata dal vice Primo Ministro Wang Yang e dal Consigliere di Stato Yang Jiechi. Al centro dei colloqui i principali temi di tensione fra Washington e Pechino: spionaggio informatico, tensioni nel Mar Cinese Meridionale e svalutazione competitiva dello Yuan Renmimbi. Pur non avendo raggiunto grandi risultati ed essendo entrambe le parti rimaste ferme sulle rispettive posizioni soprattutto sui temi di maggior frizione precedentemente citati, le due delegazioni hanno tenuto a precisare che gli incontri hanno comunque portato al raggiungimento di 8 intese su rafforzamento della cooperazione bilaterale, risposta alle sfide regionali e globali, cooperazione locale, energetica, sui cambiamenti climatici, tutela ambientale, tecnologica, agricola e sanitaria, e, infine, dialogo bilaterale sull'energia, l'ambiente e la tecnologia.

FRANCIA, 17-19 LUGLIO ↴ Il Presidente François Hollande è stato dal 17 al 19 luglio in tour ufficiale in Africa Occidentale, visitando in serie Costa D’Avorio, Niger e Ciad. Accompagnato da una delegazione di 50 uomini, tra cui il Ministro della Difesa, Jean-Yves Le Drian, e dal Ministro degli Esteri, Laurent Fabius, l’inquilino dell’Eliseo negli incontri con i leader locali ha rivendicato l’importante ruolo politico e il forte impegno transalpino in Africa. Oltre a discutere di commercio estero e di economia, Hollande ha discusso anche di sicurezza regionale ed internazionale. Questa è stata infatti l’occasione per lanciare l’operazione Barkhane, una nuova missione militare di counterterrorism che amplierà i compiti di Serval, ancora in corso in Mali, con l’intento di contrastare lo jihadismo militante nella fascia sahelo-sahariana. Barkhane prevede la presenza di 3.000 soldati francesi dispiegati tra Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, e avrà il suo 16


quartier generale a N’Djamena, nella capitale ciadiana dove sono già presenti all’incirca un migliaio di militari transalpini.

GERMANIA, 10 LUGLIO ↴ «Il rappresentante dei servizi segreti USA presso l’Ambasciata degli Stati Uniti d’America è stato invitato a lasciare la Germania» dopo l’ennesimo scandalo che ha coinvolto la CIA e la NSA. Secondo il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert, l’espulsione del responsabile diplomatico dell’intelligence statunitense a Berlino si è resa necessaria dopo alcuni nuovi casi di spionaggio ai danni della Cancelliera e di alcuni alti rappresentanti dello stesso governo tedesco.

INDONESIA, 9 LUGLIO ↴ In attesa dei risultati ufficiali, che verranno resi pubblici il prossimo 22 luglio, nel più grande Paese islamico al mondo si sono tenute le terze elezioni presidenziali libere della storia recente che hanno visto l’affermazione per appena sei punti di distacco di Joko “Jokowi” Widodo del Partito Democratico Indonesiano di Lotta. Sconfitto l’ex militare Prabowo Subianto del partito conservatore Gerindra che ha contestato la vittoria di Widodo.

SLOVENIA, 13 LUGLIO ↴ Il Partito Indipendente Sloveno (SMC), di centro-sinistra, del giurista Miro Cerar si è aggiudicato al primo turno le elezioni politiche anticipate con il 34,6% dei consensi (36 seggi su 90 totali). Seguono il Partito Democratico Sloveno (SDS), di centrodestra, dell'ex Premier ora in carcere con l’accusa di corruzione, Janez Jansa, con il 20,69% (21 seggi) e il Partito dei Pensionati (DESUS), sempre di centro-sinistra, col 10,21% (10 seggi). Come da aspettative, l'affluenza è stata molto bassa: solo il 50,9% degli aventi diritto si è recato alle urne, record negativo storico per il Paese.

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ANALISI E COMMENTI I VETTORI STRATEGICI DELLA RUSSIA ALL’OMBRA DELLA RINNOVATA RIVALITÀ CON L’OCCIDENTE

OLEKSIY BONDARENKO ↴ La politica del reset delle relazioni tra Stati Uniti e Russia, inaugurata con l’ascesa alla Casa Bianca di Barack Obama, ha trovato numerose difficoltà nella costituzione di solide basi istituzionali tra le due potenze e non è stata in grado di aumentare il livello di fiducia reciproca tra Mosca e Washington. Il progressivo sgretolamento della buffer zone tra l’Europa Occidentale e la Russia, una costante a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, ha avuto l’effetto di irrigidire la postura del Cremlino, riaccendendo i timori di accerchiamento, tipici del periodo sovietico. Se il processo di allargamento dell’Unione Europea verso Est e la politica del Partenariato Orientale hanno reso necessaria una complessa (e macchinosa) risposta politico-economica, l’espansione della NATO in prossimità dei confini della Federazione Russa e il programma missilistico dell’Alleanza Atlantica hanno avuto l’effetto di alterare l’equilibrio strategico regionale, con serie ripercussioni sulle capacità deterrenti nelle mani del Cremlino e sul traballante engagement post Sovietico (…) SEGUE >>>

LIBRO BIANCO 2014. NUOVE STRATEGIE O ESIGENZE ECONOMICHE? FABRIZIO COTICCHIA ↴ L’elaborazione di un nuovo Libro Bianco rappresenta un momento importante per la ridefinizione della politica di Difesa italiana. Atteso da molti anni, sarà l’occasione per un capire cosa si devono aspettare le Forze Armate nel futuro, anche alla luce di oltre un decennio di impegno costante, dall’Afghanistan all’Iraq, dal Libano alla Libia. Il nuovo documento si limiterà semplicemente alla ristrutturazione dello strumento militare o promuoverà un nuovo modello di Difesa dopo anni di spending review e riforme parziali? Dall’analisi preliminare del dibatto corrente sembra che il governo, fortunatamente, propenda per la seconda ipotesi. È però ancora presto per avere una risposta definitiva. Al tempo stesso possiamo già sottolineare alcuni aspetti-chiave relativi al processo di trasformazione messo in moto dalla decisione di adottare un nuovo documento strategico nazionale (…) SEGUE >>>

TURCHIA E NUCLEARE: TRA VECCHI ALLEATI E NUOVE MINACCE DANIEL ANGELUCCI ↴ È attualmente in corso l’ultimo round di colloqui sul dossier nucleare dell’Iran tra questi e il gruppo 5+1 (i cinque Paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, più la Germania). In attesa di verificare se verrà raggiunto un accordo definitivo in materia che completi quello provvisorio siglato nel novembre 2013, risulta interessante valutare e fare chiarezza sulle attitudini che un altro importante attore proiettato

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sullo scenario mediorientale, la Turchia, nutre verso il potenziale sviluppo di armi atomiche proprie alla luce del programma nucleare iraniano e del concetto di deterrenza estesa predisposto in sede di alleanza NATO. In ragione della sua posizione geopolitica, è evidente che la Turchia si trova in un contesto spinoso. Essa confina con l’Iran, che è in piena espansione delle proprie capacità nucleari suscettibili di uso militare e ciò potrebbe spingere, come temuto da molti analisti internazionali, i policy maker turchi ad investire in tecnologie per lo sviluppo di energia nucleare in larga scala. Inoltre il Medio Oriente stesso è un bacino fertile per la proliferazione di Armi di Distruzione di Massa (ADM) ed i loro vettori; questa circostanza è particolarmente rischiosa se si considera che queste armi si innestano in un ambiente interessato da vecchie e nuove rivalità tra gli Stati della regione (…) SEGUE >>>

L’ELEZIONE DI JUNKER E IL FUTURO DELL’UNIONE EUROPEA DAVIDE VITTORI ↴ Dopo il risultato delle elezioni europee degli scorsi 22-25 maggio si è aperta una discussione tra le varie cancellerie in merito alla nomina del nuovo Presidente della Commissione Europea. La designazione del Consiglio ha visto la maggioranza convergere sul nome di Jean-Claude Juncker, candidato popolare alla presidenza e accreditato con una maggioranza relativa dei seggi nel Parlamento Europeo. Una nomina che, però, ha incontrato la contrarietà ferma da parte del Premier inglese David Cameron. Partendo dal risultato elettorale e dalla valutazione politica che dovrebbe discendere dal voto, il caso in questione è esemplificativo delle maggiori sfide che la nuova leadership europea si troverà ad affrontare a livello dei rapporti con il Consiglio Europeo. Jean-Claude Juncker è stato designato dal Consiglio Europeo per la carica di Presidente della Commissione Europea grazie ad un voto a maggioranza qualificata; l’intesa tra i 28 Paesi dell’Unione non si è raggiunta, in quanto il premier britannico David Cameron e il Primo Ministro ungherese Viktor Orbán hanno fino all’ultimo osteggiato tale nomina, chiedendo esplicitamente (pratica non consueta nel Consiglio) un voto che li avrebbe visti in minoranza e senza i numeri per formare una blocking minority. (…) SEGUE >>>

LA DIMENSIONE STRATEGICA DEI NUOVI EQUILIBRI IN ESTREMO ORIENTE PAOLO BALMAS ↴ Le oltre quaranta intese siglate dal Presidente russo Vladimir Putin e dal suo collega cinese Xi Jinping lo scorso 21 maggio 2014 sono state interpretate come una diretta conseguenza della crisi ucraina e come il principio di un nuovo irrigidimento fra due blocchi paragonabile alla Guerra Fredda che ha caratterizzato la seconda metà del XX Secolo. Ma le variazioni strategiche e l’intensificarsi dei rapporti bilaterali in ambito di difesa e sicurezza osservabili nello scenario estremo-orientale mettono in luce una situazione ben più complessa. Dai media di tutto il mondo sono stati rispolverati spettri del passato rivisitati sotto una nuova luce, ad esempio una futura ma vicina corsa allo spazio che vedrebbe la Federazione Russa e la Cina alleate contro gli Stati Uniti e l’Unione Europea o il recentissimo riavvicinamento di Mosca a Fidel Castro con 19


un generoso taglio del 90% del debito. La situazione attuale, però, non sembra assolutamente paragonabile a quella precedente il 1990. Non esistono due sistemi economici fondati su ideologie in opposizione. Infatti, l’avvicinamento tra Pechino e Mosca non sottende alcuna ideologia. Piuttosto si tratta di una scelta pragmatica che si ripercuote simultaneamente nei più diversi settori, getta le basi per lo sviluppo di un’ampia regione dell’Asia nord-orientale, regola i rapporti tra i due Paesi e il funzionamento del mercato che si apre a cavallo del confine che li divide (…) SEGUE >>>

A cura di OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE Ente di ricerca di “BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO” Associazione culturale per la promozione della conoscenza della politica internazionale C.F. 98099880787 www.bloglobal.net 20


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